Autopsia della rivoluzione

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JACQUES ELLUL

autopsia della rivoluzione Società Editrice Intemazionale -Torino

Proprietà riservata alla SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE Officine Grafiche SEI • Torino Giugno 1974 • M. E. 41557

PREFAZIONE

Rivolte, rivoluzioni, sommosse, ribellioni, agitazioni, guerre civili, colpi di Stato: la storia intera ne è intessuta,1 la vita dell’uomo ne è condizionata. Non un accidente, ma una costante, non disordine ma movimento impresso al corso pigro della storia. Non vi è una eccezionalità della rivoluzione che si opponga ad una normalità o a una regolarità della vita dei popoli, dei poteri, delle civiltà. Se non ci accontentiamo degli schemi storici che ci parlano del 1649, del 1785, del 1917, allora, analizzando un po’ più da vicino gli avvenimenti, 1. La storia ne è intessuta... Consideriamo alcuni esempi. Nel XVII secolo: 1601-1610, «epoca dei torbidi», serie di rivolte in Russia; 1610, rivolta dei Sikh; 1620-1630, rivolta ci­ nese contro i Ming; 1631, insurrezione di Digione e di Aix in Provenza; 1635, insurrezione di Bordeaux; 1636, rivolta dei Croquants; 1637, rivolta di Awa Kousa in Giappone; 1639, rivolta dei NttS'pieds; 1640-1644, rivolte contro i Ming, culminati con la caduta della dinastia; 1640, rivolta della Catalogna contro la Spagna, terminata soltanto nel 1652; sempre nel 1640, inizio della rivoluzione in Portogallo, protrattasi, in forma latente o esplosiva, fino al 1668; 1641, anno di disordini molto estesi, rivolte contadine in Irlanda, Svizzera, Germania, Russia; 1643, rivolta del Rouergue; 1645, rivolta di Montpellier; 1647, rivolta di Masaniello a Na­ poli contro il viceré spagnolo, protrattasi per un anno; 1648, altra annata densa di rivoluzioni: rivoluzione inglese, cominciata nel 1640 ma sviluppatasi particolarmente tra il 1648 e il 1653, della quale è stato detto che fu forse « la prima grande rivoluzione borghese dei tempi moderni»; 1648-1652, la Fronda in Francia; 1648-1654, insurrezione delTUcraina; nello stesso anno, sommosse popolari russe, a Mosca, Koslov, Tornsk, ecc«; sempre nel 1648, la rivolta induista dei Maharatti contro gli invasori mongoli; nel 1649, si riaccende la ri­ volta di Mosca; 1650, sommossa di Novgorod e colpo di Stato di Guglielmo d’Olanda; 1653, guerra contadina in Svizzera; 1662, rivolta del Boulonnais, rivolta di Mosca per un problema monetario; 1664-1670, la grande ribellione di Audijos; 1670-1671, la grande ri­ volta di Stenka Razin e l’insurrezione contadina in Boemia; 1673-1681, importante insurre­ zione nel nord-est della Cina; 1675, ancora un’annata ricca di rivolte; rivolte dette della carta bollata in Bretagna e a Bordeaux, si intesificano le ribellioni dei Sikh e dei Maharatti, e subito dopo, rivolta religiosa dei Camisards; 1679, rivoluzione d’Irlanda. Consideriamo un altro periodo: dal 1770 al 1850. Anche in quegli anni scoppiano in tutto il mondo sommosse, ribellioni, rivolte, rivoluzioni. Nel 1768, rivoluzione democra­ tica di Ginevra; 1770-1783, la rivoluzione americana, in seguito alla guerra contro la Gran Bretagna; 1772, rivoluzione regia in Svezia; 1780-1783, molteplici rivolte in Inghilterra e in Irlanda, grande rivolta degli Indiani nel Perù; 1781, insurrezione di Nuova-Granada, rivo-

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possiamo constatare nei fatti questa continua permanenza della rivoluzione fra gli uomini. È vano cercare una distinzione fra periodi calmi e periodi agitati. La rivoluzione non è tanto la locomotiva della storia quanto uno degli elementi della trama invisibile che costituisce le civiltà. Ma subito sorge la preoccupazione di dare una definizione formale della rivoluzione. Cosa intendiamo noi con questa parola? Come interpre­ teranno gli altri queste cinque sillabe ? « Il dovere di ogni cristiano è di essere •\ rivoluzionario», ha proclamato Camillo Torres. Senza dubbio; ma ciò significa che dovrà essere hitleriano o marxista, anarchico o staliniano? Quale rivoluzione può desiderare il cristiano ? a quale potrà aderire ? A chi credere di coloro che si proclamano rivoluzionari? Una definizione non basta, e soprattutto non quelle dei dizionari. La rivoluzione si vive, ci si crede, ci si immerge in essa, la si fa.; ogni epoca, ogni ambiente umano ha le sue rivoluzioni, sempre diverse eppure sempre simili, riflessi le une delle altre eppure ogni volta uniche, come l'amore. Si dovrà rinunciare a parlarne per evitare di fame oggetto di consumo? Domanda quanto mai opportuna; eppure si tratta soltanto di una realtà umana, né sacra né intangibile: ma per coglierne il senso, occorre all'inizio semplicemente accettarla così come gli uomini, ogni volta, l'hanno vissuta e ne hanno parlato. Perciò, invece di cercare in partenza una definizione, mi atterrò risolu­ tamente al nominalismo, che mi pare un eccellente punto di partenza per la maggior pdrte degli studi sociologici. Bisogna accettare come rivoluzione ciò che gli uomini di quella data epoca hanno vissuto come tale e a cui essi stessi hanno dato quel nome, servendosi talvolta di vocaboli diversi. È per­ fettamente assurdo e pretenzioso dichiarare che la rivoluzione del 1830 non lo era. Coloro che l’hanno fatta l'hanno vissuta come una rivoluzione decisiva. Occorre recepire la realtà storica così come gli uomini di quel tempo l'hanno sentita, creduta, e ce l'hanno trasmessa. Così pure, invece di tentare una sociologia globale delle rivoluzioni, mi limiterò prudentemente a considerare l'esistenza di fenomeni storicamente assai diversi. Ma non si tratta per me in questo saggio, né di fare una sociologia delle rivoluzioni diversificate né, tanto meno, di fare una storia generale delle rivoluzioni. Assumo come punto di riflessione il nostro tempo. Lo studio storico e socioluzione a Friburgo, e di nuovo a Ginevra nel 1782; 1783-1787, rivoluzione nelle Province1 Unite con orientamenti diversi; 1787-1790, rivoluzione dei Paesi Bassi austriaci; 1788-1794“ rivolta della Guiana, rivoluzione polacca; 1789, inizio della rivoluzione francese, democra tizzazione-del regime in Svezia; 1791, rivoluzione polacca; 1792, ripresa della rivoluzione belga e rivoluzione renana, rivolta generalizzata nelle Antille; 1794, sommosse in Irlanda; 1795, rivoluzione in Olanda e a Ginevra, sommosse a Londra, Birmingham, ecc., a Costanti­ nopoli, a Smirne; 1796, rivoluzione negli Stati italiani; 1797, ammutinamento delle flotte inglesi; 1798, rivoluzione in Svizzera e in Irlanda; 1799, rivolta delle isole ioniche e di Malta; 1810, rivoluzione delle colonie spagnole che terminerà con il riconoscimento, nel 1825, della loro indipendenza; sempre dal 1810 al 1829, guerra per l’indipendenza dei po* poli balcanici; 1820, rivoluzione in Italia, in Spagna; 1821, rivoluzione greca; 1830, grande fiammata rivoluzionaria in Francia, in Belgio, in Polonia»», in attesa del 1848.

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logico può servirmi soltanto come punto di appoggio per una riflessione sulla situazione della rivoluzione oggi e sulVeventualità di una rivoluzione da farsi. In tali condizioni, la difficoltà del lettore consisterà nel capire che questo libro tratta al tempo stesso di modelli e di storia, il che può apparire contraddittorio. Così, nei tre primi capitoli, si potrà avere Vimpressione che si tratti di storia, poiché il primo si ferma al 1789, il secondo concerne gli sviluppi del 1789 e il terzo parla delle rivoluzioni successive. Ma ciò non è del tutto esatto, poiché il primo capitolo pone al tempo stesso la questione del rapporto più o meno diretto fra rivolta e rivoluzione; il secondo mira alla comprensione intellettuale della rivoluzione; il terzo riguarda un tipo di rivoluzioni specifiche, quelle che si svilupperanno « nel senso della storia ». E questi due orientamenti sono necessari per comprendere la situazione attuale. Si tratta quindi allo stesso tempo di storia e di concetti. Mi rendo perfettamente conto che questa mescolanza potrà venir criticata. Ma anche in questo caso, credo che i fenomeni sociologici vadano colti attraverso me­ todi differenti. Per quanto riguarda il nostro passato, l’importante è di man­ tenersi chiaramente consapevoli della specificità di quei tempi, facendo attenzione a non proiettare (per quanto sia possibile !) la nostra visione attuale delle cose su di un passato che ci servirebbe soltanto come giusti­ ficazione.

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Capitolo primo DALLA RIVOLTA ALLA RIVOLUZIONE: LA RIVOLUZIONE CONTRO LA STORIA

1. La rivolta Nel suo celebre saggio sull’uomo in rivolta, Camus ha dissociato la rivolta metafisica dalla rivolta storica. Ha cominciato col cercare il significato della rivolta metafisica. Ha seguito la sua sensibilità di uomo, ma rifacendosi a scritti letterari — in modo che la sua lucida analisi, esatta indubbiamente su un certo piano, non raggiunge la realtà dell’uomo: si può certo dissertare senza fine su Prometeo, ma non vi è una misura comune, neppure incosciente e involontaria, fra questi e i Croquants, se non si crede che la letteratura sia un Atto in sé, e forse l’Unico (ma non crederlo significa non essere alla moda: mi decido in tal senso con tutte le conseguenze!), si deve ritenere che non esista rivolta all'infuori di quella storica, e che la rivolta metafisica, ossia, in ultima analisi, uno stato d’animo o una presa di posizione filosofica, non abbia alcuna importanza se non per colui che la vive e si' esprime attraverso ad essa. La sola possibile analisi della rivolta è storica. È la sola che conduca ad un interrogativo a partire dal quale sarà forse possibile trovare qualche elemento di risposta in un atteggiamento dell’uomo di fronte alla vita. Non si può ridiscendere dal piano metafisico a quello storico. Quest’ultimo potrà forse soltanto evocare il primo, o meglio, secondo il pretenzioso linguaggio mo­ derno, la categorialità storica della rivolta. Comunque sia, non si può accettare di trattare separatamente le due rivolte. Una sola è reale e possiede un peso vivo. In tutte le rivolte storiche sembra di poter trovare due caratteri­ stiche permanenti: il sentimento dell’Intollerabile e l’Accusa. La rivolta scoppia, l’uomo diviene un rivoltoso, una collettività si rivolta, quando un atto, una situazione, un rapporto raggiungono il limite dell’intollerabilità. È stato possibile sopportare l’ingiustizia, 9

la miseria, la fame, l’oppressione, il disprezzo fino a un certo punto, a un certo momento, e improvvisamente, talvolta in seguito ad un fatto apparentemente senza importanza, o in ogni caso senza maggiore importanza di molti altri, il rivoltoso dice no. È stato raggiunto il limite. Ormai non è più possibile continuare sulla stessa via... « Siamo caduti nella miseria, ci opprimono, ci impongono un lavoro schiacciante, ci insultano, non ci riconoscono come uomini, ci trattano come schiavi che devono sopportare la loro amara e triste sorte e tacere — e noi rabbiamo sopportato — ma ci spingono sempre più verso l’abisso della miseria... siamo allo stremo delle forze, Sire, il limite della pa­ zienza è superato. Siamo giunti a quel terribile momento in cui vai meglio la morte del prolungarsi di sofferenze insopportabili... ».1 Questo tragico testo riassume tutte le possibili dichiarazioni sulla rivolta. È la vita quotidiana che ormai è diventata insopportabile. Non si può continuare in quella situazione vissuta giorno per giorno, sia che si tratti della famosa goccia d’acqua... sia che la pazienza, la capacità di soffrire abbiano raggiunto il loro limite. Il rivoltoso sente oscuramente che, se la situazione si prolunga, non gli rimane che scomparire. Se dice no, non è in virtù di principi o di concetti, ma perché non può più continuare a vivere così. Difende semplicemente ciò che egli è. « Lotta per l’integrità di una parte del suo essere ». È al limite della disperazione. Camus, all’inizio, se ne rende bene conto, quando scrive: «Egli vuol dire: le cose sono andate troppo oltre. Fino a quel punto, sì, ma non oltre... Vi è un limite che voi non oltre­ passerete... Il no afferma l’esistenza di una frontiera ». Ma ahimè, procedendo nel ragionamento, egli giunge subito a concludere che la rivolta implica necessariamente la convinzione di aver ragione. Non si tratta che di ima impazienza nel senso etimologico ùel termine e niente di più, mi pare. Ma questo scoramento che spinge l’uomo a sollevarsi, lo fa entrare nella storia. Questo no, gridato improvvisamente, risuona in realtà nella storia. Anche il dettaglio è storia. Il fatto che la flótta britannica (come più tardi la Potèmkin) si sia ribellata nel 1797 a Spithead « a causa del cibo cattivo, della scarsezza dei permessi », non costi­ tuisce affatto una attualità inattuale. È oggi di moda tra gli intellettuali, imbevuti di leninismo, minimizzare la rivolta e vedere invece nella rivoluzione tratti diversi, maestosi ».e profondi. « Per essere in grado di ricostruire e modellare la storia a sua misura, il progetto rivoluzio­ nario deve cominciare con l’integrarla ed assumerla pienamente: la rivolta popolare è indifferente alla storia, ma nasce soltanto in rapporto ad una realtà quotidiana non più tollerabile: è la mancanza di quella dimensione fondamentale che la differenzia... dal progetto rivolu1. Supplica degli operai di Pietroburgo allo zar nel gennaio 1905; citata da Decouflé, Sociologie de la révolution, 1968, p. 29. 10

zionario ».2 Tuttavia, non è perché al rivoltoso manchi una veduta teorica dei rapporti di classe, una concezione generale della storia, ecc., che egli è meno vicino a quest'ultima. Direi addirittura che la capacita di integrare la storia disumanizza completamente la rivoluzione, e che il sollevamento popolare della rivolta resta l’espressione dell’uomo. Ma non già di un uomo metafisico, bensì dell’uomo nella sua storia. H ciò che, a mio avviso, dà evidenza a tale realtà è proprio l’affermazione costante: « le cose non possono più a lungo durare così », ossia, i due motivi elementari indicati testé sono in realtà superati: l’uomo si rivolta perché vi è un « più a lungo » divenuto impossibile. Ma non si tratta di un sentimento. Sarebbe vano, quindi, cercare a ima siffatta rivolta una spiegazione e una causa nella psicologia del capo rivoluzionario o del rivoltoso. Le innumerevoli Vite di Spartaco, di Saint-Just, con tutte le loro volute sottigliezze psicologiche, testimo­ niano l’inutilità di ricerche di tal genere. E l’insuccesso del Thomas Miinzer di Bloch e quello, recente, del Nat Tumer di Styron 3 rivelano i limiti, in questo campo, sia della psicologia sociale che della psicoanalisi. Tutti vivono l’impossibile: la Storia finora è stata così, ma non può durare più a lungo così. Una certa logica della situazione, una pesan­ tezza del meccanismo una vischiosità della realtà fanno prevedere chiaramente ciò che sta per accadere: saremo sempre più oppressi, sempre più affamati ; ed è questa così evidente previsione che il rivoltoso rifiuta. Egli si inserisce precisamente in questa corrente della storia, constata di essere oggi più infelice di dieci anni fa e capisce che le cose non possono che peggiorare. Concepisce allora la propria storia come una fatalità, un destino — e dice no nella disperazione. No a che cosa? semplicemente alla fame di oggi ? In realtà lo dice alla fame di domani. Per questo la rivolta è saldamente ancorata nella storia: ma soltanto in una storia che l’uomo ribelle rifiuta. Certo, quando troppo spesso per qualificare la rivolta si parla di libertà, il significato di questo termine è viziato dalla nostra espe­ rienza storica: per noi la libertà è divenuta materia di filosofia o di scienza politica. Il libro di H. Arendt rivela questo malinteso. Ma prima del XVIII secolo la libertà aveva un altro peso, direttamente umano: sfuggire all’intollerabile, a ciò che si presenta come destino, e il cui volto più immediato è Toppressore. La lotta contro Toppres­ sore è perciò soltanto un motivo secondario , indiretto. La rivoluzione è sempre costruttiva, deve sfociare in un radioso domani; la rivolta è un sollevamento titanico che fa scricchiolare tutto, senza un avvenire prevedibile. Per questo motivo i rivoltosi'sono spesso dei congiurati, 2. Decouflé, op. cit. 3. E. Bloch, Thomas Miinzer, ed. francese 1966; W. Styron, Le confessioni di Nat Tumer, 1966. 11

legati fra loro per la vita e per la morte. I rivoluzionari non si servono di giuramenti. Ora, secondo la bella espressione di Starobinski, « me­ diante l’atto originario del giuramento, l’individuo ha accettato di uccidere la propria vita personale: si è sottomesso ad una finalità in cui si compie l’essenza dell’uomo, la libertà, ma a prezzo del sacrificio dell’inessenziale, vale a dire di tutto ciò che non è questa libertà, o la morte ». La disperazione è dunque presente nel cuore della rivolta, nel suo sorgere e nel suo sviluppo. Le rivoluzioni sono sempre atti pieni di speranza: la morte può sopraggiungere, ma è accidentale. Nella rivolta invece, la morte è al centro stesso di questo sommovi­ mento. Le parole di uno dei caporioni dei Ciompi di Firenze suonano come un’eco di tutte le rivolte: «Dovunque esiste, come tra noi, la paura della fame e della prigione, non può trovar posto la paura dell’inferno ». Si avvera così la parola di Mownier sul pericolo che minaccia ogni rivolta: « La vertigine del sacrificio e la pericolosa eb­ brezza della morte sono in loro. La morte è una comoda soluzione che dispensa dal cercarne altre ». Quante volte infatti certe rivolte sono fal­ lite perché, invece di cercare una soluzione adeguata, il rivoltoso ha visto soltanto la morte del primo oppressore, e la propria come prezzo. Ma quante volte anche nuli’altro era effettivamente possibile, poiché si cercava una liberazione assoluta per rispondere ad una miseria assoluta, per dirla con Marx: infatti, una rivolta al suo nascere non sopporta, non tollera, non esige mai nulla che non sia eterno. Tali si rivelano le innumerevoli rivolte di schiavi negri negli Stati Uniti, provocate da Gabriel Prosser a Richmond (1800), Bole Ferebee (1807), Denmark Vesey (Charleston, 1822), David Walker (1829), Net Turner (Virginia, 1831), Charles Deslones (1838).4 Rivolte senza speranza che lasciano sgomenti per l’immensità della disperazione che esse esprimono, per il fatto stesso di non aver altra via di uscita che l’impiccagione. Accanto alle eleganti dottrine rivoluzionarie moderne, alle efficaci costruzioni leniniste e simili, che tutte si prefiggono di assumere in qualche modo la storia, il rivoltoso appare come un rozzo primitivo che non accetta questa storia già da lui vissuta e facilmente prevedibile, la quale gli appare immutabile per l’indomani, con la stessa certezza del sorger del sole. Per questai^ rivolta è al tempo stesso reazionaria e visionaria. È sempre reazionaria nel senso che rifiuta ciò che ha appena vìssuto, ma' a profitto di un passato anteriore, senza dubbio più sod­ disfacente : occorre « rimettere tutte le cose al loro antico posto a sollievo del povero popolo...»; occorre «ritornare alle buone usanze... »; « sono disposti a pagare le imposte divenute consue♦ * *

4* Aptheker: Negro Slave Revolts in USA 1526 to 1860, 1958.

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tudinarie sono contenti del re che governa secondo la consuetudine ». « Si tratta di ritornare al buon tempo degli Stati », dicono i rivoltosi francesi del XVII secolo, ma non diverso è il linguaggio tenuto dai rivoltosi russi: vogliono un vero zar, che ristabilisca l’antica libertà dei contadini.6 E nel XVI secolo, ci troviamo di fronte al medesimo problema : la rivolta dei contadini in Germania avviene « perché le cose ritornino esattamente al punto in cui erano un tempo quando essi erano ancora uomini liberi ».6 Così pure, nel Medioevo, la rivolta dei Goliardi, pur sembrando mettere in causa l’insieme della società, è, in definitiva, altrettanto conformista e reazionaria.7 Ciò significa forse che non sia storica? Si pensa sempre alla storia come ad ima marcia in avanti: per gli uomini di quell’epoca, la storia era un ritorno ad un periodo meraviglioso. Il vero si trovava nel passato. Non ci si voleva rifiutare di avanzare, ma'si voleva avanzare verso la ricostituzione di un’epoca in cui si era stati liberi e vi era da mangiare. Occorreva sopprimere la logica di una degradazione della situazione. Ciò che era intollerabile, in definitiva, era di proseguire su questa strada. Bisognava deviare il corso normale della storia. Ma ciò indica che a questo no si accompagna quasi sempre un elemento visionario,8 poiché non si vede come sia possibile deviare il corso normale di un’avventura così mal iniziata. Ci si trova sempre di fronte questo singolare problema quando si esamina nei dettagli la descrizione di queste innumerevoli rivolte: cosa mai hanno potuto immaginarsi questi contadini che si sollevano, che impiccano un rice­ vitore di gabelle, che incendiano un castello, che saccheggiano un convoglio?... spinti alla esasperazione, si sono sollevati... e poi? Vedremo fra breve come in realtà la rivolta non abbia alcun possibile sbocco. Ma cosa potevano mai sperare? Non sapevano forse che tutte le rivolte, da qualunque parte provengano, alla fine sono sempre state soffocate, tutti i rivoltosi massacrati, giustiziati? e quando raggiun­ gono una piccola vittoria, ecco che questa banda di rivoltosi, come colta da stupore, è incapace di proseguire. Il dotto dirà: « Mancava loro la dottrina... ». D’accordo; proprio per questo erano dei rivoltosi contro un destino di cui volevano mutare il corso, ma questo corso non lo sapevano calcolare. E proprio perché rifiutano che la storia continui, come è prevedibile che avvenga secondo la loro esperienza ♦* •

5. Queste dichiarazioni insieme a numerosissime altre sono tratte dall'interessante libro di Mousnier, Fureurs paysannesy Calmann-Lévy, 1967. 6. E. Bloch, Thomas Miinzer, théologìen de la révolution. 7. Vexliard, Introduction à la sociologie du vagabondage1 1956* 8. Il messianismo rivoluzionario è stato studiato, fuori della sfera occidentale, in ma* niera precisa (in cui si ritrovano tutti i temi della rivolta che abbiamo indicati) da M. L Pe­ reira de Queiroz, Mouvements messianiques dans quelques tribtis sud-américaines, « L’Homme et la Société », 1968. 13

quotidiana, non scorgono alcun avvenire possibile: i rivoltosi non hanno futuro perché il loro futuro non può essere che l’aggravarsi del presente, e questo presente non lo vogliono più. Ciò spiega la loro passività quando la rivolta è momentaneamente vittoriosa, o al momento della disfatta. In un caso come nell’altro, si ha soltanto la conferma che non è possibile costruire un avvenire. Ma questo spiega al tempo stesso l’elemento visionario che si accompagna a quasi tutte le rivolte. Non esiste un futuro ragionevole, una concepibile trasfor­ mazione positiva del presente, e allora si salta direttamente alla fine dei tempi: è l’avvenire in senso assoluto quello che ci si immagina, una società senza alcuna misura comune c