Beethoven lettore di Omero
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Luigi Magnani

Beethoven lettore di Omero

Luigi Magnani

Beethoven lettore di Omero

Giulio Einaudi editore

SAGGI

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Jean-Auguste-Dominique Ingres, Busto di Omero. Montauban, Museo Ingres.

Copyright © 1984 Giulio Einaudi editore s.p. a., Torino ISBN 8 8 -0 6-05733-2

Indice

p. 3 7

Premessa

Parte prima

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Parte seconda

69 79 87

Note Appendice Indice dei nomi

Beethoven lettore di Omero

A Massimo Mila

Premessa

Il fascino della Grecia antica attrasse Beethoven sin dalla sua prima giovinezza. Era il tempo in cui, frequentando PUniversità di Bonn (detta l’Università dell’Aufklärung per essere la piu aper­ ta alle idee liberali), venne iniziato alla poesia di Schiller, alla filo­ sofia di Kant, a tu tti quei valori spirituali, emblemi di una unica fede, che costituirono il nutrimento fecondo della sua personalità di uomo e di artista. Il Reno, da frontiera, si era trasformato in via aperta alle idee della rivoluzione francese che, ammantata di severe toghe, aveva trovato nella tradizione strettamente classica della Repubblica ro­ mana ideali e forme d ’arte di cui abbisognava, come disse Marx, per nascondere se stessa e nobilitare la cruenta violenza delle pas­ sioni, facendole assurgere alla nobiltà dell’antica tragedia greca. Se i germi rivoluzionari non attecchirono in terra tedesca, ac­ cesero nondimeno gli animi di quegli ideali che, fugati in Francia dal sole di Termidoro, continuarono a risplendere nel cielo della Germania quali simboli di una umanità nuova. In quegli anni il diffuso umanesimo, mirante alla conquista della integrità dell’uo­ mo, poneva la Grecia quale modello supremo, simbolo di quei valori di civiltà e d ’arte che già avevano trovato in essa sintesi armoniosa e storica realtà. A ll’ostinato, fervente studio della musica si accompagnò allo­ ra in Beethoven una inestinguibile sete di cultura, un ardente de­ siderio di sapere. «Non c’è nessun trattato che possa essere trop­ po erudito per me. Senza avere la minima pretesa ad una vera eru­ dizione, mi sono sempre occupato, sin dalla fanciullezza, di com­ prendere il pensiero degli uomini eletti e dei savi di ogni tempo.

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Vergogna all’artista che non si fa dovere di andare almeno tant ’o ltre » 1. A differenza dei molti che in Germania guardavano alla G re­ cia, sogno nostalgico dell’anima tedesca, come ad un Paradiso perduto, ad una visione di perfetta irraggiungibile bellezza, Bee­ thoven seppe riconoscere in quelle antiche istituzioni, determi­ nate da fondamentali valori morali e civili, una validità sempre attuale e perenne. Attraverso il velario della Grecia antica, evocata dalla poesia di Omero, egli scorse certi aspetti della vita sociale e politica del suo tempo, che al confronto non potevano che risultare men che meschini. Nel baluginare di un’ottica controluce, le immagini de­ gli Dei, vigili custodi del destino degli uomini, ora benevoli e pietosi, ora adirati e sordi alle suppliche dei mortali, dovevano apparirgli non molto dissimili da quelle dei Principi viennesi suoi protettori, ora soccorrevoli e generosi, ora volubili e dimen­ tichi delle promesse, gelosi dei loro privilegi; l’Olimpo allora do­ minante che traeva prestigio più per casualità di nascita che di merito, labile ombra di quella aristocrazia arcaica, di quella no­ biltà che sorgeva da un profondo ethos umano e trovava suo fon­ damento nella areté, espressione suprema di ogni virtù, quale rivive incarnata negli eroi della poesia di Omero. O ltre i millenni che lo separano da quella fonte originaria, e come in virtù della vichiana «comune natura delle nazioni», per la risonanza che quell’antica saggezza trovava nel suo intimo, egli avverte il vincolo segreto di affinità elettive che lo eleggono cittadino della patria dei suoi maestri e lo fanno sentire quasi estraneo a quella in cui egli è nato. Gli sembra infatti trovare nel mondo greco, oltre che un alto esempio di civiltà e di vita, una giustificazione del suo disamore verso il presente. Se W agner afferma, scrivendo a Berlioz, di aver cercato il suo «point de départ dans la Grèce ancienne» nella tragedia attica, Beethoven lo ha trovato nella poesia di Omero. Lo vedremo infatti riconoscere se stesso nella poesia che ri­ flette come in un magico specchio i più intimi moti del sentimen­ to umano, le inesorabili leggi che governano il destino degli uo-

Premessa

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mini, il ritmo delle opere e i giorni à&ÌYhomo artifex, in armonia con l ’ordine cosmico, quale Omero ci descrive raffigurato nello scudo di Achille. In quel lontano passato Beethoven trovò il suo presente, in quelle spente generazioni la sua ideale famiglia. An­ ch’egli come Mephisto, sul Peleo superiore, avrebbe potuto affer­ mare: «vom Harz bis Hellas immer V ettern» («dallo Harz all’Ellade sempre tutti cugini»)2.

Varie prima

L ’8 agosto del 1809 Beethoven, scrivendo al suo editore Breit­ kopf, lo prega di inviargli una edizione di tutte le opere di Goethe, di Schiller: «i due poeti sono i miei favoriti come Ossian e Omero; quest’ultimo purtroppo non posso leggerlo che nella traduzione». Lo lesse infatti in quella del Voss, nell’esemplare dell O dissea che ancora si conserva tra quanto resta della sua biblioteca, ove peraltro piu non si trova il testo dell’Iliade. Os­ sian, « l’irlandese recentemente scoperto», come è detto nei suoi Quaderni di conversazione, viene accostato da Beethoven, come già da H erder, ad Omero, per avervi riconosciuto la forza pri­ migenia che è di ogni grande poesia. T utti i caratteri principali dello spirito antico che si riscontrano in Omero e negli altri greci si trovano anche, per Leopardi, in lui: «La stessa divinazione della bellezza, lo stesso entusiasmo per la gloria e per la p atria» 3. Beethoven ben sa che la traduzione della poesia, pur offrendo una immagine fedele del contenuto, non potrà mai consentire di coglierne il canto interiore, quell’« air du chant mal tû par l ’encre sous le texte fermé et caché», come direbbe Mallarmé; ma dal nipote, «molto addentro nelle ricche indagini dell’Ellenismo», come lo definisce Beethoven scrivendo a Goethe, si fa trascrive­ re un emistichio dell 'Odissea sulla pagina di un suo taccuino: «νήσψ έν ά μ φ ψ ύ τρ » , quasi che quei caratteri potessero svela­ re come un ideogramma senza intermediari, nel modo diretto proprio della musica e per incanto, il loro senso segreto ed evo­ care la visione dell’«isola beata in mezzo al mare, sonante di on­ de»: la terra dei Feaci, molto amati dagli Dei, agli estremi confi­ ni del mondo, ove anch’egli avrebbe voluto poter vivere solitario

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ed operare i suoi incanti come Prospero, il mago della T empesta. Considerate nel loro aspetto grafico quelle parole si fanno per Beethoven portatrici di ima suggestione poetica, simbolo lingui­ stico che rinvia al di là di ogni elemento conoscitivo, pura sensa­ zione e visione, ch’egli arresta nella sua coscienza, a perpetuarla nel ricordo, destinata, forse, a trovare poi, al modo di tante altre, espressione nella musica. Ad Anton Schindler che gli aveva chie­ sto quale fosse l ’idea ispiratrice della Sonata per pianoforte op. 31 n. 2 rispose: «leggete La Tempesta di Shakespeare», mentre nélTrio in si bemolle maggiore op. 97 egli avrebbe desunto, come lascia intendere a Schindler, lo schema espressivo nel suo dive­ nire e la sequenza delle suggestioni poetiche dalla Medea di Euri­ pide. Se dei tragici greci il suo preferito è Eschilo, il poeta del Destino, cui viene riconosciuto il primato su Sofocle ed Euripi­ de, definito piu amabile e non cosi appassionante come Eschilo, ma piu tenero, nondimeno anch’egli ebbe ad accendere la sua fantasia e ad offrirgli motivi di ispirazione4. Sarà appunto in questo rivivere una emozione, e nell’elevarla da esperienza sensibile a pura forma, che la musica sorge e vive. Vi è un altro passo dell O dissea sul quale Beethoven si sofferma isolandolo dal contesto, conferendogli cosi una più significativa pregnanza espressiva: «Nacht lag über der Tiefe» («la notte si stende sugli abissi»)5. L ’immagine della notte silente che stende la sua funerea coltre sulle ampie distese marine deve aver viva­ mente colpito la fantasia di Beethoven suscitando in lui u n ’imma­ gine che, se pur trascende la musica, non è estrinseca ad essa. Quella morta quiete incombente sullo specchio delle acque aveva trovato espressione nella musica composta da Beethoven sui versi della poesia di Goethe Meere Stille und Glückliche Fahrt (Tiefe Nacht...), ma la potenza originaria della visione omerica va oltre l ’immagine pittoresca di un calmo paesaggio marino e sembra trovare una ben piu profonda eco nel Lied Denk 0 Mensch an deinen Tod («Pensa o uomo alla tua morte») composto da lui su testo di Geliert; nei lugubri accenti di quel memento mori che sempre risuonava al suo orecchio interiore e sembra accordarsi al sentimento dominante àe\VAdagio sostenuto della Sonata per

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pianoforte op. 27 n. 2, Quasi una fantasia (detta impropriamente «al chiaro di luna») in cui la musica si effonde con lento moto uniforme sui funebri rintocchi del basso, a rivelare come una do­ lente esperienza umana possa, senza negarsi, divenire pura opera d ’arte. È come se qui, e in tanti altri casi, Beethoven avesse ten­ tato di approfondire, di tentare, le possibilità espressive della musica, di esigere dalla forma ciò che sfugge ad ogni forma, di suscitare mediante mezzi specificamente musicali la sensazione ineffabile dell’indeterminato, il brivido del mistero.

Della sua dichiarata predilezione di voler «m ettere in musica opere di un poeta quale Omero», di misurarsi con la grande poe­ sia, anche «se si devono superare difficoltà, i poeti immortali lo meritano » 6, non ci resta che l ’abbozzo di un canone su di un passo dell’Odissea che celebra il sorgere dell’aurora: «la rosea Aurora, sorgendo dal giaciglio del nobile Titone, apportava luce agli Dei e ai mortali». Dando canto a quei versi egli avrebbe potuto esprimere il rapimento provato nel contemplare con religioso e sempre rinnovato stupore la natura nei suoi mirabili aspetti, nelle sue solenni liturgie. Si era a tal fine proposto: «Costruire una casa presso la porta, a destra verso la montagna. La vista è piu bella... e quali levate di sole! »: la casa sognata che egli non ebbe mai. Dell’emozione provata nell’assistere, lui gran mattiniero, a quelle albe non resta nell’abbozzo che l ’ustione, la cenere spenta. L ’anelito alla forma di quello spunto melodico potrà attuarsi sol­ tanto quando l ’effimera temporalità del fenomeno naturale, col suo glorioso e crescente effondersi della luce, si trasporrà nelle albe serene senza tramonto del Tempo musicale, quando alla ec­ citazione della hybris dionisiaca subentrerà la forza limitatrice, ordinatrice, chiarificatrice della contemplazione apollinea: im­ magini delle due anime di Beethoven. E Aurora sarà poi chiamata la sua Sonata per pianoforte op. 53, per aver riconosciuto nel graduale costante crescendo del Finale, in virtù di una magica sinestesi, la sensazione dei suoni che si fanno luce.

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Non può stupire che tra i due poemi omerici Beethoven abbia preferito YOdissea. L ’Iliade infatti, tutta pervasa di spirito guer­ riero, con le sue sanguinose battaglie, popolata da Dei e da eroi sovrumani, doveva apparirgli troppo estranea alla regione quoti­ diana del suo presente, se non alla determinazione eroica del suo animo. Tuttavia egli è pronto a cogliervi e a farne oggetto di con­ templazione la profonda verità di una immagine, ad aderire al richiamo di alta poesia quando la voce di Omero fa risuonare le corde del suo sentimento al modo che una nota musicale fa vibrare le corde dei suoi armonici naturali ad essa immanenti, per una segreta originaria corrispondenza che accomuna e vincola i suoni. Allora egli subisce l ’incanto di quelle tragiche immagini e di quegli epici eventi, rendendosene quasi partecipe per ricono­ scere in quegli alti destini un vago riflesso della sua stessa sorte. «O ra, qui, mi ha ghermito il destino. Non inerte e non senza glo­ ria io cado nella polvere, ma in perfetta, compiuta grandezza, di cui udrete nel futuro» 7. Parole estreme di E ttore caduto dinnanzi alle Porte Scee e che Beethoven trascrive isolandole dall’epica solennità del contesto per farne oggetto di commossa contempla­ zione. Nell’immagine evocata dal poeta dell’eroe troiano, precipitato nella notte dalla tetra Moira, Beethoven forse scorse adombrato se stesso, fatalmente sospinto verso la silenziosa notte della sor­ dità. «Un demone invidioso mi ha gettato la mala pietra» ", scrive all’amico Wegeler nel fatidico 1801 : anch’egli come Dioreo, che la Moira ha ghermito perché Piro, il condottiero dei Traci, «lo colpisse con una p ietra» 9per infliggergli poi il colpo mortale. E non gli è estraneo neppure l’assillo di Ettore di non cadere senza gloria, che anche lui tormenta: causa l ’infermità «gli anni suoi piu belli» volano via senza che egli possa compiere tutto ciò cui il suo ingegno e la sua forza lo avrebbero chiam ato10. «O h, il mondo io lo terrei in pugno senza questo male » 11. Ma anch’egli non cadrà nella polvere senza aver lottato e senza aver dato prova di quel valore, che ne affiderà la memoria ai futuri. Indifferente alla narrazione delle vicende epiche del poema, Beethoven intimamente aderisce al dramma severo che la sovra-

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sta, all’afflato lirico che la pervade, a quel sentimento tragico della vita che avverte incombere anche su di sé e che dell’epos omerico costituisce l’elemento piu vivo e profondo. Questo sentirsi partecipe della sorte degli eroi, riconoscersi nella loro aspirazione di gloria, conferisce nobile fierezza al suo animo, ed egli trae conforto meditando questo verso dell’Iliade che trascrive e che di quell’antica saggezza è l’espressione piu pro­ fonda ed umana: «poiché il destino ha dato all’uomo un animo capace di sopportare»12: invito alla rassegnazione ma anche alle forze morali dell’uomo per resistere e reagire alla fatalità del dolore con virile coraggio e a indurre poi, asciugate le lacrime, a riprendere i doveri che l’esistenza impone. Nel Testamento di Heiligenstadt Beethoven rivela ai fratelli il disperato proposito che la sordità aveva provocato in lui : « Poco mancò che io la finissi con la vita; soltanto l ’arte mi trattenne. Mi pareva impossibile abbandonare il mondo prima di aver prodotto tutto ciò pel quale mi sentivo chiam ato»13. Fu questo il momento cruciale della sua scelta tra arte e vita, in cui la forza della vocazione prevalse sul sentimento; il momento in cui l ’idea stessa del sacrificio eroico che essa richiede lo esalta. Sottolineando i versi dedicatori a Frie­ drich von Stolberg che il Voss antepone alla sua traduzione del1O dissea, Beethoven sembra vivamente assentire all’invito, che nella finzione poetica la voce stessa di Omero rivolge alla sua ani­ ma smarrita. «Sorgi, santificati... sfuggi alle sale dorate, disprezza il guadagno... cerca il solitario bosco dell’usignolo, il mormorio del ruscello... vedi, il mio spirito ti circonderà... e il silenzioso splendore della natura ti rivelerà i segreti del mio linguaggio... » 14. È una scelta la sua che richiede di essere riconfermata, rinno­ vata come quella dei sacri voti; ima vittoria instabile che occorre sempre riconquistare. Nel 1812 Beethoven sente il bisogno di riaffermare la sua fedeltà all’assunto, la sua accettazione al sacri­ ficio: « sommissione, la piu profonda sommissione al tuo destino; essa soltanto ti permetterà di accettare il sacrificio che richiede il servizio dell’arte; oh aspra lotta...» «A te non è permesso essere una creatura umana, per te no, soltanto per gli altri, per te non c’è piu nessuna felicità se non in te stesso e nella tua arte. O Dio,

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dammi la forza di vincermi! niente deve piu legarmi alla v ita » 15. La lotta fra le sue due anime non conosce sosta. «Le debolezze della natura sono date dalla natura stessa e la ragione sovrana de­ ve cercare di tenerle a freno e di attenuarle con le sue forze»“. La conoscenza della propria umana fragilità lo rende umile e implorante: «Sopportazione, rassegnazione... cosi vinciamo an­ che quando siamo al sommo della miseria e ci rendiamo degni che Dio perdoni i nostri peccati» 17. Alla speranza, alla fiduciosa pre­ ghiera si alterna l’implorazione quasi disperata: «Dio aiutami! tu mi vedi abbandonato da tutta l ’umanità... O duro destino, o cru­ dele fatalità! No, il mio stato infelice non avrà mai fine» “. Quasi a vincere l ’angoscia dell’isolamento, per sentirsi meno solo cerca compagni di sventura e li riconosce dalle testimonianze delle loro dolorose esperienze, delle loro speranze che sembrano offrirgli le voci piu. disparate, dagli antichi ai moderni, da Omero a Plutarco, a Schiller, dalla filosofia indiana alla non poesia di W erner, la cui calda retorica eloquenza esaltava valori ideali vivi ed operanti in Beethoven. I passi che egli ha trascritto, traendoli dalle fonti piu disparate, e che il cosiddetto Manoscritto Fischoff “ ci ha tramandato, ci presentano nel loro complesso una immagine della condizione umana nella sua grandezza e nella sua miseria, che è anch’essa, per quanto ci opprima, conferma di quella gran­ dezza per l’istintivo anelito dell’uomo a liberarsi dalla sua schia­ vitù, ad elevarsi ad uno stato di grazia. «Infinito è il nostro aspi­ rare», afferma Beethoven, «per sollevarci dalla volgarità del fini­ to», e ancora: «Noi creature finite, con lo spirito infinito, siamo nate soltanto per soffrire e gioire e si potrebbe quasi dire che gli eletti ricevono la gioia attraverso il dolore»20: i due contrastanti poli tra cui si svolge, in incessante rapporto dialettico, il divenire della vita. Con eroica determinazione, tra smarrimenti, speranze e timori Beethoven prosegue nel suo cammino che lo renderà de­ gno di essere accolto, com’egli auspica, tra la schiera di artisti e di uomini degni nella oltremondana valletta degli spiriti magni, sogno di immortalità e di gloria.

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L ’esemplare di Beethoven dell ’Iliade essendo andato perduto, sarà quello dell ’Odissea che ci consentirà di trarre piu ampia testimonianza della sua frequentazione della poesia omerica. Se Beethoven lamentava di non poterla godere nell’originale, la sua lettura era guidata da una cosi vigile tensione dell’animo da inse­ rirlo vivamente nel testo sino a farlo coincidere con quanto era in esso di peculiare e di unico, e a trasporlo in quel mondo lon­ tano. Per un moto spontaneo di συμπάθεια Beethoven si sente partecipe di quei sentimenti eroici sino ad identificarsi in Odis­ seo stesso, nella sua umanità dolente. «W ie der weise Odysseus weiss ich mir auch zu helfen» («al modo del saggio Odisseo an­ ch’io so aiutarmi»), scrive al nipote21. Come il devoto che leggendo l ’Imitatici Christi la comprende e rivive nella misura della propria esperienza spirituale, Beetho­ ven, ripercorrendo la sua «voie royal de la croix», si sofferma alle varie stazioni del poema, contrassegnando a tratti di matita i passi in cui sembra riconoscere espresso un suo stato d ’animo presente o che fu già suo. « Il mio cuore da tempo si è indurito nel mio petto poiché molto ha sofferto, molto sopportato»22: come non riconoscere, di questi versi che ci giungono dalla più remota antichità, a testimo­ niare l ’immutabile natura umana, l ’eco nella voce di Beethoven: «il mio cuore ha troppo sofferto... dove non sono ferito, dove non sono straziato»23? Lo vediamo arrestare la lettura per sottolineare i passi in cui Odisseo svela al re dei Feaci, che lo crede di natura divina, la propria dolente condizione umana. «Io non sono che un uomo mortale, simile nella miseria a colui che voi considerate il piu in­ felice dei m ortali»24. Non diversamente Beethoven confida al suo Dio lo stato della propria miseria. «O Dio, tu vedi nel mio inti­ mo, ascoltami o ineffabile, ascolta il tuo infelice, il più infelice di tu tti i mortali» L ’eroe omerico si fa simbolo non solo del suo soffrire ma anche modello di saggia prudenza, come là ove rimpiange di non averne

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seguito l ’esempio quando, cedendo alle insistenze degli amici, si era impegnato a non lasciare Vienna. «Infelice decreto inganna­ tore come ima sirena per cui avrei dovuto farmi imbottire le orec­ chie di cera e legarmi strette le mani come Ulisse per non sotto­ scrivere» 26. Odisseo gli si fa anche immagine dell’incessante anelito che lo sospinge a perseguire nel suo miraggio: la ricerca dell’isola, simbolo della famiglia e dell’amore, l ’Itaca cui non gli sarà mai dato di approdare. E anche là ove Beethoven, in intimo colloquio con se stesso, contempla e si commisera chiedendosi: «dove non sono ferito, dove non sono spezzato» ”, ci riporta al suo eroe che, oggettivandosi, si esorta a raccogliere le sue forze per resistere alle piu dure prove: «cuore, sopporta, ben altro hai sopportato più [che] cane», instaurando nella letteratura quel colloquio in cui l ’animo si raccoglie e si dà ragione della propria pena. Se Beethoven si sofferma sui passi in cui Odisseo lamenta il lungo e vano errare sul mare e come le privazioni subite abbiano spez­ zato le sue forze («io sedevo sulla nave privo di abbondanti prov­ viste di cibo, tormentato dai flutti: per questo le membra persero vigore»2a) è perché anch’egli ha sofferto tribolazioni lungo la pe­ rigliosa navigazione nella vita: «La continua solitudine non fa che indebolirmi maggiormente tanto che la mia debolezza rasenta qualche volta lo svenim ento»29. Egli riconosce in Odisseo un fra­ tello che lo ha preceduto sulla via del dolore, un maestro di pa­ zienza e di coraggio, e non tralascia, durante l ’appassionata lettu­ ra in chiave del poema, di cogliere ogni elemento di riscontro con la sua propria esperienza umana che possa giustificare, conferma­ re questo rapporto ideale con il suo autore. Se nulla v ’è di essen­ ziale nella natura dell’uomo che non trovi originario riscontro, per la sua validità universale, in Omero, tuttavia la suggestione di tale corrispondenza appare a Beethoven piu stretta quando nella finzione poetica ravvisa adombrata una sua realtà indivi­ duale e segreta. Non v ’è uno solo dei cinquantun passi da lui segnati, espunti dall’Odissea, quasi per farli emergere dal fluente corso della narrazione, in cui Beethoven non abbia riconosciuto un aspetto della propria vita. Potrebbe stupire il trovare sotto-

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lineate le parole di Telemaco in cui si allude ad una sua discen­ denza da stirpe regale («Mia madre mi dice che sono figlio di lui [del re di Itaca, Odisseo] ma io non lo so, perché nessuno sa chi 10 ha generato»)30quando non si sappia che una diffusa leggenda diceva Beethoven figlio naturale di Federico il Grande. All’apparire di questa notizia sui giornali di Vienna Beethoven, nonostan­ te le insistenze degli amici, non volle darne smentita, forse per intimamente compiacersene. Ma pochi mesi prima della sua mor­ te (17 dicembre 1826) confida all’amico Wegeler: «Tu mi scrivi che in qualche luogo sono creduto un figlio naturale del defunto re di Prussia: me ne hanno parlato anche molto tempo fa. H o sta­ bilito come principio di non scrivere mai nulla su di me, né di ri­ spondere a qualsiasi cosa che venisse scritta sul mio conto. Perciò lascio volentieri a te di fare conoscere al mondo la rettitudine dei miei genitori, di mia madre specialmente»31. Se sottolinea i versi «mi è odioso come le porte dell’Ade colui che spinto dall’indi­ genza diffonde fandonie»32è perché vi riconosce la figura del po­ stulante importuno e millantatore, indicandone in margine l ’ini­ ziale del nome, H ., quasi a dire: è proprio lui! Non meraviglia inoltre che un conoscitore dei sentimenti umani quale è Omero, che dà lucida, intensa espressione ad ogni moto interiore della vita, ci parli di uno stato d ’animo apparentemente quasi estra­ neo alla sensibilità virile del mondo arcaico e caratteristico del­ l ’età romantica, quello della malinconia: «Poiché anche la ma­ linconia si pensa volentieri quando si ha molto sofferto e molto si sia andati errando»33. Per Omero, come per Beethoven, come per Leopardi, la malinconia è un rimemorare i giorni del dolore, un vagare alla ricerca di un bene perduto, contemplato da un cer­ to distacco che addolcisce la pena, un ritrovare un nuovo stato di pace, una quasi serena distensione che il velo della malinconia avvolge e trattiene quale preziosa materia per l’arte. Un rimemo­ rare fecondo che consente all’artista di rivivere la propria espe­ rienza affrancata dal passato, trasposta nell’eterno presente che è 11 tempo della poesia, della musica. Beethoven, che di malinconia soffriva «come di un grave ma­ le», potè dire a Schindler, che gli chiedeva cosa avesse inteso

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esprimere nel Largo e mesto della Sonata per pianoforte op. io n. 3 : «Ognuno sentirà bene che esso esprime lo stato d ’animo in preda alla malinconia con le sue diverse sfumature di ombra e di luce», i due poli tra cui sorge quel nostalgico sentimento, quel sorridere tra le lacrime, che non è né lacrime né sorriso, quel­ l ’aria ambigua di quieta serenità, di calma tristezza che sembra aleggiare anche nei volti degli Dei e degli eroi di Omero. In quelle immagini, animate dal fuggevole palpito umano che fu già della vita, si manifesta non solo lo spirito eroico che le anima, ma an­ che l ’espressione del piu intimo, tenero affetto. Omero, che scopre per primo l ’uomo nei suoi piu diversi, con­ trastanti aspetti, ci offre u n ’ampia visione della vita e del dramma che è insito in essa. Il suo insegnamento, che ci giunge da epoche remote, è, come avverte Beethoven, vicino al nostro moderno sentire. Il mondo è colto da lui con una cosi precisa vivente realtà, i suoi personaggi si presentano con una naturalezza, con una pla­ sticità di gesti, con un alone espressivo da anticipare non solo ciò che sarà la futura tragedia greca, ma da poterli riconoscere sem­ pre attuali, per sentirli rivivere nei momenti più alti dell’espe­ rienza esistenziale dell’uomo. Come Odisseo alla corte del re dei Feaci, ascoltando l ’aedo Demodoco cantare le sue gesta alla guerra di Troia, non trattiene le lacrime, cosi Beethoven piange nell’ascoltare la Cavatina del suo Quartetto op. 130, composta sul ritmo della battuta di un cuore oppresso, beklempt, come è detto sul manoscritto. L ’ala del canto non solleva entrambi sulla realtà penosa che quel canto ha ispirato, non asciuga le lacrime che il ricordo ha fatto sgorgare, quasi che la forma non fosse che un aspetto dell’evento, la gloria una illusione, sola realtà il dolore. Il tempo vissuto sembra qui, in Beethoven, sovrapporsi al tempo della musica, e quei suoi accenti appassionati nell’espres­ sione sonora trattengono il caldo palpito della sua dolente uma­ nità. Se Odisseo, se Beethoven, rimemorando le penose vicende, piangono, gli altri, gli ascoltatori, estranei a quegli eventi, spetta­ tori sereni, ne provano godimento e sono ansiosi che quel canto si prolunghi. Non gravano su di loro quelle penose vicende, e

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vorrebbero sempre saperne di piu, come il re dei Feaci: «Ma non ha raccontato tutti i suoi dolori. Cosi con tanta attenzione un uomo osserva il divinamente ispirato cantore che rallegra gli uomini con canti allettanti ed essi stanno ad udirlo insaziati»34. Beethoven avrà invidiato quel pubblico antico, vivamente parte­ cipe all’ascolto, pronto ad abbandonarsi al godimento e all’entu­ siasmo. Cosi avrebbe voluto fosse anche il suo pubblico. Si dice che il giovane Beethoven fosse rimasto sorpreso e deluso quan­ do, al termine di un suo concerto a Berlino, invece che con ap­ plausi il pubblico aveva manifestato la sua ammirazione con un commosso silenzio. «La musica deve suscitare entusiasmo, non commozione», avrebbe detto a Goethe che si asciugava una lacrima dopo averlo ascoltato improvvisare. Il piacere della musica, il suo misterioso potere evocatore, risiede interamente nel suo accordo con la nostra soggettività; Omero per primo sancisce n&WOdissea e legittima la validità del gusto e del giudizio estetico individuale («ma io amavo ciò che Dio ha collocato nella mia anima; poiché ad uno piace que­ st’opera, a un altro quella»)35e Beethoven ne dà conferma con la muta eloquenza del suo contrassegno. L ’impaziente diletto degli ascoltatori di cui parla Omero era determinato non tanto dalla tensione psicologica suscitata in loro dal susseguirsi degli eventi epici, quanto da intima attesa gioiosa che, stimolata da fulgidi esempi, li sospingeva, si direbbe, verso l’avvenire, al fine di dare un significato al loro presente. L ’aedo, esaltando le gesta degli eroi, diffondendone la fama tra gli uomini, esercitava una funzio­ ne altamente educativa sui presenti, procurando loro quell’inesausto piacere suscitato da u n ’attesa che si converte in possesso. Con vivo compiacimento Beethoven avrà sottolineato le parole di Odisseo al «divino porcaro» e ai suoi compagni, in cui si ac­ cenna al clima conviviale degli antichi simposi ove, in stretta cer­ chia di amici, si celebrava con il canto dei poeti la piu schietta areté virile, si rinsaldavano vincoli di solidarietà civile, politica e umana, tra brindisi (la voce greca symposion indica appunto il bere insieme) e allegri conversari. «O ra ascolta, Eumeo, e tutti voi altri pastori: vi voglio esprimere un mio desiderio e dirvi una

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parola. Il vino che incita l ’uomo, pur molto savio, a cantare e a ridere teneramente e ad alzarsi a danzare gli fa uscire fuori pa­ role che forse era meglio non d ire » 36. Di questi antichi festosi rituali Beethoven coglie l ’ultima eco in quelle serene e gioiose riunioni nelle trattorie della campagna viennese, nell’Helenenthal, in compagnia di intimi amici e di qualche ospite che ne ha tramandato il ricordo. Tra questi Ignaz von Seyfried: in pochi tratti ci evoca una vivace, insolita e quasi pagana immagine di Beethoven che si abbandona a copiose libagioni di spumeggiante Sellery e di Vösslauer dei migliori vigneti. Il vino che scorre a profusione rende sempre più allegra la compagnia. La robusta giovialità dell’anfitrione è contagiosa e si trasmette agli amici. Il musicista Khulau compone tra il chiasso un canone sul nome di Bach, Beethoven Trinklieder, e li dirige battendo allegramente il tempo dando l ’attacco alle diverse entrate delle voci del coro: un tripudio sonoro interrotto da salaci e pungenti battute e tali da dover essere seguite l ’indomani da lettere di scusa37. Ombre fugaci tra tanta luce. Saltuario rigurgito di quell’atavica esuberan­ za fiamminga che gli era innata, fatalmente seguita dalla tristezza che lo attende al risveglio. «Tornai a casa stamane alle quattro da un baccanale dove dovetti ridere tanto per piangere poi altret­ tanto oggi, —confida Beethoven a Bettina Brentano. —Sovente l’ebbrezza di una gioia mi ricaccia nuovamente con violenza in me stesso»38. «La fiamma non è tanto chiara a se stessa come agli altri, cosi pure il saggio», dirà poi Nietzsche. Il saluto di addio che Odisseo porge alla regina dei Feaci, Arete —«Sii felice, regina, sinché non ti giunga vecchiezza e poi morte, che sovrasta tutti gli uomini. O ra io mi separo da te. Sii felice in questo palazzo, gioisci dei figli, della tua gente e del re A lcinoo»39—, è il saluto di un uomo che sa l’infinito valore dei beni che egli augura e che anch’egli anela di possedere. Beni che, evocati dal desiderio, ne rendono piu desolata la privazione. Da questo profondo turbamento dell’anima, da questa accorata no­ stalgia sembrano scaturire anche le invocazioni di Beethoven, che su questi versi si è soffermato: «O terribili circostanze che non

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soffocano il mio sentimento per la vita familiare ma mi impedi­ scono di averne una. O Dio, Dio, rivolgi il tuo sguardo al misero Beethoven! » 40.

Il prevalere di un contenuto pregnante di significati sulla for­ ma appare costante nella grande poesia greca dell’età arcaica, estranea alla concezione estetica modernamente intesa, dissociata da quei valori etici, didascalici e sociali di cui quella è nutrita. In Omero contenuto normativo e forma artistica stanno in relazione di reciprocità per provenire da una sola radice. Gli aedi, i divini cantori, sono equiparati nell ’Odissea, come Beethoven rileva, a «coloro che si sono resi famosi nell’esercizio di una loro specifica attività a vantaggio del popolo: un veggente, un medico, un ma­ stro costruttore, cosi anche un divino cantore che rallegra con i suoi canti»41. Il canto dell’aedo si effondeva nella sua purezza ori­ ginaria in uno spazio canoro indeterminato per l ’inesistenza di una qualsiasi gamma, libero da ogni schema o misura, ma in spon­ tanea, naturale obbedienza ai grandi ritm i della passione e della vita: un canto che, traendo ispirazione dal testo poetico, infon­ deva alla narrazione nuova efficacia espressiva. Era in virtù della fusione di melos e di logos, di quel gesto vocale in cui l ’inflessione del calore umano si incarnava nella voce, che l’antico aedo, ele­ vando il suo canto ad una intonazione lirica, suscitava la più pro­ fonda emozione tra gli ascoltatori, che non si saziavano di ascol­ tarlo come in preda ad u n ’estasi delirante, ma in pari tempo quasi costretti a riflettere su quei tragici eventi cosi vivamente evocati. L ’illimitata capacità di comunicazione spirituale propria del can­ to, la sua immediata evidenza vitale, ne determinavano l ’efficacia evocatrice. Penelope piange ascoltando Femio che canta nella casa di Odisseo «la triste sorte dei Danai, la cruenta guerra di Troia, che tanti lutti ha causato», e il fortunoso ritorno in patria degli Achei, e chiede all’aedo di interrompere quel canto funesto che troppo strazia il suo cuore: «Femio, tu conosci bene altre canzoni e gesta di uomini e di Dei che sono famosi tra i cantori» a.

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Ma Telemaco risponde alla madre pregandola di non impedire che « l’amato cantore diletti al modo che la mente lo ispira. Non biasimo sia per lui cantare la sorte dei Danai, ma soltanto Zeus che a suo piacere ispira i maestri dell’arte, poiché il canto piu nuovo sopra ogni altro canto riceve la più alta lode delle attente assemblee»43. Non v ’è nell 'Odissea riferimento agli aedi che Beethoven non lo ponga in rilievo sottolineandolo con compiacimento. «T utti i mortali ritengono sia giusto onorare e rispettare i cantori: la Musa stessa insegnò loro i canti e predilesse i cantori» 44. Celebrando ciò che al mondo è più degno di lode, banditori delle gesta e della fama di uomini e di Dei, essi risvegliavano negli animi sentimenti eroici, educavano la posterità mediante l ’esempio dei grandi eventi del passato. Il grande onore in cui erano tenuti doveva apparire in penoso contrasto con le condizioni in cui Beethoven versava: «Povero musico - come egli si definisce —braccato in ogni parte come una belva, misconosciuto troppe volte nel modo piu basso e volgare, con tante apprensioni ed affanni»45. Non diversamente dagli artisti della grecità anche i moderni, dice Beethoven, avrebbero dovuto essere considerati «quali pri­ mi maestri della nazione»44per il prestigioso influsso estetico e morale che essi, come quelli antichi, potrebbero esercitare. Ome­ ro, fra tutti il maggiore, fu da Platone definito grande educatore e maestro di vita di tutta la Grecia. Non può essere infatti educa­ trice un’arte in cui non viva uno slancio superiore dell’anima, che non tenda a sollevare lo spirito e a fargli sentire l’esistenza di una realtà piu alta. Tra i musicisti, oltre Bach, nessuno come Beetho­ ven ha avuto tanto chiara coscienza di questo compito, che egli svolse come una missione e al cui raggiungimento dedicò la parte migliore della sua esistenza. «Sin da ragazzo il mio grande pia­ cere e la mia piu grande felicità furono di poter lavorare per il bene degli altri». Commuove la sua generosità verso le suore O r­ soline di Vienna, ed egli piange «lacrime di gioia » per il buon suc­ cesso ottenuto dalle sue «deboli forze» e dal suo contributo al­ l’opera educatrice di quelle degne suore. L ’adempimento di un

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dovere morale costituiva per lui, come per i buoni (dice Omero), un premio ". Ma Beethoven non intende valersi della sua musica solo a beneficio dei poveri, ma «a vantaggio spirituale di tutti». L ’entità spirituale dell’arte non può tuttavia ridursi ad u n ’uni­ ca formula. La grandezza della sua efficacia educatrice non si li­ mita a quelle affermazioni che tendono a esemplificare intenti moralistici, come quando, condividendo i pregiudizi di H erder nei confronti del Don Giovanni di Mozart, dichiara: « Il Don Giovanni ha ancora la forma italiana, inoltre l’arte non dovrebbe mai lasciarsi disonorare da un soggetto tanto scandaloso » 48. Com­ pito della musica era per lui procedere nel cammino instaurato da Mozart col Flauto magico, in cui, bandita ogni fonte straniera, si riafferma il carattere nazionale tedesco, si celebra la virtù contro il vizio, la luce contro la tenebra, e si esorta a superare le difficili prove quali richiede la conquista di «ein Mensch zu sein», il cammino che Beethoven seguirà nel Fidelio, in cui Γanima bel­ la trionfa sulla tirannide, e che si chiude, precedendo la Nona, con la visione utopica di una raggiunta fraternità umana nella li­ bertà. Beethoven costringe la musica ad agire sugli animi con una potenza che è propria dell’arte antica, mediante quella Festigkeit, quella saldezza tecnica vivificata da afflato spirituale che Beetho­ ven seppe riconoscere ed apprezzare nella polifonia di Palestrina. Della musica egli ampliò i confini senza menomare ed alterare i suoi caratteri specifici, stabilendo un rapporto dialettico con il pensiero. Se per Hegel, come già per Platone, l’arte, divenendo ogget­ to della filosofia, si risolve e naufraga in essa, per Beethoven, co­ me per Schiller, come per Hölderlin, è il pensiero che divenendo oggetto della contemplazione dell’artista si fa materia della sua poetica, sostanza viva della sua arte. Il Bello si costituirà allora quale apparizione sensibile dell’Idea. «La verità esiste per il sag­ gio I la bellezza per il cuore sensibile | entrambe appartengono l’una all’altra» («Die W ahrheit ist vorhanden für den W eisen | die Schönheit für ein fühlendes Herz | Sie beide gehören fürein­ ander»): sono i versi che Beethoven ha trascritto dal Don Carlos

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di Schiller che affermano la Verità come Bellezza e la Bellezza come Verità, in reciproco e invertibile rapporto dialettico. Beethoven ripropone il rapporto tra arte e vita, tra il mondo dei suoni e quello delle idee; è come se la materia sonora fosse da lui ricondotta alle radici della sua latente energia: è come se l ’Idea, intesa in intima, essenziale corrispondenza con la forma musicale, ne stimolasse la facoltà creatrice. La forma appare in Beethoven condizionata e ispirata, nel suo specifico atteggiamento estetico, dai contenuti che essa incorpo­ ra. Per penetrare nell’intimo dell’uomo, in cui viva un ethos, e ravvivare di nuovo fervore un ideale, la musica di Beethoven può dirsi plasmatrice e rigeneratrice dell’anima. Non meraviglia che questa concezione dell’arte, di cui Omero è antesignano, sempre riemergente nei secoli in contrapposizione a quella dell’autono­ mia estetica, abbia trovato in Beethoven, animato da quegli stessi ideali, piena adesione e nuovo stimolo a renderla vivamente ope­ rante.

La poesia, dice Schiller, può diventare per l ’uomo ciò che per l ’uomo è l’amore, incitarlo a nobili imprese, infondergli impulso a diventare ciò che egli è; e quella di Omero non potè che ravvi­ vare in Beethoven gli alti ideali, cui sacrificherà anche l’amore. Rispondendo a Schindler che lo interrogava sui suoi rapporti con Giulietta Guicciardi, la «non amante amata», egli ebbe a confi­ dare che, ritornata a Vienna dopo il matrimonio con il conte Gallenberg, «elle cherchait moi pleurant, mais je la meprisois» (sic). W enn ich hätte meine Lebenskraft m it dem Leben so inge­ ben wollen, was wäre für das Edle, Bessere geblieben?» («Se avessi voluto disperdere cosi la mia energia vitale cosa sarebbe rimasto per ciò che è nobile, per ciò che è migliore? »)". Questa sua inclinazione al bene (das Gute) e alla virtù, che dalla fanciullezza egli cominciò ad amare «unitamente a tutto ciò che è bello» e che si andò in lui sviluppando al ritmo incalzante del tempo, costituì l’ideale che, in conformità del modello ispira-

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tore, la kalogathia greca, riuniva in un unico concetto i due aspetti di una sola realtà, compendio delle piu elette virtù umane e che è qui da intendere nell’accezione data da Platone a questo anti­ co termine, in cui l ’originaria fierezza aristocratica e l ’ardimento eroico che gli era implicito si addolcisce e si umanizza, si fa sim­ bolo di serena armonia, di raggiunta libertà interiore, pur conser­ vando intatto il suo alto valore morale. Era questo il dono che nell 'Opferlied di Matthisson musicato da Beethoven si chiede a Dio: «G ib mir... o Zeus das Schöne zu dem G uten» («Concedimi, o Zeus, il Bello unito al Buono»); per lui «una preghiera valida in ogni tempo» («ein G ift für alle Zei­ ten») 50. Alla virtù, mirante al conseguimento di un ideale di vita, Omero contrappone la forza bruta: «Agli Dei beati spiace ogni azione violenta, ma onorano la virtù {die Tugend)»51. Predicato dell’aristocrazia arcaica, essa equivale inoltre ad ardimento, for­ za, potere, e quando, dice Omero, un uomo ne è anche parzial­ mente privato, decade dai privilegi di casta, si riduce in uno sta­ to di servaggio, o, come traduce il Voss, «perde la sua santa li­ bertà » (« sobald die heilige Freiheit verlieret » )52; una perdita, per Beethoven che sottolinea questo passo, ben maggiore di quella dei privilegi sociali. Freiheit, libertà: questa fatidica parola ri­ suona in lui, ricca di tutte le accezioni che lungo il corso dei se­ coli, con lo sviluppo del pensiero era andata assumendo, e consi­ derata nel suo tempo come una religione. Era questa una libertà nuova, non condizionata da alcuna costituzione, indipendente, individualistica, assertrice dei diritti umani, la cui essenza consi­ steva nel fatto di essere, per opera propria, ciò che essa è. Dai greci Beethoven aveva appreso a dire, cantando, «cose in­ signi», come già l’aedo Pilade, durante i giochi Nemei, prese a cantare le parole tratte dall’opera di Timoteo intitolata I Persia­ ni: « " Io sono dei figli della Grecia il piu splendido ornamento, | quello della libertà! ” E mentre egli esprimeva con la sua voce eccelsa tutta la dignità racchiusa in queste parole, gli ascoltatori volsero gli occhi verso Filopemene». È da Plutarco, di cui era ap­ passionato lettore, che Beethoven ha trascritto questo passo53, in cui egli non solo riconobbe un alto esempio, ma la prefigurazione

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di quella Freude, di quella gioia che si identifica nella Freiheit, nella libertà. La luce di questi ideali, a distanza di millenni, giunge ancora a illuminare come una stella lontana nello spazio le nostre co­ scienze, a prova della loro attualità perenne. Di questa idea del Buono e del Bello, di questa kalogathia, Beethoven fece la sua impresa, la misura certa di quella perfe­ zione che è una costante aspirazione da raggiungere, da consegui­ r e 54. Al «sentimento per tutto ciò che è Bello e Buono» («Gefühl für alles Schöne und G ute») egli si richiama compiaciuto come di un prezioso possesso, ed esorta a valersene {verwenden) per poter riconoscere nell’arte, nella sublime musica, ciò che essa racchiude in sé di piu perfetto {das Volkommenere), quell’essenza segreta, che sempre si riverbera su di noi («das selbst auf uns immer wieder zurückstrahlt»): «Non esercitare soltanto l’arte, ma pe­ netra anche nel suo intimo», scrive ad Emilia M., una sua giovane ammiratrice55. Alla conoscenza formale della musica deve unirsi la coscienza della sua spiritualità, altrimenti (come Mephisto nell’Urfaust di­ ce allo scolaro) non restano in mano che le singole parti, e, ahimè, viene a mancare il legame dello spirito («Dann hat er die Theil in seiner Hand, | Fehlt leider nur geistlicher Band»). Ed è questo legame, questa intima connessione che Beethoven stimola e in­ duce a ritrovare. «Lo merita, perché soltanto l ’arte e la scienza innalzano l ’uomo sino alla Divinità {bis zur G ottheit)». « L ’arte —prosegue Beethoven —non ha confini. Il vero artista oscuramen­ te sente di non essere ancora giunto là dove il suo genio migliore gli schiude dinnanzi come un sole lontano»56, l ’immagine di cui Platone si vale nella Repubblica per esprimere, mediante u n ’ana­ logia tratta dal mondo sensibile, la visione, inesprimibile per via dialettica, dell’Idea («un sole che brilla dall’alto, versa la sua lu­ ce...» e Beethoven: «auf uns immer zurück strehlt»), quale si pone come paradigma, modello di valore universale. In nulla dif­ feriscono dai ciechi, prosegue Platone, «quanti nella loro anima non posseggono modello alcuno, quanti non hanno facoltà di vol­ gere lo sguardo, come fanno i pittori, verso il piu vero esemplare.

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e ad esso, alla sua trascendenza, continuamente riportarsi, e quel­ la contemplare quanto più a lungo è possibile». A questa Idea, a questo Sole anche il musicista Beethoven guarda come all’esemplare più perfetto (Volkommenere) della sua arte e ad esso, alla sua trascendenza, continuamente si riporta per trarne ispirazione e guida al suo lavoro, per cercarvi adesione e rifiuto. E intimamente si compiace di riconoscerne l ’immagine simbolica di un disegno di Teresa von Brunswick, raffigurante un’aquila che guarda il sole: «Se un giorno sente in Lei il gusto della pittura, La prego di rifarmi quel disegno che fui cosi sfortu­ nato di perdere. L’aquila guardava nel sole... Non lo posso dimen­ ticare, ma non creda che io pensi a me stesso guardando questo di­ segno, sebbene mi abbiano già attribuito qualcosa di simile: ma molti possono considerare con piacere una figura eroica senza avere alcuna somiglianza con essa»57. In realtà quella immagine ben poteva significare la tensione intrepida, il costante anelito di avvicinarsi a quella «cognizione massima», a quella «misura eter­ na» in cui pienamente si realizza, per Platone ed anche per Bee­ thoven, l’essenza profonda sia della coscienza morale sia dell’in­ tuizione artistica. Il mondo in cui Beethoven idealmente vive è popolato dagli eroi dei poemi omerici, da quelli delle Vite di Plutarco, dagli spi­ riti magni del pensiero e della poesia greca, avvolti in u n ’aura di alta moralità, di giustizia, di grandezza. Quando sottolinea un verso dell 'Odissea, in cui si afferma che gli Dei immortali «onorano la virtù e la giustizia (Gerechtigkeit) tra gli uomini », è perché riconosce questi sentimenti essergli con­ geniali: e che ben si addice anche a lui tanto onore. « Io fui sem­ pre buono e nelle mie azioni mi ispirai sempre alla giustizia (Rechtschaffenheit) e alla lealtà», dichiara a W egeier5“, e scriven­ do a Goethe afferma: «La visione del Bene ci sta sempre chiara dinnanzi»5’. I sentimenti del Grande, del Bene, infondono nel suo animo un giusto orgoglio di sé, consapevole della superiorità che il suo tempo, il Geniezeit, riconosceva agli artisti, e che l ’alta autorità di Platone stava a legittimare. La sua affermazione che l ’uomo

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moralmente e intellettualmente superiore ha diritto di far valere la sua preminenza nei confronti della massa “ e di distinguersi da essa al fine di potersi dedicare alla propria attività con tutte le forze dell’animo era pienamente accolta e condivisa da Beetho­ ven, che in un suo taccuino dichiara: «in virtù della mia attività io non appartengo a questa massa plebea» («den[n] ich gehöre nicht gemäss meine [r] Bescheftig[ung] unter dieser pleb[ejer] M[asse] » )61, ed afferma con fierezza la sua nobiltà di sentire, vera aristocrazia, che tanto lo innalza sulla schiera dei titolati quanto su quella dei borghesi tra cui egli lamenta di essere caduto («und ich bin unter ihn geraten»), si da sentirsi pertanto escluso dagli uomini superiori («Abgeschlossen soll der Bürger von hohem Menschen sein»)62. Se, come testimonia Schindler, Beethoven co­ nosceva gli scritti di Aristotele, è dato supporre che anch’egli ap­ partenesse a quella schiera di uomini che ritenendo fosse giustifi­ cato compiacersi del proprio alto sentire ed agire si riconoscevano degni di onori: tendenza o disposizione dell’animo che nell’Etica Nicomachea è definita megalopsichia, non vanitosa presunzione ma chiara consapevolezza del proprio merito e del proprio valore. La Grecia ne aveva offerto il modello con la sua nuova valuta­ zione dell’uomo, che gradualmente si era andata fondendo con l’idea cristiana dell’infinito valore del singolo e con l’autonomia spirituale rivendicata dalla civiltà del Rinascimento e dalla filo­ sofia dell’Illuminismo. L ’idea di una educazione formativa volta a dar forma alla vita come il vasaio dà forma alla creta è una eredi­ tà della Grecia, che si ripresenta sempre là ove lo spirito ne risco­ pre la validità essenziale. Cosi avvenne al tempo di Beethoven e in Beethoven stesso quale tutore del nipote. Il compito di plasmare una giovane vita ad immagine e somiglianza di un’Idea lo esalta. Persuaso dell’efficacia etico-psicologica dell’esempio, dei paradeigmata che frequentemente ricorrono nella narrazione di Ome­ ro (e che ne costituivano, in quel mondo arcaico, ancora privo di leggi codificate, un basilare punto di riferimento), al modo che Atena propone Odisseo quale modello di Telemaco, Beethoven propone se stesso per infiammare con il suo proprio esempio («durch mein eigenes Beispiel») il nipote alla virtù, allo studio,

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all’attività pratica, e se ne esalta: «Io non fui mai tanto benefico e grande come quando presi presso di me mio nipote e curai io stesso la sua educazione», scrive al Magistrato di Vienna, prefig­ gendosi di sviluppare tutte le facoltà intellettuali, morali e fisiche del giovane, al fine di raggiungere « il bello scopo di dare un utile, degno cittadino allo S tato...»63. La concezione etico-politica, dominante nella Grecia dell’età classica, che mirava ad inserire il cittadino nella comunità e a ren­ derlo ad essa consapevolmente partecipe, collegando ogni aspet­ to della cultura, fisica e morale, all’idea stessa dello Stato, sembra rivivere negli intenti di Beethoven. Di questa salda formazione ideale Solone aveva indicato l ’essenza: «Fatto mani e piedi e mente diritto e senza difetto», e un poeta tedesco caro a Beetho­ ven, Schiller, l ’aveva spiritualmente vivificata auspicando l’av­ vento di un uomo in cui istinto naturale e legge morale si trovas­ sero in reciproca armonia, dando vita al concetto dell’anima bella, della schöne Seele, sogno del secolo. Ma alla realtà lo richiama l ’antica saggezza di Omero: nel­ l ’eterna presenza della sua poesia egli contempla prefigurata, co­ me riflessa in uno specchio, l ’immutabile condizione della espe­ rienza umana. Essa lo ammonisce che «pochi sono i figli —e tale Beethoven considerava il nipote —simili ai padri nella virtù: la maggior parte peggiori, molto pochi i migliori» “, a non illudersi che il suo pupillo possa essere «una meraviglia di spirito e di aspetto»65. Come in un libro profetico egli vi riconosce le sue rei­ terate quanto inutili esortazioni di prudenza nel giudicare: «Io credo che tu ancora confondi la spiga con la paglia» A suo ammaestramento egli sottolinea questi passi e si soffer­ ma su frasi che gli sembrano suggerire un argomento di cui valersi nel processo intentato dalla madre del ragazzo (per contestare la tutela), sostenendo che egli non ha usurpato a danno altrui alcun diritto, né con parole né con fatti: «come è costume dei sovrani, che alcuni perseguitano, altri proteggono» 6\ Nella lettera al Magistrato di Vienna Beethoven si difende dal­ l ’accusa di aver inculcato nel ragazzo sentimenti irriverenti verso la religione. Si dice disposto a perdonare le calunniose insinua-

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zioni di una madre indegna, ma non a rinunciare alla tutela, pron­ to a sostenere una lotta dura e umiliante. Egli ben sa, e lo ha anche appreso da Omero, che «non dà sofferenza né affanno all’animo di un uomo, che, lottando per i suoi beni, riceva dal nemico feri­ ta...» “, e si compiace di sottolineare queste parole quasi che con­ fortino la sua decisione di «sopportare anche i maltrattamenti, pur di non perdere di vista la nobile meta che si è prefissa», e an­ cora: «H o giurato di combattere per il suo bene sino alla fine del­ la mia vita» e. Vien qui di ricordare i versi di Hölderlin: «W arum huldigest du, heiliger Sokrates, Diesem Jünglinge stets? kennest du Grössers nicht, W arum siehet m it Liebe, W ie auf G ötter, dein Aug auf ihn? » W er das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste, Hohe Jugend versteht, wer in die W elt geblickt, Und es neigen die Weisen O ft am Ende zu Schönem sich *.

Quasi a giustificarsi, chiama a mallevadori del suo buon dirit­ to e del suo retto agire Socrate e Gesù quali « suoi modelli » : « So­ krates und Jesus war m ir M uster», rivelando cosi la sua adesione alla religione liberale del tempo, in cui confluivano esperienze filosofiche e mistiche, pagane e cristiane, in rispondenza alle piu alte esigenze dello spirito70. Ma è soprattutto da Platone, dal Pla­ tone della Repubblica, che egli attinge ispirazione e guida per assolvere al suo compito educativo71. Schindler porta testimo­ nianza certa della familiarità di Beethoven con questo dialogo, ma sembra tuttavia sfuggirgli la vera ragione del suo particolare inte­ resse, limitandolo ai passi che trattano della mimesi sonora: i pre­ cetti di una poetica che se fu utilissima a M onteverdi72appare del tutto superflua a Beethoven, attratto dalla tematica fondamen­ tale di quella grande opera, che versa essenzialmente sulla for* [«Perché stai sempre adorando, Socrate santo, | Questo giovane? Nulla sai di piu grande, | Che con occhio d’amore, | Come gli dèi, lo contempli? » || Chi pensa il più profondo, ama il piu vivo, | Sublime gioventù intende, chi ha guardato nel mondo, I E inclinano i savi sovente | Verso la bellezza, alla fine. (Versione di Giorgio Vigolo)].

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mazione e sull’educazione civile e morale del cittadino, appunto il precipuo scopo di Beethoven, come è detto nella sua lettera al Magistrato di Vienna, redatta in conformità con il testo plato­ nico. Se Platone inserisce il giuoco nell’educazione, ponendolo a servizio di questa, Beethoven a sua volta conviene essere utile che il nipote sia «piacevolmente occupato durante tutto il gior­ no», che «apprenda piacevolmente». Se per Platone la piena e vera umanità si realizza nello sforzo di avvicinarsi al divino73, si­ milmente lo è anche per Beethoven, che riconosce essere « soltan­ to su questa base che si possono formare dei veri uomini»: ed af­ ferma che «questa educazione interiore debba essere inculcata molto presto»74, al fine di cogliere l’uomo, come apprende dal suo grande Maestro, «nello stadio iniziale e più delicato, per trovarsi nell’età estremamente ricettiva e atta a prendere l ’impronta che gli si vuol dare». Fondamento è per entrambi, nella formazione educativa, la conoscenza del Bene, che possa ravvisarsi concretamente in un modello esemplare, in un paràdeigma, in un esempio di vita, se­ condo l ’antica tradizione omerica, quello del padre, guida sicura, quale Beethoven si propone essere per il nipote. « Io mi sento chiamato ad infiammarlo col mio proprio esempio alla virtù e al lavoro». Citando Plutarco Beethoven ricorda al Magistrato come Filippo il Macedone avesse stimato non indegno di sé dirigere egli stesso l’educazione di suo figlio Alessandro. L ’eccessivo zelo nel perseguire questo ideale educativo era de­ stinato a provocare la naturale reazione del giovane, la sua avver­ sione a doversi conformare al modello che gli veniva imposto e che gli farà dire, al processo per il tentato suicidio: «Sono dive­ nuto peggiore poiché Egli mi ha voluto migliore». Parole in cui sembra cogliere l ’eco distorta di quanto Platone osserva: «Le anime migliori divengono, in situazioni avverse, peggiori delle anime com uni»75. Se il fallimento della missione pedagogica di Beethoven potè trovare qualche motivo di rassegnazione nella saggezza di Ome­ ro, che riporta le umane vicende ad una suprema legge della na-

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tu ra 76, quella stessa poesia, evocando immagini di perfetta letizia, non poteva per contro che destare in lui la più struggente ama­ rezza, dargli la misura delle sue illusioni e della sua miseria, come là ove Odisseo incontra Telemaco: «Cosi parlò e baciò il figlio, e giu per le guance le lacrime sino allora trattenute caddero a te rra » 77. Versi, da lui sottolineati, che forse gli fecero nostalgica­ mente rivivere l’ansia e la felicità di un altro incontro, quello con il suo figliuol prodigo, accolto con il piu caloroso abbraccio di perdono: «Mille volte ti bacio e ti abbraccio o mio figlio non per­ duto ma nuovamente rinato! » 78. Ma quanto sia stata labile e fug­ gevole quella sua gioia, saranno i versi seguenti a farglielo cru­ delmente sentire per il cocente contrasto che essi provocano con la sua realtà. «Allora il giovane abbracciò il suo meraviglioso pa­ dre con fervore, amaramente piangendo, e sorse in essi un dolcis­ simo desiderio di pianto»75. «Padre, ho molte volte udito della tua grande fama, del tuo coraggio in battaglia, della tua saggezza di consiglio»“. Parole che anch’egli avrebbe meritato di udire dal giovane ingrato. Allo scorrere di tante dolcissime lacrime an­ ch’egli avrà sentito inumidirsi le ciglia e farsi dolente il ricordo di quando aveva confidato piangendo a Giannatasio Del Rio: «Karl si vergogna di me».

L ’idea dell’uomo intesa in tutta l’estensione del termine è pre­ sente e compenetra ogni manifestazione creativa dello spirito greco, per costituire il punto focale in cui si concentrano i raggi di un medesimo lume. Profondo sentimento antropomorfico che nel mondo antico fece considerare l ’uomo vivente quale opera d ’arte suprema. E sarà un sentimento analogo che farà dire a Beethoven: «Mediante l’educazione di mio nipote voglio innal­ zare un nuovo monumento al mio nome» («Ich will meinem Na­ men durch meinen Neffern ein neues Denkmal stiften » 81). Espressione per i greci delYareté, che assomma ogni virtù fisi­ ca e morale, questo modello di perfetta umanità, destinato a non mai attuarsi, riaffiora, al tempo di Beethoven, nei sogni di filosofi,

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quale Kant, di poeti, quale Schiller, come immagine di superiore armonia, in cui le voci discordi dell’istinto e della legge morale trovano loro conciliazione ideale e che, se non ebbe mai concreta realizzazione sulla terra, si manifesta e rivive nella realtà dell’ar­ te, quale si ravvisa nel personaggio di Leonora nel Fidelio. Figlio del suo tempo, Beethoven non ne fu il favorito. M atu­ rato sin dalla giovinezza «sotto il lontano cielo della Grecia», si ritrovò in patria come un estraneo, attorniato da «caratteri de­ boli», che egli, animato dall’ardore di un antico profeta, vorrebbe castigare e purificare. « Il nostro secolo —scrive al nipote —ha bisogno di spiriti forti, che flagellino queste grette, vilissime ani­ me di uomini; per quanto il mio animo si ribelli a far del male a chiunque»S2. Immune dalla corruzione del suo tempo e disprez­ zandone il giudizio, Beethoven con le sue grandi e geniali opere intese indicare agli uomini una direzione verso il Bene. La musica ha in sé illimitate capacità di comunicativa spirituale, quella im­ mediata evidenza vitale che è la condizione della sua efficacia. In Beethoven sembra rivivere lo spirito di un antico aedo, la missione di celebrare con epici canti ispirati dalla Musa il virile cavalleresco ideale, di elevare ed infiammare gli animi degli ascol­ tatori. Anch’egli sentiva il richiamo di una vocazione che diceva divina, anch’egli aveva provato, come dice Platone, «il delirio che viene dalla Musa quando essa avvince un ’anima: se è u n ’ani­ ma delicata e pura, la risveglia e la rapisce, e, celebrando le gesta gloriose del passato, educa in tal modo la posterità». Come Pla­ tone, anche Beethoven sa che colui che si presenta alla porta della poesia convinto che l’abilità tecnica possa bastare a fare di lui un artista, sarà eclissato da chi è posseduto dalle Muse. La purezza dell’anima è inseparabile da una ispirazione veramente divina e solo un poeta filosofo può riunire in sé queste due condizioni83. «Si dice —scrive in un suo quaderno Beethoven —che la vita è breve e l’arte è lunga, ma lunga è la vita e breve l ’arte; se il suo soffio si eleva sino agli Dei, non è che per un solo istante» 84. L ’an­ sia di poter compiere la sua missione sulla terra è cosi struggente, che giunto quasi al termine del suo cammino, segnato da tanti capolavori che ne costituiscono le pietre miliari, le fasi della sua

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incessante ascesa, gli sembra di aver scritto soltanto qualche nota. «Apollo e le Muse non mi lasceranno portar via dalla Morte: ho ancora molti debiti verso di loro e prima di partire per i Campi Elisi devo lasciare dietro di me quanto YEterno Spirito ha infuso nella mia anima e mi comanda di compiere» Se la visione nostalgica della vita patriarcale delle società ar­ caiche, in cui l ’uomo operava in modo semplice ed armonioso, quale è rispecchiata nei poemi omerici, potè costituire elemento ispiratore della sinfonia E astor ale, per il senso religioso che la pervade, per l ’intima partecipazione del sentimento a quella im­ magine di perfetta armonia della Natura e dei suoi eterni mo­ menti semplici e grandi, cosi il culto del mondo eroico della Grecia antica, fulgido esempio di valoroso ardimento, riconduce Beethoven al mito di Prometeo. Tyche o Moira, caso o destino che fosse, attorno a quel fati­ dico anno 1801, che segnò una drammatica svolta nella vita di Beethoven, il tema di Erometeo si pose quale oggetto della sua ispirazione quando gli venne affidata la composizione del balletto di Salvatore Viganò Le Creature di Erometeo, in cui il mitico eroe appariva come «un nobile spirito che avendo trovato gli uomini in uno stato di ignoranza» si proponeva di elevare la loro condizione a nuova dignità umana, di farli liberi. Simbolo di ribellione ad ogni forma di tirannide, l ’immagine di Prometeo, apportatore di bene e di civiltà, rispondeva alle pre­ messe ideologiche ed alle attese politiche sue e del suo tempo, ma doveva inoltre essere ben presto riconosciuta da Beethoven quale prefigurazione sempre piu attuale ed appassionata di un segreto, drammatico suo stato interiore. Il suo incontro con quel mito ci appare quasi come una theia tyche, come direbbe Platone, un ca­ so divino in cui è implicita una interpretazione religiosa di eventi apparentemente casuali e insieme altamente significativi. Era infatti quello il tempo in cui l’incipiente sordità oscurava l ’aurora del suo genio sorgente mortificando il giusto orgoglio di essersi di tanto avvicinato alla meta ambita e di sentirsi l’artefice di questa conquista («o momento felice, come mi sento fortuna­ to di poterti apprezzare, di poterti realizzare io stesso», scrive il

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23 giugno all’amico Wegeler). Con scarto improvviso il corso del­ la sua esistenza veniva deviato dal sereno, fecondo benessere che egli aveva raggiunto e da quella esuberanza fisica di cui amava allora tanto compiacersi Speranza e disperazione si contendono ora il suo animo in pe­ na, che infine cede di fronte alla tragica realtà. Ma non tarderà a riconoscere gli oscuri sintomi premonitori della sordità, ad assu­ mere coscienza di essere caduto in potere della infausta Moira che anche a lui, come all’eroe omerico Dioreo, ha gettato la mala pietra. «Le mie orecchie ronzano e rombano di continuo, giorno e notte: una condizione terribile per la mia professione», confida a W egeler87, e ad Amenda, l’amico «che il suo cuore ha prescel­ to»: «Q uante volte ti desidero vicino: perché il tuo Beethoven ha una vita molto infelice e in lotta con la Natura e il Creatore. Già piu di una volta maledissi a quest’ultimo... I miei anni più belli voleranno via senza che io possa compiere tutto ciò cui il mio ingegno e la mia forza mi avrebbero chiamato. Con che cosa non potrei ora misurarmi? » 88. Nella solitudine in cui la sordità lo ha immerso insorge la ribellione. Costretto a fuggire tutto ciò che gli era caro, non vuole tuttavia cedere alla rassegnazione, non può desistere dal lottare: «O h, il mondo io lo terrei in pugno senza questo male. Ogni giorno di piu mi avvicino alla meta che sento ma che non so definire. Soltanto in questo il tuo Beethoven può vivere... Voglio afferrare il destino alla gola; non deve piegarmi per intero, assolutamente no. O , è cosi bello vivere mille volte la vita! » 89. Se, com’egli dice, Plutarco lo ha condotto alla rassegnazione90, egli nondimeno non intende rinunciare a sfidare il destino, ben­ ché sia consapevole che vi saranno nella sua vita momenti in cui si sentirà «la creatura di Dio la piu infelice». In un passo delYOdissea, ch’egli ha segnato e meditato, Omero gli rivela una piu ampia visione del mondo e delle mutevoli sorti umane: «Vedi, nessuno degli esseri che vivono e si muovono sulla terra è piu miserando dell’uomo. Finché gli Dei gli concedono salute e fio­ rente giovinezza, mai non pensa che lo possa cogliere sventura. E quando gli Dei beati gli mandano sventura egli sopporta i suoi

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dolori con impazienza e disperazione. Poiché, come si mutano i giorni che gli Dei mandano dal cielo, cosi mutano anche gli uo­ mini che stanno sulla terra. Perciò nessun uomo sia mai proprio mai ingiusto [contro il cielo] e si goda in silenzio i doni degli D e i» 91. Dalla sofferenza in cui si è sommersi ci si può dunque elevare all’idea di un ritmo che coinvolge tutti gli uomini, modulo rego­ latore che rinserra entro saldi argini il caos delle passioni suscita­ trici di hybris. Nel limpido e profondo spirito omerico si rispec­ chia il positivo e il negativo della esistenza dell’uomo: l ’uno in tutta la pienezza e la plasticità di ciò che ha forma, l’altro come limitazione e oscurità. Il ritmo della vita di Beethoven si manife­ sta come virile accettazione del destino, come ribellione eroica, e, nella sua arte, come saldo rigore formale. Ribellione e rassegna­ zione si alternano nel suo animo, come le sistole e le diastole nel cuore, a scandire il palpito della sua nuova vita. Drammatico con­ trasto tra opposti sentimenti, che solo nella musica troveranno loro superiore conciliazione. Se gli Dei di Omero dominano la vita degli uomini, dispensa­ tori e arbitri delle loro gioie e delle loro pene, essi tuttavia non hanno potere sull’altro lato dell’essere, il lato misterioso ed oscu­ ro ove regnano decadenza e morte. Lo afferma Atena nell 'Odis­ sea92·. «Neppure gli Dei possono stornare la morte dell’uomo quando la Moira malvagia, il demone senza volto, lo atterra». Beethoven avverte la sua insidiosa presenza nell’ombra: «L ’Uo­ mo con la falce non mi concederà molto tempo ancora! » ”, e cerca di esorcizzare quel malefico potere mediante la musica, la «santa musica», sola sua alta attrattiva nel mondo, e prega invano Apol­ lo e le Muse che concedano indugio alla sua esistenza poiché (co­ me Hölderlin) anch’egli ha «molto da cantare ancora», un canta­ re che si identifica con il suo destino di vita. Ma l ’infermità e le pene causategli dal nipote («mortalmente mi hai ferito e ogni giorno mi ferisci... Non offendermi piu... Il mio cuore ha troppo sofferto per la tua falsa condotta verso di me...») fiaccano la sua resistenza fisica e morale («Divengo sem­ pre piu magro... nessuna persona che si interessi di me. Dove

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non sono ferito, dove non sono spezzato? »), si da rendergli re si­ stenza «veramente insopportabile» {ganz unerträglich) 94. Il negativo calerà come notte sulla sua vita, che si va facendo sempre piu solitaria e dolente. E sarà allora che Beethoven, sof­ fermandosi e sottolineando questo passo di Omero, cedendo ad un suo segreto anelito di morte, sembra far propria l’invocazione che u n ’altra anima tormentata e ferita nei suoi affetti più cari, Penelope, rivolge ad Artemide, la virginale Dea, che Omero ono­ ra con l ’aggettivo agné, santa e pura: «Una dolce morte mi con­ ceda la divina vergine Artemide, perché io, infelice, non più a lungo mi strugga d ’affanno per la sorte del mio sposo diletto, il piu bello di tutti gli Achei » 95. Anche Beethoven, come un eroe an­ tico, avrebbe voluto spegnersi trafitto dal suo strale indolore, con il sorriso sulle labbra... «Con gioia vado incontro alla morte... Vieni quando vuoi, ti vengo coraggiosamente incontro...»: cosi egli scriveva nel Testamento di Heiligenstadt l’anno della sua forzata, dolorosa rinuncia alla vita e della sua ascesa al cielo del­ l ’arte. «Quando l’amore di sé si spegne nella rinuncia e nel dolore, allora si rinasce a più giovane vita, a temere, a sperare, a brama­ re» 96. Queste parole che il Prometeo di Goethe dice a Pandora sembrano una premonizione augurale al processo di rinnovamen­ to intrapreso da Beethoven, al nuovo corso della sua tormentata, esaltante esistenza, che dagli stessi impedimenti frapposti dal «demone invidioso» trarrà la misura della sua forza interiore, di quella vocazione imperiosa cui non è dato sottrarsi, e che lo spin­ ge a esprimere nelle opere ciò che arde nel suo petto ulcerato.

Il i° agosto 1800 Beethoven aveva scritto a Frederick von Matthisson, il poeta del Lied Adelaide: «Un artista progredisce sempre. Lei stesso sa quali mutamenti producano alcuni anni in un artista; quanto maggiori sono i progressi nell’arte, tanto meno ci si appaga della propria opera passata»97. Ora non è con il pas­ sato ch’egli intende misurarsi, bensì con l ’avvenire, guardando al

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futuro. Non saranno piu, ora, sentimenti idillici, elegiaci, festosi oggetto della sua ispirazione. «Non sono più soddisfatto delle mie opere composte sino ad ora; a partire da adesso voglio intrapren­ dere una nuova via», confida a un amico98. G li ideali della sua ar­ dente giovinezza, quando si proponeva di musicare per intero YOde alla Gioia di Schiller, ideali apparentemente sopiti nella Vienna mondana in cui era inserito, un tragico evento sembra averli risvegliati, come se la sua anima conturbata dallo spettro della sordità anelasse ad una meta piu alta ch’egli non sapeva de­ finire ma verso la quale si sentiva irresistibilmente attratto ”. «Infinito è il nostro aspirare...», infinito l ’anelito del suo spi­ rito creatore ad elevarsi sui limiti du donné, su ogni convenzione tradizionale, su ogni esperienza acquisita che gli apparirà insigni­ ficante rispetto a quella nuova allucinante visione, destinata a de­ terminare mutamenti profondi nel mondo dell’arte. Consapevole che una nuova epoca si schiudeva alla sua attività creativa, il suo spirito cercò soccorso e sostegno nelle piu vive risorse dell’essere, e accordando le emozioni che in lui si agita­ vano con altre ad esse aderenti, utilizzando note preesistenti, va­ lendosene come armonici della originaria nota beethoveniana, an­ dò conferendo alla musica una impronta quale mai essa aveva avuto. È come se Beethoven, distogliendo lo sguardo dalle ombre che nella allegoria platonica si profilano sul fondo della caverna, lo volgesse alla fonte di luce che le proietta per cogliere una realtà piu alta e piu vera. Novello Odisseo, egli intraprese l’avventuroso viaggio in ter­ re inesplorate ed impervie. Di questa torm entata navigazione i suoi taccuini di schizzi musicali possono considerarsi il giornale di bordo che ne registra le alterne vicende, incertezze di rotta, im­ provvise folgorazioni, gli approdi in cui il navigatore non si con­ cede riposo, sospinto da una inestinguibile tensione interiore che lo sospinge verso l ’irraggiungibile Itaca dei suoi sognim.

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La nuova maniera che Beethoven intendeva instaurare venne ben presto avvertita dalla critica e considerata, non diversamen­ te dal suo pianismo, titanica nella sua potenza e disordinata. Sot­ toposta all’incessante confronto con le opere di Haydn e di Mo­ zart quali pietre di paragone, la sua musica appariva fantasiosa, priva di salda forma, affascinante ma pur sempre arbitraria. Estendendo smisuratamente i confini della musica, Beethoven la eleva «nel mondo superiore della conoscenza», ne fa strumen­ to di una ricerca che tende a trascenderla. Il pensiero musicale, che non esiste se non incarnandosi nel suono, è connaturato in­ fatti alla forma sonora e cercandosi in essa un corpo cerca in realtà se stesso. La musica di Beethoven, assumendo nuova coscienza di sé, si propone di conseguire « progresso e libertà », « scopo essenziale sia dell’arte sia della grande creazione», com’egli dichiara all’arcidu­ ca Rodolfo101. Animata, come la natura, da un principio vitale che la rende atta a creare in sé e da sé le proprie leggi e forme, la mu­ sica non riceverà regole e precetti se non dalle necessità espressive del compositore. Sarà quindi anche libera, non per essere arbitra­ ria ma perché le sue leggi coincidono e spontaneamente concor­ dano con le leggi della Natura, che è alleata fedele del genio: «M it dem Genius steht die N atur in ewigem Bunde; was der eine Ver­ spricht, leistet die andre gewiss » («La Natura è perennemente al­ leata con il genio: ciò che l’uno promette l’altra mantiene»), scri­ ve Schiller, l’autore prediletto di Beethoven, il quale ne riecheg­ gia il pensiero affermando a sua volta che «la N atura si basa sul­ l ’arte e l’arte sulla N atura». Quale primo esempio delle innovazioni formali della sua «nuova maniera» Beethoven, scrivendo al suo editore Breitkopf, ebbe a indicare le Variazioni op. 34 e op. 35. Entrambe «sono elaborate secondo una nuova maniera e ciascuna in un modo pro­ prio e diverso. Posso assicurarvi che in entrambe queste opere il metodo è del tutto nuovo». Due mesi dopo (18 dicembre 1802) riafferma all’editore la diversità di queste due opere rispetto alle

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precedenti, anzitutto nell’op. 34 in cui, interrompendo la tradi­ zionale uniformità, le singole variazioni si susseguono in tonalità sempre diverse e contrastanti, facendo assumere al tema nuovi aspetti armonici e ritmici. Nell’introduzione dell’op. 33 viene esposto un motivo, che nel corso della composizione assumerà la funzione di Basso ad un tema desunto dal balletto Le creature di Prometeo, quasi a conferire saldo sostegno armonico, virile vigoroso accento a quel fresco, gioioso ritmo di danza, che trove­ ranno entrambi loro piena e significativa espressione nel Finale della sinfonia Eroica. L ’immagine di Prometeo (che quel tema evocava), del mitico eroe, modellato sulle premesse ideologiche dell’Illuminismo e dello Sturm und Drang, doveva apparire a Beethoven quale pre­ figurazione di colui che, in un alone di gloria, sembrava incarnare i problemi e le speranze dell’epoca, accendendo grandi attese nel­ l ’animo dei tedeschi: Napoleone Bonaparte, Primo Console. Una nuova realtà, la sua, si era frapposta tra mito e storia, una realtà che tendeva a dissolvere l ’antico mito per farlo rinascere in virtù di un veemente impulso creativo. La sua drammatica realtà, che urgeva di esprimersi in suoni nel modo nuovo da lui intrapre­ so, doveva condurlo, attraverso piani diversi della coscienza, a quel mondo eroico da lui interiormente vissuto e di cui era sim­ bolo, allora, l ’immagine dell’Uom fatale. Non molto diversamente i tragici greci vivificavano il mito da cui traevano spunto e ispirazione, penetrando nella sua essenza, interpretandolo col metro della loro propria esperienza, alla luce della realtà contemporanea: e come allora tu tti potevano ricono­ scere nello Zeus del Prometeo liberato di Eschilo il tiranno locale e in Prometeo un qualche suo consigliere che, approfittando del potere, prometteva benessere e libertà ai sudditi, cosi, al tempo di Beethoven, tu tti avrebbero potuto riconoscere in quell’eroe l ’atteso apportatore di luce e di civiltà nuova, in lotta con i so­ vrani assoluti allora regnanti. La sinfonia Eroica presuppone una società determinata, cui essa si rivolge, una condizione storica e politica che la giustifichi e che sia atta ad accoglierla.

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Nata da una intuizione musicale nuova, nutrita di un conte­ nuto umano nuovo, la sua forma sembra incarnare di questa realtà la pura sostanza. Nello stadio preliminare, vago e indeterminato della creazione, dovette balenare nella sua fantasia una immagine in cui mito e realtà si confondevano, conferendo alla realtà u n ’au­ reola ideale: Prometeo-Bonaparte, l ’uno quale personificazione storica dell’altro, un fantasma eroico che esigeva di trovare espres­ sione mediante i più validi strumenti della sua poetica. Fu quello il momento cruciale, l ’irripetibile istante di grazia in cui, dirà Beethoven, «ci si sente rapiti sino agli D ei», l’istan­ te in cui Videa dell’Eroica gli apparve nella sua virtuale integrità, immersa nel suo grandioso ethos tonale, saldamente determinato nel tema iniziale in mi bemolle maggiore, armonia che sta alla ba­ se di tutto il divenire musicale dell’opera. Un taccuino di schizzi musicali del 1801 ci rivela come, sin dal suo primo sorgere, l ’Idea che soggiaceva in lui gli si sia rivelata in tutti i suoi fondamentali elementi generatori. Vi riconosciamo, tracciati con mano febbrile, gli spunti melodici, armonici, ritmici che ne costituiscono le vitali cellule generatrici di tutta la strut­ tura formale. Primi reperti rivelatori che affiorano sulla pagina, cui seguirà l ’ostinato lavoro di scavo, da cui Beethoven farà emergere, per via di levare, dalla massa informe della materia sonora, in tutta la sua compiuta armoniosa concretezza e saldezza architettonica, ad immagine e somiglianza dell’Idea, la sinfonia. Sarà infatti a questa indivisibile emozione, a questa totalità di visione che Bee­ thoven si rivolgerà lungo tutto il corso del suo lavoro, come il navigante alla stella che gli è di guida, per saggiare gli elementi costruttivi che si affollano alla sua mente. Nessun preesistente schema compositivo, che la tradizione pur tanto illustre gli offriva, poteva essere adeguato a contenere, ad esprimere ciò che una geniale intuizione gli aveva ispirato. Per obbedirle Beethoven chiama a raccolta tutte le sue energie, si ap­ pella alla sua drammatica disperata esperienza da cui sorge questa nuova imperiosa esigenza creatrice. A darle vita si rendeva infatti necessario trovare forme ad es-

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sa adeguate, violentare i suoni, costringerli ad esprimere l’inesprimibile. Creazione somma, l’Eroica di Beethoven costituisce un apporto sostanziale alla struttura compositiva, non solo di una sinfonia ma della musica, per offrirci, si direbbe, l’immagine della creazione della materia evocata dalla forma. Il profondo mutamento che si era determinato in Beethoven non poteva sfuggire neppure al suo famulus Anton Schindler, che, con la sua natura comune, la sua gew'òhnlichkeit, come dice Beethoven, non era in grado di comprendere PUngewöhnlichkeit, ciò che è straordinario « Seguendo il succedersi degli avveni­ menti e studiando le loro cause —scrive Schindler nella sua Bio­ grafia del Maestro - troviamo per la prima volta una circostanza insolita, di un genere nuovo, per appartenere meno al campo della musica che a quello della politica, verso la quale Beethoven si sentiva suo malgrado [sic] a ttra tto » 103. «Ein Gefühlspolitiker», un politico di sentimento, come a Vienna gli amici lo definiva­ no, un idealista diremmo noi, per auspicare l ’avvento di uno Stato quale era quello ideato da P latone104. Nella Terza Sinfonia Beethoven si accinge a celebrare gesta eroiche come un antico aedo; sotto la maschera di Prometeo e di Bonaparte egli rivive i loro drammatici eventi: la ribellione con­ tro l ’oppressione dispotica di un destino avverso, la lotta cruenta, la morte gloriosa e la vittoria apportatrice di una nuova alleanza nella pace e nella gioia. Sarà soltanto con la morte (come ha ben inteso Beethoven, inserendo, sia nella Sonata in la bemolle op. 26 sia nella sinfonia, una Marcia funebre), che ha inizio la trasfigura­ zione dell’eroe, quel suo elevarsi ad una individualità superindi­ viduale, a quel supremo onore che i guerrieri omerici tanto ambi­ vano di ottenere quale pegno del loro glorioso sopravvivere nel ricordo degli uomini. La sinfonia Eroica racchiude nel suo dive­ nire musicale, non diversamente dall’antica tragedia greca, quell’alternarsi di dolore e di gioia in cui si attua, per Goethe, per Beethoven, il ritmo fondamentale della vita, una sintesi dell’esi­ stenza umana. Come al primo irrompere della musica si squarcia il fragile involucro concettuale che pur ha costituito il substrato ispiratore

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dell’opera, cosi Beethoven lacera il foglio con la dedica a Napo­ leone, che proclamatosi imperatore si era reso immeritevole di tanto dono. Cancellato quel nome che ne avrebbe ora offuscato il signifi­ cato ideale, l ’Eroica ci appare nella sua intatta purezza, a perenne testimonianza dei valori che l ’hanno ispirata, e a tramandare ai posteri (come è detto sul frontespizio) «la memoria di un gran­ d ’uomo»: quella di Beethoven.

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Non vi è nulla di essenziale nella natura dell’uomo che non sia colto e non trovi originario riscontro, per la sua validità, in Ome­ ro: questo consente a Beethoven di ravvisare, adombrati nella finzione poetica, caratteri ed aspetti che appartengono al mondo che lo attornia, alla sua realtà, istituendo cosi un piu intimo rap­ porto con il suo autore. Nell’ottica omerica ogni fatto particolare è raccordato ad una considerazione di carattere generale, inserito in una più vasta vi­ sione della condizione umana, in quell’ordine superiore che è legge della vita. «N ell’infelicità gli uomini invecchiano rapida­ mente» 105, osserva Omero, e ben lo sa Beethoven che sempre piu s’incurva sotto il peso dei suoi affanni. Non sfugge a Beethoven l ’umana comprensione del poeta per «la donna fenicia che lavava presso la concava nave» che si uni con un marinaio sul giaciglio, in segreto amore: «il che seduce il cuore di una fragile donna, anche se essa è virtuosa» “ . Una chiara, immota luce di un eterno presente sovrasta ogni evento della società arcaica evocato dalla poesia omerica, che sem­ bra a Beethoven trovare riflesso nella realtà quotidiana, si da ri­ conoscerlo rivivere nella patriarchalische Einfalt, nella semplici­ tà patriarcale della famiglia di Amenda. Egli tende inoltre a tra­ sferire nella storia contemporanea antichi ideali politici e sociali del popolo greco, mirati alla indipendenza e alla libertà, intesi come interesse presente, secondo la nuova concezione rivoluzio­ naria dell’ellenismo. Ricevuto l’incarico di comporre le musiche di scena per Le rovine di Atene Beethoven esigerà il rifacimen­ to del testo letterario per adeguarlo allo storico evento della ri-

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volta dei greci contro l ’invasore turco, e per esaltare il loro epico 107 eroismo . Anche il culto dell’amicizia celebrato da Omero («in verità in nulla inferiore allo stesso amato fratello un amico fedele, com­ prensivo e di nobili sentimenti» “ ) trova pieno consenso nell’ani­ mo di Beethoven, e a confermarlo appone in margine al testo il sigillo della sua approvazione: Ja!, poiché anche per lui die heili­ ge Freundschaft, la santa amicizia si basa sulle affinità elettive dell’animo e del cuore. Non può sorprendere che nella vita questi generosi sentimenti abbiano subito amare delusioni. «Ancora una volta dunque soltanto nel mio cuore posso trovare un punto di appoggio; fuori, non esiste nessuno [che lo sia] per me. L ’amici­ zia e i sentimenti che le somigliano non hanno che ferite per me. E sia! Per te, povero Beethoven, non c’è nessuna gioia che non sia in te stesso; devi creare tutto in te: solo nel mondo ideale trovi amici» ™: il mondo in cui troverà sicuro rifugio e conforto all’amarezza della solitudine e dell’abbandono. E non meno in quello della «bella N atura» impregnata di mistero, quale Ome­ ro gli ha rivelato, personalizzata e divinizzata insieme, in cui i singoli fenomeni, come le opere e i giorni, si susseguono con rit­ mo calmo e ordinato quali sono raffigurati nello scudo di Achille, in armonia con il ritmo della vita dell’uomo, il ritmo saldo e pro­ fondo che pervade le diverse fasi ed anima il divenire della sinfo­ nia Pastorale. Trascrivendo questo verso: «L ’eterna Provvidenza governa onnisciente la felicità e l’infelicità dei mortali», Beethoven inten­ de riportare, come Omero, ogni umano evento ad una finalità su­ periore, ad una superiore giustizia (o ingiustizia) distributiva. Dinnanzi all’imperscrutabile potere della Provvidenza non resta che chinare il capo : « sopportazione, rassegnazione...» Ma questa forzata rassegnazione non spegne in Beethoven l’irrefrenabile im­ pulso a non darsi per vinto, a lottare, a vincere («Cosi vinciamo anche quando siamo al sommo della miseria e ci rendiamo degni che Dio perdoni i nostri peccati» ““). È ancora Omero che lo inco­ raggia a sperare: «Una cosa Dio ci dà, di u n ’altra ci priva come piace al suo cuore, poiché egli domina onnipotente» Nell’aedo •

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cieco che l ’Araldo conduce alla presenza del re dei Feaci, in Demodoco, «caro alla Musa che un male ed un bene gli ha dato, col privarlo della vista e col dargli il dono di un dolcissimo canto» m, Beethoven riconosce la prefigurazione di sé. Privato dell’udito, il senso che in lui doveva essere piu. perfetto, immerso nella solitu­ dine, anche a lui «il Dio che affanna e che consola» aveva fatto dono di un senso più alto e perfetto, quello di intendere il lin­ guaggio segreto della Natura. L ’opaco silenzio che lo imprigiona e lo isola dal mondo non gli è piu ora di ostacolo: «Dolce il si­ lenzio del bosco! Il mio disgraziato udito qui non mi tormenta. È come se ogni albero nella campagna mi dicesse: "Santo! San­ to! ” Incanto della foresta! » 113. La Natura non è più da lui contemplata oggettivamente, al modo del pastore omerico che dall’alto del monte, nella solitu­ dine notturna, rabbrividendo contempla sul suo capo lo splendo­ re del cielo stellato: il suo spirito va oltre quella estatica visione cosmica di corpi luminosi, si slancia «verso la fonte prima donde nasce tutto ciò che è stato creato: verso l’amabile Padre che de­ va abitare sopra la volta celeste» («über Sternenwelt | Muss ein lieber Vater wohnen»), aveva detto a Stumpff rimemorando le parole di Schiller cui darà canto nella Nona Come a Faust, accecato dalla Sorge, mentre affonda nella oscu­ rità della notte si accende in petto una chiara luce che lo rianima e lo incita a compiere quanto egli aveva sognato, cosi a Beetho­ ven, fatto sordo dalla Moira, si schiude una udibilità più sottile, vibrante, assoluta; e i suoni animeranno il morto silenzio che lo avvolge, ordinandosi in netti disegni melodici, come costellazioni nel cielo notturno. «Ciò che tocca il cuore viene dall’alto —dice­ va —altrimenti non vi sarebbero che suoni, dei corpi senz’anima. L ’anima deve elevarsi dalla terra, ove la scintilla divina è stata esiliata per un certo tempo, ove deve fiorire, produrre frutti per poi risalire verso la fonte donde è discesa. Poiché è solo mediante un lavoro ordinato, con le forze che le sono state prestate, che la creatura onora il suo C reatore»115. Beethoven ci riconduce qui a Platone, alla teoria della trasmigrazione delle anime, alla loro in­ cessante operosità purificatrice, che nell’adempimento dei com-

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piti ad esse assegnati si accordano alla loro originaria armonia co­ smica. U n’armonia che, come è detto nel Timeo, ha cicli affini a quelli che si svolgono nell’anima: rigore numerico, regolarità rit­ mica, fenomeni acustici: elementi precipui della musica, strettamente collegati tra loro per essere insiti nella natura dell’essere. Ma quando poi Beethoven, esaltato da cosi alta contemplazio­ ne, cerca di carpire la legge arcana e rigorosa di quell’armonia e di quel ritmo, premessa necessaria per poterla applicare alla mi­ sura della sensibilità dell’uomo, di tradurre quella musica mon­ dana in una musica umana, allora egli si sente «terribilmente de­ luso»: «getto a terra il foglio scarabocchiato e dubito che un figlio della terra possa essere capace di esprimere con suoni e note... le immagini celesti che la sua fantasia eccitata ha visto fluttuare in quell’ora benedetta» L ’animo eroico di Beetho­ ven, nel trasporto dionisiaco di una ebbrezza cosmica, tenta di oltrepassare il limite imposto alla natura umana. «Infinito è il nostro aspirare», scrive a Brunswick, ma vi è una realtà banale che tutto riduce al fin ito 111. «Noi, creature finite con lo spirito infinito, siamo nate soltanto per soffrire e per gioire», egli lamen­ t a 118: la fisicità corporea, prigione dell’anima, è di impedimento al suo volo. « Il mio regno è nell’aria: i miei suoni turbinano so­ vente come il vento —e pure cosi sovente mi turbinano nell’a119 mma» . Pur nella sordità, egli aveva conservato dei suoni, «corpi sen­ z ’anima», perfetto ricordo della loro fisicità e virtualità espressi­ va, ma, com’è del ricordo, essi erano andati assumendo nella co­ scienza nuova levità, alleggeriti da quel minimo di materia che li fa terrestri e come vaganti nel puro etere, sino a quando la coscienza li annodi nel disegno melodico da cui ricevono il loro senso qualitativo, o, come dice Beethoven, la loro anima. Que­ sto puro canto interiore, in cui è virtualmente implicita tutta la vivente realtà della melodia e dell’armonia, non potrà a noi giun­ gere se non nella sua oggettivazione sensibile, riflesso di una mu­ sica silenziosa, come della luce di ima stella lontana, invisibile all’occhio e forse già spenta. Ai redattori della rivista «Caecilia» di Lipsia, che lo avevano •

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invitato ad esporre in uno scritto i principi della sua poetica, i cri­ teri guida del suo processo compositivo, aveva risposto: essere suo piu alto ideale di rivelarsi al mondo solo con la musica. Mai egli volle dischiudere la porta della sua officina segreta, mai con­ senti che occhio profano indagasse sugli impulsi che lo muoveva­ no a comporre, limitandosi a vaghe allusioni che possono soltanto far luce su alcuni procedimenti psicologici e strutturali, riportarci alla base periferica del processo creativo, ma non ci permettono di penetrare nel vivo della sua arte al modo che una dissezione ana­ tomica del corpo non ci consente di cogliere l ’individualità del­ l ’uomo. La musica trascende infatti tutte le modalità del senti­ mento che essa esprime, in cui consiste e si effonde la sua essen­ zialità. Non a parole ma al pianoforte si doveva rispondere a quei problemi di forma e di contenuto —non a parole ma con musica viva. L ’opera infatti trova il suo vero e profondo significato nei suoi puri, segreti valori musicali, nei quali soltanto Beethoven intese rivelarsi al mondo: in realtà era in essa, specchio del suo 10 più profondo, che bisognava indagare, e sapervi intendere «ciò che l’Eterno Spirito gli aveva rivelato». Una rivelazione che non poteva essere trasmessa ad altri mediante una formulazione di principi teorici, bensì «von Herzen... zu H erzen», dal cuore ai cuori, per risvegliare la sensibilità degli ascoltatori e stimolare le loro facoltà intellettuali e morali 12°, «par la force de la Grace», di­ rebbe Pascal, in virtù di una grazia efficiente e operante. Vien qui di pensare, per l ’evidente analogia, al deciso rifiuto opposto da Platone al Tiranno di Siracusa di inviargli, come gli era stato richiesto, un esposto della sua dottrina, che contenesse 11 nucleo del suo pensiero. Anche per lui, come per Beethoven, non erano le astratte teorie né gli schemi formali che costituiva­ no la formula segreta del loro operare. Con quel rifiuto Platone intese rinviare a ciò che egli riteneva essere la funzione fondamentale della sua filosofia, alla sua attività di insegnamento orale sull’esempio delle indagini dialettiche di Socrate, espressione vi­ va di quanto ardeva in lui e che animava il ritmo in incessante divenire della sua esistenza. Entrambe incomunicabili median­ te schemi concettuali, la filosofia di Platone come la musica di

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Beethoven potranno essere acquisite ed intese nella loro essenza soltanto in virtù di una loro attiva e insita disposizione a rivelarsi. Allora «quell’inesprimibile si accende a un tratto e brilla nel1> 121 1 anima» . L ’arte, sostituendosi alla vita, ne conserva le emozioni, i tur­ bamenti, i contrasti, e penetrando nell’intimo della coscienza umana, quei sentimenti risuscita e restituisce nella loro purezza senza residuo. Cosi avviene quando Beethoven da un pensiero concettuale fa erompere la luce di una pura intuizione musicale; come quando dai Fondamenti metafisici della scienza e della mo­ rale di Kant, trascrivendo e parafrasando uno dei suoi principi essenziali («N ell’anima come nel mondo fisico agiscono due forze entrambe ugualmente grandi e ugualmente semplici, desunte da uno stesso principio generale, la forza di attrazione e quella di repulsione, qualificate come originario impulso insito nella mate­ ria»), ne riconobbe il segreto rapporto che esso ha con le leggi che governano la dinamica della musica. Denominando quelle due forze «W iderstrebender Prinzip» e «Bittender Prinzip», Princi­ pio respingente e Principio implorante o accattivante, Beethoven le identificò con i due temi contrastanti protagonisti della appas­ sionata dialettica che anima la struttura della sua forma-sonata Attorno a questo fulcro egli andò elaborando la sua poetica. Stimolato da un pensiero aperto ai più ampi sviluppi, Beethoven colse e istituì analogie con le leggi che governano l ’anima del­ l ’uomo. «Un dialogo tra un uomo ed una donna, tra un amante e la sua amica», «lotta tra testa e cuore» m, aveva detto Beethoven a Schindler per spiegare con una immagine l ’appassionata di­ namica tra temi opposti, che agiscono nella Sonata come nella vita; temi che lungo il corso del loro sviluppo, anziché espan­ dersi melodicamente, come avviene (per esempio) in Mozart, si concentrano in se stessi, quasi a riaffermare il proprio caratte­ re individuale, e che nel contrarsi, nel frantumarsi si identifi­ cano pur sempre alla loro originaria cellula tematica, al loro im­ pulso ritmico. Inserendo nello schema tradizionale della Sonata una piu accentuata contrapposizione tematica e la loro concilia­ zione, Beethoven instaurò nella musica quella vivente unità che

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Hegel, partendo dalla dialettica delle antinomie kantiana, aveva conquistato alla filosofia. Se Beethoven apprese da Kant il concetto degli opposti, que­ sta dottrina era già stata enunciata nei suoi fondamentali principi da un antico filosofo greco, Eraclito, rimasto ignoto a Beethoven, che ne sarebbe stato conquiso e che certo lo avrebbe eletto tra i suoi piu venerati maestri. Pare infatti riconoscere un misterioso legame tra i loro grandi spiriti, una congenialità che si rivela, oltre che nel fondamentale comune concetto dell’armonia dei contrari, nelle idee sulla reli­ gione e sulla musica, intese nel loro senso piu lato e nella loro piu pura essenzialità. Quando Eraclito afferma: «Ciò che è discorde si unisce, dal diverso sorge la piu bella arm onia»124, è questa una legge che, se pur estesa a tutto il cosmo, include anche il signifi­ cato musicale, il concetto pitagorico delParmonia: l ’armonia di cui Beethoven, contemplando lo stellato, si sforzerà di cogliere la regolarità normativa, nel vano tentativo di tradurla in suoni. Che la musica sia stata intesa da Eraclito quale simbolo della superiore armonia dell’Universo, della sua unità nella diversità, quale «concordia discors» («Intero e non intero, convergente e divergente, accordo e disaccordo sono collegamenti. Da uno tu t­ to, da tutto u n o » I25), ne è riprova il fatto che essa sia da lui posta quale termine di paragone della dinamica delle forze contrarie, unite in una azione comune, nell’esempio dell’arco e della lyra. «Non comprendono come divergendo si accordi con se stesso; congiunzione controtesa come nell’arco e nella lyra» Tensione e distensione sono infatti gli atti, le attitudini in cui risiede l ’e­ spressione affettiva della musica, al modo che le accelerazioni e gli allentamenti dei palpiti del cuore lo sono nella vita dell’uomo. La successione di accordi guida il mutevole fluire della cor­ rente del divenire sonoro determinato dal suo substrato armoni­ co, da quel «harmonisches Gefälle», da quella «inclinazione armonica» di cui parla H indem ith127, che provoca l ’incessante ansito del respiro musicale. «Via in salita e in discesa, sempre la stessa», afferma Eraclito, tutto inserendo nel mutevole ciclo della forma, che l ’esistente percorre.

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Non diversamente da Eraclito Beethoven esemplifica il con­ flitto tra i due temi della sua Sonata ricorrendo a svariati simboli, quale l ’antagonismo dei sessi, particolarmente animandolo nello «sviluppo» con un serrato giuoco contrappuntistico, ora sovrap­ ponendo, ora subordinando l ’uno all’altro, ad immagine della incessante lotta che agita il mondo. Se per Eraclito il conflitto è padre di tutte le cose, quello esistente tra le due anime di Beetho­ ven può dirsi aver generato quasi tutta la sua musica. In confor­ mità al monito delfico: «Conosci te stesso», Eraclito, ripiegan­ dosi in sé e pensando cose umane, schiude un nuovo orizzonte alla filosofia come Beethoven lo dischiude alla musica, modellan­ done la dinamica su quella dei sentimenti, i ritm i sulle intermit­ tences di un cuore ora dolente, ora festevole, ora oppresso (heklempt, come è indicato nel manoscritto della Cavatina del Quar­ tetto op. 130); una musica che si fa viva voce dell’umano, che eleva «bis zur G ottheit», «sino al divino»128. Il suo regno infatti si estende in più vaste regioni ove Beetho­ ven trova rifugio ed ove «non lo si può facilmente raggiungere». Il suo estraniarsi dal mondo trova riscontro nell’estremo riserbo di quel pensatore antico che sdegna la folla incapace di compren­ derlo e si isola in una nuova sfera della conoscenza, senza limiti. «Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto lontano ti spin­ ga, tanto profondo è il suo logos» Logos, che non sta qui a significare un astratto concetto, bensì il misterioso impulso atto a risvegliare i dormienti dal loro son­ no, a rivelare loro una verità ascosa, apportatrice di nuova vita. Era fine supremo anche per Beethoven risvegliare (erwecken) mediante la musica gli animi degli ascoltatori, trasmettere ai de­ sti il messaggio di cui era apportatore mediante la musica, come già Eraclito mediante la filosofia. Una musica e una filosofia che nella loro piu intima essenza cercavano il proprio contenuto idea­ le al di fuori sia della pura sonorità che della pura razionalità, mi­ rando entrambe a raggiungere una più alta tensione spirituale e ad esprimere l ’Idea rivelandola quasi misticamente, l’una am­ mantandola di una coltre di suoni lucenti, l’altra avvolgendola in immagini oscure, in aforismi enigmatici, che devono essere

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decifrati come gli oracoli della Sibilla per intenderne le verità in essi racchiuse. È come se una remota discendenza ancestrale apparentasse questi due grandi spiriti, che millenni dividono, che nessun rap­ porto men che frammentario collega. Ma sarà appunto questa misteriosa affinità elettiva, ben piu di ogni altro influsso cultu­ rale, reso piu agevole dalla grecomania imperante nel tempo di Beethoven, a giustificare l ’inclinazione spontanea e in lui conna­ turata verso il mondo greco. L ’immagine che Beethoven si era creata di quel popolo, rifles­ so di quanto di più grande e di più puro esso aveva creato, gli appariva quale miraggio della deserta lontananza del tempo in una vivida luce senza ombre, monda da ogni macchia, modello supremo di perfezione rispondente più al suo spirito che alla sua realtà: immagine che non doveva essere molto diversa da quella che anche i Greci ebbero dell’epoca oscura, che splendeva a loro in esemplari unici e irripetibili, nella poesia di Omero, maestro di tutta la grecità. Testimonianza perenne di un Mito e della in­ tramontabile presenza nel mondo della Grecia antica, di cui Bee­ thoven fu figlio devoto.

La musica, per aderire ai sentimenti, per rimuovere quanto nel piu profondo attende di essere risvegliato, era intesa da Pla­ tone nel significato estensivo, implicito nel termine greco mousiké, comprendente suono, ritmo e logos (non nel suo valore pu­ ramente conoscitivo ma, come già per Eraclito, quale parola di verità), ed era considerata quale base fondamentale della educa­ zione formativa dell’uomo, e cosi anche da Beethoven. Essa tende infatti a incarnarsi nella intellettuale parola, che illumina quanto di oscuro e di ineffabile in sé racchiude, poiché sola, dice Mal­ larmé, «elle ne se confie pas volontier». Questo diretto rapporto, questo vivente, felice connubio tra parola e suono, tra contenuto e forma, che pur nella sua indipen­ denza non è mai avulsa dal contenuto espressivo che la genera,



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Beethoven lo riafierma nella Fantasia per coro pianoforte e or­ chestra op. 80: W enn der Töne Zauber walten und des W ortes Weihe spricht muss der Herrliches gestalten. Nacht und Stürme werden Licht * 130;

e non si stanca di ribadire la spiritualità dell’arte, la sua alta fun­ zione morale ed educativa, che egli considera compito principale di ogni artista. «La dignità dell’uomo è nelle vostre mani», ave­ va ammonito Schiller, rivolgendosi agli artisti, ma l ’appello non sembrava a Beethoven avesse trovato la doverosa adeguata ri­ sposta, e scrivendo a B reitkopf131biasima Goethe «cui garba piu che a un poeta non si convenga l ’aria di corte», lamentando che simili artisti «che dovrebbero essere i maestri, guida della Na­ zione, tutto dimenticano per codesto splendore». Al modo che i temi musicali risuonavano nel silenzio, vibranti di vita come cellule feconde, cosi concetti ed Idee, tratti dai te­ sti di Omero e di Platone, rilucevano nel suo spirito, avvolti in un alone di sacralità e di autorità assoluta; frammenti di pensieri, riferimenti al mito o alla poesia, alla storia, affiorano, trasudano si direbbe dalle sue lettere, dai discorsi che ci sono stati traman­ dati, a rivelare la costante, quasi ossessiva presenza nella sua mente del mondo antico, dei cui termini egli si vale in ogni cir­ costanza come di un lessico familiare. Se le invocazioni di Dante alla Musa e al «buono Apollo» nel­ la Divina Commedia non lasciano dubbio sul senso puramente simbolico e cristiano di quelle divinità pagane, l’Apollo e le Muse di Beethoven non risiedono in Paradiso, ma nell’Ólimpo, e ci ap­ paiono quali immagini di alta spiritualità, che trascendono l ’uo­ mo pur non essendo da lui tanto dissimili, e che elargiscono ispi­ razione e gloria. Esse infatti operano in grande ciò che in piccolo fa o vorrebbe fare il migliore dei mortali («Taten im Grössen | Was der Beste im kleinen | T ut oder m öchte»)132. Beethoven sem* [Quando la magia dei suoni si effonde | e la sacra parola si esprime | allora si attua il Miracolo. | Notte e tempesta si fanno luce].

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bra infatti riecheggiare la vaga religiosità di Goethe (Das G ött­ liche). Ma non vi è per lui possibilità di confronto e di misura con questi Enti supremi. «L ’umiltà dell’uomo verso l ’uomo mi ad­ dolora. E se considero me in un tutto con l ’universo, e ciò che io sono e ciò che è Lui, che è detto il piu Grande! » 13\ In questo suo stesso annientarsi riconosce il segreto legame con l ’Essenza su­ prema: «Eppure è qui la natura divina dell’uomo». Definendosi «als einen W eisen des Apollo», quale un savio di Apollo, un suo oblato, che solo «nell’arte divina trova la for­ za di sacrificare alle Muse celesti la parte migliore della sua vi­ ta» si dice ansioso di deporre sulla tastiera, come su di u n ’ara, «les plus belles offrandes de mon esprit au divin A pollon»135di­ spensatore non soltanto d ’ispirazione ma anche signore di vita e di gloria. Questi Dei, che un tempo solevano andare tra gli uomini, crea­ ture mitiche, eroi omerici, personaggi storici emergono dal mon­ do interiore di Beethoven, evocati, quali termini allusivi, ora di eventi vissuti o sofferti, ora di fatti della sua cronaca quotidiana. Cosi, lamentando la penuria dei guadagni, deve ahimè constata­ re che «per quanto esternamente egli brilli di gloria, non gli è concesso di essere ogni giorno ospite di Giove in O lim po»'“, «presso cui ci si poteva invitare a bere un calice di ambrosia» Se l’arte è perseguitata, egli troverà dunque, come Dedalo «chiu­ so nel labirinto, le ali che lo solleveranno in alto» Quando, in virtù della legge dell’associazione delle idee, gli accade di rimemorare un tema, dimenticato, di un canone, allora lo tiene «ben saldo nel pensiero come Menelao tenne Proteo» 13\ L ’odiata cognata che si permette dargli consigli viene paragonata alla scrofa che presume di istruire, secondo Demostene, Minerva, e, come si era richiamato all’esempio di Filippo il Macedone per l ’educazione del nipote, cosi non si perita di porre a confronto il suo difficile rapporto con l ’arciduca Rodolfo, suo illustre allievo, con quello tra Anassagora e Pericle che, distratto dalle cure del governo, aveva dimenticato l ’antico Maestro; e fa suo l’ammoni­ mento di quel saggio (come scrive Plutarco) al suo tardivo soc­ corritore : « Chi ha una lampada ci metta dell’olio » : parole quan-

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to mai appropriate al suo caso ma destinate a non ottenere alcun risultato140. T utto quanto lo attornia sembra farsi metafora di quel mondo antico (la rivista «Caecilia» è chiamata «M inerva», il suo medico Esculapio ecc.) quasi volesse illudersi di poterlo rivivere, sia pure per qualche istante, nella sua realtà quotidiana.

Il sentimento religioso di Beethoven, non diversamente da quello dei Greci, non conosce limitazioni e irrigidimenti dogma­ tici; la sua esperienza del divino talora ci appare rivolta alla Na­ tura, intesa quale proiezione sensibile della forza spirituale che la investe e la rivela, talora in modo piu intimo, diretto e segreto. «O Dio, dammi la forza di vincermi. Nulla deve piu attac­ carmi alla vita»; «O Dio, rivolgi lo sguardo all’infelice Beetho­ ven! » 1,2: sfoghi del cuore, che talora sembrano trovare espres­ sione negli accenti patetici e dolenti della sua musica. In questo intimo rapporto tra l ’uomo e Dio trova vita la sua religione, religion du cœur, che nel suo intuire dietro ogni ap­ parenza sensibile la presenza di una pura essenza, trova sostanzia­ le affinità con la religion de l’esprit di Socrate, del Socrate secon­ do Platone e non certo di quello secondo Senofonte, che alla do­ manda del suo giovane interlocutore «come degnamente si possa onorare una Potenza cosi incomprensibilmente elevata» (quale è Dio), risponde con candido ma non disinteressato conformismo di «attenersi alle vigenti consuetudini della religione di Stato» (una risposta che anche oggi v ’è chi troverebbe opportuno far propria). Gli eventi nella vicenda esistenziale di Beethoven sembrano svolgersi, come nella narrazione omerica, su due piani distinti, psicologico e metafisico, che non si escludono affatto in virtù di un intreccio tra l’imperscrutabile volere superiore e le libere azio­ ni dell’uomo. L ’uomo che agisce eroicamente e sa osare è quanto vi è di più ammirevole per i Greci, che hanno sentito demonicamente il tra­ gico pericolo dell’accecamento e della rivolta, ravvisandovi l ’eter-

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na contrapposizione alla rassegnata rinuncia. La massima eraclea ethos anthropo daimon, il carattere è demone per l ’uomo, sta a valutare la legittimità conferita dai Greci a chi non si abbandona alla rinuncia e lotta contro le forze oscure della Moira, confidan­ do in una suprema virtù eroica per forgiarsi la propria sorte. Beethoven, incarnando il mito di Prometeo, ce ne offre sfidando il destino il più alto esempio. La sua fede era alimentata, come quella dei Greci, dalla visio­ ne mitica del Tutto (παν): «Egli riconosceva chiaramente Dio nell’universo e l ’universo in D io», scrisse di lui Schindler. Da Kant, dal Kant precritico della Storia generale della Natura e teo­ ria del Cielo, egli trae gli elementi di una cosmologia, cui istinti­ vamente il suo spirito aderisce per scorgervi anch’egli «una inne­ gabile prova della unità della loro prima causa, che deve essere un universale altissimo intelletto», e ne trascrive numerosi passi tra­ mandati dal manoscritto Fischoff. « Se l ’infinita varietà e bellezza che traspare da ogni parte dell’universo colma l’animo di silen­ zioso stupore, l ’intelletto si esalta commosso quando considera come tanto splendore, tanta grandezza derivino da una singola legge, da un ordine esatto ed eterno». La sensazione si fa intui­ zione, la contemplazione trascende a elevazione religiosa, l’espe­ rienza fenomenica ad esperienza estetica e metafisica. Questa re­ golarità matematica dei fenomeni appariva a Platone presupporre l’esistenza e l ’azione di esseri dotati di consapevolezza razionale, e fu sempre saldo possesso dello spirito greco il riconoscere gli stretti legami che congiungono i diversi fenomeni tra loro, e par­ ticolarmente quelli esistenti tra la scienza dei numeri e la musica, a cominciare dal rapporto tra la frequenza delle vibrazioni e la lunghezza delle corde della lyra. Il concetto che in ogni cosa è insita, per natura, una norma la quale tutto riconduce ad un principio numerico, a una legge uni­ taria, che vige sia nella natura del Cosmo che in quella dell’uomo, deve aver profondamente colpito Timmaginazione di Beethoven. Nelle notti serene, contemplando lo stellato, il suo spirito si ele­ vava «verso la fonte prima donde sorge tutto ciò che è stato crea­ to» e nella sua esaltazione si sforzava di cogliere quel misterioso

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rapporto, la legge di quella «divina proporzione», che avrebbe dovuto consentire di tradurre in suoni l ’ineffabile musica delle sfere. M entre Platone aveva sognato di ricondurre a numeri le sue Idee, Beethoven converte ogni idea in esperienza sonora ed ogni esperienza sonora eleva all’onore dell’Idea. L ’ansia di cogliere la misura spirituale di quegli interior num­ bers che il suo platonismo, in consonanza con il rifiorire di quella filosofia nella Germania del suo tempo e in Inghilterra con lo Shaftesbury, poneva a fondamento della musica, come di ogni forma dell’esistenza, era la stessa che lo induceva a ricercare il Generalbass che avrebbe dovuto costituire la base di una cosmo­ logia sonora, elemento coordinatore e unificatore di tutte le leggi della musica W 3. Egli deve aver istintivamente avvertito il pericolo di una gra­ duale emancipazione della ragione astratta daÜa totalità della per­ sonalità umana, dell’individuale sentire, se ammonisce che «Re­ ligione e Generalbass erano per sé cose segrete, sulle quali non si doveva ulteriormente discutere» 14\ Era già porre un limite ad ogni radicalismo analitico, e non era ancora nato colui che avreb­ be lucidamente formulato la sostanza di quel pensiero: «Di una cosa non si dovrebbe sapere di più di quanto non si possa anche usare creativamente» (Nietzsche). Un indizio dell’ostinato, fantasioso rovello con cui Beethoven si applicava intorno alle formule di quella misteriosa aritmetica parve già potersi riconoscere nelle notazioni ritmiche apposte alle Variazioni àùYArietta della Sonata per pianoforte op. n r , giu­ dicate stravaganti quanto superflue (9/16, 6/16,12/32), quale un sintomo di alienazione mentale. «Là se passent des choses étran­ ges, très étranges même. Les chiffres auraient-ils prise sur le génie de lui-même? », si chiedeva ancora nel 1833 W . de Lenz, un fer­ vido ammiratore e studioso di Beethoven, pur concedendo che questa sonata « n ’est pas la moin belle» ( ! ) MS. Il disegno melodico della terza variazione («en coup de lance») è apparentato alla «sublime folie racontée par Cervantes», e le tripotages della mi­ riade di note acute « sans basse » della quarta variazione, a un non­ sense; «La démence du génie intéresse», ne è il commento. Quel-

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le eteree terzine « sans basse » nel registro superiore, che si dissol­ vono in un triplice alone di trilli, come spuma di u n ’onda sonora da cui riemerge il tema, si direbbe immagine allegorica, nella sua luminosa purezza, del distacco della musica di Beethoven da ogni sua radice terrena, e del suo librarsi e dissolversi nel cielo infi­ nito, sua patria: « Il mio regno è nell’aria...» Al fine di ottenere un preciso, rigoroso controllo dei diversi eventi musicali nel loro susseguirsi, Beethoven, richiamandosi alla espressiva nobile lentezza dell 'Arietta (Adagio molto, sem­ plice e cantabile), al largo, calmo respiro del suo avvio, lo impone quale rigorosa misura ideale di tutte le Variazioni che seguono («L’istesso tempo»), quale inflessibile schema temporale, domi­ nante le loro svariate e multiformi scansioni e suddivisioni ritm i­ che, i loro tum ulti sonori, le loro misteriose calmie, su cui aleg­ gia, sereno e imperturbabile, il canto serafico del Tema. Quelle indicazioni della prima e seconda variazione (6/16, 9/16), dal Lenz ritenute strane e arbitrarie, stanno piuttosto a preservare dal rischio che i suoni venissero privati del palpito vi­ tale loro conferito dallo schema di accenti da lui indicati, ad evi­ tare tra l ’altro che vengano coinvolti, come «abeilles sans sexe», negli eterei arabeschi della quarta variazione, mentre la scansione ritmica di quel 12/32, nel dare vigorosa saldezza al movimento ra­ pido della terza variazione («Vivacemente»), sta ad esercitare su di esso un rigoroso e moderato controllo dinamico, che assicura, pur nel suo fluire, l’ampio respiro del tema, quella calma, nobile lentezza del primo tempo (Adagio molto, semplice e cantabile). Contraddizione peraltro solo apparente, se essa si ritrova alla ba­ se del concetto greco di rythmos, a significare ordine, regolarità insiti nella natura, nell’uomo, nella musica, a imporre norma e misura al moto. Ed è su questo ritmo, cui tutti i singoli schemi di accenti che lo costituiscono si sottomettono come al Ritmo domi­ nante, in virtù, si direbbe con Platone, della koinonia tòn ghenón, di un rapporto di comunanza tra idee e concetti formali puri, che l ’Arietta, vittoriosa dei sentimenti contrastanti insiti in essa, ne domina il divenire con il rigore catartico della sua tensione

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interiore, in armonia con il sentimento etico e spirituale che la ispira. Mediante la natura simbolica del suono essa accoglie in sé e fa coesistere indivise la più intima espressione del sentimento e la piu lucida razionalità dell’intelletto, la notte oscura dell’anima e la sua chiara luce. Riconciliando in sé sensibilità e intelletto alle loro radici, la musica di Beethoven sembra riunire qui i due poli dell’essere, farsi immagine di un vivente processo che è la sostan­ za dell’uomo e dell’anima.

In ogni simbolo linguistico (parola o suono che sia), in ogni immagine artistica appare un contenuto spirituale che in sé e per sé rinvia al di là di ogni elemento sensibile, pur essendo conver­ tito in forma sensibile, e parimenti anche nelle tonalità musicali, ove i suoni assumono u n ’impronta spirituale indipendente, che sovrasta la sensazione fisica e le conferisce particolari impronte espressive. Lo Sturm und Drang, reagendo alla concezione razionalistica della musica, propria dell’Illuminismo, diede impulso al proces­ so di spiritualizzazione del suono col conferire piena autonomia alla musica strumentale, riconosciuta atta, in virtù dei valori di cui i suoni erano stati investiti, ad esprimere affetti e passioni umane allo stato puro. Una classifica delle diverse tonalità, una analisi delle loro pre­ sunte caratteristiche e delle correspondances con particolari stati psichici o con sensazioni visive, erano state teorizzate da un poe­ ta-filosofo tedesco, C. F. D. Schubart, autore di u n ’opera sul­ l ’estetica della musica che Beethoven possedeva e aveva fatto oggetto di studio; e se egli sembra aver prestato fede ad alcune di quelle Ideen, specialmente alla particolarità espressiva dei sin­ goli toni (Charakteristik der Töne), fu anche perché vi riconobbe una lontana derivazione dal concetto che i Greci ebbero della mu­ sica, investita da un ethos che ne faceva la forza plasmatrice del­ l ’anima, espressione, mediante i modi in cui si diversificava (do-

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la sua piu alta ammirazione, con il dichiarato proposito di dar loro intonazione di canto. A soli tre anni dalla morte ribadisce ancora, scrivendo agli Amici della musica di Vienna, questo suo deside­ rio: «So will ich selbst Homer... in Musik setzen»™. Lo vedia­ mo indugiare sulle ultime parole di Ettore morente, trascritte à&WIliade, scandirne il testo in sillabe brevi e lunghe, con l’evi­ dente intento di adattare il tedesco della traduzione al ritmo del­ l’esametro omerico e di musicarlo come tenterà poi di fare di un passo dell ’Odissea, di cui si conserva, in un taccuino di schizzi del 1815, l ’abbozzo musicale in forma di un canone a tre voci, rimasto incompiuto 15°. Ma Beethoven non rinuncia alla sua perenne aspirazione di misurarsi con quell’alta poesia e sente il bisogno di approfondire lo studio delle scale modali, quasi che quell’antico materiale ar­ monico potesse racchiudere ancora in sé la risonanza dell’ultima eco della spenta musica greca. Si propone quindi di fare ricerche nella biblioteca dell’arciduca Rodolfo e del principe Lobkowitz di antichi testi teorici, quali il Dodekachordon di Gloreanus e le Istitutioni harmoniche di Zarlino, in cui troverà confermati al­ cuni precetti dell’antica poetica greca: «essere il modo lidio il piu pertinente » nella tragedia e nelle canzoni, si come « quelle che possono commuovere gli animi e quasi trarli da se stessi». Inol­ tre, per ridare l ’antica dignità liturgica alla degradata musica sa­ cra del suo tempo (ad eccezione delle opere di Haydn e Mozart), intende «consultare i libri corali dei monasteri, prendere appunti anche sui testi nelle migliori traduzioni, con la prosodia piu esatta di tutti i Salmi ed Inni nei modi gregoriani ereditati dai greci» Beethoven sembra trarre stimolo, in questa ricerca, dalle mistiche suggestioni di u n ’anima inebriata di spiritualità e di musica, qual era quella di W ackenroder. Non risulta che egli abbia letto le Effusioni di un religioso sull’arte o la Fantasia sull’arte·, comun­ que mostra di condividerne gli ideali, affermando con lui l’indi­ pendenza dell’artista da ogni asservimento al gusto imperante e ponendo la musica sotto l’egida di u n ’alta spiritualità. Ma ciò che sta a rivelare l’affinità elettiva che li accomuna, è quel loro porre particolare accento sulla sacralità della musica,

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sulla sua implicita religiosità, sulla salutare efficacia che essa, pe­ netrando nell’animo dell’ascoltatore, vi può esercitare, si da ren­ derlo, secondo W ackenroder, «reiner und edler», più nobile e puro. «Suscitare sentimenti religiosi sia in chi canta che in chi ascolta»1“ era stato «lo scopo principale» («meine H auptab­ sicht») di Beethoven nel comporre la sua grande Messa. E se, scrive W ackenroder, «è sempre come se si fosse in chiesa quando si ascolta la musica m it Andacht, con spirito devoto», sarà appun­ to «mit Andacht» (come è indicato nella prima pagina della Missa solemnis), con lo spirito di devoto, religioso raccoglimento col quale Beethoven l’ha composta, che egli richiede venga eseguita ed ascoltata. Questo fascino che esercita su di lui la musica arcaica, questo ammirato interesse per compositori del passato, quali Palestrina, Händel, Bach, per i teorici, quali Gloreanus e Zarlino, non stanno tuttavia a rivelare alcuna velleità archeologica, propositi di imi­ tazione accademica, di nostalgici ritorni. Il suo spirito innova­ tore rifugge infatti da schemi precostituiti, da caduche formule tradizionali. Gli antichi monumenti dell’arte appaiono a Beetho­ ven quali espressioni della saldezza non solo formale e della spi­ ritualità di un tempo e di uomini quasi mitici. Se Palestrina è il suo preferito, tuttavia «sarebbe assurdo imitarlo senza possedere il suo spirito e la sua concezione religiosa». Pienamente ricono­ scendosi nelle aspirazioni del proprio tempo, identificando nella libertà e nel progresso il fine della musica moderna, Beethoven si sottrae alle tentazioni dell’arcaico, del cui esemplare insegna­ mento si vale soltanto come di valido arricchimento formale ed espressivo. Per l ’alta ispirazione religiosa e per la castigatezza formale la Missa solemnis di Beethoven si contrapporrà infatti a quella musica sacra degenerata in musica «quasi operistica», co­ me è definita nei suoi Quaderni di conversazione. Non dimentico dell’invito che Hoffmann, seguendo le orme del suo mistico precursore W ackenroder, aveva rivolto ai musi­ cisti, esortandoli a seguire l’esempio degli antichi maestri e sti­ molandoli a ritrovare la purezza di linguaggio che si richiede a chi intenda parlare con Dio, Beethoven si era proposto di ade-

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guare il proprio originale ispirato sentire al «severo stile religio­ so» che il suo primo grande estimatore aveva riscontrato carente nella prima Messa in do maggiore. Era tanto vivo in Beethoven il fascino dell’antica musica, voce alta e pura di spiritualità, da proporsi di comporre in quei modi dissueti una nuova sinfonia. Se di essa non si conoscono che al­ cune battute di un Allegro, di un Presto, di un Andante, ci è tu t­ tavia pervenuto un appunto, inserito in un taccuino di schizzi mu­ sicali della Nona, concepito nello stesso anno 1818, che ci rivela quali fossero gli intenti e le finalità ideali che Beethoven si era proposto di conseguire con questa composizione. «Adagio, Can­ tico. Canto religioso negli antichi modi (H err G ott dich loben wir, Alleluja), sia in modo indipendente, sia come introduzione a una fuga. Questa sinfonia potrebbe essere caratterizzata dall’in­ tervento delle voci nel Finale o già nell’A g g io . I violini dell’or­ chestra decuplicati negli ultimi tempi. Le voci da far entrare una ad una. Ripetere in qualche modo l ’A g g io negli ultimi tempi. NéMAdagio il testo sarà un mito greco —un cantico ecclesiasti­ co. Nell''Allegro festa di Bacco » 153. Scrivendo a Moscheles nei suoi ultimi giorni (17 marzo 1827) per ringraziare la Filarmonica di Londra del loro aiuto, si ripromette di ricambiare il dono con nuove sue opere, e tra queste «una nuova sinfonia che sta già ab­ bozzata sul leggio e u n ’ouverture». In realtà essa viveva soltanto, nella sua essenza unitaria, in lui, custodita per quasi un decennio, dal momento aurorale del sorgere dell’Idea, in intima corrispon­ denza con la forma musicale che essa stessa determinava, in virtù di un transfert dalla sua esperienza umana all’opera. Emanazio­ ne di una profonda emozione poetica, la Decima Sinfonia si è ar­ restata allo stadio della musicalità latente, preludio alla creazio­ ne concreta, destinata a rimanere un mito. Arrestandoci a questo stadio informe dell’opera, ci sarà consentito soltanto indagare su quella idea generatrice, sul contenuto spirituale che essa racchiu­ deva. La Decima, per quanto è dato supporre, ideata contempora­ neamente alla Nona, avrebbe forse potuto costituire di questa un ideale compimento. Se l ’una è sinfonia della libertà, è esaltazione

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dei più nobili valori dell’uomo, della sua conquista di un mondo migliore nella fraternità e nella pace, l ’altra, indifferente ai futuri destini dell’esistenza umana, si pone su di un altro piano che tra­ scende la vita e mira ad una superiore conciliazione spirituale tra due mondi contrapposti tra loro, il pagano e il cristiano, sia nella realtà storica che in quella individuale: conciliazione che virtual­ mente era già operante in Beethoven per aver riconosciuto Socra­ te e Gesù quali suoi modelli. Dalla sua religiosità nativa il suo spirito si era proteso verso la religiosità della Grecia, spontanea­ mente, per riconoscervi, al di là dei diversi simboli, u n ’unica so­ stanza spirituale. Questa superiore conciliazione e questa unità egli forse inten­ deva celebrare in quella sinfonia, ove si sarebbero fusi il mondo mitico greco e quello biblico e ove il canto allelujatico e l ’esalta­ zione dionisiaca avrebbero trovato il loro dialettico accordo. Non diversamente Hölderlin, nel finale dell’inno W ie w enn am Feier­ tage, tra i versi giambici delle baccanti di Euripide, in cui Dioniso rievoca la sua nascita da Semele, inserisce una citazione del Salmo XXIV di Davide: «Innocens manibus et mundo corde» Hölderlin si sente legato a Cristo sebbene fratello d ’Eracle («O Christus häng ich an Dir | W iewohl Herakles Bruder»), ma a uno solo si avvince l’amore, e a Cristo, l’Unico (der Einzige) fa ritorno offrendogli, in ammenda dell’errore, un canto votivo. Beethoven, che già si era proteso verso gli Dei della Grecia, farà anch’egli ritorno alla casa del Padre, e l’elemento cristiano si riaf­ fermerà come profonda radice di sé. La Missa solemnis ce ne of­ fre la piu alta testimonianza. «Accingendosi a quest’opera» tutto il suo essere sembrava aver assunto u n ’altra forma, scrive Schind­ ler: «Mai lo vidi in uno stato di cosi assoluto distacco dal mondo 155 terreno» . La lettura del testo sacro lo aveva, come è noto, profondamen­ te commosso, suscitando in lui sentimenti mai prima provati di venerazione, pietà e amore per Colui che «per affermare il Bene non ebbe bastanti parole». Se leggendo Omero egli aveva creduto scorgere il riflesso di un mondo ideale, espressione dei supremi valori umani, popolato di eroi che traevano la loro nobiltà dalla ,

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più salda virtù dell’animo non meno che dal virile ardimento, qui, nella Missa solemnis, il testo sacro diventa il supporto della sua voce, che, con i più intensi accenti d ’implorazione e di lode, si rivolge al Dio unico, al vero. E d è all’Agnus Dei, quando la mu­ sica tace e in quella sospensione del tempo musicale s’inserisce, con il Recitativo, il tempo della vita, è là che la voce si eleva dal profondo, supplice e imperiosa insieme, libera, nella sua nudità, da ogni formalismo artistico, a chiedere misericordia («Misere­ re, miserere mei») e rende manifesta tutta la pregnanza espres­ siva, la tensione drammatica che la parola in sé racchiude, si placa nell’ampia curva melodica che avvince a sé, nell’abbraccio, tutte le anime. Una ardente aspirazione alla pace interiore ed esterna («Bitte um innern und äussern Frieden»), una pace gioiosa, che affonda le sue radici nel dolore donde trae, in virtù del perpetuo rapporto dialettico che entrambi congiunge ed unifica, nutrimen­ to esaltante. «Noi, creature finite con lo spirito infinito, siamo nate soltan­ to per soffrire e per gioire, e si potrebbe quasi dire che gli eletti ricevono la gioia attraverso il dolore»1“. «Dalla gioia il dolore, dal dolore la gioia» ne è il m otto, e se Beethoven ne ha appreso la formula dalla Ifigenia in Tauride di Goethe, della sua verità ha avuto riprova dalla vita. Ideando la sinfonia «negli antichi modi» Beethoven aveva forse inteso celebrare anch’egli, mediante la conciliazione del sa­ cro e del profano, la Friedensfeier, la festa della pace cantata da Hölderlin; ma nella Missa solemnis, che nel rapido susseguirsi degli eventi concentra un intero destino umano, attraverso il lun­ go e sofferto itinerario spirituale ed esistenziale che ne accompa­ gnò la creazione, vivamente partecipando al sacro mistero con fede e speranza, Beethoven conquistò la vera delle paci, quella con se stesso, quella con il ritrovato suo Dio.

N ote

1 L ettera ai suoi e d ito ri B reitkopf e H ä rte l, 2 novem bre 1809.

2 GOETHE, F a u s t, I I , 7741. 3 G. leopardi, O p e r e , a cura

di G . D e R obertis, M ilano-Rom a 1937, I I I , p. 146. N ei Q u a d e r n i d i c o n v e r s a z io n e si accenna anche alla versione dei testi omerici dello Stolberg, che tuttavia, come osserva il n ipote K arl, « è ancora p iu vecchia di quella d el Voss ». C fr. g. schünemann, L u d w ig v a n B e e th o v e n s K o n v e r s a tio n s h e fte , Berlin 1941-43, I I , p . i2 o (e cfr. trad . it. di G . B arblan, T orino 1968, ρ. 1184).

I l culto di B eethoven p e r O m ero non si lim ita ad una appassionata le ttu ra d ei suoi poem i, che fa oggetto di approfondim ento e di studio, valendosi, come guida, di opere esegetiche com e, appunto, quella d i Jo h an n J. K oppen, E r k lä r e n d e A n m e r ­ k u n g e n z u m H o m e e r , d i cui prende n o ta n ei suoi Q u a d e r n i d i c o n v e r s a z io n e (« 6 Bde, 1", 20, 3” Bds. 3 " Auflage - 4° u. 3” B andes 2*' Auflage. 8 - H annover in d er H ahnschen H ofssuchhandlung. - 6 T h lr» : cfr. schünemann, I I , p. 120). Q uesti docum entano in o ltre il suo vivo interesse p e r una edizione di tu tti i classici antichi apparsa presso la libreria universitaria di Franz H ä rte r; si annota l ’indicazione b i­ bliografica « b e i H ä rte r eine M erkw ürdige neue A usgabe alte r K lassiker, zu er­ fragen auf Subscription - von S tu ttg arter gelehrten nach F reiung der ältesten sel­ tensten E d itio n e n » [ i b id ., p. 218). Le frequenti citazioni e la precisione dei riferi­ m enti rivelano la laten te passione del bibliofilo che sa apprezzare il fascino d i una «antichissim a e rarissim a edizione» di testi classici, il pregio dell’esem plare che cercherà presso u n a libreria antiquaria della C urrentgasse, i «X enophons R eden u. T h aten des Sokrates» ( ib id ., I , p. 312). N o n esiste nulla p e r lu i p iu degno d i studio della lingua e della lette ra tu ra greca, che farà apprendere ed am are al nipote. « T ra sei m esi K arl com incerà a leggere O m ero in greco», assicura a Blöchlinger, il di­ re tto re del collegio ove studia K arl, n el m arzo del 1820. N el settem bre dello stesso anno B eethoven viene inform ato, a calm are la sua im pazienza, che il ragazzo nelle ultim e tre settim ane h a trad o tto n o versi di O m ero al giorno. N el 1823 è già in grado di leggere i tragici greci: « L ’edizione di Sofocle è già stata ordinata... Leggo in tan to il P r o m e te o d i E schilo». B eethoven lo incoraggia nello studio, ne segue i progressi, gli procura nuovi testi « p e r K arl» che illustrino uom ini fam osi, esem pio di giustizia, d i preveggenza, quali « A ristides u. T hem istocles», com e B eethoven annota in u n quaderno - e con orgoglio presentando il nipote al m usicista inglese E dw ard Schulz dirà: «S e volete p o tete porgli u n enigm a in greco», lingua senza segreti p e r il novello E dipo, che si com piace di rendere partecipe B eethoven del m ondo che va scoprendo e che lo rende felice traducendogli questa epigrafe: «Se O m ero è u n D io, onoratelo tra gli D ei, se non è che u n m ortale, elevatelo al rango degli D e i» ( ib id ., I , p. 334; I I , p. 231; I I I , pp. 187 e 206; e p a s s im ).

Anton Schindler, il fa m u lu s e primo biografo di Beethoven, riferisce che nella sua biblioteca si trovano «Platone, Aristotele, Plutarco ed altri simili ospiti». Il ba-

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rone de T rém ont, che incontrò B eethoven a V ienna nel 1808, scrive nelle sue M e ­ m o r ie : « L ’isolem ent de son célibat, sa surdité, ses séjours à la campagne, l ’avaient fa it se livrer à l ’étude des auteurs grecs e t la tin s» (cfr. j.-g. prod’homme, L e s c a h ie r s d e c o n v e r s a tio n d e B e e th o v e n , Paris 1947, p . 33). L a le ttu ra d i O m ero gli fu com pagna lungo tu tto il corso della vita, e di conforto nei suoi ultim i m esi, com e si legge n ei Q u a d e r n i d i c o n v e r s a z io n e , là ove G erhard von B reuning, il fanciullo che lo assiste am orevolm ente, che conosce le sue prefe­ renze e gli procura cibo e libri, gli p rom ette d i portargli l ’indom ani « la seconda p arte di O m ero». D i questa G recia fiore d i civiltà, p atria di poeti, d i filosofi, d i artisti, gli sarà guida u n libro allora fam oso: L e v o y a g e d u je u n e A n a c h a r s is , dell’abate Jean-Jacques Barthélem y, nella traduzione tedesca del B iester: «A nacharsis Reisen etc. 7 T heile K om plet. Schräm blische Auflage, 16 fl.», come egli annota in u n quaderno (schüNEMANN, I , p. 30): am pia narrazione d i u n viaggio che si suppone venga com piuto da u n giovane scita n ell’E llade, nel tra tto di tem po che congiunge il secolo di P e­ ricle a quello di A lessandro e che lo fa testim one della rivoluzione che ridiede la lib ertà alla G recia, e dei grandi eventi storici, culturali ed artistici. I n una lettera del 29 giugno 1801 a F . G . W egeler, B eethoven scrive: « I l tuo A n­ tioco lo avrai», forse la copia di u n dip in to di Füger raffigurante presum ibilm ente A ntioco il G rande, il condottiero degli sciti invasori d ell’E llade, e d i cui parla P lu ­ tarco nella V i t a di Filopem ene citata d a B eethoven (cfr. f. g. wegeler e F. ries, B io g r a p h is c h e N o tiz e n ü b e r L . v . B e e th o v e n , K oblenz 1838, ed E. Anderson, T h e L e t te r s o f B e e th o v e n , L ondon 1 9 6 1 , 1, p. 61, n o ta 3). 4 D i questo particolare rap p o rto si parla in una conversazione tra B eethoven e Schin­ d ler conservataci in uno degli ultim i Q u a d e r n i d i c o n v e r s a z io n e n o n com presi nel­ l ’edizione dello Schünem ann e trascritti in prod’homme, p. 458: «S chindler: State m olto bene oggi, potrem m o d u nque poetizzare u n poco sul T r io in s i b e m o lle m ag­ g io r e » . D opo aver ricordato ciò che A ristotele dice nella sua P o e tic a della T ragedia e u d ito B eethoven citare la M e d e a , incuriosito dal rap p o rto istitu ito tra la musica e questa tragedia, Schindler chiede di conoscere le caratteristiche d ei diversi tem pi d el T r io e le ragioni d i questo riferim ento, e saggiam ente conclude: « Q u i le parole n o n significano niente, sono i cattivi servi della parola divina, la m usica l ’esprim e». 5 O d is s e a X IV 304. 6 L ettera al d iretto re della G esellschaft der M usikfreunde, 23 gennaio 1824. 7 I lia d e X X II 303; dal ms Fischoff, n. 59. 8 29 giugno 1801. 9 I lia d e IV 517. 10 L ettera a K . A m enda, 1° giugno 1801. 11 L ettera a F . G . W egeler, 16 novem bre 1801. 12 I lia d e X IV 49. 13 « a C ari e [Johann] B eethoven», H eiligenstadt, 6 o tto b re 1802. 14 È il prim o dei passi segnati con u n tra tto di m atita da B eethoven nel suo volum e d é i ’O d is s e a tra d o tta dal Voss (cfr. a. leitzmann, L u d w ig v a n B e e th o v e n , B e r ic h te d e r Z e itg e n o s s e n , B r ie f e u n d p e r s ö n lic h e A u f z e ic h n u n g e n , Leipzig 1921, I I , p. 267). 15 M s Fischoff, n. 7-8, e leitzmann. 16 M s Fischoff, n. 130. 17 I b i d . , n. 90. 18 I b i d . , n . 129.

Note

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19 II ms Fischoff, conservato nella Biblioteca di Berlino, contiene copie tra tte da tac­ cuini di B eethoven databili t r a i l i 8 i 2 e i l i 8 i 8 : m ateria viva che, com busta nel crogiuolo della creazione, si farà alim ento della sua arte. 20 L ettera a M aria E rdödy, 9 o tto b re 18x5. 21 3 o tto b re 1825. 22 O d is s e a V 222. 23 Lettera al nipote, 31 marzo 1825. 24 O d is s e a V 210 sgg. 25 M s Fischoff, n. 172. 26 L ettera a Franz B runsw ick, settem bre 18x3. 27 L ettera al nipote, maggio 1825. 28 O d is s e a V i l i 232. 29 L ettera al nipote, 9 giugno 1823. 30 O d is s e a I 213. 31 Cfr. C o n v e r s a tio n s -L e x ik o n o d e r E n c y c lo p . H a n d w ö r te r b u c h f ü r g e b ild e te S tä n d e , I , ρ. 176. 32 O d is s e a X IV 156. 33 O d is s e a XV 399. 34 O d is s e a X V II 517. 35 O d is s e a X IV 227. 36 O d is s e a X IV 462. 37 Cfr. I. X. von Seyfried, E r in n e r u n g e n , in «C aecilia», 1828. 38 L ettera a B ettina B rentano, io febbraio 1811. 39 O d is s e a X I I I 39. 40 M s Fischoff, n. io . 41 O d is s e a X V II 381. 42 O d is s e a I 337. 43 O d is s e a I 348. 44 O d is s e a V i l i 479. V ersi che B eethoven accom pagna alla dedica della sua compo­ sizione corale M e e r e s s tille u n d g lü c k lic h e F a h r t a G o eth e autore d el testo poetico. 45 M s Fischoff. 46 Lettera a Breitkopf, 3 agosto 1812. 47 « D en n Pflicht ist des G u te n V ergeltung»: le tte ra a Josef V arena, 6 maggio 1812, e O d is s e a XXIV 283. 48 Cfr. Seyfried, E r in n e r u n g e n cit. 49 SCHÜNEMANN, I I , p p . 363-63. 50 B eethoven farà appello a questa k a lo g a th ia nei suoi rap p o rti con T eresa M alfatti e Amalia Sebald, sue am m iratrici, come al lim ite ideale, alla insospettabile base, « d e l lo r o reciproco accordo» d i fratern a amicizia: u n nobile disim pegno e forse u n fin d e n o n r e c e v o ir .

51 O d is s e a X IV 83. 52 O d is s e a X V II 327. 33 M s Fischoff, n. 107. 54 N on diversam ente d a a r e té anche i term ini à g a th ó s e k a ló s (il B uono, il Bello), p u r non escludendo l ’elem ento etico ed estetico in essi im m anente n e l greco antico, de6

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signavano rispettivam ente l ’uno « valentia», «coraggio virile», l ’altro, p iu che una m era prestanza estetica, la p iu significativa form a del pregio personale. 55 Lettera ad E m ilia M . in H ., 17 luglio 1812. 56 I b i d . 57 L ettera a T eresa von B runsw ick, febbraio 1811. 58 L ettera a F. G. W egeler, 1794-96. 59 Lettera a Goethe, 8 febbraio 1823. 60 C on il term ine «m assa» P lato n e n o n intende ta n to riferirsi al d e m o s , alla dem o­ crazia ateniese del iv secolo, m a p iu generalm ente a quella che ignora ciò che è buo­ no e giusto. 61 SCHÜNEMANN, I, p. 76. 62 l b i d . , p. 247. 63 L ettera al M agistrato di V ienna, 9 febbraio 18x9. 64 O d is s e a I I 277. 65 O d is s e a X IV 177. 66 O d is s e a X IV 2x4. 67 O d is s e a IV 290. 68 O d is s e a X V II 470.

69 Lettera al Magistrato di Vienna cit. 70 I b id . 71 Schindler afferma di aver avuto nelle sue m ani questo dialogo posseduto d a Bee­ thoven nella traduzione di Schleierm acher, com e è dato inferire dai num erosi ri­ ferim enti alla R e p u b b lic a contenuti nella sua le tte ra al M agistrato di V ienna del febbraio 1819. Com e risu lta d al ix Q u a d e r n o d i c o n v e r s a z io n e , nel successivo 1820 u n suo interlocutore, il filosofo K anne, gli consiglia: « L ei deve leggere P latone nella versione tedesca dello Schleierm acher. L o d e v e , glielo po rterò io. L ui e Schel­ ling sono i p iu grandi ». Sarà lo stesso K anne ad iniziare B eethoven alla filosofia di Schelling, prestandogli le V o r le s u n g e n ü b e r d ie M e th o d e d e s a k a d e m is c h e n S tu ­ d iu m s (cfr. schünemann, I , p. 344, e magnani, B e e th o v e n n e i s u o i q u a d e r n i d i c o n v e r s a z io n e cit., p p. 123-24). 72 Cfr. L. magnani, M o n te v e r d i e la v e r ità d e l l ’a r te , in «Nuova Antologia», giugno 1975· 73 R e p u b b lic a 501 b . 74 L ettera al M agistrato d i V ienna cit. 75 R e p u b b lic a 491 d 5. 76 C fr. O d is s e a I I 277. 77 O d is s e a X V I 2 1 3 . 78 Lettera al nipote, 5 ottobre 1825. 79 O d is s e a X V I 213. 80 O d is s e a X V I 241. 81 L ettera al M agistrato d i V ienna cit. 82 L ettera al nipote, giugno (?) 1825. 83 F e d r o 245«. 84 SCHÜNEMANN, I , p . 3 2 2 .

85 L ettera ai figli di B ernard Schott, 17 settem bre 1824.

Note

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86 « Sto bene, m olto bene, - scrive n e l 1799 al fratello N ikolaus, - la m ia arte m i p ro ­ cura amici e stim a: che posso volere d i piu ? », e a Zm eskall, nello stesso anno, con esuberante a m o r v ita e augura « ... b u o n appetito, e buona digestione, che è tu tto ciò d i cui u n uom o h a bisogno p e r vivere». 87 29 giugno 1801. 88 G iugno 1801. 89 L ettera a F . G . W egeler, 16 novem bre 1801. 90 L ettera a F . G . W egeler, 23 giugno 1801. 91 O d is s e a X V III 1 2 9 ,1 4 0 . 92 O d is s e a I I I 236. 93 L ettera al nipote, 9 giugno 1825. 94 L ettera al nipote, 18 maggio 1825. 95 O d is s e a X V III 201 sgg. 96 « D e n n s tirb t d e r M ensch... | D en n le b t d e r auf, auf inngst W ied er auf | A ufs zu fürchten, zu hoffen u n d zu begehren» (G oethe). 97 4 agosto 1800. 98 Cfr. F. KERST, E r in n e r u n g an B e e th o v e n , I , p. 46. 99 L ettera a W egeler, 16 novem bre 1801. 100 Sulla S o n a ta p e r p ia n o f o r te in r e m a g g io r e op. 28 cfr. a. S c h in d le r, B io g r a p h ie v o n L u d w ig v a n B e e th o v e n , M ü n ster i 8 6 0 , 1, p . 82. 101 L ettera del 23 luglio 1819. 102 Cfr. j. kapp, L u d w ig v a n B e e th o v e n . S ä m tlic h e B r ie f e , n. 1207, e m ag n an i, B e e th o ­ v e n n e i s u o i q u a d e r n i d i c o n v e r s a z io n e cit., p. io . 103 C fr. s c h i n d le r , B io g r a p h ie cit. 104 I b i d . , ρ . 103. 105 O d is s e a XIX 360. 106 O d is s e a XV 419. 107 C om posta n el 1811 in occasione dell’inaugurazione del nuovo teatro di P est, la vicenda m itologica che si svolge tra gli antichi m onum enti cad u ti in rovina, il la­ m ento delle vittim e sul m iserevole stato in cui versa la loro p a tria oppressa, la bal­ danzosa presenza dei D ervisci invasori, adom brano la dram m atica vicenda della guerra di liberazione dal turco invasore. « I n q u an to all’idea di fare attenzione alla G recia contem poranea, - osserva G rillparzer incaricato da B eethoven di rim aneg­ giare il testo di K otzebue, - la censura vi p o rrà il suo p o ten te v e to » (cfr. m agnani, B e e th o v e n n e i s u o i q u a d e r n i d i c o n v e r s a z io n e cit., p . 33). 108 O d is s e a V i l i 585. 109 L ettera a G leichenstein, 1810. 110 M s Fischoff, n. 90. 111 O d is s e a X IV 444. 112 O d is s e a V I I I 62. 113 C fr. ms Fischoff, n. 69. 114 Cfr. I. A. Stum pff, in A. w . t h a y e r (h. d e i t e r s - h. rie m a n n ), L u d w ig v a n B e e th o ­ v e n s L e b e n , V , Leipzig 1908. 115 I b id . 116 I b i d . 117 L ettera a F. B runsw ick, settem bre 1813.

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118 L ettera a M aria E rdödy, 19 o tto b re 1815. 115 L ettera a B runsw ick, 13 febbraio 1814. 120 D al K y r ie della M is s a s o le m n is : « V o n H erzen - M öge es w ieder zu H erzen gehn» (« d a l cuore donde nasce possa di nuovo andare ai cuori»). 121 Cfr. Platone, E p. V II. 122 C fr. magnani, B e e th o v e n n e i s u o i q u a d e r n i d i c o n v e r s a z io n e cit., cap. v: L ’a n tin o ­ m ia k a n tia n a e i d u e p r in c ip i d e lla fo rm a -so n a ta .

123 SCHÜNEMANN, I I I , p . 3 4 I . 124 F r. 67. Le citazioni sono tra tte d a A n e lila t o t h e P re -S o c ra tic P h ilo s o p h e r s , a cura di K. Freem an, O xford 1936, pp. 24 sgg. 125 F r b io . 126 F r. b 51. 127 C fr. L. magnani, P o e tic a d i H in d e m ith , in L e f r o n tie r e d e lla m u sic a , M ilanoN apoli 1957, p p . 154 sgg. e in particolare p. 167. 128 L ettera a E m ilia, 17 luglio 1812. 129 F r. 43. 130 A ll’editore Thom son di E dim burgo che gli aveva affidato l ’incarico di arm onizzare m elodie popolari scozzesi raccom anda: « J e vous prie aussi de m ’envoyer les paro­ les des C hansons, comme il est b ie n n e c e ssa ire de les avoir p o u r donner la v r a ie e x p r e s s io n » . E replicherà spazientito: «vous n e pouvez com prendre que je pro­ duirais des com positions to u t à fait autre si j ’aurai le texte à la m ain», ecc. (thayer, B e e th o v e n s L e b e n cit., I l l , Leipzig 1911, p. 391, e magnani, B e e th o v e n n e i s u o i q u a d e r n i d i c o n v e r s a z io n e cit., A ppendice: B e e th o v e n e l ’I n g h ilte r r a ). 131 I n u n a lettera all’editore B reitkopf riafferm a: «Se una parola che non va p iu gua­ sta la m usica, bisogna essere contenti quando si trova che musica e parole sono fuse in u n o » (28 gennaio 1812). 132 Goethe, D a s G ö ttlic h e . 133 L ettera all’im m ortale am ata, 6 luglio 1812. 134 L ettera a H ans G eorg N ägeli, 9 settem bre 1824. 135 L ettera a T hom as B roadw ood, 3 febbraio 1818. 136 L ettera a C. F. P e te r, 3 giugno 1822. 137 L ettera a J. K anka, 1814. 138 L ettera a N . von Zm eskall, 12 febbraio 1812. 139 L ettera a T obia H asslinger, io settem bre 1821. 140 Citazione da P lutarco, V i t a d i P e r ic le , e lettera all’editore B. Schott, 17 dicem bre 1824. 141 L ettera a B reitkopf, 17 settem bre 1812. 142 M s Fischoff, p a ss im . 143 T rasgredendo l ’am m onim ento di B eethoven di non indugiarsi a discutere su cose segrete ( a b g e s c h lo s s e n e D in g e ) si sarebbe te n tati di contrapporre alla fondam entale sintesi arm onica del G e n e r a lb a s s , che regge il divenire musicale, l ’analoga sintesi m elodica costituita dal T em a (particolarm ente dal tem a beethoveniano) che nella sua essenza conserva la pro p ria id en tità p u r attraverso tu tte le alterazioni e m odi­ fiche m elodiche, arm oniche, ritm iche subite nel corso delle sue variazioni che ce­ dono dinnanzi alla fermezza d el suo p ro p rio c a r a tte r e originario, del suo e th o s che anche qui, nella m usica, è d e m o n e . L ’intim a stru ttu ra del T em a trascende in fa tti e va oltre la fioritura delle singole n o te che noi percepiam o e resta stabilm ente im-

Note

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pressa nella m ateria sonora in divenire. Im m agine essenziale che oscuram ente p er­ siste in noi, che la riconosciam o riaffiorare n o n quale re litto tra i flu tti di u n nau­ fragio, non come u n etereo fantasm a m a com e l ’anim a stessa della m elodia. Cosi p u ò accadere ascoltando la V e n te s im a delle V a r ia z io n i O ia b e lli, in cui il tem a, p u r­ gato della sua originaria banalità, vagam ente emerge da quelle cupe m isteriose ar­ m onie in v irtù dello schem a generatore d i u n a figura im m anente quasi im pressa nella loro m ateria sonora. 144 « Religion u n d G eneralbass fü r in sich abgeschlossen D inge, ü b e r die m an nicht w e ite r disputieren soll» (schindler, B io g r a p h ie cit., I I , p. 162). V ien d i ricordare p e r analogia il concetto della U r -p fla n z e d i G oethe, della pianta originaria che egli ricercava tra gli u b erto si giardini di Palerm o. « S oltanto u n a Id ea », dirà Schiller, e n o n u n a esperienza, che all’idea m ai p o tre b b e adeguarsi. E G oethe dovette conso­ larsi pensando che se Schiller prendeva p e r u n a idea ciò che egli enunciava come esperienza, doveva p u r esserci u n a m ediazione tra le due. 145 C fr. w . de lenz, B e e th o v e n e t s e s tr o is s ty le s , P aris [1852]. A lfredo Casella, m io m aestro, consigliava, p e r ragioni didattiche, d i uniform are quelle insolite variazio­ n i ritm iche riducendole ad u n norm ale 3/8, loro equivalente aritm etico; m a quella generica uniform ità di accenti n o n risulta adeguata a quel «richtiges G e fü h l» , a quel giusto sentim ento d el T em po, insito in ogni m usica, e che B eethoven esigeva d all’esecutore, né a quella legge interiore che consente di p en etrare nel cuore del­ l ’opera per costituirne il ritm o vitale.

144 Cfr. c. F. D. schubart, I d e e n

z u e in e r A e s t h e t i k d e r T o n k u n s t, in schindler, B io ­

g r a p h ie cit., I I , p . 162.

147 L ’eco estrem a d ell’antico e th o s , che dopo ta n ti m ali riaffiora nella coscienza e nella poetica di B eethoven, si coglie, tra l ’altro, in u n a sua lettera all’editore inglese T hom son, ove si afferm a che la tonalità di la bem olle d i u n a canzone scozzese ch ’egli ha l ’incarico di arm onizzare n o n è confacente al carattere espressivo della m elodia: «ce to n m ’a p a ru peu natu rel e t si peu analogue à l ’inscription A m o r o s a , qu’au contraire je le changerait en B arbaresca» (thayer, L u d w ig v a n B e e th o v e n s L e b e n cit., I l l , p p. 390 sgg.). 148 29 gennaio 1824. 149 I lia d e X XII 309; cfr. ms Fischoff, n. 59. 150 O d is s e a V 1 e g. nottebohm, Z w e i t e B e e th o v e n ia n a , Leipzig 1887, p. 328. 151 M s Fischoff, n . 177. 152 Lettera ad Andrea Streicher, 16 settembre 1824, e ms Fischoff. 153 Cfr. nottebohm, Z w e i t e B e e th o v e n ia n a cit., p. 165. 154 Cfr. F. HÖLDERLIN, P o e s ie , trad . it. di G . V igolo, T orino 1938. 155 schindler, B io g r a p h ie cit. 156 L ettera alla contessa E rdödy, 27 otto b re 1818.

Appendice

Dall’Odissea

Auf! und heilige dich, daß du, ihr würdiger Herold, Einen der Kränze, besprengt mit erfrischendem Nektar, heraufbringst. Fleuch der Ehre vergoldeten Saal, des schlauen Gewinstes Lärmenden M arkt und die G ärten der Üppigkeit, wo sie in bunter Muschelgrotte ruht und an der geschnittenen Laubwand. Suche den einsamen Nachtigallhain, den rosenumblühten, Murmelnden Bach und den See, mit Abendröte bepurpert, Und im reifenden Korne den haselbeschatteten Rasen; Oder den glatten Krystall des W interstroms, die Gebüsche, Blühend von duftigem Reif, und in hellfrierenden Nächten Funkelnde Schneegefilde, von Mond und Sternen erleuchtet. Siehe, da wird mein Geist dich umschweben m it lispelnder Ahndung, Dich die stille Pracht der N atur und ihre Gesetze Lehren und meiner Sprache Geheimnisse, daß in der Felskluft, Freundlich erscheinend, dir die Jungfrau reiche den Nektar. (D alla dedica d el Voss a Stolberg).

Meine M utter, die sagt es, er sei mein Vater; ich selber W eiß es n i c h t , denn von selbst weiß niemand, wer ihn gezeuget.

( I 215-16).

Fämios, du weißt ja noch sonst viel reizende Lieder, Taten der Menschen und Götter, die unter den Sängern berühm t sind. (I 337-38)·

Nicht die Sänger sind des zu beschuldigen, sondern allein Zeus, Welcher die Meister der Kunst nach seinem Gefallen begeistert [...] Denn der neuste Gesang erhält vor allen Gesängen Immer das lauteste Lob der aufmerksamen Versammlung. Wenige Kinder nur sind gleich den Vätern an Tugend, Schlechter als sie die meisten und nur sehr wenige besser.

(I347-51).

( I I 276-77).

82

Appendice

W ie er keinem sein Recht durch Taten oder durch W orte Jemals gekränkt, da sonst der mächtigen Könige Brauch ist, Daß sie einige Menschen verfolgen und andre hervorziehn.

(IV 690-93).

Und die rosige Frühe entstieg des edlen Tithonos Lager und brachte das Licht den G öttern und sterblichen Menschen. (V 1-2).

Mein Herz im Busen ist längst zum Leiden gehärtet, Denn ich habe schon vieles erlebt, schon vieles erduldet.

(V 222-23).

Auf die Pleiaden gerichtet und auf Bootäs.

(V 272).

Heilig sind ja, auch selbst unsterblichen Göttern, die Menschen, Welche, von Leiden gedrängt, um Hülfe flehen! (V 447-48). Mögen die G ötter dir schenken, so viel dein Herz nur begehret, Einen Mann und ein Haus, und euch mit seliger Eintracht Segnen! Denn nichts ist besser und wünschenswerter auf Erden, Als wenn Mann und W eib, in herzlicher Liebe vereinigt, Ruhig ihr Haus verwalten, den Feinden ein kränkender Anblick, Aber Wonne den Freunden, und mehr noch genießen sie selber! (VI 180-83).

Aber der G ott des Olympos erteilet selber den Menschen, Vornehm oder geringe, nach seinem Gefallen ihr Schicksal. Denn sehr geliebt von der Göttern, W ohnen w ir abgesondert im wogenrauschenden Meere An dem Ende der W elt und haben mit keinem Gemeinschaft. Dem Kühnen gelinget Jedes Beginnen am besten. Ich gleiche sterblichen Menschen. Kennt ihr einen, der euch der Unglückseligste aller Sterblichen scheint, ich bin ihm gleich zu achten an Elend!

(VI 188-89).

(V I 203-5).

(V II 51-52).

(V II 210-12).

Jetzo kam auch der Herold und führte den lieblichen Sänger, Diesen Vertrauten der Muse, dem Gutes und Böses verliehn ward, D e n n sie n ah m ih m d ie A u g en u n d gab ihm sü ß e G esän g e.

(V III 62-65)

D a ll O d i s s e a

83

Denn ich saß, nicht eben m it Zehrung Reichlich versorgt, im Schiff: drum schwand die Stärke den Gliedern. ( V I I I 232-33).

Also ertappt Häfaistos, der Langsame, jetzo den Ares, Welcher am hastigsten ist von den G öttern des hohen Olympos, Er, der Lahme, durch Kunst. Nun büßt ihm der Ehebrecher! (V III 330-32).

Und fiel ein kränkendes W ort hier Unter uns vor, so mögen es schnell die Stürme verwehen.

(V III 408-9).

Alle sterblichen Menschen der Erde nehmen die Sänger Billig mit Achtung auf und Ehrfurcht; selber die Muse L e h rt sie d e n h o ld e n G esang u n d w a lte t ü b e r d ie S änger.

( V III479-81).

Dieses sang der berühmte Dämodokos. Aber Odysseus Schmolz in W ehmut, Tränen benetzten ihm W imper und Wangen. Also weinet ein W eib und stürzt auf den Heben Gemahl hin, D er vor seiner Stadt und vor seinem Volke dahinsank, Streitend, den grausamen Tag von der Stadt und den Kindern zu fernen. (V III 521-25).

Denn fürwahr, nicht geringer als selbst ein leibHcher Bruder Ist ein treuer Freund, verständig und edler Gesinnung.

(V III 585-86).

Lebe beständig wohl, o Königin, bis dich das Alter Sanft beschleicht und der Tod, die allen Menschen bevorstehn! Jetzo scheid ich von dir. Sei glückHch in diesem Palaste! (XIII 59-61). Alle gewaltsame Tat mißfällt ja den seligen Göttern: Tugend ehren sie nur und Gerechtigkeit unter den Menschen.

(XIV 83-84).

Denn der ist mir verhaßt wie die Pforten der untersten Tiefe, Welcher, von Mangel verführt, mit leeren Erdichtungen schmeichelt. (X IV 1 5 6 -5 7 ).

An Geist und Bildung ein W under.

(XIV177).

Dennoch glaub ich, du wirst noch aus der Stoppel die Ähre kennen. (XIV 214-15).

Aber ich liebte, was G ott in meine Seele geleget: Denn dem einen gefällt dies W erk, dem anderen jenes.

(XIV227-28).

84

Appendice Nacht lag über der Tiefe.

(X IV 304).

G ott gibt uns dies, und jenes versagt er, W ie es seinem Herzen gefällt, denn er herrschet mit Allmacht. (X IV

444-45)·

H öre mich jetzt, Eumaios, und hört, ihr übrigen Hirten! Rühmend red’ ich ein W ort, vom betörenden W eine besieget, Welcher den Weisesten oft anreizt zum lauten Gesänge, Ihn zum herzlichen Lachen und Gaukeltanze verleitet Und manch W ort ihm entlockt, das besser wäre verschwiegen. (X IV 4 62-66).

Auch vieles Schlafen ist schädlich.

(XV 394)-

Denn auch der Trübsal denket man gerne. W enn man so vieles erduldet, so viele Länder durchirrt ist.

(XV 400-1).

Einer von ihnen pflog, da sie wusch, beim schwärzlichen Schiffe Heimlicher Liebe mit ihr, die das Herz der biegsamen W eiber Ganz in die Irre führt, wenn eine die Tugend auch ehret. Dieser fragte darauf, wer sie w är’ und von wannen sie käme.

(XV 420-23).

Denn nicht allen sichtbar erscheinen die seligen G ötter: Nur die Hunde sahn sie und bellten nicht, sondern entflohen Winselnd und zitternd vor ihr nach der andern Seite des Hofes. (X V I 161-63).

Also sprach er und küßte den Sohn, und über die Wange Stürzten die Tränen zur Erde, die lange verhaltenen Tränen.

(XVI 190-91).

Da umarmte der Jüngling Seinen herrlichen Vater m it Inbrunst, bitterlich weinend, Und in beiden erhob sich ein süßes Verlangen zu trauern.

(X V I 213-15).

Vater, ich habe viel von dem großen Ruhme gehöret Deines Mutes im Kampf und deiner Weisheit im Rate. Denn sie sitzen hoch in den W olken und herrschen mit Allmacht Über die Menschen auf Erden und alle unsterblichen Götter, ( χ ν ΐ

(X VI 241-42).

264-65).

Ό& ΙΥ O d i s s e a

85

Zeus’ allwaltender Rat nimmt schon die Hälfte der Tugend E in e m M an n e, sobald e r die heilige F re ih e it v erlieret.

(XVII 322-23).

Edel, Antinoos, bist du, allein du redest nicht schicklich: Denn wer gehet wohl aus und ladet selber den Fremdling, W o er nicht etwa im Volk durch nützliche Künste berühmt ist, Als den erleuchteten Seher, den Arzt, den Meister des Baues Oder den göttlichen Sänger, der uns durch Lieder erfreuet? Diese laden die Menschen in allen Landen der Erde. (XVII 381-86). Nicht der mindeste Schmerz noch Kummer beuget die Seele Eines Mannes, der, streitend für seine G üter, vom Feinde W unden empfängt für die H erden der Rinder und wollichten Schafe. (XVII 470-72).

Und doch hat er mir nicht sein Leiden alles erzählet. So aufmerksam ein Mann den gottbegeisterten Sänger Anschaut, welcher die Menschen m it reizenden Liedern erfreuet; Voller Begierde horcht die Versammlung seinem Gesänge: Ebenso rü h rt’ er mein Herz, d a er b e i mir saß in der H ütte. (XVII 5x7-21). Siehe, kein Wesen ist so eitel und unbeständig Als der Mensch von allem, was lebt und webet auf Erden. Denn solange die G ötter ihm Heil und blühende Jugend Schenken, trotzt er und wähnt, ihn treffe nimmer ein Unglück. Aber züchtigen ihn die seligen G ötter m it Trübsal, Dann erträgt er sein Leiden m it Ungeduld und Verzweiflung. Denn wie die Tage sich ändern, die G ott vom Himmel uns sendet, Ändert sich auch das Herz der erdebewohnenden Menschen [...] Drum erhebe sich nimmer ein Mann und frevele nimmer, Sondern genieße, was ihm die G ötter bescheren, in Demut! (XVIII 130-37; 141-42).

Einen so sanften Tod beschere die göttliche Jungfrau Artemis mir, jetzt gleich, damit ich Arme nicht länger Mich abhärme vor Gram um meines trauten Gemahles E d les V erd ien st, d e n n e r w a r d e r h errlic h ste aller A chaier.

(XVIII 202-5).

Da verrieten mich Mägde, die Hündinnen sonder Empfindung ! Es sind ja den Menschen nur wenige Tage beschieden. W er nun grausam denkt und grausame Handlungen ausübt,

(XIX 154).

86

Appendice

Diesem wünschen alle, solang er lebet, nur Unglück, Und noch selbst im Tode wird sein Gedächtnis verabscheut. Aber wer edel denkt und edle Handlungen ausübt, Dessen würdigen Ruhm verbreiten die Fremdlinge weithin Unter die Menschen auf Erden, und jeder segnet den Guten.

(XIX 328-34)_

Denn im Unglück altern die armen Sterblichen frühe.

(XIX 360).

Über erschlagene Menschen zu jauchzen ist grausam und Sünde. (X X II 4x2).

Denn Pflicht ist des G uten Vergeltung.

(XXIV 286).

Welch ein Tag ist mir dieser! Ih r G ötter, wie bin ich so glücklich! Sohn und Enkel streiten den edlen Streit um die Tugend ! (XXIV 512-13)·

Indice dei nomi

A chille, 5 ,4 8 . A lcinoo, 20 A lessandro il G rande, 3 1 ,7 2 n. A m enda, K ., 3 5 ,4 7 ,7 2 n. A nassagora, 57. A nderson, È ., 72 n. A ntioco il G rande, 72 n. A pollo, 3 4 ,3 6 ,4 9 ,5 1 ,3 3 -5 7 . A rete, 20. A ristide, 71 n. A ristotele, 2 8 ,7 1 n , 72 n . A rtem ide, 37. A tena, 2 8 ,3 6 . Bacco, 66. Bach, J . S., 2 0 ,2 2 ,6 5 . B arblan, G ., 71 n. Barthélem y, j.-J., 72 n. B eethoven, C ., 13 ,7 2 n. B eethoven, J. N ., 13 ,7 2 n , 75 n . B eethoven, K ., 71 n , 73 n, 74 n. Berlioz, H ., 4. B iester, 72 n. Blöchlinger, 71 n. B reitkopf u n d H ä rte l, editori, 39, 56, 71 η, 73 η, γ 6 η. B rentano, Β. v on, 2 0 ,7 3 η · B reuning, G . von, 72 η. Broadw ood, T ., 76 η. B runsw ick, F ., 73 n, 75 n. B runsw ick, T . von, 2 7 ,5 0 ,7 4 n , 76 n. Casella, A ., 77 n. C ervantes, M . de, 60 . D am one, 63. D ante A lighieri, 56. D avide, 67. D edalo, 57. D eiters, H ., 75 η. 7

D el R io, G ., 32. D em odoco, 1 8,49. D em ostene, 57. D e R obertis, G ., 71 n. D ioniso, 67. D ioreo, 1 2,35. E m ilia M ., 74 n , 76 n. E raclito, 53-55. E rdödy, Μ ., 73 η , 76 η , γ γ η. E schilo, 1 0 ,4ο, γ ι η. E tto re , 1 2 ,64. E um eo, 19. E uripide, io , 67. Federico il G rande, 17. Fem io, 21. F ilippo il M acedone, 3 1 ,5 7 . Filopem ene, 25, 72 n. Fischoff, 14, 59, 63, 72 n, 73 n, 75 n - 77 n. Freem an, K ., 76 n. Füger, H . F ., 72 n. G allenberg, conte, 24. G eliert, G . F ., io . G iove, v e d i Zeus. G leichenstein, J ., 75 n . G loreanus, 6 4 ,6 5 . G oethe, J . W . von, 9, io , 19, 37, 42, 56, 5 7 ,6 8 ,7 1 n , 73 n , 74 n , 76 n , 77 n. G rillparzer, F ., 75 η. G uicciardi, G ., 24. H ändel, G . F ., 65. H ä rte r, F ., 71 η. H asslinger, T ., 76 n. H ay d n J . , 3 9 ,6 4 . H egel, G . W . F ., 2 3 ,5 3 . H erd er, J . G ., 9, 23.

90

Indice dei nomi

H in d em ith , P ., 53. H offm ann, E . T . A ., 66. H ölderlin, F ., 2 3 ,3 0 ,3 6 ,6 7 ,6 8 ,7 7 η.

R iem ann, H ., 73 n. R ies, F ., 72 η. R odolfo d ’A sburgo, arciduca, 3 9 ,5 7 ,6 4 .

K anka, J ., 76 η. K anne, 74 η · K ant, I., 3 ,3 3 ,3 2 ,3 3 ,5 9 . K app, J ., 75 η. K erst, F ., 75 n. K hulau, 20. K oppen J . J ., 71 n. K otzebue, A ., 73 n.

Schelling, F. W . J., 74 η. Schiller, F., 3, 9, 14, 23, 24, 29, 33, 38, 39, 49,5 6 ,7 7 n. Schindler, A ., 10, 17, 24, 28, 30, 42, 32, 5 9 ,6 7 ,7 1 n, 72 n, 74 n , 73 n, 77 n. Schleierm acher, F . E . D ., 74 n. Schott, B., 74 n, 76 n. S chubart, C. F. D ., 6 2 ,7 7 n. Schulz, E ., 71 n. Schünem ann, G ., 71 n, 72 n - 74 n , 76 n. Sebald, A ., 73 n. Semele, 67. Senofonte, 3 8 ,7 1 n. Seyfried, I. X. von, 2 0 ,7 3 n. Shaftesbury, lord, 60. Shakespeare, W ., 10. Sibilla, 53. Socrate, 3 0 ,3 1 ,3 8 ,6 3 ,6 7 ,7 1 n. Sofocle, xo, 71 η. Solone, 29. Stolberg, F. von, 13,71 η. Streicher, A ., 77 η. Stum pff, I . A ., 4 9 ,7 3 η.

Leitzm ann, A ., 72 n. Lenz, W . de, 6 0 ,6 1 ,7 7 n. Leopardi, G ., 9 ,1 7 ,7 1 n. L obkow itz, F ., 64. M agnani, L ., 74 n - 76 n. M alfatti, T ., 73 n. M allarm é, S., 9 ,3 3 . M arx, K ., 3. M atthisson, F., 2 3 ,3 7 . M enelao, 37. M ephisto, 3. M inerva, 57. M onteverdi, C ., 30. M oscheies, j . , 66. M ozart, W . A ., 2 3 ,3 9 ,3 2 ,6 4 . N ägeli, H . G ., 76 n . N apoleone B onaparte, 40-43. N ietzsche, F ., 2 0 ,6 0 . N ottebohm , G ., 77 n. N ottebohm , I., 77 n. O disseo, 1 3-21,28,32. O ssian, 9. P alestrina, G . P ., 2 3 ,6 3 . P andora, 37. Pascal, B., 31. Penelope, 2 1 ,3 7 . Pericle, 3 7 ,7 2 n. P eter, C. F ., 76 n. Pilade, 23. P iro, 12. P latone, 22, 23, 23-27, 30, 31, 33, 34, 42, 3 8 -6 1 ,6 3 ,7 1 n, 74 n , 76 n. P lutarco, 14, 25, 27, 31, 33, 37, 71 n , 76 n. P ro d ’hom m e, J.-G ., 72 n. P rom eteo, 3 4 ,4 0 -4 2 ,3 9 . P ro teo , 37.

Telem aco, 1 7 ,2 2 , 2 8 ,3 2 . Tem istocle, 71 n. T hayer, W ., 73 n - 77 n. T hom son, G ., 76 n , 77 n. T im oteo, 25. T rém ont, G . de, 72 n. V arena, J ., 73 n. V iganò, S., 34. Vigolo, G ., 30 n , 77 n . V oss, J . H ., 1 3 ,2 3 ,7 1 n, 72 n. W ackenroder, W . H ., 6 4 ,6 3 . W agner, R ., 4. W egeler, F. G ., 1 2 ,1 7 , 27, 33, 72 n, 74 n, 75 η. W erner, Z., 14. Z arlino, 6 4 ,6 3 . Zeus, 2 2 ,3 7 . Zm eskall, N . von, 73 n , 76 n.

Finito di stampare il 2 giugno 1984 per conto della Giulio Einaudi editore s.p.a. presso Pozzo Gros Monti s. p. a., Moncalieri (Torino) C.X.. 5733-1