Autoritratto di gruppo
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Luisa Passerini.

Autoritratto di grUPpO

GIUNTI

Molte voci risuonano in questa autobiografia collettiva: sono quelle di chi negli anni 60, in Italia, ha vissuto il passaggio dall’adolescenza alla maturità e nel °68 ha contribuito a un evento di grande portata. Le voci e le esperienze di ognuno sono intrecciate da Luisa Passerini; la sua volontà di ascoltare e

interpretare nasce dall’itinerario complesso che lei stessa percorre nella propria memoria. Il racconto soggettivo e autoironico in cui l'autrice rielabora le proprie esperienze — la fragilità dell’infanzia e la rivolta adolescenziale, l’amore,

la politica, la festa di un’età più adulta —

si

alterna a capitoli più analitici e ragionati in cui rivolge l’attenzione ad altri uomini e donne della sua generazione, per rievocare e confrontare i comuni percorsi di formazione negli anni Cinquanta e Sessanta, l’esplosione comunicativa e creativa del 68, gli esiti degli anni Settanta. Muovendo dalla memoria più intima e dolorosamente creativa, quella psicanalitica, la scrittura si

snoda fra passato e presente, fra coralità e voce solista; in modo vitale e affascinante, dal buio e dal vuoto della crisi iniziale fioriscono 1 colori, le

emozioni e i gesti con i quali l’autrice ricostruisce la rete di. relazioni fra la sfera privata e quella pubblica. L’interpretazione storica passa così attraverso l’analisi della maturazione sentimentale di una donna, e, reciprocamente, le stratificazioni dell’identità femminile si rivelano nelle esperienze collettive degli ultimi decenni: la politica della nuova sinistra, le lotte dei movimenti di liberazione, il movimento delle donne.

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Luisa Passerini

Autoritratto di gruppo

GIUNTI

ISBN 88-09-20126-4

© 1988 by Giunti Barbèra, Firenze

Quando tu avrai un passato, Yvonne, ti accorgerai che cosa curiosa che è. Prima di tutto, ce ne sono angoli interi, di frane:

dove non c’è più niente. Altrove, erbacce che sono cresciute a casaccio, e non ci si capisce più niente neppure lì. E poi ci sono posti che ci sembrano così belli che uno se li rivernicia tutti gli anni, una volta d’un colore, una volta d’un altro, e lì la cosa

finisce per non somigliare più per niente a quella che era. Senza contare quello che uno ha creduto molto semplicemente e senza mistero quando è successo, e che poi anni dopo si scopre che non è tanto chiaro come sembrava,

così come alle volte tu passi tutti i giorni davanti a un affare

qualunque senza farci caso e poi tutta un tratto te ne accorgi.

Raymond Queneau

Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/autoritrattodigr0000pass

AUTORITRATTO DI GRUPPO

1 SPEGEHI

Gennaio. Ho fatto le prime interviste a protagonisti del °68. Sono immersioni nel mio stesso passato: nel corso dell’ascolto si snoda il film di quel che facevo allora. È difficile reggere la memoria così raddoppiata; mi sembra che nessuno finora abbia voluto farsene carico, a volte neanche quelli che rac-

contano. Lo specchio incuivedo rif riflessa lamia mia immagine è opaco. Le interviste con gli anziani sullamemoria del fascismo mi avevano assorbita e commossa, ma non erano così pesanti, irrisolte, enigmatiche. Febbraio. Compleanno a letto con la febbre. Giaccio sconfitta, sotto il peso delle mie contraddizioni. Non ho voluto figli e non ne avrò. L’uomo che stava con me da dieci anni si è definitivamente fermato nella città da cui era pendolare, prendendo sul serio le mie passate richieste di abitare separati, proprio adesso che avrei bisogno che ci fosse; ha lasciato solo armadi pieni di vestiti, libri, oggetti. Il libro al quale ho lavorato tanti anni, sulla memoria del fascismo, è apparso per qualche giorno nella vetrina di due o tre librerie, e subito scomparso. Ho iniziato una storia con un uomo di vent’anni più giovane e questo è il risultato: la febbre mi dice che così non si può

andare avanti. Mi sento come chi non ha più niente da mettere in gioco.

Telefonate alla ricerca di analisti affidabili. Un appuntamento in cui entrambi sembriamo chiederci che cosa facciamo in questo studio. Altre telefonate. A una risponde una voce bella, profonda. Ammaestrata dall’esperienza, preciso che la richiesta è per subito. La voce accoglie l’urgenza e rilancia: forse è possibile, si è appena reso libero un posto. Appuntamento per il mese prossimo.

Marzo.

Le trascrizioni delle prime interviste sembrano inutilizzabi| propria esperienza come un tutto. Quelli che ricevono le trascrizioni hanno reazioni di delusione, di irritazione, di rigetto. Correggono minuziosamente, aggiungono virgole e

cancellano i «cioè» e i «mah». Alcuni scelgono pseudonimi, altri rifiutano l’autorizzazione a usare l’intervista; molti mi

domandano che cosa penso di cavarne. Il confronto con la propria memoria, e col passaggio dall’orale allo scritto, è scoraggiante. Avevo già intuito che questa memoria biso-

gna raccoglierla contro i suoi stessi protagonisti.

Ho avuto il primo incontro col dottor G. Apparenza dimessa — forse mi aspettavo qualcosa di grandioso? Mentre accampavo urgenza, insistevo sulla mancanza di tempo e di denaro. G. ha proposto incontri di prova fino a Pasqua, dicendo di intravedere un sommovimento emotivo, ma non una precisa richiesta di analisi. Aprile. Sono a Venezia per un’intervista. La casa ha pavimenti a schiena d’asino, che vibrano a ogni passo e danno a picco

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sul canale. Ogni giorno registriamo molte ore — sono ospite del mio intervistato. Nella sua storia osservo alcune mie vicende; nei suoi gesti riconosco altre mie passioni. Mangia una sola volta al giorno, ma unisce una certa ascesi al

piacere del cibo e del vino. Ascolto la sua esperienza del carcere: nonostante le differenze, la sento affine ai periodi di reclusione nella mia solitudine.

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A Venezia ho sognato un quartetto: due uomini ai lati, uno a sinistra e uno a destra, assistono; al centro una fanciulla

sottile accovacciata, di spalle, guarda una donna piena e sorgente, seni e ventre maturi, che le si sta alzando, svilup-

pando, di fronte. Non è ancora completamente sollevata, la sua nudità è prorompente, ricca, quasi eccessiva. Immagine

potente. Qualche notte dopo, una promessa simile, di cui mi resta un’eco fievole, appena percepibile: una donna in forma di pera, e la pera è trasparente, come un velo, una campana di vetro, un’aureola di lucciole sotto il bicchiere capovolto nel bosco scuro. Ma queste sono già immagini della mente. Là, nella landa remota, era un lento disinvolversi di bucce, come di cipolla — indietro, indietro, quasi

non si riesce a cogliere con lo sguardo — una donna dentro l’altra, una donna via l’altra. Fiaba della bella Maria del

legno, gettata nel fiume, i bei vestiti nascosti nell’armatura che la ricopre tutta e che si toglierà solo per amore. Racconto i sogni al dottor G. Mi ero preoccupata molto, nelle settimane precedenti, di che sorte avrebbe avuto la mia analisi. Mi assillava il problema del denaro, che sentivo come vergognoso: alla mia età, non avere neppure la possibilità di pagarmi un’analisi senza problemi mi pareva uno scacco, un altro segno della mia dissipazione, di sostanze ed energie. Ora tutto questo è passato in seconda linea, di fronte all'annuncio, fatto dai sogni, di una possibile donna ven stessa. nuova, gravida di cose e di se :

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La decisione si è presa da sé, o l'hanno presa i sogni. Maggio. Faccio esercizi mentali appena mi sveglio per ripercorrere i

sogni; li rivedo senza raccontarli in parole, per esser sicura di fissarli. Quando mi siedo nella poltroncina di vimini a qualche metro da G., che aspetta, comincio sempre dai sogni. Un profluvio di colori e immagini, che diligentemente gli riverso addosso, senza capire le rilevanze, le differenze, senza distacco dal reale. Vorrei telefonare alle persone che sogno, vederle, toccarle. Consolazione, alternare a giorni solitari, tristi, ripetitivi,

notti luminose e colorate, trasportate dal senso dell’avventura. È bello condividere i sogni con G. Camminando per le strade i sogni mi accompagnano. Vengono odori che non hanno origini materiali precise: di gia-

cinti, di fragole. Mi sento come avessi la testa inghirlandata di foglie e fiori. A distanza di settimane i sogni diventano noti, evocabili. In una massa informe si delineano segni di strutturazione, corsi e ricorsi. Ma l’insieme si fa beffe dell’interpretazione. Né noi la tentiamo; io racconto, G. ascolta. Acquisisco

lentamente il senso di uno spazio interiore. Sogno spesso la piazza centrale della mia città natale, quella della mia infanzia e adolescenza: differenza tra la piazza interna, che percepisco «dentro e dietro», e l’immagine della piazza reale, che posso evocare con gli occhi della mente. Nello scrivere o raccontare sogni, nell’espressione con parole, avviene un

passaggio da un piano all’altro, ma lo si può BSISOnE: nelle due direzioni. Consegno a G., più per dovere che per altro, i miei stereotipi d’origine, quasi una carta di presentazione da porgere senza emozione:

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«Non ho radici, non ho memoria d’origini che mi somiglino. Mia madre è un’assenza. Ho solo ricordi negativi di lei: lei che si irrita perché non riesce ad arricciare col ferro caldo 1 miei capelli dritti che si infastidisce perché non le dico se c’è posta o non c'è, canterellando per farle dispetto lei che esce tutta elegante, vestita da sera, al braccio di mio padre e io li seguo con lo sguardo dalla finestra finché non svoltano lei che litiga spietatamente con sua madre, mia nonna. Queste scene si situano prima che io avessi cinque anni. È morta che ne avevo sei, dopo lunghi periodi in ospedale. » G. ha ascoltato con attenzione: — Sono come radici disseccate. — C'è stata una mutilazione — mi lamento io. — No, un’atrofia. ’ Vengo intervistata da un giovane ricercatore che lavora sui

movimenti sociali e politici degli ultimi due decenni, come me, ma su una tematica diversa (io su quale tematica lavoro?). Anch'io, come i miei intervistati, ho narrato per aneddoti, i miei luoghi comuni, con tentativi improvvisati di

spiegazione. Situazione strana, sta di storia di vita: in un certo ma è insieme troppo e troppo dire. Un’altra cosa che mi ha

quella di subire una richiesenso la si è sempre attesa, poco per quel che si ha da stupita è quanto ho detto

senza remore, senza pudori; e con quanta sincerità, almeno

al livello conscio. L’intervista ha scatenato la memoria, che non si ferma dopo il colloquio. Continua, evocando le immagini della parte più lontana, perduta, finita del passato; quella felice, in cui si intrecciano racconti mille volte sentiti e ricordi d’infanzia, prima delle separazioni e delle perdite.

Nella famiglia di mia madre, che dopo l’origine contadina dei bisnonni — metà Langhe e metà Monferrato — era stata

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sobbarcavano ogni fatica, mentre gli uomini comparivano sullo sfondo come deboli o sfaticati o cattivi. Nella tradizione rientrava un bisnonno che era uscito a bere un bicchiere e non era più tornato; aveva lasciato al paese moglie e cinque figli per emigrare in America Latina, di dove non aveva più dato notizie. Il nonno invece era morto di spagnola nella prima guerra mondiale, giovanissimo, lasciando la moglie incinta e con una figlia piccola. C'erano figure positive, due prozii gemelli che abitavano lontano: uno era ebanista, mi faceva stupendi mobili per le bambole; l’altro era pasticciere. Si raccontava che una volta avesse inviato per Pasqua un uovo di cioccolato gigante, che conteneva i biglietti del treno per tutti e un invito: «venite a trovarci» (abitava a Genova). Ma queste erano immagini favolose, non quotidiane. La regola era quell’altra, non smentita dalla famiglia di mio padre, un po’ sfocata, di origini liguri e forse centroitaliane, decimata dalle malattie e dalla guerra. La leggenda narrava che mio padre facesse il calciatore, ma fosse stato dalla famiglia di mia madre strappato al vagabondaggio (così era inteso quello sport), costretto a prendere un titolo di studio e sistemato in un ufficio. Che lui facesse una vita da impiegato non cancellava la sua immagine originaria di avventura e libertà. Bambina, traevo da quei racconti l’impressione che era destino degli uomini vagare e scomparire; le donne restavano, sopravvivevano, si indurivano per il carico di responsabili tà. La mia era una stirpe di piemontesi dure, intelligenti, capaci. Donne abituate a comandare, ad assumersi i rischi,

a detenere il potere economico, che trasmettevano un messaggio: ogni legame con l’uomo è nefasto. Anche la miglior cosa che ne deriva, ifigli, infin.dei conti sarebbe meglio non averli. Ero nata nella casa di mia nonna, «portata», come si diceva

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allora, da una vecchia levatrice, che spesso veniva a trovarci, avvolta in una palandrana marrone,

alta e secca, con

andatura robotica. Parlava con voce acuta e fessa, «madama Oberti», che chiamava mia nonna «madamiìn», in quan-

to più giovane di lei. Non usava il mio nome, ma un appellativo affettuoso generico, come «giutîn», piccola gioia; mi sentivo sotto il suo sguardo rientrare in una schiera infinita, quella dei fatti nascere da lei, per sempre bambini e privi di individualità. Naturalmente non aveva marito; l’aveva avu-

to, ma anche lui era scomparso, secondo la regola. Nella vecchia casa esisteva ancora la sartoria della nonna, ormai ridotta ai minimi termini dopo essere stata un atelier

con diciotto lavoranti. Ma era pur sempre quella cultura che io assorbivo

senza

premeditazione,

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parole mediate dal francese, come paramentura, sciancrato, pince, i nomi di stoffe con l’accento ritratto e maschilizzati rispetto all’originale: il gàbarden, il pòplin, il crèp. Cera il plissé, che si portava a fare nella grande città, il godé completo delle grandi gonne a ruota, il nido d’ape per il carré degli abiti infantili. E le canzoni che le ragazze cantavano lavorando, spesso le romanze d’opera, gli scherzi, il ridere tra loro, cui partecipava anche la nonna. Lei sola sapeva fare certi lavori, come il tagliare; mi ricordo

quando si apprestava a farlo, segnando le stoffe col crè e disprezzando chi usava i modelli di carta; professionale,

creativa, rapida. Avevamo e fiori — d’inverno formiche,

un vasto terrazzo, con la veranda, pieno di piante un gran lavoro d’estate per innaffiare i vasi e per spazzare la neve; ci stavo per ore a guardare le conoscevo perfino le crepe delle piastrelle. Il ter-

razzo dava su un cortile ampio e quadrato; dai ballatoi, che

giravano tutt'intorno, si scambiavano saluti e informazioni. Molte persone che ci cercavano, per non salire i quattro 15

piani di scale larghe e alte — era una casa del settecento — chiamavano o fischiavano dal cortile: ci si affacciava e si parlava, in qualche caso le si faceva salire. Era un modo di annunciarsi o di sbrigare piccole faccende per le quali oggi si usa il telefono. Ricordo vagamente che chiamavano anche, nei primi anni, l’uomo del ghiaccio, lo straccivendolo, il vetraio. Con alcuni vicini si faceva vita in comune; ogni

giorno passavano a prendere il caffè, a raccontare un sogno, a far due chiacchiere. Venivo mandata a portare l'assaggio di un cibo appena cucinato, a chiedere in prestito una cipolla, una tazza di zucchero, due fiammiferi. Quando comprammo ilfrigo e installammo il telefono, i vicini vennero a ispezionare e commentare.

Trascorrevamo l’estate nella casa di campagna, che aveva ancora il forno a legna per fare il pane e i ballatoi di legno. Nel cortile la bisnonna, sempre aspettando il marito scomparso, cuoceva per giorni grandi pentole di conserva, di marmellata, di mostarda, che era una composta a base di uva, irripetibile. Per tornare in città ci portavano col carro

— alba luminosa sulla collina — a prendere la corriera al mercato delle pesche. Portavamo con noi cestini di quelle di vigna, piccole, bianche e profumate. Mi raccontavano fiabe, sempre le stesse, che ascoltavo al-

l'infinito: soprattutto quella di Belinda, il cui padre, per soddisfare la sua richiesta di una rosa bianca (mentre le sorelle volevano oro e argento), la rubava nel giardino del mostro e doveva promettere in cambio la figlia. Vedevo la casa del mostro, piena di ogni ben di dio, con i servitori

invisibili di cui si scorgevano solo le mani; l’anello magico, che diventava scuro quando il mostro stava male, ma che le

sorelle sottraevano a Belinda per invidia — un sogno le ricordava che il mostro stava morendo; Belinda che aveva il

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coraggio di baciarlo. Immaginavo la trasformazione. Su tutto campeggiavano le rose bianche, che a prima vista sembravano la pretesa più mode invece scatenavano

tutta la storia.

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Giugno. Sogni ripetuti in cui deve iniziare un viaggio, ma è già tardo pomeriggio, quasi sera: come avviarsi nel buio e verso luoghi ignoti? forse ho cominciato l’analisi troppo tardi? sono

troppo vecchia? G. per la prima volta parla: «Il viaggio può essere in discesa». Sobbalzo di incredulità, sgomento. Osserva che ho un’idea giovanilistica del viaggio, come avventura eroica, solare. Interviste a Milano. Un appuntamento è al sagrato del Duomo, ma non ci aspettavamo che proprio lì tenesse un comizio Mario Capanna. Il passato ci insegue.

Sogno un mare grigio, opaco, agitato. Nuoto in un’acqua fangosa vicino a uno scarico, da cui non riesco ad allontanarmi. Il dottor G.: non squalificare le resistenze, capirne la natura. Mi colpisce la calma, il tono di constatazione con cui rileva che ho paura dell’informe, dell’oscuro. Il mio terrore esaminato da questa osservazione realistica si ridimensiona. Nella quotidianità sono in allarme. Noto scricchiolii nei mobili, le cose cadono, si muovono, cigolano alle

mie spalle. Adesso si capisce, per contrasto, che i primi tre mesi erano un periodo «celeste», come se volassi, portata sulle ali di aerei, uccelli, fiori e montagne. Provavo un senso di velocità, quasi di vertigine, di andare «sparata»; a tratti mi pareva

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di non essere all’altezza, di volare troppo in alto. Ero nel cielo anche coi pensieri. Mi frullavano in testa brandelli di versi: «Non si-pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo ) È ; \ celeste», il Commendatore a don Giovanni; «e tutto è fiamma ed azzurro», Carducci. E ricordi — nel Conservatory Garden a Central Park, una zona tutta sul turchino: malva, @lavanda, fiordalisi, ireos, pervinche. mai DI

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Sogno: seduti su un letto io e un altro facciamo un inventario diinsetti neri e pericolosi, fittamente disposti su una grandecarta. Scara-faggio, scara-bocchio. La scrittura: zampette nere su un foglio bianco, come tracce di escrementi. Compaiono gli scarafaggi anche nella realtà, la notte. Capi-

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ta ogni anno, ma mai tanti come

questa volta. La casa

\x- scricchiola sempre.

Sono venuti a trovarmi amici che si sono trasferiti negli Stati Uniti. Il mio vecchio amico e compagno di lotta politica è infastidito dalla notizia che sono in analisi. «Ma tu non ne avevi bisogno». Sono venuta meno alla mia figura di compagna con cui condividere una superiorità. Lui è sulla cresta dell'onda: ha una donna più giovane di vent'anni, viaggia, scrive, vive con energia. A me invece tocca andare a fondo, da sola. Mi scruto alla ricerca dell’invidia, non ne vedo. di

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* Al mattino ho trovato uno scarafaggio morente nel bagno. Sono venuti quelli della disinfestazione, ecco il risultato. Constato di aver paura, da come controllo lo scialle nero,

dove potrebbero impigliarsi; chiudo i cassetti e le borse,

tappo gli scarichi dei lavandini. Tento l’approccio scientifico, faccio una piccola ricerca in biblioteca, su scarafaggi e blatte, sperando di non esser sorpresa da conoscenti e colleghi. Ci sono trenta specie di

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blattidi in Europa, duemila nel mondo. Sono tra gli insetti più antichi, molto importanti nel Carbonico. In Europa la Blattide Orientalis (20 mm, bruno-nerastra) va soppiantan-

do la Phyllodromia germanica, più piccola e chiara. Mi fa ribrezzo perfino vedere le illustrazioni, non posso toccarle. Racconto tutto questo a G., che sorride. Accenna alle connessioni tra scarafaggio e scarabeo. So che lo fa per trovare qualcosa di positivo anche nelle blatte. No, mi oppongo io puntigliosamente, il primo è dell’ordine dei coleotteri, come le coccinelle e i maggiolini, il secondo fa parte degli ortotteri insieme con i grilli e le cavallette. Non sarà l’analisi a convincermi che si somigliano. Mi pare che G. abbia impercettibili trasalimenti quando uso termini tecnici, anche «analisi». Smetto di dirli davanti a lui,

tentando ogni volta di trovare parole circostanziate: «i nostri dialoghi», «questi incontri», o più allusive: un gesto a indicare il «qui». A Londra per tre giorni, un incontro per il primo confronto sulle interviste alla generazione del ’68. Affiorano solo coincidenze a due a due, al massimo a tre paesi, come somiglianze nella formazione liceale tra Francia e Italia, o certe questioni organizzative tra Stati Uniti e Germania. Anche qui si ha l’impressione di una memoria sfuggente a chi la indaga. Requie dagli scarafaggi reali, ma non da quelli del sogno, che si presentano regolarmente, sbucando fuori dal letto e tornando a inabissarvisi. Sogno anche due enormi infanti, bianchi sul prato verde, che parlano saggiamente, con mio stupore.

Appena tornata a casa sogno scarafaggi lucenti nel buio.Mi sveglio terrorizzata, non oso accender la luce per non vederne di veri, sul pavimento, con quell’improvvisa fuga all’impazzata e poi la cieca attesa. Il luccicare del nero nel buio,

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come gli stivali delle SS. Nero su nero. Nazismo, Europa/ tenebre. Non saranno mai innocui, tanto meno amici. Per

me sono emissari delle tenebre, del laido. Rosso cupo quasi nero del sangue. Inferi, Ade, oltretomba, fogne, melma, oscuro, notte.

G. accoglie con spirito giocoso e irridente i miei terrori. Sui bambinoni si sbilancia a dire che forse sono stata doppiamente colpita dall’importanza enorme di una cosa: che parla chi non saprebbe parlare, l’in-fans. Davvero non pensavo che qualcosa dentro di me potesse parlare con voce così autonoma, € così inaspettata. Luglio. L’infans è molto scherzoso. Ho sognato che la mia amicasorella aveva la zoerrosi. Un poco di etimologia: è parola inventata, potrebbe voler dire, dal greco antico, vita che

scorre via, che sfugge. G. malizioso: dunque è cronica, non è zoerrite. Stesso spirito dell’infans. Questo, che io davo per muto e ignorante, non solo parla: gioca col greco antico! Anche con altre lingue, fa G. Su queste scoperte ci salutiamo per le vacanze.

A Roma, una serie di interviste sul ’68. nuovo Di il passato

mi viene incontroinmodo inatteso: uno degli intervistati più giovani mi interroga sul mio periodo situazionista, di cui sa già varie cose; un vecchio amico rievoca vividamente un

periodo doloroso, cui abbiamo partecipato insieme, la fine della politica, nel ’73. Dopo l’intervista restiamo a lungo nella notte calda a bere il suo vino bianco. Finisco per parlare anche a lui dei miei scarafaggi. Annuisce. Si informa se hanno un sistema nervoso e di che genere. Mi parla a sua volta di polipi. Ho la sensazione di viaggiare sotto terra, mi aspetto incontri con draghi. Mi stupisco di riuscire a prendere l’aereo, il 20

tram, il taxi. Faccio un’intera intervista senza inserire il

microfono, esibito sul tavolo. Ha funzionato quello incorporato, pazienza per i fruscii. Elementi forti di seduzione nel racconto della vita. Una donna mi dice: «Vorrei vederti ancora, non solo durante

l'intervista». Anch’io, Le racconto pezzi della mia vita, le faccio da specchio per i suoi momenti cruciali. Kos. Il dolore mi ha colpita in pieno, senza scampo, essendo interrotto il lavoro. Non riesco a dormire né a star ferma a lungo. Per la prima volta dopo dieci anni sono in vacanza senza un uomo. Avevo già fatto vacanze con le donne, ma per scelta, nel periodo femminista. Adesso è giocoforza. Senso di solitudine, di aver sbagliato, perduto, fallito. Vergogna, pianto. Ma quale uomo mi manca? l’ultimo che ho avuto? o uno qualsiasi? punture di dolore a vedere le coppie abbracciate per le strade della sera. Vuoto, senso di rovesciamento della vita. Quel che ho fatto

nel passato appare ora con segno opposto — me ne pento — la politica, l’uso del tempo, i viaggi, i convegni. Devo espiare, vivere nella morte, rivedere tutto. Capovolgere, anche nel pensiero, ciò che facevo e dicevo. La mia intera vita sottosopra.

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Le donne che sono con me mi carezzano la testa e le spalle mentre piango, mi consolano, mi accompagnano a passeggio. La notte vado a piangere sulla terrazza, grande, con piante di caprifoglio dal profumo acuto, vasi di rose e di basilico, la piccola acacia, i garofani bianchi e la bougainville. Il mattino le mie amiche mi danno yogurt e miele. Nell’Ade, al passaggio di frontiera, il guardiano un tempo voleva focacce di miele. Il mondo dei turisti presenta un altro inferno. Rumori disso-

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nanti, accostamenti di colori stridenti, sradicamento, obbli-

go di divertirsi. Partecipiamo un giorno anche noi, facendo una gita a Rodi in aliscafo, mezzo di trasporto dell’averno contemporaneo. Vomitiamo tutti, all'andata e al ritorno. Col sonno mi hanno abbandonato anche i sogni. Affiorano rigurgiti di ricordi, a gruppi disordinati, ombre del passato. Fissi e cristallizzati come sono, perché fanno così male?

L’androne sotto le scale nella vecchia casa della nonna. Le cassette delle lettere, in cui per molti anni ho scrutato l’arrivo di chi sa quale messaggio, la grata e il cancello di ferro battuto della cantina. Quando suonava l'allarme durante la guerra, ci scendevamo come în un rifugio. Mio padre restava fuori a guardare le luci dei bombardamenti nella notte. Così era lui, giovane eroe ai miei occhi, bello, errante e

burlone. Si faceva beffe dei timori della famiglia di mia madre, degli ordini di quelle donne forti e severe. Tutte tranne lei, la mia mamma

bellissima e elegante. Lontana, assente,

morta. Forse la mia nascita aveva accelerato ia sua fine.

Durante la guerra fame, non c’era cibo, mancava tutto. A un certo punto avevamo bruciato un tavolo per scaldarci. Dopo la liberazione avevo visto sfilare i partigiani, e donne coi crani dipinti di rosso. Per tutta l'infanzia e l'adolescenza c'erano state due case: quella di mio padre, dove avevo vissuto con lui e mia madre per qualche anno; quella della nonna, dove ero stata trasferita quando mia madre era diventata troppo malata. Scomparsa lei, avevo solo due sentimenti: la sua assenza; e la

lacerazione tra quelli che erano rimasti, che si dividevano me. All’abbandono e alla divisione opposi un rancore che doveva durare decenni.

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La scuola elementare era ancora segnata dal fascismo, negli

ultimi anni quaranta: ricordo poesie e inni come «Sole che sorgi libero e giocondo / sui nostri colli i tuoi cavalli doma / tu non vedrai nessuna cosa al mondo / maggior di Roma, maggior di Roma». Di Roma la maestra ci instillava il culto, come di un luogo supremo. Le discriminazioni sociali erano fortissime: nei primi banchi stavano i figli delle classi medie, femmine e maschi con i grembiulini bianchi; sul fondo c’erano i ragazzi dell’orfanotrofio vicino, ignoranti cattivi agitati, coi grembiulini neri; le femmine erano tutte nei primi banchi, qua-

lunque fosse l’origine sociale. I reietti sul fondo avevano per me un fascino particolare. Il primo giorno di scuola mi ero innamorata di uno di loro, ma dopo qualche tempo mi era parso troppo tranquillo ed era prevalsa l’immagine di un altro, con un gran ciuffo di capelli, il fiocco azzurro sempre storto e un ghigno beffardo, che mi chiamava «Luisella caramella».

Il mio legame più forte era con una ragazza, l'amica del cuore, che vedevo anche la domenica pomeriggio, quando veniva a trovare la zia che abitava nella mia stessa casa. Facevamo insieme merende sontuose, con la cioccolata calda e le torte di mele. In terza elementare ci portarono insieme a Roma: una notte in treno, un giorno a girare la città, un’altra notte di treno (che era deserto, ci si poteva

sdraiare negli scompartimenti vuoti). Alla fine della quinta la classe si spaccava a metà: chi andava all’avviamento non aveva più sbocchi di studio; chi face-

va le medie si apriva tutte le strade. Il passaggio alle medie era l’ingresso nel terrore, nella fatica, nel sacrificio. La classe era rigidamente unisessuale, noi tutte in grembiule nero e colletto bianco, lugubremente uniformi. La selezione era opprimente, specialmente per quelli che restavano a scuola solo se bravi, come noi delle classi mediobasse, men-

tre i figli dei professionisti e dei ricchi finivano sempre per

Z5

farcela, tra ripetizioni e raccomandazioni. L'incubo della bocciatura, dell’essere rimandati o anche solo del brutto voto, era continuo.

Del regime di terrore fece parte la storia della separazione di banco. La mia amica del cuore era figlia di un medico benestante, democristiano,

ebreo convertito al cattolicesi-

mo. In seconda media l’insegnante di lettere separò me e lei, che eravamo sempre state vicine di banco, come punizione

per un brutto compito di latino. Sofferenza quotidiana, vedere e non poter star vicino. L’anno successivo, all’inizio della terza, il primo giorno di scuola ci facemmo trovare nello stesso banco. L’insegnante ci lanciò uno sguardo terribile: «Sapete che non voglio vedervi vicine, voi due». Nel ginnasio ci eravamo

ogni giorno condividemmo legno in cui si mettevano

ricongiunte e per cinque anni

uno di quei vecchi banchi di in comune

oggetti,

emozioni,

bisbigli. Secondo la mia amica la causa della separazione nelle medie era stata una richiesta di suo padre, non contento della sua eccessiva amicizia con la figlia di un socialista. Mi sembrava incredibile, mio padre era così poco militante. Aveva anche fatto cose per la Resistenza, come trasmettere

messaggi, portare pacchi — lui lavorava nelle ferrovie — ma dopo la guerra aveva rifiutato ogni riconoscimento, non

aveva ambizioni politiche. Certo non faceva mistero di votare socialista, di essere nenniano.

Ma per me l’intera vicenda dell’esilio in banchi staccati era stata l’esperienza dell’iniquità del mondo. Mi sembrava parte del destino che a infliggermi una punizione spropositata rispetto all’errore fosse stata una vittima. L'insegnante era stata perseguitata dai nazisti, aveva perso la famiglia in un campo di concentramento, portava ancora sul braccio quell’orrido marchio.

Per me,

che non

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potevo

vedere senza

tremare le immagini dei prigionieri nei campi, era stata

emblematicamente vittima e aguzzina. Di quel terrore e sofferenza non riuscivo a parlare con nessuno. Solo a volte con la mia amica, ma poco, perché faceva troppo male e non c’era nulla da fare, nessuno cui chiedere aiuto.

Kalimnos, porto sonnolento, visite a monasteri femminili. Le suore ci accolgono con festosità, ci offrono dolci, ouzo,

melanzane fritte. Il dolore è sospeso, rinviato. Settembre. Sogno un’affollata assemblea in un’aula a gradini, dove io sono molto in alto. A guardar giù mi vien male: come posso parlare da qui? Ma scendere mi fa paura. Smettere di cercare di essere all’altezza. Lasciarsi andare, scendere dalla piattaforma dell’io, dell’aspirazione a «esserci», a intervenire, ieri con la politica, oggi con la storia orale. Questo vogliono dire i sogni? Io resisto, ho paura, non mi decido. Non ho nient’al

ell’identità eroica.

Reincontro il dottor G. Non mi sembrava di aver sentito la sua mancanza, e invece adesso mi scopro un piccolo moto

di dispetto, come in un bambino che dice: «Perché sei stato via?»

Sognato una gigantessa in un bar, cosce enormi, tra cui si intravede un sesso forse più di uomo che di donna, ma confuso: una virago. Molti sogni su amici omosessuali, scambio di ruoli tra me e loro. Cosa sono il maschile e il femminile? Non sono stata una donna maschile per tanto tempo?



pesi a

OP

v N GIR Sdraiata per ore sul divano senza far niente. Perdita secca di i_

identità. Disorientamento, mi muovo lentamente, tastoni,

visione che si deforma, pupilla che non mette a fuoco. Gli oggetti mi cadono. Sprazzi di ricordo di quando ero viva:/ lavoravo alla mia e nell’archivio centrale dell’Eur, uscivo a mezzogiorno a mangiare un panino e una mela nel sole dell’inverno.

Perché il sabato sera è così duro? Eppure questo dovrà serbare un po’ di dignità: mangiare senza troppo affanno a un tavolo non troppo in disordine, con gesti che contengano

un ritmo. Degradazione vissuta in questi ultimi giorni, depressione, sonno alle sette di sera. Alzarsi il mattino con l’idea fissa di quando si potrà tornare a dormire. Far passare il tempo, passare attraverso il tempo. Ogni giorno cancello un giorno dal calendario. Turbine, testa vuota, batticuore.

Anche quando pianifico le domeniche, come questa, il vuoto cacciato dal giorno ricompare la notte. Ottobre. Seduta memorabile col dottor G. — Non riesco più a andare né avanti né indietro. Silenzio. Riprendo a narrare vecchi sogni, parlo a vanvera, mi arresto. Non so cosa dire, se non che ho male al cuore. Anche

mia madre era malata di cuore. Ho una dichiarazione medica che il suo male non era ereditario. G. mi rivolge qualche parola, non so quale, e tutto converge. Un fiotto di caldo sale dal tronco alla testa, cerco di parlare, ma la cosa è scatenata. L’incontro tra gli sguardi è quasi insostenibile, siamo verso la fine dell’ora, potrei alzarmi e fuggire. Mi prendo la testa fra le mani: «È una cosa fortissima». Mi fa segno con le mani a coppa come a reggere una cosa preziosa: «La tenga!».

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— Cosa devo fare? — Non faccia niente — impazienza scherzosa come con uno scolaro un po’ lento. — Mi sopraffà — dico con timore. Fa segno di no, che non c'è pericolo. Non cerco più di parlare. Lo guardo a tratti: scorgo com-passione, tenerezza, solidarietà. Lui è con me. Sto ferma, nel roteare delle emozioni.

Al commiato, mi cadono due libri. G. mi stringe la mano calorosamente, quasi a congratularsi e darmi forza. Io esco sbattendo contro lo stipite della porta, come in una comica. Interviste

a Torino e a Milano.

In Grecia, senza pensarci, passeggiando tra rovine e per montagne, cercavo in tutte le pietre, in quelle naturali delle spiagge come in quelle scolpite degli scavi e dei musei. Mi accorgevo di cercare una pietra da portare al dottor G. Per fortuna non ne avevo trovate di abbastanza belle. Nella seduta del fiotto di calore, le radici del rancore — i quattro ricordi di mia madre raccontati all’inizio — mostravano di non essere del tutto disseccate, si muovevano, gon-

fie di emozione. Era possibile anche grazie a quello sguardo ricambiato, specchio che da svagato e scherzoso si era fatto vigile, forte, attento. Per me, che un tempo sessualizzavo

tutte le relazioni, questo tipo di amore è così prezioso. Rileggo il certificato medico sulla non ereditarietà del male fisico: «insufficienza miocardica con aritmia totale». Eppure sono stata proprio malata, per anni, di insufficienza emotiva e di bruschi alti e bassi negli affetti. Novembre. Periodo intenso di interviste a Napoli. Il giorno prende il sopravvento sulla notte. Sono diverse, queste storie di vita napoletane. Grande modo di narrare, senso di tragicità

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accentuata dal riso; echi del terremoto recente, permanenza

di quelli che sono più sconfitti di noi, che del °68 non possono parlare perché drogati, emarginati, perduti. Dignità nell’impegno di narrare. Con leggeri sorrisi gli interlocutori si accertano — cortesemente — che io capisca che non mi dicono tutto, che sia avvertita della distanza tra il rac-

conto e il reale. Parto con rimpianto per il lavoro che si potrebbe fare sulla memoria e il suo racconto in questa città.

Dopo quasi un anno che se n’è andato, l’uomo che stava con me non è ancora venuto a prendere i suoi oggetti. Apro gli armadi e ne cadono i suoi golf; le sue scarpe ostruiscono lo sgabuzzino. Butto oggetti e libri in valigie e casse, che mando a sua madre (è sempre tra donne che si risolvono queste cose?). Faccio rifare e sostituisco le targhette sulle porte e ai campanelli. Ho sognato che scartavo un vestito bianco e nero fatto a sacco e ne sceglievo uno rosso, tagliato in vita e aderente,

che mi andava a pennello. — Io non metto mai vestiti del genere — dico a G. preoccupata. — Figuriamoci, il rosso! — mi prende in giro.

— Ma anche la foggia... e poi ho lavorato tanto sul rosso e il nero nel mio libro sul fascismo, ma qui mi sfuggono le connessioni. —

Non per interpretare sempre tutto —

fa lui —

ma si

potrebbe dire che la ragione, un certo modo di intendere la ragione, procede per bianco e nero, per opposizione. Il rosso della passione invece è intero. (0 had

Un'altra delle trovate dell’i. (inconscio, infans): sogno di indossare il mio montone bianco tipo agnello, chiamata ripetutamente dalla maestra «signorina Angelini». L’innocenza irresponsabile, il lavarsi le mani dalle cose pratiche, il

28

fest fo ital au dom de:ny did + urge, be gu



aa

IAU

presentarsi come puella, intellettuale senza impegni emotivi o familiari, senza i legami della donna di casa. Fanciulla che non si sporca, non si mischia, non invecchia, come gli angeli. Dicembre. Dopo anni, mi vesto di nuovo

con cura, combinando

i

colori, gli accessori, talvolta mi trucco. Tutti lo notano: «Come sei elegante». Per me è un modo di manifestare una femminilità, un modo per somigliare a mia madre.

pedi

{

Riparlo a G. del vecchio sogno sulla zoerrosi, perdita di i vita, per dirgli che tale malattia ha investito la mia identità eroica, attualmente agonizzante. G. ribatte che quell’identità stessa rappresentava in passato una perdita di vita. Connessioni tra parte eroica e idee ristrette di ragione da una parte, di passione dall’altra. — Ma io non sono capace di indossare l’abito rosso della passione.

— E chi l’ha detto? Nel sogno le sta a pennello. — Il vestito rosso comunque è fuori moda, è tagliato a vita. — Come? Gli spiego che non si portano più gli abiti fatti così; quello bianco-nero è dritto, a sacco.

— È senza vita — sorride lui.

Accettare insieme il buio e la passione, il nero e il rosso. Mia madre era stata votata alla nascita alla Madonna di Lourdes, che la conservasse nonostante il cuore malato. Per questo fino a dodici anni dovette indossare abiti in tutte le

gradazioni del blu, ma solo quelli. Gli abiti suoi che mi sono rimasti, che conservo, sono rossi e neri.

Incidentalmente dico a G. che nella casa del padre, non quella della nonna, c'erano Di colpo li vedo da ani escarafaggi. tin 29

un punto di vista diverso, mi viene in mente un'immagine in

cui scarafaggi a schiera portano una lucetta sul dorso. Dalla terra al cielo o viceversa? — Ha visto? — G. trionfante — Mediatori tra cielo e terra. Dunque non irrimediabilmente nemici, cattivi, laidi. Treno da Bologna per Torino. Visione nel corridoio, tra il torpore del viaggio, di una donna inginocchiata davanti a un neonato. L’annunciazione assume improvvisamente un

senso: gioia segreta, adorazione di una nascita interiore, di un infante che sa molte lingue. Le resistenze, da Maria di Nazareth alla marchesa von O., oppongono al mistero una ragione naturale, biologica: come posso concepire senza un uomo? Non credono ancora in se stesse. L’impennata della ragione ha le sue ragioni: le resistenze sono ponti, come dice G., per arrivare a farsi ancelle della voce interiore con maggior pienezza. Non credo che il Natale abbia mai avuto una simile pre-

gnanza per me, anche durante gli anni religiosi dell’adolescenza; lo vedevo come evento esterno, proveniente da una religione oggettiva. Ora è interamente risucchiato dalle mie vicende. Attesa come capacità di accogliere, passività come allargarsi che vibra, come espansione. 25 dicembre. Non potevo accettare un invito a un pranzo di Natale pur di non restar sola. Faccio un po’ di yoga. Rivolgo l’attenzione al dentro. Nero, tenebra densa che si leva a folate da un fondo a

scodella. Non ci sono immagini — se penso una figura umana, viene inghiottita. Più volte torno alla cavità nera e profonda, ogni volta che l’attenzione sfugge e fa per andare ad altro. Il nero continua fino alla terra. Senza interruzione sento il peso del cuore e di continuo lo

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lascio cadere. Affonda, scende, si confonde nel buio quasi

palpabile, sostanza spessa e greve. Nero assoluto del calderone su cui sono installata. Né speranza né passato. Non E

non sentimenti, non proiezioni. Solo giù verso il

asso. Per riprendermi ascolto La Traviata. Piango molto, soprattutto all’ultimo atto. Devo esser stata anni senza piangere, adesso ho tutte queste lacrime da versare. Sciolgono nodi, richiamano il passato.

La Traviata vista per la prima volta a teatro, avevo forse dieci anni. Con la nonna e altre donne avevamo fatto la fila in istrada, aspettando che aprissero le porte del loggione, un'entrata separata da quella della platea e dei palchi. Poi su di corsa per le scale a prendere i posti, e ancora l’attesa. Già conoscevo brani dell’opera, li sentivo cantare dalla nonna e alla radio. Ma vederla tutta intera, seguirne la storia! Riconoscevo sulla scena la mia vicenda e un suo futuro. Violetta,

io volevo essere come

lei, sempre libera, senza

matrimonio e figli. Come lei volevo un grande amore, senza pensare a come sarebbe finito. Come lei mi sentivo sola al mondo, senza nessuno alle spalle. Come lei ero disposta, nel nome di un padre più grande del mio scherzevole e assente papà — un padre forte come le idee, la cultura, i libri — a rinunciare a tutto in favore di una fanciulla pura e senza macchia, quella che io stessa dovevo diventare. Mi avvinceva la duplice identità: accanto alla purezza anch'io volevo traviarmi.

Violetta era ribelle, a costo di distruggersi, con-

tro il conformismo che soffocava anche me, nella piccola città di provincia. E l’amore e la libertà erano incompatibili. Per me le storie d’amore si erano interrotte, dopo i vagheggiamenti delle elementari, con i tre anni delle medie. Si era

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allora intensificata la socialità femminile: facevamo un teatrino in un garage, per un pubblico di genitori e bambini del vicinato; gite, merende, pomeriggi di studio con ragazze; tra noi imparavamo a ballare, in feste di compleanno separate. La socialità mista riprese nel ginnasio: lenti e dubitosi approcci, con grandi difficoltà. Si aprivano dialoghi nell’intervallo, ci si accompagnava per un pezzo di strada dopo la scuola, si studiava a volte insieme, sotto il controllo familia-

re. Tutto era proibito, anche una passeggiata, che la sera stessa era risaputa, sull’onda rapida del pettegolezzo nella città di provincia. L’unico sbocco era un’associazione cattolica, che consentiva

di andare in montagna in compagnie anche miste, di cantare, mangiare e vivere in comune all’aria aperta. Vigeva un

tipo di religiosità problematica, con partecipazione alla liturgia e possibilità di discussioni collettive, di misticismo e contemplazione, tutte vie negate dalla religione conformistica degli adulti. Quella finalmente era vita, con spazi per flirt, nuove conoscenze da altre città, l'avventura di lunghe

escursioni dormendo notti in rifugio. Alla fine delle vacanze si tornava alla vischiosa routine senza scampo,

al clima

gretto e retrivo della piccola città. Questa era segnata da una terribile povertà culturale, che ci spingeva per reazione a tuffarci sempre di più nel mondo delle lettere e delle arti: gran studiare, gran leggere, gran guardare quadri e architetture, non solo sui libri di testo; fame di mostre, di concerti,

di idee nuove e diverse. Ne parlavamo per ore io e la mia amica più cara: l’ideale era andarsene e far vita da bohémiennes in qualche grande capitale.

L'atmosfera favoriva amori infelici. Mi innamoravo

in

modo alterno, un anno ciascuno, di due che mi parevan

ribelli: uno somigliava a James Dean e si comportava in modo un po’ pazzo, trasgressivo, selvaggio; si vestiva male,

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rispondeva male, faceva sedute spiritiche. L’altro era un tipo schivo, pensoso, suonava la chitarra, alle feste appariva e spariva con aria cupa. Andando su e giù per il corso, ogni sera alle sette a braccetto con un’amica, riuscivo a intravederlo, a scambiare un saluto commentando la vetrina dell’u-

nico negozio di dischi. Ci guardavamo con intesa al di sopra del mondo del passeggio, che entrambi disprezzavamo, partecipandovi con aria staccata e sguardo vuoto. Il passeggio era importante per notizie, sguardi, esibizioni. I ragazzi più vecchi ci arrivavano dai bar, luoghi dei clan maschili, vietati e temuti per noi donne, che già trovavamo

difficile passarci davanti, per il giudizio implacabile degli sguardi. Il mio amico compariva da solo o con altri, sempre sdegnoso e triste. Mi faceva capire che ero ricambiata, andavamo

insieme a vedere mostre e ad ascoltare musica. Ma anch'io intuivo che il nostro amore doveva restare infelice. In classe facevamo con i nostri compagni discussioni inter-

minabili sulle differenze tra uomini e donne e su una vaga prospettiva di sessualità libera. Alcuni ragazzi frequentavano l’unica casa di tolleranza della città e lo segnalavano intagliando tacche sul banco di legno. Quelli che non avevano soldi masticavano amaro. Tutti ne parlavano molto e ci spiegavano come fossero in gamba le prostitute, che avevan capito tutto, a differenza di noi ragazze, che facevamo tante storie e aspettavamo il grande amore.

Erano ormai gli anni del liceo. Si fumava di nascosto, si beveva qualsiasi alcoolico, si parlava continuamente di letteratura e di musica. Trascorrevo pomeriggi ad ascoltare due compagni di scuola che suonavano il sax e il clarino imitando Charlie Parker. Leggevamo Sartre, Camus, Pave-

se, che amavamo

anche per la sua estraneità al mondo

esistente, comprovata dal suicidio.

Tenevo un diario che alternava la registrazione delle crisi

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religiose a quella delle vicende amorose: «Oggi credo in Dio ma non in Gesù» — «ho visto sul corso P. e ha traversato la strada per venire a parlarmi. Mi ha fatto un grande sorriso. F. invece era particolarmente pallido e mi ha appena salutata» — «credo di aver capito il senso della figura del Cristo;

mi sfugge però completamente quella di Maria». Alla fine lo studio di Kant risolse drasticamente uno dei due problemi, offrendo l’estro a un atto di ribellione: decisi che ero agnostica e abbandonai la chiesa. In terza liceo, grandissima novità: facevo parte di un circolo culturale che voleva unire operai, contadini e studenti. Con-

tadini non se ne vedevano; c'erano alcuni giovanissimi operai e altri meno giovani, che avevano fatto la Resistenza da ragazzi e ci raccontavano

le loro avventure,

godendo

ai

nostri occhi di grande prestigio. Tutto ciò voleva dire uscire la sera, andare in osteria, cantare canzoni politiche e vecchi canti piemontesi; generava scontri familiari senza fine. Si

andava anche a trovare vecchi partigiani che abitavano in campagna.

Cucinavano la lepre, raccontavano storie avvin-

centi, che stavamo a sentire fino a tarda notte, bevendo vino. Erano comunisti, ma non il partito burocratico; era la tradizione rossa, che parlava di eversione, di armi nascoste e riscossa, ma anche di scherzi, di burle, e soprattutto di non

rassegnazione dopo la liberazione. Circolava la storia di Rocca che si era asserragliato su una collina per cinque giorni prima che i dirigenti comunisti lo convincessero a scendere; storia raccontata a mezza bocca, come altre simili.

Si capiva che armi ce n’erano ancora, da qualche parte. Tutto l’insieme rendeva alcuni di noi pronti a qualsiasi cosa negli anni a venire. Non c’erano modelli, non si sapeva come comportarsi, tra divieti e novità. Si aveva solo voglia di buttare a mare tutto il vecchio mondo. Alla fine del liceo — iniziavano gli anni sessanta — ci fu un’occasione di fuga attraverso gli scambi internazionali. La

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mia amica e io partimmo per gli Stati Uniti per un anno, in

due città diverse, riuscendo a trascorrere qualche giorno insieme a New York. Frequentavo una scuola superiore, avevo un boyfriend vero e proprio, un leggendario giocatore di baseball, con un’auto sportiva che si era comprato vendendo giornali per anni, e che parlava di sposarci. Ma soprattutto avevo una famiglia, con due sorelle e i genitori. Mom, la mia madre americana, era alta e allegra, le piaceva ballare e intrattenere amici. Molto religiosa, molto socievo-

le. Attenta a non reprimere nessuno in famiglia, ma pronta a soccorrere. Mi aveva raccontato di aver avuto varie storie

con uomini, ma infine di aver trovato un fedele accordo col marito, un uomo placido, che scherzava volentieri. Uscivano spesso, da soli e con altre coppie, facevano viaggi, si godevano la vita.

A me sembravano

limitati, provinciali,

arretrati. Mi ero affezionata, ma non potevo seguire il filo dell’affetto, presa com’ero dai miei furori di opposizione. Per non smentirli, frequentavo, negli Stati Uniti, un corso di

russo, tenuto purtroppo da un’aristocratica che esecrava la

rivoluzione perché aveva costretto la sua famiglia alla fuga. Dad mi prendeva in giro per il mio feroce anticlericalismo e mi suggeriva di scrivere al papa annunciandogli che lasciavo il cattolicesimo: «Dear Pope, I quit». Memoria di un altro Natale, con l’albero e i doni, tra Chri-

stmas carols e un tacchino gigante, che durò per giorni e giorni.

28 dicembre. Ho chiuso le interviste sul 68. Ci siamo incontrati a Parigi per tirare le fila. È chiaro che il libro internazionale non potrà essere una storia della soggettività: manca il tempo per fare i confronti e le analisi, rispetto alle scadenze imposte dagli editori che ci hanno finanziati; mancano i soldi per incontrarsi. Sarà una narrazione di alcuni percorsi.

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Sulla memoria devo lavorare da sola, e forse non per produrne una storia. O meglio, non per produrre un libro di .

storia.

VEE

pisana at

Voglio tentare una lettura dei racconti di vita, incluso il mio. Prendere dall’altro capo lo stesso filo, parlare di quello che ho visto negli specchi offerti dai miei intervistati.

2 LA SCELTA DI ESSERE ORFANI

Origini Alle radici della nostra memoria, in decine di storie di vita, trovo una frattura. La nostra identità sicostruisce a partire da contraddizioni. Anche i racconti che sottolineano la continuità della propria vita estraggono dalla materia autobiografica — per quanto riguarda gli anni della formazione — i temi ricorrenti della Liennio della differenza, del contrasto. — Nega ve casfruchin 7} kE La materia del narrare è l’Italiadel nd dopoguerra, gli anni della nostra infanzia e adolescenza. Un paese diviso da vent'anni di fascismo e da una guerra civile passata attraverso le famiglie, tagliando solchi profondi. E continuata in una guerra fredda che contrappone socialisti e comunisti a cattolici, sinistra a destra, e ancora ridivide le

sinistre sul rapporto tra comunismo e democrazia, sul ruolo dell’Unione Sovietica nella difesa delle libertà. Le testimonianze parlano di iniquità sociali che si avvertono di più per la mobilità crescente, mentre la rapida fortuna di alcuni strati accentua le privazioni di molti e le ondate migratorie esasperano disagi e razzismi interni. Contrapposizioni di classe, di regioni e di zone, di politica e di religione. Settentrione contro meridione, immigrati anti-

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chi contro immigrati recenti, ricchi contro poveri, ricchi da sempre e ricchi da poco. Cultura alta e cultura bassa, lingua italiana e lingua locale. Le differenze sociali si intrecciano, nei racconti, con con-

flitti incisi nelle famiglie, nelle amicizie, negli individui. I matrimoni riflettono le divergenze tra persone di strati e culture diverse: i ricordi dei figli portano i segni di rancori che risalgono alla prima infanzia, e mostrano che non è mai troppo presto per esser chiamati a prender partito. Non si tratta solo del tradursi nell’ambito privato di contraddizioni generali. È vero anche il contrario: nei rapporti interpersonali si accendono discordie che si proiettano su scala allargata. La polarità di maschile e femminile, vissuta attraverso le figure parentali, rinvia ad altri processi sociali e a più lunghe contese: le donne, che hanno appena ricevuto il diritto di voto e cominciano a intensificare la loro presenza sui luoghi di lavoro, si trovano sull’orlo di enormi cambiamenti sociali, economici, psichici. La memoria ha registrato i contraccolpi: le sofferenze per i dislivelli, le frustrazioni subite o viste subire. Ma non solo.

Perché la memoria parla da oggi. Parla dal punto di vista di un’identità che si è costruita, identità politica nel senso antico del termine: di una cittadinanza che si era data e che non è facile cancellare totalmente. Identità condivisa, partecipazione al farsi della propria vita e invenzione di una cultura. È questa identità che tenta di fondarsi una memoria e che deve pen tecpretare Dassi Forse non tutti quelli che hanno contribuito al formarsi della nuova cultura avevano sofferto nello stesso modo le disuguaglianze sociali e le lacerazioni individuali degli anni precedenti. E d’altra parte molti avevano vissuto le contraddizioni e ciò che era seguito — boom economico, nuovo mercato giovanile, accentua-

zione e spostamento della differenza uomo/donna — senza farsi poi portatori della nuova cittadinanza.

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In altri termini, il rapporto tra fatti socio-economici e nuova soggettività non è di determinazione causale. Quanti si fecero portatori e portavoce dell’impennata soggettiva, rispetto al numero complessivo dei loro coetanei? Quanti singoli hanno avuto un 68, delle generazioni nate fra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni cinquanta? Se non si riesce a quantificare una percentuale, si può tentare di qualificare una differenza. L’ipotesi è che i protagonisti del mutamento culturale — ciascuno a suo modo, a sua misura — ne portino le tracce sul piano della memoria, anche se il processo è ancora in corso e in certi casi appare interrotto. La memoria narra con i toni vividi dell’esperienza vissuta. Ma quello che mi interessa non è né la vivacità degli interventi né la fedeltà alla realtà, che farebbero di questi racconti le fonti subordinate di. una buona storia sociale dell’Italia dopo il 1945. Mi attrae invece lapretesa della memoria di fare la storia di se stessa, che è molto i meno e

forsee qualcosa dipiù di una storia sociale.

Ri

"giimpresa è difficile perché iincappa subito in un paradosso, già sperimentato nei momenti in cui era balenata come possibile una nuova identità. Per farsi storia, questa soggettività deve affermarsi come antistorica. Deve azzerare, distanziarsi, distruggere. Anche dove trova una continuità —

con le rivolte del passato — deve manifestarla come discontinuità.

Il discorso sulle proprie origini vuole fornire il contesto a una nascita politica. L’interpretazione del nesso tra origini e contesto è delicata. Il ricordo dei contrasti assume senso se è inteso non come causa della nascita, ma come ostacolo che

per essere superato, o azzerato, richiede un balzo, al di là di ‘due mondi totalmente diversi”. “IP Eliana Minicozzi (Roma 1942): Mio padre ha cominciato verso gli undici anni a fare il

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garzone del fornaio e poi man mano ha imparato il mestiere del saldatore. Dopo il ’43 lui e il nonno avevano un’officina meccanica che faceva i chiodi a tre punte per la Resistenza. Erano dei chiodi d’acciaio che venivano buttati per far saltare le gomme, e si facevano in una forgia che scaldava il ferro, io me la ricordo, da piccola. Mi ricordo anche i primi maggio coi camion pieni di gente, compresi noi, coi garofani rossi. Mi ricordo i nonni che tornavano dai comizi con la testa rotta.

— E tua madre? — Mia madre, un’esperienza tutta diversa, una famiglia in origine molto borghese, siciliana, con disastri economici e. familiari. A lei piaceva il teatro, la lettura, la musica, era molto cattolica. Fino a tredici anni ho cercato di assomigliare un poco a mia madre — traumi grossissimi perché andavo a scuola dalle suore, dove venivo tolta dall’albo d’onore delle brave, non mi si mandava avanti in pianoforte, mi si

diceva: «Il diavolo ti verrà a prendere perché tuo padre è comunista». Verso i tredici anni feci la svolta verso mio padre, cioè dissi, mi ricordo, al Sacro Cuore: «Io non so se

tu ci stai 0 non ci stai, però io preferisco voler bene all’umanità che voler bene a te». Cominciai a diffondere l’« Unità», a presentarmi come una ragazzina politica. Laura Derossi (Torino 1946):

Io vengo da una famiglia borghese, una famiglia ricca. Mio padre faceva l’imprenditore edile e in più aveva una piccola azienda metalmeccanica, ma non era un reazionario, votava liberale. Io andavo a scuola dalle suore domenicane, elementari, medie e liceo classico, e frequentavo le grosse famiglie torinesi, i balli, le feste. Ma un ambiente fondamentale per la mia formazione è stata la famiglia della mia portinaia, Tosca, che faceva dei tortellini che erano la fine del mondo, mi trattava bene, mi proteggeva. Vivevo in cortile con i ragazzini del quartiere,

facevo cose da maschiaccio. Aspettavo per tornare a casa che rientrasse mio padre, perché lui non era contro, come gli altri: «Laura non deve andare in cortile, cosa fa Laura

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tutto il giorno da Tosca — mia madre si sentiva in colpa — questa qui finirà per la strada!» Infatti poi... Romano Madera (Varese 1948): Vivevo due mondi diversi. Uno era le industrie, il mondo

nuovo, che per un altro sarebbe stato normale, per me no, , perché tutte le estati noi passavamo due mesi e mezzo in %‘// DV) Calabria, con i nonni. E lì era proprio un altro mondo. #5 »

Viaggi che duravano giorni, Metaponto perché a finiva il mondo e bisognava prendere il ciuf ciuf, il vapore, per arrivare in quel di Cariati. Da Cariati poi, per fare gli undici chilometri che rimanevano, cinque per Torretta e sei per il paese, che era Crucoli, ci voleva ancora mezza giornata. Un altro mondo: la gente, ma anche le cose. L’acqua in casa non c’era da nessuno, andavamo a prenderla alla fontana, che distava un chilometro e mezzo. Mio nonno arrivava a cavallo — perché c'erano solo una corriera all’alba e una corriera al tramonto. Gli asini, le mandrie, immenso passaggio giornaliero di capre, pecore. Una lingua che io capivo male: a casa mia — fratelli e sorella nati a Roma, madre veneta, padre calabrese — non c'era neanche il vezzo di dire una parola in dialetto, nel senso che semplicemente gli altri non avrebbero capito e buona sera! Io non ho mai capito bene il lombardo, e il

calabrese stretto non l’ho mai imparato.



)\W-}e est Sam

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Marco Revelli (Cuneo 1947): Il mio primo corteo è stato una processione, e la feci quando

venne la Madonna di Fatima. Mi ricordo che scese a Cuneo appena sotto l’elicottero, e scese sulla piazza principale — ci saran state trentamila persone, la prima grande folla che ho visto. Io ero andato lì per vedere l’elicottero e per stare con i miei amici. Tutta questa gente che cadeva in ginocchio, donne che si mettevano a piangere, mi colpì moltissimo. Fu uno spettacolo che mi impressionò molto, e poi facemmo questa grande processione con le fiaccole. Io ero molto fiero per la prima volta di andare in corteo con i miei amici, una prima esperienza di questo tipo. Poi tornai a casa e però non

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è che questo trionfo trovasse grande riscontro nei commenti dei miei. Mio padre era socialista, comandante partigiano, mia madre mi accompagnava in piazza e mi indicava come

erano brutti i celerini in assetto di guerra. Ko

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L’ambiguità verso i padri Il nodo continuità/discontinuità si gioca innanzitutto nell’ambivalenza della figura paterna. Molti padri sono presentati come «liberali», nel senso che si ispiravano a ideali del liberalismo definito «ottocentesco» dai loro figli: tolleranza, fiducia nella libertà, nell’iniziativa privata, nel lavoro, nella cultura. L’ambivalenza non è solo nei sentimenti

dei figli: i padri stessi sono figure parentali ambigue, affettuose e assenti, autoritarie e deboli, oppositori del clericalismo nella famiglia e forse nel voto, ma rispettosi delle convenzioni, sostenitori di educazioni religiose che porteranno talvolta conflitti con i figli. Eppure questi padri forniscono all’immaginario qualche scintilla per una possibile ribellione. Prendendo alla lettera l’insegnamento del loro lato liberale, si potrà voler portare fino in fondo un’aspirazione alla libertà e alla giustizia. Gli si potrà rinfacciare, dieci-vent’anni più tardi, di non essere

stati abbastanza coerenti; ci si potrà attendere disapprovazione, ma anche un segreto compiacimento verso i figli più coraggiosi di se stessi; a volte si avrà addirittura una ‘conversione’ del padre: mio padre alla fine della guerra lo cercavano i partigiani come collaborazionista. Dall’altra parte i fascisti lo cercavano per l’opposto. In realtà lui era un defilato. L’hanno messo nelle liste di epurazione, gli han fatto il processo e lo hanno assolto. Inizialmente votava liberale, poi mano a

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mano si è spostato, anche sotto l’impatto della relazione

con i figli. Il suo vero dio era la cultura — due lauree e il diploma di vigilanza — il partito liberale era stato il partito di Croce, questo era decisivo. Poi è andato rapidamente verso sinistra: prima PSDI, durante il periodo dell’unificazione; poi nella scissione è rimasto nel PSI; alla fine è diventato sindaco della giunta socialcomunista! (Madera)

Dai padri sono stati comunque tratti valori che hanno alimentato certe prese di posizione, alcuni periodi dell’esistenza. Portare avanti l’idea di onore trasmessa dal padre, avvocato napoletano liberale, potrà far passare al comunismo appreso da un compagno di liceo (Momo, Napoli 1951). Quel passaggio, oggetto di discussioni appassionate col padre, darà luogo a una rottura profonda e solo molto più tardi a una riconciliazione e al riconoscimento di un’ambivalenza iniziale: l’onore coniugato con l’opportunismo gattopardesco che entrambi «abbiamo nel sangue» (Momo).

L’ambivalenza non è risparmiata alle figure parentali di sinistra, di militanti cattolici, di antifascisti, di progressisti. La cultura che la nuova generazione vuole fondare richiede un’emancipazione non lineare, perché deve essere doppia, dalla società e dalla famiglia. Il padre comunista èsoddisfat- ‘ o

to che la figlia faccia propaganda di libero-amore ma non tollera che lo pratichi (Minicozzi). La figura di un padre antifascista, intellettuale, membro del Partito d'Azione, sollecita nel figlio una reazione di durezza eccessiva, quasi un irrigidimento per evitare di cedere a suggestioni troppo facili

di continuità (Luigi Bobbio, Torino 1944). In questi casi le contraddizioni non sono meno forti né gli esiti meno oscuri sul piano personale. La nuova cultura è di contrapposizione. Quando ci riesce, è dialettica: nella discontinuità rispetto al padre liberale cerca la continuità di valori; nella continuità con la tradizio-

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ne proletaria avverte la mancanza di coerenza sul piano che più le sta a cuore, quello dell’identità. Franco Russo (Benevento, 1945):

Io sono di famiglia proletaria, mio padre era falegname e mia madre ha fatto la portiera, insomma i quattro quarti di nobiltà proletaria. Mio padre è socialista da sempre e mi portava ai comizi, però bisognava nascondere l’«Avanti!». Mio padre non è stato aiutato dal suo partito a fare della condizione di proletario un punto di identità sociale, è stato un continuo mascheramento di questa identità. C'è sempre stata una zona d’ombra in cui si è vissuti in casa.

Un patrimonio di lotta che include modelli di deferenza, acquiescenza, imitazione e nascondimento pone un conflitto interiore. Non sembra esserci differenza su questo tra i

diversi componenti della generazione politica di cui stiamo parlando, composta da tre gruppi di età. C'è un gruppo centrale, il più numeroso, che ha vissuto il °67-68 all’Università, nella condizione di studente; ci sono quelli che già

lavoravano e furono comunque coinvolti più o meno radicalmente; e i più giovani, che erano nella scuola e vennero definiti ‘i medi’. Ciò che colpisce se si guardano le date di nascita, è che determinano solo parzialmente l’appartenenza a uno dei tre gruppi. Il 1942 può esser la data di nascita di qualcuno che nel °68 aveva già una laurea e un posto di lavoro, tanto quanto può esserla di qualcuno che era ancora studente universitario. La collocazione dipende dalla Facoltà, dall’origine sociale e geografica, dalle vicende personali del singolo. L’appartenenza al terzo gruppo è più segnata dall’età biologica; chi è nato dopo il 1950 ha vissuto il movimento degli studenti non nell'Università, ma nella scuola. Cambia quindi in genere il rapporto con le famiglie, ma cambia in certi casi anche l’atteggiamento verso la ribellione. C'è un

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senso di emulazione, l’ansia di far propria la rivolta e di dare un contributo insostituibile. "agree © Ladifferenza non è nell’atteggiamento verso i padri biologici. Sento gli stessi toni nella narrazione appena riportata di Franco Russo e in quella di Marino Sinibaldi, nati a distanza di dieci anni l’uno dall’altro. Marino nota senza sarcasmi l’atteggiamento del padre, che scrive al ministro una lettera per salvare il figlio sospeso dalla scuola, o la repulsione della madre per i capelloni. Si distanzia, semplicemente. Marino Sinibaldi (Roma 1954): mia madre è una casalinga, cattolica, si può definire una militante democristiana. Mio padre era tranviere, sindacalista, ma negli ultimi anni democristiano soprattutto. Si sono conosciuti in parrocchia. Io sono nato in un quartiere a forte tradizione anarchica e socialista, mio nonno era fornaciaio, e nella piazza c'è sempre stato attaccato «Umanità Nuova», oltre all’«Unità». Ma io andai al liceo Mamiani, e c'è dietro una storia patetica familiare. Mia nonna lavava i panni di gente ricca che abitava nel quartiere Prati e mia madre mi raccontò, che ero già grande, che quando era piccola accompagnava mia nonna a prendere e a portare i panni e passava davanti al Mamiani e vedeva questi ragazzi

bellissimi con le automobili. E lei si è battuta moltissimo perché andassi al Mamiani, mentre per la territorialità mi sarebbe spettato un altro liceo. Quando me l’ha rivelato, ha radicalizzato il mio odio per questa scuola, naturalmente.

‘La differenza è che il terzo gruppo di età ha dei fratelli maggiori. Questo genererà talvolta sentimenti misti di adorazione e invidia, sforzi di essere all’altezza della rivolta

ereditata, una spinta alla radicalità. Per loro, ancor più che per il gruppo centrale, c'è una sola presa di posizione possibile rispetto all’ambivalenza del padre come figura simbolica: la discontinuità. 45

Alcune storie di vita fanno convergere, quasi coincidere, il piano simbolico e il reale, indipendentemente dai dati biologici, dall’età e dai padri in carne e ossa. Su questo le varie età concordano, trovano un’unità da gruppo di pari. Alcuni personaggi si prestano più di altri ad assumere il ruolo, anche quando ci sono nella materia autobiografica elementi che potrebbero inclinare verso l'ambiguità: Guido Viale (Tokio 1943):

Sono rimasto orfano di padre all’età di undici anni, e di madre all’età di ventuno. Politicamente, mio padre era di idee liberali.

È l’orfanità il messaggio che prevale e si fa cultura, il criteriodi identificazione, condensato in una constatazione secca, che connota tutto il contesto della storia di vita: «Io non ho mai avuto maestri» (Viale).

Alla fine degli anni sessanta l’orfanità diventerà uno slogan, beffardo e dissacratore.

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Fiorella Farinelli (Viareggio 1943): la più bella scritta sui muri della mia facoltà, me la ricordo in maniera nettissima, di tutte quelle che c'erano: «Voglio “essere orfano». L’ho condivisa, l’ho fotografata, mi sono

portata il manifesto a casa, era quella che a me piaceva di più: «Voglio essere orfano».

Il tono di negazione, di rifiuto, di respingimento, im-

pronta il linguaggio. È il diverso modo di dire uno stesso contenuto di vita che fonda la visione del mondo. «Non ho

padre, io», risponde Mario Dalmaviva (Milano 1940) a una domanda diretta, scegliendo questo tra tutti i modi possibili per dirmi la stessa cosa. Talvolta invece è un tono scherzoso, un’iperbole, che

viene usata per creare distanza.

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Franco Aprà (Venezia

1945), di padre piemontese e madre abruzzese, di famiglia costretta a spostarsi spesso per la professione paterna (nella Banca d’Italia), esalta questi eventi con l’ironia: «Non ho

una vera patria, ho sangue misto». Il linguaggio modella gli eventi biografici all’interno di una interpretazione del morido €e della storia. Il vissuto è trasportato di colpo in una sfera pubblica con valenza letteraria. Roberto Dionigi (Pesaro 1941): Gli estremi: miniborghesia, due insegnanti, uno di ginnastica, uno di lettere. Vivono di lavoro, senza niente alle spalle, mio nonno paterno era oste, quell’altro era un maresciallo dei carabinieri in Sicilia. Tante bastonate, grande pedagogia fascista. Non ho niente in casa, nessun bagaglio di memoria, dalla famiglia non mi viene nulla. L’unica cosa sono i grandi scrittori stranieri pubblicati da UTET, credo che fosse un regalo di nozze che mia madre aveva avuto. Esperienza decisiva: incontrai per la prima volta Baudelaire, a 17 anni.

La presa di distanza è netta tra la nascita alla cultura e le origini familiari e sociali, come se si fosse stranieri al mondo, gettati in esso e alla ricerca di qualche simile. Si prende alla lettera la propria condizione, con movimento che sarà proprio di questa cultura, atto fondante che è anche presa d’atto del negativo, senza illusioni o rimpianti. Non senza dolore, come osserverà molti anni dopo chi ammette di aver I, provato il «desiderio di un maestro cche indirizza»: «Cosa fondamentale, che è mancata a tutti nella cultura della mia generazione, soprattutto per le donne» (Paola Di Cori, Buenos Aires 1946). Ma appunto, questo è un ripensamento tardo. Nei momenti costitutivi del nuovo atteggiamento culturale doveva prevalere l’allontanamento da tutto il pas47

IVI

sato, l'impossibilità di riconoscersi in qualsiasi sua parte, che seguiva un periodo di attesa vaga e impaziente. Fiorella Farinelli cita una sua compagna di università alla Scuola Normale di Pisa che esprimeva i sentimenti di molti di quella generazione: «non si potrà mica stare qua a occuparsi solo di studiare per poi diventare assistenti universitari e morta lì. Bisognerà ben fare qualcos’altro nella vita! ». C'era qualcosa che appariva come una luce a quell’annaspare confuso: l’immagine della Resistenza. Ma era stato detto bene, all’inizio degli anni sessanta, che cosa ispirava la sua memoria ufficiale al nascente stato d’animo di cancellazione. Ricordo di aver condiviso con passione quello che avevano scritto i «Quaderni piacentini»: NO NO NO. Non vogliamo che i morti della Resistenza siano «onorati» con monumenti «ai caduti di tutte le guerre» inaugurati da vescovo, prefetto, presidente del tribunale, comandante del distretto, commissari, intendenti e so-

praintendenti. Meglio il silenzio.

Il problema di fondo è che per attivare una vera continuità, adeguata ai tempi, si deve passare attraverso una discontinuità. Di questo è emblematica una delle storie che ho raccolto, quella di Federico De Luca Comandini

(Roma

1952). «La tradizione della famiglia materna era democratico-radicale: giacobini, poi Risorgimento, garibaldini, poi repubblicani, poi Partito d’Azione». Una famiglia che riassume il meglio della ribellione. Dal lato del padre, «una tradizione meno consolidata nel tempo, però lui aveva fatto la Resistenza: mio padre e mia madre si erano conosciuti nella Resistenza». Ma la storia di Federico ragazzo è lontana da questo patrimonio politico; lo dipinge intento a seguire fantasticherie filosofiche e ragazze; null’altro lo interessa. Ci vorrà una situazione eccezionale, l'occupazione e la serrata del liceo, per scoprire se stesso e una vocazione e per

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inverare una continuità di emozioni:

«io e mia moglie ci

siamo conosciuti nell’occupazione del Mamiani». Questo tono è eccezionale tra le mie storie: la pacatezza conciliata, la certezza della continuità con se stesso e col

’68, oltre che con la tradizione degli affetti: «a parte l’offuscamento degli anni 1969-71 — più che un offuscamento è uno spostamento dell'energia — non ho mai perso il contatto con l’esperienza che ho fatto nel °68». La mia interpretazione è che il senso detta continuità dal ’68 è fortemente connesso con la percezione della discontinuità del ’68 rispetto alla storia precedente (e seguente). La storia di Federico è anche quella che più esplicitamente intende il ’68 come rottura radicale: non stiamo parlando di ’68 o di ’88, stiamo parlando di un cambiamento di epoca che è in corso e prenderà più generazioni. Non cambia in due mesi o in due anni una struttura psicologica.

Incontriamo il cuore di questa memoria autobiografica, la sua ragion d'essere, il collegamento tra individuo e collettivo. Il linguaggio si sdoppia tra passatoepresente: ««è stato un movimento di indipendenza della propria motivazione individuale», dice la riflessione dall’oggi. Il ricordo traduce: «come si diceva allora: ‘A partì da ’a situazione concreta’, cioè: posso partire dalla mia esperienza». Emerge non solo la rilevanza dell’individuo, lo sbilanciamento dal fuori al dentro, ma un altro rovesciamento epocale: dal maschile al femminile, da un logos ristretto, privato del suo fuoco originario, alla «lucidità del sentimento». L’elemento che mi ha socializzato nel ’68 è stato l’impatto emotivo. Il’68 ha valorizzato i fattori sentimentali, immaginali, che sono gli aspetti psicologicamente femminili della nostra cultura. Contro una struttura psicologica orientata

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fondamentalmente sui valori maschili, ha liberato qualità psicologiche poco apprezzate — l’immaginazione al potere — valori affettivi, tradizionalmente attribuiti alle donne.

Il rifiuto della madre Non a caso dunque nella nostra memoria l’atteggiamento antistorico appare particolarmente accentuato nei con-

fronti della figura materna. È forse il segno che la presa di distanza più forte doveva avvenire proprio in quel punto, nel rapporto con la propria immagine interiore del femminile e con il ruolo sociale delle donne? In un primo tempo non si vedono i frutti di tale rottura. La giovinezza appartiene al padre; la ribellione insegue il mito del giovane eroe, a volte quasi efebico, a volte androgino. Ma più ragazzo che fanciulla, sebbene addolcito da pensosità e sdegni. Come il protagonista del film Della conoscenza, prodotto dal movimento studentesco romano nel 1969, e diretto da una donna, Alessandra Bocchetti. Un giovane, biondo e pensoso, attraversa la città, dalle

aule dell’Università occupata alle manifestazioni nel centro. Assemblee fumose di studenti in giacca e cravatta si alternano a immagini di lotte di liberazione in Asia e in Africa; gli scontri con la polizia presso la Facoltà di Architettura a bambini colpiti dal napalm. E poi la squallida periferia romana, gli studenti che gettano libri dalle finestre, i ghetti neri statunitensi. Sul mondo intero passa un desiderio di libertà e di mutare completamente il rapporto col sapere. Il giovane eroe che collega tutto questo non è ingenuo né ironico, semmai ricorda personaggi estraniati che passeg-

giavano in certi film della nouvelle vague. La sua immagine è lontana da quella della virilità tradizionale; il volto non è appesantito dalla barba dei rivoluzionari professionali; lo sguardo è distaccato, la figura tranquilla. Un uomo nuovo, 50

che ha già fatto propri alcuni caratteri della femminilità? o che, venendo prima della differenziazione sessuale, si presenta come androgino, doppio, indifferente? Questo sarà uno dei nodi degli anni sessanta e settanta,il rapporto tra °68 e movimento delle donne, tra liberazione politica e liberazione. affettiva e sessuale. Ma alle origini il problema si manifesta come difficoltà di accettare il femminile conosciuto, di parlare della madre e di ciò cheè stato il rapporto con lei. La madre è taciuta, appena sfiorata, in queste storie,

anche sotto la pressione delle domande dirette. La sua figura nasconde una questione complessa, che apparirà soltanto con lo svolgersi della storia di vita, questione forse preliminare, collegata alla prima infanzia, su cui si incontrano reticenze: «Io non so se ho avuto un’infanzia felice o infelice» (Bobbio), e certamente tarda, nelle avvisaglie della

seconda metà della vita o comunque nella percezione della maturità. La formazione della nostra generazione è particolarmente lunga, non solo per il tardo inserimento professionale. Il lavoro culturale richiesto è enorme, quello psichico è ri- .

schioso e delicato. Non sempre riescono l’uno e l’altro. Ci sono da fare riaggiustamenti e rielaborazioni su processi

acceleratisi negli ultimi decenni: da un’idea del lavoro come etica fondamentale della vita e dell’istruzione come mezzo di ascesa sociale e contrassegno di cultura, si passa alla separazione tra capacità di lavoro e identità, all’inserimento di altri elementi come basi della autostima (la mobilità, il divertimento), alla distanza crescente tra titolo di studio e occupazione, tra istruzione e affinamento spirituale. A tutto ciò si deve aggiungere la difficoltà di pensare il polo femminile della propria personalità aggiornandone la valutazione. È dunque solo in una fase successiva a quella contrasse-

gnata dalla rivolta che si possono fare i conti con la madre interiore.

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Pedro Humbert (Cremona 1948): Io ho interiorizzato molto la figura del padre e solo in un secondo momento, in una fase di maturità, ho cominciato a

scoprire gli elementi critici della figura paterna e per contrasto gli elementi forti della personalità di mia madre, che avevo vissuto in maniera positiva, ma come figura secondaria. Nella fase di maturazione intellettuale e politica, mia madre

è stata più importante di mio padre. Era più aperta al cambiamento: in lei il processo di cambiamento era più profondo, più radicale rispetto alla vita che ha fatto e in mio padre più superficiale.

Il processo individuale accompagna i movimenti storici intorno al concetto e all'immagine del femminile negli anni cinquanta e sessanta. Rispetto a quel periodo la presa di distanza compare nel ricordo non tanto come un atto di sog-

gettività consapevole quanto come il riflesso di un impulso oscuro, quasi un ritrarsi spontaneo, un respingimento irriflesso, per nausea, per disgusto, per avversione. Il rifiuto è violento soprattutto nelle storie di donne, dove si delinea un conflitto assai diverso dalle forme ambivalenti del rapporto con la figura paterna. È ricorrente nelle storie di donne il riferimento a non voler essere come la madre, in certi casi raf-

forzato in questo proponimento dalla madre stessa (sebbene in modo quasi inconsapevole, per «avvisaglie di ribellione, non progetto cosciente» — Mariella Tagliero, Luserna S. Giovanni 1945), in altri casi agito contro la madre stessa: Fiorella Farinelli: Io sapevo che tutto volevo diventare nella vita tranne che mia mamma, ecco. Questo mi era assolutamente chiaro. E quindi indulgevo molto a comportamenti trasgressivi. Fumavo di nascosto, fumavo alle feste, andavo sempre a ballare anche quando mia mamma non voleva, volevo uscire la sera, e poi, va beh, la grande trasgressione in verità era l’amore.

SZ

Maria Teresa Fenoglio (Genova 1947):

mia madre era in tutto e per tutto meridionale, portava la cultura mediterranea della suggestione magica, del malocchio. Mi era impossibile identificarmi con un materno così minaccioso, legato alla grande potenza della madre benefica e malefica. Un altro elemento materno era il piacere dell’esibizione, che mia mamma aveva moltissimo, le unghie rosse laccate, la gonna stretta, il trucco. Quando nell’adolescenza tentavo di imitarla, il risultato era un grande senso di depressione, perché mi giudicavo. Non potevo piacermi in quella maniera, perché dal punto di vista delle scelte ideali ero con mio padre — socialdemocratico, poi socialista, uno dei pochi comandanti delle Garibaldi non comunisti: idee democratiche, convinzione di essere superiore agli altri, per noi non contano i beni materali. La rottura con mio padre è poi avvenuta con la mia scelta di libertà sessuale.

I mutamenti profondi che travagliavano la condizione delle donne negli anni cinquanta e sessanta — protagoniste dei nuovi consumi, dei cambiamenti nella cura del corpo,

dei nuovi comportamenti quotidiani — erano anche mutamenti dell’interiorità. Contravvenzioni alla separazione e alla gerarchia del maschile e del femminile intesi in senso tradizionale c'erano sempre state, ma forse stavano diventando più numerose, più diffuse, più dirompenti. Nelle storie narrate si mostra una confusione, un’esitazione sui ruoli

attribuiti. Maria Nadotti (Torino 1949) racconta di un padre tranquillo che fa il suo lavoro di dirigente d’azienda, senza prese di posizione accentuate, per contrasto con la militanza attiva della madre nel partito fascista, negli anni cinquanta e sessanta. Noi respiravamo due arie: il femminile era il politico, e il maschile era la professionalità, il lavoro, l’impegno produttivo. E il versante femminile era frustrato perché mia madre

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era la casalinga moglie di professionista in questa Biella così placida.

Inversioni e spostamenti non tolgono il disagio verso il

femminile, difficile da trovare, da fare proprio, da capire: «ho continuato a pensare per anni che la figura maschile in casa fosse quella di mia madre, non quella di mio padre». Il

femminile viene scelto perché travestito da maschile: questo è il segreto del successo di figure-come-la vamp, la donna fatale, la donna sessualmente emancipata, aggressiva,

«mo-

derna». I modelli proposti dalle donne conosciute offrono spunti estremi per la ribellione, non ambigui come quelli dei padri. Se sono forti, lo sono senza cedimenti, come irrigidite di uno sforzo gigantesco, troppo serio, privo di sprazzi scherzosi, mentre questa generazione aspira a una cultura che faccia

propria la dimensione del gioco, della beffa originariamente goliardica (poi capace di mutarsi in critica dell’esistente). Vittorio Dini (Napoli 1945): Mia madre era in fondo il vero capofamiglia, l’elemento più razionale rispetto a mio padre, che qualche volta usava fare qualche scappatella. Una volta ha portato un asino sardo in casa e questa è stata ritenuta una trasgressione enorme perché era una spesa inutile, una cosa stravagante. — Un po' stravagante lo era... —

Sì, un po’ sì, ma tutto sommato giustificata dal vuoto

piatto in cui solitamente viveva, in parte costretto. Però lui %) era una persona simpatica.

Oppure le madri si presentano comesubordinate, sottomesse, silenziose. Non promettono nulla, almeno nella fase in cui ci si identifica con i paladini dei deboli e non si accetta la propria debolezza. Per tutto questo periodo il femminile agisce sotterraneamente come molla contro l’ingiustizia, ma

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carica di conflitti, che si attivano con le altre donne, com-

presa la propria madre. Io ho scoperto che mia madre esisteva pochi anni fa. Lei era una che non reagiva mai, non metteva in campo violenze, reazioni forti, rotture, però piano piano, segretamente, ha sempre mantenuto le sue forme di autonomia. Aveva l’aspetto della debole, che io ho sempre rifiutato, di cui non ho scoperto fino a poco tempo fa la reale forza, che

in realtà era enorme, perché ha improntato dietro le quinte la mia educazione. La madre debole era qualcosa che doveva essere vendicato nel mondo: questo credo di essermelo sempre portato, di dover vendicare mia madre in qualche maniera. (Derossi)

La difficoltà di pensare il femminile in realtà altro non è che l’incapacità di accettare se stessi, laspecificità dell’essere individuale. Perché il femminile deve sì confrontarsi con sue

versioni storiche che per quanto limitate hanno uno spessore da traversare e una lezione da insegnare. Accettare la durezza della madre capofamiglia o la debolezza apparente della casalinga è una ricchezza da non perdere. Né si tratta soltanto di un insieme di valori ora rivendicati, come l’intelligenza e l’intellettualità femminili. No, il femminile è la specificità di ciascuna donna, il modo di essere se stessa (e forse il rapporto con l’altro dentro di sé, per ciascun uomo). Ma nelle condizioni storiche degli anni cinquanta e sessanta il mutamento culturale avveniva, soprattutto per le donne, contro le altre donne, a spese del rapporto con loro. bb emancipazione intellettuale (esser brava a scuola) poteva servire come base per una nuova libertà dei comportamenti, che però richiedeva un’alleanza col padre, simbolico o reale. Se reale, poteva provocare violente gelosie in altre donne, madri e sorelle (Tagliero). Prefigurava i rapporti crudeli che si sarebbero instaurati nel corso di un’altra emancipazione, quella politica del 68. 55

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Gennaio. Cena con uno appena conosciuto. Ho detto che ero in analisi e lui: «Anch’io, anch'io», ma in un’altra città. Soliti discorsi, la Montagna incantata, il Meister, la comune cultura piemontese, la cucina, ricordi dagli anni sessanta e settanta.

Riconosco i percorsi della seduzione. Ecco, ci siamo in pieno, bruciando rapidamente le tappe questo amore si afferma di minuto in minuto. Le distrazioni sono passeggere: appena è finito un impegno ed esco da un pranzo o da una riunione ritrovo il pensiero e l’immagine di quell’uomo che non riesco a chiamare per nome — quasi fosse una faccenda tra me e me — e scopro che nella breve assenza il sentimento si è fatto più forte e dominante. Sono rimasta abbagliata dall’incontro di tre giorni fa: la pelle chiara e i capelli grigi, le mosse a volte leggermente effeminate, il modo di parlare tranquillo con sorrisi improvvisi, la figura grande e forte. E gli abiti: un maglione rosso, bellissimo.

Parlando con G. del mio innamoramento, dico: «questa roba dannata» e lui fa finta di capire «d’annata». Una delle cose che gli avevo esposto come un sintomo era l’innamo-

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rarmi di frequente, che in me suscitava doloreévergogna, quasi un incubo ricorrente; ogni volta-mi pareva assurdo, insensato e diretto alla persona sbagliata. c# Le interviste sul’68 hanno lasciato tracce. Con alcuni siamo diventati amici. Altri ci ripensano, mi telefonano, vogliono sapere a che punto è il lavoro. Temo che produrrò comunque qualcosa di inadeguato. Per giorni mi sono immersa in documenti del ’68 torinese. Trasmettono dirompenza, ma anche la ripetitività quotidiana della lotta. Toni alti e bassi rinviano a diversi gradi di cultura, a volte di alfabetizzazione. Espressioni roboanti sono attenuate da errori di ortografia; la cattiva ciclostilatura rende più commovente la sottigliezza di certe riflessioni. Ho letto anche molti giornali, ne ho osservato le foto, dove i miei intervistati compaiono splendidi, giovani, decisi. Tutto sembra molto lontano, arcaico, al sicuro in questi archivi, di

dove la ricerca ne resuscita l’immagine come un’olografia. Solo l’archivio dàlà questo tipo di emozione, nonnla memoria. Suaue

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ln igurione dell’anno accademico. Il rettore in ermellino e mazza, le pellicce un po’ fanées. «Diciassette anni — ha detto — da quando questa cerimonia fu interrotta per gravi eventi», il fatidico anno accademico ’67-68. Ho letto i libri di X, l’ho rivisto. Vive metà settimana qui, il

resto del tempo in un’altra città con la sua famiglia. Viaggia continuamente, da un convegno a una presentazione a una conferenza. Come facevo io non molto tempo fa. Febbraio. Altro compleanno. Quest'anno ho fatto una festa. La casa sembrava cambiata, con nuovi spazi per accogliere amici. X si è dimenticato di telefonarmi, come aveva promesso, per farmi gli auguri.

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Ho sognato un giovane ermafrodita. Ermafroditico mi è parso anche il rapporto con X, come tra due troppo simili, finché non abbiamo fatto l’amore. E lì è comparso un suo modo di farlo quasi specialistico, genitale, non diffuso. Poca attenzione al rapporto tra i corpi nel loro complesso. Anche le parole usate erano termini riferibili a una_sfera sessuale senza sentimenti. Questa è la differenza tra noi. — Vedo crescere in lei un amore... per la differenza — commenta G. sp Ora mi trovo relegata di colpo nella condizione di amante, che si rimanda a dopo la famiglia, il lavoro, gli impegni ufficiali. Osserva Zaira, l’amica-sorella: «Non è poi così male la condizione di amante, di questi tempi. E poi per te è un tale cambiamento». Neanche G. accetta che la situazione sia il disastro che credo io. «Dis-astro», dice alludendo ai miei modelli di distanze stellari nei rapporti, che questo scardina. L'immagine di me schiva, alta, distante, vorrei progressivamente demolirla,

anche se mi sembra la mia unica difesa. Sono dilaniata tra il desiderio di vederlo e l’accettazione dell’attesa. Si è reso irraggiungibile, con la tecnica del seduttore: di scomparire subito dopo aver fatto l’amore. G. si mostra solidale con me, quando gli ricordo l’effetto di questa tecnica narrata da Kierkegaard. Anch'io avevo attuato in passato simili forme ferine di comportamento. Adesso mi pare un modo selvaggio, quasi vivessimo allo stato brado.

Sento un bisogno di civiltà — di democrazia — anche nell’amore. Sogno: cammino nell’acqua e a un certo punto avverto con disgusto le alghe sotto i piedi. Per di più si levano onde minacciose, l’acqua è gialla, la tempesta si estende, non c'è più appoggio né scampo. 59

Inchiodata qui a sperare una telefonata.

I mesi passati di solitudine e di astinenza, quasi riconquista di una verginità, certo di un pudore e di una nuova dedizione. Il mio corpo risponde al suo — sento meno il freddo. Vorrei comunicargli le cose minime della quotidianità, come che oggi mi sono comprata, in saldo, due paia di scarpe col tacco alto. Riprendo, dopo anni, ad ascoltare moltissima musica. X compare a tratti. Amori appassionati, «rapinosi» — 0S-

serva G. vedendone le conseguenze. Poi X scompare per periodi che arrivano anche agli undici giorni. Forse per questo conto tutto: da quanti giorni ho lavato i capelli e quando li posso rilavare, quanti mi separano dal dottor G., quanti mancano al prossimo mese, che forse sarà migliore di questo.

Mi inquieta il pensiero delle donne che condividono X con me: madre, moglie, una sorella. Un tempo disprezzavo la gelosia. Mi chiedo se non voglio lui soprattutto per avere una di loro, la madre. Ma l’insieme mi turba, mi sembra

immorale sf ny — Lei voleva essere l’unica? — G. imperturbabile. Sembra ritener normale questo stuolo di donne. Invece mi mette molto in guardia nei confronti dell’uomo di potere. Ma ha delle idealità — protesto io — una fede. Non importa, conviene diffidare, insiste la faccia di G. Come posso

vedere X tra i pre-potenti? Lui è un angelo vendicatore. Marzo.

Con amici visitiamo una mostra di cui X mi ha parlato. Ogni sala, ogni bacheca è come una spina pungente. Capisco adesso la favola della sirenetta che per amore di un uomo aveva cambiato la coda in gambe di donna. L'uomo

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non l’amava, pur volendola sempre con sé, e a ogni passo la sirenetta sentiva una trafittura alle gambe. E così, come avere una ferita aperta. Certo per la ferita passa di tutto: emozioni, ricordi, attenzione per cose prima

trascurate. Una grande docilità, consigliava una delle suore di clausura nel documentario di Zavoli, come la dote più importante da avere nella loro esperienza. Anche nella mia. X impallidisce se provo a dirgli che lo amo. «Preferisco che tu non mi ami, così possiamo volerci un po’ di bene». Ma si inalbera quando rispondo: «Forse mi doveva toccare questa prova». Dice che ne ha abbastanza di violenza e dolore, che con me vorrebbe un rapporto sereno. Eh già, e allora io dovrei rinunciare a esprimere la mia passione e la mia soffecore RE - Mec renza:

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Sempre attaccata al telefono, come Claretta Petacci, che se

lo trascinava dal bagno al divano al letto.

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Immagine di stamane: stavo leggendo a un certo punto si è allentata la fissazione di telefonare d X. Ho visto me stessa che mi toglievo da una grande ragnatela, me l’ero svolta di dosso e coi piedi la spingevo via come quando ci si toglie calze o stivali. La cacciavo via ridotta a straccetto e di nuovo mi arrivava alla nuca, e di nuovo la trasferivo ai piedi e me ne liberavo, in un continuo passaggio.

Penso che un anno di analisi mi abbia predisposto a questa vicenda d’amore e che G. mi abbia incoraggiato. Glielo dico, e lui si impazientisce un po’:

— Ma insomma non Le era mai capitato? un amore infelice? Eh no, non mi era più capitato da quando avevo diciassette anni, nei balordi anni cinquanta. Nei vent'anni successivi mi

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et. 1

disamoravo in fretta se uno non mi amava, ci mettevo pochi giorni o settimane. Se penso al fastidio — un attimo di lusinga e già subito irritazione — che mi dava l’essere destinataria di richieste d’amore che non volevo/potevo corrispondere. E il ritrarsi aumentava la frenesia della richiesta, come ora capita a me. Forse per questa inversione, mi sento come chi deve attraversare una prova. E anche perché spero che alla Sine queste sofferenze ricevano un senso. oo dedav Mi torna spesso in mente l’immaginé di Griselda, andata sposa al marchese di Saluzzo, scapolo impenitente, che per mettere alla prova il suo amore, le toglie i due figli fingendo di ucciderli; la ripudia e la caccia con la sola camicia indosso, ma poi la richiama per far preparare da lei le sue nuove nozze con una bella giovane. Infine le rivela che la giovane è una dei due figli, entrambi salvi e fiorenti, le dichiara il suo amore dopo tredici anni («sopra ogn’altra cosa t'amo»), onorandola e facendola onorare. In questa fase si presentano insieme, mescolate, la tensione religiosa e l’amore per X. Ma l’uomo si fa spaventare — giustamente — da una donna che esplode. Solo un dio potrebbe corrispondere tutta questa emozione. Solo l’i.? solo il rapporto con se stessa?

X ha telefonato che parte. Per due settimane sono salva. Che cosa è tutto questo?

Schiavitù, miseria, schiacciamento.

Ancora l’economia di rapina, anche nell’amore: a tutti i costi possedere e essere posseduti, in modo esclusivo. Vorrei un amore rispettabile, un rapporto di coppia meno all'insegna della passione.

Sogni molto macchinosi, lunghi, complicatissimi. G. quasi non riesce a seguirne i resoconti dettagliati e pedanti. 62

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Questa storia d’amore è un modo di sperimentare rapporto con l’inconscio, in un altro suo travestimento. Giocoliere, imbroglione, giullare, menestrello. Burlone, buffone, bric-

cone — trickster. Ermete. È anche una ricapitolazione del\l’adolescenza: religiosità incantata, grandi amicizie, amori infelici. E poi è la prova: amare senza essere amati, ma neppure respinti. Attendere senza che ci sia nulla da attendere, accettare il proprio desiderio dell’irraggiungibile, la propri licità nell’oppressione. La distanza tra l’altro e me stessa può essere vissuta come distanza interiore tra avamposto e resistenza: esercizio da fare ogni giorno, allargando lo spazio interiore con lo strazio.> 0-46, Se è una prova, non va solo verso il passato, ma verso un futuro. Però lo sguardo al passato, il senso dell’espiazione per contrappasso, è una tappa obbligata. Quello che avevo teorizzato negli anni sessanta mi si ritorce contro.

Avevo fatto ad altri quello che X fa a me, separare i sentimenti dalla sessualità, pretendere una libertà e una disponibilità che sono sempre fasulle, cioè modi di sfuggire al rapporto con sé per somigliare a don Giovanni. Il contrappasso serve a bruciare ogni autoindulgenza e la nostalgia del passato, che ancora esiste. Si acquatta e salta fuori all’improvviso, a farmi rimpiangere quand’ero giovane e bella, mentre ora sono qui, immobilizzata e costretta a cuocere a fuoco lento. Mi ricordo come mi piaceva viaggiare, come spiavo le differenze tra paesi e città. Non può più esserci l'abbandono lieto e avventuroso che prendeva viaggiando in auto con un amico-amante. Ci si fermava a comprare le sigarette da uno di quei tabaccai sulla strada, polverosi e zeppi, quasi bazar, e si ripartiva scherzando, alle prime luci della sera, cercando un ristorante o un’osteria.

Ero posseduta, negli anni sessanta, dallo spirito dei tempi: voler essere felici subito, come se dipendesse solo da una

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contrattazione o da ragionamenti chiari e distinti. Mi sentivo disposta per questo a scelte truculente e brutali. Ero tornata dagli Stati Uniti con la ribellione che stava covando e avevo sviluppato una forte complicità con tre ragazzi miei coetanei. Due erano amicissimi, stavano sem-

pre insieme; a loro si univa spesso un altro, che viveva in campagna, nelle Langhe. Ero diventata la donna di uno dei due amici (che era stato uno dei miei primi amori, quello simile a James Dean), e il gruppo si era ricomposto a quattro. Insieme cercavamo di mettere in pratica un'ispirazione

di rivolta: comportarsi sempre al limite della provocazione, non mentendo mai, usando parolacce, andando in giro la notte, leggendo romanzieri e poeti maledetti. Avevamo una vecchia seicento, con la quale andavamo a trovare il compagno delle Langhe,.luogo dei nostri miti. Ribartivamo con lui, strepitando per colline e osterie, a cercare posti dove assaggiare vini e far gare tra noi per indovinarne le annate.

Sognavamo di trovare una casa in una verde valletta e di abitarci tutti insieme, coltivando la terra, ascoltando musica, scrivendo e studiando.

Noi tre avevamo preso in affitto un appartamento nella città dove frequentavamo l’Università; una stanza a testa, pochi mobili: letti, tavoli, moltissime sedie, versatili come nessu-

n’altra suppellettile. Perseguivamo il disordine in senso letterale: i piatti non venivano lavati per settimane e si forma-

vano muffe gigantesche. Vivevamo giorni e giorni nella penuria, mangiando solo patate e uova — vino ce n'era sempre. Improvvisamente arrivava qualche soldo e allora: formaggi francesi, cene sontuose. In quella nostra casa libera passavano molti amici e compagni di università, e ogni tanto vi si rifugiavano fuggendo le famiglie; dormivano su materassi per terra o nella vasca da bagno. Con il portinaio era guerra aperta.

Godersi il buon cibo, la cucina piemontese sopraffina, i tartufi, era in felice contrasto con un’impostazione generale 64

che negava le gratificazioni sociali, la carriera, il rispetto umano. Cucinavamo a volte per un pomeriggio intero, magari un fritto misto colossale, con tutti i pezzi richiesti dalla tradizione. In mezzo al disordine e alla sporcizia continuavo a vestirmi come una signora. Andavo con la mia amica di allora da una sarta che copiava per noi modelli francesi, e ci facevamo fare abiti di stile e colori coordinati: il mio beige a motivi bianchi e il suo nero a motivi beige, oppure due tailleur molto simili ma in tinte diverse. Era un gioco ancora suggerito dalla comunità di provincia e basato su un’altra complicità, tra ragazze. Gli uomini ci guardavano, ci si proponevano. Noi ridevamo: «preferisco la mia amica», con reciproca civetteria. Il travestimento durava nel trucco, occhi bistratti in bianco e nero, niente rossetto. Il trucco dell’occhio richiedeva tempo e abilità, con la matita bianca e il bianco anche

dentro l’occhio. Era molto vistoso e dava un’aria perduta. I miei due amici trovavano insopportabile la cravatta e si rifiutavano di indossarla in occasioni importanti. Bastavano queste cose, che suscitavano sguardi o reazioni di fastidio, a tenerci sulla corda, alimentando il nostro bisogno di trasgredire. Nei rapporti con gli altri l’irrisione era il tono costante. Le trasgressioni degli anni successivi avrebbero aperto altre porte di autodistruzione, per le generazioni più giovani. Allora qualcuno fumava qualche spinello, senza grande convinzione. Lo spregiavamo, come troppo lontano dalla nostra tradizione letteraria, che era pavesiana e piemontese.

La trasgressione più forte era la pratica libera della sessuali tà. Avevamo letto molto Henry Miller, leggevamo Wilhelm

Reich. Eravamo convinti che l'orgasmo combattesse la repressione della società borghese, oltre a demolire la corazza

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caratteriale. Irapporti venivano subito sessualizzati, soprattutto quando erano intensi. Era l’idea di rompere le frontiere, di fare tutto, sulla base di un impegno: «sdrammatizzia-

mo la sessualità, non se ne può più di tutte queste storie: verginità o no, chiavare o no. Quando uno ha voglia lo dice» e la risposta ideale era: «perché no? ». Avevamo imparato questa formula da Simone de Beauvoir o meglio da Sartre, che così aveva reagito all’annuncio che a lei sarebbe piaciuto trascorrere un anno con Nelson Algren a Chicago: «Pourquoi pas?». Su quelle due parolette si potevano fare

molte cose apparentemente prive di senso. Il senso era distruggere.

Abolire la connessione

tra sessualità e amore,

negare la famiglia, infrangere la fedeltà. Vita da studenti, pomeriggi buttati: «Beh, che facciamo, andiamo a Superga? »«E andiamo» oppure: «E se facessimo l’amore?» «Facciamolo». Spesso era un puro esercizio, spe-

rimentazione che aveva a che fare con la testa e non col piacere o col desiderio. Avevo un modello, il personaggio di un romanzo di Lawrence Durrell, Justine detto all’inglese: Giàstin. Mi aveva impressionato il suo vagare per i bassifondi di Alessandria, intatta e irraggiungibile attraverso l’abiezione, non appartenendo a nessuno nonostante il furore di usare il suo corpo liberamente. Qualcuno segretamente la proteggeva, il marito Nessim, che la faceva seguire sia per difenderla sia per essere informato senza vietarle nulla. Nei romanzi successivi quella che sembrava una smania erotica risultava dettata da motivi politici, in una cospirazione condivisa col marito. Il corpo non era solo più lo strumento di annientamento della morale corrente dentro di sé, ma anche il tramite di oscuri

fini collettivi, di intrigo e liberazione a favore di una comunità segreta. Non sapevo allora che Justine poteva essere l’ultima incarnazione della Sophia gnostica, lafaccia femmi-

nile di Dio, sua saggezza e follia, perduta nel desiderio di

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essere come il padre e solo del padre, capace di alternare ascesi e orgia. Come lei anche noi ci sentivamo gettati nel mondo ostile; eravamo pochi, segnati dalla sofferenza e dall’estraneità alla massa dei ciechi. Anche noi sentivamo l'alienazione dal mondo e la voglia di estinguerlo.

Altra figura ideale di un nuovo empireo femminile era la marchesa de Merteuil, con i suoi insegnamenti gelidi: trascorrere da un amore all’altro con un savoir faire che copriva la spietatezza e esaltava l’astuzia della trama — allora mi pareva intelligenza — ostentando verso i sentimenti scetticismo e relativismo. Ogni legame era pericoloso: meglio sosti-

tuirvi il calcolo, o le dichiarazioni di intenti. Ma l’esempio principale restava Simone de Beauvoir. Lei e Sartre facevano le cose che avremmo voluto fare noi: scrivevano, viaggiavano, vivevano in alberghi anziché in case. Erano stoici e materialisti, erano liberi e estremi, senza aldilà. Avevano storie con altri ma si raccontavano tutto,

condividendo il mondo nella loro coppia onnivora. Eppure segnalavano il permanere della distanza dandosi del vous anziché del tu. Anche noi, io e il mio uomo, tentavano di

mettere in pratica quei modelli. Così facendo mettevamo a repentaglio il nostro affetto, la recibroca ammirazione, una

possibilità di intesa profonda.

— Assdonwo n ceade

closorogs

Da tutto ciò nasceva un’idea violenta di libertà, un andare

fino in fondo che nascondeva un certo odio di sé. Farla finita con l’immagine della donna madre, caldo e affettuoso rifugio; affermare durezza, freddezza, distacco, lontananza. Ma il rapporto ‘libero’ con un uomo diventava strettissimo,

luogo di fusione di idee e ideali, di contraccolpo alle esperienze con altre persone, di sofferenze non riconosciute, stabilendo una gerarchia che la coppia sovrastava. Non ricordo di quel periodo il sentimento della gelosia. Qualcosa dentro di me soffriva, ma non trovava le vie del

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sentire, si esprimeva mutamente.

Una sera dovevamo incon-

trarci a Parigi, dopo un’estate trascorsa ciascuno in luoghi diversi, io, l’uomo con cui stavo e la mia amica di allora

‘(quella sera senza vestiti coordinati). Tra loro due esisteva anche un legame sessuale. Mentre li aspettavo in uno degli alberghetti vicino alla Bibliothèque Nationale, mi venne una febbre altissima, che mi costrinse a letto, finché tornai in

Italia. Mi portavano volonterosamente cibi che sapevano piacermi, come la paélla, ma che non riuscivo a buttar giù,

con quella febbre. Febbre come gelosia, innamoramenti come infiammazioni dell’immaginario.

Aprile. cz Pasqua nella casa di amici in Toscana, tra boschi e colline. Riprendo a fare sogni limpidi, non più farraginosi; sono diventata sogni-dipendente, mi manca il fiato se non vengono. Uno: emergo dall’acqua profonda, molto più fonda di quanto credessi, un primo strato e poi altri, ancora ce ne

vuole per uscire; ma acqua chiara, non fatica, più respiro del previsto. Un altro: uova da cui stanno per nascere pulcini su raso azzurro come la mia ultima camicia da notte.

Stamane sono uscita presto nel giardino, tra cespi di rosmarini e lavande: di fronte la collina di olivi, i pali azzurri delle viti. Moto dell’immaginazione che incontra immagini di uomini, confusamente dice: «come saremmo felici qui con...». Perché mi giochi questi scherzi? Aiutami invece, scimmiolina, figurati altre cose. Facendo yoga, la prima volta che ho ripreso dopo la vacanza, ho sentito che avevo avuto la testa di X al posto della mia, che ora stavo riprendendomi. Alzandomi lentamente in piedi ho avvertito che cercavo di alzare la sua grande figura, alta e con larghe spalle, e non la mia, più piccola e minuta. Credevo di essere lui, volevo appropriarmi di lui.

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La sommità della testa è un luogo particolarmente rivelatore, in certi momenti: circondata da un nembo nero, da cirri

oscuri, nebbie e brume — forse per questo a volte cammino curva come col capo cosparso di cenere. Oggi invece: sulla mia testa cresce un papiro.

Tra sogni e ricordi ricostruisco una sfilata degli uomini della mia vita. Un dio dalle molte facce, dai grandi amori agli uomini appena vagheggiati per il loro aspetto, i loro sguardi. Che cosa li collega? Uno sguardo perso, vacuo o sofferente, sguardo bianco fuori dal mondo? Lafollia, il gorgo, il

nulla, attiravano mi negli uomini. Abbandonare un padre debole per donne forti. Ma poi tentar sempre di ovviare alla sua assenza con la scelta di un padre ideale e idealizzato — le idee — e rapporti con uomini misteriosi e imprendibili oppure fugaci e giocherelloni, o resi fluidi dall’alcool, fatti a immagine e somiglianza di un sé imprendibile. Essere attratta da un uomo che non c’è mai, vuoto che polarizza lo sguardo in modo ossessivo. Specchio del mio non esserci, non impegnarmi, darmi e sottrarmi,

saltar via come il sapone se lo si stringe in mani bagnate. Invece essere in me stessa, amarmi, vorrebbe dire anche

essere capace di amori realistici, che permettano di stare storicamente nel mondo, costruendo affetti in mutua solidarietà.

X telefona che è stato male. Le mie nuove chiarezze si dissolvono. Vorrei salvarlo dalle sue angosce. Mi basta un soffio per ricadere: che al telefono cominci a parlare senza annunciarsi, come se fosse inteso che è lui.

Ieri notte verso le due mi sono svegliata, furibonda per la mia vicenda d’amore. Sono stata ad almanaccare nel letto

per due ore prima che la collera si placasse. Anche verso G.: «La volta scorsa ho avuto un momento di

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irritazione perché Lei faceva i conti della mia fattura, mentre io ero impaziente di parlarLe». «Ha fatto bene a registrarlo» — impossibile smuoverlo. Insisto che è la prima volta che provo ira verso di lui. È un periodo in cui questo stato d’animo finalmente compare. G. indica il mio desiderio di tenere il nostro rapporto scevro dai soldi. Lo so che il pagare è costitutivo della relazione. La stranezza è che l’artificiosità, un rapporto prezzolato, costruito in laboratorio, funzioni. «È assurdo accettare di affezionarsi a uno che paghi», mi ha detto un amico. «Ma anche di esserne corrisposti», aggiungo io. Maggio.

Ieri pomeriggio alle 4, già pronta per andare da G., vomito. Revulsioni violente, vomito che non riusciva a espellere il risone colloso mangiato a pranzo. Avevo tentato di riprendere la dieta steineriana che alterno a quella piemontese, perché la sera prima con X avevo mangiato e bevuto troppo. Brividi, nausea, ore di vomito. Nelle convulsioni — seduta a terra, temevo di non farcela, batticuore — sentivo insieme il

bisogno di espellere il cibo quest'uomo e da dentro di me. Tutto quello che credevo di aver digerito è tornato a galla. Vomitare il desiderio di dedizione senza limiti, la disponibilità assoluta, la rinuncia a ogni libertà. Son riuscita a telefonare a G. solo verso sera. È saltato il dibattito, la riunione. Faccia coperta di puntini rossi, andranno mai via? Secondo il medico era una colica epatica. Oggi giornata convalescenziale. Fantasia di star così male che devono venire a trovarmi in ospedale X e il dottor G. Scena di Violetta che muore mentre il carnevale impazza per le vie di Parigi, e lei è sola. Alfredo e il padre non sono ancora arrivati; c'è solo l’assistenza del medico: «ah, un caro

amico», che non può salvare dalla morte. G. segue con interesse la sequenza su amore e vomito. E anche un sogno in cui dovevo mangiar merda di gatto e la

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sputavo. Indaga su questa faccenda della dieta, che non era mai venuta fuori. Gli spiego che nei due anni precedenti l’analisi avevo seguito rigidamente una dieta steineriana, a base di zucca, cipolle, risone, couscous e alcune — non tante

— verdure. Poi lentamente sono tornata ai cibi che mangiano tutti; con X anche al vino, al caffè, al salame e al

cioccolato. Ora alterno i due sistemi. Esprimo la convinzione di aver espulso insieme X e il suo cibo. Secondo G. invece ho espulso il risone, che gli sembra un po’ come l’esperanto, artificioso e indigeribile, più testa che corpo. Ma dice anche lui che il problema è più complesso, come oscillare tra due linguaggi fino a non riuscirne a parlare più nessuno. Zaira invece sostiene che la zucca intasa il fegato, finché non riesce più a eliminarla.

X è bello, è affettuoso, è allegro, mi prende per un braccio e mi porta a colazione, ordinando per me le cose più leggere. Vedendomi nello specchio del ristorante arrossisco tanto sono brutta. Se ne accorge, capisce: «Tu sei stata malata —

dice — la bruttezza è un’altra cosa». Ma io non cedo neanche per un attimo. — Ho un po’ di rancore verso quell’uomo, dico a G. — È terrestre (cioè: buon segno, per contrasto con la propensione al celeste). — Sì, ma vuol dire che non ho capito fino in fondo. — Il suo comportamento è stato... insensibile. Annuisce. Voglio smontare il rancore, scioglierlo, non lasciare che mi inquini. Mi sono comprata due sottovesti di seta, usate, bellissime. Mi sveglio pensando: fille de soie, fille de soi, un altro

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Voglia di adornarmi, di prendermi cura di me. Piacere delle gambe con belle calze e belle scarpe, piacere di collane, acque di colonia e foulard colorati.

Povero io, ha quasi filato la lana come Eracle. L’ho letteralmente messo a far lavori di casa, con' la mia ricerca della

femminilità. Ho fiaccato il suo orgoglio facendogli ingoiare la posizione subordinata di amante. Ho rifiutato conferenze, convegni, non gli ho più dato neanche le gratificazioni del lavoro. Avevo inteso il ritorno al femminile come oggettivo: la sfera del cibo, dei vestiti, dei gioielli, dell’ornarsi. Periodo rosa

fumetto: un transito attraverso la femminilità tradizionale. Ma valeva la pena passare di lì. E anche: passare per il disonore. Un’amica mi regala un mazzo di peonie rosa tenero, grandi e con boccioli alle varie fasi, più duri, più morbidi. Loro splendore, profumo, pesantezza e leggerezza insieme delle corolle. Giugno. Continuo a non saper che cosa mangiare, a non poter scegliere tra i due sistemi alimentari. Ricordi di vecchi cibi: gallette, polenta. Cose che un tempo si mangiavano sempre, ora abbandonate: riso e latte, minestra di castagne, semolino, caffellatte per cena.

Ho sognato un uomo col nome del mio analista a Tunisi. — Curioso — fa lui — Lei sapeva che ero a Tunisi? Proprio non lo sapevo. Ma è una sola delle molte ‘coincidenze’ che compaiono in analisi in questo periodo. Ancora G.: «non gonfiarsi per le coincidenze».

2.

Passeggiata con X sulle rive del Po. Ci vediamo a tempo limitato, e all’aperto, di comune accordo.

Sogno che vado a comprarmi un body in un negozio di articoli religiosi. — Non le sembra un po’ strano? — sogghigna G. Cerco di difendere il sogno e la sessualità come pantomima del rapporto con l’assoluto. L’assoluto è proprio quello di cui G. diffida. Serie di associazioni. Ricompare un vecchio sogno, connesso con questo. G., come un a parte sul palcoscenico: — Cercare un corpo nella religione conduce a mangiar merda di gatto? Luglio. Separazione da G. anzitempo, perché entrambi dobbiamo partire. Commiato diverso da quello dell’anno scorso. Ancora una volta condivide un mio dolore, che diventa ricono-

scibile e accettabile se c'è anche il suo. È l’essere capace di dolore senza soccombere che ne fa una buona guida. Sono asimmetriche le nostre due memorie e le nostre posizioni, ma ci sono cammini e luoghi condivisi. Avevo fatto un sogno di pesce secco e patate in grande quantità. Cose da portarsi in viaggi per mare, provviste umili per chi sta via a lungo. Oxford. Durante la riunione, guardando il cielo grigio, risaltano per contrasto i colori che hanno dominato l’analisi —

sogni, discorsi, vestiti — negli ultimi mesi: viola, lilla,

fucsia, bordeaux. Per me sono simboli dell’unione tra rosso e blu, tra passione e ragione, tra vicino e lontano.

Stasera a cena pesce e patate — ma in Inghilterra non è difficile. Assisto alla lenta separazione tra la voce di G. e quella dell’i. 73

Un’aiuola di peonie a St John's College: rosso-viola, rosee e bianche. Funzione nella cattedrale di Oxford, con coro di fanciulli e giovani, molto solenne. Il vangelo, di Luca, conteneva le

parabole sull'uomo che ritrova la pecorella smarrita e la donna che ritrova il pezzo d’argento. Avocare tutto questo a sé, riprendersi l’oggettivato nella religione e riportarlo in soggettività. Così mi sento io: in fase di ritrovamento. Ma

non posso riaffiorare troppo presto: pesci e patate stanno sotto la superficie.

Passeggiata con Fay in Waterloo Park, entrambe con l’allergia da fieno. Ci compriamo due ciotole di legno fatte con lo stesso pezzo di tronco. È la sola cui racconto della mia analisi, e lei mi narra la sua; le abbiamo cominciate nello

stesso momento e, sia pur diversissime, procedono con qualche parallelismo. Ci aggiorniamo ogni sei-otto mesi, con qualche cartolina nel frattempo. I parallelismi sono anche più antichi: un comune amore per il mondo verde di Oz, in particolare per la finestra che mutava continuamente paesaggio e per la possibilità di cambiar testa. Le racconto anche la storia di Belinda e delle rose bianche, segno per me dell’impossibile amore col padre. Parlando con Fay emergono altre parti della mia vita che in genere lascio in ombra. In inglese sono più dicibili, lasciano da parte un po’ di vergogna; qui posso trattare di me come se mi vedessi da lontano. A metà degli anni sessanta il gruppo di pari, la banda, si era rotto. Era intervenuta la passione tra me e il terzo compa-

gno, quello che era stato l’intimo amico del mio uomo. Inevitabile, perché l’unica vietata. Era possibile tra noi un abbandono, anche fisico, che non avevo mai conosciuto e di

cui forse non ero capace, se non per brevi periodi. Quella

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vicenda durò pochi mesi, interrotta dalla morte di mia nonna e da un mio aborto. Non provai dolore per la morte della nonna che mi aveva cresciuta, non piansi, non sentii lutto.

Forse agiva ancora il rancore perché tanti anni prima mi aveva nascosto la morte di mia madre, lasciandomi credere

per mesi che fosse ricoverata nell’ospedale di un’altra città. La decisione di abortire era stata presa per automatismo:

non avevo mai pensato di avere figli, era completamente al di fuoridelmio-orizzonte. L'aborto avvenne nelle condizioni clandestine di allora: difficoltà di trovare il denaro, tavolo da cucina, dolore che tagliava le viscere. Il mio uomo che mi aspettava fuori, con faccia sofferente; la solitudine dei pensieri successivi.

Su queste vicende si ricostituì la coppia, sempre molto stretta e ricca. Avrei dato il mondo per quell’intesa, figuriamoci se non potevo sacrificarvi un amore. Così facemmo l’errore di reprimere quello che metteva in pericolo la nostra unione invece di accettare le contraddizioni, di voler restaurare la

fusione anziché riconoscerne gli sgretolamenti. Io ero fiaccata da tre perdite, inconsapevole di aver perduto e di soffrirne. Il mio linguaggio prese a rispecchiare cinismo e amarezza; usavo termini forti, espressioni secche o mordaci, ero

ibercritica, derisoria, tagliente. Mi rafforzava in questo atteggiamento un clima culturale di allora. Frequentavo la facoltà di filosofia, trovando consono al mio stato d’animo l’insegnamento di un professoremaestro, che irrideva ogni metafisica, tagliava i ponti con la trascendenza, insisteva sulla precisione del linguaggio, addirittura della pronuncia. Relativismo di tutte le culture, attenzione alle punte avanzate delle scienze sociali, orrore di ogni ridondanza della parola, che trionfava in altri docenti. L’esistenzialismo era ammorbidito della sua negatività originaria, ma mantenuto come punto di partenza: la prospettiva di porsi al punto zero dell’esistenza. Il fascino di quell’insegnamento stava anche nella contraddizione tra l'eleganza e

VI

la vitalità della persona — nel parlare, nel muoversi, nel pensare — e la negatività di alcuni messaggi. Erano messag-

gi di emancipazione, che invitavano a liberarsi di ogni dogma, e rivelavano un’insofferenza per tutto ciò che non era dicibile in termini precisi; esortavano ad andare a fondo nel

prendere le parole alla lettera, ma anche a tagliare ogni riverbero verso il non detto. Forse negli allievi l'equilibrio si rompeva e tendevamo a manovrare troppo presto quello che ritenevamo il rasoio della ragione. Andavamo, sotto la pressione dei tempi, verso la politica,

quella che potevo accettare senza smettere di irridere la politica e isuoi valori. Nel’63 c’era stata l'occupazione della facoltà di architettura. Un enorme striscione campeggiava sul castello del Valentino; all’interno sacchi a pelo, chitarre,

lunghissime discussioni sull’urbanistica (che non era ancora materia di insegnamento) e la connessione tra l'architettura e la politica. Con altri quattro amici (quattro in senso letterale) scoprimmo gli scritti dell’Internazionale Situazionista. Ci ritrovavamo nell’atteggiamento beffardo, nel gesto liquidatorio dell’happening che disturba le serie cerimonie culturali, nel puntiglio di chi prende alla lettera l'avversario per dimostrarne la vuotezza. Ci seduceva la pratica ostentata dell’intelligenza, mentre si irridevano tutti gli intellettuali più in vista. Ci entusiasmava la certezza dell’internazionalismo già tutto realizzato, che non stabiliva gerarchie tra primo, se-

condo e terzo mondo. Le rivolte nei ghetti neri degli Stati Uniti, dove ci si appropriava della merce, segnalavano che il capitalismo veniva preso in parola, la pubblicità smascherata insieme con la merce, utilizzata e sdrammatizzata nello

stesso tempo. Ci piacevano anche l’insistenza sull’avere il meglio (e contemporaneamente l’irrisione del meglio: carta patinata, foto, copertine luccicanti); l’idea di «compromesso situazionista», che nella scelta tra due beni optava per

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entrambi; i détournement, che inserivano parole di Marx nei fumetti più noti. Praticavamo qualche «deriva» — l’abbandonarsi ai flussi urbani analizzando in seguito le implicazioni dei percorsi che ne nascevano — come critica della vita urbana, che faceva parte della critica della quotidianità alienata. Nel °66 andammo a Strasburgo, dove alcuni studenti e qualche situazionista avevano conquistato la struttura di governo studentesco e l'avevano usata per dissacrarla. I fondi erano serviti per la pubblicazione dell’opuscolo Della miseria nell’ambiente studentesco, che traducemmo in ita-

liano con una premessa sulla rivoluzione come festa e gioco, aggiungendo l’abituale formula situazionista che rifiutava ogni copyright. Avevamo formato un gruppetto filosituazionista (non entrammo mai nell’organizzazione, evitando così di esserne espulsi, come accadeva inevitabilmente), che all’inizio del

°67 scrisse un documento sulla rivoluzione quotidiana e lo presentò a un convegno su «movimento studentesco, cultura di classe, lotta politica». Il gruppo — composto dai soliti cinque — aveva una casella postale e si chiamava «gruppo uno», non ricordo per quale ragione. Certamente non nella speranza che ne seguissero altri, perché un cardine era l’orgogliosa certezza di essere pochi. Un aggettivo ricorrente in

quel documento era “risibile’, applicato soprattutto ai ‘pro. gressisti della sinistra’ che proponevano riforme dell’università e del sistema; risibili erano anche il tempo libero, le vacanze, tutte le illusioni della società dello spettacolo. Usa-

vamo termini provocatori come ‘la menopausa dell’intelligenza’ e ‘la mafia resistenziale’, per indicare gli intellettuali di sinistra. Quando presentammo il documento al convegno, a Verona — lo esposi io, completamente vestita di nero come avevo preso a fare in quel periodo — suscitammo

qualche scandalo. Una nostra ex insegnante di liceo, antifascista e militante dello Psiup, ci ammoniva indicando le

UA

somiglianze tra i nostri estremismi verbali e quelli del primo fascismo. In seguito al convegno facemmo un incontro a Milano con il

gruppo di Università Negativa di Trento, molto più numeroso del nostro. Discussione a oltranza; alcuni di loro prendevano metedrina per star svegli e perder meno tempo di vita a dormire. Al termine di una giornata spossante Renato Curcio improvvisamente si interruppe e dichiarò di aver capito la differenza fondamentale che divideva i due gruppi: « Voi non siete leninisti?!», ci accusò in modo quasi interro-

gativo data la gravità del fatto. Confermammo che non solo non eravamo leninisti, ma neanche marxisti nel senso in cui

lo erano loro. Ci incontravamo su una comune visione del mondo, una volontà di eversione, di critica, di rottura del

perbenismo. I compagni di Trento furono intransigenti: era inutile continuare a discutere con quella divergenza. Il nostro gruppetto — passato da cinque a quattro perché uno non era d’accordo sulla nostra prassi — si incontrava con i giovani di un quartiere operaio, che avevano organizzato una mostra sul Vietnam e una sottoscrizione per il

Fronte Nazionale di Liberazione. Li trovavamo in piazza dopo cena e si discuteva con loro di imperialismo, si criticava l’idea di partito, si commentavano i fatti politici. Mostravano un ostinato desiderio di persistere nella situazione in cui si trovavano — quella piazza, quella gente, quella quoti-

dianità — ma pretendevano di metterla in comunicazione con i problemi mondiali. Quello era ormai lo spirito dei tempi. I giovani della piazza erano di origine operaia; tra noi e loro si instaurava l’attrazione reciproca che spesso scatta tra persone di ceto diverso, soprattutto tra operai e intellettuali. Rispetto a noi loro erano politicizzati da più lunga data, provenendo dalla FGCI, ma si stavano scuotendo di

dosso quella formazione. Noi ci avvicinavamo alla politica solo allora e così ci incontravamo a mezza strada. Tutti eravamo ugualmente polemici nei confronti del PCI, che

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comunque, quando pioveva, ci offriva le sale della sua sede per continuare a discutere.

Agosto. Mi rifugio nella casa in Toscana dove posso sempre tornare, tra alberi, persone amiche, silenzio. X è in vacanza con la famiglia e qui non c'è il telefono. Traversando il patio al sole — gelsomino e fiori dell’hibiscus — cogliendo con lo sguardo una formica sul muretto del terrazzo fiorito di muffa rosa e grigia: gratitudine, oggi c’è tempo, c’è requie dall’alternanza di gioia e dolore dei mesi

scorsi. Lavoro ogni mattina a costruire il montaggio di interviste

per il libro inglese sulla generazione del ’68. Meccanicamente, obbedendo ai criteri che sono stati impartiti.

Black-out dei sogni; anche l’i. è in vacanza? Confronto con Zaira il panico che ci suscitano certe figure della femminilità. Per me: le figure che contengono infingardaggine, pigrizia, civetteria, malizia, frivolezza, esclusione dal pubblico. Per lei: la grande madre oscura, immobile e disapprovante. Qualcosa sta tramontando dopo essere stato fortemente riattualizzato, in modo che non mi pareva sostenibile: il rimpianto del gruppo di pari. È davvero finita con gli amori tra eguali: gli adolescenti, gli amici, i dioscuri, i giocatori, i goliardi, la coppia che irride il mondo, stando in rapporto di alleanza e competizione. Ora l’amore è esperienza dell’altro, che più altro di così non potrei reggere.

Frugalità, ripetizione, rappacificazione. Gli odori delle erbe Vi)

officinali colte nel giardino, salvia lauro timo, stabilizzano,

restituiscono, come a volte il gusto del tè. Adesso potrebbe cominciare ad avere un senso la solitudine. Non il senso del fine ultimo, ma uno in corso, per così dire:

si tratta di raggiungere una radura, uno spiazzo, dove gli affetti siano radi e validi, una dilatazione sufficiente a misu-

rare la mia vita. Anche il rimpianto di non essere più giovane, di vedere lo sfrangiarsi del viso e del corpo, si fa meno pungente. La vita comincia a disporsi su un piano di equidistanza, non è più tutta spasmodica, si sgrana dal passato al futuro indipendentemente da me. Son comunque sempre qui che piango un’assenza, questasvolta dell’analisi. Mi è venuta paura di

perdere il mio posto da G. Ritorno a casa. Solitudine intensa, è come la1morte, nessuno può viverla al mio posto. Affiora un sogno, ma così semplice che mi chiedo se ho davvero sognato o se non fosse invece un momento di torpore: una mosca e una zanzara che intrecciano i loro voli lungo una diagonale che sale come i miei convolvoli sul balcone. Traiettorie a nodi, a curve, a cerchi, non certo strade lineari.

Animali parassiti, inutili e dannosi. Però anche beffardi, lievi, svagati. Così l'i. si fa sentire di nuovo, con appena il sottile ronzio dei più vili insetti, di cui è pieno il mondo e che si schiacciano

senza pensarci. I. come inconoscibile e inafferrabile e imprevedibile. Un messaggio ancora più tenue di quello di essere come gli uccelli dell’aria: lasciarsi andare come un moscerino, senza pompa, ma a qualcosa di insistente, ineliminabile.

Mi manca il riso di G. Sensazione netta che morendo dovrei lasciare qui tutto: libri, vestiti, amici, se la morte salisse ora dalla strada estiva,

calda e rumorosa.

Mi dispiacerebbe per alcuni cammini

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ancora da percorrere, come quello con G., per un libro che vorrei scrivere, per il bambino di un’amica che vorrei veder crescere. Serata con X, di quelle che piacciono a lui, senza futuro,

senza progettualità, sospese nel vuoto. È ripresa l’ossessione del telefono. Sogno di liberare i bambini handicappati di un ospedale sul fondo valle. Corrono su per il pendio di neve in salita, gridando di gioia, una gioia scatenata. C'è un bambino piccolo, che dovrebbe essere anche lui tra gli handicappati, ma nella visione del sogno è bello e solido, vestito con una maglietta verde-blu. Esito a invitarlo, temo che sarà un peso nel viaggio, poi lo chiamo con affettuosità: «come on, kid». Lui mostra una gioia grandissima, genuina, pura — non ho mai visto una gioia simile — e andiamo: è buono, bello, irradia una contentezza che non si può dimenticare. Ma dobbiamo ancora fare i conti con i cattivi, una banda rivale.

Settembre. G. è tornato. Avevo delle incertezze al primo incontro: tra luglio e agosto, nonostante il periodo di black-out, erano

quasi cento sogni, facendo un rapido calcolo. Dopo aver narrato un po’ a casaccio, ho trovato l’immagine del bambino gioioso come filo conduttore. «Forse è per la gioia», riflette G. È per la gioia che si fa l’analisi? oltre che per condividere il dolore?

Sogno un cambiamento della stanza in cui ci incontriamo, delle chaises longues, con G. alle mie spalle. Un giro intorno all’altro, che si sta compiendo? Affiora una floridezza del semplice mangiare cibi elementari

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ascoltando musica, un percepire di nuovo, dopo molti anni,

lo splendore delle cose più inaspettate, le stanghette marezzate di rosso degli occhiali, lo scintillio dei rubinetti nel bagno, un vaso di olive sul tavolo. Ottobre. Riprendo a lavorare molto. Ma si è creata una fessura tra l’io e l'identità. Non sono più niente di preciso, sono un misto di pieni e di vuoti, passerella sdrucciolevole e accidentata sul fiume. Non sono il mio lavoro, né un amore, né un progetto politico. In questo teatro interiore non c'è uno che comanda, ma un’intera compagnia di teatranti, sganghera\ ta, fra lazzi e frizzi di bassa lega. Anche il corto circuito tra immagine interiore e X si è incrinato.

pa

Con G. ieri seduta disturbata: dal suo dover fare la ricevuta, dalle mosche, da due telefonate, da squilli di campanello. Un po’ mi secco, un po’ sento che tutto fa parte.

X viene a cena, gli dico che non l’amo più, lui non ci crede. Serata dura, di contrapposizione, quasi un corpo a corpo. Però è vero. Non più come prima.

Trovo al mercato rose bianche a un buon prezzo. La puella riprende quota, stufa degli eccessi di Griselda. Ma voglio io un destino di donna, non di ragazza. _—r__r

Sogno ricorrente della cassetta delle lettere nella vecchia casa della nonna, sotto l’androne. Nel sogno non si sapeva se la casella era mia o no, se l’avviso dentro di essa fosse

davvero per me. Novembre e dicembre. X è tanto più gentile quanto più sono staccata e critica. Solo quando gli dico che non vedo in lui nessun effetto dell’anali82

si, che mi pare la faccia a tempo perso, con la scusa di tutti i suoi viaggi e di un analista compiacente, si irrita per un

attimo. Ma lascia cadere il discorso. Confusione, ristagno, sospensione. Molto lavoro.

G. è contento, quasi mi applaude quando gli annuncio che sono diventata professore associato. Così si sana anche la situazione finanziaria. Non ho voglia di un altro Natale da sola, accetto l’invito a Cambridge di vecchi amici dell’Africa. Una vera famiglia, genitori e due figli, che ospita per Natale alcuni single, come me e Eric, dopo tanti anni. Rifiutare tutto, prendere le distanze da tutto, questo era il

sentimento che mi aveva spinto in Africa e prima nel situazionismo, insomma nell’opposizione, nell’illusione di tro-

varsi fuori e contro. Una noia in senso forte di ogni cosa, di me stessa soprattutto; voglia di annientarmi, di negare, di

azzerare.

Ero partita pensando di non tornare. Avevo venduto tutto quello che avevo, dalla mia collezione di fantascienza ai mobili e all’alloggio lasciati dalla nonna. Mi pareva di non lasciar molto: dopo la laurea ero vissuta di borse di studio, di traduzioni, di ricerche per il C.N.R.

Eravamo andati all’avventura, per convinzione terzomondista e perché il mio compagno voleva sostituire il servizio civile a quello militare. Non sapevamo esattamente che cosa avremmo fatto. Inseguivamo la rivoluzione, la guerriglia, la memoria della Resistenza. Prima di partire andai a parlare con i vecchi amici partigiani: mi raccontarono come si fabbricava una miccia, come si poteva far esplodere un'auto su

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una strada sterrata. Per fortuna — data la mia completa inettitudine — non si trattò mai di cose simili. Abitammo dapprima in Kenya, dove diventammo amici con alcuni membri del partito di opposizione; ma era ridotto all’impotenza, in un clima culturale e politico oppressivo e stancamente illiberale. In seguito mi trasferii da sola a Dar es Salaam, dove capii finalmente a che cosa potevo servire. Misi a disposizione del Frelimo — Frente de Libertacao de Mogambique — le mie conoscenze di tipo storico-sociale e la capacità di scrivere in varie lingue, che furono utilizzate per scopi di informazione e propaganda sia all’interno del paese sia all’esterno. Era un lavoro bello e appassionante, con persone straordinarie, animato dalla creatività propria e altrui; il riconoscimento reciproco rendeva sopportabili le enormi difficoltà. I compagni mozambicani mi erano grati di aver raccolto, letteralmente da terra, le poesie prodotte da

militanti di ogni rango, in portoghese mischiato a lingue africane. Erano sparse dovunque nel vecchio quartier generale sulla Morogoro Road a Dar; le raccoglievo come collezionavo documenti politici, ci riflettevo e scrivevo su, le

inserivo in una storia della liberazione del Mozambico e dei suoi popoli. Non avendo più una casa, vedevo realizzati i miei ideali di vagabondo; ero ospite a turno di vari amici e conoscenti; le case erano grandi, nel campus universitario c’era sempre modo di sistemarsi. In seguito mi spostai in Zambia per fare una raccolta di materiali simili sullo Zimbabwe e sul Sud Africa, senza la stretta collaborazione che avevo avuto col Frelimo. Mi rammento i giri nei quartieri africani di Lusaka, privi di nomi delle strade, a cercare movimenti e gruppi poco noti, a intervistare vecchi esiliati sudafricani di origine trotzkista. Ricordo le discussioni con i giovani dei due partiti avversi, Zapu e Zanu. A questi ultimi mi sentivo vicina, sebbene sostenessi la Zapu, lungo la linea che privilegiava il Frelimo, l’Anc per il Sud Africa, la Zapu per lo Zimbabwe, l’Mpla per

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l’Angola, anziché i partiti avversi. Ma i giovani della Zanu parlavano un linguaggio che riconoscevo: violenza verbale, sfiducia verso l'Europa, dai suoi governi ai suoi partiti comunisti, critica da sinistra al Black Power statunitense. Di-

scutevo interminabilmente con i miei ospiti, che erano vissuti a lungo in Zimbabwe per ricerche antropologiche sul campo, della contrapposizione Zanu/Zapu. Era il caso in cui la scelta tra movimenti antagonistici riusciva più difficile e meno convincente.

A Lusaka avevo conosciuto Eric, appena sfuggito alle terribili prigioni sudafricane in cui era stato tenuto in isolamento totale. Abitavo allora da un amico che insegnava letteratura inglese all’Università. Stavamo piuttosto lontano dalla città, in una bella casa di pietra governata dal maggiordomo zambiano, di nome Simons. Simons osservava con occhio critico la mia mancanza di inglesità, soprattutto evidente

nelle abitudini della prima colazione. Mentre ero ospite lì, fu organizzata una festa, per la quale si prepararono, sul prato davanti alla casa, bidoni di birra africana e si arrosti-

rono varie capre. Alcuni ospiti neri ridevano perché nella divisione delle parti di carne erano toccati agli uomini pezzi che tradizionalmente sarebbero andati alle donne e viceversa. Mentre cercavo di filtrare attraverso i denti il liquido della birra fatta con farina spessa, che bevevo per africanismo, comparve Eric. Mi offrì delvino che aveva portato con sé. Non poteva essere portoghese o sudafricano perché boicottavamo i prodotti di entrambi i paesi. Era vino francese, che Eric stappò con cura e assaggiò attentamente prima di offrirmelo. Lo beveva socchiudendo gli occhi, con intenso piacere, citando Omero a proposito del Mediterraneo color vino. Quei momenti di rilassamento interrompevano un clima di violenza e di tensione, in cui si alternavano sospetti, intrighi,

pettegolezzi. Vedevamo la Cia dappertutto e spesso c’era davvero; alcuni personaggi erano noti come suoi agenti e la

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cosa era accettata come ordinaria amministrazione. Gli attentati politici erano una realtà pressante. Avevo conosciuto il presidente del Frelimo, Eduardo Mondlane. Una sera si era discusso a lungo in casa sua di progetti di alfabetizzazione e educazione politica nelle zone liberate. Il mattino dopo era venuto a chiamarmi uno degli amici presenti la sera prima: il presidente era stato dilaniato da una bomba mandatagli per posta. Dopo quell’assassinio si accelerò il processo di disgregazione della comunità di bianchi radicali che ruotava intorno all’Università, ai movimenti di liberazione che avevano a Dar il loro quartier generale, agli ambienti progressisti del governo tanzaniano. Quest'ultimo non rinnovava più i visti,

scoraggiava dal restare. Mi trasferii al Cairo, continuando la raccolta di documenti politici e di materiali informativi. Al Cairo c'erano allora persone interessanti, sia del Frelimo, sia alcuni angolani che

volevo incontrare, perché non facevano parte di movimenti riconosciuti ed erano sostenuti dalla Repubblica Popolare Cinese. Ma anche al Cairo ebbi l'impressione crescente che il ruolo dei simpatizzanti bianchi fosse sempre più esile, mostrando i limiti di quel mettersi al servizio, che abbandonava le città del mondo per le campagne dei popoli oppressi. Erano stati anni di grandi speranze, di amicizie forti, di convinzione di contribuire a creare culture nuove e persone

nuove, soprattutto a Dar, che ospitava allora molte rappresentanze diplomatiche, comprese quelle di Cuba, della Cina Popolare, del Vietnam. La loro presenza alzava il tono del clima politico nella città, faceva sentire direttamente in contatto con quei paesi in trasformazione, accentuava il senso

di un grande impegno comune in cui bisognava schierarsi, lottare, dare senza riserve. Tutto questo nel quadro della costa africana orientale, con le sue tradizioni arabe e africane. Ricordo il mercato colorato di Dar, il bagno nel mare la

sera con la luna piena enorme, i vecchi alberghi coloniali

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dove si parlava una profusione di lingue: ancora uno sbaffo di tedesco, un po’ di francese, il liquido e sibilante portoghese, lo swahili dalle forme povere e servili a quelle più elaborate, con lunghi termini ritmati che traducevano parole straniere, e, sopra a tutto, l’inglese e l'americano. Forse si sperava addirittura che da quella babele emergesse una lingua nuova, che tutti sapessero parlare e capire. Oltre alla mescolanza delle lingue, colpiva quella dei corpi diversi, capelli e pelli neri marrone biondi, gli abiti larghi nelle vistose stoffe africane per il caldo umido che illanguidiva ma permetteva anche di dormire meno, di vivere ogni istante della vita con fervore. L’entusiasmo intellettuale era grande, le discussioni accesissime, le contrapposizioni politiche veementi.

In un paese in cui si è stranieri o perché si viene da lontano o perché chi ci è nato è stato reso estraneo al suo paese dal colonialismo, ci si poteva illudere di fondare nuove patrie, nuove civiltà al di là delle ideologie maoiste e populiste. Molte persone di allora sono rimaste nella mia vita. La mia amica Zaira, gli antropologi e il letterato di Lusaka ora a Pechino, Eric, altri ancora, sparsi in vari luoghi del mondo,

spesso in movimento.

Ci rivediamo a distanza di anni e

subito è come ieri, anche se sono cadute tutte le speranze e le

illusioni politiche di fondare in Africa un mondo diverso, libero dai condizionamenti dei blocchi, capace di lanciare una cultura africana consapevole delle culture precedenti. Mentre io condividevo tutto questo nel terzo mondo,

nel

primo mondo accadeva il ’68.

Perché parlare di qualcosa che non ho condiviso, in quella che vuol essere un’autobiografia, sia pure di gruppo? Perché quest’interpretazione da un’assenza che non consente-Puso del soggetto plurale e costringe a un tono più oggettivo,

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anche se intriso di soggettività? Perché il ’68 è l’inveramento di qualcosa vissuto e prefigurato oscuramente da noi, più vecchi di qualche anno, nel periodo precedente; è il passaggio dai pochi ai molti, se non ancora a una maggioranza, dal singolo al collettivo, dal privato «al pubblico. E anche perché c’è una vena del ’68 inteso come fenomeno mondiale che ha mutato e muterà il corso delle nostre vite, dentro un processo che non è finito, e

per questo è difficile da cogliere. Ricostruirlo è un modo di continuarlo e di spiare le prossime mosse.

UN 68

Democrazia, potere, conoscenza Il 27 novembre 1967 gli studenti delle facoltà umanistiche di Torino occuparono la loro sede, il Palazzo Campana, e comunicarono ai professori di Lettere, Filosofia, Scienze politiche, Magistero e Legge, la decisione di mettere completamente in discussione la struttura didattica e i contenuti scientifici e culturali dell’insegnamento universitario e i criteri con cui vengono sostenuti gli esami.

All’origine dell’agitazione c’era la scelta del Consiglio di amministrazione dell’Università di acquistare l’area de «La Mandria» per collocarvi le facoltà scientifiche. Veniva attaccato soprattutto il metodo delle autorità accademiche, «di tipo privatistico, autoritario e non scientifico», perché non teneva conto delle istanze espresse dal movimento studentesco sul rapporto tra università e territorio, tra facoltà umanistiche e scientifiche, tra riforma degli atenei e edilizia universitaria. Ma la protesta andava molto al di là dello spunto da cui era partita. I suoi contenuti principali divennero presto la richiesta di un sapere nuovo e diverso, la critica dell’autori89

tarismo, l’instaurazione di spazi per la parola e la vita in comune. L’occupazione di Palazzo Campana era il punto culminante di una lunga serie di lotte e l’inizio di una fase radicalmente nuova. Dalla fine degli anni cinquanta le università italiane avevano vissuto agitazioni sulla questione della riforma, che criticavano i progetti del governo e spesso avanzavano proposte alternative. Negli anni sessanta le rivendicazioni erano spaziate dall’organizzazione degli studi ai temi dell’antimperialismo, contro i regimi autoritari e per il sostegno alle lotte di liberazione in Asia, Africa e America Latina. In molte delle lotte anteriori al ’68, si era fatto ricorso all'occupazione come strumento di lotta, senza però accen-

tuarne i caratteri peculiari e le possibilità che offriva. L’occupazione di Palazzo Campana riprese e sviluppò elementi presenti in quelle precedenti, mettendo in luce i contenuti soggettivi fin allora sottovalutati. Divenne strumento di lavoro, di riflessione, di presa di coscienza. In quel momen-

to storico l'occupazione conteneva infatti in sé, per la vita collettiva che favoriva, una spinta alla democrazia, all’u-

guaglianza, alla partecipazione radicale. Qui stanno alcune delle ragioni. dell’interesse che il presente può portare al ’68 e in particolare a un'esperienza

come quella di Torino;-in cui ebbe particolare rilievo il nesso tra presa di parola e soggettività. Non è l’unico tema di quel complesso fenomeno che fu il ’68 torinese, né fu estraneo ai movimenti studenteschi di altre città. In altri paesi comparve addirittura prima o con forza ed estensione maggiore, come nei casi dell’Università di Berkeley e del maggio francese. Ma a Torino si presentò con sue peculiarità e chiarezze, direttamente legate al percorso complessivo che stiamo esplorando. Proprio per restare fedele a tale percorso, estrarrò dal contesto della città un ’68 particolare, quello delle facoltà umanistiche, in cui ebbero massimo rilievo i temi che ci interessano.

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L’occupazione di Palazzo Campana mise in discussione la struttura autoritaria celata «dietro la maschera della neutralità della scienza e della cultura». Pose la questione della democrazia sia sul piano politico della gestione dell’Università sia su quello della conoscenza. Il primo tema portava a reclamare potere decisionale per componenti dell’università diverse dalla ristretta cerchia dei docenti ordinari, i ‘baroni’. Per questo coinvolse e riprese, in modo assai più drammatico e radicale di quanto avessero fatto imovimenti di carattere sindacale degli anni precedenti, le rivendicazioni di docenti detti ‘subalterni’, come i professori incaricati e soprattutto gli assistenti. La parteci-

pazione di questi ultimi all’agitazione torinese non fu molto numerosa, ma diede un importante contributo ed ebbe certamente grande significato agli occhi degli studenti e dell’opinione pubblica. Le richieste di democrazia erano così radicali che non potevano essere soddisfatte dalle autorità accademiche: il movimento torinese avanzava l’esigenza di una democrazia

diretta, in cui non si delegasse definitivamente a nessuno la rappresentanza degli altri. Organo decisionale dovevano essere le assemblee, unica controparte proposta nelle trattative col Senato accademico. Molti dei dialoghi tra quest’ultimo e gli studenti in agitazione si arenarono sul rifiuto del Senato di accogliere l'assemblea come interlocutore, per insistere sulla richiesta di rappresentanti riconosciuti, inaccettabile agli studenti. Il nesso democrazia/autorità non poteva non ripercuotersi all’interno dello stesso movimento. L’aspirazione alla democrazia diretta induceva a considerare sempre provvisori i Comitati di coordinamento o di agitazione espressi dalle assemblee; ad allargarne la composizione, a renderne aperte le sedute, a ridiscutere tutto nelle assemblee e nelle commis-

sioni. Su questo emersero indicazioni contraddittorie. Si tenne conto troppo poco delle diverse possibilità di espri91

mersi in assemblea e in commissione che i singoli potevano avere; sebbene fosse presto chiaro che l'assemblea generale era un ‘luogo alienante’, restarono sempre «problemi non risolti di gestione democratica » (Luigi Bobbio). L'assenza di riconoscimenti istituzionali delle forme di autorità portò all’accentuazione del ruolo delle figure carismatiche. L’idea di democrazia, come partecipazione con eguali diritti di parola da parte dei singoli, era anche inficiata da un certo elitarismo del movimento, dalla convinzione di essere diver-

si,contrapporsi di al senso comune, alle larghe maggioranze; all’ordine costituito e all’ipocrisia sociale. Tutto ciò apparve con chiarezza a proposito del referendum tenuto il 30 novembre. In seguito ad assemblee tumultuose e atafferugli-scatenati da gruppi di giovani di destra, era stata accettata una consultazione tra tutti gli studenti di Palazzo Campana. «Il metodo del referendum — scriveva Peppino Ortoleva qualche mese dopo — fu accettato solo per demagogia: esso, come tutti i metodi di ‘democrazia’ indiretta, era in linea teorica respinto come non rappresentativo». La votazione avvenne su due mozioni. La prima, della destra, pur dando una valutazione negativa dell’occupazione, sosteneva la necessità —- prima di farla cessare — di

utilizzare la forza contrattuale scaturitane per trattare subito con il Senato accademico su un programma minimo. La mozione numero due, firmata da Viale, Donat Cattin e Vaudagna, che rappresentavano rispettivamente le forze di sinistra, i cattolici e i liberali, riconfermava

l'adesione all'occupazione di Palazzo Campana e individuava nelle assemblee degli studenti la vera espressione della democrazia di base e lo strumento fondamentale di organizzazione del movimento studentesco; accettava il referendum per mostrare che anche tra gli studenti che non prendevano direttamente parte all’occupazione non esisteva una sostanziale opposizione a quella forma di lotta. La

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prima mozione ebbe 428 voti, la seconda 815, 7 schede risultarono nulle. All’interno dello schieramento di maggioranza erano però presenti molte perplessità sul referendum e non solo quelle di origine teorica accennate da Ortoleva. Si temeva di perdere, affermano alcune testimonianze, per omaggio alla

vecchia concezione di democrazia che premiava il numero contro la partecipazione diretta. Alle origini di questi timori stava anche la sfiducia nelle masse studentesche, come ri-

corda una delle studentesse che appoggiava la mozione numero due, Maria Teresa Fenoglio, modificando con la riflessione dell’oggi i valori di allora: Io ero assolutamente convinta che fossimo dei minoritari prepotenti, invece ho scoperto che non era così. Tutti noi abbiamo scoperto che non era così. Avevamo una cattiva coscienza, perché dicevamo che eravamo democratici, ma eravamo molto autoritari, anche nelle assemblee. C’era in

noi il massimo no disprezzo per quelli che erano la famosa maggioranza silenziosa, le pecore — pensa al manifesto del maggio con le pecore che tornano alla normalità — tanto che davamo per scontato che avrebbero votato contro. Per questo al referendum ho votato due volte. Mi sono vestita in due modi diversi. Nella mia storia c'è stata la presenza di un’altra parte di me che io disprezzavo profondamente, che era la ragazza di buona famiglia, che aveva il filarino e che aveva la pelliccia regalatale dalla mamma e il filo di perle. Per cui mi sono probabilmente identificata con la maggioranza silenziosa dell’università. Sono andata a vestirmi come loro, proprio come loro: «Guarda, mi sono messa la pelliccia. Guarda, mi sono messa gli occhiali dell’anno scorso». Sono andata a votare prima come sessantottina e poi come maggioranza silenziosa. il

e condeste Ò

Con la maggioranza silenziosa contesa da tutti, cui si appellavano il rettore, «La Stampa» e i gruppi di destra

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antioccupazione, gli studenti in agitazione avevano un doppio rapporto: di disprezzo e timore, perché proiettavano su di essa una continuità senza rinnovamento; di rispetto e protezione, perché essa era popolo, oppresso e manipolato dai professori. Quella mitica maggioranza non andò comunque a votare. Il numero dei votanti, milleduecentocinquanta, è lontano da quello degli iscritti (circa ventimila) e non rappresenta neanche il doppio di coloro che abitualmente seguivano le agitazioni («alle assemblee generali non c’eran mai più di settecento persone», Luigi Bobbio). La doppia anima simbolicamente attribuita al ’68, e vissuta da una protagonista attraverso il travestimento, ci rimanda alla dicotomia presente nelle origini rivendicate da questa generazione. La dicotomia, che era originariamente

ambivalenza verso i valori ricevuti (dai padri, dalla Resistenza), si volse in esigenza di saltare al di là di ogni continuità col passato. Ma la duplicità non andò perduta; piuttosto si trasformò in una nuova contraddizione, tra rifiuto

delle radici e sotterraneo prolungamento di queste. Antistoricismo, tensione di azzeramento, insofferenza di ogni auto-

rità portavano con sé, nella stessa virulenza della polemica, lacontinuità rispetto al passato. La La conseguenza èè comunque duplicità, contraddizione,

ambivalenza e spesso polivalenza. Di qui un fenomeno fre-

i

quente nel ’68: il raggiungimento di equilibri tra gli opposti che appaiono quasi miracolosi, ma che sono passeggeri perché già contengono i germi del proprio contrario. È il caso del rapporto tra libertarismo e autoritarismo interno al movimento, tra la nuova possibilità di parlare per tutti e il diverso peso della parola di alcuni. Così la democrazia poteva sfociare — e lo avrebbe fatto nei decenni successivi — in democraticismo, pretesa di parità senza riconoscimento delle disparità. Il secondo nesso fondamentale, quello tra sapere e democrazia, non sfuggì alle confusioni del primo, tra democrazia

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e potere politico. Il tema della conoscenza venne affrontato nell’esperienza dei controcorsi, dove si studiavano temi nuovi, fin allora assenti dall’università, e soprattutto in modo diverso, instaurando altri rapporti con i docenti e con i libri. I controcorsi, che rappresentavano contemporaneamente momenti di discussione alternativa e la struttura organizzativa elementare, non ricalcavano più la divisione tradizionale del sapere, rispecchiata dalla denominazione di istituti e facoltà; si organizzavano su temi come: Vietnam;

Scuola e società; Giovani e protesta; Pedagogia del dissenso; Psicanalisi e repressione sociale. Discutevano non solo la forma della trasmissione della conoscenza, ma la sua

funzione politica e sociale nella società esistente, i rapporti tra sapere e potere. Nei primi documenti dell’occupazione sono presenti riferimenti ai fondamenti psicologici che rendono possibile e necessario l’esercizio della democrazia nel campo del sapere: —___

Non si discute di fronte all’autorità (e il docente è un’autori-

tà); gli studenti hanno soggezione, paura, timidezza di fronte al professore, o semplicemente non si sentono all’altezza del docente. Per imparare a discutere bisogna trovarsi tra uguali, bisogna che le differenze di potere tra docente e discente vengano completamente eliminate. Gli studenti che occupano Palazzo Campana [...] per la prima volta riescono ad esprimersi liberamente in presenza

degli assistenti che hanno aderito all’occupazione, perché si sentono tra eguali, uniti nella stessa lotta per la conquista di una propria autonomia didattica e culturale. («Le commissioni di studio come strumento di contestazione del potere accademico», 5 dicembre 1967)

Volantino «Agli studenti del primo anno di Giurisprudenza», da parte de «Gli studenti che occupano», senza data: Allara e Grosso riescono a riempire le aule alle loro lezioni con la paura degli appelli e delle firme: sul terrore degli

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esami basano il loro dominio sugli studenti. Ma che senso ha un’università basata sul terrore, dove non

si impara nulla se non a ubbidire? La libertà è facile prendersela: basta disubbidire.

L’attenzione alla quotidianità del rapporto di apprendimento si ritrova nella critica all'esame come forma di valutazione: volantini e documenti sviscerano nei particolari il rapporto tra docente e discente, le idiosincrasie di singoli professori, danno consigli sul modo di sedersi, di atteggiarsi, di parlare, di far credere di sapere nel corso dell'esame. Ci fu anche impegno, quando ripresero gli esami, a seguirli vigilando sulla ‘massima regolarità’ della formazione delle commissioni (tradizionalmente incomplete) e delle procedure. Il tema della subordinazione intellettuale attuata in forma iniqua (e dei modi di superarla) costituiva una grossa attrattiva per molti studenti di base, facendo leva sulla mancanza di rispetto e di democrazia praticata da molti docenti. Anna Trautteur (Torino 1945):

con questa mia amica abbiamo perché ci siamo sentite parte coinvolte, e eravamo d’accordo vazioni di base. Avendo sempre

partecipato fin dagli inizi, in causa, ci siamo sentite su quelle che erano le motifrequentato c'eravamo rese

conto di quante cose non quadrassero, anche se ci piaceva studiare e preparare gli esami. Eravamo molto allegre, quindi lo facevamo prendendo un po’ in giro noi stesse e gli altri, però di fronte a certi programmi c’era veramente da arrabbiarsi. Esperienze come un esame dato con Getto, con l’handicap che arrivavamo da Filosofia, quindi eravamo mal viste. Mi ricorderò sempre il professor Getto che diceva: «Cosa continua a perdere tempo a interrogarla, è una che arriva da Filosofia, non capisce niente». Oppure esami come quello di Lana, Letteratura Latina. Avevo fatto un corso che a me era piaciuto molto, tutta la letteratura dell’e-

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tà di Nerone. All’esame dovevamo tradurre un passo che ci metteva davanti, ed erano i Farsaglia di Lucano, io ho fatto

un errore mentre traducevo, di cui mi sono resa conto immediatamente, mi son fermata e ho detto: «Oh, mi scuSi», son tornata indietro e ho ripreso, mi ha sbattuta fuori. Cose assurde, con urla tipo: «Ma chi le ha dato la maturità». Quando mi son presentata alla sessione di settembre, non mi ero assolutamente ripreparata, mi son sentita dire: «Ah, complimenti, Lei è una che il latino lo sa proprio».

Contro il «condizionamento psicologico e la manipolazione degli studenti» andavano anche alcuni passi famosi di un articolo di Guido Viale, che esponeva «la radice consensuale dell’autoritarismo» e la possibilità di spezzarla con la lotta. Fecero scandalo le sue affermazioni che «i libri sono almeno altrettanto autoritari dei docenti» e il suo modo provocatorio di attaccare la «cultura libresca» descrivendo l’attività di alcuni gruppi di studio: la commissione «Psicanalisi e repressione» ha ritenuto di non essere tenuta a leggere il libro di Adorno e Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, per il solo fatto che esso è stato scritto, stampato, tradotto e venduto in parecchi esemplari, e si è dedicata ad attività più interessanti [...] le letture hanno costituito solo un complemento rispetto al lavoro di discussione tra i membri della commissione e tra di essi e l’«esperto» periodicamente invitato.

Agli esperti veniva negato l’onore dell’autorità: essi venivano utilizzati per le nozioni che potevano apportare, ma nei loro confronti non dovevano esistere «soggezione e subordinazione». Anche al libro venivano sottratti onore e venerazione:

Il culto del libro è diventato in questi ultimi anni, dal miracolo economico in poi, uno degli scopi e delle occupazioni

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prioritarie degli studenti e delle giovani coppie. Le nuove leve del neocapitalismo si costruiscono degli altari denominati libreria, o addirittura delle cappelle denominate studio, dove il feticcio libro troneggia incontrastato. [Contro questo feticismo] la commissione delle facoltà scientifiche compiva l’estremo atto liberatorio nei confronti del dio-libro; lo squartamento dei libri in lettura per distribuire un quinter-

no ad ognuno dei membri.

i

Non tutti i gruppi di studio sono arrivati a una critica così radicale della prassi libresca. La commissione di scienza della politica, dopo essersi formata quasi esclusivamente in funzione dell’utilizzazione del prof. Bobbio, che si era dichiarato favorevole alla partecipazione alle nostre commissioni, è scaduta ulteriormente proponendosi come programma di studio una bibliografia completa di sociologi del conflitto. La partecipazione di parecchi assistenti a tale gruppo di studio è forse una delle cause principali del ritardo da cui, a mio avviso, è stata caratterizzata.

Il tono canzonatorio — il riso è una via regia per l’affermazione della soggettività — sottolinea la decisione con cui il soggetto si arroga tutte le decisioni nel campo del sapere e giustifica lo spostamento dalla soggettività generale a quella del singolo. Anche qui però traspaiono le contraddizioni portanti del ’68, sua forza e debolezza: che a distruggere con più gusto il feticcio del libro fossero in primo luogo quelli che i libri avevano letto e amato furiosamente; che in quell’odio/amore si annidasse il rischio di un cedimento della tensione del soggetto e l’ansia di sapere si tramutasse in appiattimento sulla denuncia sociale, in privilegiamento dell’ignorare. Che la critica finisse in mera distruttività, il riso in nichilismo verso ogni cultura. I contrari erano forse già presenti, nella debolezza dei soggetti che volevano diventare tali, senza presagire a pieno le difficoltà che una simile opera comporta. Le prestazioni richieste all’individuo per costituirsi a soggetto e dare un contributo unico e irripetibile

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alla soggettività condivisa erano messe in ombra dall’elaborazione collettiva in cui prevaleva il momento di fusione. Il riso fanciullesco, l’ingenuità geniale e rigenerante contenevano in sé sia il rischio del ripiegamento sul proprio contrario, il vecchio irrigidito — proprio perché escludevano troppo drasticamente il contrario di sé, puer senza senex — sia il rischio della degenerazione in infantilismo. Gli anni seguenti mostrano molti esempi della perdita dell’equilibrio miracoloso, la rottura dell’incanto. Ma si potevano già scorgere le avvisaglie all’inizio, e paradossalmente lo fecero i benpensanti, che temevano gli eccessi e vedevano solo il negativo. D'altronde non ci fu mai un periodo tutto buono a cui sarebbe seguito il male; ci fu un tempo in cui la tensione tra gli opposti venne retta in modo adeguato, senza dover scegliere definitivamente tra bene e male, tra l’uno e l’altro. La convivenza nel ’68 di elementi-opposti-era ragione di ricchezza, di ispirazione, di creatività. È anche ciò che richiede una lunga durata per vedere pienamente dispiegati il suo male e il suo bene.

Spazi Un tema emerge come particolarmente rilevante nel corso di tutta la vicenda: la conquista di uno spazio corrispondente alle necessità di organizzazione sociale della parola. Il vecchio palazzo dell’università offriva la struttura adeguata a un discorso di studenti che dovevano potersi riunire in assemblee e ridividere in commissioni e gruppi, accampando la volontà di produrre sapere, di ricercare, di fare cultu-

ra: aule quindi erano necessarie, anche quelle brutte e oscure del vecchio palazzo; non bastava la sala delle riunioni della vicina Camera

del Lavoro,

offerta dal sindacato

CGIL

quando gli studenti vennero cacciati da Palazzo Campana. 99

Avrebbero forse potuto avere una funzione simile altre sedi di facoltà, ma interveniva come importante considerazione logistica la collocazione della sede delle facoltà umanistiche, in pieno centro della città e non sui grandi viali di scorrimento o lungo il Po, come erano il Politecnico e molte facoltà scientifiche. Si arriva così quasi insensibilmente al piano simbolico: e su questo non meno che su quello reale Palazzo Campana divenne sede di uno spazio comunicativo privilegiato. Ciò spiega l’ostinata contesa di quello spazio da parte di studenti e autorità accademiche, le serrate e le occupazioni a ripetizione. Nei primi giorni i docenti di Giurisprudenza sembravano non poter accettare la loro esclusione dall’Università: Anche questa mattina [29 novembre] il professor Grosso, sindaco di Torino, non ha voluto mancare al suo consueto appuntamento e dopo aver assistito alle controversie tra gli studenti è riuscito a ‘catturarne’ poco meno di una quarantina, ai quali ha fatto lezione nella sede del rettorato. Nessun altro professore si è avvicinato a Palazzo Campana, all’infuori del rettore, prof. Allara, che ha tentato di imbonire i cronisti dei diversi quotidiani osannando l’opera della «Stampa» (che travisando i fatti, ha tentato di far diventare «maggioranza»

sparuti gruppetti di monarchici e nostalgici)

e tirando le orecchie a tutti gli altri. (Cronaca di Sesa Tatò su «L’Unità» del 30 novembre 1967)

Dopo il primo periodo, detto della grande occupazione, durata dal 27 novembre al 27 dicembre, seguirono tante brevi occupazioni sgomberate dall’intervento della polizia, chiamata come la prima volta, dal rettore Allara: il 29 dicembre ’67; il 10 gennaio, 22 gennaio, 29 febbraio, 1° marzo 1968. In queste occasioni si assistette a una crescita di

violenza da parte della polizia, testimoniata da resoconti e foto dei giornali. Tra un’occupazione e l’altra ci furono periodi di serrata, talvolta di parecchie settimane, in cui le

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autorità accademiche preclusero a tutti, anche a se stesse,

l’uso della sede. Alla repressione poliziesca si aggiunsero anche ritorsioni sul piano accademico, e ripetute denunce giudiziarie. In seguito alle serrate la forma di lotta si trasformò in ‘occupazione bianca’, che manteneva la presenza nell’Università interrompendo le lezioni, ma consentendo lo svolgimento degli esami. Ne risultò uno stato di ‘guerriglia culturale’ continua, nel corso della quale gli studenti «turbavano od interrompevano le lezioni universitarie e le altre attività scientifiche»; in particolare venne registrata la «turbativa di una lezione del prof. Allara il giorno 13 gennaio 1968; e del prof. Venturi il 14/2/68». Queste espressioni sono tratte dall’imputazione di reato spiccata 1’8 marzo 1968 dalla Procura di Torino contro quattrocentottantotto studenti. I reati comprendevano l’occupazione di Palazzo Campana «attuata con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in concorso con alcune centinaia di persone, in distinte occasioni», nonché l’uso della minaccia al fine di costringere le Autorità accademiche delle Università di Torino (Senato Accademico - Consiglio di Amministrazione) a revocare la deliberazione del Consiglio di Amministrazione di acquistare l’area della tenuta «La Mandria» quale sede di alcuna [sic] facoltà universitarie; a decidere di troncare, anche temporaneamente, l’attività didattica in programma per l’anno accademico in corso; ad

aderire alla richiesta di contrastare il piano governativo di riforma delle università; ad impostare per l’anno accademico in corso e per l’avvenire in genere, una nuova attività di

studio, con forme e modi non previsti dalla legge, ma formulati da essi stessi.

I reati variamente contestati ai quattrocentottantotto fu-

rono amnistiati due anni dopo. Ma nel frattempo erano stati spiccati imandati di comparizione, gli imputati erano dovu101

ti ricorrere ad avvocati e rispondere a interrogatori. Tutto ciò aveva suscitato clamore sugli organi di stampa e naturalmente nelle famiglie di parecchi degli accusati. Era un’altra mossa nella contesa degli spazi. L’ostinazione dei professori nel tentare di rioccupare lo \spazio conteso era grande quasi come quella degli studenti; |l’ansia forse maggiore. I docenti sembravano talvolta entrare nel panico di fronte all’impossibilità di accedere ad aule e cattedre che consideravano loro proprietà, luoghi deputati a trasmettere la loro parola agli allievi rimasti fedeli. Tutto ciò. spinse alcuni docenti a sfidare un’atmosfera di violenza verbale per tenere quelle lezioni che consideravano diritto acquisito. Privandoli della parola dalla cattedra gli occupanti li avevano privati di una parte rilevante della loro

stessa identità.

banc

L'ostinazione degli studenti si traduceva in un comportamento che, osservato dall’esterno, attraverso gli occhi dei mezzi di comunicazione di massa, presentava caratteri quasi

biologici: cacciati ritornavano, più e più volte, come a un proprio habitat, a una casa, nonostante le minacce e le botte. Ilpalazzo era didiventato il luogo di una grande comunità, articolata in comunità più piccole, la sede di relazioni umianie vive e attive. Queste non comprendevano solo la parola. Ma il discorso e ilsuo spazio erano ilcentro della contesa per il potere, il punto di partenza e il fulcro della liberazione. Guido Viale: Arrivavano gli studenti in assemblea e raccontavano fatti quotidiani, di come erano stronzi i docenti. La gente «si liberava, e diceva la sua, e viveva in una maniera diversa la

quotidianità. Le cose più belle erano i confronti diretti con i professori: questi studenti che dicevano in faccia al professore quello che pensavano di lui, guardandolo negli occhi.

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CoMmoni] bh /500d an Dalla parola alla AE dei corpi, dallo spazio per un discorso diverso a quello per dormire e mangiare vivendo insieme. Laura Derossi: . un cambiamento nel contatto, nel toccarsi. Se tu vai all’università in situazioni normali, uno ti si siede vicino, ti

tocca gamba contro gamba? tu resti subito un po’ così. Lì non ci facevi il minimo caso. Potevano anche salirti addosso, abbracciarti, baciarti, trovavi tutto normalissimo. Le aule magne erano sempre straripanti, quindi tu stavi proprio ammucchiato în mezzo alla gente. Ma non ricordo cose di fastidio, di uomini nei confronti delle donne, tentativi in

quel periodo di farei furbetti, di fareigalletti, come se fosse stato improvvisamente abolito questo tipo di atteggiamenti.

Diego Marconi: mi ricordo una sera in cui c’era il comitato di agitazione, coincideva con la cena e allora si doveva apparecchiare la tavola lì, in un’aula. Si è apparecchiata la tavola e qualcuno si è messo a cantare, e tutti si sono messi a cantare: «Nostra

patria è il mondo intero», e intanto preparavano le cose, scodellavano la pasta ed era un momento molto bello.

Dalla conquista di uno spazio circoscritto alla speranza di liberare uno spazio amplissimo: il mondo. L'aspetto rilevante dello spazio acquisito stava anche nella sua forza simboli-

ca. Era uno spaziofisico, uno spazio strutturale; uno spazio didattico, tutti termini che si ritrovano nei documenti del

movimento studentesco. Ma era soprattutto libertà dimuoda della parola, spazio discorsivo e spazio comunicativo, degli-studentitratoro-e col mondo esterno. Gli occupanti sentirono l’esigenza di inventare un ‘giornale dell’agitazione’, un «Bollettino»

ciclostilato, che porta-

va notizie sulle vicende delle facoltà occupate, degli istituti medi, ben presto scesi in lotta anch'essi, sulle agitazioni

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nella provincia e in Piemonte. Il primo numero uscì il 22 gennaio 1986; il giornale continuò, con qualche irregolarità, fino al maggio, in tirature dalle mille alle tremilacinquecento copie.

È significativo che il «Bollettino» comprendesse una rubrica definita l’«anti-Stampa». Una delle battaglie più dure che la nuova parola doveva condurre per ricavarsi uno spazio di risonanza era infatti contro un’altra voce assai più

potente e antica, quella del massimo quotidiano cittadino, «La Stampa». Il giornale era allora per la parte principale — in seguito unica — proprietà della Fiat. Il direttore era dal 1948

Giulio De Benedetti,

che aveva

assicurato

un

notevole successo di vendita, puntando in particolare su settori come la cronaca cittadina e il notiziario interno. Proprio queste rubriche avevano urtato gli studenti occupanti per il tono indignato e calunnioso con cui rappresentavano l’agitazione. Era un altro esempio di un atteggia-

mento caratterizzato sul piano culturale da una ristrettezza di visione, un provincialismo retrivo, che Ronchey comincerà a svecchiare solo parzialmente succedendo a De Bene-

detti nel dicembre 1968. Tra le due voci c’era incompatibilità. «La Stampa», difensore dell’ordine sociale e mentale, minimizzava e defor-

mava. Considerava gli occupanti una minoranza, come il rettore, e invocava l’intervento della maggioranza studiosa. Oltre alle cronache aveva usato le lettere dei lettori nella rubrica «Specchio dei tempi», che aveva ampia risonanza cittadina. In essa si alternavano lettere di genitori preoccupati, di studenti con storie di sacrifici alle spalle, di cittadini indignati. Infine il giornale dedicò spazio ad articoli di docenti e giornalisti che tentavano di spiegare il fenomeno delle rivolte studentesche con analisi sul ‘disagio’ giovanile e l’arretratezza dell’università. Fin dai primi giorni gli studenti occupanti risposero colpo su colpo:

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riteniamo opportuno precisare che all’interno di Palazzo Campana non si «bivacca», come sta scritto sul vostro giornale, ma si svolgono intense attività didattiche (comunicato riportato da «L'Unità», 30- 11-67).

Da documenti per controbattere un’intervista al rettore Allara o un articolo del prof. Grosso che difendeva la libertà del docente («La Stampa»,

3-12-68), si passò alle quasi

quotidiane repliche e correzioni nell’«anti-Stampa» del «Bollettino». Questo alternava il tono serio alle facezie, giochi di parole goliardici («Spaccio dei tempi», «Cesso dei tempi», «la giornalessa») a denunce di scorrettezze nell’informazione, come una lettera attribuita a due studentesse del movimento, in cui si lamentava la difficoltà di studiare

nelle circostanze createsi. «La Stampa» dovette riconoscere la falsa attribuzione, ma non smise di sostenere che «la

maggior parte degli studenti era contraria ai disordini». Quando Alberto Ronchey, inviato dal giornale, si presentò a un’assemblea del movimento torinese, gli venne richiesto un pagamento per assistere; Ronchey preferì allontanarsi. Non si trattava, data la disparità dei contendenti, di una

gara per lagonquista dell'opinione pubblica, ma di una spina, un Cuneo nell’esistente sfera pubblica, che tendeva a

modificarla, allargando lo spazio in cui le opinioni si possono scontrare liberamente. Tale spazio era comunque pola-

rizzato, in quelle circostanze, tanto che era molto difficile non schierarsi a favore o contro l’agitazione. La diatriba con «La Stampa» faceva parte di un più ampio dialogo con i ‘benpensanti’. Gli studenti occupanti si pensavano come avanguardia, che parlava un linguaggio nuovo e si preparava a respingere le obiezioni dei buoni padri di famiglia, considerati con disprezzo. Le critiche che dai genitori ci verranno lanciate saranno nella maggioranza dei casi formulate con un linguaggio e un

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contenuto tale da scavalcare i nostri discorsi e modi di esprimerci. Questo linguaggio è molto spesso il principale strumento di repressione da parte-delle famiglie. Ci troviamo molto spesso ad ascoltare consigli di tal genere: 1) «ORA PENSA A STUDIARE E AD USCIRE BENE». Noi vi chiediamo... se vi rendete conto fino in fondo del contenuto effettivo di questa espressione. Tradotta in altri termini, essa suona: «Adeguati bovinamente alle strutture scolastiche». 2) «NON INTERESSARTI DI POLITICA, LASCIA CHE LO FACCIANO GLI ALTRI». E cioè: «Vivi senza chiederti come ti stanno plasmando, dove ti stanno inserendo». 4) «POVERO ILLUSO, CREDI DAVVERO DI CAMBIARE IL MONDO?» Sì, lo crediamo... 5) «ASCOLTA NOI CHE ABBIAMO PIÙ ESPERIENZA DI TE». Prescindiamo pure dal fatto che la vostra esperienza si è formata in scuole ove la camicia nera e gli stivali rigidi erano la divisa. Sta di fatto che anche noi abbiamo provato alcune esperienze e altre ne proveremo. Sono e saranno diverse dalle vostre: ci devono pertanto spingere a comportamenti non identici,

Questo dialogo immaginario (pubblicato sul «Bollettino» del 27-2-1968) faceva parte di uno scambio di parole ideale con i ‘genitori’, intesi come la generazione preceden-

te, quella che era stata giovane sotto il fascismo e cui si imputavano conformismo e apatia. I genitori reali erano spesso diversi da queste immagini così bieche, anche se

è“ potevano aver usato il linguaggio farisaico che ripugnava

agli studenti in lotta, e che veniva individuato come strumento principale di repressione familiare. L’opprèssione andava al di là dei singoli inidividui fisici, stava nel discorso che li parlava anziché esserne parlato. Era l’idealtipo del ‘borghese’, buon padre di famiglia, quello contro cui si scagliava questa botta e risposta, era contro la sua figura intesa come condensato di valori negativi che la nuova parola voleva affermare la propria esistenza.

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Siamo dunque di nuovo sul piano simbolico, che però non deve essere inteso come totalmente staccato dal reale. Anzi una caratteristica del nuovo linguaggio, nel bene e nel male, sembra essere quella di non voler più scîfidere parola e comportamento, nell’affermazione della propria esperienza e della coerenza dei propri ideali. Il richiamo ai ‘contenuti effettivi’ del discorso dietro le apparenze va di pari passo con la fiducia nella potenza del linguaggio, nella presa di parola che demistifica, traduce; chiarisce, denuncia. E con

la rivendicazione di una differenza generazionale, contro l'identità affermata e richiesta dai ‘genitori’: siamo diversi, parliamo un linguaggio diverso, abbiamo bisogno di spazi fisici e discorsivi adeguati. La forza di questo atteggiamento è di non ritenersi così diversi da non instaurare il colloquio, per quanto brusco; è di continuare a parlare, a spiegare, a

dire, talvolta da grillo parlante, coerentemente con un’autoimmagine di primi della classe che parte del movimento coltivava.

Anche sul piano dei rapporti con l’età, col ciclo della vita, si stabilisce un equilibrio passeggero, che come sempre contiene i germi del suo contrario. Si affermano l’esigenza di non essere più consi erati ‘gli eterni minorenni’, la volontà di essere adulti serbanido +pregi del fanciullo (la sua capacità di dire il vero, di svelare ingenuamente gli inganni) o anche un rifiuto degli attributi tradizionali alle età biologiche, in omaggio a una nuova concezione di ciò che è giovane e ciò che è vecchio. Forse tutto ciò è un segno dei nuovi processi di giovanilizzazione generale, un prodotto della (e un contributo alla) costituzione di una nuova classe d’età, tra adolescenza e maturità. Nel ’68 i confini abituali tra giovane e adulto sono modificati, così come lo è Îaconcezione delle due fasi. L’iniziazione non è rinuncia, l’età adulta non è serietà e seriosità. Il

rito di passaggio è un sommovimento emotivo, quindi differenziato dall’uno all’altro, e conduce alla felicità, al riso, al

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sollievo. Talvolta anche soltanto — ma non è poco — al poter dire e comunicare un sentimento. Paolo Hutter, allora

studente al liceo Gioberti:

nel ’68 c’era un qualche cosa che mi ha permesso di vivere un mio primo serio innamoramento omosessuale in modo relativamente pacifico, anche se poi ci ho messo dieci anni per capire che ero omosessuale. C’era una situazione in cui non mi sentivo in colpa di essermi innamorato di questo ragazzo, riuscivo a dare un nome a questo mio sentimento e a parlarne persino con qualcuno — non con tanti.

Peppino Ortoleva: Io ero stato fino al ’68 incapsulato in uno di quei film dell’orrore tipicamente liceale, ero stato innamorato per anni di una ragazza, che a sua volta era innamorata di un altro, che a sua volta era innamorato di un’altra ancora. Quando questa fanciulla che io tanto amavo aveva mostrato una piccola crepa nelle sue difese, ero fuggito a gambe levate, insomma una di quelle cose che non tollerano la felicità. Per me il ’68 è stato questa doppia cosa: la scoperta della sessualità in generale e la scoperta del rapporto sentimentale con una persona reale, con cui facemmo l’amore per la prima volta. La prima volta per entrambi. Andammo in casa di amici, dove ero talmente emozionato che bruciai per sbaglio una tenda. Fu in quella casa che, facendoci largo tra gli strati di roba accumulata, consumammola nostra storia, con grande allegria. Fu un amore molto intenso, molto reciproco, molto felice. I grandi amori infelici nel °68 non c'erano. Di fatto forse sì, ma non venivano esplicitati, mentre nella comunità o scenziale precedente era addirittura una specie di marchio di fabbrica: «Io ho un amore infelice, cari signori, e ho

diritto a stare con voi», invece dopo l’amore infelice se uno

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l’aveva lo teneva per sé. Un pregio della cultura adolescenziale precedente, con tutto il suo schifo, era stato il libero

accesso e il rispetto per la depressione. Per idepressi non C'era posto nel ’68. 3

Il riso e il gioco Lo spazio discorsivo che era stato conquistato venne difeso con la parola detta e scritta, spesso con la parola irridente, che si riversava dall’orale allo scritto, anzi che

spostava il piano del discorso scritto verso l’oralità. Volantini e bollettini dal tono scherzoso non sempre di buon gusto irridevano professori e assistenti. A volte le caricature erano ben riuscite, altre volte il segno era così elementare che solo la didascalia riusciva a spiegare di che si trattasse. Attraverso le forme del riso.il nascosto, il privato, il non detto venivano esposti. L’ironia ricomponeva la persona

divisa tra pubblico e privato e attaccava le idiosincrasie individuali. Il sarcasmo non risparmiò neppure i docenti più democratici e sostenitori delle agitazioni. Un esempio significativo è un volantino in cui il prof. Quazza è rappresentato diviso per metà da una linea, alla sinistra della quale è vestito militarmente e dice frasi come «Se foste coerenti prendereste le armi» («persona giuridica privata»), mentre alla destra è vestito in borghese, con scritte quali «Scusi, signorina, ma Lei mi confonde le due figure del

mercante medievale !!??» («persona giuridica pubblica: preside, professore»). La comicità e la beffa dilagavano anche nei gesti di protesta, invadendo le forme di manifestazione e mostrandone la natura teatrale: C’erano momenti molto ludici, tipo la trovata dei fiori di carta. Entravamo nelle lezioni con un fiore di carta gigante-

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sco a testa, bloccando per intero tutto, senza bisogno di dir niente perché tutti quanti si paralizzavano a guardare il fiore. (Ortoleva)

Il riso accompagnava i momenti di violenza verbale e

costituiva un’arma contro l’autorità. È interessante il resoconto dell’interruzione di una lezione, che ebbe conseguenze giudiziarie, e avvenne in un periodo di esami in cui gli studenti rivendicavano la concessione del rettore di poter usare tutte le aule dalle 17 alle 20. Il prof. Venturi, appena

tornato dagli Stati Uniti, doveva far lezione proprio alle 17, ma aveva trovato ad attenderlo studenti che gli contestavano il diritto di parola rivendicandola per sé, per il ‘movimento”. Appena uno studente alza la mano, risponde l’urlo del professore: «lei non può chiedere ia parola! finché la lezione non è iniziata non si chiede la parola e sono io che dichiaro aperta la lezione». Si attende quindi la Solenne Dichiarazione di Apertura. Nuova richiesta di parola. Urlo: «quando la lezione è iniziata, non si parla! sono io che concedo la parola, e non glie la do! esigo il silenzio!» Segue una spiegazione: se volete parlare, potete andare fuori, al Valentino, nessuno vi obbliga a venire a lezione. Per discutere, ci sono i seminari,

tutti i giovedì alle 18. In seguito è un alternarsi di brevi discorsi sull’illuminismo e di nuove urla, non appena qualcuno chiede di parlare. Selezioniamo? Selezioniamo: «io non discuto con la folla» — «la lezione non è un’assemblea» — «sono 70 che presiedo quest’assemblea» — «le concedo un’unica libertà: quella di usare il suo piede destro e il suo piede sinistro per andarsene» (testi stenografati). Inoltre, il prof. Venturi espone in un odg scritto sulla lavagna la sua concezione della lezione: «Data l’inciviltà dei vostri metodi, chiedo i (corretto in «ai» su suggerimento

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dell'Assemblea) Signori studenti di fare silenzio e dichiaro che sono il solo responsabile dell’ordine durante la lezione».

Dopo ulteriori esibizioni vocali del Docente, si decide di lasciarlo ai suoi illuministi. L'Assemblea esce dall’aula. Restano ad ascoltare Venturi, la moglie e sei (6) studenti.

Questo resoconto, pubblicato sul «Bollettino» del 16 febbraio 1968, tiratura 3500 copie, presenta un tono di irrisione un po’ greve, quasi goliardico. Il tono, ricorrente negli scritti e disegni beffardi, suscita anche nella memoria il disdegno di alcuni: queste cose che si dicevano e si facevano contro i professori

di solito non facevano ridere affatto. Erano forme di aggressione verbale e grafica da parte di gente che di senso dell'umorismo ne aveva assai poco. (Marconi)

Tuttavia la ripresa di quel tono beffardo è indicativa, proprio per la sua scioccaggine, per la risata un po’ grezza.

Ripropone in pubblico gli scherzi di bassa lega che gli studenti han sempre fatto a proposito dei loro professori, le battute sussurrate, i bigliettini passati da un banco all’altro. Quel riso, proprio perché elementare, azzera, livella, riporta al punto di partenza. Patrimonio di generazioni di studenti frustrati, ne mantiene la risatina e il divertimento, infantili e per questo pungenti, irritanti, capaci di infastidire davvero i professori. Il passaggio alla sfera pubblica, attraverso la parola scritta e orale, instaura un senso di liberazione, di alleviamento, di potenza. Per manifestazioni simili in altri tempi e luoghi si è parlato di aggiornamento della cultura comica popolare, della tradizione del basso, del riso in piazza e in pubblico. Non è escluso che la radice profonda sia pur sempre quella tradizione. Ma qui è possibile scorgere antecedenti diretti:

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la vecchia goliardia e certa comicità demenziale delle trasmissioni radiofoniche dedicate ai giovani, che alternavano negli anni sessanta gag dell’assurdo e musica rock, come riecheggia il titolo del pezzo sul bollettino degli studenti: «Venturi show ovvero Gli urlatori della cattedra». Il risultato è una traduzione nel linguaggio quotidiano dei giovani del mondo dell’autorità scolastica. L’irriverenza può essere povera o ricca, inventiva o ripetitiva, ma vale anche in

quanto fine dell’atteggiamento di dipendenza non sentita, che non risponde più a un rispetto profondo verso la conoscenza trasmessa e i suoi valori. Non è difficile immaginare quale potesse essere la reazione del prof. Franco Venturi, intellettuale antifascista e studioso di fama internazionale, a questo atteggiamento degli studenti. Lo si potrebbe dedurre dalla memoria di una protagonista di quegli eventi, Laura Derossi: I professori democratici l’hanno vissuto in modo molto traumatico, arrivando addirittura a dire cose molto pesanti, cioè: queste cose le facevanoi fascisti, questo l’interè vento della politica nella cultura, classico ldci sistema fascista. Perché effettivamente c’era molta violenza, noi c'erava-

mo scatenati. Nessuno poteva far più niente all’università, chiunque faceva qualcosa veniva interrotto da orde di barbari che entravano coi megafoni spiegando i motivi per cui interrompevamo le lezioni: «Noi vogliamo costruirci la nostra cultura, la scienza non è oggettiva ma è l’uomo che la determina, noi non siamo la classe dirigente, noi vogliamo imparare a criticare la società e non a subirla».

ix

I due antagonisti, studenti e professori democratici, ri- .

‘lvendicavano entrambi la continuità con la Resistenza al

‘\fascismo, una vera e propria contesa per un’eredità di valo| ri. Questo in fin dei conti li poneva su un piano di comune discorso.

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Ancora Laura Derossi: C'era la polizia dentro Palazzo Campana, noi entriamo tutti, Getto faceva lezione, l’aula piena di studenti, presidiato dalla polizia fuori, proprio con i carabinieri davanti alla porta. A un certo punto Luigi, l’eroico, riesce d’improvviso a prendere alla sprovvista sti carabinieri, mette la mano sulla maniglia, entra, e grida con la voce piena di scandalo una cosa tipo: «Non si può far lezione in un’aula presidiata dalla forza pubblica, questa non è una lezione, qui siamo in una caserma». Lo prendono, i carabinieri gli zompano addosso — questo è stato il primo episodio di grossa violenza — e l’hanno trascinato giù per le scale, tutto strascinandolo. e MAY

Vila

La lotta sul piano culturale, nel suo miscuglio di rivendicazione di spazio per una parola impegnata socialmente e di irrisione radicale, generava contraddizioni interne. Peppino Ortoleva: Questa guerriglia culturale fu un gioco, però non so quanto piacesse a tutti noi. Era molto faticoso, era molto frustrante. Perché in moltissimi casi gli studenti davano ragione al professore. Creava delle spaccature violente, quando invece noi amavamo il plebiscitarismo. Un movimento assem-

bleare non ama molto essere contraddetto. E quindi aveva dei momenti di rischio, di pesantezza notevoli. In molti casi era un dialogo tra sordi, non ti stavano a sentire, non capivano cosa dicevi.

Si svelava ancora una volta una bivalenza del movimento studentesco, il suo vivere in due tempi, e su due piani,

quello di una rivolta circostanziata e quello di un rivolgimento epocale, generazionale, emotivo. La difficoltà dell’interpretazione sta anche nel fatto che per opporsi al vecchio si assunsero posizioni estreme, che nel giro di dieci anni sarebbero state abbandonate. Ie,

A un misto di radici culturali di questo genere, ripresa di tradizioni studentesche, gioco liberatorio, affermazione di differenza generazionale e di appartenenza ‘popolare’, è da riportarsi la diffusione del linguaggio osceno, irriverente, blasfemo. Che i giovani usassero tra loro molte espressioni del genere non era una novità; lo era che le impiegassero apertamente, punteggiando gli interventi in assemblea e le conversazioni spicciole con termini sessuali e bestemmie.

Lo era soprattutto per le donne, per le quali costituiva un altro momento di quella emancipazione che passando per il gruppo di pari recava un segno prevalentemente maschile. Alcune che oggi hanno abbandonato quel linguaggio ricorfdano il valore di equiparazione che ebbe allora, ad esempio rispetto ai compagni che, usandolo tra loro, si affrettavano a scusarsi se nominavano una delle parole proibite di fronte a una donna. L’uso nel suo complesso era certamente il segno di uno svincolarsi del linguaggio dalle norme abituali, di una dissacrazione che nel contesto culturale della fine degli anni sessanta aveva effetti scandalosi. Scandalizzare, rompere, imbarazzare, erano altre forme di guerriglia culturale che una parte del movimento voleva praticare. Riprendevano, volontariamente o no, le proposte delle avanguardie degli anni venti, insieme con l’implicazione di confondere linguaggio e realtà, piano simbolico e piano sociale, arte e vita. La coerenza che emerge da simili impostazioni tende a eliminare la separatezza dalla vita di ogni sua sfera specifica: la politica, l’espressione artistica, il linguaggio. Un simile messaggio era contenuto

nella proposta di

‘rivoluzione della vita quotidiana’ avanzata dai situazionisti negli anni precedenti e reinterpretata da Viale e dall’ala dura del movimento di Torino. La critica situazionista aveva incluso il riso liquidatorio, l’happening e il détournement. Se ne trovano tracce nel ’68 torinese, anche se anne-

gate dentro il crescente impegno sociale. Battute di ispira-

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zione situazionista affiorano qua e là (ad esempio, nei Documenti per l’agitazione n. 2 stampati nel marzo ’68, la sociologia è definita «l’autocoscienza del cretino industrializzato»). Il détournement è molto presente nei giochi di parole, nei rovesciamenti di slogan («I Viani da guardia», «E il Senato che traccia il solco, è la PS che lo difende»),

nelle battute. Un esempio è la reinterpretazione della formula proposta, per definire l'ideologia del movimento, da Carlo Casalegno su «La Stampa» del 2 febbraio: «Ma-MaMaismo» — «un po’ di Marx, un po’ di Mao, un po’ di sociologia di Marcuse» — cui gli studenti contrapposero: «Mamma, Manganello, Malafede» («Bollettino», 132-1968). Il situazionismo, secondo la sua stessa teorizzazione, andava sciogliendosi nel movimento e da un affare di minoranza ristretta passava a dimensioni di massa. In questo passaggio anche il riso cambiava di tono e non sempre poteva mantenere l’acutezza mordace e beffarda conferita dall’isolamento.

Un leader Uno dei momenti in cui la creatività nella contestazione si espresse maggiormente, dilagando nello spazio urbano, fu in occasione della prigionia di Guido Viale. Viale era stato arrestato giovedì 11 aprile davanti alla Fiat Mirafiori, da due agenti in borghese, durante uno sciopero per le pensioni, e non gli era stata concessa la libertà provvisoria. Nelle settimane precedenti gli studenti erano stati presenti davanti alle porte della fabbrica soprattutto per testimoniare agli operai da che parte stavamo, per dire chiaro che noi all’Università non stiamo comO una patteglia dicategoria ma la loro stessa batta-

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quale destina fin dalla nascita alcuni a fare i dirigenti come i loro papà e altri a lavorare tutta la vita nei punti della catena dove la loro mano d’opera costa meno della manutenzione di una macchina. Questa società non riesce a capire perché uno che ha il privilegio di fare domani il ruffiano nei confronti degli operai lo rifiuti («Bollettino»,

23-4-68).

Il movimento studentesco reagì fortemente alla carcerazione del compagno, anche per il suo ruolo particolare, in cui ancora una volta si intrecciavano il piano simbolico e quello reale. Viale era realmente capace di dar voce alle istanze più radicali del movimento, di raccogliere ed esprimere le aspirazioni confuse di azzeramento, e non solo le posizioni teoriche; ma anche i valori: lo sdegno, l’insofferenza scontrosa, la durezza, il coraggio, la coerenza estrema e il sorriso improvviso. La passione per la precisione del linguaggio, in un movimento che aveva al suo centro la presa di parola, era molto importante per un leader. De Ma per di più giocava sul piano simbolico un insieme di significati: la stessa figura fisica, asciutta e androgina, i e | capelli biondi e lunghi — oltre allo stato di orfanità — ) contribuivano a farne un personaggio senza cedimenti al mondo esistente, tra il leggendario e il ribelle. Peppino Ortoleva: Guido si era fatto crescere i capelli e stava facendosi crescere la barba e tutti dicevano: «Ma vuole proprio sembrare Gesù Cristo?» Poi l’arresto, la canzone: «Guido Viale è lu nemici de lu capitale!». Lui era leggendario anche perché era nato a Tokio, era rimasto orfano, viveva in una soffit-

ta. Ma la cosa più importante era l’intransigenza del modo di ragionare oltre che del modo d’essere, che ti affascinava. Era la personificazione dell’antiautoritarismo.

Visto dall’oggi, e da profani, l'insieme poteva anche costituire un’interpretazione del carattere locale, subalpi116

no, di un rigore che nel suo caso travalicava le regole del buon senso e alludeva alla timidezza, alla solitudine interio-

re, al rifiuto di ogni indulgenza. Sono esistiti altri leader significativi e affascinanti nel movimento torinese: molte interviste parlano con ammirazione e rispetto di Luigi Bobbio; le memorie di donne insistono sulla forza dell’immagine femminile nuova rappresentata da Laura Derossi. Ma la figura di Viale emerge con particolare pregnanza simbolica, quasi emblema di un periodo e di uno spirito, luogo di identificazione, di proiezioni, di inquiete speranze. Tutto ciò, si intende, in modo relativamente indipendente dalla

reale identità delle persone citate. Viale per conto suo ricorda soprattutto due aspetti del suo ruolo dirigente, l’interazione tra le idee elaborate nell’estate e gli sviluppi successivi: l’insistenza sulla quotidianità della vita dentro le istituzioni (andare a sviscerare nei più minuti particolari le forme di oppressione in cui si concretizzava il rapporto tra il discente e la cultura) era un’attività collettiva. Non è che tutte

queste cose le avessi pensate prima: l’attenzione per la quotidianità era una cosa precedente, ma i contenuti no...

e l’impegno senza riserve: La mia idea personale di come io son diventato un leader del movimento è che facevo tantissimo.

Ma la memoria degli altri, soprattutto quelli che facevano parte dell’ala radicale del movimento, che costituiva la maggioranza, chiarisce altri aspetti. Marco Revelli: Mi ricordo la forza dissacrante di Guido Viale quando avevamo barricato le porte di palazzo Campana e avevamo messo per barricarle la sacra cattedra di Allara, che ci aveva

do,

terrorizzati nell’anno precedente. Allara era uno che faceva lezione dicendo delle frasi totalmente idiote che avevano l’unico obiettivo di essere memorizzate e dargli all'esame la percezione se tu eri stato a lezione oppure no. Non so, per esprimere la distanza tra diritto e morale secondo il positivismo giuridico: «se il legislatore stabilisce che tutti i venerdì le vedove devono uscire nude con sei imbuti in testa, le vedove devono farlo, perché così stabilisce il legislatore». All’esame dovevi ripetergli l’esempio delle vedove nude, altrimenti ti dava un voto molto basso. L’idea che la cattedra di Allara fosse usata come barricata per chiudere la porta era una cosa che a me dava una gioia incredibile. E mi ricordo che un giorno, nell’ora in cui avrebbe dovuto fare lezione Allara, Guido Viale era in piedi sulla sua cattedra, e Allara comparve alle sue spalle, perché era passato dalla cantina e Guido Viale lo affrontò a insulti, stando coi piedi — aveva queste scarpe massicce inglesi — stando sulla cattedra, capellone, tutto il peggio che per Allara potesse esserci. Gli diceva: «Vattene via», dandogli del «tu», con Allara che diceva: «Scenda immediatamente

da quella cattedra. Lei sta violando una norma giuridica» e lui: «Ma stai zitto imbecille, hai tormentato gli studenti fin adesso». Fece uno show che lo accreditò come capo carismatico, e che per me — ero quasi matricola — era una dissacrazione incredibile.

I ricordi gettano luce sulla natura della leadership come nessun altro documento. La struttura organizzativa informale e lo stato di emergenza favorivano una dirigenza carismatica, cui è stata applicata la definizione di «leadership verbale». I poli della leadership erano Guido e Vittorio [Rieser] come due modi di ragionare: da un lato l’estremismo lucidissimo e folle di Guido Viale, dall’altro la mediazione, la capacità di Vittorio di cogliere umori diversi che emergevano in un’assemblea, di sintetizzarli in posizioni e far vedere le

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possibilità di mediazione e gli aspetti di scontro. Il mio atteggiamento verso Vittorio era di ammirarlo, di trovarlo utile e di non amarlo, mentre il mio atteggiamento verso Guido era di ammirarlo, di trovarlo in certi momenti meno utile, però di amarlo molto di più.

I sentimenti si esprimevano in una diffusa verbalizzazione a proposito dei capi: Io ero tra i peones, e per noi questi leader erano abbastanza carismatici, quando si usciva si parlava molto di loro tra di noi. Dei leader io quello che amavo di più era Guido. Forse perché aveva fatto giustizia di Allara o perché era il più estremista. Non lo so. Mi ricordo poi quando fu liberato dal carcere che arrivò... aveva un giubbotto di renna marrone, me lo ricordo. E niente, gli volevo molto bene. (Revelli)

In questo campo

il movimento era omoerotico. Era mol-

to più facile per gli uomini ammettere sentimenti d’amore verso i capi, nella maggioranza uomini anch'essi, di quanto fosse per le donne trovare e accettare nuove forme di autorità femminile. Le donne in posizione di quadri intermedi erano numerose, ma in quella di leader €erano pochissime e suscitavano nelle altre sentimenti misti, di invidia e di emulazione. Nello stesso tempo rappresentavano un modello non totalmente desiderabile, per le rinunce che implicava alla femminilità fuatizionalo come affermano varie testimonianze. ce e

esetsià creoICITTA DEI

Dato questo insieme di circostanze, si può capire che l'arresto di Viale fosse in vari sensi, forse più quello simbolico che non quello reale, un colpo grave per il movimento. Gli studenti organizzarono molte forme di lotta, volantinaggi, cortei, manifestazioni che univano il tema della scarcerazione di Viale con quello della repressione poliziesca in Italia e in Europa. Il 24 aprile ci fu un corteo duro con fasi di corsa, che durò molte ore. Era stato indetto con due 119

volantini, uno indirizzato agli studenti, che richiamava la risposta degli studenti tedeschi al tentato assassinio di Rudi Dutschke, l’altro agli operai della Fiat che facevano appello alla «comune presenza davanti ai cancelli della fabbrica durante le passate giornate di lotta». Sabato 27, in un momento di massimo affollamento del

centro cittadino, furono organizzate manifestazioni che rilanciavano l’aspetto della creatività coniugata con la teatralità della beffa. I grandi magazzini Standa divennero teatro di un’azione di informazioni e propaganda: Un centinaio di studenti, divisi in gruppi, entrano nella Standa. Ogni gruppo ha un preciso compito di intervento in rapporto alla dislocazione dei vari saloni-reparti e passaggi tra i vari piani. Si interpella la gente direttamente cercando di intavolare discussioni. Si intrecciano dialoghi ad alta voce per provocare una reazione da parte della clientela. Si improvvisano brevi cortei che girano fra i banchi scandendo slogans. Naturalmente la polizia era presente all’interno del grande magazzino e in alcuni casi è intervenuta in maniera intimidatoria. Verso le 5 infine la direzione dello Standa ha deciso di abbassare tutte le saracinesche eccetto quelle di alcune porte. Contemporaneamente altri gruppi improvvisavano dimostrazioni lungo via Roma, piazza S. Carlo, piazza CLN, sia sotto i portici, che nel mezzo della strada. Altri gruppetti raffiguravano la ricerca di Viale, la repressione poliziesca, il clima da Sifar attualmente esistente in Italia. («Bollettino», 1° maggio ’68)

La memoria ci ha tramandato il divertimento di quelia forma di protesta; Peppino Ortoleva: Eravamo io e Andrea Brero. Io mi ero vestito benissimo, con la giacca, il gilet, la cravatta, perché dovevo fare la parte del borghese. Avevo anche il cappello in testa. Lui da

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una parte di via Roma e io dall’altra. E lui a voce fortissima diceva: «Hanno arrestato Viale» e io dicevo «Chi era Viale?» e lui diceva: «Era uno studente» «Ah, il solito farabut-

to». La gente veramente stupefatta. Poi avevamo dei cartelli a sandwich: «Scarceriamo Viale». A un certo punto c’era un altro col cartello «studente» che faceva il cane, e io sempre vestito da borghese con la «Stampa», che gli davo le

bastonate in testa. Tutti questi gruppetti teatrali si unificarono in forma quasi di corteo e entrarono in piazza Castello urlando con aria cupissima: «Non ci ascoltate, siamo pagati

dalla Cina».

Contese Il °68 torinese è stato spesso visto come fenomeno unanime, soprattutto per contrasto con i movimenti di altre sedi universitarie, maggiormente caratterizzate dalla presenza di gruppi o schieramenti politici contrapposti, con dibattiti anche molto accesi. Rispetto ai casi di Roma e Milano, la situazione torinese appare relativamente più compatta, anche a causa dell’insistenza su temi quali la condizione dello studente. Polemizzando con le posizioni sostenute dal movimento studentesco di Milano, Viale afferma: C'è una netta differenza fra un’interpretazione della massa degli studenti come proletariato e quindi legittimo portatore di contenuti eversivi e rivoluzionari, e una concezione

degli studenti come piccola borghesia e potenziale portatore di contenuti pericolosi, che necessita di una guida e ha bisogno assoluto di dimenticare i temi più personali, perché rischiano di essere antiproletari. [Per noi] la rivolta contro la propria condizione nelle istituzioni scolastiche e nell’ambiente sociale era fonte di contenuti politici e culturali sufficienti ad alimentare un movimento di vasto respiro. [Noi

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pensavamo ] che il proletariato fosse una cosa molto ampia, che includeva diversi gruppi sociali, che erano gli operai, i disoccupati, gli impiegati, gli studenti.

S

Se tale impostazione di fondo era condivisa dalla maggioranza del movimento torinese, questo fu ben lontano dall’unanimismo. È rilevante esaminare alcune delle contese interne a quello spazio discorsivo, perché. gli stessi nodi si ripresentarono più tardi e si pongono‘ ancora oggi. Innanzitutto val la pena ricordare che l'occupazione era stata votata il 27 novembre 1967 da oltre seicento studenti,

mentre circa sessanta, tra cui soprattutto monarchici e fascisti, avevano votato contro («L’Unità» 28-11-67). Questi

giovani di destra facevano riferimento all’Alleanza Universitaria Italiana, Gruppo

«VIVAVERDI»

(Viva Vittorio

Emanuele Re d’Italia), uno dei raggruppamenti della vecchia politica universitaria. Più volte entrarono di forza nell'università occupata e furono cacciati dalle assemblee e dalle commissioni. Il rettore dava loro una legittimazione, anche sulla base del fatto che uno di loro, Luigi Rossi di Montelera, era stato fino al dicembre presidente di uno degli organi della vecchia politica universitaria, l’Interfacoltà. Gli studenti contrari alle agitazioni diedero vita a una «Commissione di coordinamento» che pubblicava saltuariamente un «Notiziario» ciclostilato. Riconoscevano in modo confuso e contraddittorio le buone ragioni della protesta, ma si opponevano al metodo dell’occupazione e giudicavano inaccettabile la Carta delle rivendicazioni «perché inattuabile con l’attuale legislazione e assurda nella sostanza», nonché «abbinata a un’azione di dileggio verso le autorità costituite». Ma i dissidi più interessanti furono altri. Lo schieramento favorevole all’occupazione raccoglieva coloro che erano stati attivi nei raggruppamenti di ispirazione cattolica (Inte-

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sa), socialista, comunista e psiuppina (UGI, Unione Goliardica Italiana) e liberale (AGI, Alleanza Goliardica Italiana),

che avevano dato vita negli anni precedenti ai cosiddetti organismi rappresentativi. Dal 1948 erano esistite in tutti gli

atenei assemblee elette dagli studenti, su liste presentate da vari gruppi; l'assemblea esprimeva una giunta esecutiva e inviava rappresentanti a un organo centrale. Tali organismi

rappresentativi amministravano fondi provenienti dalle tasse pagate dagli studenti e avevano voce in capitolo nelle Opere universitarie, che si occupavano di borse di studio, presalari, esenzioni, case degli studenti e attività assi-

stenziali. Rispetto alla gestione dell’Università e all’organizzazione degli studi, il potere degli organismi rappresentativi era limitato a funzioni consultive. Rispetto agli studenti, la rappresentatività degli organismi era ridotta dalla scarsa partecipazione alle elezioni, che a metà degli anni sessanta si calcolava intorno al 34% degli iscritti e al 75-80% dei frequentanti. Ma soprattutto era limitata dalla natura della loro politica, in larga parte ricalcata su quella dei partiti, che riproduceva gli aspetti di sfera separata propri dalla politica «adulta». I raggruppamenti politici che avevano animato gli organismi rappresentativi si sciolsero nel movimento dopo i primi tempi, ma le loro eredità non erano indifferenti: avevano diretto le lotte degli anni sessanta, formato quadri che divennero dirigenti del movimento, contribuito a creare legami di conoscenza tra i giovani politicamente attivi (dei settecento che parteciparono alla lotta torinese «centocinquanta ci conoscevamo da prima», Luigi Bobbio).

Le differenziazioni politiche non scomparvero nel movimento; furono presentate (attraverso documenti) anche le

posizioni del Partito comunista, che pure non era una forza consistente tra gli studenti. A Torino ci fu «un momento magico», come lo definiscono alcune testimonianze, in cui

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PAVRRS. oa

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org

si coniugarono unità e pluralismo. Un episodio simbolico è diventato oggetto di una vera e propria tradizione orale: C'era stata un'assemblea molto grande — credo nel dicembre del ’67 — in cui l’antiagitazione accusò il movimento di essere una proiezione dei partiti di sinistra. Allora Carlo Donat Cattin, che presiedeva l’assemblea, sventolò la sua

tessera di iscritto alla Democrazia Cristiana. [o mi ricordo che andai a parlare, dissi: «Ho sempre parlato a titolo personale, adesso parlo come vicepresidente nazionale delPAGI». (Diego Marconi)

.

Il primo dissidio rilevante fu quello tra il gruppo di ispirazione liberale e socialista che si potrebbe oggi definire dei moderati o laici (in gran parte faceva riferimento all’ AGI, di cui costituiva la sinistra), e il gruppo che rappresentava la maggioranza del movimento (i cui principali dirigenti erano di sinistra, ma che includeva i cattolici). Quando le due componenti si contarono, nell’assemblea del 18 aprile ’68, che segnò l’allontanamento dalla politica dei moderati, questi ottennero un’ottantina di voti, mentre la maggioranza ne aveva circa 450 (Marconi). Il divario era esistito fin dall’inizio, tra una linea di riformismo avanzato e quella della contestazione radicale. La stessa idea dei controcorsi aveva avuto connotazioni diverse: per la prima aveva un valore di sperimentazione per riformare in seguito tutta l’Università;

per la seconda rappresentava il modo di aprire spazi di contropotere nell’università, che doveva funzionare normalmente, con un rapporto di tensione continua tra i due spazi.

C'era un importante terreno comune, che era la richiesta di democrazia. Ma anche la democratizzazione aveva significati diversi per i diversi raggruppamenti. Il punto di massimo contrasto riguardava la contrattazione con le autorità accademiche e l’interpretazione della Carta rivendicativa

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che assommava le richieste del movimento. In un documento presentato nel febbraio da quattordici firmatari del raggruppamento laico (dopo la riapertura del Palazzo Campana per gli esami, ma sotto la minaccia del Senato accademico di far saltare l’anno per tutti gli studenti), si denunciava la «fuga in avanti di coloro che attribuivano al movimento il ruolo di ‘avanguardia’ in una generica ‘contestazione globale’ al sistema» sminuendo o rifiutando le trattative su «Obiettivi precisi e concreti». Il documento sosteneva che la crescita del movimento non avviene per mezzo dell’acquisizione culturale di contenuti contestativi particolarmente «avanzati», ma

attraverso il suo inserimento in strutture

nuove e diverse, [e ribadiva] la volontà di operare come componente politica nell’Università e pertanto non solo accettare, ma anzi autorevolmente richiedere, a ben precise condizioni, la contrattazione con le Autorità Accademiche.

Alle origini delle due posizioni c'erano sia analisi politiche sia stati d’animo diversi. La linea della contestazione radicale interpretava il desiderio presente in molti di vivere diversamente: la storia che non si può immaginare una riforma delle università senza collegarla a una trasformazione della società, perché «non si può fare un’isola d’oro in una società di merda», per noi fu una grande gioia: era un modo per superare i limiti del riformismo che, sotto certi aspetti, avrebbe significato la fine dell’agitazione. Invece questa dimensione di un’università da riformare completamente fintantoché non si è cambiata la società, ci permetteva di immaginare un lunghissimo processo di conflittualità non subordinato alle trattative. Per me queste erano un po’ la paura che la grande festa potesse chiudersi con un cedimento riformistico da parte dei vertici universitari. (Marco Revelli)

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La festa includeva un’accentuazione del momento collet-

tivo, con aspetti di fusione realizzati nella pratica quotidiana: La sera, se stavi nella facoltà occupata, si facevano i turni per andare a mangiare e c'erano i posti dove sapevi che c'era la gente. Non ci perdevamo mai, ecco. Noi stavamo sempre insieme in un modo o nell’altro, o che fosse l’università occupata o che fosse la Camera del Lavoro o che fosse

Biologia o che fosse Architettura o che fosse la trattoria o che fosse il Psiup, che allora era in via Po. Noi ci muovevamo a branco. L’individuo era sparito, io non avevo una vita individuale, non facevo più niente da sola, non andavo al cinema da sola, non leggevo un libro, io vivevo in questo

BIANCO

AA

RETTA

Con Luigi stavamo sempre insieme, sempre però in mezzo a

cinquecento persone. Quando andavamo a mangiare fuori, minimo eravamo dieci. Magari si usciva per andare a mangiare in sei, poi si diventava venti, poi sui venti ne arrivava-

no altri quindici, che facevano altri tavoli. Poi qualcuno si alzava, qualcun altro restava. Erano luoghi dove noi mettevamo i piedi e facevamo amicizia con i camerieri, col padrone, e mangiavamo lì, stavamo lì. (Laura Derossi)

Questa impostazione andava al di là della rivendicazione di un sapere critico; la questione era sempre più accentuamente di natura politica e esistenziale, dove i due aspetti tendevano a confondersi: Era un unive alizzante, in cui il privatoe il pubblico si mescolavano. Noi la cosa che odiavamo dipiù in quel ESS TG eo . . ONO . periodo era la politica come mestiere, il politico di professione, che ha le ore del pubblico e le ore del privato. Il nostro obiettivo era di rimettere tutto insieme e questo faceva scomparire il privato. Ma il pubblico era gravido di privato: «perché io metto in gioco me stesso interamente, quando faccio un’azione pubblica, cioè il pubblico è espres-

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sione della mia soggettività, è il mio modo di essere me stesso».

Nel corso di quell’anno è diventata una scelta di vita che molti di noi non hanno messo in discussione almeno per i dieci anni successivi. I costi personali erano inavvertiti, non c'era senso del sacrificio, c’era il senso di divertirsi molto. (Luigi Bobbio)

Al contrario il gruppo dei laici stava vivendo forti contraddizioni, perché i suoi singoli componenti subivano una radicalizzazione nella vita quotidiana che mal si conciliava con la moderazione sul piano politico. Diego Marconi: il °68 per me è stata anche una esperienza di grandissima frustrazione di una serie di esigenze. Innanzitutto l’esigenza di studiare, cioè io vivevo questo fatto di far politica a tempo pieno come un grandissimo sacrificio personale. E poi anche proprio rispetto alle mie esigenze ludiche. Io non avevo voglia di andare sempre all’assemblea, di andare sempre al comitato di agitazione, avrei voluto andare in collina con Betti. E difatti certe volte noi scappavamo dal comitato di agitazione, prendevamo la macchina e andavamo in collina.

Le divergenze erano in realtà più ampie del dissidio tra due componenti ben definite del movimento. Si avvertiva un confuso disagio, un’incertezza sul da farsi. Parecchie testimonianze parlano di un senso della fine già presente in marzo-aprile. Gli studenti si trovavano di fronte all’interrogativo di «come andare avanti», «tipico di quando cominci a capire che la spinta iniziale si sta esaurendo» (Bobbio). Le trattative col Senato accademico procedevano in modo

faticoso, tra nuove

serrate, e oscillazioni sia del

movimento sia delle autorità accademiche. La spinta verso un sapere critico si stava esaurendo, i limiti dei controcorsi

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erano comparsi da tempo. Non solo la loro incompatibilità con i piani di studio esistenti e con le esigenze di chi doveva sostenere gli esami per il presalario. Ma soprattutto la contraddizione intrinseca alla linea radicale di «finalizzare al discorso politico-strategico del movimento il lavoro culturale o di ricerca teorica che i controcorsi facevano». La riorganizzazione, nel marzo, dell’attività di studio in commissioni dai titoli più accentuatamente impegnati verso

la politica (Lotte sociali in Europa, Nato e politica italiana, Programmazione

nazionale e potere economico

privato,

Manipolazione del consenso, Demistificazione delle ideologie, Condizione operaia nella società del benessere), si ac-

compagnava al crescere della consapevolezza di un problema irrisolto: La difficoltà maggiore consiste nel saper finalizzare il lavoro culturale a un tipo di presenza politica che sia contestativa non solo per la sua contrapposizione all’Università tradizionale, ma per una metodologia e dei contenuti che servano al movimento per l’individuazione di una strategia e una tattica di lotta. («Bollettino», 27-3-68)

Ogni finalizzazione presentava in realtà il pericolo di tradire l’ispirazione originaria di una ricerca libera, di un sapere critico.

L’espansione al sociale non sostituiva quella ispirazione in modo indolore. Implicava innanzitutto un cambiamento del personale. politico. Anna Trautteur: Ho sempre fino alla primavera partecipato. Poi non sono più riuscita a identificarmi troppo. Io avevo partecipato; mi ci ero buttata perché mi identificavo con quella che era la

protesta. Le cose che contestavamo erano quelle che avevo vissuto sulla mia pelle, che avevo sentito, con cui mi accor-

davo. Dopo ho avuto la sensazione che l’università, il movimento studentesco, certe richieste fossero slittate decisa-

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mente in secondo piano. Erano diventate più che altro un pretesto per un altro tipo di discorso. Non è che io fossi contraria a quel tipo di atteggiamento, ma non mi ritrovavo in certi, chiamiamoli ideali. Io come studentessa universitaria ero d’accordo con certe cose, con altre non vedevo

come si potesse incidere. Non saprei definire esattamente che cos'è stato, forse un politicizzarsi troppo repentino, un perdere di vista certé cose. E allora mi sono staccata, anche se poi dall’esterno ho continuato a seguire parecchie cose, ma non ho più partecipato né alle assemblee né a niente.

Dall’altra parte nasceva l’insofferenza di molti verso le forme di estensione al sociale adottate fin allora: Non possiamo credere che la nostra azione possa limitarsi a fare manifestazioni nel centro cittadino provocando i ‘benpensanti” o innervosendo i buoni padri di famiglia che, a causa del traffico interrotto, arrivano tardi per la cena. Provocare, irritare, non basta: se si vuole fare un’azione

politica che conti, bisogna proporsi di organizzare le forze sociali che sono disponibili alla lotta. Presto le manifestazioni dovremo cominciare a farle nei quartieri operai e nei nuovi insediamenti della cintura. («Bollettino», 27-4-1968)

Sul modo di uscire dall’università c'erano contrasti. In concomitanza con la ripresa di scioperi alla Fiat nel marzo, una parte del vecchio nucleo dei «Quaderni rossi» che faceva capo a Dario e Liliana Lanzardo propose agli studenti un nuovo raggruppamento, la Lega operai-studenti, che doveva «portare un contributo alla lotta di classe». Anche la rivolta studentesca si presentava in quella visione come «acquisizione di coscienza di classe», e su questa base poteva proporsi un intervento diretto alle fabbriche. L’operazione escogitata dai dirigenti studenteschi era invece di arrivare alla classe operaia attraverso un lungo

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processo a cerchi concentrici, avviato dai più vicini a se stessi: dalle facoltà scientifiche e dal Politecnico alle corporazioni intellettuali, di giornalisti, medici, avvocati; dagli studenti medi agli studenti serali, punto di contatto con la

classe operaia, alla quale infine giungere, dopo averla aggirata. Una posizione intermedia in quel dibattito aveva Vittorio Rieser, allora assistente, che pur riconoscendo l’«ambi-

gua natura di classe degli studenti», sottolineava il «fortissimo interesse degli operai verso le lotte studentesche» e le «grosse possibilità di comunicazione

discussioni) e di azione studenteschi agli scioperi, festazioni studentesche)», operai e studenti (da un

(volantini, giornali,

comune (volantini, picchettaggi partecipazione operaia alle maniche si aprivano a un rapporto tra documento presentato da Rieser

nel marzo ’68).

Nel frattempo si accentuava la repressione, gran parte della dirigenza veniva arrestata e poi rilasciata, il senso di emergenza cresceva. L’esigenza di democrazia veniva meno per difficoltà interne e esterne, la pluralità di opinioni non appariva un bene prezioso; anche i cattolici che eran rimasti con la sinistra non erano più democristiani, si erano radicalizzati. Lo stato d’animo diffuso era di intransigenza: «tutti eravamo infinitamente più moralisti di quanto siamo oggi» (Marconi); «molto convinti di non dover mediare, tirare dritti» (Bobbio). D'altra parte stava sopraggiungendo l’atmosfera trion-

fante del maggio francese, la nuova e più ampia comunicazione tra strati sociali, presagita a Torino nel marzo. Martedì 30 aprile il «Bollettino» usciva con il titolo: «Per la prima volta in tutta l'Europa gli studenti scenderanno in corteo con gli operai il 1° maggio».

Si poteva dire infatti che fosse una data storica. Lo spostamento di segno delle agitazioni studentesche nel corso di 130

mezzo secolo, dal tono interventista e nazionalista alla ri-

chiesta di giustizia sociale e al rifiuto dei propri privilegi di classe, non poteva essere più netto. Portava con sé speranze

di rigenerazione sociale che facevano leva su altro che il sapere critico, e che adombravano l’ansia di spazi discorsivi ancora più ampi, di parole che rompessero le barriere sociali. Un ulteriore e più drastico azzeramento, una palingenesi non detta, ma fortemente avvertita. Può essere interessante

sentirla esprimere da chi non la condivise, come Diego Marconi: Noi siamo stati una generazione di Pierini. E di contro a questo materiale umano c’era la massa dei disperati, di quelli che a scuola andavano malissimo, anche perché non studiavano, perché erano dei disadattati, perché erano incazzati col professore. I «cinesi» — allora li chiamavamo così — hanno preso questa massa di disadattati che venivano dritti dai tetri anni cinquanta e ne hanno fatto dei militanti politici, di varia qualità si capisce, però gente che aveva un’identità, dei valori. Un lavoro ammirevole e enor-

me, un canale di maturazione e di riscatto umano per centinaia di persone. Io allora ero molto scandalizzato del fatto, mi sembrava proprio un’operazione dostoevskiana.

Le questioni universitarie perdevano interesse di fronte a

un simile coinvolgimento di una generazione politica: «dopo il maggio eravamo pronti a tutto» (Peppino Ortoleva).

Nel frattempo il preside della facoltà di Magistero, il professor Guido Quazza, che si era dissociato più volte dalle posizioni del Senato accademico e aveva sempre avuto un atteggiamento di apertura verso gli studenti, fece un accordo separato, che accettava seminari, esami di gruppo, modifiche rilevanti dell’organizzazione degli studi. Il Senato accademico fece molte concessioni, l’anno accademico bene

o male si salvò. 131

Le influenze del movimento studentesco sulle strutture

universitarie continuarono in modo contraddittorio negli anni successivi. Ma l’ondata di rivolta aveva cambiato direzione, il movimento si era spostato altrove. Luigi Bobbio: Nell’anno accademico ’68-69 non c’era più niente, c'eran gruppi, ma ’era più il movimento. Contemporanea“mente. i operaie sono andate avanti. E allorac'è stata una specie di attrazione,lacosa che “noi volevamo evitare è successa. Il polo si è spostato lì. E allora, dopo il crollo del movimento nell’università, è stato come se il movimento avesse prodotto dei militanti che non

sapevano cosa fare. privato Il loro era ormai la politica e dovevano applicarla:a-qualcosa, ma avevano perso l’oggetto. Il periodo tra il ’68 e il’69 per me è stato angosciosissimo ‘perché non potevamo fare nient’altro che militanza politica, ma non potevamo farla, perché tutto quello che facevamo ci si perdeva fra le mani. A un certo punto abbiamo finito per applicare questo desiderio alla Fiat. E allora abbiamo fatto un anno dopo, tutti quanti, quello che Lanzardo ci aveva detto, anche se in modo diverso. Ma questa è un’altra storia.

La vera novità del movimento torinese era stata la scoperta di nuovi soggetti, che si costituivano a partire dalla propria condizione sociale: Noi eravamo convinti che gli studenti fossero un soggetto in quanto tali. La teoria che giustificava questa cosa, che noi un po’ abbiamo inventato un po’ abbiamo preso da Rudi Dutschke, era il discorso sulle istituzioni: le istituzioni sono massificanti e autoritarie e il fatto di appartenere alle istituzioni ti dà titolo a ribellarti contro di esse. Era importante per dire: «Ognuno gioca il suo vissuto nella lotta. Io mi ribello contro la mia oppressione, non contro quella dei vietnamiti. Io sono con loro perché lottiamo contro lo stes-

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so nemico, ma io sul problema della mia liberazione — io sono lo studente in quanto studente. I miei nemici sono le autorità accademiche, sono i riti dell’università, sono la cultura autoritaria e la manipolazione culturale. Per gli operai sarà un’altra cosa, diversa. Magari loro sono più importanti di noi, contano di più, ma la nostra presa di parola come testimonianza individuale vale quanto la loro, perché è una testimonianza di liberazione. (Viale)

Queste posizioni erano del tutto isolate nel movimento studentesco nazionale, fatta eccezione per poche sedi, come quella di Trento. Basta ascoltare le ragioni che uno dei più sensibili leader romani, Franco Russo, porta oggi per spiegare il suo giudizio che il movimento romano fosse «più radicale»: Roma partì dopo, ma partì più radicale, con molti quadri politicizzati e coinvolse subito migliaia di persone. Immediatamente ci si pose il problema dell’allargamento al territorio; subito il movimento si impadronì della tattica antimperialista. Non era una cosa nata solo sulle questioni dell’Università. Quello direi che fu piuttosto una cosa successiva e imitativa, anche se facemmo i controcorsi, interruzione di lezioni, voto unico, sai queste cose.

Ancora Luigi Bobbio: Eravamo molto incompresi, dai milanesi, dai romani in modo fortissimo. E noi eravamo molto incazzati con loro,

c’era uno scontro molto forte. Gli spiegavamo per esempio l’importanza della lotta contro i professori — noi attribuivamo molta importanza a questo punto, come elemento liberatorio, di affrancamento dal-

l’autorità. E loro dicevano: «Ma queste sono cazzate. I professori non sono importanti. Sì, si può fare, ma noi dobbiamo lottare contro il capitale, dobbiamo trovare il rapporto con la classe operaia». In modo astratto, perché poi a Roma non c'erano neanche gli operai. Mi ricordo

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delle discussioni, delle notti passate a discutere con i romani, io gli dicevo: «Ma voi a Roma non c’avete operai, cosa v’importa? Voi a Roma c’avete gli impiegati dei ministeri, è una città fatta dal popolo ministeriale, non ci sono gli operai, dovete riuscire a parlare con gli impiegati dei ministeri». Naturalmente a loro la cosa non interessava niente. Non vedevano l’elemento di liberazione interno. C'era proprio un terrore, in quel periodo lì, di porsi come avanguardia, di fare il partito, di dire: «Noi dobbiamo dirigere le lotte degli altri»; una parola chiave era: «comunicazione», del movimento o della prassi. Un'altra parola molto in voga era «unilateralità»: non porsi problemi generali, ma porsi dal mio punto di vista. Un punto di vista è sempre parziale, ma è vero se è parziale. Se

diventasse generate nonsarebbe più-vero. Qui sta una delle ragioni dell’interesse attuale per il ’68 torinese, e in generale per un certo filone presente in tutti i

°68, indipendentemente dai loro esiti. Un movimento in particolare potrebbe, se lo volesse, dirsi erede di quel ’68: il movimento delle donne e soprattutto certe sue ali radicali.

Ma sorge un problema storiografico complesso, che bisogna rinviare, sul rapporto tra movimenti del ’68 e movimenti delle donne. Qui si può solo accennare a un dissidio interno

al movimento

studentesco

torinese,

allora

non

espresso e di cui in seguito si è parlato poco e con fatica.

La divisione di genere Tutte le donne che ho ascoltato attribuiscono alla loro partecipazione al movimento studentesco valore di emancipazione dirompente. Quelle che avevano già fatto attività politiche e culturali (nell’università , nei partiti, nelle riviste)

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sottolineano la differenza della nuova esperienza, in cui le donne erano molto più numerose e contavano di più. Ciò era vero soprattutto in situazioni come quella di Magistero, facoltà a popolazione prevalentemente femminile, dove il movimento, molto forte, era gestito interamente dalle don-

ne. In generale si può assumere come dato significativo la percentuale di donne sui quattrocentottantotto denunciati del marzo ’68: il 34%, numero altissimo rispetto alle abituali proporzioni della partecipazione femminile alla politica tradizionale in Italia, dal 7 al 18%.

La causa stava nella forma stessa della nuova politica, legata al quotidiano, alla soggettività, meno separata dalla vita. Potremmo aggiungere che, se in tutte le situazioni di emergenza le donne sono ammesse a contare, uno stato di «simulazione della guerra» (Franca Balsamo) si prestava particolarmente a una partecipazione in cui si accentuavano

i caratteri simbolici del rito e del gioco. In una direzione simile va l’osservazione di Eleonora Ortoleva, che le donne erano in prima linea in una grande rappresentazione teatrale: eravamo attori e avevamo un grande pubblico. Eravamo sulla scena e gli altri, anche della nostra stessa generazione, ci osservavano.

Il gioco teatrale fa parte della costituzione in soggetti, come capacità di sdoppiarsi e di osservarsi. Ma quali immagini interiori guidavano le donne in questo apparire alla ribalta? Una forte spinta era negativa: distanziarsi dalle madri, rifiutare totalmente.il loro modello. I nuovi modelli offerti dalle donne più in vista del movimento erano mediati da un’idea di emancipazione in parte maschile in parte androgina. Quest'ultima passava soprattutto attraverso il gruppo di pari, degli adolescenti che si riuniscono per affer-

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mare una diversità in quanto figli, gruppo in cui prevale la differenza di età rispetto a quella di genere. pus ) Modello maschile d’altronde non significa pura e sempli# Judal ce imitazione del maschio. Un esempio di donna emancipapuò PX ta era quello tradizionale della «maschietta», capelli corti e AL

modi svelti, una certa aggressività | dei costumi, che poteva essere aggiornato con le acquisizioni della minigonna e dei pantaloni a ogni ora del giorno. La figura di riferimento era quindi un ibrido, cui è da ascriversi l'emersione di comportamenti fin allora criptici, come fumare e un certo modo di fumare, per strada e con una gestualità non tradizionale per le donne. Maria Teresa Fenoglio ricorda il suo stupore di fronte ai gesti delle donne emancipate del movimento: tenere l’accendino nella borsetta, buttar la cenere a terra, sedersi

sul tavolo. Dello stesso genere è l’immagine di donna nuova, in posizione di potere e capace di sfida alle regole tradizionali della modestia femminile, che aveva colpito Maria Teresa. al suo arrivo nel movimento: ho visto per la prima volta Laura Derossi e mi ha fatto grandissima impressione perché aveva le gonne cortissime e si vedeva il reggicalze. Mi sembrava che osasse tantissimo. Allora io per intrecciare un’amicizia con questa Laura Derossi: «Pss, ti si vedono le calze e le mutandine» e lei mi ha detto: «Ah!», e se le è messe giù, ma come per compiacermi, in realtà lo sapeva benissimo.

Possiamo capire che per molte questo modello non fosse attraente e che preferissero, quando era possibile, rivolgersi altrove, a figure di potere femminile come poteva offrirne la cultura inglese (Vicky Franzinetti), col suo retaggio letterario e sociale. Molte donne ricordano di aver vissuto nel ’68 un senso di libertà che dava sfogo alla loro voglia di affermazione e di RON ò)

th

Va

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presenza pubblica. In realtà le donne che contavano ai livelli massimi di dirigenza erano molto poche. Laura Derossi per l’ala radicale, Betti Benenati per il polo laico. Erano contraddistinte dalla capacità di intervenire nelle assemblee generali: la cosa più difficile era parlare nell’aula magna, strapiena, con più di cinquecento studenti e prendere la parola dalla cattedra. Anche i maschi erano pochi che lo facevano. (Derossi)

Per queste donne il movimento aveva rappresentato il luogo del valore, che consentiva un’eguaglianza negata nel mondo esterno. Laura Derossi ricorda che nei primi mesi dell'occupazione le venne risparmiato l’arresto per la sua appartenenza di genere: «i carabinieri a me non mi volevano, perché ero una donna»; che in seguito, nel marzo, dovette insistere per essere arrestata con gli altri denunciati, e che solo nella latitanza precedente all’arresto, a Milano, nel corso di contatti con altri leader di Milano e diRoma, cominciò a sentirsi discriminata: la mia uguaglianza è finita col movimento. Io nel movimento non avevo mai avuto un attimo la sensazione di essere diversa, di aver meno diritti, di poter fare meno cose, mai, da lì in poi sempre. Se si doveva scegliere chi faceva il docu-

mento, chi andava a parlare, era automatico che non ero io.

La forma di liberazione attraverso la politica era molto ambigua: Io ero molto intimidita, in realtà. Mi pompavo molto — infatti ogni tanto chiedo come la gente mi ricorda e mi ricorda come una che faceva delle sparate alle assemblee con molta forza e decisione. Dentro mi sentivo molto insicura, ma non me ne rendevo conto (Fenoglio).

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Quest'ultima osservazione indica perché oggi è così difficile analizzare una situazione in cui la differenza di genere non era vissuta in modo consapevole. Il passaggio dall’allora all’oggi è spesso definito come dalla cecità alla visione: ero rimasta molto colpita dall’aver trovato come capa degli organismi studenteschi a Berlino una donna. Quando l’ho rivista nel ’78-79, non mi ha riconosciuta: «Hai visto — lei

stessa ha detto — anche io allora avevo gli occhi bendati, perché di Luigi mi ricordo, di te no». (Derossi)

Le valutazioni attuali, attraverso la riflessione della me-

moria, si scindono lungo due filoni, certamente anche sulla base delle differenze nell’esperienza individuale. Tutte riconoscono gli elementi di oppressione presenti in quella liberazione, ma alcune accentuano il lato liberatorio. Le osserva-

zioni più toccanti sono quelle sul passaggio dall’isolamento sofferto e depresso al sentirsi parte di un tutto, alla comunicazione e all’appropriazione di tempi e spazi nuovi, come la sera e la città, oltre all’università. Le reti di relazione instau-

rate allora, a Torino e in altre città, valgono per alcune ancora oggi.

Altre testimonianze sottolineano gli aspetti di oppressione, ma soprattutto di auto-oppressione. Questa è una delle

differenze più vistose con le testimonianze raccolte nel °76 e pubblicate da «Ombre rosse» sulle esperienze delle donne nel movimento studentesco. Quasi dieci anni dopo il ricordo era ancora così duro da imporre a tutte l'anonimato degli pseudonimi. Chiara: la maggior parte delle donne, anche se studentesse, aveva__vano. ‘L’unica che siiagitava. e- parlava ei era C. e io sognavo

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qualche volta che lei affogava e io la lasciavo affogare sogghignando. Simona: con le altre donne i rapporti erano.sostanzialmente

inesi-

stenti, nel migliore dei casi, soprattutto con quelle che allora «contavano», che si erano create un loro spazio politico.

Loro mi guardavano attraverso, come se fossi uno spazio vuoto, o mi consegnavano volantini da ciclostilare, come se

fossi un pezzo di ciclostile, e io le pativo, qualcuna la detestavo.

Il non guardare le altre, il detestarle, l’augurarsi la loro

morte, come passaggi dell’emancipazione. Forse non sempre sono obbligati, ma storicamente è andata così, almeno

per alcune donne. È particolarmente doloroso, perché quei passaggi implicano non vedere parti di sé, odiare se stesse, annientarsi. Implicano un’autodistruzione che può diventare premessa della rinascita, ma che può anche restare a lungo disfacimento, perdita, mancanza più grave di quella osservata nelle proprie madri. Nelle testimonianze attuali c'è assai poco quello che là dominava, recriminazione e rancore. C'è la consapevolezza dei costi pagati e della propria complicità nelle scelte fatte. Il tempo e l’allargamento dell’intellettualità-femminile hanno consentito una storicizzazione iniziale. Uno dei punti più dolenti è quello della liberazione sessuale, processo tra i più ambivalenti per come si realizzò in quegli anni. Esso conteneva contemporaneamente innovazione e continuità, rottura con tabù e riprese di vecchissime

consuetudini, che avevano sempre fatto del sesso moneta di scambio e strumento di comunicazione. Il rapporto sessuale dato per scontato, praticato con qualche distacco dalle emozioni consuetamente attribuitegli, si inseriva piuttosto nel tema della conoscenza, del nuovo sapere. Alla nuova dispo-

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nibilità delle donne verso di esso, quando non era pesantemente indotta come prezzo da pagare all’inserimento in una cerchia, si addicono dunque i termini propri di una gaia scienza: curiosità e delusione, sperimentazione, scoperta. Per alcune si trattò soprattutto di una scoperta dei sentimenti attraverso il corpo, dalla sensualità e l’innamoramento alla maternità (Laura Cima). In realtà il movimento del ’68,

contraddittorio ancora una volta, legittimò con l’azione allargata ciò che al suo interno negava, come la corporeità femminile e la maternità. Da tutto ciò vennero rotture di rapporti monogamici, formazione di nuove coppie, pretese di rapporti liberi, col carico di dolore e felicità e frustrazioni che comportano. Di qui anche rotture con le famiglie d’origine e nuove ambiguità tra i poli maschile e femminile: Il °68 anche piano in cui

per me è stata una continuazione delle scelte paterne, se ho avuto la rottura col padre. Ma l’ho avuta sul sessuale, dopo che mio padre ha letto delle mie lettere si capiva che facevo l’amore non solo col mio fidanza-

to, ma anche con un altro.

Il ’68 aveva posto il problema della liberazione delle donne in modo più impellente di prima. Questo era il suo contributo. Era impossibile tornare indietro, sia dalla emancipazione sia dalle nuove forme di oppressione. Il campo dei rapporti tra le donne era del tutto aperto, perché il movimento studentesco aveva spesso acceso le rivalità, le

tra le donne, il che è sempre fondamento per la presa di soggettività. Restava irrisolto il grande problema dell'amore e del rispetto tra di loro: io desideravo avere una figura femminile buona, perché avevo questa tragedia dentro, del non poter trovare qualche

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figura di riferimento femminile importante, che mi desse pace in qualche modo. (Fenoglio)

Dovevano passare anni prima che questo desiderio si rendesse esplicito e operante. Le avventure del femminile nel nostro mondo attraversano povertà e solitudine, prove tanto più terribili quanto più si accompagnano all’impegno politico e produttivo, quindi alla convinzione di stare facendo qualcosa di giusto e utile per gli altri.

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