Breve dizionario di etnopsichiatria 8843044575, 9788843044573

Chi sono i bambini "nati per morire"? Di quali vicende narrano la drapetomania o i culti del cargo? Il testo p

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BUSSOLE / 204 ANTROPOLOGIA

1a ristampa, maggio 2016 1a edizione, marzo 2008

© copyright 2008 by Carocci editore S.p.A., Roma ISBN

978-88-430-4457-3

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico. I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele 11, 229 00186 Roma tel 06 42 81 84 17 fax 06 42 74 79 31

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Roberto Beneduce

Breve dizionario di etnopsichiatria

Carocci editore

Introduzione Etnopsichiatria abroad ed etnopsichiatria at home La storia dell'et­ nopsichiatria, intesa come la disciplina che si occupa dei rapporti fra malattia mentale, cura e contesto storico-sociale, permette di trac­ ciare una linea di separazione fra le ricerche e le esperienze condotte nelle società non occidentali (abroad) e quelle realizzate, più recen­ temente, nei paesi occidentali (at home). Si tratta di una separazione indubbiamente arbitraria e a valore essenzialmente euristico, non ultimo per la distinzione oggi assai dubbia (sebbene non priva di significati) fra occidentale e non-occidentale, che vuole mettere in luce però uno spartiacque temporale di particolare importanza: quel­ lo definito dall'evento coloniale, dalle trasformazioni psichiche e culturali che ha determinato, dalle particolari (e reciproche) modali­ tà di rappresentazione dell'alterità culturale che ne sono scaturite, dalle nuove forme di soggettività che esso ha contribuito a far emer­ gere. Consapevoli della sua relativa arbitrarietà, dobbiamo ricono­ scere dunque a questo confine il merito di dare rilievo a vicende tutt'altro che dimenticate: ad un'epoca nella quale cura e violenza, filantropismo e lavoro forzato, interesse scientifico e colonizzazione dell'anima s'intrecciarono a più riprese. In questa prospettiva può essere individuato poco più di un secolo fa l'esordio di ricerche che andranno sviluppandosi lungo differenti assi disciplinari, disegnan­ do gradualmente - non senza dissidi e controversie - l'orizzonte teorico dell'etnopsichiatria quale lo concepiamo oggi. E infatti nella seconda metà dell'Ottocento che cominciano ad accumularsi i risultati dei primi studi condotti in diversi paesi (Brasile, India, Indonesia, Marocco, Egitto, Turchia ecc.) sul rapporto fra cultura e malattia mentale, sull'influenza che il clima tropicale eser­ cita sull'equilibrio psichico e la salute dei coloni, o sul ruolo che le credenze religiose hanno nell'insorgenza di alcuni disturbi. Secon­ do una tale accezione, che permette di includere gli scritti concer­ nenti i temi evocati e i dibattiti sui problemi della cura in paesi allo­ ra del tutto sprovvisti di istituzioni psichiatriche, l'etnopsichiatria almeno per quanto concerne l'Africa- nasce ben prima che i paesi di

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questo continente si siano liberati dal giogo coloniale e abbiano conquistato l'indip endenza. Tanto nelle espressioni più oscure (la scuola di Porot in Algeria; J ohn Colin Dixon Carothers in Kenya ecc.), tristemente celebri p er i pregiudizi razzisti sulla "mentalità degli arabi", la "mente africana" o la naturale impulsività di una presunta "psicologia della foresta" (Carothers, 1954, p. 4), quanto in quelle più illuminate (gli sguardi psicoanalitici di Laforgue in Marocco, Mannoni in Madagascar o Sachs in Sud Africa, le ricerche di Mars ad Haiti, di Lambo in Nige­ ria, di Collomb in Senegal ecc.), i lavori che danno origine a questo ambito discip linare sono p rodotti dentro un orizzonte scandito da drammatiche trasformazioni sociali e morali, da violenze materiali e simboliche, di cui gli autori spesso sembrano non accorgersi. La "situazione coloniale" (Balandier, 1955) è infatti un tempo segnato dai conflitti militari fra le potenze coloniali per la spartizione delle colonie; dallo scontro (spesso ambivalente) fra le p op olazioni locali e gli sparuti eserciti europei che cercano di penetrare, muovendo dai p rimi insediamenti coloniali sulle coste, verso l'interno del conti­ nente (Laburthe-Tolra, 1999); dallo sfruttamento crescente delle risorse naturali oltre che dalle "eroiche" lotte condotte contro le malattie endemiche (la malattia del sonno, la febbre gialla ecc.); dalla cancellazione di sap eri e pratiche locali e dalla p arallela costruzione di un ca p illare sistema scolastico e sanitario, ciò che nell'insieme contribuisce a costruire nuove p ratiche sociali, s pecifiche forme di obbedienza, in altre parole un nuovo soggetto morale, dal momento che l'assoggettamento degli uomini equivale alla loro «costituzione come soggetti, nel duplice senso della parola, e in particolare come soggetti morali» (Foucault, 1976, p. 81). Sta anche in questi nodi e in questi p rocessi la "parte maledetta" e il "piccolo desiderio" della colonia (Mbembe, 2006). Fra il 1880 e il 1920, nei p aesi dell'Africa equatoriale, la pop olazione viene, secondo alcune stime, quasi dimezzata dal concorrere di questi diversi fattori (Vansina, 1990). Non è un caso che Chancelé parlasse di "chirurgia sociale" in riferimento a quegli anni (cit. in Balandier, 1955, p. 5). Padre Placido Tempels avrebbe così definito nello stesso periodo il compito dell'evangelizzazione: «Se non sarà la 6

civilizzazione cristiana a rendere migliori i Bantu, nessun'altra civil­ tà potrà migliorarli. L'europeizzazione delle masse non può che ucci­ dere il pensiero bantu: ma così come il cristianesimo ha potuto pene­ trare e ispirare la civiltà occidentale, allo stesso modo, nella verità della sua dottrina, esso ha le risorse per operare la cristianizzazione e la civilizzazione dei Bantu» (Tempels, 1945, p. 151). Questa afferma­ zione rende possibile cogliere, fra l'altro, l'autonoma collocazione che l'opera di evangelizzazione ebbe nei confronti del disegno colo­ niale, ciò che non le evitò di percorrere spesso sentieri caratterizzati da una non meno oscura ► "violenza simbolica". Alla distruzione di altari, divinità e simboli, alla ricollocazione ("villaggizzazione") di intere comunità lontano dai propri abituali territori, all'invenzione di identità etniche e confini politici, si accompagnarono dunque l'opera di una civilizzazione attenta a scegliere i suoi interlocutori e a costruire nuove leadership, a privilegiare alcuni gruppi in luogo di altri o propriamente inventarne, e il successo di una evangelizzazio­ ne che per la velocità e il numero delle conversioni avrebbe fatto parlare in Camerun di "miracolo" (Laburthe-Tolra, 1999). Questi processi si accompagnarono alla produzione di peculiari forme di soggettivazione, di nuovi habitus e sensibilità estetiche, di nuovi modi di governo dei corpi e dei rapporti sociali, determinando la crisi delle gerarchie tradizionali e la parallela elaborazione - da parte dei popoli colonizzati - di nuove strategie culturali (Jane Guyer ha d'altronde parlato di "tradizioni dell'invenzione" per sottolineare la consuetudine dei popoli africani dell'Equatore - già in epoca preco­ loniale - con la necessità di dover inventare pratiche e tradizioni: Guyer, 2000). Sono temi, quelli ora menzionati, di cui un'etnopsi­ chiatria critica intende considerare tutta la rilevanza dal momento che essa s'interroga sulle diverse tecnologie (Foucault, 1992) e politiche del Sé (Beneduce, Roudinesco, 20056, pp. 8 ss.), sulle specifiche forme di soggettività emerse nel corso di queste trasformazioni (e riconoscibili in mode, atteggiamenti, esperienze, disturbi o idiomi della sofferenza), sull'economia morale del Soggetto coloniale e post­ coloniale. Nel contesto coloniale la nozione di "cultura", largamente tributa­ ria dei modelli evoluzionistici, viene però utilizzata impropriamen7

te, e i discorsi sulla cura dell'Altro rimasero a lungo impigliati nell'in­ treccio perverso di filantropismo, disprezzo per le tradizioni medi­ che locali e dominio. Il periodo che in Africa sta a cavallo delle lotte di liberazione vedrà la crisi prima, il radicale rinnovamento poi, delle categorie utilizzate in ambito antropologico e psicologico per descri­ vere l'Altro e i suoi "costumi". Lo sguardo compassionevole e pater­ nalistico, i pregiudizi razziali lasciano ormai spazio a una sincera curiorisità e a un profondo rispetto nei confronti dei saperi medici locali. Particolarmente densi per la nascente etnopsichiatria sono, sotto il profilo epistemologico, gli anni che intorno alla metà del secolo scorso vedono lo sviluppo di numerose ricerche medico­ antropologiche ed etnopsichiatriche sulle strategie della cura e le espressioni della malattia mentale all'interno delle specifiche reti simboliche proprie di ciascun contesto culturale. I contributi di Georges Devereux, sebbene realizzati in un ben diverso contesto culturale, politico e intellettuale (fra gli Indiani delle pianure, negli Stati Uniti), aprono in quegli stessi anni una stagione particolar­ mente feconda e pongono i presupposti epistemologici dell'etno­ psichiatria contemporanea (Beneduce, 2007). Una possibile sche­ matizzazione dei contributi teorici che caratterizzano la nascente disciplina etnopsichiatrica è la seguente. 1. Le ricerche sulle rappresentazioni, sulle eziologie e le classifica­ zioni della malattia mentale, sulle psicologie "tradizionali" (la nozio­ ne di persona, i riti iniziatici, le concezioni del ciclo della vita) accompagnano la minuta descrizione dei dispositivi terapeutico­ rituali e dei saperi empirici di guaritori esperti nel trattamento dei disturbi mentali. Tali ricerche s'intrecciano a quelle medico-antro­ pologiche condotte nello stesso periodo e intese a rivisitare diverse concezioni della salute e della malattia - i modelli di Poster sulla medicina ► "personalistica" e "naturalistica" ad esempio - ma anche al crescente interesse espresso da parte di organismi internazionali nei confronti della medicina tradizionale (è ciò cha va sotto il nome di "valorizzazione" o "promozione" della medicina tradizionale). Questi lavori contribuiscono ad affermare, a partire dagli anni settanta, una nuova stagione di studi, non priva di equivoci ma tutta­ via ricca di promesse. Si tratta di anni importanti sotto diversi profì8

li: l'analisi dei culti di possessione, gli studi sui meccanismi endoge­ ni di autoguarigione mediati dalle endorfine, l'incidenza del cambia­ mento culturale ed economico sui disturbi mentali (Field, 1960, in Ghana) o le esperienze di collaborazione fra équipe medico-psichia­ triche e guaritori trovano risonanza in riviste prestigiose come "Psychopathologie Africaine", "Transcultural Psychiatric Research Review" (che dal 1997 assumerà il nome di "Transcultural Psychiatry"), "Social Science and Medicine", "Ethnopsychiatrica", "Ethos" ecc. Nel generale mutamento dei giudizi espressi sul valore e l'efficacia dei sistemi locali di cura, un ruolo significativo è eserci­ tato però dall'orgoglio tutto postcoloniale che opera nella volontà di veder riconosciuti, da parte degli Stati africani, quel patrimonio di conoscenze e tecniche che missionari e coloni avevano disprezzato, combattuto o appena tollerato. Nei lavori di questo periodo si rico­ nosce ormai il frutto maturo di contributi antropologici come quel­ li di Nadel - psicologo ed etnologo - sullo sciamanismo nuba, in Sudan (1946), di Lévi-Strauss (1949; cfr. Lévi-Strauss, 1978b) sull'ef­ ficacia simbolica, o delle ricerche degli anni cinquanta di Alfred Métraux (1971) sul vodu haitiano. Qualche anno prima, sempre sul vodu haitiano, la regista Maya Deren (nata in Ucraina da famiglia ebraica con il nome di Eleanora Derenkowsky, figlia di uno psichia­ tra) avrebbe prodotto uno dei più celebri documenti su questo culto (Deren, 1983), e lo stesso Métraux le riconoscerà non pochi meriti. Vanno menzionate infine ricerche non meno celebri: quelle sul sogno condotte da R6heim (Oceania), di Bourguignon sull'espe­ rienza della possessione e della trance (Haiti), di Devereux fra gli indiani Mohave, di Lanternari sul rapporto fra sogno e carisma ecc. Nel loro insieme questi lavori recuperano una dignità nuova (episte­ mologica e sociale) a espressioni della sofferenza, strategie terapeu­ tiche e saperi sino a quel tempo rimasti sostanzialmente preda di un pregiudizio primitivistico ( un pregiudizio che è lungi dall'essere cancellato nella moderna psichiatria, come avvertono Lucas e Barrett, 1995), o banalizzati perché le tecniche di cura dei guaritori non avrebbero realizzato che successi terapeutici effimeri, mediati dalla mera suggestione o effettuati addirittura da soggetti disturbati. Questo giudizio, oggetto di critiche da parte di Claude Lévi-Strauss, 9

Alfred Métraux, S. Frederick Nadel, Luc de Heusch e, più recente­ mente, Gananath Obeyesekere, fu d'altronde espresso in numerose occasioni dallo stesso Devereux (1998, p. 46). Secondo quest'ultimo le psicoterapie tradizionali erano infatti semplici "bromuri cultura­ li" che nulla avevano a che fare con le tecniche psicoanalitiche, mentre la natura dello sciamanismo (che i primi consideravano una complessa espressione religioso-terapeutica) era - secondo Devereux - di evidente ordine psicopatologico: per lui lo sciamano sarebbe incapace di fare la differenza fra "credenza" del gruppo ed "espe­ rienza" personale. Nota è la polemica che oppose Devereux a Marvin K. Opler (1961), autore di lavori sul sogno e le terapie sciamaniche fra gli indiani U te, secondo il quale gli sciamani non erano invece affatto psicotici o affetti da disturbi borderline, a differenza di quan­ to sosteneva l'etnologo e psicoanalista ungherese. 2. Accanto a queste divergenze, un secondo profilo emerge sempre più diffusamente in quegli anni: la consapevolezza che antropologia, psicoanalisi e psichiatria debbano interagire in modo sistematico, come già negli anni precedenti non pochi studiosi avevano auspica­ to (Sapir, Kroeber e Mead, fra gli altri). Sarà anche a partire da questi dialoghi che si svilupperà un'etnopsichiatria più matura, volta a rivi­ sitare criticamente i concetti di cultura e identità, di salute e malat­ tia mentale, di cura e guarigione, di normalità e adattamento. Il ruolo di Devereux è, in questa cesura, decisivo. Grazie a lui e ai concetti che va elaborando ("controtransfert culturale", "neutralità culturale", "Edipo invertito", "complementarismo": cfr. per questi termini la voce "Devereux") possono essere adeguatamente promos­ si ambiti di riflessione che fino ad allora erano rimasti spesso separa­ ti o appena giustapposti. La clinica dell'Altro comincia ad assumere uno spazio crescente all'interno del territorio delle scienze psicolo­ gico-psichiatriche e della stessa psicoanalisi, i cui presupposti essa ora vuole interrogare, misurandone l'adeguatezza in contesti diversi da quello europeo o nordamericano. La psicoterapia di un indiano mohave, veterano della seconda guerra mondiale (Jimmy Picard il suo nome convenzionale) (Devereux, 1998), costituisce una tappa fondamentale di questo orizzonte teorico che pensa psichismo e cultura come co-emergenti (e può ormai descrivere le culture, grazie 10

a un rigoroso dispositivo epistemologico, come più o meno indul­ genti verso l'individuo, la sua autonomia, il suo desiderio). Bisogna ricordare come i tentativi di conciliare psicoanalisi e antro­ pologia fino ad allora erano sostanzialmente falliti e avevano finito p iuttosto con il dimostrare che l'incontro fra questi sa p eri era diffi­ cile se non imp ossibile: la p olemica sul comp lesso di Edip o (teoria al cuore di tutte le successive teorie p sicoanalitiche sullo svilupp o psichico, sugli affetti, sulla nevrosi ecc.) lo aveva mostrato in modo evidente. Malinowski si era chiesto, ad esempio, quanto fosse legit­ timo applicare il modello freudiano, costruito a partire da una parti­ colare interpretazione della tragedia di Sofocle e dalle osservazioni condotte sulla famiglia nucleare della società europea del tempo, a società con diversa organizzazione familiare (matrilineare, ad esem­ p io, con un ruolo p reminente dello zio anziché del p adre nell'edu­ cazione del bambino, con una diversa configurazione dell'esperien­ za della Legge e dell'Autorità, come da lui stesso osservato nelle Isole Trobriand, dove allo scoppio della prima guerra mondiale, prigio­ niero degli inglesi in quanto polacco, scelse di rimanere confinato per proseguire le sue ricerche). Ciò nonostante Malinowski era consapevole della fecondità e della necessità del dialogo con la psicoanalisi: a proposito dell'Interpretazione dei sogni, pur prenden­ done le distanze, Malinowski riconosceva il debito nei suoi confron­ ti e «l'importanza sociologica» di «certe correnti sotterranee del desi­ derio» che proprio nei sogni potevano esprimersi, contraddicendo «l'ordine prestabilito delle idee e dei sentimenti» (Malinowski, 2005, p . 324). Al di là del dibattito sul com p lesso di Edi p o, rimanevano però in psicoanalisi e in antropologia diverse accezioni di termini fondamentali come "cultura", "feticcio", "ra p p resentazione", "simbolo"; diversa era la modalità di avvicinarsi alle p ratiche rituali e simboliche (p er la p sicoanalisi riconducibili a motivi inconsci, per l'antropologia di ben più esteso significato: sociale, storico, econo­ mico); diversa - infine - la relazione a partire dalla quale l'etnografo da un lato, lo psicoanalista dall'altro raccolgono i loro materiali e p roducono le p ro p rie teorie. Nel nuovo clima intellettuale che si va affermando, gli interessi nei confronti di questo dialogo trovano però nuovo slancio (sono ormai lontani i p rimi incerti e controversi 11

tentativi condotti in epoca coloniale da Laforgue in Marocco, da Sachs in Sudafrica o da Mannoni in Madagascar). La scuola di etnopsicoanalisi di Zurigo (Parin, Morgenthaler, Parin-Matthey), con le ricerche realizzate fra i Dogon prima, gli Agni della Costa d'Avorio, p oi; i lavori condotti all'interno della scuola di Dakar­ Fann dai coniugi Marie-Cécile e Edmond Ortigues (autori del cele­ bre CEdipe Africain, 1966), e quelle sviluppate negli anni ottanta in Nuova Guinea dal figlio di Fritz Morgenthaler, Marco, da Mario Erdheim sulla cultura azteca, o da Maya Nadig fra gli Otomì del Messico, sono solo alcuni dei contributi di un ben più ampio p ano­ rama, denso di ip otesi anche se attraversato da limiti e contraddizio­ ni, come è stato notato p er ciascuna delle es p erienze menzionate. Possono essere evocate a titolo d'esempio le critiche che Georges Balandier (2002) rivolgeva qualche anno fa agli Ortigues e al "tradi­ mento" della regola analitica (la presenza di un interprete modifica­ va secondo lui in modo radicale il setting tradizionale), o quelle di cui sono state oggetto le ricerche di Paul Parin: erano paradossal­ mente gli psicoanalisti, non i pazienti, a esprimere una domanda. A questo p ro p osito Zem p léni (19856) ha p erò sostenuto come un transfert da informatore, analogo a quello che può connotare la ricer­ ca etnografica, sia spesso presente nell'incontro con pazienti stra­ nieri, e che un tale transfert non è necessariamente incompatibile con una relazione p sicoterapeutica (una prospettiva diversa è quella di Lebigot, Mongeau, 1982). Queste es p erienze evidenziano, nonostante incertezze e malintesi (Beneduce, Roudinesco, 2005a e 20056), la ricchezza del dialogo fra antropologia e psicoanalisi: territori chiave nello scenario epistemo­ logico delle scienze umane. Il loro incontro rimane uno dei territori p iù p romettenti dell'etno p sichiatria. Si tratta in fondo dello stesso dialogo avviato già con Totem e tabu, in cui l'etnologia sembra situar­ si al cuore stesso della p sicoanalisi (nel comp lesso di Edip o Freud vede le origini della religione e della morale, della società e dell'ar­ te). Al di là delle critiche ricevute da grecisti (come Jean-Pierre Vernant) o antropologi (Lévi-Strauss, Laplantine), ciò che rimane importante riconoscere è il peculiare uso della Storia che la psicoana­ lisi realizza (de Certeau, 2006): solo a p artire da questa p remessa 12

p ossiamo

comp rendere l'app roccio freudiano ai miti o al materiale clinico dei suoi pazienti. Ripreso da William H. Rivers e Charles G. Seligman, portato avanti lungo i sentieri netti dell'analisi struttura­ le da Lévi-Strauss (Lévi-Strauss, 1965, 1978a e 1987) e proseguito in modo tenace da R6heim e Devereux, quel dialogo ha potuto così svilupparsi nonostante fraintendimenti e incompiutezze grazie a contributi semp re p iù maturi: quello di Favret-Saada (di cui deve essere ricordata l'originale ricerca sulla stregoneria nel Bocage insie­ me a J osée Contreras: Favret-Saada, Contreras, 1981), di J uillerat (1991) sull'Edipo e il Soggetto in Nuova Guinea, di J acques Gali­ nier (1997) sulla concezione dell'inconscio tra gli Otomì del Messi­ co, e ancora quelli di Bidou, Augras, Green (1995), Pradelle de Latour, Obeyesekere ecc. I loro lavori non hanno smesso di arric­ chire quel dibattito e ri p ensarne i p resu p p osti. La p sicoanalisi è un'antropologia, ha scritto Valabrega (1992, pp. III-IV; 2001a, p. 5) facendo eco a Roheim (1950), ma anche a Devereux (1978, 1985, 1998), secondo il quale la psicoanalisi non era che uno "strumento di indagine etnologica" (sino ad affermare che psicoanalisi ed etnolo­ gia sarebbero branche dell'antropologia). Del resto è da Lévi-Strauss e dalla sua analisi dei miti che abbiamo a p p reso a riconoscere le promesse di un'esp lorazione che trova «della psicoanalisi nei miti, ciò che è tutt'altra cosa che mettere i miti nella p sicoanalisi» ( Bellour, Clément, cit. in Galinier, 1997, p. 12; cfr. anche Valabrega, 2001b e il numero speciale della " Revue Française de Psychoanalyse", LVII-3, app arso nel 1993 e dedicato alle differenze culturali). 3. Altri passaggi, più interni al campo proprio della psichiatria, segnano quel periodo e devono essere menzionati. Fra la fine degli anni cinquanta e l'inizio degli anni sessanta viene proposto dallo psichiatra giapponese Pow Meng Yap il modello delle culture bound syndromes, sottoposto poi a una radicale revisione e via via sempre meno utilizzato a causa delle sue ap orie costitutive. In Italia la lezio­ ne antropologica di Ernesto De Martino prosegue intanto, a partire dalla ricerca sul mondo magico e secondo un percorso originale che mette la Storia in p rimo p iano senza p erò rimanere intra p p olato nelle secche di uno storicismo banale, l'incontro fra ricerca antro­ pologica e psichiatria (in particolare sul terreno del tarantismo salen13

tino o delle apocalissi culturali e psicopatologiche: cfr. De Martino, 1959 e 1977). Se ne faranno epigoni Lanternari (1998), fra tutti quel­ lo che p iù mostrerà nel nostro p aese un es p licito interesse nei confronti dell'etnopsichiatria (lo studio del profetismo e dei culti millenaristici), Alfonso Maria di Nola (1984) e Michele Risso, psichiatra che lavora in Svizzera con i pazienti immigrati dal Meri­ dione d'Italia (Risso, Boker, 1992). Cresce intanto la critica p rove­ niente da alcuni settori della p sichiatria e della cultura euro p ee nei confronti del modello asilare di cura della malattia mentale. Sono anni densissimi, che vedranno numerosi mutamenti anche nella p ratica delle istituzioni di cura: isp irate dal p ensiero di autori come Miche! Foucault (1979), che analizza la genealogia e l'architettura delle istituzioni totali (il manicomio, la prigione) e traccia un'av­ vincente archeologia delle scienze umane, o dalle ricerche di Erving Goffmann (1968), che scruta la grammatica invisibile dell'istituzio­ ne ospedaliera e delle sue regole, le esperienze condotte in quegli anni lasciano affiorare un modo radicalmente nuovo di concepire il rapporto fra psichico, sociale e cura. I rapporti di forza, le dimensio­ ni del potere saranno al centro di riflessioni e strategie che promuo­ vono una concezione diversa dell'esp erienza della sofferenza psichi­ ca. Ci sono buone ragioni per ricordare quella stagione di studi e le sperimentazioni che in Europa vanno avviandosi da qualche tempo all'interno delle istituzioni asilari. Dalla "p sicoterap ia istituzionale" di François Tosquelles (che ra p p resenterà p er Frantz Fanon un modello da replicare in Algeria) alle comunità terapeutiche di Maxwell Jones, la contestazione dell'istituzione manicomiale e l'esi­ genza di realizzare nuovi modelli di cura influenzeranno anche alcu­ ne delle più originali esperienze realizzate in Africa. Quello a cui si darà vita è un dialogo a distanza, non meno importante di quello fra antropologia e psicoanalisi, tra la psichiatria anti-istituzionale euro­ pea e quelle pratiche che in Africa si vogliono ancorate alla comuni­ tà locale e al ris p etto dei contesti culturali (Lambo, p ioniere dei "villaggi terapeutici" in Nigeria e promotore della collaborazione con i locali guaritori yoruba, riconoscerà esplicitamente il suo debi­ to nei confronti di Maxwell Jones). A partire dagli anni settanta emerge ormai però sempre più netta la differenza fra etnopsichiatria 14

e psichiatria transculturale: se nella prima confluiscono indistinta­ mente i lavori di antropologi, psichiatri o psicoanalisti, se i saperi locali sono riconosciuti come autentici saperi della cura ("psichiatrie locali" o etnopsichiatrie, appunto) con i quali intrattenere un dialo­ go fra pari, la psichiatria transculturale rimane prevalentemente ancorata ad un interesse comparativo, epidemiologicamente orien­ tato anche se non sempre metodologicamente impeccabile (negli anni settanta e ottanta vengono promossi dall'Organizzazione mondiale della sanità due importanti studi multicentrici sulla schi­ zofrenia e, rispettivamente, sulla depressione) . Se l'etnopsichiatria si disegna ormai ben diversa da una qualunque altra etnoscienza, nel senso dato originariamente a questo termine da Frake (1961), la psichiatria transculturale non mette in discussione la centralità della psichiatria occidentale, dei suoi modelli e delle sue categorie diagno­ stiche, preoccupandosi soprattutto di rendere più rigoroso il confronto con eziologie e termini locali e l'individuazione di equi­ valenti diagnostici nelle società non occidentali (è del 1954 la prima edizione del Manuale diagnostico statistico, DSM, adottato dalla psichiatria statunitense e diventato oggi vera e propria vacca sacra degli psichiatri di tutto il mondo, sebbene sia da ricordare il signifi­ cativo tentativo da p arte della psichiatria cinese di costruire un manuale diagnostico autonomo, fondato su proprie terminologie e tradizioni). Se l'etnopsichiatria invita, a partire dai contributi di Devereux sulla schizofrenia, la stanchezza o lo stress, o da quelli di antropologi e psichiatri come Prince, Hughes, Lutz, Kleinmann, Good, Young e molti altri, a riconoscere lo statuto di "etno­ psichiatria" e di "etnopsicologia" anche alla psichiatria e alla psicologia occidentali, la psichiatria transculturale non sembra disposta, salvo rare eccezioni, al ripensamento critico del proprio statuto epistemologico o dei propri modelli diagnostico-terapeutici, né a rinunciare alla propria egemonia culturale, e ciò anche quando le proposte che essa avanza sono all'avanguardia nel panorama dell'as­ sistenza psichiatrica. Se la distinzione fra etnopsichiatria e psichiatria transculturale è considerevole, l'uso di queste etichette non è tutta­ via oggetto di consenso e pertanto deve essere cauto: etnopsicoana­ lisi, etnopsichiatria, psichiatria culturale o transculturale sono 15

espressioni che sono utilizzate spesso come equivalenti. Rimane dunque l'obbligo di analizzare, al di là delle etichette, il reale proget­ to teorico e la strategia metodologica di volta in volta adottati dai singoli autori. Questo un sommario panorama dell'etnopsichiatria abroad, di cui sono state messe in luce anche le connessioni con altri cambiamen­ ti, come quello relativo al paradigma asilare. Sebbene, come abbia­ mo già ricordato, le periodizzazioni storiche siano sempre in una certa misura arbitrarie, non meno di quanto lo risultino le classifica­ zioni (ciò che spesso viene dimenticato da parte di non pochi profes­ sionisti della salute mentale), si può affermare che a partire dagli inizi degli anni ottanta vada affermandosi un crescente interesse anche per una pratica etnopsichiatrica, clinica quanto teorica, che definia­ mo at home, sul modello dell'opposizione (anthropology at home vs anthropology abroad) utilizzata frequentemente nel dibattito medi­ co-antropologico contemporaneo. Riprendiamo qui questa opposi­ zione per economia di discorso, senza interrogare in questa circo­ stanza il grado della sua legittimità. Da parte di non pochi autori, e a partire dalle ricerche ed esperienze realizzate in contesti non occi­ dentali, si avverte infatti una duplice esigenza: • la prima riguarda l'urgenza di riflettere su sintomi e domande di cura, idiomi della malattia e modelli interpretativi del "male", lasciandosi interrogare da esperienze e vissuti che non ricalcano i modelli familiari e sono spesso disorientanti per gli operatori sanitari; bisogna accettare le sfide epistemologiche che vi sono tacitamente contenute, e ciò non più nella foresta equatoriale o sugli altopiani della Cordigliera andina ma nei nostri paesi, a partire da esperienze, sintomi e conflitti quali sono manifestati da membri di minoranze o culture marginali, soprattutto da coloro che - come immigrati giungono in modo crescente in Europa o negli Stati Uniti; • la seconda consiste nel tentativo di realizzare, secondo una prospettiva analoga a quella medico-antropologica anglosassone, un approccio critico alle categorie e alle strategie di cura della psichia­ tria e delle scienze psy in generale. Al lavoro pionieristico di Risso e Boker (1992) - relativo agli immi­ grati giunti in Svizzera dal Meridione d'Italia - e allo scritto di Tahar 16

Ben Jelloun (1977, consacrato alla solitudine e alla miseria affettiva dei lavoratori maghrebini in Francia), seguiranno via via esperienze e scritti che vanno configurando ormai l'autonomo sviluppo di un'etnopsichiatria della migrazione (particolarmente note le espe­ rienze di Tobie Nathan e quelle di Marie-Rose Moro, condotte al Centre Devereux e all'HOpital Avicenne di Bobigny, entrambe a Parigi). In Italia sarà la psichiatria transculturale di Frighi o Rovera (interessati in particolare alla psicopatologia della migrazione), o di Terranova-Cecchini, a caratterizzare ancora a lungo il panorama della ricerca sino agli inizi degli anni novanta, un panorama al cui interno si situano anche psichiatri impegnati nell'ambito della cooperazione internazionale o della psichiatria di comunità. All'in­ terno dell'etnopsichiatria prosegue intanto, con rinnovato vigore, il dibattito sulle categorie diagnostiche e sulla possibilità di una loro utilizzazione appropriata al cospetto di sintomi e manifestazioni che originano da altri universi dell'esperienza (Beneduce, 1998). Da parte degli esperti della salute mentale si avverte in altre parole la necessità di apprendere nuove strategie di ascolto e di interpretazio­ ne, o meglio una "diversa semiotica" (Ortigues, 2000) quando i pazienti provengono da culture diverse da quella occidentale, per quanto generico e controverso sia l'uso di questo attributo. L'antro­ pologia del corpo, che prova a ridurre la frattura tra le ricerche rivol­ te allo studio delle rappresentazioni e la fenomenologia dell'espe­ rienza, contribuirà da parte sua a sottolineare l'importanza di esplo­ rare le diverse pratiche dell' embodiment e della costruzione sociale del Sé (Csordas, 1993). A differenza di quello dell'antropologia medica, il "ritorno a casa" dell'etnopsichiatria è imposto dunque in primo luogo dalla necessità di misurarsi con i problemi della cura e dell'assistenza psichiatrica non più nelle colonie o all'interno di programmi sanitari e umanitari in paesi in via di sviluppo ma qui, all'interno delle nostre società, dove l'accoglienza e l'integrazione di rifugiati e immigrati rivelano difficoltà, ombre e contraddizioni indubbiamente maggiori di quanto non accada nel campo della medicina generale. S'impongono scelte originali, ed è tutto ciò a rendere l'etnopsichiatria una questione propriamente postcoloniale, dal momento che l'emigrare costituisce «oggettivamente (cioè all'in17

sa p uta di tutte le p arti in causa e indi p endentemente dalla loro volontà) un atto che senza dubbio è fondamentalmente p olitico, anche se il mascherarlo e il negarlo appartengono alla natura stessa del fenomeno» (Sayad, 2002, p. 123; cfr. anche Beneduce, 2007, pp. 256-61). Ritorneranno allora utili le categorie proposte da Devereux e altri pionieri nel delineare la sp ecificità di questo ambito d'inter­ vento e rip ensare, alla luce dei nuovi conflitti, esperienze e osserva­ zioni realizzate anni prima in altri contesti. Mariella Pandolfi (1988) sarà fra i p rimi a farsi veicolo dei p iù recen­ ti sviluppi dell'etnopsichiatria, contribuendo in modo significativo al suo sviluppo nel nostro paese e alla diffusione delle più significa­ tive esperienze internazionali (da quella del Centre Devereux di Pari­ gi ai lavori della McGill University di Montréal). Ancora una volta la riflessione sulla malattia mentale, il suo statuto di "segno" (o commentario) sociale, la sua cura s'intrecciano con temi p ro p ria­ mente epistemologici e antropologici, all'interno di un orizzonte concettuale radicalmente mutato che ha ormai da temp o avviato un profondo ripensamento di categorie quali "appartenenza", "identi­ tà", "persona", "individuo", "cultura", "comunità", "etnia" ecc. Si tratta di un territorio impervio, dove il dibattito teorico è p rofonda­ mente intrecciato a questioni politiche (la condizione dei rifugiati, la definizione della cittadinanza, la critica dell'egemonia delle catego­ rie psichiatriche, le leggi sull'asilo politico ecc.): ciò che basta a fare dell'etno p sichiatria contem p oranea, non diversamente da quanto lo fosse ali'epoca delle colonie o negli anni dell'indipendenza, un ambito particolarmente vivace e, come suggeriva Bibeau (1997) rela­ tivamente alla psichiatria culturale, potenzialmente sovversivo. In questo territorio non p ossiamo rinunciare a p ensare la differenza culturale e a utilizzare il concetto di "cultura", sebbene a partire da premesse metodologiche critiche, caute e illuminate dalla riflessio­ ne antropologica di questi anni. Rendere questo patrimonio di espe­ rienze e di conoscenze uno strumento di riflessione all'altezza delle sfide poste dalle vicende migratorie e consapevole delle profonde trasformazioni epistemologiche che hanno investito l'antropologia culturale e le scienze psicologico-psichiatriche contemporanee, rimane un obiettivo in larga parte ancora da realizzare. La familia18

rizzazione con i termini chiave dell'etnopsichiatria, ma anche con concetti e modelli dei quali è indispensabile padroneggiare il senso al cospetto delle contemporanee sfide della cura, costituisce uno degli obiettivi principali di questo dizionario. Come è stato concepito i l d izion a rio I termini raccolti nel diziona­ rio tracciano un cammino atipico, fatto di scarti improvvisi, di invi­ ti perché si avviino ulteriori approfondimenti, di sentieri appena segnati ma non percorsi sino alla fine: una mappa disegnata più allo scopo di mostrare i molti strati e rilievi del territorio sul quale il letto­ re si accinge a muovere i suoi passi che non quello di indicare strade maestre e mete ben individuate. La costante attenzione a una dimen­ sione storica e, soprattutto, antropologica, caratterizza la sua costru­ zione e spiega molte delle scelte operate. Un dizionario è, per defini­ zione, sottoposto all'usura del tempo: alcuni termini scompariranno o perderanno rilievo, altri (provenienti forse da altre "lingue") sono destinati ad esservi aggiunti, determinando la sua età, la velocità del suo invecchiamento, la necessità di un suo rimodellamento. Nella composizione di questo strumento di lavoro ho voluto per intero lasciar emergere una tale incompiutezza (dunque l'idea di uno stru­ mento consapevolmente imperfetto), senza la pretesa di disegnare una geografia esauriente di un ambito disciplinare che è nato proprio dall'interrogazione critica di categorie, saperi, modelli, libero da ogni fìlisteismo accademico (Di Nola, 1984) e la cui stessa delimitazione • rimane ancora controversa. Il lettore si troverà a confrontarsi con termini che non sempre hanno dignità di tradizione nel lessico dell'etnopsichiatria, che provengono cioè da altre discipline, mentre non ne troverà altri che pure hanno avuto a lungo cittadinanza in essa. Del lungo elenco di affezioni soli­ tamente rubricate come culture bound syndromes si è deciso, ad esem­ pio, di riprenderne solo alcune, ciò per tre ragioni. La prima è che le sindromi descritte nei sistemi medici locali rientrano tutte piena­ mente in questo capitolo, e solo la scarsa attenzione alle realtà cultu­ rali ha fatto sì che nel DSM-IV ci si accontentasse di indicarne appena venticinque. La seconda ragione è che la stessa opposizione fra sindromi culturali e sindromi che non lo sarebbero si è rivelata 19

impropria ed è stata sottoposta a critica, una volta adottata una defi­ nizione di "cultura" che metta in rilievo l'insieme delle dinamiche storiche e sociali di denominazione e classificazione, di rappresenta­ zioni spesso in conflitto fra loro, di costante negoziazione sul senso dell'esperienza. La terza ragione, infine, deriva dal fatto che sono già disponibili testi rivolti specificamente ali'analisi delle culture bound syndromes, ciò che ha reso possibile evitare la menzione di quelle sindromi che hanno già ricevuto attenzione in altri scritti. Per molti dei concetti riportati sono stati comunque indicati i nomi delle opere e degli autori ai cui contributi il lettore è esplicitamente rinviato per i necessari approfondimenti. Di fronte all'aporia costitutiva di questo sapere (l'uso del termine "etnopsichiatria" in società e culture propriamente parlando a-psichiatriche, prive cioè di una disciplina e di un dispositivo di cura paragonabili alla psichiatria e a quello che essa è stata in Occidente), la soluzione adottata non è stata quella di coniare una nuova formu­ la quanto piuttosto di introdurre nel dizionario categorie che appar­ tengono alla nostra psichiatria: un'etnopsichiatria fra le altre, come da tempo viene suggerito, le cui conoscenze e pratiche, i cui conflit­ ti e incertezze non fanno che riflettere - come in altre società - un particolare orizzonte storico-culturale, con i suoi modelli di sogget­ tività, le sue rappresentazioni del disordine e del legame sociale, la sua più o meno forte fiducia in un sapere totale dell'uomo, dei suoi impulsi e del suo comportamento. Accanto a categorie psichiatriche il lettore incontrerà dunque termi­ ni propri di altri campi di sapere, a testimonianza di una ibridazione epistemologica che costituisce il nucleo più originale (e fecondo) dell'etnopsichiatria. Infine, quali che siano la vicende di cui l'episte­ mologia della cura deve occuparsi, rimane decisivo per essa il compi­ to di guardare ai nodi che la causalità psichica e la causalità cultura­ le stringono con quella storica e alle cicatrizzazioni che esse hanno determinato, per poi liberarsi delle trappole di qualsivoglia determi­ nismo lineare e considerare piuttosto le concrezioni, i fenomeni individuali e collettivi, le situazioni in cui questi ultimi affiorano nella loro singolarità, le connessioni.

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Abiku ("nato per morire": Yoruba, Nigeria), nit ku bon ("persona

che è cattiva, guasta": Wolof, Senegal) Termini che designano un complesso di ► rappresentazioni, definizioni e strategie diffusamente radicato in Africa subsahariana e relativo all'infanzia. Si tratta di bambi­ ni così denominati perché sopraggiungono dopo numerosi aborti, quando precedenti bambini sono morti alla nascita o nei primi mesi di vita. Questo fa sì che essi siano percepiti come bambini che "ritornano" nel ventre materno, per far ritorno inevitabilmente poi nel mondo dei loro compagni (ossia il mondo invisibile degli spiriti), secondo un doloroso va e vieni. Quando sopravvivono alla morte, sono descritti come bambini caratterizzati da tratti comportamentali particolari (pianto inconsolabile, tendenza a isolarsi, attitudini non abituali per la loro età, tardiva comparsa del linguaggio ecc.). Si possono isolare due motivi dominanti: a) quello di un potere ambiguo e disorientante e di un rapporto ostinato con il mondo invisibile; b) quello della morte (evocata, sempre possibile o reale). Si tratta di bambini fragili ma, allo stesso tempo, dotati di poteri inusuali, in ogni caso ambigui, vere e proprie "figure-limite" (Zempléni, 1985a) che sovvertono gerarchie, modelli e rapporti di forza. Il possesso di conoscenze che non sono comuni alla loro età fa di questi bambini esseri temuti, ma anche soggetti ai quali la famiglia rivolge attenzioni particolari, mettendo in atto atteggiamenti iperprotettivi o fingendo, nella scelta dei loro nomi, indifferenza e disprezzo perché non siano oggetto di desiderio da parte di quegli spiriti che potrebbero farli ritornare nel mondo dal quale sono venuti (dunque morire). Il secondo tema, la prossimità della morte e più in generale l'insieme di queste rappresentazioni, è stato interpreta­ to da alcuni ricercatori come un riflesso (inconscio) dell'elevata morta­ lità infantile tipica di queste aree, ma gli argomenti a tale riguardo sono controversi e considerati oggi privi di legittimità antropologica. L'interesse di queste nozioni non è però solo antropologico. Nathan (Nathan et al. , 2000) ha proposto un interessante riesame di tali rappre­ sentazioni a partire da alcuni casi di bambini stranieri provenienti dall'Africa occidentale o, più spesso, nati in Europa da genitori immi­ grati, i cui sintomi erano assai prossimi a quelli dell' ► autismo o aveva­ no ricevuto già tale diagnosi. In tutti il problema più frequentemente riportato era quello del ritardo nell'accesso al linguaggio. L'autore, 21

assumendo come dato preliminare la frequente esistenza di "lingue conflittuali" (che rendono cioè difficile in queste famiglie e in questi bambini nati all'interno di esperienze di transizione e di scissione la comunicazione con i genitori e i nonni), ha enfatizzato il diverso signi­ ficato che questi comportamenti avevano agli occhi delle famiglie d'ori­ gine (senza per ciò stesso concludere che si tratti semplicemente di casi di autismo diversamente interpretati e nominati) . Secondo Nathan, là dove la nostra psichiatria cerca di produrre, a partire da questi disturbi, una teoria dello psichismo e della comunicazione fra bambino e adul­ ti, in altri contesti l'interpretazione è rivolta piuttosto a decifrare i messaggi trasmessi attraverso queste figure-limite e interpretati come provenienti da un mondo particolare: quello dell'invisibile, degli ante­ nati. Alle teorie dirette a riconoscere come determinante un disturbo presente nella relazione madre-bambino o all'interno del bambino (nel suo cervello cioè, come sostengono non pochi neuropsicologi sulla base delle differenze che sarebbero state rivelate da sofisticate tecnologie diagnostiche in alcune aree cerebrali), altri rispondono che ciò di cui è altrettanto importante occuparsi è l'uso sociale del disturbo. Non è mancato chi, come lo psicologo burkinabé Aboubacar Barry (2001), ha cercato di sbarazzarsi del significato di queste rappresentazioni ripen­ sandole come pure e semplici metafore. Ma le metafore sono anche strategie conoscitive (come insegna la filosofia della scienza da Fleck a Kuhn) e pertanto, seppure solo di questo si trattasse, quelle rappresen­ tazioni meritano un esame accurato perché, proprio in quanto meta­ fore, alludono a modi di conoscenza e strategie di governo dell'espe­ rienza caratteristici delle famiglie e delle società di volta in volta consi­ derate, comunque fondamentali in una psicoterapia. Ciò non significa evitare di chiedersi quale tipo di sofferenza si nasconda dietro la manca­ ta comparsa del linguaggio o, peggio, limitarsi a nominare, con cate­ gorie espresse nelle lingue locali, sintomi inquietanti: significa, più semplicemente, avviare una riflessione che permetta ai membri della famiglia di condividere, nella loro lingua, i dubbi, le angosce, i conflit­ ti che spesso stanno sullo sfondo delle difficoltà manifestate da questi bambini durante i primi anni della scolarizzazione nei paesi ospiti, e muovere da questa condivisa incertezza verso la ca-costruzione di stra­ tegie di intervento percepite come pertinenti. 22

AD H D

(Attention-Deficit Hyperactivity Disorder) (o D DAI, Disturbo

da deficit d'attenzione e iperattività) Disturbo diagnosticato soprat­ tutto in bambini di sesso maschile (rapporto 1 0 : 1 nei confronti delle bambine), caratterizzato da difficoltà a concentrarsi e portare a termine attività in corso, elevata distraibilità, scarsa capacità di prestare attenzione mentre gli si parla, impulsività, movimento continuo sia a scuola sia a casa (incontrollabile anche nei contesti in cui si dovrebbe stare seduti) ecc. I criteri da considerare perché sia legittimo porre la diagnosi sono numerosi (è presente l'A D H D solo quando i disturbi insorgono prima dei sette anni, quando sono presenti almeno sei sintomi del deficit di attenzione e sei sintomi di impulsività/iperattività, e quando questi compromettono seriamen­ te l'apprendimento). Tali criteri sono d'altronde insoddisfacenti perché non è facile riconoscere quando i problemi, quelli dell'ap­ prendimento ad esempio, siano causati dai tre sintomi maggiori (distraibilità, iperattività, impulsività), se soltanto si associno ad essi (indipendentemente e in modo autonomo) o se rivelino invece altre affezioni e disordini di ordine cognitivo. Le difficoltà nell'utilizzazio­ ne di questa diagnosi sono rivelate anche dalla frequente concomi­ tanza di altre diagnosi controverse, nelle quali emergono esplicite le componenti "morali" nel giudizio di inadeguatezza (diagnosi spesso associate all'AD H D sono ad esempio il Disturbo della condotta, il Disturbo oppositivo provocatorio ecc.). Il quadro è reso ancora più complesso dalla non rara associazione di disturbi aventi decorso autonomo (come nel caso della ► sindrome di Gilles de la Tourette). Lo stesso DSM, del resto, riconosce la difficoltà di distinguere nella prima infanzia una sindrome A D H D da "comportamenti appropria­ ti all 'età in bambini attivi". L'incertezza sulle cause contribuisce a fare dei disturbi descritti un quadro confuso, e sono in molti a chie­ dersi se tale configurazione di sintomi e comportamenti meriti la "dignità" di una sindrome autonoma. I modelli eziologici neuro­ psicologici rinviano al modello dell'iperattività delle aree sottocorti­ cali e/o dell'ipoattività di quelle corticali inibitorie. Nessuna ipotesi (neurologica o genetico/neurotrasmettitoriale, quest'ultima relati­ va a una ridotta disponibilità di dopamina) risulta al momento convincente, e i modelli cognitivi o socioambientali rimangono 23

essenzialmente prigionieri di una logica circolare. Spesso essi sembra­ no tradurre in una semantica pseudoeziologica quelli che in realtà sono i disturbi osservati: ad esempio, l'ipotesi di un deficit nei circui­ ti di controllo e di mantenimento dello stato di allerta/attenzione è, di fatto, ciò che viene descritto sul piano del comportamento osser­ vabile come uno dei disturbi più frequenti (l'impulsività e, rispetti­ vamente, la distraibilità), senza che si arrivi a dire che cosa determini però quel deficit. L'AD HD conosce un uso crescente negli Stati Uniti, mentre la sua utilizzazione è assai più bassa in Europa, ed ecceziona­ le in paesi non occidentali: ciò che di per sé la rende una categoria di interesse etnopsichiatrico. Le polemiche sull'abuso di questa diagno­ si derivano in particolare dal rischio di stigmatizzazione del bambino (la diagnosi certo aiuta a decolpevolizzare famiglie e società, ma inevi­ tabilmente medicalizza il bambino e la sua sofferenza), nonché dall'u­ so di psicofarmaci già in età precocissima. Sono pochi gli autori che si sono occupati dell'emergere di questa espressione di disagio in rela­ zione alle trasformazioni sociali (competizione, incertezza, ipersti­ molazione cognitivo-ambientale e massiccia presenza di tecnologie nei nuovi contesti di vita, ambiguità dei ruoli ecc.), scolastiche (modelli di apprendimento e richieste sempre più complesse) o fami­ liari (mutamento dei ruoli parentali e nuovi modelli di comporta­ mento; aumento del tempo che i bambini trascorrono da soli ecc.). Queste trasformazioni, particolarmente evidenti in un contesto come quello nordamericano, invitano quanto meno a ipotizzare che l'AD HD possa essere anche un riflesso (o forse un commentario, per quanto inconsapevole) di queste dinamiche e degli effetti che essi determinano sui rapporti fra adulti e bambini. Ad o rcismo Termine proposto da Luc de Heusch (1971) per indi­ care l'intervento del sacerdote del culto di possessione nei confronti del posseduto, e che, a differenza dell' ► esorcismo, non è rivolto alla pura espulsione del demone o dello spirito considerato responsabile dei mali che affliggono la vittima, quanto piuttosto alla realizzazio­ ne di una relazione di "alleanza" (termine che ricalca per analogia il senso che ha questa parola nell'analisi antropologica delle relazioni e degli scambi matrimoniali). Questa alleanza, scandita solitamente 24

da offerte e sacrifici periodici, dalla costruzione di un altare personale, come nel caso del ► ndoep, e dalla partecipazione alle attività di una confraternita, implica l'accoglienza nella propria esistenza, nel proprio corpo, di questa alterità. Una volta sancito, questo venire a patti con essa consentirà nel futuro una ► possessione regolata, ossia non impre­ vista e caotica quanto alla sua manifestazione né minacciosa, dal momento che essa è circoscritta a tempi rituali. La trance da posses­ sione a valenza adorcistica non esclude fasi esorcistiche, che solita­ mente hanno lo scopo di confinare o fissare Io spirito in un altare domestico o in un animale da sacrificare. L'alleanza adorcistica deve essere concepita non solo come una semplice tecnica terapeutica: essa realizza infatti una particolare, quotidiana esperienza dell'alterità, l'ap­ prendimento di una nuova grammatica del gesto e della sensibilità: ciò che interroga sulla peculiare esperienza che il posseduto ha del Sé e del proprio agire, delle proprie ambivalenze in altri contesti culturali. Am biva lenza Cheick Hamidou Kane, narratore senegalese, sceglie come titolo di una delle sue opere più note l'espressione L 'aventure ambigue (1961). Nel libro egli ben esprime l'a. che struttura l'espe­ rienza della formazione e dell'emigrazione del protagonista: caratte­ ristica di ogni sentimento, di ogni affetto, l'a. è infatti per eccellenza anche la cifra della vicenda migratoria, sia nell'emigrante sia nel suo gruppo d'origine. Ma questo sentimento, rivelatore dei vissuti messi da ciascuno in gioco nel corso di tale esperienza (desiderio di auto­ no mia, critica delle tradizioni, sensazione di abbandono o tradi­ mento da parte del gruppo, incertezze sperimentate nella società ospite - desiderata e temuta, e percepita a uno stesso tempo come "curiosa", indifferente oppure ostile), parla anche di una storia di violenze e conflitti, di diffidenze e rancori. Si emigra infatti verso le città e i paesi che furono un tempo quelli dei colonizzatori, e Sayad sottolinea come ogni immigrato porta in sé la traccia di un passato doloroso spesso represso (nel senso psicoanalitico del termine), che rinvia ad una storia lontana, la storia coloniale, la quale non cessa di riaffiorare negli sguardi che egli scambia con il suo datore di lavoro. Andras Zempléni (19856) sottolineava, in un articolo apparso oltre vent'anni fa, come l'etnopsichiatria della migrazione debba guarda25

re proprio a queste ambivalenze, a questi vacillamenti, dal momen­ to che in essi, nell'angoscia della "scelta" che prende il posto della sempre più debole "influenza delle tradizioni", si rivela per intero la complessa e incerta articolazione fra psichico e culturale. La nozio­ ne di a. è inoltre al centro di numerosi studi antropologici e psicoa­ nalitici sui culti di possessione: esemplare quello sul bori (Niger) di Jacqueline Nicolas (1970, e Monfouga-Nicolas, 1972), che proprio di questo concetto fa largo uso nell'analisi del rituale e dell'esperien­ za della posseduta. A m nesia cu ltu ra l e L'espressione è stata utilizzata da Memmi (1957), e intendeva sottolineare gli effetti della colonizzazione sulla coscienza storica dei colonizzati: sui giovani in particolare che, indot­ trinati dai testi dei missionari o dell'amministrazione coloniale fran­ cese, finivano con lo sperimentare una crescente "carenza", la sensa­ zione di essere fuori gioco, "fuori della storia", di perdere progressi­ vamente la memoria e sperimentare una vera e propria "catalessi sociale e storica" . Memmi anticipa non poche delle più recenti prospettive della cosiddetta antropologia della memoria, là dove scri­ ve ad esempio che se la memoria di un popolo riposa sulle sue istitu­ zioni, quella dei colonizzati è condannata all'amnesia perché le loro istituzioni sono "morte o sclerotizzate", e i loro monumenti vissuti quasi con un senso di ridicolo. Ai colonizzati il colonizzatore lascia del resto disponibili solo le istituzioni e le esperienze religiose, proprio perché queste, solitamente vissute in una dimensione extratempora­ le, non interferiscono con il progetto di dominio e di assoggettamen­ to. La critica recente ha rivelato dinamiche più complesse che non consentono di considerare gli effetti del colonialismo secondo un modello puramente deterministico, con il rischio di occultare inte­ razioni, appropriazioni e strategie da parte delle società colonizzate (Bayart, 2008). Am nesia strategica Il termine è stato proposto, oltre che, ovvia­ mente, in neuropsicologia, psicoanalisi e psichiatria (dove si distin­ gue solitamente fra amnesia organica, dissociativa efalsa amnesia), in altri ambiti disciplinari (sociologia, storia, letteratura ecc.). In queste 26

discipline il termine è stato spesso utilizzato in relazione ai fenomeni di razzismo, di atrocità o alle situazioni di violenza. In tali casi la scel­ ta di non ricordare eventi tragici come un genocidio, ad esempio, ha per molti un valore "strategico". Lo stesso accade in quei contesti dove la violenza del dominio e dell'alienazione ha generato un'attitudine di difesa, di "mascheramento", relativamente a conoscenze che non vengono rivelate allo scopo di nascondere significati culturali, luoghi rituali ecc. L'obiettivo (spesso inconsapevolmente attuato) è una sorta di "protezione" della propria cultura dalla curiosità invadente - o distruttiva - dell'Altro e dello Straniero. L'espressione è stata propo­ sta da alcuni antropologi oceanisti in riferimento al silenzio ostentato dagli informatori (all'amnesia, appunto) su rituali, tradizioni, rappre­ sentazioni: forse, suggerisce Barbiéra (1996), laddove la storia è stata confiscata ( ► amnesia culturale), non si dovrebbe parlare tanto di amnesia di un popolo quanto piuttosto del rifiuto di comunicare come estrema risorsa per preservare la propria identità. Nello stesso campo di fenomeni potrebbero essere inclusi i silenzi, le reticenze, l'oblio, le deformazioni intenzionalmente introdotti dagli informato­ ri nel corso delle risposte fornite al ricercatore al riguardo di formule, segreti rituali ecc. Non molto diversamente, anche il silenzio relativo ad eventi passati (schiavitù, deportazioni, colonialismo), la cui rievo­ cazione costituisce una memoria dolorosa - painful memo ry è la formula adottata da Graeber (1997) in relazione alle esperienze colo­ niali in Madagascar -, può essere pensato come una forma di a. s. Devereux (1978) analizza una condizione prossima a quella messa in luce da questo concetto quando parla di rinuncia all 'identità come difesa estrema dal rischio di annientamento. An o ress i a m e nta l e, b u l i m i a , d istu rbi d e l la co n d otta a l i m e nta re L'anoressia (con i suoi sintomi maggiori (rifiuto di mantenere un peso corporeo prossimo a quello previsto dall'età e dall'altezza, conseguente amenorrea con assenza di almeno tre cicli mestruali, intensa paura di veder accresciuto il proprio peso, gravi disturbi del vissuto corporeo e della percezione di sé prossimi alla ► dismorfofo­ bia ecc.) è stata descritta già nel XIX secolo da Ernest Ch. Lasègue come anoressia isterica - nel 1873, poi da William S. Gull (nel 1874). 27

La bulimia, caratterizzata da ingestione smisurata e discontinua di cibo, in quantità superiore a quella utilizzata normalmente nello stesso periodo di tempo dalla maggior parte della popolazione, da sensazione di perdita di con trollo, comportamenti compensatori inappropriati (vomito autoindotto, uso di lassativi e diuretici, perio­ di di digiuno ecc. ) , sentimenti di autosvalutazione e vissuti depres­ sivi, ha invece una storia assai più recente (il termine viene introdot­ to negli anni settanta del secolo scorso) . Ci sono studi che conside­ rano criticamente l'inclusione di questi disturbi all'interno di una medesima classe (disturbi della condotta alimentare) , e alcuni auto­ ri sostengono che la disponibilità di cibo rappresenta una condizio­ ne necessaria ma non sufficiente perché emerga un disturbo come la bulimia. Nelle isole Fij i è stato osservato che dopo l'introduzione della televisione si è avuto, in un mese, l'incremento del 7o/o circa dei comportamenti di abuso alimentare, poi diminuito successiva­ men te ma in modo non signifi cativo . S ullo statuto di ► culture bound syndrome dell'anoressia mentale il dibattito rimane aperto . Prince aveva proposto questa interpretazione nel 1985, affiancando l'analisi dell'anoressia mentale a quella della ► brain fag syndrome, e per la prima volta utilizzando il concetto di cultura! bound syndrome (c B s) in rapporto ad una categoria diagnostica della psichiatria occi­ dentale. Prince aveva buoni mo tivi per sostenere questa ipo tesi, considerata l'incidenza assai pi ù elevata di questo grave disturbo nelle nostre società (la presenza di siti internet che rivelano la presen­ za di un vero e proprio " sapere" sul come perseguire strategie alimen­ tari per diventare e conservarsi anoressici confermerebbe questa ipotesi) . Il celebre studio di Selvini-Palazzoli (19 63) aveva da parte sua offerto elementi a favore di un'ipotesi quale quella di Prince, eviden­ ziando in particolare i conflitti della relazione madre-figlia nella fami­ glia occidentale. Altri lavori hanno messo in luce la prossimità fra il corpo anoressico e l'ideale ascetico perseguito da non poche mistiche nei secoli passati: un corpo disincarnato, che afferma la sua forza come per sottrazione, rifuggendo dal modello idealizzato della femminilità e della maternità e approssimandosi piuttosto all'esperienza di un co rpo sacro (separato, dunque, come vuole l'etimologia) . Questo corpo realizzerebbe la ricerca spasmodica della purezza (i giudizi sulla 28

natura contaminante e impura del cibo di molte anoressiche legitti­ merebbero questa prossimità fra i due campi di esperienza). Ciò che il comportamento anoressico vuole preservare sembra essere una sorta di perfezione atemporale, che nel perseguire un ideale efebico sembra sfidare (e nel medesimo tempo negare) il rischio della morte, non rara nei casi gravi di a. m. Che i modelli di magrezza siano oggi particolarmente influenti nell'estetica contemporanea è inoppugna­ bile, a ulteriore sostegno dell'ipotesi di Prince. D'altronde la "colpe­ volizzazione" dell'obesità nella società contemporanea sembra confermare l'implicita valorizzazione culturale del suo opposto. Alcu­ ne ricerche recenti, ispirate a modelli genetici (Keel, Klump, 2003), hanno provato a ridimensionare il ruolo dei fattori culturali metten­ do in dubbio l'ipotesi di Prince: se la bulimia presenta alcuni dei tratti tipici di una culture bound syndrome, questi sarebbero più incer­ ti nell'anoressia mentale, che ha conosciuto poche fluttuazioni epide­ miologiche in questi anni. Antropopoiesi Concetto proposto da Franco Remotti (1999 e 2005) a partire dalle sue ricerche fra i Banande della Repubblica democratica del Congo. Con a. si intende un insieme di tecniche rituali, psicologi­ che, simboliche ecc. volte a foggiare specifiche "forme di umanità" e di individuazione. Tali tecniche, in particolare quelle della circonci­ sione, costituiscono un tempoforte nel corso del quale vengono formu­ late domande propriamente antropologiche e filosofiche ("che cos'è un uomo ?") e si articolano - all'interno delle rappresentazioni locali - i nessi fondamentali dell'esperienza (natura/cultura, sessualità/riprodu­ zione, vita/ morte, conoscenza/ segreto, individuazione/appartenenza ecc.). A tale concetto possono essere avvicinate le riflessioni proposte da Suzette Heald su umanità, violenza e sessualità in relazione ai riti imba­ lu tra i Gisu dell'Uganda (cfr. ► riti di passaggio). Arcos i Patologie collettive che assumono il profilo di attitudini mentali e credenze, di rituali e sistemi simbolici, alla base di comporta­ menti complessi culturalmente prescritti, trasmessi dalle generazioni precedenti e la cui origine sarebbe particolarmente arcaica. Il valore normativo dell'a. - il termine archosis è stato proposto da La Barre 29

(1991) in analogia con quello di nevrosi e di psicosi - sta nel fatto che essa è appresa e incorporata dalla comunità con la convinzione che il mondo sociale e naturale deve essere proprio come essa lo percepisce e sperimenta. Il concetto mette in rilievo anche il problematico nesso fra '' delirio" e "credenza", e il fatto che l'adattamento ad un contesto socia­ le non indica affatto sempre e necessariamente normalità. Anzi, come suggeriva Devereux (1978), è l'idea di "sanità mentale" che deve essere interrogata in quanto categoria culturale, non meno di quanto si sia fatto solitamente con quella di "malattia mentale". La Barre influenzò considerevolmente Devereux. Il concetto di a. è evidentemente presen­ te nella riflessione dell'etnopsichiatra ungherese laddove egli ipotizza che le idee della cultura siano trasmesse di generazione in generazione e sottoposte a processi di rimozione collettiva, non diversamente da quanto accade nell'individuo per ciò che concerne l'inconscio.

Arm i dei deboli e verba li segreti I due concetti sono stati proposti

da James Scott (1991 e 2006) e da altri autori in riferimento a quelle strategie oppositive che non si declinano necessariamente come azio­ ni politiche o militari, di rivolta esplicita o di contropotere. Il primo termine è stato originariamente utilizzato per le forme di resistenza attuate dai contadini malesi più poveri nei confronti delle drammati­ che modificazioni della produzione risicola, che avevano avuto come effetto quello di danneggiare ulteriormente la loro già fragile econo­ mia. L'espressione "verbali segreti" indica invece tutte le strategie (discorsive, cerimoniali ecc.) messe in opera, in luoghi appartati o in forme mascherate, da parte di individui e gruppi che vivono rapporti di subordinazione: schiavi e colonizzati, ad esempio. In nessuno dei due casi queste strategie assumono la forma di una dichiarata ribellio­ ne a causa della profonda asimmetria esistente nei rapporti di forza: esse tuttavia costituiscono modi di resistenza che contribuiscono a nutrire quelle forme di lotta più organizzate che prendono corpo nel contesto di conflitti religiosi, crisi politiche o conflitti armati (decolo­ nizzazione ecc.), come nel caso dei leader indù che ricorrono a forme di "sincretismo strategico", secondo la definizione proposta da J affre­ lot (1992). I due concetti, esplicitamente connessi dall'autore tanto alla nozione gramsciana di "egemonia" quanto a quella foucaultiana di 30

"tecnologie del dominio", si rivelano particolarmente fecondi nell'a­ nalisi di un esteso ambito di fenomeni (dai culti di possessione alle feste delle classi subalterne, alle contemporanee tattiche quotidiane di sovversione culturale). In questo senso il concetto di "armi dei debo­ li" può essere avvicinato a quello di "paradigma della marginalità" nel caso della possessione spiritica. Secondo tale paradigma la trance da possessione sarebbe un'esperienza caratteristica di alcuni gruppi subordinati, "deprivati" e fa emergere la necessità per l'antropologia di indagare chi fa questa esperienza, attirando l'interesse sui profili di genere e le specificità religiose (le donne nelle società musulmane del Corno d'Africa; cfr. ad esempio: Joan Lewis, 1966, 1972). Philippe Bourgois (2005) parla, a proposito di alcune forme di criminalità, di una "cultura della strada a carattere oppositivo". In questo caso i protagonisti, proprio adottando particolari modi di autorappresenta­ zione e non meno specifiche strategie discorsive (anche in questo caso veri e propri "verbali segreti"), avrebbero la possibilità di percepirsi e definirsi in positivo, dunque non solo come devianti o criminali. Autenticità , fa b b ricazione del l 'a utenticità Le due espressioni sono oggi frequentemente utilizzate per mettere in rilievo, all'interno del discorso antropologico, una fase storica decisiva nella costruzione dell'Altro e delle identità (etniche, nazionali ecc.), ma anche delle formazioni politiche contemporanee. Concetti come "invenzione della tradizione" (Hobsbawm, Ranger, 1987), "invenzione delle comunità" (Anderson, 1996), "invenzione dell'Africa" (Mudimbe, 2007) sono stati proposti negli anni scorsi per descrivere i processi fondati sull'artificiosa costruzione di una tradizione, cultura (Wagner, 1992), di un'appartenenza (tanto in Europa quanto nel contesto colo­ niale e postcoloniale). Non sono mancati autori che hanno messo in rilievo come, in Africa, peculiari "tradizioni dell'invenzione" hanno specularmene risposto a questi processi mettendo in opera o molti­ plicando pratiche caratterizzate dall'invenzione di nuovi complessi religiosi e cultuali, dalla produzione di strategie mimetiche o nuove espressioni artistiche, di stili comportamentali ecc. (Guyer, 2000; Fabian, 1978). Se tali concetti sono nati in ambito antropologico e storico per rimettere in discussione le nozioni troppo spesso reifica31

te di "identità" e "a p p artenenza", di "tradizione" e "comunità", essi si rivelano preziosi anche p er considerare in modo più consa pe­ vole e critico le derive di non p oche ricerche etno p sichiatriche o medico-antropologiche che hanno considerato come irrilevante un esame p reliminare dei dinamismi storici nell'interp retare le "locali tradizioni tera p eutiche". Lo stesso rischio si è ri p rodotto talvolta nelle iniziative concernenti la "promozione della medicina tradizio­ nale". Non mancano ancora oggi ricercatori ed esperti che, al di là delle loro buone intenzioni, riproducono gli stessi equivoci e un analogo rischio di reificazione allorquando investono energie e sostengono iniziative per preservare saperi medici dal "rischio" di contaminazione o addirittura p er "rivitalizzare" tradizioni mediche e luoghi simbolici di potere terapeutico (altari, feticci ecc. ), con l'intento di restituire a questi "istituti culturali" (l'esp ressione è di De Martino, 1996) la perduta o ridotta efficacia. In questo senso essi non fanno che ripetere, in un altro ambito, il vecchio equivoco della fabbricazione dell'autenticità (Clifford, 1999, ne parla in rela­ zione alla coppia arte/ cultura). Autism o i nfa nti le p recoce La sindrome dell'a.i. p . è stata descritta negli anni quaranta da Leo Kanner per dar nome, sulla base dei sintomi descritti da Bleuler all'interno della schizofrenia con lo stes­ so termine, ad un insieme di gravi disturbi del pensiero e del comportamento insorti nella primissima infanzia (difficoltà a soste­ nere la relazione con l'adulto, tendenza ad isolarsi e a giocare da soli, ritardo nella comparsa del linguaggio, comunicazione - verbale e non - povera, alterazioni dell'attività immaginativa, restringimento del cam p o di interessi, tendenza a comp ortamenti ri p etitivi ecc.). Se non mancano studi che sostengono, sulla base di ricerche neuro­ psicologiche condotte con moderne tecnologie diagnostiche (riso­ nanza magnetica nucleare ecc.), una causa organica e in particolare un funzionamento deficitario delle aree di trasmissione degli impul­ si nervosi, sono in molti ad esprimere perplessità riguardo all'inter­ pretazione eziologica (che è comunque considerata multifattoriale e vede come centrale la personalità della figura materna e dei suoi stili di relazione con il bambino). Oggi si parla di sindrome di a. in rela32

zione a varietà che comprendono anche forme più sfumate, la cui cura rimane in ogni caso complessa. Gli studi comparativi pongono non poche domande ai modelli biologici: a cominciare dalla quasi assenza di a. in altre realtà socioculturali (America centrale, Africa subsahariana ecc.), dove i casi di a. sarebbero rarissimi o non sono descritti affatto, dato difficile da interpretare sulla base dell'ipotesi neurobiolgica. Ma l'etnopsichiatria dell'autismo ha mostrato anche come in diverse aree culturali esistono complesse rappresentazioni simboliche che considerano il comportamento del bambino (pianti ripetuti e inconsolabili, difficoltà di relazione e di comunicazione, tendenza a vivere in un mondo solipsistico ecc.) meno come una malattia e piuttosto come l'evidenza di una relazione protratta con il mondo invisibile e gli spiriti, nella cui manifestazione i comporta­ menti osservati sono interpretati anche in chiave morale (si parla spesso in questi casi di "bambino-antenato", di "bambino che è cattivo" ecc.). Conoscere tali categorie e rappresentazioni è diventa­ to importante in ragione del fatto che disturbi del linguaggio e della relazione sono tutt'altro che infrequenti nell'infanzia immigrata, tanto più laddove il transito fra universi linguistico-culturali costi­ tuisce per molti bambini una prova particolarmente dolorosa (Bene­ duce, 2007; Nathan et al. , 2000). Bastid e Roger (1898-1974), antropologo e sociologo, studioso dei culti di possessione e dei movimenti religiosi afro-brasiliani, docen­ te all'Università di San Paolo in Brasile, fu tra coloro che più insi­ stettero sulla funzione terapeutica della possessione. In questa egli sottolineò la continuità e la frammistione di quelli che gli appariva­ no come due poli più immaginari che realmente distinti: l' ► adorci­ smo e l' ► esorcismo, secondo il modello binario proposto da Luc de Heusch (1971). Nella trance da possessione Bastide (1976) colse l'im­ portanza dell'educazione motoria ("insiemi di strutture corporee"), un'educazione che nelle società africane è diretta a inibire trance selvagge. Bastide giunge ad affermare che nella trance da possessione africana, a differenza di quella europea (dove domina la liberazione dalle inibizioni, la vertigine di fronte a quanto è represso e irrompe, fìnalmente senza più limiti, il disordine del movimento), si realizza un 33

paradossale condizionamento del corpo e del desiderio del posseduto. Bastide ha cercato inoltre di mostrare, contro Althabe (1969), che la possessione (analizzata da quest'ultimo in Madagascar) non sempre realizza forme di "liberazione nell'immaginario": talvolta essa esprime p iuttosto il ritorno di un p assato che non vuole morire. Attento studioso del profetismo e dei culti millenaristici, B. è anche autore di importanti contributi socioantropologici sul rapporto fra disturbi mentali e contesto socioeconomico. L'analisi multidisciplinare delle varie forme di sofferenza psichica fra le popolazioni marginali, l'in­ treccio fra psicoanalisi e sociologia, lo studio del sogno e dei comples­ si afro-brasiliani ("complesso di inferiorità", "complesso dell'Ante­ nato" ecc.), le ricerche sulle dinamiche razziali lo spingono a percor­ rere in modo originalissimo un largo orizzonte di autori e teorie che, per la particolare attenzione rivolta ai lavori degli psichiatri contem­ poranei, può essere paragonato al dialogo sviluppato con la psicopa­ tologia da Ernesto De Martino. Le sue ricerche sui culti afro-brasilia­ ni e le esperienze che in esse vi realizzano gli adepti rimangono un punto di riferimento in questo ambito di ricerche.

Brain fag syndrome (o syndrome de surmenage, sindrome da affatica­

mento mentale) Descritta in studenti africani, solitamente nelle scuole secondarie o nell'università, la B F S è stata attribuita a un complesso intreccio di fattori: psicologici (stress) ; familiari (elevate aspettative nei confronti di colui sul quale erano state investite risor­ se economiche); culturali e cognitivi (l'apprendimento di termini e concetti in una lingua diversa da quella madre, facenti riferimento ad un altro orizzonte storico ed esp erienziale, faceva sp esso violenza ai valori tradizionali); sociali (la necessità del successo individuale, la logica della competizione erano in aspro conflitto con l'imperativo della solidarietà e il divieto di primeggiare, determinando talvolta un'esperienza analoga a quella descritta come "doppio legame"); religiosi (spesso l'apprendimento veniva realizzato all'interno di scuole missionarie, dove la conversione era l'implicito "pedaggio" richiesto ad allievi e familiari); farmacologici (l'abuso di sostanze p sicostimolanti p er realizzare un rendimento elevato). L'intreccia di queste dinamiche è all'origine di disturbi diversi (insonnia, irritabi34

lità, aggressività, difficoltà di concentrazione ecc.), sino a forme più gravi che si manifestano con la tendenza a isolarsi, l'eccitazione maniacale, la confusione, la comparsa di idee di riferimento. L'in­ successo, attribuito spesso dai pazienti o dalla famiglia all'invidia di altri familiari o vicini, è interpretato solitamente dai guaritori e dai ► marabutti come la conseguenza di atti di stregoneria o di sortile­ gio, ricondotti solitamente a sentimenti di invidia da parte di membri dell'entourage del paziente. La categoria B F S è oggi spesso contestata (in Sud Africa, ad esempio) perché - allorquando non si consideri la totalità delle dimensioni prima evocate - essa riprodur­ rebbe surrettiziamente alcuni stereotipi sulla "mente africana" e la "personalità africana": secondo una tale nozione si riafferma impli­ citamente l'idea secondo cui gli africani avrebbero difficoltà a situar­ si fra differenze culturali, adattarsi ai cambiamenti tipici dei proces­ si di modernizzazione o integrare efficacemente nella loro esperien­ za e nel loro sviluppo gradi elevati di ambiguità o ibridazione ecc. Se la sofferenza espressa attraverso i disturbi della B F S rivela indubbia­ mente una crisi, un disagio, questi sono da mettersi in relazione più con le contraddittorie richieste del mondo scolastico dell'epoca colo­ niale e postcoloniale, orientato solitamente secondo parametri reli­ giosi, morali e politici occidentali in contrasto con quelli locali, che non con presunti tratti psicologici della popolazione africana. L'ado­ zione da parte della popolazione di interpretazioni quali quelle offer­ te dai guaritori potrebbe essere interpretata, secondo alcuni ricerca­ tori sudafricani, anche come un'implicita contestazione del sapere psichiatrico occidentale, dei valori che esso veicola e dei rapporti di forza che ne accompagnano l'uso. Bwiti Culto religioso diffusosi in Gabon nelle zone costiere, in rela­ zione alla presenza di schiavi provenienti dall'interno, poi sviluppatosi con caratteristiche proprie tra gli Apindji, i Mitsogho e, soprattutto, i Fang, dove è stato studiato da James Fernandez (1982). In questo culto sono riconoscibili diversi significati (religiosi, terapeutici, sociali ecc.), che ne fanno una "reazione a fondamento sacro", secondo l'espressio­ ne di Balandier (1955), e permettono di riconoscere fra le ragioni della sua affermazione e nelle forme che assunse anche fattori connessi alla

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situazione coloniale, ai crescenti conflitti fra tradizionalisti, cristiani ed évolués ( " evoluti " ) , nonché alle trasformazioni psicologiche che ne seguirono. Il b. realizzava infatti nuove forme di alleanze interetniche, e ciò spiega la relativa autonomia dei membri del culto dai clan, dai villaggi d'origine e dai legami di parentela. Il termine ha diversi signifi­ cati: indica la divinità che si rivela all'iniziato, la società degli adepti, il p alo scol p ito - che rappresenta l'oggetto fondamentale del tempio, costruito sulle reli q uie di un uomo al quale viene attribuito il p ossesso di una particolare potenza. Un tempo la costruzione del tempio esige­ va da parte del suo responsabile il sacrificio di un familiare o di un parente adottivo, ma la verità storica di questa pratica è oggetto di note­ voli controversie. Nel b. i partecipanti utilizzano ibogaina (estratta dalla corteccia delle radici di una pianta, l'iboga) : si tratta di una sostanza dotata di potenti effetti psicodislettici e in grado di indurre uno stato alterato di coscienza che può raggiungere il coma; il suo uso è rivolto a facilitare l'incontro con gli spiriti (trance da possessione) . La capacità che questa sostanza avrebbe nel competere con gli oppiacei a livello recettoriale ha s pinto molti ricercatori a sostenere la sua efficacia nell'in­ terrom pere la di pendenza da eroina ( oltre alla sua attività terapeutica in altri ambiti) : un'estesa letteratura p arrebbe confermare questa i potesi, sebbene si sia lontani dal raggiungere un reale consenso fra i farmaco­ logi quanto alla sua utilizzazione clinica. Ca c h exi a afri ca n a (mal d'estomac, dirt-eating, pica, geofagia) Il termine viene utilizzato già F. W. Cragin nel 1835 (cfr. Prince, 1989) per definire un disturbo " incurabile " con i trattamenti ordinari. T aie disturbo (febbre, ap atia, insensibilità, edema delle estremità, astenia, pallore) viene attribuito all'ingestione di carbone, argilla, polvere di conchiglie , e messo in rapporto con il mal d'estomac descritto dai dizionari medici dell'e p oca come un " ap p etito de p ravato " (Mason, nel 1833, individua fra le cause di quest'affezione, designata anche come Limosis Pica, la gravidanza, la clorosi, il bisogno di ingerire sostanze ati p iche a sco p o estetico ecc. ) . L'uso di una maschera metal­ lica applicata al volto per impedire l'ingestione di terra sembrava una strategia terapeutica inevitabile, secondo Cragin, nel trattamento dei casi gravi di geofagia: l'assunzione di sostanze non commestibili da

parte degli schiavi era infatti interpretata dai padroni delle pianta­ gioni come unafo rma di resistenza, un vizio funesto da reprimere con il massimo vigore (sic !), e la preoccupazione che tale disturbo potes­ se interferire con la produzione agricola era molta diffusa fra i lati­ fondisti. Tuttavia il disturbo era connesso più alla povertà che non alla razza: oltre alle osservazioni riportate già da Ippocrate e da Gale­ no, agli inizi del 1700 fu osservato infatti anche tra i bianchi poveri residenti in Carolina (Twyman, 1971). Collignon (1992), in un'e­ sauriente rassegna della letteratura su questo argomento, ha investi­ gato il fenomeno della geofagia in diversi contesti culturali. Frequen­ te soprattutto fra le donne e i bambini, esso era stato descritto nei secoli scorsi da non pochi viaggiatori ed etnografi. Una recente epidemia di pica fra i cacciatori-raccoglitori australiani è stata messa in rapporto con i fenomeni di sedentarizzazione, la maggiore dispo­ nibilità di risorse alimentari e la crisi del ruolo tradizionale delle donne (in particolare di quelle che avevano la responsabilità di assi­ curare la nutrizione del gruppo). Raro in Europa, questo comporta­ mento alimentare è stato osservato soprattutto in Africa, dove sembra essere tollerato nei bambini più piccoli. Le interpretazioni bio-mediche ("saggezza" spontanea che spingerebbe ad introdurre nella dieta elementi e minerali che si trovano nella terra o nell'argil­ la e di cui l'organismo sarebbe carente) non sono comunque in grado di spiegare la totalità dei casi riportati. In Africa occidentale, per meri­ to degli Ewe (Ghana, Togo), si è sviluppato un vero e proprio commercio di piccole "uova" di argilla bianca (rye) , prodotte a parti­ re dall'accurata selezione di scisti argillosi schiacciati e polverizzati, poi mescolati ad acqua, modellati a forma di uova e lasciati seccare al sole prima di essere commercializzati. Queste '' uova" sono poi vendute su molti mercati dell'Africa occidentale, introdotte nella dieta senza apparenti effetti negativi, e utilizzate anche da indovini che le strofinano sulla pelle o nella cura di particolari affezioni. Se il DSM colloca la pica fra i disturbi della condotta alimentare, sottoli­ neando il carattere compulsivo dell'ingestione di sostanze alle quali non è riconosciuto valore nutrizionale, in altri paesi l'ingestione di terra avrebbe dunque ben altri significati. In una località del Guate­ mala (Esquipulas), considerata città sacra già in epoca preispanica e

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diventata oggi rinomato centro di culto, la confezione di tierra santa (argilla) modellata secondo forme che riprendono motivi cristiani (effigie di santi, del Cristo nero o della Vergine) è finalizzata ad esempio alla vendita tanto nel santuario quanto nel locale mercato. Le popolazioni indie l'acquistano per le qualità terapeutiche che le vengono riconosciute nel trattamento di numerose affezioni (disor­ dini mentali, lebbra, malaria, febbre gialla ecc.). Fra le donne nere del confinante Belize l'uso delle tavolette di argilla era motivato sino a tempi recenti dalla necessità di controllare la fame o ridurre la nausea durante la gravidanza (utilizzazioni di questo tipo sono state descritte anche in Europa). Ca ndom b l é Religione brasiliana di origine africana, caratterizzata dalla divinazione con i cauri (conchiglie di ciprea), preliminare ai rituali. A differenza di altri culti di possessione, dove il legame fra la divinità e l'adepto si realizza per mezzo della trance, nel c. sono gli oggetti divinatori ad assicurare questo incontro, questo contatto. In particolare sono le conchiglie dei cauri a svolgere questa "funzione cerniera". La loro consultazione è effettuata nei luoghi di culto (i cosiddetti terreiros, dal portoghese brasiliano: "terreno bonificato") dai babalawo (termine di origine yoruba, avente diversi significati: "sacerdote", "detentore del segreto", "mistero"). I terreiros costitui­ scono un'unità liturgica, spaziale e sociale allo stesso tempo. Lo statuto religioso del c. è sospeso fra dimensione divinatoria (indub­ biamente prevalente) e terapeutica, la prima oggi realizzata quasi unicamente per mezzo dei cauri, ma un tempo anche ricorrendo all'opele (collana costituita da otto metà di un nocciolo di frutta, generalmente cocco di palma). Il c. è stato studiato in particolare da ► Roger Bastide ( 20 0 0 ) e Pierre Verger (1957).

Ca rgo (cu lti del) Il termine è stato utilizzato da Norris Mervyn Bird

nel 1945, sulle pagine del "Pacific Islands Monthly", per indicare un insieme di riti apparsi alla fine dell'Ottocento (il primo fa la sua comparsa nelle isole Fiji nel 1885), e caratterizzati dall'abbandono dei raccolti e del lavoro nei campi, e dall'impegno profuso nella costruzione di hangar che avrebbero dovuto accogliere in grande

quantità beni e oggetti di consumo europei di cui era atteso l'immi­ nente arrivo (asce, coltelli, vestiti, pistole, farmaci ecc.). In questi movimenti religiosi, diffusi in diverse aree del Pacifico (Nuova Guinea, Melanesia ecc.), i tratti salienti furono la centralità simbolica occupata dai beni materiali di origine occidentale e la loro feticizza­ zione, spesso riprodotta ricorrendo a una fantasmagorica logica mime­ tica. Durante tali attività, canti, danze, crisi di trance o rapporti sessua­ li scandivano il tempo ed erano ritenuti favorire il sopraggiungere dei beni desiderati da sorgenti di potere "mistico" ( ► mystique) , quale appunto l'atteso c. Coloni e missionari, essi stessi percepiti come dotati di poteri soprannaturali, interpretarono questi rituali come una forma di follia collettiva: come nel caso della cosiddetta Follia Vai/ala, descritta nel 1919 a Papua e caratterizzata da glossolalia, tremori ecc., nonché dall'attesa di un antenato, dalle fattezze simili a quelle dei bianchi, che avrebbe portato con sé beni di ogni genere (ciò che nell'insieme apparenta i culti del cargo ad altri culti mille­ naristici). Numerosi antropologi (Robbins, Crapanzano ecc.) li hanno più recentemente interpretati come strategie volte a esercita­ re - in un tempo di grande incertezza, caratterizzato dallo shock della differenza culturale, dal profondo disorientamento e da massicce discriminazioni - una qualche forma di controllo, e riconosciuto in essi lo statuto di un discorso politico, con il quale esprimere angosce, conflitti, speranze e desideri. Catego ri a n os o l ogi ca Con tale termine s'indica il nome di una malattia o di una sindrome, riconosciuta come distinta dalle altre per i sintomi, la parte dell'organismo coinvolta, l' ► eziologia o il decorso. Le categorie nosologiche sono situate all'interno di un siste­ ma classificatorio (nosografia) che generalmente varia in rapporto a nuove scoperte della bio-medicina o a nuovi modelli culturali di salu­ te e di malattia, e - per ciò che riguarda la salute mentale - di indivi­ duo e di famiglia o dei processi psichici. Lo stesso concetto è utilizza­ to per indicare i termini che nominano stati patologici o malattie in sistemi di cura diversi da quello della bio-medicina e della psichia­ tria, quale che sia l'orientamento epistemologico, la logica classifica­ toria o le concatenazioni con altri sistemi di rappresentazione (medi39

cina ayurvedica, medicine tradizionali, medicina classica cinese ecc.), anche quando la classificazione non sia stata sistematizzata in forma • scritta. Centre Georges Devereux Operante presso l'Università Parigi-vi n, Saint-Denis dal 1993, il centro è stato fondato da Tobie Nathan, allievo di Georges Devereux, ed è diventato uno dei maggiori centri di formazione e di ricerca in etnopsichiatria. Alle sue esperienze e all'opera di Nathan si deve buona parte della recente rinascita dell'interesse per l' etnopsichiatria e, più in particolare, per la clinica della migrazione. Le sue attività si rivolgono non solo alla clinica degli immigrati provenienti dal Nord Africa o dall'Africa subsaha­ riana ma anche a fenomeni psicopatologici e socioculturali come la trasmissione intergenerazionale del trauma (la questione della shoa) , lo sviluppo delle sette religiose, il transessualismo ecc. Le posizioni espresse da Nathan sono state al centro di numerose polemiche, ma le critiche espresse tanto da psicoanalisti, psicologi o psichiatri (Fethi Benslama, Aboubacar Barry, Richard Rechtmann ecc.) quanto da antropologi e storici, hanno talvolta esacerbato i toni del dibattito attribuendo ali' autore posizioni estranee al senso della sua pratica clinica (come nel caso dell'accusa di un "razzismo delle differen­ ze"), o distorcendo il significato dei modelli terapeutici proposti (il cui fondamento era l'analisi rigorosa delle terapie tradizionali e della loro efficacia, non certo quello di una loro riproduzione artificiosa). L' etnopsichiatria della migrazione si trova al centro di questioni politiche (quale valore riconoscere all'identità culturale ed etnica nelle vicende migratorie e nella pratica clinica ?), epistemologiche (quale definizione dare dell'efficacia terapeutica ? Che cosa distingue una teoria o una tecnica terapeutica da una credenza e da una bana­ le suggestione ?) e cliniche (quale spazio riceve la soggettività del paziente ? Non si rischia di imprigionarlo o ricondurlo dentro un recinto culturale già scavalcato dalla stessa scelta migratoria ?). Da tali questioni è impossibile prescindere per qualsivoglia valutazione dell'attività del Centre Devereux come di qualunque altra esperien­ za di lavoro etnopsichiatrico. Oltre a Tobie Nathan, vanno menzio­ nati alcuni dei suoi protagonisti: Marie-Rose Moro, poi distaccatasi 40

e oggi operante presso l'Ospedale Avicenne, dove ha realizzato un p ro p rio centro e una p ubblicazione autonoma (" L'Autre") ; Lucien Ho unkpatin (psicologo yoruba) , in passato presidente del centro, F rançoise S ironi (nota p er le sue ricerche sulla p sicotera p ia delle vittime di tortura, anch'essa recentemente distaccatasi dal Centre Devereux) .

Chronique fatigue syndrome (C F S, " sindrome di fatica cronica" o

myalgic encephalomielitis, ME, "encefalo mielite mialgica") Sindrome di recente ingresso nella nomenclatura medica e di controversa interpre­ tazione, la cui ► eziologia (virale, immunologica, psicosomatica) è altrettanto incerta, contribuendo a rendere tale affezione un terreno in cui i diversi attori (ricercatori, clinici, malati e associazioni di p azienti) cercano di affermare i p ro p ri p unti di vista, s pesso in reci p roca contrap­ p osizione. Al momento non c'è un orientamento condiviso sulle tera­ p ie, e quelle realizzate hanno riscosso scarso successo. L'affezione, ad andamento cronico e di cui sono state descritte vere e p ro p rie "ep ide­ mie", è spesso diagnosticata tardivamente, e si esprime essenzialmente intorno a due costellazioni sintomatologiche: il senso di fatica, ossia di stanchezza cronica, e il dolore, entrambi ricchi di significati e partico­ larmente eloquenti. La prima costellazione, da sempre al centro di anali­ si antropologiche, storiche e sociologiche, è stata preceduta da illustri antecedenti (la neurastenia di George Beard, proposta nei primi anni del Novecento) . La fatica rivelerebbe, secondo l'illuminante analisi di Rabinbach (1990) , una particolare ideologia del lavoro e dell'energia (del " motore umano "), e insieme un profilo decisivo della modernità. Secondo questo autore, essa riveste il duplice significato di a) un meccanismo di difesa atto a salvaguardare il corpo e le sue capacità produttive, segnalando i limiti oltre il quale il motore umano non può più convertire l'energia in lavoro ; b) un segnale che " suggerisce" al corpo, alla stregua di un meccanismo autoregolatore, le modalità più opportune per ridurre il suo impegno ed economizzare le energie. La nozione di fatica sta dunque al centro di una precisa rappresentazione del corp o umano e del " corp o-cap itale" (Wacquant, 2002) . La nozio­ ne di neurastenia aveva però il vantaggio di evitare la stigmatizzazione del paziente riconducendo la sua stanchezza a una dimensione organi41

ca (neurologica), conseguenza dello stress della modernità e della vita nella metropoli, a differenza di quanto faccia la più indeterminata nozione di stancheZZtl. Il secondo sintomo, il dolore, con la sua dimen­ sione invisibile (ossia resistente a una misurazione oggettiva), mostra per eccellenza come la sofferenza del paziente spesso venga affermata in un linguaggio che non ammette traduzione né misura. Reciproca­ mente, nella mancanza di un documento oggettivo, la clinica tende a banalizzare il valore di questo sintomo (alcuni autori hanno parlato non a caso di isteria relativamente ad un'epidemia di C F S ) . Di fatto, l'ipotesi psicologica nella C F S, dopo l'abbandono di quella virale (virus della mononucleosi), reintroduce la questione della depressione come vero fattore causale, come suggerito anche da Ware e Kleinman (1992). Sullo sfondo del dibattito emerge l'affermazione di una nuova ideolo­ gia del corpo, dei suoi confini e della sua vulnerabilità, ciò che è esem­ plarmente testimoniato dalla crescente egemonia del modello immu­ nitario nell'interpretazione di questa e altre sindromi: a dominare oggi non è più l'idea del corpo/barriera, che deve essere protetto da virus e batteri, ma quella di un corpo poroso e "flessibile", secondo l'espres­ sione di Emily Martin (1994), che interagisce costantemente con l'esterno, con il mondo sociale, reagendo alle sue intrusioni attraverso la produzione di anticorpi (secondo i casi appropriatamente o meno). La nozione di stress e di fatica cronica, come quella di difesa immuni­ taria, e non diversamente dalla depressione, si congiungono a delinea­ re un territorio incerto e conteso di segni e sintomi, un territorio nel quale si potrebbero riconoscere anche nuove e impreviste versioni della lotta di classe. Com petenza cu ltu rale Il termine è stato proposto da diversi autori (Eisenbruch et al., 2004, fra gli altri) per sottolineare la necessità di accrescere le conoscenze antropologiche relative a modelli di malattia e di cura tipici di altre società o alle diverse rappresentazioni della persona, del legame sociale, della morte ecc. Da tali conoscenze dovrebbero auspicabilmente originare trasformazioni negli stili di intervento perché le risposte delle istituzioni e degli operatori sanitari (in particolare di quelli che si occupano di disturbi psicologici) siano più appropriate al cospetto delle domande di cura dei cittadini stra42

nieri. Uno degli effetti positivi dell'accresciuta c. c. sarebbe quello di elevare l'accessibilità dei servizi sanitari ai cittadini immigrati, spesso più bassa rispetto a quella dei cittadini autoctoni anche quando si trat­ ta di cittadini già da tempo integrati ("regolari") sotto il profilo giuri­ dico. Il discorso dell'accessibilità culturale non intende per altro disto­ gliere l'attenzione dai problemi dell'accessibilità economica e delle crescenti disuguaglianze: in paesi come gli Stati Uniti i cittadini più poveri, le cui assicurazioni non coprono i disturbi da cui sono affetti, pur appartenendo assai spesso a minoranze etniche, risultano svantaggia­ ti a causa di problemi economici assai più che per ragioni culturali. Com u n ità te ra pe utica L'espressione, diventata celebre grazie alle esperienze realizzate in Gran Bretagna da Maxwell Jones (1953), indica l'insieme di procedure volte a rinnovare le pratiche di cura e a umanizzare la vita nelle istituzioni manicomiali tradizionali, di cui venivano denunciati sempre più spesso gli abusi e i rischi di regres­ sione per i pazienti. La costruzione di nuovi spazi di ascolto e di intervento terapeutico, l'introduzione di una maggiore flessibilità nei ruoli professionali e nei ritmi della vita ospedaliera, la ridefini­ zione dei rapporti di potere fra curanti e pazienti o in seno alla stes­ sa équipe ne costituiscono i tratti salienti. Il modello, come era già accaduto con la psychothérapie institutionnelle praticata a Saint Alban da Tosquelles e successivamente ripresa da Fanon nell'ospedale di Blida-Algeri, influenzò considerevolmente le esperienze di Lambo (in Nigeria) e Collomb (in Senegal). Consenso d iagnostico Processo decisivo nelle procedure diagnosti­ co-divinatorie dei sistemi medici tradizionali, contraddistinto da una vera e propria negoziazione sulle cause del male fra i membri dell'entourage del paziente, quest'ultimo e il guaritore. Tale proces­ so è stato messo in luce da Zempléni (1999) e altri membri della Scuola di Dakar in quanto caratteristico, nelle società africane, del percorso volto a individuare gli agenti responsabili e i significati della malattia ( ► esegesi sociale o "comunitaria"), determinante per la scelta del guaritore e, più in generale, nella definizione dell' ► itine• • rar10 terapeutico. 43

C red enza Questo termine, che tra i suoi antichi significati aveva anche quello dell'assaggio preliminare effettuato allo scopo di esclu­ dere che il pasto di personaggi importanti fosse stato avvelenato, viene opposto solitamente a quello di "teoria", come per certi versi l'opi­ nione comune (doxa) al sapere scientifico (episteme). In questo senso, il termine c. (e quello spesso evocato a questo proposito di sistema di pensiero) ha finito con l'indicare ambiti di conoscenza particolar­ mente resistenti alle prove empiriche, quali le idee che fanno da sfon­ do alle pratiche magiche, alle cure profane, alle superstizioni: in una parola, le "opinioni errate" prive di fondamento scientifico. Il lavoro degli antropologi e dei linguisti ha consentito di articolare in modo più soddisfacente questa presunta dicotomia e riconoscere che in molti casi le credenze allignano anche fra le cosiddette teorie scienti­ fiche, in modo spesso imprevisto, mentre i saperi tradizionali rivela­ no talvolta una preoccupazione empirica inattesa (Hallen, Sodipo, 1986). La c. non è dunque priva di connessioni con il metodo empi­ rico e le sfide del dubbio (e quest'ultimo non è monopolio del solo pensiero scientifico) (Charuty, 1990; Claverie, 1990), sebbene la sua logica e la sua riproduzione derivino da altri sistemi di ragionamento (Young, 1995): ciò che è stato messo in rilievo soprattutto nel caso dei ► sistemi medici tradizionali. "Credere" è in definitiva un atto complesso, al quale possono essere riconosciuti diversi profili prag­ matici e semantici (credere che, credere a ecc.), a seconda dei contesti d'uso e dell'architettura degli schemi proposizionali (Pouillon, 1993) o del grado di convenienza epistemologica (è il relativismo ontologi­ co di Quine). La c., infine, origina anche da precisi rapporti sociali e di forza, così come l'efficacia degli atti di parola è determinata dal ruolo di chi li enuncia (Bourdieu, 1982 e 2001a). Tanto nell'ambito della fede quanto in quelli solitamente presi in considerazione dall'antropologia, la c. nascerebbe, secondo de Certeau (1981b) da una pratica dell'alterità e della differenza: prodotto sociale e insieme produzione di un legame sociale, la c. potrebbe essere definita come una tela di ragno epistemologica che organizza un tessuto di esperienze e relazioni. Ma volgendoci a considerare l'ambito di un tipo particola­ re di c., quella delirante, dobbiamo ricordare la folgorante formula proposta da de Certeau (2006, p. 197) in riferimento al caso di Daniel

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Paul Schreber, il p residente della Corte di appello di Dresda affetto da una grave forma di paranoia: «La credenza è fondata sul contatto di una voce, ed essa fa credere di essere riconosciuti, conosciuti, e persino amati». Da Godfrey Lienhardt (1961, pp. 83 ss.) a lavori più recenti (quello di Severi, 2004, sulle culture amerindie o quello di Taliani, 2006, in Camerun, fra i Bulu), la questione della c. sembra saldarsi inevitabilmente alla forma dei rapp orti inter personali, alle dinamiche del cambiamento, alle pratiche, ma soprattutto all'espe­ rienza privata di un individuo e alla sua relazione con particolari "forme simboliche" (Obeyesekere, 1990, p. 26). Cto n i o Termine che definisce uno s p azio mitico sotterraneo, immaginato come abitato da spiriti e divinità. Lo sciamano ( ► scia­ manismo) o altri tipi di operatori rituali s'incaricano in molte cultu­ re di recuperare l'anima sottratta alla vittima (malato, folle ecc.), e p er far ciò devono cercare e sfidare le p otenze ctonie resp onsabili del " " fìurto Cu ltu ra Nella sua definizione tradizionale, ricondotta solitamente a Tylor (1871), è il complesso di rapp resentazioni e principi, di norme negative e positive, di valori connessi ai particolari modi di pensare e di agire di un gruppo o di una società, che nel loro insieme orientano e organizzano i differenti aspetti della vita sociale. La c. costituisce di fatto il concetto inaugurale (e controverso) della disciplina antropo­ logica e dei saperi che vi sono connessi in modo strutturale, come l'et­ nopsichiatria. Gli autori che hanno lavorato sulla sua etimologia, hanno insistito sulla metafora dell'incidere, del tagliare, del separare e del differenziare: la c. esprime questo bisogno incoercibile di distin­ guersi dall'ordine della natura. Come ha notato Cardona (1985), inci­ dere sui segni (sui corpi, sulle rocce, nello spazio) costituisce forse l'at­ to di nascita della c., prima della scrittura intesa nel suo senso lettera­ rio e ancor più di quanto abbia fatto il dominio imposto alla natura e agli oggetti, resi utensili (come voleva Leroi-Gourhan, 1977). Impri­ mere segni, produrre c., è dunque, ad uno stesso tempo, atto di sepa­ razione e di addomesticamento, del tempo (i calendari) e dello spazio (marche, confini). Ma in questo stesso momento la c. produce, alla 45

stregua di un effetto collaterale, una distinzione e differenziazione per dir così di secondo ordine: ciascun gruppo umano imporrà il suo segno particolare, diverso dagli altri, e a partire dal quale vorrà essere rico­ nosciuto. La fabbricazione dell'umanità, plasmata attraverso segni e incisioni (Remotti, 1999), istituisce dunque la c. nel senso p roprio del termine, ciò che ne fa qualcosa di cui rimane im p ossibile disfarsi nonostante gli usi spericolati e la banalizzazione spesso denunciata nel linguaggio comune. La c. non deve essere pensata come un orizzonte armonicamente coerente e privo di contraddizioni: in essa conflig­ gono incessantemente ideologie e interessi diversi (senza esserci sem p re un'evidente correlazione, la "c." è inoltre in rap p orto alle condizioni materiali, alle caratteristiche dell'ambiente e all'organiz­ zazione del lavoro). Dall'Ottocento in p oi, le definizioni si sono moltiplicate senza che si sia potuto trovare un accordo soddisfacen­ te, e oggi l'antropologia contemporanea ammette che questo concet­ to è diventato il p roprio "tallone d'Achille" (Sahlins, 1976), lo utiliz­ za con crescente disagio (Wikan, 2002, mostra ad esempio gli effetti paradossali generati dal suo abuso e dall'eccessivo "rispetto" delle culture d'appartenza di immigrati e rifugiati, soprattutto donne, in Europa) e si chiede se debba o meno essere conservato (Bayart, 1996). Sono tuttavia in molti a riconoscere che il concetto di c. rimane neces­ sario e insopprimibile, anche se difficile da maneggiare (Clifford, 1999). Le culture devono essere concepite in definitiva come sistemi dinamici, attraversati da mutamenti, p restiti, contaminazioni, da incessanti conflitti per l'egemonia di significati fra diversi gruppi, e tuttavia capaci di mantenere un relativo grado di interna stabilità, sufficiente a sostenere l'idea e la finzione ( una finzione tuttavia "seria") relativa a valori comuni e condivisi, ali'esistenza di un "confi­ ne" rispetto ad altre culture, all'illusione che sia possibile distinguer­ si da queste ultime. Come è stato a più riprese affermato negli scorsi decenni, bisogna distinguere la "c." del culturalismo (la presunzione cioè che ci sia un corpus coeso e condiviso di rappresentazioni, atti­ tudini, credenze ecc.), ciò che oggi nessun antropologo sostiene, dalla c. intesa come insieme strategico di comportamenti e idee, spesso frutto di complesse pratiche di invenzione (in particolare da parte dell'antropologo, sebbene spesso inconsapevolmente: Wagner, 46

1 9 9 2) , di appropriazione e di " extraversione " (B ayart, 20 00) . La lingua rappresenta indubbiamente uno dei mezzi più impo rtanti perché questa finzione di differenza (rispetto all'esterno) e di omoge­ neità e continuità (al proprio interno) possa perpetuarsi attraverso le generazioni . Oggi si tende a dare rilievo a una dimensione congiun­ turale della differenza culturale (continuamente re-inventata, e spes­ so manipolata dai diversi attori in relazione ai particolari contesti in cui si agisce) , per sottolineare che le differenze culturali vengono incessantemente prodotte e - come la c. stessa - esse possono essere pensate adeguatamente solo nei termini di " processi " . S i è spesso affermato che l'antropologia e l'etnografia hanno in passato guarda­ to (non senza nostalgia) soprattutto alle differenze che andavano dissolvendosi, e meno a quelle che andavano invece producendosi. Un'altra delle critiche rivolte al culturalismo è la sua incapacità di concepire ordini diversi di differenza (non solo culturale dunque) per interpretare correttamente comportamenti, fenomeni, conflitti. Far passare per ovvi e naturali principi, valori, comportamenti che sono arbitrari, facendo sì che essi siano interiorizzati dai singoli individui, è ciò che alcuni autori definiscono " ideologia" . Ogni società fonda buona parte dei suoi meccanismi regolatori proprio su questo genere di finzioni; la metamorfosi dell'arbitrario in qualcosa di ovvio, ogget­ tivo e necessario costituisce d'altronde un aspetto essenziale del pote­ re e della sua violenza simbolica. Una recente difesa della validità antropologica del concetto di c., in risposta alle critiche portate nei suoi confronti dal post-strutturalismo, dal postmodernismo e dal femminismo (ad esempio da Abu-Lughod, 1991) , è stata sostenuta da Marshall Sahlins (1999 ) , secondo il quale gli uomini non vivono in una bolla di costruzioni culturali ma attraverso un processo di costan­ te negoziazione fra natura e cultura, situando le proprie esperienze e percezioni fra queste dimensioni, la seconda delle quali è specifica­ men te umana. Il concetto di c. dissolve secondo Sahlins le tradizio­ nali dicotomie filosofiche soggetto/oggetto, mente/materia, cultu­ ra/natura ecc. Per l'etnopsichiatria è importante ricordare il ruolo assegnato da questo autore ai simboli, colonna vertebrale della sua definizione di c. : «il fatto naturale assume una nuova esistenza come fatto simbolizzato» (Sahlins, 1976, pp. 209-10) . Per Sahlins l'esisten47

za umana è infatti simbolicamente costituita e "culturalmente ardinata . Cu ltu ra e personal ità Scuola antropologica che risale agli anni tren­ ta e si sviluppò negli Stati Uniti per merito di Mead, Benedict, Linton, Kardiner, Herskovits e altri. Fra i suoi principi quello secon­ do cui a) in ogni società prevale una personalità di base (o modale, secondo la formula adottata da Cara du Bois: cit. in Manson, 1986, p. 85), caratteristica di quella cultura e l'idea che b) la cultura modella i suoi membri: nei comportamenti, nelle attitudini, negli stili di pensiero, essi sarebbero quindi espressioni tipiche della cultura di appartenenza. Margaret Mead, ad esempio, rifiuta l'idea che le crisi o i conflitti dell'adolescenza siano universali. Gli autori, spesso aven­ ti una duplice formazione o quanto meno un duplice interesse (antropologico e psicoanalitico o psicologico, come nel caso di Mead) costruirono molte delle loro osservazioni sulla base di ricerche condotte sull'infanzia e le prime fasi della socializzazione. Le idee formulate dagli autori caddero però in un circolo vizioso, nell'inca­ pacità di risolvere il problema se fosse prioritario il fattore culturale o quello individuale. Scrive al riguardo Lévi-Strauss (1965, p. xxi): «Il dibattito non ha via d'uscita, salvo ad accorgersi [ ... ] che la formula­ zione psicologica è solo una traduzione, sul piano dello psichismo individuale, di una struttura propriamente sociologica». Il modello deterministico ipotizzato da alcuni dei membri della scuola fu ampia­ mente criticato dalla psicoanalisi, insieme ali' erroneo presupposto che la cultura sia un insieme di idee, credenze, pratiche e pattern di comportamento omogenei che si riprodurrebbe, identico a se stesso, attraverso le generazioni. Alcune delle critiche più severe le furono rivolte da ► Georges Devereux, il quale adottando come principio metodologico quello del complementarismo mostra come sia fuor­ viante la ricerca di qualsivoglia determinismo culturale o psicologi­ co. La crisi della nozione di cultura e l'impossibilità di pensare in termini di causa ed effetto l'ordine dello psichico e quello della cultu­ ra hanno definitivamente lasciato ai margini della storia dell'antro­ pologia questo movimento: a cui pure tocca il merito di aver messo nel suo giusto rilievo il rapporto fra psichismo individuale e cultura. 48

Culture bound syndrome (ces) Il termine indica una sindrome

descritta all'interno di una particolare cultura o in società apparte­ nenti ad una stessa area culturale, ma sconosciuta altrove. Il concet­ to è stato proposto per la prima volta da Pow Meng Yap (1952). L'in­ clusione delle C B S all'interno dei manuali diagnostici della psichia­ tria occidentale ha cercato di risolvere la questione se esse siano da considerarsi disturbi mentali o comportamenti caratteristici di una particolare tradizione cultural-religiosa. Le C B S sarebbero affezioni la cui espressione e il cui significato (individuale e sociale) sono deter­ minati dalla cultura o tributari di essa, ma sono a pieno titolo malat­ tie e considerate tali anche dalle società in cui sono descritte. Di fatto, l'aver individuato nella genealogia di molte di esse gravi malintesi interpretativi e dinamismi storici o sociologici particolari (l'incontro con i colonizzatori e le loro leggi o con i modelli della medicina occi­ dentale) ne ha profondamente ridimensionato il grado di legittimità antropologica e clinica. E ad esempio il caso del windigo, psicosi o isteria artica descritta presso gli indiani Algonchini e caratterizzata dall'angoscia di essere rapiti dagli spiriti e da pulsioni cannibaliche, rivelatasi poi frutto di un fraintendimento, o dell'amok malese, crisi di furore omicida che insorge per lo più in uomini che hanno speri­ mentato un grave sentimento di vergogna, un tempo atto "eroico" estremo ma diventato poi semplice follia criminale (Simons, Hughes, 1985). Ciò ha indotto molti autori a riconsiderare lo statu­ to delle C B S, e sottolineare come di fatto tutte le sindromi sono in misura maggiore o minore "legate alla cultura", e comprensibili solo in riferimento ai modelli, le norme, i valori, le ansie caratteristi­ che di ciascuna società (si pensi ad esempio a come si siano modifi­ cate nell'arco di un secolo le incidenze di disturbi come la depressio­ ne o il disturbo di personalità multipla nelle società occidentali). Che anche le categorie nosografiche e i comportamenti patologici descritti dalla psichiatria occidentale siano fortemente condizionati da valori culturali morali o estetici, rappresentazioni del corpo, ideo­ logie della persona e dell'individuo, rappresenta indubbiamente uno dei contributi più significativi dell'etnopsichiatria. Conferme di questo assunto possono essere ad esempio la bassa incidenza di psico­ si schizofreniche o di anoressia al di fuori delle culture euro-ameri49

cane, la considerevole differenza nell'attitudine a porre diagnosi di schizofrenia e di psicosi maniacale fra Stati Uniti e Gran Bretagna, la scarsissima frequenza del suicidio in Africa. Altri motivi, sia episte­ mologici sia antropologici, hanno contribuito a rendere sempre più dubbio il concetto di C B S o dei suoi analoghi ("disordini psichici etnicamente specializzati", "sindromi ordinate culturalmente", "sindromi determinate dalla cultura" ecc.), nella diffusa consapevo­ lezza che l'incidenza di un'affezione psichiatrica riflette anche l'atti­ tudine diagnostica degli psichiatri in un'epoca e in una società parti­ colari. Simons (ibid. ) ha proposto diversi anni fa di raggruppare alcuni insiemi di C B S all'interno di taxa (ossia unità classificatorie) a partire da somiglianze comportamentali che rifletterebbero, a loro volta, comuni processi fisiologici, ma questa proposta non ha resti­ tuito legittimità alla categoria. La proliferazione diagnostica rimane d'altronde un profilo tipico della psichiatria occidentale, quasi una compulsione (sindrome di Stendhal, sindrome di Ulisse, attacchi di panico, ► P T S D, ► A D H D , ► chronique fatigue sindrome, solo per ricordare alcune delle recenti categorie proposte). Designare con un nuovo termine sintomi e problemi già noti costituisce d'altronde un processo che l'antropologia legge in una prospettiva genealogica come l'indizio per eccellenza della costruzione culturale e della produ­ zione sociale della malattia. Questo processo riflette sempre comples­ se dinamiche storiche e culturali, ma anche professionali.

Curandero, curandeiro Termini utilizzati nei paesi ispanofoni e,

rispettivamente, lusofoni, per indicare la figura del ► "guaritore". Questi termini (non diversamente da quanto accade per i nganga dell'Africa bantu, ifqih del Maghreb, i borom xam xam o i sacerdoti del culto di possessione ► ndoep in Senegal ecc.) sono caratterizzati da un'irriducibile ambiguità e traducono spesso imperfettamente la pratica, la percezione sociale e il sapere di queste figure, spesso defi­ nite nelle lingue locali con formule che non hanno stretti equivalen­ ti nelle lingue latine o anglosassoni (sui c. di Panama cfr. Severi, 1993). In particolare gli studiosi occidentali sono in difficoltà ad accogliere nelle loro traduzioni la non rara sovrapposizione fra tali figure e quelle dello stregone e della strega ( brujo, sorcier, witch) , 50

quella di colui che combatte la stregoneria ( witch doctor) o quella del semplice erborista (herborista, hérboriste, herbalist) . A partire dagli anni settanta l'Organizzazione mondiale della Sanità ha rico­ nosciuto - non senza ambivalenze - la rilevanza sociale dei ► siste­ mi medici tradizionali, e incoraggiato la costituzione di "associazio­ ni professionali", le cui vicende sono state spesso oggetto di contro­ versie (burocratizzazione dei saperi e delle pratiche, uso strumentale delle associazioni da parte di molti guaritori, contraddizioni episte­ mologiche irriducibili fra sistemi di conoscenze spesso reciproca­ mente intraducibili ecc.). Dep ressione m ascherata Il concetto è stato spesso adottato dagli psichiatri africani per sostenere, contro un modello dominante negli anni passati, che sebbene fosse assai più raro il rischio di suicidio, la depressione non era in Africa meno frequente che altrove: ciò che la psichiatria coloniale aveva invece sempre sostenuto. La depressione si manifesterebbe nel continente africano nella forma di disturbi somatoformi o di angoscianti idee persecutorie, coerentemente con le particolari concezioni dell'individuo, gli idiomi della sofferenza e le rappresentazioni del male diffusi in quelle società. Henry H. B. Murphy (1995) e Margaret Field (1960) avrebbero in contesti e con approcci diversi indagato e messo in luce il rapporto fra sviluppo di sentimenti depressivi e credenze nella stregoneria (il primo guar­ dando alle esperienze infantili e alle conseguenze di uno svezzamen­ to traumatico, qual è tipicamente descritto in molte società africa­ ne; la seconda studiando in Ghana le trasformazioni economiche e i conflitti di genere). Gli studi sul rapporto fra cultura e depressione e la critica definitiva dei persistenti postulati evoluzionistici presenti ancora in anni recenti in alcuni lavori (ad esempio, Leff, 1992), sono merito delle ricerche condotte da Kleinman (1980), Good (in Iran: cfr. Good, 2006), Bibeau (1995) in ex Zaire e altri. Deve re ux G e o rges Nasce nel 1908 a Lugoj (allora Ungheria, in una regione che sarà poi annessa alla Romania): trasferitosi a Parigi dopo il suicidio del fratello, cambia nome nel 1933 (quello origina­ rio era Gyorgi Dobo), segue corsi di fisica diretti da Marie Curie, 51

comincia i suoi studi di etnologia diplomandosi in lingue orientali e avendo come p rofessori Lucien Lévi-Bruhl e Marcel Mauss. Grazie a una borsa della Rockfeller Foundation può trasferirsi negli Stati Uniti dove conduce ricerche fra gli Hopi e i Mohave, oltre che fra i Moi Sedang (in Vietnam, presso i quali trascorre circa diciotto mesi). Nel 1938 ottiene il suo dottorato sotto la direzione di Alfred Kroeber. La guerra lo richiama in Francia come ufficiale. Ritornato a Parigi nel 1946, comincia un'analisi con Mare Schu­ lemberg: dopo un anno quest'ultimo la interrompe e spinge D. ad accettare un incarico al Top eka Institute, allora diretto da Karl A. Menninger, dove la questione del trauma nei veterani della Secon­ da guerra mondiale è al centro degli interessi della clinica. D. p rodurrà una quantità straordinaria di lavori, articoli, condurrà seminari, sem p re rimanendo però in una p osizione difficile nei confronti di quella Società psicoanalitica americana che lo aveva accolto con diffidenza. Negli ultimi anni della vita i suoi scritti saranno dedicati sop rattutto all'area dell'ellenistica e a un a pp roccio etnopsicoanalitico alla storia ( Cléomene, ou le roi fou, 1995). Fra i concetti che D. ha lasciato in eredità, quelli di "neutralità cultura­ le" (ossia l'atteggiamento che solo permette di interpretare corret­ tamente disturbi e comportamenti in un setting interculturale), di "controtransfert culturale" (la reazione di cui spesso non si ha che una tenue consa p evolezza e che tuttavia è decisiva nell'orientare reazioni, attitudini morali o inter p retazioni nei confronti del paziente, e che p ertanto deve essere riconosciuta e analizzata alla stregua del controtransfert messo in luce da Freud nella relazione fra analista e analizzando); di "Edipo invertito" (l'ostilità del figlio nei confronti del genitore di sesso opposto anziché di quello dello stes­ so sesso, cioè la madre fra gli indiani Mohave) ecc., sono fra i mate­ riali fondatori dell'etnop sichiatria. La nozione di "com p lementari­ smo" è essenziale p er il nuovo ambito p luridiscip linare (non inter­ disciplinare, come amava sottolineare). Derivato dal " principio (la fisica quantistica preferisce però l'espressione "teorema") di inde­ terminazione" di Niels Bohr e Werner Heisenberg, secondo il quale non si può nello stesso momento conoscere la p osizione e la veloci­ tà di una p articella (che ha anche caratteristiche di onda e non solo 52

corpuscolari), il complementarismo considera impossibile realizzare nello stesso momento l'osservazione e l'interpretazione etnologica (o sociologica) da un lato, psicologica dall'altro, di un dato feno­ meno. Queste interpretazioni dovranno piuttosto incontrarsi e giustapporsi in un momento successivo, senza la pretesa di offrire, ciascuna isolatamente, una spiegazione esauriente o peggio ancora deterministica (culturale in un caso, psicologica nell'altro) del feno­ meno considerato (due dunque le causalità da articolare, psichica e culturale). Una formulazione altrettanto efficace dei rapporti fra psichico e sociale e vicina a questa prospettiva è quella di Lévi­ Strauss (1965, p. xxv1 1 1), là dove afferma che lo psichismo indivi­ duale non riflette il gruppo né lo predetermina ma lo completa: «Questa complementarietà tra psichismo individuale e struttura sociale offre le basi alla fertile collaborazione, reclamata da Mauss, che si è realizzata tra etnologia e psicologia». Infine, l'aspra critica del culturalismo e del relativismo culturale condotta da D., la consapevolezza del fondamento culturale di molte categorie della psichiatria occidentale (trauma, stress, schizofrenia ecc.) anticipano alcuni degli sviluppi della contemporanea antropologia medica. Con D. l'etnopsichiatria definisce il suo originale e autonomo statuto epistemologico.

Dhat syndrome Perdita - per lo più notturna - di sperma (dhat è il

termine indi, meho quello oriya), spesso insieme ad urine, accompa­ gnata da ansia, modificazioni del tono dell'umore, sentimenti ipocon­ driaci, senso di debolezza e stanchezza, decolorazione delle urine. Diffusa nel subcontinente indiano, la sindrome è stata interpretata come un equivalente della depressione; fra gli Oriya è descritta la possibile evoluzione verso disturbi mentali più gravi (snayuvik durba­ kata), caratterizzati da pensieri pessimistici o da una ingravescente preoccupazione di tipo ipocondriaco (gadadvega) . Questa nozione è evocata anche nel caso di un grave disturbo mentale (pagala) che compaia in modo "inspiegabile" in un soggetto giovane ma prematu­ ramente invecchiato (Bottéro, 1993). Le cause proposte per spiegare l'insorgenza della d. s. sono diverse: alterazioni digestive, polluzioni notturne troppo frequenti ecc. L'affezione ruota intorno all'idea che

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lo sperma costituisca una sostanza che misura la forza, l'energia, la potenza fisica. Descritta anche negli immigrati provenienti da quelle aree, essa è connessa, nelle rappresentazioni culturali locali, anche ad attività sessuali eccessive o trasgressive: ciò che rinvia ai temi della medicina delle passioni (Descuret, 1856) e dell'igienistica, diffusi in Europa nel corso dell'Ottocento e del Novecento, dunque alla dimen­ sione morale della malattia. Dismorfofobia Denominata oggi disturbo di dismorfismo corporeo, è la paura, la fobia appunto, che vi siano difetti in alcune parti del proprio corpo o nel proprio aspetto esteriore. Talvolta all'origine vi sono lievi o impercettibili anomalie, le quali diventano oggetto di una crescente attenzione da parte dei pazienti sino ad invadere totalmen­ te il campo dell'esperienza e delle relazioni e a determinare un eleva­ to grado di sofferenza. La d. si accompagna talvolta ad altri gravi disturbi fobico-ossessivi, può evolvere come ► anoressia o bulimia o condurre al suicidio. Nelle ricerche che chi scrive ha condotto in diverse aree culturali dell'Africa subsahariana (i Dogon del Mali, i Bulu del Camerun, i Manyika del Mozambico ecc.) non si sono mai incontrati disturbi analoghi alla d. Non è difficile ipotizzare che la frequenza di questo disturbo sia correlato non tanto alle ideologie della perfezione corporea o della bellezza, comuni a tutte le società (che hanno d'altronde sviluppato, senza distinzione, proprie strategie di intervento estetico sul corpo), quanto piuttosto a) alla celebrazio­ ne di un desiderio individuale illimitato e del diritto di ri-costruire a partire da esso il proprio corpo; b) al parallelo sviluppo di tecnologie che rendono possibili (o quanto meno promettono) i cambiamenti desiderati; e) ali'affermarsi di una vera e propria industria della chirur­ gia plastica, che circolarmente contribuisce ad alimentare questo immaginario faustiano di modificazione del corpo (e la sofferenza derivante dall'impossibilità di realizzare quest'ultima). D ivi n az i o n e Termine che designa un insieme estremamente complesso ed eterogeneo di tecniche, rivolte a decifrare cause o signi­ ficati in eventi già occorsi (malattie, casi di morte, sventure, aborti ripetuti ecc.), predire il corso di eventi o vicende a venire (viaggi, 54

svolgimento di cerimonie ecc.), decretare il tempo migliore per l'ese­ cuzione di rituali ecc. La d. è stata descritta in civiltà passate e contemporanee, rivelando agli studiosi una precisa logica, un comu­ ne paradigma "indiziario" che Carlo Ginzburg (1979) ha ricono­ sciuto comune ad altri saperi (arte venatoria, medicina, diritto ecc.). Le tecniche divinatorie sono molteplici (visceromanzia, oniroman­ zia, geozoomanzia ecc.: AA.vv., 1982), quanto i materiali sui quali si fondano (pietre, conchiglie, acqua, bastoncini, ossa, semi, sabbia, piombo fuso, macchie di caffè ecc.); esse variano nel tempo, prenden­ do spesso a prestito pratiche di origine culturale e geografica anche lontana: l'influenza della cultura araba e della lettura dei segni sulla sabbia, ad esempio, si è estesa in buona parte dell'Africa subsahariana, come l'uso delle conchiglie di ciprea, utilizzate anche nel ► candom­ blé brasiliano. Bernard Maupoil, amministratore delle colonie, è stato fra gli autori ai quali si deve una delle più rigorose analisi della geoman­ zia in Africa (Maupoil, 1943). Fra i sistemi divinatori più celebri quel­ lo di Ife, fra gli Yoruba della Nigeria, caratterizzato dal lancio ripetuto di pietre e da una logica combinatoria che articola centinaia di rispo­ ste nella costruzione del responso. Il sistema tinhlolo, nel Mozambico meridionale (Granjo, 2007a, p. 8), descritto già all fine del XIX secolo, costituisce un altro fra i più noti "sistemi di inscrizione", dove le "cose stanno per altre cose", e nel quale la divinazione può essere definita come un catalizzatore di relazioni e comunicazioni fra sfere dell'espe­ rienza. Non meno celebre, e non meno complesso, il sistema divina­ torio studiato fra i Mundang (Ciad) da Adler e Zempléni (1972). La d. non si limita a prevedere il futuro (o a interpretare il passato): si tratta di una macchina per pensare diversamente il presente e le sue sfide, evitare l'insuccesso e la disgrazia o rendere favorevoli le circostanze, ciò che mostra, fra l'altro, come le culture afro-brasiliane non siano affat­ te disposte a rassegnarsi al destino, secondo quanto è stato sostenuto spesso in passato, anzi talvolta l'individuo prova a modificarne attiva­ mente il corso (Horton, 1983). Non meno celebre è il sistema delle quattro tavolette descritto presso i Tsonga da Junod (1927), un siste­ ma che venne influenzato dalle tecniche divinatorie arabe intorno alla metà dello scorso millennio, ed è stato recentemente analizzato in Botswana da Werbner (1989, pp. 19-60) e van Binsbergen (1991).

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Werbner ha proposto a questo riguardo il termine di "microdram­ matica" p er mettere in luce la successione di momenti di tensione, catarsi e insight che scandisce il processo divinatorio (e già Turner aveva definito la d. come la la "fase di un processo sociale": 1976, p . 332). Come ebbe a notare Charles Monteil (1931) scrivendo sulla d. nell'Africa occidentale, «ogni cosa è segno per colui che sa». D ra m m a l i n gu istico L'esp ressione è di Albert Memmi (1957), che la utilizza in riferimento alla divisione affettiva e p sichica provocata dal dominio coloniale nella coscienza dello scolaro che vive una profonda scissione tra lingua materna (umiliata, svalutata, nascosta, sebbene sia quella nella quale egli ha appreso ad esprimere sentimen­ ti e p assioni) e quella del colonizzatore che incontra a scuola. Questa divisione dolorosa fra due universi simbolici in conflitto trasforma la diglossia del colonizzato non nell'atteso arricchimento del poliglotta ma, appunto, in "d. 1.". Anche i narratori pagavano, secondo l'auto­ re, un caro prezzo all'interno di un contesto nel quale la loro lingua era stata progressivamente "disseccata", solo rimanendo loro, per affermarsi come scrittori e intellettuali, l'uso della lingua del colono. D ra petom a nia Il termine fu coniato da Cari Cartwright, medico ad Haiti, nel 1851, per definire (in termini psicopatologici!) il tentativo "ostinato" degli schiavi di fuggire dalle piantagioni e dalle orrende condizioni di quella misera vita. Il desiderio di libertà veniva così artificiosamente trasformato in un'affezione passibile di diagnosi (non erano quei tentativi di fuga segnati dalla dannazione della "ripetizione", come ogni altro sintomo ?). Cartwright non aveva dubbi che il linguaggio della medicina fosse quello appropriato per nominare com p ortamenti, "vizi morali" e atti considerati come "devianti" nella popolazione nera. Egli propose infatti un'altra cate­ goria pseudodiagnostica, la dysaesthesia Aethiopica, per parlare di quella che era secondo lui un'attitudine caratteristica dei neri liberi: la loro patologica indifferenza, che si manifestava sotto le spoglie di un'indolenza ostinata, di rip etute disobbedienze e di forme diverse di perfidia, di una singolare propensione a rubare e di una singolare insensibilità al dolore delle punizioni corporali.

Ed i po africa n o È il titolo del libro scritto da Marie-Cécile (psicoa­ nalista) ed Edmonde (filosofo) Ortigues nel 1966, all'interno dell'e­ sperienza condotta dalla ► scuola di Dakar-Fann. Nel loro lavoro l'attività clinica s'intreccia ad un'accurata analisi di motivi culturali, miti, rituali terapeutici, sogni, conflitti affettivi o veri e propri distur­ bi psicopatologici, presi in esame sullo sfondo delle trasformazioni sociali e familiari del Senegal postcoloniale. Vi spicca la riflessione sui temi della costruzione culturale del complesso edipico, alla ricer­ ca delle caratteristiche che esso avrebbe fra i gruppi wolof, lebu e serer: e ciò a partire dal diverso posto assegnato al Padre e alla Legge (sussunti nella figura dell'Antenato). Lo spostamento del conflitto edipico sulle figure dei pari (fratelli, compagni delle classi d'età ecc.) sarebbe all'origine di esperienze come quelle del delirio persecutorio, dei modelli di stregoneria e di fattura, della possessione (da parte dei spiriti rab) . Merita di essere ricordata la critica espressa nel 1952 da Fanon (1996) a proposito della presunta universalità del comples­ so edipico e della nevrosi che ne scaturisce: per Fanon il complesso edipico non esisteva nella società antillana, a carattere matriarcale. Ed u cazione, etn oped agogia , etnopsicologia Gli studi antropolo­ gici hanno mostrato come ogni società sia in possesso di un patri­ monio di conoscenze e modelli da trasmettere relativamente all'e­ ducazione, ai rapporti fra bambini e adulti, così come di peculiari rappresentazioni del bambino e dell'infanzia: rappresentazioni che a loro volta determinano i modi di relazione fra adulti e bambini. La figura del bambino-antenato (Nathan et al., 2000) ne dà ampia documentazione. Le ricerche psicologiche, inizialmente orientate a descrivere le altre società come scarsamente preoccupate dell'infan­ zia, e il mondo del bambino come povero di stimoli ludici o educa­ tivi, hanno con il tempo riconosciuto la presenza di precise strategie educative, finalizzate ali'apprendimento, alla socializzazione, allo sviluppo cognitivo e alla maturazione del bambino. La partecipa­ zione a cerimonie e rituali, o l'esperienza dei riti iniziatici, si è rivela­ ta ad esempio un importante momento pedagogico di trasmissione di conoscenze e modelli di comportamento (miti, memorie genea­ logiche, habitus ecc.). Lo studio del rapporto fra emozioni e cultu-

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ra, della natura variabile o universale delle prime, e del modo in cui si apprendono le emozioni (del modo cioè in cui si articolano l'espe­ rienza interna e la maniera culturalmente codificata di esprimerla e condividerla) ha rappresentato un ambito centrale dell'etnopsicolo­ gia contemporanea (antropologia delle emozioni: Abu-Lughod, Lutz, 1990). L'apprendimento per imitazione consapevole e quello enattivo (mediato dall'azione e dalla manipolazione degli oggetti, e dalla rappresentazione senso-motoria corrispondente) sono stati riconosciuti inoltre come caratteristici in quelle società dove scarsi o assenti sono i momenti formalizzati dell'apprendimento (scuola). Zempléni e Rabain (1973) ne avevano sottolineato l'importanza già negli anni settanta. Sullo sfondo della crescente consapevolezza che esistono altre pedagogie e psicologie, come quelle realizzate un tempo all'interno di società segrete, ad esempio quella Poro, quella Sande, quella Humsi fra i Mende (Sierra Leone, Liberia), ha preso consistenza anche l'idea che la psicologia occidentale non sia che una etnopsicologia fra le altre (Lutz, 1985). Oggi un campo di crescente interesse è l'universo delle relazioni pedagogiche nella scuola multi­ culturale: dove, al di là della presa di coscienza di quanto la scuola sia un luogo di contrasti, emerge in modo crescente la consapevo­ lezza che in essa vengono a confrontarsi modelli di apprendimento e valori morali spesso in conflitto, ciò che rende urgente l'elabora­ zione di strategie comunicative e programmi d'insegnamento sempre più flessibili e articolati.

Effica cia si m bolica Concetto proposto da Lévi-Strauss nel 1949,

con il quale l'autore definiva la natura dell'efficacia dell'azione tera­ peutica di uno sciamano cuna (Panama) nel trattamento di un parto difficile. Precedenti illustri di questo lavoro, rivolti ad indagare feno­ meni di segno opposto, sono i lavori di Mauss sulla suggestione collettiva dell'idea di morte, del 1924, e quelli di Cannon, del 1942, sulla morte vodu (indagata nelle sue componenti fisiologiche: uno studio che sarà ripreso dallo stesso Lévi-Strauss). Nell'analisi di Lévi­ Strauss la melopea, composta da diverse centinaia di versetti e canta­ ta in lingua esoterica (il testo era stato trascritto anni prima da Nils Holmer ed Henry Wassen con il titolo Mu-Igala or the Way ofMuu,

a Medecine Songfrom the Cunas ofPanama), riusciva ad alleviare il dolore della partoriente e permettere che il travaglio avesse buon esito grazie alla trasposizione della sua condizione fisica all'interno di un' «anatomia mitica corrispondente meno alla struttura reale dei suoi genitali quanto a una sorta di geografia affettiva che identifica ogni punto di resistenza e di desiderio» (Lévi-Strauss, 19786). Il canto avrebbe per scopo principale quello di nominare e mostrare questi ultimi alla paziente in una forma che possa essere appresa dal pensiero cosciente o dall'inconscio. Più in generale il concetto, quan­ do applicato al contesto della cura, esprime la possibilità di rendere pensabili esperienze che si presentano inizialmente in termini affet­ tivi, e accettabili per la mente quei «dolori che il corpo si rifiuta di tollerare» (ivi, p. 221), e ciò proprio grazie al contributo della parola e dei simboli. L'e. s., secondo Lévi-Strauss, consisterebbe in questa «proprietà induttrice» di cui sarebbero dotate «strutture formalmen­ te omologhe, edificabili, con materie prime differenti, ai differenti stadi del mondo vivente: processi organici, pensiero inconscio, pensiero riflesso» (ivi, p. 226). Per De Martino (1977, 1987, 1995) è la struttura del mito a costituire la leva che permette di destorifìcare il dramma individuale consentendone così una risoluzione simboli­ ca a valenza terapeutica. Negli studi medico-antropologici si sotto­ linea come l'efficacia terapeutica debba essere considerata sempre anche nella sua accezione sociale, caratteristica cioè dei particolari orizzonti culturali con i quali si definiscono la salute e la malattia, la finalità della cura o la guarigione, oltre che in rapporto alle risorse di cura disponibili nei differenti contesti sociali e storici. Tambiah (1995) ha indagato la logica e l'efficacia del rituale e messo in luce le ragioni linguistiche che possono spiegare il successo del rito e delle formule magiche. Rivolta al superamento di tali approcci è l'origi­ nalissima riformulazione dell'e. s. proposta da Pierre Bourdieu sulla rivista "Actes de la Recherche en Sciences Sociales" (ripreso in Bour­ dieu, 1982, pp. 121-34). L'autore definisce in quel testo l'e. s. dei riti d'istituzione ( ► riti di passaggio) come il «potere di agire sul reale agendo sulla sua rappresentazione». Questa definizione è partico­ larmente feconda per una prospettiva etnopsichiatrica ed etnopsi­ coanalitica che esplori l'efficacia della cura e al cui interno i termini 59

"e. s." o, tout court, "psicologica" da un lato ed "efficacia terapeuti­ ca" dall'altro coincidono. Adottando una prospettiva non molto lotana da quella degli autori prima evocati, anche Benoist (1993, pp. 1 8 2 ss.) ha suggerito che curare il male significa curare la corri­ spondente rappresentazione. Il guaritore cura la malattia perché agirebbe, in definitiva, sulle rappresentazioni del male e della sua ► ezio­ logia (agenti mitologici, forze mistiche ecc.), e sulla base di un consen­ so sociale; lo psicoanalista agirebbe in modo analogo sull'analizzando operando su una particolare rappresentazione dei processi psichici (l'in­ conscio strutturato come un linguaggio e rivelato dall'eco dei signifi­ canti, ad esempio) e della storia (I' angoscia e il sintomo sono generati dall'affetto rimosso generatosi in ca-occorrenza con esperienze trau­ matiche, non da queste ultime in quanto tali ecc.); i riti iniziatici, quanto a essi, trasformano efficacemente e in modo duraturo lo status sociale e l'esperienza intima degli adepti agendo sulle rappresenta­ zioni culturali del ciclo vitale, dei rapporti di genere, della circolazio­ ne del potere e del sapere, attraverso il racconto del passato mitico ecc. Infine, come la nozione di e. s. indirettamente lascia intendere, e come le ricerche di Mauss e Cannon avevano già mostrato, i simboli possono anche essere letali, o generare sofferenza: i disturbi di non pochi immigrati, catturati nelle reti simboliche di interdetti, vincoli rituali o tradizioni, parlano di questo rischio e di questa dimensione ancora poco indagata.

Embodiment, incorporazione Questa nozione ha conosciuto nell'an­

tropologia medica degli ultimi vent'anni un largo successo, così come più in generale nelle scienze sociali, tanto da far dire che si è assistito a un vero e proprio processo di "somatizzazione" di queste ultime. Proposto negli anni novanta da Csordas, inizialmente in rife­ rimento alle esperienze della sofferenza, della cura, e della preghiera nei movimenti carismatici, il concetto di incorporazione ha una lunga storia nel pensiero antropologico, e le sue origini possono esse­ re rintracciate nell'espressione "tecniche del corpo" di Marce! Mauss (1934, in Mauss, 1965) e nell'analisi che il padre dell'etnologia fran­ cese aveva condotto relativamente al concetto di habitus. Anche lo studio del giovane Robert Hertz, allievo di Durkheim e Mauss, sulla 60

destra (1928, in Hertz, 1994) , rapp resenta un altro passaggio importante nell'affermarsi di tale nozione. L'analisi antropologica del corpo ha cercato in vari modi di comprendere come le forze sociali e culturali plasmassero i corpi (gesti, posture, abilità, sensibilità ecc. ) , e come il corpo, una volta sottratto all'ege­ monia delle sole leggi naturali, potesse essere concepito come sogget­ to di conoscenza, di es p erienza e di " discorso " . Questo a pp roccio rovescia la gerarchizzazione cartesiana che vedeva il corpo essenzial­ mente come un oggetto governato dalla res cogitans, ciò che i model­ li della medicina psicosomatica avevano di fatto in b uo na parte accolto e ri p rodotto (nei modelli della p sicosomatica, i disturbi del cor p o assumono essenzialmente lo statuto di idioma cifrato di conflitti psichici) . Ma esso ann ulla anche la separazione a lungo dominante nel dibattito antropologico e filosofico fra rappresenta­ zione ed es perienza. La nozione di incor p orazione e, in p articolare, di " corpo senziente " , è s tata al centro di un 'originale analisi in Nancy Scheper-Hughes e Margaret Lock ( 1987) , all'interno di una riflessione sensibile ai contributi del femminismo e che - accanto al corpo biologico e al corpo fenomenologico, fatto di vissuti ed espe­ rienze individuali - metteva in luce la necessità teorica per il p ensie­ ro antropologico di analizzare il " corpo politico " , campo costruito ed esperito alla frontiera di forze economiche, sociali, ideologiche spesso in conflitto . Nella riflessione antropologica sulla nozione di incor p orazione, le riflessioni di Gramsci e di Foucault hanno illu­ minato as p etti decisivi e p ermesso di individuare come le forze del dominio operino attraverso il " governo " dei corpi ( oltre che delle coscienze) , e come p ro p rio in questo territorio si p ossano es p rimere forme di contestazione e strategie contro-egemoniche. L'espressione embodiment ha conosciuto molteplici usi, anche in forma aggettiva­ ta ( S toria incor p orata, memoria incor p orata ecc. ) : ad esem p io in riferimento alle cerimonie di p ossessione ( dove, ad essere ri p rodot­ ti , sono la memoria e il conflitto incorporati dei dominati o dei discendenti degli schiavi) , o a condizioni di povertà e miseria (" incorporazione delle ineguaglianze " : Fassin, 2002). L'analisi degli habitus, degli stili, è stata rinnovata dagli studi di Pierre Bourdieu ( celebri i suoi lavori sulla distinzione o sullo stile delle classi domip reminenza della mano

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nanti e dei ceti intellettuali), di Michel de Certeau (1981a: le pratiche quotidiane e l'arte del fare), di Achille Mbembe ( 2000 : l'habitus mentale "di guerra", incorporato nelle giovani generazioni di molti paesi africani). EMDR

(Eyes Movement Desensitization Reprocessing) Tecnica tera­

peutica introdotta negli Stati Uniti da Nancine Shapiro (Shapiro, 2000), diretta alla cura delle conseguenze di esperienze traumatiche. L'azione terapeutica sarebbe mediata da un intervento di tipo cogni­ tivo (stimoli alternati e associati a fantasie guidate), rivolto a ristrut­ turare quelle connessioni neuropsicologiche che perpetuerebbero la sofferenza originata dall'evento traumatico. L'EMDR è stato proposto in qualsivoglia contesto culturale e sociale, e nei confronti di qualun­ que tipo di trauma, perché la tecnica non sarebbe dipendente dal medium linguistico (e dunque dalla particolare lingua parlata dal paziente); da qui le pesanti critiche che le sono state rivolte da non pochi antropologi ed etnopsichiatri, in ragione della sua indifferenza a variabili culturali o simboliche, decisive nell'esperienza del trauma. Esegesi soci a l e Concetto proposto dall'etnologo e psicoanalista Andras Zempléni per indicare il lavoro collettivo attraverso cui si negoziano le cause, il nome, l'interpretazione e la cura della malattia, la cui esperienza - sottratta alla vicenda privata - diventa oggetto di un complesso processo di socializzazione e di un non meno comples­ so "uso sociale" della sofferenza e della malattia. Esorcism o Termine che solitamente indica l'azione di espellere il diavolo o lo spirito responsabile della ► possessione. Questo termine ha un'origine complessa di cui testimonia l'Antico Testamento, dove il rito espiatorio comportava il sacrificio di un animale (una gioven­ ca rossa) da immolare, ma anche l'invio nel deserto di un capro espia­ torio sul quale il sacerdote aveva confessato le colpe e le iniquità del popolo. La pratica era preesistente e fu incorporata dalla legge mosai­ ca. Nel deserto, terra di Azazel ("forza di Dio", nome di un potente demone; Levitico 16, 20), l'animale portava con sé, allontanandolo, il male. Nel Nuovo Testamento (Matteo 8, 16; 8, 28; Atti degli Aposto62

li 16, 18; 19, 13 ecc.), il termine indica soprattutto l'atto di cacciare via gli spiriti e i demoni dai corpi delle vittime, per lo più afflitte da mali. In Africa le pratiche esorcistiche introdotte massicciamente attraver­ so l'evangelizzazione e l'azione dei missionari protestanti, hanno generato particolari contrasti nella gestione delle esperienze di posses­ sione, ma anche nuove forme di esperienza di quest'ultima: come in Madagascar, soprattutto per merito dei missionari protestanti. Fasi esorcistiche e fasi adorcistiche ( ► adorcismo) sono talvolta presenti all'interno dello stesso culto di possessione. Bisogna ricordare infine il caso dell' inorcismo, introdotto da Luis D. Polanah (cit. in Bastide, 1976, pp. 123-5) in Mozambico: il termine indica secondo questo autore il passaggio dello spirito responsabile della possessione dal malato all'esorcista; successivamente si assiste alla fase propriamente esorcistica, ossia l'espulsione definitiva dello spirito dal corpo del nhianga ( ► curandero). Etn i a Come già notava Emile Benveniste (1969, p. 368), «ogni appellativo di carattere etnico in epoca antica ha carattere differen­ ziale e oppositivo: nel nome che un popolo si dà c'è, manifesta o meno, l'intenzione di distinguersi dai popoli vicini». Tale nozione ha conosciuto però peculiari forme di cristallizzazione in epoca colo­ niale, in quanto strategicamente utile ai disegni di dominio e di controllo territoriale delle potenze europee. Il suo abuso, all'origine di fraintendimenti già da tempo denunciati da storici e antropologi che hanno messo in luce il processo di astrazione teorico perseguito a dismisura da queste stesse discipline al cospetto di alcuni dati empi­ rici (Amselle, M'Bokolo, 2008), ha generato una crescente reifica­ zione del sentimento di appartenenza e dell'identità etnica (Amselle parla di "feticismi etnici"): in molti casi presente già prima dell'arri­ vo dei coloni, ma indubbiamente lontano da quelle forme in cui esso sarebbe poi diventato un "precipitato storico" (nel senso chimico del termine) a partire dalla manipolazione realizzata da questi ultimi. Uno dei paradossi di tale concetto è che, benché costruito, benché artificioso, esso non di meno finisce spesso con l'essere rapidamente interiorizzato (e manipolato) da coloro che sono stati oggetto di questa vera e propria cerimonia del battesimo: James Clifford (1999)

annota a giusto titolo come le vittime dell'impero sono certo debo­ li, ma di rado passive. Questo aspetto deve essere tenuto in conside­ razione per non concludere frettolosamente che le società e gli attori africani abbiano subito passivamente tale manipolazione e che le attuali etnie "originino esclusivamente" dall'atto coloniale di rita­ gliare gruppi e popolazioni, ciò che paradossalmente rischia di ripro­ durre un punto di vista etnocentrico (Verdeaux, 1987). Bayart (1996) ricorda a questo riguardo che vi può essere coscienza etnica senza etnia, ciò che obbliga a considerare come la messa in luce della natura fitti­ zia del concetto di e. non dissolve automaticamente i problemi che la sua manipolazione o costruzione ha spesso generato. La critica sull'abuso di tale concetto, nella consapevolezza che esso risulta "effi­ cace" (nel bene e nel male) proprio in quanto ambiguo, un concet­ to pret à porter è stato detto, deve essere tenuta presente nella pratica clinica dell'etnopsichiatria, per evitare di riprodurre identificazioni immaginarie degli individui con universi culturali assai più fram­ mentati ed eterogenei di quanto in passato si sia riconosciuto. Il lavo­ ro clinico con gli immigrati rivela d'altronde proprio come questo territorio di identificazioni e ambivalenze sia decisivo nell'insorgen­ za di non pochi conflitti e disturbi. Etnocentrismo Termine proposto da William Graham Sumner nel 1906 per indicare l'attitudine, universale, a considerarsi migliori e unici (Folkways: A Study ofthe Sociologica! Importance ofManners, Customs, and Morals) . Tale tendenza viene descritta da Sumner in particolare presso i popoli primitivi, e fonda la distinzione noi/loro già in molti etnonimi (il cui significato letterale è spesso espressione dell'opposizione uomini/ non uomini). Ali'e. inteso soprattutto nella sua accezione negativa (intolleranza, giudizi sprezzanti e razzisti nei confronti di membri di altre culture, gerarchizzazione delle diffe­ renze ecc.) si è opposto spesso il ► relativismo culturale. La defini­ zione proposta da De Martino (1977) di "e. critico" intende sottoli­ neare sia l'assunzione consapevole dei limiti, delle derive e dei rischi insiti in una prospettiva dogmaticamente etnocentrica (soprattutto quando, non riconosciuta dal ricercatore, questa orienti le sue teorie e interpretazioni), sia la necessità di rassegnarsi ad una piccola dose di 64

e.: inteso non in senso morale ma come incorp orazione ineluttabile di valori, cognizioni, sistemi di giudizi, epistemologie implicite che guideranno necessariamente il nostro incontro con l'Altro culturale, i nostri giudizi su altre società o i nostri schemi interpretativi di espe­ rienze religiose, rituali ecc. Le sue pagine sullo "scandalo dell'in­ comp rensione reciproca" e sulla necessità di una dup lice tematizza­ zione del "proprio" e dell"' alieno" come la via maestra dell'etnogra­ fia costituiscono anche p er l'etnop sichiatria un'indicazione ricca di suggestioni. Nella clinica interculturale la nozione di e. critico è doppiamente preziosa per evitare nella diagnosi tanto falsi negativi (attribuire comportamenti ed esperienze unicamente a differenze culturali senza riconoscerne la natura di "sintomi") quantofalsi posi­ tivi (adottare ciecamente la propria semiologia e interpretare secon­ do le proprie categorie diagnostiche e le proprie teorie della perso­ nalità esperienze, discorsi, atti che possono avere significati diversi e comp lessi). Questi rischi sarebbero stati messi in luce con forza p arti­ colare anche da Devereux. Etnopsich iatria Solitamente questo termine, coniato intorno alla p rima metà del Novecento da Louis Mars (1969) ad Haiti e ri p reso p oi sia da alcuni autori della scuola di Dakar-Fann sia da p sichiatri coloniali come Carothers (nel 1953, in Kenya), conosce la sua acce­ zione moderna e la sua rigorosa definizione con ► Georges Deve­ reux, il quale cercherà p oi di p rendere le distanze da esso p er la confusione che comincia a caratterizzarne l'uso in quegli anni. Diventa spesso difficile infatti delimitare l'e. nei confronti dell'et­ no p sicoanalisi o della p sichiatria transculturale, considerato l'uso spesso flessibile di questi termini da parte dei diversi autori. Vi si può riconoscere, quale che sia la p ros p ettiva adottata, l'interesse p er l'esplorazione sistematica del rapporto fra cultura e psichismo e di quello fra contesto socioculturale, malattia mentale e cura. E, p er aggiungere un'ulteriore osservazione, etno-psich-iatria è un termi­ ne composto da tre segmenti, dove solitamente il primo - conside­ rato variabile, e sinonimo di culturale - è giustapposto al secondo e al terzo, immaginati invece come significati universali (la scienza che cura le malattie della psiche) : ciò che non è, mancando una defini-

accettata di ciò che è la " cura" e di ciò che è lo zione universalmente .... "psichismo". E bello pensare, nello spirito di Devereux, che questo sapere possa considerare fra i suoi ambiti di applicazione anche la "cura della società", o se si preferisce della cultura, come uno dei suoi ambiti fondamentali: cura in senso filosofico, intesa come ricono­ scimento e disvelamento di quelle contraddizioni sociali talvolta occultate e oggettivate proprio dalla diagnosi "psich-iatrica". Anche per ciò che concerne il dibattito fra antropologia e psicoanalisi, o tout court il territorio dell'etnopsicoanalisi, un'abbondante letteratura indica gli irrisolti problemi ma anche le promesse di questo dialogo (Beneduce, Roudinesco, 2005a; numero speciale del "Journal des Anthropologues", 1997, n. 64-65 ecc.). Etnoscienze Se tale termine si deve sostanzialmente a French (1957), già dalla fine dell'Ottocento vi era l'abitudine di anteporre il prefisso etno- a varie discipline. Come ricordava uno dei massimi glottologi e antropologi italiani, Raimondo Cardona (1985 ) , il termine designa almeno due ambiti: a) l'insieme di conoscenze botaniche, mineralo­ giche, psicologiche ecc. caratteristiche di una particolare etnia o popo­ lazione (ed è questo solitamente l'uso del termine anche in etnopsi­ chiatria: etnopsichiatria mohave, etnopsichiatria maghrebina ecc.), il cui studio è solitamente opera di un antropologo; b) una scienza i cui limiti sono ritagliati sui confini geografici di un particolare habitat, ma il cui studio è affidato a un botanico, mineralogo, psicologo ecc. parti­ colarmente attento alle denominazioni locali. Il dibattito sull'"etnofì­ losofia africana", criticata da Hountondji (1977) , ha espresso questa tensione concettuale: una tale filosofia sarebbe espressione di un presunto ''spirito africano" comune all'intero continente o, più banal­ mente, di un pensiero i cui sviluppi e contributi sono indagati, stori­ camente e geograficamente, in relazione a quest'ultimo (Mudimbe, 20 07) ? Tanto l'etnomedicina quanto l'etnopsichiatria degli anni passati sono talvolta rimaste prigioniere di tali interrogativi, e solo recentemente si è compreso che non esistono saperi locali o tradizio­ nali che non siano stati attraversati da altre epistemologie, contami­ nati cioè da altri saperi e tradizioni storico-epistemologiche che ne hanno influenzato le mutazioni, le categorie e lo sviluppo. 66

Evol uzionis m o Teoria che, dalle formulazioni originarie dovute a Darwin e Wallace relativamente alle specie naturali e alle mutazioni genetiche favorite o meno dall'ambiente, determinanti nella selezio­ ne di alcuni genotipi in luogo di altri, passò nelle scienze sociali e giuri­ diche trovando ampia eco nei modelli che intendevano spiegare l'esi­ stenza di differenze nelle strutture sociali, nelle istituzioni (famiglia, clan ecc.), negli stili di pensiero. Questa applicazione analogica dei principi della selezione naturale e dell'e. alle scienze sociali fu spesso all'origine di giudizi arbitrari sulle altre società umane, considerate inferiori e situate ad un gradino più basso dell'evoluzione umana. I processi psichici in queste popolazioni sono stati spesso considerati come dotati di un'articolazione meno ricca e sofisticata sotto il profi­ lo logico e cognitivo (gli psichiatri coloniali parlavano di prevalenza del diencefalo delle popolazioni nordafricane, ad esempio, o di iposvi­ luppo della corteccia cerebrale in quelle dell'Africa centrale e orienta­ le). Il pensiero dell'uomo primitivo, secondo questi modelli, veniva descritto come simile a quello del bambino (paleologismo). Tali giudi­ zi furono coerenti con l'affermazione del colonialismo, di cui ne offri­ rono spesso la giustificazione morale e scientifica. La psicoanalisi freu­ diana sarà influenzata dall'e. in modo rilevante ( Totem e tabu ne è un eloquente esempio). Il ► relativismo culturale costituirà per certi aspetti anche un tentativo di reazione contro questi giudizi. Il model­ lo evoluzionistico ha nutrito quello che è stato definito "paradigma primitivistico" (Lucas, Barrett, 1995) nelle scienze psichiatriche: i primitivi, i selvaggi, o semplicemente i membri di società non occi­ dentali, manifesterebbero espressioni psicopatologiche diverse in ragione della maggiore semplicità delle loro strutture cerebrali o del loro habitus mentale (impulsivo, infantile, disinibito ecc.). Oggi teorie psicologiche neoevoluzioniste, libere dai pregiudizi etnocen­ trici prima evocati, cercano di comprendere lo sviluppo cognitivo e del sistema nervoso in relazione alle modificazioni dell'ambiente. Ezi o l ogia (eti o l ogia) Lo studio delle cause e degli agenti delle malattie. "E. tradizionale" è l'espressione utilizzata per indicare le cause delle malattie secondo i sistemi medici locali. Diversi autori, esperti nello studio dei sistemi medici tradizionali, hanno mostrato 67

la presenza di vari ordini di causalità (convergente: diversi fattori ezio­ logici conducono ad una stessa malattia; divergente: uno stesso fatto­ re p rovoca malattie diverse), e so p rattutto l'imp ortanza di distin­ guere fra cause immediate (o scatenanti, dove spesso è l'Altro perse­ cutore il responsabile del male), cause intermedie e cause originarie (queste ultime lasciano emergere la responsabilità individuale, dunque la coscienza di una colpa commessa dalla vittima stessa, da un suo congiunto o da un antenato come primum movens del male: e ciò anche in quelle società a lungo descritte come prive dell'espe­ rienza della colp a). Altri studiosi hanno sottolineato inoltre come sia spesso artificioso separare nettamente le eziologie empiriche da quel­ le sop rannaturali o mistiche: espressione quest'ultima che fa spesso riferimento all'intervento di agenti non umani, di sortilegi o di azio­ ni magiche ( ► stregoneria ecc.). In molte tradizioni mediche, dove è solitamente accentuata l'attenzione verso l'intenzionalità dell'a­ gente causale, esistono criteri che operano una classificazione ezio­ logica secondo i luoghi (malattie di boscaglia vs malattie di villaggio in relazione all'agente che le ha causate), il tempo (malattie del gior­ no vs malattie della notte in rapp orto ai distinti rischi di questi diver­ si tempi dell'esistenza), o il caso (malattie naturali o inviate dall'en­ tità suprema). Sulla logica delle classificazioni e il carattere a uno stesso tempo analitico e sintetico del "pensiero selvaggio" cfr. Lévi­ Strauss (1964, pp . 240 ss.). Fasci nazione De Martino (1959, p. 15) definisce con questo termi­ ne «la condizione p sichica di im p edimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto p otente quanto occulta», che p riva di autonomia l'indi­ viduo. Il concetto dell'essere agiti da troverà in De Martino un'at­ tenzione costante sia nella sua analisi del vissuto delirante (dove si passa dal sentimento dell'essere agiti alla ricerca incessante del chi o cosa agiscono) sia nello studio dei rapporti con il sacro, il numinoso, il Ganz-Anderes (il "tutt'altro" di cui scrive Rudolf Otto, ossia l'al­ terità assoluta del mondo divino, di fronte alla quale l'uomo è come fulminato: De Martino, 1995, pp. 52-3). Nella f. l'agente può essere una persona, che agisce con diverso grado di intenzionalità (basso, 68

come nel malocchio, dove l'influenza negativa procede dallo sguar­ do invidioso; alto, nella fattura, consapevolmente ordita allo scopo di nuocere a una vittima particolare, sino al caso estremo dellafattu­ ra a morte) . Siamo in questo caso vicini alla distinzione fra azione nefasta inconsapevole della witchcraft e consapevole della sorcery, individuata da Evans-Pritchard ( 2002) nella stregoneria azande. Se la persona è completamente dominata al punto che una personalità aberrante prende il posto di quella ordinaria, lo si dirà spiritato o posseduto. Feti cci o Termine originato dal latino e poi, nel suo significato peggiorativo, dal portoghese (feitiço), sottoposto a severe critiche dal momento che ha spesso fatto parte della rappresentazione negativa dell'Altro (superstizioso, con i suoi idoli - feticci, appunto - e le sue ingenue magie, dedito a pratiche occulte e sanguinarie ecc.). Per tali ragioni si è proposto di sostituirlo con il termine "altare", anche in considerazione della logica che presiede spesso alla sua architettura e composizione: caratterizzata in molti casi da statuette, frammenti di legno, armi o parti di esse, maschere, vasi, cortecce ecc., oltre che dalla periodica necessità di "nutrirlo" con appositi sacrifici e offerte (irrorandolo ad esempio con crema di miglio, sangue di animali sacrificati ecc.). Da parte di numerosi autori, pur riconoscendo l'et­ nocentrismo implicito in tale concetto, si ammette tuttavia che un termine più appropriato sia lontano dall'essere stato trovato, e i sosti­ tuti proposti non sono apparsi sempre legittimi: de Surgy (1994) afferma che non c'è ragione di chiamare "feticci" oggetti per i quali disponiamo di altri termini, mentre è legittimo riservare l'uso del termine ad oggetti non altrimenti definibili. I feticci, spesso antro­ pomorfi (ne sono un esempio quelli utilizzati in Benin dai sacerdoti dei culti vodu), rivelano solitamente una costituzione eterogenea quanto ai materiali che li compongono (vegetali, minerali, anima­ li): pensati come viventi e dotati di potere, essi possono definirsi come "oggetti che agiscono", non diversamente da quelle "parole agenti" di cui hanno scritto Tobie Nathan e Lucien Hounkpatin ( 1 9 9 8 ) . Colleyn ( 1 9 88 ) analizza i feticci bamanan del Mali (boli) all'interno di una teoria delle mediazioni che ne mette in luce la 69

natura di "oggetti forti" al cui interno s'incontrano alterità fonda­ mentali (fra il divino e l'umano, sessuali, fra primogenitio e cadetti ecc.). Il loro uso si situa all'interno di un complesso sistema simbo­ lico che rinvia tanto alla geomanzia (cèndala) , quanto alle cono­ scenze relative agli alberi (jiridon) e alla stregoneria (subaya) . De Surgy (1994) prova a fare chiarezza cominciando con l'enumerare, in relazione ai feticci presenti fra gli Ewe del Togo, "quelli che non sono feticci": a) oggetti rassicuranti; b) oggetti adorati in quanto tali; e) rivelatori di oggetti pulsionali; d) reificazioni di forze psichiche o sociali; e) oggetti elaborati in uno spazio privato e di cui le persone diventano schiave (accezione psicoanalitica); /) oggetti figurativi di realtà immateriali; h) abitacoli di divinità; i) oggetti di stregoneria ecc. L'autore insiste anche sulla difficoltà di pensare alcuni parados­ si di questi oggetti, primo fra i quali il fatto che, benché fabbricati, materialmente presenti, la forza che ne emana deriva da qualcosa che non si vede e non appare, e che vi è stata inserita nell'atto stesso del loro confezionamento. La sua classificazione non dissolve tuttavia le contraddizioni di un termine utilizzato spesso in modo difforme. Mare Augé ( 2002) descrive alcuni aspetti di questi oggetti nella stessa area culturale (Fon, Ewe, Yoruba), mettendo in rilievo come la loro natura, la loro pura materialità, si associ a una densità simbo­ lica enigm atica (l'enigma della materia inerte), difficile da tradurre nei nostri modelli epistemologici: corpi "limite", li si potrebbe defi­ nire, che sembrano rinviare unicamente alla loro forma. Alcuni dei malintesi che hanno caratterizzato la storia di tale concetto derivano indubbiamente anche dal diverso uso che marxismo, antropologia e psicoanalisi ne hanno fatto. Questi diversi orizzonti disciplinari hanno tuttavia rivelato, proprio nella particolare utilizzazione di tale concetto, significati importanti e per certi versi irriducibili, quasi a riverberare la complessità dell'esperienza umana originata dall'in­ contro con questa particolare categoria di "oggetti attivi" (Nathan, 199 4 ) . G u a rito re Termine con il quale si indica solitamente la persona dotata di conoscenze mediche che in diverse epoche e società occu­ pa ( od occupava) un ruolo decisivo in relazione alla cura o alla 70

prevenzione delle malattie, ma anche in rapporto a cerimonie reli­ giose o politiche, al governo dei conflitti sociali e interpersonali, alla vita della comunità (protezione del raccolto ecc.). Lo stesso termine designa anche gli acconciaossa (rabouteurs della tradizione francese), i norcini e altri protagonisti della passata medicina popolare europea, duramente ostacolati dalla medicina scientifica in ragione dei rischi ai quali avrebbero esposto i propri pazienti. Il termine ha così finito con l'assumere spesso un valore negativo o ambiguo, nonostante le considerevoli conoscenze empiriche di cui molti di essi erano in possesso. Analoghi francesi e inglesi sono guérisseur o, più recente­ mente, tradipraticien e, rispettivamente, traditional healer, medicine man o native doctor. Difficile rimane la sua delimitazione rispetto ad altre aree di intervento magico-terapeutico come quelle ascritte ad esempio in area latino-americana alla figura del ► curandero, mentre lo distingue dall'erborista il fatto che quest'ultimo si limita solita­ mente a raccogliere, prescrivere e/o vendere prodotti dotati di proprietà terapeutiche di origine vegetale (ma non solo: nei mercati africani, ad esempio, i prodotti sono talvolta costituiti dalla combi­ nazione di sostanze vegetali, animali e/o minerali). Nell'esperienza e nella biografia del g., e ancora più spesso in quella del "profeta", è solitamente marcata una vicenda di dolore e di sofferenza, di malat­ tia (reinterpretata come "chiamata", "vocazione"). Perrin ha inda­ gato in riferimento agli sciamani guajiro questo desiderio di essere sciamano, questa "inclinazione" allo sciamanismo (Perrin, 1992, p. 139) che presenta diversi paralleli con il desiderio di guarire. La sofferenza costituisce spesso la prova biografica del possesso di una particolare competenza nell'arte del guarire, ma anche l'espressione della loro prossimità tanto alla dimensione della morte quanto alle sorgenti divine del loro stesso potere terapeutico (ciò che ha spinto Friedmann a parlare di "mediatori di guarigione" anziché di guari­ tori, pur dovendosi sottolineare che le funzioni dei primi non sempre equivalgono a quelle del terapeuta, come nel caso dei divi­ natori; Friedmann, 1993). Nel guaritore, come nello sciamano, la sofferenza, la rinuncia e il potere della cura sembrano così struttu­ ralmente connessi, ciò che spinge a considerare la loro attività in rela­ zione ad un'economia politica e morale del dono (o del carisma) di 71

guarire, e del più ampio orizzonte di scambi sociali al cui interno si colloca la loro attività. Esemplare a questo riguardo l'esempio dei karadji, i grandi iniziati descritti in Australia da Elkin ( 2002).

Hadra '' Presenza", ma anche "seduta", "riunione": presso i primi

sufi designava la presenza divina nel momento dell'unione estatica, nel sufismo popolare indica solitamente una liturgia che comporta danze estatiche (il termine potrebbe pertanto essere considerato equivalente parzialmente a quello di ► trance). Essa viene realizzata nel corso delle manifestazioni di diverse confraternite (Hamadcha, Gnaoua, Aissaoua ecc.), e solitamente si compone di una prima fase (hizeb) caratterizzata dalla recitazione di preghiere e dal canto di lita­ nie (dhikr) , e una seconda fase (ijdeb) scandita invece dalle danze estatiche. Vincent Crapanzano è fra i maggiori studiosi del culto di possessione hamadcha (Crapanzano, 2000) ; Bernard Hell (1999) si è occupato in particolare della confraternita Gnaoua.

Harraga Letteralmente "incenerire", termine che nell'arabo

marocchino designa l'atto di bruciare i propri documenti da parte degli immigrati illegali, in larga parte provenienti dai paesi dell'A­ frica subsahariana, prima di lasciare il continente per l'Europa. In alcuni casi il termine è diventato sinonimo di emigrante clandestino. Al plurale il termine indica anche i passeurs (ossia coloro che orga­ nizzano il passaggio delle frontiere dei clandestini dietro lauti compensi). Al di là della dimensione strategica (rendere impossibile o ritardare la propria identificazione), questo gesto assume una forte connotazione simbolica evidenziando come molti degli immigrati clandestini, soprattutto i più giovani, sembrano mettere in atto una dimensione di invisibilità (sociale, culturale ecc.), non molto diver­ sa per certi aspetti da quella caratteristica del periodo liminale dei riti di passaggio. Sono molti, del resto, gli autori che sostengono come l'emigrazione costituisca oggi una forma moderna e particolare di rito di passaggio, dove l'incertezza, il rischio della morte, la separa­ zione che l'accompagnano sono spesso oggetto di valorizzazione e di enfasi nei racconti di non pochi immigrati. Per certi versi vicino a quello di h. è il termine messicano di mojados, "umidi" ( wetbacks, 72

in inglese), per indicare gli emigranti clandestini che cercano di attraversare il confine con gli Stati Uniti a nuoto, attraversando il Rio Grande.

Hijab Il "velo" solitamente adottato dalle donne nelle culture

musulmane e al centro di un violento dibattito (dalla Francia, che ne ha vietato l'uso nelle istituzioni scolastiche, alla Turchia, dove il divieto introdotto dalla costituzione laica di Atatlirk, è stato recen­ temente rimesso in discussione invocando questa volta i diritti umani, ossia il danno che deriverebbe alle donne dall'impossibilità di frequentare scuole e università in ragione della loro appartenenza religiosa). Dietro il velo si celano molte questioni, prima delle quali il ruolo della donna nella cultura musulmana, ciò che ha fatto dire ad alcuni autori che l'h. non è semplicemente un segno dell'apparte­ nenza religiosa, equivalente ad esempio al crocifisso. Benslama defi­ nisce l'h. come «l'operazione attraverso la quale il corpo della donna è trasformato in una cosa interdetta alla vista» (Benslama, 2002, pp. 196-7). Il conflitto politico fra ragione laica e ragione religiosa, modernità e tradizione, Occidente e mondo arabo, ha esacerbato e inevitabilmente confuso i termini del dibattito, spesso contribuen­ do a celare altre violenze e impedendo che una trasformazione cultu­ rale potesse realizzarsi là dove venivano realizzate nello stesso tempo pratiche di dominio e di oppressione. Pochi ricordano ad esempio che un'analoga volontà di "liberare" le donne musulmane dalla loro condizione di oppressione (con l'obiettivo, appena celato, di divi­ dere il fronte rivoluzionario e indebolire la lotta anticoloniale) era stata attuata proprio a partire dalla questione del velo negli ultimi anni del dominio coloniale in Algeria, un paese dove il colonialismo ha conosciuto una delle sue espressioni più drammatiche e violente (un milione di morti). Analoghe strategie e retoriche si sono ripro­ dotte in altri contesti recentemente (Afghanistan), riproponendo il paradosso di legittime preoccupazioni per la violenza diretta contro le donne e di buoni propositi per la loro liberazione che - occultan­ do interessi economici e politici sotto le spoglie dell'intervento umanitario - hanno generato ulteriori violenze, accrescendo così rancori e diffidenze.

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l atrofa n i a Termine che si può definire (in analogia con quello di "ierofania", avvento del sacro, proposto da Mircea Eliade, 1974) come l'avvento del processo di guarigione, messo in rapporto - dall'operatore rituale, dall'individuo malato e/o dal suo entourage - con un preciso intervento terapeutico, rituale o d'altro tipo (divino, miracoloso, mistico ecc.). I. e ierofania in molti sistemi di cura coincidono. Identità etn ica , identità cu ltu ra le Si tratta di concetti che implica­ no, ad uno stesso tempo, tanto l'analisi del Sé e della persona quan­ to quella della comunità di cui un individuo è membro, perché la maniera con la quale si interpreta l'Altro in rapporto al Sé esprime uno dei profili essenziali di ogni cultura. La definizione offerta da Erickson dell'identità, come il senso di essere la stessa persona a mano a mano che si cresce e ci si sviluppa, insieme percependo un 'affinità con una comunità, il suofuturo, la sua mitologia e la sua storia, è utile nel sottolineare la duplice componente (psicologica e sociale) del senso d 'identità. Il concetto di etnia e di etnicità, se da un lato è stato seve­ ramente criticato per l'arbitrarietà che ne ha caratterizzato la genea­ logia in molti contesti, soprattutto in epoca coloniale, si è rivelato al tempo stesso dotato di un elevato potere perfonnativo: anche quan­ do inventata, l'etnicità, una volta interiorizzata, ha finito infatti con il partecipare (o fornire una base ideologica) alla costruzione di un sentimento di appartenenza ( ► cultura), di identificazione, diven­ tando un elemento insopprimibile delle risorse di un gruppo, a sua volta manipolato dai designati secondo logiche impreviste (come nel caso dei movimenti di rénaissance identitaire nel Pacifico o dagli Indiani mashpee, nel Nord America, per rivendicare il loro diritto alla terra: Clifford, 1999). Tali nozioni, esposte ad un elevato rischio di reificazione, sono diventate spesso, come amava dire Devereux, "camicie di forza" a scapito di altri, non meno decisivi, profili dell'i­ dentità di un individuo (genere, età, classe sociale ecc.). L'effetto di una tale reificazione è stato spesso tragico (si pensi alle "pulizie etni­ che" e ai genocidi nei Balcani, in Ruanda o nella regione dell'lturi, in Repubblica Democratica del Congo). Tutto ciò, insieme ad una graduale dissoluzione della retorica dell'identità (tanto in antropo­ logia quanto in psicologia e in filosofia), ha contribuito a rendere 74

l'uso della nozione di identità etnica sempre più cauto e circospetto (Bayart, 1996; Fabietti, 1996; Remotti, 1996). Lévi-Strauss (1980) ha sottolineato come l'identità debba essere concepita alla stregua di uno spazio del quale è però difficile fare a meno quando s'intende spiegare una serie di fenomeni, e ciò sebbene questo spazio sia virtua­ le. Diventa pertanto importante guardare all'identità etnica e all'et­ nicità come a fatti di natura progettuale e processuale (al loro farsi, riprodursi e disfarsi), a prodotti di sintesi generati spesso da un sincretismo strategico Qaffrelot, 1992), la cui definizione e il cui desti­ no nascono essenzialmente all'interno di interazioni sociali storica­ mente definite, e non come un tratto inscritto in gruppi e individui in modo naturale o stabile. Anche il concetto di "confine etnico" è pertanto di natura processuale e strumentale, continuamente sotto­ posto all'effetto di particolari vicende storiche e alle ridefinizioni che i gruppi ne danno in ragione di precisi obiettivi. Arjun Appadurai (2005) mette in rapporto il revival delle appartenenze etniche e la violenza che lo ha accompagnato con i processi della globalizzazio­ ne. L'etnicità, infine, è stata criticata quando essa finisce con il mascherare differenze che sono di altro ordine (economico, politico, sociale ecc.): "minoranza etnica" e gruppi poveri o marginali (come nel caso dei portoricani negli Stati Uniti) sono infatti ampiamente coincidenti in molti casi. I n d ivid u o, i nd ivid ualismo Queste nozioni hanno ricevuto nei lavo­ ri di Louis Dumont (1984 e 1993) una rigorosa analisi consacrata alle origini religiose del concetto (il cristianesimo e l'opera di sant'A­ gostino, ad esempio), ai suoi sviluppi storici, alle specificità socio­ culturali nonché alle sue derive (il totalitarismo sarebbe per Dumont il tentativo, in una società in cui l'individuo ha un posto e una tradi­ zione preminenti, di piegare quest'ultimo agli interessi della collet­ tività). Il posto dell'individuo nel sistema delle caste indiane è al cuore di un'altra opera di grande interesse (Homo hierarchicus, 1966; Dumont, 19 91), non solo antropologico e sociologico ma anche psicologico, in questo sistema dispiegandosi secondo modalità pecu­ liari l'incessante e spesso conflittuale articolazione fra soggetto, rico­ noscimento, potere, desiderio, gerarchie sociali, scelta affettiva ecc. 75

Il problema delle caste ha nell'antropologia africanistica un altro terri­ torio di grande significato psicologico, simbolico, politico ed econo­ mico ad uno stesso tempo, in ragione della specializzazione dei sape­ ri, dei vincoli che sono posti ai progetti individuali, alle gerarchie che organizzano gli scambi e le reciprocità. Ma la nozione di individuo presenta nel contesto africano un interesse particolare in ragione della sua negazione (si pretendeva che esistessero solo la comunità, il grup­ po, il villaggio, la famiglia estesa), sino alle ricerche di Ellen Corin (1980), che hanno esplorato i limiti di una tale prospettiva, e di Alain Marie (1997), che ha messo in luce le ombre e i conflitti (i sospetti di stregoneria, fra l'altro) che stanno sullo sfondo di queste "forze della coesione" e del "debito" infìni to con tratto dagli individui nei confronti della loro comunità. Da diversi autori (Bayart, Mbembe Ranger, Werbner ecc.) si sottolinea dunque come anche nelle socie­ tà africane esistano massicci processi di individuazione, aventi tutta­ via espressioni particolari e spesso contraddittorie. Marie ha parlato di "ingiunzione paradossale" per sottolineare come all'individuo si chieda di realizzare il successo personale ma, al tempo stesso, di rima­ nere ancorato alla comunità. Le dinamiche migratorie sono state e rimangono decisive in queste espressioni e trasformazioni. I nvisibi le ( m o n d o, rea ltà) , m on d o d el l a n otte Spazio popolato da esseri o percorso dagli stregoni nel corso dei loro viaggi notturni, che connota in modo massiccio l'esperienza quotidiana, rappresen­ tando di quest'ultima una sorta di doppio, di riflesso obliquo e incer­ to al cui interno si giocano sfide, si subiscono attacchi (che si rivele­ ranno poi, alla luce del giorno, sotto forma di malattie) o si realizza­ no alleanze occulte per nuocere alle vittime o cercare il proprio successo. La dimensione immaginaria di questo territorio (nel senso conferito al termine da Derrida (immaginario è ciò che rimane indi­ scernibile quanto alla sua realtà o irrealtà, cit. in Bayart, 2004) è fortemente presente e palpabile in molte società africane, in parti­ colare quelle della fascia equatoriale. Qui i riferimenti a scontri notturni, a esseri invisibili, a persone che possono assumere forme animali fanno parte dei discorsi della gente comune ma non rispar­ miano i ceti elevati, le autorità politiche, il mondo dello sport. I rife76

rimenti pressoché continui al mondo dell'invisibile interrogano antropologi ed etnopsichiatri sullo statuto dell'esperienza soggetti­ va in queste culture, al tempo stesso rivelando una quanto mai baroc­ ca strategia attraverso la quale emergono e sono rappresentati le incertezze, i conflitti, le ineguaglianze e soprattutto il sentimento di una minaccia opp rimente nei confronti della quale domina talvolta un senso di imp otenza.

lo d i gru ppo Il concetto, proposto negli anni trenta del secolo scor­

so e ripreso poi da diversi autori (Parin et al., 1967, ad esempio), ha inteso definire, soprattutto negli studi di africanistica, una nozione di individuo fondata sull'interazione con gli altri e sul legame socia­ le, secondo un duplice asse: orizzontale (classi di età, legami familia­ ri, società in senso lato ecc.) e verticale (antenati); vi fa riferimento anche lo studioso africano Ibrahima Sow, autore di due celebri opere: Les structures anthropologiques de la folie en Afrique, 1978, e Psychia­ trie dynamique africaine, 1977. Questi assi avrebbero definito l'indi­ viduo in Africa come ontologicamente diverso dall'individuo in Occidente (designando quest'ultimo, all'opposto, come autonomo, animato da una progettualità e un desiderio personali, spinto a realiz­ zare un'esistenza originale e distinta dagli altri). Allo stesso modo si è parlato di un Super-io di gruppo in riferimento alle istanze repressi­ ve rappresentate dagli antenati. L'utilizzazione prevalente del termi­ ne di "persona" negli studi di africanistica, in luogo di nozioni come "individuo" o "soggetto", fa riferimento a questa prospettiva. Tali differenze, sebbene mantengano una relativa validità nell'area dell'antropologia psicologica e dell'etnopsichiatria, sono state ampia­ mente ridimensionate nel corso degli ultimi anni ( ► individuo).

Iti nerari tera peutici ( o comportamenti di ricerca della cura, health

care behaviour) Concetto utilizzato da Kleinman (1980) e altri antro­ pologi (Hahn, Young ecc.) per definire quello che in concreto fanno un paziente e il suo gruppo di fronte all'evento "malattia". L'analisi degli i. t. rivela la coesistenza di pratiche orientate alla concreta solu­ zione del problema e scarsamente preoccupate della coerenza episte­ mologica delle scelte adottate (pragmatismo medico), quale si riflette 77

spesso nella contemporanea adozione di modelli e indirizzi terapeu­ tici facenti riferimento a tradizioni eterogenee (pluralismo medico), pur di approdare ad una cura efficace. Il pluralismo medico e il prag­ matismo medico devono essere messi in rapporto anche con la possi­ bilità di utilizzare risorse terapeutiche secondo il grado della loro reale accessibilità: culturale, economica, geografica ecc.

Jinn (pl. iniin) Entità invisibili (la radice idjtinam evoca proprio il

concetto di "essere nascosto, dissimulato"), maschili o femminili (in questo caso si parla di jinniya), più volte evocate nel Corano (surah 51, dove si ricorda che Allah ha creato ogni essere in coppia, dunque l'umanità e il mondo dei Jnun; o surah 7 2 , dove si narra di una compagnia di Jnun che, avendo ascoltato il Corano, divennero immediatamente devoti). Solitamente non vengono evocati diret­ tamente ma sotto forma allusiva ("i nostri signori", "i signori dei luoghi", "i musulmani", "i venti", "quelli senza nome", "i re" ecc.). Non mancano espressioni di origine più recente: nel caso di un giovane paziente maghrebino incontrato a Torino presso il Centro Fanon, nel suo paese era stata proposta la diagnosi di un "j. turista" per spiegare la sua erranza. I JnUn compongono un insieme spesso confuso di entità ed esseri non umani, in compagnia degli angeli (malai"ka) e dei demoni (shayatin) ; le stesse denominazioni adottate sono talvolta contraddittorie e ambigue (nella confraternita Gnaoua, è utilizzato il termine mlouk in luogo di quello di j., ma la radice m. l. k. è, ad esempio, la stessa di quella degli angeli (malafka). Tali entità sono largamente diffuse nella cultura popolare araba e nelle aree che sono state influenzate dall'islam, dove si pensa che esse abitino luoghi particolari (alberi, rocce ecc.). I razionalisti (Mu 'ttazilites) , fra i quali si annoverano Avicenna e Ibn Khaldoun, non credevano alla loro esistenza, considerandoli piuttosto allegorie. Secondo un hadith (proposito, racconto attribuito al Profeta) i Jnun erano i primi esseri comparsi sulla terra, poi cacciati via da un'arma­ ta di angeli in regioni desertiche a causa delle loro azioni malvagie. Essi hanno tre possibili sembianze (quella di rettili o scorpioni, quel­ la di turbini di vento, quella di figure umane); sono ritenuti respon­ sabili di malattie, disturbi e problemi quando vengono infastiditi, 78

ma non hanno necessariamente un carattere negativo. Spesso strin­ gono relazioni con i loro partner umani analoghe a quelle fra aman­ ti, imponendo regole e vincoli ecc. Nelle culture del Maghreb e dell'Africa nera islamizzata esistono diverse rappresentazioni di queste entità. Uno dei Jnun più celebri è 'A'isha Qandisha, rappre­ sentata in Marocco come una donna bionda, dalla chioma abbon­ dante, seducente, dai piedi di capra o di cammello, il cui stesso nome riproduce la sua natura ambigua (il primo termine è un nome umano, il secondo di demone).

Koro Nelle lingue malesi e indonesiane (Macassar: garring koro), il

termine indica "retrazione, restringimento", con evidente riferimen­ to al sintomo più noto: la riduzione delle dimensioni del pene asso­ ciata all'angoscia che i genitali possano ritrarsi all'interno del corpo, con esito talvolta letale. Secondo Edwards (2004), il termine avrebbe un'altra origine: kuro o kura significa "tartaruga", e trarrebbe origine dall'immagine della ritrazione della testa dell'animale sotto il carapa­ ce, metafora efficace della ritrazione del pene. L'equivalente cinese rivelerebbe la stessa matrice di significati: suoyang (suo, "retratto", yang, " pene, genitali"). Dubbia l'interpretazione che mette in rappor­ to la diffusione del termine nell'Est asiatico con l'emigrazione cinese. Nella donna, in cui è descritta più raramente, la sindrome concerne le piccole e grandi labbra e i seni. Casi isolati di questa sindrome sono stati descritti anche in Africa. Sin dai primi lavori è stata sottolineata la presenza di un tema universale: l'angoscia di castrazione (Palthe defi­ niva il k. , già nel 1935, come "un esempio vivente del complesso di castrazione di Freud"). Degno di essere ricordato è anche il fatto che i bambini cinesi un tempo venivano minacciati di castrazione per correggerne il comportamento enuretico. Interpretato come una reazione acuta di panico o una reazione isterica, il k. parrebbe scate­ nato da stimoli fisiologici o psicologici (acqua fredda, stress, ansia), i quali - determinando un ridotto flusso ematico nei distretti periferici (mediato dall'accresciuta concentrazione di catecolamine circolanti) e la conseguente riduzione delle dimensioni dei genitali - attiverebbero un circolo vizioso di paura, crescente angoscia di morte, ansia, ulte­ riore ritrazione dei genitali. La sindrome, sostenuta nella sua inciden-

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za e nella sua es p ressione da temi ricorrenti in quelle culture (sono state descritte anche alcune epidemie) , prevede fra gli interventi terapeuti­ ci il massaggio del corpo e la trazione del pene. In un libro di medici­ na cinese pubblicato nel periodo Chin, si fa riferimento ad un'affezio­ ne (denominata shook yang) che può insorgere durante i rapporti sessuali, caratterizzata da dolori e ritrazione del p ene nell'addome, e attribuita alla penetrazione di vapori freddi.

Kwashiorkor Tradotto come " bambino rosso " , o p p ure come

" p rimo " , da kwashi, e " secondo " , da orkor) , il termine indica una condizione di grave malnutrizione, tipicamente descritta in Africa subsahariana, che sopraggiunge generalmente intorno all'età dello svezzamento . T aie disturbo venne riportato agli inizi del secolo scor­ so in diversi p aesi (Normet, in Indocina, nel 1 9 2 5 ; Lieurade, che ne esclude l' ► eziologia parassitaria, nel 1929 in Camerun ecc. ) . L'affe­ zione è stata p oi descritta in modo p reciso in Ghana dalla p ediatra inglese Cicely Williams (1933) . Se la carenza nutrizionale (proteica e li p idica) ra p p resenta indubbiamen te il fattore determinan te di questa condizione, le ragioni della carenza non possono essere attri­ bui te unicamente all'indis p onibilità di cibo, essendo stata descritta s p esso p iù in ambito urbano che rurale, là dove cioè ci sarebbe teori­ camente maggiore accesso a risorse nutrizionali. Il k. è caratterizzato da p erdita di p eso ( estrema nei casi di marasma) e di massa musco­ lare, colore rossastro e aspetto fragile dei capelli, ventre globoso a causa dell'ascite, modificazioni del com p ortamento ( ap atia, irritabi­ lità, letargia) , i po pigmentazio ne della cute, ulcere ecc. In alcune lingue africane sembra essere ben presente la consapevolezza delle componenti sociali e psicologiche di questo disturbo, in primo luogo dei conflitti fra madre e bambino, ma anche dei problemi che origi­ nano nel contesto familiare e sociale in coincidenza con il p eriodo cri tico dello svezzamento . D ue esem p i sono p articolarmente eloquenti : il termine obwosi, corrispondente a k. in luganda ( la lingua dei B aganda, Uganda) , si può tradurre letteralmente come " malattia del bambino consecutiva a una malattia della madre che lo allon tana da sé " , o anche " bambino stizzoso p erché la madre si distacca da lui " ( Gerber, cit. in Ortigues, Ortigues, 1993, p. 10) ; nella 80

lingua ga (Ghana), il termine corrispondente può essere tradotto come "bambino che viene messo da parte, che è spostato" oppure come "malattia che sopraggiunge in un bambino allontanato da sua madre in coincidenza con una nuova gravidanza". Marcelle Gerber, psichiatra infantile e psicoanalista che aveva svolto ricerche in Ugan­ da per conto dell'Organizzazione mondiale della sanità insieme a Reginald Dean (Gerber, Dean, 1955), ha potuto descrivere diversi casi di k. e in particolare la psicoterapia di un bambino orfano di madre e affetto da k., coronata da successo. Il ruolo dei fattori psico­ logici e culturali nello sviluppo di questo disturbo aveva ricevuto così una definitiva conferma. L'approccio psicoanalitico di Spitz ai problemi di sviluppo nei primissimi mesi di vita e l'attenzione all'in­ fluenza dell'ambiente ospedaliero avevano preceduto queste ricerche solo di qualche anno. La m b o Ad eoye Th o m as Psichiatra nigeriano che negli anni cinquanta, dopo la formazione in Gran Bretagna, tornò nel suo paese e inaugurò l'esperienza dei villaggi terapeutici ad Aro, Abeo­ kuta (Stato di Ogun, Nigeria sudoccidentale). Dopo il suo trasferi­ mento a Ginevra, dove lavorò all'interno dell'Organizzazione mondiale della Sanità, l'esperienza finì con il perdere lo slancio iniziale, poi con l'esaurirsi del tutto. Fra i suoi contributi teorici devono essere ricordati quelli sulla malattia mentale nella cultura yoruba, e la collaborazione ad una ricerca realizzata insieme allo psichiatra transculturale Alexander Leighton (Lambo, Leighton et al. , 1963). Quest'ultimo rappresenta anche un pioniere degli studi di epidemiologia transculturale, mostrando come i dati etnografici siano essenziali per l'interpretazione di quelli epidemiologici. L'in­ fluenza di Leighton si rivelò determinante nel pensiero di L. e nella condivisa attenzione rivolta al ruolo dei processi di disintegrazione sociale e culturale nell'emergere dei disturbi psichiatrici. Lavoro del la cu ltu ra L'espressione work ofculture è stata proposta dallo psicoanalista e antropologo Gananath Obeyesekere (1990). Mutuata dalla formula freudiana "lavoro onirico", il 1. d. c. indica il processo di attribuzione culturale a significati, affetti e vissuti, deter81

minando il loro precipitato in forma di sintomi generici, di segni che orientano verso l'intervento di un'entità non umana, o di particola­ ri malattie a seconda delle culture considerate (ad esempio la "depressione", nella cultura occidentale dominata dai modelli medi­ co-psicologici). L'espressione indica dunque l'articolazione di simboli, valori, codici etici o religiosi con le forme materiali dell'esi­ stenza, le esperienze individuali, le egemonie culturali. Vicina al concetto di ► esegesi sociale, l'espressione richiama anche l'idea, espressa da Clifford Geertz (1987), secondo la quale la cultura non si limita a suggerire come comunicare o nominare un'esperienza, essa dice anche "come" provare un dolore o una perdita, come senti­ re queste esperienze. Gli studi di Renato Rosaldo (1980) sul lutto fra gli Ilongot e il rituale della caccia alle teste, così come altri studi antropologici sulle emozioni, sviluppano questa prospettiva, centra­ le nel dibattito sul rapporto fra depressione e ► cultura. Li m i nale Attributo che indica la fase intermedia dei riti di passag­ gio (van Gennep, 2002, ed. or. 1909), quella secondo Victor Turner (1976) più significativa nel determinare le profonde e irreversibili trasformazioni psicologiche e sociali degli iniziati. Secondo molti autori (Clastres, 1984a e 1984b), le esperienze di paura, di dolore fisico e di umiliazione degli iniziandi opererebbero una particolare forma di pedagogia traumatica quanto mai efficace nella trasmissio­ ne di valori fondamentali (l'idea di uguaglianza, ad esempio, decisi­ va per la sopravvivenza di gruppi nomadi). Questa interpretazione è stata tuttavia sottoposta ad alcune critiche. Bourdieu (1982) ha messo in rilievo come i riti di passaggio sarebbero caratterizzati soprattutto dal fatto di istituire una distinzione permanente fra quel­ li che vi sono sottoposti e quelli che non vi si sottoporranno mai ( ► riti di passaggio). Lutto cu ltu ra le Il concetto è stato proposto da Maurice Eisenbruch (1991) in relazione ali'esperienza di sofferenza psichica, di confusio­ ne, di depressione, di disturbi del sonno o di crisi di possessione descritti nei rifugiati cambogiani incontrati dall'autore in Australia. Tali esperienze non erano riconducibili sempre ad esperienze trau82

matiche individuali quanto piuttosto alla generalizzata erosione di senso prodotta dalla violenza del regime dei khmer rossi (oltre tre milioni e mezzo di morti, un numero immenso di rifugiati, devasta­ zioni ecc.), applicata con impegno sistematico anche contro luoghi simbolici e centri religiosi. La "morte della cultura" sarebbe all'origi­ ne di questo diffuso sentimento di spaesamento, di disorientamento, di confusione e di dolore, non certo diagnosticabili con la banale etichetta di ► PTS D né tanto meno trattabili facendo ricorso a psicote­ rapie cognitive brevi o ad antidepressivi, come inutilmente (e ostina­ tamente) si è cercato spesso di fare. In relazione alle devastanti conse­ guenze dei conflitti armati sulla società, la cultura e le risorse materia­ li, Alexandra Argenti-Pillen (2003, relativamente allo Sri Lanka) e Dag Nordanger (2007, nel Tigray, Etiopia) hanno ripreso questo stesso approccio (Nordanger propone ad esempio la formula di "lutto socioeconomico"). Granj o (2007b) ha analizzato nel Mozambico meridionale il ruolo dei vanyamusoro (curanderos posseduti da spiriti di diversa origine etnica) nel realizzare "rituali di purificazione" aven­ ti efficacia terapeutica per curare gli effetti traumatici e il 1. c. della terribile guerra civile. Analoghe ricerche sono state condotte da Honwana (1999) e lgreja (2003) sempre in Mozambico. Ma l occh io, mauvaise oeil, 'e/ hein (o ayn - aiiJ) In diverse lingue esiste la nozione del m., rip ortata sin dall'antichità, e utilizzata tanto nel linguaggio popolare quanto in numerosi sistemi di cura per indi­ care le conseguenze negative derivanti da uno sguardo carico di osti­ lità o di invidia, espressione di un desiderio distruttivo nei confronti di qualcuno la cui ricchezza, status o bellezza non p ossono essere eguagliati. Tale sentimento è attribuito ad una persona conosciuta: solitamente un membro del vicinato o della famiglia. Gli effetti p ossono essere disturbi fisici e mentali, l'insuccesso in amore o sul lavoro, difficoltà scolastiche ecc. In genere non è necessario l'inter­ vento di specialisti per dar origine al fenomeno: tutti possono in teoria esercitare questo potere distruttivo, e molte culture prevengo­ no il rischio del m. persino all'interno di relazioni insospettabili (quali ad esempio quelle fra madre e figlio). Ad esempio, si impone alla madre di sputare per terra dopo aver fatto app rezzamenti sulla bellez-

za dei propri figli per evitare che quelle parole positive possano trasformarsi nel loro rovescio portando sventura alla prole (Senegal). Si potrebbe definire il m., in termini sociologici, come una teoria dell'aggressività e del conflitto interpersonali, o una teoria dell'azione sociale (non diversamente da quanto è stato suggerito per la strego­ neria). In termini psicologici il m. è un'eloquente metafora della regola che ci vede costituiti dall'Altro, dal suo sguardo. La normalità sarebbe in fin dei conti accettare questo principio, lasciandosi aliena­ re dall'altro. Questa la conclusione a cui giunge, sulla falsariga di quanto aveva scritto Lacan nel 1948 (in Lacan, 1974), Lévi-Strauss (1965, p. xxv): «A rigore di termini, è colui che chiamiamo sano di mente che si aliena, p erché accetta di vivere in un mondo definibile soltanto attraverso la relazione tra me e gli altri». M a rn i Wata Divinità delle acque, largamente diffusa in Africa subsahariana, ma con figure aventi una rappresentazione sorpren­ dentemente simile dal Marocco (Aicha 'Quandicha o i suoi equiva­ lenti Lalla A'icha, AYcha soudaniyya, AYcha l'gnaouia) al Senegal, alla Nigeria, dalla Repubblica democratica del Congo al Mozambi­ co, dal Brasile (Mae d'agua: dove, con il nome di Yemanja, è ogget­ to di un culto assai diffuso) a Cuba. Simbolo di fecondità, di potere, di bellezza, immagine di seduzione ma anche di morte, M. W. ( termine pidgin per Mammy Water) incarna alla perfezione le moderne icone del successo economico e sociale, dell'autonomia e del desiderio femminile: come dimostrano le immagini che in Afri­ ca oggi affiancano ai tratti tradizionali con i quali viene rappresenta­ ta questa divinità (capelli lunghi e lisci intrecciati a serpenti, corpo da sirena, pelle chiara ecc.) oggetti quali cellulari, specchi, automo­ bili. La divinità promette ricchezza e successo, ma esige che venga rispettato un insieme di vincoli analogo a quell'alleanza non priva di rinunce e ambivalenze che generalmente caratterizza il rapporto fra posseduti e divinità. Il culto di possessione di M. W., le cui origi­ ni sono messe in rapporto a dipinti e rappresentazioni di figure femminili introdotte in Africa dai p rimi colonizzatori ma p rove­ nienti dal subcontinente indiano, è stato messo in relazione ad altre entità invisibili (spiriti ogbanje) a carattere locale, che intrattengono 84

rapp orti stretti con il mondo dell'infanzia e sono ritenute responsa­ bili in questa età di diverse affezioni o casi di morte. Non p oche immigrate nigeriane (più raramente uomini) fanno riferimento a M. W. nel racconto delle loro esperienze premigratorie, e ciò ha reso singolarmente conosciuto questo culto nell'Europa contemporanea. Ma ra b utto Termine introdotto dai francesi a p artire dalla defor­ mazione della parola marbout, "legato (a Dio)", nome conferito anche ai guerrieri della fede che vivevano nei monasteri-fortezze. Se il culto dei santi è diffuso anche in Oriente, è soprattutto in Africa occidenta­ le e in Maghreb che esso si è sviluppato, attribuendo ai m., al di là delle funzioni di uomini santi e p rofondi conoscitori del Corano, poteri d'intercessione per ottenere la grazia divina (baraka) o di tipo magico-terapeutico (esercitati spesso attraverso amuleti confezionati a partire da frammenti di carta o tessuti sui quali sono stati scritti verset­ ti del Corano). Fra i m. più celebri Moulay Idriss, p atrono di Fès, e Sidi Boumedienne, patrono di Tlemcen (Thoraval, 1995, pp. 190-1). Intorno a celebri m. si raccolgono confraternite, alcune delle quali eser­ citano un crescente potere politico-economico. In Africa, dove l'islam realizza complesse forme di ricomposizione, essi sono talvolta identi­ ficati con figure come i maghi o addirittura gli stregoni, ciò che spiega perché il termine è utilizzato in qualche caso in senso dispregiativo. Med iazione cu ltu ra le (m. linguistico-culturale, m. etnoclinica o terapeutica ecc.) Dispositivo reso famoso dal setting psicoterapeu­ tico con p azienti stranieri q uale quello realizzato dall'é qui p e del ► Centre Devereux, a Parigi. In altri paesi tale dispositivo ha cono­ sciuto un importante sviluppo, sebbene con una maggiore sottoli­ neatura degli aspetti linguistico-culturali (non a caso nei paesi anglosassoni i mediatori sono spesso definiti semplicemente interpreters) e una minore enfasi sulle potenzialità propriamente tera­ peutiche derivanti da essa. Solitamente i mediatori sono o p eratori che appartengono agli stessi paesi o aree culturali dei pazienti, in grado di parlare lingue non veicolari in Occidente (yoruba, edo, lingala, bamanan, farsi, indi ecc.), formati alla psicologia clinica e attivamente impegnati nell'analisi dell'immaginario sociale delle

diverse culture, delle categorie eziologiche e dei sistemi terapeutici tradizionali. Il loro ruolo dovrebbe consistere nel promuovere l'esplorazione dei contesti d'origine dei pazienti e di altri profili spesso taciuti dell'esperienza migratoria, allo scopo di costruire interpretazioni adeguate e insight propriamente terapeutici. Sono molte le ragioni che sostengono l'utilità di un tale dispositivo, non ultima la possibilità che esso possa fungere da meccanismo tran­ sizionale, nel senso attribuito da Winnicott all'espressione di "ogget­ to transizionale". Molta della confusione che caratterizza l'attuale dibattito sul significato della m. c. nasce dalla pretesa di parlare di questa pratica ignorando la peculiarità dei differenti contesti di applicazione (ben diverso è il suo ruolo, ad esempio, in psicoterapia, in un reparto di ostetricia o nella scuola, e ben diversa dovrebbe essere in questi casi la formazione prevista). L'erronea idea che essa non sia che un'altra maniera di ricondurre ostinatamente il pazien­ te entro i confini del suo mondo culturale o etnico come strategia di cura ha contribuito a generare ulteriori equivoci, tanto più rischio­ si nell'assenza di un'appropriata formazione sui significati e sul ruolo della traduzione in ambito clinico nella quasi totalità delle scuole che rilasciano il titolo di mediatore culturale come di quelle che formano alla psicoterapia. L'esperienza di centri che hanno adottato come dispositivo di cura la m. c. permette di comprende­ re per intero il rischio che corrono le procedure comunicative in situazione clinica interculturale, spesso portate a trasformare gli enunciati in immagini pittoresche, pure metafore da non prendere sul serio o peggio ancora come semplici "modi di dire". Ciò che è necessario è, al contrario, e proprio quando la comprensione non è immediata, interrogare il discorso, la lingua, pubblicamente e in presenza del paziente, che diventa così un "esperto". Il lavoro di Sybille de Pury Toumi (1998), etnolinguista del Centre Devereux e autrice di altri lavori sulla cultura nauhatl (199 2), rappresenta un contributo importante alla chiarificazione di questi aspetti. Meta morfosi Molte società segrete in Africa hanno nel potere di m. (animale, per lo più) e nell'invisibilità relativa che ne deriva il loro carattere specifico. Il potere di m. è associato spesso alla stregoneria 86

(e alla capacità che gli stregoni avrebbero di assumere forme anima­ li durante i loro viaggi nel "mondo della notte"). Il potere di m. si associa ad altre strategie simboliche nelle quali non è stato difficile riconoscere un valore politico controegemonico o comunque di "resistenza" nei contesti di oppressione coloniale. In alcune popola­ zioni (i Cuna del Panama) la m. animale in giaguaro segna invece lo stadio estremo nei gravi casi di follia, quelli nei quali ci si è allonta­ nati in modo irreversibile dal mondo umano e sociale e si è regrediti allo stato di natura. M i g razi o n e , i m m i g rati , e m i g ra nti Le vicende della migrazione hanno costituito uno dei temi più rilevanti dell'etnopsichiatria clinica recente, vero e proprio banco di prova per i suoi modelli e le sue strate­ gie (quelli, in particolare, elaborati in società non occidentali), ma anche occasione per riformulare i vecchi modelli della ► nostalgia, del migrant aliéné di Faville o dell' insaneforeign, er di Ranney ecc. (Bene­ duce, 1998 e 2007). Questi campi semantici rivelano per intero i profili politici dell'etnopsichiatria, chiamata a intervenire sulla sofferenza di cittadini le cui storie rinviano direttamente alle vicende coloniali, ai conflitti nei paesi d'origine, alle incertezze della loro condizione econo­ mica o giuridica e all'ambivalenza delle loro scelte, ma anche alle contraddittorie attitudini dei paesi ospiti e delle loro istituzioni, quali emergono spesso nei discorsi sull'integrazione o nelle politiche migra­ torie. Infine, come mostrato da Sayad (2002), il migrante vive in una condizione di scissione, di doppia coscienza, ed è percepito spesso in modo sospetto tanto dalle società da cui proviene quanto da quelle nelle quali cerca di realizzare un'esistenza migliore. I modelli che hanno provato a distinguere i differenti profili della migrazione in rapporto ai progetti che l'avevano motivata (asylanten, settlers ecc.) si rivelano debo­ li a un esame etnografico e microsociologico che rivela immediata­ mente la fluidità e la provvisorietà di queste classificazioni. Mimetismo Termine adottato spesso nel linguaggio antropologico per indicare pratiche rituali, culti (di possessione, ad esempio), danze o maschere ecc. nelle cui grammatiche e nei cui caratteri siano rico­ noscibili temi o simboli appartenenti a società o gruppi limitrofi, più 87

spesso a gruppi che hanno esercitato un dominio (colonizzatori). Le strategie mimetiche, l'incorporazione di tratti appartenenti all'Altro, l'appropriazione di alcune sue qualità consentirebbero la riduzione dell'ansia e dello sgomento derivanti dal confronto con un'alterità minacciosa o disorientante, e il suo graduale governo. Nell'imitazione operano logiche di parodia, di sarcasmo, di riproduzione grottesca del dominatore, che quest'ultimo non ha avuto difficoltà a identificare, giungendo in molti casi a reprimere proprio per questo le manifesta­ zioni pubbliche di culti o di danze. La dinamica psicologica del m. è molto complessa: imitando l'Altro, o suoi atteggiamenti, riprodu­ cendo oggetti che gli appartengono (abiti, armi in molti casi e così via), si ridurrebbe la sensazione di assoggettamento e si produrrebbe nei subordinati - seppure all'interno di dispositivi simbolico-rituali o di ambiti cerimoniali particolari - una riaffermazione parziale del proprio potere (la cura sciamanica fra i Cuna di Panama, con le statuine che riproducono i bianchi; le danze in Congo; le maschere pemba del Mozambico, che raffigurano i volti terrifici dei coloni portoghesi ecc.).

Mod e l l i es p l i cativi Definizione proposta da Arthur Kleinman

(explanatory models, Kleinman, 1980) relativamente alle spiegazioni e alle interpretazioni che fondano le rappresentazioni della malattia e della cura e che motivano gli ► itinerari terapeutici o "comporta­ menti di ricerca della cura". Tale concetto oggi non si limita a consi­ derare solo gli aspetti cognitivi o razionali delle interpretazioni, secondo quanto è stato rimproverato a Kleinman da antropologi come Allan Young, ma anche dimensioni affettive e soggettive, valo­ ri ideologici di riferimento impliciti nella percezione di un evento patologico, fattori contingenti e così via. Il termine è spesso utilizza­ to in modo interscambiabile con quello di ► "rappresentazione".

Mystique (m istico) Il termine è diventato d'uso quotidiano in molti

paesi dell'Africa, soprattutto francofona, e costituisce un'altra delle tessere fondamentali dell'immaginario postcoloniale, ricorrente anche nel linguaggio di non pochi immigrati. Derivato dal greco myein ("tacere, chiudere") e dal latino mysticus ("misterioso, arca88

no"), il termine ha conosciuto un largo uso nel linguaggio religioso ma anche, soprattutto fra il secolo XI I I e XVI I , una lenta metamorfo­ si del suo significato ("corpo mistico" designa sino all'x1 secolo l'eu­ caristia, in seguito la Chiesa: così quest'ultima diventa il significato nascosto di un corpo, quello di Gesù Cristo). Alla fine del Medioe­ vo, nota de Certeau (1982), il termine è un qualificativo che precisa forme di dire o di fare, ma alla fine del XVI secolo compare la forma sostantivata, la "mistica". A partire da questo periodo le confessioni rivelano la presenza del mistico all'interno di due registri diversi e speculari: quello del segreto privato (nella forma dell'esorcismo) e quel­ lo della verità nascosta nelle istituzioni (nella forma del miracolo). Il termine delimita dunque un campo ormai unitario, una scienza «che produce i suoi discorsi, specifica le sue procedure, articola degli itine­ rari o delle "esperienze" proprie» (ivi, p. 104). Nei paesi postcoloniali le mutazioni semantiche successive all'evangelizzazione hanno visto una singolare proliferazione dei contesti d'uso di questo termine (con un rovesciamento d'importanza decisiva della sequenza indicata da Miche! de Certeau, a vantaggio cioè di un crescente uso della forma aggettivata), finendo con l'indicare indistintamente tutto ciò che caratterizza l'esperienza metaempirica. Nel linguaggio corrente di molti guaritori è allora mistica una corteccia che produce una schiu­ ma particolare ("sapone mistico"), una liana che assicura l'invisibilità del villaggio, permette metamorfosi o protegge dagli stregoni, il veico­ lo ("taxi mistico") che conduce il malato nel suo "viaggio mistico" nel regno dei morti e delle ombre, il velivolo (anche una semplice scor­ za di arachide) sul quale gli stregoni effettuerebbero le loro spedizioni notturne ("elicottero mistico"). Negli esempi riportati l'uso del termi­ ne evoca esplicitamente la dimensione del potere (il mistico come metafora di abilità, capacità e strumenti posseduti solo da alcuni): un potere individuale che non origina da un territorio sacro e divino, quello di cui parlavano i missionari, perché definitivamente ricon­ dotto alla sfera dell'umano e delle tecniche per metterlo al servizio di azioni particolari (una vera e propria forma di carisma la.ico) . N ell'am­ bito della medicina tradizionale o della ► stregoneria, diversi autori hanno ripreso tale termine e sottolineato che le categorie locali sono lungi dall'essere prelogiche, anzi rivelerebbero una logicità ossessiva

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sebbene fondata su "premesse mistiche" (Turner, 1976, p. 3 5 2; cfr. anche Evans-Pritchard, 2002) , non esente dal rischio di realizzare una mera mistificazione della sofferenza. Nello studio dei saperi medici locali si è in particolare sottolineata l'esistenza di un tale rischio nel ricorso a strategie di cura non empiricamente fondate ("mistificare" è l'ombra sempre presente in queste pratiche, appena dissimulata dalla logica del "mitificare", ha scritto Sylvie Fainzang, 1982).

Ndoep Culto di possessione particolarmente diffuso fra i Lebu e i

Serer (Senegal), oggi il n. è declinato prevalentemente al femminile per l'ostilità dell'islam riguardo ad esso e il conseguente imbarazzo, da parte degli uomini, a manifestare pubblicamente la propria condizione di adepti. Si deve alla scuola di Dakar la prima dettaglia­ ta descrizione del culto, analizzato da Andras Zempléni (1966) e dai coniugi Ortigues nel loro libro Oedipe Africain (1966). La trance da possessione è determinata da spiriti ancestrali: rab ("animale" in wolof) o pangol ("serpente" in serer), immaginati come doppi, compagni invisibili degli esseri umani, che possono essere responsa­ bili di numerosi disturbi nei confronti di coloro che dimenticano i doveri rituali o trascurano i loro altari. La cerimonia del n. si rende necessaria in tutti i casi in cui, una volta riconosciuto che si tratti di un rab, la sintomatologia ingravescente e gli insuccessi di altri inter­ venti terapeutici non lasciano alternative al trattamento. I tuur sono anch'essi spiriti ancestrali che si sono però stabilmente insediati all'interno del lignaggio, istituendo con quest'ultimo un'alleanza dopo che in loro onore sia stato eretto uno specifico altare e sia stato loro attribuito un territorio materiale e simbolico da parte del villag­ gio e della comunità (è il caso di Marne Ndiaré, a Yoff: questo tuur ricorda la vittoria contro il Regno di Cayor, avvenuta nel 1748). Il culto n. è rivolto però in primo luogo a stabilire una nuova alleanza fra il posseduto e lo spirito perché quest'ultimo, placato, non causi più sofferenza. Il rab sarà "fissato" alla fine della cerimonia nel suo nuovo altare domestico (Xamb) . Dopo aver eseguito le diverse fasi preliminari (consultazione e ispezione, seet) , può cominciare la ceri­ monia. Con la polverizzazione di latte cagliato (buusu) da parte della sacerdotessa (ndoepkat) sul corpo della posseduta e il canto del raay

go

(letteralmente "carezza"), prende inizio la fase decisiva della "misu­ ra" (natt) e della "nominazione" (wacce), nel corso della quale viene riconosciuto il rab responsabile della sofferenza sperimentata dalla posseduta. Seguono il sacrificio dell'animale (rey) e la costruzione dell'altare domestico. A questo punto può avere inizio la cerimonia pubblica di trance da possessione, e la trasformazione della possedu­ ta in adepta, che parteciperà d'ora innanzi alle attività della confra• tern1ta.

Négritude Termine intorno al quale si costituì intorno alla metà del

Novecento un movimento di poeti, intellettuali e artisti di colore (Aimé Césaire, Léopold Senghor, René Depestre, Guy Trolien ecc.) impegnati nella orgogliosa riaffermazione della cultura nera, africa­ na o caraibica, della sua creatività e della sua forza espressiva, ma uniti anche dalla comune volontà di entrare sulla scena del dibattito teorico e politico internazionale. La riscoperta dei valori dell'arte africana e dell'estetica "negra" fu anche l'asserzione di un protago­ nismo e di una Storia vista e concepita dal punto di vista della gente di colore. Il movimento si intrecciò in modo significativo con le lotte per l'indipendenza di molti Stati africani contro il potere coloniale, e riprese, per così dire, da un altro verso quanto taluni movimenti artistici (il surrealismo ad esempio) andavano da tempo affermando sul valore delle arti plastiche e figurative africane. La n. non fu esen­ te da critiche, apparendo con il tempo un termine ambiguo tanto allo stesso Césaire, che ne prese le distanze, quanto a Soyinka, che ne derise la tautologia (è sua l'immagine della tigre che non ha certo bisogno di proclamare la sua "tigritudine" ma, semplicemente, affer­ ra la preda). N osta l gi a Termine introdotto da Hofer (heimweh: Hofer, 1934) nel 1688 per descrivere i disturbi segnalati fra i mercenari svizzeri in Francia durante il XVI I secolo. Interpretati sulla base del modello medico umorale, allora dominante, si riconosceva da parte di non pochi osservatori che il solo approssimarsi alle proprie vallate resti­ tuiva al paziente le forze e il normale tono dell'umore. Nel corso dell'Ottocento viene descritta spesso come "malattia del ricordo", 91

per sottolineare il tema dominante del ricordo ossessivo dei luoghi d'origine, e cominciano ad essere segnalate differenze culturali e sociali nella sua incidenza. Con la psicoanalisi la n. verrà interpreta­ ta in relazione ad un'insufficiente elaborazione della perdita e della separazione, e connessa ali'ambivalenza affettiva inconscia nei confronti dell'oggetto d'amore perduto. Più recentemente autori di orientamento psicodinamico hanno ritenuto che diversi tratti di personalità potessero costituire fattori protettivi (personalitàfiloba­ tiche) o, al contrario, favorenti (personalità ocnofiliche) per ciò che riguarda lo sviluppo di forme patologiche di n. La n. rinvia, sul piano clinico ed esperienziale, ad un'assenza, a un vuoto, ad una perdita: sottratta all'uso del linguaggio comune, diventa possibile cogliere la presenza della n. anche in altri territori, come nell'esperienza reli­ giosa (quella mistica, in particolare) o nella nascita del sapere psicoa­ nalitico (De Certeau, 2006), o ancora in quelle forme di sofferenza che esprimono una critica nei confronti dell'esistente (Beneduce, 1998). Il tema della nostalgia attraversa culture e società differenti anche in rapporto a vicende storiche, ali'esperienza dell'espropria­ zione, della sconfitta ecc. La n. ha un'espressione peculiare, sebbene non sovrapponibile, nella nozione di saudade, espressione portoghe­ se originata dal latino solitatem ("solitudine"), apparsa intorno al XIII secolo e diventata il nucleo caratteristico della cultura, della musica (il fado, dal latinoJatum) e della poesia lusitana, ma anche dei paesi luso­ foni (Capo Verde: sodade, Brasile ecc.). A differenza della n. in essa avrebbe un'accentuazione maggiore la possibilità che ciò di cui si lamenta l'assenza possa ritornare, ma è il contesto in cui il termine è utilizzato a dare di volta in volta la particolare colorazione dell'espe­ rienza della perdita, della lontananza, della solitudine, dell'irrevoca­ bilità del destino ecc. La saudade costituisce la tonalità maggiore del libro di Lévi-Strauss Tristi tropici, e ancor più delle sue foto: «icono­ grafia muta» di ciò che «semplicemente non esiste più» (Lévi­ Strauss, 1995, p. 10). Noxema Dal greco noxa, "danno, malattia", il termine indica nell'u­ so che chi scrive ha proposto alcuni anni fa (Beneduce, Collignon, 1995) un insieme di conoscenze, rappresentazioni e pratiche relative a 92

particolari affezioni, alle loro manifestazioni e/ o alle loro cause; un n. può essere diffuso in aree geografiche anche lontane e/o in gruppi etnici diversi. In Africa costituiscono esempi di noxemi: a) il ruolo attribuito ad alcuni uccelli, per lo più rapaci o notturni (gufi, civet­ te, barbagianni, succiacapre) nell'insorgenza di malattie infantili (convulsioni febbrili); b) lo sviluppo di affezioni neonatali provoca­ te dalla trasgressione, da parte di uno dei genitori, più spesso la madre, degli interdetti concernenti i rapporti sessuali durante alcu­ ni periodi di astinenza (gravidanza, puerperio ecc.); c) la nozione eziologica e classificatoria di ► "vento" (sinonimo in molti casi di disturbo mentale); d) il ruolo causale dei ► "vermi" in molte affe­ zioni (soprattutto femminili) ecc. Il concetto proposto è vicino a quello di unità di rappresentazione (Zempléni, 1985c e 1999), con la sola differenza che nel concetto di n. vengono messe in rilievo anche le corrispondenti strategie (divinatorie, terapeutiche, rituali ecc.) inerenti all'evento malattia. Esso s'ispira parzialmente alla nozione di mitema che nell'antropologia lévi-straussiana è l'unità minima e invariante che può essere individuata nell'analisi comparativa dei miti. Nel n. gli elementi invarianti, il cui significato nasce anche in questo caso dal particolare insieme di relazioni nel quale essi sono di volta in volta rintracciabili, possono essere reperiti a livelli logici differenti (quello eziologico dell'interpretazione o della rappresenta­ zione, quello sintomatologico e fenomenologico dell'esperienza del paziente, quello terapeutico della tecnica di cura). Come tutti gli invarianti, l'utilità di questo concetto è d'altronde favorire un approccio comparativo a partire dal quale facilitare il riconoscimen­ to delle differenze, non immaginare presunte essenze.

Pinc "Albero della parola" in lingua wolof (Senegal). Si tratta di

un'immagine centrale nell'immaginario africano: all'ombra dell'al­ bero il villaggio vede riuniti i suoi membri anziani quando si deve discutere, negoziare una decisione, risolvere un problema. Attraver­ so cerimonie collettive si realizza la ricomposizione dei conflitti, e il riferimento ai miti contribuisce a restaurare l'equilibrio messo in crisi tanto nel gruppo quanto nell'individuo: a quest'ultimo si offre così la possibilità di far ritorno all'ordine comune e occupare nuova93

mente il ruolo prescritto dalla tradizione. L'immagine sarà ripresa dalla ► scuola di Dakar-Fann e dal suo ispiratore, Henry Collomb, dando forma a un'esperienza di cura che intendeva proporre uno spazio di ascolto e di intervento coerente con l'universo culturale del paziente e radicalmente rinnovato nei confronti di quel mondo alienato caratteristico delle istituzioni asilari coloniali. Medici, infer­ mieri, pazienti, familiari, guaritori s'incontrano periodicamente, comunicano e condividono le proprie rappresentazioni e le proprie convinzioni relative alla malattia, apprendono altri modelli della cura. L'équipe sa infatti quanto la rete avvolgente dei riferimenti simbolici produce un effetto fusionale - talvolta già terapeutico - su individui e gruppi. Il p. vuole riprodurre l'atmosfera delle cure tradi­ zionali al villaggio, tuttavia i guaritori occuperanno un ruolo margi­ nale, e il modello nonostante le sue premesse innovative verrà sotto­ posto a critiche per le sue irrisolte contraddizioni (Beneduce, 2007). Persona (nozione d i) Questo termine indica le rappresentazioni e le descrizioni inerenti alla p. umana, alle sue componenti (coscienza, Io, anima, corpo, doppio, ombra, principi vitali di diversa natura ecc.), alle sue caratteristiche ("forza", nome ecc.), proprie di ogni cultura o tradizione. A Marcel Mauss (1965) si deve il primo decisi­ vo contributo allo studio antropologico e all'analisi comparativa di questo concetto, nonché il suggerimento - particolarmente prezio­ so per le ricerche relative ai culti di possessione - sulla differenza fra p. e personaggio. Gli studi sulle rappresentazioni della p. hanno caratterizzato una lunga parte della ricerca antropologica, africani­ stica in particolare (si ricordi tuttavia il celebre libro di Leenhardt, Do Kamo, sulle popolazioni della Melanesia), suggerendo implicita­ mente la minore rilevanza (o legittimità) di categorie come "indivi­ duo" o "soggetto" in società non occidentali. Oggi questa prospet­ tiva è stata messa in discussione grazie al contributo di non pochi lavori etnopsicologici fra i quali vanno menzionate le ricerche di Ellen Corin (in Congo, 1980) e di Robin Horton (1983), sulla nozio­ ne di individuo e di destino in Africa Occidentale (in risposta al saggio di Meyer Fortes, 1965). Devono inoltre essere ricordati contri­ buti più recenti quali quelli di Valentin Yves Mudimbe, Richard 94

Werbner, Achille Mbembe, Rosalinda Shaw, Alain Marie, Ivan Karp, Michael J ackson, J oseph Tonda, Anita J acobson-Widding ecc., spesso appartenenti al filone dei post-colonia! studies. Persona listica vs natu ra l istica ( m ed i ci na) Secondo l'antropologo americano Foster (1976), vi sono sistemi medici che prediligono interpretazioni eziologiche e rappresentazioni della malattia centra­ te sugli individui, le relazioni sociali, l'intenzionalità di nuocere dell'Altro, mentre in altri sistemi prevalgono rappresentazioni probabilistiche della malattia ed eziologie che evocano soprattutto cause naturali. Il secondo caso è ad esempio caratteristico della logi­ ca diagnostica della biomedicina, anche se non si può operare una separazione netta perché in tutti i sistemi medici entrambi gli oriz­ zonti interpretativi sono presenti e giocati in relazione al contesto o a vicende particolari. Andras Zempléni (1985c) ha suggerito con altri autori di considerare diversi modelli di ragionamento eziologico (a causalità multipla o a causalità lineare; che distinguono fra causa originaria e causa finale ecc.), che rivelano fra l'altro una inattesa fles­ sibilità "situazionale" del ragionamento medico nei sistemi di cura tradizionali. Peyotism o Movimento religioso e politico sorto negli ultimi anni del xix secolo, che si sviluppò fra gli indiani delle praterie in rispo­ sta alla drammatica crisi sociale, territoriale (furono costretti ad abbandonare le terre di una volta e spingersi verso ovest), culturale ed ecologica (la scomparsa delle mandrie di bisonti), provocata dai coloni e accelerata dalle guerre di secessione. Recuperando l'origi­ nario uso (prevalentemente individuale, terapeutico e protettivo del peyote, una cactacea) all'interno di un rituale collettivo che combinava miti locali e miti cristiani (quando tutti gli indiani avran­ no mangiato il peyote, si sarebbe realizzato il progetto di Dio), il p. mostra esemplarmente il significato politico e assertivo di un movi­ mento religioso nato in un periodo di devastazioni simboliche e materiali quale quello che accompagnò l'etnocidio degli indiani del Nord America. Il p., ancora attivo fra gli indiani delle riserve, fu duramente contrastato dalla Chiesa e dai missionari, che vedevano 95

nel peyote una radice "satanica". Anche il governo degli Stati Uniti si oppose al p., nonostante la sua tenace difesa da parte di non pochi antropologi che, ancora negli anni cinquanta, cercavano di convin­ cere le autorità dell'innocuità del peyote. Il movimento può essere collocato all'interno dei ► profetismi e dei culti religiosi di salvezza che, in tutto il mondo, hanno reagito alla perdita di potere delle popolazioni locali determinata dall'arrivo dei coloni e dei missiona­ ri. Esso si situa accanto a un altro celebre movimento religioso-poli­ tico, quello della Ghost Dance, che ebbe in Toro Seduto ( Tatanka Iyotake o Tatanka Iyotanka in lingua sioux:: 1836-1890) uno dei suoi protagonisti, e che con i suoi temi apocalittici e di salvezza, i suoi profeti, cercò di curare le profonde ferite morali e sociali prodotte dalla conquista e dal genocidio. Il movimento della Ghost Dance faceva sperare infatti in un avvenire in cui sarebbe stato nuovamen­ te restaurato l'ordine di una volta. In tali movimenti la coesistenza di una duplice dimensione terapeutica, individuale e sociale, rappre­ senta uno dei caratteri più significativi, messo in luce da diversi studiosi (Lanternari, in Italia). Possessione (e tra nce d a possession e) Ogni esperienza di modifi­ cazione del comportamento o dello stato di coscienza interpretata da coloro che la sperimentano e dagli esperti rituali come conseguenza dell'intervento di entità non umane (spiriti, demoni ecc.), che pene­ trano nel corpo del posseduto o lo "cavalcano", come ad esempio gli spiriti loa del ► vodu haitiano (Deren, 1983; Métraux, 1971). La p. può "rivelarsi" in forma di crisi, spesso all'interno di contesti terapeu­ tico-rituali in cui essa è incoraggiata (come nel caso del culto ► ndoep in Senegal), oppure, soprattutto negli stadi iniziali, sotto forma di disturbo o malattia dal carattere insidioso (aborti ripetuti o difficoltà riproduttive, insuccessi di vario genere ecc.) (Zempléni, 2005a e 20056). In essa si manifesta una particolare esperienza del Sé e dell'al­ terità, ma anche un diverso orizzonte psicologico. I culti di p., costrui­ ti all'interno di un teatro (e di un lessico) religioso, hanno molteplici significati, fra cui quello di una mnemotecnica in grado di trasmettere di generazione in generazione la memoria incorporata di precisi even­ ti storici (per Augé, 2000, la p. è una figura emblematica del rapporto 96

oblio/memoria, un'archeologia ideale che mette in scena la ca-presen­ za di passati diversi), ma spesso anche un significato politico, indivi­ duale o collettivo, di ribellione e di contestazione dell'ordine esisten­ te, qual è possibile riconoscere in non pochi culti affermatisi proprio nel corso di drammatici mutamenti socioculturali (colonialismo, evangelizzazione, conflitti ecc.). Questi aspetti sono stati enfatizzati dal giornalista Jean Dominique a proposito dei culti vodu di Saut d'Eau ad Haiti (vi fa riferimento in un'intervista rilasciata prima del suo assassinio al regista Jonathan Demme), da David Lan (1985) in merito alla guerriglia in Zimbabwe, da Aiwa Ong (1987) relativa­ mente alle crisi di p. fra le operaie in Malesia, e in altri numerosi conte­ sti (cfr. su questi asp etti Beneduce, 2002). Potere Il p., nell'antropologia medica e nei movimenti di contesta­ zione della p sichiatria asilare (p sichiatria anti-istituzionale), è stato analizzato nel rapporto medico/paziente, nell'atto della diagnosi (che occulta sp esso conflitti e violenze strutturali, quali la p overtà, naturalizzando il male in forme oggettive, sottomesse cioè alla logica neutrale del caso, dell'incidenza, della predisposizione, dell'eredita­ rietà), nel sap ere medico che limita la libertà del malato o partecip a ­ attraverso una capillare farmacologizzazione del disagio - a trasfor­ mare le crisi e i conflitti in meri sintomi (come la somministrazione di p sicofarmaci antide p ressivi anche nell'infanzia, recentemente autorizzata in Francia). La scienza psichiatrica avrebbe anche oggi, secondo alcuni autori, p ro p rio in questo p rofilo il suo nucleo p iù cupo. Taussig (2006) afferma che questi aspetti sono, nella cura, universali: anche le terapie tradizionali, i guaritori, finiscono talvol­ ta - al di là di ogni rappresentazione romantica del loro gesto - con il sacrificare la libertà e il desiderio di chi soffre nell'interesse del gruppo, della riproduzione delle sue gerarchie e delle sue tradizioni (da qui le p rossimità fra cura, normalizzazione e controllo sociale). L'antropologia (quella politica, in particolare) ha sviluppato una ricchissima riflessione sulle diverse forme e logiche del p., della quale anche l' etnopsichiatria dovrebbe appropriarsi: l'organizzazione dello spazio (il "potere della topografia": Gupta, Ferguson, 1992), ad esempio, e le leggi che regolano l'attraversamento dei confini e dei

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territori o il controllo delle risorse (le separazioni istituite dai colo­ ni, l'apartheid come pratica generalizzata del dominio coloniale ecc.); il potere di definire, classificare e ripartire l'ordine delle cose; il p. di istituire differenze arbitrarie, facendole però assumere come naturali o sacre (dettate cioè da presunte leggi di natura o di origine divina); il p. di vita e di morte, o quello esercitato dai ceti intellet­ tuali, al centro delle riflessioni sullo Stato moderno (Agamben, 2003; Mbembe, 2003; Bourdieu, 2002; Wacquant, 2005) .

Presenza , crisi del la presenza Concetto proposto da Ernesto De

Martino (1995, p. 116) per indicare «la capacità di riunire volta a volta nella attualità della coscienza tutte le memorie e le esperienze neces­ sarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situazione storica, inserendosi attivamente in essa mediante l'iniziativa perso­ nale, e andando oltre di essa mediante l'azione». La p. è la capacità di escludere i ricordi negativi o inutili, evocando solo le memorie che sono necessarie in quel particolare momento. La crisi della p. carat­ terizza allora quelle condizioni diverse nelle quali l'individuo, al cospetto di particolari eventi o situazioni (malattia, morte, conflitti morali, "dubbio logico", "ispirazione poetica"), sperimenta un'in­ certezza, una crisi radicale del suo essere storico (della "possibilità di esserci in una storia umana", scrive De Martino), in quel dato momento scoprendosi incapace di agire e determinare la propria azione. Il concetto rivela l'influenza della filosofia di Heidegger e della nozione proposta da quest'ultimo di Dasein ("esser-ci"), così come dell'esistenzialismo di Sartre, ma anche dell'opera di J anet rela­ tivamente a nozioni come quella del "sentimento di vuoto" (perdi­ ta di autenticità, senso di estraneità o di artificialità). In De Martino un'infinita serie di rimandi disegna un'accurata analisi delle condi­ zioni di labilità e di rischio psichico, premessa per la comprensione del significato e del valore della magia e del rito. "L'angoscia della storia", "l'immensa potenza del negativo" assediano l'esistenza umana; il trauma psichico dissocia e "aliena la presenza" determi­ nando la "destorificazione o la alienazione come rischio" e, appun­ to, la perdita della p. Contro tutto ciò agiscono secondo De Marti­ no i dispositivi della magia e della "destorificazione mitico-rituale",

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della destorificazione istituzionale come " difesa culturale dalla disso­ ciazione psichica" (De Martino, 1995, pp. 126 ss. ) .

Profetism i Movimenti che hanno congiunto in forme spesso impre­

viste i temi del cristianesimo con materiali simbolici propri delle tradi­ zioni locali. Sorti per merito di persone che annunciavano di aver ricevuto messaggi, per lo più nel corso dei sogni, da parte di antenati mitici o di defunti, i p. esprimevano esplicitamente il progetto di libe­ rare la terra e le popolazioni dall'oppressivo dominio dei coloni bian­ chi: in Africa il kitawalismo, il kimbanguismo, lo harrismo ecc. sono accomunati da questa dimensione di protesta, senza rinunciare ad assumere un valore terapeutico per i singoli postulanti e i loro mali. I p. hanno in modo evidente mostrato anche la volontà di appropria­ zione del discorso dei missionari, realizzando interpretazioni autono­ me delle Sacre Scritture. Le figure dei profeti sono spesso enigmatici intrecci di leader politici, persone carismatiche, mistici le cui biogra­ fie hanno conosciuto spesso - prima dell'attività profetica - malattie, sofferenze e insuccessi. In anni recenti nuovi p. si sono affermati in varie regioni del mondo, e in Africa orientale il movimento di Alice Lakwena (Uganda) rivela in modo esemplare il congiungersi di profi­ li politici, religiosi, etnici ed economici con quelli di biografie non meno singolari.

Ps i cote ra pi a i ntra cu ltu ra l e , i nte rcu ltu ra i e, m eta cu ltu ra l e Nel

primo numero della rivista " Ethnopsychiatrica" (pubblicato nel 1978) , Devereux propone la seguente definizione: intraculturale è la p. nella quale terapeuta e paziente appartengono alla stessa cultura, benché il terapeuta tenga conto tanto della dimensione sociocultura­ le dei disturbi del paziente quanto della p. stessa; interculturale è la p. nella quale terapeuta e paziente appartengono a due culture differen­ ti: il primo però conosce bene la cultura del gruppo etnico del pazien­ te e l'utilizza come " leva terapeutica" (espressione che ritroveremo in Nathan, 1994, 1996) , sempre però allo scopo di realizzarne " l'autodis­ soluzione finale", perché è quest'ultima a dimostrare che la leva cultu­ rale è stata utilizzata con successo; metaculturale è infine quella terapia dove terapeuta e paziente appartengono a culture diverse ma il tera-

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peuta non conosce nulla della cultura del gruppo etnico del paziente, sebbene egli abbia fatto saggio uso del concetto di "cultura" tanto nella formulazione della diagnosi quanto nella realizzazione della cura. Lo scopo ultimo della ricerca etnopsichiatrica, conclude Devereux, dovrebbe essere la comprensione e l 'esplorazione della sublimazione, della natura della creatività e dell'ambiente che la favorisce. Il lavoro che condurrà Tobie Nathan (1977) sulle nevrosi dei membri della contestazione studentesca in Francia sarà considerato da Devereux un esempio di "etnopsichiatria intraculturale". PTS D

(Post Traumatic Stress Disordetj Categoria diagnostica intro­

dotta dalla psichiatria americana nel DSM-111, nel 1980, sulla base dei disturbi emersi nei veterani della guerra del Vietnam (tossicodipen­ denza, alcolismo, divorzi, difficile reintegrazione sociale, accessi di violenza ecc.). I sintomi più frequentemente riportati in coloro che sono stati esposti a eventi che hanno messo in pericolo la loro inte­ grità fisica o psicologica o quella di altri sono: reazioni di evitamen­ to nei confronti di contesti che rievocano l'esperienza traumatica, difficoltà a ricordare episodi connessi a quest'ultima, ricorrente espe­ rienza di immagini intrusive o sogni relativi al trauma, condizione di allerta ed elevata sofferenza di fronte a stimoli che possono simboli­ camente essere ricondotti all'evento traumatico, difficoltà a concen­ trarsi, inibizione affettiva, irritabilità o disturbi più gravi (di tipo depressivo, paranoico o dissociativo). Definendo come determinan­ te per lo sviluppo del PTS D un evento traumatico al difuori dell 'espe­ rienza ordinaria, i suoi ideatori stabilivano di fatto - indipendente­ mente dai contesti - un astratto criterio di "evento traumatico" e, soprattutto, di quella che è l"' esperienza ordinaria": meglio, assu­ mevano quella di un cittadino medio americano a riferimento del loro standard. Young (1995) e Summerfield (2001) sono stati fra i principali critici nei confronti di questa categoria, di cui hanno messo in luce la debolezza epistemologica, l'uso sociale, la contro­ versa genealogia e soprattutto i limiti etici (essa contribuisce infatti a neutralizzare le componenti "morali" della sofferenza, connessa, in molti casi, al ruolo attivo esercitato dal futuro paziente nell'evento traumatico stesso e nelle violenze perpetrate: com'era appunto il caso 100

dei veterani del Vietnam). Il P T S D ha avuto larghissima diffusione negli ultimi decenni, ed è stato esportato in qualsivoglia contesto culturale sulla base di una sua presunta capacità nel facilitare il preco­ ce riconoscimento dei disturbi, in ciò partecipando a quella che Summerfield ha definito "l'industria del trauma". Il P T S D e la defi­ nizione di evento traumatico (questi gli esempi riportati: conflitto armato, attacco terroristico, disastro causato dall'uomo, rapimento, oltre che violenza sessuale, rapina ecc.) sono sembrati ad alcuni criti­ ci particolarmente coerenti con uno scenario internazionale domi­ nato dal moltiplicarsi dei conflitti bellici e dalla retorica dell'inter• • vento uman1tar10.

Qigong, "d istu rbi m enta li i nd otti d a qigong" Il q. (gong = "eserci­ zio", qi = "energia vitale") è il termine che indica una forma di cura

fondata sulla trance, facente riferimento al concetto di "energia vitale". Nei testi della medicina classica cinese questa pratica è connessa con il taoismo. Tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta molti cinesi hanno fatto ricorso a tale tecnica per lenire i disagi e le sofferenze derivanti dalle violente trasformazioni imposte durante il periodo della rivoluzione culturale. Oltre la metà della popolazione cinese avrebbe fatto uso di tale pratica che, in alcuni casi, avrebbe indotto complessi disturbi. Questi ultimi sono stati solitamente interpretati come la conseguenza di un'esecuzione non corretta degli esercizi o dell'incapacità di "cessare il q.". I sintomi (ansia, paura, irritabilità, depressione, comportamenti bizzarri, allu­ cinazioni o idee di suicidio ecc.) sarebbero dovuti, secondo alcune interpretazioni, all'intrusione di un demone nella persona, che si trova in una condizione di relativa vulnerabilità durante l'esecuzio­ ne del q. Ra d i n Pa u l Nato in Polonia nel 1883, giunge assai giovane negli Stati Uniti dove segue i corsi di Boas e Sapir. Studioso delle culture indiane nordamericane, i suoi contributi più significativi riguarda­ no i Winnebago. In scritti come The Primitive Man as Philosopher (1927), Radin anticipa i contributi della scuola francese sulla complessità dei sistemi di pensiero e le psicologie delle culture tradi101

zionali (Griaule, ad esempio), sottolinea la centralità del religioso all'interno della cultura e indaga le rappresentazioni della persona, dell'Ego, del destino. L'analisi di queste diverse concezioni lo porta a valorizzare la profonda consapevolezza psicologica e filosofica delle società " p rimitive" e dei suoi " p ensatori", p er i quali la familiarità con l'idea di una normale p ersonalità multip la è alla base di un parti­ colare sistema interpretativo della resp onsabilità e delle azioni, ma anche di un coerente orizzonte di psicoterapie. Celebre è anche la sua opera sulla figura del "briccone" (trickster), pubblicata nel 1954 e alla quale collaborarono Carl Gustav J ung e Karl Kerényi. Centrale in molti miti amerindi, il trickster è a suo giudizio una figura chiave, sorta di allegoria che indica il disadattamento, le frustrazioni di alcu­ ni individui all'interno del loro gruppo, i meccanismi di critica e di negoziazione delle norme e dei valori dominanti, ma soprattutto l'emergere (traumatico) di una particolare forma di coscienza di sé, contro la quale l'umanità si ritrae o cerca di reagire in vario modo. Il trickster esprime per R. anche una peculiare forma di hybris, non molto diversa da quella dello stesso etnografo che lascia la sua socie­ tà ma "non può raggiungerne un'altra" (Radin, 1933). Ra p p rese ntaz i o n e Il termine ha diverse accezioni in filosofia (contenuto di un atto di pensiero), nella psicoanalisi freudiana (dove si distinguono una "r. di cosa", a carattere prevalentemente figura­ tivo di p arola, una "r. di p ensiero", una "ra p p resentante di r." o Vorstellungsre-prasentanz, una "r.-scopo" o Zielvorstellung, 1895), in antropologia e in sociologia. È a Durkheim (1898) che si fa risalire la formulazione di questo concetto, nell'intento di sottolineare la distinzione fra r. collettiva e r. individuale: la p rima concorre allo stabilirsi di una visione comune a un gruppo, a una classe, a una cultura al cui interno è condivisa in diversa misura a seconda della posizione di ciascun individuo, il genere, l'età, l'esperienza ecc. La dimensione psicologica delle r. è stata particolarmente valorizzata dallo strutturalismo in relazione a strutture mentali dello s p irito umano considerate universali. Serge Moscovici (1961; cfr. anche Farr, Moscovici, 1989) e Denise J odelet (1992) hanno offerto contri­ buti rilevanti p er lo studio delle rappresentazioni sociali (per Jodelet, 102

la r. sociale è con il suo oggetto in un rapporto di simbolizzazione e di interpretazione). Bruner (1995) ha proposto di distinguere nelle rappresentazioni un registro "iconico" (la conoscenza è mediata dall'ordine figurativo e analogico, dunque dalla somiglianza con esperienze precedenti), "simbolico" (le immagini e le azioni sono tradotte in segni attraverso il linguaggio) ed "esecutivo" o "enattivo" (la rappresentazione mentale si realizza attraverso l'azione, l' esecu­ zione di operazioni ecc.). In antropologia (e in antropologia medica in particolare) il concetto è variamente utilizzato: alla costitutiva ambiguità e al fatto di trovarsi al crocevia di differenti discipline deve la sua centralità e la sua fecondità.

Relativismo cu ltu ra l e Le ricerche condotte sulle lingue hopi, ute,

chinook da Benjamin Lee Whorf (1956) e Edward Sapir (1971 e 1972) relativamente all'influenza che la lingua esercita sull'articolazione dell'esperienza, la percezione del tempo, la nozione di destino ecc., avevano spinto i due autori a ipotizzare un ruolo determinante della lingua su esperienze, percezioni, emozioni, e l'esistenza di mondi culturali fra i quali la traduzione, ancorché possibile, si rivela difficile ed esposta a non pochi rischi di errore (relativismo linguistico-cultu­ rale). Da allora il r. c., meno connesso alla sola sfera del linguaggio, ha finito con il rappresentare la critica più efficace all' ► etnocentrismo, e ha contribuito a valorizzare lo studio e il riconoscimento del punto di vista dei nativi (o, semplicemente, renderne possibile la conoscen­ za, apprezzarne la logica, esplorarne la coerenza). Quando condotto alle estreme conseguenze, giungendo a considerare tutte egualmente valide le varie forme di organizzazione culturale e sociale, il r. c. corre però il rischio di diventare sinonimo di uno sguardo indifferente quale quello di Montaigne (Todorov, 1991). In questi casi è stato messo in luce come, dietro l'apparente rispetto per le differenze culturali, il r. c. può finire con il tollerare ineguaglianze e violenze inaccettabili. La soluzione dell'etnocentrismo critico avanzata da De Martino (1977 e 1995) e i più recenti approcci dell'antropologia ermeneutica (Geertz, 1987 e 1988) hanno offerto soluzioni diverse ai limiti e ai paradossi del r. c., che comunque è ben diverso da un gene­ rico relativismo morale con il quale viene spesso confuso dai suoi 103

detrattori. Il contributo del r. c. nel ri pensare i rapp orti fra culture e gruppi rimane comunque indiscusso, soprattutto in un'epoca in cui lo scontro fra valori , all'ombra di pi ù o meno espliciti progetti egemonici, conosce inquietanti evoluzioni.

Rifugiati Figura giuridica riconosciuta da quelle convenzioni inter­

nazionali che proteggono ogni individuo da discriminazioni reli­ giose, razziali o di altro genere all'interno del paese d'origine o di resi­ denza abituale, la cui im p ortanza nel cam p o dell'assistenza mentale è andata crescendo negli ultimi anni in ragione della presenza di disturbi psicologici fra non pochi di essi, delle contraddizioni ineren­ ti all'accoglienza e al riconoscimento dei loro diritti, alla sofferenza derivante dalla peristen te p recarietà nel p aese os p itante ( cfr. il nume­ ro speciale di " Transcultural Psychiatry" , vol. 44, n. 3, 2007 su Refugees and Forced Migration) . I r. sono stati defìni ti come i " messagge­ ri ammutoliti " (Malkki, 2002) di violenze, arbitrii, conflitti storici: bisogna riconoscere infatti che le loro vicende testimoniano di dram­ mi p olitici ed economici irrisolti, s p esso tollerati con considerevole i p ocrisia. Quando essi chiedono di essere riconosciuti in virtù delle leggi che regolamentano questo diritto , pagano spesso un duplice prezzo . Nei confronti del paese d'origine essi hanno infatti dovuto recidere legami, abbandonare il lavoro, lasciare i familiari, per di più diven tando sospetti agli o cchi di coloro che sono rimasti ( è cioè amplificata, per ovvie ragioni, la dimensione che S ayad riconosce comune a tutti gli emigranti) . Per molti r. la possibilità di ritornare nel pro prio paese è di fatto cancellata. Ma essi pagano un prezzo elevato anche nel paese ospite, dove la loro accoglienza è segnata da incertezze, p recarietà, ambivalenze . Molti r. hanno inoltre vissuto es perienze p articolarmente traumatiche ( ► tortura) , ciò che accresce ulteriormente la loro vulnerabilità psicologica e sociale. Tal uni auto­ ri (Ong, 2005) hanno ricordato anche i rischi derivanti da un 'ecces­ siva burocratizzazione e " terapeutizzazione " dei loro bisogni sociali.

Riti di passaggio L'espressione, formulata da Van Gennep agli inizi

del Novecento, si riferisce a diversi fenomeni della vita sociale, ogget­ to di simbolizzazione e di organizzazio ne istituzionale, nei quali 104

possono essere individuati i momenti della separazione (dalla fami­ glia e dal gruppo), della transizione (del mutamento, dell'incertezza, dell'apprendimento) e della riaggregazione (del ritorno e dell'acqui­ sizione del nuovo status). Sebbene l'autore si riferisse ad una vasta gamma di ambiti (nascita, malattia, circoncisione, matrimonio, viaggio, morte ecc.), fra tutti sono quelli iniziatici (ingresso in una classe d'età, riti di circoncisione, intronizzazione, chiamata sciama­ nica ecc.) che più di altri hanno attratto l'interesse di antropologi, sociologi e psicologi, anche in ragione del fatto che questo stesso termine rimane secondo Augé (1997) carico di mistero. Nei r. di p. è possibile riconoscere vere e proprie pedagogie, più o meno trauma­ tiche, rivolte alla costruzione di individui culturalmentefabbricati (si vedano i lavori di Turner in Zambia fra gli Ndembu, Heald fra i Gisu dell'Uganda ecc.). Nei riti iniziatici si coglie un insieme di fatti ricorrenti (la morte e la rinascita simboliche, ad esempio), e soprattutto la sovrapposizione fra ordine individuale e sociale. In quelli di pubertà il biologico, lo psicologico, il sociale sono intrecciati e ripensati: in essi il corpo è la materia prima da plasmare, dove saran­ no inscritti i segni dell'appartenenza al gruppo e le tracce di una memoria comune e perenne (tale in virtù del dolore) (Clastres, 1984a e 19846). I riti iniziatici traggono la loro efficacia a partire da logiche eterogenee ma indissociabili: le trasformazioni psicologiche della fase transizionale o liminare, finemente analizzate da Turner (1976), si realizzano attraverso un'azione violenta fatta di esperienze spesso scioccanti (come nel caso dell'iniziazione sa fra i Bulu del Camerun, soppressa durante l'amministrazione coloniale e caratterizzata da violenze fisiche, momenti di terrore, umiliazioni, atti omosessuali ritualizzati ecc.). Tali esperienze sono rivolte alla cancellazione dell'i­ dentità precedente allo scopo di produrne una nuova e forgiare un nuovo rapporto con il mondo e la società, oltre che con il Sé (Turner ha esteso l'uso della nozione anche ad altri ambiti: cfr. Turner, 1986). L'altra logica è eminentemente politica, dal momento che i riti iniziatici nella loro caotica ma regolata cascata di simboli, esperien­ ze, emozioni, contribuiscono generalmente alla riproduzione della struttura sociale confermando l'autorità del sapere e dell'ordine tradizionali. Nei riti iniziatici un altro elemento ricorrente è la dialet10 5

tica rivelazione/segreto, nucleo centrale di tutte le dinamiche di potere (quando i giovani indiani hopi scoprono che il dio Katcina è, sotto le maschere, nient'altro che il loro p arente o un amico p iù anziano, sono colti da un'esperienza di stup ore e incredulità, un vero shock p er l'inattesa mistificazione, p oi s p erimentano una sorta di tristezza che p relude a una consa p evolezza che Octave Mannoni definisce "mistica": 1969, pp . 9-33). La credenza infantile è stata cioè smentita violentemente, qualcosa è passato dall'altra parte (questo, ricorda ancora Mannoni, il significato del termine). I "riti di istitu­ zione" considerati da Bourdieu (1982) creano anch'essi cambia­ menti irreversibili operando una differenziazione fra il prima e il dopo, ma soprattutto consacrando una differenza (una gerarchia) fra coloro che vi hanno avuto accesso e coloro che non p otranno mai conseguire quello status. All'interno di una combinazione di chiasmi (fra biologico e sociale, psicologico e politico, sapere e potere, simbo­ lico e somatico), le trasformazioni e le inversioni - sp esso di ordine sessuale - osservate nei riti iniziatici, disegnano inoltre una precisa architettura del tem p o (l'iridescenza dei confini fra individuale e sociale spicca anche in questo caso); le loro espressioni non devono essere p erò cercate unicamente all'interno delle società tradizionali o solo nelle complesse strategie cerimoniali. Sempre più spesso si affer­ mano oggi nuove e impreviste strategie ordinate secondo una logica analoga a quella dei riti iniziatici, ma realizzate dentro uno spazio sociale e simbolico radicalmente diverso: così è per il viaggio di tanti bambini e adolescenti immigrati, che nella separazione dalla famiglia e dalla società, nel vagabondaggio spesso scandito da rischi, solitu­ dini e violenze, nell'abitare una clandestinità fatta di relazioni ambi­ gue e identità fittizie o nell'apprendimento di nuove lingue, attua­ no cambiamenti e perseguono obiettivi che sembrano identici a quelli caratteristici dell'iniziazione. E sufficiente ricordare a questo riguardo il valore simbolico, psicologico e politico dell'atto di bruciare i propri documenti prima di lasciare le coste africane da parte degli emigranti clandestini, harraga, parola che significa lette­ ralmente "incenerire". Il segno della loro metamorfosi contraddice p erò l'idea che i riti iniziatici contribuiscano in quanto tali a rip ro­ durre l'ordine sociale (Gluckman, 1977). Se infatti è legittimo anche 10 6

in questi casi parlare di r. di p. (un immigrato non sarà mai più lo stesso, l'evento dell'emigrazione costituirà nella sua biografia e nel relativo racconto una sorta di cronotopo fondamentale, per ripren­ dere l'espressione di Bachtin), altrettanto importante è riconoscere che essi p romuovono un comp lesso mutamento delle culture d'ap ­ partenenza, nel corso del quale saperi, gerarchie, stili e valori cambia­ no in modo radicale. I r. di p., i rituali in generale, non devono esse­ re in definitiva p ensati come immobili nel temp o, fissati alla tradi­ zione: essi incorporano vicende e conflitti, mettono in scena strategie controegemoniche, e in essi si sedimentano significati e memorie: ne costituiscono un esempio maestoso i rituali funerari e le rappresen­ tazioni della morte in Messico (Lomnitz, 2006). R6 h ei m G éza (1891-1953) Etnologo e psicoanalista nato a Buda­ p est, intrap rese una p rima analisi con Sandor Ferenczi, p oi con Vilma Kovics. Dopo le aperture del governo comunista di Béla Kun, la breve carriera accademica di R6heim si chiude con il governo contro­ rivoluzionario di Horthy, che determina la sua scelta di lasciare il paese. Lontano dall'Ungheria egli ha però l'occasione di stringere rapporti più stretti con il circolo psicoanalitico. A quell'epoca le criti­ che all'universalità del comp lesso di Edip o espresse da Malinowski erano state già oggetto di una replica teorica da parte di Jones, ma in questa mancavano riflessioni nate da ricerche sul campo che potesse­ ro con maggiore legittimità contestare le teorie dell'antropologo polacco. Fu a R. che Freud, Ferenczi, Kovacs e Bonap arte affidarono il compito di realizzare una più matura connessione fra psicoanalisi e antropologia e la confutazione delle conclusioni alle quali era giunto Malinowski, questa volta però a partire da ricerche etnologiche, che R. effettuò soprattutto in Australia. Qui l'incontro con gli Aranda, i loro miti e gli "eterni esseri del sogno" (altjira, termine polisemico che si riferisce ad un racconto/storia mitico, al tempo nel quale questo racconto è stato prodotto, ma anche alla legge culturale e ai sogni), segnerà per sempre la sua esperienza. R. scriverà sul totemismo e i simboli australiani, sul mito, sul ruolo della figura materna, propo­ nendo una prospettiva ontogenetica che gradualmente prenderà il posto, nel suo pensiero, di quella filogenetica tracciata da Freud in 107

Totem e tabu. Cresce intanto nei suoi lavori l'inflenza di Melanie Klein. L'idea di un'infanzia prolungata del genere umano sarà alla base della sua interpretazione della cultura (R6heim, 1943). Tanto le caratteristiche del nostro psichismo, le sue vulnerabilità (la nevrosi, ad esempio), quanto la cultura stessa, sarebbero secondo R. la conse­ guenza di un'infanzia prolungata, caratteristica della specie umana. Questa idea era fondata sul modello biologico della neotenia (Koll­ mann) o "fetalizzazione" (Bolk): termine con il quale alla fine dell'Ottocento alcuni scienziati avevano definito l'attitudine che possiede un animale a riprodursi conservando però la struttura imma­ tura o larvare degli stadi precedenti, come fra i batraci, e più in gene­ rale la persistenza di tratti (mentali o fisici) propri dell'età infantile, come è nel genere umano per le dimensioni del cranio (essenzial­ mente costanti dalla nascita alla morte). La situazione infantile carat­ teristica di ogni società (le angosce, le esperienze traumatiche ecc.) determina secondo R. le peculiarità di ciascuna cultura e i temi che dominano la vita sociale (gli studi sui gruppi australiani lo portano a concludere che le cerimonie, gli interdetti, i rituali della subincisione del pene, gli stessi temi mitici non rappresenterebbero - fra gli abori­ geni delle regioni centrali - che "controinvestimenti di tipo fallico" all'esperienza dell' alknarintja: la consuetudine cioè delle madri di dormire sul figlio quasi simulando la posizione del coito, al tempo stesso però rovesciando i ruoli sessuali. La cultura si svilupperebbe dunque su un registro di sublimazione, analogo a quello individuale. L'esperienza sull'isola di Normanby (Papua Nuova Guinea), dove non si ripeterà lo stesso positivo controtransfert sperimentato nei confronti degli aborigeni australiani, offrirà nuovi materiali contro la tesi di Malinowski: sia l'analisi di alcuni comportamenti (il gesto di prendere fra i denti da parte dei padri i genitali dei figli dicendo "io lo mangio, lo strappo"), sia l'intervento dello zio materno nella vita del bambino (intorno ai 7 anni, quando ormai già si è instaurato il complesso edipico), documenterebbero secondo R. la presenza del complesso al di là di ogni dubbio. Con R. ha inizio la stagione più feconda dell'antropologia psicoanalitica: le interpretazioni psicoana­ litiche dei dati culturali sono legittime, ma solo a condizione di esse­ re integrate da dati antropologici. 10 8

Sa/adera Il termine, utilizzato in Perù, deriva dalla parola spagno­ la sa/, "sale", e indica uno stato di grave ansia, con frequenti distur­

bi del ritmo respiratorio, generato dalle difficoltà o dagli insuccessi nel contesto urbano. Il sale è un elemento ambiguo (vitale nei climi tropicali, ma dannoso per la vegetazione), considerato tabù da quan­ ti assumono piante allucinogene come l'ayahuasca perché ne ridur­ rebbe l'efficacia. A differenza di altre affezioni caratterizzate da gravi disturbi psicosomatici (come nel caso del dano) , ritenuti conse­ guenza della stregoneria, la s. sarebbe determinata dall'intervento di persone comuni (a causa cioè della loro malizia o invidia), che cause­ rebbero i disturbi riportati dalla vittima attraverso l'uso di sostanze velenose. Dobkin de Rios (1981) ha analizzato questo disturbo anche in relazione alle trasformazioni intervenute nei saperi e nelle pratiche dei guaritori, che di fronte alle sfide del cambiamento sociale tenta­ no di combinare elementi della tradizione india amazzonica, del cristianesimo, delle credenze metafisiche introdotte dagli europei nei secoli passati, ad esempio il kardecismo. Quest'ultimo è un movi­ mento che ha fra le sue caratteristiche principali la comunicazione con gli spiriti e deve il suo nome ad Allan Kardec, pseudonimo preso a prestito dal nome di un poeta celtico dall'educatore francese Hyppolite Léon Denizard Rivail (1804-1864). Sa nteria Definita anche Regia de Ocha, la s. è basata sul culto degli orisha, divinità di origine yoruba (Benin, Nigeria), più frequente­ mente chiamati santos, i quali, dopo aver riconosciuto i devoti come propri figli, vengono "fissati" sulla loro testa. Il pantheon delle divini­ tà orisha è estremamente ampio e complesso (Elegui, Echu, Yemaya, Obatali, Shango ecc.). Il termine di abbd o di oriatévi designa la figu­ ra del maestro di cerimonia. A Cuba la s. ha sempre avuto fedeli anche fra le classi medio-alte, come già metteva in luce la celebre ricerca di Lydia Cabrera (1993). Alla s. si oppone la Regia de Palo Monte, che si basa sul culto dei morti e conosce diversi gradi di iniziazione. Oggi la s. continua ad essere saldamente ancorata alla vita quotidiana di una parte non piccola della popolazione cubana, sia in ambiente rurale che urbano, operando come strumento rivolto spesso a contenere le ango­ sce, le sfide e le inquietudini che attraversano l'esistenza. 109

Sch izofre n ia Termine introdotto da Eugen Bleuler nel 19 11 e da

allora diventato un concetto cardine di tutte le classificazioni psichiatriche, al cui interno convergono alcuni dei più gravi sintomi di natura psicotica (disturbi del linguaggio, allucinazioni uditive e visive, difficoltà nelle relazioni interp ersonali e nel rapp orto con la realtà, tendenza all'isolamento ecc.). La s. ha ricevuto innumerevoli interpretazioni, nessuna delle quali ha p erò consentito la realizzazio­ ne di una strategia terapeutica efficace, tanto meno quelle di orien­ tamento biologico che non hanno mancato di evocare l'ipotesi vira­ le, le alterazioni di alcune aree corticali, le conseguenze di una rispo­ sta autoimmune ecc. Gli psicofarmaci attualmente utilizzati, sebbene caratterizzati da minori effetti collaterali rispetto al passato, non sono sempre ben tollerati e contribuiscono p oco a modificare il decorso o l'intensità di alcuni disturbi (poco o nulla modificano, ad esempio, l'esperienza delle allucinazioni uditive). L'affezione è gene­ ralmente connotata da un livello elevato di sofferenza, ma anche dalla tendenza a intellettualizzare e razionalizzare l'esperienza della malattia e la sofferenza stessa. Considerando questi e altri aspetti (fra i quali la frequente evoluzione verso la cronicizzazione), Devereux la definì " p sicosi senza lacrime" p er sottolinearne la p articolare coerenza con l'ethos e la cultura della società statunitense, dove è per altro più elevata che altrove l'attitudine degli psichiatri a formu­ lare tale diagnosi. Nella società americana la s. sembrava infatti ripro­ durre, in forme estreme, valori come l'autonomia e l'individualismo, il controllo delle emozioni, il mito del selfmade man ecc. L'lnterna­ tional Pilot Study on Schizophrenia, condotto negli anni settanta dell'Organizzazione mondiale della sanità, e ricerche ulteriori avreb­ bero confermato, nonostante alcuni limiti metodologici, il profilo p er dir così storico-culturale di questa affezione (differenti erano, nei vari contesti indagati, l'incidenza, l'esperienza individuale, il decor­ so e la prognosi dell'affezione, anche in ragione delle ben diverse risposte sociali). Indipendentemente dal fatto che l'esperienza e l'interpretazione di condizioni analoghe differiscono considerevol­ mente in società non occidentali, sono numerose le contestazioni di cui la s. è stata oggetto anche all'interno della psichiatria occidenta­ le relativamente alla sua presunta autonomia e unità nosografica. 110

Richard Warner ha più recentemente esaminato il ruolo del merca­ to del lavoro e delle forze economiche o politiche nel modellare esor­ dio e decorso della s. Janis Hunter Jenkins ed Ellen Corin hanno invece indagato, con approcci differenti, le dimensioni soggettive della s., la loro influenza sui percorsi che possono condurre alla guarigione e il significato di paradossale "nicchia" protettiva che talvolta la malattia può assumere per alcuni pazienti. Scia manismo Dal termine tunguso faman, derivato dal pali samana e quest'ultimo, a sua volta, dal sanscrito Eramana, "monaco". Nel riportare l'origine del termine cinese, Turner (1986, p. 65) ricorda anche la formula di Chi Fah-Hian: «Il significato della parola cinese è "diligen­ te" o "laborioso". La radice sanscrita è sram, "essere stanco"». Il complesso fenomeno dello s. concerne attività eterogenee (cura, prote­ zione del raccolto e del villaggio, lotta contro gli stregoni ecc.) realizza­ te da colui che è in possesso di particolari poteri (capacità di realizzare stati intensi di trance, evidenziati generalmente dalla comparsa di un tremore tipico ecc.); durante la trance l'anima dello sciamano viaggia e con l'aiuto di spiriti alleati va alla ricerca dell'anima della vittima, rapi­ ta da entità responsabili di mali e afflizioni. La sua azione è rivolta al recupero dell'anima (la cui cattura in alcune regioni dell'Asia si mani­ festa con la caduta di petali di fiore sul tamburo dello sciamano). Il termine, utilizzato soprattutto in riferimento al continente asiatico e a quello americano, è stato adottato anche nel contesto africano da auto­ ri come Nadel (1946) o Lewis (1972), i quali hanno tra l'altro reso evidente la difficoltà di differenziare sulla base di criteri rigorosi scia­ manismo e possessione spiritica. Mircea Eliade (1974) aveva interpre­ tato lo s. come una forma più arcaica e pura di religione, storicamente antecedente alla possessione. Secondo Devereux (1978, p. 234), che inizialmente aveva descritto gli sciamani mohave come estroversi o esuberanti, lo s. «è un sintomo, o meglio una sindrome restitutiva, forni­ ta dalla cultura», e lo sciamano una persona nella quale si dissolve la distinzione fra credenza collettiva ed esperienza soggettiva. Numerosi studi hanno mostrato quanto sia importante la dimensione della soffe­ renza, o esperienza della malattia, nelle biografie degli sciamani, che Lewis definiva "medici feriti". Questo giudizio non equivale tuttavia 111

ad affermare che gli sciamani sono affetti da un grave disturbo psichi­ co, secondo quanto sostenuto da Devereux. Perrin, a proposito degli sciamani guajiro (Colombia e Venezuela), sostiene che sarebbe impro­ prio considerare la vocazione sciamanica (non meno di quella religiosa o psicoanalitica) come la manifestazione di devianze psichiche: si trat­ ta piuttosto di riconoscere nello s. «l'espressione di una percezione implicita delle relazioni tra il mondo, l'uomo e il suo corpo, sottomes­ se a vicissitudini biologiche diverse (l'invecchiamento, la malattia o la morte) che la psicologia e la psicoanalisi tentano, dal canto loro, di pensare oggi scientificamente» (1992, p. 140). Oggi si moltiplicano in diversi paesi fenomeni di s. urbano o "neosciamanismo": se le derive della commercializzazione e dell'uso strumentale (a scopo turistico, ad esempio) sono in questi casi palesi, devono al tempo stesso essere rico­ nosciute le ragioni profonde di un fenomeno che origina dalla crescen­ te incertezza sociale, economica, morale e culturale (come nel caso dei paesi dell'ex Unione Sovietica o della Germania dell'Est dopo la cadu­ ta del muro di Berlino: Lindquist, 2006). Scu ola d i Da ka r- Fa n n Grazie al lavoro di Henry Collomb, medico psichiatra francese con lunga esperienza maturata sia in Oriente (durante la guerra d'Indocina), sia in Etiopia come medico milita­ re, nasce una delle più celebri esperienze di ricerca e di lavoro clini­ co, esplicitamente ispirata all'etnopsichiatria. Gli aspetti salienti sono l'analisi dei sistemi locali di cura e la volontà di collaborare con i guaritori, l'introduzione nell'ospedale di strategie cliniche ispirate alla psichiatria comunitaria e alle tradizioni africane ( ► pene), la costruzione dei "villaggi terapeutici". All'équipe diretta da Collomb collaborarono René Collignon, Maurice Dorès, Paul Martino, Marie-Cécile ed Edmond Ortigues, Andras Zempléni e molti altri. Le critiche di Storper-Perez (1974) mostreranno taluni limiti dell'e­ sperienza (i guaritori non occuparono mai quel ruolo che era stato immaginato per essi, rimanendo piuttosto spettatori marginali all'interno dell'ospedale). Oggi poco sembra essere rimasto nella memoria di Dakar-Fann, soprattutto tra i più giovani psichiatri senegalesi, e tuttavia l'esperienza di Collomb definisce una svolta nella storia dell'etnopsichiatria, mostrando le ampie possibilità teori112

che, oltre che le contraddizioni, dell'incontro fra psichiatri e guari­ tori, fra psichiatria occidentale e sap eri locali.

Selezione negativa, selezione positiva Il primo termine è stato utiliz­

zato spesso in passato per sostenere che ad emigrare sarebbero soprat­ tutto soggetti scarsamente adattati nel contesto d'origine, caratteriz­ zati da una personalità premorbosa (migrantaliénl) o affetti da distur­ bi psicologici. Nel caso della selezione positiva si sostiene invece il contrario: emigrano coloro che sarebbero dotati di migliori capacità (fisiche, intellettive, adattive), e sui quali la famiglia e il gruppo avreb­ bero operato una sorta di investimento morale ed economico, parte­ cipando alla costruzione del "progetto migratorio". Entrambi i modelli sono stati criticati p er l'idealizzazione di questi tipi e p er la impropria generalizzazione delle motivazioni e delle circostanze dell'e­ migrazione: condannata come ogni generalizzazione ad essere inade­ guata nel rappresentare la totalità delle complesse ragioni all'origine dei processi migratori, soprattutto quando si considerino variabili come povertà, violenza, conflitti bellici ecc.

Si nd rome d i Gilles d e la Tou rette Sindrome che p rende il nome dal

medico che per primo la descrisse alla fine dell'Ottocento, caratte­ rizzata da disturbi neurologici e comportamentali complessi (incoor­ dinazione motoria, ecolalia, tic, oscenità p ronunciate in modo compulsivo al di fuori di ogni controllo ecc.). La sindrome è stata messa in ra p p orto con quadri clinici, disturbi e com p ortamenti descritti in p articolari contesti sociali o culturali (sindrome dei salta­ tori del Maine o jumping, Mi ryachit in Siberia, Latah in Malesia ecc.), inaugurando quel progetto comparativo della psichiatria transculturale che sarebbe stato portato avanti da Emil Kraepelin nel suo lavoro sulla dementia praecox (Beneduce, 2007).

Si nistrosi La parola indica la sintomatologia successiva ad un trau­

ma occorso durante il lavoro: la vittima, p ur non essendoci p rove oggettive di conseguenze fisiche (lesioni, danni documentati a orga­ ni interni ecc.), sosterrebbe di soffrire di disturbi al solo sco p o di ottenere un indennizzo e godere così dei relativi vantaggi economi113

ci. Il concetto, che finisce con lo svalutare profondamente la sinto­ matologia soggettiva del paziente interpretandola come una risposta nevrotica o una mera strategia manipolatoria (inconscia, in alcuni casi), ha trovato largo impiego da parte dei medici francesi negli anni sessanta, soprattutto nel caso di pazienti immigrati. Da Fanon (2007) a Sayad (2002), la critica dell'ideologia implicita in questa diagnosi ne ha decostruito definitivamente i presupposti.

Siste m a m ed i co trad izion a le Formula solitamente utilizzata per

indicare il complesso di conoscenze e di pratiche, caratteristico di particolari gruppi o culture e relativo alle malattie e alle loro interpre­ tazioni, all'uso di rimedi vegetali o d'altro tipo, ai rituali terapeutici. Un s. m. t. è in genere studiato come proprio di un'area culturalmen­ te circoscritta ed è caratterizzato da un particolare insieme di catego­ rie, di risorse e di istituzioni operanti di fronte all'evento "malattia". Un s. m. t. viene identificato dunque con la storia e le tradizioni della popolazione alla quale si fa riferimento e, in quanto tale, contrappo­ sto alla medicina cosmopolita, a vocazione universale e fondata sulla scienza sperimentale inaugurata in Europa nell'Ottocento. L'espres­ sione di "medicina cosmopolita" è spesso utilizzata come equivalente a quella di "medicina occidentale". Tra le medicine convenzionali o classiche taluni includono però anche quella cinese o ayurvedica, il cui corpus teorico e la cui complessa architettura epistemologica, affidati a manuali e trattati, non sono sovrapponibili ad altri s. m. t., come ad esempio alle medicine locali africane, solitamente più frammentate. Da tempo l'espressione s. m. t. è oggetto di ripensamento da parte di chi ne sottolinea la fluidità, le contaminazioni, le "creolizzazioni": in una parola, la storicità. Quale che sia il contesto d'uso, i sistemi medi­ ci tradizionali non sono comunque circoscritti al solo campo della salute, della malattia e della cura: ordine sociale, religioso, morale e politico ne costituiscono infatti la trama profonda e costantemente presente nelle strategie diagnostiche e nella cura. Sociosom atica Il termine è stato utilizzato da Collomb (1995) negli anni settanta in riferimento al legame fra esistenza sociale, vincoli del gruppo e desideri di morte inconsci che quest'ultimo può provare 114

nei confronti di uno o più dei suoi membri. Tali desideri e pulsioni a carattere distruttivo possono influenzare il destino dell'individuo, generare conflitti o contribuire all'insorgenza di disturbi e malattie. Kleinman (1986), psichiatra e antropologo statunitense, utilizzerà il termine di "reticolo sociosomatico" per indicare l'intreccio fra soffe­ renza psicologica, disturbi somatici e contesto sociopolitico in Cina: all'interno di questo reticolo il corpo gioca il ruolo di un ponte simbolico che media l'esperienza sociale.

Stati mod ificati d i coscienza (o, in accezione più medicalizzante,

"stati alterati di coscienza") Condizione nella quale l'attività ordi­ naria della coscienza osservabile nello stato di veglia è modificata o, nelle forme estreme, profondamente alterata (come nel caso di assunzione di sostanze psicotrope o allucinogene: ibogaina, psiloci­ bina, mescalina, L S D ecc.), con variazioni significative nella perce­ zione, nell'ideazione, nella memoria, oltre che in alcuni parametri fisici (temperatura corporea, pressione arteriosa, ritmo cardiaco ecc.). Gli s. m. di c. sono realizzati consapevolmente a scopo rituale in molte culture facendo ricorso anche ad altre tecniche (digiuno, isolamento ecc.), e nella tradizione religiosa europea dei secoli scor­ si tali tecniche erano ben conosciute dai mistici. Negli anni sessanta numerose ricerche farmacologiche avevano sostenuto i potenziali benefici di alcune sostanze allucinogene nell'ampliare l'esperienza e il grado di autoconsapevolezza, o addirittura (come nel caso dell'i­ bogaina) nel competere a livello dei recettori neuronali con gli oppiacei, permettendo così un'efficace risoluzione della dipendenza. Le variazioni descritte nel corso degli s. m. d. c. possono essere cerca­ te all'interno di contesti rituali durante i quali è previsto l'uso di piante dotate di poteri allucinogeni (è il caso della religione ► bwiti, in Gabon e nel Camerun meridionale, dove si fa uso della corteccia delle radici dell'eboga; o del ► peyotismo, in America settentriona­ le, dal nome nahua del cactus, Lop hophora williamsii, utilizzato anche per combattere da parte degli indiani l'alcolismo diffusosi dopo la conquista da parte dei bianchi). L'uso di tali sostanze sembra importante nel facilitare l'incontro con le divinità, con lo spazio del sacro o, in altri casi, come premessa per una trasformazione della 115

personalità di chi dovrà esercitare funzioni o ruoli particolari (scia­ mano, maestri dei culti di possessione ecc.). Nei movimenti di contestazione apparsi negli Stati Uniti e poi diffusisi in tutto il mondo, l'uso di tali sostanze fu oggetto di valorizzazione (arricchi­ mento dell'esperienza, funzione socializzante ecc.), e il suo significa­ to politico fu esplicitamente asserito. L'ampia utilizzazione della marijuana ha sempre fatto contrasto con l'uso più circoscritto della cocaina, sebbene oggi la crescente diffusione di quest'ultima costi­ tuisca uno dei dati più allarmanti. Nuove sostanze continuano intanto a invadere il mercato: si sono modificati i luoghi del consu­ mo e si è notevolmente abbassata l'età media in cui comincia il loro uso, ciò che di per sé ha determinato anche la trasformazione del linguaggio e del significato di contestazione ad esse attribuito. Stregoneria Concetto singolarmente ambiguo e polisemico, tanto nella tradizione culturale europea (dall'epoca dell'Inquisizione ad oggi) quanto negli studi di antropologia africanistica, la nozione di s. continua ad essere ampiamente utilizzata nonostante i suoi limi­ ti perché non è stato trovato un termine che con altrettanta effica­ cia sia in grado di denominare un così ampio campo di fenomeni ed esperienze. La sua etimologia rinvia ad un uccello notturno (strix) . Gli studi di Carlo Ginzburg ( 2002) hanno messo in evidenza il processo di complessa costruzione sociale della s. in una regione italiana fra Cinquecento e Seicento, nel corso della quale il ruolo della Chiesa e dell'Inquisizione è stato determinante ma non univo­ co nel trasformare, in senso negativo, quella che era una pratica avente in origine il valore di culto agrario e di fertilità (di protezio­ ne dei raccolti, in particolare, affidata ai benandanti) . L'autore ha sottolineato anche la reciproca influenza fra classi colte e classi popolari in questo processo di costruzione della rappresentazione della s. e l'eterogeneità individuale di pratiche e credenze. Jeanne Favret-Saada (1977) ha analizzato la dimensione performativa del "gioco linguistico" della stregoneria nella Francia rurale contem­ poranea, al cui interno già il solo atto di porre domande in merito alla s. genera inevitabilmente sospetti, dal momento che un tale sapere prefigura sempre e automaticamente un uso delle conoscen116

ze relative alla s., e dunque l'acquisizione di un potere. In Africa la s. ha rappresentato un campo di ricerche privilegiato dell'antropo­ logia, che ha indagato le rappresentazioni locali di vari modelli di s. (celebre è lo studio di Evans-Pritchard fra gli Azande del 1937, fra i quali egli distinse i poteri acquisiti attraverso un consapevole apprendistato da parte del fattucchiere, sorcerer o mago, da quei poteri psichici inconsapevolmente posseduti dal vero stregone, witch, e attribuiti alla presenza di una "sostanza stregonesca", mangu, contenuta nel suo corpo) (Evans-Pritchard, 2002) . La ricer­ ca di Lluis Mallart Guimeri (1981) fra gli Evuzok del Camerun ha evidenziato come la s., evu, non avesse prima dell'arrivo dei missio­ nari un carattere morale definito: qui essa viene rappresentata come un essere dalle caratteristiche morfologiche ambigue che vive nel ventre degli stregoni. Vietar Turner (1976) ha messo in guardia gli studiosi dall'immaginare una classificazione dei diversi tipi di s.: la dicotomia descritta tra gli Azande non ha sempre equivalenti stret­ ti in altre culture. L'antropologia ha sempre più spesso messo in luce il ruolo dell'evangelizzazione e delle amministrazioni coloniali nel fabbricare specifiche espressioni della s. Il divieto della "caccia agli stregoni" in epoca coloniale, a coloro che erano sospettati o accusa­ ti di aver commesso atti di s., avrebbe prodotto ad esempio effetti paradossali: cancellando questa forma locale di "controllo" dei conflitti sociali, il divieto avrebbe determinato un risentimento verso la giustizia coloniale ma nient'affatto impedito il fenomeno della s., che oggi anzi sembra conoscere una proliferazione inattesa. In genere, come in Europa, anche in molte culture africane la nozio­ ne di s. era in origine caratterizzata da una forte ambivalenza, come lo è in genere la natura del potere: essa indicava in alcuni casi quali­ tà o doti specifiche, una sorta di carisma laico, donato cioè dagli uomini e non da Dio (e che assumeva forme diverse: potere di cura­ re, di arricchirsi, di esercitare il p otere politico ecc.). L'opera dei missionari avrebbe invece reso saliente il solo profilo negativo e minaccioso, parallelamente alla costruzione dello stereotip o del selvaggio immerso in un mondo tenebroso scandito da superstizio­ ni, rituali violenti, uso di veleni. Più recentemente, di fronte al moltiplicarsi delle accuse di s. (come nel Sud Africa del post-apar117

theid), un nuovo filone di ricerche ha messo in luce la "modernità" di tale nozione (una ragione in più per non cancellarla dal nostro vocabolario sebbene debba essere riconosciuta la sua ingannevole unità concettuale), e sottolineato la capacità che essa ha di dar nome a conflitti sociali, politici, morali o generazionali (l'assassinio di vecchi sospettati cioè di essere stregoni, o la diffusione di accuse rivolte a "bambini-stregoni" in aree di grande crisi sociale sono eloquenti testimonianze di tali lacerazioni e conflitti). La s. costrui­ sce il suo radicamento fra dinamiche di accumulazione (di ricchez­ ze, di potere ecc.) e strategie cultuali rivolte a contenere le disugua­ glianze, articolandosi nell'immaginario collettivo con particolari rappresentazioni del corpo, della persona, del potere. Essa si rivela in definitiva una materia bonne à penser: non solo la malattia, la sventura, la violenza o la morte ma anche la storia e i rapporti di forza (a questo riguardo il lavoro di Peter Geschiere, 1995, costitui­ sce un riferimento essenziale). Queste dimensioni sono state messe in luce recentemente da Siegel (2006), in un libro nel quale vengo­ no ripresi profili trascurati da buona parte della stessa ricerca antro­ pologica (ad esempio, il caso descritto dalla Stevenson fra i Cuna, dove si racconta di un tentato abuso sessuale a una bambina e del successivo sospetto di s. rivolto nei confronti di un adolescente, parzialmente ripreso da Lévi-Strauss, 1978). Siegel indaga però anche fatti recenti, come l'epidemia di omicidi e violenze contro sospettati di s. in Indonesia. Sebbene non ricalchi una logica politi­ ca, la semantica sociale si mostra efficace nel commentare disugua­ glianze economiche, abusi, sofferenze. Non sono mancati, da R6heim in poi, autori che hanno adottato modelli psicologico­ psicoanalitici per interpretare la s. e il simbolismo che la caratteriz­ za (s. antropofagica, localizzazione nel ventre o spesso nell'utero ecc.). Michael Stephen (1999), nelle sue ricerche a Bali e fra i Mekeo, ha sottolineato a questo proposito la fecondità delle teorie kleiniane che esplorano i sentimenti ostili inconsci associati nelle fantasie infantili all'immagine materna, fantasie che sarebbero riat­ tivate nella vita adulta quando una persona amata muore. Ciò spie­ gherebbe, secondo Stephen, perché le credenze nella s. e l'interpre­ tazione stregonesca di casi di decesso siano frequentemente asso118

ciate. Non sono pochi i pazienti immigrati provenienti dal Magh­ reb o dall'Africa subsahariana che hanno cercato di prendere le distanze dall'oscura violenza di questi sospetti proprio con la loro scelta di emigrare, sebbene l'ombra della s. si allunghi a raggiun­ gerli non di rado anche nei paesi d'emigrazione e determini ango­ sce, diffidenze e conflitti nei confronti di familiari o connazionali. Il moltiplicarsi delle chiese indipendenti in Africa ha sicuramente uno stretto rapporto con la rassicurazione offerta dall'esplicita lotta da esse condotta contro la s.

Susta Tradotto generalmente come "spavento", il termine indica

in molti paesi dell'America Latina un insieme di affezioni e disgra­ zie attribuite a un'esperienza di forte paura o di violenta sorpresa. A sviluppare il disturbo può essere una persona diversa dalla vittima dello spavento: può accadere ad esempio che si ammali un suo parente stretto e che l'evento scatenante si sia verificato anche molto tempo prima. Generalmente le rappresentazioni locali della malat­ tia riconoscono due possibili dinamiche eziologiche: la prima affer­ ma che l'equilibrio e i legami fra le componenti fisiche e le compo­ nenti "spirituali" (tradotte secondo i casi con il termine "anima" o, più legittimamente, "ombra") possono essere messi in crisi da un evento improvviso e imprevisto, di qualunque natura; la seconda eziologia attribuisce l'origine della crisi all'intervento di spiriti. La malattia del s. scaturisce quando, dopo un incidente che provoca spavento o l'azione di agenti invisibili, la persona perde l'elemento spirituale (sombra, "ombra"), sviluppando disturbi quanto mai eterogenei (sono descritte, nel continente latinoamericano, varian­ ti regionali). Fra i sintomi riportati dominano perdita di appetito, di peso e di forza, febbre, dolori diffusi, disturbi del sonno, cambia­ menti del tono dell'umore, difficoltà nel condurre le attività ordi­ narie ecc. La cura promossa dal ► curandero consisterà allora nel recuperare e nel reintrodurre nel corpo della vittima l'elemento che si è separato o è stato sottratto ( e tradotto errone amen te spesso come "anima", per effetto della lunga influenza missionaria). Quando non trattata la malattia condurrebbe in alcuni casi alla morte. 119

Taijin kyofusho Questo termine indica una sindrome descritta agli

inizi del Novecento da Shoma Marita (Maeda, Nathan, 1999) in Giapp one, e solitamente inter pretata come una forma di ► culture bound syndrome. E caratterizzata da un grave stato di ansia che si scatena in presenza di altre p ersone (ciò che ha sp into alcuni autori a tradurla come "antro p ofobia"), e in p articolare dalla p aura di arrossire, dalla p reoccu p azione che il p ro p rio cor p o emani odori molesti o abbia un aspetto sgradevole, dal disagio derivante dall'in­ contrare lo sguardo degli altri ecc. La tendenza ad evitare le relazio­ ni interpersonali avvicina la t. k. ad altre forme di fobia sociale (sebbene opinioni diverse siano state espresse da autori giapponesi: Suzuki et al. , 2003), ma accanto a sintomi i p ocondriaci o ansiosi alcuni autori vi hanno sottolineato disturbi ► dismorfobici o addi­ rittura di natura psicotica. Tortu ra Le definizioni di t. stabilite dalle convenzioni internazio­ nali sono ancora impotenti di fronte a pratiche diffuse di violenza e di esercizio del p otere che vanno ben oltre l'estorcere informazioni e sono spesso perpetrate da individui e gruppi non direttamente connessi a Stati o governi. Se un lungo e faticoso dibattito giuridico ha potuto lentamente dissolvere ogni residua legittimità di una tale disumana pratica anche nei casi di "p ubblico interesse" (circostanza che surrettiziamente è stata introdotta di recente da alcuni governi, come quello statunitense, e vergognosamente accolta da politici e opinionisti come un "male necessario"), oggi sevizie, pratiche di abuso, umiliazione e terrore sono descritte in numerosi contesti, non semp re contraddistinti da conflitti bellici (cfr. p er alcuni di questi aspetti Asad, 2005). Gli aspetti psicologici della tortura sono stati oggetto di un'attenzione sistematica da parte della psicoanalisi, ma anche delle scienze psicologiche e psichiatriche in generale (molti fra i più celebri psichiatri lavorarono con veterani, profughi o soprav­ vissuti ai campi di concentramento). De Certeau, do po aver avvici­ nato la t. ad alcune delle caratteristiche dell'esp erienza mistica, mette in evidenza un asp etto p eculiare: la vittima della t. non viene messa di fronte all'orrore o al valore di un sistema, terreno sul quale egli sarebbe in grado di resistere, ma alla propria fragilità, alla propria 12 0

intima "indecenza": condizione di umiliazione estrema dalla quale diventa impossibile qualsivoglia ribellione (de Certeau, 2006, pp. 199-201). Le tecniche di tortura sono numerosissime e spesso hanno costituito l'oggetto di manuali e tecniche di addestramento (triste­ mente celebre quello fornito dal governo statunitense alla Contra, in Nicaragua, o agli aguzzini di diverse dittature latino-americane). Tali tecniche sono diventate di fatto universali, avendo tutte più o meno in comune le violenze sul corpo, il dolore inflitto secondo modalità che dovrebbero evitare il rischio di morte o ridurre la permanenza di cicatrici, gli abusi sessuali e l'inversione di valori culturali o religiosi (in altri termini la sistematica deculturazione della vittima). Le pene inflitte al corpo e alla mente procedono paral­ lelamente, avendo cura di rendere la morte sempre possibile ma mai attuata, e determinando nella vittima una condizione di profonda incertezza morale e cognitiva che può generare stati di vera e propria dissociazione psichica (rivelare nomi può assicurare la sopravviven­ za, conducendo però alla morte sociale e a sensi di colpa intollerabi­ li; d'altra parte, mantenere il silenzio trasforma la vittima, parados­ salmente, nel responsabile del suo stesso tormento ecc.). Tali espe­ rienze, oltre a lasciare tracce perenni, spesso all'origine di disturbi psichici gravi e di un accresciuto rischio di suicidio anche molti anni dopo le torture subite e talvolta in relazione a fatti in apparenza bana­ li, determinano difficoltà relazionali, disturbi dell'umore ecc. Le conseguenze cognitive, lo stato confusionale e gli altri disturbi spes­ so segnalati nelle vittime di t. parrebbero essere secondo alcuni auto­ ri (Sironi, 1999) un aspetto comune alle diverse pratiche di t., anco­ ra più decisivo delle conseguenze affettive. La frattura nell'esperien­ za di continuità temporale determinata dalle torture e la sensazione di non poter più controllare i propri ricordi sarebbero tratti salienti anche del ► PTS D . La psicoterapia delle vittime di tortura è partico­ larmente complessa, lunga e delicata, e non meno faticosa per lo psicoterapeuta che deve avere una salda preparazione per poter resi­ stere all'impatto di narrazioni che per loro stessa natura trasforma­ no il racconto in un'esperienza visiva, e chi ascolta in testimone delle violenze (Caruth, 1995). Frantz Fanon ( 2000) aveva già messo in luce come anche il torturatore possa andare incontro a una serie di distur121

bi psichici. Tra i rifugiati e i richiedenti asilo non sono pochi coloro che hanno subito violenze e torture, i cui tragici effetti psicologici sono esacerbati dalle condizioni di incertezza e di separazione dalla famiglia in cui vivono. I contesti dove le torture hanno luogo sono innumerevoli quanto le forme che esse possono assumere, ma è ormai unanimemente accettato che la t. non costituisce una violen­ za caratteristica di situazioni di barbarie o di estremo sovvertimento della realtà politica (guerre, dittature ecc.): persino all'interno delle contemporanee democrazie (negli Stati Uniti - nei confronti di iracheni e afghani detenuti in condizioni disumane, in Israele - nei confronti di palestinesi, in Turchia - nei confronti di curdi o membri del partito comunista), la tortura continua a costituire una pratica documentata e denunciata da organismi internazionali come Amnesty International. Tra n ce Condizione provocata da fattori diversi (assunzione di sostanze aventi effetti psicodislettici, digiuno, veglia prolungata, esposizione protratta a particolari ritmi musicali, danza e stimola­ zione prolungata dell'apparato labirintico, preghiera, isolamento ecc.). Solitamente la si distingue dalla "condizione estatica" perché quest'ultima prevale nei contesti e nel linguaggio religiosi occiden­ tali, ma molti autori fanno indifferentemente uso dei due termini ( Gananath Obeyesekere, 1990 e 1995, parla ad esempio degli "opera­ tori estatici" in Sri Lanka). Talune società incoraggiano esperienze di t. all'interno di particolari concezioni religiose o in rapporto a psicologie che non considerano affatto negativa la perdita di control­ lo o l'eclisse transitoria della coscienza. Il Manuale diagnostico stati­ stico della psichiatria americana definisce i "disturbi di trance disso­ ciativa" come caratterizzati da un temporaneo stato alterato di coscienza senza "sostituzione" o "perdita" del senso abituale della propria identità, con restringimento del campo di coscienza, e accompagnato da movimenti o comportamenti sperimentati come "al di fuori del proprio controllo". Per distinguere tali condizioni da quelle proprie di esperienze religiose culturalmente integrate, il manuale sottolinea che questi stati non sono accettati come parte di esperienze collettive approvate culturalmente e generano pertanto 122

sofferenza: ma queste distinzioni si rivelano estremamente deboli in numerosi contesti o all'interno della storia personale di molti opera­ tori estatici (cfr. ad esempio Obeyesekere, 1990). Tra nscu ltu razi o n e Il termine è stato coniato da Fernando Ortiz (1940) negli anni venti del secolo scorso. Con t. l'autore vuole pren­ dere le distanze dal concetto di acculturazione, allo scopo di meglio rappresentare i complessi e distinti fenomeni di "trasmutazione culturale" che avevano caratterizzato, in particolare, la storia di Cuba. Il termine è opposto dunque tanto a quello di acculturazione o inculturazione (ossia la perdita della propria cultura e l'acquisizio­ ne di una nuova, solitamente quella del paese ospite, per gli immi­ grati, o delle classi e dei gruppi dominanti per le popolazioni subal­ terne negli altri casi), quanto a quello di deculturazione o excultura­ zione ( che dà rilievo al processo di sradicamento o, nei casi di dominio, alla violenza della perdita del proprio universo simbolico, ciò che accompagna solitamente eventi come genocidi ed etnocidi). Per Ortiz t. è un termine più appropriato, data la complessità delle dinamiche storiche, per evidenziare la creazione di nuovi e originali fenomeni culturali (neoculturazione) . Il neologismo, particolarmen­ te appropriato ai meccanismi di incontro, fusione, sintesi e rielabo­ razione culturale nell'isola cubana e nelle Antille in generale, fu sottoposto all'esame (e all'"autorità indiscussa") di Malinowski, il quale approvò nel 1940 con entusiasmo il neologismo di Ortiz. Così commenta Malinowski (1990, p. 247): «La parola "acculturazione" contiene tutto un insieme di implicazioni etimologiche [ ... ] sconvenienti. E un vocabolo etnocentrico con un significato morale. Un immigrato deve "acculturarsi", e così devono fare gli indigeni, paga­ ni e infedeli, barbari o selvaggi, che godono del "beneficio" di essere sottomessi alla nostra Grande Cultura Occidentale. La voce "accul­ turazione" implica con la proposizione ad nella sua radice il concet­ to di un terminus ad quem. Non occorre sforzarsi per comprendere che mediante l'uso del termine "acculturazione" introduciamo implicitamente un insieme di concetti morali, normativi e valutati­ vi». Ciò che occorre mettere in rilievo è invece per l'autore la qualità complessa e indeterminata di un processo di reciproca interpenetra123

zione, che il termine t. da parte sua opportunamente sottolinea, un processo «nel quale ogni nuovo elemento si fonde, adottando modi già stabiliti, mentre allo stesso tempo si introducono esotismi propri e si generano nuovi fermenti».

Tra u m a , m em ori a , o b lio La nozione di trauma occupa oggi uno spazio centrale nelle riflessioni della psichiatria e dell'etnopsichiatria, ma anche dell'antropologia, in virtù del fatto che essa sembra, alla stregua di una metafora perfetta, esprimere la preoccupazione per lo sviluppo di varie forme di violenza che caratterizzano la modernità. Un altro motivo contribuisce a rendere decisiva questa nozione, dal momento che una crescente "industria del trauma" ha accompa­ gnato la proliferazione di esperti, manuali, tecniche (Didier Fassin e Richard Rechtman hanno parlato di "Impero del trauma" in una loro recente opera, L 'Empire du traumatisme, pubblicata nel 2007). Concetto fondante della psicologia e della psicoanalisi, la nozione di trauma rivela un rapporto fondamentale con altri due temi di grande importanza nella cultura occidentale, quello della memoria e dell'oblio (e della Storia, che in psicoanalisi è oggetto di una parti­ colare modalità di "trattamento": de Certeau, 2006), e quello della cura più opportuna a lenire le conseguenze psicologiche delle espe­ rienze traumatiche. Se Pierre J anet aveva indicato nell'ipnosi e nell'oblio la via maestra per trattare i sintomi provocati dai traumi dell'infanzia, spesso a carattere sessuale, Freud avrebbe - dopo aver praticato lui stesso l'ipnosi - preso le distanze tanto dalla dimensio­ ne reale del trauma (a vantaggio di quella fantasmatica e dell'elabo­ razione individuale dell'esperienza traumatica) quanto dalla rico­ struzione storica di quelle memorie (che avrebbe perso importanza al cospetto della sua narrazione, da condurre attraverso l'analisi). L'ipnosi sarebbe stata declassata a mera suggestione, la "guarigione" avrebbe perso il suo valore a fronte della necessità di rielaborare l'esperienza traumatica (di cui, secondo Lacan, è importante soprat­ tutto l'esatto momento nel quale l'individuo ne coglie e ne fissa l'occorrenza). Freud, dopo la "svolta" del 1897, dovrà risolvere un altro enigma: il ritorno del rimosso e del passato traumatico, rivela­ to dalla persistenza del sintomo, parla secondo lui di un fondamen124

tale istinto di morte. Le politiche della memoria e del trauma si deli­ neano così secondo due assi fondamentali: la possibilità della cura mediata dall'oblio o, all'opposto, realizzata attraverso la rielabora­ zione. Sullo sfondo di questo dibattito si intuisce la contrapposizio­ ne fra diverse visioni (o antropologie) della Storia e della memoria (Caruth, 1995; Young, 1995; Antze, Lambek, 1996). Tale conflitto costituisce un problema clinico, etico e politico ad uno stesso tempo. Molte vittime di tortura e di violenza cronica, quali i rifugiati e i richiedenti asilo, ripropongono oggi questo dilemma non diversa­ mente dalle vittime di abuso sessuale o da quelle della Shoa: dimen­ ticare o ricordare ? Diverse tecniche di cura tradizionale descritte in Cambogia o in Africa sembrano aver operato un compromesso effi­ cace, lasciando al rituale il compito di ricordare collettivamente il dramma e le violenze, ad un medesimo tempo "sollevando" l'indi­ viduo dal dovere di ricordare e dalla necessità di rielaborare il suo dramma. Le chiese pentecostali dei Born Again, di cui fanno parte non a caso spesso proprio vittime di tortura e richiedenti asilo, sembrano perseguire strategie psicologiche analoghe (rompere con il passato, rinascere a vita nuova): un diritto all'oblio, i cui effetti tera­ peutici sono talvolta spettacolari. I risultati osservati da numerosi autori, se da un lato appaiono coerenti con taluni modelli di orien­ tamento cognitivista, dall'altro interrogano sul significato psicologi­ co di tali approcci (la psicoanalisi ha reagito con forti perplessità al riguardo) non meno di quanto facciano relativamente al significato sociale di queste tecniche dell 'amnesia: inquietante allorquando quest'ultima promuovesse una rimozione sociale autorizzata di contraddizioni, violenze e responsabilità (si pensi al richiamo fatto da numerosi autori alla sofferenza psicologica derivante dall'impu­ nità dei responsabili di massacri; cfr. Beneduce, 2007). Tri a n go l o te ra p e uti co Il concetto, utilizzato da Jean Pouillon (1970) in riferimento agli Ndembu della Zambia e ai Dangaleat del Chad, vuole sottolineare come in due diverse società la particolare relazione che hanno - con l'agente del male e della malattia - il medi­ co da un lato, il malato dall'altro, determina il particolare tipo di rapporto che si stabilirà fra questi ultimi due. Fra i Dangaleat, gli 12 5

spiriti sono causa di malattia ma è da essi che deriva anche il potere terapeutico di colui che cura. Fra gli Ndembu il potere di curare si acquisisce dopo essere stati affetti da una malattia provocata dagli spiriti degli antenati: il "malato" diventa progressivamente "medico" in virtù del suo ritorno all'ordine sociale. Fra gli Evuzok del Came­ run i due modelli coesisterebbero, ma si distinguerebbero in base al registro eziologico: diurno (spiriti degli antenati, richiamo all'ordine) o notturno (stregoni, conflitto sociale) della malattia. Tuttavia Mallart-Guimera (1992) tende a sfumare la regola di Pouillon, soste­ nendo che ci possono essere differenti relazioni fra medico e malato senza che cambi il rapporto con l'agente del male, e viceversa. U m ba n d a Religione particolarmente diffusa in Brasile ma presen­ te in tutta l'America Latina con i suoi diversi centri di culto e la pubblicazione di riviste e periodici. L'u. fa riferimento allo spiriti­ smo e al mondo dei morti, includendo nel suo pantheon una divini­ tà superiore (Zambi) e divinità di rango minore, originate dall'uni­ verso religioso yoruba. L'u. realizza una sintesi complessa e dinami­ ca di elementi africani, cattolici, spiritistici e locali (caboclos, termine di origine tupi, e kari 'b oka, che indica sia i meticci nati dalle unioni fra bianchi e indios o fra bianchi e neri, sia le entità divine indigene prodotte dal meticciato fra diverse religioni e incorporate anche nel culto del ► candomblé ecc.). Come Roger Bastide (1976 e 2000) ha esemplarmente mostrato, nell'ideologia dell'u. e di culti analoghi si esprime per intero non solo il grandioso lavoro di combinazione di religioni diverse (indigene, europee, importate dagli schiavi africani ecc.), realizzatosi in particolare nei caotici centri urbani e fra i setto­ ri più diseredati della popolazione, ma anche la tensione identitaria e il problema del razzismo in Brasile, oggi ancora irrisolti. Ve nto Unità di rappresentazione transculturale e trans-storica, sebbene molte siano le differenze negli usi locali del termine. Lo si ritrova nella medicina popolare andina, nella medicina classica ayur­ vedica (dove è descritta una "follia del vento": wata unmada) , nel folklore mediterraneo (nel sud dell'Italia la categoria di malo vento, quella di rih in Maghreb ecc.). In Africa subsahariana (fra i Peul è 12 6

hendu, fra i Dogon è djede ecc.), il termine fa riferimento al soprag­ giungere di un turbine di vento e di polvere interpretato come il segno della presenza di un ► jinn; nel Corno d'Africa A r-Rih al A hmar è "il vento rosso", sinonimo degli spiriti zar. La nozione di v. rinvia dunque in questi casi alla presenza di esseri invisibili ma anche ad una peculiare rappresentazione del corpo e alla permeabilità dei confini fra mondo umano e mondo invisibile (in particolare alla possibile interpenetrazione di "esistenze" diverse: persone da un lato, spiriti, ► jinn dall'altro, per esempio). Il termine era presente anche nell'Inghilterra rinascimentale (dove diversi disturbi di natura ipocondriaca erano connessi a vapori nefasti e a quella che era defi­ nita appunto come "melanconia del v."). Al v. sono ricondotti vari disturbi, di natura prevalentemente psichica, spesso associati ali'e­ sperienza dello spavento (quest'ultimo determinato dall'incontro con uno spirito, la cui manifestazione è appunto il turbine di v.). In Asia il suo ruolo è non meno complesso sia nella psicofisiologia sia nella psicopatologia di numerosi sistemi medici tradizionali: se in Malesia il suo valore è prevalentemente positivo, in altri paesi (Laos, Thailandia, Vietnam ecc.) svolge un ruolo patogenico; fra i Khmer il "vento eccessivo" (kyolgoeu) produrrebbe l'occlusione del sistema di vasi che lo contengono, provocando sintomi come stanchezza, irrequietezza, ansia, dolori muscolari, paura ecc. Alcuni autori hanno suggerito che il kyol goeu possa essere considerato come una variante degli ataques de nervios descritti in America Latina o degli attacchi di panico della nosografia psichiatrica occidentale. Vermi Entità nosologica ampiamente diffusa in molti sistemi medi­ ci tradizionali (dagli Edo della Nigeria ai Luo del Kenya), ali'origine di sintomi variegati (cenestopatie, ossia disturbi della sensibilità proprio­ cettiva, stanchezza, cefalea, ansia, insonnia, dolori addominali loca­ lizzati spesso alla pelvi, dolori articolari ecc.). Il suo significato è dupli­ ce: se in primo luogo il termine costituisce l'equivalente di un agente eziologico, esso rappresenta anche un preciso idioma in grado di dar forma a disturbi e conflitti psicologici o morali. Il riferimento ai v. è corrente oggi nel discorso di molti pazienti immigrati provenienti dall'Africa subsahariana. Come descritto da numerosi autori, i v. sono 127

considerati normalmente presenti nell'organismo ma responsabili di numerosi disturbi quando "si s p ostano" o vedono enormemente accresciuto il loro numero: eventi spesso connessi a comportamenti trasgressivi, come ad esempio una sessualità disordinata ecc. Vi l l a ggio te ra p e uti co A partire dagli anni cinquanta numerosi psichiatri (Tighani el Mahi a Kartoum, in Sudan; Baker in Nyassa­ land; Lambo ad Abeokuta, nello Stato di Ogun, Nigeria; Henry Collomb in Senegal ecc.) realizzano esperienze di collaborazione con i guaritori, avviando trattamenti comuni su pazienti e il soste­ gno alle forme di assistenza locali realizzate dai terapeuti tradizionali (il modello pone così al al centro i guaritori e i loro assistenti, che accolgono anche per lunghi periodi pazienti con gravi disturbi mentali). All'interno di questo scenario, vengono costituite équipe di operatori (per lo più infermieri e agenti sanitari) che, anche in località disp erse e lontane dalle città, s'incaricavano dell'assistenza p sichiatrica dei p azienti p sichiatrici, ricevendo il su pp orto p eriodi­ co (supervisione, verifica del trattamento farmacologico ecc.) da p arte delle é qui p e mediche p rovenienti dalla ca p itale. Il presu pp o­ sto fondamentale di tale strategia era semplice: non isolare il mala­ to dal suo ambiente familiare e sociale, lavorare perché egli possa continuare a p artecipare alla vita della comunità. Questi obiettivi, p ensati sul modello delle comunità terapeutiche, venivano realiz­ zati attraverso la valorizzazione dei guaritori, soprattutto in ambito rurale. I villaggi terapeutici incontreranno però nel corso degli anni difficoltà, non ultima quella di aver trascurato l'esistenza di tensio­ ni e conflitti locali che di fatto impedivano la realizzazione di un'op­ portuna atmosfera terapeutica, e vedranno progressivamente esau­ rire la loro capacità sia per le difficoltà inerenti alla gestione dei casi più gravi all'interno di un modello che rimaneva organizzato in modo centralistico, sia per l'emergere di nuove e più minacciose forme di disagio (quelle connesse ad esempio al consumo di stupe­ facenti), sia infine per la competizione derivante da iniziative priva­ te (donne e uomini dotati di sp irito imp renditoriale metteranno in opera centri di accoglienza per i pazienti e i loro familiari, come nel caso di Abeokuta). 12 8

Violenza si m bolica Con questa espressione Pierre Bourdieu (1982 e 2001a; cfr. anche Bourdieu, Wacquant, 1992) ha proposto uno strumento utile a svelare le relazioni fra linguaggio e potere, i signi­ ficati di alcuni riti di passaggio, la modalità di costituzione e ripro­ duzione del potere accademico o maschile, soprattutto là dove tali relazioni e significati sono la traccia invisibile dei rapporti di forza. La nozione di v. s. mette in rilievo come il potere possa esercitarsi senza ricorrere alla coercizione ma semplicemente per mezzo di una forza "dolce": quanto è arbitrario finisce così con l'apparire ovvio, naturale e legittimo (ciò accade ad esempio nel rapporto pedagogi­ co) e con l'essere facilmente interiorizzato dai dominati. Accettato inconsciamente, esso diventa oggetto di consenso (il concetto si applica al rapporto fra classi, al razzismo come ai rapporti di genere: Bourdieu, 20016). In questo senso il concetto si avvicina a quello gramsciano di "egemonia" delle classi dominanti, alle teorie sulla pervasività del potere proposte da Foucault (1994), e contribuisce ad arricchire la prospettiva disegnata da Castoriadis (1995): in partico­ lare la sua domanda sulle ragioni per le quali l'immaginario dei subordinati sia spesso tributario dell'immaginario delle classi domi­ nanti. Vicino al concetto di v.s. è anche quello di "violenza cultura­ le", proposto da Galtung (1990) per indicare ogni caso in cui la cultura legittima forme di ► violenza strutturale o diretta. Violenza struttu ra le L'espressione, utilizzata per la prima volta dal ricercatore norvegese Johan Galtung (1969) per indicare ogni forma di limitazione delle possibilità e dei bisogni umani, soprattutto di natura economica o politica, indica nel contemporaneo linguaggio antropo­ logico contesti di ineguaglianza sociale e di oppressione politico-econo­ mica. Il termine indica anche la violenza che caratterizza le forme di commercio internazionale connesse alle condizioni illegali di lavoro o allo sfruttamento disumano della mano d'opera e del lavoro minorile e quella solitamente osservata nei contesti contraddistinti da elevati tassi di mortalità infantile ecc. L'espressione è stata recentemente riproposta da Paul Farmer (1999), antropologo e medico, per descrivere le forme di violenza inscritte nei rapporti sociali ed economici, in particolare quelli segnati da profonde disuguaglianze e caratteristici di molti paesi 12 9

non occidentali. La v. s. penetra nei rapporti interpersonali e sociali, diventa violenza privata (familiare e individuale) e quotidiana (Sche­ per-Hughes, 1992) , partecipando così alla riproduzione della violenza stessa o a quello che Philippe Bourgois ha definito il " continuum della violenza" (Scheper-Hughes, Bourgois, 2004) . La v. s. contribuisce inol­ tre a nutrire l'immaginario della dipendenza, dell'impotenza, del fata­ lismo . Tale immaginario ha anche rapporti con particolari credenze: quelle relative all'origine magica o " mistica" ( ► mystique) di malattie o casi di morte, interpretati spesso come la conseguenza di atti di strego­ neria anziché della povertà, dell'impossibilità di accesso alle risorse sani­ tarie o, semplicemente, di un ambiente di vita insalubre e di spietate condizioni di lavoro. Secondo Farmer l'antropologia ha concentrato in modo eccessivo la propria attenzione su aspetti come la stregoneria o la rappresentazione magica del male, finendo con il dare rilievo più alle dimensioni simbolico-culturali che non a quelle materiali dei problemi indagati. Il concetto ha assunto un valore decisivo nell'analisi di fatti come la tubercolosi o l'AIDS, soprattutto in contesti come Haiti o il Sud Africa, nella cui analisi molte voci si sono levate perché un impegno maggiore fosse rivolto a contrastare le sue cause strutturali (povertà, marginalità, incertezza sociale ed economica, " sessualità di crisi" ecc.) e non solo quelle bio-mediche, morali o culturali (modelli di sessualità " africana", rappresentazioni del corpo, idee sul contagio ecc.) . Farmer ha in più occasioni espresso riserve nei confronti di un relativismo culturale incapace di cogliere la violenza di talune istituzioni culturali, che finiscono con l'oggettivare sotto forma di alterità culturale persino la povertà e le ineguaglianze. Alcuni autori hanno però criticato il concetto di v. s. per la sua relativa genericità, definendolo una black box o un concetto " acchiappatutto " . Vod u Insieme di pratiche e culti religiosi originari dell'Africa occi­ dentale ( Golfo di Guinea) , la cui presenza nelle Antille ( ad Haiti, soprattutto) è, come per altri culti afro-brasiliani o afro-caraibici ( ► candomblé ecc. ) , in relazione alla tratta degli schiavi che fece emigrare, insieme ai loro corpi umiliati e straziati, i sogni del riscatto, spesso affidando la volontà di asserire la propria identità e conservare la propria memoria storica a spiriti sensuali, aggressivi, burloni, dissi130

mulati in molti casi dietro la fantasmagorica sintesi e ricomposizione di simboli eterogenei. Oggetto di pregiudizi e rappresentazioni nega­ tive, soprattutto ad op era della Chiesa cattolica e delle autorità colo­ niali, il vodu haitiano è stato reinterpretato come una religione degli oppressi: di coloro che vivevano in una condizione di povertà e violenza, di precarietà e di morte. E stato così possibile esplorarne la complessa trama simbolica grazie a ricerche come quelle di Alfred Métraux (1971) e Maya Deren (autrice di un celebre film, Divine Horsemen, 1953). In Benin il v. è considerato oggi religione ufficiale, conosce una larga diffusione e ha numerosi sacerdoti (vodunsi) e altari; il v. benefi­ cia inoltre del riconoscimento da parte dello Stato, con scuole proprie e festival annuali che richiamano un gran numero di turisti. Secondo Ahiako (cit. in de Surgy, 1994, p. 18), l'etimologia del termine derive­ rebbe da vo ("stato di libertà, d'indi p endenza") e dalla sillaba du ("paese, città"), per significare che gli oggetti di culto hanno per scopo quello di aiutare le persone a sentirsi a proprio agio, libere nel proprio paese: interpretazione quanto mai suggestiva delle radici politiche e sociali, se così si può dire, di questa e altre religioni. Le violente prati­ che rituali descritte in passato dai missionari (sacrifici animali, stati di trance ecc.), spesso distorte nel loro significato, hanno conosciuto un recente revival in relazione alla moderna tratta di esseri umani: quella connessa alla prostituzione, operante prevalentemente dalla Nigeria e dalla città di Benin City, le cui protagoniste raccontano di riti rivolti a mantenerle in un rapporto di forte dipendenza psicologica nei confronti di coloro, generalmente donne (maman, nel gergo), che hanno permesso la loro emigrazione clandestina in cambio di un esoso pagamento. Il debito contratto diventa così economico e psicologico ad uno stesso tempo. Questa dipendenza è all'origine di non pochi disturbi e angosce, di crisi e di incertezze anche in relazione ai ricatti, alle minacce o alle violenze dirette in molti casi ai familiari rimasti in Nigeria. Degno di nota in questo caso è la peculiare semantica sociale del termine v., che queste donne mescolano frequentemente nei loro racconti alla stregoneria, al vampirismo, a vari tipi di divinità del p antheon locale ( ► Marni Wata ecc.). Di tale deriva semantica è complice anche la confusione e la superficialità con la quale i media trattano solitamente questi temi. 131

Wootal Termine di origine wolof (Senegal) che significa "richia­

mo". Consiste in una pratica magico-rituale rivolta a far ritornare ("attrarre") il membro del gruppo rimasto troppo a lungo lontano dalla famiglia e dal villaggio senza dare comunicazioni, implicita­ mente prefigurando con il suo silenzio l'eventualità di un distacco. Omar Sylla e Mor Mbaye (1990-91) hanno messo in rilievo il valore risocializzante, di reintegrazione, che avrebbe questa strategia per coloro che hanno trascorso lunghi periodi in altri paesi (una strate­ gia essenzialmente positiva, a differenza del naawtal, che conduce invece il soggetto all'erranza e alla definitiva esclusione dal gruppo), ma anche nel w. possono essere riconosciuti i sentimenti ambiva­ lenti del gruppo d'origine nei confronti di colui che, in quanto emigrato, diventa di per sé "sospetto" e ambiguo, minacciando di fatto - con i suoi desideri, esplicitati o meno che siano, di autonomia - l'integrità dei vincoli e dei legami familiari. Concetti analoghi sono stati descritti in altri gruppi etnici del Senegal (fra i Diola, i Serer, gli Haal Pularen ecc.) ma anche altrove: fra i Dogon del Mali (bondu, "richiamo"), ad esempio. La procedura è attivata solitamente dalla madre, guardiana delle tradizioni, o dalla moglie, e realizzata da un terapeuta tradizionale che infila una spina in un frammento di placenta; successivamente quest'ultimo viene gettato in mare o seppellitto nella terra a seconda che le intenzioni siano particolar­ mente distruttive o, invece, più benevole. Fra i Serer a questo atto deve fare seguito il ritorno dell'immigrato (entro tre giorni): egli sente il richiamo, e avverte una serie di vaghi disturbi la cui intensità è crescente. Il rifiuto di tornare si tradurrebbe in un progressivo aggravamento delle sue condizioni di salute (forme di scompenso psichico, tentativi di suicidio ecc.). Secondo altre fonti in alcuni casi sarebbero gli antenati (pangol) ad agire perché corrucciati nei confronti di coloro che abbandonano o dimenticano vincoli e tradi­ zioni. Sono numerose le formule che alludono alle strategie di costruzione identitaria nella cultura wolof ("lavoro della madre", "cintura del padre"), a forte valore strutturante. Tali strategie posso­ no però ritorcersi contro chi provasse a realizzare progetti che non sono in sintonia con il desiderio della famiglia o del gruppo.

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