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Italian Pages 118 Year 1990
ALDO ROSSI
AUTOBIOGRAFIA SCIENTIFICA
PRATICHE
P
EDITRICE
Ho iniziato queste note più di dieci anni fa e cerco di concluderle ora perché non diventino delle memorie. Da un certo punto della mia vita ho considerato il mestiere o l’arte come una descrizione delle cose e di noi stessi; per questo ho sempre ammirato la Commedia dantesca che inizia attorno ai trent'anni del poeta. A ‘trent'anni si deve compiere o iniziare qualcosa di definitivo € e fare i conti con la propria formazione. Ogni mio disegno o scritto mi sembrava definitivo in un doppio senso; nel senso che concludeva la mia esperienza e nel senso che poi non avrei avuto più nulla da dire. Ogni estate mi sembrava l’ultima estate e questo
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1990
Rita | B.go delle Grazie 18, Parma. Tutti i diritti riservati.
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Aldo Rossi con la figlia Vera, 1980 circa.
ALDO ROSSI
AUTOBIOGRAFIA SCIENTIFICA
PRATICHE
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EDITRICE
Rea
ISBN 88.7380-120-X
Ho iniziato queste note più di dieci anni fa e cerco di concluderle ora perché non diventino delle memorie. Da un certo punto della mia vita ho considerato il mestiere o l’arte come una descrizione delle cose e di noi stessi; per questo ho sempre ammirato la Comedia dantesca che inizia attorno ai trent'anni del poeta. A trent'anni si deve compiere o iniziare qualcosa di definitivo e fare i conti con la propria formazione. Ogni mio disegno o scritto mi sembrava defini-
tivo in un doppio senso; nel senso che concludeva la mia esperienza e nel senso che poi non avrei avuto più nulla da dire. Ogni estate mi sembrava l’ultima estate e questo senso di fissità senza evoluzione può spiegare molti dei miei progetti: ma per capire l’architettura o spiegarla devo ripercorrere le cose o le impressioni, descrivere o cercare un modo di descrivere. Il riferimento più importante è certamente l’Autobiografia scientifica di Max Planck. Max Planck, in questo libro, risale alle scoperte della fisica moderna ritrovando l’impressione che gli fece l'enunciazione del principio di conservazione dell’energia; questo principio risultò in lui sempre legato alla descrizione del suo maestro di scuola, il maestro Miiller, descrizione che egli definisce come il racconto del muratore che solleva con grande sforzo un blocco di pietra sul tetto di una casa. Planck era colpito dal fatto che il lavoro spesso non va perduto, rimane immagazzinato per molti anni, mai diminuito, latente nel blocco di pietra, finché un
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giorno può capitare che il blocco si stacchi e cada sulla testa di un passante uccidendolo. Può sembrare strano che Planck e Dante associno la loro ricerca scientifica e autobiografica con la morte; una morte che è in qualche modo continuazione di energia. In realtà, in ogni artista o tecnico, il principio della continuazione dell'energia si mescola con la ricerca della felicità e della morte. Anche in architettura questa ricerca è legata con il materiale e con l’energia, senza questa osservazione non è possibile comprendere qualsiasi
costruzione né dal punto di vista statico né da quello compositivo. L’uso di ogni materiale deve prevedere la costruzione di un luogo e la sua trasformazione. Il doppio senso del tempo, atmosferico e cronologico, presiede ad ogni costruzione; questo doppio senso dell’ener-
gia è ciò che ora vedo chiaramente nell’architettura, come potrei vederlo in altre tecniche o arti. Nel mio primo libro, L'architettura della città, identificavo questo stesso problema con il rapporto tra la forma e la funzione; la forma e presiedeva alla costruzione e permaneva, in un mondo dove le funzioni si modificavano continuamente e nella forma si modificava il materiale. Il materiale di una campana si trasformava in una palla di cannone, la forma di un anfiteatro in quella di una città, quella di una città in un palazzo. Scritto attorno ai trent'anni questo libro mi sembrava definitivo e anche oggi le sue enunciazioni non sono state sufficientemente ampliate. In seguito mi parve chiaro che l’opera doveva essere compresa in motivazioni ancora più com-
plesse soprattutto attraverso le analogie che intersecano ogni nostra azione. Fin dai miei primi progetti, dove ero interessato al puri-
smo, amavo le contaminazioni, commenti e le ripetizioni.
i piccoli cambiamenti,
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La mia prima educazione non è stata figurativa e d’altra parte anche oggi penso che un mestiere valga l’altro purché
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si abbia un fine preciso; avrei potuto fare qualsiasi cosa e infatti il mio interesse per l'architettura e la mia attività di architetto iniziano abbastanza tardi. In realtà credo che sia sempre esistita in me un’attenzione alle forme e alle cose; ma le ho sempre guardate come momento ultimo di un sistema complesso, di un’energia che era visibile solo in questi fatti. Per questo nell’infanzia ero particolarmente impressionato dai Sacri Monti: mi sembrava certo che la storia sacra era completamente riassunta nella figura di gesso, nel gesto immobile, nell’espressione fetmata nel tempo di una storia altrimenti impossibile da raccontare. Era lo stesso atteggiamento dei trattatisti rispetto ai maestri del medioevo; la descrizione e il rilievo delle forme an-
tiche permettevano una continuità altrimenti irripetibile, permettevano anche una trasformazione, una volta che la vita fosse fermata in forme precise. Ero ammirato dall’ostinazione dell’Alberti,
a Rimini e a
Mantova, nel ripetere le forme e gli spazi di Roma, come se non esistesse una storia contemporanea; in realtà egli lavorava scientificamente con il solo materiale possibile e disponibile per un architetto. Proprio stando nel Sant’ Andrea di Mantova ho avuto questa prima impressione del rapporto tra il tempo, nel doppio significato atmosferico e èronologico, e l’architettura; vedevo la nebbia entrare nella basilica,
come spesso amo osservarla nella galleria milanese, come l'elemento imprevedibile che modifica e altera, come la luce e le ombre, come le pietre ridotte e lisciate dai piedi e dalle mani di generazioni di uomini. Forse solo questo mi interessava nell’architettura; perché sapevo che era reso possibile da una forma precisa che combatteva il tempo fino ad esserne distrutta. L’architettura era uno dei modi di sopravvivere che l’u-
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manità aveva ricercato; era un modo di esprimere la sua fondamentale ricerca della felicità. Questa ricerca mi commuove ancora nei reperti archeologici, nel materiale fittile, negli utensili, nei frammenti dove
la pietra antica si confonde con l’osso e dove nell’osso si è perso il disegno dello scheletro. Per questo amo i musei di paleontologia e le ricostruzioni pazienti dei pezzi senza significato nel significato della forma. Questo amore per il frammento e per la cosa che ci lega ad oggetti apparentemente insignificanti a cui attribuiamo la stessa importanza che si attribuisce solitamente all’arte.
Avevo indubbiamente un interesse per gli oggetti, gli strumenti, gli apparecchi, gli utensili. Stavo nella grande cucina a S., sul lago di Como, e disegnavo per ore le caffettiere, le pentole, le bottiglie. In particolare amavo le caffettiere smaltate, blu, verdi, rosse, per il loro volume bizzarro;
era la riduzione di architetture fantastiche che avrei incontrato più tardi. Ancora oggi amo disegnare queste grandi caffettiere che assimilo a sezioni di mattone e penso percorribili all’interno. Questo interno-esterno dell’architettura mi è stato certa-
mente suggerito dal San Carlone di Arona; un’opera che ho disegnato e studiato più volte e mi è ora difficile riportarla all'educazione figurativa dell’infanzia. Ho capito poi che mi piaceva perché qui i limiti disciplinari dell’architettura, della macchina, dello strumento, si fondono in un’invenzione meravigliosa. Come nella descrizione del cavallo omerico, il pellegrino entra nel corpo del santo, come in una torre o un carro governato da una tecnica sapiente. Salita la scala esterna del piedistallo, la ripida ascensione all’interno del corpo rivela la struttura muraria e le saldature delle grosse lamiere. Infine la testa è un interno-esterno; dagli occhi del santo il paesaggio del lago acquista contorni infiniti, come un osservatorio celeste.
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Ma forse anche per la sua dimensione questa costruzione mi dà uno strano senso di felicità: la sua forza è potenziale. Se osservate una locomotiva o un carro armato fermo, l’ef-
fetto non è molto diverso. Questa prima impressione del senso interno-esterno è diventata chiara in tempi più recenti, almeno come problema: se la riporto alle caffettiere essa è anche qui legata all’alimento e all’oggetto dove si cuoce l'alimento; il carattere di manufatto e utensile delle pentole, che spesso ci annoia nei musei, è qualcosa che si ripete di continuo. Guardavo una strana fotografia: un volto dietro la grata di un castello o di un convento. Dalla fotografia è difficile capire se noi guardiamo con gli occhi di colui che ci guarda o dalla parte opposta. Osservando questa foto non mi pongo tanto il problema banale di come questo sia per così dire esprimibile in architettura, nel cinema, o in qualche altra tecnica ma piuttosto mi rendo conto di come la grata sia il mezzo che rende possibile l'avvenimento; in questo caso la comparsa del volto del giovane. Per una singolare coincidenza, dopo aver visto questa fotografia, ho visitato le celle delle suore del Convento de las Pelayas a Santiago de Compostela e ho rivissuto l’effetto della fotografia. La facciata delle Pelayas è un capolavoro dell’architettura del Seicento spagnolo e aveva sempre prodotto su di me una grande impressione tanto che gli amici catalani, in una loro pubblicazione, l'avevano assunta come immagine analogica del mio edificio al quartiere Gallaratese a Milano. Ma io ho potuto notare, all’interno delle celle, una luminosità impressionante in contraddizione con l’aspetto quasi carcerario della facciata esterna. Anche le grida che giungono dal di fuori sono percepite all’interno con grande precisione, come in un teatro. Quindi gli occhi del giovane percepiscono la visione dell’esterno come se stesse in un teatro e assistesse ad una rappresentazione.
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Con gli strumenti architettonici noi quindi favoriamo un evento, indipendentemente dal fatto che esso accada; e in questo volere l’evento vi è qualcosa di progressivo. Su questo tornerò più avanti. Perciò il dimensionamento di un tavolo, o di una casa, è molto importante; non, come pensavano i funzionalisti, per assolvere una determinata funzione
ma per permettere più funzioni. Infine per permettere tutto ciò che nella vita è imprevedibile. Nell’interesse per gli oggetti devo ammettere che mi è sempre successo di confondere la cosa stessa con la parola: per una forma di ignoranza o di pregiudizio o anche per la sospensione che tutto questo poteva dare al senso di un’affermazione o di un disegno. Per esempio il termine apparecchio è sempre stato da me concepito in modo almeno singolare ed è legato alla lettura della prima giovinezza del volume di Alfonso dei Liguori intitolato appunto Apparecchio alla morte, e persino al suo possesso, con questo strano libro che
conservo ancora, mi sembrava esso stesso un apparecchio anche per il suo formato piuttosto piccolo e molto alto; mi sembrava che si potesse anche non leggerlo, perché bastava possederlo in quanto strumento. Ma il legame tra l’apparecchio e la morte tornava anche nelle frasi come quella quotidiana di apparecchiare la tavola, di preparare, di disporre. Da qui col tempo ho riguardato l'architettura come lo strumento che permette lo svolgersi di una cosa. Devo dire che questa coscienza mi ha dato con gli anni maggiore interesse per il mio mestiere e nei miei ultimi progetti cerco solo di porre delle costruzioni che per così dire favoriscano un evento. Parlerò poi di qualcuno di questi progetti. Posso dire ora che essi raggiungono un silenzio, un grado di silenzio non purista come lo cercavo nei miei primi disegni dove mi preoccupavo di luci, pareti, ombre, aperture. Ho capito che è impossibile ripetere l’atmosfera. Sono meglio le cose vissute e abbandonate; in partenza tutto do-
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vrebbe essere prevedibile, e ciò che non è prevedibile tanto più ci affascina quanto più sta dall’altra parte. Infine tra l’educazione dell’infanzia non posso dimenticare il Sacro Monte di S. e gli altri Sacri Monti che visitavamo al confine dei laghi. Indubbiamente è stato il mio primo contatto con l’arte figurativa ed ero, come sono, attratto dalla fissità e dalla naturalezza, dal classicismo delle archi-
tetture e dal naturalismo delle persone e degli oggetti. La sospensione che ne provavo suscitava in me forme di esaltata freddezza, anche qui volevo entrare oltre la grata, disporre un mio oggetto sopra la tovaglia consumata dell’ultima cena, uscire dalla condizione di chi passa; in ogni mio progetto o disegno credo vi sia l'ombra di questo naturalismo, che va oltre le bizzarrie e le piaghe di queste costruzioni. Quando ho visto a New York l’opera completa di Edward
Hopper ho capito tutto questo della mia architettura: quadri come Chaîr Car o Four Lane Road mi hanno riportato alla fissità di quei miracoli senza tempo, tavole apparecchiate per sempre, bevande mai consumate, le cose che sono solo
se stesse. Pensando a queste opere mi accorgo che mi interessano molto le cose che stanno per dirsi e il meccanismo con cui si potrebbero dire pur sapendo che un altro più oscuro impedisce il compiersi regolare delle operazioni necessarie perché qualcosa avvenga. Questo è connesso con il problema della libertà; la libertà ha per me anche una traduzione nel mestiere, non so bene di che tipo di libertà si tratti ma ho sempre trovato dei modi per difenderla. Questa libertà è certo legata a molti esempi ma certamente proprio scrivendo un’autobiografia dei progetti che si confonde con la storia personale non posso non ricordare l’effetto che produsse in me quando ero ragazzo l’Henry Brulard. Forse attraverso i disegni di Stendhal e questa strana commistione tra autobiografia e piante di case comparve
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in me una prima acquisizione dell’architettura; è questo il primo deposito di una nozione che artiva fino a questo libro. Ero colpito dai disegni delle piante che sembravano una variazione grafica del manoscritto e precisamente da due cose; la prima, come la grafia sia una tecnica complessa tra la scrittura e il disegno, e tornerò su questo parlando di altre esperienze, la seconda, come le piante prescindessero o ignorassero l’aspetto dimensionale e formale. In certi ultimi progetti o idee di progetti cerco di fermare appunto l’avvenimento prima che esso si produca come se l’architetto potesse prevedere, e in certo modo lo prevede,
lo svolgersi della vita nella casa. Difficilmente gli arredatori possono capire tutto questo, essi sono legati a cose effimere come il disegno del particolare, la cornice, da cose che in realtà vengono sostituite dalla vita della casa. Forse proprio questi disegni di Stendhal mi avevano condotto più tardi allo studio dei tipi d’abitazione e del carattere fondativo della tipologia. Così è singolare che ho cominciato la mia carriera accademica come libero docente di «Caratteri distributivi degli edifici», disciplina oggi soppressa, e che mi sembrava in questa trama dei percorsi e delle dimensioni lo spettro o lo scheletro dell’architettura. Il tracciato diventava una condizione fisica come quando percorrete Ostia o ogni città dove sono indicate le tracce planimetriche; dapprima vi è una sottile delusione ma poi lentamente ricostruite l’architettura perché quella era una porta, e una sala, e un passaggio dove si svolgeva la vita precedente. Si dice che a Siviglia, nei tempi passati, chi si faceva costruire una casa dicesse all'architetto o semplicemente al muratore quale doveva essere la misura del patio e aggiungeva poi di ricavare intor-
no ad esso le stanze che era possibile ottenere. Anche questo mi sembra connesso col problema della libertà e dell’immaginazione, perché le cose da fissare sono poche ma non si debbono sbagliare; esse sono il senso della costruzione.
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Tutto questo non intende stabilire qualche sicurezza nell'educazione; è anche importante come impariamo. È certo che alcune cose sono impensabili se non vengono riportate all’emozione di come le abbiamo vissute. Vi sono per me dei fatti estremamente importanti, anche dal punto di vista formale, che difficilmente posso trasmettere. Una mattina che passavo per il Canal Grande in vaporetto qualcuno mi indicò improvvisamente la colonna del Filarete e il vicolo del Duca e le povere case costruite su quello che doveva essere l'ambizioso palazzo del signore milanese. Osservo sempre questa colonna e il suo basamento, questa colonna che è un principio e una fine. Questo inserto o relitto del tempo, nella sua assoluta purezza formale, mi è sempre parso come un simbolo dell’architettura divorata dalla vita che la circonda. Ho ritrovato la colonna del Filarete, che guardo sempre con attenzione, negli avanzi romani di Budapest, nella trasformazione degli anfiteatri, ma soprattutto come un frammento possibile di mille altre costruzioni. È probabile che io ami i frammenti; così come ho sempre pensato che sia una condizione favorevole incontrare una persona con cui si sono spezzati dei legami; è la confidenza con un frammento di noi stessi. Ma la questione del frammento in architettura è molto importante poiché forse solo le distruzioni esprimono completamente un fatto. Fotografie delle città durante la guerra, sezioni di appartamenti, giocattoli rotti. Delfi e Olimpia. Questo poter usare di pezzi di meccanismi il cui senso generale è in parte perduto mi ha sempre interessato anche formalmente. Penso a un’unità, o a un sistema fatto solo di
frammenti ricomposti: forse solo una grande spinta popolare può darci il senso di un disegno generale. Ora dobbiamo fermarci ad alcune cose. Io sono convinto però che quella architettura generale, il progetto complessivo, lo scheletro, sia certamente più importante e in ultima analisi più bello. Ma accade che intoppi storici del tutto paralleli a ingorghi
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psicologici impediscano ogni ricostruzione. Per questo cre-
do che non vi possa essere una compensazione seria e che l’unica cosa possibile sia l’addizione tra logica e biografia. Proseguendo queste note autobiografiche dovrei parlare di alcuni progetti che caratterizzano dei momenti della mia vita; sono progetti molto conosciuti e ho sempre evitato di parlarne direttamente. Il primo è il progetto per il cimitero di Modena e il secondo il progetto per una casa dello studente a Chieti; credo che il primo progetto, per il suo tema stesso, esprima la liquidazione della giovinezza e dell’interesse per la morte; il secondo una ricerca di felicità come condizione di maturità. In entrambi i progetti non ho rinunciato alla forma liturgica dell’architettura, nel senso che non si deve dire molto di più di quello che è stabilito, ma i risultati sono abbastanza diversi. Il primo progetto è fortemente legato a dei fatti e alla conclusione della ricerca sulla forma osteologica dei frammenti, il secondo a una condizione di felicità. È come il giorno di Natale e in misura diversa ogni domenica. La ricerca della felicità si identifica con un giorno felice, un giorno di festa — anche perché nel fermarsi delle cose sembra che la felicità non possa essere contrastata. Eppure ho capito molto di questi progetti, a metà tra i due, nel 1975 disegnando il palazzo della Regione di Trieste. Mi sono accorto di avere semplicemente raccontato — attraverso l'architettura e gli scritti — certe mattine in cui leggevo i giornali nella grande Lichthof dell’Università di Zurigo che assomiglia, o io confondo con la copertura piramidale della Kunsthaus e che mi è un luogo molto caro. Ora per l’interesse a questo luogo avevo pregato Heinrich Helfenstein di fare delle fotografie appunto della grande Lichthof che è sempre piena di studenti al piano terra e negli ordini successivi. E che vedevo come un bazaar, pieno di vita, un edificio pubblico o termale dell’antichità, ciò che dovrebbe essere un'università.
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Heinrich Helfenstein ha fatto delle fotografie molto belle della Lichthof ma, contrariamente al mio racconto di quel luogo, con la sua singolare sensibilità, le ha fatte in un gior-
no di festa. In queste fotografie la corte luminosa e i ballatoi aerei sono assolutamente vuoti, l’edificio non è abitato, ed è diffi-
cile comprendere come possa essere abitato; in realtà Helfenstein si rifiutava di rappresentare sia la purezza sia la vita dell’edificio. Egli aveva colto la sua disponibilità ad essere vissuto. Queste fotografie sono sospese rispetto alla vita che l’edificio potrebbe contenere, e solo osservando questa sospensione io ho visto con chiarezza le palme che si trovano nella corte vetrata e associato tutto ciò al senso di una serra, una enorme Palmenhaus; ricollegavo l’Università all’Invernadero di Barcellona, ai giardini di Siviglia e di Ferrara, dove provo una pace quasi completa. Ma trattandosi di due palme la fotografia mi ricordava la facciata dell'Hotel Due Palme sul lago di M. dove trascorro parte del mio tempo; la facciata dell'Hotel Due Palme costituiva di nuovo un luogo sensibile dell’architettura oltre ogni riferimento stilistico e tecnico. Il significato dell’operazione era molto più ricco di quanto io pensassi all’inizio: lo stesso è accaduto mentre disegnavamo una tavola, dopo il progetto del cimitero di Modena. Questa tavola era destinata ad una mostra e, nel disegnarla, ci rendevamo conto di abbandonare il percorso originale per seguire una sorta di labirinto costrittivo. In realtà questo labirinto ci divertiva perché trovavamo in esso il gioco dell’oca, pensando di farne un gioco per bambini. Ma come non ricordare che, proprio da bambini, l’elemento sinistro di questo gioco era rappresentato dalla casella della morte e che quindi il contenuto era qualcosa di automatico nella progettazione? Il progetto stesso diventa l'oggetto ritrovato; ridisegnando tutti i progetti essi diventano oggetti di affezione.
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Due diversi oggetti diversi il più piccolo, sto indica una
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modelli del monumento di Segrate sono due e fa parte dell’affezione all’oggetto chiamare come facciamo in studio, «il segratino»: queparticolare individualità di quel modello che
è anche, ma non solo, legata alla dimensione e alla materia.
A metà del 1971, in aprile, sulla strada di Istanbul, tra Belgrado e Zagabria ho avuto un grave incidente d’auto. Forse da quell’incidente, come ho detto, nel piccolo ospedale di Slavonski Brod, è nato il progetto per il cimitero di Modena e nel contempo si è conclusa la giovinezza. Stavo in una piccola camera al piano terreno vicino a una finestra da dove vedevo il cielo e un piccolo giardino. Stando quasi immobile pensavo al passato ma anche non pensavo: guardavo l’albero e il cielo. Questa presenza delle cose e del distacco dalle cose — legata anche al dolore e-alla presenza delle ossa — mi riportava all’infanzia. Nell’estate successiva nello studio del progetto mi erano rimaste solo forse questa immaginazione e dolore delle ossa: vedevo la conformazione osteologica del corpo come serie di fratture da ricomporre. A Slavonski avevo identificato la morte con la morfologia dello scheletro e le alterazioni che questo può subire. Capisco che è unilaterale identificare la morte con una specie di frattura. Finito questo progetto, nel mese di novembre, sono tornato a Istanbul in automobile; questi due viaggi sono come un proseguimento dello stesso progetto e spesso confondo dei luoghi. Si tratta di un viaggio interrotto. Il luogo principale credo consista nella Moschea verde di Bursa dove ho sentito di nuovo una grande passione per l’architettura; passione che provo raramente. Nella Moschea di Bursa ho sentito di nuovo un sentimento che non provavo dall’infanzia; quello di essere invisibile, in certo senso quello di stare dall’altra parte dello spettacolo. Per questo non poterla vivere completamente ho sempre pensato che l’arte, ad ecce-
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zione del teatro, non è mai un’esperienza soddisfacente; in
alcuni disegni posteriori del progetto del cimitero credo che ritornino alcuni di questi motivi del mondo turco. Anche perché il problema principale si era per così dire sciolto con il progetto stesso. Alla forma osteologica, a cui ho accennato in altri scritti, si accompagnava il senso della deposizione. La deposizione non è un tema tipico dell’architettura eppure nel periodo di Slavonski io mi proponevo di rappresentare una forma deposta: l'architettura deposta era per me solo parzialmente antropomorfica. La deposizione in pittura, come nel Rosso Fiorentino o nell’ Antonello del Prado, studia le possibilità meccaniche del corpo e ho sempre pensato che essa attraverso questa anormale posizione che un corpo morto assume nel trasporto arrivi a comuni-
carci un pathos particolare. Queste posizioni possono essere collegate a quelle dell'amore ma non avvengono per un movimento interno ed esse inoltre presentano tutto ciò che nel corpo vi è di oggetto. E questo essere oggetto è particolarmente penoso e doloroso per lo spettatore il quale non può riportare la deposizione che alla malattia, più che alla morte. D’altra parte la deposizione accetta un sistema, un edificio, un corpo, volendone nel contempo spezzare il quadro di riferimento e cioè costringendoci ad un diverso significato, certamente più inquieto nella sua inverosimiglianza. Da qui sovrapposizioni,
movimenti,
sedimentazioni
di
oggetti, identificazioni di materie diverse. Vi sono esempi come nel convento di Santa Clara a Santiago de Compostela che possono avvalorare questa tesi. Ma a questa prima analisi del progetto, calato nel mondo lombardo, si accompagnavano come un disagio i ricordi letterari e figurativi della sinistra manzoniana, del romanticismo degli esclusi. Antiche corti ed edifici milanesi, luoghi pubblici, istituzioni caritatevoli ma quasi infamanti come nella Milano del Valera. Sempre mi avevano colpito i qua-
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dri di Angelo Morbelli, Il Natale dei rimasti, Pio Albergo Trivulzio: li osservavo affascinato senza saperli giudicare. Ora mi servivano come mezzi plastici e figurativi per questo progetto. Lo studio delle luci, i grandi fasci di luce che cadono sui banchi dei vecchi, le ombre precise delle forme geometriche dei banchi e della stufa, che sembrano tolte da un manuale di teoria delle ombre. Una luminosità diffusa pervade lo stanzone dove le figure si perdono come in una piazza. Il portare il naturalismo alle sue conseguenze conduce a questa metafisica degli oggetti; cose, corpi di vecchi, luce, un ambiente freddo, tutto è offerto in un’osservazione che sembra lontana. Ma questa lontananza senza commozione è l’aria stessa della morte del pio albergo. Nel proget-
to di Modena pensavo sempre a questo ospizio, e le luci che entrano nel cubo segnando fasce precise nella sezione, sono : le luci di queste vetrate. La costruzione era infine una costruzione abbandonata dove la vita si ferma, il lavoro è sospeso, l'istituzione stessa
diventa incerta. Mi ricordo come questo progetto abbia avuto attacchi feroci che io non comprendevo; erano anche attacchi che si rivolgevano a tutta la mia attività di architetto. Ma quello che più mi colpiva era che i critici riducessero il progetto ad una sorta di esperimento neoilluminista; credo che lo facessero perché avevo tradotto l’opera di Boullée e non per qualche intenzione critica. Infatti ora che lo vedo sorgere trovo in questa grande casa dei morti un senso vivo
di pietà: proprio come nella romana
tomba del fornaio.
Questa casa dei morti, che si costruisce con il ritmo stesso
della mortalità urbana, ha quindi un tempo legato alla vita come, in fondo, tutte le costruzioni.
La sua forma ritorna in molti miei disegni con leggere variazioni, come variazioni ha subito la costruzione; il motto
del concorso era «L’azzurro del cielo» e ora vedo questi grandi tetti azzurri di lamiera, così sensibili alle luci del giorno e della sera, e delle stagioni, da sembrare ora di un
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azzurro profondo ora di un celeste chiarissimo. Le pareti rosa si sovrappongono al laterizio emiliano del vecchio cimitero e anch’esse risentono delle luci così che possono apparire quasi bianche oppure rosa scuro. Ma già nel progetto esso apparteneva alle grandi nebbie padane, alle case deserte nell’argine del Po, abbandonate da anni, dopo le grandi alluvioni; in queste case potete trovare ancora la tazzina infranta, il letto di ferro, il vetro spezzato,
la foto gialla e l’umidità e i segni dello sterminio del fiume. Paesi dove il fiume appare con la continuità della morte, lasciando solo segni, segnali, frammenti; ma sono frammenti affettuosi. Esiste a Lisbona un cimitero che si chiama «il cimitero dei piaceri» e nessuno mi ha mai spiegato l’origine di questo nome; in America vi sono cimiteri grandi come parchi o come sobborghi. Vi sono abitudini e forme diverse per i luoghi della morte come per quelli della vita; ma spesso cogliamo appena il limite tra le due situazioni. Se dovessi rifare questo progetto forse lo farei uguale, forse rifarei uguale ogni progetto; ma è anche vero che tutto ciò che è successo è già storia ed è difficile pensare che le cose potessero avvenire in un altro modo.
Con questo progetto si ampliava la mia meditazione sull’architettura e via via mi sembrava di capire meglio una stagione più lontana, di ritrovare nel disegno, nel racconto, nel romanzo, i fili che uniscono l’analisi all’espressione. Nel 1960 circa avevo scritto L'architettura della città — un libro fortunato. Allora, non avevo ancora trent'anni e volevo scrivere un libro definitivo: mi sembrava che tutto, una volta chiarito, fosse definito. Il trattato rinascimentale
doveva diventare un apparecchio che si traduceva nelle cose. Disprezzavo i ricordi e insieme mi valevo delle impressioni urbane, ricercavo dietro i sentimenti leggi immobili di una tipologia senza tempo. Le corti, i ballatoi, la morfologia
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urbana si disponevano sopra la città con la purezza della mineralogia. Leggevo i libri di geografia urbana, di topografia, di storia urbana come un generale che voglia conoscere tutti i possibili campi di guerra; le alture, i passi, i boschi. Percorrevo a piedi le città d’Europa per capirne il disegno e classificarle in un tipo; come un amore vissuto con egoismo ne ignoravo spesso i sentimenti segreti, mi bastava il sistema che le governava. Forse volevo semplicemente disfarmi della città. In realtà scoprivo la mia architettura: un groviglio di cortili, di case periferiche, di tetti, di gasometri erano la prima esplorazione di una Milano che mi sembrava fantastica. Il mondo borghese delle ville sul lago, i corridoi del collegio, le grandi cucine della campagna erano ricordi di un paesaggio manzoniano che si disfava nella città. Ma questo insistere sulle cose mi svelava un mestiere. Lo ricercavo nella storia, lo traducevo nella mia storia:
così la tipologia, la sicurezza funzionale si estendevano o ritornavano al mondo degli oggetti: la casa a Borgo Ticino ritrovava le capanne dei pescatori, il mondo del lago e del fiume, una tipologia senza storia. Ho visto le stesse case al nord del Portogallo, a Galveston nel Texas, sul bordo del
golfo del Messico. Mi sembra oramai sufficiente fermare gli oggetti, capirli, riproporli; il razionalismo è necessario come l'ordine, ma qualsiasi ordine può essere sconvolto da fatti esterni, di origine storica, geologica, psicologica.
Il tempo dell’architettura non era più nella sua duplice natura di luce e ombra o di invecchiamento delle cose, ma si
proponeva come un tempo disastroso che si riprende le cose. Tutto questo mi ha portato al concetto dell’identità. E della perdita dell'identità. L'identità è qualcosa di singolare, di tipico, ma è anche una scelta. Nei miei disegni L’architecture assassinée e Le cabine dell’Elba ho cercato di esprimere questi rapporti; e in altri ancora.
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Rivalutavo le cabine, le piccole costruzioni in legno, le loro deformazioni: il mondo del Sud dal Mediterraneo al Pacifico. Nel mio lavoro per il Corral del Conde ho ritrovato a Siviglia tutte queste suggestioni. Siviglia vive le sue due e più anime; nella Settimana Santa e nella Feria. Sono forse le più grandi architetture che ho conosciuto. Nell’ Architettura della città, avevo parlato delle città d’Andalusia; costruzioni come l’Alhambra di Granada e la
Mezquita di Cérdoba erano il paradigma di un’architettura che si trasformava nel tempo, che conosceva spazi immensi e delicatezza di soluzioni, che costituiva la città. Ma ora so
che queste impressioni si sono riflesse nella mia architettura e che i legami analogici, le associazioni tra cose e situazioni, si sono moltiplicate nel mio stare in Andalusia così e che ora, mescolando autobiografia e storia civile, emergono le immagini della struttura della casa sivigliana. Ho sempre amato e ripresentato la tipologia del corral: la corte era la form di vita delle case della vecchia Milano, costituisce la
forma della cascina in campagna, risale alla villa agricola imperiale che si richiude come una piccola città alla fine della pax romana. Nelle vecchie case di Milano la vedevo, insieme al ballatoio che d’altronde è strettamente legato alla corte, come una forma di vita fatta di intimità sofferte, di legami, di insofferenze; nell’infanzia borghese mi sentivo escluso da queste case ed entravo nei cortili con curiosità e timore. Più tardi l’interesse scientifico della ricerca allontanava la cosa più importante che resta, la fantasia di cui sono fatti i rapporti. Questa fantasia ricresceva nei corrales di Siviglia: in quelli più grandi e antichi, in quelli dalla forma stretta e lunga con scale e terrazze che si incrociano, nelle colonne di ghisa verde del primo Novecento, costruzioni della vita di un proletariato urbano ancora ricco di immaginazione.
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È certo che vediamo dietro molte di queste costruzioni i segni dell’antica miseria che vogliamo capovolgere; ma dobbiamo anche cogliere le immagini più dense che faranno la storia della città nuova. Per me il progetto di architettura si identifica ora con queste cose: vi è una strada di Sevilla fatta di ballatoi sovrapposti, di ponti aerei, di scale, di chiasso e di silenzio che mi sembra di ripetere in ogni disegno. Qui la ricerca si è arrestata; l’oggetto è l’architettura ritrovata. Questa architettura ritrovata fa parte della nostra storia civile; ogni invenzione gratuita è allontanata, forma e funzione sono ormai identificate nell’oggetto, l’oggetto, sia parte della campagna o della città, è una relazione di cose; non esiste una purezza del disegno che non sia la ricomposizione di tutto questo e l’artista alla fine può scrivere come Walter Benjamin «Io però sono deformato dai nessi con tutto ciò che qui mi circonda». L’emergere delle relazioni tra le cose, più che le cose stesse, pone sempre nuovi significati.
A Cérdoba Juan Serrano mi ha regalato un libro fantastico che mi è stato prezioso per l’architettura, non per l’ar-
chitettura di Cérdoba o dell’ Andalusia, ma per comprendere la struttura della città. Il libro si chiama Paseos por Còrdoba e non credo sia molto conosciuto; ho definito questo libro «fantastico» e non a caso. In esso la realtà topografica, la tipologia delle abitazioni, la stessa cronologia si stravolge continuamente con l’affezione, l’anedotto, l’apparizione, in
modo da darci un tempo diverso da quello che conosciamo. In questo volume grande, scritto fitto fitto, la città viene
analizzata o meglio ricercata nelle sue dimensioni più impreviste, dimensioni che spesso l’autore cerca di riportare al nesso urbano come scusandosi dell’aspetto troppo particolare della sua ricerca: «Dispenen nuestros lectores si de una palabra tan usual como el titulo de una calle, hemos hecho
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digresiones que tal vez non conducian al objeto de la obra». Ma l’oggetto dell’opera si costruisce proprio nelle relazioni interne e alla fine la città ritrovata si identifica con l’autonomia del ricercatore. Volevo solo porre in risalto come la costruzione, l’architettura, sia come l’elemento primario su cui si innesta la vita. Questo concetto che ritorna nelle mie conferenze mi è
stato chiaro soprattutto in alcuni «fatti urbani» di Siviglia; l'enorme accampamento della Feria, distribuito rigidamente come una città romana, i lotti divisi nella dimensione mini-
ma delle casette, i grandi portali di trionfo sono lo scheletro debole, ma così precisato nei legamenti, del corpo inquietante e convulso, destinato a vita breve e intensa dell’altra Feria.
Non conosco la Settimana Santa di Siviglia ma anche qui vedo le statue e i carri, le Virgenes e i Cristi, nelle chiese e nei musei, come strumenti architettonici di un’azione predisposta sì, ma imprevedibile. Credo sempre che, nella vita come in architettura, se cer-
cavamo una cosa non cercavamo solo quella; per questo in ogni ricerca vi è sempre un grado di imprevedibilità, come un senso di fastidio nel concludere. Così l’architetto deve preparare gli strumenti con la modestia di un tecnico; strumenti di un’azione che può solo intravedere, immaginare ma anche sapendo che lo strumento può evocare e suggerire l’azione. Io amo particolarmente i
teatri vuoti, con poche luci accese; al massimo le prove parziali dove le voci ripetono la stessa battuta, la spezzano, la riprendono, rimanendo al di qua dell’azione. Anche nei progetti la ripetizione, il collage, lo spostamento di un elemento da questa a quella composizione ci pone sempre davanti a un altro progetto che vorremmo fare ma che è anche memoria di un’altra cosa.
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Per questo lecittà, anche se durano secoli, sono in realtà
dei grandi accampamenti di vivi e di morti dove restano alcuni elementi come segnali, simboli, avvertimenti. Quando la Feria è finita i resti dell’architettura sono laceri e la sab-
bia rimangia la strada. Non resta che riprendere, con ostinazione,
a ricostruire
elementi
e strumenti
in attesa
di
un’altra festa. Quando, da una terrazza sul Mincio, guardavo i ruderi di un ponte visconteo, sistemati con semplici passerelle di ferro e travi di rinforzo, ho visto in tutta la sua chiarezza la
costruzione e le analogie formali e tecniche dell’architettura. Questa architettura analoga ritornava natura: era come un'illuminazione forse prima solo intravista. La disposizione del mattone nel muro franato, la sezione svelata dalla ro-
vina del tempo, il ferro nella sua forma di trave, l’acqua del canale, tutto costituiva quest'opera. Il progetto era solo il pretesto per un coinvolgimento più generale: non saprei spiegare oggi molte imitazioni della mia opera se non per questa semplice e conquistata capacità di vedere. Gli oggetti non più usabili sono fermi all’ultimo gesto conosciuto: nel processo analogico le case abbandonate hanno acquisito quasi il punto di riferimento e insieme di conclusione di questo progetto ipotetico che non mi è più possibile compiere in altro modo. Non ci è possibile fare di più:
per modificare la miseria della cultura moderna è necessario un grande appoggio popolare: la miseria dell’architettura è
l’espressione di tutto questo. Come guardando un rudere anche nella città i contorni delle cose si sfumavano e si confondevano. Nel silenzio esagerato di un'estate in città coglievo la deformazione, non solo nostra, ma degli oggetti e delle cose. Forse vi era un certo stordimento nel guardare le cose e tanto più erano
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DT
precise tanto più si offuscavano. Così si poteva tentare questo progetto: per esempio, una casa. Tentare un progetto, o un romanzo, o un film che si arre-
stasse a questa casa, con una corte selciata, e poi l'ingresso a un’altra piccola corte separata dal giardino con un cancello; e oltre il giardino, o nel giardino, altre case o un ospedale. E ponete la casa su due livelli, con gradini intermedi. O potrebbe essere a un piano nel giardino con dietro fabbriche di mattoni. È certo che questa indifferenza alla forma si identificava con una specie di malessere dovuto alla situazione. Ammettevo
che il disordine delle cose, se limitato e in
qualche modo onesto, rispondesse meglio al nostro stato d’animo. Ma detestavo il disordine affrettato che si esprime come indifferenza all’ordine, una specie di ottusità morale, di benessere soddisfatto, di dimenticanza. A cosa avrei potuto aspirare nel mio mestiere?
Certo a poche cose, visto che le grandi cose erano storicamente precluse.
Forse l'osservazione delle cose è stata la mia più importante educazione formale; poi l'osservazione si è tramutata in una memoria di queste cose. Ora mi sembra di vederle tutte disposte come utensili in bella fila; allineate come in un erbario, in un elenco, in un dizionario. Ma questo elenco tra immaginazione e memoria non è neutrale, esso ritorna
sempre su alcuni oggetti e ne costituisce anche la deformazione o in qualche modo l’evoluzione. Credo che sia difficile per la critica, dall’esterno, capire
tutto questo. La critica dovrebbe scrivere libri come quello del poeta americano Charles Olsen su Melville; è uno dei libri più belli che conosca e spiega non solo Melville ma chiunque si accinga a fare qualcosa. Certo il caso di Melville mi affasci-
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na, perché mi ha sempre spiegato il rapporto tra l’osservazione e la memoria, anche, se volete, tra l’analisi e la creatività. In questo libro appunto, Call re Ishrael, a pagina 93 Ol-
sen scrive delle cose molto importanti che preferisco riportare integralmente, anche se nel mio libro vorrei ridurre al minimo le citazioni: «In the Journal Up the Straits, the story of Melville’s return starts after Cape Finisterre is passed, of Cape Vincent. The entry for that day is a dumb show of what is to follow. The contraries of the man who now turns to the East for some resolution of them lie in these natural sentences, as outward as gestures: Sunday, Nov. 23, 1856
“Sunday 23d. Passed within a third of a mile of Cape St. Vincent. Light house & monastery on bold cliff. Cross. Cave underneath light house. The whole Atlantic breaks here. Lovely afternoon. Great procession of ships bound for Crimea must have been descried from this point.” Melville had started a ghost. What he sees on the cliff is, quick, his life: HEIGHT and CAVE, with the CROSS between.
And his books are made up of these things: light house, monastery, Cross, cave, the Atlantic, an afternoon, the Cri-
mea: truth, celibacy, Christ, the great dark, space of ocean, the senses, man's past». L’enumerazione delle cose viste si identifica con la sua vita e i suoi scritti; solo che egli nota le cose che ha sempre visto e sempre vissuto. Anche la ricerca dell’imprevisto si congiunge o si ricongiunge con una qualche forma del reale.
Potrei chiedermi cosa significa il reale in architettura. Per esempio un fatto dimensionale, funzionale, stilistico, tecnologico: potrei scrivere un trattato. Ma penso piuttosto a questa light house, a un ricordo, a un'estate. #
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Come stabilire la dimensione e quale dimensione? In questa estate del 1977 stavo all’Osteria della Maddalena quando nel corso di una conversazione poco afferrabile ho colto una definizione architettonica. L’avevo trascritta: «C'era uno strapiombo di dieci metri nel punto più alto della stanza». Ignoro a quale contesto si riferisse questa frase ma trovo che una nuova dimensione si era stabilita: è possibile vivere in camere con strapiombo? Esiste la possibilità di un progetto di questo tipo che sia rappresentabile oltre la memoria e l’esperienza? E inutile che io dichiari che ho tentato inutilmente di disegnare questo progetto o questa camera: potrei farlo ma sempre si arresta ad un vuoto che non si può rappresentare. Per molti versi questo vuoto è la felicità e la sua assenza.
Ho detto che il progetto di Chieti era basato sulla felicità; in genere, dopo la liquidazione della morte con il progetto di Modena perseguivo una rappresentazione formale della felicità.
Ora mi è chiaro che non vi è momento di completa felicità che non abbia in sé una forma di idiozia, di stupidità autentica o riscoperta. Come il gioco di guardarsi negli occhi a chi ride per primo. Ma accadeva che nella felicità pensavo alle spiagge sovrapponendo Adriatico e Versilia, Normandia e Texas: sono luoghi che certamente conosco per frammenti ma ho sempre cercato come contrapposto al mondo del lago, che forse non è esattamente la felicità. Il mare mi sembrava una concrezione, la capacità di costruire una forma geometrica e misteriosa, fatta di ogni ricordo e attesa. Forse proprio un verso liceale di Alceo mi aveva condotto all’architettura. O conchiglia marina / figlia della pietra e del mare biancheggiante / tu meravigli la mente dei fanciulli. La citazione è circa questa e contiene i problemi della forma, della materia, della fantasia, cioè della
meraviglia. Ho sempre pensato che ridurre l'origine dei ma-
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teriali a qualche senso positivista costituisse un’alterazione sia della materia che della forma. Ho preso coscienza di questo nel progetto di Chieti e nel disegno molto pubblicato, che potrei chiamare famoso, Le cabine dell'Elba. Le cabine erano un’architettura perfetta, ma anche si allineavano lungo la sabbia e strade bianche in mattine senza tempo e sempre eguali. Posso ammettere che esse rappresentano qui un aspetto
particolare della forma e della felicità: la giovinezza. Ma questa questione non è essenziale anche se è legata agli amori delle stagioni marine. Ma forse pensando alla stupidità, al verde delle persiane, al sole, ritorno più indietro fino all’albergo Sirena, posto sulla statale sotto S., al lago. L’albergo Sirena è fondamentale nella mia architettura al punto che qualcuno potrà pensarlo come un’invenzione, un mio progetto: potrei aggiungere che per la sua tipologia a corte esso è anche un aspetto della mia analisi sui corpi di fabbrica. In realtà non è l’aspetto tipologico che ha influenzato la mia opera, ma certamente, dal punto di vista del meraviglioso, il suo colore. L'albergo Sirena era completamente tinto di verde con un tipo di intonaco rustico che usava circa nel 1940 e con cui anche i miei nonni avevano fatto tingere la villa; la commistione di questo verde acido ed esasperato con le forme della villa piccolo borghese, non priva di sottigliezze romantiche, offriva una versione del surrealismo tra il fascista e l’idiota. Intendo dire che possedeva degli elementi maneschi che, ancora elementi, emergenti nel colore verde, sono legati al nome Sirena. Ora, senza uscire dai confini scientifici di questo scritto,
devo ammettere che l’associazione principale tra l’albergo e il verde era rappresentata, per contrasto, da una ragazza che si chiamava Rosanna, o Rossana che fosse, e il senso di
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vernice e di colori contrapposti non si è mai districato in me: tra il verde acido e questo rosa rosanna, tra quello della carne e un fiore leggermente inusitato, che si chiudeva nell’immagine della Sirena. Così è vero che ogni architettura è anche un’architettura dell’interno, o meglio, dall’interno; le persiane che filtrano la luce del sole o la linea dell’acqua costituiscono dall’interno un’altra facciata, insieme al colore e alla forma dei corpi che dietro la persiana vivono, dormono, si amano. Anche questi corpi hanno un loro colore e una loro luce per così dire propria e una riflessa; questa luce è come una specie di stanchezza o spossatezza fisica dell’estate, di un bianco abbagliante nei toni invernali. Questo tornava nel disegno delle cabine come piccole case innocenti: l'innocenza dello spogliarsi ripetendo antichi movimenti, gli indumenti bagnati, qualche gioco, un tepore acido del sale marino. Ho visto grandi cabine, come case di questo tipo, nel nord del Portogallo, i Dalheiros di Mira, con il portico per le barche, il legno bianco grigio delle barche in secca. Questo legno della barca e della casa ha un colore grigio scheletrico, che tutti conoscete: come di corpi abbandonati dal mare per anni, per secoli, su qualche spiaggia. Le favolose illustrazioni degli scheletri dei pirati, circondati dai loro tesori, pietre e smeraldi che il tempo non può consumare, in un groviglio di storie sconosciute. Esiste la traduzione architettonica di tutto questo in qualche frammento dei manieristi rinascimentali, nel tempio dell’Alberti, nelle fabbriche e nei mercati fine secolo,
nelle edicole addossate alle chiese e certamente nei confessionali. I confessionali sono delle piccole case all’interno dell’architettura e mostrano come il duomo o la cattedrale della città antica fosse una parte coperta della città. Mercati, cattedrali, edifici pubblici spiegano una storia
più complessa della città e dell’uomo. Le edicole di vendita all’interno dei mercati o i confessionali e le cappelle all’in-
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terno delle cattedrali mostrano questo rapporto tra singolo e universale, rendendoci il rapporto tra l’interno e l’esterno dell’architettura. I mercati hanno sempre avuto per me un particolare fascino solo in parte legato all’architettura; soprattutto i mercati francesi, quelli di Barcellona, o anche il mercato di
Rialto a Venezia. Sono gli esempi che ricordo: e mi impressiona la quantità del cibo esposto. Carne, frutta, pesce, verdura che si ripetono nei diversi banchi o locali in cui è diviso il mercato, e particolarmente il pesce che ha forme e presenze diverse, ancora fantastiche nel nostro mondo. Forse
questa architettura della strada e delle cose, delle persone e del cibo, della vita fluente si è definita per sempre nella Vucciaria di Palermo. Ma questo mi riporta sempre ad altre questioni di Palermo, o di Siviglia, anche se queste città sono molto diverse.
Comunque, se penso ai mercati, stabilisco ogni volta un parallelo con il teatro e particolarmente con il teatro del Settecento nel rapporto tra i palchi come luoghi isolati e lo spazio complessivo del teatro. In ogni mia architettura sono sempre stato affascinato dal teatro anche se ho fatto solo due progetti per il teatro: il progetto giovanile del Teatro Paganini in piazza della Pilotta a Parma e nel 1979 il progetto per il Teatrino scientifico. Questo ultimo progetto mi è particolarmente caro, esso è
un progetto di affezione. Ho sempre pensato che il termine teatrino fosse più complesso del termine teatro; questo non si riferisce solo alla misura ma al carattere di privato, di singolare, di ripetitivo di quanto nel teatro è finzione. Alcuni hanno pensato che il termine teatrino fosse una parola ironica o infantile. Teatrino invece di teatro non è tanto ironico o infantile,
anche se ironia e infanzia sono strettamente legate al teatro, quanto un carattere singolare e quasi segreto che accen-
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DO,
tua il teatrale. La definizione di scientifico deriva da molteplici motivi: è certo un misto tra il Teatro anatomico di Padova e il Teatro scientifico di Mantova e tra l’uso scientifico della memoria dei teatrini a cui Goethe ha affidato gli anni della giovinezza. Erano anche strutture semplici, provvisorie; il tempo di un'amore di mezza estate, di una stagione febbrile e incerta, il teatro provvisorio, distrutto dall'autunno, che Cechov ha sapientemente progettato tra un gabbiano morto e un colpo di pistola. Era proprio un teatrino dove la vicenda si svolgeva all’interno della vita ma dove la vicenda teatrale, estiva, da tempo di vacanze, segnava la vita. Questi luoghi o teatrini erano frammenti e occasioni; forse
non prevedevano altre vicende e ogni commedia non aveva progresso. Anche in quest'opera una relazione quasi coatta
presiede il progetto. Tralascio una massa di citazioni, memorie, ossessioni che popolano il Teatrino, ma come non citare quasi l’autore di questo progetto nelle poche righe che Raymond Roussel ha scritto per il Teatro degli Incomparabili? «Alla mia destra, di fronte al centro della fila d’alberi, s’ergeva, simile a un gigantesco teatro di burattini, un teatro rosso, sul cui frontone, disposte su tre righe, spiccavano a lettere d’argento le parole “Club degli Incomparabili”: dipartendosi in tutte le direzioni come intorno a un sole, larghi raggi d’oro facevano loro corona. Il sipario era aperto e sulla scena si vedevano un tavolo e una sedia, quasi in attesa di un conferenziere. Sul fondale erano appesi diversi ritratti senza cornice, accompagnati da una etichetta esplicativa, così concepita “Elettori del Brandeburgo”?». Si tratta di un progetto completo; l’autore ci avverte anche che la visione del teatro avviene alle quattro di un 25 giugno e che benché il sole fosse tramontato il calore era opprimente per l’aria temporalesca. Inoltre il teatro era circondato da una capitale imponente formata da innumerevoli capanne.
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Il progetto è definito nell’ora e nel luogo: verso le quattro all’interno di un’imponente capitale. Questa imponenza è offerta da semplici capanne, che però sono appunto innumerevoli. Anche sul fronte del Teatrino vi è un orologio; dove l’ora non batte il tempo. È ferma sulle cinque; le cinque possono essere verso le quattro o anche le mitologiche cinque di Ignacio Sanchez Mejias. Anche per le cinque di Siviglia nel tempo della Feria l’ora dell’arena non batte il tempo. È certo che il tempo del teatro non coincide con il tempo misurato dagli orologi; anche i sentimenti non hanno tempo e si ripetono sul palcoscenico ogni sera con impressionante puntualità. Ma l’azione non sarà mai estranea al clima del teatro o teatrino: e tutto questo è riassunto in poche tavole di legno, un palco, luci improvvise e impreviste, gente. Il prestigio del teatro. Negli ultimi progetti seguivo queste analogie sterminate: le case capanna della casa dello studente di Chieti, i disegni delle cabine dell'Elba, le Palme e le case di Siviglia erano i pezzi di un sistema che doveva comporsi all’interno del Teatrino scientifico. Diventava un laboratorio dove il risultato della più lucida esperienza era sempre imprevisto; nulla può essere più imprevisto di un meccanismo ripetitivo. E
nessun meccanismo sembra più ripetitivo delle questioni tipologiche della casa, delle costruzioni civili, del teatro. E certo che il costruttore ripercorreva altri teatri, altre dimensioni, quando esso comprendeva e conteneva tutta la città; ed erano costruzioni di pietra che seguivano la topo-
grafia del terreno costruendo una nuova geografia. Mai poi tutto questo è perduto. E forse meglio di ogni tentativo di ricupero, a partire dall’antica Roma, è l'invenzione del teatro come luogo delimitato, le assi del palcoscenico, scenografie che non vogliono
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più imitare nulla, le poltrone, i palchi, la vertigine della finzione, azioni e personaggi che, nel continuo ripetersi, sono quasi staccati dall’intelligenza e dal corpo; questo mondo che ai primi battiti dell’orchestra si impone con il prestigio del teatro. Questi primi battiti sono sempre un inizio e possiedono
tutta la magia dell’inizio; capivo tutto questo guardando i teatri vuoti come costruzioni abbandonate per sempre anche se il loro abbandono è spesso più breve della luce del giorno; ma questo breve abbandono è tanto carico di memoria che costruisce il teatro. Costruire il teatro; gli esempi storici li incontravo tutti nella terra padana e si confondono e si sovrappongono come la musica dell’opera lirica nelle feste di paese: Parma, Padova, Pavia, Piacenza, Reggio e ancora Venezia, Milano e tutte le capitali padane dove il teatro accende le sue luci nella nebbia persistente. La stessa nebbia che penetra, come l’effetto di una macchina teatrale, nella galleria milanese. E nell'interno della nebbia, come un’abitazione singolare, si collocava il teatro; certamente il teatro, come modo di vivere, era un’abitazione. Ma lo ritrovavo in altre lontane abitazioni in una forma essenziale; all’interno del Brasi-
le, nelle piccole città, il teatro si distingue appena per la chiarezza del timpano, per lievi accorgimenti singolari della facciata o si ritrova nelle cattedrali dove il retablo è come una scena fissa attorno a cui si dispongono o si scavano palchi. Mi fermo in questi luoghi cercando di capire le possibilità dell’architettura; misurando gli spazi, rilevando le soluzioni distributive dell’atrio, delle scale, dei palchi che, nella ripetizione, si modificano dilatando e contraendo i percorsi. Appena viviamo una grandezza sensibile ci accorgiamo dell'inganno delle proporzioni così come dell’opera comprendiamo che i diversi motivi si intrecciano stranamente tra lo-
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ro, si illuminano a vicenda; e forse è anche questo misto di suggestioni e realtà il prestigio del teatro. L’invenzione del Teatrino scientifico, come ogni progetto teatrale, è quindi un’imitazione e come ogni buon progetto è preoccupato solo di essere un utensile, uno strumento, un luogo utile per l’azione decisiva che può accadere. Così esso è inscindibile dalle sue scene, dai suoi modelli,
dall'esperienza di ogni combinazione e il palcoscenico si riduce al tavolo da lavoro dell’artigiano o dello scienziato; è sperimentale, come è sperimentale la scienza, ma conferisce ad ogni esperimento
il proprio prestigio. Al suo interno
niente può essere casuale ma nemmeno nulla essere risolto per sempre. Pensavo a due commedie che potrebbero sempre avvicendarsi: la prima si chiama I nor riconciliati, la seconda I ricongiunti. Persone, vicende, cose, frammenti, architettura hanno sempre un fatto che li precede o li segue e si interse-
cano scambievolmente. Come nei teatrini bergamaschi, che ricordo nell’infanzia sul lago, G/ sposi promessi puntualmente ripetuti ci mostravano vicende che si svolgevano sempre attraverso qualche impossibilità e i personaggi, come il principe Amleto, dovevano risolvere un destino oscu| ramente precostituito. Ma ogni sera la stessa tela del ramo del lago, incorniciata dalle sue luci e dalla sua architettura,
indicava una possibilità. Era questa la finzione ma anche la scienza e il prestigio del teatro.
Il teatro era anche una mia equivoca passione dove l’architettura era il fondale possibile, il luogo, la costruzione misurabile e convertibile in misure e materiali concreti di un sentimento spesso inafferrabile. Ho sempre preferito i muratori, gli ingegneri, i costruttori che davano una forma, che
costruivano ciò che rendeva possibile una qualche azione.
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Anche se il teatro, e forse solo il teatro, possiede questo singolare prestigio di trasformare ogni situazione obiettiva. Costruivo un teatrino dove la vicenda si svolgeva all’interno della vita ma dove la vicenda teatrale estiva, tempo di vacanze, segnava la vita. Mi chiedo come le stagioni entrano nell’architettura; forse sono fermo alla galleria milanese quando d’inverno è attraversata dalla nebbia, o alla natura e ai corpi del Brasile che divorano ogni spazio privato, o alle ville abbandonate sul lago. Sono fermo ad una situazione che può essere tutta la mia architettura dove la situazione del luogo e del tempo, che sembra così importante, si dissolve in gesti e percorsi consueti.
Questo presiedeva al progetto più volte descritto in modi diversi e che ho chiamato «progetto di villa con interno»: esso è forse qualcosa di molto vicino a ciò che potrei chiamare «dimenticare l’architettura». A questo progetto mi sembra di aver rinunciato da tempo anche se spesso ne parlo e si trova nelle mie carte in disegni incompiuti o schemi o in cartoline e fotografie già ingiallite dal tempo. Erano materiali con cui volevo costruirlo; erano forse il film che volevo realizzare ma che sempre più confondeva le persone, le luci e le cose. E anche questo interno dapprima era forse solo qualcosa come un arredamento, ma poi diventava anche persone, come presenza di corpi; e a volte amo pensare di aver perso per sempre le testimonianze di questo progetto se non fosse che esso si ripresenta in occasioni diverse. Ho detto che la villa non ha nulla a che vedere con la piccola casa; indipendentemente dalle dimensioni, e gli antichi maestri ci hanno spiegato tutto questo.
Dopo i romani, il locus o luogo della villa è stato per sempre determinato da Palladio nel trattato e nelle opere co-
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struite: la desacralizzazione della forma del tempio religioso e la scelta del luogo (alture, corsi d’acqua, giardini, il lago) sono la sua più grande invenzione. Storicamente questa ri-
duzione permette la villa romantica e piccolo borghese; anche i palazzi trasformano i padiglioni dei giardini in ville, tale è il segreto di questa costruzione: basti pensare alla villa padiglione di Schinkel nel parco di Charlottenburg. Sulla scorta di questi concetti l’architettura della villa era quella destinata a dissolversi e quasi scomparire, quasi a non lasciar segno delle sue sempre più fantastiche tipologie. L’idea del luogo palladiano ha estraniato il luogo della villa dal suo contesto; si tratta di un luogo che sapevamo già e può trovarsi indifferentemente lungo il Rio Paranà o sul lago di Como, nel New England o sul Mediterraneo o dove voi volete. Gran parte della bellezza dei racconti di Chandler è basata sulla sua profonda conoscenza della villa tanto da farne un elemento che descrive la vicenda in California ma con piccoli spostamenti potrebbe descriverla in altri luoghi. Anche gli interni di Cechov sono piuttosto delle ville che delle case di campagna e sono sempre estremamente sensibili alle stagioni. Ritrovate sempre gli elementi del cancello, le ortensie, i segni delle gomme dell’automobile sulla
ghiaia, un tavolo che sta per essere apparecchiato, dei saluti e delle parole abbastanza lontani. L’architettura rimane in pochi particolari come sempre aspettando il colpo di pistola del Gabbiano, la luce della scala, il battello che percorre il lago come in una cupola di vetro. Il progetto è forse ritrovare questa architettura dove filtra la stessa luce, il fresco della sera, le ombre di un pomeriggio d’estate. Azul de atardecer. Ma nel progetto il lungo e stretto corridoio chiuso da due porte di vetro; la prima su una strada stretta, la seconda diretta sul lago da dove penetra l'azzurro dell’acqua e del cielo. Certo, corridoio o sala, è predisposto il luogo dove qualcuno chiederà prima o poi: «E necessario parlare di tutto
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questo» o «Vedete, le cose sono cambiate» e altre frasi della sceneggiatura o commedia. E lunghi pomeriggi e grida di bambini e il tempo familiare. Perché il costruttore aveva previsto nel progetto che la continuità della casa, non solo distributivamente, fosse il corridoio. Quando traccio la li-
nea di un corridoio ne vedo questo aspetto di sentiero e forse per questo il progetto non andava oltre; era un percorso come attanagliato e circondato da fatti privati, occasioni imprevedibili, amori, pentimenti. Anche immagini che non rimanevano impresse sulla lastra fotografica e che si accumulavano nelle cose; per questo l'interno è importante e dovete sempre immaginare l’effetto che produce una persona che esce da una stanza imprevista; e chiedervi se le camere dovranno comunicare tra loro e
questioni di questo tipo che si mescolano alla difesa dall’umidità, ai livelli delle acque, alle coperture e infine al buon stato della costruzione.
Finisce che questo interno, come il verde del giardino, è più forte della costruzione. Potete leggere il progetto semplicemente nelle case esistenti, sceglierlo da un repertorio che vi procurate facilmente; inseguirlo nelle varianti della regia, nelle battute dell’attore, nel clima del teatro e sempre sorpresi dalle incertezze del principe Amleto di cui non sapremo mai se era veramente un buon principe come tutto
sembra farci credere. Forse sarebbe solo questo il progetto dove le analogie identificandosi con le cose raggiungono di nuovo il silenzio. I rapporti sono un cerchio non chiuso; solo uno sciocco potrebbe pensare di aggiungere il tratto mancante o di cambiare il senso del cerchio. Non nel purismo ma nella illimitata contaminatio delle cose, delle corrispondenze, ritorna il silenzio; il disegno può forse suggerire e mentre si limita si amplia alla memoria, agli oggetti, alle occasioni. Il progetto insegue questa trama di nessi, di ricordi, di
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immagini pur sapendo che alla fine dovrà definire questa o quella soluzione; dall’altra parte l’originale, vero o presunto, sarà un oggetto oscuro che si identifica con la copia. Anche la tecnica qui sembra arrestarsi ad una soglia dove la disciplina si dissolve. Fotografie, rilievi, disegni, il canovaccio di una comme-
dia, la sceneggiatura di un film. Forse un ritratto.
Qui si può arrestare l’elenco dei progetti o, se si vuole, iniziare una smisurata ricerca delle cose. Ricerca che è anche ricordo ma è soprattutto l’aspetto sterminatore dell’esperienza che procede imprevista dando e togliendo signifi-
cato ad ogni progetto, avvenimento, cosa o persona. Così questa villa cresceva nel moltiplicarsi delle stanze e nella rigidità di un percorso rettilineo e diventava ospedale, convento, caserma, il luogo di una incomunicabile e presente vita collettiva. Ho sempre pensato che in ogni azione vi debba essere qualcosa di coatto e questo non riguarda solo
la relazione tra le persone e le cose ma riguarda anche la fantasia. E difficile pensare senza qualche ossessione; è impossibile creare qualcosa di fantastico senza una base rigida, incontrovertibile e appunto ripetitiva. Era questo il senso di molti progetti; e il mio interesse per il mercato, per il teatro, per l'abitazione. Così comprendo l'osservazione misteriosa che avevo colta nell’Osteria della Maddalena: cioè comprendo che in ogni stanza vi è un precipizio, solo che sarebbe sciocco costruire quel precipizio come costruire l’intimità, la felicità e lo sfacelo. Ho imparato tardi a comprendere gli interni vittoriani, le mezze luci, la tenda scolorita, l'orrore dello spazio vuoto che deve essere colmato e sempre coperto e velato. In un «progetto di villa con interno» mi chiedevo queste cose e forse per questo non raggiungevo nemmeno una logica che finisse il disegno. Non potevo aggrapparmi alla volgarità dell’albergo Sirena: perché oramai quell’albergo era
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un monumento entro cui partecipavo ad una liturgia di per se stessa ripetitiva e necessaria.
Se dovessi parlare oggi dell’architettura direi che è piuttosto un rito che una creatività; perché conosco pienamente le amarezze e il conforto del rito. Il rito ci dà un conforto della continuità, della ripetizione, ci costringe a dimenticanze oblique perché, non potendosi evolvere, ogni cambiamento sarebbe la distruzione. Questo potrebbe spiegare molti miei disegni o progetti. Nel 1966 il progetto per l’unità residenziale San Rocco impostava un’assoluta razionalità: era il reticolo romano applicato sopra un pezzo di Lombardia. Poteva estendersi all’infinito, vi era in questo progetto qualcosa di perfetto, ma quasi asettico. Poi avevo pensato che le due parti dovessero essere sfalsate. Ma sfalsate di poco. Lo specchio rimaneva nella sua cornice ma era come solcato da una crepa che nessuno avrebbe potuto definire volontà di asimmetria ma piuttosto un incidente che stava nella cornice e alterava leggermente il riflesso del volto. O se il riflesso non era alterato era certamentee lievemente sconnesso. Era la critica e l’orrore della lizitatio. Come i contadini veneti, per secolare miseria, rompevano la misura romana dei campi costruendo sul cardo e sul decumano. Questo mi ha sempre colpito perché significa che la strada, elemento d'ordine pubblico, sfuggiva alla privatizzazione dei campi e non poteva essere pretesa da uno stato in sfacelo e da un impero astratto. Oppure era come il risultato di un movimento tellurico, un assestamento statico che avesse diversi-
ficato gli assi della costruzione. Amavo l’assestamento del Pantheon descritto nei libri di statica; la crepa imprevista, un crollo visibile ma contenuto, dà una forza immensa al-
l'architettura perché la sua bellezza non poteva essere prevista. Tra le mie prime passioni per l’architettura vi è certa-
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mente Alessandro Antonelli; di Antonelli ho sempre ammirato la coerenza ossessiva e la passione per la costruzione verticale. Molte di queste costruzioni cadevano o si reggono su un equilibrio praticamente indicibile; egli portava all’estremo un sistema di costruzione tradizionale, le cupole in laterizio, che fatalmente dovevano essere abbandonate. An-
tonelli si opponeva a rompere delle regole antiche quasi non potesse confrontarsi con le tecniche moderne per la loro elementarità. Questa passione per la tecnica è molto importante nei miei progetti, o nel mio interesse per l’architettura. Credo che l’edificio al quartiere Gallaratese a Milano sia importante soprattutto per la semplicità della sua costruzione e che in questo senso venga ripetuto. Per lo stesso motivo ho sempre amato Gaudî anche se sembra che questo interesse sia un omaggio al mio amico Salvador Tarragé. In effetti ho imparato da Salvador la grandezza di Gaudî, ma mi erano proprie le regole costruttive, la conduzione fino all’assurdo delle possibilità statiche, il bosco di colonne del Parque Giiell dove gli elementi portanti si piegano in base a leggi statiche o surreali, la mezcla straordinaria tra ingegneria e fantasia, tra autobiografia e religione che Salvador mi descriveva nella lingua catalana. Certo, era la sta-
tica. Il Colosso di Rodi, l’Empire State Building, il San Carlone, la Mole Antonelliana, l’Acquedotto di Cérdoba, i missili di Huston, le Piramidi, le torri gemelle del World
Trade Center e altre cose che non posso descrivere, come il pozzo di Orvieto. Forse mi sono interessato all’architettura per le mitiche leggende della muraglia cinese o per le tombe di Micene. Sapevo che tutto questo era precluso, o che forse non era mai stato vero. Ma queste costruzioni fatte con i corpi mi
impressionavano; il corpo dell’uomo che rivedevo in cera nei Sacri Monti o nei sotterranei di Palermo o steso nelle chiese del Brasile. Capisco che questa è la fine di ogni tecnica: è l’identifica-
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zione della cosa con la fantasia alla sua base, al suo fondamento, alla terra e alla carne. In ogni progetto mi disgusta chi parla dell’opera come liberazione: questo appartiene alla critica superficiale e in
qualche modo al concetto di arte. Come nelle statue del Sacro Monte di S. che percorrevo quasi ogni giorno ciò che ammiravo non era l’arte: ma seguivo l’ostinazione, il racconto, la ripetizione ed ero contento che in qualche modo, magari doloroso, alla fine la virtù trionfasse.
E come vedere molte volte lo stesso film, la
stessa commedia: ed essere liberi dal desiderio di conoscere la fine. Per questo vado spesso al cinema quando la pellicola è a metà o sta finendo; conoscete i personaggi nel loro momento conclusivo e poi potete riscoprire l’azione che accadeva prima o immaginare un'alternativa.
Anche se parlerò poi di alcuni miei progetti devo dire ancora alcune cose sul cimitero di Modena la cui prima stesura, dovuta ad un concorso, risale al 1971. Allo stesso anno circa risalgono le prime note di questo scritto che raccolgo in piccoli quaderni azzurri per compiti o annotazioni e che si trovano solo in Svizzera; sono di un
bell’azzurro e li chiamo quaderni azzurri. Nel progetto del cimitero di Modena, come ho detto, cercavo la liquidazione del problema giovanile della morte come rappresentazione. So bene che questa non può essere l'impostazione migliore per la spiegazione di un progetto; e nemmeno la mediazione osteologica o meditazione osteologica a cui ho accennato. Inoltre in questo progetto esisteva ancora chiaramente una mediazione tra la cosa e la sua rappresentazione; mediazione che in qualche modo scompare nei progetti successivi. Il concetto centrale di questo progetto era forse quello di aver visto che le cose, gli oggetti, le costruzioni dei morti non sono differenti da quelle dei vivi. Parlavo della romana tomba del fornaio, di una fabbrica
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abbandonata, di una casa vuota; vedevo anche la morte nel senso di Alice non abita più qui e quindi di un rimorso perché non sappiamo quali erano i nostri rapporti con Alice che pure in qualche modo ricerchiamo. In seguito il progetto si identificava con il percorso compiuto per recarsi nel luogo, e poi nel cantiere; questi rappotti con i pochi luoghi dove ho costruito sono singolari. Sono come un divertimento obbligato o un rapporto coatto; hanno sempre la qualità precisa che solo uno scopo
può conferire ad un viaggio. Forse non ho mai compiuto viaggi nel senso turistico anche se gli scopi di un viaggio possono essere molteplici e non solo legati al lavoro. Ma mi riferivo qui semplicemente al paesaggio o ai luoghi tra Modena e Parma che ogni volta riscoprivo e riscopro; certamente come molti altri. Ma questo legame ai luoghi e il suo contrario è qualcosa di molto importante’e che non riesco ad esprimere chiaramente.
Questa frequenza del paesaggio non ha mai per me molto alterato o non ha alterato affatto le prime scelte. Mentre seguivo le poche costruzioni realizzate amavo gli errori del cantiere, le piccole storture, i cambiamenti a cui rimediare in modo imprevisto. Mi sembrano già la vita dell’edificio e ne sono ammirato: credo che un ordine autentico sia disponibile a cambiamenti pratici e ammetta tutti i guasti della debolezza umana. Per questo il mio impegno è sempre stato di un ordine diverso da quello dei miei contemporanei o
professori: così al Politecnico di Milano credo di essere stato uno dei peggiori allievi anche se oggi penso che le critiche che mi venivano rivolte sono tra i migliori complimenti che abbia mai ricevuto. Il professor Sabbioni, che io stimavo particolarmente, mi dissuadeva dal fare architettura dicen-
domi che i miei disegni sembravano quelli dei muratori o capomastri di campagna che tiravano un sasso per indicare all’incirca dove si doveva aprire una finestra. Questa osserva-
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zione, che faceva ridere i miei compagni, mi riempiva di gioia; e oggi cerco di ricuperare quella felicità del disegno, che si confondeva con la imperizia e la stupidità, che ha poi caratterizzato la mia opera. In altri termini mi sfuggiva e ancora oggi mi sfugge gran parte del significato dell’evolversi del tempo; come se il tempo fosse una materia che osservo dall’esterno. Questa mancanza di evoluzione è fonte
di alcune mie sventure ma anche mi appartiene con gioia. Se questa è la mia posizione di oggi, e se mai una posizione può essere continuativa, devo pure dare un ordine seguendo il tempo di questa autobiografia scientifica. Come ho detto il mio interesse non era principalmente architettonico: trovo interessante che il mio primo articolo documentato sia intitolato La coscienza di poter dirigere la natura. E uno scritto del 1954 e avevo quindi 23 anni, d’altra parte una delle cose più importanti che ho scritto risale alla stessa epoca. È pubblicata nel 1956 ma è stata scritta circa un anno prima: avevo circa 24 anni. Questo saggio si inti-
tola I/ concetto di tradizione nell’architettura neoclassica milanese. Parlo di questi due scritti per quanto riguarda la storia di un’epoca, la storia civile. Circa ventenne
ero stato invitato in Unione
Sovietica.
Era questo un tempo particolarmente felice e univa la giovinezza ad una esperienza allora singolare; e della Russia amavo tutto, le antiche città come il realismo socialista, la
gente e il paesaggio. L’attenzione al realismo socialista mi è servita per sbarazzarmi di tutta la cultura piccolo borghese dell’architettura moderna: preferivo l'alternativa delle grandi strade di Mosca, l’architettura dolce e provocatoria della metropolitana e dell’Università sulle colline di Lenin. Vedevo mescolare il sentimento con la volontà di costruzione di un mondo nuovo; ora molti mi chiedono cosa è
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stato per me quel periodo e credo di dover dire soprattutto questo. Prendevo coscienza dell’architettura insieme all’orgoglio popolare di chi mi mostrava scuole e case, agli studenti di Mosca, ai contadini del Don. Non sono più tornato nell'Unione Sovietica ma sono orgoglioso di aver sempre difeso la grande architettura del periodo stalinista che poteva trasformarsi in un’importante alternativa per l’architettura moderna ed è stata abbandonata senza nessuna chiarezza. Recentemente un amico mi ha inviato una cartolina da Mosca che riproduce l’Università nella luce verde e azzurra del prato e del cielo e ho notato con gioia come questi edifici siano autentici monumenti capaci di affidarsi al carattere di festa contenuto in ogni cartolina turistica. Questa mia difesa dell’architettura sovietica mi ha sempre procurato polemiche ma non l’ho mai abbandonata; capisco che in questo vi può essere anche un motivo per così dire privato o strettamente autobiografico. Proprio una mattina, dimesso da una breve permanenza all’ospedale di Odessa, camminavo lungo il mare con la precisa visione di un ricordo o che stavo vivendo un ricordo positivo. Ho ritrovato tutto questo nel film di Wassilj Sushkin Così vive un uomo che ho ricollegato al film Miciurin che era la base del mio scritto La coscienza di poter dirigere la natura. Mi sembra un titolo assurdo: ma è come un programma e come ogni programma è in-
dipendente dal suo fallimento. Parlando dei luoghi, la Russia della prima giovinezza, e poi degli altri, vedo come una ricerca scientifica della propria opera diventi quasi una geografia dell’educazione. E, forse sviluppandolo in un altro senso, avrei potuto chiamare Geografia dei miei progetti questo scritto. Ogni luogo è certamente singolare proprio nella misura in
cui possiede sterminate affinità o analogie con altri luoghi; anche il concetto di identità e quindi di straniero, di cui ho parlato, è relativo.
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Ogni luogo si ricorda nella misura in cui diventa un luogo d’affezione o nella misura in cui siamo immedesimati. Penso al film di Antonioni Professione reporter e ad un luogo a me particolarmente caro, all’isola d'Elba che chiamavamo «professione reporter» senza nessun apparente motivo di
somiglianza che non fosse la luce e il sole, ma anche perché quel luogo era legato alla perdita dell’identità, come nel film di Antonioni. Questo luogo era un mio progetto. È sempre stata mia intenzione di scrivere i progetti, rac-
conto, film, quadro, sempre più indipendentemente da ogni tecnica perché così questo si identificava maggiormente con la cosa essendo nel contempo una proiezione della realtà. Pensavo di scegliere alcuni progetti e di esaminarli da molti punti di vista ma questo non avviene facilmente con un ordine temporale. Vedo ora che parlando più sopra del film di Antonioni ho parlato del disegno Le cabine dell'Elba, che è poi divenuto il progetto per la casa dello studente di Chieti, che in altre rappresentazioni ho chiamato Impressions d’Afrique e non solo per omaggio a Raymond Roussel. Così credo che il progetto può essere la conclusione oppure essere dimenticato effettivamente ed affidato ad altre persone o situazioni.
Questa dimenticanza è anche una perdita dell’identità nostra e delle cose che osserviamo; ogni cambiamento è all’interno di una fissazione. La differenza tra il lungo edificio urbano che avevo disegnato circa dieci anni prima al quartiere Gallaratese a Milano e queste piccole case mi sembra illuminare l’unico pensiero sulla città e sui luoghi dove abitiamo; quello di osservarli come parte della realtà della vita dell’uomo. Sono come copie di osservazioni e tempi diversi: l’osservazione giovanile dei lunghi ballatoi operai, delle corti piene di voci e di incontri che quasi spiavo con timore nell’infanzia borghese e avevano lo stesso fascino delle cabine, o me-
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glio delle piccole case che mi tornavano alla mente in altre situazioni e in altri luoghi; come le case dei monaci alla Certosa di Pavia o le case sterminate dei suburbi americani. La piccola casa non è la villa, come il lungo ballatoio, come la corte essa prevede un villaggio, una familiarità, un legame che anche nei casi migliori è come un sentimento coatto. A volte mi sembra che non vi sia molta differenza tra una piccola casa al centro di un villaggio africano, o di un villaggio delle Alpi, e una sperduta tra i grandi spazi d'America. Esiste tutta una terminologia tecnica per definire questa che chiamo piccola casa. Ma io l’ho vista per la prima volta nei disegni Le cabine dell'Elba che risalgono credo al 1973. Le ho chiamate cabine perché lo sono effettivamente nell’uso e nel linguaggio parlato ma anche perché mi sembravano una dimensione minima del vivere, un’im-
pressione dell’estate e così in altri disegni le ho poi chiamate Impressions d’Afrigue anche qui con riferimento al mondo di Roussel, che all’inizio ci dice «il teatro era circondato da
una capitale imponente formata da innumerevoli capanne». Le capanne-cabine erano quindi innumerevoli e questo mi ha fatto intravedere un tipo di città e di edificio, la massa del teatro, circondato da innumerevoli capanne. Nel 1976 associavo il mio progetto per una casa dello studente a Chieti a questa idea, mentre di solito la intendiamo come un edificio residenziale grande o piccolo, e così l’avevo vista nel progetto triestino del 1974. Ora vedevo questo vil-
laggio dove spiccava un edificio pubblico incompiuto, con grandi travi, che crescevano con le pareti di mattoni. E l’aspetto africano, mediterraneo, era dato da queste cabine come dalle grandi palme che pensavo da anni e che tornano
dovunque nella mia osservazione; e non solo nei grandi viali di Siviglia, così come a Siviglia le piccole case sono una città che si identifica con la Feria e quindi con l’estate, ma
palme che ho sempre ritrovato allineate sul lago di fronte
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alle case come un richiamo, un simbolo, la memoria stessa
della casa. Così la piccola casa, capanna, cabina si conformava e deformava nel luogo e nelle persone e niente poteva sostituirle o sottrarle questo carattere di privato, quasi di singolo, di identificazione col corpo, con lo spogliarsi e il rivestirsi. Ma questo rapporto con il corpo ritornava anche in senso lontano nei racconti dei contadini riuniti nelle stalle e
infine nella piccola analoga costruzione del confessionale. Stavano i confessionali addirittura all’interno dei grandi edifici che generalmente emergono dal villaggio; piccole case ben costruite, dove si parla di cose segrete, anche qui con il piacere e il disagio delle cabine estive rispetto al corpo. Essi erano provvisti di un tetto, di finestre, di decorazioni;
spesso il nome del sacerdote stava scritto come il proprietario di una casa. E la piccola casa si trasformava spesso in cimitero; così San Carlo Borromeo, seppure preoccupato dei grandi progetti architettonici e sociali, cercò di rendere la casa confessionale più umana proibendo di depositarvi le ossa anche se questo era fatto a fine di devozione e di funzionalità spirituale. Ed egli stesso per vincere questo culto antico percorreva la sua prediletta Valsolda, aiutato da pochi, a svuotare i confessionali più lontani. Nella piccola casa più ancora che nella chiesa la controriforma cercava di dividere questa stretta antica unità tra corpo e spirito. Ugualmente continuo e faticoso era l’intervento dei Gesuiti nelle
piccole case che costruivano per gli Indios per ricomporre pareti, divisioni, separazioni nelle case capanne perché queste diventavano subito un luogo dove una qualche separazione era data (solo) dal corpo. Con questo progetto delle cabine dell'Elba intendevo ridurre la casa a questi suoi valori avvertiti nelle stagioni; perché la piccola casa non è una riduzione dimensionale, in questo senso è il contrario della villa. La villa presuppone interni infiniti come labirinti e giardini per piccoli che siano, e un luogo. Sono invece queste piccole case come senza luogo perché
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il luogo è interno o si identifica con chi le abita per un tempo che sappiamo breve ma non possiamo calcolare. Le cabine possiedono rigidamente quattro pareti e un timpano; vi è nel timpano qualcosa che non è soltanto funzionale, come allo stesso modo esso presuppone una bandiera e presuppone il colore. Il colore a strisce è una parte integrante, riconoscibile, forse la parte più dichiaratamente architettonica. Essa soprattutto ci rende coscienti che all’interno vi deve essere una vicenda e che in qualche modo alla vicenda se-
guirà lo spettacolo. Come quindi separare la cabina da un altro suo senso: il teatro? Da questi disegni nasceva il Teatrino scientifico del 1979 e proprio la sua funzione mi spingeva a chiamarlo scientifico. Come chiamo scientifico il ripercorrere questi progetti; senza sperare che dalla loro analisi provenga qualche indicazione di salvezza per me, per il mestiere, ma solo per il progresso che vi è in tutte le analisi. Così dispongo ora meglio nel paesaggio reale e fantastico la piccola casa; e la connotazione «le cabine dell'Elba» o «il Teatrino scientifico» ha in sé quel tanto di privato, di autobiografico, che permette di proseguire ciò che anche qui rimarrebbe fermo in un desiderio del passato che si consuma su se stesso. Così posso guardare come tutti «le mie cabine» che non sono ferme a una sola estate e diventano questo insieme di casa, di spogliatoio, di piccolo cimitero, di armadio, di teatro.
Ma risalito il percorso sono ancora e semplicemente questi magnifici paesaggi mobili che si dispongono lungo l’Adriatico ad ogni stagione: così come quando li osservavo nel mio periodo di insegnamento a Pescara verso il 1966. Li vedevamo sorgere con il sorgere dell’estate e decadere con es-
sa: un tempo più lungo della drammatica città della Feria di Siviglia, un tempo di vacanze, di incontri, di amori, forse anche di noia che si ripeteva ogni anno. E quando le grandi
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| spiagge erano vuote l’inverno erano ancora il terreno mobile di una città provvisoria che il lungomare separava dall’al| tra città. Ma la prima restava sempre la città degli incontri, come il molo, come tutto ciò che sta tra terra e acqua, come
tra la terra e il cielo. Perché tra la terra e il cielo, il bosco e il cielo sta uno di questi miei progetti più cari, la casa a Borgo Ticino i cui
primi disegni sono del 1973. Il primo più chiaro disegno era solo un bosco con case su palafitte; ed era intitolato Su/la strada di Varallo Pombia con una data. Quasi non vi era an-
cora filtrata la tecnica del disegno o di qualche rappresentazione; come di chi annoti un giorno, un luogo, una strada. Ma se si è persa la falsità dei fatti, l’inconsistenza degli incontri, l'appunto stesso, è rimasta nel progetto successivo la piccola casa sospesa. Dove le terrazze sono i moli che ripetono quelli del Ticino e quelli di ogni fiume; e questi piers di Manhattan e più su lungo lo Hudson. Tutti elementi di un trattato d’architettura. Dimenticare l’architettura o qualsiasi proposizione era l’obiettivo di una scelta immobile della tipologia delle costruzioni pittoriche e grafiche dove la grafia si confondeva con la scrittura, quasi una forma più elevata di grafomania dove il segno è indifferente a disegno o scrittura. Vedevo recentemente una lettera che mi ha inviato Paul Hofer e mi ha commosso la scrittura verticale rigida e apparentemente chiara come nei messali gotici che diventava essa stessa disegno come quella del suo concittadino Paul Klee. La grafia di Paul Hofer mi ricordava le sue magnifiche lezioni al Politecnico di Zurigo dove il suo perfetto tedesco che seguivo con difficoltà veniva spesso unito al francese secondo il costume della borghesia bernese. La lettera era accompagnata da un bellissimo disegno del mio edificio al quartiere Gallaratese che egli aveva fatto durante una visita a Milano con i suoi studenti. Ma la lettera e il disegno si sovrapponevano
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ad immagini di città: Zurigo, Berna, Friburgo, Colmar. Era-
no queste ultime città le mie preferite negli anni che insegnavo a Zurigo e può darsi che tutto quanto sto scrivendo risalga ad un piccolo quaderno che avevo intitolato «Quaderno di Colmar». Ora questa Colmar è un mio o nostro progetto come il progetto per Solothurn che dovevo fare con Paul Hofer, Heinrich e Margarethe. Questo progetto, che non è mai stato fatto, è penetrato nei miei disegni come una sor-
gente segreta. Le torri di Solothurn si sovrapponevano via via a quelle del Filarete mentre la rigida bandierina metallica cigola in ogni disegno. Erano cieli bianchi e freddi. Cigolare è la traduzione del tedesco klirren che mi ha sempre colpito nella poesia di Hélderlin Hd/fte des Lebens. Anche questo titolo mi sembrava una condizione di sospensione. Le bandierine di ferro che Hélderlin non ha mai disegnato hanno poi invaso i miei disegni e alle domande più insistenti non so come spiegarle. Traducevo l’ultimo passo «Im Winde klirren die Fahnen/die Mauern stehen sprachlos und kalt» nella mia architettura. Avevo chiuso una mia lezione a Zurigo con questa citazione che applicavo ai miei
progetti: «Meine Architektur steht sprachlos und kalt». Questo sprachlos è meglio che muto; anzi pensavo ad una
mancanza di parola e non al mutismo. La difficoltà della parola spesso produce una inesauribile continuità verbale come Amleto o Mercuzio. «You are speaking of nothing» è un modo di parlare di niente e di tutto, qualcosa simile alla grafomania. Questo lo ritrovo in molti disegni, in un tipo di disegno dove la linea non è più linea ma scrittura. Questa grafia sta quindi a metà tra il disegno e la scrittura; per un periodo ne sono stato affascinato anche se nel contempo mi dava un particolare disagio. Sono dei disegni scritti, mi affascinavano Giacometti e i manieristi del ’500. Così le affermazioni di Adolf Loos, con il loro carattere biblico, mi appassionavano per non poter essere ulteriormente svolte, una logica astorica dell’architettura:
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«Quando nella foresta troviamo un tumulo lungo sei piedi e largo tre, foggiato a piramide con la pala, diventiamo seri e qualcosa dice in noi: qui è sepolto qualcuno. Quella è l’architettura». Adolf Loos aveva fatto questa grande scoperta in architettura: identificarsi con la cosa attraverso l’osservazione e la descrizione. Senza cambiamenti, cedimenti o infine senza passione creativa o con un sentimento raggelato dal tempo. E difficile e spesso dilettantesco parlare delle proprie emozioni dirette, anche se ammetto che vi è una squallida bellezza nei discorsi da osteria: forse solo Shakespeare ha sapu-
to riprodurre la tensione di questa differenza. La descrizione raggelata tornava ai grandi trattatisti, alle categorie dell’ Alberti, alle lettere di Dùrer e scomparivano la pratica, il mestiere, la tecnica già perseguita, perché come dall’inizio non aveva importanza trasmettere o tradurre. In cosa?
Come nel vecchio oratorio trascritto da Patrick le quattro figure si alternavano: il Tempo, la Bellezza, il Disinganno, il Piacere. La soluzione era prefissata ma non per questo meno interessante. Ovviamente vinceva il Tempo ma le parti degli altri personaggi erano appassionanti perché semplici funzioni del Tempo. Detestavo il disinganno e amavo il piacere per la sua discrezione: era da sempre la figura retorica costretta a ritirarsi ma il piacere era anche il meglio del quotidiano, prometteva piccole gioie. Era la riduzione possibile della vita e del teatro.
In architettura ogni finestra era la finestra e dell’artista e di un uomo qualsiasi, la finestra delle lettere infantili «Dimmi cosa vedi dalla tua finestra ecc.». In realtà rimaneva solo un’apertura eguale, in ogni caso, fosse quella che si apriva sul natio borgo selvaggio o qualsiasi apertura da cui sporgersi. La bara e la finestra rappresentano storie incredibili ma
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dal punto di vista costruttivo si assomigliano. E il tumulo o il palazzo e tutto prevedeva un evento che già era successo, da qualche parte qui o altrove. Forse nel racconto il segno può mutarsi, ma i segni tangibili con cui si trasmette sono ciò che possiamo ancora chiamare storia o progetto. Oltre l’identificazione con la storia è questa la constatazione o scoperta di Adolf Loos di fronte al tumulo. Vedo in questi giorni del 1979 il primo braccio
del cimitero di Modena riempirsi di morti, e questi morti con le loro foto bianche e giallastre, i nomi, i fiori di plastica offerti dalla pietà familiare e civile danno l’unico significato del cimitero. Oppure dopo molte polemiche esso torna ad essere la grande casa dei morti dove l’architettura è uno sfondo appena percettibile per lo specialista. L'architettura per essere grande deve venire dimenticata o porre solo un'immagine di riferimento che si confonde con i ricordi. Così era ogni teatro fermo alla descrizione di Raymond Roussel che aveva spezzato ogni immagine riferendosi ad un teatro che c’era da sempre, che sorgeva in un luogo come dovunque ma dove il distintivo maggiore era la scrittura TEATRO. La scrittura era l'emblema e il suggello finale e co-
me ogni teatro si calava nella situazione. Come i disegni dei bambini dove la scrittura TEATRO, MUNICIPIO, CASA, SCUOLA è la definizione e il rimando all’edificio autentico che non può essere disegnato. Essa rimanda all'esperienza di ognuno. L'architettura deve caratterizzarsi poco, quel tanto che serva alla fantasia o all’azione: persino gli squallidi funzionalisti avevano capito parte di questo. Erano le stanze, alberghi, pensioni, la stazione del paese con la valigia un poco volgare che qualcuno teneva in mano e il treno che ritardava oltre ogni possibilità di dialogo o an-
che la noia che cresceva sotto la passione o la sfiducia e qualcuno diceva Sigfrido come in una commedia tra Francia
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e Germania. Ma era forse il più misterioso dei confini quello dell’inizio e i lunghi capannoni del lago non ricordavano l'architettura o questo che chiamano ambiente, dimenticava il progetto e dimenticando il progetto non poteva essere poi raccontato chiaramente. Così dimenticare il progetto che i trattatisti cercavano di inseguire nelle immagini più che nella norma o i grandi positivisti alla Viollet-le-Duc inseguivano nella storia, nella classificazione di ogni parte percorrendo la demenziale ricerca della funzione perfetta. Eppure quando scrivevo L'architettura della città proprio a proposito di Viollet-le-Duc provavo una profonda ammirazione, era come una partita, una sfida con la storia, una totale fiducia nel segno, un segno privo di dramma e di dolore non dissimile dai castelli di Ludwig. L’architettura moderna ha trattato tutte queste cose in un modo demenziale, cercando non so e a chi quale purezza: ma era questa la nostra tradizione. In realtà tutto era caduto così in basso da non poterlo recuperare. Non faccio il critico ma credo che dopo la casa di Schinkel a Charlottenburg si sia trattato solo di furbizie formali legate all’industria; se restano grandi architetti, sono soltanto quelli legati al popolo o alla nazione, Gaudî o Antonelli e molti ingegneri di cui non conosciamo il nome. Ho avvertito fino dai primi anni del Politecnico tutto questo. Amavo certamente il libro di Sigfried Giedion perché era un libro di parte basato soprattutto sull’entusiasmo per Le Corbusier al cui riguardo ho sempre sospeso il mio giudizio. Intorno agli anni cinquanta un giovane intelligente non poteva che entusiasmarsi per i grandi libri dell’architettura dell'Ottocento. Non voglio entrare qui in questa discussione che mi porterebbe troppo lontano ma è significativo che i giovani migliori si occupavano di politica, di cinema, di letteratura. Tutto calcolato il libro di Argan su Gropius era un bel romanzo ma non si occupava dei fatti. Il
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mio libro preferito era certamente quello di Adolf Loos la cui lettura e il cui studio devo a quello che posso anche chiamare il mio maestro, Ernesto N. Rogers; negli anni in-
torno al 1959 ho letto per la prima volta Adolf Loos nella bella edizione originale della Brenner Verlag che mi aveva dato Ernesto N. Rogers. Forse solo questo architetto apriva un nesso ai più grandi problemi; la tradizione austriaca e tedesca di Fischer von Erlach e di Schinkel, la cultura locale,
l’artigianato, la storia e soprattutto il teatro e la poesia. Devo senz'altro a questo studio il profondo disprezzo che ho sempre provato per il disegno industriale e per la confusione tra la funzione e la forma. Con lui scoprivo Kraus, Schénberg, Wittgenstein e soprattutto Trakl; ma anche la grande architettura romana e classica e un'America che avrei capito più tardi. Leggevo tutto questo in modo forse ingenuo ma ero forse l’unico a leggerlo: questo mi ha guadagnato per anni, se così si può dire, la fama di germanista o il fatto che la critica riportasse ogni mio lavoro al mondo mitteleuropeo. In realtà, come ben sa ogni mio studente o amico di Zurigo o tedesco, la mia conoscenza della lingua tedesca è sempre stata a dir poco insufficiente. È certo, come credo di aver già scritto in queste pagine, che una bella discussione con il mio amico Heinrich Helfenstein sulla traduzione di Hélderlin ha giovato più alla mia architettura dei brutti libri e delle brutte lezioni dei miei professori del Politecnico milanese. Prima di liquidare questo argomento, alcuni testi che sono stati per me fondamentali, di carattere per così dire architettonico, devo parlare della traduzione di Etienne Louis Boullée e dell’introduzione a questo scritto. Mi è stato detto, e lo considero un complimento, che questa traduzione è
pochissimo fedele o che, almeno, è un’invenzione. Ammetto che essa è certamente un’opera condivisa anche perché il francese di Boullée non è certamente di facile traduzione e inoltre io ho trovato in lui una rispondenza che forse non
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mi è più capitata. È un’opera del 1967 e quando l’ho iniziata avevo circa 35 anni, non può quindi considerarsi un’opera giovanile. Credo di averla scritta a Santa Margherita Ligure in una casa sul mare aiutato da Sonja e con il mio piccolo figlio: certe volte penso come opere di questo tipo si accompagnino a stagioni particolari della vita e come potevo, in questa situazione, identificarmi con un vecchio acca-
demico francese, ma ero colpito dalla frase in cui Baudelaire afferma che esistono delle «correspondances». In questo saggio parlo di razionalismo convenzionale e di razionalismo esaltato; ma non mi accorgevo forse che la vita stessa era il razionalismo esaltato? Boullée pensa a una libreria e la libreria sono i volumi, è il peso, non solo statico,
che la determina; essa si esaurisce in questo spazio che Boullée come visionario percorre nella Scuola d’Atene, perché quello spazio è lo spazio di questi uomini attraverso i quali egli cammina. E cosa potrebbe cambiare? Cosa potrebbe cambiare alla sua più grande scoperta, la luce e l’ombra? Boullée afferma testualmente di avere scoperto l’architettura delle ombre quindi di avere scoperto l'architettura della luce e a me mostrava chiaramente che luce e ombra non sono che gli altri aspetti del tempo cronologico, la fusione di tempo, atmosferico e cronologico, che mostrano l’architettura e la consumano e ne danno un’immagine breve eppure così lunga. Si rendeva conto il maestro francese di tutto questo? O egli stesso figlio dell’illuminismo ne poneva i contorni; teoria delle ombre, percorsi, resistenza, un altro modo di com-
prendere la natura che risaliva alla paleontologia, alla classificazione e, perché no, alla mortificazione? La mortificazione demenziale era quella della funzione perfetta, dei musei di storia naturale che percorrevamo da bambini: ma con quale risultato se non forse solo la noia? Ho già parlato della deposizione, la deposizione come maniera pittorica, ma non è forse questo uno studio più
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comprensivo di quegli aspetti che non si possono fissare, che sfuggono alla statica e che brillano nell’occhio di una fantesca nella fatica di chi sorregge il corpo? Ma vi era in questa classificazione una via di salvezza; il catalogo recuperava dell'immagine una storia segreta, imprevista, la stessa artificiosità diventava fantasia. Se tutto era fermato per sempre vi era qualcosa da vedere; i piccoli sfondi delle foto giallastre, l’imprevisto di un interno, la stessa polvere dell’immagine dove si ritrovava il valore del tempo. In qualche modo cominciavo ad amare questa demenza, essa allineava le forme dell’energia esistente, le teneva pronte per chissà quali sconvolgimenti. Per questo nella mia formazione architettonica sono sempre stato affascinato dai musei: l’ho capito lucidamente più tardi e cioè quando ho visto chiaramente che ai musei mi annoiavo.
Molti musei contemporanei sono delle truffe; spesse volte essi tentano di distrarre il visitatore, di rendere l’insieme
grazioso, come si dice: «uno spettacolo». Un concetto analogo è quello scenografico; una buona commedia non ha bisogno di scenografie o di invenzioni teatrali, queste appartengono ad un altro tipo di spettacolo che indubbiamente possiede una sua serietà: ma non riguarda il teatro come non ri-
guarda l’architettura. Il teatro è molto simile all’architettura perché riguarda una vicenda; il suo inizio, il suo svolgimento e la sua conclusione. Senza vicenda non vi è teatro e non vi è architettura; mi riferisco per esempio alla catasta di legna su cui viene bruciato il principe Amleto, o alla solitudine di zio Vania, o a due persone qualsiasi che si parlano in una casa qualsiasi, con odio e amore, e certamente al tumulo. E questo una forma di funzionalismo, o di necessità? Certamente non credo; se la vicenda è buona anche la scena
è buona, o dovrebbe esserlo. E credo che in questo senso la vita sia abbastanza buona; è il mio realismo, anche se non
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so che tipo di realismo sia ma comunque è importante avere qualcosa da dire. Il mio rapporto con il realismo è stato abbastanza singolare. Se penso che il progetto per il monumento della Resistenza a Cuneo, all’incirca del 1960, è stato considerato
un’opera purista, e in qualche modo lo è, mi sembra strano. In ogni modo esso è stato bocciato proprio per il suo purismo, giudicato inattuale negli anni sessanta. Con questa osservazione e a proposito di un mio progetto
di concorso non voglio accennare in questa autobiografia dei miei lavori ai miei insuccessi; anzi voglio proprio solo accennarne e non parlarne. I miei progetti di concorso più belli sono sempre stati regolarmente bocciati: mi sarebbe facile parlare di mancati appoggi di partito o di amicizia, ma sarebbe falso. Nonostante il malcostume italiano i miei progetti sono sempre stati eliminati per la loro incomprensibilità, o se volete per la loro bruttezza. Mi riferisco ai progetti che analizzerò più avanti a partire da Cuneo, il progetto per il Teatro Paganini di Parma, il progetto per il quartiere San Rocco a Monza, il concorso per il palazzo comunale di Scandicci, il concorso per il palazzo comunale di Muggiò, il concorso per il palazzo della Regione a Trieste e infine, per brevità, quello della casa dello studente a Chieti del 1976. È ridicolo che questi stessi lavori costituiscano poi i modelli realizzati nella scuola e nella pratica; forse non è ridicolo perché un progetto come quello della casa a Borgo Ticino e altri non potevano che essere falsi agli occhi dei loro proprietari, pubblici o privati. Nel 1960, giovane o quasi, avevo scritto applicandola al lavoro dell’uomo e anche all'architettura una frase di Nietzsche «Dove sono coloro per cui essi lavorano?». Così sono fiero di non avere spesso costruito per gente
che non sa dove sia, o chi sia.
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Che questa delusione sia solo civile credo sia falso. Cerco di usare poche citazioni letterarie, ma a volte esse sono necessarie. Quando ricordavo la citazione nell’Osteria della
Maddalena la riportavo certamente a un problema di ingegneria, di statica, o di pomeriggio di mezza estate, o a tutto quello che volete per esprimere una situazione, ma anche la riportavo a Lord Jim, che Conrad dice essere uno dei nostri «...perché era caduto da un’altezza che mai più avrebbe potuto scalare». Ora credo che per un ingegnere il senso di quest’altezza non era altrimenti esprimibile. La sua non
rappresentabilità la riporto allo strapiombo descritto nell’Osteria della Maddalena. Non esistono più l’Osteria della Maddalena o l’albergo Sirena ma non è forse questa la nostra educazione architettonica? Intonaci verdi e strapiombi ci offrono l’unica misura possibile oltre al metro per stabilire un’ progetto. Ma quale era il metro, o era il metro colore verde Sirena acido, forse inconciliabile con questo rosa Rosanna o Rossana che fosse con la luce aspra del lago dove l’architettura abbandonata la forma e la funzione e la socialità cara ai borghesi era solo questa camera dove vinceva il verde come nella Deposizione di Colmar tanto delicato era questo rosa che spariva in un bianco anemico. Ma l’architettura, superata la funzione e la storia e il sogno e il sentimento, e la carne e la stanchezza, aveva raggiunto una luce rosa verde, ma una luce filtrata da tante cose da tornare al bianco, o il lago, o la lontananza del lago. Questa lontananza era all’incirca come dimenticare l’ar-
chitettura, ma dove il dimenticare acquista per me un senso quasi progressivo; è come avere esplorato a lungo in una direzione tanto da avere dimenticato le premesse, avere usato uno strumento qualsiasi che potesse dirci qualcosa di più sul mondo e se anche alla fine il senso di quello che volevamo sapere non è svelato rimane come il piacere della fatica.
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Abbiamo tentato di rappresentare lo strapiombo di una camera leggendaria, e questo è molto anche se non ci siamo riusciti.
Queste altezze e luoghi non misurabili non appartengono solo a un mondo onirico o etico; il problema della misura è uno dei problemi fondamentali dell’architettura. Ho sempre associato alla misura lineare un senso più complesso, in particolare allo strumento del metro, il metro di legno ripiegato dei muratori. Senza questo metro non vi è architettura, esso è uno strumento e un apparecchio; il più preciso apparecchio all’architettura. Questo senso della misura e delle distanze mi ha fatto amare particolarmente l’esame di topografia del professor Golinelli al Politecnico milanese. Si passavano intere mattine con gli strumenti a misurare
piazza Leonardo da Vinci, forse la più brutta piazza del mondo ma certamente la più misurata da generazioni di architetti e ingegneri milanesi. Ora accadeva che, avvenendo le misurazioni di primavera e con una certa svogliatezza e pet mille motivi che non risultavano nelle probabilità di inesattezza, spesso le triangolazioni non si chiudevano. La
forma finale della piazza era una forma assolutamente originale; ed io trovavo in quella incapacità di chiudere queste
triangolazioni non solo e certamente la nostra incapacità e indolenza ma anche qualcosa di mitico come una dimensione in più dello spazio. Forse da queste esperienze nascono i primi progetti del ponte della Triennale e del monumento di Segrate. Il triangolo chiuso era un’affermazione volontaristica di una geometria più complessa che d’altra parte riuscendo inesprimibile poteva esprimere solo i dati più elementari. L’unione di tecniche diverse fino a una sorta di realizzazione-confusione mi ha sempre colpito; si tratta del limite tra ordine e disordine e anche questo del limite, il muro, è un fatto matematico e murario. Anche il limite o
muro tra città e non città fissava due ordini diversi. Il mu-
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ro può essere il segno grafico, la differenza tra la grafia e lo scritto, o le due cose insieme hanno un loro contenuto. For-
se l'esempio migliore è il disegno del Monte Carmelo di Juan de la Cruz; credo d’averlo ridisegnato più volte per cercare di capirlo. Realtà e descrizione è un binomio complesso; spesso vi è un'ossessione che si sovrappone a ogni altro interesse. Queste ossessioni non sempre si realizzano nell’opera anzi forse mai, ma sono tra le intuizioni più importanti, la cifra segreta di altri progetti. Negli ultimi anni che lavoravo a Zurigo con il professor Hofer ero completamente occupato dal castrum lunatum, una forma di castrum che il professor Hofer aveva rinvenuto nelle città romane della Svizzera interna;
tra queste Solothurn. Lo studio del castrum lunatum doveva essere il fondamento per un progetto sul centro storico della città che, partendo dalla tipologia romana, ne interpretasse lo sviluppo urbano. Era un progetto grandioso dove si univa la passione per l'archeologia e la conformazione della città con un apporto progettuale di tipo nuovo. Questa unione non si è mai data completamente anche se gli sforzi compiuti dai nostri gruppi furono notevoli. Io ero incantato da Solothurn, dalle torri, dal fiume, dai pon-
ti, dai vecchi edifici di pietra grigia. Seguivamo la forma lunata nelle fondamenta delle case, umide e gelide nel freddo centro-europeo, era la forma della luna che compariva sopra Solothurn nelle notti fredde; vedo questo rapporto centro-europeo simile ai ricordi di Colmar e di Friburgo. Ma questo castrum lunatum diventava sempre più inesprimibile al progetto o a qualche espressione; forse era opera
di qualche generale romano che aveva previsto i modi perché non fosse più percorso. Solothurn, come Nevers, come
Colmar, come Trieste era legata al punto limite dell’architettura.
Anni dopo, nel paesaggio del New England, avrei trovato
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una difficoltà più lontana ma più familiare; tanto che i progetti crescevano quasi nell’imitazione.
Ho sempre affermato che i luoghi sono più forti delle persone, la scena fissa è più forte della vicenda. Questa è la base teorica non della mia architettura ma dell’architettura;
in sostanza è una possibilità di vivere. Paragonavo tutto questo al teatro e le persone sono come gli attori quando sono accese le luci del teatro, vi coinvolgono in una vicenda a cui potreste essere estranei e in cui alla fine sarete sempre estranei. Le luci della ribalta, la musica non sono diverse da
un temporale d’estate, da una conversazione, da un volto. Ma spesso il teatro è spento e le città, come grandi teatri, vuote. E anche commovente che ognuno viva una sua pic-
cola parte; alla fine l'attore mediocre o l’attrice sublime non potranno cambiare il corso degli eventi. Nei miei progetti ho sempre pensato a queste cose e proprio costruttivamente alla contrapposizione tra ciò che è labile e ciò che è forte. Intendo questo anche in senso statico,
di resistenza del materiale. È certo che se molte volte ho parlato di descrizione dell’architettura in realtà ho sempre rimandato la descrizione al progetto. Da parecchi anni mi è più facile disegnare o meglio usare quella sorta di grafia tra il disegno e la scrittura, quella grafia di cui parlavo prima. Qui ho cercato più volte di descrivere un progetto, una casa urbana, una stazione eccetera ma sempre arrestandomi ad una dimensione non chiara, intendo ad una dimensione
non costruibile. Ho quindi pensato di porre alla fine di queste note la de-
scrizione di alcuni dei miei progetti. «Alcuni dei miei progetti» è infatti il titolo preferito delle mie conferenze a iniziare da quelle del Politecnico di Zurigo, tradotte da Heinrich Helfenstein. Qui ho pensato di scegliere questi «alcuni» in un senso
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molto stretto, nel senso di «progetti d’affezione». Per questo pensavo di iniziare l'elenco con «Progetto di villa con interno». La natura di questo progetto era legata alla sua storia e a fotografie di cose esistenti cui l’architetto si riferiva. Ho fatto questo progetto nell'autunno del ‘78, credo fosse uno dei miei migliori, sempre l’ultimo progetto, o l’ultima azione, mi sembra il migliore. I disegni e le fotografie sono forse insignificanti, eppure esso rappresentava la volontà di non disegnare più l'architettura ma di riprenderla dalle cose e dalla memoria. In realtà questo progetto, come queste note, parla del dissolversi della disciplina; esso non è molto diverso dalle osservazioni che facevo all’inizio di questo scritto, parlando di un giorno che osservavo un antico ponte sul fiume Mincio. | Quanto questo sia vero non lo so. Appartiene forse anche a questa coscienza che le grandi cose erano precluse e che la limitazione del mestiere è una forma di difesa. Altrimenti dovremmo trascenderlo, che non significa abbandonarlo — ma in epoca moderna questo è avvenuto raramente, forse in architettura con persone quali Gaudî. Il Parque Guell di Barcellona produce sempre in me questa sensazione di rompere le leggi della statica e del buon senso e di creare quel bosco di colonne di cui parla Hélderlin. Un bosco di colonne avrebbe potuto averlo anche Boullée, ma forse non con la stessa ostinazione.
Nei miei ultimi scritti cercavo di spiegare tutto questo con la teoria dell’abbandono. E solo questa estate ho visto per la prima volta dal vero l'abbazia di San Galgano in Toscana ed è forse l'esempio
più probante di una architettura tornata natura, dove l’abbandono è l’inizio del progettare, dove l’abbandono si identifica con la speranza.
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Una autobiografia scientifica dovrebbe forse parlare di più della mia formazione passata e recente nell’architettura, ma credo che queste note da Santiago de Compostela, al ponte sul Mincio, a San Galgano esprimano bene quella che è stata la mia partecipazione all’architettura in modo attivo e teorico. Spesso essa si identifica nell’oggetto e nella geografia, in un oggetto domestico o in una foto del Partenone o della Moschea di Bursa. Viaggi domestici e privati, pubblici o scientifici, nel senso che oggi io trovo che tutto il passato e il presente e ogni disegno valgano l'affermazione o osservazione più distratta. Mi è difficile paragonarmi con i miei contemporanei perché sempre più avverto la differenza del luogo e del tempo. È stata questa la mia prima intuizione della città analoga che si è sviluppata come teoria. Credo che il luogo e il tempo siano la prima condizione dell’architettura e quindi la più difficile. Mi sono occupato della scrittura razionalista ma penso che forse quel tipo, o possiamo chiamarlo stile d’architettura, o è legato a un edificio infantile, ad una villa di Varese o a un blocco residenziale a Belo Horizonte. Uno strano ricordo o esperienza del
razionalismo ma anche sempre la coscienza che la realtà poteva essere colta da una parte sola; e cioè che la razionalità o un minimo di lucidità permetteva di analizzare certamente l’aspetto più affascinante: l’irrazionale e il non esprimibile. Ma per una forza di igiene, di educazione o naturale, ho sempre diffidato di coloro che facevano dell’irrazionalità la propria bandiera: mi sembravano spesso i più sprovveduti e soprattutto quelli che non potevano cogliere proprio l’irrazionale. «Passeggiando una sera in un bosco mi capitò di cogliere l’ombra delle piante...»: questo passaggio di Boullée mi permetteva di capire la complessità dell’irrazionale in architettura. Dall'altra parte mi sembrava stessero i sarti, gli arredatori, i fotografi di moda, una fauna variopinta che
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nulla aveva a che spartire con l’irrazionale e con il fantastico. Così il blocco residenziale di Belo Horizonte pieno di vita, di caldo, di calda vita, ripeteva lo stesso ritmo delle
cattedrali barocche, cioè permetteva che le cose succedessero e questo era un aspetto dell’architettura; non la bellezza, non la cattedrale di Bursa dove mi perdevo ma la continuazione dell’insula, lo spazio della gente. Forse all’ingegnere è riservato questo scopo, in realtà molto modesto ma che difficilmente può rompere. Così disegnavo i fari del Massachusetts e del Maine come oggetti della mia storia, ed era la mia storia non letteraria o sentimentale cresciuta su questo paesaggio con il passo di Achab ma era
ancora la fissità del luogo, il rimando all’acqua e alla torre. L’analogia è tanto più sterminata quanto più è immobile e in questo duplice aspetto vi è una smisurata follia. Credo di avere elencato le poche opere costruite che mi coinvolgono come il Tempio Malatestiano di Rimini o il Sant'Andrea di Mantova perché vi è in queste opere qualcosa che non può modificarsi e che insieme riassume il tempo. Il segno delle persone, delle cose senza significato e che affermano effetti ma no interni zione vi è delle cose
di non cambiare; questa mutazione avviene in è sempre terribilmente inutile. I cambiamenti soallo stesso destino delle cose poiché nell’evoluuna singolare fissità. Sono forse questi i materiali e dei corpi e quindi dell’architettura. L’unica su-
periorità della cosa costruita e del paesaggio è questo permanere oltre le persone. È certo che ho sempre voluto descrivere i miei progetti; non so se la descrizione avviene meglio dopo o prima del fatto. È come nella testimonianza, un delitto o un amore. Un progetto è una vocazione o un amore, nei due casi è una costruzione; potete arrestarvi di fronte alla vocazione o amore ma rimane sempre questa cosa irrisolta; io lo provo ai
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giardini pubblici di Ferrara o a quelli di Siviglia dove penso che qualsiasi soluzione sarebbe valida e in realtà riesco a | esprimere solo palme, soprattutto a Siviglia, o un mondo padano tra il vissuto e l’immagine e pomeriggi perduti come a Ferrara.
Questa autobiografia dei miei progetti è l’unico modo in cui posso parlare dei miei progetti, anche se nessuna delle due cose conta. Significa forse dimenticare l'architettura e forse l’avevo già dimenticata quando ho parlato della città analoga o quando e ogni volta che ho ripetuto in questo scritto che ogni esperienza mi sembrava definitiva e mi era difficile concludere un prima e un dopo. Anche se ho sempre affermato che ogni cosa è uno svolgimento, o il contrario, e in effetti se vedo sorgere dall’acqua
in questi giorni dalla laguna veneziana questo teatro posto su una zattera rivedo il cubo di Modena o di Cuneo. Ma era questa fissità iniziale una condizione di sviluppo? La coazione a ripetere è anche una mancanza di speranza e
mi sembra ora che fare la stessa cosa perché risulti diversa è un esercizio difficile quanto guardare e ripetere le cose. È certo che nelle vicende di un artista o di un tecnico le cose cambiano come cambiamo noi stessi. Ma cosa significa questo cambiamento? Ho sempre considerato il cambiamento la caratteristica dei cretini, al di fuori della moda. Un modo di non consistenza: come di chi si definisce moderno o contemporaneo. Amavo la scienza, la ripetizione e come tutto questo finisse nell’esclusione: così come amavo la stupidità, l'intelligenza dell’osteria, il niente di una notte allegra alla meditazione stolta; era ancora l’azzurro Sirena o verde di un viaggiatore di commercio o di un ragazzo di fronte all’altra stupidità del restauro. Così mi comporto anche ora. È certo più difficile stabilire o conoscere i confini più au-
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tentici di queste cose che ho chiamato stupidità e intelligenza: anche esse sono proiezioni come la bellezza e tutto il resto. Se uscite da una normativa e da una costruzione delle cose è certamente difficile procedere, per questo per molti anni mi sono attenuto alla disciplina, ai trattati, alle regole
e non per conformismo o bisogno d’ordine, anzi se dovessi fare un quadro psicologico trovo che tutto questo è più forte adesso, ma perché vedevo i limiti spesso solo stupidi di chi usciva da quest'ordine. Se in una giornata di nebbia, quando la nebbia entra nel Sant'Andrea di Mantova, entrate nel tempio, vi rendete conto che nessuno spazio si è tanto avvicinato alla campa-
gna, proprio della bassa padana, quanto questo spazio misurato. È questo un tema che mi ha sempre appassionato anche se ora mi sembra di trovare altri gradi di libertà: una libertà che però mi stacca completamente da quella dei miei contemporanei perché la massima libertà mi porta a continuare ad amare l’ordine, o un disordine discreto e sempre motivato. Era la costruzione interrotta, il palazzo abbandonato, il villaggio lasciato sui monti, e il materiale che si deformava nel tempo; il non senso originario ma anche acquistato dalla Favorita di Mantova insieme a piccoli artifici, restauri, sistemazioni delle costruzioni; tutto questo si avvicinava ad un possibile del modo di essere come i fiori di plastica che conservano la rosa e offrono una bellezza diversa da chi stupidamente afferma che è nata una nuova bellezza. Nel progetto per il centro direzionale di Firenze ponevo nelle piazze statue rifatte, come il Davide di alabastro, destinati al turismo; pensando sempre che la copia non si stacca dall’o-
riginale, che nei quadri plastici di Venezia, con la lampadina incorporata, disposti in cucine povere ma discrete, tra i
ritratti di famiglia, questo Davide e questa Venezia ripetono il mistero del teatro di cui ci importa relativamente l’e-
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secuzione. Detestiamo i registi che stravolgono il testo e ignorano i tempi; questa è una delle regole fondamentali dell’architettura e del teatro, il rito e quindi il momento in cui si compiono le azioni. Così sono i luoghi della città. Pensavo a tutto questo durante questo autunno veneziano nel costruire e vivere il Teatro del mondo, questa singolare costruzione che mi rendeva lieto e dove ritrovavo fili antichi dell’esperienza e recenti della mia storia. Sorgeva anche forse dall’acqua il cubo di Modena o quello di Cuneo ma la fissità era diventata una condizione di sviluppo. La coazione a ripetere può essere una mancanza
di speranza ma mi sembra ora che continuare a rifare la stessa cosa perché risulti diversa è più che un esercizio, è l’unica libertà di trovare. Così devo forse ora vedere in successione i miei progetti nella luce del non finito e dell’abbandono o seguendo l’imprevisto di un altro avvenimento? Mi sembra che l'avvenimento sia la novità della cosa e per questo parlavo di un concorso, di un luogo o di un momento. A proposito del progetto di villa sul Ticino ho parlato di una condizione di felicità: è forse questa una tecnica? Certamente non è trasmissibile se non per qualche carattere o avvenimento privato; ma d’altra parte l'avvenimento si trasmette nell’opera. Forse solo la peggiore accademia è indifferente agli avvenimenti della vita: solo che alcuni li sanno esprimere, altri no. Quello che più mi sorprende in architettura, come in altre tecniche, è la vita del progetto: in questo caso della costruzione, anche se esiste una vita del progetto scritto o disegnato.
Qui dovrei parlare delle mie opere costruite che sono forse poche ma costituiscono il punto forse centrale della loro biografia o autobiografia se le identifico con una parte di me stesso. Non vi è foto di Fagnano Olona che io ami quanto quella
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dei bambini fermi sulla scala sotto il grande orologio, qui il tempo si dispone in un modo particolare ed è comunque il tempo dell’infanzia, della foto di gruppo con quanto di scherzoso la foto di gruppo comporta. L’edificio è diventato puro teatro, ma teatro della vita anche se già previsto. Perché nell’edificio tutto è previsto ed è questa previsione che permette la libertà; è come un appuntamento, un viaggio d’amore, una vacanza e tutto ciò che è previsto per-
ché possa accadere. Pur amando l’incerto ho sempre pensato che solo persone meschine e con poca fantasia siano contrarie ad una discreta organizzazione. Perché solo questa organizzazione permette i contrattempi, le variazioni, le gioie e le delusioni: resta comunque che io prevedevo questo teatro-scuola nei fatti quotidiani e i bambini che giocavano erano la casa della vita contrapposta all’altro grande progetto della casa della morte, il cimitero di Modena. Ma anche quest’ultimo ha una sua vita e corre nel tempo; ancora lungi dall’essere compiuto è imprevisto nelle foto ingiallite, nei fiori di cera, nella devozione dei vivi, nelle luci im-
previste del freddo e del caldo delle stagioni. Tra la casa dell’infanzia e della morte, la casa dello spettacolo e del lavoro sta la casa della vita quotidiana che gli architetti hanno chiamato con tanti nomi; la residenza, l’a-
bitare, il vivere eccetera come se il vivere si svolgesse in un solo luogo. Per la mia vita o mestiere ho perso in parte il concetto di un luogo fisso e a volte sovrappongo situazioni e ore diverse ma proprio questo mi ha portato a riconsiderare una patria o il concetto di patria; e questo mi sembra molto importan-
te per capire l'architettura. E certo che la patria può essere anche solo una strada o una finestra; e non è detto che la patria possa essere rico-
struita e nemmeno che essa sia in contraddizione con il Weltbùrger dichiarato da Goethe.
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Mi è difficile esprimere questo concetto che mi ha portato all’idea di «progetto di villa con interno». Certo amo più di tutto i piccoli restauri di questa casa sul lago dove l'architettura, o l’insieme delle cose che costruiscono una casa, si fonde alla vita per necessità, per motivi funzionali, per un imponderabile elemento che sovrappone le figure attorno al tavolo come un continuo presente. Il grande tavolo di granito, la mia ultima costruzione, è ancora il bel pezzo di pietra che il mio amico ha tolto dalla cava. Anche la casa con tutte queste sue cose o strumenti o mobili o apparecchi è un apparecchio per definizione e necessariamente — forse solo per il suo essere nel tempo — è
indifferentemente apparecchio alla morte o alla vita. Ora mi sembra di capire meglio i progetti compiuti o di compierli meglio quando le loro motivazioni si allontanano. Nell’attaccamento all'immagine mi sembra spesso che la xita di questa immagine, o di una cosa, o di una situazione
o di una persona è come una condizione di disturbo per esprimerla. Cioè tutto questo è rappresentabile quando, userò questo termine che può prestarsi a molte confusioni, il desiderio è morto. Così quasi paradossalmente la forma, il progetto, una relazione, l’amore stesso si stacca da noi ed è rappresentabile quando perde il desiderio. Non so quanto questo sia allegro o malinconico ma è certo che il desiderio è qualcosa che sta prima o che vive in senso generale solo del presente; non può coesistere con nessuna tecnica o con nessun rito. A volte penso che la situazione migliore è sempre quella di vivere qualcosa dove il desiderio è morto; per questo amavo i progetti accademici come il progetto per il Teatro di Parma in cui mi prefiggevo un'esercitazione per-
fetta in sé, dove ogni scoperta era puro affinamento tecnico, dove i moventi dell’azione erano per così dire svelati. Posso tornare qui sulla tecnica dei Sacri Monti e sulla ripetizione delle scene dove ogni volta vi è sì un'emozione ma è
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proprio quella prevista. Nel Don Giovanni mozartiano la stessa citazione di un’altra opera dell’autore non rappresenta tanto la chiave del personaggio chiuso nella coazione a ripetere ma un grado diverso di libertà. Così mi piace la citazione, dell’oggetto o anche della mia vita, e una descrizione o studio o rilievo di ciò che non so quanto entrerà direttamente nella mia opera. A volte applicavo questo metodo ad alcune opere d’architettura e, al di fuori della mia teoria sull’architettura e la
città, il principio della descrizione è stato per me un fatto formativo di primo ordine che ancora cerco di seguire anche se le cose sono per me un poco cambiate, o forse queste descrizioni precedenti si stanno esprimendo in altre architetture.
Riporto qui una breve descrizione del Duomo di Milano che riprendo dai miei quaderni azzurri, una sòrta di diario o di appunti che tengo con una certa regolarità: la descrizione è del 1971 e spesso mi sembra quasi un mio progetto o in effetti lo è come tutte le opere che viviamo sono le nostre
opere. «Notevole esperienza dell’architettura del Duomo di Milano dove non salivo da molto tempo. Essa è collegata alla questione dell’allineamento degli elementi e, naturalmente,
alla verticalità. Usciti dalla scala si percorre un lungo corridoio all’aperto. Il corridoio taglia gli archi rampanti mediante strette porte rettangolari che si succedono con il ritmo degli archi. I rampanti servono allo smaltimento delle acque della copertura quasi piana e si servono dei doccioni
al perimetro. Il piano della copertura è come una piccola piazza in pietra. Studiare la dimensione della pietra. Sui fianchi la dimensione dell’architettura è data dai contrafforti a piombo e dal basamento. Il basamento è un esempio notevole di contaminatio in architettura e non si ritrova in nessun’altra opera gotica. (In realtà in quest'opera risulta tutta l'insufficienza della denominazione
stilistica). Nella
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sostanza non differisce gran fatto dagli strilobati che circondano il Tempio della Fortuna virile, quelli di Augusta a Nîmes e a Pola e tanti altri (Rocco, appunti sulle origini del Duomo). I contrafforti costituiscono una successione regolare. Si vedono come dei parallelepipedi che sezionano normalmente il fianco. I contrafforti gravano sul basamento che è continuo. L’intervento del Pellegrini per la facciata è incredibile: la soluzione è nella dimensione delle porte e nella concitazione degli elementi racchiusi. Solo questa concitazione poteva in qualche modo rapportarsi alla moltitudine di elementi della cattedrale. Sulla facciata, nelle festività religiose, vengono appesi quadri e paramenti rosso e azzurri».
Questi elementi stilistici non tolgono anzi aumentano il carattere della grande fabbrica; il Duomo è la «fabrica del dòm» e quindi l’architettura per eccellenza come la «cà granda» è la casa che si costruisce per tutti e quindi non può finire. Questa struttura quasi elementare di fondo — i contrafforti costituiscono una successione regolare e si vedono co-
me dei parallelepipedi che sezionano normalmente il fianco — offre la possibilità di progredire dentro e sopra la città; la passeggiata sulla copertura del Duomo è infatti un’importante esperienza d’architettura nel senso urbano. Personalmente credo di essere stato colpito per molto tempo da queste sezioni normali del fianco; esse tornano anche attraver-
so questa strada nel progetto di Modena e in quello di Fagnano Olona. Una situazione ripetitiva di strade che è sconvolta da una moltitudine di fatti, le statue e le guglie, a cui fa seguito a terra un basamento romano, continuo, alto, li-
bero come una piccola costruzione autonoma. Molte volte osservo questo basamento e mi chiedo quale altro tempio potrebbe sopportare; forse il Tempio previsto dal Pellegrini con la concitazione dei grandi elementi racchiusi. Questa concitazione, che risalta nella facciata di mattoni, una sorta
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di sezione verticale, di non compiuto, era l’intervento possibile in un edificio che, appunto, non poteva essere compiuto.
Questa idea del non compiuto o dell’abbandonato mi seguiva da ogni parte ma in modo totalmente diverso da quello sostenuto da parte dell’arte moderna; nell’abbandonato vi è un elemento di destino, storico o meno, e un grado di equilibrio. Lo ritrovavo nella stessa definizione del Duomo come «la fabrica del dèm», e qui fabbrica a mio avviso non tanto nel senso classico, albertiano, ma nel senso di cosa che si sta facendo o che si fa puramente senza un fine immediato. Queste sezioni non compiute ritornavano nella «fabrica» della casa dello studente di Chieti; anche qui capivo che l’edificio per corrispondere alle mutazioni della vita doveva fabbricarla ed esserne fabbricato.
Ma vi è anche una bellezza singolare in questi muri di mattoni che segnano il limite della casa; gli esempi più impressionanti sono certamente i Brantmauer a Berlino spesso
neri e solcati da canne come ferite. E anche gli edifici di Broadway dove i cornicioni si spezzano rivelando chiaramente la loro sezione, il loro disegno. Proprio a New York l’applicazione su scala gigantesca dell’architettura BeauxArts produce di questi effetti abnormi, architetture solide e rovinose, tipi imprevisti, una bellezza che guardiamo già con l'occhio archeologico; fatta anche di rovine, di cedimenti, di sovrapposizioni. In alcuni miei disegni newyorkesi cercavo di esprimere questo concetto o emozione; ad esempio in Cedimenti terre-
stri del 1977. Non voglio interpretare questi disegni per non diventare facilmente anch'io meccanico: ma è indubbio che qui l’elemento personale, quasi privato, si accompagna ad una indagine di un’architettura che non è necessariamente
rovinosa ma dove, come ho scritto a fianco del disegno, le immagini seguono direzioni diverse anche su cedimenti ter-
restri. Le immagini sono quelle della ripetizione, delle case
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vuote o abbandonate, di grovigli di ferro che non portano più nulla. Ma in Altre conversazioni del 1978 l’ordine non si ritrova ma è come sostenuto da piloni, strade, ponti. Naturalmente qui il significato delle altre conversazioni sfugge all’aspetto pubblico anche se sembra scolpito sulle pietre di un ipotetico argine.
Vedo che ancora il richiamo alla città mi suggerisce una lettura della mia architettura ma certamente dell’architettura in genere; eppure credo di avere come una condizione privilegiata nel guardare, nell’osservare. Ed è la mia una posizione più da ingegnere che da psicologo e geografo: mi piace capire la struttura a grandi linee e pensare poi come queste linee si possono incrociare. Non è diverso dalla vita e dalle relazioni; il nucleo di un fatto è sempre abbastanza semplice e anzi più è semplice più è destinato a scontrarsi con gli eventi che esso stesso produce. Mi viene alla mente una frase di Hemingway che ho trovato spaventosa eppure affascinante «Tutte le cose veramente malvage nascono da un attimo innocente». Non mi interessa commentare questa
frase che può anche avere il difetto di ogni bella frase: ma mi importa conoscere
questo nucleo per sapere quanto i
suoi sviluppi siano per così dire interni e quanto siano indotti; deformazioni, cedimenti, cambiamenti.
Fin da fanciullo ero attratto da questi fatti centrali che mi sembravano spiegare anche i personaggi laterali della vicenda; e anche come i corpi e i materiali reagiscano al loro stesso sviluppo. Vi è in architettura qualcosa di analogo, per esempio nelle architetture coloniali ed è questo uno dei fatti per cui sono stato profondamente impressionato dal Brasile; la visibile trasformazione degli uomini e delle cose dal loro nucleo primario. Per esempio sono stato colpito da una chiesa di Ouro Prieto dove il retablo significava talmente il suo essere facciata, più che sfondo perché in realtà si tratta di una facciata come in ogni scena, da essere percorribile
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dal retro. In altri termini il retablo era formato da veri e propri palchi ad altezze diverse il che presupponeva anche diverse entrate nella chiesa. Immagino le osservazioni storiche, sociologiche eccetera su questo fatto ma quello che mi importava, oltre alla stessa invenzione tipologica, era la deformazione del nucleo centrale; infine lo schema della chiesa. Questo interesse mi aveva spinto nella prima giovinezza
a cercare di capire questioni di biologia e di chimica perché ho sempre pensato che la mente e il corpo dell’uomo siano molto legati alla sua fantasia. Ancora oggi sono molto più interessato ad un qualsiasi libro di medicina che ad un testo di psicologia, soprattutto di quella psicologia letteraria che è stata di moda negli ultimi anni. Anche lo spiegare le malattie con fatti psicologici mi è sempre sembrata una falsa direzione; la malattia dipende da una serie di difese e resistenze del materiale che tengono conto sia della sua natura originaria sia della sua storia, o della meccanica della sua storia.
Così in questi ultimi anni mi hanno interessato particolarmente i libri di immunologia. La definizione di Ivan Roitt in Essential immunology mi ha colpito profondamente: «Memory, specificity and the recognition of “non self” — these lie at the heart of immunology» (la memoria, la specificità e la capacità a riconoscere strutture chimiche estranee alla propria e individuale costituzione possono essere consi-
derati gli aspetti peculiari dell’immunologia). Memoria e specifico come caratteristiche per riconoscere
se stesso e ciò che è estraneo mi sembravano le più chiare condizioni e spiegazioni della realtà. Non esiste uno specifi-
co senza memoria, e una memoria che non provenga da un momento specifico; e solo questa unione permette la conoscenza della propria individualità e del contrario (self e nonself).
Per alcuni anni tutto questo sembrava rispondere alle mie
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domande, al mio interesse per le cose e poniamo anche l’architettura. La memoria si costruiva sopra il proprio specifico, e ciò che si costruiva era difeso o no ma poteva riconoscere le strutture estranee. Era questo il rapporto dell’uomo con la città, con la costruzione del suo microclima, con la propria specificità. Da tempo, anche se più sono coinvolto nelle cose, ho abbandonato ciò che mi è estraneo: la ricerca è forse solo quella che Stendhal ha chiamato la ricerca della felicità ed essa si compie rispetto a un luogo che non è il luogo del possibile ma il luogo dell’avvenimento. Così continuo a guardare le cose, ma la stessa fissazione è lo svolgimento di una capacità individuale e mi permette di raggiungere nuovi risultatl.
Quali risultati? Per esempio nei progetti per due concorsi, per il palazzo della Regione a Trieste del 1974 e per la casa dello studente sempre a Trieste dello stesso anno, molti motivi estranei alla città si raccoglievano per così dire nel corpo di Trieste. Potrei parlare delle mie relazioni con le città come di quelle con le persone; ma in certo senso le prime sono più ricche perché comprendono anche le persone, certamente è vero quando in una città è successo un certo
avvenimento. Esse sono ferme a un ricordo che viene superato dal simbolo: prima dell’attuale boom turistico erano le foto ingiallite dei viaggi di nozze, generalmente Venezia, che ornavano
le credenze di cucina o del salotto. Questi
punti di connessione tra la storia personale e quella civile mi sono sempre parsi carichi di significato. Oggi si ama raccogliere volumi di queste fotografie che però perdono spesso il loro valore per fornirci quei prodotti confezionati dell’industria editoriale che tanto ci dispiacciono. Ora il progetto della casa dello studente segue di almeno dieci anni appunto quel periodo precedente, era come la vecchia fotografia, ma intanto era cresciuto come un senti-
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mento che raggruppava molte cose. Tra la casa dello studente di Trieste e quella di Chieti vi sono due anni, quest'ultima è del 1976, e sia pure nella differenza dei risultati vi sono analogie legate all’esperienza. Per studiare la casa triestina eravamo saliti al vecchio ospedale psichiatrico, allora già aperto, e che confinava con il terreno del concorso. Ricordo che l’incontro con questa comunità già organizzata liberamente è stato per me veramente singolare e molto più interessante di quella che si chiama «la visita al terreno». Fra le mie passioni civili ho un grande rispetto e potrei dire compartecipazione per quest’opera di autentica liberazione di questi antichi luoghi di sopruso: il sopruso della mente mi è sempre parso peggiore di quello del fisico anche se i due aspetti, sappiamo, spesso si univano. Ebbene nell’incontro con queste persone ricordo benissimo che vi fu dapprima un disagio reciproco, una situazione non confortevole, se volete anche di timore. Ma subito ci rendemmo conto, molto meglio di quanto i libri possano argomentare, che questo timore era semplicemente l’uso di due comportamenti diversi che andavano rapidamente collimando. Non credo di divagare troppo dalla mia architettura e dall’opera di cui sto parlando: anche per capire l’archi-
tettura dobbiamo andare oltre questo comportamento, e tipo di educazione, un insieme di questioni che vorrei chiamare stile. Non propriamente lo stile architettonico in senso tecnico (il corinzio o il dorico) ma la presenza che hanno su
di noi e sulla storia i grandi edifici; così come molti si stupiscono che io sia ammirato di alcune opere di Gaudî, come il Parque Giiell di cui ho già parlato, mentre non mi interessano opere molto più apparentemente simili alle mie. Questo è stato forse più chiaro nel progetto di Chieti.
Ebbene, parlando con le persone dell’ex ricovero, il progetto della casa dello studente si confondeva con questo progetto di città, in gran parte aerea, dove i giovani studenti e gli ex-ricoverati, che dovevano ricostruirsi una casa, si
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confondevano in questa architettura-città. E mi sembrava aerea per questo forte terreno scosceso di Trieste che fa penetrare il mare fino alla roccia del Carso. Poche città possono essere colte dall’alto come Trieste, così come in poche città si può camminare lungo il porto e percorrere i moli con un senso di festività. Forse a New York dalle parti del West Side Highway dove con gli studenti dell’Institute stiamo terminando un progetto analogo. Analogo, certamente nelle differenze; qui i ponti sono diventati gli antichi piers di legno e ferro che entrano nello Hudson e sono divisi dalla città dalle antiche e spesso crollate highways. È quella che ho chiamato una zona di archeologia industriale, anche qui spesso con comportamenti non coincidenti con quelli più generali. Nel progetto di New York vi sono case costruite sopra i piers e a volte vengono lasciate le vecchie costruzioni, lunghe warehouses di ferro e mattoni con incredibili testate palladiane. Questi dovrebbero essere i centri collettivi che a Trieste sono conglobati nell’edificio superiore. Alla linea del Carso corrisponde lo skyline di New York che è pressappoco come una montagna con stratificazioni dove l’ingegneria rappresenta meglio che altrove il groviglio sociale, etnico ed economico. L’unione di queste città non è tanto singolare e non solo per la presenza del mare; esse hanno anche un riferimento nella città costruita sul mare per eccellenza, Venezia. Cerco di non parlare mai di Venezia anche se vi insegno, e quindi spesso vi vivo, da quasi quindici anni. È anche strano che per me a Venezia si siano sciolti molti avvenimenti e che pure sia relativamente estraneo allà città: più certamente che a Trieste,
o a New York o a molte altre città ancora.
Ma ora parlo di Venezia perché è l'occasione del mio ultimo progetto: il Teatro galleggiante della Biennale del 1979/ 80. Amo molto quest’opera e anche di essa potrei dire che esprime un momento di felicità; forse è che tutte le opere, in
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quanto esprimono un momento del fare, appartengono a quella strana sfera che chiamiamo felicità. Vorrei notare che quest'opera mi ha colpito nella sua vita; cioè nella sua formazione e nel suo stare nella città e rispetto allo spettacolo. Mentre ascoltavo la sera dell’apertura alcune musiche di Benedetto Marcello e vedevo la gente fluire sulle scale e assieparsi sulle balconate, ho colto un effetto che avevo solo generalmente previsto. Stando il teatro sull’acqua si vedeva dalla finestra il passaggio dei vaporetti e delle navi come si fosse su un’altra nave e queste altre navi entravano nell’immagine del teatro costituendo la vera scena fissa e mobile. Nel suo scritto su questa costruzione Manfredo Tafuri ha detto — riprendendo una mia osservazione sull’influenza dell’architettura della lighthouse sulle coste del Maine — che il faro, ma più propriamente qui visto come casa della luce, è fatto per osservare ma anche per essere osservato. E questa osservazione apparentemente lineare mi ha dato l’interpretazione di molte architetture; tutte le torri erano fatte per osservare ma ancora di più per essere osservate.
I
miei disegni intitolati La finestra del poeta a N.Y., dove si dilatava la biblioteca della scuola di Fagnano Olona, erano questo osservare dall’interno di un paesaggio dove si può anche e non necessariamente essere osservati. E quale luogo migliore di un faro, di una casa della luce, letteralmente li-
ghthouse, situata sul mare, tra il mare e la terra in una zona liminare, spiaggia, roccia, cielo e nuvole. Forse era questa
ed è la mia America, le case bianche del New England, le barche, il Maine, tutto già intravisto in una adolescenza letteraria dove la casa era il Pequod e il senso della ricerca non poteva essere che un oggetto bianco anche lui carico di passato ma forse già e per sempre privo di desiderio. Da ragazzo pensavo che anche Achab facesse il suo mestiere privo di desiderio anche se la mancanza di desiderio era una necessità. E tutto questo non poteva che essere bianco nella casa, nel mare, nel paese, nel mostro.
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Le terrazze delle vedove sulle case del New England ripetono il rito greco di scrutare nel mare ciò che non è ripetibile, la sostituzione del rito al dolore, così come la fissazione
si sostituisce al desiderio. Così questa ripetizione del timpano non ripete l'avvenimento, perché l’avvenimento può non essersi dato; sono più interessato alla predisposizione, a quello che poteva succedere in una notte di mezza estate. Per questo l’architettura può essere bella prima del suo uso, è l’attesa, la camera matrimoniale predisposta, i fiori e
gli argenti prima della messa grande. Questa era la prima idea del Teatrino scientifico legato alla sua commedia Die nicht Versòhnt, i non riconciliati, per-
ché essa valeva per chi non poteva riconciliarsi dopo l’evento ma forse soprattutto perché era dedicata a chi non poteva riconciliarsi perché l’evento non c’era stato. I non riconciliati non sono necessariamente l’altra faccia dei ricongiunti anche se amavo vedere mescolate queste due commedie. I non riconciliati può essere un modo di essere. E qui affondava e cresceva la mia architettura dove le analogie non si inseguivano più come le immagini delle carte — il re, il fante, il matto, il cavaliere — ma ricomponevano un mondo dove le cose si contrapponevano. Ma inside e outside sono anche il senso del teatro e la conchiglia americana ritrovava per me nelle sue parole l’altro senso della conchiglia marina di Alceo che mi aveva spinto all’architettura «figlia / della pietra e del mare biancheggiante / tu meravigli la mente dei fanciulli». La meraviglia ha una crosta dura fatta di pietra e conformata dal mare come una crosta delle grandi costruzioni d’acciaio, di pietra, di cemento che formano le città. Da qui ho imparato l’architettura e ho ripetuto i disegni cercando i nessi della vita dell’uomo. Oltre l’analogia vedevo sempre più chiaramente quanto la bellezza fosse il luogo dell’incontro tra sostanza e significati diversi. Nulla può essere bello, una persona, una cosa, una città se significa solo se stessa, anzi il proprio uso.
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Così ero andato oltre gli aspetti più banali, consueti dell'architettura; vecchie affermazioni
dei trattatisti filtrate
dal positivismo ottocentesco, una ricercata bellezza della funzione senza immagini di riferimento, significare solo se stessa. Avrei potuto considerare tutto questo guardando dal terrazzo del Teatro veneziano che sta sopra l’edificio della Dogana; Venezia si allontanava verso un mare già misterioso e
la grande palla d’oro non poteva essere che l’inizio e la fine di ogni viaggio. Anche il Teatro arrivava dal mare e stava sulla laguna come le navi nei porti: José Charters mi ha scritto che la cosa che più lo ha colpito è appunto questo venire dal mare ed essere un elemento liminare tra il mare e la terra. Gli ha ricordato il suo paese e quanto diceva il poeta nazionale portoghese: «Il Portogallo è quel paese che si trova dove finisce la terra e comincia il mare». Anche il Teatro mi sembrava in un luogo dove finisce l'architettura e comincia il mondo dell’immaginazione o anche dell’insensato; così guardavo le figure misteriose di verderame che portano e giocano con la palla d’oro. E le loro giunzioni e il muoversi lento della figura della fortuna; le giunzioni sembravano ferite bizzarre operate nel metallo, parti ricucite in un corpo unico dovute a sinistre esperienze chirurgiche; più di quanto di sinistro vi sia sempre nel cor-
po umano trasportato nella statua. Esse provenivano da un giardino, come figure verdi di verderame e di verde vegetale e straniere come sempre sono le figure verdi e come le erbe, verdi e giallastre, che crescono tra le pietre grigie delle cattedrali vicino al mare o all’oceano; in Galizia, in Porto-
gallo, in Bretagna. Così la facciata che forse più mi piace, quella di Santa Clara a Santiago de Compostela, contiene la piccola statua della santa nel muro di pietra scura solcato dal verde, tinto dal verde come un verderame che colasse
quasi disinfettante anomalo di una crepa interna. E al centro la piccola santa, tutta dipinta, come una bambola pre-
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ziosa abbandonata in un luogo inaccessibile, come inaccessibile è la fortuna veneziana, forse poco notata nel suo lento muoversi, perché è necessario che ognuno non colga il muoversi della fortuna. A questo verde si contrapponeva il ferro, color freddo, della copertura del Teatro: il metallo si vedeva nel grigio della laguna e sopra di esso stava la sfera e il cigolio lento della bandierina metallica — era ancora la citazione «im Winde klirren die Fahnen», ma era un cigolio quasi astratto come appunto quello delle navi ferme nei porti. Perché questo mi piaceva soprattutto: l’essere una nave e come nave subire quei movimenti della laguna, leggere oscillazioni, il salire e scendere, così che nelle ultime gallerie alcuni potevano provare una leggera nausea che disturbava dall’interesse ed era aumentata dalla linea dell’acqua che si vedeva oltre le finestre. Ho tagliato queste finestre secondo il piano della laguna, quello della Giudecca e quello del cielo. Le ombre delle piccole croci del serramento si stagliano contro il legno e queste finestre rendono il teatro simile ad una casa ed è appunto come i fari un luogo per essere osservati ma anche da cui osservare. Il faro, la lighthouse, la casa della luce sono costruzioni del mare e nel mare; e io ne ho viste di antiche fatte di legno, spesso di legno imbiancato, che si confondono con l’oceano bianco del Maine.
Visito sempre i fari; a Cabe Espichel in Portogallo stavamo vicino alla grande lampada finché al crepuscolo la luce si accende; è molto importante il movimento rotatorio su un piano orizzontale compiuto dalla luce e questo lo cogliete meglio stando vicino, perché cogliete il senso di macchina che va perduto nelle grandi distanze. Queste osservazioni sono importanti per l'architettura così come gli antichi studiavano il corso delle stelle e il Piermarini gli orologi. La torre del Teatro poteva essere un faro o un orologio, il campanile minareto o le torri del Cremlino; le analogie sono
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sterminate e vengono poste a confronto in questa città ana-
loga per eccellenza. Era forse a Izmir che nelle mie albe insonni guardavo e udivo risvegliarsi i minareti; o lo sgomento delle torri del Cremlino dove sentivo più il mondo dei mongoli e torri di avvistamento di legno in qualche pianura sterminata che elementi riducibili a quella che chiamiamo l’architettura. Frano certo tante cose che sarebbe inutile cercare oltre;
come la grafia dei disegni, la luce di un ritratto, la dimenticanza di una fotografia che risale alla memoria; è certo che possiamo giudicare solo quelle operazioni che si compiono.
Per l’interno alcuni hanno parlato delle luci del Carpaccio; non posso qui riprendere i giudizi spesso molto belli dei critici: di Tafuri, di Portoghesi, di Dal Co, di Aymonino, di
Libeskind e di tutti quelli che si sono interessati a questa costruzione; ma mi piace ricordare un giudizio di Mazzariol dove si parla di una Venezia pre-monumentale, una Venezia non ancora bianca delle pietre del Sansovino e del Palladio. La Venezia del Carpaccio che io vedo nelle luci dell’interno, nel legno, come in certi interni olandesi che ricordano le navi e sono vicine al mare. Questa Venezia di legno era anche più legata al delta padano, ai ponti che attraversano i canali e di cui il ponte dell'Accademia, sia pure ottocentesco, offre un’idea migliore del ponte di Rialto. Ma riscoprire questa Venezia era possibile solo con l’intervento di un oggetto preciso: discretamente colorato, di una tecnologia elementare ma sicura, come un barcone o, appunto, una macchina teatrale. Rafael Moneo aveva chiamato il Teatrino scientifico «la macchina milanese» e il Teatrino scientifico precedeva stramamente, casualmente, il Teatro veneziano. Ma esso era af-
fidato ad emozioni più propriamente teatrali, il palcoscenico, il sipario, le luci, la scenografia. Di per sé era una scatola col timpano che ricordava, come ho scritto, il teatro di
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Roussel, i teatri padani, il bianco teatro dell’infanzia. La
bellezza del Teatrino scientifico è il suo clima; quello che ho chiamato il prestigio del teatro. Ora, nel Teatro veneziano, il prestigio è dato da una insolita mescolanza di tipologie; l’anfiteatro e la galleria, il percorso visibile delle scale, un palcoscenico dove la scena centrale è una piccola finestra da cui si vede il canale della Giudecca. Ma questo piccolo palcoscenico è un luogo singolare dove l’attore è chiuso tra il pubblico. Tony Vidler mi ha dato il libro di Frances Yates Theatre of the World con una bella dedica «For A. from the theater of the memory to the theater of science». E certo che il Teatrino scientifico era il teatro della memoria ma perché intendeva teatro come memoria, come ripetizione perché tutto questo era il suo prestigio. Ora è certo il Teatro veneziano più .vicino al Teatro anatomico di Padova come appunto al Globe Theatre shakespeariano. (E il Globe Theatre era appunto «il Teatro del Mondo», come,
riprendendo la tradizione veneziana, è stato chiamato questo mio progetto). Mi interessava come
il Teatro anatomico e il Globe Theatre centrassero la figura umana come in realtà piccoli anfiteatri: perché il teatro romano aveva una scena e una scena fissa. Questa scena fissa era pari al retablo delle chiese spagnole, e il retablo è la scena dell’azione liturgica. Ma nell’anfiteatro non occorreva la scena perché tutto l’interesse era sul gioco e principalmente sull’animale, uomo o bestia. Lo stesso avveniva nel Teatro anatomico dove il palcoscenico, perché di questo si trattava, saliva dal basso con il cadavere. Anche qui era il corpo dell’uomo, un uomo già deposto dolorosamente studiato da una scienza pure umanista. Non diversamente nel Globe erano visti gli attori.
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Ma nel Teatro veneziano questo impianto si differenzia per il fatto che il palcoscenico è un corridoio che unisce una
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porta e una finestra; esso a piano terra non possiede una
centralità, la centralità è data dal giro delle gallerie e dal crescendo del tetto a cuspide. Questo crescere interno mi piaceva per costruire una struttura che svincolasse elementi e giunti comuni, da costruzione provvisoria, da questo loro aspetto appunto provvisorio; così negli sbalzi i tubi e i giunti di ottone, come dorati, si ispessiscono e si sovrappongono e creano uno scheletro, una macchina, un congegno non più riconoscibile o non riferibile ad una impalcatura. Sembra
che ferro e legno siano due strutture parallele; era almeno questo che pensavo ricordando le sezioni a cipolla delle cupole bizantine e dei torricini o minareti dove l’interno e l’esterno sono due architetture complementari ma non necessariamente uniche. Le lamiere di queste torri e cupole; il ferro, il rame, il piombo, la pietra stessa; i pinnacoli del duomo di Modena
in pietra che pesano sulla costruzione sbilenca, il verderame che cola sulle pietre bianche dalle immense cupole: ma soprattutto quelle punte dei campanili gotici appuntite fino all’assurdo e verdi nel bianco del cielo. Le studiavo dalla finestra del mio studio al Politecnico di Zurigo; soprattutto la punta della Frauenkirche. In antiche incisioni si vede la Limmat che attraversa Zurigo popolata di mulini di legno tutti sormontati da punte di acciaio o ferro nero, o verdi di verderame. Questa città
gotica non doveva essere diversa da quella Venezia del Carpaccio nell’interno e nell’esterno. Città olandesi, normanne, d’Oriente: come i tappeti persiani che, nei quadri dei pittori olandesi, ricoprono i tavoli e rivelano i loro colori orientali alla luce nordica di una finestra del fondo. Vi è un senso dell’interno della città che sfugge ad ogni semplificazione: nel mio libro L'architettura della città parlavo della sezione delle case distrutte dalla guerra con sospensione, quasi con paura. Erano pareti rosa, lavandini sospesi,
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grovigli di canne, intimità disfatte; presagivo il gusto e il vago malessere dell’interno anche se quest’dea di un progetto con interno mi ha sempre inseguito. Nel Teatro veneziano sapevo a priori che era la vita o il silenzio del teatro: il silenzio del teatro è come quello delle chiese vuote. Questi progetti e costruzioni mi sembra ora si compon-
gano nelle stagioni e nelle età della vita; la casa dei morti e quella dell’infanzia, il teatro o la casa della rappresentazione. Ma tutti questi non sono dei temi o peggio delle funzioni ma le forme in cui si manifesta la vita e quindi la morte. Potrei parlare ancora di altri progetti a cui ho solo accennato, a progetti come il San Rocco e l’unità residenziale al quartiere Gallaratese a Milano. Il primo è del 1966, il secondo del 1969-70. Del primo ho accennato solo all’impianto del reticolo romano e al successivo sfalsamento di questo, come una crepa nello specchio dovuta a un incidente. Del secondo ho accennato alla semplicità, nel senso di un rigore ingegneresco, e alla dimensione. Ma nel parlare della vita dell’uomo dovrei mettere in luce maggiormente gli aspetti che mi hanno impressionato della vita associata — con occhio archeologico e antropologico — fin dalla mia prima giovinezza. Ho accennato ai corrales di Siviglia, alle corti di Milano, alla stessa corte dell'albergo Sirena. E i ballatoi, le gallerie, i corridoi come l'impressione letteraria e vera di conventi, di scuole, di caserme.
Insomma queste forme dell’abitazione — insieme a quella della villa — si sono depositate nella storia dell’uomo fino ad appartenere tanto all’architettura quanto all’antropologia; è difficile pensare ad altre forme, ad altre rappresentazioni geometriche, proprio perché non ne abbiamo la soluzione. In The concept of mind si afferma che «l'analogia è costi-
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tuita da cose a loro volta già apprese per mezzo d’un processo di cui si riferisce soltanto il risultato». Consideriamo corrette o scorrette solo moltiplicazioni già compiute. «Le isoipse sono astrazioni» o «Le curve di livello sono simboli cartografici astratti» possono essere espressioni utili a chi insegna la cartografia. «Le curve di livello sono espressione esteriore di atti mentali di concepire altezze (in metri) sul livello del mare, compiuti dal cartografo» suggerisce che la lettura della carta implichi una presa di possesso dell’impenetrabile vita spettrale di un cartografo anonimo. Il riassunto di questo passo mi ha sempre molto colpito e lo riferisco non solo all’architettura ma anche alle scienze,
alle tecniche e alle arti. Qui l’analogia si presenta in modo molto diverso dalla definizione che ho scritto altrove data da Jung: essa si riferisce a cose di cui semplicemente già conosciamo il risultato, così come le curve di livello sono riferite alla vita concreta anche se impenetrabile di un anonimo cartografo.
Questo è un senso dell’opera che mi ha sempre patrticolarmente interessato e che forse dà un senso a queste mie note; come l’errore della misura di cui ho parlato a proposito della topografia, l’analogia come acquisizione di qualcosa di cui è noto solo il risultato. O meglio di ogni processo mi sembra che sia noto solo un risultato, e per processo intendo anche ogni progetto. Così descriverlo prima è come fornire il filo di una vicenda senza risultato. Credo che per certe categorie di artisti i moventi dei fatti sono corrosi e distrutti dai luoghi. Dimentico spesso le voci e sovrappongo altre persone agli stessi fondi, agli stessi luoghi, non del tutto incoscientemente, ma perché penso che sia necessario essere disattenti a molte cose. L’autobiografia dell’opera è certamente solo nell’opera stessa ma il descriverla è un modo di trasmettere non diverso dal progettare o dal costruire; negli ultimi anni ho letto molte cose sulla mia opera — spesso le più strane e diverse
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— e non posso dire come spesso si dice di aver sempre im-
parato qualcosa. Ho imparato solo che molte motivazioni sono valide anche se non coincidono con quanto l’autore pensava. Io penso sempre in qualche modo ad un luogo. Certamente in ogni luogo si riassumono molte cose, il luogo si presenta come un risultato, e quindi non mentiamo se os-
serviamo stupiti il panorama dal terrazzo, l’acqua che scorre, l’interesse della conversazione, i suoi gesti e tutte queste cose che chiamavamo l’amore. È forse solo come una disattenzione, la forma più benevola del tradimento, l’affidarsi al luogo, a ciò che finalmente più lentamente muta. Ogni sera di mezza estate ha una sua compagnia e una sua solitudine e l'architetto e il commediografo devono conoscere le grandi linee dell'ambiente perché sanno che i personaggi e i loro stessi sentimenti si possono sostituire, o che comunque nel tempo la rappresentazione sarà diversa. Tutto questo permette di rappresentare il passato con il desiderio del presente; quello che più mi spaventa è il passato di un uomo che è come immerso in uno stato in cui il desiderio del presente è morto: per cui paradossalmente il passato possiede i colori dell'avvenire e della speranza. Ogni mio progetto non si scosta dal passato forse perché non ho mai espresso tutta la gioia dell'avvenire che un progetto, un oggetto, un viaggio, una persona poteva possedere per me. Non so quanto questo sia allegro o malinconico ma mi sembra una condizione per vivere o per lavorare nel'proprio mestiere.
Senza il desiderio può darsi che non resti la certezza o che la stessa fantasia sia mercificata, ma questi piccoli ambienti familiari con le loro luci e ombre discrete e i sempre più cariati e corrosi monumenti e le ossa stesse del tumulo e ogni apparente e sempre vecchia novità sono pure questo
intorno che possiamo raccontare anche con ripetizione ma conoscendo quanto previsto sia l’imprevedibile. Quanto imprevisti siano gli effetti di questa conservazione dell’energia
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che giace latente determinando il contorno della vita dell’uomo insieme alla luce e all'ombra e alla sicura consumazione o consunzione dei corpi. Ma per questo la costruzione di un luogo, relativamente solido, disponibile a modificazioni personali, è ancora qualcosa che posso accettare in un disordine delle cose limitato e in qualche modo onesto e che meglio risponda alle nostre possibilità. Così mi sembrava di andare oltre ogni superficiale avanguardia. Questo può essere anche il significato di alcuni miei disegni tra il 1974 e il 1980. Mi piacevano i titoli come Altre conversazioni o Il tempo di una vicenda e altri ancora. Erano questi disegni come la sceneggiatura concentrata e
sintetica di un film: le immagini del Tempo di una vicenda erano per me i fotogrammi del film possibile che da molto tempo ho in mente. L’unica esperienza in questo campo, il cinema, l’avevo iniziata con la Triennale
1973; il film Omamento e ra e pezzi di l’architettura sfondo delle
di Milano
del
aveva il titolo del più bel saggio di architettura Delitto ed era un collage di opere d’architettufilm nel tentativo di immettere il discorso delnella vita e nello stesso tempo vederlo come vicende dell’uomo: dalle città, dai palazzi pas-
savamo a brani di Visconti, di Fellini, di altri autori. Vene-
zia, e il problema dei centri storici, acquistavano più significato come sfondo dell’impossibile amore descritto da Visconti in Serso; mi ricordo una Trieste bianca e disperata
che solo la vicenda di Serzlità di Svevo rendeva chiara anche nel suo aspetto architettonico. Abbiamo poi girato la parte finale del cortometraggio nella periferia milanese all’alba e credevo veramente di andare oltre l’architettura o di spiegarla meglio. Cadeva anche il discorso della tecnica: e ora la realizzazione di questo cortometraggio penso possa essere il proseguimento di tante cose che vado cercando in architettura. Era questo anche l’amore per il Teatro veneziano; nel suo essere un’opera anomala, nel presentarsi con
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la stessa imponenza e fragilità di una macchina. Ora mi viene in mente come alcuni critici abbiano spesso parlato delle mie opere come scenografiche, ed io rispondevo che erano scenografiche come scenografico era Palladio, Schinkel, Borromini, tutta l’architettura. Non intendo qui difendermi da qualche accusa, ma non ho mai capito come potessero esistere accuse tanto diverse come l’aspetto scenografico e
una specie di povertà dei mezzi espressivi di cui pure venivo accusato. Ma questo ha ora per me poca importanza; credo che sia chiaro che considero possibile ogni tecnica e al limite di poter chiamare questa tecnica come stile. Considerare una tecnica superiore all’altra o più propria è un segno della demenza dell’architettura contemporanea e della mentalità illuministica della cultura dei Politecnici che si è trasmessa tale e quale nel movimento moderno in architettura. Devo dire che rispetto all’architettura moderna ho sempre avuto un atteggiamento ambiguo mio malgrado: l’ho studiata profondamente, soprattutto in rapporto alla città, e in tale senso anche vedendo recentemente i grandi quartieri operai di Berlino, soprattutto Berlin-Britz, o di Francoforte, ho provato una grande ammirazione per la costruzione di queste nuove città. Ma, come ho già detto, ho sempre rifiutato tutto l’aspetto moralistico e piccolo borghese dell’architettura moderna. Questo mi è stato chiaro fin dal-
l’inizio dei miei studi, con la mia ammirazione per' l’architettura sovietica e penso che l’abbandono di questa architettura chiamata stalinista, che posso accettare per pura denominazione cronologica, sia stato un grave atto di debolezza culturale e politica da parte di questo grande paese, e non abbia avuto nulla a che fare con questioni economiche e costruttive. Piuttosto una capitolazione alla cultura del-
l'architettura moderna di cui oggi vediamo il completo fallimento non solo in Europa ma in tutti gli stati del mondo. Amavo e mi considero ancora allievo di pochi architetti
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moderni: principalmente di Adolf Loos e di Mies van der Rohe. Sono gli architetti che più hanno stabilito un filo di continuità con la loro storia e quindi con la storia dell’uomo. Per demolire la cultura funzionalista nel mio libro L’architettura della città mi sono servito di essi in modo onesto, cioè citandoli per quello che hanno detto. Qui conta anche la questione della «personalità» ma è certo che è molto importante che Adolf Loos non si sia rappresentato solo nella sua architettura e che Ornamzento e Delitto resti il titolo più bello di un trattato d’architettura perché ci parla solo lateralmente dell’architettura; d’altra parte Mies van der Rohe è l’unico che abbia saputo fare delle architetture e dei mo-
bili indipendenti dal tempo e dalla funzione. Non voglio qui tornare su altre questioni relative alla funzione: è evidente che ogni cosa ha una sua funzione a cui deve rispondere ma la cosa non finisce lì- perché le funzioni variano nel tempo. È stata sempre questa una mia affermazione di carattere scientifico che ho tratto dalla storia della città e dalla storia della vita dell’uomo: la trasformazione di un palazzo, di un anfiteatro, di un convento, di una casa e dei loro diversi contesti.
Mi sono sempre riferito a questo parlando dei monumenti perché ho visto palazzi antichi abitati da molte famiglie, conventi
trasformati
in scuole,
anfiteatri
trasformati
in
campi da pallone e questo è sempre avvenuto meglio dove non è intervenuto l’architetto né qualche sagace amministratore. D’altra parte ho sentito dire ultimamente da un giovane che il teatro del Settecento era una splendida forma di casa collettiva e il palco ne era soltanto l’aspetto privato. Le descrizioni della vita del Settecento, vedi la Scala di Stendhal, corrispondono a questa intuizione. Questa libertà della tipologia, una volta stabilita, come forma mi ha sempre affascinato: potrei fare su questo argomento un'infinità di citazioni ma ripeterei cose già dette; è
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certo che le osterie ricavate sotto gli arconi della SchnellBahn di Berlino, o i chioschi a due piani addossati al duomo di Ferrara e molte altre cose dove l’azione più precisa si svolge nell’involucro più imprevisto mi hanno sempre appassionato. E come il concetto di sacralità dell’architettura; una torre
non è un simbolo di potenza o religioso. Penso al faro e ai grandi camini conici del castello di Sintra in Portogallo, ai silos e alle ciminiere. Queste ultime sono le architetture più belle del nostro tempo anche se non è vero che non ripetano modelli d’architettura; questa è un’altra sciocchezza della critica moderna o modernista. L’uomo ha sempre costruito con un’intenzione estetica; e le grandi fabbriche, i docks, i magazzini, le ciminiere del periodo industriale avevano per modello anche la peggiore architettura parigina del periodo Beaux-Arts. In questo senso pochi europei, anche qui se si esclude Adolf Loos, hanno capito la bellezza della città americana e, nel senso di cui dicevo prima, segnatamente la bellezza di New York.
L'America è certamente una pagina importante dell’autobiografia scientifica dei miei progetti anche se vi sono giunto piuttosto tardi; ma il tempo ha delle strane preparazioni. Anche se la mia prima educazione è stata influenzata dalla cultura americana questo è avvenuto attraverso il cinema e la letteratura; gli oggetti e le cose americane non erano «objects of affection»; mi riferisco particolarmente alla cultura nordamericana poiché quella latinoamericana è stata per me invece sempre fonte di invenzione fantastica; anche perché mi consideravo con orgoglio e presunzione un ispanista. Inoltre, di fronte alle descrizioni, ai libri, all'immagine
fornita dagli architetti della città americana non potevo rispondere con una mia esperienza diretta. E anche quando,
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soprattutto da ragazzo, mi si accusava di cultura libresca, in realtà mi sono sempre attenuto allo studio e all’esperienza diretta; forse anche per questo non ho perso completamente i miei legami con la Lombardia e riesco, per così dire, ad impastare sensazioni antiche con impressioni nuove. Comunque avevo capito che la critica ufficiale d’architettura non aveva capito l'America o, quel che era peggio, non l’aveva guardata: era solo preoccupata di vedere la trasforma-
zione o l'applicazione dell’architettura del movimento moderno negli Stati Uniti; questo apparteneva anche a un vago antifascismo, a una ricerca della città moderna e tante altre
belle cose di cui la cultura socialdemocratica ha sempre cercato esempi senza mai trovarli. È invece noto che in nessun luogo l'architettura moderna è fallita come negli Stati Uniti; se vi è da studiare un trapianto e una trasformazione questa va ricereata nella gran-
de architettura parigina Beaux-Arts, nell’architettura accademica tedesca e, naturalmente, negli aspetti più profondi della città e della campagna inglese. Non diversamente che per l'architettura barocca spagnola latino americana, a parte il caso straordinario nella storia della città che è costituito da Buenos Aires. Credo che nessuna città sia la conferma più evidente della giustezza delle tesi da me sostenute nel libro L’architettura della città, New York è una città di pietra e monumenti come io non pensavo potesse esistere e mi sono reso conto
come il progetto per il concorso del Chicago Tribune di Adolf Loos era l’interpretazione dell'America e non certo, come lo si è voluto descrivere, un divertissement viennese, era la sintesi dello stravolgimento operato in America dalla quantità e dall’applicazione dello stile in un nuovo quadro. E le parti che contornano la città-monumento sono l’enorme territorio della campagna. E solo in questo quadro hanno valore le grandi architetture, le opere dei maestri; non diversamente a Venezia ci
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può interessare che un’opera sia del Palladio o del Longhena, esse sono sempre e prima le pietre di Venezia.
Se dovessi parlare ora del mio lavoro o della mia «formazione» americana uscirei troppo dall’autobiografia scientifica delle mie opere per entrare in un’autobiografia personale o in una geografia della mia esperienza; cosa che mi allontana dall’interesse principale di questo libro. Devo solo dire che in questo paese le analogie, i riferimenti, o chiamatele osservazioni, hanno prodotto in me una grande voglia creativa e anche, di nuovo, un notevole interesse per l’architettura. Ho trovato che «passeggiare» la domenica mattina per la zona di Wall Street è impressionante come sarebbe impressionante camminare in una pro-
spettiva del Serlio o di qualche trattatista rinascimentale, realizzata. Così i villaggi del New England dove l’edificio costituisce la città o il villaggio indipendentemente dalla dimensione.
Nel 1978, insegnando alla Cooper Union, ho dato per tema ai miei studenti «The american academical village»; mi interessava questo tema per tutti i riferimenti che ha con questa cultura e che sono a noi veramente stranieri; come il concetto stesso di campus. I risultati mi sembravano straordinari perché riscoprivano sempre temi antichi e risalivano, oltre all'ordine singolare dell’academical village di Jefferson fino all’architettura dei forti, al rondo nuovo dove antico
era soprattutto il silenzio. Queste esperienze, ripeto, come la permanenza in Argen-
tina e in Brasile, mentre da un lato hanno distolto sempre di più la mia applicazione all'architettura dall’altro lato hanno come precisato gli oggetti, le forme, la creazione. Mi capita di arrivare al silenzio in un modo del tutto diverso da quello giovanile che nasceva dal purismo: ora il silenzio mi sembra l’immagine esatta o la sovrapposizione che si annulla. Si annulla nel senso del passo di Agostino «...tutta questa
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stupenda armonia di cose assai buone, una volta colmata la sua misura, è destinata a passare. Esse ebbero un mattino e una sera». Ma forse non sappiamo quale sia il momento della sera perché questo grande specchio riflette l'architettura semplicemente come il luogo dove si svolge la vita. Vedevo le case sparse, a grandi distanze, lungo il Rio Paranà, con il terrazzino posto sul grande fiume e legato alla casa da un pontile. Visitavo la bella casa detta «dell’italiano», uno dei luoghi più belli della mia vita, costruita da questo personaggio venuto dall'Europa di cui si erano spenti i ricordi. E al suo interno la camera del poeta suicida, mantenuta con le bianche lenzuola ricamate, lo specchio e i fiori. Era tutto così lontano che il riflesso dell’architettura, come a volte capita, riprendeva i suoi contorni, nel fermare l'avvenimento. È Le grandi navi che passavano sul Rio non erano diverse, nel marcare il tempo, dai battelli del lago dell’infanzia. Anche queste macchine sono un riflesso ma in esse la sera e la mattina hanno un tempo diverso: non mi importa quanto più lungo, perché anche le cose sono destinate a passare. E la questione della qualità con cui esse passano e quindi del modo con cui noi passiamo in esse. Per questo non mi resta che parlare di alcune opere cercando di ordinarle secondo questa qualità. Con questa autobiografia scientifica dei progetti non ho rinunciato a scrivere un trattato; anche perché l’ordine tradizionale del trattato sarebbe oggi inevitabilmente un catalogo. E io spesso guardo con attenzione questi cataloghi ma essi non mi coinvolgono. Gli antichi, al contrario, misuravano nel trattato questioni di qualità; e non sono solo semplici autobiografie l’architettura delle ombre di Boullée e la ricerca del luogo o locus del Palladio. Ma è sempre il luogo, quindi la luce e il tempo
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e l'immaginazione, che ricorrono nei trattatisti come ciò che può modificare e infine conformare l’architettura. Persino il Guarini nella sua ossessione delle regole matematiche, o proprio per questa, osserva che «...converrà dunque al sentimento di Vitruvio per accomodarsi alla necessità del luogo cangiare le simmetrie con aggiungere o detrarre qualche parte alle giuste misure, accioché venga in chiaro quanto possa levarne per accomodarsi al sito senza sconcerto; e però siegue e conchiude: igitur statuenda est primum ratio Symmetriarum, a qua sumatur sine dubitatione commutatio».
Ecco dunque da qui l’analisi degli edifici: gli edifici sono tante occasioni che quasi sempre si allontanano dalla prima ratio ma è chiaro che senza di questa non vi può essere cambiamento. Certo tutte queste cose, la loro qualità presuppone una misura. Come misurare la quantità e la qualità dello strapiombo della camera di cui ho parlato in questo libro? Come misurare la qualità della caduta di Lord Jim, proprio perché si tratta di una caduta da cui non avrebbe mai potuto risalire? Come misurare gli edifici se un anfiteatro può diventare una città e un teatro una casa? Così racconto qui di alcuni miei progetti, anche ripeten-
do ciò che ho scritto precedentemente perché non sembra che vi sia un divario tra l’annotazione personale e la descrizione, tra l’autobiografia e la tecnica, tra ciò che potrebbe essere e non è. Di ogni progetto potremmo dire come di un amore incompiuto: adesso sarebbe più bello. E vi è in questo da parte di ogni artista autentico la voglia di rifare, e non di rifare per
cambiare (che è proprio delle persone più superficiali) ma di rifare per una strana profondità del sentimento delle cose, per vedere quale azione si svolge nello stesso contesto o come viceversa questo con lievi alterazioni modifichi l’azione.
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Mi avvicino ancora a quanto ho detto del teatro, e dirò ancora, o dello specchio; o come quando rifotografate la stessa fotografia perché nessuna tecnica perfetta toglierà cambiamenti dell’obiettivo e della luce, e infine anche solo
perché sarà un oggetto diverso. Certo, un oggetto diverso. È questa forse l'autobiografia dell’edificio che qui voglio vedere nell’architettura, ma anche nell’abbandono dell’ar-
chitettura. Avrei potuto indifferentemente intitolare questo libro Dizzenticare l’architettura perché posso parlare di una scuola, di un cimitero, di un teatro ma è più preciso dire la vita, la morte, l’immaginazione.
Parlando di queste cose e dei progetti, pensavo ancora una volta di concludere la mia architettura e il mio lavoro. È l’operazione che ho sempre tentato. Ancora pensavo che l’ultimo progetto, come l’ultima città conosciuta, come l’ultima relazione umana, fosse la ricerca della felicità identifi-
cando poi la felicità come una sorta di pace e poteva essere una felicità di inquietudine ardita ma sempre definitiva. Per questo ogni presa di coscienza delle cose si confondeva con il gusto di poterle abbandonare, di una sorta di libertà che sta nell’esperienza, come un passaggio obbligato perché le cose avessero la loro misura. Da sempre pensavo al passo di Agostino «Signore Dio,
poiché tutto ci hai fornito, donaci la pace, la pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza tramonto. Tutta questa stupenda armonia di cose assai buone, una volta colmata la sua misura, è destinata a passare. Esse ebbero un mattino e una sera». Ma è certo che il compimento andava oltre l'architettura e ogni cosa è soltanto la premessadi ciò che vogliamo fare. Così consideravo tutto questo guardando dal terrazzo veneziano la figura della fortuna; e pensavo sì e ancora alla macchina dell’architettura ma la macchina dell’architettura era in realtà la macchina del tempo.
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Nel tempo e nel luogo avevo trovato l’analogia dell’architettura, quella che avevo chiamato «la scena fissa delle vicende dell’uomo». E anche questo ha centrato il mio interesse sul teatro e sul luogo del teatro; amavo la scena fissa del teatro di Orange, perché la scena in qualche modo non poteva che essere fissa. Come erano luoghi determinanti i grandi anfiteatri di Arles, Nîmes, Verona; erano i luoghi di
una mia educazione all’architettura. Bianchi contro il cielo della Provenza si eguagliavano ai luoghi del teatro lombardo, ma di questa città di Arles potrei scrivere un trattato, di storia o architettura, o semplicemente una storia privata ... Qui ho capito perché Jean Genet afferma che l’architettura del teatro deve ancora essere scoperta, ma che in ogni caso deve essere immobile, ferma e irreversibile. Ma questo mi sembrava vero per tutta l’architettura. Questi elementi, tra l’anomalo e il consueto,
mi sono
congeniali; si può intravedere dovunque un paesaggio inesplorato, una geografia della città quasi sconosciuta affiora nelle vicende dell’uomo. Leggevo la Historia lausiaca del vescovo Palladio, la Vita di Sant Antonio e mi impressionavano le città dei monaci, i conventi dispersi nel deserto e più su le celle degli eremiti; nei monasteri del deserto vivevano migliaia di uomini come città segrete sparse in un territorio assolato. Questa dimensione del tempo e dello spazio potete chiamarla architettura come chiamate architettura un monumento. Ho visto qualcosa di simile in Puglia, vicino a Lucera; un grande cratere praticamente inaccessibile dove sono scavate grotte lungo le pareti verticali, un anfiteatro sinistro bruciato dal sole e insieme freddo; era questo luogo di anacoreti, di briganti, di meretricio, di perdidos e ancora produce questa strana impressione. Vedevo una città antica alternativa alla storia civile, come
senza storia che non fosse la consunzione del
corpo e della mente era la vita di queste persone. Ma anche
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qui rimanevano le rovine, rovine di un elemento naturale ma pur sempre costruito in quei rapporti di vita che pure
esistevano nella solitudine ma rovine non dissimili dal vicino castello di Federico, dal tracciato della città araba, da rovine che si confondevano tracciando linee, profili, corpi,
materiali dell’architettura. E nel Sud ho sempre amato questi luoghi convulsi come i misteri di Delfi e il mistero dell'ora. Per questo fin dall'infanzia trovavo nelle vite dei santi, come nella mitologia, abbastanza elementi di disturbo al buon senso per apprezzare per sempre una certa inquietudi-
ne dello spirito, qualcosa di velatamente bizzarro nell’ordine personale. Sapevo da sempre che l’architettura era determinata dall’ora e dalla vicenda ed era quest'ora che cercavo inutilmente, confondendosi con la nostalgia, la campagna, l’estate: era un’ora di sospensione, le mitiche «cinco de la tarde», di Siviglia, ma anche l’ora dell’orario ferroviario, della fine della lezione, dell’alba. Amavo l’orario ferroviario e uno dei
libri che più ho letto attentamente è l’orario ferroviario delle ferrovie svizzere; è questo un volume completamente scritto con piccoli e preziosi caratteri dove il mondo si in-
terseca attraverso il nero dei caratteri tipografici e treni, autobus, battelli, traghetti vi portano da oriente a occidente e
solo alcune pagine, le più misteriose per luoghi e lontananze, sono velate da un rosa pallido. Così mi avvicinavo all'idea di analogia che era per me dapprima un campo di probabilità, di definizioni che si avvicinavano alla cosa rimandandosi l’una all’altra; si incrociavano come gli scambi dei treni.
Questa commistione del tempo e dello spazio mi ha avvicinato al concetto di analogia, di definizioni che si avvicinavano alla cosa rimandandosi l’una all’altra. In questa ricerca
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il libro di René Daumal I/ monte analogo fu per me una lettura di incredibile importanza anche se nulla mi diceva sul finale della ricerca, ma aumentava l’ansia della ricerca. Da
tempo ricercavo questo nella matematica e nella logica e ancora credo che la matematica sola possa offrire non so se la certezza ma un appagamento alla conoscenza, una forma di piacere in se stesso, più forte e più staccato di quello della bellezza e del momento. AI di fuori di questo trovavo disordine. Dell’analogia di Daumal mi colpiva forse soprattutto la sua affermazione circa «la velocità sbalorditiva del già visto» che ricollegavo all’altra definizione di Ryle per cui l’analogia è la fine di un processo. Questo libro, come compendiando altre letture e mie esperienze personali, mi aveva avvicinato a una visione più complessa della realtà soprattutto per quanto riguarda la concezione della geometria e dello spazio. Qualcosa di simile, come ho detto, l’avevo incontrato nell’ascesa al Monte Carmelo di Juan de la Cruz; la rappresentazione del monte nel magnifico disegno-scrittura mi avvicinava alla mia intuizione dei Sacri Monti dove la cosa più difficile da capire mi sembrava sempre il senso e il perché dell’ascesa. All’incirca nella stessa epoca, svolgendo con i miei allievi del Politecnico di Milano una ricerca su Pavia, mi ero incontrato con la carta di Opicino De Cani-
stris. In questa carta si confondono figure umane e animali, congiunzioni sessuali, ricordi con gli elementi topografici del rilievo; si tratta di una direzione diversa che l’arte e la
scienza in alcuni momenti potevano prendere. Tutto questo incideva sulla mia architettura o era tutt’uno con quanto facevo; la geometria del monumento di Cuneo o di quello di Segrate veniva letta da me secondo complesse derivazioni, mentre altri ne accentuavano il purismo e il razionalismo. Eppure queste strade si andavano chiarendo, così come nel disegnare il triangolo avevo sempre pensato alla difficoltà del chiudere una triangolazione ma anche
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alla ricchezza implicita nell’errore. Doveva essere circa il 1968, e in uno strano modo un sovvertimento generale della cultura si manifestava nella mia educazione mentale riprendendo aspetti che mi appartenevano ma avevo lasciato cadere. Così nelle note al libro di Daumal vi è un passo della Repubblica di Platone, che forse non avevo mai letto ma già costituiva un'ossessione creativa. «Quando ogni gruppo aveva trascorso sette giorni nella prateria, doveva fermare il campo e partire l’ottavo giorno,
per arrivare, quattro giorni dopo, in un luogo dove si osserva una luce che si stende dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra, luce diritta come una colonna e molto simile all’arcobaleno, ma più brillante e più pura. Essi giunsero a quella luce dopo un giorno di cammino, e là nel mezzo della luce videro, tesi da quel punto del cielo, gli estremi dei suoi legami, perché quella luce era un legame che, incatenava il cielo». Mi colpiva soprattutto l’espressione «essi giunsero» e che cioè esisteva un punto dove giungere che era relazionato a questa catena celeste che era visibile solo dagli estremi dei suoi legami. Questo «giungere» contiene un inizio e una fine e così
senza pensare più a questo mi sarei anni dopo soffermato sul valore dell’inizio e della fine indipendentemente dalle fasi intermedie. Eppure troppi si soffermano sulle fasi intermedie; e mi sono staccato dall’interesse per il catalogo, la raccolta, l’erbario perché vi è in essi quella fase intermedia che spesso mi è insopportabile. Amo l’inizio e la fine delle cose: ma forse soprattutto le cose che si spezzano e si ricompongono, le operazioni ar-
cheologiche e quelle chirurgiche. Molte volte nel corso della mia vita sono stato in ospedale per fratture o altri incidenti alle ossa e questo mi ha dato un senso e una conoscenza dell’ingegneria del corpo che è altrimenti impensabile. Forse l’unico difetto della fine, come dell’inizio, è quello
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di essere in parte intermedio; cioè di essere prevedibile. E la cosa più prevedibile è appunto la morte. Tutto questo lo riporto alla mia impressione da ragazzo del profeta Elia, è il ricordo di un’immagine e di un avvenimento. Erano grossi libri di storia sacra, dove le figure uscivano dal testo fitto e nero con colori accesi, giallo, celeste,
verde. Un carro infuocato saliva verso il cielo attraversato da un arcobaleno e un gran vecchio stava eretto sul carro. Sotto questa illustrazione, come sempre, stava una scritta
molto semplice: «Il profeta Elia non morì, fu rapito da un carro di fuoco». Non ho mai più visto una rappresentazione e una definizione tanto precisa e quasi mai anche nelle fiabe capitano avvenimenti di questo tipo. Tutta la religione cristiana è impiantata sulla morte, la deposizione e la risurrezione ed è questa un’iconografia molto umana che rappresenta l’uomo e Dio. Nella scomparsa del profeta Elia mi sembrava vi fosse qualcosa di pericoloso per il senso comune, una sfida, un atto di immenso orgoglio. Ma tutto questo quasi appagava la mia tendenza ad un atto assoluto e di estrema bellezza. Avrei poi forse trovato parte di questo in Drieu La Rochelle, ma qui c'entrava la noia per altre cose e il significato era diverso. Ora credo che questi due aspetti siano per me importanti e che abbiano acquistato maggiore chiarezza; tra la mia prima ricerca, rifondare la disciplina, e il risultato finale di dissolverla o di dimenticarla vi è una stretta parentela; a me sembrava che l’architettura moderna, così come si presentava, era un insieme di nozioni vaghe, dominate da una sociologia di seconda mano, da un inganno politico, da un cattivo estetismo.
La bella illusione del movimento
moderno,
quieta e moderata, si era frantumata sotto il crollo manesco ma concreto delle bombe: non ricercavo ciò che era rimasto come una civiltà perduta ma guardavo piuttosto una tragica foto del dopoguerra di Berlino dove la porta di Brandeburgo era ferma in un paesaggio di rovine. Era forse questa la
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vittoria dell’avanguardia; non i residui dei quartieri di Francoforte o qualche costruzione olandese che si confondeva con un amabile paesaggio umbertino. Solo tra queste rovine avevano vinto e perso le avanguardie; un tangibile paesaggio surrealista, la sovrapposizione delle macerie, era stato certamente un gesto, sia pure di distruzione. Non era stata colpita l'architettura ma la città dell’uomo; e ciò che rimaneva non apparteneva certamente all’architettura ma era un simbolo, un segno, un ricordo a volte fastidioso.
Così, con occhio archeologico e chirurgico, ho imparato a guardare le città. Detestavo l’estetismo modernista come quello di ogni revival formalista. Per questo ho detto che l’esperienza dell’architettura sovietica mi era servita a spazzare via ogni retaggio piccolo borghese dell’architettura moderna. Restavano alcuni grandi architetti, come Adolf Loos o Mies van der Rohe che sostanzialmente erano passati sopra le illusioni socialdemocratiche. Mostrare l'architettura per i dati che le erano propri significava impostare il problema in modo scientifico togliendo ogni sovrastruttura, enfasi e retorica che le si erano incrostate negli anni dell’avanguardia. Quindi sempre di più a dissolvere un mito; a riporre l’architettura tra le arti figurative e l’ingegneria. Un piccolo libro di Pier Luigi Nervi sul cemento armato, gli studi sulle cupole romane, la topografia urbana, l'archeologia mi mostravano la città e l’architettura ad un tempo. E credo che oggi questo sia sempre più chiaro e che lo studio dell’architettura abbia trovato una maggiore credibilità anche se mantenuta nei limiti che gli sono propri. Questo rispondeva meglio al nostro stato d’animo. Ma detestavo il disordine affrettato che si esprime come indifferenza all’ordine, una specie di ottusità morale, di benessere soddisfatto, di dimenticanza. E anche sapere che questi fatti generali dovevano essere vissuti personalmente, anche attraverso piccole cose, visto che le grandi cose erano storicamente precluse.
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Così continuo la mia architettura con la stessa ostinazione e mi sembra che questo oscillare tra una geometria rigida e storica e il quasi naturalismo degli oggetti sia una condizione di questo tipo di lavoro; naturalmente esso si ferma su alcune scelte che possono essere la prima impressione dei Sacri Monti e l’accentuato interesse per il teatro o per un modo disturbante di intendere la storia. Questo modo disturbante, o irritante, come è stato chiamato, ha sempre caratterizzato i miei progetti agli occhi di chi li doveva giudicare o semplicemente li vedeva. Oggi guardo copie dei miei progetti che sono, come dire?, bene accolte e questo provoca in me uno speciale inte-
resse, ben diverso dallo sdegno della famosa frase di Picasso che suona all’incirca «Si lavora per anni per fare una cosa, e viene un altro e la fa carina». Dovrei parlare della natura di questo interesse o giudizio, di quello che viene chiamato plagio o semplicemente copia della mia opera. Non me ne importa più di tanto ma certamente esso è in-
terno all’opera. Esistono, in architettura come nelle altre tecniche, dei ri-
sultati che vengono tramandati e che appartengono all’architettura; esiste una copia di ciò che è più personale, ma questo, se è fatto dai migliori è una prova di affetto ed è un'autentica testimonianza. In ogni caso, a dispetto dei critici, io giudico positivamente e con amore ogni imitazione
di ciò che possono chiamare la mia architettura e credo di non aver più nulla da dire su questo argomento. Non ho più nulla da dire perché esso è, per così dire, incontrollabile: il fenomeno della trasmissione del pensiero, di quella che chiamiamo esperienza, dello stesso mondo delle forme, non è legato a un programma o a una moda e forse nemmeno a una scuola. Per questo nella scuola ho sempre cercato di fornire degli elementi e in genere di indicare un tipo di lavoro sufficientemente chiaro e quasi riduttivo, non di forni-
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re dei modelli ma una tecnica da un lato e un invito a un allargamento del sapere dall’altro; analizzare i nessi che legano la formazione generale e personale e la tecnica mi è sempre parso meccanico così come vedere i nessi tra autobio-
grafia come storia civile che si sovrappongono e si confondono: forse vale una descrizione parallela come ho cercato di fare in questo libro. D’altra parte alcuni degli autori qui citati, siano essi architetti o no, siano Loos o Conrad, sono
entrati nella mia mente quasi possedendola e queste particolari affinità o scelte, ciò che Baudelaire chiamava «corre-
spondances» sono parte della propria formazione e del proprio modo di essere. Pensavo, in questo libro, di analizzare i miei progetti e i miei scritti, il mio lavoro, in una sequenza continua; com-
prendendoli, spiegandoli e nello stesso tempo riprogettandoli. Ma ancora ho visto come, scrivendo di tutto questo, si
crei un altro progetto che ha in sé qualcosa di imprevedibile e di imprevisto; ho detto che ho sempre amato le cose che si concludono e che ogni esperienza mi è sempre parsa conclusiva, il fare qualcosa che esaurisce per sempre la capacità creativa. Ma, come sempre, questa possibilità mi sfugge anche se la possibilità di una autobiografia o di una sistematizzazione della propria formazione poteva essere l’occasione decisiva. Altri ricordi, altri motivi sono emersi modificando il progetto originale che pure mi era molto caro. Ma anche qui amo un discreto disordine. Così è forse semplicemente la storia di un progetto e come ogni progetto deve in qualche modo concludersi anche solo per poter essere ripetuto con piccole variazioni o spostamenti, o anche per non essere assimilato a nuovi proget-
ti, nuovi luoghi e nuove tecniche, altre forme di vita che ‘ sempre intravediamo.
Finito di stampare nel mesediGiugno 1990 presso la Stamperia Artistica Nazionale, s. p. a., Torino
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La battaglia di Quaresima e Carnevale (a cura di M. Lecco)
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Seminari di Jacques Lacan (1956-1959), raccolti e redatti da J.-B. Pontalis G. Sutherland, Parafrasi della natura e altre corrispondenze Ch. Perelman, Il campo dell’argomentazione Jakobson, Ruwet e altri, Lingua Discorso Società P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria Lotman, Uspenskij e altri, Tesi sullo studio semiotico della cultura H. Minsterberg, Film. Il cinema muto nel 1916 L. Greco, Montale commenta Montale J. Laplanche - S. Leclaire, L’inconscio G. Genette, Introduzione all’architesto F. Rella, Miti e figure del moderno, 2° ed. L. Hjelmslev, Saggi di linguistica generale G. Mochi, Le «cose cattive» di Henry James J.L. Comolli, Tecnica e Ideologia M. Lavagetto (a cura di), Il testo moltiplicato. Lettura di una novella del «Decameron», 2% ed. H. Blumenberg, La caduta del protofilosofo M. Black, Modelli Archetipi Metafore Y.H. Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica G. Prince, Narratologia R. Simili (a cura di), La spiegazione storica M. Mancini, La gaia scienza dei trovatori M. Serres, Passaggio a Nord-Ovest P. Brooks, L’immaginazione melodrammatica J. Rivière, Proust e Freud D. Bolter, L’uomo di Turing. La cultura occidentale nell’età del computer M. Schapiro, Parole e immagini I. Svevo, Scritti su Joyce (a cura di G. Mazzacurati) A. Serpieri, Retorica e immaginario
Pubblicata per la prima volta in America nel 1981, tradotta poi in spagnolo, in giapponese, in tedesco, in francese, questa autobiografia di uno dei più grandi architetti contemporanei vede finalmente la luce nella sua lingua originale. Scritta nel corso di un decennio nella forma intermittente e sinuosa della sequenza di annotazioni, sembra rappresentare, per lo stesso autore, un percorso a ritroso rispetto all’Architettura della città, libro-trattato, scritto negli anni Sessanta, in cui Aldo Rossi definiva, con rigore «rinascimentale», i principi della morfologia urbana. In questo libro regnano invece, «in discreto disordine», ricordi di luoghi e cose abbandonate, frammenti di oggetti, forme, luci, gesti, sguardi, emergenze di letture,
citazioni di testi e autori amati. Questa «autobiografia dei progetti che si confonde con la storia personale» svela ciò che sta alle spalle di un’originale teoria dell’architettura: la poetica di un grande autore, il percorso della sua educazione formale, che procede dall’osservazione delle cose alla memoria delle cose. Ritornano, sospinti da un pensiero analogico e meditante, ostinato e ripetitivo, i concetti fondamentali intorno a cui si è sviluppata la ricerca di Aldo Rossi (lo spazio, il tempo, l'energia, la naturalezza, la morte) e, come
un’ossessione, i motivi che, quasi moduli elementari, ricorrono a contrassegnare le sue diverse opere: il mercato, il teatro, la villa, la torre, il silos, il timpano, la banderuola... «Se dovessi parlare oggi dell’architettura direi che è piuttosto un rito che una creatività», scrive Rossi in questa Autobiografia scientifica, «perché conosco pienamente l'amarezza e il conforto del rito».
Aldo Rossi è nato a Milano nel 1931. Dopo avere insegnato al Politecnico di Milano, al Politecnico di Zurigo, alla Yale, ad Harvard, insegna attualmente Composizione architettonica all’Università di Venezia. Ha partecipato a concorsi di architettura nazionali e internazionali, costruito importanti edi