Arte greca [2 ed.]
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Table of contents :
Arte greca
Colophon
Indice
Premessa
Capitolo 1 L’età protogeometrica e geometrica (secoli X-VIII a.C.) Claudia Lambrugo
1.1  Il Difficile passaggio tra II e I millennio a.C.
1.1.1 Crolli e turbolenze dell’età oscura
1.1.2 L’età di Omero e di Esiodo
1.2   Le prime manifestazioni dell’arte di costruire
1.2.1 Materiali effimeri per una sperimentazione vivace
1.2.2 Delimitare e recingere lo spazio del dio
1.2.3 Vivere nella città e nello spazio domestico
1.3  Un’arte florida e potentemente espressiva: la ceramica
1.3.1 Lo stile geometrico nelle ceramiche greche
1.3.2 L’identità culturale di Atene attraverso le sue ceramiche
Stile protogeometrico (1050-900 a.C.)
Stile geometrico antico (900-850 a.C.)
Stile geometrico medio (850-760/750 a.C.)
Stile geometrico tardo (760/750-700 a.C.)
L’arte del vasaio: argille e tornio
1.4  La piccola plastica
1.4.1 Tripodi e bronzetti per gli dei
Capitolo 2 L’età orientalizzante (secolo VII a.C.) Claudia Lambrugo
2.1  Un’età di profonde trasformazioni
2.1.1 L’epifania di un mondo irrazionale e mostruoso
2.1.2 Legislatori, tiranni e colonizzazione
2.2  Verso la pietrificazione del tempio
2.2.1 Gli sviluppi nel Peloponneso
2.2.2. ... e nella Ionia
2.3  La nascita della scultura monumentale
2.3.1 Dedalo e il rivelarsi dell’artista Delo, l’isola «invisibile», culla dei divini gemelli
2.3.2 Lo stile dedalico a Creta
2.3.3 . e nel Peloponneso
2.3.4 Le Cicladi: il kolossòs e il marmo
2.4 Oreficerie, bronzi e avori
2.5 Il tracciante luminoso delle ceramiche
2.5.1 La ricca Corinto e le sue ceramiche
Dai vasi geometrici ai vasi protocorinzi
Stile protocorinzio antico (720-690 a.C.)
Stile protocorinzio medio (690-650 a.C.)
Stile protocorinzio tardo (650-630 a.C.)
Sulle tracce di Damarato: appunti di commercio arcaico
2.5.2 Irrequietezza e crisi ad Atene
L’arte del vasaio: tecniche di decorazione
Capitolo 3 L’età arcaica (secolo VI a.C.) Marina Castoldi, paragrafi 3.3, 3.5-3.8 Claudia Lambrugo, paragrafi 3.1-3.2, 3.4, 3.9-3.10
3.1  Da Pisistrato alle Guerre Persiane: dalla tirannide alla democrazia
3.1.1 Atene: Solone, Pisistrato e la nascita della democrazia
3.1.2 Gli altri protagonisti
3.1.3 I Greci per la libertà
La «colmata persiana»
3.2 La definizione degli ordini architettonici
3.2.1 L’ordine dorico e «i colonnati, opere belle»
3.2.2 Il genio di Rhoikos e i grandi dipteri ionici
3.2.3 Le Cicladi e l’architettura di marmo
3.3  Scultura in pietra (600-530 a.C.), dal mondo degli eroi al mondo degli uomini
3.3.1 La bellezza del kouros, il dono più gradito agli dei
3.3.2 Statue votive sull’Acropoli di Atene
3.3.3 La plastica ionica, espressione di potere e di eleganza
3.3.4 La kore, ricca custode dell’eterna giovinezza
3.4  Architettura ed edilizia nell’Atene di età arcaica
3.4.1 L’Acropoli in età arcaica
I frontoncini
Sotto il Partenone di Pericle
L’Architettura H
Le fondazioni Dörpfeld
I Propilei arcaici
3.4.2 L’Agorà in età arcaica
3.4.3 L’Olympieion
3.5  La scultura ad Atene da Clistene alle Guerre Persiane (510-480 a.C.), gli anni della svolta
3.6  Le sculture del tempio di Atena Aphaia a Egina, fra tradizione arcaica e stile severo
3.7  Scultura e artigianato in bronzo e in avorio
3.7.1 Rhoikos e Theodoros e la fusione cava
3.7.2 Il vaso più grande
3.7.3 L’avorio e le statue crisoelefantine
3.8  Il santuario di Delfi
3.8.1 ... e i cicli decorativi dei tesori
La Grecia di Pausania, rinascita e nostalgia
3.9  Le Ceramiche corinzie: sviluppo e tramonto
Dai vasi protocorinzi ai vasi corinzi
Stile corinzio antico (620-590 a.C.)
Stile corinzio medio (590-570 a.C.)
Stile corinzio tardo (570-550 a.C.)
3.10  Le ceramiche attiche: il trionfo del mito e degli eroi
3.10.1 I precursori delle figure nere (prima metà del secolo VI a.C.)
Un capolavoro di pittura: il Cratere François
3.10.2 Pittori e vasai all’ombra dei Pisistratidi (seconda metà del secolo VI a.C.)
Lydos, la grazia di Amasis e la grandezza di Exechias
3.10.3 Una trovata rivoluzionaria: la tecnica a figure rosse
3.10.4 I Pionieri delle figure rosse (520-500 a.C.)
L’arte del vasaio: la fornace e la cottura
Tavole a colori
Capitolo 4 L’età dello stile severo (480-450 a. C.) Marina Castoldi
4.1  Una generazione di passaggio
4.2  Lo «stile severo»
4.3  L’architettura sacra: rinnovamento, armonia e rigore geometrico
4.4  Il santuario di Olimpia
4.4.1 ... e il ciclo figurativo del tempio di Zeus
4.5  La scultura, ponderazione e movimento
4.5.1 Alla ricerca di un nuovo equilibrio
4.5.2 Movimento e tensione
4.5.3 L’attimo sospeso di Mirone
4.5.4 Variazioni sul peplo
4.6  Ceramografia e pittura
4.6.1 La ceramografia tra tardoarcaismo e stile severo
4.6.2 La nascita della grande pittura
Capitolo 5 L’età classica (secolo V a.C.) Marina Castoldi
5.1  Il secolo di Pericle
5.1.1 Perché parliamo di età classica
5.2  Il grande cantiere dell’Acropoli
5.2.1 Uno scrigno di marmo per Atena
5.3  Urbanistica e architettura
5.3.1 Dall’urbanistica ortogonale all’urbanistica funzionale
5.3.2 Oltre il Partenone: gli scambi tra ordini architettonici e la conquista dello spazio interno
5.4  La plastica a tutto tondo e il rilievo
5.4.1 Fidia, l’interprete degli ideali di Pericle
5.4.2 Policleto e la sua scuola, alla ricerca della perfezione
5.4.3 I collaboratori di Fidia
5.4.4 Una gara tra scultori: le amazzoni di Efeso
5.4.5 Lo «stile ricco» dell’ultimo trentennio del secolo V
5.5  Dalla grande pittura alla ceramica, originalità e maniera
5.6  Il rilievo funerario: la morte come immagine dell’esistenza
Capitolo 6 L’età classica (secolo IV a.C.) Giorgio Bejor
6.1  L’età delle egemonie effimere
6.2 I nuovi cantieri nel Peloponneso
6.2.1 Nuove fortificazioni
6.2.2 Nuovi santuari: Epidauro
6.2.3 Nuovi edifici nei santuari: Tegea
6.3  I grandi scultori del secolo IV a.C.
6.3.1 Cefisodoto e Prassitele
6.3.2 Il «maestro del pathos»: Skopas
6.3.3 Altri scultori del Mausoleo: Timoteo e Leocare
6.4  Il Mausoleo di Alicarnasso
6.5  Le tradizioni dei grandi maestri
6.5.1 L’influsso di Policleto
6.5.2 L’influsso di Prassitele
6.5.3 L’influsso di Skopas
Capitolo 7 L’età di Alessandro (336-323 a.C.) Giorgio Bejor
7.1  Filippo II, re di Macedonia
7.2  L’altra Grecia: l’imporsi della Macedonia
7.2.1 Le necropoli della Grecia settentrionale e della Tracia
7.2.2 I tumuli di Verghina
7.2.3 I palazzi macedoni
7.2.4 Olinto e Priene: la casa greca nel secolo IV a.C.
7.3  Lisippo, tra classicità ed Ellenismo
7.3.1 L’Aghias di Delfi e il gruppo di Daoco
7.3.2 L’Apoxyomenos
7.3.3 L’Eracle Farnese
7.3.4 Il Socrate del Pompeion
7.4  Il ritratto di Alessandro
7.4.1 Il breve regno di Alessandro: un cenno storico
7.4.2 L’Alessandro a cavallo di Lisippo
7.4.3 L’Alessandro con la lancia
7.4.4 L’Alessandro dipinto da Apelle con la folgore di Zeus
7.4.5 La battaglia di Alessandro
7.4.6 Le nozze di Alessandro
7.4.7 La fortuna di Alessandro e i suoi ritratti postumi
7.5  La pittura della generazione di Alessandro
7.5.1 Apelle, il pittore che «superò tutti quelli che erano stati prima»
7.5.2 Il Perseo e Andromeda di Nicia
7.5.3 L’Achille a Sciro di Atenione di Maronea
7.5.4 Altri soggetti tratti dal mito: Achille e Briseide
7.5.5 Il Teseo liberatore
Capitolo 8 Il primo Ellenismo e l’arte di Pergamo (fine del secolo IV - metà del secolo II a.C.) Giorgio Bejor
8.1  L’età dei diadochi e degli epigoni
8.2  La scultura del primo Ellenismo
8.2.1 L’arte dei Diadochi
8.2.2 Il Sarcofago di Alessandro
8.2.3 Da Curupedio a Magnesia (281-189 a.C.): il secolo d’oro dell’Ellenismo
8.2.4 Le statue di Afrodite
8.2.5 Altre statue di culto
8.2.6 La Nike di Samotracia
8.3  L’architettura ellenistica fra tradizione e novità
8.3.1 La ripresa dell’ordine ionico: il tempio di Apollo a Didyma e il tempio di Artemide a Sardi
8.3.2 I nuovi sviluppi dell’ordine ionico
8.3.3 I nuovi complessi scenografici
8.3.4 Edifici pubblici e stoài
8.4  Una nuova capitale culturale: Pergamo
8.4.1 Un’antica cittadella
8.4.2 Il Donario Galata
8.4.3 Il gruppo del Pasquino
8.4.4 Il supplizio di Marsia
8.4.5 Il Toro Farnese
8.4.6 Il Principe delle Terme
8.5  L’Altare di Pergamo
8.5.1 L’Altare
8.5.2 Il grande fregio
8.5.3 Il fregio della Telefeia
Capitolo 9 Dal medio Ellenismo all’intervento di Roma (dopo la metà del secolo II a.C.) Giorgio Bejor
9.1  Il trionfo di Roma e la fine dell’Ellenismo
9.2  La tradizione del «Barocco pergameno»
9.2.1 Il «Barocco pergameno»
9.2.2 Il Piccolo Donario
9.2.3 Il Laocoonte
9.2.4 Il Torso del Belvedere
9.2.5 Sperlonga
9.3  La scultura del medio e tardo Ellenismo
9.3.1 Una pluralità di produzioni
9.3.2 Immagini di genere e realismo bozzettistico
9.3.3 Le Muse
9.3.4 Le composizioni erotiche e il mondo di Dioniso
9.3.5 Il mondo dei ginnasi
9.3.6 Le case di Delo
9.3.7 Arte greca per Roma
9.4  La pittura del medio e tardo Ellenismo
9.4.1 Ambulanti e fattucchiere
9.4.2 Soso
9.4.3 I cataloghi di animali
9.4.4 Il mosaico nilotico di Palestrina
9.4.5 La Tazza Farnese
9.4.6 Protagonista il paesaggio
Appendici
Il tempio greco
Le piante
Gli ordini architettonici
Il conflitto angolare
Le forme vascolari
Bibliografia
Gli autori

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Arte greca

2

Giorgio Bejor Marina Castoldi Claudia Lambrugo

Arte greca Dal decimo al primo secolo a.C.

3

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Indice Premessa Capitolo 1 L’età protogeometrica e geometrica (secoli X-VIII a.C.) Claudia Lambrugo 1.1 Il Difficile passaggio tra II e I millennio a.C. 1.1.1 Crolli e turbolenze dell’età oscura 1.1.2 L’età di Omero e di Esiodo 1.2 Le prime manifestazioni dell’arte di costruire 1.2.1 Materiali effimeri per una sperimentazione vivace 1.2.2 Delimitare e recingere lo spazio del dio 1.2.3 Vivere nella città e nello spazio domestico 1.3 Un’arte florida e potentemente espressiva: la ceramica 1.3.1 Lo stile geometrico nelle ceramiche greche 1.3.2 L’identità culturale di Atene attraverso le sue ceramiche Stile protogeometrico (1050-900 a.C.) Stile geometrico antico (900-850 a.C.) Stile geometrico medio (850-760/750 a.C.) Stile geometrico tardo (760/750-700 a.C.) L’arte del vasaio: argille e tornio 1.4 La piccola plastica 1.4.1 Tripodi e bronzetti per gli dei Capitolo 2 L’età orientalizzante (secolo VII a.C.) Claudia Lambrugo 2.1 Un’età di profonde trasformazioni 5

2.1.1 L’epifania di un mondo irrazionale e mostruoso 2.1.2 Legislatori, tiranni e colonizzazione 2.2 Verso la pietrificazione del tempio 2.2.1 Gli sviluppi nel Peloponneso 2.2.2. … e nella Ionia 2.3 La nascita della scultura monumentale 2.3.1 Dedalo e il rivelarsi dell’artista Delo, l’isola «invisibile», culla dei divini gemelli 2.3.2 Lo stile dedalico a Creta 2.3.3 …e nel Peloponneso 2.3.4 Le Cicladi: il kolossòs e il marmo 2.4 Oreficerie, bronzi e avori 2.5 Il tracciante luminoso delle ceramiche 2.5.1 La ricca Corinto e le sue ceramiche Dai vasi geometrici ai vasi protocorinzi Stile protocorinzio antico (720-690 a.C.) Stile protocorinzio medio (690-650 a.C.) Stile protocorinzio tardo (650-630 a.C.) Sulle tracce di Damarato: appunti di commercio arcaico 2.5.2 Irrequietezza e crisi ad Atene L’arte del vasaio: tecniche di decorazione Capitolo 3 L’età arcaica (secolo VI a.C.) Marina Castoldi, paragrafi 3.3, 3.5-3.8 Claudia Lambrugo, paragrafi 3.1-3.2, 3.4, 3.9-3.10 3.1 Da Pisistrato alle Guerre Persiane: dalla tirannide alla democrazia 3.1.1 Atene: Solone, Pisistrato e la nascita della democrazia 6

3.1.2 Gli altri protagonisti 3.1.3 I Greci per la libertà La «colmata persiana» 3.2 La definizione degli ordini architettonici 3.2.1 L’ordine dorico e «i colonnati, opere belle» 3.2.2 Il genio di Rhoikos e i grandi dipteri ionici 3.2.3 Le Cicladi e l’architettura di marmo 3.3 Scultura in pietra (600-530 a.C.), dal mondo degli eroi al mondo degli uomini 3.3.1 La bellezza del kouros, il dono più gradito agli dei 3.3.2 Statue votive sull’Acropoli di Atene 3.3.3 La plastica ionica, espressione di potere e di eleganza 3.3.4 La kore, ricca custode dell’eterna giovinezza 3.4 Architettura ed edilizia nell’Atene di età arcaica 3.4.1 L’Acropoli in età arcaica I frontoncini Sotto il Partenone di Pericle L’Architettura H Le fondazioni Dörpfeld I Propilei arcaici 3.4.2 L’Agorà in età arcaica 3.4.3 L’Olympieion 3.5 La scultura ad Atene da Clistene alle Guerre Persiane (510-480 a.C.), gli anni della svolta 3.6 Le sculture del tempio di Atena Aphaia a Egina, fra tradizione arcaica e stile severo 3.7 Scultura e artigianato in bronzo e in avorio 7

3.7.1 Rhoikos e Theodoros e la fusione cava 3.7.2 Il vaso più grande 3.7.3 L’avorio e le statue crisoelefantine 3.8 Il santuario di Delfi 3.8.1 … e i cicli decorativi dei tesori La Grecia di Pausania, rinascita e nostalgia 3.9 Le Ceramiche corinzie: sviluppo e tramonto Dai vasi protocorinzi ai vasi corinzi Stile corinzio antico (620-590 a.C.) Stile corinzio medio (590-570 a.C.) Stile corinzio tardo (570-550 a.C.) 3.10 Le ceramiche attiche: il trionfo del mito e degli eroi 3.10.1 I precursori delle figure nere (prima metà del secolo VI a.C.) Un capolavoro di pittura: il Cratere François 3.10.2 Pittori e vasai all’ombra dei Pisistratidi (seconda metà del secolo VI a.C.) Lydos, la grazia di Amasis e la grandezza di Exechias 3.10.3 Una trovata rivoluzionaria: la tecnica a figure rosse 3.10.4 I Pionieri delle figure rosse (520-500 a.C.) L’arte del vasaio: la fornace e la cottura Tavole a colori Capitolo 4 L’età dello stile severo (480-450 a. C.) Marina Castoldi 4.1 Una generazione di passaggio 4.2 Lo «stile severo» 8

4.3 L’architettura sacra: rinnovamento, armonia e rigore geometrico 4.4 Il santuario di Olimpia 4.4.1 … e il ciclo figurativo del tempio di Zeus 4.5 La scultura, ponderazione e movimento 4.5.1 Alla ricerca di un nuovo equilibrio 4.5.2 Movimento e tensione 4.5.3 L’attimo sospeso di Mirone 4.5.4 Variazioni sul peplo 4.6 Ceramografia e pittura 4.6.1 La ceramografia tra tardoarcaismo e stile severo 4.6.2 La nascita della grande pittura Capitolo 5 L’età classica (secolo V a.C.) Marina Castoldi 5.1 Il secolo di Pericle 5.1.1 Perché parliamo di età classica 5.2 Il grande cantiere dell’Acropoli 5.2.1 Uno scrigno di marmo per Atena 5.3 Urbanistica e architettura 5.3.1 Dall’urbanistica ortogonale all’urbanistica funzionale 5.3.2 Oltre il Partenone: gli scambi tra ordini architettonici e la conquista dello spazio interno 5.4 La plastica a tutto tondo e il rilievo 5.4.1 Fidia, l’interprete degli ideali di Pericle 5.4.2 Policleto e la sua scuola, alla ricerca della perfezione 5.4.3 I collaboratori di Fidia 9

5.4.4 Una gara tra scultori: le amazzoni di Efeso 5.4.5 Lo «stile ricco» dell’ultimo trentennio del secolo V 5.5 Dalla grande pittura alla ceramica, originalità e maniera 5.6 Il rilievo funerario: la morte come immagine dell’esistenza Capitolo 6 L’età classica (secolo IV a.C.) Giorgio Bejor 6.1 L’età delle egemonie effimere 6.2 I nuovi cantieri nel Peloponneso 6.2.1 Nuove fortificazioni 6.2.2 Nuovi santuari: Epidauro 6.2.3 Nuovi edifici nei santuari: Tegea 6.3 I grandi scultori del secolo IV a.C. 6.3.1 Cefisodoto e Prassitele 6.3.2 Il «maestro del pathos»: Skopas 6.3.3 Altri scultori del Mausoleo: Timoteo e Leocare 6.4 Il Mausoleo di Alicarnasso 6.5 Le tradizioni dei grandi maestri 6.5.1 L’influsso di Policleto 6.5.2 L’influsso di Prassitele 6.5.3 L’influsso di Skopas Capitolo 7 L’età di Alessandro (336-323 a.C.) Giorgio Bejor 7.1 Filippo II, re di Macedonia 7.2 L’altra Grecia: l’imporsi della Macedonia 10

7.2.1 Le necropoli della Grecia settentrionale e della Tracia 7.2.2 I tumuli di Verghina 7.2.3 I palazzi macedoni 7.2.4 Olinto e Priene: la casa greca nel secolo IV a.C. 7.3 Lisippo, tra classicità ed Ellenismo 7.3.1 L’Aghias di Delfi e il gruppo di Daoco 7.3.2 L’Apoxyomenos 7.3.3 L’Eracle Farnese 7.3.4 Il Socrate del Pompeion 7.4 Il ritratto di Alessandro 7.4.1 Il breve regno di Alessandro: un cenno storico 7.4.2 L’Alessandro a cavallo di Lisippo 7.4.3 L’Alessandro con la lancia 7.4.4 L’Alessandro dipinto da Apelle con la folgore di Zeus 7.4.5 La battaglia di Alessandro 7.4.6 Le nozze di Alessandro 7.4.7 La fortuna di Alessandro e i suoi ritratti postumi 7.5 La pittura della generazione di Alessandro 7.5.1 Apelle, il pittore che «superò tutti quelli che erano stati prima» 7.5.2 Il Perseo e Andromeda di Nicia 7.5.3 L’Achille a Sciro di Atenione di Maronea 7.5.4 Altri soggetti tratti dal mito: Achille e Briseide 7.5.5 Il Teseo liberatore 11

Capitolo 8 Il primo Ellenismo e l’arte di Pergamo (fine del secolo IV - metà del secolo II a.C.) Giorgio Bejor 8.1 L’età dei diadochi e degli epigoni 8.2 La scultura del primo Ellenismo 8.2.1 L’arte dei Diadochi 8.2.2 Il Sarcofago di Alessandro 8.2.3 Da Curupedio a Magnesia (281-189 a.C.): il secolo d’oro dell’Ellenismo 8.2.4 Le statue di Afrodite 8.2.5 Altre statue di culto 8.2.6 La Nike di Samotracia 8.3 L’architettura ellenistica fra tradizione e novità 8.3.1 La ripresa dell’ordine ionico: il tempio di Apollo a Didyma e il tempio di Artemide a Sardi 8.3.2 I nuovi sviluppi dell’ordine ionico 8.3.3 I nuovi complessi scenografici 8.3.4 Edifici pubblici e stoài 8.4 Una nuova capitale culturale: Pergamo 8.4.1 Un’antica cittadella 8.4.2 Il Donario Galata 8.4.3 Il gruppo del Pasquino 8.4.4 Il supplizio di Marsia 8.4.5 Il Toro Farnese 8.4.6 Il Principe delle Terme 8.5 L’Altare di Pergamo 8.5.1 L’Altare 8.5.2 Il grande fregio 8.5.3 Il fregio della Telefeia 12

Capitolo 9 Dal medio Ellenismo all’intervento di Roma (dopo la metà del secolo II a.C.) Giorgio Bejor 9.1 Il trionfo di Roma e la fine dell’Ellenismo 9.2 La tradizione del «Barocco pergameno» 9.2.1 Il «Barocco pergameno» 9.2.2 Il Piccolo Donario 9.2.3 Il Laocoonte 9.2.4 Il Torso del Belvedere 9.2.5 Sperlonga 9.3 La scultura del medio e tardo Ellenismo 9.3.1 Una pluralità di produzioni 9.3.2 Immagini di genere e realismo bozzettistico 9.3.3 Le Muse 9.3.4 Le composizioni erotiche e il mondo di Dioniso 9.3.5 Il mondo dei ginnasi 9.3.6 Le case di Delo 9.3.7 Arte greca per Roma 9.4 La pittura del medio e tardo Ellenismo 9.4.1 Ambulanti e fattucchiere 9.4.2 Soso 9.4.3 I cataloghi di animali 9.4.4 Il mosaico nilotico di Palestrina 9.4.5 La Tazza Farnese 9.4.6 Protagonista il paesaggio Appendici Il tempio greco Le piante 13

Gli ordini architettonici Il conflitto angolare Le forme vascolari Bibliografia Gli autori

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Premessa

L’ordinamento didattico dell’università, parallelamente a quello scolastico, ha conosciuto negli ultimi tempi dei forti cambiamenti. Sempre più spesso lo studente si accosta allo studio della storia dell’arte greca per la prima volta all’università, senza avere cioè delle specifiche basi storicoartistiche, a volte prescindendo anche dalla conoscenza delle lingue classiche e in larga misura della storia greca. Sono dunque cambiati il curriculum e la pregressa preparazione degli studenti ai quali si deve rivolgere un manuale: è proprio sulla spinta di tali nuove esigenze che è nata l’idea di questo volume. Si è cercato anzitutto di semplificare l’esposizione dei contenuti, perché siano accessibili anche a chi deve sostenere un esame di storia dell’arte greca senza poter contare su una precedente preparazione specifica. A questo scopo si è resa necessaria una selezione degli argomenti; sappiamo bene, infatti, che questa è una materia non solo molto vasta, considerata tradizionalmente propedeutica allo studio di tutte le altre materie storico-artistiche, ma anche in continua evoluzione per il progredire delle scoperte, degli scavi, degli studi e degli approcci di ricerca. D’altra parte, l’introduzione del sistema dei crediti formativi nell’ordinamento didattico universitario ha strettamente collegato l’ampiezza dei programmi d’esame con il tempo che si presume necessario alla loro preparazione: non era proponibile aumentare a dismisura le proporzioni del testo 15

di riferimento, che andavano anzi radicalmente ridimensionate. Il percorso proposto al lettore, frutto di decisioni difficili e di scelte sollecitate anche dalle esperienze di studio dei tre autori, è quindi un percorso che, seguendo l’ordine cronologico dei fenomeni e valorizzandone il più possibile la dimensione storica, si sforza di illustrare le caratteristiche culturali di ogni epoca attraverso le principali manifestazioni dell’esperienza artistica e artigianale, del sapere architettonico e urbanistico. Si è dovuto purtroppo rinunciare a molti monumenti, anche per i limiti imposti da un volume a stampa; ci si è tuttavia sforzati di riservare sempre un po’ di spazio alle opere di più recente scoperta (e per questo escluse dalla precedente manualistica), dal cratere di Eufonio, da poco rientrato in Italia da New York, ai bronzi restituiti dal mare, dai celeberrimi bronzi di Riace al satiro di Mazara, dall’efebo di Fano all’atleta della Croazia. Partendo dall’Età del Ferro (secoli X-VIII a.C.) si percorrono i linguaggi architettonici, le espressioni figurative, le manifestazioni artigianali della Grecia antica, seguendole fino al momento dell’incontro/scontro con Roma (secolo I a.C.). Il processo creativo, estremamente vivace e dinamico, è colto nei suoi episodi più significativi e formativi; per ogni epoca, dopo un sintetico quadro storico, si discutono le opere e i monumenti essenziali alla comprensione dei mutamenti nelle forme artistiche e nelle concezioni architettoniche del periodo; di ogni opera illustrata – tempio, scultura, vaso od ornamento – si fornisce sempre l’immagine, affinché risulti efficace l’immediato riscontro con quanto discusso nel testo. Se, per maggior chiarezza, a volte si è scelto di mantenere la suddivisione tradizionale tra architettura, scultura, ceramografia e pittura, i continui rimandi interni agevolano il confronto tra gli esiti 16

di una stessa tematica nei diversi generi artistici; alcuni approfondimenti tematici trovano infine spazio in apposite schede dedicate. In fondo al testo sono stati inseriti degli apparati didattici, riservati a un’immediata illustrazione dei principali termini architettonici e delle definizioni delle forme vascolari; la bibliografia, ragionata e tematica, è intesa a uso degli studenti o di quanti si accostano per la prima volta allo studio della storia dell’arte greca. La sintesi necessaria all’illustrazione dei contenuti – nondimeno accompagnata da rigore scientifico e completezza di informazione –, fa di questo manuale uno strumento di introduzione e avviamento allo studio della storia dell’arte greca in linea con i programmi ministeriali dei corsi di laurea triennale, ma anche una base di partenza per una più generale comprensione della nostra cultura. L’intero impianto, fondamentalmente storico, si sforza di presentare la storia dell’arte greca come uno strumento essenziale per capire le basi stesse della civiltà occidentale, che nel suo mondo d’immagini continua a trovare la propria identità. Questa nuova edizione, in particolare, oltre all’aggiornamento bibliografico d’uso, presenta approfondimenti e chiarimenti, la cui necessità è emersa dal quotidiano confronto con gli studenti a lezione e durante le prove d’esame. Abbiamo inoltre approfittato dell’occasione offerta dalla riedizione per illustrare meglio o introdurre alcune tematiche, frutto di ricerche archeologiche recenti e di nuovi importanti allestimenti museali come il nuovo Museo dell’Acropoli ad Atene o il Museo di Verghina. Giorgio Bejor, Marina Castoldi, Claudia Lambrugo Milano, maggio 2013

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Arte greca



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1 L’età protogeometrica e geometrica (secoli X-VIII a.C.) CLAUDIA LAMBRUGO

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1.1 Il difficile passaggio tra II e I millennio a.C. 1.1.1 Crolli e turbolenze dell’età oscura

Le dinamiche di passaggio tra II e I millennio a.C., ossia tra Età del Bronzo ed Età del Ferro, sono tuttora di difficile comprensione. La definizione di Dark Ages, «secoli bui», che nella sua accezione più estesa comprende il periodo tra la fine del secolo XI a.C. e la metà del secolo VIII a.C., risulta ai più insoddisfacente e impressionistica; numerose infatti sono ormai le scoperte archeologiche che vanno illuminando «il buio». D’altro canto è vero che storici, filologi, archeologi, antropologi non hanno ancora trovato un accordo nella valutazione delle continuità e delle rotture tra l’una e l’altra epoca. Alcuni elementi possono tuttavia considerarsi acquisiti.

Fig. 1.1

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Acropoli di Micene, Porta dei Leoni.

La documentazione archeologica mostra come, tra la fine del secolo XIII a.C. e la metà circa di quello successivo, il mondo miceneo, la cui evoluzione occupa l’intero arco del Bronzo Tardo o Tardo Elladico (dal secolo XVI fino appunto al secolo XIII a.C.), sia in declino; si assiste infatti alla distruzione dei palazzi di Micene (Fig. 1.1), Tirinto e Pilo nel Peloponneso, di Iolco in Tessaglia. Scompare con ciò un’efficiente organizzazione palaziale verticistica con tutta la sua complessa burocrazia; scompare l’uso della scrittura sillabica «Lineare B», fondamentale strumento di registrazione contabile e archivistica; scompaiono, infine, la grande architettura in pietra, gli splendidi affreschi che decoravano le pareti delle residenze minoiche e micenee e, con gli affreschi, i raffinati oggetti ricavati dall’oro, dalle pietre dure, dall’avorio. Laddove si colgono tracce di continuità insediativa dopo il collasso del mondo miceneo, appare evidente un diffuso impoverimento della cultura materiale, aggravato da un sostanziale analfabetismo. La distruzione dei palazzi può avere avuto le cause più varie: il quadro più attendibile è quello che accanto a disastri naturali, terremoti e incendi, chiama in causa anche fenomeni di ribellione sociale interna alle strutture palaziali, il cui funzionamento sarebbe cioè andato progressivamente destrutturandosi fino a un fatale indebolimento. La tradizione epica e storica greca ha qualcosa da raccontare in proposito; essa infatti colloca proprio alla fine del II millennio a.C. la famosa spedizione contro Troia; secondo Eratostene e Apollodoro questa ebbe luogo nel decennio 1194-1184 a.C. (ma vengono tramandate anche date diverse, più alte). L’epica eroica assegna agli Achei/Micenei la vittoria su Troia, ma la conquista della potente città che controllava i traffici sul Bosforo e sui Dardanelli non pare sia stata seguita da uno stabile 22

stanziamento greco nella Troade, bensì pagata a duro prezzo da tutti. I ritorni in patria (nostoi) degli eroi achei/micenei sono accompagnati da lutti, esili e dissidi: Odisseo, signore di Itaca, impiega quasi dieci anni a riabbracciare i suoi familiari e ciò avviene solo dopo aver perso tutti i compagni e fatto strage dei Proci superbi, che attentano da anni ai suoi diritti di signore di Itaca; Agamennone, capo della spedizione contro Troia, signore di Micene e di Argo, viene ucciso da Egisto, amante della moglie Clitemnestra che da tempo medita la vendetta per il tragico sacrificio di Ifigenia alla causa militare degli Achei. Quindi all’epoca della guerra di Troia (qualora naturalmente se ne accetti la veridicità storica), i regni micenei sono già in balia di profonde convulsioni; la tradizione eratostenica sulla spedizione contro Ilio coincide infatti perfettamente con il quadro archeologico che data il collasso dei palazzi micenei, come sopra indicato, tra la fine del secolo XIII a.C. e i primi decenni di quello successivo. La documentazione archeologica non è invece in grado di chiarire esattamente quale sia il legame tra la scomparsa del mondo miceneo e un altro fenomeno, la cosiddetta «invasione dorica», di cui resta salda memoria nelle fonti letterarie greche; queste forniscono una data precisa per l’evento, il 1104 a.C., ossia ottanta anni dopo la guerra di Troia. Di grande interesse è il quadro tracciato in proposito da Tucidide (I, 12): E infatti, anche dopo l’impresa troiana, la Grecia andava soggetta a continui movimenti migratori e di colonizzazione, sicché mancante di una pacifica stabilità, non progredì in potenza. Infatti, il ritorno dei principi da Troia, avvenuto così tardivo, introdusse molti mutamenti, mentre nelle città soprattutto fiammeggiavano sedizioni e rivolte, con la conseguenza che i profughi ne uscivano fondando nuovi centri di abitazione. In tal modo, gli attuali Beoti, nel sessantesimo anno dalla conquista di Troia (…) si stanziarono nella moderna Beozia (…); analogamente i Dori, nell’ottantesimo anno, occuparono il Peloponneso.

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È facile osservare come nella stessa tradizione antica questi nuovi popoli, che si insediano in Grecia a partire dalla fine del secolo XII a.C., non siano dipinti come distruttori, bensì come conquistatori; è quindi improbabile che abbiano avuto un ruolo nella distruzione dei palazzi micenei, ma è certo che scesero dai distretti montuosi della Grecia centro-settentrionale a riempire, più o meno gradualmente, il vuoto lasciato dall’esaurirsi della civiltà micenea, dando vita anche a forme di convivenza e di fusione con i popoli precedenti. L’arrivo dei Dori in Grecia si inserisce in un quadro ben più ampio e turbolento di spostamenti e migrazioni di popoli, che interessarono tra i secoli XIII-XII a.C. l’intero Oriente anatolico e siropalestinese, modificandone gli assetti politici e gli equilibri di potere. I testi egiziani alludono infatti più volte e con toni allarmati alla presenza di «Popoli del mare» che premono e svolgono attività di disturbo lungo le coste del Mediterraneo orientale; non è escluso che, mescolati ai Popoli del mare, chiunque essi fossero, si trovassero anche alcuni gruppi di Micenei in fuga dalle loro sedi e allo sbando sui mari. Un ulteriore fenomeno imponente di spostamento di genti, certamente collegato a sua volta con i dissesti politici e militari e con i vuoti di potere in Grecia e in Asia Minore allo scadere del II millennio a.C., si colloca, secondo la tradizione eratostenica, qualche decennio più tardi, intorno alla metà del secolo XI a.C. È la cosiddetta «colonizzazione ionica» (in realtà anche eolica e dorica), ossia il trasferimento e l’occupazione stabile delle coste occidentali della penisola anatolica da parte di gruppi di Greci, provenienti da aree diverse della Grecia continentale e per questo parlanti dialetti diversi. Tale colonizzazione non ha nulla a che vedere con le precedenti saltuarie frequentazioni micenee nel bacino orientale del Mediterraneo, alla ricerca 24

di società evolute e di interlocutori culturalmente validi; si tratta piuttosto di un fenomeno più sistematico, verosimilmente programmato, che nelle sue caratteristiche anticipa la successiva massiccia colonizzazione arcaica dell’Occidente mediterraneo. L’obiettivo consiste infatti nella ricerca di spazi vuoti per la creazione di nuovi insediamenti e nello sfruttamento di territori ampi e preferibilmente di facile conquista, da cui drenare le risorse necessarie, mancanti in patria. Questo non esclude naturalmente che la memoria della precedente mobilità micenea non abbia in qualche misura facilitato lo spostamento, la scelta delle rotte e dei luoghi in cui insediarsi. È comunque in questo momento che si definisce l’assetto territoriale della presenza greca sulle coste anatoliche, si precisano i limiti e l’estensione di quel mondo che, con un termine forse un po’ improprio, si è soliti chiamare «grecoorientale». Sfruttando il corridoio naturale delle Sporadi settentrionali, genti provenienti dalla Tessaglia e dalla Beozia si insediano quindi sull’isola di Lesbo e sull’antistante costa, dando origine alla dodecapoli eolica di cui fanno parte Smirne e Cuma (da non confondere con Cuma in Italia); quest’area geografica è detta Eolide; vi si parlano dialetti eolici, cui appartengono infatti sia il lesbico, sia il tessalico, sia il beotico. Coloni parlanti dialetti ionici, provenienti dall’Attica e dall’Eubea, attraverso le Cicladi, occupano invece il territorio a sud di Smirne, dove nasce la dodecapoli ionica con le potenti città di Colofone, Efeso, Priene, Mileto e le isole di Samo e Chio. Ancora più a sud è il distretto dorico, con Alicarnasso, Cnido, i tre centri sull’isola di Rodi, Ialiso, Camiro e Lindo, e l’isola di Coo. Dei tre, l’elemento più attivo e meglio organizzato risulterà presto essere quello ionico. 1.1.2 L’età di Omero e di Esiodo

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La ricerca archeologia ha serie difficoltà a riconoscere in specifici monumenti o manufatti dei secoli a cavallo tra la fine del II millennio e l’inizio del millennio successivo tratti che possano definirsi «dorici», che possano cioè aiutare a dare consistenza materiale e concreta ai quei Dori che avrebbero occupato la Grecia dopo i Micenei. Ciò non toglie tuttavia che gli scarni documenti archeologici attestino per quest’epoca cruciale l’occupazione di aree diverse da quelle interessate precedentemente dai palazzi micenei, a più stretto contatto con i territori coltivabili e da parte di genti organizzate in maniera meno gerarchica e verticistica, piuttosto in articolazioni di tipo tribale e territoriale. Tra II e I millennio a.C. un mutamento molto significativo, di cui i Dori non furono necessariamente né gli inventori, né i soli fruitori, riguarda l’uso dei metalli. Il passaggio dal bronzo al ferro, nella fabbricazione di armi e di utensili, fu forse anche accelerato dalla crisi dei rapporti con il Vicino Oriente, da cui per lo più giungevano i rifornimenti di stagno, necessario alla produzione di una buona lega di bronzo. Il cambiamento produsse inevitabili e sostanziali trasformazioni di ordine economico e sociopolitico: mutarono le aree di reperimento della materia prima, quindi le linee di scambio e di traffico; nuove competenze tecniche metallurgiche si richiesero agli artigiani; novità, infine, furono introdotte nella tattica e nell’organizzazione militare dall’impiego diffuso di armi in ferro. Cambiamenti culturali altrettanto incisivi si registrano nel rito funebre, con il diffuso passaggio dall’inumazione alla cremazione, ampiamente attestata al principio dell’Età del Ferro; e ancora nella tipologia delle fibule, nella forma e nell’ornato dei vasi. È proprio dalle caratteristiche formali di quest’ultimo, così fortemente incentrate sull’articolazione e 26

la raffinata variazione di motivi geometrici, che l’arte greca dei secoli XI-VIII a.C. trae nome, con una suddivisione evolutiva interna che dallo stile ceramico viene estesa per comodità a comprendere tutte le manifestazioni artigianali e artistiche del periodo. Si è soliti così distinguere uno stile/periodo «geometrico» vero e proprio, che interessa i secoli IX-VIII a.C., da un precedente stile/periodo «protogeometrico» tra la metà circa del secolo XI e l’intero secolo X a.C. Il dissolversi delle forme di potere micenee, di tipo monarchico e palaziale, conduce alla nascita di una realtà sociale e istituzionale nuova, la cui comprensione è fondamentale per tutto il successivo sviluppo della storia greca: la polis, in greco «città». Se è vero che i Micenei consegnano alle genti venute dopo di loro l’idea di un’acropoli, come centro del potere del re, è vero anche che la polis di età storica è una realtà ben più complessa: l’acropoli, centro politico e sacrale, non è isolata, vive bensì dello stretto legame che la collega all’asty, la città abitata ai piedi dell’acropoli, e alla chora, il territorio da cui vengono drenate le risorse; e l’equilibrio tra città e territorio non è solo umano e ambientale, ma anche sociale, economico e politico. La polis dei secoli XI-VIII a.C. è una città aristocratica di matrice oplitico-contadina; è guidata cioè da un gruppo di aristoi (nobili, aristocratici), la cui ricchezza e le cui prerogative, nell’esercizio di funzioni politiche, giuridiche, militari e sacrali, derivano dalla proprietà terriera e dalla possibilità di procurarsi per questa via un’armatura in ferro e dei cavalli. Possiamo riconoscere alcuni tratti tipici di questi aristocratici negli eroi/re (basileis) dell’epos omerico, formatosi verosimilmente nel corso del secolo VIII a.C. L’epica omerica infatti, pretendendo di rappresentare con voluta arcaizzazione l’ormai scomparsa civiltà micenea, lascia in realtà trapelare 27

anche molte informazioni sulla società cui Omero e il suo pubblico appartengono. Appare quindi chiaro che l’origine del potere dei basileis omerici consiste proprio nel valore militare, nell’esercizio della forza e della virtù (aretè), nella continua manifestazione di un’eccellenza, che viene affidata al pubblico riconoscimento, dal quale solo dipende il rinnovarsi dell’autorità aristocratica. Gli ideali etici dei Greci dell’età di Omero possono quindi facilmente iscriversi tra quelli tipici della cosiddetta «civiltà dell’onore e della vergogna», poiché come scrive Eric Dodds «il bene supremo dell’uomo omerico non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, sta nel possesso della timè, la pubblica stima». Nella Grecia di Omero le attività economiche giudicate più adatte agli uomini di rango elevato sono certamente l’agricoltura e l’allevamento; ma vi è anche chi non disdegni all’occorrenza, pure nella stretta cerchia degli aristocratici, di riempire con «debita merce» (Esiodo) la nave veloce alla ricerca di nuovi mercati e nuovi sbocchi, praticando un commercio che spesso sconfina nella pirateria (Fig. 1.2). Esemplare, in proposito, è la vicenda familiare di Esiodo, poeta greco vissuto forse qualche decennio dopo la formazione dell’epos omerico. Ne Le opere e i giorni (vv. 631-640), rivolgendosi al fratello Perse, cui snocciola una serie di consigli sulla navigazione, Esiodo ricorda come il padre avesse navigato «bramoso di vita agiata», lasciando la città di Cuma in Eolide per sfuggire «la cattiva povertà che Zeus dà agli uomini»; la decisione di stabilirsi a Ascra in Beozia non si rivela tuttavia fortunata, stando almeno a quanto dice Esiodo, che così definisce l’oscuro borgo di Ascra, ai piedi del Monte Elicona, dove egli vive: «Ascra, trista d’inverno, penosa d’estate e non mai piacevole».

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Fig. 1.2 Cratere geometrico (GT), da Tebe. Toronto, Royal Ontario Museum.

Fig. 1.3 Coppa di Nestore: coppa rodia (TG), dalla necropoli di Pithecusa. Lacco Ameno (Ischia), Museo Archeologico di Villa Arbusto.

V’è da credere che la mobilità dei Greci sui mari fosse già in questi secoli molto elevata e avesse quali interlocutori privilegiati quei mercanti sirolevantini, ma soprattutto fenici, dai quali i Greci appresero presto anche l’uso dell’alfabeto; le prime iscrizioni greche a noi pervenute risalgono infatti al secolo VIII a.C. È significativo che uno dei più antichi documenti di scrittura alfabetica greca, la 29

famosa «coppa di Nestore» (Fig. 1.3), sia un vaso tardogeometrico (seconda metà del secolo VIII a.C.) prodotto a Rodi, ma esportato in Occidente e rinvenuto in una tomba dell’emporio di Pithecusa (Ischia); nell’iscrizione, inneggiante con vivacità e freschezza all’ambiente conviviale e ai connessi piaceri del vino e dell’amore, l’allusione all’eroe omerico Nestore ribadisce la natura dei valori etici e morali dell’élite aristocratica di età geometrica, anche quando si trovi a vivere lontana dalla madrepatria. Come il padre di Esiodo, ma si spera con maggiore fortuna, molti altri Greci a partire dai decenni centrali del secolo VIII a.C. videro nel mare, e quindi nel trasferimento altrove, la soluzione ai loro problemi, che fossero problemi di fame, di mancanza quindi di adeguate risorse e sufficienti spazi, o inquietudini sociali e insofferenze nei confronti della classe aristocratica. Ne nacque un massiccio fenomeno di spostamento di gruppi organizzati e strutturati sia verso occidente, verso cioè le promettenti terre dell’Italia meridionale e della Sicilia; sia verso nord nell’Egeo settentrionale; sia verso est lungo le coste del Mar Nero; sia infine verso sud in Egitto e in Cirenaica. Questo fenomeno, che chiamiamo «colonizzazione arcaica», si protrae abbondantemente anche nei secoli VII-VI a.C.; vi torneremo dunque nei capitoli successivi. I centri coloniali dell’Occidente greco parteciperanno all’espressione culturale e artistica della madrepatria in maniera autonoma, anche se allineata ai grandi temi e ai grandi problemi dell’arte greca. L’arte della Magna Grecia e della Sicilia costituisce ormai da tempo una disciplina a sé stante; essa esula dagli obiettivi di questo testo, ma per comprendere alcuni fenomeni artistici della Grecia propria ci troveremo talvolta a guardare alle colonie occidentali.

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1.2 Le prime manifestazioni dell’arte di costruire 1.2.1 Materiali effimeri per una sperimentazione vivace

Le scoperte degli ultimi decenni hanno aggiornato con particolare incisività il quadro architettonico noto per i secoli XI-VIII a.C., costringendoci ad ampliare di molto lo spettro cronologico e spaziale, e soprattutto ad arricchire la gamma tipologica del modo di costruire dei Greci. Per un’oggettiva valutazione delle attuali conoscenze e in prospettiva di un loro futuro accrescimento, si dovranno tenere nella giusta considerazione le difficoltà di rinvenimento e l’intrinseca povertà delle testimonianze relative a questi primi secoli, conseguenza delle modeste dimensioni degli edifici e del carattere effimero dei materiali impiegati, oltre che – elemento da non trascurare – della dispersione delle competenze tecniche acquisite dai Micenei. Le strutture di età protogeometrica e geometrica sono infatti costruite in materiali per lo più deperibili, su muri e zoccoli di fondazione in pietre di piccolo taglio e ciottoli di fiume, con alzati di mattoni crudi (impastati con argilla e paglia ed essiccati al sole prima dell’uso), inseriti in telai lignei di pali e travi leggere, con tetti straminei e pavimenti in semplice battuto di terra. È interessante notare come la progressiva crescita dimensionale delle strutture e il conseguente affinamento delle competenze professionali richieste non riguardino tanto il confezionamento di buoni mattoni crudi o la preparazione di impasti idonei agli intonaci e alle coperture, quanto piuttosto proprio l’individuazione, la valutazione e l’assemblaggio degli elementi lignei; al loro perfetto incastro, infatti, sono anzitutto demandate le caratteristiche 31

meccaniche della struttura portante dell’edificio: resistenza ed elasticità al tempo stesso. Si è osservato in proposito (Gullini) che il termine architetto, in greco architekton, per quanto documentato a partire da un momento successivo all’età geometrica, significa appunto capo dei carpentieri (tektones), ossia capo di coloro che sanno contessere il legname nella struttura progettata. È quindi probabile che le costruzioni navali abbiano giocato un ruolo decisivo in un processo di sperimentazione continua, dal quale osservare e dedurre norme di geometria, di fisica, di meccanica, con audaci e felici applicazioni nella realizzazione degli edifici. Bisogna inoltre considerare che, diversamente dalle grandi realtà politiche orientali ed egiziane che potevano contare su una sterminata mano d’opera servile, nessuna delle comunità greche di età protogeometrica e geometrica era in grado di mettere in campo altrettanta forza lavoro; la risoluzione del problema dell’energia meccanica non poteva dunque che derivare da idonei presupposti tecnologici e organizzativi d’esecuzione, frutto di una serrata dialettica tra esigenze, risorse e modi di applicazione. Tra gli aggiornamenti delle scoperte negli ultimi decenni v’è da segnalare come la transizione tra la cultura micenea e quella protogeometrica, a lungo percepita come rottura, conosca in realtà anche significativi episodi di continuità, sia insediativa sia cultuale. Esempi del primo tipo sono stati rintracciati nell’odierna Nichoria in Messenia e ad Asine in Argolide; del secondo tipo a Kalapodi nell’antica Focide, dove è stato rinvenuto un santuario frequentato senza evidenti cesure dall’Età del Bronzo fino alla piena età classica; un quadro simile è restituito dal santuario di Apollo Maleatas presso Epidauro e dai recenti scavi nel santuario di Hermes e Afrodite a Kato Syme Viannou sulle pendici

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meridionali del Monte Dikte (Creta), attivo ininterrottamente dal secolo XVI a.C. fino al secolo IV d.C. 1.2.2 Delimitare e recingere lo spazio del dio

Tra i tipi architettonici greci il solo edificio sacro si caratterizza fin dal principio per proprietà di grandezza, scelta accurata di materiale durevole e pregiato e ricchezza ornamentale. Al contrario, le abitazioni risponderanno sempre a criteri di ordine pratico, mentre le strutture deputate allo svolgimento di attività di comune interesse sorgeranno solo molto più tardi, bastando allo scopo in principio semplici aree all’aperto. Pur in assenza di un’armonica soluzione di forme architettoniche, è quindi possibile cogliere, già nella vivace sperimentazione di questi secoli, il primitivo evolversi di due differenti concezioni e invenzioni progettuali a destinazione sacra, corrispondenti l’una con l’area dorica della Grecia continentale, l’altra con l’area ionica della grecità orientale. Nel primo caso le soluzioni architettoniche adottate paiono svilupparsi da due fondamentali tipologie planimetriche, il megaron miceneo e l’oikos. Il primo è l’edificio a vano rettangolare allungato con terminazione ad abside ovvero ortogonale; esso deriva la sua forma dalla sala micenea, eventualmente divisa in due/tre navate da file di colonne/pilastri, all’interno della quale l’anax (signore) si mostrava ed era possibile sacrificare e consumare pasti vicino al trono e al focolare. Per questa sua antica funzione di alto significato cultuale e rappresentativo è facile comprendere perché i Greci di area dorica abbiano progressivamente riconosciuto nel vano rettangolare allungato, il megaron appunto, l’ambiente più adatto a delimitare e recingere lo spazio della divinità, a fungere quindi da casa del dio e del suo agalma (immagine di culto),

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dove la comunità compie sacrifici e consuma pasti in comune. Il tipo dell’oikos, ossia ambiente quadrangolare di modeste dimensioni, a sua volta absidato o normale, comune tipologia abitativa (si veda par. 1.2.3), viene invece adottato per edifici templari più piccoli (naiskoi). Di straordinaria importanza per l’evoluzione delle primitive forme dell’edificio di culto è il cosiddetto Heroon, rinvenuto nei primi anni Ottanta del secolo scorso a Lefkandi (Eubea), in località Toumba, nell’ambito della necropoli più antica del vicino abitato di Xeropolis (Fig. 1.4). Si tratta di un edificio monumentale, datato alla prima metà del secolo X a.C., di pianta rettangolare allungata (circa 45/50 m), terminante con un’abside e accessibile dal lato corto tramite un’anticamera; l’interno è scandito in una serie di ambienti accostati l’uno all’altro e comunicanti fra loro. Fu costruito su una fondazione in pietre, con un alzato in mattoni crudi e un tetto a doppio spiovente in canne e paglia; il peso del tetto era sostenuto sia da una fila di pali lungo l’asse centrale, sia da un recinto di oltre sessanta pali tutto intorno alla struttura. L’edificio, eretto forse come abitazione di un re locale, ne divenne poi la sepoltura; all’interno infatti fu scoperta una tomba, scavata nel pavimento e suddivisa in due comparti; l’uno conteneva le ceneri, avvolte in un drappo e deposte in un’anfora, di un guerriero, sepolto con spada e punta di lancia in ferro, e i resti di una donna con ricchi ornamenti in oro, bronzo e ferro; l’altro le ossa di quattro cavalli con i relativi finimenti. Dopo la deposizione l’Heroon fu chiuso; rampe furono addossate ai muri a formare una sorta di tumulo. Il rito e la struttura ricordano la descrizione omerica dei solenni funerali in onore di Patroclo e avvallano l’ipotesi di un edificio monumentale nel quale alla funzione funebre si accosta e sovrappone quella di un culto di matrice eroica. 34

Nella soluzione architettonica del recinto di pali intorno alla struttura vi è chi abbia individuato un elemento precursore della peristasi, ossia di quella columnarum circum aedem dispositio che secondo Vitruvio (III, 3, 9) era la caratteristica più prestigiosa dei templi antichi.

Fig. 1.4 Lefkandi, pianta e ricostruzione dell’Heroon.

Di indubbia funzione religiosa, secondo gli scavatori, è invece il Daphnephorion nella vicina Eretria (Fig. 1.5 a,b). Qui, se la ricostruzione proposta è esatta, abbiamo un edificio absidato, datato alla prima metà del secolo VIII a.C., lungo circa 10 m (I), le cui pareti, sostenute internamente ed esternamente da pali disposti a tenaglia, erano fatte di rami di alloro, albero sacro ad Apollo, a significare una destinazione a edificio di culto. Verso la fine del secolo VIII a.C. a questa primitiva 35

struttura viene affiancata un’altra costruzione, egualmente absidata, ma lunga fino a 100 piedi, dunque un hekatompedon (II). La continuità del culto di Apollo nei secoli VII e VI a.C. è documentata infine dalla successiva edificazione di un tempio periptero (III). Un recente ripensamento dei dati ha invece rialzato su base stratigrafica la cronologia dei megara nel santuario di Apollo a Thermos in Etolia (Fig. 1.6), a lungo considerati capostipiti dell’architettura templare greca arcaica, ma attualmente datati entrambi a età micenea. Resta certamente interessante la lunga sequenza di edifici che dall’Età del Bronzo scende fino all’età arcaica. Per l’evoluzione del concetto di peristasi e per la sua precoce comparsa, in dissonanza con vecchie tesi, sono decisivi i dati emersi a Mazaraki presso Patrasso. Qui, in una zona montagnosa a circa 1300 m di altezza, è stata portata alla luce una struttura della seconda metà del secolo VIII a.C., di forma allungata e biabsidata, dedicata ad Artemide Aontia («che soffia»), così chiamata per i forti venti che colpiscono la zona; il perimetro dell’edificio pare interamente circondato da pilastri/colonne in legno (Fig. 1.7). Accanto a questi edifici che, per grandezza, maggiore impegno economico e più evoluta competenza tecnica, sono da considerarsi rari ed episodici, la forma templare più consueta e diffusa, almeno fino al secolo VII a.C., dovette essere quella del più modesto oikos, con eventuale vestibolo ad ante, una sorta cioè di piccolo «tempio di villaggio» (Gruben), il naiskos, per lo più in legno e argilla, esteticamente meno pretenzioso e strutturalmente meno elaborato. Ne ricostruiamo l’aspetto in maniera apprezzabile grazie a decine di modellini di naiskoi in terracotta e in pietra, rinvenuti per lo più come doni votivi nei santuari stessi. Questi oggetti offrono un importante complemento alla valutazione storica dell’arte di costruire dei Greci di età 36

geometrica, consentendo osservazioni sugli alzati e sulle decorazione policrome, altrimenti difficilmente percepibili. Le terrecotte votive dell’area sacra di Perachora di fronte a Corinto restituiscono, ad esempio, modelli di naiskoi sia rettangolari che absidati, con tetto a falde diritte o ricurve; il modellino dall’Heraion di Argo (Fig. 1.8), degli ultimi decenni del secolo VIII a.C., non solo anticipa la concezione di un atrio tra sostegni o doppi sostegni, ma suggerisce anche la presenza di uno spazio vuoto formato dalle falde del tetto, che sarà successivamente occupato dal frontone.

Fig. 1.5 a,b Eretria, pianta e ricostruzione del Daphnephorion (edificio centrale) intorno alla metà del secolo VIII a.C. (tav. 2)

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Fig. 1.6 Thermos, I, II, III piante dei megara; IV, tempio periptero di fine secolo VII a.C.

Fig. 1.7 Mazaraki (Patrasso), pianta del tempio.

In area dorica, quindi, il tempio, in quanto casa della divinità, ossia ambiente preposto a custodire degnamente l’agalma del dio, ricalca significativamente nelle sue più antiche forme il modello della casa, sia nel tipo più altisonante del megaron rettangolare allungato, sia in quello più modesto dell’oikos quadrangolare. Quando, con la crescita demografica della comunità cultuale, sacrificio e pasto comuni dovranno essere spostati fuori dell’edificio sacro intorno all’altare, il tempio, affrancato da ogni funzione pratica, potrà adeguarsi nel suo sviluppo esclusivamente a leggi di ordine formale.

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Fig. 1.8 Modello fittile di naiskos, dall’Heraion di Argo. Atene, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 1)

Soluzioni architettoniche differenti, ma altrettanto efficaci, sono proposte dalle colonie della Ionia microasiatica, al centro di stimolanti scambi culturali con l’area anatolica e il Vicino Oriente. Qui i più antichi edifici sacri dell’Artemision di Efeso e dell’Heraion di Samo mostrano che l’idea generatrice è quella di un recinto monumentalizzato che abbraccia uno spazio scoperto per la teofania del dio; il recinto racchiude cioè la statua di culto, esposta sotto un baldacchino o una struttura di protezione, ma non ne costituisce la casa. La più antica testimonianza dell’applicazione di questa concezione architettonica è il periptero geometrico di 8 × 4 colonne dell’Artemision di Efeso (Fig. 1.9) che, con una peristasi lignea, avvolge il recinto nel quale viene eretto un tabernacolo a protezione dell’agalma (I). L’area risulta frequentata a scopo sacro fin dal secolo X a.C., dall’epoca 39

cioè dello stanziamento alla foce del fiume Kaystros di un gruppo di Ioni, i quali avrebbero con il tempo assimilato alla greca Artemide un precedente culto anatolico della dea madre, signora della natura; all’aspetto notturno di questa divinità era forse legato anche l’orientamento del tempio, non canonico, verso ovest. Il primitivo recinto assume nell’Heraion di Samo le forme di un edificio rettangolare molto allungato con copertura piana (secondo altri invece con erto tetto in paglia). Sull’isola, nei pressi del delta dell’Imbrasos, data infatti entro la prima metà del secolo VIII a.C. un hekatompedon rettan golare di mattoni crudi su muri in piccole pietre squadrate (Fig. 1.10), il cui tetto era sostenuto da una fila centrale di pilastri lignei in funzione di un architrave corrente nel senso della lunghezza (I). Al tempio si accedeva da un lato corto aperto, tristilo in antis (con tre colonne tra le ante); la statua di culto della dea, verosimilmente in legno, era collocata sul fondo, su una base leggermente fuori asse, perché la fila di pali centrali non ne disturbasse la vista. La presenza di una peristasi lignea, più volte messa in discussione, troverebbe, se ammessa, un interessante confronto nel citato periptero geometrico di Efeso.

Fig. 1.9 Efeso, pianta dell’Artemision. I) edificio del secolo VIII a.C. II) tempio diptero di Creso.

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Fig. 1.10 Samo, pianta dell’Heraion. I) Hekatompedon del secolo VIII a.C. II) Hekatompedon del secolo VII a.C.

Pur in assenza di un coerente sviluppo architettonico, quale sarà possibile cogliere solo a partire dal secolo successivo, si può concludere che fin dal secolo VIII a.C. si afferma presso i Greci l’esigenza di delimitare un’area nella quale la presenza della divinità si espliciti concretamente tramite la statua di culto. È interessante notare in proposito che anche in Omero esiste già l’idea di uno spazio chiuso come tempio. In risposta a tale esigenza si colgono in questi secoli i segni premonitori di una ricerca, che diverrà sistematica, di forme idonee e confacenti all’edificio di culto, una serie di esperimenti architettonici dunque verso la formulazione di un’idea che è stata definita (Gruben) «una delle idee più efficaci e grandiose dell’architettura sacra», ossia il tempio greco. Tali esperimenti assumono precocemente i tratti di due differenti logiche progettuali, costruttive ed estetiche, ed è interessante notare come queste prendano forma nelle aree geografiche più dinamiche del mondo greco, quelle cioè più intensamente coinvolte negli spostamenti coloniali verso occidente e nei traffici marittimi sulle rotte del 41

Mediterraneo centro-orientale: da un lato le località che gravitano intorno all’Eubea e sul Golfo di Corinto e dall’altro i centri ionici di Samo ed Efeso. È in questo stesso periodo che vanno nel frattempo definendosi e formandosi anche le storiche aree santuariali dei Greci. S’è già scritto dell’Heraion di Samo e dell’Artemision di Efeso, il cui successivo gigantesco diptero arcaico assurgerà agli onori di una delle sette meraviglie del mondo antico. A Olimpia le prime offerte votive, consistenti in figurine di terracotta e di bronzo, si datano a partire dal secolo X a.C.; a Delfi la storia di una sequenza mitica di templi, raccontata nell’Inno a Apollo, ha probabilità di avere un fondamento storico in edifici dei secoli VIII e VII a.C., a noi per ora ignoti. 1.2.3 Vivere nella città e nello spazio domestico

Un ambito per il quale si può contare su una maggiore disponibilità di dati rispetto a qualche decennio fa è quello dell’architettura domestica, dall’analisi della quale si deducono preziose informazioni sul modus vivendi delle comunità greche di età geometrica. I criteri in base ai quali infatti lo spazio destinato a un nucleo familiare viene concepito e costruito rappresentano solitamente un buon compromesso tra considerazioni di tipo pratico (reperibilità di materiale poco costoso, caratteristiche morfologiche e ambientali del luogo) e fattori di natura culturale e sociale. La tipica casa di età geometrica consiste in un ambiente quadrangolare monovano (oikos), privo cioè di suddivisioni strutturali interne, di estensione limitata, pari solitamente a circa 15/20 mq. La scarsa disponibilità di spazio si spiega sia pensando a una famiglia mononucleare, sia ipotizzando lo spostamento di parte delle attività all’esterno della casa, in spazi complementari a essa, sistemati con tettoie e pergolati,

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adibiti a orti, cortili e aree di produzione, normalmente recinti con siepi o palizzate (Fig. 1.11).

Fig. 1.11 Incoronata di Metaponto, ipotesi ricostruttiva dell’oikos E (disegno di E. Guzzetti e C. Lambrugo).

A famiglie di tipo allargato, con rami collaterali e ampie parentele, proprie del ceto aristocratico, appartengono invece abitazioni più considerevoli, a pianta rettangolare absidata, con o senza ingresso ad ante, e fila di pali/colonne destinate a sorreggere il tetto lungo l’asse longitudinale. Il modello planimetrico è qui evidentemente derivato da quello del megaron miceneo.

Fig. 1.12 Smirne, veduta ricostruttiva dell’antica città.

In entrambi i casi la tecnica di costruzione è alquanto 43

semplice e lascia tracce effimere sul terreno: quando la casa non poggi direttamente su un banco roccioso scavato, essa si regge su muretti di ciottoli e pietre di piccolo taglio con alzati straminei o in mattoni crudi, e pavimenti in battuto di terra. Gli unici arredi fissi consistono spesso in banchine di pietra, che fungono da focolare, da piano di lavoro o di alloggiamento di grossi contenitori per derrate alimentari. In molti abitati – valgano per tutti gli esempi di Zagora sull’isola di Andro, di Lefkandi in Eubea, di Emporio a Chio –, sono attestati entrambi i modelli abitativi, in relazione quindi con un’articolata struttura sociale. I livelli geometrici dell’antica Smirne, fondata intorno al 1000 a.C. e localizzata nell’odierno sobborgo di Bayrakli, hanno restituito, ad esempio, case di forma ovale e rettangolare, con fondamenta in pietra e alzati in legno e mattoni crudi. Ben presto la città, di forma vagamente circolare, risulta affollata di centinaia e centinaia di queste abitazioni, addossate l’una all’altra e contenute entro uno spesso muro costruito con massi irregolari, una delle più antiche cinte murarie del mondo greco. Verso la fine del secolo VIII a.C. l’affollatissima Smirne subisce un incendio devastante, in seguito al quale la città viene ricostruita su un impianto più regolare, con case affacciate a strade tracciate in senso nord-sud; un’area della città viene adibita allora a spazio pubblico (agorà) e su un’altura è edificato un tempio (Fig. 1.12).

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Fig. 1.13 Emporio, pianta dell’abitato.

Fig. 1.14 Emporio, megaron dell’acropoli.

Fig. 1.15

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Emporio, ipotesi ricostruttiva di una casa.

A Emporio (Chio), l’abitato del secolo VIII a.C. si installa sul pendio di un colle, con quasi 100 m di dislivello tra la città alta e quella bassa (Fig. 1.13). L’acropoli, di forma ovale, è cinta da mura e accessibile da una stradina che risale il colle dal lato sud-occidentale; di fronte all’ingresso dell’acropoli, addossato al muro occidentale, sul punto più elevato dell’insediamento, da cui si gode un’ottima vista sul mare e sul porto, è un grande ambiente rettangolare a megaron, aperto a sud, con una fila interna di sostegni, evidentemente la residenza di un capo (Fig. 1.14). Fuori dal muro dell’acropoli, lungo il pendio, si dispone su terrazze la città bassa, con strade ripide e serpeggianti e dislivelli superati da scale; le abitazioni consistono per lo più in oikoi quadrangolari, costruiti su muri di blocchetti di pietra oppure appoggiati direttamente sul banco roccioso; all’interno sono banchine di pietra e focolari (Fig. 1.15). Emporio e Smirne rispondono anche ai due principali criteri di primitivo insediamento. Nel primo caso la forma dell’abitato si articola in case sparse, senza cioè un orientamento preciso, occupando bensì liberamente il territorio a disposizione e spesso adattandosi alle sue caratteristiche morfologiche; il secondo caso prevede invece agglomerati di abitazioni a strettissimo contatto tra loro, raggiungibili mediante viuzze tortuose e spazi liberi angusti, oppure disposte talvolta in file ordinate lungo le vie di percorrenza, come attestato proprio dall’antica Smirne nella sua ricostruzione della fine del secolo VIII a.C. Strutture regolari di più ampia spazialità sono note, per quest’epoca così antica, solo nelle aree coloniali, dove erano possibili per la presenza di ampi territori di nuova occupazione (si veda par. 5.3.1). Un’organizzazione urbanistica di tipo regolare è documentata, ad esempio, a Megara Iblea (Sicilia) fin dalla fondazione della colonia nei 46

decenni finali del secolo VIII a.C. È qui evidente infatti come i coloni al loro arrivo suddividano il territorio in lotti uguali, all’interno dei quali vengono edificate case quadrangolari con una superficie abitativa non superiore a 15/20 mq e uno spiazzo o giardino con funzione di orto pari a circa 100/120 mq (Fig. 1.16).

Fig. 1.16 Megara Iblea, pianta e assonometria delle abitazioni.

Fig. 1.17 Egina, esempio di case a pastàs.

Nei decenni successivi il moltiplicarsi delle esigenze e delle attività espletate negli spazi chiusi della casa e la loro più equa distribuzione in ambienti a ciò appositamente 47

preposti porterà ad abitazioni di maggiore estensione, concepite tuttavia sulla base del semplice accostamento di più ambienti monovano, l’uno accanto all’altro, spesso non comunicanti tra loro, bensì tramite un corridoio trasversale cinto da muro, detto pastàs (Fig. 1.17); la casa a pastàs, la cui tipologia sopravvive fino alla piena età classica, si completa a sua volta con un’area all’aperto adibita a cortile, recinta non più da semplici siepi o steccati, bensì da muri che chiudono l’abitazione su quattro lati.

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1.3 Un’arte florida e potentemente espressiva: la ceramica 1.3.1 Lo stile geometrico nelle ceramiche greche

I più recenti indirizzi nello studio dei manufatti greci, in ceramica, in bronzo, in avorio e in qualsiasi altro genere di materiale, mirano non solo all’individuazione e all’analisi degli aspetti formali, ma anche alla valutazione del significato storico-culturale dell’oggetto in relazione alla committenza e al contesto socio-politico che lo produce e lo consuma. Così per comprendere a pieno un recipiente ceramico, non basterà leggere lo stile della decorazione, sarà bensì necessario interrogarsi anche sulla forma del vaso e sul significato di questa in relazione, sia con il soggetto figurato e la sua posizione sul recipiente, sia con il contesto di uso e/o di rinvenimento. S’è già chiarito come il termine «geometrico» indichi anzitutto lo stile e la natura delle decorazioni dipinte sui vasi prodotti in Grecia tra i secoli XI e VIII a.C. La datazione delle ceramiche protogeometriche e geometriche si basa sulla successione dei prodotti rinvenuti nella necropoli ateniese del Dipylon che, insieme alla documentazione restituita da altri centri dell’Attica, continua a costituire la sequenza più completa; poiché tuttavia per il periodo precedente i decenni centrali del secolo VIII a.C. la tradizione storica greca sulla fondazione delle colonie in Occidente non offre alcun aggancio di cronologia assoluta, la suddivisione stilistica delle ceramiche in Protogeometrico (PG), Geometrico Antico (GA), Geometrico Medio (GM), Geometrico Tardo (GT) si presenta più come un criterio evolutivo interno che come una successione storicamente accertabile.

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Fig. 1.18 Kotyle corinzia (GT). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 1.19 Anfora geometrica, da Thera. Copenhagen, Museo Nazionale.

Nondimeno la scansione cronologico-stilistica delle ceramiche, elaborata ormai qualche decennio fa, viene 50

tuttora considerata un valido e utile punto di riferimento; se ne indicano pertanto di seguito gli estremi: Stile protogeometrico (PG): 1050-900 a.C. Stile geometrico antico (GA): 900-850 a.C. Stile geometrico medio (GM): 850-760/750 a.C. Stile geometrico tardo (GT): 760/750-700 a.C. Nei primi secoli dell’Età del Ferro Atene domina culturalmente incontrastata; le sue ceramiche sono infatti esportate nel Golfo Saronico e Corinzio, sulle Cicladi a Delo, Sifno, Thera, nel Dodecaneso a Rodi e Coo. All’evoluzione dei vasi attici si allineano, con maggiore o minore ritardo, anche le altre fabbriche, sicché la cronologia sopra indicata può ritenersi sostanzialmente valida anche per le produzioni ceramiche non attiche. Oinochoai, coppe e kotylai di serrata decorazione geometrica sono infatti fabbricate a Corinto e inviate nel corso del secolo VIII a.C. lungo le rotte occidentali, soprattutto in Magna Grecia e Sicilia. Sulla superficie del vaso si dispongono, con levità e rigore allo stesso tempo, composizioni di filetti e fasce; lo spazio tra le anse viene sottolineato da pannelli metopali nei quali le scene figurate compaiono però raramente (Fig. 1.18). La ceramica geometrica corinzia manca infatti completamente della vivacità narrativa che caratterizza i vasi attici. Sulle Cicladi e in Eubea le produzioni geometriche, sviluppatesi soprattutto nel Geometrico Tardo, mostrano una predilezione per ornati curvilinei e figure animali (Fig. 1.19); in Beozia si percepisce forte l’influsso delle botteghe attiche (Fig. 1.2). 1.3.2 L’identità culturale di Atene attraverso le sue ceramiche

Stile protogeometrico (1050-900 a.C.) 51

Atene sembra essere stata la prima delle città greche a riguadagnare, dopo il collasso miceneo, un forte profilo culturale, esprimendolo anche attraverso le ceramiche. L’esplorazione delle necropoli lungo il fiume Eridano e nel quartiere del Ceramico consentono, grazie al rinvenimento di provini, porzioni malcotte e forme sperimentali, di localizzare nell’area centrale della successiva Agorà di Atene impianti produttivi ceramici attivi fin dall’età protogeometrica (Fig. 1.20). Questo settore della città, significativamente a breve distanza dal fiume Eridano, che probabilmente forniva le argille e l’acqua necessaria alle botteghe (ergasteria), era all’epoca intensamente occupato anche da abitazioni e da necropoli.

Fig. 1.20 Pianta di Atene.

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Fig. 1.21 Pisside Attica (PG). Londra, British Museum.

Fig. 1.22 Esempio di vaso attico protogeometrico.

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Senza alcuna cesura netta con la stanca facies ceramica submicenea, si assiste intorno alla metà del secolo XI a.C. alla comparsa, ad Atene e nell’Attica, di vasi meglio proporzionati e più vivacemente rifiniti; si tratta per lo più di forme legate alla conservazione dei liquidi (acqua e vino) e al loro consumo a banchetto: anfore a collo distinto, oinochoai, crateri e skyphoi (Fig. 1.21). Accanto a motivi di tradizione micenea come la linea ondulata, l’ornato si compone di larghe bande, ritmi di linee sottili, triangoli campiti a reticolo, losanghe, scacchiere e, soprattutto, semicerchi e cerchi concentrici, dipinti con un pennello multiplo montato su compasso (Fig. 1.22). Gli elementi non sono distribuiti casualmente sulla superficie del vaso, bensì studiati in relazione con la tettonica del recipiente, a sottolinearne i punti di maggiore visibilità e di snodo, come la spalla e il diametro massimo; la campitura a vernice nera è invece destinata alle porzioni di scarsa visibilità, quali il collo e la parte inferiore del corpo del vaso declinante verso il piede. Stile geometrico antico (900-850 a.C.) Il Geometrico Antico è ad Atene un periodo di sviluppo rapido e impetuoso che si accompagna alla ripresa dei contatti con il Vicino Oriente; ricompaiono gradualmente l’oro, lavorato nella tecnica della filigrana e della granulazione, e materiali pregiati quali l’avorio. Il repertorio morfologico dei vasi vede ancora, tra le forme maggiormente prodotte, le anfore, i larghi crateri, gli skyphoi e le pissidi globulari, con una più netta destinazione delle prime, le anfore, usate per raccogliere e trasportare l’acqua, ai corredi delle tombe femminili; dei secondi, i crateri, necessari a mescolare acqua e vino, a quelli delle tombe maschili. La decorazione, di ritmo e ispirazione ancora pienamente geometrici, si dispone preferibilmente per fregi orizzontali 54

sovrapposti a scandire la dinamica del vaso, con un netto prevalere degli elementi rettilinei e obliqui (zig-zag, meandri, clessidre) e un progressivo scomparire delle forme tracciate a compasso. Persistono le ampie superfici semplicemente campite di nero (Fig. 1.23). Stile geometrico medio (850-760/750 a.C.) Il passaggio tra Geometrico Antico e Geometrico Medio non è naturalmente determinabile con certezza, ma è abbastanza evidente che intorno alla metà del secolo IX a.C., mentre l’ordito geometrico va poco a poco estendendosi all’intera superficie del vaso, compaiono per la prima volta, ma ancora sporadicamente, raffigurazioni di animali (Fig. 1.24) e, intorno alla fine del secolo IX a.C., di uomini, resi a silhouette. I laboratori ceramici di Atene e di altre località dell’Attica, con un improvviso salto di qualità, danno prova di piena maturità tettonica e decorativa. I vasi, soprattutto quelli destinati a fungere da segnacolo sulla tomba (sema), assumono proporzioni monumentali; si affermano i crateri su alto piede, con vasca molto larga e capiente, per un’altezza media intorno a 50 cm, mentre le anfore superano talvolta 80 cm. In questa fase conosce particolare fortuna anche la pisside a scatola bassa e schiacciata, il cui coperchio è spesso dotato di un’impugnatura plastica conformata a cavallini fittili (Fig. 1.25).

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Fig. 1.23 Anfora attica (GA). Atene, Museo dell’Agorà.

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Fig. 1.24 Pisside attica con cervidi (GM). Parigi, Museo del Louvre.

Fig. 1.25 Pisside attica con cavallini plastici sul coperchio (GM). Atene, Museo del Ceramico.

Fig. 1.26 Corredo funebre femminile (GM). Atene, Museo dell’Agorà.

Ai vasi destinati a comporre i corredi funebri, ma tanto più a quelli commissionati per essere monumentali semata funerari sulle tombe, spetta il compito di esprimere l’orgoglio del defunto e della sua famiglia, di evocarne i valori etici e di appartenenza sociale. Così i cavallini fittili sulle pissidi richiamano la matrice oplitico-contadina 57

dell’aristocrazia di età geometrica. Interessante è anche il corredo di una tomba femminile, databile intorno alla metà del secolo IX a.C., rinvenuta nell’Agorà di Atene, e contenente, oltre alle consuete ceramiche, anche un modellino fittile di granaio a simboleggiare la natura agricola della ricchezza del personaggio; la ricca signora fu sepolta insieme a una parure di gioielli in avorio, faïence, pasta vitrea, oro, ferro e bronzo (Fig. 1.26). Straordinario è lo skyphos di Eleusi (Fig. 1.27 a,b), datato a una fase piuttosto avanzata del Geometrico Medio: sulla vasca sono dipinte due scene che, stando all’attuale documentazione, sono tra i più antichi esempi di composizione figurata su ceramica. Su uno dei due lati (Fig. 1.27a) una nave ha appena toccato terra e un uccello vi si posa; qualcuno dei marinai ancora si attarda sui banchi, mentre due individui, armati di tutto punto, sono già scesi a terra e un terzo con arco e frecce partecipa a sua volta all’attacco piratesco. Un convulso scontro è infatti raffigurato sull’altro lato della coppa (Fig. 1.27b): mentre alcuni arcieri incalzano, due caduti giacciono colpiti a terra. Si tratta evidentemente della storia di un ricco personaggio greco che partecipò a spedizioni d’oltremare e ad attacchi pirateschi; per queste sue gesta era conosciuto e di queste si vantava a banchetto. Stile geometrico tardo (760/750-700 a.C.) Nel Geometrico Tardo i corredi funebri attestano per Atene e per l’Attica una sensibile crescita di popolazione, di ricchezza e di importazione di prodotti di lusso stranieri. Mentre la decorazione geometrica si espande a occupare tutta la superficie del vaso, si moltiplicano anche le scene figurate, contenute entro pannelli metopali, oppure disposte per fregi sovrapposti. Accanto a episodi funebri, di esposizione (prothesis) oppure di trasporto (ekphorà) del cadavere, compaiono scene di carattere narrativo, spesso 58

chiaramente ispirate agli eroi dell’Iliade e dell’Odissea; in esse, tuttavia, non è sempre agevole individuare con certezza episodi del mito, per la mancanza di iscrizioni identificanti i personaggi o di chiari e definiti attributi.

Fig. 1.27 a,b Skyphos attico con fregi figurati (GM). Eleusi, Museo.

La costruzione della figura umana, così come viene dipinta sulle ceramiche, è tutt’altro che semplificata e schematica; essa osserva al contrario una disciplina stretta e serrata. I pittori scelgono infatti di enfatizzare opportunamente alcuni elementi del corpo umano: nell’uomo, che viene generalmente inteso nudo, le spalle sono ampie, la vita stretta, le cosce forti, evidenziate le articolazioni del gomito e del ginocchio; braccia muscolose impugnano lance, spade e scudi; le donne sono invece dotate di seni e tuniche lunghe. È stato notato (Snell) che i 59

Greci dei primi secoli non paiono concepire il corpo come unità, bensì come pluralità di elementi interagenti, da assemblare quindi di volta in volta secondo un criterio rigoroso: tale concezione sembra riguardare la figura umana sia nell’arte sia nella lingua se, come affermato, anche Omero conosce e usa nomi specifici e distinti per indicare le singole membra del corpo umano. La complessità del repertorio figurativo, esplosa con potenza nel Geometrico Tardo, consente di individuare ora diversi gruppi stilistici, botteghe e pittori, attivi ad Atene negli ultimi decenni del secolo VIII a.C. L’esercizio di attribuzione è certamente facilitato dall’incrementato uso della decorazione figurata e dal ricorrere di taluni dettagli e criteri di composizione che si riconoscono specifici, ora di una mano pittorica, ora di un’altra. Poiché tuttavia quasi nessuno dei pittori o dei ceramisti attivi in questo periodo si firma (non si dimentichi che l’alfabetizzazione è documentata proprio a partire dal secolo VIII a.C.), non si conoscono i nomi reali degli artefici; essi vengono dunque indicati con nomi convenzionali.

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Fig. 1.28a Anfora attica con scena di prothesis (GT). Atene, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 3a)

Fig. 1.28b Dettaglio della scena di prothesis. (tav. 3b)

Intorno al 760 a.C. inizia la sua attività la Bottega del Dipylon, che trae nome dalla necropoli ateniese presso l’omonima porta; da qui provengono molti dei vasi attribuiti all’officina. Essa domina incontrastata per circa una 61

generazione, specializzandosi nella produzione e decorazione di grandi vasi funerari. Lo stile della bottega e del suo più dotato maestro, il Pittore del Dipylon, è splendidamente esemplificato dall’anfora n. 804 (Fig. 1.28 a,b). Il vaso, alto 1,55 m, è esempio di mirabile equilibrio tra la tessitura geometrica, tanto fitta da non lasciare requie allo sguardo, e il pannello figurato con scena di prothesis, collocato sul diametro massimo dell’anfora. Sul letto funebre è steso il defunto, per alcuni una donna in tunica, per altri un uomo avvolto in un telo, come narrato per Patroclo nell’Iliade (XVIII, vv. 350-353). Un fanciullo si aggrappa con gesto di dolore alla testata del letto; ai piedi due figure inginocchiate e due sedute, portando le mani al capo, sono impegnate con gesti iterati nel lamento rituale, cui si unisce il coro dei presenti, disposti ai lati del feretro. Leggermente più recente è il cratere n. 990 (Fig. 1.29), alto 1,23 m, con episodio di ekphorà di sapore fortemente omerico. Il corpo del defunto è trasportato su un carro funebre trainato da una coppia di cavalli; al compianto, di tono decisamente meno privato che nell’anfora n. 804, partecipa qui l’intera comunità aristocratica, con gli opliti e i loro carri, in allusione forse allo svolgersi di giochi funebri. Il rigore e l’equilibrio che caratterizzano i prodotti della Bottega del Dipylon non sono tuttavia destinati a durare a lungo; in una fase più avanzata del Geometrico Tardo l’armonia si stempera in un progressivo dissolversi della ferrea adesione agli schemi geometrici: il segno del pennello diviene meno preciso; la figura umana e animale, sempre dipinta a silhouette, assume un contorno più pesante e meno netto; le scene, in un’accresciuta dinamicità e abbondanza di dettagli, risultano più confuse. Anche la tettonica dei vasi è meno stringente; alcuni recipienti, di chiara destinazione rituale, adottano proporzioni poco pratiche e si ornano di

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elementi plastici, soprattutto serpenti, applicati sul labbro, sulla spalla o sulle anse (Fig. 1.30). Allo scadere del secolo VIII a.C., l’esaurirsi dello stile geometrico ad Atene e nell’Attica sembra procedere di pari passo con indizi di visibile declino sociale e culturale. Le ceramiche attiche divengono meno competitive sul mercato e più sensibili a influssi esterni, come quelli della coeva ceramica geometrica corinzia, che mostra al contrario un’accresciuta creatività proprio negli ultimi decenni del secolo VIII a.C., quando intorno al 720 a.C. ha inizio la produzione delle ceramiche protocorinzie (si veda par. 2.5.1).

Fig. 1.29 Cratere attico con scena di ekphorà (GT). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 1.30 Anfora attica con serpenti plastici (GT). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

L’arte del vasaio: argille e tornio La materia prima necessaria alla fabbricazione di un vaso è anzitutto l’argilla. Un pinax (tavoletta, placchetta) fittile corinzio del principio del secolo VI a.C. mostra alcuni cavatori di argilla all’opera in una miniera a cielo aperto (Fig. 1.31). Dalla natura geologica delle varie zone dipende il colore delle argille, visibile chiaramente solo a cottura terminata. Nelle ceramiche greche si osservano varie tonalità di argilla: quella corinzia è molto chiara e depurata, di toni verdi e giallognoli; quella attica contiene un’alta percentuale di ferro che le conferisce una colorazione vistosamente rossa; dall’Asia Minore provengono argille color cuoio, contenenti mica. A una prima fase di pulitura della massa argillosa, seguono operazioni di decantazione: l’argilla viene cioè sciolta in acqua in grandi vasche, così le particelle più pesanti si depositano sul fondo, mentre i corpi estranei più leggeri, come rami e foglie, salgono in superficie. All’argilla depurata si mescolano sabbia e chamotte (cocci di argilla cotti e macinati), onde ottenere una sgrassatura necessaria a migliorare la cottura. L’impasto è quindi reso malleabile calpestandolo e

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manipolandolo, fino a raggiungere la giusta duttilità. I vasi più fini e di qualità più elevata vengono quindi plasmati al tornio, già ampiamente noto ai Micenei; le ceramiche più grossolane possono al contrario essere lavorate a mano. Come indicano numerose raffigurazioni ceramiche (Fig. 1.32), il tornio, composto di un disco montato su un perno, viene azionato con le mani direttamente dal vasaio o da un suo aiutante. Ottenuto un abbozzo del vaso, questo viene posto a essiccare fino all’indurimento a cuoio; ha dunque inizio la rifinitura con l’applicazione delle anse prodotte separatamente, e talvolta anche di piedi e orli elaborati. Concluse le fasi di lavorazione al tornio, i vasi sono lisciati accuratamente con un cencio in pelle, prima di accogliere la decorazione pittorica.

Fig. 1.31 Pinax corinzio raffigurante l’estrazione dell’argilla, da Penteskouphia. Berlino, Staatliche Museen.

Fig. 1.32 Pinax corinzio raffigurante la lavorazione al tornio, da Penteskouphia. Parigi, Museo del Louvre.

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1.4 La piccola plastica 1.4.1 Tripodi e bronzetti per gli dei

Dopo il collasso della civiltà micenea e la dispersione delle sue competenze tecniche, la storia della scultura greca iniziava tradizionalmente con la microplastica in bronzo, terracotta e avorio del secolo VIII a.C. Ora invece si può risalire indietro fino almeno all’ultimo quarto del secolo X a.C. con il cervo fittile (h 26 cm) da una tomba protogeometrica di Atene (Fig. 1.33), decorato evidentemente dalla mano di un pittore di vasi. Leggermente più tardo, della fase di passaggio tra Protogeometrico e Geometrico Antico, è il centauro di Lefkandi (Fig. 1.34), alto circa 36 cm, rinvenuto spezzato e diviso tra due tombe nella necropoli di Toumba, già citata per il monumentale Heroon; alcuni elementi, sia tecnici sia iconografici, mostrano legami con la produzione cipriota a testimoniare la ripresa dei contatti con il Vicino Oriente a partire dal Geometrico Antico. Un’incisione sul ginocchio sinistro ha sollevato l’ipotesi che nel centauro si possa già riconoscere Chirone, ferito da Eracle con una freccia; la rappresentazione di un personaggio mitologico a tutto tondo, se accettata, resterebbe in ogni caso un unicum per questa fase così antica della plastica greca. I principi costruttivi della figura in età geometrica, principi certamente conformati a criteri di essenzialità, ma non di banalizzazione e semplificazione, meglio si colgono soprattutto a partire dal secolo VIII a.C., quando uomini e animali compaiono anche dipinti sulle ceramiche; è allora che, insieme alla crescita della popolazione e al moltiplicarsi dei commerci e dei contatti per mare, si assiste anche alla definizione delle grandi aree santuariali, di importanza sia 66

locale, come Atene e Samo, sia già panellenica come Delfi e Olimpia. Il mercato degli oggetti votivi destinati a questi santuari costituisce un campo di grande sperimentazione e creatività per gli artigiani del metallo, dell’argilla e dell’avorio. Risalgono già al secolo IX a.C., ma divengono più numerosi nella prima metà del secolo VIII a.C., in corrispondenza cioè con l’istituzione dei giochi olimpici nel 776 a.C., i grandi tripodi bronzei (Fig. 1.35), rinvenuti in tutti i principali santuari della Grecia. Da un utensile creato alla fine dell’epoca micenea come contenitore per bollire le carni, si evolve ora un ricco e monumentale dono votivo offerto agli dei; i manici ad anello, decorati con motivi incisi, a cordone, a treccia, a spirale, sono spesso ornati di appliques di figurine e teste in bronzo a fusione piena (Fig. 1.36; per i metodi di fusione si veda par. 3.7.1).

Fig. 1.33

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Cervo fittile, dal Dipylon di Atene. Atene, Museo del Ceramico.

Fig. 1.34 Centauro fittile, da Lefkandi. Calcide, Museo. (tav. 4)

Fig. 1.35

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Tripode in bronzo, da Olimpia. Olimpia, Museo Archeologico.

Fig. 1.36 Ansa ad anello di calderone con cavallino bronzeo applicato, da Olimpia. Olimpia, Museo Archeologico.

Come applicazioni alle anse dei tripodi o come elementi isolati, ricca è anche la serie dei cavallini in bronzo (Fig. 1.37), un importante status symbol aristocratico, provenienti sia da contesti sacri che funerari, e molto vicini ai cavalli fittili delle pissidi medio e tardogeometriche (Fig. 1.25); per il principio di costruzione additiva delle masse muscolari, i cavallini ricordano quelli dipinti sulle ceramiche coeve. Altrettanto numerose sono le rappresentazioni a tutto tondo di tori, cervi, arieti, volatili, offerte votive o sostituti di sacrifici, destinati verosimilmente a essere esposti (appesi?) nei santuari. Per le raffigurazioni umane in bronzo, anch’esse generalmente di piccole dimensioni (raramente superano i 20 cm), non è possibile comprendere se intendano ritrarre il dio a cui il bronzetto è offerto oppure il dedicante; i soggetti più frequenti sono comunque aurighi, opliti, atleti e suonatori (Fig. 1.38). L’auriga da Olimpia (Fig. 1.39), della 69

metà circa del secolo VIII a.C., decorava forse il manico di un tripode; la figura, alta poco più di 14 cm, con capigliatura a calotta pesante, ha glutei brevi, fianchi stretti e una struttura geometrica compatta e vigorosa, costruita secondo principi di rigida frontalità e rigorosa assialità; immediato è il richiamo alle figure maschili sui vasi del Geometrico Tardo (Figg. 1.28 e 1.29).

Fig. 1.37 Cavallino in bronzo. Berlino, Staatliche Museen.

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Fig. 1.38 Bronzetto raffigurante un conducente di carro e parte del carro. Olimpia, Museo dei Giochi Olimpici.

Fig. 1.39 Bronzetto di auriga, da Olimpia. Olimpia, Museo Archeologico.

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Fig. 1.40 Bronzetto raffigurante una centauromachia. New York, Metropolitan Museum.

Fig. 1.41 Bronzetto di guerriero, dall’Acropoli di Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 1.42 Statuetta femminile in avorio, dal Dypilon. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Nel gruppo di New York con lotta di un eroe con il centauro (Fig. 1.40) (secondo alcuni rappresenterebbe invece Pholos che accoglie Eracle nella sua dimora in Arcadia, oppure Zeus in lotta contro un titano) siamo di fronte a una composizione più articolata, i cui elementi e le cui formule restano sì quelle usuali, ma assemblate con maggiore organicità e coerenza, e con una libertà che prelude agli sviluppi successivi. Una nuova dinamicità e una potenza espressiva fino a quel momento sconosciute ha infatti il bronzetto dell’Acropoli (Fig. 1.41); esso raffigura un guerriero con lancia nella destra sollevata e scudo nella sinistra, sia che si tratti di un personaggio generico, sia che in esso si debba riconoscere, come qualcuno suggerisce, Ares o Apollo. La rigida concezione geometrica è qui entrata in crisi per una nuova fluidità di forme e solidità di impianto: le gambe sono divaricate, il braccio che lancia non è piegato in senso normale al torso, come nel citato auriga di Olimpia, bensì obliquamente, come a cercare nuova profondità, mentre il 73

braccio sinistro è lievemente flesso verso l’interno; solchi appena percettibili alludono all’articolazione delle spalle e delle anche. Il volto non è più rigidamente frontale, bensì di poco sollevato e voltato verso sinistra. Il bronzetto si data agli ultimi decenni del secolo VIII a.C. Sulla base dei rinvenimenti in aree sacre locali è stato di recente condotto un tentativo di attribuzione dei bronzetti figurati a distinti luoghi di produzione; si sono profilati così ruoli importanti, nella creazione di questa microplastica, per Atene, Argo, Corinto, Sparta e altri centri del Peloponneso e della Grecia centrale. Corinto, in particolare, è già intorno alla metà del secolo VIII a.C. una comunità molto fiorente e industriosa, con un governo aristocratico guidato dalla dinastia dei Bacchiadi, fautori di due importanti fondazioni coloniali a Siracusa e Corcira (Corfù) intorno al 734 a.C. Ma la microplastica di età geometrica non si esprime solo col bronzo. Accanto agli avori di fabbrica microasiatica, importati dal principio del Geometrico Medio, si segnala nel Dipylon ateniese un complesso di almeno cinque statuette in avorio, simili, ma non del tutto identiche, raffiguranti personaggi femminili nudi con le braccia stese lungo il corpo. Il motivo a meandro che decora il polos (copricapo) a calotta della figura meglio conservata (h 24 cm) e più raffinata (Fig. 1.42) depone a favore di una lavorazione ad Atene. La posa ieratica, di eco microasiatica, e la presenza del polos ne fanno quasi certamente una dea. La statuetta si data a una fase avanzata della seconda metà del secolo VIII a.C. Non è facile trovare coerenza di espressione e sviluppo nella piccola plastica geometrica, dalla quale emerge anzitutto l’irrequietezza formale degli artigiani; è tuttavia possibile sottolineare come l’opera figurata, quasi mai a grandezza naturale e spesso concepita come elemento da applicare (quindi non a sé stante), sia generalmente costruita 74

a partire da un solido nucleo, i cui contorni vengono ritagliati dallo spazio circonstante e le cui masse vengono assemblate. Chiarito ciò, è possibile cogliere i segni di una progressiva maturazione nella concezione figurativa di età geometrica: nella prima metà del secolo VIII a.C. la struttura plastica è infatti più legata alla paratassi delle singole membra, associate lungo un rigido asse, mentre nella seconda metà dello stesso secolo si assiste a una resa via via più fluida e organica nei piani e nei contorni. Lo sforzo è fin da ora quello della raffigurazione del corpo, umano e animale, in modo organico e sistematico.

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2 L’età orientalizzante (secolo VII a.C.) CLAUDIA LAMBRUGO

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2.1 Un’età di profonde trasformazioni 2.1.1 L’epifania di un mondo irrazionale e mostruoso

Con il termine «età orientalizzante» si intende un fenomeno di natura essenzialmente stilistica della durata di circa un secolo, il secolo VII a.C., durante il quale la cultura greca, dopo essersi nutrita per oltre trecento anni di stilemi geometrici, si lascia invadere e affascinare da motivi, temi, manufatti, tecniche appartenenti alle culture orientali, i quali dapprima quasi soggiogano e sopraffanno la civiltà greca, poi ne sono assimilati e rielaborati. La definizione è, a ben vedere, ambigua: le importazioni di prodotti orientali e i contatti commerciali con Cipro, la Cilicia, la Siria e la Fenicia avevano infatti ripreso vigore fin dall’inizio del secolo IX a.C.; i mercanti sirolevantini e soprattutto fenici, «cianfrusaglie infinite sulla nave nera portando» (Odissea, XV, v. 416), svolgevano da allora il ruolo di straordinari mediatori culturali; però fino a una fase avanzata del Geometrico Tardo le importazioni dall’Oriente non avevano affatto indebolito né destrutturato il sistema geometrico di interpretare figurativamente la realtà.

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Fig. 2.1 Calderone su sostegno conico in bronzo, da Palestrina (Roma), tomba Barberini. Roma, Museo Etrusco di Villa Giulia.

Più tardi, tra la fine del secolo VIII a.C. e i primi decenni del successivo, il progressivo intensificarsi dei traffici con le culture orientali determinò un sempre più consistente afflusso di manufatti sirofenici, ittiti, aramaici, assiri, iranici: confluivano così, a nord nei porti del Mar Nero e della penisola anatolica, a sud negli empori fenici, grandi calderoni bronzei ornati di mostri terrifichi (Fig. 2.1), phialai (coppe basse e larghe) in argento e in oro con teorie di animali mostruosi, raffinati oggetti in avorio, pregiati unguentari in alabastro e in faïence, ricche oreficerie. I mercanti greci a loro volta frequentavano assiduamente lo scalo di Al-Mina nella valle dell’Oronte e l’emporio di 79

Naucrati nel delta del Nilo, che sarebbe stato in seguito concesso ai Greci dal re Amasi, perché vi abitassero e vi fondassero altari e santuari. Mercenari cari e ioni al servizio del faraone sono attestati in Egitto già nella seconda metà del secolo VII a.C.; successivamente alcuni di essi, al soldo di Psammetico II, lasciarono addirittura delle iscrizioni ad Abu Simbel in Nubia.

Fig. 2.2 Ortostato di palazzo assiro con demone alato.

Fig. 2.3 Dettaglio della testa di una gorgone sull’anfora protoattica del Pittore di Polifemo (si veda Fig. 2.50).

Nel frattempo l’accresciuto prestigio dei grandi santuari 80

greci, di Olimpia, Delfi, Delo, Samo, attirava i ricchi doni dei dinasti orientali: a sentire Erodoto (Storie, I, 14) Gige, re di Lidia nel secondo quarto del VII a.C., «mandò a Delfi doni votivi, non pochi, anzi, la maggior parte dei doni votivi in argento che sono a Delfi sono suoi, e oltre all’argento consacrò oggetti d’oro in grandissima quantità e fra gli altri […] furono da lui dedicati sei crateri d’oro»; poco dopo lo storico ricorda anche il dono del «mirabile trono reale» da parte di Mida, re di Frigia. Le possibilità di contatto e di scambio tra Oriente e Occidente mediterraneo si erano quindi enormemente accresciute. Contemporaneamente l’intensa diaspora verso occidente di famiglie orientali in fuga dalla pressione assira (l’egemonia assira nel Medio Oriente interessa i secoli dal IX al VII a.C.) aveva creato i presupposti perché tecniche e linguaggi iconografici nuovi fossero appresi dai Greci direttamente dalle maestranze orientali. Mentre dunque nella lingua greca compaiono parole orientali, quali tyrannos (tiranno) di probabile origine lidia; mentre si diffonde una nuova moda per calzature, abiti, profumi orientali; mentre muta la foggia degli elmi, delle corazze, degli strumenti musicali, la cultura figurativa greca viene sommersa da un’ondata di nuove storie, di mostri sconosciuti, di eroi brutali e prepotenti, di dei rancorosi e aggressivi (Fig. 2.2): compaiono le sirene, i grifoni, i centauri, le chimere, le sfingi, le gorgoni (Fig. 2.3). L’assimilazione non è naturalmente priva di traumi e di lacerazioni; l’ordine di età geometrica viene travolto dal furioso impeto narrativo di matrice orientale, i cui contenuti più violenti e oscuri sono tuttavia poco a poco esorcizzati, limati e respinti. Lo scontro tra l’ordine figurativo greco e la mostruosità orientale si esprime chiaramente nelle narrazioni greche di lotte: Zeus combatte i Giganti, Achille 81

Pentesilea, Bellerofonte la Chimera, Perseo la Gorgone, Teseo il Minotauro, Odisseo Polifemo (Fig. 2.4). Intorno alla metà del secolo VII a.C. il processo di assimilazione può dirsi però completato: la brutalità e la mostruosità sono ora placate e riassorbite; gli esseri feroci e mostruosi sono ricomposti in pacate teorie di animali selvatici e domestici insieme. La tempestosità espressiva della prima metà del secolo VII a.C. si trasforma quindi in organicità compositiva e in potenza figurativa. L’assimilazione e la successiva rielaborazione degli spunti e dei temi orientali avvengono per gradi e con intensità diverse a seconda delle aree geografiche e culturali; il mondo greco si presentava, infatti, come tutt’altro che unitario. Così le città greche di area ionica ed eolica, a più diretto contatto con le grandi culture asiatiche, si lasciarono facilmente affascinare dai costumi orientali, adottando uno stile di vita lussuoso ed elegante che i Greci della madrepatria avrebbero poi stigmatizzato, accusandoli di tryphè (mollezza) e di habrosyne (effeminatezza). Le liriche di Saffo, Alceo e Mimnermo ci introducono infatti in mondi raffinati, in cui si banchetta sdraiati su letti (klinai), passandosi l’un l’altro una coppa colma di vino; si indossano fini calzature e mitre di fabbricazione lidia; si fa generoso impiego di sostanze odorose e di unguenti, come la bakkaris lidia, menzionata da Semonide e Ipponatte, o il brentheion, conosciuto da Saffo e citato per la pelle e i capelli dell’amatissima Attis.

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Fig. 2.4 Scena di accecamento di Polifemo sul cratere di Aristonothos, produzione greca occidentale, da Cerveteri. Roma, Musei Capitolini.

La civiltà geometrica andò sgretolandosi rapidamente anche in centri di grande dinamicità commerciale, strategicamente collocati all’incrocio di vie di scambio, come Corinto, le isole Cicladi e Creta, dove peraltro la cultura geometrica aveva avuto solo deboli manifestazioni. Essa dimostrò, al contrario, solida durevolezza in Attica, dove era stata efficace e consolidato strumento espressivo della classe aristocratica; Atene reagì infatti chiudendosi orgogliosamente nel suo linguaggio, cui restò aggrappata ancora per qualche decennio, chiamandosi così fuori dagli sviluppi dell’arte greca almeno per la prima metà del secolo VII a.C. 2.1.2 Legislatori, tiranni e colonizzazione

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Sotto un profilo più strettamente storico e sociale almeno tre fenomeni interessano le città greche tra la fine del secolo VIII e l’intero VII a.C.: l’intensificarsi della colonizzazione, di cui si è fatto cenno già nel capitolo precedente, e l’avvento di legislatori e tiranni. Tutti e tre gli elementi, ciascuno a proprio modo, sono una risposta alla crisi dell’aristocrazia terriera, la cui avidità e ingiustizia erano oggetto di denuncia già in Esiodo. Di fronte agli squilibri tra risorse e bisogni, per le pressioni sociali di comunità che ci appaiono ora più articolate, per il rafforzarsi del potere economico di ceti nuovi, come quello degli artigiani, dei mercanti e dei marinai, spesso proprio su sollecitazione intensa degli strati più modesti, ma anche inquieti della popolazione, le aristocrazie si vedono ora costrette a forme di autocorrezione e di autocensura. Dall’interno della stessa aristocrazia e delle sue strutture oplitiche emergono dunque i legislatori, spesso personalità mitostoriche delle quali è incerta la cronologia; sono lo spartano Licurgo, l’ateniese Draconte, Zaleuco di Locri, Caronda di Catania, Pittaco di Mitilene. Le leggi, fino ad allora legate a tradizioni orali facilmente manipolabili, vengono ora messe per iscritto, il che non può che significare una più vasta alfabetizzazione; la scrittura dunque è lo strumento attraverso il quale si esercita un nuovo controllo sociale. È questo anche il periodo in cui nasce e si consolida la costituzione spartana, il cui ordine era nella tradizione frutto della Grande Rhetra, il responso delfico che Licurgo avrebbe ricevuto e messo in atto. Si trattava di un’organizzazione sociale piuttosto rigida (che andrà però progressivamente ibernandosi nei secoli successivi), fondata su un numero ristretto di cittadini liberi, gli spartiati, proprietari di kleroi (appezzamenti di terreno), e un numero maggiore di iloti, servi rurali, e di perieci, liberi abitanti 84

delle borgate periferiche, dediti ad attività mercantili e artigianali. Sparta conosce in questi decenni una notevole spinta espansionistica che la porta con le guerre messeniche e altri conflitti a estendere il controllo su una porzione notevole del Peloponneso e assumere lentamente quel ruolo di guida di una lega di città peloponnesiache che conserverà anche nei secoli successivi. Un esito più traumatico dei travagli interni all’aristocrazia, e generalmente alternativo alla figura del legislatore, è la tirannide; ad essa si lega spesso una politica economica e sociale di grande forza propulsiva che svolge cioè un’azione di promozione del benessere materiale e funzionale della città, mediante l’incremento dei traffici commerciali, dei cantieri edilizi e delle opere pubbliche. Le principali tirannidi del secolo VII a.C. sono quelle delle città istmiche (Corinto, Sicione, Megara) e delle città ioniche (Mileto, Efeso, Mitilene sull’isola di Lesbo). A Corinto, ad esempio, la dinastia dei Bacchiadi regge la città con un’oligarchia esclusiva e statica fino alla metà circa del secolo VII a.C., quando cioè si impone la tirannide di Cipselo, bacchiade per parte di madre; il suo governo e quello dei suoi successori si protraggono almeno fino al primo quarto del secolo VI a.C., segnando un momento particolarmente felice per i traffici e l’artigianato di Corinto. Lo squilibrio tra risorse e bisogni è naturalmente anche all’origine della colonizzazione greca di età arcaica che, iniziata già nel secolo VIII a.C., conosce uno sviluppo notevole proprio nel corso dell’età orientalizzante. Ne sono maggiori protagoniste le città dell’Istmo (Corinto e Megara), quelle euboiche dell’Euripo (Calcice ed Eretria), le città dell’Acaia, le isole di Creta e Rodi e sulla costa anatolica soprattutto Mileto, che avrebbe fondato fino a novanta colonie nel Mar Nero (Plinio, V, 112). L’area di maggiore addensamento della presenza greca fuori dalla madrepatria è 85

certamente quella dell’Italia meridionale e della Sicilia, dove si verifica una sorta di organizzata spartizione delle aree territoriali a disposizione. La serrata successione di date fornita da Tucidide per le fondazioni coloniali siceliote è alla base della scansione cronologica delle ceramiche protocorinzie e corinzie dei secoli VII e VI a.C.

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2.2 Verso la pietrificazione del tempio Nel corso del secolo VII a.C. si assiste a un progressivo passaggio da forme di archittettura sacra di semplice funzionalità a forme esteticamente più esigenti. Un forte impulso in questa direzione viene dalle novità introdotte dai materiali di costruzione: dai ciottoli informi si passa sempre più estensivamente al blocco di pietra squadrata; dal tetto stramineo al tetto in tegole; dall’uso dell’argilla cruda alla terracotta della decorazione architettonica. Il legno verrà sempre più frequentemente sostituito dalla pietra, soprattutto in elementi strutturalmente importanti dell’alzato, come le pareti della cella, i plinti delle colonne e i capitelli. La tradizione letteraria assegna a maestranze di area corinzia intorno al 680 a.C. il merito dell’introduzione della tecnica di copertura a tegole fittili; Plinio il Vecchio e Atenagora raccontano di un vasaio di nome Butades, originario di Sicione, ma attivo a Corinto, il quale avrebbe per primo plasmato nell’argilla delle maschere (antefisse) a decorazione delle estremità del tetto. La possibilità di apprestare tramite matrici elementi di copertura omogenei e accostabili con precisione l’uno all’altro rese possibile coperture a falde, di norma a doppio spiovente, dalle quali venne progressivamente ritagliandosi lo spazio triangolare del frontone. Tegole in terracotta paiono già messe in opera per la copertura di un tempio a Corinto, eretto, forse per iniziativa dei potenti Bacchiadi, intorno al 680-670 a.C.; dell’edificio sono emerse tracce nell’area del successivo Apollonion periptero di età arcaica. L’orditura di tetti con copertura in tegole rese più solidi e più duraturi gli edifici, ma impose anche una differente 87

inclinazione del tetto che per ragioni statiche non poteva superare 33-25%; le precedenti coperture straminee comportavano al contrario una notevole pendenza per garantire un ottimale deflusso delle acque. Alla minore inclinazione del tetto in tegole conseguì l’ampliamento della campata della cella; i muri esterni, per quanto rettificati ed eretti in mattoni crudi o in blocchi di pietra, difficilmente avrebbero ora potuto reggere il peso, notevolmente accresciuto, della copertura, sicché si rese necessario ripartirne il carico sulla peristasi esterna e su una o più file di pali di sostegno interni al naòs. Il porticato intorno alla cella del tempio si impone così progressivamente come felice soluzione per varie finalità: come già sosteneva Vitruvio (III, 3, 3-9) all’epoca di Augusto, esso era infatti uno spazio ideale per passeggiare, offriva riparo ai fedeli in caso di pioggia e, secondo una più recente intuizione, poteva fungere anche da luogo di esposizione degli ex voto, garantendo così un legame di vicinanza tra i fedeli e l’intoccabile statua di culto. È questo il periodo, in cui nelle sperimentazioni vivaci in corso, nelle scelte architettoniche di stili ancora regionali differenziati, pure si colgono i segni di un progressivo, lento, definirsi degli ordini dorico e ionico (le definizioni sono di Vitruvio, IV), intesi entrambi come sistemi costruttivi ed estetici che, pur rispondendo a sensibilità culturali differenti, egualmente arrivano a regolare in modo convincente le relazioni statiche, proporzionali e visive tra gli elementi in gioco, del pavimento, delle pareti, dei sostegni, del tetto. 2.2.1 Gli sviluppi nel Peloponneso

Nel secolo VII a.C. la Grecia peloponnesiaca continua a svolgere un ruolo attivo nello sviluppo dell’architettura templare di matrice dorica. La documentazione più 88

significativa è fornita dall’Heraion di Argo, dal tempio di Posidone a Istmia, dall’Heraion di Olimpia e, fuori dal Peloponneso, dall’Apollonion di Thermos. Lo stato di conservazione di questi antichi edifici non è tuttavia sempre tale da consentire una lettura certa delle strutture e degli alzati. L’Heraion di Argo è citato da Vitruvio (IV, 1, 3) come l’edificio originario dei Dori; attualmente, datandosi agli inizi del secolo VII a.C. (Mazarakis Ainian), è il più antico dei templi peloponnesiaci con peristasi. Si tratta di una struttura molto allungata (5 o 6 × 14 colonne), impiantata sopra una terrazza tardogeometrica, con una peristasi lignea sormontata da capitelli in pietra molto piatti. L’antica associazione di colonne lignee con capitelli litici si trova talvolta raffigurata su vasi arcaici in cui compaiono edifici con fusti di colonne in nero e capitelli in bianco. Il tempio di Posidone a Istmia data entro la prima metà del secolo VII a.C. (Fig. 2.5). Si conservano i resti di un edificio periptero di 7 × 18 colonne con una cella rettangolare di 100 piedi, preceduta da un pronao profondo. La colonna centrale del lato breve è in asse con una fila di colonne interne che attraversano sia il naòs che il pronao, evidentemente a sostegno della copertura, che si ritiene fosse a 4 falde; il peso della struttura è ulteriormente sostenuto da pilastri lignei di rinforzo addossati al perimetro esterno della cella. Il basamento del tempio è in poros (calcare locale), l’elevato era costruito in mattoni crudi; l’intera trabeazione con le colonne e l’intelaiatura del tetto era verosimilmente in legno. Il muro esterno del naòs era rivestito di stucco bianco con una decorazione figurata dipinta che scandiva gli spazi compresi tra i pilastri lignei. Un notevole avanzamento nella definizione dell’ordine dorico si compie con l’Heraion di Olimpia (Fig. 2.6). Esso testimonia della transizione dall’edificio in legno e mattoni a 89

quello in pietra e, per lo stato di conservazione degli alzati, è utile punto di osservazione per l’evoluzione della peristasi e della trabeazione. Intorno al 650 a.C. viene eretta una cella di 100 piedi, preceduta da un pronao di 20, con due colonne tra le ante (distilo in antis). Verso la fine del secolo (secondo altri all’inizio del secolo VI a.C.) l’edificio viene ricostruito con l’aggiunta di un opistodomo simmetrico al pronao e di una peristasi di 6 × 16 colonne lignee, il cui numero è cioè pari alla proporzione di 6 : 16 espressa dal rapporto tra larghezza e lunghezza dello stilobate. Le 40 colonne lignee della peristasi sono poi gradualmente rimpiazzate, dall’età arcaica fino all’avanzata età romana, da esemplari in calcare, che consentono dunque di studiare da vicino l’evoluzione delle forme del capitello dorico; quando Pausania nel secolo II d.C. visita il santuario di Olimpia ancora sussiste una colonna lignea nell’opistodomo. A questa seconda fase di costruzione, le cui vestigia sono tuttora visibili (Fig. 2.7), appartiene la suddivisione dello spazio della cella in piccole cappelle laterali (forse allo scopo di dislocarvi doni votivi), isolate da brevi lingue di muro cui si addossano due file di otto colonne lignee su due piani con capitelli in pietra; al centro del naòs su una base larga circa 4 m erano le statue di culto di Zeus e Hera (Fig. 2.26). Le pareti della cella erano in mattoni crudi, collocati su uno zoccolo in blocchi di calcare ancora oggi intatto. La trabeazione doveva essere in legno; ad essa erano inchiodate metope in bronzo lavorato a sbalzo, mentre nello spazio frontonale venne inserito un altorilievo in pietra raffigurante una sfinge. La copertura fittile del tempio era caratterizzata da ricca policromia, di cui è splendida prova il grande acroterio a disco in terracotta dipinta (Fig. 2.8).

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Fig. 2.5 Istmia, pianta del tempio di Posidone.

Fig. 2.6 Olimpia, pianta dell’Heraion.

Fig. 2.7 Olimpia, attuale stato di conservazione dell’Heraion.

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Fig. 2.8 Heraion di Olimpia, disegno ricostruttivo dell’acroterio a disco in terracotta dipinta.

Nell’Heraion di Olimpia dunque lo spazio chiuso del tempio è per la prima volta interessato da una scansione in pronao, cella e opistodomo che diverrà canonica, almeno nell’area dorica. La cella è quindi inserita nella peristasi in modo attentamente pianificato; la fronte pari, esastila (con sei colonne), dialoga con pronao e opistodomo entrambi con colonne in antis e si lega in allineamento assiale alla soluzione adottata nell’articolazione dello spazio interno alla cella con doppio colonnato, di cui è precocissimo esempio (prima metà del secolo VII a.C.) in area cicladica il tempio di Dioniso a Yria (si veda par. 3.2.3). Il naòs non è più diviso in due navate mediante l’ingombrante colonnato centrale disposto lungo l’asse longitudinale (come a Istmia), bensì in tre, mediante due colonnati che occupano certamente maggiore spazio, ma hanno anche il vantaggio di liberare il centro della cella per una piena visibilità dell’agalma. La trabeazione presenta già il tipico fregio dorico di triglifi e metope, i cui serrati rapporti saranno sempre vincolanti nell’alzato del tempio dorico. I primi, in coincidenza con le travature terminali del tetto, sono collocati sull’asse delle colonne della peristasi e sull’asse degli intercolumnii; lo spazio vuoto, che separa un triglifo dall’altro, diviene lo spazio della lastra della metopa che sarà 92

ora in argilla, ora in bronzo sbalzato (come a Olimpia), ora in pietra scolpita; la scansione dei triglifi nella trabeazione consente l’inserimento tra una colonna e l’altra di due metope.

Fig. 2.9 Metopa raffigurante Chelidone, dall’Apollonion di Thermos. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 2.10 Metopa raffigurante Perseo, dall’Apollonion di Thermos. Atene, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 7)

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Fig. 2.11 Apollonion di Thermos, ricostruzione della peristasi con collocazione delle metope dipinte.

L’insieme architettonico dovette essere concepito a Olimpia secondo un preciso programma, ben meditato, dato che vi troviamo applicati anche i primi accorgimenti per la correzione del cosiddetto «conflitto angolare»; ossia l’inevitabile spostamento dei triglifi angolari dall’asse delle colonne al margine del tempio viene progressivamente compensato tramite l’allargamento delle componenti della trabeazione (soprattutto la prima metopa) o la diminuzione degli interassi agli angoli (contrazione angolare); l’architettura di età arcaica tenderà a prediligere la prima soluzione; quella di età classica, la seconda, di esiti più armoniosi. Intorno al 630-625 a.C. fu edificato anche il tempio periptero di Apollo a Thermos (Fig. 1.6). Il tempio è senza pronao, ma con un opistodomo molto profondo; la cella in mattoni crudi è ancora divisa in due navate da un colonnato assiale. La peristasi di 5 × 15 colonne lignee su tamburi di pietra regge una trabeazione lignea e un fregio dorico inglobante metope fittili dipinte con immagini mitiche (Figg. 2.9-2.11). Queste, a lungo considerate una testimonianza importante del primitivo sviluppo del fregio 94

dorico, sono attualmente al centro di un vivo dibattito che, mentre da un lato ne rimette in discussione l’originale posizione nella trabeazione del tempio, dall’altro individua in almeno una delle metope una copia di tono arcaizzante eseguita tra i secoli III e II a.C.; pare, infine, si debba rivedere anche l’attribuzione delle pitture a officina corinzia, poiché nelle iscrizioni apposte sui rivestimenti fittili è stato riconosciuto un carattere locale. 2.2.2 … e nella Ionia

Per quanto concerne invece gli sviluppi dell’architettura sacra in area ionica, la documentazione di età orientalizzante proviene di nuovo dai grandi centri di Samo e di Efeso, già citati per l’età geometrica. Nel ricco santuario extraurbano di Samo, in seguito a un’alluvione del fiume Imbrasos, il vecchio hekatompedon geometrico viene sostituito, intorno alla metà del secolo VII a.C., da un nuovo edificio, noto come hekatompedon II (Fig. 1.10). Questo sorge vicino al fiume, quasi perpendicolarmente al suo corso; di fronte viene eretto un altare (Fig. 2.12). Nel nuovo edificio di culto la cella, con i muri accuratamente costruiti in blocchi squadrati di calcare, è circondata da una peristasi di colonne o pali su basi rotonde, forse in legno; sulla facciata un pronao tetrastilo (con quattro colonne) conferisce enfasi allo spazio di ingresso al tempio, a discapito della parte posteriore, tratto, questo, tipico anche dei successivi sviluppi dell’architettura di area ionica. All’interno il primitivo colonnato centrale è stato abolito a favore di una serie di pali addossati alle pareti del naòs, con il duplice risultato di un’efficace soluzione di sostegno del tetto mediante un sistema di travi trasversali e di una piena visibilità della statua di culto sul fondo. Con lo schematismo della pianta contrastava probabilmente una decorazione già esuberante, nella quale giocavano un ruolo 95

di rilievo elementi vegetali di ispirazione orientale e fregi figurati continui (senza cioè l’alternanza dorica di triglifi e metope); dell’intera decorazione si conserva però in buono stato solo un fregio litico continuo con guerrieri armati di lancia. Qualche anno dopo la costruzione del tempio, parallelamente al corso del fiume, viene edificato un grande portico (stoà), suddiviso in due navate, destinato all’accoglienza dei pellegrini e all’esposizione degli ex voto (Fig. 2.13).

Fig. 2.12 Samo, pianta dell’Heraion nel secolo VII a.C.

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Fig. 2.13 Heraion di Samo, ipotesi ricostruttiva del portico meridionale sull’Imbrasos.

Interessanti, ma poco chiare, sono invece le informazioni relative all’Artemision di Efeso: dopo che, alla fine del secolo VII a.C., i Cimmeri ebbero distrutto il recinto periptero di età tardogeometrica, pare si cominciasse la costruzione di un nuovo monumentale sekòs (recinto) intorno alla restaurata base cultuale; ma la struttura era ancora incompiuta (ne mancavano i livelli superiori) quando, intorno alla metà del secolo VI a.C., iniziò la costruzione di un monumentale diptero.

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2.3 La nascita della scultura monumentale Intorno al 700 a.C. Mantiklos, la cui identità è a noi peraltro sconosciuta, dedicò all’Apollo di Tebe una statuetta in bronzo (Fig. 2.14); la dedica, iscritta in esametri, recita: «Mantiklos mi dedicò come decima al (dio) lungisaettante dall’arco d’argento; e tu, o Febo, concedi per ricompensa una buona sorte». La figura parla in prima persona e l’iscrizione ha reminiscenze omeriche. Il bronzetto rappresenta verosimilmente Apollo con l’arco nella sinistra e forse le frecce nella destra, ora perduta. La statuetta è chiara espressione della direzione verso cui si evolve la concezione figurativa greca nel momento di passaggio tra i secoli VIII e VII a.C. Nel solco della tradizione geometrica la figura è infatti ancora un bronzo di piccole dimensioni (alto 20 cm), realizzato nella tecnica a fusione piena, ma diversamente dall’auriga di Olimpia (Fig. 1.39) e dal guerriero dell’Acropoli di Atene (Fig. 1.41), l’Apollo di Mantiklos ha abbandonato la forma del nucleo piatto ritagliato dallo spazio circostante per un più accentuato potenziamento delle singole masse dei pettorali, dell’addome, dei glutei, delle cosce; queste vengono a comporre ora un volume solido e potente, costruito sempre nel rigido rispetto di un’addizione assiale. Un solco verticale infatti attraversa l’intera figura e costituisce il discrimine rispetto al quale vengono assemblate le cosce muscolose con le ginocchia marcate, il torace asciutto dai pettorali rilevati e il lunghissimo collo; la linea centrale spartisce perfino i dettagli del volto triangolare, fissando la posizione della bocca, del naso e della scriminatura centrale della capigliatura a lunghe trecce. 98

Fig. 2.14 Bronzetto di Apollo, dedica di Mantiklos, da Tebe. Boston, Museum of Fine Arts.

Ogni parte del corpo umano è qui chiaramente compresa e riprodotta, a comporre una forma che non è più solamente un nucleo ritagliato dallo sfondo, bensì una figura esistente, in quanto articolata in ogni sua componente. Questa espressione della forma dell’essere come addizione assiale di volumi è alla base della scultura dei secoli VII e VI a.C.; è il punto di partenza per la costruzione di figure a grandezza naturale e quindi per la nascita e lo sviluppo della scultura monumentale greca. 99

2.3.1 Dedalo e il rivelarsi dell’artista

All’origine della scultura monumentale in pietra, in legno e in altri materiali i Greci ponevano Dedalo di Creta. Il nome è, come spesso accade, un nome parlante; deriva dal verbo «lavorare ad arte»; il corrispondente sostantivo potrebbe quindi significare «colui che ben modella». Poiché il suo nome compare per la prima volta in Omero come colui che fece creazioni per Arianna, figlia del re Minosse (Iliade, XVIII, v. 590 ss.), è evidente che Dedalo doveva essere noto già al pubblico di Omero. La tradizione letteraria ne sottolinea il multiforme ingegno: fu architetto, ideatore del famoso labirinto e costruttore di templi; fu scultore di statue cui avrebbe conferito sguardo e movimento con una vitalità tale che si rese necessario incatenare le sue figure per impedirne la fuga; fu inventore della sega, dell’ascia, del filo a piombo, del trapano, del mastice; costruì la vacca di legno che consentì a Pasifae l’amplesso con il toro da cui nacque il mostruoso Minotauro e ideò le ali artificiali con le quali infine progettò la fuga da Creta insieme al figlio Icaro. La tradizione cita anche alcuni suoi allievi, ad esempio Dipoinos e Skyllis, che da Creta si sarebbero spostati a lavorare nel Peloponneso, specializzandosi nello scolpire il legno, l’avorio e l’oro per la realizzazione di statue crisoelefantine. Le informazioni sono così dettagliate che si è spesso ceduto alla tentazione di riconoscere e accettare la realtà storica dell’artista, ma cento anni e più di ricerca filologica e archeologica hanno condotto alla conclusione che il Dedalo storico non è mai esistito; la sua figura, divisa tra II e I millennio a.C., riassume piuttosto il valore esemplare di un prototipo d’artista e di un’arte plastica che conosce effettivamente le sue prime e più significative manifestazioni monumentali a tutto tondo nel secolo VII a.C. La scultura di età geometrica infatti si era espressa solo in piccole 100

dimensioni e spesso con opere figurate non concepite come elementi a sé stanti, bensì decorative di utensili e strumenti. Non è allora un caso che, accanto a nomi di antichissimi maestri citati con ammirazione nelle fonti letterarie, compaiano solo a partire da questo momento anche autentiche firme, come quella del nassio Euthykartidas che fece e dedicò all’Apollo di Delo una statua raffigurante un giovinetto; di (Poly)medes argivo che nei primi decenni del secolo VI a.C. firmò a Delfi la coppia di giovani noti come Kleobis e Biton (Fig. 3.32). Delo, l’isola «invisibile», culla dei divini gemelli Delo, una sottile striscia di terra estesa tra nord e sud per non più di 5 Km, occupa una posizione geografica incomparabile, esattamente al centro delle Cicladi, a metà strada tra la Grecia continentale da un lato e la costa ionica dall’altro, a uguale distanza dalle isole di Chio, Samo e Rodi a est, e da Creta a ovest. Al centro delle isole Cicladi, che nell’immaginario greco si disponevano intorno alla piccola Delo come a comporre un anello (Cicladi significa appunto disposte «in forma circolare»), delle Cicladi l’isola condivide anche l’aspetto, brullo e roccioso, con coste frastagliate, perennemente battute da venti e da ondate impetuose; gli strati di granito e scisto che la compongono ne fanno un carosello di prominenze che si elevano cupe dal mare e brillano alla luce del sole. L’unica montagna di rilievo è il monte Cinto, alto poco più di 100 m, sede di culti per Apollo, Zeus e Atena; l’unico fiume l’Inopo. Al centro della costa occidentale si apre il porto, protetto da due scogli; alle sue spalle, in una lingua di terra pianeggiante, si sviluppò uno dei più antichi santuari greci di Apollo, frequentato fin dai secoli VIII e VII a.C. Il mito di fondazione è noto: il lascivo Zeus, dopo essere giaciuto con molte ninfe e donne mortali, generò in Latona, figlia del titano Ceo e di Febe, i divini gemelli, Apollo e Artemide. La gelosia di Hera, tradita, non conobbe allora freno: la dea ordinò al serpente Pitone di inseguire Latona in tutto il mondo, perché non potesse partorire in alcun luogo. Latona dunque vagava, ma nessuna terra, per timore di Hera, le offriva ospitalità. La perseguitata giunse infine su uno scoglio nudo e isolato che, affiorando appena sul pelo dell’acqua, vagabondava nel Mediterraneo, cambiando continuamente posizione, e proprio a causa del suo perpetuo vagare era noto con il nome di Adelos «l’invisibile». A questa terra Latona si rivolse: «… vorresti forse essere la dimora di mio figlio,/ Febo Apollo, e accogliere in te un pingue tempio?/

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Nessun altro mai si occuperà di te, né ti onorerà;/ e io credo che tu non sarai davvero ricca di armenti, né di greggi,/ né porterai raccolti, né produrrai molti alberi./ Ma se tu ospiti un tempio di Apollo arciere,/ tutti gli uomini ti porteranno ecatombi/ qui riunendosi; e da te sempre un infinito aroma/ di grasso si leverà, e tu potrai nutrire il tuo popolo/ per mano di stranieri: perché non hai ricchezza nel tuo suolo/». (Inno ad Apollo, vv. 51-60)

Fig. 2.15 Delo, ipotesi ricostruttiva dell’oikos dei Nassii.

Fig. 2.16 Delo, pianta del santuario di Apollo. L’errabondo isolotto accettò e lì tra un olivo e una palma videro la luce per prima Artemide e, dopo

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altri nove lunghi giorni di travaglio, Apollo, il più bello degli immortali. Da allora l’isola smise di vagare, si fissò al fondo del mare e si chiamò Delos, «che si vede chiaramente» e fu isola sacra per tutti i Greci: nessuno poté più nascervi né morirvi. Al grande santuario di Apollo, e della sorella del dio, Artemide, resero omaggio per più di mille anni genti di ogni stirpe e provenienza. Il recinto sacro ai divini gemelli si apre alle spalle del porto, dove attraccavano le navi recanti doni e processioni (Fig. 2.15). Verosimilmente frequentato già in età geometrica, il santuario è fin da allora centro anfizionico, ossia sede religiosa di una federazione delle Cicladi che vi tenevano regolarmente assemblee religiose, feste con agoni ginnici e mercati. Tra i secoli VII e VI a.C. Nasso vi esercita la maggiore influenza politica, promuovendo programmi edilizi e monumenti di particolare prestigio; l’isola di Nasso era infatti all’epoca potente e ricca, derivando parte della sua fortuna anche dallo sfruttamento, documentato a partire da quegli stessi anni sia a Nasso che a Paro, delle cave di marmo bianco a grana grossa. Risale infatti alle fine del secolo VII a.C. (o al più al principio del successivo) il cosiddetto Oikos dei Nassii, il più antico dei templi di Apollo a Delo, immediatamente a est dell’ingresso al temenos. L’edificio unisce a una pianta arcaica rettangolare del tipo a oikos senza peristasi uno stupefacente sistema costruttivo dell’alzato, con pareti in blocchi di pietra, ma trabeazione, struttura del tetto e tegole interamente in marmo (Fig. 2.16). In marmo erano anche le otto colonne ioniche su alta base troncoconica, disposte lungo l’asse centrale della cella a sostegno del pesante tetto. Il tempio ha due accessi, uno da ovest, orientato quindi in direzione dell’attracco al porto, e uno da nord; solo intorno alla metà del secolo VI a.C. venne aggiunto, mediante un portico tetrastilo, l’accesso orientale, secondo la più diffusa tradizione architettonica sacra greca. Addossato al muro settentrionale dell’edificio, sopra una base di oltre 30 tonnellate, i Nassii eressero nei primi anni del secolo VI a.C. una statua colossale di marmo raffigurante Apollo nel tipo del kouros (si veda par. 2.3.4); il gigantesco Apollo, le cui dimensioni erano pari a quattro volte quelle naturali, superava in altezza l’edificio stesso. Oggi della statua colossale si conserva sola la base; nel corso delle alterne vicende di saccheggio e pirateria di cui il santuario fu vittima, non mancò infatti chi tentasse di rimuovere anche la statua, che finì tagliata dai Veneziani in più pezzi per facilitarne il trasporto; frammenti del torso sono attualmente visibili nei pressi del recinto di Artemide (Fig. 2.28), un piede è finito a Londra. Sul lato occidentale del Lago Sacro, un piccolo stagno formatosi probabilmente come risorgiva del fiume Inopo, si innalza la famosa terrazza dei leoni (Fig. 2.17), parte dei quali ancora visibili in sito, mentre uno è all’Arsenale di Venezia. I felini, anch’essi dono marmoreo dei Nassii a Apollo, sono verosimilmente coevi della statua colossale; il loro carattere mostruoso e poco naturalistico richiama,

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nella magrezza e nell’incisività dei dettagli, la sfinge (Fig. 3.44) che i Nassii dedicarono più o meno negli stessi anni a un altro Apollo, quello di Delfi.

Fig. 2.17 Delo, terrazza dei leoni. (tav. 6)

L’orgoglio del maestro e l’ammirazione di cui è oggetto da parte della comunità sono anzitutto un esplicito riconoscimento non del valore della creazione, bensì dell’abilità tecnica con cui un marmo viene scolpito, un legno intagliato, un metallo foggiato. Resteranno infatti sempre sconosciuti alla mentalità greca i moderni concetti di vocazione e creatività artistica; l’artista greco che sia scultore, ceramista o pittore non crea un’opera estraendola dalla propria personalità, distaccata, quindi, da qualsiasi legame con la società in cui vive e per la quale opera; egli è al contrario soprattutto un artigiano e, come tale, si forma all’interno di un patrimonio di tradizioni tecniche e iconografiche che fa proprie, per poi eventualmente innovarle mediante piccole varianti, espressione del suo personale genio. La persistenza iconografica, intesa come continua riproposizione di soggetti e di schemi figurativi, è dunque 104

elemento centrale nella storia della scultura greca, come di ogni altra espressione artistica dei Greci. Essa è conseguenza di un percorso di apprendistato in bottega e dello stretto, imprescindibile, legame tra l’artigiano e la committenza per la quale egli lavora, ovvero l’artigiano e la società nella quale egli vive, le cui idee è chiamato a rappresentare in maniera efficace e immediatamente comprensibile. 2.3.2 Lo stile dedalico a Creta

Il secolo VII a.C. vede dunque nascere la scultura monumentale a tutto tondo, secondo cioè una concezione, già presente nelle figure di piccolo formato degli inizi del secolo VII a.C., ma sviluppatasi soprattutto a partire dalla metà del secolo a Creta, nel Peloponneso, sulle isole Cicladi con statue in pietra e in marmo. Con particolare insistenza al nome di Dedalo, e quindi alla scultura dell’epoca di cui egli è esemplare rappresentante, la tradizione letteraria attribuisce xoana e sphyrelata. I primi sono da intendersi come statue di culto, spesso idoli aniconici, dei più diversi materiali, in argento, in bronzo, in marmo, ma soprattutto intagliati nel legno. Poiché non si conservano esemplari lignei di grandi dimensioni, può essere utile richiamare, almeno per il materiale in cui sono lavorate, le tre statuette provenienti da un’area sacra di Palma di Montechiaro (Agrigento), datate alla fine del secolo VII a.C., e ancora la dea lignea di Samo (Fig. 2.18), alta quasi 30 cm. Gli sphyrelata sono invece statue, di non piccole dimensioni, ottenute martellando una lamina di bronzo e piegandola intorno a un nucleo di legno a cui la lamina viene inchiodata. La tecnica è di origine orientale; potrebbe essere stata assimilata dai Greci tramite la migrazione di maestranze nord-siriane. La sua applicazione ebbe tuttavia vita breve, perché rapidamente rimpiazzata dalla fusione 105

cava (si veda par. 3.7.1). Indipendentemente dalla veridicità storica o meno del legame con Dedalo, è significativo che proprio da Creta provengano i più interessanti esempi di sphyrelata a noi giunti.

Fig. 2.18 Dea con alto polos in legno, da Samo. Samo, Museo.

Una triade divina, realizzata con questa tecnica, raffigurante verosimilmente Apollo, tra la madre Latona e la gemella Artemide (Fig. 2.19), è stata infatti restituita dal piccolo tempio di Apollo Delphinios a Dreros (Creta), eretto tra la fine del secolo VIII a.C. e il principio del secolo successivo. L’edificio ha le semplici e arretrate forme dell’oikos quadrangolare, con breve portico di ingresso e muri in pietre sbozzate (Fig. 2.20); all’interno, a testimonianza di una concezione antica dello spazio sacro, coesistono ancora il focolare (eschara), l’altare e la base su 106

cui erano esposti i tre sphyrelata. Alcuni pali garantivano il sostegno del tetto a falde inclinate (ma di recente è stata anche ipotizzata una copertura piana). Delle tre figure, quella di Apollo, di maggiori dimensioni (circa 80 cm), manifesta anche una più spiccata vitalità; le braccia separate dal corpo reggevano probabilmente gli attributi del dio. Le due immagini femminili (h 40 cm) sono invece caratterizzate da maggiore fissità; la struttura corporea tubolare è sottolineata dal distendersi degli arti superiori lungo i fianchi, fino a fondersi con essi; delle gambe non vi è alcuna traccia, poiché tutta la parte inferiore del corpo si riassume nella pesante veste indossata dalle dee, completata dalla mantellina che cinge le spalle; solo i timidi accenni dei seni indicano chiaramente che si tratta di due figure femminili. Il polos calzato sulla testa ha un’eco orientale, suggerita anche dalla generale fissità ieratica delle due statue. Rispetto all’Apollo di Mantiklos (Fig. 2.14), è qui più marcata la rotondità della struttura, più consistenti sono i volumi, mentre la tecnica dello sphyrelaton consente di raggiungere, con considerevole risparmio di metallo, dimensioni maggiori di quelle dei bronzetti a fusione piena.

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Fig. 2.19 Sphyrelata in bronzo di Apollo, Artemide, Latona, da Dreros (Creta). Heraklion, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 2.20 Dreros, pianta e ricostruzione del tempio di Apollo.

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Fig. 2.21 Dama di Auxerre. Parigi, Museo del Louvre.

Tuttavia per i tratti stilistici e per la cronologia (tra la fine del secolo VIII e i primi decenni del VII a.C.) gli sphyrelata di Dreros precedono lo sviluppo di quello che viene propriamente indicato come «stile dedalico». Questo infatti mostra di definirsi a partire dalla metà del secolo VII a.C., con vigorose espressioni in pietra, ma anche in terracotta e avorio; la definizione «dedalico» deriva dalla suggestione 109

che possano essere in qualche modo rintracciate delle analogie tra le componenti stilistiche di questa fase cronologica e l’arte di Dedalo, la cui genialità e potenza espressiva ci è rivelata dalle fonti. La Dama di Auxerre costituisce una delle più riuscite manifestazioni dello stile dedalico (Fig. 2.21). Si tratta di una statua femminile in pietra calcarea tenera realizzata a tutto tondo, di dimensioni già notevoli, ma ancora inferiori al vero (circa 65 cm). L’archeologo Maxime Collignon la notò nei depositi del Museo di Auxerre, da cui la figura prende il nome; di lì la statua venne trasferita al Louvre nei primi anni del Novecento. L’esatto luogo di provenienza resta sconosciuto, ma il tipo di pietra e lo stile la assimilano certamente alla plastica cretese di piena età orientalizzante; in anni recenti la scoperta, nella necropoli di Orthi Petra a Eleutherna (Creta nord-occidentale), di alcuni frammenti scultorei di materiale e gusto molto vicini a quelli della Dama di Auxerre ha addirittura permesso di ipotizzare che la piccola statua sia uscita proprio da una bottega di Eleutherna (Stampolidis). La fanciulla, di forme solide e compatte, è cinta in un peplo aderente, in origine ravvivato da policromia, come paiono indicare anche i solchi conservati sulla superficie dell’abito a scandirne la decorazione: grandi quadrati concentrici sulla gonna e un motivo a squame sul petto. Un’alta cintura, forse intesa in metallo, chiude la veste alla vita; le spalle sono avvolte in una mantellina che ricorda quella degli sphyrelata di Dreros. I capelli, acconciati in trecce spartite simmetricamente ai lati del volto, con corta frangia a riccioli, paiono calcati sulla testa come una pesante parrucca di foggia orientale. Il corpo, assemblato secondo il principio dell’addizione assiale e simmetrica delle masse, non presenta una struttura a silhouette ritagliata, esprime piuttosto un vigore e una potenza nuove; la rotondità plastica del seno e delle braccia 110

contrasta con le sproporzioni delle mani e dei piedi. Il volto trapezoidale, arrotondato in corrispondenza del mento, è contrassegnato da grandi occhi ipnotici e da una larga bocca, atteggiata a sorriso, che accrescono la mobilità e l’intensità dell’espressione. L’imperiosa frontalità e il gesto del braccio destro piegato al petto ne fanno verosimilmente una statua votiva, ma non possiamo dire se raffiguri una dea, o più verosimilmente la dedicante. I tratti stilistici sono in ogni caso i medesimi della dea lignea di Samo (Fig. 2.18), che veste, infatti, alla maniera cretese, con l’unica variante di un altissimo ed elaborato polos sul capo. Entrambi i manufatti sono stati datati intorno al 640-630 a.C., anche per confronto con un aryballos protocorinzio del Louvre (Fig. 2.22), la cui imboccatura, con terminazione plastica a volto muliebre, ricorda molto da vicino la testa della Dama di Auxerre.

Fig. 2.22 Aryballos protocorinzio, da Corinto. Parigi, Museo del Louvre. (tav. 5)

Ritroviamo gli elementi tipici dello stile dedalico, ossia la frontalità di impostazione della figura, il sistema 111

compositivo per volumi geometrici giustapposti rispetto a un asse centrale, i dettagli incisi, la pettinatura a parrucca, il volto imperioso di forme triangolari, anche nelle sculture del tempio A di Priniàs (Creta), un esempio importante di precoce applicazione della decorazione plastica alla struttura architettonica. Il tempio venne edificato intorno alla metà del secolo VII a.C. (secondo altri invece negli ultimi decenni del medesimo secolo), sulla Patela, un’altura accessibile solo da ovest, lungo la strada che congiungeva la costa settentrionale a quella meridionale dell’isola. La struttura architettonica è ancora, come a Dreros, quella del semplice e arcaico naiskos, ossia del piccolo ambiente rettangolare con portico ad ante, senza peristasi; all’interno è una sorta di recinto sacrificale o eschara che ha restituito ceneri e ossa di animali combusti. La novità consiste piuttosto nell’inserimento di sculture in pietra, a tutto tondo e a rilievo, nell’architettura dell’edificio (Fig. 2.23 a,b); nonostante la ricostruzione dell’insieme presenti ancora aspetti piuttosto problematici, si è in genere d’accordo nel collocare le due dee, sedute l’una di fronte all’altra, sopra l’architrave dell’ingresso, ai lati di un’apertura per l’illuminazione dell’interno; il fregio di animali, di chiaro gusto orientalizzante (leoni, pantere e cervi), è invece probabile fosse sistemato sotto le dee, infine la parata di cavalieri sopra l’ingresso a portico. I volti triangolari delle divinità, certamente meno ipnotici del viso della Dama di Auxerre, ma egualmente segnati da grandi arcate sopraccigliari, da occhi allungati e mento arrotondato, si iscrivono pienamente nello stile dedalico maturo, cui riconducono anche le acconciature a trecce e il peplo aderente.

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Fig. 2.23 a,b Sculture dal tempio di Priniàs (Creta). Heraklion, Museo Archeologico Nazionale.

La scultura orientalizzante cretese mostra dunque una spiccata attitudine per il tipo della figura femminile vestita stante, la kore, o eventualmente seduta, per la quale è difficile poter rintracciare continuità con precedenti figurine geometriche; è piuttosto verosimile che il tipo scultoreo della kore, che verrà riproposto in infinite varianti nei decenni successivi, sia stato elaborato da maestri greci su ispirazione di modelli orientali e tradotto a Creta in esemplari litici di dimensioni monumentali. Sicuri precedenti orientali, attraverso le immagini della dea della fertilità, ha anche il tema della nudità femminile; soggetto assai raro nella Grecia di età arcaica, lo troviamo a Creta riproposto su una metopa calcarea di Gortina (Fig. 2.24), datata intorno al 630-620 a.C., con una divinità in cammino tra due figure femminili nude con alto polos. Resta invece sconosciuto a Creta il tipo del kouros, ossia della figura maschile nuda in posizione eretta. 2.3.3 … e nel Peloponneso

Testimonianze dello stile dedalico sono presenti anche nel Peloponneso, dove del resto secondo la tradizione letteraria 113

si sarebbero spostati a lavorare gli allievi di Dedalo. Dall’acropoli di Micene provengono alcuni rilievi in calcare, databili intorno al 640-630 a.C. Quello meglio conservato raffigura il busto di una donna con peplo e mantello (Fig. 2.25), i cui tratti stilistici rammentano, pur con minore efficacia espressiva, la Dama di Auxerre: il volto di forma squadrata è dominato da grandi occhi e forti sopracciglia, la bocca è larga, le narici dilatate; la pettinatura ha la foggia di una pesante parrucca a ripiani orizzontali, coronata sulla fronte da un diadema a rosette. Altri frammenti mostrano scene di combattimento; infine su un rilievo potrebbe essere ricostruita una coppia di sfingi nell’atto di sollevare un corpo. È probabile che le lastre decorassero, senza però alcuna unità compositiva, un edificio dell’acropoli.

Fig. 2.24 Metopa con triade femminile, da Gortina. Heraklion, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 2.25 Rilievo con busto femminile, da Micene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 2.26 Testa femminile, dall’Heraion. Olimpia, Museo Archeologico.

Al principio del secolo VI a.C. data invece una colossale testa di Hera (h 52 cm) in pietra locale, rinvenuta nell’Heraion di Olimpia (Fig. 2.26). Qualcuno ha proposto di riconoscervi la testa dell’agalma della dea che, seduta accanto a uno Zeus stante, doveva comporre il gruppo cultuale dell’antico tempio, visto e descritto anche da Pausania molti secoli più tardi (V, 17, 1): «Nel suo interno (dell’Heraion) si trova (una statua) di Zeus; quella di Hera è seduta in trono e Zeus le sta accanto, in piedi, barbato e con l’elmo in testa: sono opere di rozza fattura». La testa ha l’aspetto di un potente solido geometrico, la cui terribilità si esprime attraverso i grandi occhi con iride e pupilla incisi, la bocca tagliente, il naso largo; della capigliatura emergono

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qui solo alcune ciocche movimentate da pochi solchi incisi sotto il pesante polos. 2.3.4 Le Cicladi: il kolossòs e il marmo

Un ruolo di primo piano nello sviluppo della scultura monumentale di età orientalizzante rivestono le isole Cicladi, dove ha inizio proprio in questo periodo lo sfruttamento delle cave di marmo: il marmo di Nasso, di grana grossa e brillante, e il marmo di Paro di tessitura più zuccherosa e aspetto traslucido. Nascono di conseguenza botteghe di artigiani esperti nella lavorazione dei blocchi marmorei, capaci di scolpirne forme, di pulirne le superfici, con perizia tecnica e scelta appropriata di strumenti. Il loro orgoglio per l’abilità raggiunta si riassume nella firma del nassio Euthykartidas a Delo, già sopra citata.

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Fig. 2.27 Bronzetto di kouros, da Delfi. Delfi, Museo.

Anche in ambito cicladico, come già a Creta, l’impeto per l’innovazione tecnica e stilistica proviene certamente dal Vicino Oriente, le cui novità i Greci avevano cominciato ad assorbire già nel corso del secolo IX a.C. Particolarmente evidente risulta l’influenza esercitata dall’Egitto, dove i Greci erano presenti numerosi in qualità di mercanti e di mercenari già sotto il regno di Psammetico I nella seconda metà del secolo VII a.C.; in Egitto infatti i Greci vennero certamente a contatto con la statuaria a tutto tondo di dimensioni colossali, i cui moduli e tipi sono quindi riproposti nella grande plastica cicladica di età orientalizzante, a ribadire la naturale attitudine greca a fare 118

propri e rielaborare velocemente informazioni e stimoli dall’esterno. Un’origine egiziana pare possa proprio essere evocata per il tipo scultoreo del kouros, ossia della figura maschile nuda, in posizione eretta, con le braccia diritte o appena piegate lungo i fianchi, i pugni chiusi e una gamba (generalmente la sinistra) leggermente avanzata. Un’analisi al computer ha infatti dimostrato come i primi kouroi si avvicino assai più alle norme del canone saitico che costruisce le figure secondo una griglia di ventuno riquadri, che non alle proporzioni naturali; il che significa evidentemente che il sistema egiziano di costruzione della figura umana era noto e talvolta anche usato dai Greci, i quali solo successivamente si sarebbero spostati verso proporzioni più realistiche. Non documentato a Creta, il tipo del kouros si incontra per la prima volta intorno alla metà del secolo VII a.C., in un capolavoro di piccola plastica in bronzo rinvenuto a Delfi (Fig. 2.27). La figura (h 19 cm), interamente nuda, fatta eccezione per l’alta cintura, che compare spesso anche nei successivi kouroi cicladici in marmo, è eretta con la gamba sinistra avanzata; la pettinatura a parrucca richiama i canoni dedalici. La struttura solida e compatta si organizza intorno a un asse centrale che non è più chiaramente tracciato, come nell’Apollo di Mantiklos (Fig. 2.14), ma è divenuto immaginario, restando comunque punto di partenza per la costruzione dei solidi. Lo scarto della gamba sinistra in avanti libera il blocco dalla relazione passiva con lo spazio circostante che aveva imprigionato molti dei bronzetti geometrici (ecco perché Dedalo dovette legare le sue immagini che altrimenti sarebbero fuggite!); la posizione incedente esprime energia e potenza, ma non è movimento reale, ossia il giovinetto non avanza realmente nello spazio, piuttosto esprime una possibilità di movimento, ma il bacino resta fermo, fermo il torace, fisse le spalle, ancorate 119

ad assi orizzontali che intersecano l’asse verticale di costruzione della figura.

Fig. 2.28 Delo, frammenti del colosso dei Nassii.

Fig. 2.29 Il colosso dei Nassii nel disegno di Ciriaco d’Ancona (1445).

Il tipo del kouros trova larga fortuna presso gli scultori cicladici che lo ripropongono in dimensioni colossali. Ne è un esempio, per quanto mal conservato, la statua di Apollo in marmo, alta quattro volte le dimensioni naturali, che i Nassii dedicarono al dio di Delo nei primi anni del secolo VI a.C. (Fig. 2.28). I frammenti del torso ci mostrano una 120

figura maschile nuda con cintura alla vita, la cui anatomia risalta ora nel rilievo plastico dei pettorali, ora nei dettagli incisi dell’arcata epigastrica e del collo; come indica il malconcio frammento di bacino, il colosso era raffigurato incedente, secondo lo schema del kouros. Nel disegno di Ciriaco d’Ancona (Fig. 2.29), che vide la testa ancora sul busto nel 1445, apprezziamo un volto, ora non più conservato, già lontano dai canoni dedalici, pienamente ovale, mosso da un’acconciatura a lunghe trecce sparse sul petto. Altri esempi di statue colossali maschili ricavate dal marmo, databili verso la fine del secolo VII a.C. e il principio del successivo, giacciono suggestivamente da millenni nelle antiche cave di marmo dell’isola di Nasso, da cui furono estratti e solo parzialmente lavorati. Quello di Melanes (Fig. 2.30) fu verosimilmente abbandonato, in avanzato stato di lavorazione, a causa di una visibile frattura negli arti inferiori; il colosso di Apollonas, alto quasi 10 m, raffigurante in realtà un tipo diverso dal kouros, perché personaggio maschile barbato (secondi alcuni Dioniso) (Fig. 2.31), giace invece a terra solo parzialmente sbozzato.

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Fig. 2.30 Nasso, kouros di Melanes.

Cosa rappresentano i kouroi? Vale la pena di soffermarsi un istante sul significato della parola greca kolossòs; come notato da Vernant, essa infatti non designa in origine effigi di dimensioni gigantesche, esprime piuttosto l’idea di qualcosa di eretto, di rizzato, di piantato nel terreno e come tale immobile e inamovibile, diversamente – è stato suggerito – da xoana e sphyrelata, che spesso nella loro funzione di idoli di culto venivano portati in processione e quindi spostati. Infatti, per quanto lontano possiamo guardare, le più antiche statue monumentali, in pietra e in marmo, di korai e di kouroi sono tutte commemorative, votive o funerarie, sono cioè la pietrificazione immobile del devoto o della devota, che resta a guardia del santuario del dio, o a guardia della tomba dell’uomo; non possiamo con ciò escludere che alcune di esse abbiano talvolta rivestito il ruolo di statua di culto, ma pare questa circostanza più rara. Funzione votiva ha certamente la prima kore in marmo a noi giunta (Fig. 2.32). Ancora una volta una lunga iscrizione in esametri ce ne racconta la storia: Nikandre mi dedicò alla (dea) che colpisce da lontano e gode delle frecce; la figlia di Deinodikes il nassio, eccellente tra le altre, sorella di Deinomenes, e ora moglie di Phraxos.

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Fig. 2.31 Nasso, kouros di Apollonas.

La scultura, alta circa 2 m, in marmo di Nasso, fu rinvenuta a Delo nell’area dell’Artemision arcaico, come dedica ad Artemide da parte di una fanciulla di Nasso, Nikandre, probabilmente di famiglia aristocratica, nel delicato momento delle sue nozze, quindi del passaggio alla vita adulta. Raffigura una donna eretta, con le braccia solidamente aderenti al corpo, vestita di peplo cinto alla vita. I capelli si dispongono in trecce simmetriche ai lati del volto, i cui lineamenti, molto rovinati, lasciano solo intuire la passata grandezza. L’importanza della scultura, che si data intorno alla metà del secolo VII a.C., sta nella risolta difficoltà di ricavarla da un blocco di marmo, nell’impostazione monumentale e nell’orgoglio dell’iscrizione. La struttura, un po’ più piatta e squadrata della Dama di Auxerre (Fig. 2.21), esprime tuttavia una potenza volumetrica cui avrà conferito indubbio risalto anche l’originale policromia. 123

Una kore simile, ma molto meglio conservata, forse egualmente di bottega nassia, è stata di recente rinvenuta a Thera nella necropoli arcaica di Sellada; è alta 2,30 m e raffigura una fanciulla con il braccio sinistro teso lungo il fianco e la mano destra piegata al petto (Fig. 2.33). L’assenza di levigatura in superficie ha sollevato il dubbio che la statua non sia mai stata portata a termine, ma per una rottura sia rimasta abbandonata sul posto senza essere issata sulla tomba cui era destinata.

Fig. 2.32

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Kore di Nikandre, da Delo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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2.4 Oreficerie, bronzi e avori L’influsso orientale che caratterizza tutta l’arte greca del secolo VII a.C. si coglie con prepotenza anche nei manufatti in bronzo, in terracotta e in avorio, per i quali è anzi talvolta difficile comprendere se siano oggetti di importazione orientale, oppure prodotti di artigiani assiri, fenici, siriani trasferitisi in Grecia, oppure ancora di maestranze greche conquistate dai linguaggi e dalle tecniche del Vicino Oriente. I tradizionali tripodi geometrici vengono ora sostituiti da calderoni (Fig. 2.1), collocati su supporti troncoconici in lamina, con la bocca decorata da terrifiche protomi di grifoni (Fig. 2.34) e di leoni, appliques di sfingi e sirene (Fig. 2.35). Gli esemplari più notevoli, evidentemente oggetti fastosi destinati a essere doni votivi, raggiungono anche un’altezza di 2 m. Nei maggiori santuari della Grecia i depositi sacri hanno restituito armi, scudi, elmi, corazze, spesso con ricche decorazioni a sbalzo. Particolarmente interessanti sono i bronzi, soprattutto scudi, rinvenuti nell’antro di Zeus sul Monte Ida (Creta), per i quali si è ipotizzato che fossero opera di artigiani orientali, trasferitisi da qualche centro della Siria settentrionale a Creta per effetto della pressione assira. A un manufatto in legno con appliques realizzate in lamina appartiene forse una placca bronzea dall’Heraion di Argo (Fig. 2.36), alta circa 46 cm, capolavoro di raffinata toreutica. Vi sono raffigurate due donne, il cui abbigliamento, con abito aderente cinto alla vita e corta mantellina sulle spalle, richiama immediatamente la Dama di Auxerre (Fig. 2.21) e la kore di Nikandre (Fig. 2.32); 126

maturi tratti dedalici si osservano anche nelle pettinature a pesanti trecce e nei profili importanti dei volti; la lamina è stata infatti datata alla metà del secolo VII a.C. La figura di sinistra è ritratta mentre trafigge con violenza l’altra donna, trattenendola per i capelli; si è ipotizzato quindi che la scena rappresenti l’uccisione di Cassandra per mano di Clitemnestra.

Fig. 2.33 Santorini, kore.

Fig. 2.34 Protome di grifone in bronzo.

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Fig. 2.35 Manico di calderone in bronzo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Anche nella lavorazione del legno e dell’avorio gli artigiani greci mostrano di aver raggiunto una notevole perizia tecnica nelle operazioni di incisione, di intaglio, di tornitura; lo attestano chiaramente gli scarsi manufatti lignei a noi giunti, quali la già citata dea con polos da Samo (Fig. 2.18) e i più numerosi avori dai depositi del santuario di Artemide Orthia a Sparta, dell’Heraion di Perachora, dell’Heraion di Samo e dell’Artemision di Efeso. Proprio da Samo proviene una figurina maschile inginocchiata (h 14,5 cm) in avorio, con occhi a intarsio, forse elemento decorativo di una lira (Fig. 2.38); la nudità del giovinetto, interrotta solo dalla preziosa cintura, è quella dei kouroi cicladici. Alle necropoli arcaiche di Ialiso e Camiro sull’isola di Rodi appartengono invece suppellettili in argento e gioielli elaborati, come la collana d’oro (Fig. 2.37) con raffigurazione della dea delle fiere (Potnia theròn) dai tratti schiettamente dedalici; il monile si data alla seconda metà del secolo VII a.C.

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Fig. 2.36 Lamina di bronzo raffigurante Clitemnestra che trafigge Cassandra, dall’Heraion di Argo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 2.37 Collana d’oro con raffigurazione della Potnia theròn, da Camiro.

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Fig. 2.38 a,b Figurina inginocchiata in avorio, da Samo, e ipotesi di ricostruzione della lira di cui era (forse) elemento decorativo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 2.39 a,b Pithos con decorazione a rilievo raffigurante il cavallo di Troia. Mikonos, Museo Archeologico.

Al diffondersi del sistema di produzione a matrice, introdotto tra la fine del secolo VIII a.C. e i primi decenni 130

del successivo, si legano le fortune della coroplastica con la fabbricazione su grande scala di statuette in argilla, di destinazione funebre e sacra. Egualmente realizzate a matrice sono le decorazioni a rilievo dei grossi pithoi (contenitori per derrate alimentari) cicladici. Si tratta di manufatti estremamente impegnativi dal punto di vista tecnico, restituiti da molte delle isole Cicladi, dove spesso erano riutilizzati anche come contenitori funebri, ma verosimilmente prodotti soprattutto a Tino tra la fine dell’età geometrica e la prima metà del secolo VII a.C. Per la freschezza e la vivacità del soggetto figurato si ricorda il pithos di Mykonos con scene di Ilioupersis (sacco di Troia) (Fig. 2.39 a,b). Sul collo del pithos compare il gigantesco cavallo di legno degli Achei, montato su ruote perché possa essere trascinato; da alcune aperture quadrate si intravvedono i guerrieri che hanno già preso posto nella pancia del cavallo. Sul diametro massimo del vaso una sequenza di quadretti metopali mostra episodi di brutalità della guerra: il dramma delle donne che implorano pietà e la violenza cieca dei guerrieri che uccidono brutalmente i fanciulli.

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2.5 Il tracciante luminoso delle ceramiche Le fonti concordano nell’attribuire all’area corinzia un altro primato, accanto a quello delle tegole fittili e della coroplastica: sarebbe infatti invenzione corinzia anche la pittura, intesa in origine semplicemente come restituzione del profilo delle figure a campitura bruna. Se è vero quanto di recente constatato a proposito del carattere locale delle iscrizioni sulle metope di Thermos, queste non possono essere più citate come esempio di pittura corinzia, ma restano un importante documento della pittura di tarda età orientalizzante (intorno al 630-625 a.C.), una dimostrazione di sapiente uso della policromia in bianco, nero, rosso, giallo e marrone, oltre che una prova riuscita di composizione figurata. I personaggi, monumentali e ben calibrati nello spazio, richiamano, senza alcun ordine compositivo, i miti di Chelidone (Fig. 2.9), intenta con la sorella a imbandire le carni di Iti; di Perseo (Fig. 2.10); delle Cariti; del cacciatore Orione. Le tecniche pittoriche trovano più ampia espressione nella ceramografia. Il processo di differenziazione regionale delle produzioni ceramiche, iniziato già in età geometrica, diviene infatti ancora più marcato nell’Orientalizzante; propri vasi figurati producono Corinto, Atene, le città dell’Eubea, i centri delle Cicladi, della Ionia e dell’Eolia, infine le colonie greche di Magna Grecia e di Sicilia. Fermo restando l’indiscusso valore documentario di ciascuna delle classi ceramiche citate, si sceglie di concentrare qui l’attenzione sulle due maggiori produzioni, le ceramiche corinzie e attiche. 2.5.1 La ricca Corinto e le sue ceramiche

Dell’antica città greca di Corinto, centro fiorentissimo di 132

commerci e madrepatria di potenti colonie, oggi non resta quasi più nulla; i Romani la distrussero sistematicamente nel 146 a.C. per dedurvi un secolo più tardi una colonia. Tracciante luminoso della prosperità economica che rese Corinto famosa in tutto il Mediterraneo fin dalla tarda età geometrica sono, accanto alle scarse vestigia del tempio di Apollo (si veda par. 3.2.1), le sue ceramiche, prodotte in grandi quantità, con superbo successo e raffinato stile tra la fine del secolo VIII a.C. e la metà almeno del secolo VI a.C. La notizia riportata da Plinio il Vecchio (VII, 198) che la ruota del tornio ceramico fu inventata a Corinto può essere un riflesso dell’importanza che le ceramiche corinzie ebbero nell’antichità. In questo capitolo tratteremo dei vasi decorati nello stile detto «protocorinzio», che si evolve quasi all’improvviso dagli stilemi di età geometrica intorno al 720 a.C. e si sviluppa fino al terzo quarto del secolo VII a.C.; nel capitolo successivo si passerà invece a esporre dell’ulteriore evoluzione delle ceramiche di Corinto nello stile detto propriamente «corinzio», che perdura fino alla metà avanzata del secolo VI a.C.; avvenne allora che la feroce concorrenza sui mercati delle ceramiche attiche figurate segnò la fine delle fortune commerciali dei vasi corinzi. Corinto nacque in una fertile pianura, ricca di sorgenti, ai piedi dello sperone roccioso dell’Acrocorinto che, con la sua altezza di quasi 600 m, ben si prestava a fungere da acropoli inespugnabile della città (Fig. 2.40). Un indiscutibile vantaggio derivò a Corinto dalla sua posizione ancipite sui due golfi e rispettivi mari, quello Corinzio a nord, quello Saronico a sud; sul primo, percorso dalle rotte occidentali in direzione della Magna Grecia e della Sicilia, Corinto impiantò il porto del Lechaion; sul secondo, aperto in direzione dell’Attica e dell’Egeo, fu installato il porto del Kenchreai. Strategicamente collocata sul sottile istmo di 133

terra che allora ancora univa il resto della Grecia al Peloponneso (l’istmo venne tagliato alla fine del secolo XIX e oggi è percorribile dalle navi, Fig. 2.41), Corinto non poteva che trarre ricchezza e vantaggi dal controllo e dallo smistamento degli intensi traffici che fin dall’età geometrica percorrevano il Mediterraneo da est a ovest e in senso contrario. Tucidide, nel narrare la più antica storia delle città greche, allude a dazi doganali riscossi da Corinto per garantire e vigilare sul trasporto delle merci (I, 13, 5): «(i Corinzi) potendo offrire per mare e per terra un punto di smistamento al traffico commerciale, fecero poderosa l’economia del loro stato con l’afflusso delle rendite».

Fig. 2.40 Pianta di Corinto.

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Fig. 2.41 Istmo di Corinto.

Dai vasi geometrici ai vasi protocorinzi Fin dalla seconda metà del secolo VIII a.C. le ceramiche geometriche corinzie, conoscendo spesso una maggiore fortuna commerciale all’estero che in patria, erano state distribuite sulle rotte occidentali del Mediterraneo; numerosi esemplari sono stati infatti rinvenuti a Delfi, in varie località affacciate al Golfo Corinzio, lungo le coste dell’Epiro, a Itaca e nelle colonie greche dell’Italia meridionale e della Sicilia. La proiezione tutta occidentale della Corinto bacchiade avrebbe presto trovato concreta espressione anche nella fondazione delle potenti colonie di Siracusa e Corcira (Corfù) nel 734 a.C. Intorno al 720 a.C., mentre le botteghe ceramiche ateniesi ripetono stancamente stilemi tardogeometrici, a Corinto si consuma rapidamente un processo di differenziazione della 135

produzione ceramica con l’immissione improvvisa di elementi nuovi, di origine per lo più orientale, sia nella sintassi decorativa dei vasi, sia nella forma dei contenitori stessi. Nasce così lo stile protocorinzio. Le ceramiche protocorinzie, anch’esse esportate in Occidente, ma distribuite anche in varie località della Grecia propria e della Ionia, sono vasi, per lo più di piccole dimensioni, di spessore molto sottile, fabbricati con un’argilla fine, ben depurata, chiara, quasi bianca, che in cottura tende ad assumere i toni del giallo, del verdino, del camoscio; le superfici sono decorate con una vernice la cui tonalità oscilla dal rossastro, al bruno, al nero. L’ornato, quasi sempre di tono miniaturistico, ora si esprime in elementi subgeometrici di linee, fasce orizzontali e verticali, motivi a chevrons, corone di raggi; ora assume contenuti orientalizzanti con teorie di animali, fregi figurati a vocazione narrativa o mitologica. Nel complesso si tratta di una produzione ceramica piuttosto ricca, per la quale infatti i maggiori studiosi in materia (Payne, Amyx, Neeft) hanno individuato fino a una cinquantina di mani pittoriche. Il quadro morfologico si presenta decisamente più ricco rispetto a quello di età geometrica: accanto alle consuete forme potorie, per lo più coppe e kotylai, compaiono infatti piccoli contenitori per unguenti e olii profumati, gli aryballoi, ispirati verosimilmente a unguentari orientali e certamente collegati al diffusissimo impiego di essenze e di sostanze odorose di questo periodo. La rapida evoluzione morfologica dell’aryballos, che da più antiche forme globulari passa a profili allungati conici, ovoidi e piriformi, ha consentito di fissare la cronologia relativa delle ceramiche protocorinzie, vale a dire la sequenza interna della produzione da una fase di Protocorinzio Antico (PCA), attraverso una fase di

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Protocorinzio Medio (PCM) fino al Protocorinzio Tardo (PCT). L’aggancio alla cronologia assoluta, che trasforma cioè la sequenza PCA, PCM, PCT in intervalli cronologici definiti, è possibile grazie alle date riportate dalle fonti storicoletterarie circa la fondazione delle colonie in Magna Grecia e in Sicilia. Partendo cioè dall’assunto che la ceramica più antica rinvenuta in una colonia è più o meno contemporanea alla sua fondazione o al più posteriore di qualche anno (assunto peraltro non sempre vero), a Siracusa i più antichi aryballoi protocorinzi trovati, di forma globulare, si agganciano agli anni immediatamente successivi alla data di fondazione della città nel 734 a.C., si iscrivono cioè nel Protocorinzio Antico; la fondazione di Gela, nel 689 a.C., segna invece il passaggio dagli aryballoi globulari del Protocorinzio Antico a quelli conici e ovoidi del Protocorinzio Medio. L’impianto cronologico trae ulteriore conforto da fortunati ritrovamenti, quale è la cosiddetta Tomba di Bocchoris di Pithecusa (Ischia); essa presenta infatti l’associazione di ceramica protocorinzia con uno scarabeo recante il cartiglio del faraone Bocchoris, datato al 718 a.C.; questo fornisce dunque un termine di confronto cronologico per la ceramica in contesto.

Fig. 2.42

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Aryballos globulare protocorinzo (PCA). Londra, British Museum.

La scansione cronologica dei vasi protocorinzi può dunque riassumersi come segue: Stile protocorinzio antico (PCA): 720-690 a.C. Stile protocorinzio medio (PCM): 690-650 a.C. Stile protocorinzio tardo (PCT): 650-630 a.C. Stile protocorinzio antico (720-690 a.C.) I vasi del Protocorinzio Antico mostrano il prepotente ingresso nella sintassi decorativa di elementi nuovi: uccelli, cervi, pesci, cani, leoni si dispongono, dapprima senza un preciso ordine compositivo, sulle superfici ceramiche, ripartite in fregi sovrapposti da filetti e fasce; gli sfondi ospitano fitti riempitivi di rosette, trecce e spirali di chiara ascendenza orientale. Ne risulta irrimediabilmente smontata l’ordinata partitura di età geometrica, ma difficilmente i vasi raccontano un episodio o una storia; le fitte teorie di animali e di mostri obbediscono più a un principio decorativo che non a un impulso narrativo. La tecnica continua a essere quella precedente dei corpi tracciati a silhouette o a contorno (Fig. 2.42). Stile protocorinzio medio (690-650 a.C.) Nel Protocorinzio Medio il gusto figurativo orientalizzante assume toni sempre più vivaci e spigliati; le figure, via via meglio connotate, alludono ora più chiaramente a episodi del mito e ad antichi racconti: il suicidio di Aiace, la morte di Achille, la lotta di Zeus contro i Giganti, le Centauromachie, le parate di opliti e di cavalieri. Gli elementi figurati, ordinatamente e meticolosamente disposti entro fregi miniaturistici, sono dipinti con una tecnica nuova, detta tecnica a figure nere: sulla figura, tracciata a silhouette in nero o bruno, gli esperti pittori corinzi intervengono ora a delineare dettagli con graffiti e sovraddipinture in vernice paonazza e gialla. 138

Personaggi e animali acquistano dunque maggiore chiarezza, guadagnano in potenza e in monumentalità; le scene figurate, di complessità sempre maggiore, non perdono tuttavia di leggibilità.

Fig. 2.43 Svolgimento del fregio figurato dell’aryballos con Bellerofonte e Chimera.

Fig. 2.44 Kotyle frammentaria, Pittore di Bellerofonte, da Egina (PCM). Egina, Museo.

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Fig. 2.45 Piatto cicladico con Bellerofonte e Chimera, da Taso. Taso, Museo.

L’aryballos di forma allungata da Tebe, oggi a Boston, mette in scena un mito particolarmente caro ai Corinzi (Fig. 2.43); su una decorazione secondaria di raggi e di trecce, il pittore dipinge due fregi figurati: in basso una caccia alla lepre; nel punto di massima visibilità del piccolo unguentario la lotta di Bellerofonte contro la Chimera. Compromessosi con Preto, re di Tirinto, di cui si diceva avesse sedotto la moglie, Bellerofonte è inviato in Licia presso il re Iobate per essere sottoposto alle prove più crudeli; la più celebre delle sue fatiche è la lotta vittoriosa contro la Chimera, mostro leonino dall’alito infuocato, con protome di capra sul dorso e coda di serpente. Sull’aryballos di Tebe vediamo dunque Bellerofonte avventarsi con coraggio contro la terribile Chimera; l’eroe è saldamente in groppa al destriero alato, Pegaso, che aveva incontrato ai bordi dell’antica fonte Peirene a Corinto. La tendenza a decorare, più che non a narrare, tipica della ceramica protocorinzia, si coglie nella scelta del pittore di inserire ai lati della mitica lotta due sfingi che nulla hanno a che vedere con il soggetto; questo rimane infatti quasi sommerso dai riempitivi di ascendenza orientale, le rosette a punti, gli uncini, l’albero e perfino una piccola lucertola.

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Fig. 2.46 Unguentario plastico a forma di civetta. Parigi, Museo del Louvre.

Il medesimo tema è dipinto, con una più schietta vocazione narrativa, su una kotyle frammentaria da Egina dalla mano di uno dei pittori corinzi più prodigiosi, il cosiddetto Pittore di Bellerofonte (Fig. 2.44); diversamente dall’aryballos tebano, qui il ceramografo rinuncia ai riempitivi dello sfondo, conferendo così maggiore monumentalità e autonomia alla scena figurata; egli traccia con sicurezza le due figure giganteggianti, che occupano infatti tutto lo spazio a disposizione, come sospendendole in un’attesa, carica di tensione. La perizia tecnica dei pittori corinzi, le forme calibrate e al tempo stesso vigorose dei loro fregi miniaturistici possono meglio comprendersi confrontando lo stile dei due vasi appena citati con quello, tutto diverso, di un piatto decorato nuovamente con la lotta di Bellerofonte, rinvenuto a Taso, ma probabilmente dipinto da artigiani di Nasso intorno alla metà del secolo VII a.C. (Fig. 2.45). Un prodotto che esprime la piena maturità dei ceramisti e dei pittori corinzi sono gli unguentari plastici a forma di civetta (Fig. 2.46), di leone, di volatile, o con imboccatura configurata a protome leonina o a testa muliebre, quale è

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l’aryballos del Louvre (Fig. 2.22), già citato a confronto per la Dama di Auxerre. Stile protocorinzio tardo (650-630 a.C.) Con il Protocorinzio Tardo compaiono forme vascolari di maggiori dimensioni come l’olpe, una brocca a bocca rotonda con ansa a nastro, spesso decorata da elementi fittili a rotelle. Uno splendido esemplare, noto come Olpe Chigi (Fig. 2.47 a,b), molto ben conservato, è stato rinvenuto in una tomba di Veio (Etruria), forse dono o acquisto di un principe etrusco della zona. L’olpe (h 26 cm) data al passaggio tra Protocorinzio Medio e Protocorinzio Tardo; segna quindi per certi versi il momento in cui lo stile a figure nere corinzio raggiunge la sua massima potenzialità espressiva, con figure disposte in profondità in spazi finalmente liberi dai riempitivi geometrici, secondo un principio prospettico rudimentale, ma efficace, e con estesi ritocchi policromi in bianco, giallo, rosso e bruno. Nell’olpe cogliamo tuttavia anche un certo disagio del pittore che, per nulla aduso a decorare superfici ceramiche tanto estese, finisce per ripartire la decorazione figurata nel vecchio sistema dei fregi sovrapposti.

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Fig. 2.47a Olpe Chigi, da Veio. Roma, Museo Etrusco di Villa Giulia. (tav. 9a)

Fig. 2.47b Dettaglio del fregio superiore dell’Olpe Chigi. (tav. 9b)

Il pittore dell’Olpe Chigi infatti è un miniaturista notevole e per esprimere animazione gli bastano solo pochi centimetri di altezza. Nel primo fregio dall’alto, schiere di opliti, nell’atto di fare conversione al suono di un auleta, 143

costituiscono un richiamo potente alla forza militare di Corinto, ora guidata dal tiranno Cipselo; nel punto di massima espansione del vaso troviamo invece, incastonato tra un gruppo di quattro efebi con doppia cavalcatura e una scena cruenta di caccia al leone, l’unico episodio mitico dell’intero programma figurativo, il solo appunto a essere accompagnato da scritte, onde evitare fraintendimenti: si tratta del giudizio di Paride, dal quale discenderà, come noto, l’unione con la bellissima Elena; infine, sopra il piede, in proporzioni minori, è una vivace caccia incruenta a lepri e volpi. Una recente rilettura (Torelli) dell’intero complesso iconografico dell’olpe ha suggerito una costruzione ideologica molto serrata, simile a quella che qualche decennio dopo verrà messa in scena sul Cratere François (si veda par. 3.10.1): in un complesso di rappresentazioni paradigmatiche delle «fatiche» (caccia incruenta alle lepri e caccia pericolosa al leone) attraverso le quali un giovane aristocratico della Corinto bacchiade e cipselide avrebbe dovuto dare prova della sua aretè (virtù), l’episodio mitico del giudizio di Paride assumerebbe il valore di prefigurazione del premio delle nozze splendide, a coronamento delle prove cui dapprima il giovane efebo, quindi l’uomo maturo si è sottoposto. La scena di scontro oplitico sul fregio superiore, forse allusione alla guerra di Troia, diverrebbe in questa chiave l’avvertimento delle fatali conseguenze di «nozze sbagliate», ossia di un premio, qui la bellissima Elena, ottenuto contro giustizia. Se la lettura è valida, l’Olpe Chigi assume il significato di manifesto moraleggiante del percorso educativo dei giovani aristocratici corinzi. Sulle tracce di Damarato: appunti di commercio arcaico Per quanto a noi siano rimasti, rinvenuti nelle tombe o nei santuari, i soli contenitori ceramici vuoti, è

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ben evidente che in origine molti di essi furono plasmati, cotti e decorati per contenere qualcosa. È quindi sensato credere, fino a prova contraria, che a Corinto, accanto alle centinaia di unguentari protocorinzi, fossero fabbricati anche gli olii profumati a confezione di un prodotto di lusso che riscuoteva successo in tutto il Mediterraneo. Non si ha traccia di antichi laboratori di profumieri, ma è suggestivo che Plutarco nella Vita di Timoleonte (14, 3) racconti che il tiranno di Siracusa, Dionisio II (secolo IV a.C.), esule nella città dell’istmo, trascorreva molto tempo nelle profumerie corinzie. Plinio il Vecchio (XIII, 5) riferisce a sua volta di un’essenza profumata a base di iris, fabbricata a Corinto e particolarmente apprezzata; ma non potremmo dire se questa notizia possa valere già per la Corinto bacchiade e cipselide, o piuttosto per un momento storico più vicino allo scrittore latino. Certo la ricca economia corinzia non poggiava sui soli unguentari; le navi dovevano salpare cariche di armi, di tripodi, di tessuti ricamati, di materiale edilizio (le tegole fittili ad esempio), di olio e di vino, come mostra l’elevato numero di anfore corinzie circolanti nel Mediterraneo dal secolo VIII a.C. in poi. Non è chiaro quanto delle fortune commerciali e artigianali di Corinto possa essere dipeso da un organico programma di incentivazione promosso prima dagli aristocratici bacchiadi, quindi dai tiranni cipselidi che si sostituirono ai primi intorno alla metà del secolo VII a.C.; si può certo notare che il tiranno Cipselo, nel fondare le nuove colonie di Ambracia, Anattorio e Leucade lungo le coste dell’Epiro, intese verosimilmente imporre un controllo corinzio sulle rotte di navigazione verso occidente. Egualmente degni di essere citati sono gli interventi che interessarono il quartiere ceramico di Corinto, sul limite occidentale della città, proprio negli anni centrali del secolo VII a.C.; gli scavi hanno infatti chiarito come nella fase di passaggio tra PCM e PCT l’intera area abbia conosciuto una risistemazione degli impianti (bacini di decantazione dell’argilla, canali di scolo ecc.) a indubbio beneficio collettivo e probabile, conseguente incremento delle produzioni. Con ciò non si deve credere nell’esistenza di un commercio di bandiera, di navi corinzie che trasportano merci corinzie, di navi euboiche con merci dell’Eubea, di navi samie con prodotti di Samo ecc. Come mostrano chiaramente i relitti naufragati in fondo al mare, le navi trasportavano le più svariate merci, caricando e scaricando a ogni porto e a ogni approdo. È anzi probabile che molte delle più antiche esperienze greche di commercio fossero frutto di iniziative private; esemplare in proposito la vicenda del bacchiade Damarato, padre del futuro re di Roma, Tarquinio il Prisco, che alla metà del secolo VII a.C. esercitava un commercio tra la Grecia e l’Etruria così intenso da decidere infine di trasferirsi con alcuni compagni a Tarquinia; qui avrebbe introdotto la scrittura alfabetica e soprattutto diffuso le arti plastiche per merito di alcuni artisti greci che aveva portato con sé.

Ma non tutti i vasi del Protocorinzio Tardo eguagliano l’Olpe Chigi per qualità artistiche e ampiezza di contenuti; 145

anzi, la maggior parte delle ceramiche di questa fase mostra il dissolversi della tensione e della vivacità del Protocorinzio Medio e assume i toni di una decorazione stereotipata, di disegno spesso manieristico, ma totalmente privo di vigore. 2.5.2 Irrequietezza e crisi ad Atene

Mentre dunque a Corinto viene prodotta una ceramica fine di grande successo smerciata in tutto il Mediterraneo, Atene resta a lungo aggrappata al linguaggio figurativo geometrico che, dopo aver raggiunto apici di potenza espressiva, perde tensione ed equilibrio verso la fine del secolo VIII a.C., opponendo a lungo, tuttavia, una fiera resistenza all’assimilazione delle novità provenienti dall’Oriente. La prima personalità che pare avventurarsi oltre la tradizione geometrica è il Pittore di Analatos, attivo tra la fine del secolo VIII a.C. e i primi anni del secolo successivo; la sua produzione non rientra già più nella ceramica geometrica, bensì nella ceramica detta «protoattica», etichetta con la quale si designano i vasi attici figurati di età orientalizzante. L’hydria eponima del pittore (Fig. 2.48), rinvenuta ad Analatos, località tra Atene e il porto del Falero, conserva spunti geometrici nella forma del vaso, di grandi dimensioni (h 55 cm) e con decorazioni plastiche di serpenti sul labbro, sulla spalla e sull’ansa, e nella partitura decorativa che si estende sull’intera superficie senza tregua; ma accanto a motivi geometrici di losanghe, zig-zag, triangoli, linee e fasce, compaiono anche spunti nuovi, come la larga palmetta che sul diametro massimo del vaso separa lo scontro tra leoni famelici. La tecnica è ancora quella della campitura a silhouette e del contorno, ma il pittore mostra particolare inventiva nell’alternare le superfici interamente campite ad altre di puntini, come ben si osserva nei dettagli fitomorfi del vaso. Altri elementi di novità compaiono 146

nell’anfora del Louvre (Fig. 2.49), attribuita alla maturità del pittore. Il vaso riproduce una forma tardogeometrica, di notevole altezza (h 80 cm), con decorazione plastica di serpenti e articolazione tettonica quasi annullata dalle larghe pareti di argilla traforata delle anse. Nel complesso ornamentale è interessante notare che accanto ai più tradizionali fregi con parata di carri e choròs (danza di gruppo), compare anche una teoria di sfingi e nella decorazione accessoria trecce e larghe rosette, di indubbia ascendenza orientale. Il gusto coloristico del pittore è nel frattempo maturato, sicché accanto alle larghe campiture a colore e a puntini è documentato anche il ricorso al graffito nella resa di taluni dettagli dei cavalli nel fregio centrale.

Fig. 2.48

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Hydria protoattica del Pittore di Analatos, da Analatos. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 2.49 Anfora protoattica del Pittore di Analatos. Parigi, Museo del Louvre.

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Fig. 2.50 a,b,c Anfora protoattica del Pittore di Polifemo, da Eleusi. Eleusi, Museo. (tav. 10)

Nei decenni successivi, dal 680 a.C. per circa cinquant’anni (stile protoattico medio; 680-630 a.C.), la lenta sostituzione del vecchio patrimonio iconografico e compositivo geometrico accelera visibilmente con scelte figurative che rompono traumaticamente con il passato ed 149

esprimono soluzioni formali e tecniche disorganiche e irrequiete. Per circa una generazione alcuni artigiani si cimentano anche in una tecnica pittorica nuova, detta «stile bianco e nero» per l’uso, talvolta indiscriminato, del bianco a sottolineare alcuni dettagli. Sono tipiche del gusto stilistico di questa fase figure di grande mostruosità, con ventri enormi, posteriori magri, teste giganti, come le orrende gorgoni dipinte sull’anfora eponima del Pittore di Polifemo (Fig. 2.50 a,b,c). L’anfora, alta circa 1,42 m e datata alla metà del secolo VII a.C., è stata rinvenuta a Eleusi; vi era inumato un bambino. Ne è decorato solo uno dei lati, all’altro sono destinati riempitivi; rappresenta Perseo che, dopo aver decapitato Medusa, il cui corpo resta a fluttuare orribilmente nell’aria, fugge inseguito dalle sorelle di questa; Atena, maestosa e imperturbabile, resta a difenderlo. L’iconografia delle gorgoni è ancora incerta: su corpi sottili tracciati a contorno, vestiti di improbabili gonne, posano teste immense (Fig. 2.3), il cui profilo ricorda i calderoni bronzei con protomi animali (Fig. 2.1). Sul collo dell’anfora è la scena che dà il nome al pittore: Odisseo, il cui corpo in bianco si distingue nettamente dalle silhouettes nere dei due compagni, trafigge con slancio violento l’occhio di Polifemo. Il pittore dipinge su grandi superfici e mostra piena padronanza di tutte le tecniche, la campitura nera, il contorno, il graffito e l’uso del bianco. La fuga di Odisseo e dei compagni dall’antro di Polifemo è invece il soggetto raffigurato su una brocca da Egina (Fig. 2.51 a,b), eponima del Pittore della Brocca degli arieti, di poco più giovane del Pittore di Polifemo, forse suo allievo, attivo nel secondo quarto del secolo VII a.C.

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Fig. 2.51 a,b Brocca frammentaria, del Pittore della Brocca degli arieti, da Egina. Egina, Museo.

I vasi protoattici della fase antica (710-680 a.C.) e media (680-630 a.C) non conoscono ampia distribuzione commerciale, provengono bensì da un’area geografica ristretta, per lo più dalle necropoli di Atene, ma soprattutto di altre località dell’Attica a breve distanza dalla città, o ancora da Egina, Eleusi, Megara, Argo e Perachora. Testimoniano dunque di una crisi profonda, di natura politica, sociale e commerciale, che determina probabilmente lo spostamento di parte dell’élite aristocratica da Atene alle campagne intorno alla città, e soprattutto la migrazione di alcuni artigiani verso occidente, nei promettenti centri della Sicilia e della Magna Grecia. Molto interessante è, in proposito, la vicenda del Pittore della Scacchiera (cosiddetto da un tipo di riempitivo) che, stando a recenti ipotesi (Giuliano), sarebbe stato dapprima 151

attivo in Attica intorno al 680 a.C., quindi sarebbe emigrato a Metaponto (nell’odierna Basilicata), dove gli si attribuisce il deinos con Bellerofonte e Chimera (Fig. 2.52), rinvenuto nel sito protocoloniale dell’Incoronata di Metaponto. L’arte del vasaio: tecniche di decorazione Gli artigiani greci decoravano la superficie dei vasi quando questi avevano raggiunto uno stato di durezza a cuoio. Il presupposto di una riuscita ornamentazione era la capacità del pittore di dominare fermamente il disegno a mano libera, perché solo raramente sulla superficie si tracciava uno schizzo preparatorio; talvolta l’esecuzione di motivi geometrici, come linee, cerchi concentrici, semicerchi o sottili squame sovrapposte, era agevolata dall’uso di pennelli montati su compassi, di cui spesso si osserva il foro di appoggio ancora conservato sulla superficie del vaso. I pittori entravano giovinetti nelle botteghe e compivano un lungo apprendistato che li portava dall’esecuzione di semplici motivi alla realizzazione di scene via via sempre più complesse; raggiunta un’età avanzata, poteva capitare che, per cecità oppure per mano inferma, i ceramografi si riciclassero in compiti diversi all’interno dell’officina. L’effetto cromatico sui vasi greci dipende sostanzialmente dall’applicazione di tinte, di origine naturale, ossia terre e argille estremamente depurate che si fissano in cottura. La «vernice» nera o bruna che è alla base di tutte le decorazioni vascolari greche, non è che un rivestimento sottile di argilla molto depurata, contenente ferro, le cui particelle in cottura si trasformano nello strato lucido che rende le ceramiche impermeabili. Le cosiddette sovraddipinture in rosso, paonazzo, giallo, ampiamente diffuse sia nella ceramica corinzia sia in quella attica, sono a loro volta delle terre, stese sopra il precedente rivestimento (attendendo però che questo sia asciugato), che in cottura assumono le varie tonalità. Nella tecnica a figure nere i dettagli vengono eseguiti con il graffito, ovvero incidendo la superficie con uno stilo appuntito in metallo o in avorio; lo strumento penetra in profondità nell’argilla ormai asciugata, sicché le linee dopo la cottura risaltano in maniera chiara sul rivestimento nero lucido.

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Fig. 2.52 Deinos con Bellerofonte e Chimera, dall’Incoronata di Metaponto. Metaponto, Museo Archeologico Nazionale.

Da tale crisi l’Attica pare tuttavia riprendersi con vigore a partire dalsl’ultimo trentennio del secolo VII a.C. Con le ceramiche protoattiche tarde (630-600 a.C.) si registra infatti un significativo incremento commerciale con esportazioni fino in Egitto e in Etruria. La precedente irrequietezza e contradditorietà tecnica e iconografica si compongono in un linguaggio canonico e potente; lo slancio delle figure si attenua e delle varie tecniche sperimentate prevale quella a figure nere con ritocchi in paonazzo, importata da Corinto. Si verifica così il trapasso dal linguaggio di tradizione orientalizzante a quello delle prime ceramiche attiche a 153

figure nere, che saranno oggetto del prossimo capitolo (si vedano i parr. 3.10.1, 3.10.2).

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3 L’età arcaica (secolo VI a.C.) MARINA CASTOLDI, CLAUDIA LAMBRUGO

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3.1 Da Pisistrato alle Guerre Persiane: dalla tirannide alla democrazia L’età arcaica conosce trasformazioni sociali e politiche che, in una condizione di più generale e diffuso benessere, vedono anzitutto il formarsi e il consolidarsi del prestigio delle classi artigianali (Fig. 3.1); il loro orgoglio è testimoniato dalle ricche dediche sull’Acropoli di Atene (Fig. 3.38) e dall’aumentato numero di firme di scultori, di pittori, di ceramisti. La sicura padronanza delle tecniche, il controllo commerciale delle rotte ormai estese a tutto il Mediterraneo, la presenza consolidata di sbocchi per le merci, sono i presupposti per una crescita artigianale libera, di grande vivacità e competitività, nell’ambito della quale le fortune dei vasi figurati si sposteranno progressivamente da Corinto ad Atene, mentre la prima, insieme a Sparta, mantiene fino alla fine del secolo VI a.C. un indiscusso primato nella produzione dei bronzi. Un notevole impulso per l’incremento delle attività artigianali e di mercatura a breve e lunga distanza viene tradizionalmente riconosciuto alle politiche economiche dei tiranni, dei Cipselidi a Corinto, dei Pisistratidi ad Atene, mentre a snellire le transazioni commerciali tra i numerosi interlocutori va segnalata ora l’introduzione della moneta, il cui primato Erodoto assegna alla Lidia (I, 94).

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Fig. 3.1 Fregio figurato con scena di laboratorio ceramico sulla spalla di una hydria attica a figure nere. Monaco, Staatliche Antikensammlungen.

Alla migliore e più equilibrata distribuzione della ricchezza si lega la comparsa nei grandi santuari di donari cittadini come i thesauròi dei Sicioni, dei Sifni, dei Corinzi, degli Ateniesi a Delfi, in luogo di quegli accumuli di metalli preziosi, di oreficerie, di avori e di manufatti esotici, attraverso i quali si era espressa invece l’ideologia aristocratica di età orientalizzante, sia nei contesti sacri sia in quelli funebri. Mentre gli dei cessano di essere minacciosi e incombenti, per vestire i panni delle divinità cittadine, benevole e protettrici, lo spirito di felice naturalezza, di acuta ingegnosità, di spontaneo impeto combattivo contro il comune nemico persiano anima i giovani volti dei kouroi e delle korai in marmo, alimenta le vivaci scene dipinte sui vasi dove, accanto alle saghe di dei ed eroi, compaiono anche quadri di vita quotidiana, episodi di palestra, di amore, di lavoro, di commercio, di immediatezza insuperata. Nel godimento dei beni in vita, con la serena accettazione di un destino cui l’uomo non può opporsi, si riassume il sorriso baldanzoso e altero di Kroisos (Fig. 3.34), cui Ares 158

spezzò la giovinezza mentre combatteva in prima fila, e della bella Phrasikleia (Fig. 3.45) che gli dei vollero sottrarre alle nozze. Sicché, quando nelle sue storie Erodoto (I, 32) fa incontrare il saggio Solone di Atene e il glorioso re dei Lidi, Creso, al primo farà dire che felice è «colui che passa la vita possedendo la maggior parte dei beni e poi muore serenamente», meglio se di morte gloriosa. In questo si riassume l’etica dei Greci di età arcaica. 3.1.1 Atene: Solone, Pisistrato e la nascita della democrazia

Nei primissimi anni del secolo VI a.C. il progressivo inasprirsi dei conflitti sociali tra ricchi e poveri, tra grandi proprietari terrieri e quanti lavoravano la terra per loro, vide emergere ad Atene la figura di Solone, il cui arcontato si data nel 594-593 a.C. Egli, nel totale rispetto del tradizionale assetto politico e costituzionale, agì da pacificatore e mediatore delle tensioni civili; operando cioè dall’interno delle leggi e delle competenze magistratuali, ammodernò qua e là, sancendo, anche tramite una riforma monetaria, la riduzione dei debiti e l’abolizione della schiavitù contratta per debiti, dando impulso all’esportazione dei prodotti artigianali e allargando anche ai salariati la possibilità di sedere nell’assemblea e nel tribunale popolari. Terminato il suo incarico, Solone, ben lungi da ambizioni tiranniche, si sarebbe ritirato a vita privata, viaggiando molto per commercio e per curiosità culturale. Nel corso del suo peregrinare in Egitto e in Oriente si colloca la tradizione dell’incontro con Creso (Erodoto, I, 3033) che però per ragioni cronologiche difficilmente può avere avuto luogo; Creso infatti divenne re di Lidia nel 560 a.C., troppo tardi perché Solone fosse ancora in vita. Ad Atene nel frattempo la pace ristabilita dal saggio intervento di Solone si rivela quanto mai effimera e, con il

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riaccendersi delle tensioni sociali, sulla scena politica ateniese compare un nuovo protagonista, Pisistrato. Irriducibile e instancabile, Pisistrato tenta per ben tre volte (561 a.C., 549 a.C., 534 a.C.) di imporsi come tiranno di Atene, dapprima all’insegna della legittimità e della tradizione, quindi con metodi straordinari e illegali; ma Atene è città difficile a piegarsi a soluzioni tiranniche per la consolidata politica di gestione comunitaria, per le accese e vitali lotte tra partiti, le cui mutevoli alleanze rovesciano Pisistrato ripetutamente. Solo grazie ad aiuti in denaro, al reclutamento di mercenari e con il fervido appoggio di Ligdami (che diverrà presto tiranno di Nasso), Pisistrato riesce infine a insediarsi saldamente ad Atene e a governarla dal 534 a.C. all’anno della sua morte nel 528 a.C. La potente famiglia ateniese degli Alcmeonidi (da cui discenderà Pericle), che tanta parte aveva avuto nell’opposizione politica a Pisistrato, fu allora costretta all’esilio; si rifugiò a Delfi dove assunse l’appalto della ricostruzione del tempio di Apollo, distrutto da un grave incendio nel 548 a.C. Le fonti letterarie sono sostanzialmente unanimi nell’esprimere valutazioni positive sulla tirannide di Pisistrato; egli non avrebbe mutato le leggi della città, si sarebbe bensì limitato a governare con moderazione, affidando a parenti e amici le cariche magistratuali cittadine. La sua politica incrementò lo sviluppo dell’agricoltura sotto forma di piccola proprietà terriera, ma caldeggiò anche l’allestimento di una flotta, diede impulso alle attività artigianali, sostenne interventi di razionalizzazione urbana e cospicui progetti edilizi. In politica estera si assiste al definitivo affrancamento di Atene da una influenza politica ed economica su ristretta sfera regionale; bloccata la strada dei commerci verso l’Occidente dall’ingombrante controllo esercitato da Corinto, Taranto, Siracusa, con Pisistrato e il successore 160

Ippia si consolida piuttosto la presenza di Atene nel Golfo Saronico, nell’Egeo settentrionale, in Tracia e nell’Ellesponto. Negli stessi anni l’egemonia ateniese si sostituisce nel santuario di Delo alla precedente, preponderante, presenza nassia, tant’è che da questo momento in poi Atene si erge a paladina degli interessi dei centri cicladici, con il conseguente spostamento di molti artisti e artigiani dalle isole ad Atene; Aristion di Paro, che scolpì la fanciulla di Phrasikleia (Fig. 3.45), fu probabilmente uno di questi. Alla morte di Pisistrato nel 528 a.C., gli succede il figlio Ippia che già si era distinto per doti politiche e militari accanto al padre; Ipparco è invece l’intellettuale di famiglia, che raccoglie attorno a sé una corte di poeti, tra i quali Anacreonte e Simonide, e mostra così un aperto favore per le arti e la poesia, come già era accaduto a Corinto con Periandro e Arione di Lesbo. Con Ippia si assiste a un inasprirsi delle forme di potere e a un rafforzarsi degli aspetti personali nell’esercizio di questo, che sfociano nella crisi del 514 a.C., quando in una congiura che sarebbe invero scaturita da ragioni private e sentimentali, Ipparco viene ucciso da Armodio e Aristogitone. I due tirannicidi, subito trucidati, assurgono nella successiva tradizione ateniese al ruolo di liberatori della città e restauratori della libertà; ben due gruppi bronzei, l’uno di Antenore, l’altro di Kritios e Nesiotes (Fig. 4.33), sarebbero stati a breve commissionati dalla città a gloria imperitura dei due. La successiva alleanza tra gli esuli Alcmeonidi e Sparta, nemica di tutte le tirannidi, provoca la cacciata di Ippia da Atene nel 511-510 a.C.; in città si apre allora di nuovo un violento dibattito tra i sostenitori dell’alcmeonide Clistene, fautore di un totale rinnovamento politico e costituzionale, e i sostenitori di Isagora a favore di esiti oligarchici, evidentemente graditi a Sparta. 161

Con l’imporsi del primo muta completamente negli ultimi anni del secolo VI a.C. l’ordinamento costituzionale di Atene che cessa di reggersi su forme aristocratiche di matrice oligarchica. Partendo infatti da una nuova articolazione sociale su base territoriale, nasce l’assemblea dei cinquencento (Boulè), i cui membri sono sorteggiati a rotazione in cinquanta per ogni tribù territoriale; per combattere quindi il pericolo di una nuova tirannide viene instaurata la procedura dell’ostracismo, con la quale è possibile allontanare dalla città e dal territorio coloro che mostrino ambizioni personali nell’esercizio del potere. Nasce così la democrazia ateniese che andrà incontro a un ulteriore affinamento istituzionale nei decenni successivi. 3.1.2 Gli altri protagonisti

Nel corso del secolo VI a.C. si assiste anche al definirsi del ruolo egemonico di Sparta nel Peloponneso, in seguito a guerre con le quali la città laconica ottiene progressivamente il controllo sulle altre realtà politiche e territoriali della penisola. Si delinea così il contesto storico per la formazione della lega peloponnesiaca, formata cioè dagli Spartani e dai loro alleati; essa è da intendersi più come organismo federale di coordinamento che non in termini di autentica egemonia, legata quindi al versamento di contributi o alla presenza di guarnigioni spartane nelle città alleate.

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Fig. 3.2 Coppa laconica con il re Arcesilao di Cirene che presiede al carico del silfio, Pittore di Arcesilao, da Vulci. Parigi, Cabinet des Médailles. (tav. 11)

Sparta mantiene, almeno fino alla metà del secolo VI a.C., un grande fervore economico e commerciale con ceramiche figurate e bronzi distribuiti in tutto l’Occidente grazie all’appoggio della colonia laconica di Taranto, e verso sud sulle coste della Cirenaica; ne è chiaro esempio la coppa laconica proveniente da Vulci (Etruria), raffigurante il re di Cirene Arcesilao, mentre presiede al carico del pregiato silfio cireneo (Fig. 3.2). Il successivo chiudersi di Sparta al cosmopolitismo dei rapporti con le ricche entità microasiatiche e magnogreche causerà quell’irrigidimento strutturale cui si lega l’immagine tradizionale della città. Anche Corinto conserva nel corso di questo secolo una consistente importanza politica e commerciale, che prosegue anche dopo la caduta dei Cipselidi nel 585 a.C. La città domina i mercati della Grecia settentrionale lungo le coste dell’Epiro e, grazie alla solida collaborazione con la colonia di Siracusa, quelli occidentali sicelioti e magnogreci. Il tramonto delle fortune delle ceramiche figurate corinzie 163

intorno alla metà del secolo VI a.C., sotto la prorompente concorrenza dei vasi attici, non significherà l’immediata fine della ricchezza economica di Corinto (legata anche ad altre voci commerciali) che andrà piuttosto spegnendosi lentamente verso la fine del secolo. Un drastico mutamento si stava invece preparando per le città greche della costa ionica che ancora intorno alla metà del secolo VI a.C. potevano godere dell’amicizia di Creso, re dei Lidi (560-546 a.C.), fedele adepto dell’Apollo pitico, nel cui santuario a Delfi riversò infatti una valanga di doni preziosi, e generoso finanziatore di una parte della splendida decorazione dell’Artemision di Efeso. L’autonomia, la ricchezza e l’intraprendenza commerciale delle città greco-orientali si infransero infatti inesorabilmente con la caduta della Lidia nel 546 a.C. sotto il controllo di Ciro, re dei Persiani. Costui, in pochissimi anni, tra la Mesopotamia e l’altopiano iranico, si era sostituito ai Medi nel controllo di un regno che avrebbe presto assunto un’estensione vastissima, dall’Anatolia al Caucaso fino all’India e all’Egitto. Si affacciava così alle coste dell’Egeo un’entità politica nuova, la Persia, tutt’altro che amica dei Greci, al contrario intenzionata a portare avanti una politica di espansione e di controllo estesa anche al Mediterraneo. Al mutato assetto politico si lega ora una diaspora di Ioni verso la Grecia, diaspora che tanta parte ebbe, nella seconda metà del secolo VI a.C., nella definizione di nuove caratteristiche nell’espressione artistica greca. Rientra probabilmente tra i regimi fiduciari del Gran Re di Persia anche la tirannide di Policrate a Samo, una delle ultime di età arcaica, instauratasi verosimilmente intorno al 540 a.C. con ambizioni talassocratiche che si esprimono anche attraverso una terribile attività di pirateria; con i

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proventi da questa derivati, Policrate finanzia una consistente attività edilizia sull’isola. 3.1.3 I Greci per la libertà

Non è chiaro se la rivolta delle città ioniche contro i Persiani nel 499 a.C. sia nata dall’insofferenza per l’esazione di un tributo da versare alle casse persiane o per un desiderio di libertà; resta il fatto che, anche in seguito a iniziative di politica estera poco felici, la città di Mileto insorge e, chiedendo aiuto alla Grecia, ottiene risposta dalla sola Atene (che a Mileto era legata da una comune origine ionica) e da Eretria. Assunte via via proporzioni maggiori per il ribellarsi di tutte le città greche della costa insieme ai Cari e ai Lici, la rivolta si consuma nello scontro navale di Lade del 494 a.C., vinto dai Persiani; Mileto, assediata per mare e per terra, viene infine conquistata e distrutta, mentre il santuario oracolare di Didyma è dato alle fiamme. Le successive guerre persiane costituiscono la logica conseguenza dello scontro tra i Persiani e i Greci della Ionia, con i loro sparuti, ma arditi, sostenitori Ateniesi. Così la prima guerra persiana viene probabilmente progettata dal re Dario come spedizione punitiva contro Atene, ma nello scontro nella piana di Maratona (490 a.C.), dove sbarca un esercito persiano forte di circa 20.000 uomini, hanno la meglio contro ogni previsione gli opliti ateniesi (Fig. 3.3).

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Fig. 3.3 Pinax con oplita in corsa, Euthymides. Atene, Museo dell’Acropoli.

Negli anni immediatamente successivi, mentre Serse, succeduto a Dario sul trono di Persia nel 485 a.C., prepara una grossa controffensiva, questa volta diretta contro tutti i Greci, gli Ateniesi, guidati da Temistocle, incrementano la flotta militare, mettendo a frutto allo scopo i proventi derivati dallo sfruttamento delle miniere argentifere del Laurio. La seconda guerra persiana (480-479 a.C.), con gli epici scontri delle Termopili, dove si consuma il sacrificio dei trecento Spartani di Leonida, di Salamina e di Platea, sono la dimostrazione di una solidarietà nazionale che tuttavia non si identifica nell’intera area culturale greca, bensì nelle sole regioni meridionali, sull’asse Atene-Sparta, dove non a caso la forma cittadina aveva conosciuto nei secoli un maggiore sviluppo. Il sacrificio degli Ateniesi che, obbedendo a un decreto, lasciano la loro città e si rifugiano sulle isole del Golfo Saronico e a Trezene, abbandonando così Atene al violento sacco persiano, sarà poi ampiamente ripagato da una politica propagandistica che eleggerà Atene al ruolo di salvatrice della Grecia e della sua libertà; così è 166

detto esplicitamente anche da Erodoto (VII, 139): «chi dicesse che gli Ateniesi furono i salvatori dell’Ellade non si allontanerebbe dal vero». Al termine dello scontro infatti Sparta, pur forte di un grande prestigio presso i Greci, rientra in una dimensione politica quasi regionale, mentre Atene si avvia a consolidare la sua posizione di prestigio internazionale, maturando una coscienza politica del proprio ruolo che non si esaurisce nella lotta contro il barbaro persiano, ma si esprime anche nella costruzione di un nuovo modello politico, quello democratico. La «colmata persiana» Il termine «colmata persiana», d’uso corrente nel gergo archeologico, definisce lo scarico di una parte delle macerie che gli Ateniesi trovano sull’Acropoli al loro ritorno, dopo le violente distruzioni perpetuate dai Persiani nel settembre del 480 e nell’estate del 479 a.C. Il termine risale agli scavi della fine dell’Ottocento; in realtà, secondo gli studi più recenti, solo i reperti rinvenuti nel grande scarico a nord e nord-ovest dell’Eretteo appartengono al deposito successivo al sacco persiano dell’Acropoli; altri scarichi, scavati a sud e a sud-est del Partenone, testimoniano un processo di seppellimento relativo a precedenti fasi edilizie dell’Acropoli (si veda par. 3.4). La «colmata persiana» è quindi un deposito sigillato, che riceve un prezioso termine ante quem dagli avvenimenti che portano alla sua formazione: le statue e i frammenti architettonici ivi rinvenuti sono tutti anteriori al 480-479 a.C.; essi testimoniano la qualità delle offerte del grande santuario poliade nell’ultima fase dell’età arcaica. Al di là dell’aspetto pratico e funzionale del riempimento, necessario al ripristino del santuario, l’accurata deposizione delle sculture sottolinea il significato rituale del loro seppellimento, legato alla valenza religiosa delle offerte.

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3.2 La definizione degli ordini architettonici È nel corso del secolo VI a.C. che il tempio greco, affrancandosi dagli esperimenti provvisori e talvolta impacciati dei decenni precedenti, trova la sua espressione armonica e matura. L’edificio periptero, che certamente risponde anche a specifiche esigenze pratiche (riparo dalla pioggia), cultuali e rituali (esposizione di ex voto e svolgimento di processioni), si impone ora definitivamente come una soluzione efficace a esprimere le tensioni tra le componenti tettoniche chiuse della cella e la loggia aperta, a rendere quindi dinamicamente con un gioco plastico il fecondo contrasto tra le pareti, i sostegni e gli spazi. Il solido chiuso del naòs e il recinto aperto della peristasi andranno poco a poco collegandosi in una perfetta connessione di disposizioni assiali e di rapporti modulari, fino alla definizione di un canone proporzionale di lunghezza, larghezza e altezza dell’edificio. L’attenzione degli architetti greci per la componente estetica nella progettazione del solido architettonico è all’origine dell’applicazione, piuttosto precoce se già per l’Heraion di Olimpia si può parlare di una prima soluzione del «conflitto angolare», delle cosiddette «correzioni ottiche», atte a modificare mediante alcuni accorgimenti gli errori visuali o gli effetti deformanti che si producono nella visione dell’edificio. Gli elementi ornamentali distintivi dell’ordine dorico e ionico, nella colonna, nel capitello e nell’intera trabeazione, prendono progressivamente forma dalla pietrificazione delle commessure e degli snodi lignei delle componenti edilizie; essi assumono forme severe e rigorose nell’ordine dorico, i cui effetti ritmici risultano fin da ora rigidamente vincolati 168

da rapporti modulari e proporzionali; decisamente più esuberanti e fantasiosi nell’ordine ionico, la cui sintassi formale mantiene invece connotati flessibili per l’intera età arcaica con la differenziazione di numerose scuole locali. Nelle varie fogge plastiche dei capitelli ionici e dei fregi figurati continui (il campo del frontone non fu mai oggetto di particolare gradimento in area ionica) si esprimono così elegantemente la grande ricchezza economica e la vivacità culturale delle città greche di area microasiatica, da sempre in stretto contatto con gli evoluti popoli orientali e culla della scuola filosofica ionica di Talete, Anassimandro e Pitagora che più di altre contribuì alla nascita del pensiero scientifico occidentale. 3.2.1 L’ordine dorico e «i colonnati, opere belle»

Al principio del secolo VI a.C. le colonie greche d’Occidente raggiungono una tale stabilità economica, sociale e politica da poter mettere in campo grandi realizzazioni architettoniche, mediante le quali dare prova di pieno controllo delle risorse e conquistare il consenso della comunità. Il progetto ambizioso di un imponente edificio sacro è infatti specchio eloquente delle aspirazioni generali di una città e del suo impegno nel realizzarle. Sono infatti Siracusa e Corcira (Corfù), le più antiche colonie doriche in Occidente, entrambe fondazioni di Corinto, ed entrambe al centro di intensi traffici sulle rotte mediterranee, le prime poleis capaci di elevare un tempio interamente in pietra.

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Fig. 3.4 a,b Siracusa, pianta e ricostruzione dell’Apollonion.

Risale al principio del secolo VI a.C. la costruzione dell’Apollonion di Siracusa, nella parte settentrionale della penisola di Ortigia, dove sorgeva anche l’acropoli della città. Si tratta di un tempio periptero esastilo (6 × 17 colonne) con uno dei più antichi colonnati dorici interamente in pietra (Fig. 3.4 a,b). 170

Il volume del tempio ha proporzioni allungate, come di consueto in età arcaica, ma qui l’allungamento è anzitutto conseguenza della progettazione di una fronte fastosa che si contraddistingue per l’inserimento di un doppio colonnato in facciata, caratteristica questa che si riproporrà spesso nell’architettura dorica magnogreca e siceliota. La cella, edificata in blocchi di pietra su un crepidoma di tre gradini (nell’Heraion di Olimpia il crepidoma è ancora a un solo gradino), è accessibile da un pronao distilo in antis, con le colonne perfettamente allineate su quelle centrali della facciata, interessate entrambe da un allargamento dell’interasse centrale, a ulteriore enfasi di una monumentale situazione di ingresso. Lo spazio interno del naòs accoglie la felice soluzione del duplice colonnato, già intuita nell’antico tempio di Dioniso a Yria (Nasso) nella prima metà del secolo VII a.C. (si veda par. 3.2.3.) e in quegli anni applicata anche nell’Heraion di Olimpia. Il duplice colonnato accompagna il visitatore, guidandolo fino all’ambiente più remoto, l’adyton, che chiude la cella al posto dell’opistodomo, dimostrando come la successione canonica degli spazi in pronao, cella e opistodomo possa essere di volta in volta variata e adattata a esigenze di culto. Tutto intorno corre una selva di colonne monolitiche, alte quasi 8 m, del peso ciascuna di 33 tonnellate, della cui messa in opera l’architetto fu particolarmente orgoglioso; corre infatti sullo stilobate del lato orientale, di accesso al tempio, un’iscrizione, anticamente di certo visibile da lontano: «Kleom[en]es, figlio di Knidieidas, fece il tempio per Apollo e alzò i colonnati, opere belle».

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Fig. 3.5 Siracusa, Apollonion, particolare della peristasi.

Nell’elevato, ancora parzialmente visibile, si colgono le caratteristiche dell’ordine dorico nelle sue precoci forme litiche (Fig. 3.5). Le colonne, ricavate da un unico blocco di pietra, e non composte di rocchi sovrapposti, quali saranno per lo più in seguito, sono prova eloquente e ambiziosa di una elevata perizia tecnica e meccanica; l’architetto le dispone sullo stilobate in ritmo così serrato, a sostegno sicuro del pesantissimo architrave, alto più di 2 m, che i pieni predominano sui vuoti, nonostante l’accorgimento di spaziare maggiormente gli intercolumnii dei lati brevi. Per ovviare all’impressione di un’opprimente gravità, le colonne litiche sono movimentate da scanalature, per ora nulla più di una sfaccettatura preliminare, e si rastremano verso l’alto, ma ancora con un assottigliamento matematico e rigido (senza cioè il successivo accorgimento dell’entasi). Il capitello, esso pure in pietra, si origina dal peso della trabeazione ed esprime «in senso letterale il conflitto tra forza portante e gravante» (Gruben); si compone di un abaco quadrangolare, su cui poggia direttamente il blocco dell’architrave, e di un echino a sezione circolare che segna il raccordo con la parte sommitale (sommoscapo) della colonna. Nel profilo, largo e rigonfio, dell’echino, e nella sua altezza, inferiore a quella del robusto abaco, si esprimono le 172

caratteristiche fortemente arcaiche dei capitelli dorici dell’Apollonion siracusano. Per la successione serratissima delle colonne della peristasi, con capitelli larghi e schiacciati che quasi si toccano, l’architetto rinuncia (o forse non si pone nemmeno il problema) a coordinare il ritmo delle colonne con le membrature della trabeazione litica, metope e triglifi, secondo cioè quei principi essenziali che trovano espressione già nella ricostruzione di fine VII e inizi VI secolo dell’Heraion di Olimpia; questa e altre trasandatezze rivelano una scarsa dimestichezza degli architetti siracusani con il nuovo materiale, la pietra, e con le regole delle sua articolazione formale. Queste sono al contrario assecondate con maggiore maturità nel più antico periptero in pietra della madrepatria, l’Artemision eretto a Corcira (Corfù) nei pressi del porto della città, intorno al 580 a.C. (Fig. 3.6). La scelta di un peristilio molto largo, di ampiezza pari a due interassi, dipende probabilmente dalla necessità di disporre di un porticato in cui svolgere feste e processioni; essa provoca tuttavia l’allargamento della fronte che da esastila (come a Olimpia e Siracusa) si presenta qui ottastila con 17 colonne sul lato lungo. La scansione della peristasi in 8 × 17 colonne rispetta già le proporzioni che diverranno canoniche (sul lato lungo è il doppio delle colonne in facciata più una) e, come nell’Heraion di Olimpia, detta anche il modulo delle relazioni proporzionali tra lunghezza e larghezza dello stilobate. La tipologia dell’ampio peristilio anticipa l’edificio pseudodiptero di età ellenistica.

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Fig. 3.6 Corcira (Corfù), pianta dell’Artemision.

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Fig. 3.7 a,b,c,d Corcira (Corfù), Artemision e ricostruzione grafica dei rilievi del timpano occidentale.

La cella, con pronao e opistodomo distili in antis, ha l’aspetto, tipicamente arcaico, di un solido lungo e stretto, con lo spazio interno suddiviso da un doppio ordine di colonne, soluzione che verrà applicata ancora a lungo fino alla piena età classica. La peristasi litica, per quanto perfettamente coordinata alla trabeazione, modifica, come già a Siracusa, il rapporto 175

dinamico e plastico tra i pieni e i vuoti, a favore dei primi. Il ritmo ravvicinato delle colonne infatti determina un intercolumnio poco più largo dello spessore della colonna; ma, per ovviare all’impressione di un fusto troppo tarchiato, sulla superficie della colonna sono intagliate ben 24 scanalature, contro le 16 dei più antichi sostegni lapidei dell’Heraion di Olimpia. Sulla colonna poggia un capitello di forme meno secche di quello siracusano, con una graziosa corona di foglie nel sommoscapo. Lo spazio triangolare dei frontoni sollecita qui per la prima volta composizioni plastiche lapidee complesse, di ritmo ascendente, in lastre di bassorilievi accostati, verosimilmente ravvivati da policromia. Meglio conservata è la composizione del timpano occidentale (Fig. 3.7), anche se alcuni frammenti suggeriscono la presenza di qualcosa di analogo nel frontone orientale e di metope egualmente a bassorilievo. Una gigantesca gorgone Medusa, alta 3 m (Fig. 3.8a), nel tipico schema arcaico della corsa inginocchiata, domina il centro del frontone; ai lati sono i figli dell’orrendo mostro, Pegaso e Crisaore (identificato anche come Perseo), che si pretendeva fossero nati dal cadavere della gorgone decapitata (Fig. 3.7b): quindi, a richiamo del motivo orientalizzante zoomorfo di tradizione corinzia, sono due pantere araldiche. Nello spazio discendente del triangolo trovano posto narrazioni mitiche in scala minore, nelle quali si riconoscono generalmente l’uccisione di Priamo (o l’assalto di un gigante a Hera in trono, secondo Mertens Horn, Fig. 3.8c) e la lotta di Zeus contro un gigante (Figg. 3.7d, 3.8c); giganti atterrati occupano infine i vertici opposti del triangolo (Fig. 3.8b). Dall’antica, isolata, maschera gorgonica apotropaica (gorgoneion), affissa sopra l’ingresso del tempio, di cui si conservano splendidi esemplari fittili da Gela, Siracusa e 176

Selinunte (Fig. 3.9), si passa nell’Artemision di Corcira a una più complessa decorazione frontonale che tende a occupare tutto lo spazio del timpano, superando le difficoltà connesse alla sua forma triangolare con la semplice giustapposizione per paratassi di elementi figurati resi in scale metriche differenti. Poco immediato è per ora il collegamento dei temi raffigurati nel frontone con la dea titolare del tempio, a meno che non si voglia leggere nella gorgone, signora degli animali, al fianco della quale infatti si accucciano due felini, un riferimento ad Artemide, che si connota come Potnia theròn (signora degli animali). La decorazione frontonale, che sarà da questo momento in poi uno dei temi guida della scultura greca, conserva nell’Artemision di Corcira un forte significato apotropaico, manifestato anche da alcuni dei successivi frontoni arcaici di Atene (si veda par. 3.4.1). Tale decorazione potrebbe tuttavia non essere priva di un intendimento narrativo, specie se si accetta l’ipotesi (Mertens Horn) di un collegamento della gigantomachia che decora i vertici del timpano con la stessa monumentale gorgone centrale, stante un’antica versione della lotta contro i giganti secondo la quale all’evento avrebbe preso parte anche la gorgone Medusa. Sotto il profilo stilistico invece si nota la lavorazione dei rilievi per piani staccati e sovrapposti, mentre va accentuandosi il cosiddetto sorriso arcaico (si veda par. 3.3.1).

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Fig. 3.8 a,b,c Corcira (Corfù), Artemision, particolari del frontone occidentale. Corfù, Museo.

Un ritorno in patria delle forme e degli equilibri architettonici sperimentati nelle colonie si verifica intorno alla metà del secolo VI a.C., quando a Corinto viene riedificato l’antico tempio di Apollo (secolo VII a.C.) sulla collina sopra l’agorà (Fig. 2.40). Nonostante le terribili devastazioni procurate da Lucio Mummio nel 146 a.C., allorché i Romani distrussero Corinto, del tempio si conservano ancora in piedi sette 178

colonne monolitiche, alte circa 6,40 m (Fig. 3.10). Le fondazioni dell’edificio furono scavate direttamente nel banco di poros e le colonne issate su un crepidoma di quattro gradini che conferiva slancio alla struttura grave e possente del tempio. Dalle dimensioni delle fondazioni si ricava una pianta periptera esastila di 6 × 15 (Fig. 3.11), al solito molto allungata, per la presenza di due celle contrapposte (duplice culto?) con pronao distilo in antis. Le colonne, ricavate come nell’Apollonion siracusano da un unico blocco di pietra, non presentano ancora l’entasi, ossia il rigonfiamento a un terzo dello sviluppo del fusto, con il quale si ovvierà presto alla rigidezza dell’assottigliamento con l’impressione di una crescita organica; ma troviamo una prima applicazione delle correzioni ottiche nella curvatura dello stilobate, il cui piano, altrimenti orizzontale, è interessato da un rigonfiamento di qualche centimetro. Tale accorgimento, insieme a una leggera contrazione degli intercolumnii sui lati lunghi, è motivo di meraviglia: la messa in opera di una tale curvatura richiedeva infatti grande attenzione e abilità da parte degli scalpellini che dovevano intagliare i singoli blocchi di pietra del basamento, avendo riguardo per il rigonfiamento e derogando quindi dall’usuale forma parallelepipeda ad angolo retto del blocco. I capitelli mostrano a loro volta forme più evolute con echino poco rigonfio, di altezza quasi pari a quella dell’abaco.

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Fig. 3.9 Lastra fittile con gorgone in corsa, dall’Athenaion di Siracusa. Siracusa, Museo Archeologico Regionale.

Fig. 3.10 Corinto, attuale stato di conservazione dell’Apollonion.

Fig. 3.11 Corinto, pianta dell’Apollonion.

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Con questi edifici di forza dirompente l’ordine dorico può dirsi codificato: siamo cioè di fronte a un canone che, per quanto poi conosca variazioni regionali, è già un sistema costruttivo ed estetico di caratteristiche severe ed equilibrate, basato su rapporti modulari. 3.2.2 Il genio di Rhoikos e i grandi dipteri ionici

Anche l’architettura sacra di area ionica mostra fin dall’inizio una logica progettuale razionale e matematica, la cui evoluzione trae tuttavia slancio vitale dall’incontro con quella ricchezza di fantasia che attinge spunti da esuberanti decorazioni animali e vegetali di origine egiziana e vicinoorientale. Nelle sue Storie Erodoto giustifica (III, 60) l’essersi dilungato a narrare dei Samii, ricordando che essi furono autori «delle tre più grandi opere di tutta la Grecia»: un lunghissimo acquedotto (poco meno di 1 km) che conduceva acqua in città da una sorgente, un molo nei pressi del porto e «un tempio più grande di tutti i templi che conosciamo, del quale primo architetto fu Rhoikos di Samo». Le fonti antiche ricordano Rhoikos, oltre che come architetto, anche come inventore della squadra e della livella; in qualità di scultore e di toreuta gli viene attribuita inoltre l’invenzione della tecnica di fusione cava del bronzo (si veda par. 3.7.1).

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Fig. 3.12 Heraion di Samo, pianta del diptero di Rhoikos e Theodoros.

Un forte impatto ebbe sulla cultura ionica il genio architettonico di Rhoikos che, insieme a Theodoros, progettò a Samo intorno al 570 a.C. il primo grande tempio diptero della Ionia (Figg. 3.12 e 3.13), a ulteriore gloria di quell’Heraion che era già ricchissimo di centinaia di statue e di donari. Un edificio enorme di 52,5 × 105 m, ossia 100 × 200 braccia samie, orientato come al solito verso est, viene così a sovrapporsi agli hekatompeda dell’VIII e VII secolo a.C., coprendo anche una parte del portico meridionale (Figg. 1.10 e 2.12). La doppia peristasi di 8/10 × 21 colonne si erge a protezione di una cella in poros locale che, strettamente legata all’idea generatrice dell’architettura templare ionica, non si discosta molto dal concetto iniziale del sekòs, tanto che la statua di culto continua a essere esposta in un monoptero appositamente costruito al centro dell’edificio, e non sul fondo. L’allargamento in facciata dell’interasse centrale del duplice colonnato, insieme al profondissimo pronao, conferisce enfasi all’ingresso, con totale sacrificio 182

dell’opistodomo che non trova reale espressione nemmeno nei precedenti episodi architettonici di area ionica. Le 132 colonne ioniche in poros locale, alte 18 m, formano quasi un labirinto (Plinio, XXXVI, 86-90, parla di «labirinto lemnio»), ma sono disposte secondo un rigido sistema assiale che lega la successione delle colonne in facciata con i duplici colonnati del pronao e della cella. Il fusto della colonna con ben 40 scanalature ha una vibrazione luministica, sempre mutevole, che le conferisce l’aspetto di una lunga tunica con pieghe sottili; è interessante notare che le scanalature delle colonne di questo primo diptero sono ancora unite l’una all’altra per lo spigolo (come cioè nelle colonne doriche), mentre nella successiva ricostruzione voluta da Policrate avranno già, e forse per la prima volta, listelli di separazione. Le colonne ioniche, di proporzioni decisamente slanciate e assottigliate, poggiano su una base in pietra, articolata in un profilo concavo e in una modanatura a profilo convesso (toro), con scanalature separate da listelli; diversamente dunque dalla colonna dorica che tocca direttamente lo stilobate, quella ionica ha una base articolata. I capitelli, che dovevano essere in legno, non ci sono giunti.

Fig. 3.13

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Samo, fotografia aerea dell’area del santuario di Hera.

Fig. 3.14 Efeso, attuale stato di conservazione dell’Artemision.

Intorno al 560 a.C. di fronte al monumentale diptero viene eretto un altare di forme altrettanto colossali, accessibile mediante una scala aperta in direzione del tempio; guance frangivento erano decorate con elementi vegetali di doppio kyma ionico e cespi di loto di derivazione orientale, mentre un fregio zoomorfo correva lungo i lati dell’altare. L’ambizioso progetto di Rhoikos, che era forse concepito in aperta sfida con il gigantismo architettonico egiziano e orientale, fece scuola nei successivi sviluppi dell’architettura ionica, ma fu di durata effimera. Pare infatti che per una errata valutazione dell’enorme peso dell’edificio, alto 20 m e costruito su terreni alluvionali, il tempio andasse incontro quasi subito a gravi dissesti statici che ne dovettero a breve compromettere l’uso, tant’è che a pochi decenni di distanza se ne rese necessaria una totale ricostruzione. I problemi statici legati all’edificio lapideo di colossali dimensioni sono invece brillantemente superati a Efeso nell’Artemision di Creso (Figg. 1.9, II, 3.14), detto così per 184

il ruolo di finanziatore, almeno parziale, che le fonti riconoscono al re lidio. La costruzione di un nuovo gigantesco tempio in sostituzione dei precedenti, diruti, edifici (Fig. 1.9, I), si colloca a partire dal 560 a.C., primo anno di regno di Creso, ed è opera di due architetti cretesi, Chersiphron e suo figlio Metaghenes, elogiati da Vitruvio (X, 2, 11-12) per le competenze tecniche nelle macchine da trasporto e sollevamento dei blocchi; la provenienza da Creta degli architetti progettisti sottende un legame con la tradizione dell’edilizia lapidea che sull’isola non si era mai spenta. I due, che sulla costruzione scrissero un trattato, furono affiancati da Theodoros, forte dell’esperienza maturata nel cantiere del grande diptero samio. A Theodoros la tradizione attribuisce infatti la realizzazione delle fondazioni dell’edificio in grandi lastre di scisto spalmate di argilla, con l’ausilio (secondo Plinio) di carbone pestato, cenere e pelle di pecora per fare fronte al problema della risalita di umidità dal suolo paludoso. In aperta concorrenza con l’Heraion di Samo, l’Artemision di Efeso mostra aumentate dimensioni e accresciute pretese artistiche (Fig. 1.9, II). Si tratta infatti di un diptero di 59 × 115 m con triplice colonnato in fronte (secondo altre ipotesi ricostruttive il colonnato in fronte sarebbe duplice); gli assi dei muri della cella e delle colonne sono inseriti in una maglia ortogonale. Discusso è il numero delle colonne sul retro del tempio, se otto come in facciata o nove; ipotetica anche la presenza a est di un adyton. L’ingresso è comunque scandito da un profondo pronao e la cella resta ipetrale (priva di copertura), con un naiskos all’interno per la protezione della statua di culto in legno, realizzata dallo scultore attico Endoios (Fig. 3.15). L’intero alzato è in marmo cavato dalla vicina Belevi, e questo offre possibilità plastiche mai raggiunte fino a questo momento. La decorazione è infatti fastosa nei rilievi sui 185

plinti delle colonne del lato ovest (si ricorda che l’Artemision era orientato a occidente), nelle cornici ricche di kymatia e di ovuli e nel lunghissimo fregio che decorava la trabeazione del tempio con cortei di carri. I capitelli (Fig. 3.16) sono formati da un toro con fascia a ovuli e palmette laterali (in corripondenza dell’echino dorico), sul quale poggia il cuscino a volute con rosetta a otto petali, con esiti ornamentali decisamente superiori alla rigida linearità del capitello dorico. Nel timpano vennero aperte delle finestre che, oltre a consentire il posizionamento di immagini divine, dovevano alleggerire l’enorme peso dell’architrave, calcolato intorno a 25 tonnellate (Fig. 3.15). L’ordine ionico con la sua esuberanza ornamentale, la sua ricchezza, la sua molteplicità, trova qui il suo punto di espressione più alto in età arcaica. L’Artemision di Efeso divenne una delle sette meraviglie del mondo antico; il suo splendore e la sua fama furono tali che l’edificio fu risparmiato dai conquistatori persiani dopo la sconfitta delle città greche in rivolta nel 494 a.C. Gli diede fuoco nel 356 a.C., anno della nascita di Alessandro Magno, un tale in cerca di fama, cui noi non daremo la soddisfazione di essere citato.

Fig. 3.15 Plastico ricostruttivo del diptero di Creso, Efeso, Museo.

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Fig. 3.16 Capitello dell’Artemision di Efeso. Londra, British Museum.

Fig. 3.17 Didymaion (Mileto), pianta del diptero arcaico.

Mentre dunque a Efeso fervono i lavori di costruzione del nuovo Artemision, a Mileto, uno dei centri più floridi della Ionia, patria di Talete, Anassimandro, Anassimene, si fa altrettanto per Apollo nel suo santuario extraurbano di Didyma, località a circa 16 km a sud di Mileto, dove da tempi remoti fioriva un santuario extraurbano oracolare veneratissimo da tutti gli Ioni, ma tenuto in gran conto 187

anche dai re d’Oriente e dai faraoni di Egitto, che vi inviavano ricchi doni. Una via sacra collegava il tempio cittadino di Apollo Delphinios all’area sacra extraurbana di Didyma; la via era costeggiata dalle statue dei sacerdoti Branchidi (Fig. 3.41) e da altri monumenti. Il diptero del Didymaion (Fig. 3.17) ingloba, come a Efeso, un precedente, più antico, recinto di Apollo, configurandosi come una profonda area ipetrale con due file di otto pilastri alle pareti, sul fondo della quale, in un naiskos, era custodita la statua bronzea del dio, opera di Canaco di Sicione che l’avrebbe realizzata negli ultimi decenni del secolo VI a.C. Il piano del sekòs è a una quota più bassa rispetto al pronao, con un dislivello che viene superato mediante una gradinata; la successiva imponente ricostruzione di età ellenistica (il Didymaion di età arcaica venne infatti violentemente danneggiato dai Persiani all’epoca della rivolta ionica) impedisce di chiarire meglio quale fosse l’ulteriore articolazione degli spazi, cioè se già nel monumentale diptero arcaico tra pronao e recinto del dio fosse inserito uno spazio, o eretta una «porta delle apparizioni», per la comunicazione degli oracoli da parte dei sacerdoti. È noto invece che la decorazione architettonica, richiamandosi a quella progettata a Efeso, era rigogliosa, con sculture di fanciulle intorno al rocchio inferiore delle colonne ioniche e rilievi di leoni e gorgoni su alcune parti dell’architrave (Figg. 3.18-3.20).

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Fig. 3.18 Didymaion (Mileto), ricostruzione dell’alzato.

Fig. 3.19 Didymaion (Mileto), kore della decorazione architettonica. Berlino, Antikensammlungen.

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Fig. 3.20 Didymaion (Mileto), rilievi dell’architrave. Istanbul, Museo Archeologico.

Fig. 3.21 Heraion di Samo, pianta del diptero di Policrate.

Con l’ultimo dei grandi dipteri ionici di età arcaica torniamo a Samo. Intorno al 530 a.C. Policrate, da qualche anno tiranno dell’isola, promuove infatti la ricostruzione del monumentale diptero di Rhoikos, già parzialmente in rovina. Con uno spostamento del basamento di circa 40 m a ovest, evidentemente su terreni più solidi, sorge un nuovo edificio (Fig. 3.21) di proporzioni notevoli, 55 × 112 m, ma la sua costruzione verrà solo parzialmente completata dopo la crudele uccisione di Policrate a Sardi nel 522 a.C. Il 190

nuovo Heraion, con una peristasi di 8/9 × 24 colonne, adotta in sostanza le soluzioni dei precedenti dipteri di Samo ed Efeso, con l’inserimento però di un terzo colonnato su entrambi i lati brevi. Le colonne della cella e del pronao sono in calcare locale, mentre quelle esterne sulle fronti sono in marmo, come attesta l’unica colonna ancora parzialmente in piedi a 36 scanalature, separate già da listelli. Un fregio figurato continuo, messo in opera solo nei primi decenni del secolo V a.C., alto quasi 3 m, coronava le pareti esterne della cella. Un tentativo di penetrazione in area microasiatica dell’ordine dorico è invece attestato ad Assos nell’Eolide intorno alla metà del secolo VI a.C. Sull’acropoli viene infatti eretto un tempio dorico per Atena (Fig. 3.22), cui conferisce una singolare impronta ionica l’introduzione, nella decorazione architettonica, di un fregio continuo scolpito sull’architrave; fregio dorico di metope e triglifi e fregio ionico continuo dunque singolarmente convivono nello stesso edificio. È interessante che tra le scene raffigurate sul secondo compaia anche la lotta di Eracle contro Tritone che negli stessi anni veniva messa in opera anche in uno dei frontoni arcaici dell’Acropoli di Atene (Fig. 3.50).

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Fig. 3.22 Assos, ricostruzione del tempio di Atena. 3.2.3 Le Cicladi e l’architettura di marmo

Ricerche e scavi degli ultimi decenni hanno permesso di chiarire il ruolo dei grandi centri cicladici, abitati da genti di stirpe ionica fin dal principio del I millennio a.C., nello sviluppo dell’ordine ionico e nel suo successivo spostamento dai centri della Ionia verso l’Attica e l’Occidente. È così emerso chiaramente come gli edifici sacri eretti sulle Cicladi nel corso del secolo VI a.C. siano di forme spesso arcaizzanti e dimensioni decisamente meno ambiziose dei grandiosi dipteri ionici, ma li anticipino nell’uso del marmo locale: lo dimostra lo splendido sistema di copertura dell’Oikos dei Nassii a Delo, al principio del secolo VI a.C. già con un interno scandito da colonne e capitelli ionici in marmo (Fig. 2.16). Soprattutto è in quest’area che si assiste alla definizione di una trabeazione in cui alla cornice a dentelli tipica delle soluzioni ioniche microasiatiche si sostituisce una lastra marmorea continua

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che ospiterà il fregio ionicoinsulare, adottato dall’architettura ateniese di età classica. La maggior parte dei templi cicladici non si discosta dalla forma antica dell’oikos e si presenta con una struttura cubica chiusa da muri su tre lati e aperta in facciata con fronti prostile o ad ante. Resta dunque eccezionale la pianta periptera, con doppio colonnato su entrambi i lati brevi, del tempio di Apollo che il tiranno Ligdami, nella seconda metà del secolo VI a.C., progettò di erigere all’ingresso del porto di Nasso (oggi località Palati), ma che fu lasciato incompiuto dopo la deposizione del tiranno nel 524 a.C. Dell’edificio resta in piedi solo lo splendido portale marmoreo che, nonostante tutto, perpetua la sua funzione di prestigioso benvenuto a coloro che sbarcano sull’isola (Fig. 3.23). Gli scavi (effettuati dal 1972 al 1987) del santuario di Dioniso a Yria (Nasso) nei pressi della foce del fiume Livadi mostrano dettagliatamente l’evolversi in area insulare delle forme dell’edificio sacro tra i secoli VIII e VI a.C. con la precoce intuizione dei problemi e delle relative soluzioni (Fig. 3.24). Appartengono infatti all’età geometrica due successive costruzioni con pianta a oikos e tetto piatto, sostenuto dapprima da una sola fila di sostegni rotondi (I), quindi nella seconda metà del secolo VIII a.C. da ben tre file di cinque sostegni ciascuna (II), per il notevole ampliamento delle dimensioni dell’edificio e l’evidente crescita della comunità cultuale; la presenza di un’eschara e di panche lascia intuire lo svolgersi di sacrifici e di banchetti sacri. Al principio del secolo VII a.C. si data invece la trasformazione dell’oikos in un tempio prostilo (dal greco: con colonne davanti) tramite l’accostamento di un vestibolo a quattro colonne; è adottata qui, forse per la prima volta, la soluzione, in seguito di grande fortuna, della divisione dello spazio interno della cella in tre navate (III). Appartiene 193

infine al 570 a.C. l’edificazione di un tempio prostilo tetrastilo in granito e marmo con cella a tre navate conclusa da adyton e tetto marmoreo a spioventi (Fig. 3.24, IV e Fig. 3.25).

Fig. 3.23 Nasso, portale marmoreo del tempio periptero di Ligdami. (tav. 8)

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Fig. 3.24 Yria (Nasso), fasi costruttive del tempio di Dioniso.

Fig. 3.25 Yria (Nasso), ricostruzione del tempio arcaico di Dioniso.

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Fig. 3.26 Sangrì (Nasso), interno del Telesterion.

Nella seconda metà del secolo VI a.C., mentre si perfeziona la tecnica di lavorazione del marmo e divengono straordinariamente ricche le decorazioni architettoniche (ne è un esempio concreto il Tesoro dei Sifni a Delfi, si veda par. 3.8.1), i principi costruttivi in area insulare restano pressappoco inalterati, come mostra il Telesterion di Sangrì (Nasso) (Fig. 3.26), eretto intorno al 530 a.C., ancora una volta con una pianta a oikos, ma un tetto, sostenuto da cinque colonne trasversali di varia altezza, in lastre marmoree così sottili da lasciar trasparire la luce all’interno.

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3.3 Scultura in pietra (600-530 a.C.), dal mondo degli eroi al mondo degli uomini I primi tre quarti del VI secolo sono anni decisivi per la scultura a tutto tondo che, partendo da quella dimensione monumentale già ben sperimentata nel secolo precedente, in ambito insulare (Paro, Nasso), focalizza l’attenzione sulla resa del corpo umano nello spazio. Il ruolo che devono aver avuto le isole, al centro dei percorsi commerciali tra Oriente e Occidente, nella nascita di una grande scultura in pietra in Attica e nelle altre regioni della Grecia continentale, è ormai innegabile. Tutte le prime grandi sculture sono infatti in marmo insulare. Con la pietra viaggiavano le idee, le forme, le tecniche, che i mastri scalpellini, pronti a mettersi al servizio delle aristocrazie del continente e delle grandi fabbriche templari, portavano con sé come proprio bagaglio personale. La figura umana diventa così protagonista in ambito pubblico, nei santuari che verranno frequentati sempre di più da tutte le componenti sociali, dai nobili agli artigiani, e in ambito privato, a coronamento della tomba, per lasciare ai posteri memoria di sé e della propria stirpe. Rispetto alla scultura architettonica, che trova quasi sempre punti di ancoraggio con eventi storici databili, la plastica a tutto tondo soffre della mancanza di agganci cronologici puntuali; se si esclude il grande termine ante quem offerto dalla «colmata persiana», abbiamo a che fare con opere rinvenute nel corso di vecchi scavi poco documentati, sovente in giacitura secondaria, che devono per forza essere datate su basi stilistiche. Partendo dalla considerazione che l’arte greca segue un’evoluzione costante, indirizzata a rendere in modo 197

sempre più naturalistico il corpo umano, nel 1942 Gisela Richter ha messo a punto per i kouroi un sistema di datazione basato sul confronto tra il rendimento anatomico delle varie statue, da quelle più prossime alle esperienze figurative del VII secolo, a quelle che preannunciano i ritmi dello stile severo; questa cronologia relativa è ancor oggi valida nelle sue linee generali e può essere utilizzata per collocare le opere principali in sequenza cronologica, unitamente al confronto con la plastica architettonica, la ceramografia e le arti minori, soprattutto là dove gli elementi dell’anatomia sono meno evidenti, come nelle statue femminili. 3.3.1 La bellezza del kouros, il dono più gradito agli dei

Il tipo scultoreo maschile dell’età arcaica è il kouros (letteralmente, il giovane), vale a dire la statua maschile stante, rigidamente frontale, nuda, priva di particolari attributi, non impegnata in alcuna azione particolare. Non si tratta di un’invenzione del VI secolo dal momento che, come abbiamo avuto modo di vedere, figure maschili con queste caratteristiche sono già attestate nel periodo orientalizzante nella piccola plastica a destinazione votiva (Fig. 2.27) e, in versione colossale, come immagini divine, nei santuari delle isole egee (Figg. 2.28-2.30). La novità è piuttosto la grande diffusione di questo tipo scultoreo che viene adottato dalla Grecia continentale in quanto corrisponde all’ideale eroico della società aristocratica dell’epoca e ne incarna i valori, bellezza, giovinezza, coraggio; è raffigurato come un kouros, infatti, l’eroe per eccellenza, quel gigantesco Achille, morto, che Aiace porta a fatica sulle spalle nel Cratere François (Fig. 3.27).

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Fig. 3.27 Cratere François, da Chiusi, particolare dell’ansa: Aiace con il corpo di Achille (in basso). Firenze, Museo Archeologico.

Per offrire agli dei la perfezione del suo corpo e del suo spirito secondo il principio del kalòs kai agathòs (bello e buono, in senso morale) proprio del pensiero greco, il kouros è sempre raffigurato come un atleta, nudo. Il corpo atletico, virile, essenziale nella sua nudità, contrasta con l’acconciatura che è sempre particolarmente elaborata, con riccioli elegantemente disposti sulla fronte e lunghe trecce ricadenti sulle spalle, talora fermate da un nastro sulla nuca; ad essa è affidata la connotazione aristocratica del personaggio, la sua ricchezza, la sua appartenenza a una società civile, colta ed educata. Alla fine del VI secolo, il ceramografo Euphronios, dipingendo la lotta tra Eracle ed 199

Anteo (Fig. 3.129), insisterà ancora sul contrasto tra la raffinata acconciatura del primo, eroe civilizzatore vincitore di mostri, e i capelli scomposti del secondo, gigante figlio della Terra, essere barbaro e incivile. I kouroi in marmo insulare rinvenuti nel 1906 nel santuario di Posidone a Capo Sounion, all’estrema punta orientale dell’Attica, si distinguono per l’altezza notevole, che tuttavia non raggiunge le dimensioni colossali dei loro fratelli insulari. Il kouros più completo è alto 3,05 m (Fig. 3.28), a fronte dei 4,80 m che raggiungeva quello rinvenuto a Samo nel 1980 (Fig. 3.39). Il kouros nr. 1 del Sounion (Fig. 3.28), databile intorno al 600-590 a.C., è ancora costruito secondo l’ordinamento additivo delle membra, anche se manca quel netto stacco tra busto e gambe, sovente marcato dalla cintura, che aveva caratterizzato le statue del tardo VIII e del VII secolo come l’Apollo di Mantiklos, l’Apollo di Dreros e il kouros di Delfi (Figg. 2.14, 2.19, 2.27); il contorno del corpo è qui più sfilato: il torso longilineo e le cosce rigonfie formano un profilo continuo, leggermente concavo, controbilanciato dalle braccia possenti, con le mani chiuse a pugno all’altezza delle cosce. Il kouros porta avanti la gamba sinistra, ma il passo è solo accennato perché il peso del corpo è ugualmente distribuito su entrambe le gambe. Lo studio anatomico porta ad evidenziare i muscoli principali del corpo atletico che però in questa fase appaiono come applicati dall’esterno e sottomessi a una rigida simmetria; emblematica, nel kouros nr. 2 (Fig. 3.29), la resa delle clavicole e dei muscoli dorsali mediante solcature più o meno marcate.

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Fig. 3.28 Kouros nr. 1, da Capo Sounion (Attica). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 3.29 Kouros nr. 2, da Capo Sounion (Attica). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 3.30 Kouros, dall’area del Dipylon. Atene, Museo del Ceramico.

Fig. 3.31 Testa di kouros del Dipylon, rinvenuta nelle mura di Temistocle. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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I kouroi del Sounion non costituiscono, all’inizio del VI secolo, un fenomeno isolato; un kouros che doveva essere alto 2,10 m è stato recentemente ritrovato, insieme a frammenti di altre sculture, nell’area della necropoli del Dipylon, lungo la via sacra, tra la porta sacra e l’Eridano; i pezzi erano stati adagiati in orizzontale sotto il battuto della strada per consolidare il terreno paludoso; la deposizione è da attribuire alla prima fase della porta, di epoca temistoclea (479-478 a.C.). Il kouros, in marmo insulare, è privo di quasi tutta la gamba sinistra e della destra fino al ginocchio. Il corpo (Fig. 3.30), dai robusti muscoli pettorali e dal torace slanciato, è prossimo a quello dei kouroi di Capo Sounion; il volto ovale con i grandi occhi a mandorla dal taglio netto, ancora privo del sacco lacrimale, e la raffinata acconciatura a perloni riflettono lo stile del cosiddetto Maestro del Dipylon, autore di un altro kouros monumentale, del quale resta la testa, alta 44 cm (Fig. 3.31). In quest’ultima, la veduta di profilo mostra chiaramente che lo scultore è ancora legato alle dimensioni geometriche del blocco, con i suoi quattro piani distinti: i tratti anatomici sono tutti riservati al piano frontale, i capelli a quello posteriore; i profili sono appiattiti e le grandi orecchie a voluta decisamente arretrate, come fossero due ornamenti dei capelli. Le due statue gemelle rinvenute nel santuario di Delfi nel 1893 e nel 1894 (Fig. 3.32) sono state da tempo identificate con Kleobis e Biton, i due fratelli che, secondo la leggenda riportata da Erodoto (I, 31), dopo aver tirato, al posto dei buoi che non erano ritornati dai campi, il carro della madre, sacerdotessa di Hera, fino al santuario di Argo, furono ricompensati dagli dei con il privilegio di una morte dolce e repentina all’interno del luogo sacro: i giovani si addormentarono per sempre; secondo Erodoto, gli Argivi dedicarono le loro statue a Delfi. In realtà le iscrizioni sui 204

plinti, una delle quali riporta il nome dell’autore, Polymedes di Argo, non sono perfettamente leggibili; secondo altre interpretazioni i giovani potrebbero essere identificati con i Dioscuri. In ogni caso, i due kouroi (h 1,97 m) riflettono il canone stilistico peloponnesiaco che privilegia la solidità della struttura corporea, costruita per volumi geometrici accostati e raccordati e la lavorazione per piani paralleli; della possente muscolatura sono evidenziati gli elementi principali, le ginocchia, i solchi inguinali, i pettorali; l’arco toracico e la linea che separa i muscoli addominali (linea alba) sono indicati solo da incisioni; il volto e l’acconciatura riflettono ancora il canone dedalico. Intorno alla metà del VI secolo, si data il kouros rinvenuto nella necropoli di Tenea, presso Corinto (Fig. 3.33), di chiara destinazione funeraria; la statua ricopriva in questo caso il ruolo di sema della tomba, come estremo omaggio del gruppo familiare al defunto. La scelta di questo particolare tipo statuario, con la sua perfezione atemporale, riflette l’adesione al modello eroico di tradizione omerica.

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Fig. 3.32 Kleobis e Biton, da Delfi. Delfi, Museo Archeologico.

Il kouros di Tenea (h 1,53 m), in marmo pario, riflette il nuovo canone di matrice ateniese che, sotto l’influsso della scultura ionica e insulare, abbandona la costruzione geometrica del corpo per arrotondarne i volumi e fondere le membra in senso più naturalistico. Nel volto fa la sua comparsa il caratteristico «sorriso arcaico», ottenuto sollevando verso l’alto gli angoli delle labbra, un espediente per rendere la profondità della bocca, più che un moto dell’animo, che sarà adottato da tutta la scultura arcaica. Il kouros corinzio (Fig. 3.33) presenta anche un’altra 206

importante innovazione, il trattamento dell’angolo interno dell’occhio, che mostra un sottile restringimento a indicare il sacco lacrimale. Il gigantismo dei primi kouroi, espressione della potenza delle famiglie aristocratiche, proprietarie di terre e tutrici del culto religioso, lascia ora il posto a dimensioni più prossime a quelle reali; è l’uomo che si presenta al cospetto della divinità o lascia il suo sempiterno ricordo sulla tomba.

Fig. 3.33 Kouros, da Tenea. Monaco, Gliptoteca.

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Fig. 3.34 Kouros, da Anavyssos (Attica). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Così il kouros rinvenuto ad Anavyssos, in Attica (Fig. 3.34), interpella direttamente il passante: «Fermati e piangi presso il monumento del defunto Kroisos, che Ares rabbioso un giorno ha ucciso mentre combatteva nelle prime file» recita l’epigrafe alla base della statua, ma non vi è nulla, nell’immagine, che ricorda Kroisos come un guerriero; il giovane è nudo, al culmine della giovinezza e della forza, le membra possenti, il volto aperto, luminoso, i capelli sapientemente acconciati. Siamo ancora una volta di

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fronte alla celebrazione della «bella morte», la morte eroica di omerica memoria. Dal punto di vista stilistico, nonostante il corpo sia rigidamente frontale, le gambe ancorate al terreno, la scultura ha ormai abbandonato l’impostazione geometrica a favore di una concezione più organica e unitaria, che fonde le varie parti del corpo in una forma solida, elastica, scattante; gli ampi pettorali e i passaggi tra i rilievi muscolari del ventre e dei fianchi sono sfumati e addolciti, anche se l’arcata epigastrica è ancora marcata da una linea ovale – particolare che sparirà, pochi decenni dopo, nell’Aristodikos (Fig. 3.63) – e la muscolatura addominale fortemente accentuata; anche le braccia, dalle mani ancora chiuse a pugno, si staccano, morbide e rilassate, dalle cosce. La statua, datata al 530 a.C. ca, può ricollegarsi da un lato alla tragica solitudine dell’Aiace di Exechias (Fig. 3.122), con le sue proporzioni statuarie, dall’altro al composto vigore degli atleti del Pittore di Andokides. 3.3.2 Statue votive sull’Acropoli di Atene

La struttura additiva delle membra era già stata superata, ad Atene, da una scultura di grande qualità artistica che non è un kouros, ma un gruppo: il Moskophoros, un giovane barbato che porta sulle spalle un vitello da offrire ad Atena (Fig. 3.35); si tratta della prima scultura dedicata sull’Acropoli di Atene, verosimilmente poco dopo il 566 a.C., l’anno della riorganizzazione delle Panatenee che segna anche l’inizio della consuetudine di dedicare sculture votive nel principale santuario della polis. Il gruppo del Moskophoros, in marmo dell’Imetto, è offerto da un privato, Rhombos – come compare sull’iscrizione della base – che deve aver vinto un ricco premio, forse il vitello stesso, nel corso di una gara in onore della dea. Il corpo robusto (h 1,65 m), dalle membra realisticamente contratte a 209

supportare il peso dell’animale, è fasciato da un mantello attillato che racchiude e delinea la figura senza nascondere la tensione muscolare; la ricerca anatomica è accurata, come mostrano gli addominali pronunciati e ben definiti, ma i volumi del corpo sono arrotondati e trattati con delicatezza, i passaggi dei piani lisci e sfumati; la solidità dorica si incontra con la grazia ionica. Lo sguardo dello spettatore è qui attratto dallo studiato schema a X, ottenuto dal perfetto incrocio tra le zampe dell’animale e le braccia dell’uomo, sul quale spicca la testa, impreziosita come di consueto dall’elaborata acconciatura e ancor di più dagli occhi intarsiati.

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Fig. 3.35 Gruppo del Moskophoros, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

Più giovane di una decina d’anni è la statua di cavaliere ricostruita nel 1936 da Humphry Payne accostando tra loro il torso equestre 590 dell’Acropoli e la testa del Louvre, detta Rampin dal nome del collezionista (Fig. 3.36). Il giovane aristocratico, raffigurato in nudità eroica, la testa leggermente girata e inclinata verso la spalla sinistra, reca sul capo una corona di quercia, riconoscibile per le foglie polilobate, che lo connota come vincitore nei giochi dell’Istmo o di Nemea. L’ampio torso luminoso, dai larghi pettorali, è appena contrassegnato dalle lievi partizioni orizzontali dell’addome, sotto il taglio netto, ovale, ancora geometrico, dell’arcata epigastrica; la nobiltà del personaggio è affidata all’elaborata pettinatura, quasi un ricamo, che circonda di riccioli il viso e scende sulla nuca con corte trecce a perloni; contrasta con la levigatezza del volto dagli zigomi alti, pronunciati, e gli occhi a mandorla, anche la corta barba finemente arricciata.

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Fig. 3.36 Il Cavaliere Rampin, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Fig. 3.37 Kore col peplo, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli. (tav. 12)

È attribuita alla stessa mano del Cavaliere Rampin, ma leggermente più tarda, la kore nr. 679 dell’Acropoli, più nota come «kore col peplo» (Fig. 3.37), che presenta lo stesso contrasto tra la resa schematica e quasi geometrica dei volumi del corpo e la vivacità del volto, dai tratti anatomici fini e delicati, giocati sulla linea curva. La fanciulla porta un chitone finemente pieghettato, che s’intravvede in basso, e un pesante peplo che copre interamente il corpo senza nasconderne la tensione. La visione della statua, di modeste dimensioni (h 1,18 m), è ora falsata dalla perdita quasi totale del colore che accentua l’arcaicità quasi xoaniforme del corpo; al colore era infatti affidata tutta l’elaborata decorazione del peplo che rendeva la scultura estremamente vivace e, soprattutto, ricca (Tav. 12). 213

La prassi di dedicare sculture sull’Acropoli riflette la società arcaica e i suoi valori; è l’aristocrazia che si mette in mostra con tutte le sue prerogative: la battaglia, la caccia, l’atletica, la ricchezza di abiti e di apparati. È quindi interessante notare come, alla fine del VI secolo, nel rinnovato clima politico, facciano la loro apparizione sull’Acropoli ben altri personaggi, come il ceramista che si compiace di comparire con il frutto del suo lavoro sulla stele che dedica ad Atena. La stele del vasaio (Fig. 3.38), commissionata a Endoios, scultore di grande fama presso la corte dei Pisistratidi, raffigura, seduto su uno sgabello, un personaggio barbato, con capelli corti, a calotta, ben arricciati, busto scoperto e mantello avvolto intorno ai fianchi, che regge con la mano destra due grandi kylikes: affidato alla consueta idealizzazione, è l’orgoglio artigiano a mettersi in primo piano. Malgrado il pessimo stato di conservazione, riescono a emergere le grandi capacità dello scultore; la postura di tre quarti, inconsueta per questo genere di opere, la vibrante trattazione dei muscoli del collo, la cura dei particolari, suggeriscono il confronto con rilievi come la base del Museo Nazionale di Atene con scene di palestra (Figg. 3.64, 3.65).

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Fig. 3.38 Rilievo con ceramista, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Fig. 3.39 Kouros, da Samo. Samo, Museo Archeologico. 3.3.3 La plastica ionica, espressione di potere e di eleganza

Mantengono le proporzioni colossali alcuni kouroi di ambito insulare, come quello dedicato da Isches nell’Heraion di Samo, alto circa 4,80 m (Fig. 3.39), databile intorno al 560 a.C. Nonostante le dimensioni, il kouros ostenta un fisico asciutto, slanciato, ma privo di risalto muscolare e con i dettagli anatomici ridotti all’essenziale; il volto ovale, dagli occhi a mandorla, le sopracciglia sottili e arcuate, le guance rotonde e le bocca carnosa, è prossimo a quello delle figure femminili, dal capo velato, che ornano le colonne del tempio di Didyma, presso Mileto (Fig. 3.19), datate intorno alla metà del secolo. La tendenza ad arrotondare il profilo e ad addolcire i volumi del corpo è caratteristica della plastica ionica e 216

insulare, così il modellato fluido, sfumato, che delinea superfici ampie e luminose. Emblematiche le numerose statue maschili panneggiate (Fig. 3.40) che aderiscono allo schema del kouros solo nella postura, ma riflettono una concezione diametralmente opposta, nella quale il corpo, non privo di risalto muscolare, è subordinato all’eleganza del costume, il chitone aderente e il mantello ricco di pieghe. Riflettono una concezione orientale anche le statue dei Branchidi, i principi-sacerdoti di Didyma, poste ai lati della via sacra (Fig. 3.41); il fisico imponente, dai volumi massicci, è qui strettamente correlato al trono, simbolo del potere. Il volto ieratico è pieno, sbarbato, dai capelli ben acconciati tirati all’indietro; il corpo massiccio è completamente celato dal mantello; predomina la linea curva, che unisce le membra e salda tra loro i volumi del corpo in modo armonico, ma rigorosamente astratto e geometrico. Provengono da Samo due statue femminili, gemelle, poste una accanto all’altra sulla stessa base, offerte da Cheramyes nel santuario di Hera; la prima (h 1,92 m), conservata al Louvre, fu scoperta nel 1875 (Fig. 3.42), la seconda, esposta al museo di Samo, è stata trovata nel 1984. La duplicazione dell’immagine sottolinea che non si tratta di un simulacro divino, come si pensava quando era noto solo l’esemplare del Louvre, ma di due offerenti; l’iscrizione che su entrambe le statue corre lungo il bordo del velo identifica ciascuna come «agalma», letteralmente oggetto bello, piacevole. Le giovani donne indossano un leggero chitone stretto da una cintura, un mantello più spesso a pieghe larghe che sottolinea la curva del ventre, e un velo liscio, un lembo del quale è fermato dalla cintura, che, avvolgendo la parte posteriore, copriva il capo, mancante, per ricadere lungo il lato destro; il braccio destro, disteso lungo il corpo, trattiene un lembo del velo, il sinistro è piegato sul seno; nella mano 217

era forse un’offerta. La solidità geometrica, legata al modulo cilindrico della parte inferiore del corpo, nulla toglie all’eleganza della figura, affidata alla studiata disposizione dei panneggi – da quello più fitto e verticale del chitone a quello più vibrante del mantello, che segue la curva del seno e acquista volume ricadendo sui fianchi – ai quali si contrappone la superficie liscia e luminosa del velo.

Fig. 3.40 Statua maschile panneggiata, da Samo. Samo, Museo Archeologico.

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Fig. 3.41 Statua di sacerdote dei Branchidi, da Mileto. Londra, British Museum.

Fig. 3.42 Statua di offerente, da Samo. Parigi, Museo del Louvre.

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3.3.4 La kore, ricca custode dell’eterna giovinezza

Al kouros corrisponde la kore, la fanciulla; anche in questo caso si tratta di una ripresa di un tipo statuario nato nel corso del VII secolo in ambito cretese e insulare (Figg. 2.21, 2.32), che diventa estremamente comune in età arcaica sia in ambito devozionale, come offerta nei santuari, sia in contesti funerari, come segnacolo tombale. Rispetto al kouros, la kore è sempre riccamente vestita, spesso ingioiellata, ma anch’essa è stante, frontale, immobile, eternamente giovane. Nel corso del VI secolo la sua figura subisce poche variazioni: ai piedi uniti (Fig. 3.45) si sostituisce il leggero avanzamento della gamba sinistra (Fig. 3.47); dalla mano serrata contro il petto (Fig. 3.43), si passa alla mano che trattiene un lembo del vestito, mentre l’altra, protesa, porge l’offerta (Fig. 3.47). L’abito, che segue la moda ionica, è costituito da un chitone aderente, di stoffa leggera a pieghe fitte e fini, con maniche al gomito, e da un mantello di stoffa più pesante che di solito copre la spalla destra e scende di sbieco sul petto, formando un’ampia cascata di pieghe (Fig. 3.46). La pettinatura, spesso trattenuta da una corona, è sempre particolarmente elaborata, con bande di capelli o di riccioli intorno al volto e lunghe trecce sulle spalle. Dal punto di vista iconografico, possono così rientrare nel gruppo delle korai le due offerenti di Cheramyes (Fig. 3.42), le cariatidi del Tesoro dei Sifni (Fig. 3.89) e altre numerose figure femminili utilizzate nella decorazione architettonica (Fig. 3.53). Come il kouros, anche la kore è portatrice dei valori della polis aristocratica: il suo abbigliamento è quello della sposa, custode della casa e della discendenza, secondo il concetto omerico che pone la donna al centro della politica matrimoniale tra le grandi casate e del circuito di scambi e reciprocità che ne deriva. In quanto offerta devozionale, la

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sua bellezza incarna un ideale di perfezione che sancisce il rapporto con la divinità.

Fig. 3.43 Busto di kore, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Fig. 3.44 Sfinge dei Nassi, da Delfi. Delfi, Museo Archeologico.

Fig. 3.45

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Statua di Phrasikleia, da Mirrinunte (Merenda, Attica). Atene, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 13)

È interessante notare che la più antica kore rinvenuta sull’Acropoli di Atene, della quale si conserva solo il busto, è opera di uno scultore dell’isola di Nasso (Fig. 3.43); al di là del panneggio, che ricorda altre opere insulari, non ultima la kore di Cheramyes (Fig. 3.42), è il volto ovale, piuttosto massiccio, con gli occhi triangolari, il naso largo, le labbra carnose serrate tra due fossette verticali, a richiamare la sfinge dedicata dai Nassii a Delfi intorno al 580-570 a.C. (Fig. 3.44). Un’altra kore rinvenuta in Attica, nella necropoli di Mirrinunte presso Merenda, è opera di uno scultore di Paro, Aristion, che, intorno al 530 a.C., firma altre basi di sculture funerarie (Fig. 3.45). La statua è stata rinvenuta insieme a una statua di kouros e a frammenti ceramici all’interno di una fossa dove fu sotterrata poco dopo la messa in opera in quanto danneggiata e quindi inutilizzabile; la base con l’iscrizione rimase invece al suo posto perché fu reimpiegata nella vicina chiesa medievale. Si tratterebbe, come per la «colmata persiana», del seppellimento rituale di oggetti votivi, carichi di valenze religiose e quindi degni di essere sottratti al deterioramento. Nella sua funzione di monumento funeraio, la kore di Mirrinunte ricorda ai vivi la morte prematura, che diventa simbolo di una giovinezza eterna – «Sema di Phrasikleia. Sempre mi chiamerò fanciulla, perché questo nome mi dettero gli dei al posto del matrimonio. Aristion di Paro mi fece» – resa più splendente dal vestito ricamato, che conserva ancora le tracce dell’originario colore rosso, e dalla ricca parure di gioielli.

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Fig. 3.46 Kore, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli. (tav. 14)

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Fig. 3.47 Kore firmata da Antenore, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

È attribuita a maestranze insulari, forse chiote, anche la kore nr. 675 dell’Acropoli, datata intorno al 510 a.C. (Fig. 3.46), famosa per la ricchezza del vestito, dal panneggio particolarmente elaborato, che conserva ancora abbondanti tracce dell’originaria policromia; il virtuosismo nella realizzazione dei particolari, dall’abito alla capigliatura, è tipico del periodo tardoarcaico e di questo particolare tipo di offerta votiva. Sculture come queste sono di estremo interesse per capire il linguaggio della produzione artistica ateniese dell’età dei 225

Pisistratidi; alla presenza di artigiani di diversa provenienza e formazione, richiamati dalla politica economica dei tiranni, è da imputare quel peculiare carattere della scultura attica, che recepisce ed elabora spunti e modi di tradizione cicladica e ionica, già ben ravvisabili prima della metà del secolo in opere come il Moskophoros (Fig. 3.35). L’Acropoli di Atene ha restituito molte statue di korai, in parte provenienti dalla «colmata persiana» e quindi anteriori al 480 a.C. Si distingue per le dimensioni (h 2,15 m) e per l’aspetto imponente la kore dedicata dal vasaio Nearchos e scolpita da Antenore intorno al 520 a.C., prima di partecipare alla decorazione del tempio degli Alcmeonidi, a Delfi, e di realizzare, in bronzo, il gruppo dei Tirannicidi (Fig. 3.47). Il corpo robusto, dalle spalle quasi mascoline, dal volto massiccio, già «severo», emerge dall’elaborato panneggio a pieghe tubolari con un vigore insolito per questo tipo di figura, quasi in contrasto con il ricco apparato di gioielli, squisitamente femminile; pur conservando lo schema e l’abito della kore, la statua abbandona la leziosità ionizzante in favore di una monumentalità architettonica che preannuncia una nuova concezione della figura umana.

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3.4 Architettura ed edilizia nell’Atene di età arcaica Atene, come la maggior parte delle città greche della madrepatria, era sorta in maniera caotica con strade strette e tortuose che salivano e scendevano dai colli e dai rilievi rocciosi, ai quali la città era andata via via conformandosi (Fig. 1.20). Il territorio urbano era infatti caratterizzato da un rilievo collinare movimentato, con la collina delle Ninfe, la Pnice, l’Areopago, la roccia dell’Acropoli e il Licabetto; due erano i fiumi di Atene, l’Eridano a nord nell’area del Dipylon e del Ceramico, e l’Ilisso a sud. La progressiva crescita demografica nell’area urbana e nel contado, i cui abitanti si riversavano giornalmente in Atene per vendere le merci, ma anche l’incremento delle attività artigianali, resero ancora più angusti spazi che già lo erano; con questa urgenza di sistemazione e razionalizzazione delle aree e delle strutture si sposa il ricco programma di opere pubbliche promosso dai Pisistratidi, la cui politica edilizia quindi si allinea con quella dei Cipselidi a Corinto e di Policrate a Samo. Del resto interventi atti a migliorare la distribuzione delle acque sorgive e il loro smaltimento, o a razionalizzare la viabilità cittadina, non potevano che arrecare ulteriore vantaggio alle attività artigianali e commerciali di cui è noto l’incremento in età pisistratide. 3.4.1 L’Acropoli in età arcaica

Un problema di difficile soluzione riguarda l’aspetto dell’Acropoli in età arcaica, prima cioè che i Persiani nel 480 a.C. la mettessero a ferro e fuoco, costringendo quindi gli Ateniesi superstiti a seppellire nella «colmata persiana» i resti ancora fumanti profanati dalla mano dei barbari. La frenetica stagione degli scavi ottocenteschi e il susseguirsi nei decenni, e ancora in anni recenti, di numerosi studi e 227

interventi di restauro hanno tuttavia consentito di acquisire alcuni punti fermi. La millenaria storia dell’Acropoli ateniese comincia con alcune, per quanto labili, testimonianze di occupazione stabile in età micenea; intorno alla metà del secolo XIII a.C., infatti, la costruzione di una cinta muraria in opera poligonale (il cosiddetto «muro pelargico» o Pelarghikòn) trasforma l’altura in una cittadella fortificata a difesa del palazzo dell’anax miceneo (Fig. 3.48, A); si è supposto che nel megaron del palazzo si celebrasse già il culto di una divinità femminile, identificabile forse con l’Atena di epoca storica. È solo però dall’età geometrica che i resti ceramici lasciano intravvedere l’inizio di un’attività cultuale, in crescita nel corso del secolo VII a.C. allorché sull’Acropoli, come nei coevi principali santuari greci, le offerte sono per lo più costituite da tripodi bronzei con appliques figurate. Risale del resto al 636 a.C. il primo episodio di natura storica che ha come teatro proprio l’Acropoli: Erodoto (V, 71), Tucidide (I, 126) e Plutarco (Vita di Solone, 12, 1) ci informano dello sfortunato colpo di stato del nobile ateniese Cilone il quale, aspirando alla tirannide, occupò l’Acropoli insieme a un gruppo di sostenitori; assediati dagli Ateniesi e oppressi dalla fame, i congiurati si sarebbero infine seduti supplici presso l’altare e il simulacro di Atena. La circostanza che anche i successivi tentativi compiuti da Pisistrato di impossessarsi del potere ad Atene abbiano avuto quale obiettivo l’Acropoli, conferma senza dubbio il ruolo centrale della rocca sotto il profilo politico e militare, oltre che naturalmente religioso.

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Fig. 3.48 Restituzione delle varie fasi costruttive degli edifici dell’Acropoli: A) muro miceneo o pelargico; B) colmata tirannica o Tyrannenschutt; C) colmata persiana; D) stereobate sotto il Partenone; E) Protopartenone o Partenone arcaico; F) tempio tardoarcaico di Atena Poliàs o archaios naòs; G) piccolo edificio templare di età geometrica; H) fregio dorico del tempio tardoarcaico di Atena Poliàs reimpiegato nel muro nord dell’Acropoli; I) Primo Partenone in marmo; L) rocchi di colonne del Primo Partenone in marmo (I) reimpiegati nel muro nord dell’Acropoli; M) Partenone pericleo; N) Eretteo di età classica.

I frontoncini All’Acropoli di età arcaica si lega una cospicua serie di edifici, non conservati in situ, bensì ricostruibili a partire da membrature, sculture architettoniche e tetti, il cui difficile posizionamento sul pianoro della rocca (in assenza di 229

fondazioni o tagli chiaramente leggibili) ha guadagnato loro la definizione (foggiata da Holtzmann) di «architetture erranti». La maggior parte di questi elementi architettonici e scultorei proviene dalla cosiddetta «colmata tirannica», definita anche Tyrannenschutt, a sud e sud-est del Partenone (Fig. 3.48, B), da non confondersi con la colmata persiana (Fig. 3.48, C; si veda anche l’approfondimento a p. 80); si tratta di un enorme riempimento generalmente considerato coevo alla messa in opera del gigantesco stereobate del Partenone intorno alla fine del secolo VI a.C. (Fig. 3.48, D); nella colmata sarebbero state raccolte parti di edifici andati in rovina o smantellati per la progettata costruzione del Partenone tardoarcaico (si veda la scheda Sotto il Partenone di Pericle a p. 114), edifici da collocarsi dunque sull’Acropoli e da datarsi prima della fine del secolo VI a.C. Deve segnalarsi tuttavia anche l’ipotesi (Stewart e Klein) che parte del materiale confluito nella colmata tirannica provenga dalla città bassa e non dalla sola rocca.

Fig. 3.49 Rilievo frontonale con Eracle e Idra, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Fig. 3.50 Frontoncino dell’ulivo, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

Diversi di questi elementi strutturali consentono di circoscrivere un gruppo di costruzioni in poros, per lo più di modeste dimensioni, di ordine dorico prostile; tali piccoli edifici (oikoi), tradizionalmente indicati con le lettere A, B, C ed E, sarebbero stati edificati tra il secondo quarto e la fine del VI o inizi del V secolo a.C. e potrebbero aver assolto a una moltiplicità di funzioni: edifici di servizio del santuario poliade, tesori, sale da banchetto da utilizzarsi in particolari occasioni cerimoniali. A queste architetture erranti sono da collegare almeno alcuni dei piccoli frontoni in poros provenienti dall’Acropoli (per lo più dalla colmata tirannica), databili genericamente nel secondo quarto del secolo VI a.C., ma con alcune possibili sfumature cronologiche; la loro associazione con l’uno o l’altro gruppo di membrature architettoniche è stata ripetutamente tentata, senza tuttavia conseguire risultati definitivi. Il frontone con Eracle in lotta con la terribile Idra, mostro serpentiforme che infestava la palude di Lerna (Fig. 3.49), si distingue dagli altri per il tipo di rilievo: si tratta infatti di un rilievo bassissimo, di spessore oscillante tra 16 e 18 cm; in esso le spire del mostro occupano la metà destra del triangolo frontonale, mentre nella metà opposta si 231

dispongono, in moduli leggermente differenti, Eracle di dimensioni superiori, il compagno Iolao e il carro; nel vertice sinistro compare un granchio rosso, inviato da Hera per contrastare l’eroe. Per la tecnica a bassorilievo è opinione diffusa che questo sia il più antico dei frontoncini dell’Acropoli; la tecnica tuttavia può dipendere dalle dimensioni ridotte del frontone che doveva decorare un edificio di modeste proporzioni ed era probabilmente issato a non grande altezza dallo spettatore. Piuttosto bisognerà constatare la ricercatezza della composizione che, rinunciando alle vecchie componenti apotropaiche, mette in scena un episodio unico, con un’occupazione soddisfacente di tutto lo spazio a disposizione. Il confronto con le prime raffigurazioni su ceramica della seconda delle fatiche di Eracle, databili al decennio 570-560 a.C., ma specialmente certi echi riflessi della pittura di Nearchos e di Lydos (si vedano i parr. 3.10.1, 3.10.2) portano a datare il frontone intorno al 560 a.C.

Fig. 3.51 Bottiglia corinzia con agguato a Troilo (CM), firmata da Timonidas. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il frontoncino dell’ulivo (Fig. 3.50), la cui lunghezza originaria doveva raggiungere m 5,70, è il più piccolo di quelli rinvenuti sull’Acropoli; scolpito in poros del Pireo, di colore giallastro, ci è giunto in condizioni molto frammentarie che non hanno però impedito una ricostruzione dell’insieme, pur con differenti interpretazioni. La denominazione deriva al frontoncino dall’albero inciso e 232

dipinto sulla parete di fondo della lastra, che ha portato a credere che il mito raffigurato sia ambientato proprio sull’Acropoli, dove era conservato l’ulivo sacro ad Atena. Al centro è un edificio prostilo con tetto a padiglione fiancheggiato da un recinto in opera isodoma, con albero di ulivo retrostante; all’interno dell’edificio è ritta una figura femminile con cercine sulla testa (quindi originariamente ritratta nell’atto di sorreggere qualcosa), che nello schema ricorda le coeve korai; di due altri personaggi femminili e di uno maschile vicino all’ulivo restano solo frammenti. La lettura dell’episodio come agguato di Achille a Troilo alla presenza di Polissena che si reca alla fontana (la figura femminile con cercine sul capo) convince poco, anche per l’assenza di Achille stesso e dei cavalli, raffigurati invece con attenzione sulla coeva bottiglia corinzia firmata da Timonidas (Fig. 3.51); nuove recenti letture in chiave «ateniese» suggeriscono piuttosto la raffigurazione di un episodio mitico (a noi sconosciuto) della primitiva religiosità ateniese ambientato nel Pandroseion, ossia il temenos nel quale si trovavano la tomba di Cecrope, primo re di Atene, e il tempio della figlia Pandroso; oppure la rappresentazione di una, non meglio nota, scena cultuale. Per questo frontone è stata proposta una datazione tra 560 e 550 a.C.

Fig. 3.52 Apoteosi di Eracle, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

Del frontone con la presentazione di Eracle sull’Olimpo 233

(apoteosi di Eracle), momento chiave della sua divinizzazione post mortem, si conservano meglio la parte centrale e metà dell’ala destra (Fig. 3.52); l’originaria estensione in lunghezza del rilievo doveva però superare i 6 m con un aggetto massimo di cm 33. Zeus con una barba acconciata in piccole perle e capelli attentamente ritagliati sulla fronte, con un’accuratezza che ricorda il Cavaliere Rampin (Fig. 3.36), siede di profilo su un trono prezioso; accanto a lui, ma in posizione frontale, è Hera in chitone azzurro e mantello rosso riccamente bordati; verso la coppia divina, accompagnato da Hermes, avanza Eracle con leontè sul capo e corta tunica. Realizzato come i precedenti in calcare con intense note policrome, è questo forse il più interessante dei frontoncini per l’innovativa costruzione della scena con Zeus di profilo e Hera frontale disposta ortogonalmente (manca tuttavia ancora l’unità metrica tra le figure) e per l’elevatissima qualità artistica dell’opera; il confronto tra la resa della barba di Zeus e quella, altrettanto accurata, dell’acconciatura del Cavaliere Rampin ha suggerito una datazione intorno al 550 a.C., quindi leggermente più recente delle precedenti. Sotto il Partenone di Pericle Il Partenone eretto da Pericle in marmo (si veda par. 5.2; Fig. 3.48, M) riutilizza come fondazione un preesistente gigantesco stereobate già scoperto nel 1835, ma portato in gran parte alla luce nel corso del 1888 (Fig. 3.48, D). Questo basamento era evidentemente destinato a supportare un edificio templare, la cui storia potrebbe riassumersi in due fasi: la prima fase, verso la fine del secolo VI a.C., avrebbe comportato la costruzione dell’immenso stereobate e l’avvio di un edificio templare detto «antico o vecchio Partenone» o ancora «Partenone tardoarcaico» in poros di 6 x15 colonne; la seconda fase, successiva alla battaglia di Maratona, avrebbe comportato la modifica del progetto, non ancora ultimato, con un ridimensionamento dell’edificio, ma anche un arricchimento tramite l’impiego di marmo pentelico. Sarebbe quest’ultimo, secondo Korres, responsabile del grande cantiere di restauro del Partenone pericleo tuttora in corso, il cosiddetto «primo Partenone in marmo» (Fig. 3.48, I). I Persiani nel 480-479 a.C. lo trovarono in costruzione (le colonne della peristasi erano state nel frattempo innalzate fino al terzo o quarto tamburo), lo danneggiarono dandone alle fiamme i ponteggi.

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Dell’edificio, in seguito parzialmente smantellato dagli Ateniesi, è tuttora possibile osservare numerosi rocchi di colonne marmoree (con tracce della violenta conflagrazione) reimpiegati nel muro settentrionale dell’Acropoli, quasi a comporre un memoriale bellico dolente (Fig. 3.48, L).

L’Architettura H Un problema decisamente più complesso riguarda la cosiddetta «Architettura H», a cui si riferiscono numerosi frammenti strutturali e plastici in calcare del Pireo ad altissimo rilievo, a loro volta per lo più recuperati nella colmata tirannica a sud e sud-est del Partenone. Anche per essi è possibile affermare che l’edificio a cui dovettero appartenere – una grande architettura templare di ordine dorico – sia stato interamente smantellato al momento della costruzione dello stereobate del Partenone, intorno cioè alla fine del secolo VI a.C. L’edificio, un’architettura errante come i precedenti piccoli oikoi A, B, C ed E, viene da taluni studiosi collocato sul sito del Partenone e per questo considerato un predecessore arcaico del Partenone stesso, definito appunto «Protopartenone o Partenone arcaico» (Fig. 3.48, E) (ma impropriamente detto hekatompedon), da altri invece posizionato sulle fondazioni Dörpfeld (si veda di seguito), a costituire cioè una fase più antica del tempio tardoarcaico per Atena Poliàs. Le due antitetiche dottrine concordano però sul fatto che si trattò di un grande tempio lapideo periptero dorico, eretto nella prima metà del secolo VI a.C., ma più precisamente tra il 580 e il 550 a.C. (quindi non molto tempo dopo l’Artemision di Corcira), verosimilmente in relazione alla riorganizzazione delle festività cittadine delle Grandi Panatenee nel 566-565 a.C. Fu di fatto il primo progetto edilizio di grande impegno monumentale sull’Acropoli, un episodio centrale nella definizione della topografia sacra della città, la cui committenza potrebbe solo riduttivamente collegarsi ai primordi della vicenda politica dei Pisistratidi. 235

Fig. 3.53a Ipotesi ricostruttiva del frontone del Barbablù.

Fig. 3.53 b,c Il gruppo centrale dei leoni in assalto sul toro nel frontone del Barbablù e dettagli del muso del toro.

Fig. 3.54 Lotta di Eracle e Tritone, frontone del Barbablù, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Fig. 3.55 Mostro tricorpore, frontone del Barbablù, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli. (tav. 16)

A questo tempio appartiene il frontone in poros del Pireo detto del «Barbablù», datato al decennio 570-560 a.C. Del frontone, la cui lunghezza originaria avrebbe toccato i 16 m, è stata fornita una ricostruzione (Fig. 3.53a) che vede al centro il gruppo monumentale, di lunghezza pari a m 6 e altezza massima di m 1,70, composto di due leoni in assalto su un toro (Fig. 3.53b). Di quest’ultimo si conserva molto bene la testa, resa con grande ricchezza di dettagli (Fig. 3.53c): schiacciato contro il petto, il muso del toro è contorto in una smorfia di dolore; l’occhio, ancora aperto, è del tutto inespressivo; la bocca lascia intravvedere i denti, le gengive e la lingua dell’animale; intensa è la policromia, con dettagli in blu scuro (divenuto in alcuni punti verde), rosso, nero e bianco; il rosso è ampiamente utilizzato anche per rendere con strisce ondulate i fiotti di sangue che scaturiscono dal corpo morente del toro. L’estremità destra del timpano è invece occupata da un mostro tricorpore alato (Fig. 3.55), con la parte superiore umana, quella inferiore anguiforme; le tracce di colore blu sulla barba sono la ragione del nomignolo «Barbablù» con il quale il frontone è noto. Si osservi l’ardimento tecnico nella composizione del mostro, i cui tre corpi sono variamente scalati per rendere il passaggio da una visione di profilo a una frontale, volta direttamente verso lo spettatore. Un frammento di panneggio attaccato all’ala destra del demone lascia intuire la presenza di un personaggio verosimilmente in lotta contro il Barbablù. Al vertice opposto Eracle combatte contro una creatura marina dal lungo corpo di pesce, ora interpretata come Nereo, ora come Tritone (Fig. 3.54). Più difficile è la ricostruzione del frontone sul lato opposto dell’edificio, a cui potrebbero appartenere un 237

gruppo di leonessa su toro e due enormi serpenti; al medesimo timpano, secondo alcune ipotesi, invero molto discusse, apparterrebbe anche il gruppo dell’apoteosi di Eracle. Non è sfuggita all’attenzione degli studiosi la massiccia presenza della figura di Eracle, eroe peloponnesiaco per eccellenza, nella decorazione figurata degli edifici dell’Acropoli arcaica. Eracle, fortemente legato ad Atena, sua protettrice nelle fatiche, dovette costituire un modello di particolare pregnanza per gli Ateniesi di età arcaica, sia per le connotazioni atletiche delle sue imprese (da leggersi in collegamento qui con le gare delle Panatenee?), sia per il valore paradigmatico della sua ascesa da eroe a dio. La fortuna iconografica di Eracle nel repertorio figurativo dell’Attica data proprio dal decennio 570-560 a.C., allorché il soggetto compare sui frontoni dell’Acropoli, ma anche (e frequentemente) sulle ceramiche a figure nere. Le fondazioni Dörpfeld La topografia dell’Acropoli arcaica si completa con le fondazioni Dörpfeld (Fig. 3.56). Con questa etichetta, derivata dal nome dello studioso tedesco che per primo si occupò della struttura in questione, si indicano le fondazioni messe in luce immediatamente a sud dell’Eretteo (Fig. 3.48, N), fondazioni ritenute pertinenti a un edificio templare di notevoli dimensioni (circa m 44 x 21), da identificarsi con l’archaios naòs menzionato da talune fonti letterarie ed epigrafiche (Fig. 3.48, F). Il tempio, per il quale si sono da principio ipotizzate due differenti fasi costruttive (sono infatti due diversi i materiali utilizzati nelle fondazioni della cella e della peristasi), è stato ora ricondotto a un unico impianto. Si tratta di un grande tempio dorico periptero di 6 x 12 colonne in poros del Pireo, non privo di talune contraddittorie soluzione architettoniche: se la presenza di un crepidoma a gradino 238

unico è tratto piuttosto arcaico (lo ritroviamo nei templi di Hera ad Argo e a Olimpia), la curvatura dello stilobate e la contrazione angolare rimandano a un momento avanzato del secolo VI a.C.; inoltre, come in alcuni dei templi di area cicladica, ma per la prima volta sul continente greco, il tempio è dotato di una fastosa copertura in tegole marmoree. All’interno un corpo anfiprostilo a pianta piuttosto articolata, con una cella orientale a tre navate e un ambiente occidentale con vano di ingresso e due adyta, doveva ospitare contemporaneamente il culto di PosidoneEretteo, di Efesto e di Atena Poliàs. Di quest’ultima, divinità poliade di Atene, il tempio conservava infatti, verosimilmente nella cella orientale, l’antico agalma in legno d’ulivo, venerando talismano aniconico o semiantropomorfo, di cui si diceva che fosse sceso direttamente dal cielo.

Fig. 3.56 Atene, Acropoli, pianta delle fondazioni Dörpfeld.

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Fig. 3.57 Frontone con gigantomachia nel tempio di Atena Poliàs sull’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

La costruzione del tempio, normalmente datata intorno al 520 a.C. e quindi riferita a una brillante iniziativa edilizia dei Pisistratidi, è stata di recente abbassata da taluni all’ultimo decennio del secolo VI a.C., con la rilevante conseguenza del passaggio dell’iniziativa alla giovane Atene democratica. Quanto alle fasi precedenti l’edificazione di questo tempio, sulla base di alcuni elementi architettonici rinvenuti in prossimità del lato settentrionale delle fondazioni Dörpfeld, si è ipotizzata l’esistenza di un piccolo edificio geometrico, forse già dedicato ad Atena Poliàs (Fig. 3.48, G); alcuni studiosi ritengono inoltre, come già sopra ricordato, che l’Architettura H, costruita nel decennio 570-560 a.C., sia da collocarsi in corrispondenza con le citate fondazioni, a costituire un arcaico tempio di Atena Poliàs, e non in corrispondenza del Partenone. Dell’edificio tardoarcaico si conserva parte della decorazione scultorea, composta di un fregio dorico, in seguito (dopo cioè le distruzioni persiane) reimpiegato nel muro settentrionale dell’Acropoli (Fig. 3.48, H); di un fregio figurato continuo in marmo pario, riferito da alcuni studiosi alle pareti esterne della cella; quindi dei frontoni, i primi

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interamente in marmo e a tutto tondo che ci siano pervenuti. Il frontone orientale, meglio conservato, rappresenta una gigantomachia (Fig. 3.57). Nella ricostruzione comunemente proposta (che non è tuttavia l’unica) la figura di Atena, alta m 2, giganteggia al centro del timpano, incombendo su un gigante di cui si conserva solo un frammento di piede sinistro; con fare imperioso la dea si slancia in avanti, allargando il chitone appena movimentato da fini pieghe incise, e tende, lungo il braccio sinistro, l’egida dal bordo coronato di orribili serpenti. Ai lati si dispongono giganti caduti e inginocchiati, anticipando quel senso della simmetria che sarà preoccupazione delle composizioni frontonali di età classica. Per la prima volta in questo frontone tutti i personaggi rispettano lo stesso modulo e sono complementari tra loro nell’azione, diversamente ad esempio dalla gigantomachia del Tesoro dei Megaresi a Olimpia, nella quale la scena si articola ancora in singoli duelli. Il ritmo è sostanzialmente frontale con passaggi dal prospetto al profilo ancora piuttosto rigidi e a scatti, come mostra il gigante caduto, la cui posizione verrà ripresa dal ferito del frontone occidentale di Egina (Fig. 3.72); si colgono tuttavia significative preoccupazioni plastiche; lo stile è innovativo e aperto agli apporti ionici. Non vi è dubbio però che la novità maggiore debba riconoscersi nella circostanza che tutti i personaggi del frontone partecipano all’azione insieme, collaborano quindi con essa; la vecchia concezione del gruppo centrale apotropaico viene qui definitivamente superata. Resiste invece ancora almeno nel timpano occidentale del tempio degli Alcmeonidi a Delfi di qualche anno successivo, dove in una gara di grandezza con le iniziative dei nemici Pisistratidi, gli esuli Alcmeonidi vollero raffigurare un’ennesima gigantomachia in calcare stuccato, 241

inserendola però secondo la vecchia concezione tra due gruppi di leoni che azzannano tori (si veda par. 3.8). I Propilei arcaici Il quadro topografico dell’Acropoli in età arcaica si chiude con una breve trattazione dei Propilei preclassici (per quelli di età classica si veda par. 2.5), ossia del monumento che fungeva da ingresso all’Acropoli sul lato occidentale, il meno scosceso della rocca. La loro restituzione è molto discussa anche per la scarsa conservazione dei resti in situ; danneggiati dal sacco persiano e restaurati alla meglio dopo il 479 a.C., i Propilei di età arcaica sarebbero stati definitivamente abbattuti all’inizio dei lavori periclei. Si ritiene in genere che fossero costituiti da un corpo centrale suddiviso al centro da una fila di tre colonne, con fronti tetrastile in antis; a sud si apriva un’esedra gradinata, della quale si distinguono ancora alcuni sedili addossati al muro miceneo; a nord era invece un edificio absidato di ordine dorico. 3.4.2 L’Agorà in età arcaica

Una recentissima sintesi (Greco, Longo e altri) delle informazioni prodotte dalle fonti e dai dati archeologici ha introdotto importanti novità sul tema della localizzazione dei più antichi spazi pubblici ad Atene e della loro evoluzione in relazione con il sorgere e il tramontare della fortuna dei gruppi gentilizi. È infatti ormai chiaro che l’area dell’Agorà del Ceramico a nord-ovest dell’Acropoli (Fig. 1.20), da decenni indagata dagli Americani, ospitò a lungo, almeno fino agli anni centrali del secolo VI a.C., quartieri artigianali di ceramisti e metallurghi, e fu per questo tanto ingombra da non potersi prestare anche come area pubblica, civile e politica, dell’Atene arcaica. Agorài arcaiche, legate probabilmente a differenti gruppi gentilizi 242

che si affrontavano nell’Atene aristocratica, stabilendo anche sedi distinte per l’esercizio del loro potere, sono state infatti riconosciute sulle pendici sud-orientali e sudoccidentali dell’Acropoli, rispettivamente nei pressi del santuario di Aglauro e di Afrodite Pandemos.

Fig. 3.58 Atene, pianta dell’Agorà del Ceramico in età pisistratide.

Il programma edilizio dei Pisistratidi segna probabilmente lo smantellamento di queste vecchie agorài, politicamente legate ai gruppi aristocratici precedenti, e la nascita di un nuovo spazio pubblico che viene disegnato ora a nord-ovest delle pendici dell’Acropoli nell’area del Ceramico; questo non a caso conosce, nell’ultimo trentennio del secolo VI a.C., una progressiva liberazione degli spazi con lo spostamento verso nord delle sue tradizionali installazioni artigianali e funebri. Proprio all’età dei Pisistratidi del resto, e non più indietro, datano i più antichi edifici pubblici noti nell’Agorà del Ceramico, destinata poi a

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mantenere questa funzione in età classica ed ellenistica (Fig. 3.58). Tra questi edifici, molto discusso è il significato del cosiddetto «edificio F» (prytanikon in Fig. 3.58), un complesso articolato, che si data negli anni immediatamente posteriori alla metà del secolo VI a.C.; per quanto costruito con una tecnica edilizia modesta, in piccoli blocchi e mattoni crudi, si tratta di un edificio ricercato per le soluzioni architettoniche con cortili porticati e tetti decorati da antefisse a gorgoneion. La vastità della struttura, la pianta trapezoidale, che richiama le regiae etrusco-italiche, e la posizione dell’edificio ai piedi del Kolonòs Agoraios, destinato a diventare il cuore politico e istituzionale della città di Atene, hanno naturalmente suscitato un intenso dibattito sulla funzione, se pubblica o privata, del complesso, se fosse cioè sede di un primitivo pritaneo oppure residenza dei Pisistratidi. Resta il fatto che l’edificio, datato a età pisistratide, è tra i più antichi dell’area che assurgerà presto al ruolo di spazio pubblico della nuova Atene.

Fig. 3.59

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Hydria attica a figure nere con donne alla fontana. Roma, Museo Etrusco di Villa Giulia.

Potrebbe datarsi al decennio 550-540 a.C. anche la prima edificazione della Stoà Basileios (Portico del re) sull’angolo nord-occidentale dell’Agorà, sede dell’arconte re, che vigilava sulle tradizioni religiose della città, e luogo di esposizione delle leggi di Draconte e di Solone. Sul lato occidentale della via delle Panatenee, che fu tracciata dagli stessi Pisistratidi per condurre la processione dal Dipylon fin sull’Acropoli, venne invece dedicato da Pisistrato il Giovane, figlio di Ippia, nell’anno 522-521 a.C., l’altare dei Dodici Dei che fungeva anche da punto di partenza per la misurazione delle strade. È noto infine che i Pisistratidi si sforzarono di realizzare ad Atene un sistema di approvvigionamento idrico razionale, analogamente con quanto promosso dai Cipselidi a Corinto e nel frattempo intrapreso da Policrate a Samo. Concordano infatti le fonti nell’attribuire ai tiranni di Atene la famosa fontana dell’Enneakrounos, di incerta ubicazione; Pausania la colloca nell’Agorà (I, 14, 1): «Vicino c’è una fontana che chiamano “Enneakrounos”, sistemata, così come la vediamo, da Pisistrato. Essa è l’unica sorgente che si trova in questa città ricca, del resto, di pozzi». Si sarebbe trattato di una fontana a nove bocche che convogliava e distribuiva acque sorgive. Alla sua costruzione è da collegare certamente l’improvviso fiorire, sul finire del secolo VI a.C., di raffigurazioni vascolari con scene di vita sociale alla fontana (Fig. 3.59). 3.4.3 L’Olympieion

Ai Pisistratidi si lega infine un importante intervento edilizio anche nell’area a sud dell’Acropoli, dove scorreva il fiume Ilisso e dove, stando alle fonti letterarie, avevano sede importanti culti. Qui, su commissione dei tiranni di Atene, intorno al 520 a.C., venne eretto su un precedente periptero 245

di età alto-arcaica un tempio a Zeus Olympios (Fig. 3.60); si trattava di un edificio in ordine dorico, ma di pianta diptera, a evidente richiamo dei monumentali dipteri ionici che in quegli stessi anni altri tiranni, Policrate a Samo, Ligdami a Nasso, stavano costruendo. E degli altri templi di tiranni anche l’Olympieion seguì le sorti, restando incompiuto alla caduta dei Pisistratidi; molti rocchi di colonna furono in seguito reimpiegati nel muro di Temistocle. I lavori di costruzione ripresero solo molti secoli dopo, dapprima nel 174 a.C. con il re Antioco IV Epifane, quindi nel 130 d.C. con l’imperatore Adriano (Fig. 3.61).

Fig. 3.60 Atene, quartiere dell’Ilisso, pianta dell’Olympieion.

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Fig. 3.61 Atene, quartiere dell’Ilisso, Olympieion nella costruzione di età adrianea.

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3.5 La scultura ad Atene da Clistene alle Guerre Persiane (510-480 a.C.), gli anni della svolta Dopo l’assassinio di Ipparco a opera di Armodio e Aristogitone (514 a.C.), nel 510 a.C. Clistene, rovesciato il regime tirannico, instaura un nuovo ordinamento a carattere democratico. Negli anni successivi, all’inizio del V secolo, la rinnovata Atene viene messa alla prova dalla vana rivolta delle città ioniche contro le mire dei Persiani, che, distrutta Mileto nel 494 a.C., giungono ad attaccare la Grecia sul suo stesso territorio. Le vittorie ateniesi a Maratona prima (490 a.C.) e a Salamina e a Platea poi (480 a.C., 479 a.C.), dopo eventi traumatici come la disastrosa sconfitta alle Termopili e la distruzione dell’Acropoli e della città a opera delle truppe persiane, portano Atene a ricoprire il ruolo di salvatrice della libertà politica e spirituale della Grecia. Sono pochi decenni, decisivi per la politica interna ed estera della polis, che hanno segnato anche una svolta fondamentale nella scultura attica: opere come la kore di Euthydikos (Fig. 3.66) e l’Efebo biondo (Fig. 3.67), entrambe anteriori ai saccheggi del 480 e del 479 a.C., parlano un linguaggio figurativo del tutto nuovo, che si distacca decisamente dal canone arcaico. Il nuovo clima politico e sociale, lo scioglimento della corte dei tiranni, l’apertura degli organi di governo a nuove componenti sociali, la mobilitazione generale nei confronti del pericolo persiano, devono aver agito anche sulla cultura e sulla produzione artistica, che cerca nuove espressioni. Il cambiamento, naturalmente, non è né immediato, né generale, ma verosimilmente legato alla sensibilità degli artigiani e alla volontà dei committenti. La stele funeraria di Aristion (Fig. 3.62), scolpita intorno al 520-510 a.C. da 248

Aristokles, riflette una caratterizzazione funzionale tipica del nuovo ordinamento cittadino: il defunto non è più raffigurato come un kouros, ma come un guerriero, perché quella è la sua funzione all’interno della società; la resa stilistica, però, aderisce ancora al manierismo tardoarcaico. Il bassorilievo, rinvenuto a Velanideza, in Attica, rappresenta un oplita, barbato, connotato ancora come aristocratico per l’acconciatura particolarmente elaborata, che ricorda quella del Cavaliere Rampin (Fig. 3.36); lo scultore insiste sui valori disegnativi, calligrafici, soffermandosi con minuzia descrittiva su tutti i particolari, ma ogni elemento è fine a sé stesso e l’opera resta fredda, perfetta, ma priva di vita.

Fig. 3.62 Stele di Aristion, da Velanideza (Attica). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 3.63 Statua di Aristodikos, dall’Attica. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 3.64 Rilievo con scene di palestra: gioco della palla; rinvenuto nelle mura di Temistocle. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 3.65 Rilievo con scene di palestra: giudici con cane e gatto; rinvenuto nelle mura di Temistocle. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il monumento funerario di Aristodikos (Fig. 3.63), invece, realizzato sullo scorcio del secolo VI, pur aderendo all’immagine astratta e atemporale del kouros, mostra, rispetto ai suoi fratelli più antichi, quale il bellissimo Kroisos (Fig. 3.34), alcune importanti novità e riflette l’impegno di creare un canone nuovo. Permane la frontalità, con la gamba sinistra avanzata nello schema canonico, e il peso del corpo ripartito su entrambi gli arti, ma le braccia sono ora piegate e scostate dal tronco, il passaggio tra il busto e le gambe meno marcato, l’analisi muscolare più organica, il ritmo generale elastico e sensibile: il corpo comincia a vivere dal di dentro. L’unica concessione all’allure aristocratica del personaggio sono i riccioli a chiocciola che circondano il capo e il ricercato taglio dei peli pubici. Emblematica di questa volontà di sperimentazione e di rinnovamento è una base, rinvenuta reimpiegata nelle mura dell’età di Temistocle e verosimilmente pertinente a una statua di kouros, che raffigura scene di palestra; nel gioco della palla (Fig. 3.64) lo scultore adotta un ritmo vivace, con posizioni e gesti che variano da un atleta all’altro, soluzioni originali e visioni di scorcio e di tre quarti che presuppongono il contatto diretto con la realtà; di qui l’anatomia analitica e ricca di notazioni che esalta il mondo dell’efebia e del ginnasio. Da un rinnovato spirito di 251

osservazione verso il quotidiano, nasce anche la scena degli efebi che aizzano tra loro un cane e un gatto, un unicum nell’arte greca (Fig. 3.65). Il confronto con le figure di atleti dipinte dai Pionieri (Fig. 3.128) e con una delle prime opere del Pittore di Kleophrades, attivo nel primo quarto del secolo V, che raffigura una scena di palestra, con un discobolo che si prepara al lancio (Fig. 4.51), mostra la stessa volontà di sperimentare ritmi nuovi, più aperti. Anche la pittura elabora i mezzi rappresentativi ed espressivi che preparano l’ideale artistico dello «stile severo». Il diverso clima si fa sentire anche nella statuaria femminile; la kore dedicata da Euthydikos sull’Acropoli mantiene il costume ionizzante, ma perde la leziosità tardoarcaica (Fig. 3.66); il volto è largo, massiccio, connotato dalle palpebre pesanti e dalla bocca che ha perso il «sorriso arcaico»: gli angoli delle labbra tirati verso il basso hanno favorito il nomignolo di «kore imbronciata» o «kore triste». I capelli sono ora divisi da una scriminatura centrale in due larghe bande, ancora lavorate a zig-zag, ma portatrici di una accentuata volumetria e fortemente aggettanti sul volto levigato. Sul vestito, le pieghe del mantello, più rade e appiattite rispetto ai modelli tardoarcaici, accentuano il carattere di robustezza del corpo, dalle forme piene, solide. La statua è stata rinvenuta in due pezzi, dei quali la parte inferiore nella «colmata persiana»; si data quindi poco prima del 480 a.C.

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Fig. 3.66 Kore di Euthydikos, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

Il contrasto tra il forte colorismo dell’acconciatura e i piani levigati del volto caratterizza anche la testa dell’Efebo biondo, così chiamato per le tracce di colore sui capelli (Fig. 3.67 a,b); della statua si conservano soltanto la testa e il bacino. I capelli sono ancora lunghi, ma raccolti in due trecce che girano intorno al capo, coperte sulla fronte dalla spessa frangia di riccioli a serpentina; gli occhi hanno ancora il taglio a mandorla, ma, grazie alla presenza del sacco lacrimale, ben indicato, e al risalto delle palpebre e del contorno, acquistano una vitalità del tutto nuova; anche la bocca ha conquistato, all’interno del volto pieno, la sua dimensione naturale. I due frammenti sono stati rinvenuti in un riempimento a sud-est dell’Acropoli con altra statuaria arcaica, quindi la statua è da considerare, con buon margine 253

di sicurezza, di poco anteriore al 480 a.C., come del resto mostrano le affinità stilistiche con la kore di Euthydikos e con le figure del Pittore di Berlino (Fig. 4.54). È quindi di estremo interesse il fatto che i frammenti del bacino consentano di ricostruire la statua di un atleta in movimento, che doveva avere il braccio destro sollevato e la gamba sinistra portata in avanti.

Fig. 3.67 a,b Testa dell’Efebo biondo, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Fig. 3.68 Efebo di Kritios, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

La frontalità arcaica è ormai passata in secondo piano; il 255

rendimento del corpo in movimento nello spazio è già in questo periodo al centro delle ricerche della plastica a tutto tondo, come ben mostrano i frontoni del tempio di Atena Aphaia a Egina (Fig. 3.71). La nuova maniera di disegnare il corpo umano emerge in modo decisivo nella statua di efebo attribuita a Kritios (Fig. 3.68), uno degli scultori più noti dell’epoca, attivo sia nel marmo che nel bronzo e autore, con Nesiotes, del famoso gruppo dei Tirannicidi (Fig. 4.33). L’esatta provenienza del pezzo è a tutt’oggi ancora fonte di discussione; se sembra accertato che la statua non provenga dalla «colmata persiana», ma sia stata rinvenuta in due tempi (torso nel 1863-65, testa nel 1888) e insieme a sculture più tarde, in un settore dell’Acropoli che è stato interessato dai lavori per il Partenone, è anche vero che la strana rottura alla base del collo sembra volontaria, tanto da far pensare ad una sorta di decapitazione. È quindi molto probabile che la statua si sia trovata sull’Acropoli al momento dalla distruzione a opera dei Persiani e sia quindi da considerare, per via delle innovazioni stilistiche, di poco anteriore al 480 a.C. Il giovane atleta è raffigurato stante, in appoggio sulla gamba sinistra, tesa, mentre la destra, libera, è piegata, il ginocchio portato in avanti; alla gamba portante corrisponde la tensione della parte corrispondente che si riflette nella contrazione dell’anca sinistra, leggermente più alta di quella destra. Il braccio sinistro era disteso lungo il corpo, cui era unito da un puntello, il destro doveva essere invece proteso in avanti a sostenere un’offerta; la testa, che reca la stessa acconciatura dell’Efebo biondo (Fig. 3.67), è leggermente girata e inclinata verso destra. È il primo esempio di ponderazione, intendendo con questo termine l’equilibrio delle membra e delle masse del corpo che appaiono tutte collegate tra loro e agiscono sotto il medesimo impulso. Rispetto ai numerosi esempi della 256

generazione successiva, quella dello «stile severo», in questa statua le spalle sono tuttavia ancora orizzontali, quindi slegate dal moto impresso al bacino, ma il nuovo ritmo si avverte già pienamente. Anche le singole parti del corpo – le spalle ampie e arrotondate, i larghi pettorali, l’addome definito da larghe partiture e le cosce snelle e slanciate – sono raccordate tra loro con passaggi morbidi e sfumati che creano una superficie luminosa e vibrante; l’immagine acquista una vita, un’esistenza propria.

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3.6 Le sculture del tempio di Atena Aphaia a Egina, fra tradizione arcaica e stile severo L’isola di Egina, quasi al centro dell’ampia insenatura del Golfo Saronico, tra l’Attica e l’Argolide, acquista una grande importanza nei secoli VII e VI a.C. come potenza marinara e commerciale. L’isola era anche patria di una famosa scuola di bronzisti, ricordati dalle fonti per aver realizzato simulacri divini ed ex voto nei principali santuari panellenici; purtroppo nessuna delle opere a essi attribuite si è conservata nel tempo, così come nessuna statua di bronzo è mai stata rinvenuta sull’isola nel corso di scavi archeologici. Verso la fine del VI secolo, a seguito di un incendio, viene ristrutturato il santuario di Aphaia – antichissimo luogo di culto extraurbano di una dea di origine cretese, successivamente identificata con Atena – posto su un’altura visibile dal mare nella cuspide nord-orientale dell’isola. Per far posto al nuovo tempio la terrazza del temenos (recinto sacro) viene raddoppiata con un imponente muro di sostegno fino a raggiungere una forma rettangolare e circondata da un muro fornito di propilei (ingresso) monumentali. Il tempio, in calcare locale stuccato, con elementi decorativi in marmo insulare, è di ordine dorico, con peristasi di 6 × 12 colonne, pronao e opistodomo, e cella divisa in tre navate da due file di cinque colonne su doppio ordine (Fig. 3.69). L’edificio, che non presenta ancora la curvatura dell’intero stilobate, ma solo una minima curvatura dei lati lunghi, denuncia già una serie di correzioni ottiche che ne fanno uno degli esempi meglio riusciti dell’architettura templare contemporanea. Gli interassi angolari sono infatti contratti di 22 cm; le colonne 258

angolari più spesse di 2 cm rispetto alle altre; tutte le colonne presentano un’inclinazione di 2 cm verso l’interno; accorgimenti studiati per alleggerire la pesantezza dell’ordine dorico. Una vivace policromia animava la trabeazione, sottolineata in rosso e azzurro; le composizioni frontonali, poste a circa 10 m d’altezza, risaltavano sul fondo azzurro del timpano; le singole statue, anch’esse ravvivate dalla pittura, avevano armi e attributi in bronzo e materiali preziosi (Fig. 3.70).

Fig. 3.69 Egina, pianta del tempio di Atena Aphaia.

Le sculture frontonali, in marmo, furono scoperte nel 1811 e acquistate dal re Luigi I di Baviera, che le fece restaurare a Roma dal Thorvaldsen, famoso scultore neoclassico, prima di esporle alla Gliptoteca di Monaco, dove sono tuttora conservate. Negli anni 1961-1964 i restauri e le integrazioni neoclassiche furono rimossi e i due gruppi ricomposti sulla base di criteri più moderni. I frontoni, che utilizzano statue scolpite a tutto tondo, raffigurano episodi della guerra di Troia (Fig. 3.71 a,b). In entrambi la figura principale, sull’asse del frontone e del tempio, è Atena. La dea occupa quindi il posto d’onore: è più grande degli altri personaggi a causa della sua stessa essenza divina, ma anche, in termini più pratici, perché 259

viene a trovarsi nel punto più alto del timpano. Benché armata, non le è contrapposto nessun avversario, quindi non partecipa materialmente alla battaglia; come avviene nell’Iliade, la dea assiste, invisibile ai combattenti, nel ruolo di garante del trionfo della giustizia; la sua presenza simboleggia la vittoria dei Greci sui Troiani, quindi della giusta causa.

Fig. 3.70 Egina, ricostruzione del tempio di Atena Aphaia.

Fig. 3.71 a,b Frontoni del tempio di Atena Aphaia, ricostruzioni (da Ohly 1986).

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Nel frontone occidentale, più antico, Atena è stante, con la parte superiore del corpo rigidamente frontale e le gambe di tre quarti, la sinistra leggermente avanzata; la postura ferma, verticale, sottolinea la presenza astratta della dea. Ai lati, distribuiti equamente nelle ali, agiscono dodici combattenti, sei per ogni ala (Fig. 3.71b); dopo la prima coppia di opliti, due arcieri, uno dei quali in costume scita (Paride o un’amazzone), voltano le spalle ai gruppi centrali per colpire gli avversari che cadono feriti occupando le estremità dello spazio frontonale; tra i feriti e gli arcieri due guerrieri, un greco con la spada e un troiano con la lancia, stanno atterrando i rispettivi avversari. Lo schema delle due ali del timpano è quasi simmetrico e il ritmo della composizione è centrifugo, vale a dire indirizzato verso le estremità, dove sono collocati i feriti che, con i corpi distesi, meglio si adattano alle dimensioni dello spazio angolare. All’interno di questo schema le coppie di combattenti e i singoli guerrieri restano isolati ciascuno nella propria individualità. Nel frontone orientale, più recente, diminuiscono le figure di guerrieri, portate a dieci e ingrandite nelle dimensioni (Fig. 3.71a). Al centro è sempre Atena. La figura è quasi totalmente perduta; quanto ne resta tuttavia – la testa, l’avambraccio sinistro coperto dall’egida e i piedi coperti da un lungo chitone – evidenzia che lo scultore si discosta dall’immagine ieratica del frontone occidentale e sceglie di raffigurare la dea in movimento: benché la testa sia frontale, dato che la dea non partecipa all’azione, i piedi sono rivolti verso destra, e così il braccio sinistro, proteso, che doveva scuotere l’egida. La postura richiama il ritmo aperto dell’Atena del tempio di Atena Poliàs dell’età dei Pisistratidi (Fig. 3.57). Anche nel frontone orientale, ai lati della dea si fronteggiano due gruppi di combattenti, seguiti ciascuno da 261

un oplita, colto nell’atto di accorrere in soccorso del guerriero soccombente, da un arciere e da un ferito; i personaggi sono però disposti in schemi più variati e meno ripetitivi che rendono la composizione più unitaria. Lo scultore ha infatti utilizzato schemi incrociati, con figure rivolte verso gli angoli e figure che, dagli angoli, si muovono verso il centro: tutti partecipano all’azione. È uno schema compositivo che verrà ripreso e migliorato nel frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia (Fig. 4.20). In una delle figure di arcieri inginocchiati del frontone orientale è riconoscibile, per la leontè, Eracle (Fig. 3.75); la battaglia è quindi un episodio della prima mitica spedizione contro Troia, avvenuta all’epoca di Laomedonte, padre del Priamo omerico. Nel frontone occidentale è invece un episodio della guerra omerica, probabilmente incentrato su Aiace, eroe dell’isola.

Fig. 3.72 Tempio di Atena Aphaia, guerriero ferito, dal frontone ovest. Monaco, Gliptoteca.

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Fig. 3.73 Tempio di Atena Aphaia, guerriero ferito, dal frontone est. Monaco, Gliptoteca.

È ormai pienamente accettato che tra i due frontoni del tempio di Egina c’è uno scarto cronologico di una ventina o una decina d’anni; il frontone ovest si data infatti intorno al 510-500 a.C.; il frontone est verso il 490-480 a.C. Non è chiaro perché quest’ultimo fu sostituito o perché fu messo in opera più tardi rispetto al primo. Altri frammenti di sculture frontonali, rinvenuti nel 1901 dal Furtwaengler, e poi ancora nel corso di ulteriori campagne di scavo, sono stati infatti solo in parte attribuiti ai due frontoni principali, ma piuttosto riferiti a due diversi gruppi che raffiguravano un’amazzonomachia e il rapimento della ninfa Egina, madre di Aiace, da parte di Zeus. Dal momento che questi ultimi complessi sono databili al 510-500 a.C., come il frontone ovest, è stata avanzata l’ipotesi che essi facessero parte di composizioni create inizialmente per il frontone orientale del tempio, messe in opera solo parzialmente e poi smontate, per motivi contingenti che ci sfuggono, e rimontate successivamente presso l’altare, dove in effetti restano ancora due basi allungate.

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Fig. 3.74 Tempio di Atena Aphaia, arciere in costume scita, dal frontone ovest. Monaco, Gliptoteca.

Fig. 3.75 Tempio di Atena Aphaia, Eracle, dal frontone est. Monaco, Gliptoteca.

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Tornando al tempio di Egina, se confrontiamo i due guerrieri feriti inseriti negli angoli dei frontoni ovest ed est emergono subito le differenze stilistiche tra i due gruppi statuari e, di conseguenza, lo scarto cronologico tra i due frontoni. Il guerriero VII del frontone ovest (Fig. 3.72), colto mentre sta cercando di estrarre una freccia dal petto (l’arma, all’origine in bronzo, è perduta), è rivolto verso lo spettatore, quasi di prospetto, con una posizione forzata che richiama quella del gigante ferito del tempio dei Pisistratidi (Fig. 3.57); le partizioni addominali molto pronunciate, i tratti del volto con il caratteristico sorriso, l’acconciatura con i riccioli sulla fronte e i capelli lunghi riflettono gli stilemi della plastica tardoarcaica. Il guerriero XI del frontone est (Fig. 3.73) è invece raffigurato molto più realisticamente di tre quarti, con il volto di profilo verso a terra; prossimo alla morte, resta in appoggio al grande scudo rotondo, ma la mano, priva di forza, ricade. Siamo di fronte a una concezione diversa della prospettiva e il passaggio dalla visione di prospetto a quella di profilo avviene lentamente, con una torsione più naturale. Anche l’anatomia – che in entrambi i frontoni appare particolarmente curata, per sottolineare lo sforzo e la prestanza fisica dei guerrieri, idealizzati al solito come atleti – è qui meno descrittiva. Tra le figure di arcieri, quello in costume scita (Fig. 3.74), un tempo completamente dipinto, si mostra in una posizione giocata interamente sulla visione di profilo che risulta elegante, ma fortemente disegnativa; più efficace l’Eracle (Fig. 3.75), pesantemente accucciato sui talloni, con il torso teso all’indietro e la gamba destra proiettata all’infuori; una figura che acquista la sua giusta dimensione nello spazio. Le sculture frontonali di Egina, che si devono chiaramente a un progetto unitario, sono quindi opera di due scultori, o di due scuole, che riflettono una diversa 265

sensibilità artistica. Lo scultore del frontone ovest e delle prime versioni del frontone est, che è probabilmente anche l’ideatore di tutto il ciclo scultoreo, continua la maniera arcaica, con tutti i suoi valori di perfezione astratta; una ventina d’anni dopo, lo scultore del frontone orientale ripropone lo stesso soggetto mettendo in atto la nuova estetica che sfocerà, di lì a poco, nello «stile severo». In entrambi i gruppi la tematica compositiva e formale accosta tra loro corpi in azione, un movimento che sul frontone orientale (Fig. 3.71a) arriva a sperimentare posizioni instabili come quelle dei guerrieri VIII e III, raffigurati in una rotazione di tre quarti che risulta ai nostri occhi piuttosto audace per l’epoca. In effetti quanto è giunto fino a noi della scultura tardoarcaica è pochissimo rispetto a quello che i contemporanei dei frontoni di Egina potevano ammirare nei santuari. Se consideriamo, ad esempio, che nella famosa coppa della Fonderia, datata intorno al 480 a.C. (Fig. 4.55), sono in corso di rifinitura due grandi statue, un atleta e un guerriero promachos, colto nell’atto di sferrare l’attacco, figure che richiamano gli eroi egineti, è evidente che le ricerche sul corpo in movimento nello spazio, che porteranno ai grandi bronzi dello stile severo, come il Posidone dell’Artemision (Fig. 4.34), sono già in fase di sperimentazione nel primo ventennio del V secolo.

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3.7 Scultura e artigianato in bronzo e in avorio Anche nell’età arcaica alla produzione in pietra per la decorazione architettonica e per la plastica a tutto tondo a destinazione votiva e funeraria, si affiancano la scultura in bronzo – con innovazioni che saranno decisive per lo sviluppo della statuaria di gradi dimensioni – e la lavorazione del legno e dell’avorio. Come sappiamo dalle fonti, Endoios, uno degli scultori attivi ad Atene nell’ultimo trentennio del VI secolo (Fig. 3.38), particolarmente apprezzato dai contemporanei per le statue di culto e per i numerosi ex voto commissionati dall’aristocrazia ateniese, era capace di lavorare con ottimi risultati il legno, l’avorio e il marmo. 3.7.1 Rhoikos e Theodoros e la fusione cava

Le statue di bronzo venivano prodotte fin dall’età geometrica (Figg. 1.37-1.41) con il metodo della «cera persa», vale a dire realizzando dapprima in cera quello che dovrà poi essere di bronzo. Per le statuette di piccolo formato il procedimento era molto semplice: si modellava la statuetta in cera, completa di tutti i particolari; la si rivestiva di una camicia di argilla, lasciando un imbuto o uno sfiatatoio per la fuoriuscita della cera; si cuoceva la forma fino alla liquefazione totale della cera. Quest’ultima, liquefacendosi e colando fuori dalla forma, lasciava all’interno un vuoto nel quale si versava il metallo allo stato liquido; passato il tempo di raffreddamento, si spaccava la camicia di argilla e si liberava la statuetta, che veniva poi ripulita esternamente ed eventualmente rifinita a cesello. Il problema si complicava con le statue di grandi dimensioni che non potevano essere piene, dato l’alto costo

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del metallo, ma dovevano per forza essere internamente cave. Abbiamo visto come il problema della statuaria di grandi dimensioni sia stato affrontato fin dalla fine dell’VIII secolo a.C. costruendo immagini in lamina di bronzo, i cosiddetti sphyrelata, come l’Apollo di Dreros, alto 80 cm (Fig. 2.19). Dobbiamo a sperimentazioni costanti e a successivi tentativi la nascita della vera e propria statuaria in bronzo a fusione cava, con i metodi di fabbricazione che verranno poi ereditati dai Romani. Questo progresso tecnico è legato, secondo le fonti antiche, alle figure di Rhoikos e Theodoros, nativi di Samo. Il primo è ricordato da Erodoto come architetto per il tempio arcaico di Hera; secondo Vitruvio avrebbe scritto anche un trattato sul suo progetto per l’Heraion. Con il figlio, o collaboratore, Theodoros, perfeziona la tecnica della fusione a cera persa creando grandi statue cave di bronzo. Theodoros è anch’egli ricordato come architetto a proposito dell’Artemision di Efeso, come autore di un edificio a Sparta, come pittore, incisore di gemme e orafo. Il collegamento con le fabbriche templari dell’Heraion di Samo e dell’Artemision di Efeso consente di inquadrare l’attività di questi personaggi nel secondo quarto del VI secolo a.C. Come altri artisti dell’antichità classica – e come, del resto, molti maestri del nostro Rinascimento – entrambi si rivelano esperti in più di una tecnica; sono autori di trattati e vengono chiamati a lavorare anche al di fuori dell’isola natia in virtù della loro abilità e della fama che li circonda. Quello che emerge è quindi un quadro molto vivace dell’artigianato arcaico, con artisti che collaborano insieme per sviluppare nuove tecniche, che sono in grado di confrontarsi con altri colleghi e di diffondere le proprie scoperte. 268

In un clima come questo è molto probabile che effettivamente l’isola di Samo, ponte tra Oriente e Occidente, abbia giocato un ruolo di grande importanza nel perfezionamento e nella diffusione della tecnica a fusione cava. Se poi si considera che nel VII secolo statue cave di grandi dimensioni venivano già prodotte in Egitto e che Samo era in stretto contatto con l’Egitto – come dimostrano i numerosi reperti egiziani, tra i quali molte statuette in bronzo, rinvenuti nel santuario di Hera – il ruolo dell’isola e della sua scuola di artisti diventa sempre più rilevante. I Greci erano del resto presenti in Egitto fin dalla metà del VII secolo a.C. con la colonia di Naucrati, sul delta del Nilo. Se le fonti antiche datano l’attività di Rhoikos e Theodoros, e di conseguenza l’introduzione della fusione cava su grande scala, nel pieno VI secolo, l’evidenza archeologica ha restituito una serie di pezzi che confortano questa datazione.

Fig. 3.76 Frammento di statua di kouros, da Olimpia. Olimpia, Museo Archeologico.

Tra i ritrovamenti più interessanti si potranno ricordare un frammento di statua di kouros da Olimpia (Fig. 3.76), una testa di Zeus, anch’essa da Olimpia (Fig. 3.77), e, in

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Italia meridionale, lo Zeus di Ugento (Taranto), attribuito a officine tarantine (Fig. 3.78). Sono poche opere, ma indicative di una importantissima fase di sperimentazione, collocabile nella seconda metà del secolo VI a.C., e di una trasmissione veloce di modelli e di tecniche, dall’Oriente alle isole dell’Egeo, dalla Grecia all’Italia meridionale. Dobbiamo anche considerare che le statue di bronzo che sono arrivate fino ai giorni nostri sono molto meno di quelle in marmo: il bronzo è infatti soggetto a essere rifuso e riutilizzato, sia per il valore intrinseco del metallo, che può tornare utile per fabbricare altri oggetti, sia per i problemi legati alla corrosione o alla progressiva defunzionalizzazione dei manufatti. Come avviene ancora adesso, la statua di un sovrano o di un capo di governo può essere abbattuta in seguito al crollo del regime; un’immagine di culto può risultare invisa in un altro clima religioso. Il frammento di Olimpia (h 15,5 cm), relativo a due gambe e a una mano, consente di ricostruire una statua a fusione cava di circa mezzo metro di altezza, databile nella prima metà del VI secolo (Fig. 3.76). Nonostante le dimensioni ridotte e lo stato frammentario del pezzo, si riconosce l’incedere del kouros (Figg. 3.33, 3.34), con la gamba sinistra avanzata e la mano destra, chiusa a pugno, aderente alla coscia; la muscolatura appare ben modellata, ma le rotule sono indicate da due linee curve, speculari – visibilmente incise nel modello di cera prima della gettata del bronzo – che ricordano le convenzioni della scultura più arcaica, come la muscolatura «incisa» dei kouroi del Sounion (Fig. 3.29). L’impostazione a blocco della statua rivela che lo scultore non ha ancora pienamente recepito le possibilità della materia, il bronzo, che permette di affrontare ritmi più aperti e articolati (Fig. 3.78). Per costruire la statua lo scultore è partito in questo caso 270

da un abbozzo in argilla prossimo nella forma e nelle dimensioni alla statua, o alla parte di statua, che si riproponeva di realizzare in bronzo; questa sagoma di argilla appena abbozzata veniva poi ricoperta completamente con uno spesso strato di cera, sul quale lo scultore poteva lavorare fino al dettaglio, costruendo la sua statua in tutti i minimi particolari. Il risultato finale era una statua di cera con anima di argilla, uguale in tutto e per tutto alla futura statua di bronzo. Come per le statuette di piccole dimensioni, lo scultore rivestiva poi questa statua di cera con una spessa camicia d’argilla, cuoceva la forma per liquefare ed eliminare la cera e colava il bronzo nell’intercapedine, vuota, che risultava tra l’anima interna d’argilla e la camicia esterna. Spaccata quest’ultima ed eliminata l’argilla interna si otteneva una statua di bronzo cava. Con questo metodo, il cosiddetto «metodo diretto», è stata realizzata anche la bella testa di Olimpia (h 17 cm), riferibile, per via della corona, a una statua di Zeus alta circa 1 m (Fig. 3.77). L’opera mostra, nei tratti ionizzanti e nella raffinata acconciatura, tutti i caratteri dello stile tardoarcaico; i lunghi capelli, disposti sulla fronte in una doppia fila di riccioli a spirale, sono fermati, appena sotto le orecchie, da un largo nastro e raccolti in uno stretto chignon sulla nuca; lateralmente tre lunghi riccioli, ora mancanti, dovevano scendere lungo le spalle come nello Zeus di Ugento (Fig. 3.78) o nelle numerose raffigurazioni vascolari coeve; i richiami alle sculture frontonali di Egina consentono una datazione tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C.

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Fig. 3.77 Testa di Zeus, da Olimpia. Olimpia, Museo Archeologico.

Fig. 3.78 Statua di Zeus, da Ugento (Taranto). Taranto, Museo Archeologico Nazionale.

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La statua di Zeus rinvenuta nel centro messapico di Ugento, presso Taranto, alta 71,8 cm, era posta su una colonna della quale resta il capitello dorico, di calcare, decorato a rosette (Fig. 3.78). Il dio è colto nell’atto di incedere impetuosamente, la gamba sinistra avanzata, la mano destra alzata per lanciare il fulmine, la sinistra protesa a mostrare un attributo, forse un’aquila; si tratta di un’opera di notevole impegno, come dimostra l’elaborata acconciatura, cinta da un diadema e da una corona di foglie, con la doppia fila di riccioli sulla fronte, i capelli e la barba finemente cesellati, tutti particolari che lo scultore ha realizzato nella cera, prima della colata. Date le dimensioni, la statua è stata infatti realizzata in più parti, la testa, il corpo, le mani; anche la corona di foglie, le rosette del diadema e i quattro boccoli che scendono sulle spalle sono stati modellati e colati a parte e successivamente saldati. Rispetto allo scultore del kouros di Olimpia (Fig. 3.76), l’ignoto autore di questa statua, verosimilmente tarantino, padroneggia molto meglio le possibilità offerte dal bronzo, che permette di allargare gli arti nello spazio; il problema del corpo in movimento è tuttavia risolto ancora in modo schematico: nonostante il tallone destro sia alzato, il peso del corpo appare ugualmente ripartito su entrambe le gambe in uno schema rigido e formale; la statua non si muove autonomamente (cfr. Fig. 4.34), ma vuole rappresentare soltanto l’idea del movimento.

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Fig. 3.79 Cratere di Vix. Châtillon-sur-Seine, Musée du Châtillonais.

Lo Zeus è stato rinvenuto insieme al capitello all’interno di un ripostiglio; in assenza di dati di contesto, è l’analisi stilistica a suggerire una datazione intorno al 530-520 a.C.: le membra muscolose, dalle cosce rigonfie; l’attenzione riservata ai muscoli addominali, ancora ripartiti geometricamente; la cura calligrafica riservata all’acconciatura richiamano il confronto con la statua di Kroisos (Fig. 3.34), con i guerrieri del Tesoro dei Sifni (Fig. 3.90), con i personaggi del pittore di Andokides e dei Pionieri (Figg. 3.125, 3.127). 3.7.2 Il vaso più grande

La fusione a cera persa si applica anche alla produzione di raffinate opere di artigianato, come i vasi da mensa e l’instrumentum destinato alle abluzioni e alla cura del corpo. Emblematico di questa categoria di oggetti di lusso è il celeberrimo cratere di Vix, il più grande vaso di bronzo a noi pervenuto con i suoi 1,63 m di altezza, per un peso di 274

208,6 kg (Fig. 3.79). Il corpo del vaso è stato realizzato in un unico pezzo partendo da un abbozzo colato di getto, prossimo nella forma all’oggetto finito, ma più piccolo e più spesso; da questo modello approssimativo, per progressiva martellatura, si è ottenuto il grande recipiente, cui sono stati poi aggiunti il piede e tutti gli elementi decorativi. Sul collo del cratere corre una lunga teoria di quadrighe e di opliti, con elmo corinzio, corazza anatomica e scudo rotondo; le anse a volute sono ornate alla base da due busti di gorgoni con terminazioni anguiformi e da leoni rampanti; la presa del coperchio è una figura femminile velata. Il grande vaso, rinvenuto nel 1953, è stato oggetto in tempi recenti di una nuova lettura, tecnica, iconografica e stilistica, che individua una convincente serie di confronti con vasi di bronzo magnogreci, legati a modelli di tradizione laconica e corinzia: il cratere, databile al 530-520 a.C., appare prodotto in un atelier attivo tra il 540 e il 520 a.C. tra Sibari e Poseidonia. La complessità dell’apparato decorativo e la raffinata esecuzione dei motivi figurati e ornamentali evocano i grandi vasi di bronzo e d’argento che venivano dedicati nei santuari panellenici dai tiranni e dai dinasti orientali. Il fatto che questo cratere sia stato ritrovato nel cuore della Francia, in una tomba principesca di Vix, sul monte Lassois, in Borgogna, lungo la «via dello stagno», evidenzia che questi vasi di lusso viaggiavano molto, fino a diventare, per le aristocrazie del mondo celtico, simboli di status e di prestigio sociale. La tomba di Vix, che annovera anche altra suppellettile da banchetto di produzione etrusca, si data infatti intorno al 500 a.C.

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Fig. 3.80 Statua crisoelefantina di divinità, da Delfi. Delfi, Museo Archeologico. (tav. 15)

Fig. 3.81 Testa in avorio e oro, da Delfi. Delfi, Museo Archeologico. 3.7.3 L’avorio e le statue crisoelefantine

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In epoca arcaica vengono prodotti con l’avorio, importato tramite la Fenicia e la Ionia, piccoli oggetti da cosmesi, statuette, placchette decorative di mobili, ma anche statue di grandezza naturale, le cosiddette statue crisoelefantine. Queste ultime, realizzate con alcune parti in oro e altre in avorio, applicate su un’armatura interna di legno e di metallo, potevano raggiungere anche dimensioni colossali, come l’Atena del Partenone e lo Zeus di Olimpia, entrambe opere di Fidia (Figg. 5.11, 5.48). Data l’estrema delicatezza delle componenti, le statue crisoelefantine sono quasi del tutto scomparse; alcuni preziosi esempi sono stati rinvenuti nel santuario di Delfi all’interno di due grandi fosse scavate verso la fine del secolo V a.C. lungo la via sacra, davanti al Portico degli Ateniesi nella cosiddetta «aia» (Fig. 3.85), per seppellire ritualmente, secondo una prassi comune al mondo antico, una parte degli ex voto del santuario, in particolare quelli distrutti o rovinati per varie cause. Lo scavo moderno risale al 1939. Proviene da questo ritrovamento una statua, un tempo di grandezza naturale, ricostruita come una divinità, forse Apollo, seduta sul trono: le parti nude erano in avorio (attualmente annerito per l’esposizione al fuoco); i capelli, la veste e gli attributi in lamina d’oro decorata a sbalzo (Fig. 3.80). Un’altra testa, verosimilmente femminile, era adorna di corona e orecchini (Fig. 3.81): si notano le sopracciglia incavate, che dovevano essere riempite di materiale differente (pasta vitrea, pietra o metallo). Per entrambe le statue, lo stile rimanda senz’altro alla produzione ionica dei decenni centrali del VI secolo (Figg. 3.19, 3.39), come suggeriscono i volumi lisci e arrotondati del volto, il particolare taglio a mandorla degli occhi e, nelle lamine auree, la scelta di motivi tratti dal repertorio orientalizzante.

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Fig. 3.82 Applique in avorio con un episodio del mito di Fineo, da Delfi. Delfi, Museo Archeologico.

Più aderenti allo stile dorico per la persistenza di stilemi dedalici sono, invece, i piccoli rilievi lavorati a giorno (h media 7 cm) – provenienti dalle fosse di Delfi che hanno restituto le statue crisoelefantine – raffiguranti un episodio del mito di Fineo, il vecchio re della Tracia cui le Arpie insozzavano i cibi, salvato dai Boreadi, figli del vento del nord (Fig. 3.82); il fregio doveva ornare una cassa o un mobile di legno.

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3.8 Il santuario di Delfi Il santuario di Delfi si trova nella Focide, sulle pendici meridionali del monte Parnaso, sacro alle Muse, a circa 600 m di altezza; il paesaggio è alpestre, spettacolare, dominato dalle rocce Fedriadi, «le splendenti» (Fig. 3.83); dal temenos di Apollo lo sguardo spazia sulla cupa valle del fiume Pleistos e, più in là, sulla fertile piana di Itea, l’antica Kirra, densa di uliveti, che si apre sul Golfo di Corinto.

Fig. 3.83 Delfi, temenos di Apollo, veduta generale.

Secondo la tradizione fu Ghe, o Gaia, la Terra, ad assumere per prima il ruolo di protomantis, prima profetessa, e a regnare sul santuario insieme al figlio, il serpente Pitone; quest’ultimo fu poi ucciso, dopo una violenta lotta, da Apollo. Il dio, dopo essersi purificato nella 279

valle di Tempe, in Tessaglia, divenuto padrone del santuario, ne assunse le caratteristiche oracolari e fondò gli agoni musicali, componendo per primo egli stesso un canto citaredico, accompagnato dalla cetra, per commemorare la morte di Pitone. Sulla base dell’evidenza archeologica, i primi oggetti interpretabili come offerte, e quindi indicativi dell’esistenza di una forma di culto, risalgono alla fine del secolo IX a.C. Va ricordato che su tutta l’area del temenos di Apollo, come sulla vicina terrazza di Marmarià, sono stati ritrovati anche vasi, terrecotte, resti di edifici e di tombe del Tardo Elladico, ma non vi è alcuna prova di una continuità di culto tra l’età micenea e l’età geometrica. La quantità e la qualità delle offerte del periodo orientalizzante, come i grandi calderoni a protomi di grifi e di sirene (Figg. 2.34, 2.35), testimoniano l’importanza assunta dal santuario nel corso del VII secolo; è in questo periodo che l’amministrazione incomincia a essere gestita da un’Anfizionia (lega di stati vicini), della quale fanno parte in prima istanza, oltre alla Focide, la Tessaglia, la Beozia e la Doride. I conflitti tra gli interessi dell’Anfizionia e quelli dei Focidesi, e, con il passare del tempo, tra le varie poleis che, attirate dal prestigio e dall’autorità religiosa del santuario, tenteranno di imporre la propria egemonia sul luogo sacro, porteranno a una serie di «guerre sacre» che vedranno schierati da una parte o dall’altra le città e i personaggi più importanti della storia greca. Dopo la prima guerra sacra (600-590 a.C.), che vede la sconfitta dei Focidesi, l’Anfizionia fonda i giochi Pitici (586 a.C.) che affiancano alle competizioni citarediche le gare atletiche sul modello di Olimpia; solo nel 582 a.C. viene però introdotto il certame coronario, vale a dire le gare di musica e di atletica, con l’aggiunta delle corse di cavalli,

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nelle quali i vincitori venivano premiati con una corona d’alloro. Il santuario diventa ora panellenico, perché si apre alla partecipazione di tutti i Greci e delle potenze straniere, quali gli Etruschi e i re della Lidia; sappiamo dalle fonti che questi ultimi avevano dedicato offerte di grandissimo valore: possiamo farcene un’idea dalle statue crisoelefantine rinvenute lungo la via sacra, nell’Halos, che dovevano appartenere a edifici o a tesori dell’età arcaica andati distrutti (Fig. 3.80). Risale all’inizio del VI secolo (575 a.C.) anche il primo muro di cinta in opera poligonale, come hanno dimostrato gli scavi archeologici condotti recentemente a est del grande altare dell’Apollonion, sotto il monumento che verrà dedicato dai Rodii ad Apollo-Helios verso la fine del secolo IV a.C. Sono di questo periodo anche i primi grandi donari, tra i quali il gruppo di Kleobis e Biton (Fig. 3.32) e la sfinge dei Nassii (Fig. 3.44), mentre incominciano a essere costruiti i primi tesori.

Fig. 3.84 Delfi, pianta generale.

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Fig. 3.85 Delfi, pianta del temenos di Apollo.

Fig. 3.86

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Delfi, veduta della terrazza di Marmarià con il santuario di Atena Pronaia.

Il santuario di Delfi, centro religioso e politico per eccellenza, si articola fin dal VII secolo in due distinti settori che si sviluppano ai lati della fonte Castalia, che sgorga dalla gola tra le pareti a picco dalle Fedriadi (Fig. 3.84). Anche la fonte, che verrà sistemata con un prospetto architettonico, era un antichissimo luogo di culto; con la sua «acqua parlante» la Pizia, somma sacerdotessa di Apollo, si bagnava i capelli prima di dare i fatidici responsi; con la stessa acqua si purificavano i pellegrini prima di accedere ai luoghi sacri. Venendo dalla Beozia, come Pausania, che visita la Grecia nel secolo II d.C., si incontra per primo il santuario di Atena Pronaia – «colei che viene prima del naòs», cioè del tempio di Apollo – situato sulla terrazza di Marmarià (Fig. 3.86). Come lo vediamo adesso, il temenos presenta le rovine di una serie di edifici sacri e di tesori, tra i quali spicca la tholos costruita da Theodoros di Focea tra il 380 e il 370 a.C. (si veda par. 6.2.2). Proseguendo il cammino verso occidente si incontra il vasto complesso del Ginnasio, con le piste per gli allenamenti, le terme e la palestra, costruito nel secolo IV a.C. su due terrazze sovrapposte. Si arriva infine al temenos di Apollo, che si inerpica sul pendio della montagna (Fig. 3.85). L’ingresso attuale, fiancheggiato da edifici di età romana, immette direttamente nella via sacra, che sale fino alla terrazza del tempio fiancheggiata da una serie continua di donari e di tesori. Sono le più importanti città della Grecia e dell’Occidente che fanno a gara per «comparire», e quindi per offrire al dio un monumento degno della sua potenza e del loro momento di gloria. A sinistra dell’entrata, il monumento dei navarchi spartani, vincitori a Egospotami nel 405 a.C. contro Atene, si affianca al donario che celebra la vittoria ateniese a Maratona del 490 a.C.; in mezzo, il cavallo di Troia donato 283

da Argo per una vittoria sugli Spartani nel 414 a.C., e ancora, di fronte, il Donario degli Arcadi, finalmenti liberi dal dominio di Sparta dopo le battaglie di Leuttra e di Mantinea, nella prima metà del IV secolo. E ancora le esedre con i Donari di Argo, che celebrano i miti e gli eroi delle città, e il Donario dei Tarantini dopo una vittoria sui Messapi nel 473 a.C., per il quale fu chiamato uno dei più grandi scultori del momento, Agheladas di Argo. Incomincia poi la serie dei tesori, i thesaurói, edifici di modeste dimensioni a pianta semplice, a oikos rettangolare con due colonne tra le ante, costruiti con le decime dei bottini di guerra; la funzione di questi piccoli edifici era quella di rappresentare le poleis della Grecia e le colonie d’Occidente nei santuari panellenici e di custodire i doni che le città offrivano agli dei. Sotto la terrazza che sostiene il tempio di Apollo, tra rocce affioranti, era l’antico santuario di Ghe e il luogo dove il dio, secondo la tradizione, uccise il serpente; una sola roccia ha ricevuto una monumentalizzazione con l’erezione della colonna dedicata dagli abitanti dell’isola di Nasso, nelle Cicladi, nel primo quarto del secolo VI a.C. La colonna, di ordine ionico (h 10 m), era sormontata da una sfinge con il volto di donna e il corpo di felino (Fig. 3.44); il mostro, che ha di solito la funzione di segnacolo funerario, indicava il luogo della mitica uccisione del serpente Pitone e la sua tomba.

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Fig. 3.87 Delfi, temenos di Apollo, l’Halos con il Portico degli Ateniesi.

Davanti alla sfinge è un’area circolare, denominata nelle iscrizioni Halos, letteralmente «aia», nella quale sostavano le processioni per assistere alla sacra rappresentazione della lotta tra Apollo e il serpente. Sull’Halos si affaccia il Portico degli Ateniesi (Fig. 3.87), di ordine ionico, manifesto della potenza navale di Atene, nel quale Pausania vede ancora «le gomene e le prue delle navi prese ai nemici», nei quali è lecito riconoscere i Persiani. Il tempio di Apollo è stato ricostruito più volte; il tempio arcaico fu distrutto nel 548 a.C. da un incendio; nel 510-505 a.C. l’edificio fu rifatto con il contributo della potente famiglia ateniese degli Alcmeonidi, mandata in esilio da Pisistrato, e l’intervento di uno scultore famoso, Antenore, che realizza i frontoni: quello est, in marmo di Paro, raffigurava l’arrivo di Apollo a Delfi, quello ovest in calcare, 285

una gigantomachia. Il tempio attualmente visibile è però quello costruito dopo il disastroso terremoto del 373 a.C. che distrusse il precedente tempio degli Alcmeonidi; qui, in una sala sotterranea sul fondo della cella, l’adyton o manteion, vaticinava la Pizia, ispirata dai vapori che provenivano dalla terra, masticando foglie di alloro. Di fronte al tempio di Apollo, preceduto, a est, dal grande altare dedicato agli inizi del V secolo dagli abitanti dell’isola di Chio, si apre una vasta area affollata di monumenti e di donari che ricordano le fasi più salienti della storia del mondo greco, dal tripode di Platea – eretto per commemorare la vittoria del 479 a.C. sui Persiani, che era posto su una colonna di bronzo formata da tre serpenti attorcigliati, i cui resti sono ora visibili nella piazza dell’Ippodromo di Istanbul (Costantinopoli) – ai Donari dei tiranni di Gela e di Siracusa per la vittoria di Imera sui Cartaginesi (480 a.C.), a quello di Taranto per una vittoria sui Messapi, opera del bronzista Onatas di Egina, ai grandi monumenti offerti dai dinasti ellenistici (Fig. 3.88). Girando intorno al tempio si arrivava al teatro, preceduto da altri monumenti e donari; erano qui la colonna delle danzatrici, dedicata da Atene intorno al 330-325 a.C.; il Donario di Daoco, tetrarca di Farsalo e ieromnemone dell’Anfizionia Delfica dal 336 al 332 a.C. (Fig. 7.14); la caccia di Cratero, famoso episodio legato ad Alessandro Magno. Sul terrazzamento più alto, lungo il muro settentrionale del santuario, era la Lesche degli Cnidii, sala di riunioni e di banchetti affrescata da Polignoto di Taso (si veda par. 4.6.2). Dal teatro, costruito nella seconda metà del IV secolo, si saliva infine allo stadio, dove si svolgevano, ogni quattro anni, gli agoni pitici.

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Fig. 3.88 Delfi, temenos di Apollo, ricostruzione della terrazza del tempio. 3.8.1 … e i cicli decorativi dei tesori

Nella loro qualità di edifici di rappresentanza e di simboli di una vittoria, i tesori potevano essere completati da una raffinata decorazione scultorea. Il primo tesoro che si incontra risalendo la via sacra è il Tesoro di Sicione costruito verso la fine del VI secolo (Fig. 3.85); le fondamenta inglobano i blocchi di due edifici più antichi, una tholos e un monoptero, verosimilmente smontati per i danni subiti nell’incendio del 548 a.C. Il monoptero (4,29 × 5,57 m) era costituito dalla sola peristasi di colonne doriche, priva della cella; era una sorta di monumentale baldacchino destinato all’esposizione di una statua o di un altro tipo di offerta. Il fregio doveva comportare in origine quattordici metope; ne restano nove, nel calcare a grana fine dei dintorni di Sicione, datate intorno al 560 a.C. La meglio conservata (h 62 cm) è quella con una razzia di buoi da parte dei Dioscuri e dei loro cugini Ida e Linceo, che alterna con efficacia la progressione degli eroi, che scorrono di profilo davanti agli spettatori, alla 287

frontalità tipicamente arcaica delle teste dei bovini in primo piano (Fig. 3.91). Si può notare un’attenzione quasi miniaturistica per il dettaglio, nel disegno delle lance, delle capigliature, delle teste dei buoi, nel tentativo di rendere i piani sovrapposti, che hanno indotto a confronti con la ceramografia di tradizione corinzia. Il modellato ricco di dettagli incisi e la policromia vivace accentuavano i valori ancora disegnativi del rilievo.

Fig. 3.89 Delfi, Tesoro dei Sifni, ricostruzione.

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Fig. 3.90 Delfi, Tesoro dei Sifni, gigantomachia, dal lato nord. Delfi, Museo Archeologico.

Dietro il Tesoro di Sicione è il tesoro eretto dagli abitanti dell’isola di Sifno, nelle Cicladi, con le decime delle miniere di piombo argentifero; secondo il racconto di Erodoto, l’isola fu devastata dai Samii nel 524 a.C.: il tesoro fu quindi costruito prima, verosimilmente tra il 530 e il 525 a.C. È un piccolo edificio in marmo insulare di ordine ionico (8,41 × 6,04 m), dalla ricca decorazione architettonica: due korai sostituiscono le colonne del pronao e un lungo fregio (h 64 cm) corre sopra l’architrave tra raffinate modanature (Fig. 3.89). Sul lato ovest, che corrisponde all’ingresso, sono raffigurati Hermes, Atena e Afrodite nell’atto di salire o scendere dai carri: il soggetto era probabilmente il giudizio di Paride; il ritmo ternario delle scene si adatta alla scansione del pronao. Sul lato sud resta un corteo di cavalieri, forse legato al rapimento di Elena da parte di Teseo e Piritoo; sul lato est, il duello tra Achille e Memnone, identificabili per i nomi dipinti sul fondo, e una riunione di divinità; sul lato nord, una concitata gigantomachia. I temi, tratti dal mito e dall’epos omerico, rispecchiano il mondo 289

del VI secolo, legato ai valori dell’aristocrazia e al concetto della hybris (superbia, tracotanza) punita, secondo i dettami dell’etica apollinea. Le forme sono quelle eleganti e raffinate della scultura ionica, dal modellato sfumato, dai volumi arrotondati; il lavoro, nel quale sono state riconosciute le mani di almeno due maestri, uno più sensibile ai valori plastici, l’altro più disegnativo, è accuratissimo; il rilievo, che doveva essere completato dal colore, con l’aggiunta di attributi e di particolari in metallo, è ricco di dettagli che risaltano meglio, ai nostri occhi, sulla superficie chiara e luminosa del marmo (Fig. 3.90).

Fig. 3.91 Metopa con i Dioscuri, dal Tesoro di Sicione. Delfi, Museo Archeologico.

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Fig. 3.92 Delfi, Tesoro degli Ateniesi. La Grecia di Pausania, rinascita e nostalgia Pausania è una delle fonti più ricorrenti nello studio dell’arte greca perché la sua opera, Periéghesis tes Elládos (Descrizione della Grecia), giunta a noi integralmente, descrive puntualmente i luoghi e i monumenti della Grecia antica, con un ricco apparato di integrazioni storiche e mitologiche, ricavate sia da fonti letterarie, sia dalle tradizioni orali riportate dalle guide locali che lo scrittore ha incontrato sul suo lungo cammino. Sul personaggio Pausania sappiamo pochissimo: visse nel secolo II d.C., all’epoca di Adriano e degli Antonini; era sicuramente un uomo di vasta cultura, grande ammiratore della Grecia e del suo passato, perché si sofferma soprattutto sui monumenti più antichi, tralasciando spesso quelli della sua epoca; si suppone sia stato originario dell’Asia Minore, dal momento che dimostra una conoscenza particolarmente approfondita di questa regione. Dalla sua opera si ricava anche che viaggiò molto, oltre che in Grecia, in Italia, Egitto e Palestina, fino all’Arabia e alla Siria, che erano allora parte dell’impero romano. Scrive con uno stile narrativo in un greco di impronta atticistica che si propone di dare un’idea di semplicità, sul modello di Erodoto. Partendo dall’Attica (I libro), descrive Corinto e l’Argolide (II libro), proseguendo con la Laconia (III), la Messenia (IV), l’Elide e Olimpia (V e VI libro), l’Acaia (VII), l’Arcadia (VIII), la Beozia (IX) e infine la Focide, con il santuario di Delfi (X). La sua Periegesi si inserisce nella lunga tradizione della letteratura periegetica greca, che comprende le descrizioni letterarie di luoghi e cose viste, con lo scopo di fornire guide per i visitatori futuri. Nell’opera di Pausania la funzione pratica si unisce alla consapevolezza di contribuire a salvare le tradizioni e la memoria di un mondo dal passato glorioso, destinato prima o poi a scomparire. Siamo nell’epoca dei grandi evergeti, di Adriano (117-138 d.C.), l’imperatore filelleno per eccellenza, ispiratore della nuova

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rinascenza dell’arte greca, di Erode Attico (101-177 d.C.), letterato e filosofo, estimatore della Grecia antica e mecenate, ma anche delle prime invasioni dei popoli barbari, destinate a minare la compattezza di un impero che aveva portato la cultura greca in tutta l’Europa.

Fig. 3.93 Metopa con Eracle e la cerva, dal Tesoro degli Ateniesi. Delfi, Museo Archeologico.

Fig. 3.94 Metopa con Eracle e Cicno, dal Tesoro degli Ateniesi. Delfi, Museo Archeologico.

Per la datazione puntuale, ancorata al testo di Erodoto, i 292

rilievi del Tesoro dei Sifni costituiscono un importante termine di paragone per la ceramica del Pittore di Andokides e dei primi pittori che sperimentano, sotto l’influsso della maniera ionica del tardoarcaismo, il nuovo stile a figure rosse (si veda par. 3.10.3). Il Tesoro degli Ateniesi si trova su una terrazza che domina il primo tornante della via sacra; la ricostruzione risale al 1903-1906 (Fig. 3.92). È un tesoro dorico (6,57 × 9,65 m), in marmo, con due colonne tra le ante; le metope del fregio, tutte scolpite, raffiguravano episodi dei miti di Teseo (lati est e sud) e di Eracle (lati nord e ovest). Secondo Pausania, l’edificio fu costruito con le decime del bottino di Maratona, quindi poco dopo il 490 a.C., datazione che è stata oggetto di un lungo dibattito a causa dello stile ancora arcaicizzante di alcune metope. In realtà, come si è visto (si veda par. 3.5), le opere prodotte all’inizio del V secolo, sotto l’incalzare di eventi sociali e politici di enorme portata per il futuro della Grecia, possono risentire di una duplice natura, da un lato l’inevitabile rispetto per la tradizione figurativa arcaica, legata a fattori culturali e religiosi ancora vivi, dall’altro la ricerca di nuovi mezzi espressivi. Le metope del Tesoro degli Ateniesi riflettono il lavoro di artigiani di diversa formazione e preparazione. Nella metopa con Eracle e la cerva (Fig. 3.93), la ricerca di valori disegnativi e di simmetria porta a forzare la postura dell’eroe, rappresentato di profilo, ma con il torso di prospetto, sul quale si nota ancora una definizione anatomica geometrica e calligrafica che rimanda alle opere dei primi ceramografi a figure rosse (Fig. 3.127); nella metopa con Eracle e Cicno (Fig. 3.94), invece, i corpi dei contendenti, di tre quarti, sono efficacemente disposti lungo due linee oblique e parallele: è in atto quella sperimentazione di movimento, quella ricerca di ritmo instabile, particolarmente evidente nella figura del

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brigante, soccombente sotto l’incalzare dell’eroe, che verrà ripresa e canonizzata dallo stile severo (Fig. 4.33).

Fig. 3.95 Pinax con scena di sacrificio, da Pitsà. Atene, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 17)

Fig. 3.96 Frammento di pinax con cacciatore e cane, firmato da Timonidas, da Penteskouphia. Berlino, Staatliche Museen.

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3.9 Le ceramiche corinzie: sviluppo e tramonto Il secolo VI a.C. è certamente determinante non solo per la definizione dei canoni architettonici e la nascita della scultura monumentale, ma anche per il progresso delle ricerche pittoriche che, almeno nella prima metà del secolo, vedono aprirsi una concorrenza forte tra le ceramiche corinzie, di più antica e consolidata tradizione tecnica, e quelle attiche, uscite dal torpore della produzione protoattica con rinnovato slancio vitale. Di questa rivalità nulla dicono le fonti, ma i dati archeologici mostrano che nella seconda metà del secolo, dopo alcuni tentativi dei ceramisti e dei pittori corinzi di aggiornare un linguaggio espressivo ormai stanco e ripetitivo, la fortuna dei vasi di Corinto si esaurisce; da questo momento in poi le ceramiche corinzie sono destinate solo a un ambito locale, mentre i mercati di tutto il Mediterraneo vengono travolti e conquistati dalla potenza espressiva e dalla vivacità narrativa dei pittori attici (si veda par. 3.10). La ricchezza delle ceramiche solleva la questione della natura del rapporto tra pittura sui vasi e pittura su altro genere di supporto, ad esempio tavole di legno e lastre di terracotta; di quest’ultima in effetti sia le fonti, sia i dati archeologici sono piuttosto avari di informazioni. Nel 1879 in località Penteskouphia, sulle falde sudoccidentali dell’Acrocorinto, fu scoperto casualmente un ricco deposito di pinakes (tavolette) in terracotta con iscrizioni e raffigurazioni dipinte, databili tra la seconda metà del secolo VII a.C. e il primo quarto del secolo successivo. Questi pinakes, con fori di sospensione per essere appesi a un muro o alle fronde di alberi (dato che spesso sono dipinti su entrambe le facce), erano doni votivi 295

per Posidone e Anfitrite, di cui evidentemente nella zona sorgeva un santuario o un recinto sacro, da parte di contadini, marinai, pescatori e artigiani; le scene dipinte infatti alludono frequentemente all’attività dei dedicanti e molte sono collegate alla produzione della ceramica (Figg. 1.31, 1.32). La maggior parte delle placchette, realizzate nella tecnica e nello stile della ceramica corinzia a figure nere, è di disegno assai corrente, ma non mancano anche prove di migliore qualità, come il frammento con cacciatore e cane (Fig. 3.96), firmato da quel Timonidas che conosciamo anche dalla bottiglia corinzia con agguato a Troilo (Fig. 3.54).

Fig. 3.97 a,b Cratere corinzio con Eracle ed Eurito (CA), da Cerveteri. Parigi, Museo del Louvre.

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Ancora più esigua è la documentazione della pittura su tavola lignea; il frammento da Pitsà (Fig. 3.95), presso Corinto, con scena di sacrificio, è una rara testimonianza della pittura policroma di età arcaica, databile intorno al 540-530 a.C.: le tonalità del rosso, dell’azzurro, del bianco e del bruno sono le stesse che rivestono le sculture coeve e nella composizione consentono di distinguere figure parzialmente sovrapposte, in un principio rudimentale di prospettiva osservato anche sulle superfici ceramiche; la convenzione di dipingere l’incarnato femminile con toni chiari e quello maschile con toni bruni è a sua volta la stessa della pittura su ceramica (Fig. 3.97 a,b). Non vi è dunque per ora grande distanza, per quanto possiamo vedere, tra lo stile e la concenzione della pittura sui vasi e su altri supporti. Quanto alla pittura a fresco e a tempera è assai improbabile che questa si sia sviluppata prima della fine dell’età arcaica. Dai vasi protocorinzi ai vasi corinzi Ma torniamo ai vasi prodotti a Corinto; sarebbe corretto definirli tutti egualmente «corinzi», ma per ragioni legate all’evoluzione dello stile e della forma delle ceramiche è invalsa la distinzione tra lo stile «protocorinzio», di cui s’è detto nel capitolo precedente, e lo stile «corinzio» che del primo è logica e coerente prosecuzione. La cesura tra i due si colloca nel decennio 630-620 a.C., opportunamente definito Transizionale (TR), perché è in quegli anni che si verifica il passaggio tra l’una e l’altra espressione stilistica, con mutamenti e scelte che non è sempre facile collegare in un chiaro rapporto di causa e effetto. Anzitutto a partire dal decennio 630-620 a.C. i ritmi di produzione delle ceramiche corinzie crescono visibilmente, con un incremento che diviene straordinario tra la fine del secolo VII a.C. e i primi decenni del successivo; in questo lasso di tempo dalla cinquantina di pittori riconosciuti attivi 297

nello stile protocorinzio si sale a contare diverse decine di maestri, la cui individuazione si deve ancora per lo più ai già citati Payne, Amyx e Neeft. Al precedente programma di incentivazione commerciale dei Bacchiadi e del tiranno Cipselo pare si saldino coerentemente anche le iniziative promosse ora da Periandro (627-587 a.C.), figlio di Cipselo: per esigenze sia militari sia evidentemente commerciali, venne infatti scavato il bacino del porto del Lechaion sul Golfo Corinzio; al principio del secolo VI a.C. sembra fosse approntato anche il diolkos, una sorta di strada a binari che consentiva alle navi di attraversare cariche l’istmo, facilitando enormemente il passaggio delle merci dall’uno all’altro mare; Aristofane nelle Thesmophoriazousai (vv. 647-648) stigmatizza questo gran traffico di navi sull’istmo di Corinto.

Fig. 3.98 Oinochoe corinzia con fregio animalistico (CA). Berlino, Antikenmuseum.

Le ceramiche corinzie, intendendo con questa etichetta quelle prodotte a Corinto dal 630 a.C. in poi, ereditano da quelle protocorinzie le qualità tecniche e gli schemi figurati: il colore dell’argilla resta chiaro, nelle tonalità del giallo e 298

del verdino; la tessitura fine e molto depurata; la decorazione prosegue nella tecnica a figure nere, con sovraddipinture in paonazzo, giallo e bruno, alternandosi eventualmente alla vecchia tecnica della linea di contorno. Il repertorio orientalizzante dei fregi animalistici continua a essere riproposto su una parte cospicua di vasi corinzi con un intento per lo più puramente decorativo (Fig. 3.98); la maggior parte dei pittori corinzi infatti mostra un completo disinteresse per lo sviluppo di quegli spunti narrativi, cui avevano dato vita i più dotati tra i maestri protocorinzi, come l’artefice dell’Olpe Chigi (Fig. 2.47).

Fig. 3.99 a,b Aryballos di Polyterpos (CM), dall’Apollonion di Corinto. Corinto, Museo.

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Fig. 3.100 a,b Alabastron corinzio con leoni (CA), Pittore del Delfino. Gela, Museo Archeologico Regionale.

Un mutamento sostanziale, già però parzialmente percepibile nel Protocorinzio Tardo, riguarda invece le dimensioni e le forme dei vasi. Le prime aumentano, spesso sensibilmente, costringendo quindi il pittore ad accrescere il modulo del fregio figurato miniaturistico di tradizione protocorinzia, con un’inevitabile minore attenzione per i particolari. Le seconde conoscono interessanti trasformazioni; il fortunato aryballos protocorinzio di tipo conico e piriforme (Fig. 2.22) viene infatti sostituito da due nuovi unguentari, destinati ad altrettanto successo: l’aryballos sferico (Fig. 3.99 a,b) con largo bocchello e privo 300

di piede (che poteva dunque essere solo sospeso o al più portato legato al polso), di dimensioni ben superiori all’aryballos globulare del Protocorinzio Antico, e l’alabastron (Fig. 3.100 a,b), di forma verosimilmente ereditata da simili contenitori egizi e fenici in alabastro, a sua volta privo di piede; prosegue contemporaneamente nel Transizionale la produzione di olpai, oinochoai a bocca trilobata (Fig 3.98), lekythoi a corpo conico, kotylai. Ma ciò che per lo più distingue i vasi protocorinzi da quelli corinzi è il differente livello artistico: gli elevati ritmi di fabbricazione, evidentemente imposti dalle richieste di mercato, trasformano infatti rapidamente un manufatto precedentemente dipinto con accuratezza e ricercatezza in un prodotto che solo eccezionalmente supera il livello del buon artigianato. Per quanto non manchino pittori capaci di raccontare con vivacità e ingegno, si deve riconoscere che la maggior parte delle maestranze corinzie si limita a riproporre fino alla noia stanchi e monotoni repertori di fregi animalistici, nei quali il pittore dà spesso indubbia prova di perizia tecnica, ma con assoluto disinteresse per gli spunti narrativi. Un recentissimo lavoro di revisione di tutta la ceramica corinzia (Neeft) ha consentito di individuare su base stilistica centinaia di pittori; ma non dobbiamo credere che ciascun pittore avesse una sua bottega, essi lavoravano bensì riuniti in pochi, ma prolifici ergasteria, dove accanto ai maestri operavano anche apprendisti e garzoni. Non possiamo dire, in assenza di specifiche indicazioni epigrafiche in proposito, che il ceramista fosse anche ceramografo, ossia che colui che plasmava il vaso lo decorasse anche, ma pare di poter ammettere che le officine corinzie fossero spesso specializzate nella produzione e decorazione di una gamma ristretta di forme vascolari, ora coppe e kotylai, ora contenitori di olii e unguenti ecc.; è 301

ormai chiaro, ad esempio, che la bottega del Pittore del Delfino si specializzò nella produzione di unguentari e continuò a fabbricarne, adattandosi ai cambiamenti di gusti e di stile, per quasi settant’anni (Neeft). Di pochissimi pittori abbiamo la firma: si conoscono il Timonidas che si è già citato (Figg. 3.54 e 3.96), un tale di nome Chares e uno di nome Milonidas; agli altri sono stati attribuiti nomi convenzionali. La scansione stilistica ancora una volta propone una ripartizione in tre periodi: dopo il Transizionale (TR), uno stile di Corinzio Antico (CA), quindi di Corinzio Medio (CM), infine di Corinzio Tardo (CT), ciascuno della durata di circa una generazione, ossia 20-30 anni, agganciati a date di cronologia assoluta mediante le informazioni trasmesseci dalle fonti sulle fondazione coloniali greche. Lo spettro cronologico può dunque riassumersi come segue: Stile transizionale (TR): 630-620 a.C. Stile corinzio antico (CA): 620-590 a.C. Stile corinzio medio (CM): 590-570 a.C. Stile corinzio tardo (CT): 570-550 a.C. Dopo il Corinzio Tardo (seconda metà del secolo VI a.C.), le produzioni ceramiche corinzie, schiacciate forse dalla concorrenza di quelle attiche figurate, proseguono, ma con prodotti assai modesti e di respiro locale. La forte standardizzazione dei vasi di Corinto rende in verità possibile solo a un occhio molto esercitato la distinzione tra lo stile di un periodo e quello di un altro, ma in termini generali l’evoluzione consiste in una progressiva diminuzione nell’accuratezza e nel numero dei dettagli, resi con mano sempre più sciatta e trascurata; nella diversa forma dei riempitivi che da rosette ben delineate si trasformano talvolta in macchie informi, e in mutamenti di carattere morfologico. Nel breve commento che segue si 302

citeranno, come è ovvio, solo esempi di pregio ed elevata qualità; non si dimentichi tuttavia che la maggior parte delle ceramiche corinzie risponde a parametri di buona qualità, ma modesto e ripetitivo ornato. Stile corinzio antico (620-590 a.C.) Aryballoi, alabastra, olpai, oinochoai, kotylai, pissidi a lati convessi sono decorati attingendo al patrimonio iconografico di età orientalizzante: grifoni, sfingi, sirene, felini, uccelli con testa di pantera avanzano, affrontati in posizione araldica, oppure in fila, componendo monotone sequenze accanto ad animali meno terrifichi, quali capridi, cinghiali, galli, cigni e altri volatili (Fig. 3.98); meno frequenti sono le lotte di opliti, le cavalcate, le scene di caccia, di banchetto; infine decisamente più rari, e chiaramente identificati con il solo ausilio delle didascalie dipinte, sono gli episodi mitici, legati spesso a eroi del ciclo tebano e troiano. È il caso del più antico cratere a colonnette corinzio a noi noto (h 46 cm), proveniente da Cerveteri (Etruria) (Fig. 3.97); si tratta di una forma vascolare che compare ora, derivata forse da manufatti in metallo. Le iscrizioni dipinte in alfabeto corinzio rivelano che i convitati, sdraiati a banchetto su klinai (letti) secondo la moda orientale, sono Eracle (il primo da destra) ed Eurito con i figli Ifito e Iole (la fanciulla vicino a Eracle), apparentemente convenuti a un’occasione di festa cui segue però lo scatenarsi del dramma, con l’uccisione da parte dell’eroe di Eurito e dei suoi figli. Sulle larghe superfici del cratere, libere da riempitivi, le figure sono dipinte dal pittore con grande padronanza di tratto e di colore: i dettagli dei letti tricliniari e delle tavole, su cui sono imbanditi i viveri e poggiano le coppe, i particolari anatomici dei personaggi e dei cani, sono resi ora a contorno, ora dipinti in nero, ora sovraddipinti in bianco e paonazzo, rivelando schemi pittorici già definiti, 303

come la scelta (che resterà a lungo costante) dell’incarnato bianco per le figure femminili e nero per quelle maschili. Di tono invece puramente ornamentale sono gli altri fregi figurati: combattimenti di opliti sul lato opposto del cratere e una cavalcata su quello inferiore. Il vaso mostra tali elementi di novità rispetto alla comune produzione del Corinzio Antico che se ne è proposta spesso una datazione più bassa di quella generalmente indicata intorno al 600 a.C.

Fig. 3.101 Aryballos corinzio con comasti (CA). Oxford, Ashmolean Museum.

Sui contenitori da profumo (soprattutto aryballoi, ma anche alabastra) compare nel corso del Corinzio Antico un’iconografia nuova, di lunga fortuna: i comasti (Fig. 3.101), ossia figure maschili di danzatori, con sedere e pancia visibilmente imbottiti, raffigurati in gruppi di danze rituali. Il tema è di significato tuttora poco chiaro, ma ebbe grande successo, essendo in seguito adottato (non sappiamo però se attingendolo direttamente da Corinto o da altrove) anche dai pittori attici e greco-orientali. Stile corinzio medio (590-570 a.C.) Mentre prosegue nella tradizione del Corinzio Antico la decorazione di aryballoi e alabastra di modeste dimensioni 304

(5-9 cm), inizia nel Corinzio Medio, ma prosegue anche nel Corinzio Tardo, la produzione di unguentari monumentali, forse defunzionalizzati e trasformati in oggetti di prestigio: si tratta di alabastra alti fino a 30 cm, e di aryballoi, ora dotati di un piede ad anello, alti fino a 18/20 cm; la decorazione, spesso raffinata, si stende in altezza, disponendosi entro filetti, con la tendenza a occupare tutta la superficie a disposizione, ricorrendo spesso a un tappeto di riempitivi (Fig. 3.102). A un simile gusto per figure monumentali disegnate con talento e disciplina rispondono, ad esempio, anche i maestri riuniti sotto il Gruppo della Chimera, dal nome dell’artefice più dotato, appunto Pittore della Chimera; essi dipinsero, con tratto deciso e ricca policromia, composizioni singole o gruppi araldici nei tondi centrali di coppe e piatti (Fig. 3.103), oppure sulle superficie di grandi aryballoi a fondo piatto. A un gruppo di fini decoratori di coppe e crateri appartiene invece quel Timonidas citato per la bottiglia con agguato a Troilo (Fig. 3.54), che decorò anche placchette in terracotta, come mostra il fine disegno con cacciatore e cane sul frammento di pinax da Penteskouphia (Fig. 3.96). Nella bottiglia conservata ad Atene il pittore rivela una buona capacità compositiva, disponendo le figure secondo un rudimentale principio prospettico e inserendo nella scena elementi ambientali. A una fase iniziale del Corinzio Medio, in stretta relazione con gli ornati e le forme del Corinzio Antico, si iscrive l’aryballos detto di Polyterpos (Fig. 3.99), dedicato nell’Apollonion di Corinto come premio per una gara musicale. Raffigura un soggetto inconsueto, esplicitato dall’iscrizione dipinta tra le figure: mentre l’auleta suona il doppio flauto, il maestro del coro spicca un gran balzo davanti a coppie di coreuti. La circostanza che il vasetto, da 305

noi definito aryballos, citi se stesso come olpe nell’iscrizione, ci permette di toccare appena una questione, estremamente complessa e di importanza cruciale per le nostre conoscenze sulle funzioni dei vasi e le loro forme: mentre per comodità e chiarezza il mondo scientifico ha adottato definizioni convenzionali e fisse per le forme ceramiche, i nomi usati dagli antichi andavano certamente soggetti a più libere oscillazioni e non è sempre scontato (anzi!) che ciò che essi additavano come aryballos corrisponda esattamente al contenitore che noi siamo soliti indicare come tale. Ciò vale naturalmente anche per le altre forme di vasi.

Fig. 3.102 Svolgimento del fregio figurato con Potnia theròn su un alabastron corinzio di grandi dimensioni (CM), da Delo.

Stile corinzio tardo (570-550 a.C.) Nel secondo quarto del secolo VI a.C., mentre Atene mette in campo ceramiche fastose come il grandioso Cratere François (si veda par. 3.10, Figg. 3.110, 3.111), i pittori corinzi faticano ad affrancarsi dall’ormai stanca tradizione del fregio animalistico; così mentre i meno dotati si limitano a riproporre con poca convinzione ed evidente sciatteria composizioni di animali singoli o gruppi araldici, i più virtuosi compiono gli estremi tentativi di svecchiamento: si 306

concentrano nella decorazione di vasi di grandi dimensioni, crateri a colonnette e anfore, che possano cioè rivaleggiare per monumentalità delle scene figurate con i vasi attici; talvolta, anzi, in una sorta di esplicita imitazione del prodotto ateniese, sulla superficie giallina del vaso corinzio viene steso un ingobbio rosso che si avvicina cioè al colore del corpo ceramico attico.

Fig. 3.103 Piatto corinzio con leone (CM), Gruppo della Chimera. Parigi, Museo del Louvre.

Fig. 3.104 Cratere corinzio con corteo nuziale (CT). Roma, Musei Vaticani.

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Particolarmente interessante in questa fase è la produzione di crateri a colonnette, spesso destinati ad acquirenti etruschi, decorati con fregi di cavalieri, duelli di opliti, scene di armamento e di partenza, cortei nuziali e banchetti, che solo raramente però escono dall’anonimato (Fig. 3.104).

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3.10 Le ceramiche attiche: il trionfo del mito e degli eroi 3.10.1 I precursori delle figure nere (prima metà del secolo VI a.C.)

Tra gli ultimi decenni del secolo VII a.C. e il principio del secolo successivo i ceramografi ateniesi acquistano progressivamente familiarità con la tecnica pittorica a figure nere, si esercitano nel graffito e nei ritocchi in paonazzo, mostrandosi in ciò molto sensibili alla moda corinzia. Le fonti letterarie ricordano del resto che Solone, legislatore ateniese nei primissimi anni del secolo VI a.C., incoraggiò l’immigrazione ad Atene di artigiani provenienti da altre località; è probabile dunque che alcuni vasai e pittori, formatisi nel quartiere ceramico di Corinto, all’epoca di gran lunga il più attivo, si siano trasferiti in Attica, favorendo la trasmissione di abilità ed esperienze tecniche e fornendo da ultimo lo stimolo per concretizzare quelle capacità narrative su scala monumentale, di cui i pittori attici avevano sempre dato prova. La produzione protoattica della fase tarda (630-600 a.C.) è ben rappresentata dal Pittore di Nesso, una personalità inquieta alla ricerca di formule nuove, ma capace di scene complesse, attivo nel ventennio 620-600 a.C. La celebre anfora di Atene (Fig. 3.105 a,b), da cui il pittore prende nome, è esempio di monumentalità sia nelle dimensioni (h 1,22 m) e nella tettonica del vaso, sia nella composizione figurata; essa mostra chiaramente quale distanza di concezione e di realizzazione intercorra tra i primi esempi di vasi attici a figure nere e le coeve ceramiche corinzie dipinte con fregi animalistici, cui pure i maestri attici si ispirano apertamente. I cigni e le civette che il Pittore di Nesso traccia sulle anse plastiche e sull’orlo dell’anfora sono infatti di esplicita derivazione corinzia, così pure il fregio di loti e 309

palmette sulla spalla del vaso; le rosette a punti distribuite uniformemente sulla superficie sono invece riempitivi di tradizione protocorinzia, sicché il maestro si dimostra acuto osservatore dei mutamenti stilistici e formali nel delicato passaggio in corso tra le produzioni protocorinzie e quelle corinzie. Ma nessuno dei pittori del quartiere ceramico di Corinto avrebbe mai potuto dare vita al fregio statuario di terribili gorgoni in corsa sulla pancia dell’anfora: il tema è quello, già incontrato sull’anfora del Pittore di Polifemo (Fig. 2.50), dell’uccisione da parte di Perseo di Medusa, di cui è dipinto il corpo agonizzante decapitato; le gorgoni hanno qui ormai assunto la loro iconografia canonica, di mostri alati raffigurati nello schema della corsa in ginocchio, quale verrà a breve riproposto anche sul frontone dell’Artemision di Corfù (Fig. 3.7). Sul collo Eracle, ancora distinguibile solo dalla scritta, perché privo di attributi specifici, assale il centauro Nesso; la scena, non priva di certa goffaggine, è tuttavia di grande potenza. Sicuro è l’uso del graffito e meditato quello dei ritocchi in paonazzo.

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Fig. 3.105 a,b Anfora attica a figure nere del Pittore di Nesso: particolare del collo e della spalla; da Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 3.106 Frammento di deinos attico a figure nere con giochi funebri in onore di Patroclo, Sophilos, da Farsalo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Una o due generazioni dopo, Sophilos, allievo di un pittore che a sua volta si era formato presso il Pittore di Nesso, è il primo maestro attico di cui si abbia la firma e la cui personalità sia meglio intellegibile. Egli lavora tra il 580 e il 570 a.C. e dalle firme, che traccia con pieno e cosciente orgoglio artigiano, sappiamo che fu sia ceramista che pittore; i vasi che plasma sono, nella migliore tradizione ateniese, di grandi dimensioni, per lo più anfore e deinoi; le decorazioni risentono ancora del gusto corinzieggiante per i fregi animalistici sovrapposti, ma il pittore mostra grande abilità narrativa nel tracciare con vivace bozzettismo la folla che gremisce gli spalti di uno stadio di legno per assistere ai giochi funebri di Patroclo (Fig. 3.106). Ancora una volta lo spirito ateniese prende le distanze dalle compassate scene figurate dei vasi corinzi (Fig. 3.104).

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Fig. 3.107 Coppa attica dei comasti, da Taranto: particolare del fregio figurato. New York, Metropolitan Museum.

Appartiene agli anni 585-570 a.C. anche la produzione di coppe attiche con comasti (Fig. 3.107), danzatori nudi o vestiti di tuniche rosse che si percuotono i glutei e si agitano, in maniera non dissimile dalla tradizionale iconografia corinzia (Fig. 3.101). Compare ora anche la forma della kylix (coppa) con orlo distinto, vasca larga e piatta, alto piede a fusto, che nella ceramica attica sarà la forma potoria per eccellenza. Nel secondo venticinquennio del secolo VI a.C. si colloca un’altra fortunata serie di coppe, accolta con favore a Corinto e in numerose località dell’Occidente greco; si tratta delle coppe dette di Siana, dalla località sull’isola di Rodi dove furono rinvenute per la prima volta. Numerosi pittori le decorano tracciando, con disegno ancora miniaturistico, figure nei tondi centrali e nei fregi esterni della vasca (Fig. 3.108).

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Fig. 3.108 Coppa attica di Siana con opliti. Londra, British Museum.

Fig. 3.109 Frammento di kantharos attico a figure nere con Achille e i cavalli, Nearchos, dall’Acropoli di Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 18)

Come Sophilos, pittore e vasaio fu anche Nearchos, di cui pure si conservano le firme; fu attivo nel secondo quarto del VI secolo, con successo economico sufficiente a garantirgli, secondo l’ipotesi più accreditata, la dedica sull’Acropoli della monumentale kore scolpita da Antenore (Fig. 3.47). Nearchos è personalità complessa, vicina alla sensibilità di Kleitias, di cui si dirà a breve, ma per taluni aspetti anticipatore della tragica solitudine degli eroi di Exechias (si veda par. 3.10.2). È maestro di forme vascolari nuove, come i kantharoi, ma suo è anche un aryballos globulare di chiara imitazione corinzia. Su un frammento di kantharos 314

dall’Acropoli (Fig. 3.109) si assiste forse al primo esempio di espressione di sentimenti individuali nella figura pensosa di Achille che accarezza i suoi cavalli, consapevole del triste destino di morte che lo attende. Entro la prima metà del secolo VI a.C., mentre i vasi attici iniziano a conoscere una fortuna commerciale che va anche al di là dei ristretti limiti regionali, la tecnica a figure nere viene pienamente acquisita; i pittori attici mostrano consumata abilità nel dominare il graffito e le sovraddipinture, ma regna ancora una certa caoticità nella composizione delle scene figurate. La vivace vocazione narrativa spinge le maestranze a prendere progressivamente le distanze dagli insegnamenti della ceramica corinzia, in crisi di ispirazione nei decenni centrali del secolo; poco a poco le decorazioni zoomorfe e fitomorfe vengono relegate alle parti secondarie del vaso e sempre meno numerosi sono i pittori attici disposti a dedicare attenzione a questi temi. Prova evidente di un tale ripudio è il Cratere François; questo mette in scena un complesso figurativo mitologico di straordinario ed eccellente impegno che si snoda intorno all’intera superficie del vaso, come aveva insegnato Sophilos dipingendo sui suoi deinoi. Un capolavoro di pittura: il Cratere François Il Cratere François (Figg. 3.110, 3.111) fu rinvenuto a Chiusi (Etruria) nel 1845 e battezzato dal nome del suo scopritore; nel 1900 un custode del Museo Archeologico di Firenze, dove il vaso è tuttora esposto, lo fece a pezzi, riducendolo in oltre seicento frammenti, dai quali il cratere venne pazientemente ricomposto, superando poi indenne la disastrosa alluvione dell’Arno del 1966. Tra le decine di iscrizioni dipinte sul vaso vi sono anche quelle, ripetute ben due volte, che ci rivelano che il cratere è frutto della fortunata collaborazione tra due maestri, 315

Ergotimos vasaio e Kleitias pittore. Il primo ci è noto anche da altre firme su coppe di Siana, a dimostrazione di come anche il lavoro del ceramista, e non solo quello del pittore, sia giudicato di primaria importanza. Il secondo, formatosi nella grande tradizione di Sophilos, dipinge spesso i vasi plasmati da Ergotimos; è pittore aulico, il suo mondo ruota intorno a grandi temi mitologici come le fatiche di Teseo e le imprese dei grandi eroi omerici; alcuni suoi vasi furono doni votivi sull’Acropoli, a testimonianza della stima di cui godeva presso gli Ateniesi.

Fig. 3.110 Cratere François, Ergotimos e Kleitias, da Chiusi. Firenze, Museo Archeologico. (tav. 19a)

Il cratere, che si data intorno al 570-560 a.C., è il primo esempio monumentale e maestoso di cratere a volute (h 66 cm), realizzato con una tettonica non dissimile da quella dei crateri a colonnette (con i quali nel frattempo i pittori corinzi si impegnavano a combattere la concorrenza attica), ma rinnovato nell’imboccatura, più ampia e svasata, sormontata da due grandi anse a volute. Kleitias ne decora l’intera superficie con scene figurate che, se nella 316

disposizione per fregi sovrapposti ancora mostrano un legame con la concezione corinzia, se ne affrancano completamente e sorprendentemente per la vivacità narrativa e l’ispirazione tutta mitologica dei contenuti; il fregio animalistico di tradizione corinzia è infatti relegato a una posizione assolutamente secondaria, nel punto più basso, quindi meno visibile, della vasca. Sul labbro sono raffigurati da un lato la caccia al cinghiale calidonio contro cui si schierano tra i primi Meleagro, Atalanta e Peleo, che sarà padre di Achille, dall’altro lo sbarco di Teseo a Delo e la danza gioiosa dei giovani ateniesi; sul collo sotto la caccia è la corsa dei carri per i funerali di Patroclo, dall’altro lato una scena di centauromachia. Il primo fregio della vasca, nel punto di massima espansione del vaso, è l’unico a ospitare una narrazione continua, tutto intorno alla superficie del cratere; essa mette in scena le nozze di Peleo e Teti, da cui, è noto, nascerà Achille. Nel fregio seguente torna la ripartizione tra i due lati e da una parte osserviamo una vivida raffigurazione del ritorno di Efesto sull’Olimpo, dall’altra fuori dalle mura di Troia Achille insegue Troilo che ucciderà. Chiude il fregio animalistico di tradizione orientalizzante, mentre sul piede, con la battaglia di pigmei e gru, è quasi un diversivo di sapore comico. Sulle anse sono dipinti Artemide, nella veste di Potnia theròn; la gorgone, in omaggio alla vecchia tradizione corinzia; e Aiace che trasporta il cadavere di Achille (Fig. 3.27). Sebbene gli episodi siano divisi in fregi sovrapposti, di sapore corinzio anche nel tratto calligrafico e miniaturistico, il programma figurativo di Kleitias si rivela, all’occhio dell’osservatore attento, tutt’altro che slegato e disomogeneo; al contrario esso risponde a un progetto unitario che, tramite la vicenda esemplare di due eroi, Achille e Teseo, diviene veicolo di richiami religiosi e 317

insegnamenti etici, che facilmente sarebbero stati colti dagli aristocratici dell’Atene riformata da Solone e ormai alla vigilia della tirannide di Pisistrato. È probabile anzi che gli stessi messaggi suscitassero anche gli entusiasmi dei principi etruschi, dai quali il vaso venne in ultimo acquistato. Come è stato recentemente ribadito (Torelli), la ricca composizione di miti assurge a paradigma esemplare del ciclo di vita aristocratico che «dalle prove iniziatiche giovanili, attraverso le gare atletiche e di coraggio, porta al premio delle nozze eccellenti», ma mette anche in guardia dall’infrangere i codici etici, se l’eroe nutre la speranza di immortalità.

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Fig. 3.111 a,b Dettagli del Cratere François. (tav. 19b)

Kleitias è dunque pittore di vastissima cultura che esprime con gioia di raccontare e sorridente ironia, disegnando con meticolosità e uso maestro del colore. Il cratere è uno dei massimi capolavori della ceramica attica per la perizia tecnica e la straordinaria complessità del programma iconografico; esso può ben considerarsi un’eco potente delle principali storie raccontate nell’Atene di allora. 3.10.2 Pittori e vasai all’ombra dei Pisistratidi (seconda metà del secolo VI a.C.)

Gli anni della tirannide dei Pisistratidi ad Atene coincidono con un periodo di grande fervore in ogni espressione artistica. L’elevato numero di firme di vasai e di pittori nella seconda metà del secolo VI a.C. e l’incremento quantitativo di vasi figurati immessi sul mercato attestano senza ombra di dubbio che la produzione e il commercio delle ceramiche attiche erano allora in grandissima espansione. Non solo: ceramisti e ceramografi godono evidentemente anche di buona considerazione sociale (diversamente dalla svalutazione da cui saranno colpiti in seguito) e sono sufficientemente ricchi in taluni casi da potersi permettere prestigiosi doni votivi sull’Acropoli, talvolta eseguiti da grandi scultori quali Antenore ed Endoios (Figg. 3.38 e 3.47). La presa di coscienza dell’importanza e del prestigio connesso con le abilità artigianali coincide di fatto con la comparsa, a partire dal 540 a.C. circa fino almeno ai primi decenni del V a.C., di immagini di lavoro artigianale, ceramico e non, dipinte sui vasi; è stato anzi notato in proposito (Vidale) come progressivamente muti la raffigurazione del lavoro, che cessa presto di essere connotato attraverso i suoi contenuti più strettamente 319

materiali, duri e faticosi (Fig. 3.1), per essere inteso come espressione di creatività formale (Fig. 4.64). Il graduale miglioramento economico e sociale può spiegare anche perché i pittori tendano, verso la fine del secolo, a rappresentarsi come cittadini ateniesi, ossia con gli attributi e nelle situazioni di aggregazione sociale tipiche dei cittadini di Atene; così Euphronios, Euthymides, Smikròs motteggiano tra loro, dipingendosi sdraiati a banchetto, impegnati in corteggiamenti omoerotici nei ginnasi, oppure in raffinate audizioni musicali alla presenza di un maestro (si veda par. 3.10.4). Dell’effettivo peso economico delle ceramiche attiche figurate nel volume complessivo dei traffici commerciali si è molto discusso in tempi recenti; sull’argomento gli studiosi si sono sostanzialmente divisi tra coloro che riconoscono ai vasi figurati di Atene il valore di oggetto d’arte, come tale prestigioso e ben pagato (Boardman), e coloro che al contrario tendono a svalutarne il significato economico, ipotizzando piuttosto che le ceramiche dipinte, mera imitazione di vasellame in metallo prezioso, viaggiassero nelle navi come zavorra o merce aggiunta, a completamento cioè di carichi composti di ben altra merce (Gill e Vickers). Nonostante si possiedano iscrizioni e sigle dipinte o graffite sui vasi stessi, relative talvolta anche al loro costo, la faccenda non è poi così immediatamente risolvibile; resta infatti arduo determinare con precisione quanto costasse un vaso dipinto, ma è verosimile che il prezzo di un oggetto di grandi dimensioni potesse equivalere al salario di una giornata lavorativa. Remunerativo o meno che fosse il loro commercio, i vasi attici nella seconda metà del VI a.C. sono al centro di un consistente volume di traffici e molti ceramisti e pittori danno prova di grande astuzia e sagacia nel controllare le esigenze dei mercati, di cui evidentemente studiano i gusti. 320

Dotato di uno spiccato fiuto per gli affari fu, ad esempio, Nikosthenes, ceramista e proprietario di bottega, attivo nella seconda metà del VI a.C. Egli dovette ritagliarsi uno spazio commerciale significativo presso la clientela etrusca, della quale mostra di conoscere e sapere astutamente assecondare le esigenze, creando forme vascolari nuove, particolarmente gradite proprio al mercato etrusco di Cerveteri e di Vulci; tra queste è un tipo di anfora, detta appunto nicostenica (Fig. 3.112), con anse larghe e piatte a imitazione di un prodotto etrusco in bucchero; oppure il kyathos, un attingitoio monoansato ispirato a sua volta alla forma di un boccale in uso presso gli Etruschi.

Fig. 3.112 Anfora attica a figure nere di tipo nicostenico. Roma, Museo Etrusco di Villa Giulia.

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Fig. 3.113 Kylix attica a figure nere con navigazione di Dioniso, Exechias, da Vulci. Monaco, Antikensammlungen.

Vale la pena di ricordare anche che negli stessi decenni si muoveva sui mari quel Sostrato di Egina di cui Erodoto cita le insuperate ricchezze (IV, 152, 3). Non è questa la sede per discutere se possa essere effettivamente a lui attribuita la sigla «SO» che compare su un centinaio di vasi attici dell’ultimo trentennio del secolo VI a.C., tutti rinvenuti in Etruria, oppure se il Sostrato citato da Erodoto sia lo stesso che verso la fine del secolo dedicò a Gravisca, porto di Tarquinia (Etruria), un ceppo di ancora, ma è fuori di dubbio che costui accumulò ingenti fortune con il commercio. La seconda metà del VI a.C. è anche fase di grande sperimentazione. Mossi alla ricerca di effetti di colorismo e di più efficace resa pittorica, i maestri del Ceramico di Atene si misurano in vari esperimenti tecnici; tra questi è l’applicazione di una vernice che conferisce alla superficie ceramica una brillante tonalità corallo, usata forse per la 322

prima volta da Exechias nella coppa con navigazione di Dioniso (Fig. 3.113); oppure la campitura di figure interamente in bianco su vernice nera con graffiti che lascino intravvedere il fondo nero e non quello dell’argilla (tecnica di Six), tecnica già nota nella prima metà del secolo, ma applicata con maggiore impegno nella seconda metà. L’invenzione della tecnica a figure rosse intorno al 530 a.C. è quindi tutt’altro che una trovata isolata (si veda par. 3.10.3), ma le sue straordinarie potenzialità, perfettamente in linea con le ricerche pittoriche dell’epoca, ne determineranno il perentorio successo.

Fig. 3.114 Anfora attica a figure rosse con donne al mare, Pittore di Andokides. Parigi, Museo del Louvre.

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Fig. 3.115 Particolare dell’anfora attica a figure nere con donne al bagno, Pittore di Priamo. Roma, Museo Etrusco di Villa Giulia.

Grande è la ricchezza iconografica delle ceramiche figurate di questo periodo che ai soggetti divini ed eroici uniscono l’attenzione per la sfera umana, raffigurata non nella banalità quotidiana, bensì nei suoi episodi più altamente qualificanti il profilo etico e morale del cittadino e della cittadina ateniese. Per il loro valore paideutico diventano dunque frequenti, e per nulla sgradite alla raffinata corte pisistratide, le scene di corteggiamento omoerotico tra atleti, o i simposi cui prendono parte coppie di convitati più maturi accanto a simposiasti giovinetti, in esplicita allusione all’intrecciarsi di relazioni omosessuali. Per singolare concentrazione, dal 530 a.C. in poi, si segnalano i vasi, per lo più hydriai, con scene di donne che attingono acqua alla fontana (Fig. 3.59); a loro riguardo s’è già sottolineato il probabile collegamento con la regolamentazione idrica promossa dai Pisistratidi, intervento che fece delle fontane un polo di aggregazione femminile. Questi vasi hanno acceso un dibattito intenso, se 324

cioè nelle figurine che attingono acqua si debbano riconoscere delle schiave, in ossequio alla più rigida morale ateniese che «incatenava» la donna libera al suo telaio e alla sua casa, oppure se non sia il caso di ammettere che le donne dell’Atene di Pisistrato conducevano una vita più libera di quanto le fonti letterarie spesso lascino intendere. Si osservino, ad esempio, la vivace scena di fanciulle al bagno dipinta dal Pittore di Priamo su un’anfora (Fig. 3.115) e lo straordinario gruppo di donne che nuotano e si tuffano in mare, del Pittore di Andokides, già nella tecnica a figure rosse (Fig. 3.114). Quanto ai soggetti eroici: con particolare frequenza vengono raffigurati episodi legati ai poemi omerici, soprattutto in riferimento all’Iliade (decisamente meno presente l’Odissea) e ai due eroi greci più valorosi, Achille e Aiace; dell’epos omerico infatti pare che i Pisistratidi avessero caldeggiato la redazione di una versione ufficiale, cui i rapsodi potessero fare uniforme riferimento. Dell’importanza di Dioniso e di Eracle per quest’epoca si dirà invece incontrandoli di volta in volta raffigurati sui vasi.

Fig. 3.116 Anfora attica a figure nere con morte di Priamo, Lydos. Berlino, Staatliche Museem.

Lydos, la grazia di Amasis e la grandezza di Exechias Il culmine della pittura vascolare attica a figure nere di età pisistratide è rappresentato da tre personalità, attive tra il 325

560 e il 525 a.C.; sono maestri che giungono quindi fino alle soglie del periodo delle figure rosse (si veda par. 3.10.3), senza mai lasciarsi tentare dalla nuova tecnica, ma esplorando a pieno della vecchia tutte le potenzialità. I loro nomi sono Lydos, Amasis ed Exechias, e li conosciamo dalle firme. Il primo è più che altro un nomignolo, «il Lidio», in allusione alla condizione di immigrato o di figlio di una famiglia immigrata dalla Lidia; non possiamo sapere se l’artigiano fosse nato ad Atene, o vi si fosse trasferito in giovane età, ma per le qualità tecniche e per la cultura delle sue immagini è certo che si formò nelle officine ateniesi del Ceramico. Gli sono attribuiti almeno un centinaio di vasi, che non scendono oltre il 540 a.C.; è dunque disegnatore molto prolifico, ma di qualità diseguali, per cui accanto a prodotti correnti si collocano opere di grande drammaticità (Fig. 3.116). Una delle personalità più complesse e originali nelle officine ceramiche dell’età di Pisitrato è Amasis. Egli è certamente vasaio, dato che come tale si firma, ma potrebbe anche aver lavorato come ceramografo; in ogni caso la maggior parte dei vasi da lui plasmati è dipinta da una stessa mano, cui per convenzione è stato dato il nome di Pittore di Amasis. Varie ipotesi sono state avanzate sull’origine del vasaio; poiché Amasis è il nome del faraone che regna in Egitto tra il 570 e il 526 a.C., sovrano favorevole alla presenza greca in Egitto e amico personale di Policrate di Samo, si è a volte creduto che il ceramista fosse un greco, nato in Egitto, che dopo aver trascorso l’infanzia, magari a Naucrati, si trasferì ad Atene; ma vi è anche chi abbia ipotizzato che non fosse di etnia greca, fosse bensì un uomo dalla pelle scura, come i due guerrieri etiopi dipinti da Exechias su un’anfora e da lui chiamati Amasis e Amasos (Fig. 3.117). Inoltre è proprio 326

con Amasis che si verifica l’introduzione ad Atene di una forma di unguentario tipicamente egiziana, l’alabastron, ricavato dall’alabastro in Egitto, riproposto da Amasis ad Atene in argilla.

Fig. 3.117 Anfora attica a figure nere con guerrieri etiopi, Exechias. Londra, British Museum.

Il pittore è spirito antieroico di grande vitalità e freschezza narrativa; ama le rappresentazioni di tono familiare e inclina per un disegno di modeste dimensioni, di figure eseguite con minuzia con corpi slanciati e gesti pensati, non privi di certo manierismo. La sua arguzia e delicatezza contrastano dunque con la grandezza statuaria del collega Exechias e con la drammaticità dei suoi eroi. Ne sono chiaro esempio le due lekythoi di New York (h 17 cm), forse da leggere in coppia, perché molto simili sia nella forma sia nella composizione. Sulla prima (Fig. 3.118 a,b) è dipinta una briosa processione nuziale: due carri trainati da muli trasportano la coppia di sposi e i loro compagni verso la nuova dimora; questa è raffigurata all’estremità della composizione, con le porte spalancate, oltre le quali si intravvede una figura femminile in attesa. La seconda (Fig. 3.119) coglie l’intimità di un altro momento pregnante nella vita della donna ateniese: all’interno della casa alcune

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fanciulle sono intente a filare, altre a tessere al telaio verticale. Accanto a questi soggetti di fresco contenuto domestico, il Pittore di Amasis scopre i temi dionisiaci. Nell’anfora di Parigi (h 33 cm) il dio, con lunga barba e kantharos in mano, compare protagonista accanto alle menadi (Fig. 3.120 a,b), altrove si compiace invece di unirsi ai tiasi dei suoi satiri, conquistando da questo momento in poi un posto di primo piano nei repertori vascolari. Dioniso è infatti contemporaneamente dio di tutta la polis, che lo celebra in occasione delle feste Anthesterie, e dei demi rurali, che lo ricordano in festività religiose di campagna; è quindi un dio che si sposa perfettamente con la politica unificatrice di Pisistrato. Il Pittore di Amasis è attivo molto a lungo, dalla metà del secolo VI a.C. fino almeno al 520 a.C., ma non mostra alcun interesse per la nuova tecnica a figure rosse, perché diversamente da artigiani a lui coevi non è per nulla assillato dai panneggi fluidi o dai dettagli anatomici, trova bensì piena soddisfazione nella tradizionale tecnica delle figure nere con i suoi preziosi graffiti e i suoi ritocchi policromi.

Fig. 3.118 a,b Particolari di lekythos attica a figure nere con corteo nuziale, Pittore di Amasis. New York, Metropolitan Museum. (tav. 20)

All’intima grazia delle scene dipinte dal Pittore di Amasis si contrappone il mondo di Exechias, pervaso dello spirito 328

eroico dei poemi omerici. Exechias è pittore e vasaio, estremamente creativo in entrambi i campi; gli si attribuisce infatti l’invenzione di due nuove forme vascolari, il cratere a calice e la coppa a occhioni, di cui dà ottima prova con l’esemplare di Monaco (Fig. 3.113). È attivo nel terzo quarto del secolo VI a.C., ma, come il Pittore di Amasis, non fa alcuna concessione alla nuova tecnica a figure rosse, che inizia a essere sperimentata intorno al 530 a.C.; egli dipinge sempre nella vecchia tecnica della quale è assoluto maestro, sia per il virtuosismo dei graffiti sia per la tensione dei disegni. La sua originalità si testa anche nella creazione di iconografie nuove, come quella di Achille e Aiace impegnati nel gioco dei dadi, che Exechias dipinge forse per la prima volta sull’anfora del Vaticano (Fig. 3.121), ma che negli anni immediatamente successivi sarà riproposta su decine e decine di vasi. I due eroi, facilmente identificabili dalle minute scritte dipinte nel campo, siedono su semplici sgabelli, intenti al gioco, di cui l’osservatore intuisce l’esito dai numeri che Exechias argutamente traccia accanto ai personaggi. Achille sulla sinistra calza ancora l’elmo, mentre ha lasciato lo scudo alle sue spalle; l’armatura di Aiace poggia invece sul lato opposto della scena. Il gioco di incrocio delle lance e l’espediente di tracciare i piedi dei due eroi davanti e dietro gli sgabelli sono una prima intuizione di profondità dello spazio. Il disegno è di livello artistico elevatissimo: si noti la straordinaria ricchezza dei graffiti sui mantelli dei due guerrieri, sulle barbe, sui capelli. Si è molto discusso sul significato del tema, la cui successiva fortuna nelle arti figurative deve fare i conti con l’assoluto silenzio delle fonti letterarie; si dovrà tuttavia tenere conto che il patrimonio di storie e miti degli Ateniesi era certamente molto maggiore di quanto le fonti sopravvissute ci

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raccontino, e che esistevano anche tradizioni non necessariamente codificate nei poemi.

Fig. 3.119 Lekythos attica a figure nere con scena di filatura e tessitura, Pittore di Amasis. New York, Metropolitan Museum. (tav. 21)

Fig. 3.120 a,b Anfora attica a figure nere con Dioniso e menadi, Pittore di Amasis. Parigi, Cabinet des Médailles.

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Fig. 3.121 Particolare di anfora attica a figure nere con Achille e Aiace che giocano ai dadi, Exechias. Roma, Musei Vaticani. (tav. 22)

Exechias mostra un’aperta simpatia per Aiace, eroe secondo per forza e coraggio solo ad Achille, di cui è cugino. Emblematica la scena del suicidio (Fig. 3.122): solo sulla spiaggia, Aiace sta conficcando la sua spada nel terreno e una ruga profonda gli solca la fronte, a esprimere il dramma di un eroe valoroso, sempre pronto a combattere in prima fila, ma beffato dal destino e frustrato nelle sue aspirazioni. In un’epoca in cui il linguaggio convenzionale non consente ancora di esprimere sfacciatamente l’agitarsi dei sentimenti, questa figura, che prepara il suicidio in tragica, ma dignitosa solitudine, è quanto di più vicino alla sensibilità di questo maestro che ama soffermarsi sugli aspetti psicologici e sui drammi degli eroi. Nella partecipata solidarietà tra il pittore e Aiace si è voluto talvolta leggere un’allusione alla provenienza di Exechias da Salamina, di cui Aiace era signore, ma è più verosimile che, accanto alle affinità personali che univano soggetto e maestro, entrassero in gioco piuttosto elementi di ordine politico, in riferimento all’importanza che l’isola di

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Salamina, conquistata da Pisistrato, stava allora acquistando per Atene. Il dramma di Achille è dipinto invece sull’anfora del British Museum (Fig. 3.123): un eroe nero, tutto chiuso nella sua armatura, incombe minacciosamente, pronto a sferrare il colpo letale con la lancia su Pentesilea, regina delle Amazzoni, ormai piegata, con un ginocchio a terra. Ma nel momento in cui la regina guerriera volge il capo per guardare negli occhi il suo uccisore, i due si innamorano; inutilmente: la regina è ormai esangue. Nonostante certe durezze nei passaggi di piano tra visione di profilo e visione frontale delle figure, l’anfora è un capolavoro di tensione sia figurativa che tettonica. Tutt’altra atmosfera si respira con la kylix della navigazione di Dioniso (Fig. 3.113), esempio di coppa a occhioni, plasmata dall’Exechias ceramista; una sensazione di pace pervade infatti la scena del solitario viaggio di Dioniso su una nave da cui fioriscono tralci di uva, accompagnato dalla gioiosa danza dei delfini; in questi ultimi taluni hanno visto un riferimento alla vicenda del rapimento del dio da parte dei pirati tirreni che verranno per questo puniti con la trasformazione in delfini. Sulla superficie della coppa, ampia 33 cm, Exechias stende quella brillante tinta corallo, già citata tra gli efficaci esperimenti di resa pittorica di questi anni, che avrà giocato, con magiche sfumature, con il colore del vino versato.

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Fig. 3.122 Particolare di anfora attica a figure nere con suicidio di Aiace, Exechias. Boulogne-sur-Mer, Museo.

Fig. 3.123 Anfora attica a figure nere con Achille e Pentesilea, Exechias. Londra, British Museum. (tav. 23)

Con Exechias gli elementi di grandezza di certa parte della precedente tradizione ceramica attica assurgono a un ulteriore grado di nobiltà e toccano quella atmosfera di serena spiritualità che pervade l’espressione artistica di età tardoarcaica; gli eroi di Exechias sentono il peso del vivere mortale, di cui accettano tuttavia serenamente il destino,

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come fece Kroisos, quando Ares lo colpì, ancora fiorente negli anni, mentre combatteva in prima fila (Fig. 3.34). 3.10.3 Una trovata rivoluzionaria: la tecnica a figure rosse

Intorno al 530 a.C. venne inventata ad Atene la tecnica a figure rosse, dalla quale tuttavia, come sopra detto, non tutti gli artisti si fecero immediatamente attrarre; anzi molti maestri, anche di ottime qualità e capacità, continuarono a dipingere alla vecchia maniera fino alla fine del secolo e oltre. L’effetto prodotto dalla nuova tecnica è quello di un ribaltamento, ossia il fondo viene campito a vernice, mentre le figure, disegnate a contorno, restano risparmiate nel colore rosso dell’argilla; i dettagli quindi non sono più graffiti con la punta metallica, bensì tracciati a pennello, con la possibilità di dosare l’intensità della vernice dalla linea a rilievo a quella diluita. Il metodo consente una resa più particolareggiata e realistica dell’anatomia e dei panneggi, ed è dunque perfettamente in linea con gli interessi e le ricerche figurative di età tardoarcaica. Tra i primi a cimentarsi nella nuova tecnica è un pittore, forse allievo del grande Exechias, che prende nome dal ceramista al servizio del quale lavora: il Pittore di Andokides. Questo dipinge a figure rosse, su un lato dei vasi di Andokides, soggetti che sull’altro lato vengono invece eseguiti nella vecchia tecnica a figure nere da un artefice noto con il nome di Pittore di Lysippides; è dunque un codice bilingue che ben esemplifica la fase di sperimentazione e di passaggio dall’una all’altra concezione pittorica.

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Fig. 3.124 a,b Anfora attica blingue con Eracle a banchetto, Pittore di Andokides, da Vulci. Monaco, Antikensammlungen.

Si è discusso se i due Pittori di Andokides e di Lysippides non siano piuttosto la stessa persona che dipinge contemporaneamente in entrambe le tecniche; le differenze stilistiche potrebbero essere in questo caso imputate alle diverse esigenze dei sistemi pittorici; sarebbe inoltre difficile credere che il Pittore di Andokides abbia inventato una 335

tecnica nuova senza avere alcuna competenza ed esperienza della vecchia concezione pittorica e dei suoi limiti. Ma la questione non ha per ora trovato soluzione; lo stesso Beazley, il massimo conoscitore delle ceramiche attiche, ha cambiato idea in proposito più di una volta. Su un’anfora bilingue a profilo continuo (h 53 cm) vediamo raffigurato Eracle nei panni civili del simposiasta (Fig. 3.124 a,b): è sdraiato infatti sulla kline davanti a una tavola imbandita e regge nelle mani il kantharos per il vino. L’eroe non è immediatamente individuabile per i suoi attributi, della clava e della pelle di leone (leontè), anzi i rigogliosi tralci di uva sotto i quali siede a banchetto e il kantharos lo avvicinano piuttosto a Dioniso, di cui condivide la sorte di figlio di Zeus e di una donna mortale, odiato per questo da Hera. Di Dioniso, dal 540 a.C. in poi, Eracle conosce anche le fortune iconografiche nell’Atene unificata e pacificata da Pisistrato.

Fig. 3.125

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Anfora attica bilingue con Eracle e Cerbero, Pittore di Andokides, da Vulci. Parigi, Museo del Louvre.

Fig. 3.126 Anfora attica con concorso musicale, Pittore di Andokides. Parigi, Museo del Louvre.

Sull’anfora la resa del medesimo soggetto nelle due diverse tecniche consente di constatare come in realtà il pittore si senta ancora più a suo agio dipingendo a figure nere: la scena è infatti più affollata di personaggi (accanto a Eracle, Atena, Hermes e un giovane coppiere); migliore è la resa anatomica del torace dell’eroe; ardito lo scorcio del busto del coppiere. Nel pannello a figure rosse invece il maestro si limita anzitutto a inserire i soli personaggi necessari alla comprensione del tema (Eracle e Atena); è poco abile nella resa tridimensionale del busto dell’eroe che resta schiacciato e informe; intuisce però le potenzialità pittoriche della nuova tecnica nell’ornare la veste della dea, il materasso e il cuscino della kline. La decorazione

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secondaria ai lati dei pannelli metopali e sulle anse resta nella tecnica a figure nere. Eracle, eroe civilizzatore, colto nelle sue fatiche e nel premio finale dell’apoteosi, è soggetto molto caro all’Atene di Pisistrato; compare infatti con una frequenza elevatissima sulle ceramiche della seconda metà del secolo VI a.C., soprattutto nell’ultimo quarto, ma lo si è incontrato protagonista anche nei frontoni arcaici dell’acropoli (Figg. 3.49-3.52, 3.55). Come «eroe culturale» (Gentili), i pittori sono attenti a raffigurarlo impegnato nelle sue imprese, senza cedere ai toni della violenza; così accanto al civilissimo Eracle banchettante di prima, il Pittore di Andokides (e altri dopo di lui) dipinge su un’altra anfora la cattura di Cerbero alla presenza amichevole di Atena (Fig. 3.125): non si tratta di una lotta furibonda tra l’eroe e il mostro a tre teste, quanto piuttosto di un docile ammansirsi di Cerbero di fronte a Eracle. La raffinatezza e la grazia dei personaggi del Pittore di Andokides, – si veda la scena di concorso musicale su un’anfora del Louvre (Fig. 3.126) – richiamano le figure scolpite sul fregio del Tesoro dei Sifni (Fig. 3.90) e offrono una conferma cronologica della sua attività da collocarsi tra il 530 e il 520 a.C. 3.10.4 I Pionieri delle figure rosse (520-500 a.C.)

Nel ventennio 520-500 a.C. la ceramica attica figurata raggiunge un livello qualitativo superbo, che difficilmente verrà poi superato, a opera di un gruppo di maestri definiti Pionieri della tecnica a figure rosse da Beazley, lo studioso cui dobbiamo il massimo sforzo di sistemazione delle ceramiche attiche e dei relativi pittori. I Pionieri sono personaggi colti che partecipano alla vita sociale della buona Atene o almeno amano raffigurarsi in questa veste; non li conosciamo perché citati nelle fonti 338

letterarie, come talora succede a proposito di famosi architetti o scultori, ma del loro lavoro, delle loro rivalità, dei loro gusti, molto ricostruiamo proprio a partire dai vasi, dalle scene dipinte e dall’impiego disinvolto delle scritte, dalle battute e dai motteggi che si scambiavano. Mai come ora il freddo approccio stilistico alla lettura dei vasi dipinti cede il passo alla percezione forte che costoro furono uomini e non cifre tipologiche, furono artigiani e come tali sedevano ogni giorno al tavolo di lavoro, si confrontavano in sana rivalità, partecipavano alla vita della loro città.

Fig. 3.127 a,b Cratere a calice attico a figure rosse con trasporto del cadavere di Sarpedonte, Euphronios. Già New York, Metropolitan Museum. (tav. 25)

I Pionieri compongono un gruppo molto coerente, perché accomunato da indiscutibili meriti artistici e da medesimi intenti. Più che veri nomi, hanno nomignoli con i quali si firmano: Euphronios, il saggio; Euthymides, il buono; Smikròs, il piccoletto. I loro vasi più antichi si datano a partire dal 520 a.C.; appartengono dunque alla stessa generazione dei maestri bilingui, di cui sono al massimo poco più giovani, ma diversamente dai primi, i Pionieri si formano nella nuova tecnica a figure rosse, di cui mostrano di aver pienamente intuito le grandi potenzialità; 339

hanno infatti disegni e composizioni meditatissimi, che destinano per questo preferibilmente a vasi di grandi dimensioni dalle ampie superfici, sulle quali stendono magistralmente la vernice, diluendola o condensandola. La carriera di Euphronios è molto lunga; inizia intorno al 520 a.C. come pittore e prosegue dal 500 fino al 470 a.C. come vasaio, forse proprietario di bottega, per il miglioramento della sua situazione economica più che non, come talora ipotizzato, perché costrettovi da un abbassamento della vista. Egli dipinge soggetti spesso originali su grandi vasi, specialmente crateri a calice, le cui pareti consentono infatti di creare larghe composizioni. Sul cratere di New York (h 46 cm), illegalmente acquistato per la cifra enorme di un milione di dollari nel 1972 dal Metropolitan Museum, ma ora restituito all’Italia, campeggia il cadavere di Sarpedonte, principe di Licia e figlio di Zeus, ucciso da Patroclo (Fig. 3.127 a,b); per volere del divino padre e alla presenza di Hermes, il morto viene riportato in patria da Thanatos (la morte) e Hypnos (il sonno), mentre i soldati si fanno a lato per consentirne il passaggio. Sul lato opposto del cratere alcuni guerrieri si armano per continuare la lotta. Profondo e meditato è l’interesse del pittore per la resa del corpo umano e per la sua collocazione nello spazio; come i coevi scultori (Fig. 3.64), Euphronios si lascia quindi tentare dagli scorci più arditi; lo dimostra la figura di Sarpedonte il cui corpo statuario, ormai senza vita, viene raffigurato abbandonato, ma non privo di alcune durezze nella posizione innaturale del braccio destro. Il disegno è nervoso e molto accurato, superbo l’uso della vernice.

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Fig. 3.128 a,b Cratere a calice attico a figure rosse con scene di palestra, Euphronios, da Capua. Berlino, Staatliche Museen.

Grande sensibilità anatomica, fino a rendere particolari del corpo non visibili a occhio nudo, Euphronios mostra anche nel cratere con la lotta mortale tra Eracle e Anteo (Fig. 3.129), per il quale risente forse della suggestione delle composizioni frontonali dei decenni precedenti, con lotte dell’eroe contro mostri (Figg. 3.50, 3.51). Anche la vivace scena di palestra sul cratere di Capua (Fig. 3.128 a,b), con atleti che si detergono assistiti da garzoni e atleti che si allenano alla presenza del maestro (paidotribes), diviene un pretesto per disegnare le figure nello spazio, con generoso ricorso a scorci e torsioni. I gesti, le posizioni e i ritmi richiamano quelli dei giovani scolpiti sulla base del muro di Temistocle (Fig. 3.64) e collocano l’attività del pittore a strettissimo contatto con le coeve ricerche della restante espressione artistica greca. Ardimento e novità esprimono anche i poderosi corpi delle giovani donne a banchetto sullo psyktèr dell’Ermitage (Fig. 3.131). Il pittore ne indica accuratamente i nomi: sono Sekline, Palaisto, Smikra e Agapa; nude, sdraiate su klinai, partecipano con disinvoltura a un simposio tutto femminile, attingendo vino da larghe coppe, giocando al kottabos e suonando il doppio flauto. Contro l’opinione comune che 341

siano etere (le donne libere non potevano generalmente prendere parte ai banchetti), vi è anche chi abbia suggerito che potrebbe trattarsi al contrario di donne di rango elevato, forse impegnate in rituali saffici.

Fig. 3.129 Particolare di cratere a calice attico a figure rosse con Eracle e Anteo, Euphronios. Parigi, Museo del Louvre. (tav. 24)

Fig. 3.130 Psyktèr attico a figure rosse con corteggiamento efebico, Smikròs. Malibu, Paul Getty Museum.

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Fig. 3.131 Psyktèr attico a figure rosse con donne (etere?) al simposio, Euphronios, da Cerveteri. San Pietroburgo, Ermitage.

Fig. 3.132 Anfora attica a figure rosse con comasti danzanti, Euthymides, da Vulci. Monaco, Antikensammlungen.

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Fig. 3.133 Hydria attica a figure rosse con audizione musicale, Phintias, da Vulci. Monaco, Antikensammlungen.

Pittore colto e consapevole delle proprie qualità artistiche, Euphronios raffigura anche se stesso a banchetto nei panni di un raffinato cittadino ateniese, e viene poi dipinto da Smikròs in atto di corteggiare Leagros tra altri giovani nel ginnasio (Fig. 3.130). Con Euphronios rivaleggia bonariamente Euthymides, forse di qualche anno più giovane, sicuramente pittore più compassato del potente e nervoso collega. Sull’anfora di Monaco con comasti danzanti (Fig. 3.132) troviamo infatti la famosa e controversa scritta «come mai Euphronios», nella quale si è inteso leggere (ma esistono anche altre ipotesi in merito) il vanto di superiorità di Euthymides nei confronti dello stimato concorrente. Dunque forse rivale di Euphronios in un clima di grande produttività e sana, aperta concorrenza, Euthymides non ne è però un imitatore: pur eguagliandolo nel disegno e nell’invenzione, contrappone 344

infatti alla potenza formale di Euphronios un’intima grazia mondana con la quale dipinge figure rese con garbo ed eleganza, mostrando grandi capacità compositive nel campire i pannelli metopali delle anfore solitamente con gruppi di tre o quattro personaggi; ne sia esempio l’anfora da Vulci (Fig. 3.134) con Teseo ed Elena, nella quale il pittore traduce in disegno sorvegliato, e con larga sensibilità, i panneggi raffinati delle korai in marmo dedicate in quegli anni sull’Acropoli. Anche Euthymides fa un uso libero e disinvolto delle iscrizioni, nominando parecchie volte se stesso e il padre, lo scultore Pollias, che avrebbe dedicato sull’Acropoli un pinax votivo raffigurante Atena, dipinto probabilmente dal figlio, responsabile anche di una tavoletta con oplita in corsa (Fig. 3.3). Phintias, altro dotato artefice della prima generazione dei pittori a figure rosse, raffigura a sua volta Euthymides nei panni di un giovane elegante (Fig. 3.133), mentre suona davanti al maestro; la musica infatti, accanto agli esercizi ginnici, ricopre un ruolo importante nell’educazione dei giovani efebi ateniesi.

Fig. 3.134 Anfora attica a figure rosse con Teseo e Elena, Euthymides, da Vulci. Monaco, Antikensammlungen.

Prima di concludere il discorso sui Pionieri delle figure 345

rosse, segnaliamo come, accanto ai decoratori di grandi vasi, operassero anche artigiani che dipingevano soprattutto kylikes e recipienti di piccole dimensioni, dando tuttavia prova di notevole unità di concezione e ispirazione con i maestri dei grandi vasi. Tra i più dotati sono Oltos ed Epiktetos. Del primo è una coppa da Tarquinia (Fig. 3.135) con solenne assemblea degli dei, da leggersi forse anche in riferimento all’istituzione nell’Atene pisistratide del culto dei Dodici Dei; lo spirito del consesso divino è lo stesso del fregio scolpito sul Tesoro dei Sifni. Minore curiosità per i dettagli, ma più efficace potenza narrativa ha invece il pennello di Epiktetos che crea figure sobrie, ma dai contorni sicuri (Fig. 3.136).

Fig. 3.135 Particolare di kylix attica a figure rosse con assemblea degli dei, Oltos, da Tarquinia. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 3.136 Piatto attico a figure rosse con coppia di simposiasti, Epiktetos, da Vulci. Londra, British Museum. L’arte del vasaio: la fornace e la cottura La cottura dei vasi è la fase più delicata di tutto il lavoro ceramico. Il vasaio che lavora alla fornace ha grandi responsabilità ed è sottoposto a forze imprevedibili che impara a controllare solo con una lunga esperienza: capitava infatti di frequente che i vasi in cottura si spezzassero, ovvero non fossero uniformemente raggiunti dal calore, o che il fuoco si alimentasse senza moderazione e all’improvviso, o ancora che si aprissero crepe nella fornace stessa. I rischi erano davvero molti ed ecco perché talvolta vediamo appese alle fornaci maschere di Atena e di Efesto, divinità protettrici dei lavori artigianali, o di demoni benigni che scongiurassero i pericoli (Figg. 3.1 e Figg. 4.55). Le fornaci erano costruite dai vasai stessi su muretti di fondazione in piccole pietre e ciottoli, rivestiti di argilla, completati in alzato da mattoni che cuocevano con le prime infornate, rendendo il forno una struttura molto stabile. Eventuali crepe e fessure che si aprivano durante l’uso, venivano di volta in volta riparate con strati di argilla; era importante infatti che la fornace fosse sempre perfettamente chiusa. L’aspetto finale (Fig. 3.137) è quello di un forno a pozzo di forma vagamente cilindrica e altezza compresa tra 1,50 e 3 m, con condotto del focolare a livello del terreno e foro di tiraggio sulla sommità della copertura; sopra la camera di combustione viene sistemato, retto da un pilastro centrale, un piano forato sul quale impilare i vasi e attraverso il quale far passare il calore nella camera di cottura. La possibilità di aprire e chiudere il foro di tiraggio e la bocca del condotto del focolare rende la fornace di tipo regolabile; questo tipo di forno, imprescindibile per la cottura dei vasi decorati nella tecnica a figure nere e nella successiva a figure rosse, deve essere stato messo a punto dai ceramisti corinzi nel corso del secolo VII a.C., quando si inizia appunto a dipingere a figure nere. Tramite un’apertura di carico, che verrà poi murata, gli artigiani caricano la fornace: sul piano forato vengono attentamente impilati quanti più vasi possibile, stando attenti a collocare al centro i recipienti di maggiore pregio che verranno uniformemente investiti dal calore e ai lati quelli di minore qualità, sfruttando quindi lo spazio in maniera ottimale. Anelli distanziatori e cunei servono a garantire uno stabile impilaggio. L’operazione di caricamento poteva durare un’intera giornata e doveva svolgersi con grande cautela. Il giorno successivo all’operazione di impilaggio, all’alba, il condotto del focolare veniva riempito con enormi fascine, con sterpi, ciocchi e carbone. Occorrevano molte ore (8-9 ore) per raggiungere la temperatura di circa 800-950 gradi, necessaria alla cottura e al fissaggio del rivestimento pittorico; nel frattempo bisognava alimentare di continuo il fuoco. Intorno a 500 gradi, raggiunti dopo circa 6-7 ore dall’accensione, i vasi iniziano a cuocere, ma per fissare la decorazione sulla superficie si deve attendere che la temperatura salga fino a 900 gradi; è allora che i rivestimenti pittorici, composti di argilla molto

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depurata, sinterizzano, ovvero fondono trasformandosi in quel rivestimento lucido che rende i vasi impermeabili. La cottura avviene in tre fasi, che devono susseguirsi molto rapidamente. Una prima fase è ossidante, essa dura fino a che la temperatura è di 900 gradi; in questo momento il condotto del focolare e il foro di tiraggio sulla sommità delle fornace devono restare aperti; l’ossigeno alimenta il fuoco e l’ossido di ferro conferisce alla superficie ceramica una tonalità rossa; in questa fase quindi le ceramiche sono interamente rosse. Segue la fase riducente della cottura: la fornace viene chiusa, il calore si abbassa a causa della produzione nella camera di cottura di fumo, il monossido di carbonio; l’ossido di ferro dei rivestimenti diviene nero e sinterizza; in questa fase i vasi sono tutti neri e lucidi. Il terzo e ultimo processo consiste nel separare il rosso dal nero. Si apre ancora una volta la fornace; mentre i vasi arroventati si raffreddano, le parti della superficie ceramica a risparmio si ossidano nuovamente, assumendo la definitiva tonalità rossa; l’argilla di cui è fatto un vaso è infatti più porosa del rivestimento pittorico, ottenuto da una maggiore decantazione, e non sinterizza bene; quindi mentre i rivestimenti pittorici, trasformatisi in una superficie lucida e resistente restano neri, le parti risparmiate si tramutano nuovamente nel colore rosso dell’argilla.

Fig. 3.137: Ricostruzione di un’antica fornace. 1. Bocca del focolare; 2. Elemento di chiusura; 3. Condotto del focolare; 4. Combustibile; 5. Camera di combustione; 6. Pilastro centrale; 7. Piano forato; 8. Fori per il passaggio del calore; 9. Rivestimento della fornace; 10. Camera di cottura; 13. Sistemazione degli oggetti da cuocere: a) manufatti in terracotta, b) semplici manufatti con rivestimento in argilla lucida, c) manufatti dipinti con rivestimento in argilla lucida, d) parte superiore con vasellame di piccole dimensioni (ristagno di calore variabile); 14. Copertura intermedia (ristagno di calore costante); 15. Apertura di carico murata; 16. Volta per il fumo; 17. Cupola; 18. Tiraggio; 19-20. Spioncini di controllo.

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Tavole a colori

Tav. 1 Modello fittile di naiskos, dall’Heraion di Argo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 2 Eretria, ricostruzione del Daphnephorion (edificio centrale) intorno alla metà del secolo VIII a.C.

Tav. 3a

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Anfora attica con scena di prothesis (GT). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Tav. 3b Dettaglio della scena di prothesis.

Tav. 4

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Centauro fittile, da Lefkandi. Calcide, Museo.

Tav. 5 Aryballos protocorinzio, da Corinto. Parigi, Museo del Louvre.

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Tav. 6 Delo, terrazza dei leoni.

Tav. 7 Metopa raffigurante Perseo, dall’Apollonion di Thermos. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Tav. 8 Nasso, portale marmoreo del tempio periptero di Ligdami.

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Tav. 9a Olpe Chigi, da Veio. Roma, Museo Etrusco di Villa Giulia.

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Tav. 9b Dettaglio del fregio superiore dell’Olpe Chigi.

Tav. 10 Anfora protoattica del Pittore di Polifemo da Eleusi. Eleusi, Museo.

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Tav. 11 Coppa laconica con il re Arcesilao di Cirene che presiede al carico del silfio, Pittore di Arcesilao di Cirene, da Vulci. Parigi, Cabinet des Médailles.

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Tav. 12 Kore col peplo, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Tav. 13 Statua di Phrasikleia, da Mirrinunte (Merenda, Attica). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 14 Kore, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Tav. 15 Statua crisoelefantina di divinità, da Delfi. Delfi, Museo Archeologico.

Tav. 16 Mostro tricorpore, frontone del Barbablù, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Tav. 17 Pinax con scena di sacrificio, da Pitsà. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Tav. 18 Frammento di kantharos attico a figure nere con Achille e i cavalli, Nearchos, dall’Acropoli di Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 19a Cratere François, Ergotimos e Kleitias, da Chiusi. Firenze, Museo Archeologico.

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Tav. 19b Dettagli del Cratere François.

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Tav. 20 Particolari di lekythos attica a figure nere con corteo nuziale, Pittore di Amasis. New York, Metropolitan Museum

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Tav. 21 Lekythos attica a figure nere con scena di filatura e tessitura, Pittore di Amasis. New York, Metropolitan Museum.

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Tav. 22 Anfora attica a figure nere con Achille e Aiace che giocano ai dadi, Exechias. Roma, Musei Vaticani.

Tav. 23 Anfora attica a figure nere con Achille e Pentesilea, Exechias. Londra, British Museum.

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Tav. 24 Particolare di cratere a calice attico a figure rosse con Eracle e Anteo, Euphronios. Parigi, Museo del Louvre.

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Tav. 25 Cratere a calice attico a figure rosse con trasporto del cadavere di Sarpedonte, Euphronios. Già New York, Metropolitan Museum.

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Tav. 26 Il santuario di Olimpia, veduta aerea; in primo piano il Leonidaion.

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Tav. 27 Atene, Partenone, statua crisoelefantina di Atena, ricostruzione del Royal Ontario Museum di Toronto (da Rolley 1999).

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Tav. 28 Apollo Parnopios, Fidia, ricostruzione.

371

Tav. 29 Olimpia, tempio di Zeus, la statua crisoelefantina di Zeus, ricostruzione (da Rolley 1999).

Tav. 30 Atene, Acropoli, il lato occidentale del Partenone.

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Tav. 31 Atene, Acropoli, Eretteo, loggia delle Cariatidi.

Tav. 32 Lekythos del Pittore di Achille, con scena di gineceo, da Gela. Boston, Museum of Fine Arts.

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Tav. 33 Lekythos del Gruppo R con guerriero davanti alla stele, da Eretria. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 34 Hydria del Pittore di Meidias con Faone e Demonassa, da Populonia. Firenze, Museo Archeologico.

Tav. 35 Cratere eponimo del Pittore di Talos, da Ruvo. Ruvo di Puglia, Museo Jatta.

375

Tav. 36 Verghina, facciata della tomba di Filippo II.

Tav. 37

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Verghina, tomba di Persefone: sul fondo la dea Demetra addolorata; sulla sinistra il rapimento di Persefone.

Tav. 38a Verghina, ratto di Persefone.

Tav. 38b Verghina, tomba di Persefone: dettagli delle teste di Persefone e Ade.

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Tav. 39a Battaglia di Alessandro, Filosseno, copia su mosaico, dalla Casa del Fauno a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Tav. 39b Particolare con la figura di Alessandro, Filosseno. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 40 Le nozze di Alessandro, copia da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 41 Perseo e Andromeda, dalla Casa dei Dioscuri a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 42 Paesaggio con Perseo e Andromeda, dalla Villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase. New York, Metropolitan Museum.

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Tav. 43 Achille a Sciro, dalla Casa dei Dioscuri a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 44 Achille a Sciro, da una casa di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 45 Achille e Briseide, dalla Casa del Poeta tragico a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 46 Mosaico con suonatori, Dioscuride, dalla Villa di Cicerone presso Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 47 Mosaico della fattucchiera, Dioscuride, dalla Villa di Cicerone presso Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Tav. 48 a,b Mosaico nilotico, particolari. Palestrina, Museo Prenestino.

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4 L’età dello stile severo (480-450 a.C.) MARINA CASTOLDI

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4.1 Una generazione di passaggio Siamo negli anni della grande ascesa di Atene. Uscita vincitrice dalle Guerre Persiane con le battaglie di Salamina (480 a.C.) e di Platea (479 a.C.), sotto il comando di Temistocle, la metropoli attica si avvia a diventare la guida politica e spirituale dei Greci. Nel 477 a.C. Atene e le città ioniche, più direttamente coinvolte nell’espansionismo della Persia, fondano una coalizione con intenti antipersiani, la Lega delio-attica, con sede a Delo, dove era conservato anche il tesoro della Lega, costituito dal tributo versato dalle città alleate. Nonostante gli interventi di Sparta, che sconfigge i Persiani a Cipro e a Bisanzio, è ancora l’esercito ateniese, guidato da Cimone, figlio di Milziade stratega di Maratona, a infliggere al nemico una doppia sconfitta per terra e per mare alla foce dell’Eurimedonte, in Asia Minore (465 a.C.). Impegnata contro la Persia nella politica estera, e contro Sparta, eterna rivale, in casa, Atene riesce, con alterne vicende, a estendere la sua egemonia su tutta la Grecia centrale. Forte dell’alleanza con Argo e con Megara, arriva ad annettere al suo territorio la Beozia, la Locride e la Focide. Nel 456 a.C. anche Egina, già alleata di Sparta, è costretta a entrare nella Lega delio-attica; eliminata la concorrenza commerciale, il Pireo diventa il principale porto di tutta la Grecia. Con il trasferimento del tesoro della Lega ad Atene (454 a.C.), la tregua quinquennale con Sparta (451 a.C.) e la pace con la Persia (Pace di Callia, 449 a.C.), che garantisce l’autonomia delle città greche dell’Asia Minore e di Cipro, la Lega delio-attica perde la sua importanza lasciando Atene egemone tra le città alleate. L’imperialismo ateniese porterà 389

nella seconda metà del secolo alla rottura definitiva con Sparta e ai disastrosi eventi della Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.). Il 480 a.C. è un anno decisivo anche per le città greche della Sicilia che sconfiggono i Cartaginesi a Imera; la vittoria segna il trionfo dei tiranni di Agrigento e di Siracusa che diventano, alla stregua di Atene, difensori dei valori della grecità nei confronti dei barbari. Nel 474 a.C. anche gli Etruschi sono sconfitti a Cuma da Ierone di Siracusa. Con il bottino della vittoria e con la manodopera offerta dagli schiavi di guerra i tiranni sicelioti avviano un programma di opere pubbliche che porterà alla costruzione di grandi templi dorici in patria e di raffinati donari nei santuari panellenici.

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4.2 Lo «stile severo» I decenni che seguono le Guerre Persiane e precedono la legittimazione dell’impero ateniese con l’inizio dei lavori per la ricostruzione dell’Acropoli (447 a.C.) sono quindi decisivi per la storia del mondo greco. Se nella politica interna emerge decisamente Atene – che affronta in questi anni una più completa riforma democratica aumentando i poteri della Boulè (consiglio), dell’Eliea (tribunale popolare) e dell’Ekklesia (assemblea del popolo) e introducendo un’indennità giornaliera per i membri della Boulè e dell’Eliea –, nella politica estera, la sconfitta dei «barbari» (Persiani e Cartaginesi) porta le città greche a una maggiore consapevolezza e alla necessità di ribadire i propri valori. È inevitabile che questo clima politico di rinnovamento e di esaltazione nazionalistica agisca anche sulla produzione artistica che, in tutto il mondo antico, resta sempre il principale mezzo di comunicazione. Se nel campo dell’architettura vengono di necessità privilegiati i lavori di ristrutturazione e di difesa, nel campo delle arti figurative la produzione di monumenti commemorativi e di ex voto permette che vengano portate a compimento quelle ricerche sulla ponderazione, sul movimento, sull’organicità delle forme, che avevano caratterizzato la plastica e la pittura tardoarcaiche. Nasce lo stile severo. L’aggettivo «severo» traduce letteralmente il tedesco streng, usato da Winckelmann nella sua Geschichte der Kunst des Altertums (Storia dell’arte dell’antichità, Dresda 1764) per definire la scultura anteriore a Fidia; il termine traduce a sua volta i qualificativi durus, rigidus, austerus con i quali gli autori latini avevano definito le opere dello stesso periodo. L’appellativo nasce dall’osservazione dei volti delle 391

sculture della prima metà del V secolo che hanno perso, insieme al caratteristico «sorriso», ogni tipo di manierismo tardoarcaico. In realtà, come avremo modo di vedere, le innovazioni dello stile severo non consistono soltanto nell’eliminazione di quel virtuosismo decorativo, a tratti lezioso, che aveva caratterizzato la plastica e la ceramografia della seconda metà del VI secolo, ma nella messa a punto di un nuovo linguaggio figurativo, che guarda all’uomo e al suo destino. È questa tematica, sollecitata dal grande evento delle Guerre Persiane, che vede nascere un’arte figurativa che affronta i primi tentativi di introspezione. L’uomo, ancora una volta al centro della ricerca artistica, non viene più rappresentato soltanto nella sua essenza fisica, come corpo stante o in movimento, ma come essere pensante. Sono questi gli anni della nascita della tragedia, un genere letterario che non si limita a raccontare le gesta e le imprese degli eroi e degli dei, ma riflette sulla loro sorte e sui conflitti interni alle loro anime; nella sua dimensione di spettacolo, il dramma tragico, portatore di valori etici e filosofici, raggiunge una parte più vasta di popolazione. Grandi passi si compiono anche nel campo delle scienze con l’osservazione dei fenomeni naturali e dei corpi celesti, con lo studio dell’anatomia e della medicina e la creazione delle prime grandi scuole mediche; i filosofi greci, che sono anche fisiologi e biologi, partono dallo studio del mondo per arrivare a quello dell’uomo. Nella statuaria viene progressivamente abbandonata l’assialità arcaica, il tronco è ora bilanciato sulle gambe, una portante e l’altra flessa, e tutte le membra si muovono di conseguenza assecondando la diversa distribuzione del peso corporeo. La semplicità delle forme e dei panneggi riflette una nuova armonia, mentre la cura riservata alla resa delle vene, delle arterie e dei muscoli è il risultato delle conquiste 392

della nuova scienza medica. La riflessione sull’uomo porta all’interesse per la raffigurazione dei caratteri, degli stati d’animo (Fig. 4.16), delle età mature (Fig. 4.18). È questo il clima culturale che vede nascere i grandi cicli scultorei di Olimpia e di Selinunte – che si legano al perfezionamento strutturale del tempio dorico – e le megalografie di Polignoto di Taso, «pittore di uomini»; è in questa temperie artistica che vengono portati a compimento gli studi sulla ponderazione e sulla resa del corpo in movimento nello spazio; è questo il periodo dei grandi bronzi a fusione cava e dei sontuosi donari nei santuari panellenici, non più espressione delle grandi famiglie dell’aristocrazia, ma del prestigio e della potenza delle poleis della Grecia e dell’Occidente.

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4.3 L’architettura sacra: rinnovamento, armonia e rigore geometrico Quando gli Ateniesi, dopo la vittoria di Platea (479 a.C.), tornano sull’Acropoli saccheggiata e distrutta dai Persiani, decidono di non ricostruire nulla, ma di lasciare ben visibili le tracce del sacrilegio compiuto dai barbari. Le sculture e gli ex voto, ormai inservibili, ma sacri in quanto dedicati agli dei, vengono seppelliti ritualmente e sottratti alla vista come fossero elementi di un corredo funebre; il culto di Atena, ora più che mai nume tutelare della polis e dell’Attica, continua con la parziale ricostruzione del vecchio tempio pisistratide, destinato a ospitare l’antichissimo simulacro ligneo della dea. Con il passare degli anni nuove opere arriveranno a sostituire quelle oltraggiate dai barbari, ma il programma architettonico resterà fermo fino al 447 a.C. quando Pericle, con il tesoro della Lega, darà il via alla ricostruzione dell’Acropoli e dei suoi templi (si veda par. 5.2). Per rinforzare le difese della città viene ricostruita frettolosamente da Temistocle la cinta muraria, utilizzando anche materiale di reimpiego (479 a.C.), e viene avviata la riorganizzazione del Pireo con la costruzione delle Lunghe Mura, che collegavano il porto ad Atene (460-445 a.C.), e con un nuovo piano regolatore affidato a Ippodamo di Mileto, famoso urbanista (si veda par. 5.3). Con il bottino dell’Eurimedonte (465 a.C.), Cimone ricostruisce i tratti rettilinei delle mura meridionali dell’Acropoli. Altri edifici utilitaristici vengono approntati nell’Agorà, mentre nella necropoli del Ceramico il sepolcro comune (demosion sema), destinato a onorare i caduti in guerra, vanifica l’esibizione dello status attraverso il monumento funerario cara ai gruppi aristocratici. Fermi i lavori ad Atene, l’architettura sacra della Grecia è rappresentata in questo 394

periodo dal grandioso tempio di Zeus a Olimpia, uno dei più grandi della Grecia continentale; l’edificio, notissimo anche nell’antichità, era ancora visibile in età romana perché Pausania, che visita il santuario nella seconda metà del secolo II d.C., ce ne ha lasciato un’accurata descrizione. Situato nella parte meridionale del temenos su un enorme stilobate (27,68 × 64,12 m), il tempio è dorico, periptero, 6 × 13 colonne, con un rapporto tra lati brevi e lati lunghi che diventerà canonico; la cella, dotata di pronao e opistodomo, è divisa in tre navate da due file di sette colonne ciascuna poste su doppio ordine (Fig. 4.1); come nel tempio di Egina il fitto colonnato dorico a due piani – necessario dal momento che la colonna dorica, per la sua stessa struttura, non può raggiungere altezze troppo elevate – ingombra lo spazio interno riducendo la navata centrale a un semplice corridoio, dove le statue di culto, che tendevano al monumentale, trovavano spazio a fatica. Nella parte terminale della cella rimangono infatti le tracce della base che sosteneva la statua crisoelefantina di Zeus, opera di Fidia. In elevato, il tempio, posto su un crepidoma di tre gradini, raggiungeva un’altezza complessiva di 20 m; il tetto a doppio spiovente era coperto da tegole di marmo, mentre il resto dell’edificio era in calcare conchiglifero locale, rivestito di stucco bianco; il colore (rosso, blu, nero) sottolineava le membrature architettoniche e le parti aggettanti della trabeazione (Fig. 4.2). Anche la complessa decorazione scultorea, in marmo pario, era completata dal colore e da inserti metallici (si veda par. 4.1). Come per il tempio di Aphaia a Egina, anche qui sono state messe in opera quelle correzioni ottiche volte ad alleggerire la pesantezza dell’ordine dorico: i fusti delle colonne hanno una leggera entasis (rigonfiamento) che ne attenua la rigidità; le colonne dei lati maggiori e le prime 395

due colonne su ciascun lato corto (cioè quella d’angolo e quella adiacente) hanno un’inclinazione verso l’interno di 60 mm. Il modulo, vale a dire l’unità di misura che è alla base dei rapporti fra le varie parti che compongono un edificio, è dato dall’interasse delle colonne, cioè dalla distanza, calcolata alla base, tra gli assi di due colonne vicine. Tutte le misure del tempio sono multipli e sottomultipli di questa misura. L’architetto, come ci ha tramandato Pausania, fu Libon, dell’Elide, la regione di Olimpia.

Fig. 4.1 Olimpia, il tempio di Zeus, pianta.

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Fig. 4.2 Olimpia, il tempio di Zeus, ricostruzione.

Il tempio di Zeus è datato sulla base di avvenimenti storici ben precisi. Pausania riporta infatti che l’edificio fu costruito con il bottino della vittoria degli Elei sulla città di Pisa, antica capitale della regione, che avvenne nel 472 a.C., e che sul frontone del tempio, come acroterio centrale, c’era una Nike dorata sotto la quale era appeso uno scudo d’oro dedicato dagli Spartani e dai loro alleati in seguito alla battaglia di Tanagra contro gli Ateniesi, che fu combattuta nel 457 a.C. È chiaro che lo scudo venne collocato quando il tempio era già finito, quindi se la vittoria su Pisa ci fornisce il termine post quem, la battaglia di Tanagra stabilisce il termine ante quem. Il tempio fu così costruito tra il 472 e il 457 a.C. Del tempio di Zeus si possono vedere a Olimpia solo le rovine dal momento che l’edificio fu abbattuto da un disastroso terremoto in età bizantina, nel secolo VI d.C.; rimangono in piedi solo pochi filari di blocchi appartenenti alla cella, mentre le colonne sono conservate in posizione di crollo; recentemente, in occasione delle Olimpiadi del 2004, è stata rialzata la colonna posta all’angolo nord-ovest della

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peristasi. Resta tutto il ciclo figurativo, considerato uno dei capisaldi dello stile severo (si veda par. 4.4.1). Per avere un’idea di come doveva presentarsi il tempio di Olimpia, occorre fare un rapido salto in Magna Grecia, a Poseidonia (Paestum, Salerno), dove intorno al 460 a.C. venne costruito un tempio molto simile a quello di Olimpia, benché di dimensioni leggermente inferiori e con variazioni tipiche dell’architettura dorica d’Occidente. Si tratta del cosiddetto tempio di Nettuno (Fig. 4.4), in realtà dedicato ad Apollo o a Zeus, che per le sue proporzioni pesanti e severe si avvicina alle tendenze stilistiche peloponnesiache, pur manifestando una propria autonomia nella scelta di una peristasi di 6 × 14 colonne che si discosta dal canone greco, ma diventerà canonica nei templi della Magna Grecia e della Sicilia, con poche eccezioni (Fig. 4.3). Come nel tempio di Olimpia, la cella è inserita in modo perfettamente simmetrico nella peristasi, completata dal pronao con due colonne tra le ante (le testate dei muri laterali della cella), al quale corrisponde l’opistodomo; alla cella si accede tramite una grande porta posta tra due muri che celano, secondo una prassi tipica dell’architettura dorica dell’Occidente, le scale per accedere al soffitto dell’edificio per le necessarie operazioni di manutenzione. L’interno della cella è diviso in tre navate da due file di sette colonne doriche ciascuna disposte su due ordini (Fig. 4.5); è un caso unico in Occidente, dove di norma la cella è libera da sostegni interni. Nell’alzato, si notano il restringimento degli interassi angolari e, lungo tutti i lati, leggerissimi spostamenti delle colonne rispetto al fregio che, come i frontoni, non comportava una decorazione scultorea.

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Fig. 4.3 Poseidonia, il tempio di Nettuno, pianta.

Fig. 4.4 Poseidonia, il tempio di Nettuno.

Aderisce al nuovo canone anche il tempio di Hera a Selinunte (tempio E), che tuttavia mantiene una pianta molto allungata, legata forse alla necessità religiosa di mantenere l’adyton – la piccola sala leggermente sopraelevata che comunica col fondo della cella – insieme all’adozione dell’opistodomo, che regolarizza la pianta della cella. La peristasi risulta quindi di 6 × 15 colonne, molto fitte e slanciate, compensate da una trabeazione particolarmente alta (Fig. 4.6). La cella è qui completamente libera, priva di colonnati interni. Il tempio era decorato, sul pronao e sull’opistodomo, quindi all’interno della peristasi come nel tempio di Olimpia, da metope scolpite con episodi 399

del mito che possono essere annoverate, per l’eleganza stilistica e le soluzioni adottate, tra i più notevoli esempi dello stile severo (Fig. 4.48). I templi dello stile severo delle colonie d’Occidente, meglio conservati di quelli della madrepatria, permettono di cogliere immediatamente le nuove norme dell’ordine dorico che si manifestano nella perfetta simmetria della cella, con l’opistodomo che corrisponde al pronao; nella cadenza regolare delle colonne della peristasi, che presentano ora un capitello più rigido per il taglio obliquo dell’echino; nella messa a punto del conflitto angolare, che l’architettura arcaica aveva già tentato di risolvere. Il problema del fregio dorico, composto dall’alternanza ritmica di metope e triglifi, è infatti dato dalla necessità di concludere il fregio con un triglifo, che viene così a cadere nell’angolo del tempio, ma non sull’asse della colonna corrispondente. In età arcaica il problema era risolto allargando la metopa angolare, ma rompendo così il ritmo geometrico del fregio; in età classica, l’esigenza di una maggiore simmetria, porta a contrarre leggermente l’ampiezza dell’ultimo intercolumnio, o dei due intercolumnii prossimi agli angoli, in modo che le metope risultino tutte di uguali dimensioni. Questi accorgimenti sono messi in opera anche nel cosiddetto tempio della Concordia di Agrigento – il nome è frutto dell’erudizione settecentesca – costruito intorno al 440 a.C.; nella peristasi, per rispondere alle contrazioni angolari imposte dal fregio dorico, le campate della facciata e, sui lati lunghi, delle colonne angolari, sono progressivamente ridotte di una decina di centimetri; una correzione che quasi non si coglie a occhio nudo (Fig. 4.7). Il tempio, che deve l’ottimo stato di conservazione al fatto di essere stato trasformato in chiesa cristiana alla fine del secolo VI d.C., ha pianta canonica con peristasi di 6 × 13

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colonne, cella con pronao e opistodomo e, presso l’ingresso, i piloni con le scale di accesso al tetto.

Fig. 4.5 Poseidonia, il tempio di Nettuno, interno.

L’architettura sacra della prima metà del V secolo tende quindi a costruire con caratteri più uniformi e razionali, basati sulla rigorosa applicazione di criteri di proporzione aritmetica; al centro della ricerca architettonica è la simmetria, il rapporto fra le parti e il tutto fondato su un’unità di misura, il modulo – in genere l’interasse normale – che si ritrova ovunque nell’edificio. Questo rigore matematico risulta estremamente congeniale all’ordine dorico, che si distingue per la geometria degli elementi compositivi. La sostanziale uniformità che si riscontra negli edifici templari a partire da questa epoca, ben esemplificata dai templi agrigentini della Concordia e di Giunone Lacinia, è il frutto della ricerca di un rapporto sempre più armonico tra le membrature architettoniche e il volume complessivo del tempio, studi che sottintendono un rapporto dialettico 401

tra le varie scuole; sappiamo che gli architetti greci erano autori di progetti e di trattati che venivano resi pubblici, dei quali abbiamo una eco nell’opera del romano Vitruvio, che, scrivendo in età augustea, ha modo di raccogliere tutte le tradizioni precedenti.

Fig. 4.6 Selinunte, Heraion (tempio E).

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Fig. 4.7 Agrigento, il tempio della Concordia.

Il tempio di Zeus di Olimpia si inquadra all’interno del vasto movimento di perfezionamento e di normalizzazione del tempio dorico che caratterizza il secondo quarto del V secolo; le analogie con le esperienze architettoniche magnogreche (Figg. 4.4, 4.5) e siceliote appaiono facilmente comprensibili alla luce degli stretti rapporti da sempre intercorsi tra il santuario panellenico e le colonie d’Occidente.

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4.4 Il santuario di Olimpia Il santuario di Olimpia è situato nella regione nordoccidentale del Peloponneso, nella parte meridionale dell’Elide, ai piedi del monte Kronion – così chiamato da Kronos, padre di Zeus – in una zona pianeggiante alla confluenza dei fiumi Alfeo e Cladeo (Fig. 4.8). I Greci chiamavano il santuario «Altis», che secondo l’etimologia riportata da Pausania deriva da alsos, bosco sacro. Come il santuario di Delfi, anche Olimpia era un santuario panellenico, punto di aggregazione di tutti i Greci. La località era infatti collegata a due antiche leggende, la saga di Pelope, eroe eponimo del Peloponneso, e l’istituzione dei giochi olimpici da parte di Eracle. Narra il mito che Enomao, re di Pisa, antica capitale dell’Elide, era stato avvertito da un oracolo che il genero sarebbe stato la causa della sua morte; il re aveva così promesso in sposa la figlia Ippodamia solo a chi l’avesse vinto nella corsa della quadriga. Il pretendente aveva il diritto di partire per primo, mentre Enomao saliva sul carro solo dopo aver sacrificato a Zeus Areios; se il re riusciva a raggiungere il giovane, cosa che sempre avveniva, aveva il diritto di ucciderlo, trafiggendolo con la lancia. L’unico che riesce a sconfiggere Enomao è Pelope, figlio di Tantalo, con i cavalli alati regalatigli da Posidone, dio del mare, o, secondo un’altra tradizione, per aver corrotto l’auriga del re. Sconfitto Enomao, che si uccide, Pelope ne sposa la figlia e diventa re di Pisa.

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Fig. 4.8 Il santuario di Olimpia, pianta.

Sempre secondo la tradizione, i giochi in onore di Pelope, le future Olimpiadi, sarebbero stati istituiti da Eracle che portò con sé, dal paese degli Iperborei, l’olivo, sacro a Zeus, con il quale si incoronavano i vincitori. La tomba di Pelope, il Pelopion, al centro dell’Altis, era il punto di partenza delle gare prima della costruzione dello stadio. In realtà le Olimpiadi iniziano nel 776 a.C. con un trattato tra Ifito, re dell’Elide, e Licurgo, re di Sparta, che introdussero per tutta la durata dei giochi, che si svolgevano ogni quattro anni, la tregua sacra; da questo momento vengono tramandate, anno per anno, le liste dei vincitori, molti dei quali venivano dalle città della Magna Grecia e della Sicilia. È probabile che le gare più antiche siano state effettivamente le corse di carri, sul modello omerico, come appare dalle statuette di bronzo raffiguranti cavalli e carri offerte dall’aristocrazia equestre interessata ai giochi (Figg. 405

1.38, 1.39); successivamente furono introdotti la corsa a piedi, la lotta e il pugilato, le varie gare ippiche, gli agoni poetici e musicali. Come premio i vincitori ricevevano una corona d’ulivo e il diritto di offrire un donario o una statua nel santuario e nella propria patria.

Fig. 4.9 Il santuario di Olimpia, ricostruzione.

Come avviene in genere per i santuari greci, anche il santuario di Olimpia ha una monumentalizzazione graduale che culmina nei secoli V e IV a.C. per poi riprendere in età romana (Fig. 4.9). La fase più antica (secoli X-VIII a.C.) è testimoniata prevalentemente dalle offerte di ceramiche, di tripodi e di statuette di terracotta e di bronzo (si veda cap. 1); il fulcro del santuario sembra essere stato il culto eroico di Pelope celebrato nel Pelopion, presso il quale era ancora visibile all’epoca di Pausania una colonna di legno dell’antica casa del re Enomao. Come a Dodona, il culto di Zeus era celebrato all’aperto su un altare innalzato con le ceneri dei sacrifici. Il primo edificio monumentale del santuario è il tempio di Hera, alle pendici del monte Kronion, della fine del secolo VII (si veda par. 2.2.1). Nel secolo successivo viene occupata progressivamente con i tesori delle città alleate la lunga terrazza posta a est del tempio, mentre al di fuori del temenos vengono costruiti i primi edifici civili, riservati 406

all’amministrazione del santuario, come il Bouleuterion. Solo nel secondo quarto del V secolo, come si è visto (par. 4.3), con il bottino della vittoria su Pisa (472 a.C.), viene costruito il tempio di Zeus, che ospita il ciclo figurativo più importante di tutto il santuario. Nella seconda metà del secolo il tempio viene completato con la dedica della statua di culto, crisoelefantina, opera di Fidia: «Il dio siede su un trono d’oro e d’avorio. Sulla testa poggia una corona che imita i ramoscelli d’ulivo. Nella destra porta una Vittoria, anch’essa d’oro e d’avorio. Nella sinistra il dio tiene uno scettro ornato con ogni genere di metalli e l’uccello posato sullo scettro è un’aquila. I calzari sono anch’essi d’oro, così come la veste, sulla quale sono intessute figure di animali e fiori di giglio. Il trono è adorno di oro e di pietre preziose, oltre che di ebano e avorio. Su di esso sono dipinte figure e scolpite immagini» (Pausania, V, 11).

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Fig. 4.10 Il santuario di Olimpia, veduta aerea; in primo piano il Leonidaion. (tav. 26)

L’officina di Fidia, costruita in asse e secondo le proporzioni della cella del tempio di Zeus, è ancora conservata al di fuori dell’Altis, nel settore occidentale riservato agli impianti sportivi e agli stabilimenti termali, grazie alla trasformazione in chiesa in età bizantina, nel secolo V d.C. Nel secolo IV a.C. l’area interna al temenos, già ricca di donari e di statue, viene regolarizzata con la costruzione, davanti alla terrazza dei Tesori, del Metroon, tempio della dea Madre, e di un lungo portico, la stoà di Eco, che chiude a est l’Altis separandolo dallo stadio. Fuori dall’Altis intorno al 330 a.C. viene costruito il Leonidaion, dal nome del donatore Leonida di Nasso, grande albergo con portico 408

esterno e cortile centrale (Fig. 4.10). In età ellenistica ricevono una sistemazione monumentale gli impianti sportivi, la palestra e il ginnasio, mentre nel 338 a.C., nel settore occidentale dell’Altis e non a caso presso l’antico Pelopion, viene costruito a forma di tholos l’heroon della dinastia macedone, il Philippeion. La ripresa edilizia si avrà poi in età romana con l’allargamento del temenos, dotato ora di porte monumentali, e con la costruzione di una scenografica fontana, il ninfeo di Erode Attico (160 d.C.), tra l’Heraion e la terrazza dei Tesori. Il santuario continuerà a vivere con alterne vicende fino a quando l’Editto di Teodosio, nel 394 d.C., con l’abolizione delle Olimpiadi e dei culti pagani, porterà alla chiusura e all’abbandono del sacro temenos. 4.4.1 … e il ciclo figurativo del tempio di Zeus

Il tempio di Zeus era celebre nell’antichità non solo per la grandiosità delle proporzioni e per l’eleganza e il rigore dell’ordine dorico, ma anche per il complesso ciclo scultoreo, in marmo pario, che appare strettamente legato sia alla realtà locale, sia al particolare momento storico, che abbiamo visto contrassegnato dall’inarrestabile ascesa di Atene (si veda par. 4.1). Sono decorate le metope del pronao e dell’opistodomo, in tutto dodici, e i frontoni; erano invece lisce le metope della peristasi. Considerando che il tempio, iniziato dopo il 472, era già terminato nel 457 a.C., al tempo della vittoria spartana a Tanagra (si veda par. 4.3), è probabile che le sculture siano state messe in opera poco tempo prima, intorno al 460 a.C. Sono state sicuramente sistemate prima le metope, scolpite a terra per via del forte rilievo, che raggiunge i 30 cm, e poi collocate sei sul pronao e sei sull’opistodomo, quindi all’interno della peristasi, prima del completamento della trabeazione. 409

Le metope (1,60 × 1,50 m) hanno un unico tema, le dodici fatiche di Eracle, che si prestano a essere illustrate singolarmente nei riquadri metopali, appunto dodici; nella scelta del soggetto è palese il riferimento cultuale al tempio – Eracle è figlio di Zeus – e al santuario che è sede dei giochi istituiti dall’eroe a ricordo delle fatiche (athla), sostenute per espiare le sue colpe (l’uccisione della moglie e del figlio) ed essere riammesso al cospetto degli dei. Ciascuna delle metope raffigura la prova come ormai compiuta, o prossima al compimento; Pausania ne descrive i singoli soggetti partendo dal lato orientale e procedendo da sinistra a destra; sul lato orientale sono raffigurati: la cattura del cinghiale di Erimanto; la cattura delle cavalle di Diomede, re di Tracia; Eracle e Gerione; Eracle e i pomi delle Esperidi; la cattura di Cerbero, cane infernale; la pulizia delle stalle di Augia, re dell’Elide (Fig. 4.11); sul lato occidentale: la cattura del leone di Nemea, della cui pelle Eracle si riveste, che secondo i mitografi alessandrini è la prima fatica dell’eroe; l’uccisione dell’Idra di Lerna; Eracle e gli uccelli stinfalidi; Eracle e il toro di Creta; la cattura della cerva di Cerinto; la conquista del cinto di Ippolita, regina delle Amazzoni (Fig. 4.12).

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Fig. 4.11 Olimpia, tempio di Zeus, le metope, ricostruzione del lato orientale.

È stato notato che sia la figura dell’eroe, sia quella di Atena, che in quattro metope lo affianca (Figg. 4.11, 4 e 6; 4.12, 7 e 9), sembrano subire nel corso degli episodi un’evoluzione psicologica e formale: Eracle passa dall’atteggiamento d’incertezza e di meditazione della prima metopa (leone di Nemea) all’atteggiamento deciso ed eroico delle metope successive; anche Atena, dall’aspetto giovanile nella prima metopa, sembra avviarsi man mano a una maturità sempre maggiore.

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Fig. 4.12 Olimpia, tempio di Zeus, le metope, ricostruzione del lato occidentale.

Fig. 4.13 Olimpia, tempio di Zeus, metopa con Eracle e gli uccelli Stinfalidi. Parigi, Louvre; Olimpia, Museo

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Archeologico.

Fig. 4.14 Olimpia, tempio di Zeus, metopa con Eracle e le stalle di Augias. Olimpia, Museo Archeologico.

Nella metopa degli uccelli stinfalidi (Fig. 4.13), la dea è ancora una fanciulla, benché rechi già l’egida; la pettinatura a calotta è ondulata sulla fronte; la superficie liscia presuppone l’uso del colore. Anche in questo caso lo scultore ha scelto di raffigurare la conclusione dell’episodio: l’eroe ha già ucciso con le frecce gli uccelli antropofagi dal becco e dagli artigli di bronzo che infestavano la palude del lago Stinfalo, in Arcadia, e porge un uccello ad Atena, seduta su una roccia. L’eroe, stante, ha l’arco nella mano sinistra e un uccello nella destra; entrambi gli attributi erano in bronzo, come ricorda Pausania; la figura dell’eroe, dall’aspetto severo, maturo e solenne, richiama alcune raffigurazioni coeve a figure rosse, come l’Eracle del Pittore dei Niobidi (Fig. 4.68b). Nella fatica imposta da Augia, re dell’Elide, Eracle devia il corso del fiume Alfeo per purificare le stalle del sovrano, che non erano mai state pulite; qui l’eroe è colto mentre sta pulendo o mentre sta rompendo le pareti per fare entrare 413

l’acqua; Atena appare in tutta la sua potenza, completamente armata e vestita con un peplo cinto che accentua la sua imponenza con la caduta delle pieghe a canne d’organo (Fig. 4.14); la presenza della dea accanto a Eracle non è più quella di una semplice spettatrice, ma di una compagna, partecipe dell’azione. Lo schema compositivo affianca la verticalità di Atena alla diagonale di Eracle; la lancia della dea forma con la figura dell’eroe uno schema incrociato. A tempio ultimato, sono state posizionate all’interno del timpano le sculture frontonali, che occupavano uno spazio di 26 m di lunghezza, con un’altezza massima di 3,50 m; considerando che la profondità disponibile era di 1,01 m a est e di 0,90 m a ovest, solo la parte frontale, visibile, delle figure è stata scolpita interamente; il retro delle statue non è rifinito, ma solo lisciato. Tutte le sculture sono state rinvenute non in situ, ma in ordine sparso, utilizzate come materiale di reimpiego nel villaggio costruito in età bizantina sulle rovine del santuario; la loro attuale disposizione è frutto di una lunga serie di studi e di proposte, formulate avendo come base la descrizione di Pausania.

Fig. 4.15 Olimpia, tempio di Zeus, frontone est, ricostruzione (la disposizione delle figure E e J non rispecchia la disposizione attuale, si veda Fig 4.16a)

Il frontone est, corrispondente all’ingresso del tempio, raffigurava la saga dell’eroe locale, Pelope (Fig. 4.15). Lo scultore sceglie di rappresentare il momento che precede la gara vera e propria tra il giovane ed Enomao: i preparativi sono portati a termine, la gara fatale deve ormai aver luogo, l’oracolo, di cui ogni spettatore è ben conscio, avrà il suo 414

tragico compimento. La tensione è massima. I personaggi si presentano come su un palcoscenico. Al centro è Zeus, secondo il principio, già visto nei frontoni di Egina, di collocare al centro del timpano il dio, invisibile, che qui rappresenta il destino, il fato incombente e inevitabile, come nelle tragedie di Eschilo (Fig. 4.16 a,b). Il dio è stante (h originale 3,15 m), la testa rivolta verso la sua destra, come si ricava dalla tensione dei muscoli del collo, la gamba destra poggiata a terra, la sinistra leggermente piegata; questa flessione determina la contrazione del fianco opposto, così che la linea alba si trova spostata per sottolineare l’assecondamento del busto rispetto al movimento impressogli dalle gambe. Il torso è nudo, mentre la parte inferiore del corpo è avvolta nel mantello; la mano destra doveva reggere un fascio di fulmini, la sinistra trattiene un lembo del mantello. Il nudo è sintetico ed essenziale, il panneggio sottolineato da poche pieghe pesanti, pastose: è caratteristico dello stile severo concepire la figura come qualcosa di autonomo, che vive per se stessa, con una forza vitale intrinseca.

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Fig. 4.16 a,b Olimpia, tempio di Zeus, frontone est, gruppo centrale. Olimpia, Museo Archeologico.

Fig. 4.17 Olimpia, tempio di Zeus, frontone est, Ippodamia e ancella. Olimpia, Museo Archeologico.

Ai lati del dio, le coppie formate da Pelope e Ippodamia – collocati secondo la ricostruzione attuale sulla destra di 416

Zeus, rispetto a chi guarda – e da Enomao e la moglie Sterope. Il re dell’Elide, barbato, ha la bocca socchiusa che lascia intravedere i denti, espediente per rendere il dolore o, come in questo caso, la crudeltà (Fig. 4.16b). Delle due donne, si tende attualmente a identificare come Ippodamia la peplophoros (Fig. 4.17), colta nell’atto di togliersi il velo dal capo (anakalypteria); nell’iconografia greca questo gesto è legato alle nozze e alle raffigurazioni nuziali. La fanciulla indossa un peplo dorico, stretto alla vita da una cintura, che forma sul busto un ampio risvolto a pieghe rade e larghe, e cade sulle gambe con pieghe pesanti e profonde a canne d’organo. Sterope indossa invece un peplo sciolto con gioco di pieghe più movimentato e ricco contrasto chiaroscurale (Fig. 4.19). Presso Ippodamia è una figura inginocchiata, interpretata come un’ancella (Fig. 4.17); il peplo cade con una serie di pieghe pesanti, ma morbide e pastose, che assecondano la posizione piegata della figura. Seguono, nell’ala destra del timpano, la quadriga e una figura di vecchio (Fig. 4.18), interpretato come un indovino e connotato realisticamente per le pieghe della carne sotto i pettorali, che doveva reggersi con la mano sinistra a un bastone, mentre porta la destra alla guancia barbata con un gesto che esprime angoscia, dolore, tormento; seguono ancora un giovane accovacciato e un personaggio sdraiato, che emerge dal proprio mantello con un avvitamento del torso, proteso verso quanto avviene al centro della scena, che raffigura il fiume Cladeo. Figure analoghe compaiono nell’ala sinistra del timpano, uno stalliere, la quadriga, l’auriga, ancora un indovino e la personificazione dell’Alfeo, anch’egli rivolto verso i personaggi del dramma.

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Fig. 4.18 Olimpia, tempio di Zeus, frontone est, indovino. Olimpia, Museo Archeologico.

Fig. 4.19 Olimpia, tempio di Zeus, frontone est, Sterope. Olimpia, Museo Archeologico.

Sul frontone occidentale è rappresentata la lotta tra i Lapiti e i Centauri durante le nozze di Piritoo (Fig. 4.20). Il mito narra che i Centauri presero parte ai festeggiamenti per le nozze tra Piritoo e Deidamia, figlia del re dei Lapiti, mitico popolo della Tessaglia; inebriati dal vino, rompendo ogni legge, assalirono la sposa e le altre donne presenti; ma questo provocò l’altrettanto violenta reazione dei Lapiti, 418

guidati da Piritoo e dall’amico di questi, Teseo, re di Atene, testimone di nozze; l’ordine divino sarà ristabilito con la strage degli empi. Al centro del frontone è ancora una volta un dio, Apollo, stante, nudo, con il braccio destro proteso e il sinistro abbassato a reggere l’arco, in origine di bronzo (Fig. 4.21); il mantello, gettato sulla spalla destra, scivola lungo la schiena, si attorciglia intorno all’avambraccio sinistro per cadere fino a terra, controbilanciando l’apertura del braccio destro: un gesto fermo, sicuro, che significa la volontà di ristabilire la quiete frenando la violenza dei Centauri. La testa, rivolta decisamente verso destra, ha mento rotondo, robusto, fortemente pronunciato, caratteristico dello stile severo, e la tipica acconciatura, già notata per l’Efebo biondo (Fig. 3.67), con la treccia che gira intorno al capo, nascosta sulla fronte dalla spessa frangia di riccioli; la lavorazione fortemente chiaroscurale di questi ultimi, realizzata con il trapano a mano, è una caratteristica dello scultore che si ritrova in altre figure del frontone (Figg. 4.17, 4.18). La presenza di Apollo, dio oracolare per eccellenza, è stata collegata all’autorità delle locali stirpi di indovini, attivi soprattutto in occasione di eventi bellici; anche il culto di Zeus sembra avere a Olimpia una connotazione guerresca, come appare dalla dedica di armi, di statue di Nikai, di monumenti commemorativi di vittorie militari.

Fig. 4.20 Olimpia, tempio di Zeus, frontone ovest, ricostruzione.

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Fig. 4.21 Olimpia, tempio di Zeus, frontone ovest, Apollo. Olimpia, Museo Archeologico.

Ai lati di Apollo (Fig. 4.20), in posizione divergente, Piritoo a destra, la spada alzata, e Teseo, a sinistra, in rapido movimento verso destra, le braccia alzate a reggere la doppia ascia, la gamba sinistra avanzata sulla quale si avvolge l’himation che, nell’impeto dell’azione, scivola verso terra; le figure, conservate in frammenti, sono il nodo iniziale dal quale il movimento si propaga lungo le due ali del frontone; lo schema schiena contro schiena richiama quello dei Tirannicidi (Fig. 4.33). Le altre figure sono distribuite in gruppi di tre; in ciascun gruppo un centauro afferra con violenza una Lapitessa: è il compimento dell’imperdonabile peccato. Ma, in ciascun gruppo, un eroe già si lancia contro il mostro, che sta per essere sopraffatto: implacabile è la punizione degli dei. A sinistra di Piritoo (rispetto allo spettatore) Eurizione – re dei Centauri, riconoscibile per i fori sul capo, che indicano la 420

presenza di una corona metallica – tenta di rapire Deidamia mentre Piritoo accorre in aiuto (Fig. 4.22). Il centauro prende alla vita la sposa, mentre con la mano sinistra le afferra il seno; Deidamia cerca a sua volta di strappare con le sue mani le mani del centauro dando contemporaneamente con il braccio sinistro una gomitata al suo assalitore, che piega la testa in una smorfia di dolore.

Fig. 4.22 Olimpia, tempio di Zeus, frontone ovest, Eurizione e Deidamia. Olimpia, Museo Archeologico.

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Fig. 4.23 Olimpia, tempio di Zeus, frontone ovest, lapitessa presa per i capelli. Olimpia, Museo Archeologico.

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Fig. 4.24 Olimpia, tempio di Zeus, frontone ovest, il gruppo del «morditore». Olimpia, Museo Archeologico.

La sposa guarda fisso davanti a sé, la testa appena chinata, la bocca socchiusa a esprimere lo smarrimento, la paura, un senso di pudore; il capo rifugge da qualsiasi preziosismo calligrafico: i capelli, a massa compatta, sono raccolti da un’alta fascia che gira tre volte intorno alla testa (mitra) e che un tempo doveva essere sottolineata dal colore. Poco distante, dopo un gruppo, molto rovinato, formato da un centauro e da un giovane lapita, è un terzo gruppo, simile al corrispondente dell’ala destra (Fig. 4.26), formato da un centauro che, caduto in ginocchio, si puntella sulla zampa destra, la sinistra piegata, e tenta di rapire una lapitessa afferrandola per i capelli, mentre un lapita lo assale e cerca di tirarlo verso di sé con entrambe le braccia. La lapitessa (Fig. 4.23), la testa reclinata in avanti, ha la bocca semiaperta per esprimere dolore; i capelli scomposti ricadono in ciocche ondulate; il peplo ha le pieghe rade e pastose che seguono il ritmo del corpo come nell’ancella del frontone orientale (Fig. 4.17).

Fig. 4.25 Olimpia, tempio di Zeus, frontone ovest, lapitessa, centauro e lapita. Olimpia, Museo Archeologico.

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Fig. 4.26 Olimpia, tempio di Zeus, frontone ovest, lapita e centauro che afferra per i capelli una lapitessa. Olimpia, Museo Archeologico.

Nell’ala destra, dopo la figura di Teseo e il gruppo formato da un centauro e una lapitessa, è il noto gruppo del «morditore» (Fig. 4.24): un lapita assale alle spalle un centauro, passandogli il braccio intorno al collo per strangolarlo, il centauro si difende mordendo il braccio del suo rivale. Il lapita insiste sulla gamba sinistra mentre porta la destra in avanti; nell’impeto, il mantello scivola e si attorciglia intorno alla gamba sinistra con larghe pieghe. Il centauro è inginocchiato a terra; il volto è fortemente caratterizzato con rughe profonde, fronte aggrottata, barba e capelli folti. Come negli altri gruppi del frontone, anche qui il contrasto delle forze in direzione opposta è evidente. Presenta una struttura complessa anche il terzo gruppo, formato da un centauro che, caduto sulle zampe anteriori, inarca la groppa mentre afferra con una mano la vita e con l’altra la caviglia di una lapitessa (Fig. 4.25); quest’ultima, per sottrarsi all’assalitore, tende il corpo in direzione opposta e cerca di liberarsi con entrambe le mani mentre il vestito scivola scoprendo un seno; contemporaneamente irrompe dalla parte opposta un lapita che con il braccio sinistro (mancante) doveva cercare di afferrare la testa del 424

centauro, mentre con il destro gli conficca un pugnale nel petto. La posizione dinamica del lapita esalta la muscolatura del torace, contratta nello sforzo, mentre il mantello scivola ai suoi piedi in una fitta serie di pieghe. Le statue angolari, un giovane e una vecchia lapitessa, sono rivolte, come già l’Alfeo e il Cladeo del frontone est, verso il centro della scena. In questo modo, perfezionando lo schema già adottato nel frontone orientale di Egina (Fig. 3.71a), tutti i personaggi partecipano alla narrazione: il movimento, imposto dalle figure, in diagonale, di Teseo e di Piritoo, si propaga dal centro verso gli angoli e da questi rimbalza verso il centro, ancora occupato da una figura assiale, quella di Apollo. Un programma figurativo così complesso presuppone una committenza di alta cultura che va cercata all’interno dell’aristocrazia e delle grandi famiglie sacerdotali di Olimpia che si servono del mito per trasmettere i valori tradizionali della civiltà greca: come recita il coro nell’Antigone di Sofocle (vv. 369-375), l’uomo che rispetta le leggi della patria e del cielo sarà grande nella sua città, ma se l’orgoglio lo spingerà al male, provocherà la sua rovina e sarà messo al bando. Così il frontone ovest, con il combattimento tra i Lapiti e i Centauri, mette in scena l’ineluttabile punizione di chi non rispetta le norme del vivere comune; parimenti il frontone est, con la contesa tra Pelope ed Enomao, sottolinea come non si sfugga al fato. Solo le metope con Eracle che lotta contro mostri, giganti e popoli barbari mostrano una possibilità di redenzione attraverso le grandi prove imposte dagli dei. La presenza di Atena, a fianco dell’eroe, come quella di Teseo, mitico autore del sinecismo in Attica, a fianco di Piritoo, potrebbero anche sottintendere un tacito omaggio ad Atene, vincitrice dei Persiani. 425

Si è molto discusso anche sulla paternità delle sculture che certamente, per l’organicità del progetto e dell’esecuzione, sono da riferire a un unico ideatore, al quale è stato attribuito, in assenza di indicazioni puntuali da parte delle fonti antiche, il nome generico di Maestro di Olimpia; questa denominazione è stata prudentemente mantenuta nella letteratura archeologica. Di recente, alcuni studi hanno proposto o riproposto varie identificazioni con i nomi di scultori tramandatici dalle fonti letterarie, per esempio, Agheladas di Argo, ipotesi destinate però a rimanere tali. Anche l’identificazione di Pausania, che, descrivendo i frontoni, fornisce due diverse attribuzioni, è generalmente rigettata dalla critica moderna. Il Periegeta attribuisce infatti il frontone orientale a Paionios di Mende – in realtà autore degli acroteri e della famosa Nike posta davanti al tempio su un’alta base triangolare (Figg. 5.62, 5.63) – e quello occidentale ad Alcamene, entrambi scultori della cerchia fidiaca, quindi decisamente posteriori all’epoca delle sculture frontonali, considerate tra le più alte espressioni dello stile severo. Il Maestro di Olimpia, che certamente doveva essere un personaggio molto noto ai suoi tempi per avere ricevuto una commissione così importante, resta comunque una delle personalità più affascinanti dell’arte greca per l’unità stilistica del suo ciclo scultoreo e per i toni innovativi legati alla raffigurazione degli stati d’animo, una ricerca espressiva che verrà presto abbandonata in favore di una forma artistica più contenuta e ripresa solo dagli scultori del secolo successivo.

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4.5 La scultura, ponderazione e movimento Lo stile severo porta a compimento, nel breve spazio di una generazione, sia i problemi legati alla rappresentazione di figure stanti, sia quelli legati al movimento del corpo nello spazio. Come si è avuto modo di vedere, entrambe le problematiche erano già ben presenti agli scultori tardoarcaici, se pensiamo ai frontoni di Egina, o a statue come l’Efebo biondo e l’Efebo di Kritios (si vedano parr. 3.5, 3.6). 4.5.1 Alla ricerca di un nuovo equilibrio

Nell’Efebo di Kritios, di poco anteriore al 480 a.C. (Fig. 3.68), il caricamento del peso sulla gamba sinistra e l’alleggerimento della destra, con il conseguente movimento dei fianchi, suggerivano l’idea di una figura animata. L’abbandono della posizione rigidamente assiale, con il peso del corpo ripartito in egual misura su entrambe le gambe – che aveva caratterizzato tutti i kouroi arcaici, dai colossi di Capo Sounion (Fig. 3.28), al Kroisos (Fig. 3.34), all’Aristodikos (Fig. 3.63) – introduce un ritmo nuovo che si adegua completamente alle leggi di gravità e coinvolge tutte le membra. Anche la figura stante è percorsa da un’impercettibile vibrazione che sembra emergere dal di dentro e a questa armonia contribuisce la nuova sensibilità verso superfici ampie e luminose, morbidi passaggi di piani, modellato più plastico e sfumato. Questo nuovo equilibrio delle membra e dei volumi del corpo, che prende il nome di ponderazione, emerge in tutte le opere della generazione dello stile severo, come abbiamo già avuto modo di notare a proposito delle sculture del tempio di Zeus di Olimpia (par. 4.4.1, Figg. 4.13, 4.16b), che sono tra i pochi originali del periodo a noi pervenuti. 427

La perdita quasi totale della statuaria di bronzo, che era il genere preferito dai grandi maestri dello stile severo, ma è anche soggetta, più di quella in marmo, a fenomeni di corrosione e di deterioramento, o a essere rifusa e riutilizzata nel corso dei secoli per il valore intrinseco del metallo, ci obbliga infatti a studiare su un ridotto numero di originali e su un più ampio numero di copie e di rielaborazioni di età romana. Se la trattatistica antica ci ha lasciato molte informazioni su scultori e pittori dello stile severo, è anche vero che parecchi autori restano per noi solo dei nomi e molte opere sono spesso anonime, nonostante alcune proposte di attribuzione siano state fatte proprio in questi ultimi tempi, come si è visto a proposito del Maestro di Olimpia (par. 4.4.1). Tra gli originali, un bronzetto di atleta rinvenuto ad Adrano, nella Sicilia orientale, mostra, nella costruzione della figura, tutte le possibilità del nuovo ritmo (Fig. 4.27): la gamba destra sostiene il peso del corpo che si contrae lungo lo stesso lato, inclinandosi leggermente per assecondare l’ampia apertura del braccio che offriva una patera, ora perduta; anche la testa, abbassata per seguire con lo sguardo il gesto, si volge decisamente verso destra; la pettinatura liscia a calotta, essenziale, sottolinea la rottura radicale con il passato. Il piede sinistro, alleggerito dal peso, è spostato di poco lateralmente mentre il braccio corrispondente è scostato dal corpo; la mano doveva reggere, probabilmente, la palma della vittoria, o, secondo altre letture, un’oinochoe. Nonostante le modeste dimensioni della statua (h 19,5 cm) la muscolatura è ben articolata e coordinata ai movimenti degli arti; la ponderazione riesce a imporre un movimento armonico alla figura benché essa sia stante, tutta assorta nel gesto di offerta. Questa piccola opera di grande effetto, datata tra il 470 e il 460 a.C., potrebbe essere l’eco di una grande scuola, 428

quale quella di Pitagora di Reggio, autore di statue di atleti nel santuario di Olimpia, uno degli scultori più ricordati dalle fonti antiche che gli attribuiscono una particolare cura nella resa dei tendini e delle vene, la cui figura resta però a tutt’oggi ancora sfuggente per la mancanza di almeno un’opera firmata e quindi sicuramente attribuibile.

Fig. 4.27 Statuetta di atleta, da Adrano (Siracusa). Siracusa, Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi.

Tra le copie di originali in bronzo, l’Apollo di Kassel, così chiamato dalla località dove è conservata la replica più completa – la Collezione d’Antichità (Antikensammlung) di Kassel, in Germania – mostra anche nelle spalle un movimento curvilineo che asseconda quello del bacino (Fig. 4.28). Il dio insiste sulla gamba sinistra mentre la destra è 429

flessa, il piede di poco spostato lateralmente in avanti; il bacino è contratto in corrispondenza della gamba portante, mentre tutto il lato destro è più aperto e sciolto, con la spalla leggermente sollevata e il braccio scostato; la testa si volge verso la mano sinistra protesa a reggere l’arco. La statua è infatti concordemente identificata con l’Apollo Parnopios di Fidia (Fig. 4.29), «sterminatore di cavallette», dedicato dagli Ateniesi sull’Acropoli di Atene nella sua qualità di dio protettore dai grandi flagelli naturali, e puntualmente descritto da Pausania. Risale alla stessa epoca, intorno al 460-450 a.C., uno dei due grandi bronzi (h 1,98 m) rinvenuti in mare al largo di Capo Riace, in Calabria, nel 1972, e precisamente quello convenzionalmente contrassegnato dalla lettera A, che rappresenta un personaggio maturo, barbato, dai capelli sciolti in riccioli trattenuti da una benda, la bocca socchiusa a mostrare i denti, inseriti in argento (Fig. 4.30). La ponderazione è prossima a quella dell’Apollo di Kassel: la gamba destra portante, la sinistra libera e flessa con il piede avanzato e girato, il tallone posato al suolo; le spalle orizzontali, la testa girata verso destra; il braccio sinistro piegato a impugnare lo scudo, ora mancante; la mano destra abbassata a portare una lancia. Il corpo muscoloso, elastico, rivela un’anatomia estremamente dettagliata, tipica dello stile severo, che mette in risalto le fasce muscolari, la struttura ossea, le vene che corrono sotto la pelle.

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Fig. 4.28 Statua di Apollo. Kassel, Antikensammlung.

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Fig. 4.29 Apollo Parnopios, Fidia, ricostruzione. (tav. 28)

Questa statua viene solitamente confrontata con l’altro bronzo rinvenuto a Riace, che presenta un’analoga postura, ma un diverso ritmo, indicativo di uno scarto cronologico tra le due opere di una trentina d’anni, vale a dire di una generazione. Nel Riace B (Fig. 4.31), che raffigura un guerriero con scudo, lancia ed elmo, il lato destro del corpo, corrispondente alla gamba portante, è infatti decisamente contratto con il conseguente abbassamento della spalla; il movimento impresso al bacino provoca un ritmo sinuoso che percorre tutto il corpo spostando leggermente la cassa toracica verso sinistra e curvando la linea verticale che separa i muscoli del torace (linea alba). Questo nuovo ritmo, che riflette le ricerche di Policleto (si veda par. 5.4.2), fa propendere per una datazione verso il 430 a.C. 432

Fin dall’epoca del ritrovamento le due statue di bronzo hanno provocato un intenso dibattito, a dir il vero non ancora concluso. Si è discusso sull’attribuzione, sull’identità dei personaggi raffigurati e sulla possibile collocazione delle statue che, in ragione della provenienza, si trovavano verosimilmente su una nave partita dalla Grecia e diretta a Roma; è quindi probabile che i due bronzi appartenessero a uno dei grandi donari dei santuari panellenici, dai quali i Romani, almeno fino all’epoca di Nerone, sottraevano statue e opere d’arte per ornare le piazze e i monumenti dell’Urbe. Se le differenze stilistiche hanno dimostrato che le due statue non sono contemporanee e vanno quindi attribuite a due diverse botteghe, anche le analisi delle terre di fusione avrebbero confermato che i bronzi sono stati prodotti in luoghi diversi: il Riace A ad Argo, il B ad Atene.

Fig. 4.30

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Statua di guerriero (Riace A), dal largo di Capo Riace. Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 4.31 Statua di guerriero (Riace B), dal largo di Capo Riace. Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale.

Tali indicazioni hanno portato recentemente ad attribuire la statua A ad Agheladas di Argo, famoso bronzista argivo ricordato dagli antichi scrittori, e la statua B ad Alcamene, ateniese, contemporaneo di Fidia (Moreno); entrambi gli scultori erano stati tirati in causa anche per le sculture frontonali di Olimpia. Sempre nel tentativo di attribuire una paternità ai due Riace sono stati fatti anche i nomi di Onatas di Egina, di Calamide, di Pitagora di Reggio, del giovane Fidia, insomma di tutti i principali scultori dello stile severo, all’interno di un dibattito che sembra non avere mai fine, data la mancanza di confronti firmati. I due personaggi sono stati inoltre interpretati come eroi eponimi, con possibile collocazione sul monumento degli eroi eponimi dell’Agorà 434

di Atene, come atleti, nel caso specifico oplitodromi, o chiamando in causa di volta in volta personaggi dell’epos e del mito. Le due statue, che risultano ai nostri occhi del tutto eccezionali, ma dovevano essere alla loro epoca abbastanza comuni, sono comunque una preziosa testimonianza di quella ricerca di organicità e di armonia che caratterizza, in questo periodo, la plastica greca e della tendenza a costruire dei corpi perfetti, nei quali l’osservazione della natura si unisce al calcolo matematico. Dal punto di vista tecnico, il getto in più parti e la perfezione delle giunture, il raffinato trattamento delle superfici, le rifiniture accurate, dimostrano l’alto livello raggiunto dai bronzisti greci nella fusione cava.

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Fig. 4.32 a,b Auriga, da Delfi. Delfi, Museo Archeologico.

Un’altra celeberrima statua di bronzo, l’Auriga di Delfi, è giunta fino ai nostri giorni perché fu sepolta nel 373 a. C. da un disastroso terremoto; la statua doveva trovarsi sulla terrazza che sovrasta il tempio di Apollo, a fianco del teatro, dove furono rinvenuti nel 1896 frammenti di una quadriga in bronzo e di una base che recava la dedica di Polyzalos, tiranno di Gela, in Sicilia, del potente ghenos dei Dinomenidi; mentre della quadriga si conservano pochi frammenti (tre gambe di cavalli, una coda, un braccio di adolescente), la statua dell’Auriga è completa, priva soltanto del braccio sinistro (Fig. 4.32 a,b). Il giovane veste una lunga tunica, stretta alla vita da una cintura, che nasconde completamente il corpo creando, sul busto, un raffinato gioco di pieghe; il volto imberbe è circondato dai riccioli, da basette finemente incise e ravvivato dagli occhi intarsiati, ancora muniti di ciglia; la capigliatura a corti riccioli è fermata sulla fronte da una benda decorata in argento. Con i piedi solidamente piantati sull’asse del carro per tenersi in equilibrio, l’auriga è raffigurato mentre si sta lentamente 437

volgendo verso destra: il movimento è suggerito dalla rotazione del busto e della testa rispetto all’ampia tunica; le varie parti del corpo (i piedi, la gonna, il busto, la testa), colate singolarmente e poi raccordate fra di loro, hanno un leggero scarto, ciascuna nei confronti dell’elemento inferiore, con una rotazione progressiva che crea un movimento a elica. L’auriga è quindi raffigurato mentre compiva il giro d’onore dopo la vittoria, volgendosi verso il pubblico che lo acclamava; il braccio di adolescente indica che un palafreniere manteneva al passo uno dei cavalli. Dal momento che Polyzalos assume la tirannide di Gela nel 478 a.C., alla morte del fratello Gelone – quando l’altro fratello, Ierone, diventa signore di Siracusa – la statua deve essere stata realizzata tra il 478 e il 466 a.C., anno della caduta dei Dinomenidi. 4.5.2 Movimento e tensione

Nel 514 a.C. viene assassinato Ipparco, figlio di Pisistrato, e pochi anni dopo, nel 510 a.C., con Clistene, ha inizio per Atene il lungo e prospero periodo della democrazia; è in questa occasione che il governo ateniese decide, per la prima volta, di onorare pubblicamente nell’Agorà due personaggi reali, Armodio e Aristogitone, i due tirannicidi; del monumento, realizzato in bronzo, viene incaricato Antenore, uno degli scultori più famosi dell’epoca, autore dei frontoni del tempio di Apollo a Delfi e di una famosa kore (Fig. 3.47). Durante la calata di Serse, le statue vengono sottratte dai nemici e trasportate in Persia; sarà Alessandro Magno, conquistatore del regno achemenide, a riportarle in patria.

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Fig. 4.33 I Tirannicidi, copia da Tivoli, Villa Adriana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Nel 477 a.C. il monumento, caro agli Ateniesi, viene rimpiazzato da un nuovo gruppo bronzeo affidato questa volta alla bottega di Kritios e Nesiotes, famosi e affermati bronzisti (Fig. 4.33); si pensa che le due statue, note soltanto attraverso copie di età romana, riproducessero nella sostanza il gruppo più antico, concepito per essere visto da tutti i lati: diversamente dalla maggior parte dei gruppi di età classica, che presentano personaggi giustapposti in ordine paratattico, i due eroi – disposti schiena contro schiena, la gamba interna avanzata gravata dal peso del corpo, la gamba esterna portata all’indietro, il tallone 439

sollevato – erano qui strettamente complementari l’uno all’altro. Il personaggio maturo, Aristogitone, barbato, proteggeva con il braccio destro teso, in parte coperto dal mantello, il giovane Armodio, colto nell’atto di colpire, il braccio sinistro alzato. È evidente che il gruppo doveva essere isolato, in modo che si potesse girargli intorno. Nonostante l’impeto imposto ai due corpi, elastici e vigorosi, espressione delle nuove tendenze dello stile severo, il movimento resta qui ancora contenuto, forse perché gli scultori devono adeguarsi a un modello più antico.

Fig. 4.34 Statua di Posidone, da Capo Artemision (Eubea). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

È certo tuttavia che il progresso tecnico nella colata di statue cave a grandezza naturale abbia portato con sé la realizzazione di statue in movimento; il bronzo, che non necessita di puntelli, permette infatti di sperimentare ritmi più aperti e articolati. Una delle tipologie più diffuse in questo periodo è quella dell’atleta in azione; ne abbiamo 440

un’eco nelle fonti antiche e nei bronzetti, che spesso riproducono opere di maggiori dimensioni. Un buon esempio è offerto dal cosiddetto oplitodromo di Tübingen, dal luogo di conservazione del bronzetto (h 16,4 cm), che raffigura un corridore in armi (Fig. 4.36); l’atleta è colto nell’attimo che precede lo slancio della corsa, le ginocchia piegate, il busto spinto in avanti, il braccio destro teso a reggere lo scudo, ora mancante, il sinistro piegato a bilanciare la lancia. L’apertura nello spazio contraddistingue anche una delle statue più famose dell’antichità, il Posidone di Capo Artemision, rinvenuto in mare al largo dell’Eubea (Fig. 4.34). Il dio è colto mentre si prepara a lanciare il tridente, bilanciato nella mano destra, il braccio sinistro proteso per prendere la mira; rispetto al più antico Zeus di Ugento, raffigurato in posizione analoga (Fig. 3.78), il dio dell’Artemision carica il peso sulla gamba sinistra avanzata, come già i Tirannicidi (Fig. 4.33), liberando la destra, che tocca il suolo solo con la punta del piede; il movimento comporta la tensione del busto che segue la spinta della gamba portante con una leggera curvatura verso sinistra della linea alba. La statua (h 2,09 m), databile intorno al 460 a.C., è concepita per essere vista da tutti i lati; doveva quindi essere un’offerta collocata a cielo aperto, non una statua di culto. Ritroviamo lo stesso slancio in un bronzetto di Dodona (h 13,5 cm) che raffigura Zeus nell’atto di lanciare il fulmine (Fig. 4.35); si tratta di una piccola offerta che riflette, come l’oplitodromo di Tübingen (Fig. 4.36), le conquiste della grande plastica.

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Fig. 4.35 Statuetta di Zeus, da Dodona. Berlino, Staatliche Museen.

Fig. 4.36

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Statuetta di oplitodromo. Tübingen, Università. 4.5.3 L’attimo sospeso di Mirone

Gli studi sul movimento sono collegati anche alla figura di Mirone, nato a Eleutere, in Beozia, attivo ad Atene negli anni centrali del V secolo, prima della grande stagione dell’Acropoli. I termini cronologici sono dati dalle firme sulle basi di statue di atleti vincitori a Olimpia nel 456 e nel 448 a.C. Delle sue opere, molto famose nell’antichità, come ci tramandano le fonti, nessun originale è giunto fino a noi. Una delle migliori repliche del Discobolo è la copia Lancellotti (Fig. 4.37), così chiamata dalla famiglia che l’acquistò, rinvenuta a Roma sull’Esquilino nell’area degli Horti Lamiani, una delle ville urbane della famiglia imperiale. La copia, in marmo, risale al secolo II d.C.; si notino il sostegno a forma di tronco di palma e il puntello che collega la mano sinistra al polpaccio destro, estranei all’originale, ma introdotti dal copista per esigenze di statica. Il Discobolo fu infatti eseguito da Mirone in bronzo poco prima della metà del V secolo: la resa asciutta e accurata della muscolatura, la puntuale notazione delle vene, il volto ovale dai capelli a calotta finemente cesellati a piccole ciocche, rientrano nella tradizione dello stile severo, così il volto intenso e idealizzato, che non rivela lo sforzo fisico cui il giovane è sottoposto (Fig. 4.37). L’atleta è infatti raffigurato nell’atto di caricare il lancio, con il disco saldamente impugnato nella mano destra; il corpo, in appoggio sulla gamba destra, è raccolto in se stesso e sta compiendo una semirotazione prima di scattare: il braccio destro è sollevato e proteso all’indietro, il sinistro abbassato; il torso, piegato in avanti, i muscoli contratti e tesi, sta ruotando verso la sua destra per seguire l’ampio gesto del braccio; la testa segue il movimento del corpo.

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Fig. 4.37 Discobolo, copia Lancellotti. Roma, Museo Nazionale Romano.

Lo scultore è interessato a cogliere l’attimo sospeso e lo fa attraverso una costruzione rigorosamente geometrica; il Discobolo è una statua che non si prefigge di rappresentare la realtà, ma di fermare un momento, una fase del movimento in atto. L’opera è quindi ideata per una visione laterale, come se il corpo fosse disposto su un unico piano; solo in questo modo, infatti, falsando di poco la prospettiva reale, tutte le parti risultano perfettamente visibili. L’equilibrio geometrico, ma astratto, del Discobolo lascia il posto nel gruppo di Atena e Marsia alla ricerca del contrasto. L’episodio è noto: dopo aver inventato il flauto, Atena lo getta irritata dall’aver visto come risultavano gonfie e deformi le sue guance mentre lo suonava; il sileno Marsia 444

si precipita a raccoglierlo per imparare a suonarlo, ma la dea, gelosa, lo ferma (Fig. 4.38). Il gruppo, in bronzo, che fu visto da Pausania sull’Acropoli di Atene, è stato ricomposto con l’Atena di Francoforte (Fig. 4.39) e il Marsia del Laterano (Fig. 4.40) sulla base delle descrizioni letterarie, di rilievi e di raffigurazioni vascolari. Entrambi i personaggi sono colti in un attimo di passaggio: al centro della composizione è il flauto, su di esso si concentrano gli sguardi dei protagonisti, mentre i loro corpi divergono dall’oggetto della contesa; Atena si ritrae lentamente girandosi verso la propria destra, il capo ancora abbassato e rivolto verso sinistra, mentre il sileno resta bloccato in una posa sbilanciata e sgraziata, puntando il piede destro in avanti, il corpo gettato all’indietro, il braccio destro sollevato in un gesto di stupore. La contrapposizione è affidata non solo all’instabilità delle posture, ma anche al contrasto tra il morbido panneggio di Atena e il corpo nudo e nervoso di Marsia, tra la virginale bellezza della dea e il vigore selvaggio del sileno. 4.5.4 Variazioni sul peplo

La figura femminile dello stile severo è la peplophoros, letteralmente «portatrice di peplo»; abbandonati il chitone a fitte pieghe e la mantellina drappeggiata dell’epoca arcaica, la donna indossa ora un’ampia tunica, stretta alla vita da una cintura, fermata da borchie sulle spalle, con un risvolto (apoptygma) che ricade sul dorso e sul petto (Fig. 4.17).

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Fig. 4.38 Gruppo di Atena e Marsia, ricostruzione.

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Fig. 4.39 Statua di Atena. Francoforte, Liebieghaus.

Fig. 4.40 Statua di Marsia. Città del Vaticano, Museo Profano Lateranense.

Fig. 4.41 Bruciaprofumi, da Delfi. Delfi, Museo Archeologico.

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Fig. 4.42 Statuetta di Atena, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

Indossa il peplo l’Atena dedicata da Anghelitos sull’Acropoli di Atene (Fig. 4.42); benché nascosto dal pesante panneggio, il ritmo del corpo riflette la ponderazione tipica dello stile severo: la dea insiste sulla gamba sinistra, portante, sulla quale la stoffa cade con rigide pieghe verticali, mentre la gamba destra, libera e flessa, solleva il panneggio rivelando il volume del ginocchio; il braccio destro, alzato, impugnava la lancia, mentre il sinistro, corrispondente al lato contratto, era abbassato, con la mano sul fianco. L’ottimo stato di conservazione della piccola statua (h 89,5 cm) ha fatto pensare che l’opera sia stata esposta solo per breve tempo: era forse sull’Acropoli all’epoca del saccheggio persiano e viene quindi datata intorno al 480 a.C. 448

Al peplo cinto, che gioca sul contrasto tra l’ampio rimbocco alla vita e la ricaduta verticale dell’ampia gonna, si alterna il peplo aperto, privo di cintura, che presenta un panneggio più libero, meno soggetto alla forza di gravità. La peplophoros di Delfi, utilizzata come sostegno di un bruciaprofumi, mostra un panneggio sciolto che gioca sull’alternanza delle pieghe creando effetti di luce (Fig. 4.41). La fanciulla con le colombe della stele funeraria di Paro porta un peplo che si apre sul fianco con pieghe ampie e morbide e ricade verticale tra le gambe, aderendo al ritmo della gamba flessa (Fig. 4.43). La testa chinata e il lieve incedere evocano quell’atmosfera di mestizia e di rimpianto che caratterizza, nel mondo greco, le stele funerarie: la fanciulla è rappresentata mentre imbocca direttamente dalle labbra una colomba, tutta compresa nel suo gioco infantile; la scelta di raffigurare la defunta in un momento giocoso della vita rende ancora più struggente la presenza della morte.

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Fig. 4.43 Stele funeraria, da Paro. New York, Metropolitan Museum.

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Fig. 4.44 Statua di Aspasia, da Baia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Un altro tipo statuario è quello della cosiddetta Aspasia, conosciuto solo attraverso repliche d’età romana, che mostra una donna interamente avvolta in un ampio mantello, portato sopra un chitone leggero a fitte pieghe (Fig. 4.44). Il mantello non soffoca la figura che emerge dalle vesti con la consueta ponderazione – la gamba sinistra portante e la destra scartata, il ginocchio flesso – con il risalto dei seni e delle braccia; il panneggio è semplice, ma arricchito da morbide pieghe curvilinee in corrispondenza del ventre e dal gioco serrato delle pieghe oblique sulla spalla sinistra, alle quali si contrappone la caduta verticale, ritmica, del panneggio che scende dall’avambraccio proteso. La statua è stata identificata con l’Afrodite Sosandra (salvatrice di uomini) di Calamide, dedicata da Callia, 451

genero di Milziade, e quindi datata intorno al 460 a.C.; l’opera, vista da Pausania all’entrata dell’Acropoli, è descritta da Luciano, scrittore e sofista greco del secolo II d.C., come ornata di pudore e avvolta in un mantello con decoro e modestia.

Fig. 4.45a Statua di Atena Lemnia, Fidia, ricostruzione.

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Fig. 4.45b Testa di Atena, dalla collezione Palagi, Bologna, Museo Archeologico.

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Fig. 4.46 Statua di Nike, da Paro. Paro, Museo Archeologico.

Era famosissima nell’antichità anche l’Atena Lemnia, dedicata sull’Acropoli dai coloni ateniesi dell’isola di Lemno, e realizzata in bronzo da Fidia; l’opera, datata intorno al 450 a.C., segue l’Apollo Parnopios (Figg. 4.28, 4.29) e la realizzazione della gigantesca Atena Promachos, che era posta al centro dell’Acropoli. L’originale fu portato a Costantinopoli dove era ancora conservato nel Medioevo; la ricostruzione, a opera di Furtwaengler, unisce la bella testa del Museo di Bologna alla copia di Dresda (Fig. 4.45 a,b). La dea è raffigurata stante, vestita di un ampio peplo a fitte pieghe, con l’egida portata negligentemente di traverso sul petto, mentre guarda il suo elmo, tenuto nella mano destra protesa; con la sinistra, sollevata, si appoggia alla lancia. Si nota la contrapposizione tra il lato destro portante, 454

contratto, sul quale si concentra l’azione, e l’apertura del lato sinistro, cui corrisponde la gamba in movimento. L’opera allude alla pacifica colonizzazione di Lemno: la dea, posate le terribili armi, accetta un pacato colloquio con gli uomini. Di grande bellezza è la testa dai capelli folti e ricci trattenuti da un alto nastro; una testa giovane, fresca, quasi androgina, che sottolinea il lato maschile della vergine guerriera (Fig. 4.45b).

Fig. 4.47 Stele funeraria di fanciulla con colomba, dall’Esquilino. Roma, Museo dei Conservatori.

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Fig. 4.48 Metopa con Hera e Zeus, dal tempio E di Selinunte. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

Anche nel periodo dello stile severo, la scultura insulare si caratterizza per la delicatezza del modellato e l’eleganza delle forme. Il peplo sciolto è portato dalla Nike di Paro (h 1,38 m), colta nell’atto di librarsi in volo (Fig. 4.46): il vento del movimento ascensionale della dea, che tocca il suolo solo con la punta del piede sinistro, appiattisce le pieghe sulle gambe e agita l’apoptygma in modo molto realistico; le forme del corpo risaltano sotto la stoffa pesante che copre e svela al tempo stesso; il modellato è particolarmente sfumato, con effetti luminosi esaltati, ai nostri occhi, dalla bianchezza del marmo locale; la statua era verosimilmente dipinta. Una stele funeraria sicuramente ascrivibile a produzione insulare, benché rinvenuta a Roma, presenta invece una delicata figura femminile, dai capelli raccolti in un sakkos, che reca una colomba nella mano destra e indossa un 456

morbido chitone coperto da un mantello (Fig. 4.47); la lavorazione a fitte pieghe ha un sapore ancora arcaicizzante, ma la scorrevolezza del panneggio e l’effetto di trasparenza rivelano quell’attenzione nei confronti della figura umana, che si anima e vive, tipica dello stile severo; siamo probabilmente intorno al 480 a.C.

Fig. 4.49 Trono Ludovisi. Roma, Palazzo Altemps.

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Fig. 4.50 Plnax, da Locri, santuario di Persefone alla Mannella. Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale.

La leggerezza del panneggio insulare si ritrova in Magna Grecia nei rilievi del cosiddetto «Trono Ludovisi», dal nome della collezione romana che lo ha accolto all’epoca del ritrovamento, nel 1887 (Fig. 4.49). È un monumento complesso, in marmo insulare, che richiederebbe una lunga trattazione, soprattutto per l’esegesi delle scene raffigurate, legate ad Afrodite e al suo culto; in questa sede può essere utile ricordarlo brevemente come testimonianza dell’esito dello stile severo in ambito magnogreco, nello specifico locrese, come si evince dal confronto con i famosi pinakes in terracotta del santuario di Persefone alla Mannella, toccanti 458

esempi di artigianato locale con caratteri spiccatamente popolari (Fig. 4.50). Il «Trono», più verosimilmente il parapetto di un bothros (pozzo sacro) nel tempio ionico di Marasà, nell’area urbana di Locri Epizefiri, per la complessità dell’apparato decorativo e la finezza dell’esecuzione, ha alle spalle una committenza più importante, forse pubblica, che ha chiamato uno scultore esperto nella lavorazione del marmo e fortemente permeato di ionismi. Più legate al linguaggio figurativo del mondo peloponnesiaco si rivelano le metope del tempio E di Selinunte (Fig. 4.6), scolpite intorno al 460 a.C. in calcarenite locale, ma impreziosite da inserti in marmo insulare per le parti nude delle figure femminili. Si tratta anche in questo caso di un ciclo figurativo complesso – che merita di trovare un più ampio spazio in un manuale dedicato all’arte dei Greci d’Occidente – giustamente inserito «nell’arte dell’età di Polignoto» per l’originalità degli schemi e la ricerca dell’ethos (Marconi). Nella metopa con la ierogamia tra Zeus e Hera (Fig. 4.48), l’abito della dea, con chitone e mantella diagonale, è ancora vagamente arcaicizzante per motivi cultuali e perché vuole essere, più che un abito, un «costume da sposa», regale, ricco e sontuoso, e fortemente legato alla tradizione, come avviene ancora ai giorni nostri; decisamente più vicina al gusto dello stile severo la figura di Zeus, che richiama immediatamente il Posidone dell’Artemision (Fig. 4.34).

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4.6 Ceramografia e pittura 4.6.1 La ceramografia tra tardoarcaismo e stile severo

Nell’età delle Guerre Persiane la fabbricazione di vasi e di contenitori in argilla non diminuisce: il vasellame è infatti destinato a tutte le più svariate necessità della vita quotidiana e anche la produzione di maggior pregio, quella figurata, legata alla radicata consuetudine del banchetto e del simposio, all’offerta devozionale, e alla pietas nei confronti dei defunti, non risente di alcuna crisi. E il primato della produzione spetta ancora una volta ad Atene.

Fig. 4.51 Cratere a calice del Pittore di Kleophrades con scene di palestra, da Tarquinia. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 4.52 Anfora del Pittore di Kleophrades, con Dioniso e menadi, da Vulci. Monaco, Antikensammlungen.

La nuova tecnica a figure rosse, ampiamente sperimentata in tutte le sue possibilità dalla generazione dei Pionieri, è ormai adottata ufficialmente; la produzione a figure nere continua, almeno fino a tutto il primo ventennio del secolo, per piccoli vasi da unguenti; solo le anfore panatenaiche, che costituiscono l’ambito premio delle gare in onore di Atena e hanno una forte valenza rituale, continueranno a essere prodotte per tutto il V secolo con la vecchia tecnica, alla quale i pittori dovranno adattare di volta in volta le nuove tendenze stilistiche. Tra i pittori di grandi vasi si distinguono, nei primi decenni del V secolo, il Pittore di Kleophrades e il Pittore di Berlino: sono i ceramografi che permettono di cogliere anche nella pittura vascolare il passaggio dallo stile tardoarcaico allo stile severo. Il fatto che le loro opere siano state rinvenute prevalentemente in Etruria sottolinea l’importanza del mercato estero, per il quale molti di questi 461

vasi erano espressamente prodotti; l’acquisizione della cultura greca è ormai un dato di fatto per la società etrusca. Nell’anfora di Monaco, da Vulci, il Pittore di Kleophrades, così chiamato dal vasaio che firma alcune tra le sue opere, sfruttando la rotondità del vaso, messa in risalto dallo stretto puntale, dipinge una vivace scena di komos dionisiaco, al quale partecipano lo stesso Dioniso, le menadi e i satiri (Fig. 4.52); la scena è improntata sul movimento, sottolineato dal raffinato gioco dei panneggi delle ampie vesti, di gusto tardoarcaico, che svelano, in trasparenza, le gambe pronte e muscolose dei suoi personaggi. Le figure hanno una dimensione statuaria che si ritrova nel cratere a calice con scena di palestra rinvenuto a Tarquinia (Fig. 4.51); il giovane discobolo, raffigurato nella posizione preliminare al lancio, sperimenta, con qualche difficoltà nel disegno della braccia, una postura instabile – che comporta la torsione del busto e il carico del peso su un’unica gamba – che verrà canonizzata nel periodo dello stile severo. Il cratere, tra le prime opere del pittore, si data intorno al 500-490 a.C. Per questo e per altri vasi così ben conservati, abbiamo a che fare con vecchi ritrovamenti, verosimilmente funerari, ma scorporati dal loro contesto; la datazione si appoggia quindi all’analisi stilistica e al confronto con la scultura coeva.

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Fig. 4.53 a,b. Hydria del Pittore di Kleophrades con Ilioupersis, da Nola. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

In un altro famoso vaso, l’hydria del Museo di Napoli (Fig 4.53 a, b) – rinvenuta a Nola, in Campania – il Pittore di Kleophrades affronta uno dei temi più sentiti in questi primi decenni del secolo, sconvolti dalla calata dei Persiani: la distruzione di Troia (Ilioupersis). Come nel Pittore di Brygos, quasi contemporaneo e che verrà trattato poco più avanti, il mitico scontro tra Occidente e Oriente richiama la tragica violenza del momento storico e diviene pretesto per una riflessione sugli orrori della guerra, condotta con grande partecipazione e supportata da una tecnica impeccabile; siamo in una dimensione degna della pittura parietale. La 463

crudeltà, il saccheggio, lo stupro, la disperazione si alternano a episodi di disperato coraggio (la donna che combatte armata di un pesante pestello) e di speranza (Enea che fugge con il figlioletto e il vecchio padre); sembra quasi che il pittore parteggi per i Troiani. Per una grecità che ha unito le forze per una giusta causa, la guerra fa ormai parte della memoria collettiva. Pochi anni prima uno dei primi tragediografi, Frinico, era stato multato perché aveva fatto rappresentare ad Atene con troppa crudezza un dramma doloroso e attuale, la distruzione di Mileto da parte dei Persiani nel 494 a.C.

Fig. 4.54 Anfora del Pittore di Berlino con Hermes e satiro, da Vulci. Berlino, Staatliche Museen.

L’analisi stilistica rivela ancora una volta la sensibilità plastica nel disegno delle figure – si pensi al possente nudo di Cassandra, ai monumentali guerrieri in assalto – e la ricerca del movimento in atto, all’interno di una 464

composizione ritmica che contrappone lo slancio delle figure in piedi al raccoglimento dei corpi accucciati o inginocchiati. Più monumentale, caratterizzato da grandi figure isolate, fu il Pittore di Berlino, attivo dal 500 al 480 a.C. circa, al quale si attribuiscono più di 300 vasi. Il nome deriva dall’anfora degli Staatliche Museen di Berlino, da Vulci, che propone l’insolita sovrapposizione di tre personaggi, Hermes che passa velocemente con un kantharos e un’oinochoe, un satiro che avanza suonando la lira e si guarda indietro attratto dal vino, e, tra i due, un cerbiatto che sussulta e alza la testa a causa del rumore e del movimento che lo circondano (Fig. 4.54). In entrambi i pittori i corpi maschili, alti e slanciati, dagli ampi pettorali e dai muscoli addominali puntualmente indicati, riflettono la ricerca anatomica tipica di questo particolare momento; i confronti con opere come l’Efebo biondo (Fig. 3.67), l’Efebo di Kritios (Fig. 3.68) o la base con scene di palestra (Fig. 3.64) evidenziano che questi artigiani erano in stretti rapporti tra di loro e che i diversi generi artistici si trovavano ad affrontare le stesse problematiche. Emblematica è la famosa coppa della Fonderia Fig. 4.55 a,b), del Pittore omonimo e già ricordata precedentemente (si veda par. 3.6), che presenta una vivace scena di bottega, ricca di particolari e di oggetti ripresi dal vero. Nella raffigurazione assistiamo ai lavori di rifinitura di due grandi bronzi in movimento, un guerriero e un atleta. Il pittore doveva conoscere bene il lavoro del bronzista.

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Fig. 4.55 a,b Coppa della Fonderia, esterno, da Vulci. Berlino, Staatliche Museen.

L’interesse nei confronti della ponderazione e di una resa più naturalistica del corpo umano si riflette anche nella pittura vascolare che cerca i mezzi per adeguarsi al nuovo linguaggio figurativo. L’occhio, ad esempio, si apre verso l’interno spostando in avanti la pupilla (Fig. 4.57); i panneggi alternano le pieghe arcaiche a coda di rondine alla caduta verticale dello stile severo; i volti perdono le 466

angolosità arcaiche in favore di un mento più tondo e pronunciato, un naso più largo, una bocca piccola e carnosa.

Fig. 4.56 Coppa di Onesimos con etera al bagno, da Chiusi. Bruxelles, Musées Royaux.

Una grande parte della produzione del Ceramico di Atene è in questo periodo dedicata alle coppe (kylikes), nella loro qualità di vasi da simposio e di offerte votive. I pittori di coppe devono affrontare le difficoltà legate all’inserimento di una o più figure nello spazio circolare del tondo interno e alla decorazione della superficie esterna, fortemente convessa, rastremata e interrotta dalle anse. Nella coppa di Onesimos (Fig. 4.56), da Chiusi, la giovane etera è posta al centro del tondo, davanti al grande podanipter (catino lavapiedi); la grossa situla che la fanciulla regge con la mano destra è controbilanciata dal fagotto di abiti nella sinistra; si nota anche qui la ricerca di visualizzare una posa instabile (la giovane sta avanzando) e di un maggiore naturalismo nella resa anatomica. 467

Uno dei pittori più prolifici del primo stile severo è il Pittore di Brygos, attivo tra il 480 e il 470 a.C., che prende il nome dal vasaio che firma una dozzina di coppe attribuite alla sua mano; lo stile deriva da Onesimos e si caratterizza per una notevole vivacità espressiva; il pittore ama il movimento e l’animazione. Nello skyphos con comasti del Louvre (Fig. 4.58), da Nola, le due coppie procedono a ritmo cadenzato come in una danza, i corpi inclinati all’indietro, i visi accostati, con netto contrasto tra i corpi nudi maschili, appena coperti dai mantelli, e le ricche vesti femminili; gli ampi panneggi, che ricadono in fitte pieghe pastose, fanno da sfondo sottolineando nel contempo l’unità della scena.

Fig. 4.57 Evoluzione del disegno dell’occhio nella ceramica a figure rosse, dai Pionieri (1, 2), ai pittori del periodo tardoarcaico (3, 4), fino ai maestri dello stile severo (5) e dell’età classica (6).

Fig. 4.58 Skyphos del Pittore di Brygos con comasti, da Nola. Parigi, Louvre.

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Fig. 4.59 Kylix del Pittore di Brygos con Ilioupersis, da Vulci. Parigi, Louvre.

Talora nella sua opera si palesa la violenza del periodo delle guerre persiane. Nell’Ilioupersis dipinta sull’esterno di una coppa del Louvre (Fig. 4.59), da Vulci, il gruppo concitato formato da Priamo e da Neottolemo, giocato sull’incrocio di linee oblique, è in netto contrasto con la coppia di Menelao ed Elena, che esce silenziosamente di scena: il vecchio re è raffigurato mentre cerca rifugio sull’altare per sottrarsi all’incalzare del guerriero, che, la spada sguainata, ostenta e agita il corpo senza vita del piccolo Astianatte; la drammaticità della scena è enfatizzata dal grande scudo rotondo e dall’enorme tripode, oggetto dalla forte valenza rituale. Rimangono nei panneggi alcuni virtuosismi tardoarcaici che non contrastano con l’eleganza del disegno e la cura riservata ai particolari.

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Fig. 4.60 Kylix del Pittore di Brygos con la contesa per le armi di Achille, da Vulci. Londra, British Museum.

Nella coppa del British Museum, da Vulci, con la contesa per le armi di Achille (Fig. 4.60), si nota ancora quella ricerca di movimento e di schemi incrociati che caratterizza in questo periodo il rilievo e la composizione frontonale: al personaggio centrale, che fa da baricentro all’intera scena nel vano tentativo di porre fine alla contesa, si sovrappone lo schema a V, divergente, dei due giovani che cercano di frenare l’animosità dei contendenti, Odisseo e Aiace, a essi contrapposti e disposti in diagonale verso il centro della scena, tallonati da due personaggi che cercano di tirarli verso l’esterno; è un moto ondulatorio, già sperimentato nel frontone orientale di Egina (Fig. 3.71a), che sfocerà nel ritmo incalzante del frontone occidentale di Olimpia (Fig. 4.20). Da notare ancora una volta, nel Pittore di Brygos, l’uso sapiente dei panneggi, a pieghe larghe e corpose, un po’ metalliche, disseminate di puntini neri, per sottolineare l’intreccio dei corpi e, nei nudi maschili, l’indicazione realistica, in vernice diluita, dei peli sul petto e sull’addome. Un altro dei temi cari ai pittori del primo stile severo resta il simposio, che permette di giocare sulle analogie tra la raffigurazione e la funzione effettiva del vaso. Nella grande 470

coppa dei Musei Vaticani (Fig. 4.61) sono esaltate le gioie della riunione conviviale: il bere, la musica, la declamazione, la compagnia femminile. Il pittore è Douris, autore di moltissimi vasi, attivo dal 500 al 460 a.C. circa; la coppa, che si caratterizza per la monumentalità plastica dei personaggi, è ascrivibile al suo primo periodo. La scena offre ancora una volta lo spunto per sperimentare, attraverso la gestualità dei convitati, una serie di posizioni in movimento e di vedute di scorcio. La stessa vivacità caratterizza lo psyktèr del British Museum, da Cerveteri, con giochi tra satiri (Fig. 4.62); i compagni di Dioniso si esibiscono in uno scatenato girotondo sapientemente costruito sulla superficie convessa del recipiente, che aveva la funzione di conservare fresco il vino. Tema del gioco è, non a caso, l’uso del vino; mentre un kantharos, vaso sacro a Dioniso, passa di mano in mano, i satiri provano a modo loro diversi modi del bere, dal virtuosismo del satiro che porta un vaso in equilibrio sul fallo eretto, mentre un compagno gli versa da bere, al satiro che beve a testa in giù senza toccare la coppa, alla danza intorno alla coppa, alla bevuta dal grande otre rigonfio. Quello che interessa al pittore è lo studio del movimento instabile, del gesto, della postura.

Fig. 4.61

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Kylix di Douris con banchettanti, da Vulci. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco.

Fig. 4.62 Psyktèr di Douris con giochi tra satiri, da Cerveteri. Londra, British Museum.

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Fig. 4.63a Cratere del Pittore di Pan, lato A, da Cuma. Boston, Museum of Fine Arts.

Fig. 4.64 Hydria del Pittore di Leningrado con agone tra ceramisti, da Ruvo di Puglia. Vicenza, Collezione Banca Intesa-Sanpaolo.

Nel secondo quarto del V secolo i pittori ateniesi si possono dividere in due grandi gruppi, i Manieristi, che continuano, sotto l’aspetto formale, lo stile tardoarcaico, e i 473

«pittori protoclassici», che seguono la nuova corrente e aderiscono allo stile imposto dai maestri della grande pittura parietale. Tra i Manieristi vale la pena di segnalare l’hydria del Pittore di Leningrado con una insolita scena di agone artigianale (Fig. 4.64): tre pittori, il maestro, al centro, e due assistenti, sono intenti a decorare vasi di grandi dimensioni al cospetto di Atena e di due Nikai che li incoronano; all’estremità della scena una donna, issata su un podio e seduta su un cuscino, dipinge con alacrità un grande cratere a volute; benché esclusa dagli onori della gara, la donna riveste un ruolo attivo all’interno della bottega che qui viene celebrata; non è premiata perché ad Atene non esistevano gare miste, ma è evidente la sua partecipazione attiva alla conduzione e al successo dell’officina; i vasi appesi alla parete sopra la sua testa sottolineano infatti, come gli attrezzi appesi sullo sfondo nella coppa della Fonderia Fig. 4.55a), che la scena si svolge all’interno di un ambiente chiuso che non può essere che quello della bottega; uno spazio diverso da quello ideale e non connotato della gara. Una donna pittrice, quindi, che, alla luce degli studi più recenti, non sembra più un fatto anomalo e isolato; un certo numero di donne pittrici di quadri e di affreschi viene infatti ricordato da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, alla stregua delle numerose poetesse che hanno lasciato testimonianza di sé nella letteratura greca.

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Fig. 4.63b Cratere del Pittore di Pan, lato B, con Artemide e Atteone, da Cuma. Boston, Museum of Fine Arts.

Fig. 4.65 Cratere del Pittore di Borea con Teseo che insegue Arianna, da Spina. Ferrara, Museo Archeologico.

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Dal punto di vista stilistico, il manierismo del pittore emerge nella predilezione di figure sottili, con teste piccole; nel decorativismo dei panneggi, fatti di pieghe disposte ad artem e spesso prive di una reale consistenza; nella durezza del tratto disegnativo; nel largo impiego della linea a rilievo. I profili dei volti che sono invece d’impostazione pienamente severa – con mento pieno e tondeggiante, apertura dell’occhio verso l’interno, pettinature maschili a calotta compatta – conducono verso una fase piuttosto avanzata del secondo quarto del V secolo e consentono una datazione al decennio 470-460 a.C. Rientra nel gruppo dei Manieristi anche il Pittore di Pan che interpreta con vigore e preziosismo i modelli dello stile arcaico; le sue figure sono snelle e allungate; i panneggi decorativi; le teste piccole e rotonde, con mento pieno, naso corto, occhi sgranati. Sul cratere a campana di Boston, da Cuma, Artemide si allontana da Atteone, minacciandolo con l’arco, mentre il giovane agonizza dilaniato dai cani Fig. 4.63 a,b); si notano l’accurata composizione e lo schema divergente sottolineato dall’ampio gesto di Atteone. Si inserisce pienamente nello stile severo, invece, il Pittore di Borea (Fig. 4.65), per le sue figure statuarie, intense e drammatiche. Il pittore crea panneggi di pieghe fitte e sottili, leggermente sinuose, che seguono i movimenti dei corpi; le figure sono alte e sottili, i gesti calibrati; le mani e le braccia riempiono spesso gli spazi liberi. Il disegno dell’occhio ha raggiunto la sua profondità naturale e sono indicate le palpebre; i capelli delle figure maschili, a massa compatta, scendono in corti riccioli intorno al viso; le barbe sono corte e triangolari. Il cratere a volute di Spina raffigura una scena di inseguimento tra Teseo e Arianna con figure grandi, statuarie, slanciate, che occupano tutto il corpo del vaso. 4.6.2 La nascita della grande pittura

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È ampiamente riconosciuto l’apporto della pittura nello sviluppo di tutte le arti figurative e soprattutto della plastica: Polignoto di Taso è definito dagli antichi «buon pittore di caratteri» e «pittore d’uomini». La pittura era del resto per i Greci il genere artistico preferito, tanto da essere definita «poesia muta» dal poeta Simonide, morto nel 467-466 a.C. e quindi partecipe degli avvenimenti che portano, all’indomani delle Guerre Persiane, alla nascita di una pittura monumentale, pienamente autonoma e non più complemento della decorazione architettonica e della scultura o limitata a piccoli quadretti votivi. Le parole del poeta celebrano infatti il carattere narrativo della pittura, capace, come la poesia, di elevare a valori universali i fatti degli uomini.

Fig. 4.66 Atene, Stoà Poikile, ricostruzione (da Pedley 1998).

Nella perdita pressoché totale della pittura di questo periodo, le fonti letterarie costituiscono per noi una preziosa e imprescindibile documentazione. Sono gli scrittori antichi a informarci della vasta diffusione che ebbe la pittura murale di grandi dimensioni all’indomani delle guerre persiane e anche di come essa sia stata soppiantata nel corso 477

del secolo dalla pittura su pannelli lignei fissati ai muri tramite grappe metalliche e protetti da teli o da sportelli (Fig. 4.66); sono questi i quadri che, dopo la conquista romana della Grecia, saranno portati in trionfo nell’Urbe insieme alle più prestigiose sculture e ai bottini di guerra. Gli iniziatori della grande pittura sono concordemente indicati in Polignoto di Taso e Micone di Atene, entrambi pittori e bronzisti. Superando la rigidità arcaica, secondo Plinio il Vecchio, Polignoto fu il primo a rendere la differenza dei caratteri e degli stati d’animo, a raffigurare uomini con la bocca aperta che lasciava intravedere i denti, a rappresentare donne con abiti trasparenti (Plinio, XXXV, 58). Sono indicazioni che, alla luce della critica contemporanea, non appartengono interamente all’epoca del pittore, ma restano a dimostrazione della grande considerazione che le sue opere avevano presso gli antichi e dell’interesse che rivestivano ancora all’epoca dei Romani. Pausania, che descrive in modo puntuale le pitture della Lesche degli Cnidi a Delfi, che raffiguravano la discesa di Odisseo agli inferi (Nekyia) (Fig. 4.67) e la caduta di Troia (Ilioupersis), e i quadri della cosiddetta Stoà Poikile (multicolore) di Atene, ricorda che il pittore, piuttosto che rappresentare gli episodi più drammmatici degli eventi raffigurati, preferiva il momento che li precedeva o li seguiva. Anche da altri testi risulta che, all’azione violenta e concitata, Polignoto preferiva scene statiche: non l’eccidio dei Proci, ma Odisseo vincitore; non il ratto delle Leucippidi, ma il matrimonio dei Dioscuri. Sappiamo anche che nelle sue pitture i personaggi erano disposti in ordine sparso o a gruppi su più livelli; la ricerca della terza dimensione portava inoltre il pittore a nascondere parzialmente alcune figure dietro la linea irregolare del terreno.

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Fig. 4.67 Polignoto di Taso, ricostruzione dell’affresco con la Nekyia, dalla Lesche degli Cnidi a Delfi (da Stransbury-O’Donnel 1990).

Fig. 4.68a

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Cratere del Pittore dei Niobidi, lato A, da Orvieto. Parigi, Louvre.

Ne abbiamo una eco nel cratere eponimo del Pittore dei Niobidi, dipinto intorno al 460-450 a.C.; sul lato principale Fig. 4.68a) si riconoscono Apollo e la sorella Artemide nell’atto di saettare gli sfortunati figli di Niobe, che si era vantata di avere una prole più numerosa di quella di Latona, madre dei due fratelli divini; si nota la linea ondulata e irregolare del terreno, in bianco sovraddipinto, la disposizione su più piani e l’espediente di nascondere o adagiare i caduti dietro le balze del paesaggio accidentato e montano. Sul lato opposto, che doveva essere il principale (a esso appartengono entrambi i Dioscuri rappresentati sopra le anse, a delimitare la scena), compaiono, in posizione di apparente riposo, varie figure di eroi pervase di mestizia, con lo sguardo abbassato o perso nel vuoto Fig. 4.68b). Al centro sta la possente figura di Eracle, armato di arco, ben riconoscibile dalla clava e dalla leontè; alla sua sinistra è identificabile la sua guida, Atena. Si tratta con ogni probabilità della rappresentazione della discesa di Eracle agli Inferi, che forse si rifaceva alla discesa di Odisseo agli Inferi, o nekyia, la quale sappiamo essere stata dipinta da Polignoto a Delfi nella Lesche degli Cnidii. I due guerrieri seduti sarebbero in questo caso Piritoo e, al centro in basso, Teseo, che Eracle riporterà tra i viventi. Assai meno probabili appaiono altre identificazioni, come quelle con gli Ateniesi alla vigilia della battaglia di Maratona o con un episodio degli Argonauti. I personaggi, che hanno una dimensione statuaria, sono ancora una volta disposti su un pendio roccioso, indicato da linee serpeggianti, anche se le figure in secondo piano non sono ridotte secondo i canoni della visione prospettica. La maestosità, la pacata serietà degli eroi, ciascuno isolato nel proprio mondo interiore, richiamavano l’intensa espressione dei volti polignotei, così come è ricordata dalle fonti, che insistono sulla capacità del 480

pittore di rendere con immagini l’ethos, l’indole, lo stato d’animo dei suoi personaggi.

Fig. 4.68b Cratere del Pittore dei Niobidi, lato B, da Orvieto. Parigi, Louvre.

Più mosse e agitate dovevano essere le scene dipinte da Micone; il pittore, che lavora con Polignoto nella Stoà Poikile e nell’Ephaisteion di Atene, è ricordato dagli antichi per le scene di battaglia ricche di scorci e di movimento (Fig. 4.69); sono verosimilmente un riflesso delle sue Amazzonomachie quelle dipinte sui vasi attici dello stile severo. E ancora un cratere del Pittore dei Niobidi, che attinge al repertorio della grande pittura e predilige i vasi con un esteso campo figurativo, a mostrarci con straordinaria grandiosità il tema della battaglia tra Greci e Amazzoni (Fig. 4.70); la superficie convessa del vaso, affollata di figure in diversi atteggiamenti rese con grande 481

abilità tecnica, riesce a trasmetterci lo spirito della pittura miconiana.

Fig. 4.69 Micone di Atene, ricostruzione dell’affresco con la battaglia di Maratona (da EAA, Atlante 1973).

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Fig. 4.70 Cratere del Pittore dei Niobidi con amazzonomachia, da Ruvo di Puglia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Se la grande pittura dello stile severo è irrimediabilmente perduta, come del resto quella dei maestri del classicismo, per i quali dovremo ricorrere ancora una volta alla pittura vascolare (si veda par. 5.5), è anche vero che alcuni originali sono giunti sino a noi dalle poleis dell’Italia meridionale. Sono opere di modesto artigianato che tuttavia riflettono l’esistenza di una tradizione pittorica ben radicata. Risale al 480-470 a.C. la decorazione della Tomba del Tuffatore di Poseidonia (Paestum, Salerno), una sepoltura a cassa di lastre di calcare locale, rinvenuta isolata a una ventina di chilometri dalla città, in località Tempa del Prete; la datazione si basa sugli elementi del corredo, una lekythos attica, due unguentari di alabastro e una lira con cassa di risonanza ottenuta con il carapace della tartaruga. Come è noto, la tomba prende il nome dalla scena raffigurata sulla faccia interna del coperchio, che rappresenta il tuffo simbolico dal mondo della vita a quello dell’oltretomba (Fig. 4.71); lungo i lati corrono invece le immagini del simposio, il momento nel quale, terminato di mangiare, ci si dedica alla musica, al canto, alla poesia e all’amore (Fig. 4.72): anche attraverso l’estasi provocata dalla musica e dall’eros l’uomo può arrivare a più profonde forme di conoscenza e passare a una vita nuova, diversa, forse migliore; è ancora evidente il simbolismo legato al trapasso.

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Fig. 4.71 Lastra con tuffatore, da Poseidonia, Tomba del Tuffatore. Paestum, Museo Archeologico.

Fig. 4.72 Lastra con simposiasti, da Poseidonia, Tomba del Tuffatore. Paestum, Museo Archeologico.

Lo stile e la composizione delle scene sono prettamente greche, come rivelano i numerosi confronti con le raffigurazioni analoghe della coeva pittura vascolare a figure rosse (Fig. 4.61); è invece anellenico l’uso di affrescare la tomba, tipico del mondo etrusco e della periferia del mondo greco (Licia, Macedonia ellenistica). Il carattere «ibrido» della sepoltura è legato al particolare ruolo di Poseidonia, città di confine tra mondo greco e mondo etrusco. Nonostante l’esecuzione corrente, priva di grandi qualità artistiche, per l’attenzione nei confronti della resa anatomica, tipica dello stile severo, per la vivacità dei gesti e degli atteggiamenti, per la complessità del programma decorativo, queste pitture fanno rimpiangere la perdita dei

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cicli figurativi che, come sappiamo dalle fonti, decoravano i templi e i monumenti principali delle città magnogreche. Una scuola di pittori doveva essere attiva anche a Gela, in Sicilia, come suggerisce la serie di antefisse figurate dipinte tra il tardo VI e i primi decenni del V secolo. È stata datata al 490-480 a.C., per il confronto con la pittura vascolare attica, l’antefissa rinvenuta sull’acropoli con un singolare accoppiamento tra un sileno e una ninfa (Fig. 4.73). Il pittore della piccola lastra (h 14,5 cm; diam. 20,2 cm), personalissimo nella definizione della scena e dei personaggi – si noti la veristica caratterizzazione della figura femminile, con il ciuffo di peli neri e ispidi che spunta dall’ascella – aderisce alle nuove istanze del linguaggio figurativo per l’abbondanza di notazioni anatomiche in colore variamente diluito, per le pose instabili, per la tensione plastica dei corpi; nella figura del sileno, l’arretramento del busto, lo slancio della gamba sinistra e la tensione del braccio corrispondente, audace anche se poco felice nella resa grafica, mostrano la ricerca della terza dimensione. Pur relegata nella sua dimensione artigianale, la piccola «vignetta» geloa, con la sua vis comica, esaltata dal libero uso del pennello su una superficie piana, che ha permesso di costruire le forme con una scioltezza e una fluidità maggiore di quanto si poteva ottenere sulla ceramica, mostra pienamente le potenzialità della pittura da cavalletto che incomincia, con lo stile severo, la sua corsa inarrestabile.

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Fig. 4.73 Antefissa dipinta con sileno e ninfa, dall’acropoli di Gela. Gela, Museo Archeologico Regionale.

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5 L’età classica (secolo V a.C.) MARINA CASTOLDI

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5.1 Il secolo di Pericle Dopo la metà del V secolo spetta ancora ad Atene l’egemonia militare e culturale sulla Grecia e, all’interno della città, è Pericle a dominare la scena politica. Dopo l’ostracismo di Cimone, accusato di essere filospartano, e l’assassinio del democratico Efialte, Pericle, pronipote di Clistene, della potente famiglia degli Alcmeonidi, rimane la personalità politica più in vista; dal 443 a.C. ricopre pressoché ininterrottamente, fino alla morte, il ruolo di stratega. Lo storico greco Tucidide che scrive, alla fine del secolo, la storia della Guerra del Peloponneso, lo ricorda come uomo potente per dignità e per senno, incorruttibile al denaro, ma anche come capo indiscusso di una città nella quale, all’interno di un regime che si definiva democratico – e in effetti lo era, rispetto ad altre parti del mondo greco –, il potere effettivo era nelle mani del primo cittadino. Il «secolo» di Pericle, per usare un’espressione che sottolinea il carattere fortemente accentratore di questo particolare momento della civiltà greca – un’epoca che, come il saeculum Augustum affida alle immagini, a una splendida «arte di regime» posta al servizio dell’ideologia del potere, la funzione di trasmettere il messaggio politico e morale dello Stato – dura in realtà una quindicina di anni, dalla pace con la Persia (Pace di Callia, 449 a.C.) all’inizio della Guerra del Peloponneso. Pericle muore infatti nel 429 a.C., vittima dell’epidemia di peste che sconvolge in quegli anni la vita della città. Una statua postuma, opera di Cresila, viene votata con ogni probabilità poco dopo la sua morte ed eretta, in bronzo, sull’Acropoli; ne possediamo alcune copie di età 488

romana, relative alla sola testa, che reca l’elmo corinzio sollevato sulla fronte per lasciare scoperto il viso (Fig. 5.1); secondo la mentalità greca, l’originale doveva essere una statua intera a grandezza naturale: lo statista era raffigurato in nudità eroica, con le insegne dello stratega, l’elmo, lo scudo, la lancia; possiamo averne un’idea nel Riace B, pressappoco contemporaneo (Fig. 4.31). Non si trattava quindi di una statua ritratto, inconcepibile per l’epoca, ma di un’immagine ideale, esemplare, incarnazione di un’ideologia politica che voleva essere democratica ed egualitaria; i valori etici prendono ancora il sopravvento sulla caratterizzazione individuale.

Fig. 5.1 Cresila, ritratto di Pericle, copia di età romana, da Tivoli. Londra, British Museum.

Alla metà del V secolo Atene è la città più ricca e potente di tutta la Grecia, forte del possesso delle miniere di piombo argentifero del Laurion, di una grande flotta, del tesoro 489

della Lega delio-attica, qui trasferito nel 454 a.C.; l’espansionismo ateniese porta all’apertura della via del Mar Nero, con insediamenti strategici nel Chersoneso e nell’Egeo settentrionale, a Lemno e a Imbro, e, in Occidente, alla costituzione della colonia panellenica di Thurii (444-443 a.C.), nel sito dell’antica Sibari, in Calabria; alla fondazione, fortemente voluta da Pericle, partecipano molti personaggi in vista del suo entourage, come lo storico Erodoto e l’urbanista Ippodamo di Mileto. È di questi anni una intensa politica di opere pubbliche, tesa a rafforzare le difese della città e ad abbellirla di monumenti degni della sua fama, ma anche ad assicurare lavoro e paga a un gran numero di artigiani: nel 447 a.C., sfruttando il tesoro della Lega, Pericle dà il via ai lavori di ristrutturazione dell’Acropoli (Fig. 5.2). La grandeur ateniese sfocia tuttavia in una politica estera imperialista e aggressiva, soprattutto nei confronti degli alleati, costretti a pagare tributi ad Atene perché li proteggesse militarmente e sottoposti a punizioni severissime nel caso volessero staccarsi dalla Lega. L’imperialismo ateniese è così alla base della devastante guerra che segna la vita della Grecia nell’ultimo trentennio del secolo, dal 431 al 404 a.C. e passa alla storia come Guerra del Peloponneso perché vede schierate da un lato Atene e i suoi alleati, dall’altro le città della Lega del Peloponneso, sotto il comando di Sparta. Con alterne vicende, e con frequenti attacchi spartani ad Atene e all’Attica, la guerra vede un momento di stasi nel 421 a.C. con la Pace di Nicia, capo del partito oligarchico ateniese, per degenerare pochi anni dopo con la sfortunata spedizione ateniese in Sicilia (415-413 a.C.), caldeggiata dallo spregiudicato Alcibiade. Fidando eccessivamente sulle proprie forze, e sottovalutando l’importanza acquisita dalle città siceliote, Atene parte alla volta dell’isola con la propria 490

flotta per intervenire a favore di Segesta contro Siracusa e Selinunte, ma dopo successi iniziali, la flotta viene distrutta sotto Siracusa e l’esercito in fuga sterminato sul fiume Assinaro; i superstiti patiranno a lungo a Siracusa rinchiusi nelle cave di pietra, le terribili latomie. Gli ultimi anni del secolo vedono il lento declino di Atene, al comando della quale ritorna per breve tempo il regime oligarchico, con il consiglio del quattrocento (411 a.C.), presto rovesciato dai democratici (410 a.C.). La guerra continua per mare, lungo le coste dell’Asia Minore, ma nonostante la vittoria ateniese alle Arginuse (406 a.C.) è ancora Sparta, finanziata dall’impero persiano, ad avere la meglio: la battaglia di Egospotami, nel 405 a.C., segna la definitiva sconfitta di Atene, assediata per terra e per mare. La città sarà costretta a smantellare le Lunghe Mura, a rinunciare ai possedimenti extraterritoriali, a fornire contingenti armati agli Spartani. Dopo il brutale regime dei Trenta Tiranni (404-403 a.C.), il ritorno della democrazia non riporta la città agli splendori del «secolo di Pericle»: priva della flotta e delle miniere del Laurion, ora in mano spartana, Atene vede definitivamente tramontare il suo momento d’oro; ma tutta la Grecia appare duramente provata dalla guerra. Il volgere del secolo segna il tramonto dell’epoca che era nata dall’esaltazione per la vittoria sui Persiani, da quello «spirito di Platea» che aveva portato a tanti eccellenti risultati nel campo delle arti figurative e della letteratura. Il modello culturale imposto da Atene deve ora cedere il passo a una nuova realtà storica: altre città si affacciano sulla scena politica della Grecia.

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Fig. 5.2 Acropoli di Atene. 5.1.1 Perché parliamo di età classica

Per gli scrittori latini l’aggettivo classicus indicava colui che apparteneva alla prima classe dei cittadini, da qui, per translato, ottimo, eccellente; uno scrittore classicus era un ottimo scrittore. Nella storia dell’arte il termine «classico» è stato utilizzato per indicare l’arte e la civiltà greca dei secoli V e IV a.C. che rappresentavano, per gli studiosi del XVIII e del XIX secolo, il culmine della bellezza e della perfezione. Nonostante questa visione evoluzionistica della storia dell’arte sia stata ormai superata da una concezione storicistica che riconosce il valore autonomo dei singoli periodi artistici, ciascuno legato a determinate situazioni storiche e sociali, l’aggettivo «classico» continua a essere usato per consuetudine in riferimento alla produzione artistica dell’Atene del V secolo. Il termine «classico» si oppone infatti al termine «romantico», che designa il movimento artistico e letterario dell’inizio del XIX secolo che pone l’accento sul libero e 492

appassionato sfogo della fantasia, sull’esaltazione del sentimento individuale, sulla libertà espressiva. In antitesi al romanticismo, classiche sono le opere nelle quali la ricerca di ordine, di proporzione, di simmetria, prevale sull’amore per il movimento, sull’effusione lirica; nel classicismo la fantasia, lo slancio della passione sono controllati e frenati da una rigorosa disciplina stilistica, da forme calme e conchiuse, dalla sobrietà dei gesti, dalla nobiltà ed elevatezza dei contenuti. E sono proprio queste, in effetti, come avremo modo di vedere, le caratteristiche della produzione artistica della seconda metà del V secolo che, attraverso le opere di scultori come Fidia e Policleto, realizza una interpretazione del mondo umano e divino improntata a un sapiente equilibrio di forme e di contenuti, fondendo l’armonia dei corpi alla pacatezza dei gesti e dell’espressione.

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Fig. 5.3 Atene, Acropoli, pianta.

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5.2 Il grande cantiere dell’Acropoli I lavori di ristrutturazione dell’Acropoli (Fig. 5.3) incominciano nel 447 a.C. per volere di Pericle che riesce a far votare all’assemblea del popolo un decreto che destina a questo fine una parte dei tributi versati dagli alleati alla Lega delio-attica. È Fidia, secondo le fonti antiche, a ricoprire il ruolo di direttore dei lavori per conto del primo cittadino di Atene. L’attuale accesso all’Acropoli ricalca in parte il tracciato dell’antica via processionale che un tempo saliva tortuosa fino all’ingresso, che si presentava così in prospettiva obliqua. La gradinata è stata aggiunta al tempo dell’imperatore Claudio per rendere assiale la veduta dei Propilei, in conformità al gusto architettonico romano. Nel V secolo l’entrata era fiancheggiata all’interno, lungo il settore meridionale, dal santuario di Artemide Brauronia e dalla Calcoteca, una sala destinata alle offerte mobili in bronzo (Fig. 5.4); entrambi i complessi erano però chiusi all’interno dei propri temene, così che la via processionale procedeva in leggera salita verso est fiancheggiata dai muri dei due recinti e dai muri di sostegno delle terrazze dell’antico tempio di Atena Poliàs e del Partenone; la vista si apriva soltanto una volta arrivati nel settore orientale della collina. Dal temenos della Calcoteca si poteva però accedere alla terrazza del Partenone tramite una grande scalinata, in parte scavata nella roccia. Il primo edificio a essere progettato e costruito sull’Acropoli al tempo di Pericle fu il Partenone, affidato agli architetti Ictino e Callicrate (si veda par. 5.2.1); i lavori iniziarono nel 447 a.C. e terminarono nel 438 a.C.; intorno al 432 a.C. venne completata anche la decorazione scultorea. 495

Queste date si basano sulle iscrizioni lasciate dai tesorieri, che ogni anno dovevano rendere conto alla città delle spese e dell’avanzamento dei lavori.

Fig. 5.4 Atene, Acropoli, ricostruzione.

Terminato il Partenone, per dotare l’Acropoli di un ingresso monumentale fu chiamato l’architetto Mnesicle che in cinque anni, tra il 437 e il 433 a.C., costruì i Propilei – in marmo pentelico, come il Partenone, con lo stilobate e il rivestimento della parte inferiore dei muri in marmo nero di Eleusi – che sostituirono il modesto ingresso dei tempi di Pisistrato. L’edificio restò privo di decorazione scultorea, forse per le difficoltà insorte con la Guerra del Peloponneso. Per costruire i Propilei Mnesicle dovette tener conto di molte preesistenze sacre, tra le quali la terrazza di Atena Nike, e del dislivello del terreno; con un unico edificio 496

l’architetto riuscì a risolvere questi problemi. I Propilei si compongono quindi di un corpo centrale rettangolare con due facciate simmetriche, dal quale si poteva accedere a due ambienti laterali: uno, a sud, più piccolo, sacrificato dal Pelarghikòn (l’antica cinta muraria poligonale di età micenea) e dalla terrazza di Atena Nike, e uno più grande a nord (10,76 × 8,96 m), con funzione di sala per i banchetti ufficiali e di pinacoteca (Fig. 5.5). Per superare le differenze di livello il corpo centrale era attraversato da una rampa in leggera salita verso est; il passaggio era retto da sei colonne ioniche, tre per parte, le quali, grazie alle dimensioni slanciate, potevano arrivare fino al tetto (Fig. 5.31). Il dislivello era superato anche da uno zoccolo di cinque gradini che sosteneva il muro mediano che, con le sue cinque porte, permetteva il passaggio all’ingresso interno.

Fig. 5.5 Atene, Acropoli, pianta dei Propilei, con il tempietto di Atena Nike.

Le facciate, esastile, di ordine dorico, erano sormontate da frontoni in modo da riproporre il grandioso prospetto del Partenone (Fig. 5.6); l’intercolumnio centrale più largo degli altri permetteva il passaggio delle processioni e sottolineava la funzione del complesso, grandioso accesso al santuario della dea polìade. 497

Sul piccolo bastione meridionale, il Pyrgos dal quale si sarebbe gettato Egeo dopo aver visto la nave che gli annunciava, per errore, la morte del figlio Teseo, sorse il tempietto di Atena Nike, edificato tra il 430 e il 420 a.C., sebbene la sua costruzione fosse già stata decisa nel 448 a.C. Si tratta di un tempio ionico con un’unica cella (8,27 × 5,44 m), anfiprostilo tetrastilo, vale a dire con quattro colonne sulle due fronti (Fig. 5.7). Un fregio continuo correva sui quattro lati sopra l’architrave con scene di battaglia tra Greci e Orientali. Alla fine del secolo, dopo le ultime vittorie ateniesi prima della disfatta finale, il santuario fu dotato di una balaustrata in marmo pentelico che raffigurava, dinanzi ad Atena seduta, numerose Nikai nell’atto di sacrificare e alzare trofei (Figg. 5.66, 5.69). L’ultimo grande edificio a essere costruito sull’Acropoli fu l’Eretteo, iniziato dopo la Pace di Nicia del 421 a.C., interrotto per il disastro in Sicilia nel 413 a.C. e ripreso dopo il 409 a.C. È un edificio particolare, che deve l’asimmetria della pianta al fatto di riunire in sé molti luoghi di culto; si tratta quindi più di un santuario che di un tempio. Il nome, che compare solo in fonti di età romana, deriva da Eretteo, uno dei primi mitici re della città, diventato oggetto di culto con l’epiteto di Posidone Eretteo. Per i Greci l’edificio sostituiva l’antico tempio di Atena Poliàs, protettrice della città; i resti del vecchio tempio rimasero tuttavia a fianco del nuovo fino alla fine del secolo, quando furono distrutti da un incendio.

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Fig. 5.6 Atene, Acropoli, i Propilei.

L’Eretteo si compone di un corpo centrale rettangolare (20,03 × 11,21 m), diviso in due ambienti, che si apre a est con un portico di sei colonne ioniche (Fig. 5.8); alla parte occidentale del tempio, chiusa da un’alta parete con finestre e semicolonne (Fig. 5.9), si appoggiano due corpi laterali, perpendicolari all’asse del tempio maggiore: un pronao tetrastilo, anch’esso ionico, e la celebre loggetta delle Cariatidi (Fig. 5.10), che fungeva da accesso alla tomba dell’eroe attico Cecrope, figlio di Eretteo e re di Atene. Nel santuario erano venerati, oltre a Posidone Eretteo e ad Atena Poliàs, anche il dio Efesto, l’eroe attico Bute, fratello di Eretteo e primo sacerdote di Atena, e il misterioso Erittonio, generato dalla terra fecondata dal seme di Efesto, innamorato, invano, della dea Parthenos, e accolto, sotto forma di serpente, nel tempio dalla dea polìade; vi si potevano scorgere anche i segni lasciati dal fulmine di Zeus e dal tridente di Posidone nella mitica contesa con Atena, effigiata sul frontone occidentale del Partenone. Al lato ovest del tempio maggiore era anche addossato un recinto 499

sacro con il sacello dell’eroina attica Pandroso, figlia di Cecrope, e l’ulivo sacro fatto nascere da Atena.

Fig. 5.7 Atene, Acropoli, il tempietto di Atena Nike.

Fig. 5.8 Atene, Acropoli, pianta dell’Eretteo.

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Fig. 5.9 Atene, Acropoli, Eretteo, lato occidentale e meridionale.

Quasi tutti gli edifici dell’Acropoli periclea erano ornati di sculture e di rilievi all’interno di un programma architettonico e figurativo destinato a magnificare la grandezza di Atene e dei suoi dei; l’Acropoli stessa, che si configura più che mai, in questo periodo, come grande contenitore di culti, templi e santuari – e anche come un enorme cantiere in continuo movimento – era un museo all’aperto, ricca di donari e di ex voto pubblici e privati. Le pendici meridionali della collina, che verranno occupate da grandiosi edifici di età ellenistica e romana, come la stoà di Eumene II e l’odeion di Erode Attico, erano anch’esse sede di culti antichissimi.

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Fig. 5.10 Atene, Acropoli, Eretteo, loggia delle Cariatidi. (tav. 31)

All’epoca di Pericle erano tuttavia più spoglie di come le vediamo adesso. Sappiamo ad esempio che Fidia costruì la colossale statua di bronzo di Atena Promachos, posta un tempo davanti alla facciata interna dei Propilei (Fig. 5.4), in un’officina allestita appositamente non lontano dall’ingresso, i cui resti sono stati rinvenuti nel corso di scavi archeologici. Risalgono all’età di Pericle l’odeion, costruito presso l’angolo sud-est dell’Acropoli, e il primo impianto del teatro di Dioniso Eleuthereus, a pianta rettilinea con gradinate di legno e proedria in pietra. Il teatro attuale, a cavea semicircolare (Fig. 5.2), è frutto di una radicale trasformazione della seconda metà del IV secolo, con numerose aggiunte di età romana. L’odeion di Pericle, a pianta quasi quadrata (68,60 × 62,40 m), destinato alla celebrazione di agoni musicali, era una sala ipostila (sorretta da colonne) sormontata da un tetto a spioventi, costruito con il legno delle navi sottratte ai Persiani, che imitava la 502

grande tenda di Serse. L’impianto ricorda il Telesterion di Eleusi, ricostruito nella seconda metà del V secolo a.C. (Fig. 5.44). Risale alla fine del V secolo anche il primo impianto del santuario di Asklepios, a occidente del teatro, voluto da un privato, il ricco ateniese Telemachos, dopo la peste, e ristrutturato nel secolo seguente con un tempio dorico tetrastilo, un grande altare e un portico a due piani. 5.2.1 Uno scrigno di marmo per Atena

Come è stato notato il Partenone non ha l’altare, che di norma negli edifici sacri è posto a est, di fronte all’ingresso; il vero altare di Atena, quello che costituiva il punto d’arrivo della processione delle Panatenee, era infatti situato tra il Partenone e l’Eretteo, dove era la cella del vecchio tempio di Atena Poliàs (Fig. 5.4). Ogni anno, in occasione delle Panatenee, un nuovo peplo veniva offerto all’antichissimo simulacro della dea, che era in legno d’olivo e si diceva fosse caduto dal cielo. Il Partenone è quindi un edificio del tutto particolare, costruito per ospitare e custodire la grande statua crisoelefantina della dea – appunto Atena Parthenos, vergine (Fig. 5.11) – e le altre offerte a lei dedicate, una sorta di enorme e lussuosissimo «tesoro», ideato per diventare il simbolo della potenza di Atene. La pianta del Partenone (Fig. 5.12), concepito come un tempio dorico periptero (69,54 × 30,87 m), con otto colonne sui lati corti e diciassette sui lati lunghi (h 10,43 m), si caratterizza infatti per le dimensioni eccezionali della cella, che comportano la riduzione dei corridoi (pteroma) del peristilio (Fig. 5.13), più stretti della norma (largh. 2,57 m); anche la profondità del pronao e dell’opistodomo è notevolmente ridotta per lasciare più spazio alla cella. Quest’ultima è divisa in due ambienti separati, il più grande 503

dei quali (29,89 × 19,19 m), a est, ospitava la statua della dea; i colonnati interni, formati come di norma da due ordini sovrapposti di colonne doriche, vengono qui per la prima volta disposti a Π (pi greco) e addossati alle pareti per aumentare lo spazio della navata centrale. Il secondo ambiente, a occidente, recava al centro della sala quattro colonne ioniche; queste ultime, più slanciate, potevano raggiungere senza sovrapposizioni la sommità del tetto; la sala doveva essere destinata a contenere le offerte alla dea e le riserve monetarie. Sulla parete esterna della cella, in alto, correva un fregio continuo con il famoso corteo delle Panatenee (Fig. 5.32).

Fig. 5.11 Atene, Partenone, statua crisoelefantina di Atena, ricostruzione del Royal Ontario Museum di Toronto, da Rolley 1999. (tav. 27)

L’alzato, tutto in marmo pentelico, metteva in opera una studiata serie di accorgimenti per alleggerire la pesantezza dell’ordine dorico, dalla curvatura delle linee orizzontali, sia 504

nello stilobate sia negli elementi della trabeazione, all’inclinazione delle colonne verso l’interno (Fig. 5.14). L’armonia dell’insieme era anche affidata alla combinazione delle proporzioni e delle unità di misura; sappiamo che Ictino aveva scritto un’opera descrivendo minuziosamente gli accorgimenti tecnici che aveva usato per la costruzione dell’imponente edificio. All’interno dell’Acropoli, il programma decorativo del Partenone riassume, per la sua articolazione e complessità, il messaggio «mediatico» dell’età di Pericle. Come è noto non tutta la decorazione è giunta integra fino ai nostri giorni; tuttavia, nonostante le vicende subite dal Partenone nel corso della sua lunga storia – dalla trasformazione in chiesa, a quella in moschea, fino alla devastante esplosione del 28 settembre 1687 – e la frammentazione del patrimonio scultoreo nei principali musei europei, grazie ai disegni di viaggiatori ed eruditi dei secoli scorsi e alle analisi puntuali compiute sui documenti superstiti, è ormai possibile avere un’idea abbastanza completa di tutto l’apparato figurativo. Il ritrovamento di nuovi frammenti nei magazzini e sul campo consentirà anche per l’avvenire ulteriori proposte e integrazioni.

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Fig. 5.12 Atene, Acropoli, pianta del Partenone.

Fig. 5.13 Atene, Acropoli, peristasi e cella del Partenone.

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Fig. 5.14 Atene, Acropoli, il lato occidentale del Partenone. (tav. 30)

Come per il tempio di Zeus di Olimpia, le prime sculture a essere messe in opera sono state sicuramente le metope, che devono essere collocate sull’architrave prima della copertura dell’edificio; per la prima volta, nel Partenone vengono decorate tutte le metope della peristasi (92 metope, larghe in media 1,25 m e alte 1,37 m), e non solo quelle dei lati brevi. In marmo pentelico, come tutte le altre sculture, sono scolpite ad altorilievo, con numerosi elementi a tutto tondo; i panneggi, a basso rilievo, dovevano essere ravvivati dal colore e anche il fondo doveva essere alternativamente rosso e blu. Ogni lato dell’edificio era devoluto a illustrare un grande evento mitico: la gigantomachia a est, l’amazzonomachia a ovest, la centauromachia a sud e la conquista di Troia a nord. Sono i miti della grande pittura di Polignoto e di Micone che oppongono la civilizzazione alla barbarie, l’ordine al caos ed esaltano la grandezza di Atene che ha saputo opporsi ai Persiani, come Teseo alle Amazzoni, come Eracle e gli dei olimpici ai Giganti, come Teseo e Piritoo ai 507

Centauri, come i Greci ai Troiani. La scelta di questi temi è un omaggio alla generazione delle Guerre Persiane che tanto si è sacrificata per garantire un futuro a tutti i Greci.

Fig. 5.15 Metopa 31, dal lato meridionale del Partenone. Londra, British Museum.

Dal punto di vista stilistico, anche se il progetto, dovuto a Fidia, appare coerente e unitario, sono state riconosciute nelle metope «mani» differenti che denunciano la presenza di scultori di diversa formazione, alcuni legati allo stile severo, altri più innovativi, all’interno di un’équipe che, all’inizio dei lavori, non ha ancora raggiunto quella coesione che porterà all’uniformità del lungo fregio delle Panatenee. Nella metopa 31 un centauro afferra per il collo un lapita, che reagisce puntando il ginocchio tra le zampe anteriori del mostro (Fig. 5.15); entrambi i corpi sono in tensione e in equilibrio instabile. Lo scultore è qui fortemente legato allo 508

stile severo nelle partizioni dell’addome, molto evidenziate, quasi geometriche, e nella scelta di raffigurare il volto del centauro come un mascherone, con tratti arcaicizzanti. Nella metopa 27 del lato sud (Fig. 5.16) un centauro cerca di fuggire verso l’esterno, ma viene trattenuto da un lapita che, puntando saldamente al suolo la gamba sinistra, tira verso di sé il mostro con tutte le sue forze. Nonostante la tensione, le membra del lapita sono più plastiche, i passaggi più sfumati; il ritmo aperto e la curvatura del corpo del giovane, che inarca il torso nella direzione opposta a quella del suo nemico, rendono con grande effetto l’esultanza del vincitore, mentre il panneggio, con le sue pieghe larghe e morbide, crea uno sfondo quasi teatrale alla scena.

Fig. 5.16 Metopa 27, dal lato meridionale del Partenone. Londra, British Museum.

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Fig. 5.17 Atene, Acropoli, la peristasi e il pronao del Partenone con il fregio continuo delle Panatenee.

La decorazione del Partenone comprende anche un importante elemento innovativo all’interno del rigore geometrico e modulare dell’ordine dorico, il fregio a bassorilievo, tipico dell’ordine ionico, alto circa 1 m, che correva sulla sommità del muro della cella, passando anche sulle colonne del pronao e dell’opistodomo al posto del consueto fregio dorico, per 160 m, ed era quindi visibile tra le colonne della peristasi (Fig. 5.17). Si è molto discusso, e molto si discuterà, sull’esegesi del fregio che in sostanza rappresenta la processione in occasione delle Panatenee, con l’offerta del peplo alla dea alla presenza dei dodici dei e degli eroi eponimi della città. La processione iniziava nell’angolo sud-occidentale dell’edificio, dove si divideva in due cortei di cavalieri, carri e personaggi a piedi; entrambi convergevano sul lato est, in corrispondenza della porta della cella, dove avveniva la consegna del peplo, tessuto ogni anno dalle ergastinai

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(letteralmente, le lavoranti), scelte tra le fanciulle delle più nobili famiglie ateniesi. Se appare scontato il riferimento a una ritualità religiosa, nondimeno vi è stato un intenso dibattito sulla possibilità di ancorare la processione a un avvenimento storico preciso, o di leggerla esclusivamente in prospettiva mitica. Altre letture, basandosi sull’ampio spazio riservato alla cavalleria, privilegiano l’esaltazione dell’eroismo bellico del tempo delle Guerre Persiane; altre ancora hanno ritenuto di riconoscere nei personaggi dei due cortei l’espressione delle istituzioni della polis aristocratica e arcaica contrapposte a quelle del presente democratico: il momento festivo offrirebbe l’occasione ideale per unire passato e presente e proiettare la città verso un futuro glorioso. In ogni caso si tratta di un avvenimento corale, legato al culto della patria e fortemente permeato di religiosità, che coinvolge tutte le componenti della società ateniese; uomini e donne, vecchi e giovani, intellettuali e popolani potevano identificarsi nei personaggi del fregio e riconoscere i vari momenti della cerimonia; è un’umanità varia, molteplice (circa 360 personaggi e 200 animali), indaffarata, moralmente coinvolta e partecipe, che, sotto le direttive di Fidia, viene trasfigurata secondo una visione idealistica e trascendente e assimilata alle divinità.

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Fig. 5.18 Cavalcata degli efebi, dal fregio ovest del Partenone. Londra, British Museum.

Fig. 5.19 Portatori di hydriai, dal fregio nord del Partenone. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Fig. 5.20 Gli dei, dal fregio est del Partenone. Atene, Museo dell’Acropoli.

Fig. 5.21 Fanciulle e accompagnatori, dal fregio est del Partenone. Parigi, Louvre.

È il momento della festa e non vi è nulla di brutto e di faticoso. La cavalcata degli efebi (Fig. 5.18) è l’esaltazione della gioventù ateniese, ancora secondo il principio del kalòs kai agathòs dell’antico mondo dei kouroi (si veda par. 3.3.1); i portatori di hydriai, seri e compresi nel loro compito, hanno la dignità dei cittadini di pieno diritto (Fig. 513

5.19); i volti sono anonimi, i corpi atletici non avvertono il peso dei recipienti pieni di acqua, lo sforzo non rientra nel programma fidiaco che proietta la processione in una dimensione atemporale. Le fanciulle sono il ritratto ideale delle spose e delle madri ateniesi, con le loro vesti dal ricco panneggio, i gesti misurati, il capo reclinato con modestia e virtù (Fig. 5.21); i vecchi che le accompagnano con dignità statuaria sembrano godere di un’eterna giovinezza.

Fig. 5.22 Partenone, frontone est, ricostruzione.

Fig. 5.23 Partenone, frontone ovest, ricostruzione.

Gli dei, seduti a guardare la cerimonia, sono completamente umanizzati (Fig. 5.20); rilassati, calmi, quasi incuriositi, sono solo più grandi dei mortali che supererebbero del doppio in altezza se si alzassero in piedi. Il multiforme corteo della società ateniese scorre sul fondo neutro con un ritmo ora lento, ora concitato che il rilievo bassissimo riesce perfettamente ad armonizzare; la solennità delle immagini doveva essere un tempo smorzata dall’uso del colore, che aveva il potere di vivacizzare e di sdrammatizzare anche lo stile fidiaco. Senza i colori noi riusciamo meglio a cogliere la delicatezza del modellato,

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l’affiorare delle forme sotto le vesti, la raffinatezza dei panneggi, il senso di divina serenità proprio dell’arte fidiaca. Metope e fregio sono stati sicuramente ultimati prima del 438 a.C., l’anno nel quale viene collocata nella cella la statua crisoelefantina di Atena (si veda par. 5.4.1). Le sculture dei frontoni, scolpite a terra a tutto tondo, sono state certamente sistemate per ultime, a edificio finito, poco prima dell’inizio della guerra. Il frontone est rappresentava la nascita di Atena; il frontone ovest la contesa tra Atena e Posidone per il possesso dell’Attica. Purtroppo, a causa dell’iconoclastia cristiana e dell’esplosione del 1687 – quando, durante l’assedio dei Veneziani, il Partenone, nel quale i Turchi avevano ammassato le polveri da sparo, fu colpito in pieno – tutti i gruppi centrali dei frontoni sono stati irrimediabilmente perduti; le numerose proposte di ricostruzione sono state avanzate analizzando puntualmente le sculture superstiti, i frammenti, le tracce degli incassi sul piano di posa, le riproduzioni antiche e i disegni eseguiti dai viaggiatori dei secoli scorsi. Nel frontone orientale, la prodigiosa nascita di Atena dal cervello di Zeus avviene alla presenza di tutti gli dei in una dimensione cosmica, tra la quadriga di Helios, il sole, nell’angolo meridionale del timpano, che si alzava verso il cielo, e quella di Selene, la luna, che si inabissava (Fig. 5.22). Nel frontone ovest (Fig. 5.23) lo scontro tra le due divinità si colloca al centro della scena, ma entrambi i personaggi arretrano, con movimento centrifugo, allontanandosi l’uno dall’altra come colpiti dai prodigi da loro stessi generati; lo schema divergente verrà ripreso, secoli dopo, dal fregio dell’altare di Pergamo (Figg. 8.44, 8.45). Il centro del frontone doveva essere occupato dall’olivo fatto nascere da Atena, grazie al quale la dea vince la contesa su Posidone, che fa scaturire dalla roccia una sorgente di acqua salata. 515

Fig. 5.24 Partenone, frontone est, lato sinistro: Dioniso (D), Kore (E), Demetra (F), Iris (G). Londra, British Museum.

Fig. 5.25 Partenone, frontone est, lato destro: tre dee, Hestia (K), Dione(L), Afrodite (M). Londra, British Museum.

Allo schema divergente del gruppo formato da Atena e Posidone corrisponde il movimento dei gruppi laterali con figure che fuggono verso le estremità e altre che convergono verso il centro; superando il Maestro di Olimpia, Fidia elimina la figura centrale per muoversi liberamente nello spazio dove tutti i personaggi interagiscono tra di loro. Nel frontone est (Fig. 5.24), nell’ala sinistra, alla quadriga di Helios segue la figura di Dioniso che, volgendo le spalle alla scena centrale, brinda al sorgere del sole; alle sue spalle Iris, in rapida corsa verso l’esterno, il panneggio agitato e svolazzante, porta la lieta novella accolta da Demetra, che si volge decisamente verso la messaggera degli dei, mentre 516

Kore, ancora seduta frontalmente, comincia a girarsi; un senso di inquietudine, di ansia per quanto sta accadendo domina tutti i protagonisti dell’evento, pronti allo scatto. Nell’ala destra, Hestia, seduta, sta volgendosi lentamente verso il centro, mentre Afrodite resta mollemente sdraiata sul grembo della madre Dione, pur volgendo il capo verso il centro della scena (Fig. 5.25). Il panneggio sontuoso, ricco di effetti chiaroscurali, quasi pittorico, avvolge i corpi senza nascondere le forme che risaltano, salde e possenti, sotto le vesti; la stoffa leggerissima dei chitoni, quasi impalpabile, aderisce al seno creando la sensazione di una stoffa bagnata, effetto che diventerà canonico nelle immagini femminili dell’ultimo trentennio del secolo (Figg. 5.64, 5.69).

Fig. 5.26 Partenone, frontone ovest, lato sinistro: Cecrope (B) e Pandroso (C). Atene, Museo dell’Acropoli.

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Fig. 5.27 Partenone, frontone est, lato destro: la testa del cavallo di Selene. Londra, British Museum.

Sul frontone ovest, Cecrope, mitico re di Atene (Fig. 5.26), arbitro della contesa, ne osserva lo svolgimento in appoggio sulla spira serpentina che fa parte del suo corpo, mentre la figlia Pandroso si appoggia al padre; i corpi sono carichi di tensione, frementi; i panneggi sottolineano ancora una volta i movimenti e la vitalità dei personaggi. Anche i cavalli partecipano di questa inquietudine; la testa del cavallo di Selene, che fuoriesce dal piano di posa del frontone, perfettamente conservata (Fig. 5.27), ha indotto Goethe a parlare poeticamente di Urpferd, un termine – che la traduzione italiana potrebbe solo minimizzare – che sottolinea la nobiltà dell’animale e il suo valore eterno, essenziale, perfetto.

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5.3 Urbanistica e architettura 5.3.1 Dall’urbanistica ortogonale all’urbanistica funzionale

L’urbanistica del V secolo è legata alla figura di Ippodamo di Mileto, poliedrico personaggio che le fonti antiche ricordano come autore dell’impianto del Pireo, ma anche per le sue qualità di erudito e di pensatore politico, impegnato, come i filosofi, nella definizione della città ideale. Secondo Aristotele, Ippodamo «trovò il piano regolatore delle città e divise il Pireo». Altre fonti, che lo definiscono cittadino di Thurii, lo collegano alla fondazione della colonia panellenica nel sito dell’antica Sibari, avvenuta nel 444-443 a.C., e altre ancora alla pianificazione urbana di Rodi, fondata per sinecismo nel 408 a.C. Una lunga serie di studi ha ormai permesso di valutare criticamente la figura di Ippodamo, che deve essere stato sicuramente uno dei principali teorici dell’urbanistica antica, e di attribuirgli, più che l’invenzione dell’urbanistica ortogonale, che appartiene al secolo precedente, la ripartizione funzionale dell’impianto urbano. Gli scavi archeologici hanno infatti dimostrato che la suddivisione regolare e geometrica dello spazio cittadino, affidata a una serie di assi ortogonali, è una delle caratteristiche delle città coloniali, fondate ex novo in un territorio libero da precedenti strutture, o almeno non ancora organizzato in senso urbanistico (si veda par. 1.2.3). La pianta regolare, basata sull’incrocio di larghe strade di scorrimento (plateiai, letteralmente strade larghe), con una serie di strade minori a esse ortogonali (stenopòi, strade strette) si ritrova ad esempio a Poseidonia, in Campania. Fondata da Sibari alla sinistra del fiume Sele, al centro di una vasta e fertile pianura, la città fu costruita intorno al 600 519

a.C., come si ricava dai contesti funerari più antichi, su una piattaforma calcarea che si eleva per circa 15 m sulla piana circostante. Già in età arcaica la città si struttura su tre plateiai con direzione est-ovest, distanti circa 300 m l’una dall’altra, tagliate da una fitta serie di stenopoi, larghi 5 m, ad esse perpendicolari, che determinano isolati allungati occupati da abitazioni (Fig. 5.28). È la pianta per strigas, «per strisce», ricordata dall’architetto romano Vitruvio, che caratterizza anche altri impianti urbani della metà del VI secolo, come quello di Metaponto. All’interno di questa maglia geometrica, a Poseidonia lo spazio centrale è riservato fin dall’epoca arcaica alla vita civile e religiosa della città, la vasta agorà con gli edifici dedicati al culto degli eroi e alle riunioni dei cittadini, e i santuari urbani con i grandi templi peripteri (Fig. 4.4).

Fig. 5.28 Poseidonia, pianta.

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Fig. 5.29 Thurii, ricostruzione.

Se lo schema ortogonale è legato alle nuove fondazioni coloniali, bisogna cercare altrove lo specifico ippodameo. Il collegamento con Thurii, e quindi con l’entourage di Pericle, fornisce a questo proposito molte preziose informazioni, che sono state valutate alla luce degli scavi nel sito della colonia panellenica, mirati alla ricostruzione della planimetria della città. Su Thurii abbiamo innanzitutto una bella descrizione di Diodoro Siculo, storico di età augustea, che riporta (XII, 10, 7) che i Thurini, dopo aver tracciato quattro plateiai in un senso, i nomi delle quali erano Herakleia, Afrodisia, Olimpiade e Dionisiade, la divisero nell’altro senso con altre tre plateiai, Heroa, Thuria e Thurina, e che, essendo queste riempite di stenopoi, la città appariva «ben apparecchiata». Gli scavi, pur complicati dall’insistere della colonia romana di Copiae sull’antica polis greca, hanno permesso di ricostruire un tracciato non più per strigas, ma a scacchiera, basato sull’incrocio di plateiai distanti tra loro 1300 piedi in senso nord-sud (=400 m) e 1000 piedi in senso estovest (=295 m). All’interno di questo schema (Fig. 5.29), i nomi delle strade, che di norma nel mondo greco sono legati a 521

luoghi pubblici a carattere sacro o civile, consentono di ipotizzare una diversificazione funzionale delle varie aree della città. Se infatti le strade prendevano il nome dal luogo più importante che attraversavano, nel caso delle vie con nomi di divinità (Afrodisia, Olimpiade, Dionisiade) si è visto un legame con santuari e luoghi di culto distribuiti nel tessuto urbano e non più riuniti in un unico grande santuario; la strada Heroa, invece, passava probabilmente in prossimità di uno spazio destinato al culto eroico, quindi nei pressi dell’agorà, mentre la Thurina doveva portare nel territorio, nel thurino; la Herakleia doveva correre a est, lungo il mare, dal momento che il toponimo, che può sottintendere le peregrinazioni di Eracle lungo le coste dell’Italìa, è frequente per le vie litoranee; la strada passava infatti accanto a strutture portuali e presumibilmente commerciali, recentemente individuate nei pressi della porta orientale.

Fig. 5.30 Atene, Pireo, pianta. a) zona commerciale b) agorà ed edifici sacri c) zona militare portuale

La novità dell’impianto ippodameo starebbe quindi nell’organizzazione più funzionale dello spazio urbano. Agli 522

stessi principi è ispirata la pianta del Pireo (Fig. 5.30), che prevedeva una zona centrale, riservata alle strutture civiche e religiose, che metteva in comunicazione i due porti principali di Kantharos, riservato alle attività commerciali, e di Zea, con funzioni prettamente militari. Una serie di cippi terminali (horai) con iscrizioni («limite dell’agorà», «limite del porto e della via», «limite del propylon pubblico», ecc.), alcuni dei quali rinvenuti in situ, hanno permesso di ricostruire la prassi ippodamea di delimitare i quartieri e stabilirne le funzioni, prima di procedere alla costruzione degli edifici. 5.3.2 Oltre il Partenone: gli scambi tra ordini architettonici e la conquista dello spazio interno

Una delle caratteristiche del Partenone è quella di unire in un solo edificio elementi dell’ordine dorico – la peristasi e tutto l’alzato – con elementi dell’ordine ionico, il lungo fregio delle Panatenee, che correva lungo le pareti della cella e sostituiva il fregio dorico sul pronao e sull’opistodomo (Fig. 5.32), e le quattro colonne poste al centro della sala occidentale (Fig. 5.12). Anche Mnesicle, nei Propilei, si serve di sei colonne ioniche, tre per parte, per il passaggio centrale che collegava i due prospetti architettonici dorici (Fig. 5.31); le colonne ioniche, più strette e più alte delle colonne doriche delle due facciate, riescono a colmare il dislivello tra le due entrate, mitigando nel contempo, con l’innegabile eleganza dell’ordine, la monumentale austerità del complesso. Gli scambi tra i due ordini erano già stati introdotti in Occidente, a Poseidonia, nell’Athenaion del santuario urbano settentrionale, il cosiddetto tempio di Cerere degli eruditi settecenteschi, costruito alla fine del VI secolo. Il tempio, dorico, periptero, con sei colonne sui lati corti e tredici sui lati lunghi, coniuga tradizione e innovazione: le colonne hanno interassi tutti uguali e la peristasi è disposta 523

in modo molto regolare sullo stilobate che ha una lunghezza di 100 piedi come un antico hekatompedon. La cella, già libera da sostegni interni, è preceduta da uno spazioso pronao con quattro colonne ioniche sulla fronte e due sui lati e semicolonne addossate alle estremità dei muri (Fig. 5.33) che accentua la frontalità tipica dell’architettura occidentale. La scelta dell’ordine ionico testimonia la ra pida diffusione di questo stile che avrà esiti di estremo interesse anche in Magna Grecia e in Sicilia.

Fig. 5.31 Atene, Acropoli, il passaggio centrale dei Propilei, ricostruzione di T. Tanoulas (da Holzmann 2003).

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Fig. 5.32 Atene, Acropoli, la peristasi e la cella del Partenone con il fregio continuo delle Panatenee (da Jenkins 1994).

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Fig. 5.33 Poseidonia, Athenaion, ricostruzione del pronao.

Fig. 5.34 Atene, Ephaisteion, pianta.

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Fig. 5.35 Atene, Ephaisteion, il fregio.

Ma bisognerà aspettare la seconda metà del V secolo perché l’unione tra i due ordini venga ratificata nella grande officina di Atene. Il tempio di Efesto (il cosiddetto Theseion, per i soggetti delle metope, che illustrano episodi delle imprese di Teseo), costruito sul Kolonòs Agoraios – la collina che sovrasta il lato occidentale dell’Agorà di Atene, stazione per i braccianti che cercavano lavoro a giornata (kolonetai) e sede delle botteghe dei calderari e delle officine di bronzisti (Fig. 3.58) – presenta una pianta prossima a quella del Partenone, benché di dimensioni più ridotte (31,77 × 13,73 m), con una peristasi di 6 × 13 colonne doriche in marmo pentelico (Fig. 5.34). La cella ripropone il colonnato interno a Π pi greco – che offre uno spazio maggiore per la collocazione della statua di culto – realizzato ancora con colonne doriche disposte su due ordini come nel Partenone, dal quale l’Ephaisteion deriva anche la decorazione scultorea, composta sulla peristasi da metope scolpite e sul pronao e sull’opistodomo da fregi ionici con scene di gigantomachia e 527

di centauromachia (Fig. 5.35). Il tempio (Fig. 5.36), iniziato intorno al 449 a.C. per volere di Cimone, venne portato a termine dopo la costruzione del Partenone, come dimostrano lo stile del fregio, che rimanda al 430 a.C. ca, e i conti per le statue di culto di Atena ed Efesto, descritte da Pausania e opera di Alcamene, che ne datano l’esecuzione tra il 421 e il 415 a.C.

Fig. 5.36 Atene, Ephaisteion.

Fig. 5.37 Capo Sounion (Attica), tempio di Posidone.

Anche il tempio di Posidone a Capo Sounion (Fig. 5.37), un periptero dorico (6 × 13 colonne), era decorato con un 528

fregio continuo in marmo pario che correva sull’architrave dei quattro lati interni del pronao, sul quale si leggono ancora scene di lotta tra Lapiti e Centauri e imprese di Teseo. Le proporzioni degli elementi architettonici e la presenza del fregio hanno fatto ipotizzare l’intervento delle stesse maestranze impegnate nella fabbrica dell’Ephaisteion. Alla fine del secolo, l’associazione degli ordini ritorna, insieme ad altre importanti innovazioni, nel tempio di Apollo Epicurio in Arcadia, dedicato dagli abitanti di Figalìa a Bassai (Fig. 5.38). Esternamente il tempio è dorico, con una peristasi di 6 × 15 colonne dettata dalla presenza dell’adyton sul fondo della cella (Fig. 5.39). All’interno della cella, la pianta abolisce le tre navate canoniche, liberando lo spazio centrale: le otto colonne interne, ioniche, sono infatti ricondotte a semicolonne addossate ad altrettanti contrafforti sporgenti dai lati lunghi (Fig. 5.41); l’adyton, accessibile anche dall’esterno lungo il lato orientale del tempio, è separato dalla cella tramite due semicolonne oblique e una colonna centrale, libera, che adotta, per la prima volta, il capitello corinzio a kalathos ricoperto da foglie d’acanto (Fig. 5.40).

Fig. 5.38 Bassai (Arcadia), il tempio di Apollo Epicurio.

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Fig. 5.39 Bassai (Arcadia), tempio di Apollo Epicurio, pianta.

Sopra il colonnato interno, che ha qui una funzione più decorativa che portante, correva un fregio continuo che rappresentava episodi della centauromachia e dell’amazzonomachia, improntati a un manierismo eclettico, con riprese di schemi policletei per i nudi maschili, qui in movimento agitato, e ampio gioco di panneggi per le figure femminili (Fig. 5.42). Le cifre stilistiche del fregio figurato e i dati morfologici dell’ordine architettonico interno concorrono a individuare una produzione locale, da collocare cronologicamente alla fine del V secolo a.C.

Fig. 5.40

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Bassai (Arcadia), tempio di Apollo Epicurio, ricostruzione della cella.

Fig. 5.41 Bassai (Arcadia), tempio di Apollo Epicurio, interno.

Fig. 5.42 Bassai (Arcadia), tempio di Apollo Epicurio, fregio est, Achille e Pentesilea. Londra, British Museum.

La necessità di rivalutare lo spazio interno si avverte anche nel nuovo Telestèrion di Eleusi, che viene ulteriormente ampliato nella seconda metà del V secolo a.C. 531

L’edificio, destinato alla celebrazione dei culti misterici, era una sala quadrangolare che conteneva un antico luogo di culto risalente all’epoca micenea. La nuova aula, a pianta quadrata di m 52 per lato (Fig. 5.44 a,b), era fornita di gradinate su tutti i lati e di coppie di porte sui lati nord, est e sud; la copertura era sostenuta da sei file di sette colonne ciascuna, disposte in modo da liberare la vista verso il centro.

Fig. 5.43 Eleusi, santuario di Demetra, il Telesterion, gradinate.

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Fig. 5.44 a.b. Eleusi, santuario di Demetra, il Telestèrion, pianta e ricostruzione.

Questi edifici chiusi, destinati a riunioni religiose, come nel caso di Eleusi, o profane, come l’odeion di Pericle, erano vaste sale a pianta rettangolare o quadrata dal tetto sorretto da più file di colonne; i problemi architettonici erano legati al posizionamento dei sostegni, che dovevano lasciare spazio alle gradinate per il pubblico (Fig. 5.43) e all’illuminazione, risolta solo in parte con la luce che arrivava dagli ingressi. Alcuni edifici avevano infatti la parte centrale del tetto sopraelevata a lanterna, con ampie aperture nelle porzioni di muro che si elevavano sopra il tetto, per fare entrare più luce.

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Fig. 5.45 Atene, Acropoli, Eretteo, porta del portico settentrionale, particolare della decorazione.

La conquista dello spazio interno si accompagna, nella seconda metà del V secolo, alla ricerca di valori decorativi, che si esprime nell’adozione dell’ordine ionico per gli edifici dell’Acropoli post-periclea, come, ad esempio, il tempietto di Atena Nike (Fig. 5.7) e l’Eretteo, con la sua ricca decorazione accessoria (Fig. 5.45). L’ordine dorico verrà in genere mantenuto per l’esterno, ma con una progressiva tendenza a irrigidire le sue linee e i suoi profili. La scelta di un’archittetura più plastica e decorativa porterà nel secolo successivo a un largo uso dell’ordine corinzio e al superamento dei princìpi dell’architettura classica con nuove tipologie architettoniche.

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5.4 La plastica a tutto tondo e il rilievo La scultura della seconda metà del V secolo è dominata dalle personalità di Fidia e di Policleto, creatori di un canone figurativo che coniuga l’armonia delle forme alla serenità dell’espressione. La ricerca dell’elemento passionale, realistico e terreno (Figg. 4.18, 4.24), che il Maestro di Olimpia aveva incominciato a introdurre nel linguaggio figurativo (si veda par. 4.4.1), si interrompe in favore di una visione idealistica e trascendente che tende ad assimilare gli uomini agli dei. La via indicata dalle sculture di Olimpia verrà ripresa soltanto nel secolo successivo, quando le mutate condizioni politiche richiederanno una forma artistica più libera e più vicina al mondo degli uomini. 5.4.1 Fidia, l’interprete degli ideali di Pericle

Abbiamo già avuto modo di parlare di Fidia a proposito dello sviluppo della ponderazione (si veda par. 4.5.1) e delle sculture del Partenone (si veda par. 5.2.1), che sono gli unici originali a noi pervenuti; sarà ora opportuno riassumere brevemente le fasi più salienti della sua carriera. Nato intorno al 500-490 a.C., inizia a lavorare come pittore, ma si afferma come scultore e bronzista; doveva già essere famoso quando viene chiamato, intorno al 460 a.C., per la realizzazione della colossale statua bronzea di Atena, l’Atena Promachos (che combatte nelle prime file), alta quasi 9 m, posta al centro dell’Acropoli, di fronte ai Propilei, e visibile, secondo Pausania, da chi arrivava in nave doppiando Capo Sounion. Risalgono alla stessa epoca il Donario di Maratona a Delfi, l’Apollo Parnopios (Figg. 4.28, 4.29) e l’Atena Lemnia (Fig. 4.45). Intorno al 435 a.C. deve essere avvenuto il concorso per l’amazzone di Efeso (si veda infra), che rientra ancora nel periodo attico. Sembra invece posteriore 535

alla Parthenos, portata a termine nel 438-437 a.C., lo Zeus di Olimpia, eseguito tra il 435 e il 425 a.C., quindi in concomitanza con la conclusione dei lavori per la decorazione scultorea del Partenone. Moltissime le opere a lui attribuite, che la critica archeologica cerca di ricostruire mettendo a confronto le numerose citazioni delle fonti antiche con le copie e le rielaborazioni di età romana. Le statue crisoelefantine della Parthenos e di Zeus (in avorio e oro, si veda par. 3.7.3) erano celebrate fin dall’antichità per la ricchezza dell’apparato e per i valori simbolici degli elementi decorativi. Della Parthenos (Fig. 5.11), che doveva essere alta circa 12 m, restano riproduzioni marmoree, come la nota statuetta (h 1,045 m) proveniente dal ginnasio del Varvakeion di Atene (Fig. 5.46), oltre a numerose repliche su gemme, gioielli, monete e terrecotte; la dea era raffigurata stante, frontale, secondo la consueta ponderazione attica (gamba destra portante, sinistra flessa), vestita di un peplo a grandi pieghe con ampio risvolto cinto alla vita da una cintura, come l’Atena di Anghelitos (Fig. 4.42), e coperto sul petto dall’egida; di questo tipo di peplo, dalle pieghe rade, pesanti e pastose, contraddistinte dalla contrapposizione tra la caduta verticale sulla gamba portante e l’aderenza della stoffa sulla gamba flessa, abbiamo una eco nelle numerose statue di Atena dell’ultimo trentennio del V secolo conosciute attraverso copie di età romana, come l’Atena Medici (Fig. 5.47). Nella mano destra, che secondo la copia del Varvakeion era sostenuta da una colonna (Fig. 5.46), la dea recava una Nike, raffigurata nell’atto di posarsi, che simboleggiava il dono più prezioso per il popolo d’Atene, la vittoria; con la sinistra la dea tratteneva il grande scudo sul quale erano effigiate, intorno a un gorgoneion d’argento dorato, l’amazzonomachia con Teseo (sulla parete esterna) e 536

la gigantomachia (sulla parete interna); la lancia doveva essere semplicemente appoggiata sulla spalla sinistra. Accanto allo scudo è accovacciato Erittonio, sotto l’aspetto di serpente. L’elmo della dea era sormontato da una sfinge, antico simbolo di regalità, e da due grifoni, protettori dell’oro con il quale era realizzata l’opera. La base della statua recava, a bassorilievo, la nascita di Pandora, la prima donna, creata da Efesto e istruita da Atena. Tutti gli episodi mitici che decoravano la statua erano dunque strettamente collegati alla gloria della dea e alla grandezza degli Ateniesi.

Fig. 5.46 Statuetta di Atena, da Atene, ginnasio del Varvakeion. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 5.47 Statua di Atena, detta «Atena Medici». Parigi, Louvre.

Dello Zeus di Olimpia si salva la puntuale descrizione di Pausania (si veda par. 4.4), oltre a riproduzioni su monete; è stata anche avanzata l’ipotesi che la testa della statua di culto del tempio di Zeus a Cirene riproducesse, più o meno fedelmente, le fattezze dello Zeus fidiaco. Anche in questo caso si trattava di una statua crisoelefantina che doveva avere un alto valore simbolico (Fig. 5.48). Il dio era raffigurato su un trono fittamente decorato con figure ed episodi mitici che celebravano il potere del dio e la 538

grandezza della Grecia, dove coloro che si erano macchiati di hybris ricevevano la giusta punizione e gli eroi erano esaltati per il loro valore. L’importanza di Fidia nell’arte del V secolo, al di là del risultato formale del suo linguaggio figurativo, che possiamo ammirare nella decorazione scultorea del Partenone (si veda par. 5.2.1), è dunque anche quello di avere interpretato gli ideali della cultura ellenica attraverso il mito; nei complessi programmi figurativi dei suoi monumenti l’autorità degli dei è ancora garante dell’unità panellenica, l’unica in grado di sconfiggere il male.

Fig. 5.48 Olimpia, tempio di Zeus, la statua crisoelefantina di Zeus, ricostruzione (da Rolley 1999). (tav. 29)

Se i due colossi crisoelefantini, per la loro stessa natura, sono espressione della potenza degli dei, le altre figure divine create da Fidia si distinguono per una sapiente unione della natura umana a quella divina, come l’Atena Lemnia (Fig. 4.45), così pacata e serena, piena di saggezza e di senso della misura, e gli dei del fregio del Partenone, che si differenziano dagli uomini soltanto per la loro statura, che 539

tuttavia non risalta con prepotenza, perché sono rappresentati seduti, in atteggiamenti sciolti e rilassati, decisamente umani (Fig. 5.20). Dall’altra parte gli uomini delle Panatenee, così compresi nella loro identità ateniese, nella loro giovinezza piena di ideali, sono partecipi della bellezza calma e misurata degli dei. E sono questi gli ideali di Pericle, quando afferma, secondo la ricostruzione tucididea del famoso discorso di commemorazione dei primi caduti della Guerra del Peloponneso, che gli Ateniesi amano sì la bellezza, ma nella semplicità. 5.4.2 Policleto e la sua scuola, alla ricerca della perfezione

Di Policleto ci restano numerose citazioni nelle fonti antiche e molte repliche e rielaborazioni di età romana delle sue opere; nessun originale è giunto fino a noi. Lo scultore, nato ad Argo intorno al 490 a.C. e attivo fino al 420 a.C. circa, proviene da una famiglia di scultori di scuola peloponnesiaca; realizza soprattutto opere in bronzo, figure isolate, stanti o in movimento, attraverso le quali coniuga il ritmo all’equilibrio. Era celebre nell’antichità anche per uno scritto teorico, il Canone, nel quale affrontava il problema della costruzione della figura umana attraverso calcoli proporzionali.

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Fig. 5.49 Doriforo, copia romana, dalla «palestra sannitica» di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 5.50 a,b

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Doriforo, Policleto ricostruzione. Monaco, Università.

La sua opera più famosa è il Doriforo, letteralmente, il portatore di lancia; la copia rinvenuta nella «palestra sannitica» di Pompei (Fig. 5.49) – sede della vereia pompeiana, ossia di un’associazione di natura aristocratica propria del mondo osco, con finalità prevalentemente militari –risale alla fine del II secolo e gli inizi del I secolo a.C.; era posta davanti all’ingresso principale, come maggiore arredo scultoreo della palestra; è probabile che il giovane fosse identificato con Achille, l’eroe che nel mondo greco veniva spesso onorato nei ginnasi, segno della profonda ellenizzazione della Pompei sannitica. Il giovane è raffigurato in un movimento di transizione del camminare, mentre inizia ad avanzare con la gamba sinistra arretrata, spostando tutto il peso del corpo sulla destra stante (Fig. 5.49); il braccio destro è disteso lungo il fianco, il sinistro, piegato in avanti, portava la lancia appoggiandola sulla spalla, come avveniva di norma durante la marcia; la struttura del corpo è massiccia, muscolosa, conforme ai canoni della scuola peloponnesiaca. La testa si volge verso la sua destra; i lineamenti sono idealizzati; i capelli, distinti in ciocche ondulate, disposti simmetricamente. Il tronco collocato contro la gamba destra è stato introdotto dal copista per ragioni di statica: l’originale bronzeo, che risale alla metà del V secolo, non ne aveva bisogno (Fig. 5.50 a,b), così come non necessitava del puntello che nella copia collega il polso destro alla coscia. La statua riflette il ritmo chiastico di Policleto, che consiste nella contrapposizione reciproca delle parti del corpo: alla gamba destra portante corrisponde la sinistra flessa; al fianco destro contratto, il sinistro rilassato; al braccio sinistro piegato, il destro disteso; nell’atto dell’incedere la spalla destra e la caviglia sinistra si alzano, mentre l’anca e il ginocchio sinistro si abbassano. 542

L’equilibrio tra le membra del corpo è perfetto e la postura appare armonica, sciolta e naturale; si tratta tuttavia di una costruzione virtuale, che non presenta nessuna aderenza alla realtà; il corpo del Doriforo è infatti il frutto di una complessa serie di calcoli matematici e geometrici attraverso i quali lo scultore ha messo in pratica la teoria espressa nel Canone. L’arte ha così anche la funzione morale di educare alla perfezione.

Fig. 5.51 Diadumeno, Policleto, copia romana, da Delo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Appartiene alla fase finale della carriera di Policleto, intorno al 420 a.C., il Diadumeno, l’atleta che si cinge il capo con una benda in segno di vittoria. La replica più nota del tipo è la statua di Delo, datata tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C. (Fig. 5.51), nella quale il copista ha 543

aggiunto, ancora una volta per necessità di statica, un ramo d’albero con un mantello e una faretra, che trasformano il giovane atleta nel dio Apollo. L’originale in bronzo raffigurava l’atleta in atteggiamento rilassato e disteso, alla fine dell’agone sportivo, con la consueta ponderazione: gamba destra di carico, cui corrisponde la spalla sinistra sollevata; gamba sinistra flessa e arretrata, cui corrisponde la spalla destra abbassata; la testa era girata verso destra, con lo sguardo rivolto in basso; le braccia aperte e sollevate in modo da reggere le estremità della benda. Il corpo è inoltre percorso da un ritmo sinuoso –come già avevamo notato nel Riace B, quasi contemporaneo (Fig. 4.31) – determinato dalla contrazione del lato destro che provoca un leggero spostamento del bacino. Ugualmente famosa è la statua di atleta vincitore – secondo alcuni identificabile con il Kyniskos di una base di Olimpia, vincitore nel pugilato per efebi nel 460 a.C. – conosciuta come Efebo Westmacott, dal nome dello scultore che ne possedette la copia eponima, ora al British Museum (Fig. 5.52); il giovane è raffigurato stante, nell’atto di togliersi dal capo la corona per offrirla alla divinità; il ritmo policleteo contrappone la gamba sinistra stante, caricata del peso del corpo, al braccio destro sollevato, la gamba destra flessa e scartata al braccio sinistro inerte; la testa è rivolta verso il lato destro in movimento, più sciolto e allungato, sul quale è concentrata l’azione; per equilibrare le forze, il bacino è leggermente girato verso sinistra (Fig. 5.53).

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Fig. 5.52 Efebo Westmacott. Londra, British Museum.

545

Fig. 5.53 Kyniskos, ricostruzione. Dresda, Antikensammlung.

Si è notato però che lo schema compositivo è invertito rispetto a quello del Doriforo, dal momento che nell’Efebo la gamba portante è la sinistra e non la destra; si discute quindi se attribuire l’originale a Policleto – e in questo caso potrebbe trattarsi di un’opera giovanile, se effettivamente identificabile con il Kyniskos – o non piuttosto alla sua scuola, come sembrerebbe suggerire il ritmo aperto, introdotto soltanto nelle opere della maturità del maestro, come l’Amazzone (Fig. 5.59) e il Diadumeno (Fig. 5.51). Policleto è uno scultore che ha avuto una grande eco nell’antichità, anche grazie al suo ruolo di teorizzatore di una pratica scultorea basata su calcoli rigorosi. Molte sono 546

le opere che ripropongono e rielaborano i suoi insegnamenti e adottano la ponderazione e la struttura muscolare dei suoi atleti. Ne abbiamo una eco in copie di età romana come il Diomede di Cuma (Fig. 5.54), che ripropone un originale in bronzo del terzo quarto del V secolo realizzato per la città di Argo. La statua raffigura Diomede, forse in coppia con Odisseo, nell’atto di rubare il Palladio, l’antica statua di Atena conservata sulla rocca di Troia. Il corpo dell’eroe richiama quello del Doriforo anche se il movimento della gamba libera è più accentuato e la testa è volta decisamente verso sinistra; lo slancio è maggiore e il ritmo tende ad aprirsi verso l’esterno. L’opera mostra come il linguaggio di Policleto possa essere immediatamente recepito nelle sue linee fondamentali ed elaborato con soluzioni originali. 5.4.3 I collaboratori di Fidia

Nella seconda metà del V secolo, sia all’epoca dei lavori del Partenone, sia durante le alterne vicende della Guerra del Peloponneso, numerose statue furono erette sull’Acropoli e in altri santuari e per molte di queste furono chiamate le maestranze del Partenone, ormai esperte in ogni genere artistico. Tra i collaboratori di Fidia le fonti ricordano soprattutto Agoracrito di Paro e Alcamene di Atene. È attribuita ad Agoracrito, tra le altre opere, la statua di culto di Nemesi, dea della vendetta divina, che si conservava nel santuario di Ramnunte, in Attica; l’opera è stata ricostruita attraverso i frammenti rinvenuti in situ, integrati dall’analisi delle repliche di età romana (Fig. 5.55b). La dea è raffigurata stante secondo la ponderazione consueta, ma quello che sembra interessare maggiormente lo scultore è la resa della veste, che si compone di un chitone ampio e leggero che ricade in molli pieghe sul petto, svelando le forme, sul quale è gettato un mantello più pesante che 547

avvolge la parte inferiore del corpo ricadendo dalla spalla sinistra (Fig. 5.55a). È lo stesso abito che indossano Afrodite e la madre nel famoso gruppo del frontone occidentale del Partenone (Fig. 5.25), qui riproposto in una versione più solenne, per adattarsi all’immagine frontale della dea; è quindi probabile che la statua sia stata scolpita intorno al 430 a.C., anche se sembra che sia stata collocata nel tempio di Ramnunte solo all’epoca della Pace di Nicia (421 a.C.), quando fu possibile aggiungervi la base.

Fig. 5.54

548

Statua di Diomede, da Cuma. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Gli studi sulla figura di Agoracrito fanno apparire sempre più verosimile un intervento diretto del maestro nelle sculture frontonali del Partenone, e proprio per quelle figure, come il gruppo di dee già ricordato (Fig. 5.25), che presentano questo tipo di panneggio così ricco, mosso e velificato, percorso da increspature e fortemente pittorico, chiaroscurale. Di Alcamene ci è giunto invece un unico originale, in marmo, il gruppo di Procne e Iti, databile intorno al 430 a.C., che Pausania descrive sull’Acropoli, tra il Partenone e l’Eretteo, dove è stato ritrovato. Procne, figlia di Pandione e moglie di Tereo, re della Tracia, si sta preparando a uccidere il figlio Iti per vendicarsi del marito che l’ha tradita; il piccolo, ignaro, si aggrappa alla gonna della madre che doveva tenere nella mano destra il coltello (Fig. 5.56). La figura è concepita ancora come una peplophoros, anche se il gioco delle pieghe sul petto, che scendono morbide assecondando le rotondità dei seni, segue lo stile del panneggio fidiaco. Il conflitto tra il corpo che si solleva, respira e vive, e il ritmo gravitante del peplo, che tende a coprire, a celare le forme, che aveva contraddistinto le peplophoroi dello stile severo, come la Ippodamia di Olimpia (Fig. 4.17), è ora risolto alleggerendo la stoffa, che aderisce al corpo senza nasconderlo, e moltiplicando le pieghe con un più accentuato effetto di chiaroscuro.

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Fig. 5.55a Nemesi di Ramnunte, ricostruzione di G. Despinis e B. Petrakos (da Rolley 1999).

Fig. 5.55b Nemesi di Ramnunte, copia di età romana, dall’Italia. Copenhagen, Gliptoteca Ny Carlsberg.

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Presentano lo stesso panneggio le Cariatidi dell’Eretteo, attribuite all’officina di Alcamene, e databili verso il 416 a.C., prima che la spedizione in Sicilia interrompesse i lavori di costruzione dell’edificio; le sei statue, che nelle iscrizioni dell’epoca sono chiamate semplicemente korai, fanciulle, vestono un peplo sottile, senza maniche, con ampio e morbido risvolto alla vita e apoptygma ricadente sul petto, e un mantello fissato sulle spalle che ricade lungo la schiena (Fig. 5.57); le fanciulle del fregio del Partenone indossano lo stesso abito (Fig. 5.21). Nonostante l’ampiezza del vestito e del panneggio il corpo non è celato, ma evidenziato dalla leggerezza della stoffa, che aderisce alla gamba sinistra avanzata, con effetto bagnato, e alle curve del busto. Le copie di età adrianea provenienti dalla villa dell’imperatore a Tivoli permettono di ricostruire che le korai dovevano tenere una patera baccellata nella mano destra abbassata, mentre con la sinistra reggevano, come le loro sorelle più arcaiche, un lembo del vestito (Fig. 5.58); un voluto arcaismo, per richiamare i valori, sempre presenti, della polis aristocratica e del suo glorioso passato. 5.4.4 Una gara tra scultori: le amazzoni di Efeso

Intorno al 435 a.C. gli scultori più famosi del tempo partecipano a una commessa indetta dal santuario di Artemide di Efeso per una statua di amazzone ferita. Secondo Plinio (XXXIV, 53) parteciparono alla gara Policleto, Fidia, Cresila e Fradmone; le statue erano in bronzo e, per il voto degli stessi maestri, si aggiudicò la vittoria l’amazzone di Policleto che tutti gli scultori giudicarono la migliore opera dopo la propria. Le statue sono note attraverso copie romane che iconograficamente si assomigliano: le amazzoni sono raffigurate ferite al seno destro, che portano scoperto, e vestite di un succinto chitone. 551

Fig. 5.56 Alcamene, Procne e Iti, dall’Acropoli. Atene, Museo dell’Acropoli.

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Fig. 5.57 Cariatide dell’ Eretteo, dall’Acropoli. Londra, British Museum.

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Fig. 5.58 Cariatide dell’Eretteo, copia romana, dalla villa di Adriano a Tivoli. Tivoli, Villa Adriana, Museo.

L’amazzone di Fidia è stata concordemente identificata con la copia Mattei, da Villa Mattei, dove era conservata. Un’altra buona copia era nella villa di Adriano a Tivoli (Fig. 5.60): la figura si appoggia alla lancia con la mano destra sollevata, caricando la gamba del peso del corpo; la gamba sinistra, ferita, è piegata in avanti, libera dal peso; la posa elastica, in leggero movimento, pone l’accento sul valore guerresco del personaggio, che non viene meno con la mutilazione subita, allineandosi pienamente all’umanità del linguaggio fidiaco.

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Fig. 5.59 Amazzone ferita, copia romana firmata da Sosicle. Roma, Musei Capitolini.

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Fig. 5.60 Amazzone ferita, copia romana. Tivoli, Villa Adriana, Museo.

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Fig. 5.61 Amazzone ferita, copia romana. New York, Metropolitan Museum.

Per le amazzoni di Policleto e di Cresila l’identificazione attraverso le copie romane è più incerta. È stata attribuita a Policleto la statua realizzata dal copista Sosicle, conservata ai Capitolini di Roma, che raffigura l’amazzone nell’atto di strapparsi la veste per alleviare il dolore della ferita (Fig. 5.59); al collo è agganciato un mantello che ricade sul dorso; il braccio destro doveva essere appoggiato alla lancia per alleggerire il peso del corpo, che grava sul lato sinistro della figura, più raccolto; il lato destro, sul quale si concentra l’attenzione, è quindi più sciolto. Il canone oppone il movimento delle spalle a quello delle gambe; la ponderazione richiamerebbe quella dell’efebo Westmacott (Fig. 5.52). 557

Anche l’amazzone che si appoggia a un pilastrino e alza a fatica il braccio destro verso la testa, reclinata per il dolore (Fig. 5.61), il cosiddetto tipo Sciarra, è stata attribuita, per la ponderazione e l’articolazione delle membra, a Policleto. Si è notato, tuttavia, che la posizione in appoggio rompe con la tradizione che voleva che il centro di gravità di una figura immobile ricadesse nella zona inquadrata dai piedi; è parso quindi ragionevole attribuire questa amazzone a Cresila, autore della statua di Pericle (Fig. 5.1), uno scultore che, secondo gli antichi, era noto per il suo stile innovativo. Questa tipologia verrà utilizzata nell’ultimo trentennio del secolo per numerose statue di Afrodite; nell’epinetron di Eretria, per esempio, (si veda par. 5.5) lo stesso schema è adattato alla figura della sposa che si appoggia alla kline, svelando il capo (Fig. 5.76). 5.4.5 Lo «stile ricco» dell’ultimo trentennio del secolo V

La definizione «stile ricco» si adatta soprattutto alle statue femminili che, come già si è visto a proposito delle peplophoroi, continuano il panneggio bagnato ideato da Fidia e dai suoi più stretti collaboratori; l’aggettivo è stato utilizzato proprio per indicare questo particolare tipo di abbigliamento, ricco di pieghe curvilinee e rigonfie e di effetti chiaroscurali.

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Fig. 5.62 Paionios, statua di Nike, da Olimpia. Olimpia, Museo Archeologico.

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Fig. 5.63 La Nike di Paionios, ricostruzione.

Nel 421 a.C. Messeni e Naupatti dedicarono a Olimpia una statua di Nike in seguito a una vittoria sugli Spartani; la statua era posta su un alto piedestallo triangolare di fronte al tempio di Zeus: la Nike guardava il tempio e lo scudo dorato appeso sotto l’acroterio centrale, che a loro volta gli Spartani avevano offerto al dio molto tempo prima, dopo la battaglia di Tanagra (457 a.C.). La statua è opera di uno scultore tracio, Paionios di Mende, che l’ha realizzata da un unico blocco di marmo: a 9 m di altezza la dea scendeva verso lo spettatore, la gamba sinistra avanzata a sfiorare il terreno con la punta del piede, le ali spiegate, il mantello, gonfio per il vento, trattenuto con entrambe le mani; ai suoi piedi un’aquila in volo laterale, attualmente poco visibile 560

perché concepita per essere ravvivata dal colore, dava l’idea dello spostamento dell’aria; l’animale era sacro a Zeus (Fig. 5.62). Il chitone, aperto sui fianchi, si slaccia all’altezza del seno sinistro, si apre per l’impeto del movimento liberando la gamba sinistra e aderisce al corpo con effetto bagnato per addensarsi in morbide pieghe dietro la figura (Fig. 5.63).

Fig. 5.64 Statua di dea, dall’Agorà di Atene. Atene, Museo dell’Agorà.

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Fig. 5.65 Statua di Afrodite del tipo Hera Borghese, da Roma. Roma, Palatino.

Un altro originale dell’ultimo quarto del secolo porta all’estremo il panneggio partenonico con un ardito gioco di pieghe; si tratta di una statua di divinità rinvenuta in giacitura secondaria nell’Agorà di Atene e ricomposta da più frammenti (Fig. 5.64). L’opera richiama il cosiddetto tipo dell’Hera Borghese, conosciuto solo attraverso repliche d’età romana (Fig. 5.65), per il tipo di abito e per il modo di portare il mantello che avvolge solo la parte inferiore del corpo scoprendo il busto, coperto da un chitone finissimo, quasi trasparente, che segue le curve del corpo mettendo in evidenza le rotondità del seno e del ventre. Questi tipi statuari, creati soprattutto per raffigurare Afrodite, introducono una nuova visione della divinità – più femminile e sensuale, diversa dall’umanità idealizzata delle 562

dee del Partenone – che porterà, nel secolo successivo, all’Afrodite svelata di Prassitele, la famosa Cnidia (Fig. 6.8).

Fig. 5.66 Atene, Acropoli, dalla balaustrata del tempietto di Atene Nike: due Nikai conducono un toro al sacrificio. Atene, Museo dell’Acropoli.

Fig. 5.67 Lastra con menadi danzanti, copia da Callimaco. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Gli stessi effetti di trasparenza caratterizzano le Nikai della balaustrata del tempio di Atena Nike, sull’Acropoli, eretta verso il 409-406 a.C. dopo le ultime vittorie di Alcibiade, prima della disfatta di Egospotami del 405 a.C. Due Nikai innalzano trofei con le armi sottratte al nemico, 563

altre conducono un toro al sacrificio (Fig. 5.66), un’altra si slaccia un sandalo prima di entrare nel santuario (Fig. 5.69). Nella lastra con il toro (Fig. 5.66), la Nike che avanza impetuosamente per schivare il balzo dell’animale è una delle figure più significative del rilievo per l’impeto della postura e il raffinato gioco del panneggio, una variazione mossa del tipo Hera Borghese (Fig. 5.65); nella Nike col sandalo, la posizione raccolta, controbilanciata dalle ali, un tempo sottolineate dal colore, offre il supporto al gioco del panneggio che cade verticalmente dalla spalla sinistra alzata, segue con pieghe curvilinee il movimento delle gambe, con effetto di trasparenza sul busto, per ricadere in basso con pieghe più rade e pesanti, ma ugualmente morbide.

Fig. 5.68 Hydria del Pittore di Meidias, Faone e le donne di Lesbo, da Populonia. Firenze, Museo Archeologico.

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Fig. 5.69 Atene, Acropoli, dalla balaustrata del tempietto di Atena Nike: Nike che si slaccia il sandalo. Atene, Museo dell’Acropoli.

Gli studi sul panneggio portano ai virtuosismi delle Menadi danzanti attribuite a Callimaco, note solo attraverso copie neoattiche (Fig. 5.67), che dovevano ornare un monumento coregico, forse un tripode votato dopo la rappresentazione delle Baccanti di Euripide, avvenuta nel 406 a.C.; le figure, realizzate in bronzo, a bassorilievo, mostrano le menadi in vari atteggiamenti di danza nel pieno del delirio dionisiaco, vestite con chitoni fluttuanti che seguono i movimenti del corpo avvolgendo e scoprendo nello stesso tempo le membra, per ricadere con vorticosi avvolgimenti di pieghe, giocate su motivi curvilinei e spiraliformi, di grande effetto coloristico, ma prive di aderenza alla realtà. La stessa enfasi di panneggi e posture si nota nella ceramografia contemporanea che adotta lo stile ricco per le 565

figure femminili, spesso riconducibili alla cerchia di Afrodite; nelle hydriai del Pittore di Meidias, ad esempio (Fig. 5.68), prevalgono l’eleganza della forma, la varietà degli atteggiamenti, di chiara ascendenza statuaria, la complessità dei vestiti e delle acconciature (si veda par. 5.5); siamo ormai in una fase manieristica che rielabora, puntando su valori puramente estetici e formali, le invenzioni nate in un diverso contesto, come il linguaggio figurativo di Fidia e del Partenone.

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5.5 Dalla grande pittura alla ceramica, originalità e maniera Nella seconda metà del V secolo la pittura su cavalletto continua a studiare i mezzi per rendere la profondità dello spazio e la tridimensionalità delle figure, mentre la ceramica recepisce l’influenza delle arti maggiori perdendo quello slancio creativo che aveva caratterizzato le prime generazioni di ceramografi a figure rosse. Intorno alla metà del V secolo un pittore di Samo, Agatarco, aveva dipinto una scenografia per la trilogia di Eschilo, l’Orestea, nella quale figuravano edifici e paesaggi con effetti di sporgenze e di rientranze; secondo la prassi dell’epoca, Agatarco aveva anche pubblicato un trattato sulla metodologia che gli aveva consentito, attraverso calcoli geometrici, di arrivare a una rappresentazione tridimensionale. Un altro pittore, Apollodoro di Atene, aveva compiuto studi sui colori e sul chiaroscuro per aumentare la profondità spaziale. Uno dei pittori più famosi dell’antichità, Zeusi, attivo ad Atene, in Macedonia, in Italia meridionale e in Sicilia, è ricordato per i suoi monocromi a fondo bianco, per i quali utilizzava prevalentemente il colore rosso, mentre di Parrasio di Efeso si racconta che fosse riuscito con il disegno a rendere il volume e il movimento dei corpi. Di tutti questi pittori conosciamo purtroppo solo le notizie tramandate dalle fonti letterarie, che, in mancanza degli originali, irrimediabilmente perduti, possono solo testimoniarci l’evoluzione costante della grande pittura da cavalletto che cercava di rendere attraverso il disegno e il chiaroscuro la tridimensionalità della realtà. Sappiamo anche che, pur attratti dall’atmosfera dell’Atene periclea, 567

pittori famosi come Zeusi e Parrasio erano costantemente in viaggio, alla ricerca di una committenza di prestigio, così come erano autori di scritti teorici che confluiranno, almeno in parte, nella trattatistica di età romana. Delle conquiste della pittura abbiamo una eco nella ceramografia contemporanea che, spesso e volentieri, prende ispirazione dai grandi cicli figurativi.

Fig. 5.70 Coppa del Pittore di Pentesilea, da Vulci. Monaco, Staatliche Antikensammlungen.

La scena dell’uccisione di Pentesilea da parte di Achille, che dà il nome al pittore, per noi anonimo, che la dipinse intorno alla metà del secolo (460-450 a.C.), è chiaramente tratta da una megalografia, sacrificata dalla ristrettezza dello spazio a disposizione (Fig. 5.70): la figura dell’amazzone caduta e morente, che dovrebbe essere stesa al suolo ai piedi dei duellanti, si allunga seguendo in modo innaturale la curvatura del tondo interno; anche il guerriero che, sulla sinistra, sta abbandonando il campo dopo avere trafitto la giovane guerriera, allude a un secondo piano. L’attenzione del pittore si concentra maggiormente sui due eroi, la gigantesca figura di Achille e la commovente figura della 568

regina delle Amazzoni che, come racconta la tradizione, nel tragico momento della morte si innamora del suo nemico. La donna è infatti colta nell’atto di precipitare al suolo, mentre tenta, come ultimo appiglio, di afferrare il braccio armato del suo assalitore e, sollevando la testa, guarda dal basso gli occhi del suo uccisore; quest’ultimo, lo sguardo perso nel vuoto, resta isolato nella sua dimensione eroica. Il pittore sembra più interessato all’espressione dei sentimenti che alla composizione in generale; nell’accostamento dei due protagonisti, nel gioco degli sguardi, nella figura terribile e incombente dell’eroe greco, emerge la drammaticità del momento.

Fig. 5.71 Anfora eponima del Pittore di Achille, da Vulci. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco.

Più statuario, il Pittore di Achille – dall’anfora eponima 569

rinvenuta a Vulci, in Etruria, con Achille e Briseide (Fig. 5.71), dipinta intorno al 440 a.C. – predilige scene semplici con figure solide, tranquille, che sembrano emanare una forte serenità interna. Il pittore dipinge anche numerose lekythoi a fondo bianco, una classe di vasi a destinazione prevalentemente funeraria; la lekythos è infatti un vaso a collo stretto destinato a contenere gli unguenti per ungere i corpi dei defunti nei riti di sepoltura. Sul corpo a fondo bianco del vaso, che richiama l’imbiancatura dei pannelli lignei, le figure risaltano con intensi effetti policromi. Il clima è quello della vera e propria pittura, anche se lo spazio da decorare è fortemente limitato dalla forma del vaso. Se l’Achille dell’anfora eponima si presenta come una scultura a tutto tondo (Fig. 5.71), la giovane donna della lekythos del Museo di Boston (Fig. 5.74) riflette il sereno abbandono dei personaggi delle stele funerarie (Fig. 5.84). La pittura vascolare segue in questo caso lo stile della scultura attica dell’età di Pericle, che coniuga l’armonia delle forme alla sobrietà dei gesti, la perfezione alla misura. Lo «stile partenonico» contraddistingue anche le opere del ceramografo Polignoto (Fig. 5.72) – da non confondere con l’omonimo pittore della generazione dello stile severo (si veda par. 4.6.2) – e del Pittore di Kleophon, che dipingono intorno al 430 a.C. raggiungendo una perfezione stilistica di maniera, ma priva di toni originali o spontanei. Diventano particolarmente frequenti in questo periodo le scene di partenza del guerriero, forse dettate dalla guerra incombente e facilmente leggibili in chiave funeraria, come partenza definitiva per l’aldilà. Ancora una volta, sullo stamnos del Pittore di Kleophon (Fig. 5.73) le figure hanno una dignità statuaria e una mestizia assimilabile a quella delle stele funerarie coeve; la purezza dei lineamenti, la sobria scioltezza dei panneggi, l’emozione contenuta riflettono nei modi e nello stile il rilievo fidiaco. 570

Fig. 5.72 Stamnos del Pittore di Polignoto con il ratto di Elena. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 5.73 Stamnos del Pittore di Kleophon con partenza del guerriero, da Vulci. Monaco, Staatliche Antikensammlungen.

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Fig. 5.74 Lekythos del Pittore di Achille, con scena di gineceo, da Gela. Boston, Museum of Fine Arts. (tav. 32)

Fig. 5.75 Lekythos del Gruppo R con guerriero davanti alla stele, da Eretria. Atene, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 33)

Più pittorico, il ceramografo della lekythos a fondo 572

bianco del gruppo R, dipinge con tratti sicuri e veloci una solida figura di guerriero seduto davanti a una stele funeraria, lo sguardo perso nel vuoto, proiezione virtuale del defunto o suo mesto compagno (Fig. 5.75). L’uso della linea per definire oggetti e persone ha fatto pensare a una eco della pittura di Parrasio, celebrato nell’antichità per l’uso funzionale della linea con la quale riusciva a rendere la tridimensionalità delle figure.

Fig. 5.76 Epinetron con scene di gineceo, da Eretria. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Anche il raffinato manierismo degli scultori dell’ultimo trentennio del secolo, che sviluppano il panneggio bagnato dei frontoni del Partenone, viene ripreso dai pittori vascolari; l’epinetron di Eretria, attribuito all’omonimo pittore, autore di coppe e di piccoli vasi, è ricco di citazioni riprese dalla statuaria contemporanea. L’oggetto è particolare, tipicamente femminile, perché veniva appoggiato sul ginocchio e serviva per arrotolare la lana (Fig. 5.76); la scene raffigurano infatti, su un lato, la giovane sposa che riceve la visita delle amiche, e, sull’altro, una scena di gineceo con la padrona di casa circondata e assistita dalle varie personificazioni del repertorio amoroso. L’epinetron è antesignano del cosidetto «stile fiorito», per la ricchezza delle scene che si riempiono di personaggi colti 573

nei più svariati atteggiamenti, quasi cesellati sulla superficie del vaso. Il pittore è un miniaturista molto accurato, ma i suoi panneggi, resi con sottili linee ravvicinate, non hanno aderenza alla realtà. È stata riconosciuta l’influenza della pittura anche nelle opere del Pittore di Meidias, dal nome del vasaio, che, nell’ultimo decennio del V secolo, dipinge vasi di grandi dimensioni con figure disposte su diversi piani. Due hydriai dipinte dal Pittore facevano parte del corredo di una ricca sepoltura di Populonia, in Etruria, insieme a preziosi vasi di bronzo e ad arredi da cerimonia. La tomba, rinvenuta già violata da scavatori clandestini, si data tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C. Entrambe le hydriai raffigurano episodi legati ad Afrodite, la dea dell’amore. Sulla prima (Fig. 5.77a), Faone – il barcaiolo di Mitilene che, per aver soccorso e traghettato Afrodite sotto le sembianze di una vecchia, viene trasformato in un bellissimo giovane – appare seduto sotto una fronda d’alloro accanto a una giovane donna, Demonassa, mentre Afrodite guida un carro trainato da Pothos e Imeros, personificazioni del desiderio amoroso; a fianco dei due personaggi sono Apollo e Latona e, sedute o quasi sospese nell’aria, le ninfe che sovrintendono al matrimonio e agli eventi della sfera femminile. Sulla seconda hydria è rappresentato Adone, giovane e sfortunato cacciatore amato da Afrodite, titolare di un culto praticato esclusivamente dalle donne (Fig. 5.77b). Entrambi i vasi sono arricchiti di dorature, per rappresentare in modo più veristico i gioielli che ornano le numerose figure femminili e le ali degli eroti (Tav. 34). Lo stile è piacevole, benché di maniera, con virtuosismi estremi nella resa dei panneggi e grande abilità disegnativa nella combinazione delle posture e nella definizione dei particolari.

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Fig. 5.77a Hydria del Pittore di Meidias con Faone e Demonassa, da Populonia. Firenze, Museo Archeologico, (tav. 34)

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Fig. 5.77b Hydria del Pittore di Meidias, con Afrodite e Adone, da Populonia. Firenze, Museo Archeologico.

Forti accenti coloristici compaiono anche nella produzione del Pittore di Pronomos, contemporaneo del Pittore di Meidias, che dipinge vasi di grandi dimensioni affollati di personaggi. Il vaso eponimo, rinvenuto a Ruvo di Puglia, raffigura un gruppo di attori che si prepara a recitare un dramma satiresco; al centro Dioniso e Arianna e, nel registro inferiore, il flautista Pronomos che prende gli accordi con il doppio flauto (Fig. 5.78). È attribuita invece all’officina del pittore la pelike con gigantomachia da Tanagra, in Beozia (Fig. 5.79). Entrambi i vasi risentono dell’influsso della grande pittura. La pelike, nella fattispecie, per le figure viste di schiena e di scorcio, disposte su più piani e in parte sovrapposte, per la presenza di dettagli naturalistici, come le rocce e le piante disposte in ordine sparso, potrebbe sottintendere un modello di maggiori dimensioni; sarà utile ricordare che Fidia, che aveva iniziato a lavorare in una bottega di pittore, aveva dipinto la superficie interna dello scudo della Parthenos (Figg. 5.11,

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5.46) con una concitata gigantomachia che deve aver lasciato una grande eco nell’artigianato contemporaneo.

Fig. 5.78 Cratere eponimo del Pittore di Pronomos, da Ruvo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 5.79 Pelike della cerchia del Pittore di Pronomos con gigantomachia, da Tanagra. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 5.80 Cratere eponimo del Pittore di Talos, da Ruvo. Ruvo di Puglia, Museo Jatta. (tav. 35)

La grande pittura riaffiora anche nell’opera del Pittore di Talos, dal cratere della Collezione Jatta di Ruvo di Puglia, che raffigura il gigante di bronzo, eroe di Creta, ucciso dalle arti magiche di Medea per aver tentato di impedire lo sbarco degli Argonauti sull’isola; il gigante aveva un solo punto vulnerabile, una vena del piede. Sul cratere eponimo, Talos, dipinto in bianco-giallo per indicare la sua natura bronzea, si abbandona, vinto, tra le braccia dei Dioscuri (Fig. 5.80). Dal momento che lo stesso schema compositivo ritorna su un frammento di cratere da Spina e su due specchi etruschi, è probabile che il punto di partenza sia stato ancora una volta una megalografia, sacrificata dai limiti della pittura vascolare. Per le sue elevate capacità tecniche il 579

Pittore di Talos riesce nondimeno a riprodurre i valori pittorici dell’originale, nella monumentalità delle figure, nelle ardite visioni di scorcio, nel calibrato uso del chiaroscuro.

Fig. 5.81 Pelike del Pittore di Pisticci, scena di inseguimento, da Taranto. Taranto, Museo Archeologico Nazionale.

Con questi vasi termina la grande stagione della ceramica attica, che continua nel secolo successivo con opere più modeste, dipinte con temi dionisiaci e scene di genere. L’esperienza e la techne dei pittori e dei ceramografi attici darà vita, poco dopo la metà del V secolo, alla produzione italiota a figure rosse che proseguirà nella seconda metà del secolo, e ancora nel secolo successivo, con caratteri sempre più autonomi e risultati di grande valore artistico; una classe di vasi che ormai merita una trattazione a parte nell’ambito della produzione artistica della Magna Grecia. Lo stile partenonico della cerchia di Polignoto (Fig. 5.72) sarà 580

ripreso dai primi pittori lucani, come il Pittore di Pisticci (Fig. 5.81), dal paese dell’entroterra metapontino che ha restituito un gran numero di vasi attribuiti alla sua mano – forse un pittore attico immigrato –, mentre lo stile derivato dalla grande pittura, con forti accenti coloristici, confluirà nelle officine apule. Uno dei primi esempi è il cratere del Pittore delle Carnee, da Ceglie del Campo (Ba), con uno statuario Dioniso raffigurato all’interno del suo tiaso (Fig. 5.82b) e una vivace scena di danza in occasione, appunto, della festa tarantina delle Carnee (Fig. 5.82a).

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5.6 Il rilievo funerario: la morte come immagine dell’esistenza In un’epoca travagliata da lutti e da battaglie come quella della Guerra del Peloponneso, il rilievo funerario finisce con l’assumere un ruolo particolare; le frequenti interruzioni nelle committenze ufficiali, in concomitanza con le alterne vicende della guerra, portano gli artigiani impegnati nel grande cantiere dell’Acropoli ad accettare sempre più frequentemente anche lavori per i privati, ed è forse per questo che le stele funerarie dell’ultimo quarto del V secolo hanno un’inconfondibile impronta «partenonica». La visione idealistica, eterna e trascendente dei personaggi del fregio fidiaco emerge anche nel rilievo destinato a una committenza privata che vuole ricordare i suoi morti riaffermandone la vita: ancora una volta il defunto è raffigurato in un atteggiamento preso dal quotidiano, privo della violenza e delle paure legate alla morte. Una stele rinvenuta a Egina, ma pienamente attica nello stile, mostra il defunto in atteggiamento rilassato, calmo, mentre solleva la mano aperta verso una gabbia, che verosimilmente conteneva l’uccellino che il giovane tiene nella mano sinistra; sotto la gabbia è un pilastrino sormontato da un gatto, il muso frontale, davanti al quale spicca la mesta figura di un piccolo schiavo; inquadra la scena un raffinato fregio di palmette e fiori di loto (Fig. 5.83).

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Fig. 5.82a Cratere eponimo del Pittore delle Carnee, lato B: la festa delle Carnee, da Ceglie del Campo. Taranto, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 5.82b Cratere eponimo del Pittore delle Carnee, lato A: Dioniso e il suo tiaso, da Ceglie del Campo. Taranto, Museo Archeologico Nazionale.

Niente nella figura del giovane, solido nella sua prestanza giovanile, che richiama immediatamente gli efebi di Fidia (Fig. 5.18), fa pensare alla morte: l’atteggiamento è quello della quotidianità, l’atmosfera quella di casa; solo la posizione della mano ha fatto pensare a un gesto di commiato. Il compianto sembra piuttosto affidato al piccolo schiavo dallo sguardo perduto nel vuoto, la testa leggermente reclinata. La figura del giovane richiama nel modellato del corpo e nel panneggio l’Apollo del fregio orientale del Partenone (Fig. 5.20) tanto da far pensare allo stesso scalpellino; è quindi databile intorno al 430-420 a.C. Di poco più tarda, la stele di Krito e Timarista, da Rodi, raffigura le due donne abbracciate nel comune destino; Krito, la più giovane, china mestamente la testa e tocca sulla spalla la compagna che si volge verso di lei, quasi per 584

rassicurarla (Fig. 5.84). Le figure sono solide, riccamente abbigliate, lo schema compositivo accuratamente studiato: le gambe esterne, divergenti e appena velate delle vesti, si contrappongono alle teste convergenti, il braccio alzato di Krito a quello abbassato e rilasciato di Timarista, il mantello avvolgente della prima alla caduta verticale del panneggio della seconda.

Fig. 5.83 Stele funeraria, da Egina. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 5.84 Stele funeraria di Krito e Timarista, da Rodi. Rodi, Museo Archeologico.

Fig. 5.85 Stele funeraria di Hegesò, dalla necropoli del Ceramico di Atene. Atene, Museo Archeologico

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Nazionale.

Sulla stele funeraria di Hegesò, figlia di Proxenos, la giovane è raffigurata mentre estrae un gioiello dal cofanetto che le porge l’ancella, un gesto consueto, mille volte ripetuto nella vita, che contrasta, ma solo apparentemente, con la destinazione funeraria del rilievo (Fig. 5.85). Ai volti chinati, all’abbandono indolente delle donne, ai gesti sobri e pacati è affidato il compianto: con infinita tristezza Hegesò sceglie ancora una volta tra i suoi gioielli perché sta per diventare la sposa di Ades. Il rilievo basso, sfumato, vibrante, attinge ancora al linguaggio figurativo del fregio del Partenone, concedendo allo stile ricco dell’epoca – siamo alla fine del V secolo – solo qualche raffinatezza nell’esecuzione del panneggio. Il mondo della guerra irrompe invece nella stele di Dexileos, caduto nel 394 a.C. presso Corinto, nella quale il defunto è raffigurato come vincitore (Fig. 5.86); il modello è ancora quello del classicismo fidiaco, ma la ricerca di una maggiore spazialità, di scorci arditi, di effetto, prelude alle conquiste dei maestri del tardo classicismo.

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Fig. 5.86 Stele funeraria di Dexileos, dalla necropoli del Ceramico di Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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6 L’età classica (secolo IV a.C.) GIORGIO BEJOR

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6.1 L’età delle egemonie effimere La fine della Guerra del Peloponneso, nel 404 a.C., segna il tramonto della supremazia di Atene e l’affermarsi di Sparta, ma non segna affatto l’inizio della pace. Negli anni seguenti l’esercito spartano interviene anche più volte in Asia Minore, dove, nel 396 a.C., giunge a espugnare Sardi. Questo provoca un sempre più complicato intreccio tra politiche delle principali città greche e ingerenze del regno di Persia, che pur nelle ultime fasi della Guerra del Peloponneso si era schierato a favore di Sparta. La Grecia rimane infatti percorsa da un gran numero di guerre locali e regionali, la maggiore delle quali oppone alla capitale laconica una nuova alleanza fatta da Atene, Tebe, Argo e Corinto e si protrae senza vincitori né vinti per ben nove anni (395-386 a.C.). Alla fine, quasi per sfinimento, si giunge a una pace provvisoria, importante soprattutto perché voluta dai Persiani, che la usano per annettersi le città dell’Asia, lasciando indipendenti tutte le altre. Si tratta della Pace detta di Antalcida, dal nome del delegato spartano che si era recato sino alla corte di Susa, nel 386 a.C., per concordarne i punti direttamente con il Gran Re. Nondimeno, la vitalità delle città della Grecia non è ancora del tutto abbattuta. Segue infatti una notevole ripresa, tanto che nel 377 a.C. Atene può ricostituire una Lega marittima, che l’anno dopo infligge a Sparta una grave sconfitta nelle acque di Nasso. A sua volta, Tebe stringe a sé in una federazione le città della Beozia. Un convegno, riunitosi a Sparta nel 371 a.C., anzichè portare a una pace più duratura, porta allo scoppio di un nuovo conflitto. Lo stesso esercito spartano interviene in 590

Beozia; a Leuttra subisce però una grave disfatta, che dà inizio a quasi un decennio di supremazia tebana. Anche Messenia e Arcadia possono allora affrancarsi da Sparta. Questa volta tocca ai Beoti intervenire in loro difesa, per ben quattro volte, all’interno dello stesso Peloponneso. Ma nel 362 a.C., nella battaglia di Mantinea in Arcadia, la più grande che vide mai opposti Greci a Greci, i migliori generali tebani, tra i quali Epaminonda, trovano la morte. Segue dunque un’ennesima pace generale, anch’essa di brevissima durata. Si torna in pratica al consueto stato di continue guerre locali, la più grave delle quali, scoppiata in seguito all’occupazione di Delfi da parte dei Focesi, dura dieci anni (356-346 a.C.). Con essa intervengono anche nella Grecia centro-meridionale i crescenti stati del nord: la Tessaglia e la Macedonia. La grande vittoria che Filippo II, re di Macedonia, consegue a Cheronea nel 338 a.C. segna il definitivo tramonto del sistema delle poleis indipendenti.

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6.2 I nuovi cantieri nel Peloponneso 6.2.1 Nuove fortificazioni

Nella prima metà del secolo IV a.C. in tutto il Peloponneso si verificano grandi cambiamenti: l’affrancarsi di identità locali porta comunque a una ripresa, sia economica che edilizia. Nel decennio di supremazia tebana, Messeni e Arcadi sono liberi di rifondare le loro capitali, rispettivamente Messene, nel 369 a.C., e l’anno dopo Megalopoli, la «Città Grande», che gli Arcadi vogliono al centro della loro regione. Entrambe sono dotate di un’urbanistica regolare, di nuovi grandi monumenti e di possenti mura. Queste si sono rese necessarie anche perché nei decenni precedenti le tecniche belliche avevano conosciuto un enorme sviluppo, dovuto al sempre maggior utilizzo delle macchine da guerra, sia da lancio, come le catapulte, sia da assalto alle città, come gli arieti: macchine che a loro volta erano divenute sempre più grandi e complesse.

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Fig. 6.1 Le mura di Messene.

Le mura di Messene (Fig. 6.1) sono oggi tra le meglio conservate. Si estendevano su un lunghissimo circuito, di oltre 9 km, in modo da sfruttare il più possibile le asperità naturali. Si arrampicano perciò anche sui monti all’intorno, e hanno tratti rettilinei, con possenti cortine di blocchi squadrati, alternati a numerose torri quadrangolari. Alcune di queste, anch’esse con pareti di grandi blocchi isodomi, sono ancora oggi mirabilmente conservate, e mostrano molto bene come fossero concepite come un monumento vero e proprio, destinato non solo a difendere la città, ma anche a mostrarne orgogliosamente verso l’esterno il mirabile aspetto. 6.2.2 Nuovi santuari: Epidauro

Sempre nel Peloponneso di quegli anni, e cioè durante, 593

ma anche prima e dopo l’effimero affermarsi di Tebe, si aprono numerosi cantieri per la ricostruzione o l’ampliamento di antichi santuari: di Hera ad Argo, di Zeus a Nemea, di Asklepios a Epidauro, di Atena Alea a Tegea.

Fig. 6.2 Epidauro, pianta del santuario.

Come per altri culti, che prevedono il diretto intervento della divinità nella sfera dei mortali, anche il culto di Asklepios ha un enorme sviluppo a partire dagli ultimi, burrascosi anni del secolo V a.C. Esso viene accolto in nuovi spazi nella stessa Atene; ma è presso Epidauro che sorge per questo dio il santuario più venerato. Un culto di una divinità salutare vi esisteva già da epoche molto antiche, legato, come spesso succedeva, alla presenza di acque. Almeno dal secolo VI a.C. viene però accostato piuttosto alla figura di Apollo. L’imporsi di una nuova divinità, Asklepios, segna un accrescersi enorme dell’importanza del luogo come meta di pellegrini; per 594

meglio accoglierli, poco dopo il 400 a.C. si pone mano alla costruzione di un nuovo, più ampio santuario (Fig. 6.2). Cuore dell’intero impianto rimane il tempio del dio, affacciato su un piazzale. Questo era destinato all’altare e alla riunione dei fedeli e circondato da portici (stoài) e dal muro del recinto sacro, il temenos. Numerosi altri edifici dovevano poi sorgere nelle vicinanze, per accogliere i pellegrini e prestare loro le diverse cure. Queste sarebbero culminate alla fine, all’interno del temenos, nel sacro sonno, durante il quale lo stesso dio sarebbe intervenuto per la guarigione. Numerose fonti letterarie ci parlano delle varie fasi di questo culto; e sono rimaste anche molte epigrafi, che riferiscono espressamente quando e da chi i diversi edifici vennero costruiti e decorati, e ricordano anche i costi sostenuti. Sappiamo così che l’edificio più importante, il tempio, viene costruito tra il 380 e il 370 a.C. dall’architetto Teodoto. Era un tempio di ordine dorico, relativamente piccolo (poco più di 24 × 13 m), con le consuete sei colonne sulla facciata. Era privo di opistodomo, il che gli permetteva di avere solo 11 colonne sui lati lunghi, al posto delle 13 canoniche. Al suo interno era collocata la statua del dio assiso in trono, fatta in oro e avorio da Trasimede di Paro. Non ne abbiamo più nulla, anche se è ricostruibile grazie alla descrizione di Pausania e soprattutto tramite le numerose piccole statuette e rilievi votivi che ad essa si ispiravano (si veda par. 6.3.3). Ci sono invece rimaste varie figure appartenenti agli acroteri e ai frontoni, scolpiti da Timoteo e da Teotimo, delle quali parleremo più a lungo nel capitolo dedicato alla scultura. L’edificio più celebre doveva però risultare un 595

ornatissimo tempio circolare (Fig. 6.3), detto Tholos, costruito attorno al 350 a.C. all’interno del recinto sacro, poco dietro al tempio principale. La peristasi, di 26 colonne doriche, racchiudeva un secondo cerchio, formato dal muro della cella, all’interno del quale un terzo cerchio concentrico, di 14 colonne corinzie, delimitava lo spazio centrale, nel quale si apriva l’accesso al labirinto sotterraneo.

Fig. 6.3 Epidauro, pianta della Tholos.

Tutto era stupendamente ornato di marmi: all’esterno, una cornice con gocciolatoi a protomi leonine tra girali di acanto, antefisse e palmette sormontava un fregio dorico, con metope dipinte probabilmente di blu; la porta aveva una ricchissima cornice; cassettoni marmorei decorati con bacche di papavero e foglie di acanto ricoprivano il corridoio tra il muro della cella e il giro delle colonne corinzie; all’interno, il pavimento era decorato da losanghe alternate in marmo bianco e pietra nera di Argo. Grazie anche all’armonia delle proporzioni, fu questo un vero capolavoro dello stile decorativo che aveva avuto il più illustre precedente nell’Eretteo. Nella stessa direzione d’una 596

ricercata armonia conduce anche la scelta di questa forma poco frequente, il tempio circolare, che era stata peraltro sporadicamente usata anche in epoca arcaica. Nello spazio di una generazione avrà fortuna anche in altri santuari: a Delfi, nella Tholos della terrazza della Marmarià e a Olimpia, nel Philippeion, iniziato nel 338 a.C.

Fig. 6.4 Epidauro, pianta del teatro.

Tra gli edifici che sorgono tutt’attorno al santuario, connessi con gli aspetti salutistici del culto di Asklepios, spiccano soprattutto altri grandi portici, o stoài, e poi ginnasi e Katagogheia, veri e propri ospizi pubblici. Oltre a questi, sulle pendici del monte, poco dopo il 350 a.C. viene costruito un altro degli edifici più importanti, collegato anch’esso alle grandi feste del dio: il teatro (Fig. 6.4). Pausania dice che è opera di Policleto il Giovane, e aggiunge che, se i teatri romani superano quelli greci per splendore, e se per grandezza quello di Megalopoli supera tutti gli altri, questo non ha rivali quanto ad armonia e bellezza. Un giudizio largamente condiviso ancor oggi, grazie anche all’ottimo stato di conservazione nel quale ci è giunto. Al centro stava l’orchestra circolare, dove 597

avvenivano le danze del coro (orcheomai, danzare). Vi si accedeva tramite due accessi scoperti, le parodoi, che separavano l’edificio scenico dalla cavea, in greco koilon. Questa ha una pianta a ventaglio con 55 ordini di sedili, divisi in due zone da un corridoio semicircolare, o diazoma. (Fig. 6.5) La zona superiore, che sembra aggiunta in un secondo momento, sta all’inferiore in rapporto aureo. Lunghe scalinate dividono la zona inferiore in sei cunei, ciascuno dei quali è ulteriormente diviso a metà nella zona superiore. Una leggera incurvatura favorisce l’acustica, considerata eccezionale anche dagli antichi. Al confronto, ben poca cosa è l’edificio scenico, poco più che un fondale, che viene ricostruito e ampliato solo in età romana.

Fig. 6.5 Epidauro, il teatro. 6.2.3 Nuovi edifici nei santuari: Tegea

In quegli anni viene anche ricostruito il santuario di Atena a Tegea, uno dei più antichi e celebri del Peloponneso. Il tempio, nel quale Atena veniva venerata come continuatrice di un’originaria divinità locale, Alea, era stato distrutto da un incendio nel 394 a.C. I lavori non 598

poterono cominciare subito, e solo dopo alcuni decenni furono affidati a Skopas, l’architetto e scultore che venne chiamato anche a cooperare al Mausoleo di Alicarnasso. Skopas è certamente ad Alicarnasso attorno alla metà del secolo; non è invece ben chiaro se abbia lavorato a Tegea subito prima o subito dopo, per quanto la datazione più bassa appaia, almeno per le sculture, la più probabile. Il tempio, piuttosto allungato (Fig. 6.6), aveva una peristasi di 6 × 14 colonne doriche molto snelle, con un’altezza superiore a sei volte il diametro di base. La cella era preceduta da un ampio pronao a due colonne in antis, e seguita da un opistodomo simile; le ante e la coppia delle colonne erano in linea con la terza e la terz’ultima colonna dei lati lunghi della peristasi, creando così dietro alle facciate due grandi spazi liberi, per la profondità di due intercolumnii. Anche il pronao era molto profondo; ma la ricerca di grandi spazi interni risulta ancora più evidente all’interno della cella: le due file consuete di colonne vengono infatti abolite, lasciando il compito di sorreggere il peso della parte centrale del tetto a due serie di sette semicolonne d’ordine corinzio appoggiate alle pareti, sulle quali poggiava una trabeazione riccamente decorata. L’interno della cella risultava così estremamente spazioso, ma con pareti ricche di chiaroscuri.

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Fig. 6.6 Tegea, pianta del tempio.

Giunge qui a uno dei suoi risultati più importanti la tendenza, già presente nell’Atene di Fidia, a una sempre maggiore leggerezza e luminosità all’interno dell’ordine dorico, con l’aggiunta d’una decorazione sempre più ricca e della creazione di grandi spazi interni, facendo ricorso anche all’inserimento di ordini diversi. A Tegea, poi, particolari esigenze di culto impongono anche l’apertura della cella in una porta al centro del lato lungo settentrionale: un adattarsi del rigido ordine dorico arcaico a esigenze locali che si andava facendo sempre più frequente, e che nella stessa Arcadia aveva appena conosciuto un altro celebre esempio nel tempio di Apollo Epicurio a Bassai. Ricchissima era anche la decorazione scultorea dell’esterno, con metope e acroteri e i due affollati frontoni, ricchi di chiaroscuri, anch’essi affidati a Skopas. Grazie alla descrizione di Pausania ne conosciamo i soggetti: sul frontone orientale era rappresentata la caccia al cinghiale calidonio da parte di Meleagro e di Atalanta; su quello occidentale una vicenda legata al ciclo troiano, che coinvolgeva direttamente un eroe di Tegea, Telefo, figlio di

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Eracle e della principessa Auge. Telefo si contrapponeva qui ad Achille, mentre la stessa Atena interveniva a pacificarli. Di questi frontoni sono rimasti numerosi ma piccoli frammenti, tra i quali alcune teste, tra i pochi originali attribuibili con sicurezza a Skopas. Li considereremo quindi con più attenzione più avanti, parlando dell’attività scultorea di questo grande maestro del secolo IV a.C. (si veda par. 6.3.2).

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6.3 I grandi scultori del secolo IV a.C. 6.3.1 Cefisodoto e Prassitele

Il IV secolo è spesso ricordato dagli storici come il secolo dell’individualismo, contrapposto al forte spirito civico che aveva caratterizzato il periodo precedente. A questo corrisponde bene il fatto che sia stato anche un secolo segnato in campo artistico da grandi personalità. L’Attica, in particolare, torna ad avere nel campo della scultura un posto di grande rilievo. Atene è una delle città dove più si aspira alla fine delle guerre, che ne hanno stremato il potere sia politico che economico; subito dopo la Pace di Antalcida del 386 a.C., dunque, la città vuole celebrare l’avvenimento con una grande statua dal forte contenuto propagandistico. Lì dove si trova il cuore economico e politico della città, l’Agorà, viene innalzata la statua della pace, in greco Eirene. Questa, rappresentata da una maestosa figura femminile, custodiva e alimentava la neonata ricchezza, in greco al maschile: Ploutos (Fig. 6.7). Dunque non una statua di divinità o di eroi, ma di personificazioni di concetti ben terreni, di concrete aspirazioni della vita di tutti i giorni: pace e ricchezza, tra di loro in stretto rapporto. E questo mostra bene quanto i tempi fossero cambiati in due generazioni.

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Fig. 6.7 Cefisodoto, Eirene e Ploutos, copia romana. Monaco di Baviera, Gliptoteca.

L’esecuzione dell’opera, in bronzo, era stata affidata a uno scultore originario della stessa Atene, Cefisodoto. Le fonti letterarie ricordano anche altre opere di quest’artista, che doveva essere allora assai famoso. Perduti tutti gli originali, solo la statua di Eirene e Ploutos è stata riconosciuta in alcune copie di età romana. Protagonista principale è la grande e solida figura femminile stante, che porta un mantello sul peplo dalle lunghe pieghe ordinate, il braccio destro sollevato nel reggersi allo scettro. Un impianto contemporaneamente solido e tradizionale: uno schema volutamente tradizionale, reso con uno stile che si rifà alla scuola del primo Fidia e dei suoi allievi; e una solidità che richiama un po’ alla mente le Cariatidi dell’Eretteo. Con il braccio sinistro sorregge però un 603

coprotagonista, una figura di bimbo, dalle forme arrotondate, che muove nello spazio i piccoli arti con ben maggiore vivacità. Le teste, rivolte l’una verso l’altra, sottolineano lo strettissimo legame tra le due figure. Eirene piega la sua in avanti e verso il basso, mentre il piccolo la alza verso di lei, protendendo verso il volto rassicurante la piccola mano destra, mentre con la sinistra fa forza sul braccio che lo sostiene. Tutto evidenzia come dalla presenza e dalla solidità dell’una dipenda la promettente crescita della seconda.

Fig. 6.8 Afrodite Cnidia, Prassitele, copia romana. Roma, Musei Vaticani.

Nella bottega ateniese di Cefisodoto si formarono anche 604

altri scultori; ma uno in particolare, suo figlio Prassitele, raggiunse la massima fama. A lui si deve infatti l’opera più citata nelle fonti letterarie e contemporaneamente più riprodotta nelle copie giunte sino a noi, l’Afrodite di Cnido (Fig. 6.8). Tra le tante storie che la riguardano, c’è quella del suo acquisto, tramandata da Plinio. Un’ambasceria degli abitanti di Coo si reca ad Atene, nella bottega di Prassitele, per commissionargli la statua di culto per il nuovo santuario della dea che la loro città sta in quegli anni terminando. Ma, quando la statua è pronta e gli ambasciatori tornano per prenderla, rimangono a bocca aperta nel vedere che l’artista ha rappresentato la dea della bellezza in una totale nudità, sino ad allora riservata alle rappresentazioni del corpo maschile. Non se la sentono di accettare una simile novità e preferiscono prendere invece un’altra Afrodite, più tradizionale, che Prassitele tiene in bottega. Di lì a poco giungono ad Atene ambasciatori anche da parte degli abitanti di Cnido, che pure stanno costruendo alla dea un nuovo tempio. A loro questa nuova immagine della dea piace moltissimo, l’acquistano e la portano nella loro città. La leggenda può così giungere a un insegnamento morale: a causa della scarsa lungimiranza dei loro ambasciatori, i Coi sono da allora scherniti per questo, mentre il tempio della vicina Cnido conquista fama eterna. In un altro passo, Plinio ci dice che Prassitele raggiunge il culmine della sua arte poco prima del 360 a.C., quindi ancora assai giovane: essendo figlio del Cefisodoto che nemmeno quindici anni prima aveva scolpito per Atene l’Eirene e Ploutos, deve avere poco più di trent’anni, per quanto debba essere anch’egli già famoso. Si dice che dalla sua bottega uscissero ben duemila statue; ma l’Afrodite Cnidia rimane comunque la più celebre, ed è per questo che si pensa che proprio alla sua creazione Plinio si riferisca, 605

quando racconta dell’apice raggiunto da Prassitele nella sua arte. Una datazione della statua agli anni poco prima del 360 a.C., del resto, potrebbe accordarsi con la ripresa urbanistica ed edilizia che, grazie anche all’impulso del satrapo di Caria Mausolo, caratterizza le città della costa della Caria stessa, dove Cnido sorge e presso la quale è anche Coo. Della statua, come si è detto, abbiamo un enorme numero di copie di età romana. La dea è rappresentata in piedi, mentre si accinge a bagnarsi. Nel far questo, poggia con la mano sinistra la veste su un vaso; ciò consente di spostare il baricentro della figura, dando al gioco dei pesi, creato dal discostarsi del piede sinistro, una flessuosità completamente nuova, quasi un’apparente insicurezza. La mano destra è portata in avanti, a coprire l’inguine, in un gesto di apparente pudicizia, che ne fa avvertire ancor meglio la seduzione, legata a un attimo. Attirano l’attenzione i morbidi passaggi tra i piani, l’assenza di gesti bruschi, la lucentezza delle superfici del marmo pentelico. La testa, dagli ordinatissimi riccioli spartiti da una riga centrale e raccolti alla nuca, a coronare le forme tondeggianti del volto, ha occhi, naso e bocca relativamente piccoli e ravvicinati, che le danno un’espressione particolarmente raccolta. Simbolo di eterna bellezza – subito fiorirono le leggende, che vollero la stessa Afrodite chiedersi se fosse lei più bella, o questa sua statua –riesce a creare con lo spettatore un mistico rapporto diretto, particolare. Gli stessi principi di delicatezza, flessuosità della figura, lucentezza e morbidità dei piani ricompaiono poi sempre come caratteristiche fondamentali dell’arte di Prassitele, tanto che egli diventa celebre come l’artista che più di ogni altro esprime nelle sue opere la charis, la grazia. 606

Difatti non si dedica allo studio del corpo virile, atletico, o della sovrumana potenza divina, ma preferisce divinità o personaggi minori del mito, come Eros o i satiri, nel fiorire della loro giovinezza, colti in momenti senza solennità né tensione. Una statua (Fig. 6.9), trovata a Olimpia nel 1877, rappresenta un giovane nudo, che con la destra porge un grappolo d’uva a un bambino che regge sul braccio sinistro. Il giovane è a sua volta appoggiato a un tronco d’albero, sul quale ha lasciato cadere la veste; questo fa sì che, a dispetto della ponderazione policletea delle gambe, il torso si inarchi, con un movimento accentuato dal sollevarsi del braccio destro che sposta il baricentro al di fuori dello spazio occupato dai piedi: un movimento libero nello spazio, dunque, che dà alla figura un senso di posizione provvisoria, quindi di lento movimento. E provvisorio è il momento in cui le due divinità sono colte, nel corso dell’azione: un umanissimo momento di sosta che Hermes si concede, mentre sta portando il piccolo Dioniso alle ninfe di Nisa. Nei capelli e nelle vesti si può ancora notare la virtuosistica trattazione del marmo; le superfici carnose sono state rese invece ancora più morbide da una levigatura romana. La statua fu vista nel secolo II d.C. da Pausania all’interno dell’Heraion di Olimpia, e lì è venuta alla luce; doveva esservi stata portata per conservarla, assieme ad altre statue di varia provenienza; si è anche pensato che potesse essere originariamente la statua di culto di un piccolo santuario dei dintorni. L’esistenza di puntelli e di elementi di rielaborazione ha fatto pensare a molti studiosi che non si tratti però dell’originale prassitelico, che sarebbe andato perduto, ma di una copia romana; la questione rimane ancor oggi aperta.

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Fig. 6.9 Hermes e Dioniso, Prassitele, probabile copia romana. Olimpia, Museo Archeologico.

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Fig. 6.10 Apollo Sauroctono, Prassitele, copia romana. Parigi, Museo del Louvre.

Lo schema, con un grande personaggio principale in intimo colloquio con un fanciullino che tiene in braccio, è lo stesso che aveva usato Cefisodoto per la sua Eirene con Ploutos. Nuovo è però nell’Hermes con Dioniso fanciullo lo spostamento del baricentro, che dà alla statua un senso di 609

posizione provvisoria, accentuandone la grazia del movimento a detrimento della solidità della composizione. E anche questo è un motivo ampiamente sviluppato da Prassitele, come mostra la statua dell’Apollo Sauroctono (Fig. 6.10), che ha uno spostamento della parte superiore del corpo ancora più accentuato. La statua originale ci è oggi nota da una ventina di repliche, tra le quali sono particolarmente ben conservate quelle del Vaticano e del Louvre. Il dio, che la morbidezza delle membra indica come ancora giovinetto, è in piedi, il peso gravitante sulla gamba destra; con il braccio sinistro si appoggia a un tronco d’albero, sul quale si arrampica una lucertola: per colpirla con la piccola freccia, che tiene nella mano destra, egli si sporge in avanti e a sinistra, in un attimo di precario equilibrio. La statua rappresentava probabilmente Apollo Alexikakos, liberatore dalla malattia, quest’ultima simbolizzata dal piccolo sauro sul tronco. Anche in questo caso l’appoggiarsi della figura a un elemento esterno consente una rotazione che mette in risalto la flessuosità del corpo, accentuandone la grazia. Ma questo saper cogliere un momento di particolare grazia, apparentemente secondario nello svolgimento del mito, all’interno di un’ambientazione naturale, è una delle caratteristiche principali di Prassitele. Lo stesso si può vedere in un’altra opera dello scultore, forse ancor più celebre, almeno a giudicare dalle tante copie rimaste: il cosiddetto Satiro in riposo (Fig. 6.11). In questo caso è raffigurato un giovane satiro che resta in piedi ma, stanco, si appoggia a un elemento esterno, un albero. Il ritmo viene qui accentuato dalla diagonale del mantello, che scende dalla spalla destra e attraversa la lucente nudità del busto, sino a girare dietro il fianco sinistro, sollevato a causa dell’appoggiarsi del peso della figura tutto sulla gamba 610

sinistra. Il successo che ebbe questo tipo scultoreo per tutta l’epoca romana dimostra quanto fosse amato il soggetto, simbolo di un mondo primordiale, in qualche modo legato al corteggio di Dioniso.

Fig. 6.11 Satiro in riposo, Prassitele, copia romana. Roma, Musei Capitolini.

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Fig. 6.12 Menade di Dresda, Skopas, copia romana. Dresda, Skulpturensammlung. 6.3.2 Il «maestro del pathos»: Skopas

Negli stessi anni di Prassitele, altri artisti cercano di coinvolgere lo spettatore creando espressioni ed effetti di particolare intensità, attraverso l’uso del movimento e della 612

torsione del corpo e di una nuova disposizione meno equilibrata degli elementi del volto. In questo è maestro Skopas di Paro, a tal punto da meritarsi l’etichetta di «maestro del pathos», cioè dell’espressione del sentimento. Anch’egli trae ispirazione dal mondo del corteggio di Dioniso, in particolare per un’opera, da cui deriva la statuetta di Menade che è oggi conservata a Dresda (Fig. 6.12) e che forse è la stessa statua vista da Pausania nel tempio di Dioniso a Sicione. L’agitazione che pervade tutta la figura viene resa dall’impetuosa torsione che, dalla gamba sinistra, passa per il busto e il collo sino alla testa, gettata all’indietro e girata, a seguire lo sguardo, verso sinistra. Il volto è pieno, sono ravvicinati bocca, naso e occhi, questi ultimi sono schiacciati contro le forti arcate orbitali per conferire maggiore intensità all’espressione. L’abbandonarsi del corpo alla passione è sottolineato dalla massa dei capelli scomposti e dal lungo chitone che, tenuto da una cintura appena sopra la vita, si spalanca nel movimento, lasciando scoperto il fianco sinistro, e dal forte contrasto chiaroscurale tra panneggi e capigliatura, da una parte, e superfici nude dall’altra. Le braccia, andate perdute nella piccola replica di Dresda, seguono la generale torsione del corpo: il braccio sinistro, sollevato, stringe contro la spalla un capretto; il destro è teso all’indietro e, nella mano, è impugnato un coltello. Le stesse caratteristiche riscontrabili nella Menade di Dresda possono essere notate anche in un gruppo di frammenti provenienti dai frontoni del tempio di Atena Alea a Tegea, nel Peloponneso, di cui si è già parlato (si veda par. 6.2.3). Queste sono tra le più importanti sculture originali del secolo IV a.C. che ci siano rimaste. Il tempio è stato ricostruito forse dopo la battaglia di Mantinea del 362 613

a.C., al posto di quello andato distrutto in un incendio nel 394 a.C., e sappiamo dalle fonti che proprio Skopas vi lavora, sia come architetto che come scultore. Dal frontone occidentale, dove era rappresentata la lotta tra Achille e Telefo, proviene una testa che si volge con violenza verso sinistra (Fig. 6.13). Tutti i muscoli sono tesi e rigonfi, i particolari del volto sono ravvicinati tra loro; la bocca è dischiusa nello sforzo, mentre l’approfondimento delle orbite e il volgersi verso l’alto degli occhi infossati conferiscono allo sguardo, come nella Menade di Dresda, un’intensa drammaticità. Il confronto conferma l’attribuzione a Skopas: anche qui tutto è volto a rendere la violenza dello sforzo, l’intensità delle passioni. I corpi dei frontoni sono andati per la maggior parte perduti; per quel che si può ricostruire, anch’essi dovevano concorrere a dare l’impressione del movimento, attraverso linee incrociate e violente torsioni. Le soluzioni scelte da Skopas faranno scuola nel periodo ellenistico, e l’esaltazione delle passioni diverrà una delle caratteristiche del cosiddetto «Barocco pergameno»; ma sono molto apprezzate anche dai contemporanei, tanto che poco prima della metà del secolo quest’artista viene chiamato a lavorare al grande monumento funebre che il satrapo di Caria, Mausolo, vuole farsi erigere al centro della sua nuova capitale, Alicarnasso.

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Fig. 6.13 Testa di Eracle o Telefo, Skopas. Tegea, Museo. 6.3.3 Altri scultori del Mausoleo: Timoteo e Leocare

Gli scultori chiamati a lavorare al Mausoleo di Alicarnasso, e in particolare Timoteo, Leocare, Skopas e Briasside, ricordati da Plinio e da Vitruvio, non sono necessariamente coetanei, anche se appartengono ovviamente alla stessa epoca. Il più anziano è probabilmente Timoteo, lo stesso che abbiamo già citato come autore delle statue del tempio di Asklepios a Epidauro. Degli altri, Leocare è l’artista preferito del padre di Alessandro Magno, Filippo II, morto nel 336 a.C.; mentre Briasside lo è di uno dei generali di Alessandro, Tolomeo, per cui lavora sino alla fine del secolo. E forse quindi coetaneo, se non anche qualche anno più giovane, di un altro grandissimo artista,

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Lisippo, scultore di Alessandro stesso, ma che lavora poi ancora alla corte dei suoi successori. Di Timoteo sappiamo relativamente poco; abbiamo però numerosi originali provenienti da Epidauro, in particolare una parte del frontone con amazzonomachia e gli acroteri del frontone occidentale, in marmo pentelico. Quello centrale (Fig. 6.14) rappresenta l’arrivo sul culmine del tetto di una figura femminile, vestita di un chitone aderente e di un ampio mantello, che stringe nella destra un volatile, portato in quanto suo animale simbolico. È ovviamente dalla decodificazione di questo simbolo che dipende anche l’interpretazione della figura: se, come sembra probabile, va identificato in un’oca, allora si tratterebbe di Epione, sposa di Asklepios, di cui appunto l’oca è l’animale sacro, come per Asklepios il gallo. Si è però pensato, temo in modo meno convincente, anche a una pernice, in qualche modo collegata ad Asklepios attraverso un culto locale. Ciascuno dei due acroteri laterali (Fig. 6.15) raffigura poi l’arrivo di una fanciulla, colta nell’atto di scendere da un possente cavallo. Queste due figure, rivolte entrambe verso il centro, sono generalmente interpretate come Aure. La rapidità del loro movimento è indicata, come già nei frontoni fidiaci e nella Nike di Paionios, dallo schiacciarsi della veste sul corpo, in netto contrasto con i lembi all’intorno che, liberi al vento, volteggiano in panneggi vorticosi.

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Fig. 6.14 Acroterio di Epidauro, Epione, Timoteo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 6.15 Acroterio di Epidauro, Aura, Timoteo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Proprio la forte sensibilità nell’uso del panneggio viene considerata una delle caratteristiche fondamentali di questo artista, molto vicino alla tradizione fidiaca. Più attento al maestoso, al sublime dell’apparizione divina, e per questo in fondo ancor più inserito nella tradizione attica, è un altro grande scultore, anch’egli attivo nel cantiere del Mausoleo: Leocare di Atene. Di lui abbiamo molte notizie, che, oltre che con il Mausoleo, lo mettono in relazione con Filippo II, padre di Alessandro Magno, per il quale esegue la serie di statue crisoelefantine del Philippeion di Olimpia, tra il 338 e il 336 a.C. Non sembra avere legami particolarmente stretti con Alessandro, che gli preferisce certamente Lisippo. È però ancora attivo con i suoi immediati successori. Possiamo dunque supporre che, nonostante Plinio lo nomini assieme a Cefisodoto, sia in realtà coetaneo di Prassitele e, probabilmente, anche di Skopas. 618

Una sua opera molto nota è il Ganimede rapito da Zeus nelle sembianze di un’aquila; la descrizione che ce ne ha lasciato Plinio rende molto bene l’aria di attonito stupore di fronte all’immensità del divino, che deve essere stata una delle caratteristiche di quest’artista. L’originale è andato perduto, ma lo si è potuto riconoscere nel modello di alcune statuette, da cui appena traspaiono le forme slanciate e la maestosità che doveva avere l’originale. Certamente vicino, e per questo generalmente attribuito a Leocare, è anche l’originale di una delle statue destinate a diventare tra le più celebri nell’età moderna, prediletta da Winckelmann, dal neoclassicismo e oggi ancora nelle statue da giardino e dai venditori di souvenirs: l’Apollo del Belvedere (Fig. 6.16), così chiamato dal cortile del Vaticano in cui si conserva. Il dio appare stante, con indosso solo la faretra, il cui balteo attraversa diagonalmente il petto, e un mantello che, fermato sulla spalla destra, scendendo da dietro le spalle, si avvolge attorno al braccio sinistro. Il peso è tutto sulla gamba destra: il piede sinistro, rimasto fortemente all’indietro, poggia a terra solo con la punta, in modo che l’ampiezza della falcata sottolinei la rapidità dell’apparizione. Il corpo, giovanile ma fieramente eretto, ha forme allungate e superfici di grande luminosità. La testa è piegata fortemente a sinistra, leggermente verso l’alto; il volto, di eccezionale purezza, ha lo sguardo rivolto lontano, del tutto indifferente alla presenza di uno spettatore. La mano sinistra doveva impugnare l’arco. Ancor oggi, come si è detto, è questa la statua di Apollo più celebre. Inevitabile che gli sia stata sempre accostata quella che è la più famosa tra le statue della sorella gemella: l’Artemide di Versailles (Fig. 6.17). Anche in questo caso si tratta di una copia romana, acquistata a Roma e portata a 619

ornare la reggia di Versailles, da cui ha preso il nome, anche se oggi è conservata al Louvre. La posizione è simmetricamente molto simile a quella dell’Apollo del Belvedere: corpo eretto, peso sulla gamba sinistra, piede destro rimasto molto all’indietro, poggiando a terra solo la punta, testa imperiosamente volta a destra. Il corpo è ricoperto dalla corta tunica caratteristica della dea cacciatrice, ma anche nel suo caso non è tanto il panneggio che ci trasmette la rapidità dell’apparizione, quanto la disposizione delle membra. È replicata in molte copie, alcune delle quali hanno il cane al posto della cerva. Soprattutto nell’Ottocento a molti studiosi è parsa molto stretta la parentela stilistica con l’Apollo del Belvedere, tanto che si sono spinti ad attribuire anche l’originale di questa statua a Leocare. La cosa non può essere esclusa, ma non è nemmeno possibile provarla. Restano il grande valore dell’originale di questa statua, creata tra il 350 e il 320 a.C., e la sua grande celebrità, in passato come oggi.

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Fig. 6.16 Apollo del Belvedere, Leocare, copia romana. Roma, Musei Vaticani.

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Fig. 6.17 Artemide di Versailles, Leocare (?), copia romana. Parigi, Museo del Louvre.

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Fig. 6.18 Mausoleo di Alicarnasso, ricostruzione.

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6.4 Il Mausoleo di Alicarnasso Nel 377 a.C. Mausolo diventa satrapo di Caria, quindi governatore in nome del re di Persia. Discendente da una stirpe principesca locale, egli inizia una politica di autonomia e di rafforzamento, che lo porta a partecipare nel 362 a.C. alla grande rivolta dei satrapi contro Artaserse II. Presto però se ne stacca e questo gli permette di conservare i suoi territori, che anzi amplia a spese delle vicine isole greche di Coo e di Rodi. Grazie alle enormi ricchezze accumulate, pone allora mano alla ricostruzione di una sua nuova capitale sul mare. Viene scelto il sito dell’antica Alicarnasso (oggi Bodrum), che viene ricostruita secondo un progetto unitario che prevede in posizione centrale il palazzo e, come l’ombelico di una patera, il suo immenso monumento onorario. Lo comincia egli stesso, ma deve essere portato avanti dalla moglie Artemisia, che gli succede dopo la sua morte, avvenuta nel 353 a.C. Morta anch’ella nel 351 a.C., il monumento viene completato negli anni immediatamente successivi. Un secolo dopo è incluso fra le sette meraviglie del mondo antico; ne parlano tra gli altri Plinio e Vitruvio, che ce ne hanno lasciato una descrizione abbastanza precisa: su un enorme podio suddiviso in tre gradini, che misurava alla base 120 × 100 piedi, circa 38,40 × 32 m, ed era alto 60 piedi, 19,20 m, si innalzava un tempio circondato da 36 colonne ioniche alte 12 m. Concludeva l’edificio un tronco di piramide formato da 24 gradoni, sul quale era posta la quadriga reale. L’intero monumento raggiungeva così un’altezza complessiva di 140 piedi, poco meno di 45 m: un’altezza paragonabile a quella di un moderno grattacielo di 15 piani (Fig. 6.18). 624

Tutta la costruzione viene affidata a Piteo, l’architetto al quale sembra doversi anche l’ideazione dell’intero piano urbanistico della nuova Alicarnasso. Per creare le sculture destinate a ornarlo vengon fatti arrivare dalla Grecia alcuni degli scultori più famosi: Timoteo, Leocare, Skopas, ai quali si aggiunge Briasside, il cui nome sembrerebbe indicare un’origine caria. Ciascuno di questi artisti si occupa, secondo Plinio, della decorazione di un lato. Resta incerto il ruolo di un altro artista, Satiro, talvolta citato dalle fonti, forse più scultore che architetto. Architettonicamente, il Mausoleo si inserisce nella tradizione dei monumenti sepolcrali dell’Asia Minore, con casa-sarcofago o tempio funerario su alto podio: sulla stessa linea, uno degli antecedenti più immediati può essere considerato il cosiddetto monumento delle Nereidi, ritrovato a Xanthos (Caria), anteriore di circa mezzo secolo. Il Mausoleo di Alicarnasso diventa però presto esso stesso un modello, riprodotto per secoli in sepolcri di più modeste dimensioni. Ancora in piedi ai tempi di Plinio, per i terremoti e l’incuria, il monumento cade in rovina nella tarda antichità; viene quindi totalmente spogliato dei blocchi che lo costituivano, compresi quelli delle fondamenta, dai Cavalieri di Rodi nel XV secolo per costruire il porto e il castello di S. Pietro, ancora esistente. Il monumento rimane così noto dalle fonti letterarie senza che, per lungo tempo, se ne avessero testimonianze archeologiche. Questo porta a una lunga serie di ricostruzioni grafiche, spesso molto dipendenti dalla diretta esperienza costruttiva di chi le esegue. Quando, nel 1856, giunge a Bodrum l’archeologo Sir Charles Newton, inviato dal British Museum, si deve procedere un po’ a tentativi, data l’esigenza di acquistare preventivamente i terreni di scavo in un’area ove quasi ogni traccia è ormai scomparsa. Ma, alla fine, si sceglie il posto 625

giusto: vengono alla luce varie lastre di un fregio con amazzonomachia e i resti di almeno trecento statue più o meno frammentarie, compresa una testa di cavallo, subito riconosciuta come appartenente alla quadriga citata da Plinio in quanto posta sulla sommità. Il tutto viene portato a Londra, dove ancora si trova; ma solo le lastre e le sculture meglio conservate sono esposte. Presto si scatena una corsa all’attribuzione delle singole lastre del fregio concretamente possedute ad almeno uno dei quattro scultori noti dalle fonti: operazione molto presuntuosa, dal momento che oggi abbiamo solo una piccola parte dell’intero fregio. In realtà, anche se materialmente fatte da mani diverse, come è naturale in monumenti di tali dimensioni, tutte le lastre rivelano un impianto unitario. Le slanciate figure dei combattenti sono riunite in gruppi, nei quali prevalgono le linee diagonali, che tendono a comporre gruppi piramidali. La ricerca di un nuovo movimento, più libero nello spazio, di eleganti figure ben radicate nella tradizione classica, ma slanciate in movimenti aperti e pieni di vigore ha fatto pensare a Leocare come autore di almeno alcune delle lastre superstiti, come ad esempio quella dei due guerrieri che finiscono l’amazzone ormai a terra, delineando con i propri corpi tesi un triangolo che racchiude quello formato dalla figura femminile, che invano si volge a difendersi. Le stesse caratteristiche sembrano infatti ritrovarsi nell’Apollo del Belvedere, che generalmente gli si attribuisce. Un successo maggiore riscuotono i tentativi di accostare, sempre sulla base di supposte somiglianze stilistiche, singole lastre del fregio a monumenti attribuiti a Skopas, tanto che a questo artista vengono sbrigativamente attribuite tutte le lastre, ad esempio, dal manuale dello Charbonneaux, che è stato uno dei più usati anche in Italia. Altre lastre, ove i panneggi 626

svolazzanti acquistano particolare corposità e importanza, sono state invece accostate alle sculture di Timoteo a Epidauro. Si tratta in ogni caso di elementi stilistici che effettivamente possono essere singolarmente individuati, ma restano all’interno di un enorme fregio, che presenta comunque una sua unitarietà di concezione. Per questo oggi non manca nemmeno chi ritiene che i maestri abbiano solo fornito i modelli, trasferiti poi nel marmo da maestranze locali. Più recenti studi, sia sui resti del monumento a Bodrum, sia sui frammenti scultorei del British Museum, hanno portato a una migliore conoscenza dell’intero complesso. È stata innanzitutto rivista la ricostruzione complessiva, per la quale i dati tramandati da Plinio e Vitruvio sono filtrati attraverso una migliore conoscenza delle architetture antiche, anche se alcuni particolari sono destinati a restare forzatamente ipotetici. Sull’impianto generale è stata poi fatta la ricostruzione della decorazione scultorea. L’importanza del fregio dell’amazzonomachia, le cui lastre sono state trovate da Newton, viene così ridimensionata: il fregio infatti doveva correre a grande altezza attorno al plinto di base, e passare in second’ordine rispetto alle 88 statue collocate sul primo gradone del podio, alle 72 del secondo, alle 56, colossali, del terzo; alle 36 statue a grandezza maggiore del vero che trovavano posto tra gli intercolumnii; ai 56 o forse 72 leoni collocati all’inizio della piramide; infine, alla grandiosa quadriga con le statue di Mausolo e Artemisia che concludeva l’insieme. Appare anche testimoniata l’esistenza di un secondo fregio, raffigurante un avvenimento strettamente legato alle celebrazioni funerarie: una corsa di carri. Per quanto riguarda il fregio dell’amazzonomachia, si 627

tratta pur sempre di un fregio molto significativo e di considerevole lunghezza, perché, anche nel caso corresse effettivamente attorno al terzo gradino del podio, doveva pur sempre estendersi per oltre 100 m. Composto da figure di guerrieri e amazzoni che formano continue diagonali che si intersecano a X oppure a triangoli, appare nel suo insieme molto tradizionale, non solo nella composizione, ma anche nella scelta dei modelli iconografici, che appartengono sempre a repertori largamente noti e usati. Anche gli elementi di variazione appaiono di maniera: un esempio si ha nelle lastre che più spesso delle altre vengono attribuite direttamente a Skopas (Fig. 6.19): il combattimento è diviso in tante monomachie, che vedono affrontarsi di volta in volta a sinistra un greco, in nudità eroica ma difeso da elmo e scudo, e a destra un’amazzone, a piedi o a cavallo, chiaramente indicata anche dalla corta veste che arriva poco sopra le ginocchia. Le diagonali sottolineano qui la direzione della battaglia, da sinistra verso destra, e sono chiaramente indicate dalle braccia aperte del primo greco che si difende dopo essere stato costretto ad appoggiare il ginocchio sinistro a terra, poi dalla gamba destra tesa e dal corpo del secondo greco e dal corpo dell’amazzone che si difende brandendo l’ascia bipenne, infine dal terzo greco, che si protende a finire l’avversaria ormai caduta. Nei volti, occhi, naso e bocca sono ravvicinati per una maggiore espressività. Tutte le figure sono pervase da gran movimento, le muscolature maschili sempre indicate nello sforzo della battaglia, che, come nelle amazzoni, fa ruotare i busti rispetto alle gambe e alle anche. Si può osservare, in particolare, l’amazzone del gruppo centrale: poggiando saldamente sulla gamba destra, vista dal retro, nel brandire la bipenne ruota busto, braccia e testa, che appaiono di profilo; il movimento è così brusco che la veste si apre, scoprendo glutei e seno sinistro. Tutto questo non può non 628

ricor dare la Menade di Dresda, attribuita a Skopas, tante volte richiamata in quest’occasione (Fig. 6.12); ma è un modello che non compare solo qui: si tratta piuttosto di studi di movimenti di rotazione provocati dall’impeto dello scontro, di variazioni (non dimentichiamo che, se l’intero fregio era lungo più di 100 m, almeno altrettante dovevano essere le amazzoni) nell’ambito di un gusto che ritroviamo sì in Skopas, ma che non riconduce per forza alla sua mano, così come le forme slanciate non sono necessariamente di Leocare (Fig. 6.20), né i panneggi gonfiati dal vento debbono essere attribuiti senz’altro a Timoteo (Fig. 6.21).

Fig. 6.20 Mausoleo, lastra “leocarea”. Londra, British Museum.

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Fig. 6.19 Mausoleo, lastra “scopadea”. Londra, British Museum.

L’estrapolazione di singole sculture dal loro contesto originario ha fatto anche sì che le due statue meglio conservate, una maschile, l’altra femminile, venissero semplicisticamente indicate come Mausolo e Artemisia, talora addirittura identificate come le due statue poste sulla quadriga reale, cadute da 40 m d’altezza. Si tratta invece di due delle 252 statue che ornavano i diversi piani del monumento: due membri del corteggio di dignitari e servitori, per noi del tutto anonimi. Non per questo sono però prive di interesse, anzi.

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Fig. 6.21 Mausoleo, lastra talvolta attribuita a Timoteo. Londra, British Museum.

La statua del cosiddetto Mausolo (Fig. 6.22), stante nella classica contrapposizione dei pesi, mostra immediatamente caratteristiche particolari nell’acconciatura a lunghi capelli, nella corta barba, nelle forme piene del volto dall’espressione concentrata. Anche la veste, con il mantello portato orizzontalmente a cingere con pesanti pieghe la parte centrale della figura, facendola così apparire di particolare solidità, non rientra nei canoni consueti. Si tratta evidentemente di simboli di status, obbligatori da indicare per chi l’ha scolpita. Questo turgore di forme, sottolineato da pesanti panneggi, non può non ricordare l’opera più tradizionalmente attribuita a un altro degli artisti del Mausoleo, la statua colossale di Serapide (Fig. 8.1) che Briasside fece per il primo dei Tolomei; ma, ancora una volta, nell’impossibilità di uno sguardo generale, l’intervento dei singoli artisti resta fortemente ipotetico.

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Fig. 6.22 Mausoleo, Mausolo. Londra, British Museum.

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6.5 Le tradizioni dei grandi maestri 6.5.1 L’influsso di Policleto

Si è già ricordato come, accanto ai grandi artisti, fioriscano nel secolo IV a.C. delle scuole; queste producono in tutta la Grecia un’enorme quantità di rilievi e di statue, sia di marmo che di bronzo e il caso ha fatto sì che alcune di queste opere siano arrivate sino a noi. È così, ad esempio, per una statua di bronzo alta 1,96 m, scoperta in molti pezzi nel 1900 in un relitto al largo di Anticitera, e oggi conservata al Museo Nazionale di Atene (Fig. 6.23). Il muscoloso corpo di un giovane atleta sembra arrestarsi nel suo procedere, mostrando con la destra sollevata un oggetto circolare, ora perduto. Il peso è tutto sulla gamba sinistra; la destra, poggiata solo sulla punta del piede, è rimasta discosta all’indietro nell’interruzione dell’incedere; in corrispondenza chiastica, è lasciato cadere verso il basso il braccio sinistro. Il ritmo della costruzione è ancora quello policleteo, anche se emerge una forte accentuazione dei movimenti e una maggiore libertà spaziale, ed è nuovo lo spirito di sospesa attesa che pervade la figura. La testa, rimasta intatta, è lievemente reclinata in avanti e, come in alcuni rilievi contemporanei, mostra uno sguardo assorto, perduto lontano. Il confronto con un’analoga figura che compare su un’anfora panatenaica, datata dall’iscrizione al 340-339 a.C., sembra dare una precisa indicazione cronologica a questa statua, che viene pertanto considerata uno degli ultimi esiti di una scuola che seguiva i dettami di Policleto. La somiglianza dell’atteggiamento con quello del Perseo di Benvenuto Cellini, lontanissimo nel tempo e certo non 633

strettamente collegabile, ha fatto nascere la tradizionale identificazione di questo giovane con un Perseo che regge la testa della Medusa. Le tracce sulle dita della mano destra indicano però necessariamente un oggetto sferico di piccole dimensioni, come mostra anche la mancanza di tensione e quindi di sforzo del relativo braccio. Si è quindi pensato piuttosto che dovesse mostrare una mela, proponendo così l’identificazione con Paride (un Paride opera di Eufranore appare citato dalle fonti letterarie) o ancor meglio con un giovane Eracle, che, al ritorno dal giardino delle Esperidi, mostra il pomo appena colto. Un’altra statua bronzea di atleta dall’evidente influsso policleteo (Fig. 6.24) è stata rinvenuta più o meno negli stessi anni, più precisamente nel 1896, tra le rovine di un edificio termale tardoantico a Efeso, sulla costa egea dell’attuale Turchia. In questo caso apparve subito chiaro che non di un originale si trattava, ma di una copia bronzea di età romana, forse di epoca flavia. Vi è raffigurato un atleta dalla solida impalcatura, nella quale particolare rilievo assumono le spalle, larghe e muscolose. Il peso poggia tutto sulla gamba destra; la sinistra, avanzando, accompagna il movimento delle braccia: l’atleta è intento a ripulire lo strigile, l’apposito arnese bronzeo a forma di S, del sudore misto a sabbia che ha appena tolto dalla propria pelle. Si tratta quindi di un apoxyomenos, appunto di un atleta che si deterge con lo strigile: un momento spesso riprodotto nella scultura antica, in quanto simbolico della vita che si svolgeva nei ginnasi, a sua volta caratteristica essenziale della formazione dell’uomo greco.

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Fig. 6.23 Giovane da Anticitera. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Tutta la figura conserva un ritmo policleteo, pur con una grande libertà di movimenti, parallela a una ben minore attenzione alle proporzioni. La testa, poi, fortemente piegata in avanti, a sottolineare la concentrazione nell’azione che sta compiendo, conserva assai poco di policleteo. Solida è sempre la forma del capo, ma più ravvicinati bocca, naso e occhi, sguardo non perso nel vuoto ma fisso sullo strigile, più vivace e meno composta la capigliatura. Nonostante se ne abbiano anche delle copie marmoree, non è stato mai 635

possibile attribuire con sicurezza l’originale di questa statua a uno dei tanti nomi di scultori della metà del IV secolo, o poco dopo. Certo, non conosce le sorprendenti innovazioni che allo stesso soggetto diede Lisippo e certamente l’autore si ispirava più a Policleto che a Lisippo. Tutto questo ci induce a ritenere che l’originale di questa statua fosse senz’altro anteriore, anche se non di molto, al celebre apoxyomenos lisippeo (si veda par. 7.3.2).

Fig. 6.24 Atleta, da Efeso. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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Fig. 6.25 Atleta, da Lussino. Fiume, Museo Archeologico.

Che poi esistessero delle copie romane di originali greci fatte anch’esse in bronzo, anziché in marmo, lo si è sempre saputo, sia dalle fonti letterarie che dai rari esempi e dai calchi rimasti. Anch’esse però sono andate di norma perdute, come gli originali fatti dello stesso materiale, divenuto preziosissimo nel Medioevo. Ha perciò destato particolare meraviglia la bizzarria del caso, che ci ha fatto riavere una seconda copia bronzea proprio dello stesso originale (Fig. 6.25), trovata nel mare di Lussino, in 637

Dalmazia, nel 2000. È in tutto identica all’esemplare di Efeso, con appena una apparente maggiore leggerezza nelle proporzioni, forse dovuta alla conservazione. 6.5.2 L’influsso di Prassitele

Ancora dal mare, presso Maratona, sulla costa settentrionale dell’Attica, ci è giunta un’altra statua bronzea (Fig. 6.26), di dimensioni leggermente minori. Rappresenta un giovanetto, un efebo, stante e con il peso sulla gamba sinistra, mentre con la mano destra si appoggia a un sostegno esterno, intento a guardare qualcosa che reggeva nella sinistra (l’avambraccio sinistro è peraltro dovuto a un restauro antico): nel complesso, una figura molto simile a quella dell’Apollo Sauroctono (Fig. 6.10), ma ancor più a un’altra statua di Prassitele che conosciamo dalle fonti letterarie e dalle copie di età romana: il satiro intento a versare del liquido da una brocca in una tazza o patera.

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Fig. 6.26 Efebo, da Maratona. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Anche il volto richiama da vicino l’arte del maestro ateniese: il fine ovale dalle superfici delicate, l’accuratezza dei dettagli, lo sguardo perduto in lontananza, senza guardare ciò che ha in mano, la bocca semiaperta, che contribuisce a dare all’insieme una sottile melanconia, sono tutte caratteristiche prassiteliche. Tipica di Prassitele sarebbe in questo caso anche la scelta di rappresentare una divinità ancora giovanissima. Per questo oggi si è concordi nel ritenere che ci si trovi qui di fronte a una delle tante opere minori del maestro, o 639

almeno all’opera di un allievo formatosi alla sua bottega e operante nella seconda metà del secolo IV a.C. La testa del giovinetto è cinta da una corona con foglie, come per gli atleti, o per il protettore dei ginnasi, Hermes. È stato dunque proposto che potesse rappresentare un Hermes che regge nella mano sinistra una tartaruga, da cui avrebbe poi creato la lira, come appare in alcuni bronzetti gallo-romani. Collegata con lo stesso maestro è anche una base di statua trovata a Mantinea (Fig. 6.27): decorata da rilievi rappresentanti la contesa tra Marsia e Apollo alla presenza delle Muse, doveva sorreggere la statua di Hekate, citata e attribuita a Prassitele da Pausania. La base è datata tra il 330 ed il 320 a.C.; ne abbiamo tre lastre, che dovevano decorare altrettanti lati; ciascuna lastra ha a sua volta tre figure: in una sono Marsia con il doppio flauto e Apollo, seduto con la lira, mentre tra di loro già attende lo Scita; nelle altre, due gruppi ciascuno di tre Muse, caratterizzate ognuna con il proprio simbolo, e ognuna con un panneggio diverso dalle altre. Si tratta di tipi che si ritrovano in altre statue, quali la Fanciulla di Anzio o la Themis di Ramnunte, le quali vengono perciò anch’esse ricondotte, se non proprio all’opera di Prassitele, a scultori che di Prassitele sentono profondamente l’influenza.

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Fig. 6.27 Base con rappresentazione delle Muse, da Mantinea. Atene, Museo Archeologico Nazionale. 6.5.3 L’influsso di Skopas

Sempre in quegli anni, contemporanei ad Alessandro, o di poco posteriori alla sua morte, mentre raggiunge il suo apice l’attività di Lisippo, altre sculture mostrano invece una più precisa adesione a una scuola che si forma ispirandosi a Skopas. Molto indicativa a questo proposito è una stele funeraria (Fig. 6.28) proveniente dalla necropoli dell’Ilisso, il fiume che scorreva a sud-est di Atene. Come in molte altre stele trovate nelle necropoli del Ceramico e del Pireo, anche questa sviluppa il tema della morte prematura: si tratta insomma del monumento posto da una famiglia che vuole ricordare la morte di un suo giovane membro. Il tipo della stele è quello caratteristico del periodo, attorno al 340 a.C. o poco dopo: una scena a rilievo, da inserire in una cornice che riproduce la facciata di un tempietto (naiskos): un tabernacolo che garantiva l’accoglienza del defunto nel mondo degli eroi. Sulla sinistra, il corpo muscoloso di un giovane atleta si appoggia all’indietro, guardando 641

malinconicamente lo spettatore. La possente struttura del corpo e ancor più il suo movimento a spirale richiamano effettivamente le opere di Skopas. La testa ha la disposizione ravvicinata degli elementi come nelle opere di Lisippo; ma la struttura cubica del capo, la bocca semiaperta e gli occhi profondamente infossati per sottolineare la mestizia dello sguardo la avvicinano alle teste di Tegea (Fig. 6.13).

Fig. 6.28 Stele dell’Ilisso. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

La figura sulla destra, del vecchio padre pensoso, e, accanto ai piedi del giovane, il cane che gli era stato compagno nella caccia e ora tocca con il muso il terreno, aggiungono alla scena ulteriori elementi di rammarico, sottolineandone l’atmosfera di profonda tristezza. Siamo dunque in un ambito prettamente funerario, 642

privato. Dato l’alto valore artistico di questo monumento, c’è anche chi ha pensato che la famiglia si sia rivolta direttamente alla bottega di Skopas. Ad ogni modo, sia che si tratti di un diretto intervento o di una stretta dipendenza stilistica, la stele dell’Ilisso costituisce la testimonianza di quanto ampio e profondo ne sia stato l’influsso, in un periodo in cui l’insegnamento dei grandi maestri è sempre sentito e seguito da molta produzione scultorea, anche al di là della committenza pubblica.

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7 L’età di Alessandro (336-323 a.C.) GIORGIO BEJOR

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7.1 Filippo II, re di Macedonia Il secolo IV a.C. vede il progressivo affermarsi della Macedonia tra gli Stati greci. Una compagine statale, dunque, molto diversa dalle vecchie poleis, singole città con un limitato territorio, relativamente estesa e governata da un’unica dinastia. Vive per secoli alla periferia del mondo greco, tanto che ancora ai tempi della Guerra del Peloponneso i Greci dell’Attica e del Peloponneso erano indecisi se considerare i Macedoni dei Greci a tutti gli effetti, oppure dei mezzo barbari. Il re Archelao però interviene a fianco di Atene nella Guerra del Peloponneso ed estende la sua influenza sulle aree vicine. La stessa corte macedone diventa poco per volta un centro di grande cultura. In una delle sue città più importanti, Pella, si trasferisce Euripide, che vi trascorre gli ultimi tempi della sua vita. E sempre a Pella, attorno al 400 a.C., Archelao fa arrivare il pittore Zeusi, per farsi ornare le sale del palazzo. Segue un periodo di grande rinascita anche della Tessaglia, dove le città si sono riunite in una potente lega. Dopo che, nel 359 a.C., sul trono di Macedonia sale Filippo II, lo stato più importante torna a essere la Macedonia. Pella diventa la nuova capitale. Vi giunge anche il massimo filosofo del tempo, Aristotele, che prende parte all’educazione del figlio del re, Alessandro. Con lui, altri dei massimi pensatori e artisti del periodo. Filippo continua a perseguire una politica di interventi sempre più pesanti tra le città della Grecia centrale, approfittando dei continui conflitti, sino a che, nel 338 a.C., infligge alle poleis coalizzatesi contro di lui la tremenda sconfitta di Cheronea. Contemporaneamente, allarga i suoi possedimenti nel nord: nel 348 a.C. prende e distrugge Olinto, colonia di Atene sulle coste settentrionali dell’Egeo, e nel 340 a.C. Perinto, sul Mar di Marmara, allo 645

sbocco meridionale della Tracia. È al culmine del potere quando, nel 336 a.C., cade vittima di una congiura di palazzo, lasciando il trono al figlio ventenne, Alessandro.

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7.2 L’altra Grecia: l’imporsi della Macedonia 7.2.1 Le necropoli della Grecia settentrionale e della Tracia

In Macedonia, come in Tessaglia e in Tracia, le tombe di questo periodo mostrano una sempre maggiore ricchezza, ma anche l’alto livello di adesione ai modelli della Grecia tradizionale. A Derveni, presso Salonicco, una tomba scoperta nel 1962 mostra un corredo particolarmente ricco di suppellettili metalliche, tra le quali spicca un grande cratere in bronzo dorato (Fig. 7.1), alto 90 cm e pesante 40 kg. Un’iscrizione, in lettere d’argento applicate sul fregio a ovuli del bordo, indica che fu usato come urna cineraria da un certo Astion figlio di Anaxagoras, di Larisa, la principale delle città tessale.

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Fig. 7.1 Cratere di Derveni. Tessalonica, Museo Archeologico Nazionale.

La forma è quella tipica di un cratere a volute, ripetuta innumerevoli volte in ceramica. Ovunque appare però ricoperto da decorazioni a rilievo o applicate. Il corpo del vaso è occupato dalla rappresentazione delle nozze di Dioniso e Arianna, circondati dai personaggi tipici del tiaso bacchico, satiri e menadi, secondo i tipi tradizionali della pittura greca; sulle spalle sono applicate quattro figure a tutto tondo, rappresentanti ancora Dioniso, due menadi e un satiro; nelle volute sono inserite quattro teste barbate. Si tratta di un capolavoro della toreutica greca, databile tra il 330 e il 320 a.C., ed è probabilmente il prodotto di un’officina locale, macedone o tessala. Gli stessi due elementi, ricchezza e adesione a modelli greci, sia pure a un livello più corrente, mostra ancora più a nord la tomba della necropoli di Kazanlak, in una valle della Tracia, nell’odierna Bulgaria. Si tratta di una tomba a tumulo, la cui cupola interna (Fig. 7.2) è stata dipinta da pittori venuti probabilmente dalla Grecia. Sopra un fregio ornato a scudi e bucrani, è rappresentata su fondo bianco una scena con la coppia dei defunti seduti a banchetto. Accanto, una serie di servitori e dietro a questi due quadrighe. Nella lanterna, che si eleva al centro della cupola, una corsa di tre bighe. Anche il corridoio d’accesso è dipinto, con un fregio a piccole figure impegnate in battaglia. L’insieme appare veramente un’opera di bottega, manca una vera e propria composizione unitaria, ciascuna figura è ripresa da repertori classici ma, pur essendo talvolta rappresentata di scorcio, come nel caso delle ancelle che inquadrano la coppia a banchetto, risulta semplicemente accostata alle altre. Grazie però anche al sorprendente stato di conservazione nel quale ci è giunto, questo monumento resta molto significativo come testimonianza del diffondersi 648

della cultura figurativa greca in un’area periferica nell’ultimo terzo del secolo IV a.C. 7.2.2 I tumuli di Verghina

Sono indubbiamente tutta un’altra cosa le pitture e le architetture venute recentemente alla luce in Macedonia. Nella necropoli dell’antica capitale tradizionale, Aigai, ormai definitivamente riconosciuta nell’odierna Verghina, a partire dal 1950 sono stati scavati alcuni dei tumuli, che dovevano conservare le tombe della casa reale.

Fig. 7.2 Tomba di Kazanlak, interno.

Una, in particolare, si è rivelata di grande interesse storico: si tratta di una tomba (Fig. 7.3) composta di una camera, con le pareti in blocchi di pietra squadrati e la copertura a volta a botte, preceduta da un’analoga anticamera, leggermente più piccola. Dopo l’edificazione di questo nucleo centrale, l’intera tomba era stata ricoperta da un tumulo di terra che lasciava visibile solo la facciata, nella quale la porta d’accesso si apriva tra due semicolonne doriche tra ante, sormontate da un fregio dorico; l’ampio spazio quadrangolare sovrastante è dipinto con scene di caccia. Al momento della scoperta, nel 1977, la tomba si 649

presentava ancora intatta. Addossato alla parete di fondo della camera stava un semplice sarcofago marmoreo, contenente una cassetta in oro con quattro piedi leonini, fregi e rosette e con la stella a sedici punte di Macedonia, incisa a rilievo sul coperchio (Fig. 7.4). Al suo interno si conservavano ancora le ossa combuste del proprietario del sepolcro.

Fig. 7.3 Verghina, ricostruzione di una tomba a tumulo.

Fig. 7.4

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Verghina, cassetta ossario, dalla tomba di Filippo II. Tessalonica, Museo Archeologico.

Fig. 7.5 Verghina, testa forse di Filippo II. Tessalonica, Museo Archeologico Nazionale.

Accanto al sarcofago era disposto il corredo funebre: una serie di vasi da mensa in argento, comprendente coppe, anfore, un cratere e altri recipienti ceramici, oltre a vasellame bronzeo usato per il bagno; inoltre un’armatura, composta da una corazza, in ferro e cuoio con decorazioni in oro, un elmo in ferro con alto cimiero, una spada pure in ferro e con decorazioni in oro, uno scudo ornato d’oro e d’avorio, schinieri in bronzo e punte di lancia in ferro. E ancora, un diadema in oro a foglie di quercia e un letto, le cui strutture lignee si sono completamente dissolte, lasciando sparse al suolo le decorazioni d’avorio che le ricoprivano. Tra queste, alcune piccole teste, maschili e femminili, alte poco più di 3 cm e prive della capigliatura, che doveva essere in legno. L’intero corredo porta a una datazione tra il 350 e il 325 a.C.: di conseguenza, se un re fu sepolto in questa tomba, non può essere che Filippo II, assassinato proprio ad Aigai nel 336 a.C. Nella testina in avorio (Fig. 7.5) di un uomo dell’apparente età di 40-45 anni, barbato, caratterizzato dal 651

forte naso aquilino, che fa parte delle decorazioni del letto, si è creduto di riconoscere proprio l’effigie di Filippo II; e in una di un giovane dallo sguardo intenso, rivolto verso l’alto, quella di suo figlio Alessandro. Sui resti del defunto sono stati fatti numerosissimi esami antropologici, che hanno portato anche a delle ricostruzioni delle fattezze originarie. Tra l’altro, è parso di vedere anche i segni del colpo di freccia che aveva sfigurato il volto del re macedone durante l’assedio di Metone nel 355 a.C., privandolo di un occhio. Purtroppo, questi tentativi sono resi più difficili e i loro risultati meno sicuri dal fatto che il corpo era stato arso su una pira funebre e solo i resti delle sue ossa combuste erano stati raccolti, assieme alle ceneri, e chiusi nella cassa. Anche l’anticamera venne usata come sepoltura: vi è stato infatti trovato un sarcofago marmoreo, contenente anch’esso una cassetta in oro, più piccola e semplice della precedente, ma anch’essa con la stella a sedici punte sul coperchio. All’interno, raccolti in una veste di porpora e oro, i resti di una giovane defunta, forse Cleopatra, l’ultima moglie di Filippo. Anche il corredo è più semplice, pur comprendendo numerose decorazioni in oro, che dovevano essere applicate a un mobile in legno andato perduto, e altri oggetti d’oro, tra i quali un diadema a foglie e fiori di mirto e un pettorale finemente decorato. Nell’insieme, dunque, si tratta di una tomba di straordinaria ricchezza. Ma, al di là di questo e delle possibili identificazioni, le tombe della necropoli di Verghina costituiscono un episodio fondamentale nella storia dell’arte greca grazie ai dipinti che le ornano e che sono oggi tra i pochi originali superstiti della grande pittura greca. La caccia raffigurata sulla facciata di questa tomba (Fig. 7.6 a,b,c) si svolge sullo sfondo di un paesaggio boscoso, 652

indicato da una serie di alberi posti in secondo piano, a intervalli regolari. Numerose sono le figure partecipanti, raggruppabili in quattro diverse cacce accostate: ai cervi, al cinghiale, al leone, all’orso. Esse sono condotte con l’ausilio di numerosi cani, e vi prendono parte molti personaggi a piedi e tre a cavallo. Questi ultimi sono rappresentati in forte scorcio, nell’atto di colpire con la lancia mentre la cavalcatura si impenna. I due impegnati nella caccia, che per posizione e numero dei partecipanti sembra essere la principale, quella al leone, sono caratterizzati rispettivamente come un giovane e un maturo uomo barbato: è stato proposto di vedervi Alessandro Magno e suo padre, Filippo II. Il grande senso di generale movimento e la complessità della composizione, l’uso dei cavalli come elementi di profondità e l’ambientazione paesistica hanno fatto pensare a un’opera giovanile dello stesso autore della battaglia di Alessandro di cui si parlerà in seguito (si veda par. 7.4.5), cioè Filosseno di Eretria. Ma, anche se la stessa è la linea dello sviluppo artistico, il particolare uso del colore, che crea momenti di singolare luminosità con l’uso del chiaroscuro, usato anche per dare profondità nello sfumato con cui sono resi i monti dello sfondo, sembra riportare ad altri artisti presenti alla corte di Macedonia attorno ad Apelle, il pittore che era noto proprio per i suoi studi sulla resa della luce, diventato poi il pittore preferito di Alessandro.

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Fig. 7.6a Verghina, facciata della tomba di Filippo II. (tav. 36)

Fig. 7.6b Verghina, dipinto della caccia, dalla tomba di Filippo II.

Fig. 7.6c Disegno del dipinto della caccia.

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Fig. 7.7a Verghina, ratto di Persefone. (tav. 38a)

Fig. 7.7b Verghina, tomba di Persefone: dettagli delle teste di Persefone e Ade. (tav. 38b)

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Fig. 7.7c Verghina, tomba di Persefone: sul fondo la dea Demetra addolorata; sulla sinistra il rapimento di Persefone. (tav. 37)

Negli affreschi delle tombe della necropoli di Verghina si è voluta riconoscere anche la mano del maestro di Filosseno, Nicomaco di Atene, presente in Macedonia durante il regno di Alessandro. Celebre per la facilità del tratto, gli è stato talora attribuito il mirabile affresco con il ratto di Persefone (Fig. 7.7 a,b,c) che dà nome alla tomba che decorava, creata un po’ più tardi, forse attorno al 320 a.C. Era probabilmente solo la replica di un originale, citato anche da Plinio. L’impeto con cui procede il carro di Ade è sottolineato dalla visione di tre quarti delle ruote e dal violento divergere delle linee, dall’intensa espressione e dalle chiome del dio degli inferi, scompigliate così come quelle di Persefone, che invano tende le braccia in senso opposto alla corsa, ruotando il bianco corpo in un volteggiare di vesti. 7.2.3 I palazzi macedoni

Sempre a Verghina, su un’altura poco elevata, è stato scoperto anche un grande palazzo (Fig. 7.8), che mostra il caratteristico tipo del palazzo ellenistico. L’accesso è sul lato est, attraverso un vestibolo con tre colonne tra ante, bordato da un doppio colonnato, dorico al piano inferiore e probabilmente ionico a quello superiore. Questo colonnato si prolunga anche lungo il lato nord dell’edificio, 656

divenendone la facciata monumentale. Dal primo vestibolo si accede lungo lo stesso asse ad un secondo e poi ancora a un terzo, sino a raggiungere l’accesso a una corte centrale quadrata. Questa è ornata su ciascun lato da un portico di sedici colonne d’ordine dorico, e attorno ad essa si distribuiscono delle serie di stanze quadrangolari. Gli appartamenti reali occupavano probabilmente il lato meridionale. Accanto all’accesso, un ambiente, quadrato all’esterno, presenta all’interno una pianta circolare, coperta da cupola: si tratta certamente della sala di rappresentanza, dove avvenivano i ricevimenti ufficiali. Se lo schema generale resta quindi quello di una casa a peristilio, grandiosità, lusso, scenografia indicano la maestà del proprietario. Lo schema del palazzo di Verghina, sistema assiale con grande corte colonnata centrale attorno alla quale si aprono sfarzosi ambienti, si ritrova anche negli altri palazzi macedoni e in alcune delle grandi case scavate a Pella, inserite all’interno di una sistemazione urbanistica ad assi perpendicolari (Fig. 7.9) che sembra risalire agli anni di Cassandro, cioè attorno al 315-310 a.C., o alla generazione successiva. Alcuni di questi ambienti sono decorati con mosaici pavimentali fatti con piccoli ciottoli di fiume e ornati da quadretti figurati, contenuti entro una cornice di ricchissimi girali e fasce di onde ricorrenti, e con i contorni delle figure sottolineati da lamine di piombo. Essi rappresentano scene di caccia, un genere che aveva acquistato particolare favore proprio con Alessandro. Uno di questi quadretti ha due personaggi, in pose derivate dai modelli classici dei combattenti di mitiche battaglie, che cooperano nell’uccisione di un cervo, aggredito dai cani. Un altro, stilisticamente molto simile, rappresenta una caccia al leone (Fig. 7.10), con un personaggio che sta per aver la 657

peggio, ma viene salvato dall’intervento di un compagno: un’allusione, che spesso si ritrova in mosaici e pitture, al celebre episodio in cui Alessandro venne salvato dall’intervento di Cratero. Entrambi i quadretti sembrano derivare da pitture, come anche altri piccoli quadri, o emblemata, che ornano con motivi diversi altre parti della stessa casa.

Fig. 7.8 Verghina, pianta del palazzo.

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Fig. 7.9 Pella, pianta delle case.

Fig. 7.10 Mosaico con caccia, dalle case di Pella. 7.2.4 Olinto e Priene: la casa greca nel secolo IV a.C.

Pella ci mostra così come vivessero le famiglie dei conquistatori dell’Asia. Invece Olinto, distrutta completamente da Filippo II nel 348 a.C. durante le guerre contro l’espansionismo ateniese nel nord dell’Egeo e mai più ricostruita, ci offre l’esempio più chiaro di come fosse un 659

normale abitato greco alla metà del secolo IV a.C. L’impianto, regolare (Fig. 7.11), era quello datole al momento della fondazione da Perdicca, re di Macedonia e predecessore di Filippo II, nel 432 a.C. Gli isolati erano divisi da grandi vie in direzione nord-sud, larghe da 5 a 9 m, tagliate da vie perpendicolari larghe 5 m. Ciascun isolato era di norma a sua volta diviso da muri continui in otto unità abitative, le cui disposizioni interne possono essere ricondotte a un unico modello iniziale (Fig. 7.12). Questo coincide sostanzialmente con quello ricordato per le abitazioni private negli scrittori contemporanei, da Platone a Lisia. Il nucleo centrale è sempre costituito da un cortile interno, l’aulè, al quale si accedeva dalla strada attraverso una porta e uno stretto passaggio. Sempre sull’aulè si apriva anche l’abitazione vera e propria, preceduta da un portico su pilastri di legno, detto pastàs, che sorreggeva una terrazza aperta verso sud. Questi locali davano luce ai retrostanti ambienti di soggiorno, riparandoli nel contempo dal pieno sole; ma erano comunque rivolti a sud, proprio per sfruttare al massimo la luce del giorno, anche nei mesi invernali. Di norma, l’abitazione vera e propria si sviluppava su due piani; nell’inferiore c’era l’andròn, il locale dove il padrone di casa poteva ricevere gli ospiti; al superiore stavano gli ambienti per le donne e le camere da letto, raggiungibili per mezzo di una stretta scala di legno che partiva direttamente dall’aulè, data la totale assenza di vani destinati a scale. Esistevano invece altri ambienti minori, che fungevano da servizio, per il riscaldamento o per la cucina. Oltre a questi, circondavano l’aulè ambienti, adibiti a stalle o magazzini.

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Fig. 7.11 Olinto, assonometria.

Fig. 7.12 Pianta di case a Olinto.

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Fig. 7.13 Priene, pianta.

Nel secolo di vita della città di Olinto vengono fatti molti cambiamenti, dovuti in genere ad accorpamenti o a smembramenti di proprietà. Nella casa divenuta più grande è ancora visibile l’ampliamento dell’originale cortile, con il portico allungatosi in un vero e proprio peristilio, come in un ginnasio, o nelle contemporanee case principesche. Altri ben noti esempi di edilizia domestica si hanno nelle case di Priene (Fig. 7.13), tra Efeso e Mileto. Città di antica origine, viene rifondata più vicino alla linea di costa attorno al 350 a.C., quando viene dotata anche di una possente cerchia di mura e di un impianto urbano regolare, malgrado sorga su un forte pendio. Nella fascia centrale dell’impianto trovano posto i principali edifici pubblici, tra i quali l’agorà, il santuario di Zeus e il santuario di Atena, quest’ultimo arricchito da un importante tempio ionico dovuto a Piteo, lo stesso architetto che realizzò il Mausoleo. Gli isolati destinati ad abitazione sono decine: ogni isolato è diviso in parcelle, di solito otto, ognuna occupata da una casa. Anche 662

qui, come a Olinto, la vita gravita attorno a uno spazio scoperto centrale, l’aulè; e anche qui nel corso del tempo si succedono continue trasformazioni, spesso anche con l’accorpamento di differenti unità. Una serie di botteghe separa inoltre le case dalla strada principale; alcune possono avere un accesso diretto nell’abitazione retrostante, evidentemente appartenuta allo stesso proprietario. L’acqua, di norma, deve essere presa fuori, da una fontana pubblica. Infatti, nessuna delle case greche ha acqua corrente, che viene raccolta da pozzi o da fontane, poste generalmente all’incrocio delle strade.

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7.3 Lisippo, tra classicità ed Ellenismo 7.3.1 L’Aghias di Delfi e il gruppo di Daoco

Nel campo della scultura, la seconda metà del secolo IV a.C. appare dominata da un altro grande artista, Lisippo, nativo di Sicione, sulla costa settentrionale del Peloponneso. Egli stesso si dice seguace di Policleto; e, come Policleto, anch’egli scrive un canone, in cui afferma di voler raffigurare il corpo umano non come deve essere, ma come è. Certamente policletea è la convinzione che la natura sia regolata da rapporti matematici, anche al di là di quanto il nostro occhio possa vedere. All’interno di essa, però, gli sembra che questi rapporti debbano essere in realtà diversi da quelli rigidamente imposti dal maestro: le figure più snelle, i movimenti più liberi, i singoli elementi del volto destinati a una espressione con meno equilibrio e più intensità, come richiede una generazione che ha già conosciuto Skopas e Prassitele. Lisippo comincia la sua attività come bronzista, nell’ambito della produzione di uno sterminato numero di statue che continuano ad affollare i principali santuari. Dalle fonti letterarie sappiamo che lavora a Delfi a partire almeno dagli anni attorno al 360 a.C.: vi erige la statua di un vincitore nelle corse dei carri, Troilo, e poi del condottiero tebano Pelopida. In seguito lavora per Daoco, tetrarca dei Tessali, partigiano dei Macedoni di Filippo II nella battaglia di Cheronea. A Farsalo, che è la principale delle città della Tessaglia, esegue delle statue bronzee di Daoco e dei suoi familiari. Queste vengono probabilmente replicate in marmo in un monumento eretto dopo Cheronea nel santuario di Delfi, visto e descritto anche da Pausania. Vi sono rappresentati Daoco assieme al figlio e a sette antenati 664

vincitori nelle gare atletiche del santuario; un gruppo, dunque, nel quale la tradizione classica della celebrazione dei valori atletici viene a confluire nel nuovo concetto dell’esaltazione della sovranità contemporanea.

Fig. 7.14 Aghias, Lisippo, Delfi, Museo.

Gli scavi di Delfi hanno riportato alla luce numerosi frammenti di questo monumento, conservati nel locale 665

museo. Tra gli altri, spicca una grande statua marmorea di atleta, raffigurante Aghias (Fig. 7.14), uno degli antenati di Daoco, che costituisce dunque per noi una copia diretta di un originale di Lisippo. Il corpo, solido e muscoloso come si addice a un vincitore nelle gare del pancrazio, ha delle proporzioni molto più slanciate che nelle statue policletee: più lunghi gli arti e il busto, più piccola la testa, nella quale sono più piccoli anche gli elementi significativi (occhi, naso, bocca), ravvicinati tra loro a formare una sorta di triangolo nel quale si concentra l’espressione. Inoltre, il peso del corpo è distribuito sulle due gambe, per farne emergere la forza; e il movimento sinuoso che ne deriva, culminante nella testa fortemente volta a sinistra, dà l’impressione di un movimento ancora racchiuso, ma che sta per svilupparsi. Si tratta dunque di un caso per noi particolarmente fortunato, nel quale possiamo vedere l’inizio del cammino artistico di Lisippo. Forse proprio attraverso questa sua collaborazione con la dinastia tessala, Lisippo entra presto in diretto contatto con la corte macedone. È sicuro che egli diventa lo scultore preferito da Alessandro Magno, già quando questi è ancora principe, cioè prima del 336 a.C. Quando poi Alessandro, divenuto re, intraprende la grande spedizione contro la Persia, nel 334 a.C., Lisippo è con lui. È anzi l’unico che ha il permesso di raffigurarlo in statue bronzee, e lo stesso Plinio sottolinea la contemporaneità tra l’apice della gloria del re macedone e l’apice dell’arte dello scultore. Ma dei rapporti tra Lisippo e Alessandro si parlerà più diffusamente nel prossimo paragrafo, dedicato più in generale al ritratto del grande sovrano (si veda par. 7.4). 7.3.2 L’Apoxyomenos

Tornato in Grecia, Lisippo può riprendere la sua produzione più consueta. È allora che crea la sua opera più 666

celebre, una delle più significative della generazione di passaggio tra epoca classica ed età ellenistica: il cosiddetto Apoxyomenos. L’originale, in bronzo, è andato perduto, ma ce ne resta la descrizione di Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XXXIV, 62), che lo dice un atleta dalle forme snelle e con il volto dai piccoli occhi, destrigens se, rappresentato cioè mentre si sta detergendo il sudore dal corpo: con termine greco, appunto, apoxyomenos. È stato così possibile riconoscere sin dagli inizi dell’Ottocento che una statua marmorea conservata ai Musei Vaticani (Fig. 7.15) ne è una copia fatta in età romana. L’antico tema dell’atleta stante con il corpo nudo trova qui nuove, ardite soluzioni. La figura sembra estendersi nello spazio per arrivare a conquistare, più di quanto fosse stato osato in passato, la terza dimensione: una delle due gambe, la sinistra, è ancora quella portante; ma anche la destra, allungata fortemente all’indietro, riceve parte del peso, e in questo modo contribuisce a dare alla figura un senso d’attesa di un movimento che sta per compiersi. Il braccio destro si stacca dal busto e si protende in avanti, verso lo spettatore, lievemente avvitandosi sul proprio asse longitudinale, in un movimento continuato nella posizione della mano, con una libertà di movimento nello spazio che era ignota alle statue precedenti. Anche il braccio sinistro è sollevato e portato in avanti, a raggiungere il destro con l’oggetto che la mano impugnava: uno strigile, l’attrezzo bronzeo con il quale, terminato l’esercizio, gli atleti si detergevano il sudore, mescolato all’olio di cui si erano spalmati. L’artista ha dunque scelto un breve momento, apparentemente privo d’importanza, nell’ambito della quotidianità della vita di palestra, e ne ha preso spunto per inserire in modo totalmente innovativo una soluzione spaziale nuova.

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Fig. 7.15 Apoxyomenos, Lisippo, copia romana. Roma, Musei Vaticani.

Tutta la figura appare solidamente costruita, secondo uno schema che parte dal canone di Policleto; ma è anche sbilanciata in avanti, come se andasse incontro a chi la guarda, pienamente immersa, libera, nello spazio. Inoltre, le braccia portate in avanti interrompono per la prima volta la piena visione del busto, la cui costruzione non è più al 668

centro dell’attenzione dell’artista, ma passa in secondo piano rispetto all’importanza data al movimento. Le stesse proporzioni sono molto più slanciate rispetto a quelle delle pesanti statue policletee: le gambe, il torso, le braccia appaiono più lunghe, la testa più piccola, anche se con un solido impianto tendenzialmente cubico, volta solo leggermente verso destra. Le grosse ciocche dei capelli appaiono un po’ scomposte, come per ricordare lo sforzo appena compiuto. I particolari del volto sono tesi a dare il massimo dell’espressione: concentrati in un triangolo, occhi, naso e bocca appaiono più piccoli e ravvicinati. La fronte lievemente corrugata, le forti arcate sopraccigliari, la bocca appena dischiusa contribuiscono a dare l’impressione di un patetismo appena accennato, quasi un segnale della faticosa prova alla quale l’atleta si era sottoposto. La complessa costruzione della figura dell’atleta trova così nella resa del volto l’occasione per un’annotazione psicologica di forte umanità. Lo stesso Plinio ricorda che l’originale di Lisippo era stato trasportato a Roma, forse da una città dell’Asia Minore, da Agrippa, che lo aveva fatta collocare davanti alle sue terme. Tiberio considerò l’opera così bella da farla spostare nella sua stanza da letto, ma il popolo insorse e fu rimessa al suo posto. Pare che Lisippo abbia voluto concretizzare proprio in questa statua le norme del canone che aveva codificato, adattando quelle del canone di Policleto alle nuove esigenze di movimento, di espressività, di eleganza, che si erano andate sviluppando nel corso del secolo IV a.C. Con le nuove proporzioni indicate da Lisippo, le figure risultano meno compatte e possenti, in fondo quindi più umane, più slanciate, con occhi più piccoli e più infossati, perciò più espressivi, sulla linea tracciata dal contemporaneo Skopas. 669

Soprattutto, grazie a una diversa posizione, esse si muovono più agevolmente nello spazio, così come le statue che, in forme dal più incerto equilibrio, era andato creando Prassitele. 7.3.3 L’Eracle Farnese

Anche se Lisippo è già celebre per la sua trattazione del nudo virile e per le nuove proporzioni con cui costruisce le figure, alcune delle 1500 opere che secondo Plinio vanno attribuite a lui o alla sua attivissima bottega sperimentano generi diversi, anche in questo caso inserendosi nella tradizione classica, ma con innovazioni destinate a far scuola. Probabilmente dopo l’Apoxyomenos, Lisippo mette in cantiere un’altra celebre opera, l’Eracle a riposo (Fig. 7.16). Ce ne resta una copia in una colossale statua in marmo, alta 3,17 m, conservata nel Museo Nazionale di Napoli. Viene ritrovata nel 1540 a Roma, all’interno delle Terme di Caracalla; entra poi a far parte della collezione dei principi Farnese, con la quale passa infine al Museo Nazionale di Napoli, quando è ormai nota anche come «Eracle Farnese». In questa statua, entrambi i talloni poggiano a terra, ma tutto il peso sembra abbandonarsi sulla spalla sinistra, a sua volta appoggiata alla clava, parzialmente coperta dall’altro attributo tipico dell’eroe, la leontè, la pelle del leone nemeo. Tutte le proporzioni delle membra sono alterate in larghezza, per mettere in rilievo la sovrumana muscolatura di Eracle, che viene ancor più accentuata in senso «barocco» dall’autore della copia romana, l’ateniese Glicone, secondo il gusto dell’epoca sua (inizi del secolo III d.C.). Nonostante la potenza della muscolatura, il peso sembra scaricarsi per contrasto sul sostegno, mentre anche la testa, piccola in proporzione al corpo, come sempre in Lisippo, e dall’espressione pensierosa, appare abbandonarsi 670

in avanti. Le rughe che solcano la fronte, le forti sopracciglia, gli occhi infossati, lo sguardo rivolto a terra ne accentuano l’espressione pensierosa, pervasa da un’intima tristezza.

Fig. 7.16 Eracle Farnese, Lisippo, copia romana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Il braccio destro è piegato all’indietro, in posizione di riposo, e poggia sul gluteo la mano che ancora stringe i pomi

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delle Esperidi: questa era l’impresa che, una volta compiuta, gli aveva lasciato tanta stanchezza, fisica e morale. Il momento scelto da Lisippo per raffigurare Eracle costituisce dunque una novità: anziché rappresentarne, com’era tradizione, il pieno vigore, o le lotte destinate a essere coronate dal successo, l’artista coglie qui un momento di pausa; ciò gli consente di creare un’opera totalmente nuova, in cui lo studio della muscolatura possente sembra passare in secondo piano rispetto all’espressione del momento psicologico, così intenso e umano. Lisippo sfrutta ancora le possibilità espressive date dalla possente muscolatura dell’eroe. Nel 314 a.C. egli esegue anche, per la città di Alizia in Acarnania, rifondata allora da Cassandro, una serie di gruppi rappresentanti le diverse Fatiche, poi più volte replicati anche in epoca romana. Pochi anni dopo, attorno al 311 a.C., lo scultore, ormai molto vecchio, viene chiamato a Taranto per eseguire due statue colossali, uno Zeus e, ancora una volta, un Eracle in riposo, di cui restano numerose copie di piccolo formato. 7.3.4 Il Socrate del Pompeion

È invece probabilmente negli anni tra il 330 ed il 320 a.C. che la cittadinanza di Atene affida a Lisippo l’incarico di realizzare una nuova statua di Socrate, da collocarsi nel Pompeion. Questo è un grande edificio, una sorta di ginnasio presso la porta del Dipylon dove si adunano e da dove partono le processioni delle Panatenee: un edificio che riveste quindi un’importanza tutta particolare nell’educazione degli efebi. Atene è in quegli anni sotto l’arconte Licurgo e va sviluppando una sempre più forte coscienza della propria identità attraverso il ricordo del passato. È di quell’epoca il rifacimento del teatro di Dioniso, dove vengono collocate le statue dei grandi tragici del secolo precedente, Eschilo, Sofocle ed Euripide; e 672

probabilmente in questo quadro va inserito l’incarico, affidato a Lisippo, di fare una nuova statua bronzea di Socrate. Esisteva già un ritratto tradizionale di Socrate, che ricordava più l’immagine burlesca che ne aveva dato Aristofane che non quella lasciataci dai suoi discepoli, Platone e Senofonte: vi si vedevano sottolineati i tratti silenici del volto, il carattere inquisitore e fuori dalle regole, la posa «provocatoria». Ma alla fine del secolo IV a.C. Socrate non è più il condannato, è divenuto un simbolo del cittadino ateniese. L’originale della statua lisippea naturalmente è andato perduto, ma, come al solito, abbiamo la possibilità di ricostruirlo attraverso varie copie che sono state fatte in epoca romana della testa, e da una replica (Fig. 7.17) fatta già alla fine del secolo IV a.C. in ridotte dimensioni della statua intera. La figura del grande filosofo vi è presentata mentre è nobilmente eretta, drappeggiata con cura, con il mantello ordinatamente avvolto sotto al petto e poi lasciato ricadere in avanti da sopra la spalla sinistra. Seguendo le regole della ponderazione, il peso è sulla gamba sinistra, la gamba destra e il braccio sinistro appaiono piegati. Nel volto Lisippo dovette lasciare alcuni tratti silenici, che lo rendevano immediatamente riconoscibile; li usò però per sottolineare piuttosto l’anzianità, con le lunghe ciocche che ricadono sulle tempie e i capelli sul capo disposti a grossi ciuffi. Il ritratto d’un uomosileno, fuori dalle norme, era divenuto insomma, come sottolinea Paul Zanker, il ritratto di un venerabile cittadino, raccolto e pensoso: un paradigma per le future rappresentazioni di un intellettuale che restava per sempre un esempio di saggezza. Con la fine del secolo non abbiamo più notizie di Lisippo, già molto avanti nell’età. La scultura resta però dominata da alcuni dei suoi allievi; e tracce delle sue innovazioni 673

continuano a caratterizzare la produzione del primo Ellenismo, ritrovandosi poi in molte opere di tutti i periodi dell’antichità.

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7.4 Il ritratto di Alessandro 7.4.1 Il breve regno di Alessandro: un cenno storico

Alessandro nasce a Pella nel 356 a.C.; ha quindi solo diciotto anni quando partecipa, accanto al padre, alla vittoriosa battaglia di Cheronea e venti quando, caduto vittima Filippo II di un intrigo di corte, diventa re. Già nei primi due anni di regno (336-334 a.C.) dimostra eccezionale energia e fermezza, consolidando il suo potere nella penisola balcanica: nella stessa Macedonia, poi in Tessaglia e nelle città della Grecia, e ancora contro Traci e Illiri, sino al Danubio. Tornato in Grecia, abbatte definitivamente ogni residua resistenza: la ribelle Tebe viene rasa al suolo; solo la casa dove era vissuto Pindaro è risparmiata. Nel 334 a.C., a ventidue anni, può così intraprendere la grande spedizione contro il re di Persia (si veda la cartina storica a p. 306). Sbarcato in Asia, sbaraglia subito l’esercito di Dario III, che lo attende nella valle del fiume Granico, presso l’antica Troia. Da lì, in pochi mesi, prende possesso di tutta l’Asia Minore sino alla Cilicia. Sui passi che da questa danno l’accesso alla Siria, a Isso, nel 333 a.C., sconfigge un nuovo esercito persiano. Segue una marcia trionfale che lo porta, lungo la costa della Fenicia e della Palestina, dove assedia ed espugna Tiro e Gaza, sino in Egitto. Accolto come un liberatore dal giogo persiano, vi soggiorna tra il 332 e il 331 a.C. Giunge sino nell’oasi di Siwa per consultare l’oracolo di Ammone, che lo proclama suo figlio. Fonda in quell’anno, alla foce del Nilo, la prima di una lunga serie di colonie, alle quali dà il suo nome: la Alessandria che divenne nuova capitale d’Egitto.

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Fig. 7.17 Socrate, Lisippo, copia romana. Londra, British Museum.

Nella primavera del 331 a.C. riprende la marcia verso est. La vittoria presso Gaugamela gli spalanca le porte anche dell’altipiano iranico. In pochi mesi è a Susa, poi a Persepoli, che dà alle fiamme. L’anno dopo prende Ecbatana, da dove continua l’inseguimento di Dario. Ucciso questi dal satrapo di Battriana, Alessandro si proclama legittimo successore al trono di Persia. Sottomette quindi tutte le regioni orientali che erano state del re persiano, arrivando oltre la Battriana, sino alla valle dell’Oxus, nell’odierno Turkmenistan. Si dirige poi verso l’Indo, che raggiunge nel 326 a.C. Sconfitto anche il re indiano Poro, è costretto dai suoi stessi soldati a iniziare il ritorno. Nel 324 a.C., sette anni dopo il primo passaggio e dieci anni dopo il Granico, è nuovamente a Susa: la conquista del regno persiano è completata. Egli ha dovuto superare asperità naturali ed eserciti nemici, congiure e malumori interni. Vagheggia un nuovo mondo, erede di Greci e di 676

Persiani, del quale essere re e dio. Fa allora sposare a 10.000 suoi soldati altrettante donne persiane, ed egli stesso prende in moglie Statira, figlia di Dario III. Da Susa, pone quindi la propria corte a Ecbatana, poi a Babilonia. Ma qui, nel giugno 323 a.C., improvvisamente muore. Alessandro regna in tutto tredici anni. 7.4.2 L’Alessandro a cavallo di Lisippo

Per Plinio la figura di Lisippo rimane strettamente collegata a quella di Alessandro Magno. Lo stesso Plinio ricorda come Lisippo ne avesse fatto innumerevoli ritratti, sin da quando il Macedone era ancora un fanciullo. In effetti conosciamo già l’esistenza di ritratti di Alessandro quand’era ancora principe, cioè prima che, appena ventenne, salisse al trono al posto del padre, Filippo II. Assieme a questi compare infatti nel gruppo crisoelefantino di Leocare all’interno del Philippeion a Olimpia, di cui si è già parlato (si veda par. 6.3.3), e anche sulle quadrighe che, dopo Cheronea, vengono erette a Filippo ad Atene e in altre città della Grecia, che sempre Plinio nomina come «Quadrighe con Filippo e Alessandro». Certamente Alessandro deve conoscere Lisippo prima ancora di diventare re nel 336 a.C.; è probabile che ciò avvenga attraverso la corte filomacedone dei dinasti di Tessaglia, di cui Lisippo è l’artista preferito. Ed è anche possibile che i primi ritratti riproducano il giovane principe alle prese con una caccia mitizzata, al cervo o al leone, come un novello Eracle, come farebbero supporre vari accenni delle fonti letterarie e numerose testimonianze archeologiche più tarde, tra le quali i mosaici dei palazzi di Pella, di cui si è già parlato (si veda par. 7.2.3). A ogni modo, Lisippo è l’unico scultore ad essere poi espressamente nominato accanto ad Alessandro durante la prima fase della grande spedizione in Asia. Dopo la battaglia della valle del Granico, quella che apre all’esercito macedone le porte dell’Asia, Lisippo riceve 677

l’incarico di eseguire in bronzo un gruppo che ne commemorasse i cavalieri caduti, da erigere nel santuario di Zeus a Dione, la città sacra di Macedonia posta proprio ai piedi dell’Olimpo. Al centro della torma dei cavalieri protagonisti di quella battaglia è rappresentato lo stesso re, anch’egli a cavallo. Questa statua è stata facilmente riconosciuta in un bronzetto, alto 48,5 cm, venuto alla luce a Ercolano nel 1761 (Fig. 7.18). Il cavallo si impenna, poggiando a terra solo sulle due zampe posteriori, perché improvvisamente trattenuto durante la corsa dal tirare delle redini da parte del cavaliere. Questi, senza elmo, ma protetto dalla caratteristica corazza della cavalleria macedone appena coperta da un corto mantello, ruota il busto di tre quarti verso destra, seguendo il brusco movimento del capo. Con la sinistra tiene le redini, mentre la destra è sollevata, il braccio piegato al di sopra della testa: sta caricando il colpo, che porterà con la spada, qui perduta, a un avversario che sta più in basso, probabilmente a piedi, ai lati del cavallo. La testa, dagli occhi piccoli e intensi, ha i tipici tratti di Alessandro, riconoscibili nei molti busti rimastici, alcuni dei quali iscritti con il suo nome. Questi ritratti mostrano una testa incorniciata da una capigliatura mossa e fluente a lunghe ciocche, a partire da una divisione proprio sopra il centro della fronte, la anastolè, citata anche nelle fonti. Gli occhi sono grandi ed espressivi, l’aria decisa. Ogni dettaglio della statuetta è reso con estrema cura, dai particolari della corazza alle ciocche della criniera e alla dentatura del cavallo; e ricordo qui come proprio l’abitudine all’accuratezza sin dei minimi dettagli sia un’altra delle qualità che Plinio cita come tipiche di Lisippo. Il tipo adottato da Lisippo è quello da tempo consueto del cavaliere che colpisce l’avversario con un fendente della spada; ma è dopo essere stato qui ripreso per raffigurare Alessandro che acquisterà il suo valore simbolico e verrà 678

riprodotto in continuazione per designare il comandante vittorioso.

Fig. 7.18 Alessandro a cavallo, Lisippo, copia da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 7.4.3 L’Alessandro con la lancia

Qualche tempo dopo, forse già durante la sosta nelle città della Ionia, Lisippo crea un altro tipo del re: non più un Alessandro vittorioso, ma un sovrano innalzato tra gli eroi, come indica già la nudità; inoltre, rappresentato stante e appoggiato alla lancia, come un Ares, o un nuovo Achille. Anche in questo caso non abbiamo delle vere e proprie copie dell’originale di Lisippo, ma innumerevoli repliche e riflessi in statue di piccole dimensioni, accompagnate anche 679

da qualche attestazione nelle fonti antiche. La copia più nota è una statuetta bronzea del Museo del Louvre, proveniente probabilmente dall’Egitto (Fig. 7.19). Il corpo agile e muscoloso ricorda, per proporzioni e ritmo spaziale, l’Aghias di Delfi (Fig. 7.14). Si appoggia però con la sinistra portata più alta del capo alla lancia e alzando il capo volge lo sguardo al cielo, come se fosse in diretto colloquio con gli dei, in un accenno di appartenenza a una sfera sovrumana che da questo momento resterà tipico dell’autorappresentazione di ogni sovrano.

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Fig. 7.19 Alessandro con la lancia, Lisippo, copia romana. Parigi, Museo del Louvre. 7.4.4 L’Alessandro dipinto da Apelle con la folgore di Zeus

Contemporaneamente altri ritratti di Alessandro vengono creati nella pittura, dove Apelle fu per Alessandro tanto importante quanto lo fu Lisippo nella scultura. Plinio dice che egli raggiunge l’apice nella centododicesima olimpiade (338-334 a.C.), che è quella in cui Filippo II muore e Alessandro sale al trono. È comunque sicuro che è ad Apelle che Alessandro affida il compito di effigiarlo su un quadro. A Pompei è stata scoperta una pittura parietale che rappresenta un personaggio seduto, mentre tiene con una mano uno scettro e con l’altra il fulmine, nell’atto di far forza sui piedi per alzarsi (Fig. 7.20). Essendo posizione e attributi tipici dello Zeus creato da Fidia per Olimpia, si pensa a una rappresentazione di Zeus. Ma subito si nota anche che questo non è il volto del barbato padre degli dei: la testa, imberbe e pervasa di vitalità, con piccola bocca e piccoli occhi vivaci e i capelli a grandi ciocche alzate sulla fronte, è una testa ritratto, un po’ spiritata, con la capigliatura al vento: è quella di Alessandro, un Alessandro che vuol dimostrare di essere uno Zeus reincarnato. Un messaggio assai semplice e tanto ardito da essere impensabile prima di lui: il re macedone è paragonato addirittura al padre degli dei. In pochi anni si passa dal fanciullo cacciatore al comandante vittorioso e infine al dio in terra. Si tratta insomma della riproduzione di un’opera famosa, fatta su una parete di una casa privata a Pompei, che ci dice per lo meno come doveva essere l’originale; e l’originale non può che essere il quadro del pittore di fiducia di Alessandro, Apelle: un quadro descritto anche dalle fonti letterarie come un Alessandro che tiene il fulmine, del quale Plutarco ci 681

riferisce anche un aneddoto, secondo il quale Lisippo avrebbe aspramente rimproverato Apelle per aver osato troppo, raffigurandolo direttamente come un dio.

Fig. 7.20 Alessandro col fulmine, Apelle, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 7.4.5 La battaglia di Alessandro

Altri pittori furono chiamati a celebrare le ulteriori fasi della conquista dell’Asia. Non ne possediamo più testimonianze dirette, ma certo dovettero confluire in una 682

celebre opera che Filosseno di Eretria fece per il re Cassandro poco dopo la morte di Alessandro. Questa a sua volta servì da modello per uno dei mosaici più celebri di tutto l’Ellenismo, il mosaico con la battaglia di Alessandro che ornava un’esedra della Casa del Fauno a Pompei (Fig. 7.21). L’esedra stessa, un ampio ambiente che si apriva su un peristilio ed era usato per banchetti, appartiene a una fase ellenistica della casa, attorno al 130 a.C., ed è questa l’epoca in cui anche questo mosaico viene realizzato. La sua origine pittorica è chiara, dimostrata anche dal gran numero di tessere impiegate, circa un milione e mezzo, e dall’esistenza di una fascia nella parte inferiore, segno probabile dell’adattamento del quadro originario a una stanza che aveva uno spazio più profondo di quanto fosse alto il quadro. Il campo di battaglia è completamente piatto, ormai disseminato dei resti del combattimento. Unico elemento paesistico, un albero morto, sulla sinistra del quadro. Tutta la fascia centrale è occupata da una grande quantità di combattenti, con al centro il carro da guerra del re Dario. Da sinistra irrompe però a cavallo Alessandro (Fig. 7.22), in un’apparizione quasi sovrumana, i capelli scomposti e divisi a metà della fronte, i grandi occhi spiritati, l’espressione eroicamente decisa. Questo provoca negli schieramenti persiani un tremendo sconquasso, il campo sembra spalancarsi come in una nicchia di fronte all’impeto del re macedone e della sua guardia. Dario non può che guardarlo atterrito, indicandone l’apparizione con la destra protesa. Attorno a lui cadono gli uomini della sua guardia del corpo e il suo auriga già sta volgendo il carro verso l’ultima fuga. L’audace rappresentazione di scorcio dei cavalli reali, e il grande corpo del cavallo disarcionato visto addirittura da dietro, costituiscono altrettanti raggi che sottolineano 683

quanto in profondità si spalanchi la battaglia. Al di sopra dei combattenti, il cielo vuoto è solcato dalle lunghe sarisse, che nelle contrastanti direzioni mostrano come la situazione, improvvisamente scompigliandosi, stia per cambiare. La loro presenza non può non essere immediatamente accostata a un analogo espediente usato più di 1700 anni dopo da Paolo Uccello nel suo dipinto della battaglia di San Romano, con il quale peraltro la pittura di Filosseno non può avere alcun rapporto. La grande profondità del quadro è data proprio dal disporsi dei tanti personaggi e delle loro armi, su un fondo neutro come il campo di battaglia. Colpisce, e aggiunge continua vivacità, anche il senso del colore, che rimbalza di continuo, quasi fiammeggiando, sui volti, sui corpi dei cavalli, sulle armature, e si avvale di luminescenze riprodotte con l’accostare continuamente tessere dal cromatismo del tutto diverso, come si può ben vedere nella faccia dei due personaggi principali, o nei corpi e nelle armi dei vari contendenti, e sin sulla pelle dei cavalli. Il tutto fa da cornice all’umano terrore del vinto e al sovrumano impeto del vincitore, che insieme riassumono il destino di tanti personaggi.

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Fig. 7.21 Battaglia di Alessandro, Filosseno, copia su mosaico, dalla Casa del Fauno a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 39a)

Fig. 7.22 Particolare con la figura di Alessandro, Filosseno. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 39b) 7.4.6 Le nozze di Alessandro

Il quadro con la disfatta di Dario da parte di Alessandro viene dipinto da Filosseno, come abbiamo detto, dopo la morte del re macedone. Invece, uno dei quadri più celebri e per noi più enigmatici, quello delle nozze tra Alessandro e 685

Roxane, deve essere stato dipinto da Ezione effettivamente in occasione di quella cerimonia, avvenuta nel 327 a.C., o negli anni immediatamente successivi. L’artista deve aver seguito il re nella sua spedizione e il suo quadro più celebre fissa l’atto conclusivo della politica orientale del sovrano, il suo matrimonio con la figlia del re di Battriana, estrema regione presso le porte del Pamir, dove oggi sono l’Afghanistan settentrionale e l’Uzbekistan. Con la morte di Alessandro, nel 323 a.C., finisce anche la sua politica di unire vincitori macedoni a dinastie indigene e, pochi anni dopo, la stessa Roxane viene uccisa; non avrebbe avuto quindi più senso celebrarne le nozze. Il dipinto ha sicuramente una grandissima importanza nella storia della pittura, perché apre la strada al gusto di rappresentare in interni, anziché all’esterno, affollate scene ricche di luce e profondità. Per noi è però andato perduto, nonostante se ne abbia una descrizione particolarmente accurata in uno scrittore del secolo II d.C., Luciano. Si è cercato di vederne il riflesso in qualche più tarda pittura rappresentante momenti nuziali, purché potesse corrispondere alla descrizione di Luciano, con le pareti delimitanti l’ambiente chiuso, e avesse le caratteristiche tipiche del periodo: l’uso della luce a provocare continue luminescenze e l’abbondanza dei personaggi. La mancanza di questi elementi rende molto dubbi gran parte dei riconoscimenti che si è tentato di proporre. In un caso, sembra potersi trattare del riflesso di un quadro comunque strettamente imparentato con le nozze di Alessandro e Roxane. Si è infatti voluto riconoscere il capolavoro di Ezione anche nel modello di una pittura parietale pompeiana (Fig. 7.23), che effettivamente potrebbe appartenere alla generazione di Alessandro. Vi dominano due figure, una maschile, l’altra femminile. Quella di sinistra, la maschile, ha le armi e la posizione di 686

Ares; quella di destra, la femminile, ha invece la tipica posa appoggiata a un pilastrino che è di Afrodite. Ma i volti non sono quelli idealizzati, consueti nelle due divinità; hanno invece dei tratti particolari, fisionomici: vogliono evidentemente raffigurare due personaggi ben precisi. Le nozze più celebri della mitologia sono scelte dunque a richiamare delle nozze reali.

Fig. 7.23 Le nozze di Alessandro, copia da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 40)

Il personaggio a sinistra, pur rappresentato con la figura di Ares, ha la testa con l’aria dall’intensa espressione, piena di decisione, che è tipica nella rappresentazione di Alessandro. Può dunque qui ben trattarsi di una sorta di apoteosi, di innalzamento a livello divino, delle nozze di Alessandro. Non c’è un gran numero di altri personaggi, ma è comunque attraverso di loro che viene sottolineata la visione prospettica: è una scena d’interni, però con una grande apertura verso il fondo, una grande prospettiva, e ovunque sono utilizzati effetti di luce, che rimbalza sui volti, 687

sui corpi, sulle ricche stoffe dei vestiti, sulle armature. Anche come stile potrebbe dunque accordarsi a quanto già sappiamo della pittura contemporanea ad Alessandro. Recentemente è stato proposto però che non vengano qui raffigurate le nozze con Roxane, dal momento che gli abiti delle figure di contorno, e in particolar modo di quella che si vede a sinistra, sono tradizionalmente usati per indicare i Persiani: sarebbero dunque raffigurate altre nozze «politiche» di Alessandro, quelle celebrate tre anni dopo in occasione delle grandi feste di Babilonia, nelle quali 10.000 Macedoni si unirono a 10.000 donne persiane, come simbolo dell’unione tra due mondi per farne nascere uno nuovo, complessivo: lo stesso re macedone sposò allora una figlia del re persiano Dario III, Statira. Insomma non è affatto sicuro che si tratti delle nozze con Roxane e, quindi, è tanto meno sicuro che derivi da un originale di Ezione. Ma l’ambiente stilistico che aveva prodotto l’originale deve essere comunque quello. Per lo meno abbiamo l’idea di come poteva essere a grandi linee. Si possono fare anche tanti altri accostamenti, perché è chiaro che uno dei dipinti più celebri e anche più importanti nella storia della pittura greca dev’essere stato sicuramente riprodotto più volte, quindi dovremmo poterlo ritrovare da qualche parte; ma è difficile capire, attraverso il filtro di copie di seconda mano, quale fosse l’originale veramente di Ezione.

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Fig. 7.24 Testa di Alessandro, da Pergamo. Istanbul, Museo Archeologico. 7.4.7 La fortuna di Alessandro e i suoi ritratti postumi

Le iconografie create per Alessandro passano dunque a indicare più ampiamente la regalità. Anche i suoi ritratti continuano a lungo a essere riprodotti, dato che molti programmi politici continuano a rifarsi alla sua persona. Questi ritratti dipendono da quelli realizzati direttamente per il re macedone, ma non possono non risentire anche del mutato stile di quando vennero fatti, un po’ come succede nei cosiddetti «ritratti di ricostruzione». Un esempio è in un celebre ritratto rinvenuto a Pergamo e oggi al Museo Archeologico di Istanbul (Fig. 7.24), nel quale i tratti del sovrano perdono la vivacità fisionomica dei ritratti contemporanei, per essere idealizzati in uno stile che è invece ben riconoscibile come quello pergameno del secolo II a.C., attento ai chiaroscuri e al gioco delle masse. Il personaggio resta però facilmente riconoscibile attraverso 689

alcuni elementi caratteristici: i capelli scomposti e spartiti sulla fronte, e l’intensa, decisa espressione, che qui viene accentuata piuttosto dal rigonfiarsi delle arcate sopraccigliari e dalle rughe della fronte, com’era tipico nella Pergamo del tempo.

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7.5 La pittura della generazione di Alessandro 7.5.1 Apelle, il pittore che «superò tutti quelli che erano stati prima»

Certamente non è un caso se Alessandro sceglie Apelle per tramandare le proprie sembianze: quando giunge alla corte macedone, questo artista deve essere già molto celebre. Plinio, dopo aver parlato di Zeusi, di Parrasio e di tanti altri pittori, a un certo punto dice che però un pittore «superò tutti quelli che erano stati prima, e fu Apelle di Coo. Si può dire che da solo egli fece fare alla pittura più progressi di tutti gli altri messi assieme». Sappiamo dunque da Plinio che Apelle non è solo il prediletto da Alessandro, ma anche il più apprezzato dalla critica ellenistica, dalla quale Plinio dipende. Di seguito, la stessa fonte fa anche un’altra interessante annotazione: Apelle è non solo pittore, ma anche scrittore di arte, di estetica; e racconta dei giudizi che Apelle dava dei contemporanei, in quanto scrittore d’arte, e anche dei giudizi che dava di se stesso. Diceva: «Sono bravissimi tanti miei contemporanei, ma io ho due cose in più: la charis, la grazia, e poi so togliere la mano dal quadro», che è come dire «so finire, non vado avanti a perfezionare all’infinito». Così sulla vita e sulle opere di Apelle abbiamo più notizie e aneddoti che su qualunque altro. Nella totale scomparsa dei suoi dipinti, anche questi aneddoti sono molto importanti per ricostruire non solo la sua biografia e l’elenco delle sue opere maggiori, ma anche le sue caratteristiche stilistiche. Da uno di questi aneddoti deduciamo l’importanza che per lui ebbero la «linea» e «il particolare», di cui anche il suo collega e amico Protogene era maniaco. Si diceva pure che non facesse passare un giorno senza tracciare almeno 691

una linea su un quadro. E difatti la sua produzione è enorme, come nella scultura accade per Prassitele e Lisippo. Molte notizie riguardano i suoi rapporti con Alessandro: questi, dice Plinio, vuole far fare un ritratto della sua favorita rappresentata come Afrodite Cnidia, ma il pittore si innamora di quella donna tanto bella. Quando Alessandro lo viene a sapere, anziché arrabbiarsi gli regala la modella. Una storiella, dunque, che comunque ci lascia qualche notizia sulla vita di un atélier della seconda metà del secolo IV a.C., con l’uso di modelle per i nudi. Quest’uso doveva essere del resto già più antico, visto che abbiamo aneddoti su modelle usate anche da Zeusi. Tutta una serie di racconti riguarda poi i rapporti e i litigi con Tolomeo e con altri personaggi, come Antigono Monoftalmo; e questi ci testimoniano come Apelle sia vissuto abbastanza a lungo, visto che Monoftalmo si fece re nel 305 a.C., per morire quattro anni dopo. Dalla grande serie di notizie letterarie possiamo trarre anche un elenco delle opere. La più celebre fu senz’altro l’Afrodite che esce dalle acque, quadro irrimediabilmente perduto, ma le cui descrizioni ispirarono anche Botticelli per la sua nascita di Venere. Lo stesso Botticelli prese spunto ancora da un aneddoto sulla vita di Apelle per un altro suo quadro, «La Calunnia». Alcune testimonianze parlano infatti di Apelle che, recatosi ad Alessandria alla corte dei Tolomei, vi è trattato male; in particolare ricordano come sia entrato in un lungo conflitto con Antifilo, altro grande pittore dell’epoca, che lo calunnia apertamente presso Tolomeo, e di come Apelle, per vendetta, abbia fatto un grande dipinto, raffigurante appunto la personificazione della calunnia, quadro diventato famoso, così come l’interpretazione che quasi 1800 anni dopo ne dà Botticelli. 692

Molto celebre, tra l’altro per essere stato pagato una cifra altissima, fu anche l’Alessandro con il fulmine, di cui si è già parlato nel capitolo precedente; e si ricordano ancora molte altre pitture, come l’Eracle visto di spalle, ma raffigurato in modo tale che la pittura – cosa difficilissima, dice Plinio – mostri il volto in modo più esplicito di quanto prometta. Come in tanti altri casi, anche in questo si è cercato di trovare almeno un riflesso in quel che ci è rimasto della pittura antica, soprattutto nei quadri riprodotti in epoca romana sulle pareti delle città vesuviane. E in questo caso è notevole la corrispondenza tra quanto narra Plinio e la figura di Eracle che contempla il figlio Telefo che viene allattato da una capretta (Fig. 7.25). Non è tutto l’insieme del quadro, ambientato in un paesaggio d’Arcadia con vari personaggi, che risale ad Apelle: molti dei particolari appaiono dovuti ad aggiunte posteriori. Sembra però plausibile che questo tipo di Eracle, anche in seguito molto diffuso, possa veramente risalire al quadro così celebre di Apelle. Molti degli aneddoti lasciano intravedere anche i giudizi che Plinio ricava da critici d’arte ellenistici. Da questi aneddoti si sa per esempio che Apelle è sempre stato famoso per la charis, che lui stesso dice di avere: la stessa charis, grazia, che nella scultura caratterizzò Prassitele; e non è un caso che si tratti di due dei massimi artisti, e che entrambi fossero famosi per un’immagine della dea della charis, Afrodite. Nell’elenco delle caratteristiche Plinio inserisce per Apelle anche un sostantivo particolare, lo splendor. Si è pensato che in questo caso splendor significasse una vivace illuminazione dei particolari; più concretamente, un forte contrasto tra i punti illuminati e i punti meno illuminati del dipinto. A causa di un simile «luminismo», si è anche detto che Apelle sarebbe il primo «irrealista», dato che cerca di

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dare un’impressione maggiore di quanto possa essere in realtà; ma questo sembra un eccessivo forzare il testo antico. Resta comunque la difficoltà di ricostruire l’opera di quello che fu concordemente giudicato uno degli artisti più grandi, e dunque il contrasto ancora esistente tra le tante fonti letterarie e le poche fonti archeologiche sicure.

Fig. 7.25 Eracle e Telefo, dalla Basilica di Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 7.5.2 Il Perseo e Andromeda di Nicia

Sempre dalle fonti letterarie, Plinio soprattutto, ma anche Luciano, Pausania e molti altri, conosciamo molti nomi di 694

grandi pittori vissuti nella seconda metà del secolo IV a.C., in modo analogo a quanto abbiamo già visto per la scultura. Abbiamo, ad esempio, molte informazioni su Nicia, il pittore prediletto da Prassitele. È dunque forse un po’ più vecchio di Apelle, pur essendo comunque vissuto negli stessi anni, dato che anch’egli viene detto autore di ritratti di Alessandro. Fra i tanti dipinti che gli vengono attribuiti, viene ricordata una liberazione di Andromeda da parte di Perseo: un soggetto spesso riprodotto nelle pitture parietali pompeiane, seguendo diversi modelli. Alcune di queste pitture sono però delle vere e proprie copie di quello che dovette essere l’archetipo più celebre; e in questo, anche per la disposizione dei personaggi e l’intensità della loro espressione, può ben essere riconosciuta un’opera così famosa come quella di Nicia.

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Fig. 7.26 Perseo e Andromeda, dalla Casa dei Dioscuri a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, (tav. 41)

L’azione (Fig. 7.26) si svolge in uno scenario di scogli, tra i quali s’insinua l’azzurro del mare. Dominano l’insieme due grandi figure. La prima, femminile, è quella di Andromeda, che scende, poggiando i piedi su un masso, dalla roccia alla quale era stata incatenata. La veste, dal folto panneggio, mostra ancora i segni del pericolo corso, ricadendole in disordine e lasciando scoperto il seno destro. Il braccio sinistro è ancora sollevato e il polso porta ancora il ferro col quale era incatenata. La aiuta a scendere il suo liberatore, in una solida posa statuaria, con il corpo muscoloso dai forti chiaroscuri, chiaramente indicato come Perseo dalle ali che 696

gli spuntano dalle caviglie e dalla testa recisa della Gorgone che ancora sorregge con la sinistra. Sempre nella sinistra stringe anche la spada, ormai riposta nel fodero; il mantello gli ricade da dietro le spalle, appena sollevato dall’alzarsi della gamba destra, anch’esso però con forti luminescenze. Gli occhi sono grandi, gli sguardi non ravvicinati ma intensi, l’atmosfera un po’ sospesa. In basso, sulla sinistra, il grande corpo del mostro marino, che Perseo ha appena ucciso, sottolinea la drammaticità del mitico evento.

Fig. 7.27 Achille a Sciro, dalla Casa dei Dioscuri a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 43)

Si tratta insomma della riproduzione di un grande quadro, più volte copiato nella stessa Pompei, talvolta in un’atmosfera di ancor maggiore intensità; un capolavoro

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che, sulla base del soggetto ma anche dello stile, possiamo ragionevolmente identificare nella perduta opera di Nicia. 7.5.3 L’Achille a Sciro di Atenione di Maronea

Ancora una volta è Plinio a informarci che viene paragonato a Nicia, e a volte anche preferito, un pittore suo contemporaneo, Atenione di Maronea, allievo di Glaucione di Corinto. Ce ne dà anche un complesso giudizio: «Più severo nel colore ma più piacevole in questa severità, cosicché nella sua pittura l’erudizione diventa brillante». Sappiamo anche che egli dipinge nel tempio di Eleusi un comandante di cavalleria e, ad Atene, un gruppo di personaggi chiamato «Gruppo di famiglia», come pure «un Achille vestito da donna mentre Ulisse lo scopre» e poi ancora il più famoso dei suoi quadri, «un palafreniere accanto al suo cavallo». E Plinio aggiunge anche che «se non fosse morto giovane, nessuno avrebbe potuto essere paragonato a lui». Sugli altri quadri sappiamo ancora troppo poco; ma non è stato difficile riconoscere in una serie di pitture parietali pompeiane altrettante copie del suo celeberrimo Achille vestito da donna mentre, a Sciro, viene scoperto da Odisseo.

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Fig. 7.28 Achille a Sciro, da una casa di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 44)

Fig. 7.29 Achille e Briseide, dalla Casa del Poeta tragico a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 45)

Si tratta di un episodio ben noto dalle fonti: Achille, per 699

sfuggire a un oracolo, che gli aveva predetto che nell’assedio di Troia avrebbe trovato la morte, si rifugia in un’isola dell’Egeo, Sciro, nascondendosi tra le fanciulle della corte del re Licomede, di cui ama la figlia, Deidamia. Ai Greci però è necessaria la sua presenza; perciò Odisseo e Diomede partono per cercarlo. Giunti a Sciro, lo scoprono facendo risuonare le sue armi: a quel suono l’eroe non può resistere: richiamato al suo onore si disvela e l’astuto Odisseo può ricondurlo sul campo di battaglia. La copia più ricca d’intensità drammatica, di pathos, ma anche di sapiente disposizione dei personaggi e di profondità nella composizione, è quella proveniente dalla Casa dei Dioscuri a Pompei, che però purtroppo non è la meglio conservata (Fig. 7.27). Anche qui dominano due figure centrali, che, come in una raffigurazione di battaglia, sono poste specularmente, a formare con i corpi un triangolo. I gesti sono bruschi, pieni di movimento, le ginocchia piegate nella foga. Sulla destra è il bruno, virile corpo di Odisseo, chiaramente indicato dal caratteristico copricapo da marinaio, il pileo; con la destra afferra il braccio dell’altra figura, dalle vesti e dal biancore tipici di una fanciulla, ma dal possente aspetto, la spada stretta nella destra, lo sguardo intenso, presago di come si stia compiendo il suo destino: è Achille, ormai svelato, trattenuto alle spalle da un’altra bruna figura maschile, Diomede. I forti chiaroscuri rendono ancor più evidente la concitazione del momento. Nel mezzo della composizione lo scudo, poggiato a terra, riflette con il suo metallo dei lampi di luce. Un’altra intensa rappresentazione del mito, dunque, sottolineata dalla profondità dello sfondo, aperto in un colonnato, nel quale si vedono, posti su diversi piani, Licomede con i suoi armati e, sulla destra, Deidamia, che fugge atterrita lasciando scoprire dai veli il bianco petto.

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Ogni figura appare qui piena di significato, degna della grandezza del mito. Altre pitture pompeiane mostrano chiaramente di derivare dallo stesso modello, ma con minor qualità pittorica, e con alcune varianti. Può essere preso l’esempio meglio conservato, proveniente da una casa della IX regio (Fig. 7.28). Il gruppo centrale è lo stesso, composto dagli stessi elementi, ma più statico; ben minore appare il coinvolgimento degli eroi, e il drammatico contrasto di corpi e vesti. Sullo sfondo, diventa ancor più dominante, ma ormai fuori luogo, la figura del re Licomede, quasi statua tra le colonne del portico; la stessa Deidamia viene tolta dalla sua posizione originaria e, ruotata e vista di spalle, viene a occupare la parte sinistra del quadro, poco convincentemente assistita da un’ancella. I personaggi ci sono ancora tutti, ma è la drammatica atmosfera epica che viene a mancare. 7.5.4 Altri soggetti tratti dal mito: Achille e Briseide

Sono molti i quadri celebri che conosciamo dalle fonti letterarie, ma ai quali non siamo in grado di riferire con sicurezza un’immagine. Accade però anche l’opposto: ci sono anche numerose rappresentazioni che noi, attraverso la composizione e gli aspetti stilistici, possiamo riferire a originali dello stesso periodo e dello stesso ambito culturale, ma che non ci è possibile ricondurre a una fonte letteraria, né a un preciso autore. È il caso della splendida raffigurazione di Achille che deve sopportare di consegnare Briseide ad Agamennone (Fig. 7.29), l’episodio che apre l’Iliade omerica. Anche qui dunque il soggetto è tratto dall’epica; e anche qui compaiono più personaggi all’interno di un ambiente chiuso, del quale, disposti su piani diversi, mostrano la grande profondità. L’eroe, dall’ampio torso muscoloso, 701

seduto sulla sinistra quasi di tre quarti, volge il capo e lo sguardo verso la figura femminile sulla destra che, velata e mesta, sta per essere portata via. Tra di loro, di spalle e in primo piano, Patroclo; più in profondità, si volge concentrata verso Achille una figura anziana, Fenice, il suo vecchio consigliere, che cerca di frenare l’ira del suo pupillo. Ancora oltre, la folta schiera di armati, venuti per prendere Briseide e portarla ad Agamennone. In fondo, le semplici strutture del campo, disposte anch’esse obliquamente, verso un’ulteriore profondità. Le figure sono immobili. L’intenso sguardo di Achille, la mestizia di Briseide, tutto contribuisce a infondere nel quadro una grande intensità, come di una scena sospesa nell’incertezza se opporsi o no all’iniquità che si sta perpetrando. E tutto corrisponde allo stile della pittura della seconda metà del secolo IV a.C. Il modello originale di questo dipinto dev’essere stato creato da uno dei grandi pittori della generazione di Alessandro, ma manca una citazione che possa essergli riferita con esattezza. 7.5.5 Il Teseo liberatore

La scena di Teseo che libera i fanciulli ateniesi dal labirinto, dopo aver ucciso il Minotauro, compare in una delle pitture che ornavano la Basilica di Ercolano (Fig. 7.30), ed è anche riprodotta in alcune case di Pompei. La pittura di Ercolano, dovuta a una committenza pubblica, è di dimensioni molto maggiori, alta 1,90 m, ed è opera di un decoratore molto abile, certamente più vicino all’originale pittorico. Il quadro è dominato dal corpo di Teseo, simile a una statua nella ponderazione e nelle proporzioni lisippee, che volge bruscamente lo sguardo, conscio dell’impresa compiuta. I fanciulli ateniesi, salvati da una morte atroce, lo festeggiano: uno gli bacia la mano destra, un altro gli 702

abbraccia la gamba sinistra, altri ancora esultano sulla destra, davanti alle mura del labirinto. Steso sul terreno, alla sinistra, il grande corpo senza vita del Minotauro, in una posizione che ricorda quella del mostro marino ucciso da Perseo. Conclude la scena un fondale misto di mura e di rocce, sulle quali siedono delle figure femminili.

Fig. 7.30 Teseo liberatore, dalla Basilica di Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Di ben diverso livello la pittura proveniente dalla casa pompeiana di Gavio Rufo (Fig. 7.31), derivata palesemente dallo stesso modello, e spesso mostrata per ricordare quanto 703

possano differire per qualità e interpretazione due copie dello stesso originale. La committenza è qui dunque privata, le dimensioni, circa 90 cm, molto minori. L’intensa atmosfera del mito è completamente persa. Il corpo di Teseo, per quanto in posizione centrale e specularmente simile al Teseo della pittura di Ercolano, appare disorganico; gli atteggiamenti di gratitudine dei due fanciulli sono volutamente esagerati, ma appaiono goffi, specie in quello di destra, quasi sdraiato a terra. Il fondale è diventato un anonimo muro di città, nel quale si apre una porta, da cui fuoriesce il corpo del mostro, piccolo e quasi risibile nell’incrociarsi delle braccia rese in un infelice tre quarti, capace di incutere più pietà che spavento. Il gruppo a destra, poi, mostra solo sorpresa; ed è ormai celebre il paragone con un «gruppo in gita scolastica» con cui venne bollato da Bianchi Bandinelli.

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Fig. 7.31 Teseo liberatore, dalla Casa di Gavio Rufo a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Colpisce qui dunque, più ancora che per l’Achille a Sciro, la diversa qualità: a Ercolano, un pittore dalle grandi capacità tecniche; nella casa di Pompei, un semplice artigiano che riproduce per un cliente di poche pretese lo stesso originale celebre. Non abbastanza celebre, purtroppo, per essere citato dalle fonti letterarie in nostro possesso; ma che la composizione generale e gli echi lisippei ci portano a considerare ancora del primo secolo dell’Ellenismo.

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8 Il primo Ellenismo e l’arte di Pergamo (fine del secolo IV - metà del secolo II a.C.) GIORGIO BEJOR

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8.1 L’età dei diadochi e degli epigoni Alessandro muore nel 323 a.C. (data che convenzionalmente apre il periodo ellenistico), senza lasciare eredi che possano salire direttamente al trono. Inizia così un periodo di scontri incessanti, con i quali i suoi generali si disputano il potere: è il periodo cosiddetto dei diadochi, cioè di coloro che, già suoi compagni, vogliono succedergli. Una prima, provvisoria ripartizione dei poteri risale già al 321 a.C., col Trattato di Triparadiso, che vede Antipatro nuovo reggente, e Antigono, Demetrio, Lisimaco, Tolomeo e Seleuco spartirsi le varie parti del regno. Morto anche Antipatro nel 319 a.C., riscoppiano le ostilità, nelle quali ad Antipatro subentra il figlio Cassandro. Si giunge così a una seconda pace, che praticamente conferma i possessi ottenuti dai vari generali. Il lungo periodo di guerre, durante il quale Cassandro fa assassinare Roxane e il figlio tredicenne Alessandro, unico discendente diretto di Alessandro Magno, e tutti i diadochi assumono il titolo di re, sembra terminare con la battaglia di Ipso, nel 301 a.C., nella quale muore Antigono. Viene sancita allora una nuova divisione: a Cassandro rimangono la Macedonia e la Grecia, a Tolomeo l’Egitto, a Lisimaco la Tracia e la parte occidentale dell’Anatolia, a Seleuco gran parte dell’Asia, dalla Siria ai confini orientali, a Demetrio, figlio di Antigono, la sola isola di Cipro, con però una grande flotta. Il periodo successivo è dominato dai tentativi di impossessarsi della Grecia e della Macedonia, prima da parte di Demetrio, poi di Lisimaco. Finalmente, nel 281 a.C., dopo la battaglia di Curupedio, presso Magnesia, nella quale trova la morte Lisimaco, si arriva a una sorta di tripartizione «continentale», destinata a durare a lungo (si 708

veda la cartina storica a fianco): la Macedonia rimane ad Antigono Gonata, figlio di Demetrio; l’Asia a Seleuco; l’Egitto a Tolomeo. Con questa battaglia e con la morte di Seleuco, l’anno successivo, viene considerato concluso questo lungo, terribile periodo dominato dai diretti successori di Alessandro. Inizia così un secondo periodo, detto degli epigoni, i discendenti dei diadochi. Le guerre non hanno fine nemmeno con il 280 a.C.; ma, per almeno mezzo secolo, non portano più a cambiamenti tanto radicali. Solo il regno più grande, quello dei successori di Seleuco, comincia poco a poco a disgregarsi. Iniziano a rendersi indipendenti le aree periferiche dell’Anatolia, in particolare Pergamo e i nuovi regni sulla costa del Mar Nero; quindi, dopo il 230 a.C., l’affermarsi in Persia di un potente regno, quello dei Parti, separa definitivamente dal Mediterraneo tutte le conquiste più orientali di Alessandro. Il periodo degli epigoni dura sostanzialmente sino a che, attorno al 220 a.C., Roma non si affaccia anche in Oriente. Il primo a essere assalito è naturalmente il regno più occidentale, quello di Macedonia. Le due prime guerre macedoniche, alle quali partecipano, da una parte e dall’altra, le leghe delle città greche, finiscono con la vittoria del console romano Flaminino, nel 197 a.C., a Cinoscefale, in Tessaglia. L’anno dopo, a Corinto, le città della Grecia sono dichiarate libere. L’intervento del re di Siria, Antioco III il Grande, reduce da una spedizione sino all’Indo che mira a recuperare i suoi possedimenti orientali, finisce in un disastro: alla fine del 190 a.C., Roma, aiutata da Rodi e da Pergamo, sbaraglia Antioco a Magnesia. La Siria perde altri territori, che Roma lascia almeno nominalmente ai suoi alleati. Nel 168 a.C. una terza guerra macedonica si conclude, a Pidna, con la definitiva vittoria di Roma e la scomparsa dello stato macedone e dell’Epiro, trasformati in provincia romana. Un’ultima sollevazione delle città greche, 709

nel 148 a.C., porta due anni dopo alla fine anche della loro nominale libertà e alla distruzione di Corinto, che se ne era messa a capo.

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8.2 La scultura del primo Ellenismo 8.2.1 L’arte dei diadochi

La generazione immediatamente successiva alla morte di Alessandro è dominata da uno spirito di gigantismo già ben visibile negli apparati temporanei dei funerali stessi di Alessandro, e prima di lui di Efestione, suo amato compagno. Si prediligono colossali creazioni, destinate a sottolineare e a perpetuare la grandezza delle nuove compagini statali. L’edificio più grande è un immenso farotorre, eretto su un’isoletta davanti al porto di Alessandria in Egitto e subito considerato una delle meraviglie del mondo. Questa città, una delle prime e più fortunate tra le fondazioni di Alessandro e nuova capitale di tutto l’Egitto, diventa assai presto meta di intellettuali e artisti provenienti dalle città della Grecia, che si vanno riunendo attorno alla corte tolemaica e alla sua biblioteca, tanto da renderla, pur così lontana, uno dei centri principali della cultura greca. Lo stesso Tolomeo I vuole che il proficuo incontro tra questa e la tradizione locale si materializzi nel più splendido dei santuari, creato in uno dei quartieri destinati alla popolazione indigena, e dedicato a una nuova divinità, Serapide (Fig. 8.1), in cui devono confluire lo Zeus ellenico e l’Osiride egiziano. La statua del nuovo dio, di enormi proporzioni, viene commissionata a un artista che ha già lavorato anche alla decorazione del Mausoleo: Briasside. Anche in questo caso, come per l’Atena Parthenos, per lo Zeus di Olimpia, per l’Asklepios di Epidauro, una intelaiatura interna in legno sorregge le parti del corpo e delle vesti, lavorate in avorio e in vari metalli. Come lo Zeus di Fidia, il dio è rappresentato barbato, ma sui suoi lunghi capelli è posto il modio, tipico recipiente destinato al grano 711

e quindi simbolo di fertilità. Anche Serapide è seduto su un trono, di sapore arcaicizzante, e poggia i piedi su uno sgabello dalle zampe leonine, facendovi forza, come per alzarsi. Sempre come Zeus, con la sinistra regge lo scettro; come Ade, poggia però la destra sulla testa centrale di un cerbero, mostro infernale dalle tre teste, accovacciato ai suoi piedi. Il corpo è coperto da un chitone, mentre un lembo del manto, che gli avvolge i fianchi, gli ricade in avanti dalla spalla sinistra, così come nello Zeus fidiaco. Il turgido panneggio e le possenti forme lo avvicinano stilisticamente al cosiddetto Mausolo del Mausoleo (Fig. 6.22); l’uso di materiale scuro per le parti scoperte del corpo ne evidenzia il legame con gli inferi, garante, come Osiride, di una vantaggiosa rinascita. Da una parte, dunque, si lega volutamente alla più classica tradizione ellenica; dall’altra, appartiene a un mondo nuovo, nel quale hanno grande peso le tradizioni locali. Una colossale statua-simbolo, dunque, del sincretismo tolemaico.

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Fig. 8.1 Serapide, Briasside, copia romana di piccolo formato, da Ostia. Ostia, Museo Ostiense.

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Fig. 8.2 Tyche di Antiochia, copia romana. Roma, Musei Vaticani.

Un valore parimenti simbolico ha anche la statua bronzea di Tyche (Fortuna) che, attorno al 300 a.C., il grande contendente dei Tolomei, il re di Siria Seleuco, commissiona a Eutichide, un allievo di Lisippo, per celebrare la fondazione di Antiochia, sua nuova capitale (Fig. 8.2). Eutichide parte dallo schema della figura femminile seduta, riccamente drappeggiata, già usato per rappresentazioni simboliche di elementi naturali, ingrandendolo però sino a cinque volte le dimensioni naturali. Ce ne resta l’immagine in innumerevoli repliche di piccolo formato e in raffigurazioni monetali. La torsione della figura è resa più evidente dall’accavallarsi delle gambe, su cui poggia la mano destra che regge le messi, simbolo di fertilità; la testa, di derivazione lisippea, porta la corona a forma di cinta turrita, simbolo della città. La dea è seduta su un elemento 714

simboleggiante il paesaggio, una grande roccia, ai piedi della quale la figura di un giovane che nuota doveva rappresentare il fiume Oronte. Più o meno negli stessi anni, tra il 304 e il 293 a.C., Rodi incarica un altro degli allievi di Lisippo, Carete, nato a Lindo e quindi originario della stessa isola di Rodi, di fare una statua bronzea di Helios (il dio Sole) di inusitata grandezza. I costi sarebbero stati coperti dalla vendita del materiale lasciato sull’isola da Demetrio Poliorcete in occasione di un suo fallito attacco, che sarebbe rimasto così per sempre nella memoria di tutti. Carete si ispira nelle dimensioni allo Zeus che il suo maestro aveva eretto nell’agorà di Taranto, che già superava i 15 m, ma vuole ancora raddoppiarle. Il nuovo colosso, secondo Plinio, misura così 70 cubiti, 32 m. Collocato presso l’imboccatura del porto, si diceva che le navi, entrando, gli arrivassero appena alle ginocchia. Una copia romana (Fig. 8.3b) rinvenuta presso Santa Marinella (Roma) ci mostra il dio che avanza, nudo, con un passo ampio e deciso, simile a quello dell’Apollo del Belvedere di Leocare (Fig. 6.16); ha la mano sinistra abbassata a reggere l’arco e tiene alta con la destra una fiaccola dorata, che con i suoi bagliori serve in effetti da faro. La testa, radiata, si ispira probabilmente all’Helios della quadriga che lo stesso Lisippo aveva fatto per Rodi (Fig. 8.3a). La statua era di bronzo; cava, era ancorata al terreno con l’aiuto di un riempimento di grandi massi. Già nel 226 a.C. un terremoto la fa crollare; i pezzi rimangono sul posto, e lì sono ancora ai tempi di Plinio, protetti da un oracolo; vennero venduti come materiale metallico e quindi dispersi solo agli inizi del Medioevo. Come per il faro e per il Mausoleo, la fama di quest’altra meraviglia del mondo antico rimane così legata alle descrizioni letterarie, dalle quali nacquero fantasiose ricostruzioni. All’inizio dell’età 715

moderna ne viene eseguita una particolarmente curiosa, per la quale il dio avrebbe tenuto le gambe larghe, poggiando i piedi sulle opposte rive dell’imboccatura del porto; le navi, passando in mezzo, ne avrebbero sfiorato le ginocchia, ma da sotto. Per quanto palesemente assurda, questa ricostruzione ha particolare successo, tanto da entrare nell’immaginario collettivo e da essere adottata anche nella cinematografia ancora in pieno XX secolo.

Fig. 8.3a Testa di Helios da Rodi. Rodi, Museo Archeologico.

Come conferma di quanto profondamente e ampiamente la scuola di Lisippo abbia fatto sentire la sua influenza anche dopo i primi diadochi, si può qui ricordare la statua di bronzo ripescata, come sembra ormai dimostrato, nelle acque dell’Adriatico al largo di Fano nel 1964 (Fig. 8.4). Oggi è conservata nella collezione Paul Getty a Malibu, per cui è nota sia come Bronzo Getty che come Atleta di Fano. La sua celebrità è dovuta anche a un lungo contenzioso tra il museo californiano e lo stato italiano, che ne reclama la restituzione. Essa rappresenta un atleta che, stante, solleva il braccio destro per incoronarsi, dando al corpo un 716

andamento particolarmente sinuoso. L’ispirazione è certamente lisippea, nelle proporzioni, nel movimento nello spazio, nel trattamento del volto; l’opera va però inquadrata nelle fasi iniziali di una lunga serie di rappresentazioni di atleti che si estende cronologicamente e spazialmente per tutto l’Ellenismo, sempre rimanendo volutamente aderente a tipi tradizionali.

Fig. 8.3b Helios, da Santa Marinella.

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Fig. 8.4 Efebo Getty, da Fano. Malibu, Paul Getty Museum. 8.2.2 Il Sarcofago di Alessandro

Del resto, tutte le creazioni del breve periodo di Alessandro continuano a costituire un modello imprescindibile. Un’eco delle grandi rappresentazioni di cacce e di battaglie che caratterizzano quegli anni si ha in quello che può essere considerato tra i più spettacolari e celebri originali della scultura ellenistica che ci siano pervenuti: un grande sarcofago marmoreo, con un coperchio a doppio spiovente e i quattro lati della cassa 718

ornati da rilievi. Dato che su questi rilievi ne compare la figura, è generalmente noto come «Sarcofago di Alessandro», per quanto non fosse affatto destinato alla sepoltura del re macedone, che sappiamo essere stato sepolto invece ad Alessandria d’Egitto. Questo sarcofago è stato rinvenuto nel 1882, assieme ad altri lussuosi esemplari più antichi, in una tomba sotterranea della necropoli reale di Sidone, antica città fenicia, che oggi è nella parte meridionale del Libano, ma era allora inglobata nell’impero ottomano. Per questo motivo la necrepoli è stata scavata a cura del Museo Archeologico di Istanbul, e nello stesso museo il sarcofago fu subito portato, e tuttora si trova. Come tipo di sepoltura, si inserisce in una tradizione asiatica del sarcofago inteso come edificio funerario; forme e stile sono però tipicamente greci. Queste, assieme al soggetto dei rilievi, indicano chiaramente una data alla fine del secolo IV a.C. È del tutto plausibile che vi fosse sepolto Abdalonimo, che lo stesso Alessandro aveva posto come suo satrapo sul trono di Sidone, dopo che la vittoria di Isso del 333 a.C. gli aveva dato in mano tutta la regione. Appare infatti evidente come sulle pareti del sarcofago siano ricordate proprio le vicende che portarono questo re al trono, e i motivi del suo legame preferenziale con Alessandro. Non sappiamo invece quando Abdalonimo sia morto, forse pochi anni prima che, nel 305 a.C., Seleuco si impadronisse della Siria.

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Fig. 8.5 Sarcofago di Alessandro. Istanbul, Museo Archeologico.

La cassa, provvista di tetto a doppio spiovente con tanto di acroteri e di gocciolatoi, è concepita come un tempio funerario. Su uno dei lati lunghi è rappresentata un’affollata battaglia tra Greci e Persiani (Fig. 8.6a), chiaramente indicati come tali dagli indumenti che indossano. Vi irrompe Alessandro, la figura più a sinistra, ben riconoscibile nei tratti fisionomici, che riprende nella foga e nell’atteggiamento la statua equestre che ne aveva fatto Lisippo. Tutto il suolo appare cosparso di caduti, che vengono a poggiare sul bordo inferiore del rilievo. Al centro, la figura in nudità eroica rappresenta forse il compagno Efestione, al quale era stata decretata l’apoteosi nel 324 a.C. e che direttamente pose Abdalonimo sul trono. 720

C’è però anche chi, nei tratti del volto, vi avrebbe riconosciuto Demetrio, mentre il cavaliere ancora più a destra sarebbe suo padre Antigono. Queste identificazioni porterebbero a precisare ulteriormente l’epoca di esecuzione del sarcofago negli anni dei massimi successi degli Antigonidi su queste coste, cioè poco dopo il 306 a.C. Ma si tratta pur sempre di identificazioni molto difficili da dimostrare.

Fig. 8.6 a,b,c

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Sarcofago di Alessandro. Istanbul, Museo Archeologico.

Più chiara la grande scena di caccia sull’altro lato lungo (Fig. 8.6b): al centro, un cacciatore, a cavallo, viene assalito dal leone; a destra e a sinistra accorrono due altri cavalieri vestiti alla greca, avvolti nei mantelli (Fig. 8.5); con loro collaborano strettamente due altri cacciatori, a piedi, che sono chiaramente indicati come persiani dalle vesti con le brache e dai copricapi, che ricordano quello di Dario nel dipinto di Filosseno. La stessa cooperazione tra un cacciatore greco e uno persiano si ritrova nella scena di destra: il greco ferma il cervo tenendolo per le corna, mentre il persiano gli infligge il colpo decisivo. Non più dunque un sanguinoso scontro tra popoli diversi, ma un’unione per uno scopo comune, la caccia. Questo della caccia è un tema molto caro ad Alessandro, più volte riprodotto sia nella scultura che nella pittura. Dopo la sua morte conosce ancora grande fortuna, anche in ambito privato: lo si è visto ad esempio anche nei mosaici dei palazzi di Pella (Fig. 7.10). 8.2.3 Da Curupedio a Magnesia (281-189 a.C): il secolo d’oro dell’Ellenismo

Dopo la battaglia di Curupedio, del 281 a.C., stabilizzatasi nel mondo ellenistico la divisione in più regni, continua a esserci un po’ ovunque una consistente produzione figurativa. Risulta però più difficile seguire una storia unitaria dell’arte greca, divenuta sempre più un’arte di corte, o collegata a singole città, anche se spesso con caratteri fondamentalmente comuni. Resta comunque un profondo attaccamento alla tradizione, spesso sentita come voluto richiamo a un «classico», appartenente ormai al passato. Anche per questo, nel corso del secolo III a.C., ci troviamo di fronte spesso a ripetizioni e variazioni di temi nati nel secolo precedente. 722

Con Alessandro si è definitivamente affermata l’abitudine a riprodurre fisionomie dei singoli. Ogni dinasta avrà il suo ritratto, che spesso richiama i tipi del re macedone. I dinasti si fanno perciò rappresentare come uomini d’azione, nel pieno della loro forza giovanile, spesso a metà tra atleti ed eroi, ricorrendo anche nelle teste a commistioni tra i propri ritratti fisionomici e un’impostazione che resta quella di Alessandro. Le numerose raffigurazioni monetali ne offrono molti esempi. Sempre più vengono creati però anche ritratti di uomini che simboleggiano la conservazione delle virtù civili: filosofi, oratori, poeti, più in generale intellettuali. Vengono conservati i due tipi principali, ormai canonici: in piedi o seduto. Sempre comunque gli individui vengono rappresentati con il corpo intero, anche se poi spesso, soprattutto in età romana, verrà copiata la sola testa per busti e ritratti da tenere in casa.

Fig. 8.7 Ritratto di Omero. Parigi, Museo del Louvre.

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Indicatori costanti in questo genere di ritratti restano la presenza della barba e, altra caratteristica dell’uomo maturo, dello himation, il pesante mantello. Si eseguono ritratti in occasione della morte, o ancora in vita, o, ancor più di frequente, ritratti di ricostruzione postuma, come le statue dei tragediografi che ornarono il teatro di Atene dopo le trasformazioni che vi fece l’arconte Licurgo attorno al 330 a.C. E ovviamente è postuma la ricostruzione del ritratto del massimo poeta della grecità, Omero (Fig. 8.7).

Fig. 8.8 Ritratto di Demostene, copia romana. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptothek.

Postuma è anche la statua di Demostene (Fig. 8.8), 724

oratore e politico, esempio di eloquenza, di rettitudine, di dedizione alla patria, fiero oppositore dei re macedoni, giunto ad affrontare nel 322 a.C. il suicidio per non cadere nelle mani del nuovo nemico dell’indipendenza delle città greche, il macedone Antipatro. Infatti solo quando, poco dopo la morte di Lisimaco a Curupedio, si rinnovano per Atene le speranze d’indipendenza, la sua effigie in bronzo viene eretta nell’Agorà di Atene. Siamo nel 280 a.C., quarantadue anni dopo la morte. Autore della statua è un altrimenti ignoto Polieutto, che deriva tipo e proporzioni dal Sofocle di Lisippo. Ma la nuova posizione delle braccia, che portano le mani a ravvicinarsi e a posarsi sul ventre, mentre la testa viene lievemente rivolta in avanti, con un’espressione corrucciata e concentrata del volto, aggiungono intensità e nel contempo compostezza, sottolineata dalle lunghe pieghe regolari della veste. Lo scopo dell’artista è quello di rappresentarne i valori morali, sempre validi.

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Fig. 8.9 Ritratto di Crisippo, copia romana. Parigi, Museo del Louvre.

Rinascono parallelamente le scuole filosofiche e questo viene visto anche come un riscatto intellettuale della grecità, in opposizione a un potere politico sempre più evanescente. Si moltiplicano le immagini di filosofi, colti nel loro insegnamento nel ginnasio, in posizione raccolta, sovente seduta. Caratteristiche sono la statua seduta di Posidippo, verso la metà del secolo III a.C., e la statua (Fig. 8.9), anch’essa seduta, di Crisippo, allievo di Zenone e fondatore della scuola stoica. Fatta non molti anni prima della sua morte, avvenuta nel 206 a.C., sottolinea il contrasto tra la posizione rattrappita di un corpo ormai vecchio, con il mantello che ricopre le spalle minute e incurvate, e la realistica vivacità del ritratto ossuto e rugoso, che si rivolge con convinzione allo spettatore, e si accompagna in questo

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col gesto della mano destra, che si solleva nell’atto di spiegare il ragionamento. 8.2.4 Le statue di Afrodite

Nel mondo ellenistico cominciano ad apparire anche rappresentazioni femminili di regnanti, in quanto avvicinate alla sfera divina, in particolar modo nell’Egitto tolemaico. Sono comunque molto più comuni le statue ideali, e anch’esse continuano a considerare come punti di riferimento le grandi creazioni della fine del V e del IV secolo a.C. Moltissime si ispirano ai modelli di tradizione prassitelica. In particolare l’Afrodite di Cnido (Fig. 6.8), che suscita grande scalpore per la sua completa nudità, conosce subito una enorme quantità di repliche e varianti, con innovazioni più o meno significative del modello originario. Va qui ricordato che gli antichi hanno una sensibilità per copie e originali molto diversa dalla nostra. Alcune di queste varianti sono firmate, il che dimostra come l’artista che le aveva materialmente eseguite ritenga non di aver copiato, ma di aver creato qualcosa di nuovo. Del resto sappiamo bene che lo stesso succede anche nella letteratura con Plauto e Terenzio, che riprendono temi situazioni e anche dialoghi della Commedia Nuova per creare quelli che ritengono essere dei nuovi originali. Una delle prime e più fortunate varianti della Cnidia è la statua che viene poi riprodotta nell’Afrodite dei Musei Capitolini (Fig. 8.10), una delle oltre cento copie rimaste di un tipo usatissimo per ornare fontane e giardini di età romana. L’originale deriva in modo assai stretto dal modello prassitelico; ma diversa è l’acconciatura, più complessa e sofisticata, con i capelli riuniti in un alto nodo alla sommità del capo, da dove ricadono nuovamente sulle spalle; soprattutto, viene abbandonata la naturalezza di un gesto senza tempo, il lasciar cadere le vesti per l’immersione 727

nell’acqua, a favore di un maggior coinvolgimento dello spettatore: come se fosse sorpresa proprio in quel momento, la dea accenna a coprire con le mani le proprie nudità, in un gesto di apparente pudore, che è destinato ad aggiungere sensualità all’immagine, e che ha dato a questa creazione il nome di Afrodite Pudica. Tutto questo è ottenuto con pochissimi cambiamenti, rispetto al capolavoro di Prassitele: la semplice inversione della ponderazione delle gambe, una diversa disposizione delle braccia che comporta un leggero piegarsi in avanti delle spalle; restano inalterate la morbidezza e la lucentezza delle forme.

Fig. 8.10 Afrodite Capitolina, copia romana. Roma, Museo Nuovo Capitolino.

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La stretta vicinanza all’Afrodite Cnidia rende difficile collocare nel tempo la creazione dell’archetipo dell’Afrodite Capitolina: generalmente si preferisce pensare a un’opera abbastanza vicina sul piano cronologico, e quindi una creazione della fine del secolo IV a.C., o dei primi anni del III, e questa sembra restare l’ipotesi più probabile, anche nell’ambito di una storia della fortuna generale degli originali prassitelici. Posteriori sembrano invece altre varianti, ottenute con curiosi inserimenti nel modello della Cnidia di movimenti già sviluppati con successo per altri soggetti: nascono così le Afroditi intente in un’occupazione particolare, ad allacciarsi un sandalo, o guardarsi allo specchio, in una infinita possibilità di variazioni, soprattutto nelle diffusissime terrecotte, ma anche in piccole riproduzioni in marmo o in bronzo, le cui minori dimensioni concedono all’autore una libertà molto maggiore. Un’ascendenza particolarmente complessa sembrano avere le cosiddette Afroditi anadyomenai, cioè intente a cingersi il capo con una benda, ove modelli scultorei si intrecciano ai pittorici: sicuramente non prescindono dalla Cnidia, ma la celebrità del quadro di Apelle che rappresenta così Afrodite, per noi irrimediabilmente perduto, ma di cui conosciamo l’esistenza attraverso le fonti letterarie, lo indica come secondo punto di riferimento. Direttamente dalla Cnidia sembra derivare un altro gruppo di creazioni ellenistiche, che aggiungono un ulteriore segno di pudicizia nel ricoprire i fianchi e le gambe con un avvolgente panneggio. Queste hanno lo stesso movimento, ma il corpo è più eretto, per consentire alle braccia di muoversi più liberamente nello spazio, come nell’originale dell’Afrodite trovata a Capua (Fig. 8.11). In questa copia le braccia sono andate perdute e sono state integrate in età moderna; erano però certamente staccate 729

completamente dal corpo, per tenere verosimilmente uno specchio e altri oggetti da toeletta: si tratta dunque di un momento caratteristico della sfera muliebre che di per sé sottolinea la femminilità della dea, che così appare spesso anche in descrizioni letterarie. Questo stesso tipo servirà poi, in età romana e con l’aggiunta di un abbigliamento più pudico, a rappresentare la Vittoria intenta a scrivere sullo scudo.

Fig. 8.11 Afrodite di Capua, copia romana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 8.12 Afrodite di Milo. Parigi, Museo del Louvre.

Allo stesso tipo dell’Afrodite di Capua appartiene anche quella che è forse la statua più famosa in tutto il vastissimo gruppo delle Afroditi, l’Afrodite di Milo (Fig. 8.12). Trovata agli inizi dell’Ottocento nell’isola egea di Milo, attraverso tutta una serie di curiose peripezie arriva al Louvre, in una Parigi in piena Restaurazione, dove viene estremamente apprezzata più per motivi contenutistici che stilistici, vista come simbolo di una sognata libertà sessuale perduta assieme al passato. Insomma, a distanza di duemila anni riesce a suscitare ancora l’effetto per cui era stata creata: colpire l’immaginazione erotica di un’epoca in cui il nudo femminile era tutt’altro che usuale. Da allora, la statua gode sempre di una fama immeritata, tanto che ancor oggi, 731

nonostante si sia in grado di comprenderne molto meglio la posizione nella storia dell’arte greca, non pochi si sentono ingenuamente in obbligo di citarla come grande capolavoro dell’antichità. Rispetto ad altre Afroditi simili, un accentuato classicismo dà alla statua una maggiore solidità, e alla testa una forte simmetria che, come in molte teste tra il V e il IV secolo a.C., dà l’impressione che lo sguardo si volga all’infinito, estraneandosi dal presente. L’autore deriva ancora dalla Cnidia le forme morbide e i piccoli seni dall’alta attaccatura, ma rende più leggiadra la solida impostazione del busto con l’accentuare la curvatura dell’anca destra, come si vede anche nella Nike di Samotracia (si veda par. 8.2.6). Tipologicamente, come abbiamo detto, rientra in una serie infinita di statue e statuette simili; una onesta opera di bottega, che è molto vicina all’Afrodite di Capua e, come tante altre, probabilmente stava compiendo lo stesso gesto. Anche il panneggio è il medesimo, con un più accentuato gusto per l’aderenza al corpo, tanto da assomigliare in alcuni punti a un panneggio bagnato. Notevoli sono le sue dimensioni: poco oltre i 2 m, come nell’Afrodite di Capua (che porta anche un diadema) e anche nella Cnidia. Questo induce a pensare che si trattasse di una statua di culto, nonostante le diverse notizie sul rinvenimento. Si tratta comunque di un originale ellenistico, probabilmente di un’opera insulare, prodotta nella vasta area in qualche modo collegata a Rodi. Proprio il suo forte classicismo sembra consigliare una datazione molto avanzata nella serie delle Afroditi, per cui sembra ancora valida la tradizionale datazione già nel secolo II a.C.

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Fig. 8.13 Afrodite Accovacciata, Doidalsas, copia romana. Roma, Museo Nazionale delle Terme.

Una creazione molto più originale, nell’ambito delle rappresentazioni dell’Afrodite senza veli, fu invece l’Afrodite Accovacciata (Fig. 8.13) creata da Doidalsas, un artista nato probabilmente in Bitinia. L’opera era già molto famosa nell’antichità, tanto da essere citata dalle fonti letterarie, e a noi è nota grazie a numerose copie. La dea piega qui le ginocchia per avvicinarsi all’acqua del bagno, tanto da sedersi sul tallone destro. Compie in questo modo una rotazione, accentuata dall’incrociarsi delle braccia, la sinistra che scende a sfiorare la coscia destra, la destra che porta la mano a sfiorare la spalla sinistra. La testa, piena di espressione nei grandi occhi e nella bocca semiaperta, può così volgersi nella direzione opposta a quella delle gambe, completando in senso ascendente la rotazione elicoidale. 733

Tutto il corpo, dalle superfici morbidissime, si adatta a questo movimento, raggiungendo un risultato di grande sensualità. Sembra che l’originale sia stato poi posto a Roma, nel Portico di Ottavia. Lo stesso Doidalsas esegue anche una statua di Zeus Stratios per Nicomedia di Bitinia poco dopo il 262 a.C., quando la città viene fondata; questo porterebbe anche per l’Afrodite Accovacciata a una datazione attorno alla metà del secolo III a.C. 8.2.5 Altre statue di culto

Sappiamo da Pausania che tra il III e il II secolo a.C. vengono create anche numerose statue di culto per i santuari del Peloponneso. Qui lo scultore più celebre è probabilmente Damofonte di Messene, che deve godere di grande prestigio, visto che vengono affidati a lui i lavori di restauro alla statua dello Zeus Olimpico di Fidia, danneggiata in quegli anni da un terremoto. Pausania vede statue di Damofonte nella stessa Messene, a Megalopoli e a Licosura: un piccolo centro dell’Arcadia, quest’ultimo, sede di un santuario della dea Despoina, identificata con Kore. In mezzo alla cella, relativamente piccola, era posto un basamento lungo 8 m, sul quale stavano quattro figure che, con il plinto di base, dovevano raggiungere un’altezza di cinque metri e mezzo (Fig. 8.14). Lo stesso Pausania, quando le vede, rimane molto colpito. Al centro erano le due statue sedute di Demetra, con una fiaccola nella destra, e di Despoina, che reggeva con la sinistra uno scettro; ai lati erano collocate quelle stanti e di più ridotte dimensioni di Artemide, che per il culto locale era anch’ella figlia di Demetra, e di Anito, il titano che aveva allevato la piccola Despoina. Di questo gruppo sono rimasti molti frammenti, tra i quali le tre teste marmoree colossali di Despoina, Demetra e 734

Anito (Fig. 8.15), e alcuni frammenti dei bordi delle vesti, decorati a finissimo bassorilievo. Le teste, colossali, hanno la parte posteriore cava e completata in stucco, come si ritrova soprattutto in ambiente tolemaico. Mostrano tutte una voluta aderenza alla tradizione dei tipi classici, con «aggiornamenti» soprattutto nella foggia delle pettinature. Sono attribuite generalmente alla fine del III secolo o ai primi decenni del II a.C., ma scavi recenti hanno consigliato per quest’opera di Damofonte una data leggermente più alta di quella tradizionale, perché, secondo queste nuove precisazioni, i lavori sarebbero stati fatti tra il 217 e il 213 a.C.

Fig. 8.14 Ricostruzione grafica del gruppo di Despoina a Licosura, opera di Damofonte.

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Fig. 8.15 Testa del gigante Anito, Damofonte da Licosura. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 8.16 Testa da Egira. Atene. Museo Archeologico Nazionale.

Ad esse sembra accostabile, non solo come aspetto ma anche cronologicamente, un’altra testa, forse leggermente posteriore ma almeno altrettanto celebre, e anch’essa trovata nel Peloponneso: la grande testa di divinità barbata proveniente da Egira (Fig. 8.16), presso la costa dell’Acaia che dà sul golfo di Corinto. In questa località gli scavi hanno portato alla luce negli anni Trenta del XX secolo prima questa testa e poi anche un braccio della colossale statua di culto vista da Pausania, che la descrive come uno Zeus seduto, in marmo pentelico, opera dell’ateniese Euclide. La testa, contornata dalle grandi ciocche fluenti della capigliatura e della barba e con occhi e labbra sottolineati dalla nettezza del taglio, è chiaramente ispirata allo Zeus olimpico, di cui vuol trasmettere in modo ancor più impressionante la maestosità. Anch’essa va certamente vista 737

agli inizi del classicismo che era destinato a caratterizzare la produzione greca del medio Ellenismo. Il nome dello scultore, Euclide, non ci è altrimenti noto; è però molto interessante l’indicazione della provenienza, Atene, perché in questo modo viene accostata la produzione peloponnesiaca alla scuola attica, nella quale, forse negli stessi anni, poteva essere stato attivo anche Firomaco, scultore oggi molto dibattuto, ma che fu certo molto famoso nell’antichità: in un papiro egizio il suo nome veniva accostato a quelli di Fidia, Prassitele e Leocare tra i massimi scultori di divinità. A lui era attribuita la statua di culto dell’Asklepieion di Pergamo (Fig. 8.17), e questo, come vedremo, ha portato a sua volta a vedere un collegamento tra il classicismo attico e l’ambiente pergameno che creò i rilievi della grande ara.

Fig. 8.17 Testa di Asklepios, copia di un originale attribuito a Firomaco. Siracusa, Museo Archeologico.

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Fig. 8.18 Posidone di Milo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Sempre all’interno di questo ambiente fortemente ispirato al classico può essere vista anche la grande statua del Posidone trovata a Milo (Fig. 8.18), presso la più celebre Afrodite. Il tipo è quello consueto della divinità barbata, stante, la destra sollevata ad appoggiarsi al tridente, con il mantello che lo copre dai fianchi in giù con corpose pieghe, mentre un lembo scende da sopra la spalla sinistra. La maestosità dell’epifania è sottolineata dall’ampio passo, indicato dalla posizione fortemente arretrata del piede sinistro, assieme alle dimensioni stesse della statua, 2,17 m, e al brusco volgere della testa. Gli occhi infossati e vicini, le superfici rigonfie sono fatte anche qui per conferire al volto una grande espressività, molto maggiore che nei modelli classici da cui deriva. Non vanno dimenticati gli stretti legami che l’isola di 739

Milo ha con la corte tolemaica. Purtroppo si sa ancora poco dello sviluppo della scultura ad Alessandria, nei suoi possibili rapporti con questo classicismo della Grecia propria. Molto vicino sembra il gruppo di Tolomeo IV e della sua sposa e sorella Arsinoe III, rappresentati assieme a Serapide, giuntoci molto frammentario, ma databile con sufficiente sicurezza al 218-217 a.C.: una conferma di quanto sia forte la tradizione classica, ispirata in particolar modo all’Attica. Strettissimi sono del resto i rapporti politici: nel 224 a.C., Atene attribuisce anche onori divini e un culto a Tolomeo III, in grazia dell’aiuto che egli aveva portato alla città. Allo stesso modo sono stati sempre sottolineati i rapporti politici, ma anche culturali, tra Alessandria, Rodi e il Dodecaneso, soprattutto per la leggiadria di alcune figure femminili. 8.2.6 La Nike di Samotracia

Proprio a Rodi viene tradizionalmente collegata la grande figura di Nike alata, proveniente dall’isola di Samotracia e oggi al Louvre (Fig. 8.19), anch’essa verosimilmente collegata a una delle vicende belliche che segnarono il passaggio tra III e II secolo a.C. È stata trovata nel 1867, spezzata in più frammenti, dentro a una grande vasca circolare, all’interno del santuario dei Cabiri, a Samotracia, un’isola di difficile approdo posta nella parte settentrionale dell’Egeo, non lontano dall’imbocco dell’Ellesponto e dalla costa della Macedonia. L’intero monumento era composto da una grande prua di nave, che dominava lo specchio d’acqua della vasca, e dalla figura della dea della Vittoria, che in un’impetuosa apparizione scendeva ad appoggiarsi sulla prua.

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Fig. 8.19 Nike di Samotracia. Parigi, Museo del Louvre.

La dea è raffigurata secondo il modello classico, già codificato nella Nike dei Messeni fatta da Paionios a Olimpia oltre due secoli prima (Figg. 5.62, 5.63); ma l’accostamento alla vasca e l’inserimento della prua della nave indicano chiaramente come in questo caso si debba trattare di una vittoria ottenuta sui mari. L’impeto dell’apparizione viene sottolineato dalla grandezza delle ali dalle penne rigonfie, l’ampiezza del passo ne mostra la rapidità, come già nell’Apollo di Leocare (Fig. 6.16). Colpiscono i forti contrasti tra i panneggi lasciati 741

liberi nel vento, nonostante la loro pesantezza, e il chitone: a causa della velocità, questo si schiaccia contro le parti più avanzate del corpo, diventando quasi trasparente e disegnando con grande virtuosismo il corpo della dea, come attraverso un panneggio bagnato. Anche proprio questo tipo di panneggio ha fatto accostare il monumento alla grande potenza navale che stava dominando il sud dell’Egeo, Rodi, tanto più perché nell’isola di Rodi si conoscono altri monumenti dedicati a vittorie navali, sia pure di minore impegno, ad esempio a Lindo. Non va peraltro dimenticato che essi non sono una prerogativa esclusiva di quest’isola. Rodi è stata alleata prima dell’Egitto e poi di Roma, in opposizione prima al regno dei Seleucidi, poi a quello di Macedonia. L’occasione per la costruzione di questo grande monumento viene spesso indicata nella battaglia navale vinta su Seleuco al largo di Side nel 190 a.C. Il luogo di collocazione farebbe pensare piuttosto a un legame con la Macedonia; senza contare che una vittoria alata sulla prua di una nave è elemento di propaganda nella monetazione del fondatore della potenza marittima macedonica, Demetrio Poliorcete. La violenza del movimento e i forti contrasti consentono di inquadrare cronologicamente questa figura non lontano dal Donario gallico di Attalo (si veda par. 8.4.2); e anche il cosiddetto panneggio bagnato trova molti confronti proprio in quel periodo, o subito dopo. La Nike di Samotracia può essere dunque considerata ancora un caposaldo della scultura della fine del III o al massimo dei primi anni del II secolo a.C., un momento nel quale si era ormai affermato in Asia Minore un nuovo grande centro, politico e ancor più culturale: Pergamo.

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8.3 L’architettura ellenistica fra tradizione e novità 8.3.1 La ripresa dell’ordine ionico: il tempio di Apollo a Didyma e il tempio di Artemide a Sardi

Anche l’architettura del primo Ellenismo si ispira fortemente ai monumenti più antichi. Nelle città dell’Asia Minore questo significa soprattutto un volgersi all’architettura arcaica anteriore all’invasione persiana e alla sua particolare fioritura monumentale, legata al grande sviluppo dell’ordine ionico. L’esempio più evidente si ha con la ricostruzione del tempio di Apollo didimeo presso Mileto (Figg. 8.20, 8.21). In quello che è da secoli uno dei santuari più venerati della Ionia, un enorme tempio arcaico viene cominciato già attorno alla metà del secolo VI a.C., a somiglianza di quanto sta avvenendo nelle vicine Efeso e Samo. L’edificio è lungo 88 m e largo 41 m, ha 21 colonne sui lati lunghi, 8 sulla facciata est e 9 su quella ovest (Fig. 3.17). Ai tempi della rivolta ionica viene però distrutto dai Persiani, e la statua di culto, opera di Canaco di Sicione, viene portata a Ecbatana. Questa città, capitale della Media, è occupata 160 anni dopo da Alessandro, e successivamente passa a Seleuco I, che restituisce allora la statua a Mileto: questa è l’occasione per la ricostruzione del tempio, in parte finanziata dallo stesso sovrano. I lavori iniziano nel 313 a.C. sotto la guida degli architetti che avevano lavorato anche alla ricostruzione dell’Artemision di Efeso. Il nuovo tempio viene costruito sulle rovine di quello precedente, ma è ancora più grande e maestoso: su un podio di 110 × 51 m, ha una doppia fila di immense colonne ioniche, 21 sui lati lunghi, 10 sulla facciata. Le decorazioni delle basi delle colonne, dei capitelli e delle trabeazioni riprendono quelle arcaiche, ma sono ancora più ricche e accurate. Viene inoltre fortemente 743

accentuata la funzione oracolare: la doppia peristasi del tempio deve racchiudere non una cella consueta, ma uno spazio centrale scoperto; una scalinata di 14 gradini permette di salire al maestoso vestibolo, occupato da una selva di 20 colonne alte quasi 20 m; da qui due stretti corridoi, coperti da una volta a botte, portano in lieve discesa allo spazio scoperto centrale, di 53,6 × 21,7 m, circondato da muri alti 25 m, decorati da paraste su uno zoccolo liscio. In fondo, presso una fonte sacra e una pianta d’alloro simbolo del dio, è collocato il piccolo tempio con la statua di culto restituita da Seleuco I. Sul lato d’ingresso, una maestosa scalinata di 24 gradini riporta dal cortile interno al pronao, aperto verso il vestibolo da una enorme porta alta 14 m, con il piano sopraelevato di un metro e mezzo. Viene indicata come «porta delle apparizioni», perché non serve da collegamento, ma da teatrale cornice ai sacerdoti che dal piccolo tempio, attraversato il cortile e salita la grande scalinata, riportano i responsi oracolari ai fedeli, fermi nella selva di colonne del vestibolo.

Fig. 8.20 Didymaion, pianta.

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Fig. 8.21 Didymaion, vista del lato est.

Qualcosa di simile accade anche a Sardi, capitale della Lidia e poi della satrapia dell’Occidente persiano. Anche qui il principale tempio, dedicato ad Artemide, in un luogo già sacro prima dell’arrivo dei Persiani, viene ricostruito in forme particolarmente sontuose, che si rifanno all’architettura arcaica di ordine ionico (Fig. 8.22). Ha così 8 colonne sulla facciata e 20 sui lati lunghi; i muri della cella sono in asse con la terza e la terz’ultima colonna dei lati corti, e con la quarta e la quart’ultima dei lati lunghi. Questo crea tutt’attorno alla cella degli enormi spazi. Inoltre, vestibolo e opistodomo sono preceduti da ulteriori colonne, certamente in funzione dei riti locali. I capitelli ionici e le decorazioni delle basi richiamano molto da vicino quelli di Didyma.

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Fig. 8.22 Sardi, Artemision. 8.3.2 I nuovi sviluppi dell’ordine ionico

L’ordine ionico rimane poi sempre particolarmente amato nelle città dell’Asia, anche nelle numerosissime che, di nuova fondazione, non possono vantare tradizioni tanto antiche. Gli architetti lo preferiscono infatti al dorico, troppo semplice e pesante, che spesso viene relegato a ornare il piano inferiore dei portici. Questa predilezione si è già vista nel corso del secolo IV a.C., con l’uso dell’ordine ionico nel mausoleo di Alicarnasso e poi nel tempio di Atena a Priene, opere dello stesso architetto, Piteo. Il tempio di Atena a Priene (Fig. 8.23), in particolare, è di dimensioni ridotte ma molto eleganti, con 6 × 11 colonne alte dieci volte il diametro di base; esse cingono una cella che racchiude uno spazio interno singolarmente corto, quasi quadrato. Un’epigrafe ci ricorda che lo stesso Alessandro contribuisce alla sua costruzione con un donativo. In seguito, con gli inizi del secolo II a.C., l’ordine ionico ha anche un nuovo, grande teorizzatore in Ermogene di 746

Alabanda, città della Caria. A lui si devono il tempio di Dioniso a Teo, che fu il più venerato tra i templi dedicati a quella divinità, e i templi di Zeus Sosipoli e di Artemide Leucofriene a Magnesia sul Meandro. Quest’ultimo (Figg. 8.24, 8.25) aveva una peristasi di 8 × 15 colonne ioniche; la lunghezza dell’intercolumnio costituiva il modulo su cui venne costruito l’intero tempio: il pronao era lungo, come l’adyton, quattro intercolumnii, il doppio rispetto all’opistodomo, con un rapporto dunque tra vestibolo, adyton e opistodomo di 2 : 2 : 1.

Fig. 8.23 Priene, tempio di Atena, pianta.

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Fig. 8.24 Magnesia, tempio di Artemide, anastilosi della facciata. Berlino, Musei.

Fig. 8.25 Magnesia, tempio di Artemide, pianta.

Inoltre, tutta la cella era circondata da uno spazioso corridoio ampio due intercolumnii, che conferiva grande ariosità al monumento. L’intercolumnio centrale dei lati brevi era più ampio degli altri, il che sottolineava l’importanza del retrostante accesso alla cella. Nonostante le dimensioni molto maggiori, mostra forti analogie con il tempio di Atena costruito da Piteo a Priene. Questo è richiamato da vicino anche dal tempio di Dioniso 748

a Teo, che pure aveva un grande vestibolo, una cella molto corta e un ridotto opistodomo. Ermogene scrisse su entrambi questi templi un trattato, che venne usato da Vitruvio e sembra sia stato alla base della sua descrizione dei templi pseudodipteri. 8.3.3 I nuovi complessi scenografici

L’ordine dorico rimane comunque il più usato lì dove lo impone la tradizione, soprattutto nella Grecia propria. A Lindo, una delle principali città dell’isola di Rodi, il tempio dorico arcaico di Atena (Fig. 8.26) aveva dominato la città dal bordo dell’alto roccione dell’acropoli (Fig. 8.27), ma viene distrutto da un terremoto attorno al 350 a.C. Viene subito ricostruito come tempio dorico tetrastilo anfiprostilo, cioè con quattro colonne su ciascuno dei lati minori, nella stessa posizione e sfruttando le fondazioni del precedente. A partire dagli ultimi anni del secolo è risistemato anche tutto il santuario, scenograficamente esteso all’intera terrazza superiore del monte. L’ingresso avveniva per una grande scalinata, in cima alla quale fu aggiunta una facciata monumentale con una fila di dieci colonne racchiusa tra due bastioni sporgenti, anch’essi circondati da colonne: un insieme che richiamava i propilei dell’Acropoli di Atene, con un ingresso ampliato. Alle dieci colonne della facciata corrispondevano cinque porte, che davano accesso al cortile del tempio, cinto anch’esso da colonnati. L’altare restava al centro, ma la particolare posizione del tempio, sul bordo del precipizio, costringeva a interrompere la simmetria dell’insieme. Per continuare a dare un’impressione di regolarizzazione, il portico meridionale appariva esternamente uguale agli altri, ma aveva una profondità ridotta ad appena 1 m. Lo stesso motivo del portico ad ali avanzate dei propilei fu poi ripetuto, sotto la scalinata e sullo stesso asse, in una grande stoà, un portico lungo 88 m. È una particolare concezione urbanistica, che cerca di dare 749

attraverso spazi aperti delimitati da file di colonne l’impressione di una regolarizzazione della natura, e che trova qui un’accentuazione scenografica che avrà grande fortuna in tutto l’Ellenismo. Si ha così un’architettura che non solo si adatta all’ambiente naturale, ma lo sfrutta, per creare grandi composizioni scenografiche capaci di coinvolgere lo spettatore. Una evoluzione nello stesso senso si verifica anche nel santuario di Asklepios nell’isola di Coo (Figg. 8.28, 8.29), uno dei più venerati e frequentati santuari dell’età ellenistica. Gli edifici funzionali al culto stavano su una terrazza del monte, presso delle fonti sacre, senza uno schema preciso. Solo agli inizi del secolo III a.C. vengono costruiti l’altare monumentale e il tempio, assai piccolo anche se riccamente ornato. Nel corso del secolo II a.C. in una terrazza più bassa viene creato un grande piazzale, di 93 × 47 m, destinato alle feste e circondato su tre lati da un portico dorico; il quarto lato era occupato da un muro di sostegno, sopra al quale i precedenti edifici apparivano ai fedeli quasi come su un palcoscenico. Come fondale, al posto dell’antico bosco sacro, viene creata anche una terrazza superiore, perfettamente quadrangolare e con portici su tre lati, aperta verso le altre due sottostanti terrazze. Sull’asse principale, una grande scalinata d’accesso portava dal vecchio altare al nuovo tempio, dorico periptero, con sei colonne sulla fronte, che riprendeva le forme del tempio di Asklepios a Epidauro, aumentandone le dimensioni, e, soprattutto, dandogli una posizione scenografica del tutto nuova. Sarà poi questo schema, di un santuario disposto a terrazze coassiali, ad avere grande seguito anche nei santuari repubblicani in Italia.

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Fig. 8.26 Lindo, pianta del santuario di Atena sull’acropoli.

Fig. 8.27 Lindo, acropoli.

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Fig. 8.28 Asklepieion di Coo, pianta.

Fig. 8.29 Asklepieion di Coo, ricostruzione grafica. 8.3.4 Edifici pubblici e stoài

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Ma anche a Magnesia i due templi principali, di Zeus Sosipoli e Artemide Leucofiene, vengono inseriti in ampie piazze circondate da portici su colonne: questi erano divenuti ormai uno degli elementi più caratteristici dei paesaggi urbani di epoca ellenistica. Le tante nuove fondazioni, di Alessandro e poi dei diadochi, come anche i santuari e le agorài delle città più antiche, hanno come nuovi fondali dei grandi portici, spesso a due piani: le stoài, che consentono il prolungarsi delle attività dell’agorà anche con la pioggia o il sole torrido. Per il loro costo elevato e il grande impatto visivo, sono uno dei monumenti preferiti dai sovrani per dar prova della loro filantropia. A Delo, ad esempio, un grande portico fatto costruire attorno al 210 a.C. dal re di Macedonia Filippo V separa la zona del porto dall’agorà, a sua volta chiusa da stoài su altri due lati; e l’Agorà di Atene è conclusa verso sud da una stoà a due piani colonnati offerta da Tolomeo VI (181-145 a.C.), collegata a un ginnasio, e a est da un’analoga costruzione eretta a spese del re di Pergamo, Attalo II (159-138 a.C.). Quest’ultima (Fig. 8.30) è stata ricostruita tra il 1953 e il 1956 dalla Scuola Archeologica Americana, e oggi mostra nel modo più chiaro che aspetto potessero avere questi grandiosi monumenti. Lunga 116,50 m, ha una facciata a due piani, l’inferiore aperto in un colonnato di 45 colonne di ordine dorico, il superiore con un ugual numero di colonne di ordine ionico. All’interno, entrambi i piani sono divisi in due lunghe navate da una fila di 23 colonne, ioniche quelle del piano inferiore, corinzie in quello superiore. In entrambi i piani, dalla seconda navata si accede a una serie di ambienti chiusi, adibiti a botteghe. La nuova attenzione per gli spazi civili è una delle caratteristiche dell’Ellenismo. Si sviluppano non solo piazze e portici, ma anche teatri ed edifici destinati all’amministrazione. 753

Priene ci offre anche sotto quest’aspetto un esempio particolarmente significativo. Presso l’agorà principale (Fig. 8.31), già pianificata al momento della fondazione avvenuta attorno al 330 a.C., viene costruito attorno al 150 a.C. un edificio a pianta quadrata di 20 m per lato, occupato all’interno da gradinate su tre lati: era questo il luogo di riunione della Boulè, o consiglio cittadino, detto perciò Bouleuterion (Fig. 8.32 a,b). Nel corso del secolo simili edifici, quadrangolari ma con all’interno una vera e propria piccola cavea teatrale, si moltiplicano, da Efeso a Mileto a Iasos, tanto da divenire consueti in tutte le città microasiatiche. Attorno al 130 a.C. il Bouleuterion di Priene viene collegato all’agorà da una grande stoà lunga 116 m e profonda 12 m, messa in comunicazione con uno dei lati lunghi della piazza da un’ampia gradinata, che supera un dislivello di un metro e mezzo. Questa stoà aveva una pianta molto simile a quella della stoà di Attalo nell’Agorà di Atene, anche se si sviluppava probabilmente su un solo piano: aveva sulla facciata una fila di 49 colonne doriche, alla quale corrispondeva una seconda fila di 24 colonne ioniche che dividevano l’interno del portico in due lunghissime navate. Ancora più indietro si accedeva alla serie di botteghe e al Bouleuterion.

Fig. 8.30 Agorà di Atene, la stoà di Attalo.

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Fig. 8.31 Priene, la nuova agorà, pianta.

Fig. 8.32a Priene, Bouleuterion, pianta.

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Fig. 8.32b Priene, Bouleuterion, ricostruzione dell’interno.

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8.4 Una nuova capitale culturale: Pergamo 8.4.1 Un’antica cittadella

Pergamo compare citata già in Senofonte come imprendibile cittadella, sede di un governatore persiano di stirpe greca. Proprio per la sua forte posizione viene scelta un secolo dopo da Lisimaco per tenervi al sicuro il proprio tesoro, che si diceva ammontasse a 9000 talenti, affidandone la custodia a un suo funzionario, Filetero. Nel 281 a.C. Lisimaco muore nella battaglia di Curupedio e i suoi territori in Asia Minore passano a uno dei vincitori, Seleuco. Grazie all’asperità del luogo, Filetero ne approfitta però per rendersi indipendente. Regna per diciotto anni, usando il tesoro per stabilizzare il suo potere. Può così succedergli il figlio adottivo, Eumene I, che dà inizio a una nuova dinastia, quella degli Attalidi. Nel 241 a.C. Pergamo passa ad Attalo I, nel cui lungo regno, durato sino al 197 a.C., la città conosce il suo maggiore sviluppo. La cresta del monte, verso nord, rimane occupata dagli apprestamenti militari e dalla residenza del dinasta. Verso sud, però, l’aspra orografia comincia a essere regolarizzata in una serie di terrazze quadrangolari che, a livelli diversi, si aprono a ventaglio sullo strapiombo (Figg. 8.33, 8.34). La prima, più alta, viene dedicata al santuario di Atena e fiancheggiata su tre lati da stoài, che costituiscono una quinta monumentale con i loro colonnati regolari e inoltre, essendo a più piani, permettono di superare al loro interno i forti dislivelli. Sul quarto lato, in posizione decentrata ma a dominio della valle, stava il tempio della dea, di dimensioni relativamente ridotte.

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Fig. 8.33 Pergamo, pianta dell’acropoli. 8.4.2 Il Donario Galata

Attorno al 230 a.C. Attalo I riporta una grande vittoria, fondamentale per l’esistenza stessa del suo regno, sconfiggendo presso il fiume Caico i Galati, una popolazione barbarica, della stessa etnia dei Galli dell’Occidente. Chiamati in Asia nel 279 a.C. da Nicomede, re di Bitinia, lo stesso che abbiamo già visto collegato 758

all’Afrodite di Doidalsas (Fig. 8.13), si erano poi dedicati a vessare le città greche dell’Asia Minore settentrionale, imponendo spesso tributi, fomentati talora dagli stessi Seleucidi. La loro sanguinosa disfatta al Caico sembra dunque una vera e propria liberazione. Per celebrarla, Attalo I dedica ad Atena, nella terrazza del suo santuario, un grande donario composto da varie statue disposte su un piedestallo (Fig. 8.35). A giudicare da quanto rimane, è più probabile che questo avesse forma cilindrica, piuttosto che allungata. Ne risulterebbe una composizione complessiva conica, che riprende quella della statua principale, e che troviamo poi ripetuta in altri monumenti ellenistici. Due delle statue sono state identificate in altrettante copie romane di altissima qualità. Dato che sono state rinvenute nel 1623 nell’area degli Orti Sallustiani a Roma, che erano appartenuti a Giulio Cesare, presso l’odierna via Nazionale, è stato proposto che fossero copie fatte fare da Giulio Cesare a ricordo delle sue vittorie su altri Galati, quelli d’Occidente. La prima statua, proveniente dalla collezione Ludovisi e oggi conservata nel Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps, è un’opera di intensa drammaticità, che si avvale della contrapposizione di due figure (Fig. 8.36): la prima è la poderosa immagine di un guerriero barbaro, rappresentato in tutta la sua vigoria fisica, che ancora tiene parzialmente sollevata per un braccio una seconda figura, un personaggio femminile dalle membra ormai abbandonate nella morte. La possente muscolatura dell’uomo ne indica l’estrema, violenta vigoria, il brusco volgersi a lato e verso l’alto del capo ne mostrano l’orgogliosa fierezza, accentuata dallo sguardo, reso più intenso dalle forti arcate orbitali. Ma le linee verticali di tanta sprezzante potenza, giunte al culmine, si volgono improvvisamente verso il basso, nella linea pure 759

verticale della spada, che egli stesso immerge dall’alto nel proprio torace, nell’atto estremo del suicidio.

Fig. 8.34 Pergamo, ricostruzione dell’acropoli.

Le grosse ciocche scomposte, le forti arcate sopraccigliari, soprattutto l’uso di portare i lunghi baffi, ne indicano chiaramente l’appartenenza etnica. Chi vedeva questa statua non poteva aver dubbi: si trattava di un barbaro, e un barbaro galata. Anche la donna ha una capigliatura caratteristica, a lunghe ciocche scomposte, che la indicano come galata. La testa ricade verso il basso, come il braccio sinistro, non sorretto dal compagno; e verso il basso tendono, prive ormai di ogni vitalità, le lunghe pieghe del vestito.

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Fig. 8.35 Pergamo, ricostruzione grafica del Donario gallico.

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Fig. 8.36 Galata suicida, copia romana. Roma, Museo Nazionale, Palazzo Altemps.

Fig. 8.37 Galata morente, copia romana. Roma, Musei Capitolini.

Si ha qui una stupenda, drammatica illustrazione di tanti passaggi letterari che parlano della fierezza di questi barbari che, vinti, pur di non cadere nelle mani dei nemici, davano la morte alla propria famiglia e a se stessi. La stessa straordinaria drammaticità sta anche nell’altra statua, nota come il Galata morente e oggi ai Musei Capitolini (Fig. 8.37). Anche in questo caso la drammaticità nasce dai continui contrasti. Il grande corpo muscoloso del guerriero, totalmente nudo, è ormai a terra, abbandonato sul proprio scudo. Ma il braccio destro ancora si tende, nell’estremo, disperato tentativo di tenersi sollevato. Inutilmente: la testa sta abbandonandosi, piegata verso il basso, il volto in una dolorosa, intensa concentrazione. L’altro braccio sembra voler fermare il sangue che sgorga da una ferita sulla coscia destra, ma ben più grave, e minuziosamente indicata, è una ferita che gli lede il costato. Anche quest’altro guerriero mostra chiarissime 762

caratteristiche etniche: oltre ai capelli, alle sopracciglia, ai baffi, lo indica come galata anche il suo unico ornamento, una torque, il collare aperto portato all’uso galata. Accanto allo scudo stanno, sul terreno, la spada e la tromba di guerra. Quest’ultima non è affatto comune nella statuaria. Si è perciò richiamato un passo di Plinio che ricorda come una figura di trombettiere sia stata creata da Epigono, un bronzista che alcune epigrafi ci dicono attivo al servizio di Attalo I. Sarebbe stato dunque lui il creatore di questo gruppo, che, traendo spunto da temi mitici per rappresentare un avvenimento storico, attraverso la sua esasperata drammaticità cerca la partecipazione emotiva dello spettatore. Epigono fece scuola e questo donario di Attalo I sembra poter essere all’origine di una produzione pergamena che durerà per quasi un secolo, cercando risultati sempre più impressionanti, sia per scelta del soggetto, che per stile, dai movimenti teatralmente esagerati e dalle masse ricche di chiaroscuri. 8.4.3 Il gruppo del Pasquino

La stessa contrapposizione, tra un personaggio stante e una figura ormai senza vita che egli cerca di sostenere, si ritrova in una lunga serie di copie romane, che possono essere fatte risalire a due modelli tra loro molto simili e con lo stesso ritmo: il primo rappresenta un eroe che trascina fuori dal campo di battaglia il corpo esanime di un altro eroe, tema assai noto all’epica; il secondo, rielaborando un vecchio modello ben noto anche nella pittura vascolare, rappresenta Achille che sorregge il corpo morente di Pentesilea. Appartengono al primo alcune celebri copie, come quelle oggi nella Loggia dei Lanzi (Fig. 8.38) e a Palazzo Pitti a Firenze, ma anche il torso tuttora esposto come ornamento di fontana presso piazza Navona, a Roma. 763

Quest’ultimo, noto con il nome di Pasquino e prediletto dal Bernini, è forse il più celebre dei «monumenti parlanti» ai quali venivano affisse le anonime proteste della Roma papalina. In questo tipo il corpo muscoloso, con tunica, elmo e scudo, e il capo che si protende fieramente, ornato di una folta barba, sono quelli di Menelao, che porta fuori dalla battaglia il corpo del giovane Patroclo, imberbe, totalmente abbandonato dalle forze come ben mostrano le gambe trascinate sul terreno, il braccio sinistro ricadente, la testa piegata in modo quasi innaturale all’indietro e verso il basso. Un episodio, dunque, ripreso dall’Iliade. Ma lo stesso tipo sembra essere stato utilizzato anche per altri eroi, e comparirà anche tra i gruppi di Sperlonga (si veda par. 9.2.5).

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Fig. 8.38 Gruppo del Pasquino, copia romana. Firenze, Loggia dei Lanzi.

L’accostamento al Galata suicida è veramente immediato: entrambi appartengono alla stessa tradizione e allo stesso periodo. Più difficile dire quale dei due sia stato fatto prima, e quindi abbia influenzato l’altro, anche se può sembrare più comune uno sviluppo per un tema mitico, e poi una traduzione per celebrare un avvenimento reale. 8.4.4 Il supplizio di Marsia

Rispetto ai gruppi qui ricordati, ha una composizione molto diversa, ma uno stile drammatico molto simile, un gruppo che conosciamo da molte copie e che rappresenta il supplizio di Marsia (Fig. 8.39). Le figure sono totalmente separate, ma la loro interdipendenza è mostrata da rilievi e monete. Il sileno è appeso per i polsi a un albero, dal quale pende senza potersi più opporre, con tutti i potenti muscoli allungati in senso verticale; solo il volto si contorce in una smorfia, mentre guarda la preparazione del suo supplizio. Dal basso volge verso di lui lo sguardo uno scita, indicato come tale dalla barbarica capigliatura, chino nell’affilare la lama con cui lo scuoierà vivo: sarà questa la punizione per aver osato sfidare nella musica Apollo e aver perso. Prima che fosse riconosciuta la loro appartenenza a uno stesso gruppo, le due statue ebbero una fortuna separata. In particolare fu molto apprezzato lo scita, che divenne celebre come «l’arrotino». Ne esistono anche delle più tarde versioni, in cui l’uso di marmi colorati accentuano la violenza della composizione.

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Fig. 8.39 Marsia e l’arrotino, copie romane. Rispettivamente: Parigi, Museo del Louvre e Firenze, Museo degli Uffizi.

È stato di recente proposto che questo gruppo non avesse solo un significato mitologico, ma che fosse stato creato per eternare un ben preciso avvenimento storico: la rivolta dell’usurpatore Acheo contro Antioco III, preso prigioniero a Sardi nel 213 a.C. e sottoposto dal vincitore a un atroce supplizio. L’ipotesi appare fortemente suggestiva, tenendo conto che il mito di Marsia si svolgeva proprio in questa regione, e che Antioco considerava Apollo il suo dio protettore. Il gruppo conterrebbe dunque un monito verso qualunque altro tentativo di sovversione. 8.4.5 Il Toro Farnese

Sempre alla celebrazione di motivi propagandistici è stato riportato anche l’originale di uno dei più grandi gruppi giuntici dall’antichità, il cosiddetto Toro Farnese (Fig. 8.40). 766

Si tratta di una copia romana in marmo, trovata nelle Terme di Caracalla a Roma, confluita poi nella collezione Farnese e ora nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’originale, in bronzo, doveva risalire al pieno Ellenismo, perché ne conosciamo numerose repliche nelle arti minori, a partire già dalla seconda metà del secolo II a.C., che ovviamente presuppongono la sua esistenza. Un’altra copia marmorea ne doveva essere già stata fatta in precedenza, perché venne vista da Plinio, che la dice opera di Apollonio e di Taurisco, portata via da Cassio a Rodi nel 42 a.C., e poi passata a Roma nelle collezioni di Asinio Pollione, per essere alla fine esposta dopo il 39 a.C. nell’Atrium Libertatis. Vi sono rappresentati i gemelli Anfione e Zeto, figli di Zeus e di Antiope, che legano Dirce, regina di Tebe, alle corna di un toro selvaggio: il supplizio doveva punirla delle ingiuste persecuzioni che aveva inflitto alla loro madre. L’ambientazione naturalistica, sulle rocce di una montagna, presso una fonte che da Dirce prenderà il nome, è tipica dell’ambiente rodio; essa permette anche una disposizione delle figure nello spazio secondo quell’andamento piramidale che abbiamo già visto in altri gruppi ellenistici.

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Fig. 8.40 Toro Farnese, copia romana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I corpi dei due eroi, di Dirce e del toro individuano altrettante linee ascensionali che culminano nella testa della bestia; questa torce il collo possente, ancora per un attimo trattenuta nel suo impeto dalla presa di Anfione. Una linea verticale la unisce alla sottostante testa della disperata regina, come presagio di ciò che sta per avvenire. Il groviglio di contrastanti movimenti confluisce in un’azione unitaria; tutto il mito si condensa, davanti agli occhi dello spettatore, in questo momento drammatico. Esce dal contesto la figura femminile che osserva la scena in secondo piano, che difatti si è potuto dimostrare essere un’inserzione del copista romano. Nonostante un tempo si sostenesse il contrario, il 768

gruppo non è fatto per una visione da un unico punto di vista: come in altri casi contemporanei, la libera immersione delle figure nello spazio lo rende leggibile, con particolari diversi, da più lati. Anche in questo caso viene dunque rappresentata la punizione divina, nella quale sta per incorrere chi si è macchiato di una grave colpa, con una drammaticità che riconnette strettamente la scena alla sfera mitica. Si sa però che il mito di Dirce trovò anche un uso propagandistico presso Eumene II e suo fratello Attalo, tramite la loro identificazione con Anfione e Zeto; compariva ad esempio nella decorazione del santuario che dedicarono a Cizico e alla loro madre Apollonide, tra il 184 e il 159 a.C. Sono anche noti vari interventi dei sovrani di Pergamo a favore di Rodi, a partire dal 180 a.C.; e tutto questo sembra rendere possibile una interpretazione politica del gruppo, come celebrazione di quest’amicizia tra i due grandi alleati di Roma nell’area egea, Pergamo e Rodi. È stato anche proposto che possa trattarsi di un monito fatto da Eumene e Attalo a chi fece soffrire Cizico, e con lei la loro madre; ma, come spesso accade, una più esatta decodificazione del messaggio simbolico di questa grande statua è oggi molto difficile. 8.4.6 Il Principe delle Terme

Oggi molti sono d’accordo nel vedere lo stesso Attalo in un enigmatico grande bronzo del Museo delle Terme a Roma, noto appunto come Principe delle Terme (Fig. 8.41). Era stato trovato in una cantina dell’Esquilino vicino alla statua bronzea di pugilatore, che ritroveremo più avanti, e che è certamente posteriore (Fig. 9.23). Si tratta di un giovane uomo, stante in nudità eroica, con il peso sulla gamba destra, appoggiato con la mano sinistra a una lancia; in chiastica corrispondenza della gamba sinistra, 769

abbandonata senza peso, egli lascia appoggiarsi la mano destra sul gluteo, in posizione di riposo. Nell’insieme, la postura richiama dunque quella dell’Alessandro con la lancia di Lisippo (Fig. 7.19). Il corpo è però estremamente muscoloso, con i muscoli esageratamente rigonfi. Rivolge leggermente a destra la testa, che è sicuramente un ritratto, caratterizzato dall’aggrottarsi della fronte sulle forti arcate sopraccigliari, dal naso piccolo e leggermente aquilino, dalla bocca tenuta semiaperta. La capigliatura è composta da corte ciocche dal forte chiaroscuro, la barba è resa a rapide incisioni fatte a bulino. Lo stile lo riporta indubbiamente ad ambiente pergameno della prima metà del secolo II a.C.; il richiamo ad Alessandro, unito alle dimensioni complessive della statua, alta 2,20 m, ha fatto quindi pensare a un principe pergameno. Tutti i dinasti ellenistici vengono però rappresentati con la sottile tenia che cinge loro il capo, simbolo del ruolo regale. In questo caso, essa manca. Di conseguenza, molti studiosi hanno preferito vedervi una delle prime rappresentazioni di un generale romano vittorioso, nei modi che sarebbero stati di uno dei dinasti sconfitti, secondo un’abitudine che prenderemo in esame più avanti. La somiglianza della testa con il ritratto di Attalo II, che ci è noto in vari esemplari, è comunque notevole, anche se potrebbe essere stata accentuata dalla bottega pergamena. Le fonti testimoniano però anche molte statue che rappresentavano Attalo II quando non era ancora re, e affiancava il fratello Eumene nel reggere lo stato. Potrebbe dunque trattarsi di questo principe della casa reale, non ancora re e quindi ancora senza tenia, forse rappresentato come Dioscuro accanto al fratello, secondo una propaganda per immagini che ci è ben testimoniata dalle fonti letterarie. In questo caso, la statua dovrebbe essere stata fatta attorno al 170 a.C. o poco prima, il che concorderebbe in pieno con gli elementi stilistici. 770

8.5 L’Altare di Pergamo 8.5.1 L’Altare

A Eumene II (197-159 a.C.) si deve la ristrutturazione dell’acropoli di Pergamo, con la costruzione di un muro di cinta e la creazione di una nuova terrazza, subito sotto a quella del santuario di Atena e ad essa collegata attraverso una serie di ambienti. Al centro di questa nuova terrazza il re fa costruire un gigantesco altare (Fig. 8.42), presto annoverato tra le meraviglie del mondo antico, e dedicato a Zeus e a Atena Niceforo, cioè portatrice di vittoria, perché celebrasse la potenza che il regno aveva raggiunto con le sue vittorie: ancora sui Galati, ma anche contro i regni vicini. Su un basamento quadrangolare di 36,40 × 34,20 m poggiavano cinque gradini, sui quali si elevava un alto zoccolo rivestito di marmo, che sorreggeva a sua volta lo spazio destinato ai sacrifici: qui era l’altare vero e proprio, cinto su tre lati da un portico ionico, che si prolungava verso occidente in due ali in modo da fiancheggiare la grande scalinata d’accesso; alla sommità, questa era messa in comunicazione, tramite un colonnato aperto, con lo spazio centrale, che si trovava così a essere totalmente compreso entro quattro lati di colonne. Dal punto di vista architettonico, l’altare rientra nel tipo del grande altare monumentale ellenistico, già utilizzato, ad esempio, per il nuovo Artemision di Efeso e a Magnesia. È però assolutamente eccezionale la decorazione: un grande fregio, alto 2,30 m, correva lungo tutto lo zoccolo, raffigurando su una lunghezza di oltre 120 m una colossale lotta tra dei e Giganti; un secondo fregio, di dimensioni minori (l’altezza era di 1,56 m) rappresentava sulle pareti interne del portico che davano sullo spazio centrale le 771

imprese di Telefo, mitico figlio di Eracle e progenitore della dinastia degli Attalidi; lo stesso altare superiore era riccamente ornato di statue, come pure i tetti dei porticati.

Fig. 8.41 Principe delle Terme. Roma, Museo Nazionale delle Terme.

L’altare fu abbandonato e in parte deturpato in epoca bizantina e i blocchi di pietra, le colonne e le lastre scolpite 772

furono reimpiegati come materiale da costruzione quando si dovette erigere un nuovo muro di difesa dell’acropoli. Gli scavi tedeschi della fine dell’Ottocento hanno recuperato molti dei marmi, in parte sul posto, talvolta reimpiegati nelle fortificazioni; tutta la facciata occidentale del monumento è stata poi ricostruita nel Museo di Berlino, dov’è tuttora esposta (Fig. 8.43), assieme alle sculture superstiti.

Fig. 8.42 Pergamo, pianta del grande altare. 8.5.2 Il grande fregio

L’intero fregio è certamente uno dei massimi capolavori dell’arte ellenistica, uno dei perni fondamentali per capirne lo sviluppo. L’intera cosmica lotta è colta in un unico momento e rappresentata attraverso singole monomachie che si succedono con ritmo serrato; in ciascuna, una o più divinità si trovano vittoriosamente opposte ad altrettanti giganti, spesso dalle caratteristiche mostruose, figli della terra e rappresentanti del caos. Ciascuno dei personaggi ha un nome, talora poco noto, ma tratto dai dotti scritti di teogonia e gigantomachia che si vanno scrivendo in quegli anni negli ambienti della biblioteca di Pergamo, diretta dalla grande erudizione di Cratete di Mallo. Attributi, o minori 773

particolari, richiamano continuamente a questi testi, così come i nomi, incisi sulle cornici del fregio. Tutto il fregio è pervaso da un drammatico movimento, che avvolge il tumultuoso ammassarsi dei singoli, vittoriosi duelli degli dei dell’Olimpo contro i mostruosi figli della terra, i Giganti, simboli del male. Il tema era stato più volte rappresentato nell’arte classica; qui acquista però una dimensione inusitata, spinta all’eccesso, per far sentire la grandiosa energia delle forze del caos primordiale contro le quali tutti gli dei dell’Olimpo devono combattere una lotta decisiva: le figure si affollano a riempire tutto lo spazio del rilievo, strabordando al di fuori del listello di base; soprattutto, la dimensione sovrumana del mito viene posta davanti allo spettatore con una continua, caratteristica esasperazione delle masse, dei movimenti, delle espressioni dei volti, che ha fatto nascere la definizione di «Barocco pergameno».

Fig. 8.43 Pergamo, grande altare, facciata ovest. Berlino, Pergamonmuseum.

Le divinità principali sono disposte sul lato orientale, quello opposto alla gradinata, che era però il primo ad essere visto da chi entrava nella piazza del santuario. Qui, le figure divergenti di Zeus e Atena costituiscono un voluto,

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immediato richiamo al più classico dei modelli, il Posidone e l’Atena del frontone occidentale del Partenone. Come nel Posidone partenonico, il possente busto del capo degli dei (Fig. 8.44) è rappresentato nudo, mentre la veste, cadendo da dietro la spalla sinistra, gli ricopre le gambe. Molto enfatizzati rispetto alla scultura fidiaca sono qui il turbinoso movimento delle vesti e lo spessore delle pieghe, più violento è il possente movimento diagonale del corpo, ancora più segnati ed esageratamente rigonfi sono i singoli muscoli del busto. Tutto è volto a impressionare lo spettatore con la visione dello scatenarsi di una sovrumana energia. Una terribile violenza si sprigiona anche dal netto divaricarsi delle diagonali disegnate dai corpi degli avversari: il primo, Porfirione, è inginocchiato a terra, mentre un altro mostro anguipede, raffigurato di spalle, col dorso muscoloso che disegna un movimento opposto a quello di Zeus, tenta invano di proteggersi dai colpi dell’aquila, forza del mondo animalesco naturale, intervenuta al fianco di Zeus.

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Fig. 8.44 Altare di Pergamo, grande fregio: Zeus. Berlino, Pergamonmuseum.

Alla sinistra di questo primo gruppo, senza soluzione di continuità nella narrazione figurativa, sta quello di Atena che abbatte Alcioneo (Fig. 8.45). Anche qui, i corpi dei contendenti si dispongono su diagonali fortemente divergenti; la dea afferra per i capelli il mostro alato (Fig. 8.46), che cerca scampo piegando il ginocchio destro verso la terra che l’ha generato, il cui contatto gli garantirebbe immortalità; il braccio destro è sollevato e bruscamente piegato per afferrare il braccio della contendente e cercare di allentarne la presa; tutto il corpo, dal braccio destro alla gamba sinistra, è teso in una possente diagonale, sottolineata dalle grandi masse dei muscoli rigonfi; un serpente l’avvolge nelle sue spire, e sta per addentarlo. La testa è rivolta verso l’alto, fortemente piegata verso sinistra e all’indietro; la bocca semiaperta e soprattutto gli occhi, ravvicinati, infossati sotto le potenti arcate orbitali e rivolti verso l’alto, le conferiscono un’espressione di intenso, disperato dolore, reso più drammatico dallo scomposto disporsi dei riccioli e incorniciato dalle voluminose piume delle ali. L’indagine dell’espressione dei volti, che già si era vista iniziare con Skopas e Lisippo, è qui spinta volutamente all’eccesso. Poco più a destra, emerge dal profondo la madre degli sconfitti, Ghe, la Terra: anch’essa volge al cielo gli occhi, profondamente infossati per aumentarne l’espressività, mostrando la palma sinistra e aprendo il braccio destro in un gesto di drammatica, plateale disperazione. Ma, sopra di lei, la figura alata di Nike, compagna di Atena come l’aquila lo era di Zeus, già vola, in un tumulto di penne e di panneggi, a incoronare la dea.

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Fig. 8.45 Alatre di Pergamo, grande fregio: Atena. Berlino, Pergamonmuseum.

Fig. 8.46 Altare di Pergamo, grande fregio: giganti, particolare. Berlino, Pergamonmuseum.

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Fig. 8.47 Altare di Pergamo, grande fregio: giganti e Artemide. Berlino, Pergamonmuseum.

Tutte le divinità dell’Olimpo intervengono nella lotta, tutte con pari vigore, sempre rappresentato con lo stesso stile concitato e corposo. La figura di Artemide (Fig. 8.47), ad esempio, nella parte meridionale dello stesso lato orientale, si lancia impetuosamente contro un nemico ancora lontano, calpestando il corpo di un altro avversario già abbattuto, con un movimento evidenziato dal violento aprirsi del panneggio. Presso di lei sembra emergere dal fondo il muso del cane che l’accompagna, e che azzanna alla nuca un gigante anguipede che, cercando invano di liberarsi, si piega verso terra. 8.5.3 Il fregio della Telefeia

Molto diverso, più vicino a modelli pittorici, appare invece il fregio minore, con le storie di Telefo (Fig. 8.48). Qui innanzitutto il rilievo è molto meno pronunciato, e i vari personaggi non riempiono tutto lo spazio, ma sono sovente disposti su diversi piani, mentre il fondo è riempito, 778

come nella pittura contemporanea, da elementi paesaggistici: lo si può vedere in una delle lastre più celebri (Fig. 8.49), con la rappresentazione di varie figure che si affollano alla costruzione dell’imbarcazione con cui Auge sarà abbandonata al mare, che, lasciate le coste del Peloponneso, la porterà a sbarcare in Misia, la regione a cui appartiene Pergamo. La stessa eroina appare seduta sulle rocce che costituiscono il paesaggio; accanto a lei, due ancelle le mostrano degli oggetti, grazie ai quali riconoscerà il figlio che le era nato da Eracle, Telefo, quando anche questi, divenuto ormai adulto, giungerà a sua volta in Misia. Altre lastre mostrano il collegamento tra quest’eroe e la regione di Pergamo: la sua difesa contro i Greci, guidati da Achille, che l’avevano attaccata credendo di trovarsi già nella regione di Troia; il ferimento di Telefo a opera dell’eroe tessalo; il viaggio di Telefo ad Argo, alla corte di Agamennone, alla ricerca di una guarigione dalla ferita, e il suo rappacificarsi con i Greci, che egli stesso condurrà sino alla Troade; infine, i funerali di Auge, o forse dello stesso Telefo. L’intero fregio voleva insomma testimoniare l’ascendenza divina degli Attalidi, attraverso appunto Telefo, loro progenitore e, in quanto figlio di Eracle, discendente diretto di Zeus. Contemporaneamente, voleva dimostrare l’antica origine dei loro rapporti, da una parte, con la Grecia, dall’altra con l’Asia, di cui avrebbero reclamato a buon diritto il possesso. Viene così narrata con le immagini un’intera saga; e per la prima volta episodi successivi, nei quali torna a comparire lo stesso personaggio, vengono collegati in un’unica narrazione, come sarà in seguito nel fregio storico romano.

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Fig. 8.48 Altare di Pergamo, piccolo fregio: Telefo. Berlino, Pergamonmuseum.

L’intero grande altare costituisce per noi un episodio fondamentale dell’arte ellenistica, posto a metà del suo sviluppo. Sulla sua collocazione cronologica si impernia dunque quella di molti altri monumenti, soprattutto di questa fase centrale dell’Ellenismo. La sua costruzione è concordemente attribuita a Eumene II (197-159 a.C.), ed è certamente posteriore alla battaglia di Magnesia del 190 a.C., che segna il momento di maggior successo del regno pergameno. Si è rimasti però a lungo incerti sulla sua datazione precisa; ma i frammenti ceramici trovati negli ultimi anni nelle fondazioni dell’altare hanno potuto dimostrare che esso fu iniziato dopo le vittorie contro i Galati del 168-165 a.C. Alla morte di Eumene II, nel 159 a.C., non doveva essere ancora finito; fu completato solo il grande fregio, mentre quello di Telefo rimase, ed è tuttora, in parte incompiuto. Con questa collocazione a dopo la battaglia di Pidna, al tempo del raffreddamento dei 780

rapporti tra Pergamo e Roma, risulta più chiaro l’elemento filellenico e antiromano che era stato da tempo individuato nella rappresentazione tipicamente greca della gigantomachia. L’esecuzione del grande fregio richiese certamente l’intervento di numerose maestranze, che lavorarono però all’interno di un unico linguaggio stilistico; e per il formarsi di questo è stata di recente rivalutata l’importanza dello scultore ateniese Firomaco. Egli era stato chiamato dagli Attalidi per realizzare la statua di culto di Asklepios, collocata a Pergamo in un tempio dorico che fu iniziato nel 172 a.C. ma poi subito distrutto nel 155 dal re di Bitinia Prusa II, come narrano Polibio e Diodoro, per esser poi trasformato da Attalo II attorno al 150 a.C. nel tempio R del ginnasio superiore. Tra il 180 e il 170 a.C. va quindi posto l’arrivo di Firomaco a Pergamo. L’immagine del dio è stata riconosciuta, sulla base del confronto con monete pergamene, nella testa di Siracusa di cui si è già parlato (Fig. 8.17). Lo sguardo reso più intenso dagli occhi infossati nelle orbite e spinti verso l’alto, le ciocche rigonfie e scompigliate della barba e dei capelli, la drammatica plasticità dell’insieme richiamano effettivamente da vicino lo stile della grande gigantomachia.

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Fig. 8.49 Altare di Pergamo, piccolo fregio: Auge. Berlino, Pergamonmuseum.

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9 Dal medio Ellenismo all’intervento di Roma (dopo la metà del secolo II a.C.) GIORGIO BEJOR

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9.1 Il trionfo di Roma e la fine dell’Ellenismo Nel 168 a.C., dopo la disfatta subita a Pidna dalle legioni di Paolo Emilio, la Macedonia è il primo dei grandi regni ellenistici a cadere sotto Roma. Lo stesso re Perseo viene condotto prigioniero a Roma. Nel contempo, anche Pergamo e la recalcitrante Rodi devono rientrare definitivamente nella sua orbita. Una lega delle città greche viene disfatta nel 146 a.C. e la città che ne è a capo, Corinto, rasa al suolo. Come Cartagine, distrutta nello stesso anno, sarà ricostruita da Cesare solo un secolo dopo. Roma può ormai imporsi nelle interminabili contese interne tra regni ellenistici. Nel 133 a.C. l’ultimo re di Pergamo, Attalo III, morendo senza eredi, sceglie come male minore di nominare come suo successore il popolo romano. La rivolta che ne segue dura cruentissima tre anni, che segnano il definitivo tramonto della città. Mercanti, pubblicani, amministratori romani possono scorrazzare indisturbati per tutta l’Asia. Le spaventose condizioni dell’Asia provocano un afflusso di schiavi verso l’Italia, spesso attraverso Delo, senza precedenti. Cominciano a risentirne negativamente gli agricoltori italici, non più in grado di opporsi al passaggio verso una produzione schiavistica, supportata da un enorme numero di schiavi a prezzi bassissimi. I sentimenti di rivolta del mondo greco contro Roma e i suoi rappresentanti trovano un ultimo paladino nel re del Ponto, Mitridate VII. È una guerra estremamente sanguinosa, che comincia nell’88 a.C. con l’assassinio di decine di migliaia di Italici residenti in Oriente, e vede il saccheggio di Atene operato da Silla, la scomparsa di Delo razziata prima da Mitridate e poi dai pirati cilici. Alla fine,

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Mitridate viene sconfitto da Lucullo e da Pompeo, e anche i suoi regni diventano province romane. Le spedizioni dello stesso Pompeo contro i pirati di Cilicia e contro il re d’Armenia, Tigrane, che aveva occupato la Siria, fanno sì che nel 66 a.C. anche Antiochia passi a Roma e, con essa, l’ultimo lembo del regno seleucide. Le ultime fasi delle guerre civili sono in parte combattute in Oriente, dove portano altre distruzioni: lotte tra Cesare e Pompeo, poi contro gli uccisori di Cesare, infine tra Ottaviano e Marco Antonio. Anche l’Egitto ne è travolto; con la battaglia di Azio, che nel 31 a.C. segna la fine di Marco Antonio e di Cleopatra VII e l’annessione a Roma dell’ultimo erede della compagine di Alessandro, il regno tolemaico, si fa tradizionalmente finire l’Ellenismo.

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9.2 La tradizione del «Barocco pergameno» 9.2.1 Il «Barocco pergameno»

Lo stile magniloquente e drammaticamente teatrale che si era andato sviluppando a Pergamo a partire dal grande Donario gallico di Attalo I e aveva avuto nel grande fregio dell’altare di Eumene II una sorta di manifesto, viene solitamente detto «Barocco pergameno» per la sua somiglianza con lo stile sviluppatosi a Roma a partire dagli inizi del Cinquecento. Stesso gusto per l’esasperazione dei gesti, l’esagerazione delle masse che danno luogo a violenti chiaroscuri, per la scelta di motivi e di momenti che potessero particolarmente impressionare lo spettatore con la loro drammaticità, rimanendogli impressi. È stato spesso anche detto che non è lecito chiamare uno stile con un nome preso da un’altra epoca, nella quale diversi erano i presupposti e anche i contenuti; eppure l’accostamento sembra particolarmente calzante, tanto più che il riemergere, attraverso copie romane, dei capolavori pergameni di 1700 anni prima influenza grandemente il sorgere del Barocco post-rinascimentale in modo diretto: Michelangelo ammira particolarmente il Torso del Belvedere (Fig. 9.4); i Sangallo e altri il Laocoonte (Fig. 9.3); moltissimi disegnano sia questi che i caduti del cosiddetto Piccolo Donario, prendendone ispirazione. Quello pergameno è insomma uno stile capace di influenzare un’epoca tanti secoli dopo la sua creazione. Circoscritto però nella capitale del regno attalide, stile tipicamente aulico e di corte, non dura a lungo. L’annessione di Pergamo nei domini romani, nel 133 a.C., cioè una sola generazione dopo la costruzione dell’ara, ne segna certamente la fine, tanto che a Pergamo crolla tutta la 786

produzione statuaria. Lo stile non riprende più l’antico vigore nemmeno con la grande rinascita dell’Asia Minore nel II secolo d.C., per quanto, come si vedrà più avanti, alcuni pensino che sia stato fatto momentaneamente rivivere da artisti eclettici di Rodi alla fine della Repubblica, o nel primo periodo imperiale. 9.2.2 Il Piccolo Donario

Un gruppo di celebri sculture va accostato all’ambiente che crea il grande fregio dell’altare. Tra queste io credo si debba comunque annoverare il cosiddetto Piccolo Donario pergameno (Figg. 9.1, 9.2). Pausania, nella sua narrazione dell’Acropoli di Atene, parla anche di un monumento, fatto erigere da re Attalo, che rappresenta con parecchie statue le guerre contro i Giganti, le Amazzoni, i Galati e i Persiani. I recenti scavi sull’Acropoli ne hanno confermato la grandiosità, portandone alla luce le quattro lunghe basi, allungate a partire dallo spigolo sud-orientale del Partenone. Secondo le diverse ricostruzioni, doveva comprendere probabilmente 56 statue, ma forse anche di più. Le statue, come ricorda lo stesso Pausania, erano però alte solo 2 cubiti, cioè due terzi del naturale, ed è per questo motivo che un monumento lungo quasi 50 m prese curiosamente il nome moderno di Piccolo Donario. Grazie al soggetto e alle particolari dimensioni, alcune delle sculture sono state riconosciute da tempo in una serie di copie romane tutte rappresentanti caduti, conservate oggi in vari musei, dal Louvre agli Uffizi a Venezia, ma tutte provenienti da Roma. Il gruppo doveva però presentare non solo vinti, ma anche vincitori; perciò a un nucleo tradizionale di dieci statue ne sono state accostate di volta in volta molte altre, tutte caratterizzate dalle ridotte dimensioni.

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Fig. 9.1 Piccolo donario pergameno: gigante caduto, copia romana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 9.2 Piccolo donario pergameno: galata caduto, copia romana. Venezia, Museo Archeologico.

Restano aperti molti problemi, non solo sull’esatta composizione. Il più grave e dibattuto è forse quello della datazione. Pausania infatti non precisa a quale Attalo si deve questo ingombrante regalo: se ad Attalo I, che fece fare sicuramente a Pergamo il primo donario gallico, o Attalo II, quello che regalò ad Atene la stoà oggi ricostruita sul lato est dell’Agorà. Il problema non è di secondaria importanza, perché in base alla risposta la datazione di questo donario varia, e di molto: alla fine del secolo III a.C., quando Attalo I strinse ad Atene i suoi rapporti con Roma, in occasione della sollevazione delle città greche contro il re di Macedonia Filippo II; o dopo il 159 a.C., quando Attalo II salì al trono. La prima risposta è in genere preferita per 788

motivi storici, cioè per il peso che il re Attalo cominciò allora ad avere ad Atene. La seconda, per motivi stilistici. Il gruppo appare infatti una serie di citazioni di motivi delle varie fasi della produzione pergamena, dal grande Donario gallico (ad esempio i caduti che cercano disperatamente di rialzarsi) al grande fregio dell’altare, come la testa del gigante morto. In questo caso, ovviamente, il gruppo va datato a dopo il monumento più recente tra quelli citati, che sembra essere il grande altare. Non si tratterebbe dunque di un precursore della grande generazione del Barocco pergameno che porta poi al grande fregio dell’ara, ma di uno dei primi segnali del grande impatto che questo colossale monumento avrà nell’arte della generazione immediatamente successiva. 9.2.3 Il Laocoonte

Molto ruota attorno a una delle statue più celebri e più discusse, il Laocoonte dei Musei Vaticani (Fig. 9.3a). Venne alla luce a Roma il 14 gennaio 1506 in un sotterraneo di quelle che erano state le Terme di Tito, presso la Domus Aurea. Vi fu subito riconosciuta la statua di Laocoonte con i figli e i mirabili grovigli delle spire dei serpenti che Plinio cita, dicendo che era nella casa dell’imperatore Tito, e che era un’opera che andava anteposta a qualsiasi altro capolavoro in pittura o in bronzo, fatta in un unico marmo da tre scultori di Rodi che lavoravano assieme, Agesandro, Polidoro e Atanodoro.

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Fig. 9.3a Laocoonte. Roma, Musei Vaticani.

Vi è dunque rappresentata la morte di Laocoonte, sacerdote troiano che si opponeva a che il cavallo lasciato dai Greci fosse condotto entro alle mura di Troia, e per questo, come narra anche Virgilio nell’Eneide, fu stritolato da due mostruosi serpenti usciti dal mare. Ancora seduto sull’altare, spoglio del tutto delle vesti, il suo corpo muscoloso disegna una grande diagonale che, iniziando con la possente gamba sinistra tesa a cercare un sostegno, continua con il torso dai muscoli rigonfi e dalla linea alba profondamente disegnata e con il braccio destro che si protende; ma il gomito improvvisamente si piega all’indietro, come pure bruscamente è strappata all’indietro 790

la testa, in un tentativo di fuga dal morso del serpente, invano frenato con l’avambraccio destro. Le grosse ciocche di capelli dai profondi chiaroscuri avvolgono il volto contratto, lo sguardo rivolto all’insù, la bocca aperta in una disperata smorfia di dolore (Fig. 9.3b). Il corpo è ormai avvolto dalle spire, e anche lo sforzo del braccio sinistro, che cerca di liberarsi, sembra ormai vinto.

Fig. 9.3b Laocoonte, particolare. Roma, Musei Vaticani.

Sulla sinistra e sulla destra anche i due figli di Laocoonte, giovinetti rappresentati di diversa età, sono preda delle spire dei mostri. L’insieme si dispone dunque in uno spazio triangolare più che piramidale, quasi appiattito contro un fondale. Il figlio di sinistra, il più piccolo, reclina ormai la testa all’indietro, incapace di opporsi, senza più poter sperare nell’aiuto paterno. Quello di destra sembra invece riuscire a liberarsi le gambe dalle spire del serpente, che ancora gli avvinghiano il braccio destro: forse sarà l’unico 791

che riuscirà a salvarsi, come riportato in una versione secondaria della guerra di Troia. Insuperabile capolavoro lo dice Plinio, e insuperabile capolavoro parve nella Roma del primo Cinquecento. In tempi più recenti, i critici si sono nettamente divisi in due filoni: gli uni, partendo dal passo pliniano, lo ritengono un capolavoro originale dell’ultimo Ellenismo, creato a Rodi nel corso del secolo I a.C. da tre artisti eclettici che si ispirarono strettamente alle creazioni di una scuola pergamena ormai scomparsa; gli altri, considerandolo eseguito da autori rodii in stile perfettamente pergameno, lo credono una copia di età romana fatta da tre ottimi copisti di Rodi, Atanodoro, Agesandro e Polidoro, appunto, replicando un originale bronzeo di poco posteriore all’ara di Pergamo, al cui Alcioneo (Fig. 8.46), che volge all’indietro la testa strappata per i capelli dalla mano di Atena che lo vuole sollevare da terra, chiaramente si ispira. Del resto non è affatto raro che una copia romana venga firmata da chi l’aveva materialmente fatta, considerandola un nuovo originale a tutti gli effetti. Parleremo tra poco di un esempio che coinvolge gli stessi autori. Di sicuro, Atenodoro, Polidoro e Agesandro furono grandi artisti, dotati di tecnica eccezionale: da qui forse l’idea di esaltare il fatto che il Laocoonte sarebbe stato tutto d’un marmo. Del resto, lavorarono probabilmente per la massima committenza, la corte imperiale. A loro però non veniva richiesta, come forse faremmo noi oggi, originalità tipologica. Anzi, è più probabile che venisse loro chiesto di far rivivere nel marmo l’arte dei dinasti pergameni. 9.2.4 Il Torso del Belvedere

Del cosiddetto Torso del Belvedere (Fig. 9.4) si hanno notizie come visibile a Roma almeno dal 1430. Si tratta del solo torso di una possente figura virile, ormai privata della 792

testa, delle braccia e delle gambe da sopra il ginocchio in giù, seduta su una pelle ferina gettata su una roccia. A dispetto di questo suo stato così frammentario di conservazione, è sempre stato una delle statue ellenistiche più celebri e ammirate. Attorno ad esso, sono nate convinzioni e leggende, ad esempio riguardo alla predilezione che ne avrebbe avuto Michelangelo. Da quando poi il Laocoonte è stato scoperto, non è mai sfuggita la grande somiglianza, non solo stilistica, di questo torso con la figura del sacerdote troiano, che ha la stessa posizione della parte inferiore del corpo, con quella muscolatura delle gambe in turgida tensione che sottolinea l’estrema concentrazione del momento, per poi trovare riscontro nell’esagerazione dei singoli muscoli rigonfi del tronco. È diverso invece il ritmo con cui si sviluppa la parte superiore della figura: nel Laocoonte la potente diagonale della gamba sinistra continua nella linea alba, che va a inarcarsi, a causa della brusca sterzata del collo e del capo, strappato all’indietro e verso sinistra; nel Torso del Belvedere, invece, tutto l’addome segue un arco opposto, come per andare a rinchiudersi in avanti concludendosi con il movimento della testa, ancora verso sinistra, come mostrano i pochi resti del collo.

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Fig. 9.4 Torso del Belvedere. Roma, Musei Vaticani.

Ancora incerto è cosa rappresentasse originariamente questa statua. A causa della muscolatura e della pelle ferina, per secoli vi è stato visto un Eracle in riposo, più o meno da identificarsi con un’omonima opera di Lisippo. Alcune attente osservazioni condotte su come sono rappresentate le spoglie dell’animale, in particolare sulla forma della coda e sulla mancanza di una vera e propria criniera, hanno poi fatto pensare che l’animale scuoiato fosse piuttosto una pantera; si è quindi preferito vedervi un personaggio del tiaso bacchico, o forse un Marsia, tanto più che un foro praticato per l’innesto di un elemento bronzeo poco sopra al coccige ha fatto pensare a un innesto per saldarvi la tipica coda di un fauno. L’identità della posizione con il Telefo rappresentato sul piccolo fregio dell’ara di Pergamo, mentre afferra con la sinistra il piccolo Oreste e minaccia di ucciderlo se non lo si guarirà della ferita infertagli da 794

Achille, riconduce comunque ad ambiente pergameno. Lo stesso può dirsi, ancor più chiaramente, per lo stile, che lo avvicina sia al Laocoonte che ai possenti corpi dei giganti del grande fregio. Una difficoltà parrebbe presentarsi per il fatto che sul davanti della base su cui il torso è seduto si legge oggi un’iscrizione, con la quale si dice autore della statua un Apollonio, figlio di Nestore, di Atene. Questo ha fatto anche pensare, come nel caso del Laocoonte, a una copia romana da un originale pergameno, fatta da un copista, o comunque uno scultore di un’altra città. L’epigrafe sembra però essere un falso del 1600: compare infatti ben nitida nel disegno che Rubens trasse probabilmente attorno al 1602, e poi sempre nelle immagini successive; ma non compare affatto nei disegni più antichi, nemmeno nei più accurati, né nelle numerose descrizioni che furono fatte del pezzo. 9.2.5 Sperlonga

A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, gli scavi nella grotta di Sperlonga hanno aggiunto alle nostre conoscenze della scultura dell’avanzato Ellenismo un nuovo gruppo di impressionanti sculture. Presso Sperlonga, sulla costa del Lazio meridionale, si apre infatti direttamente sul mare una grande caverna naturale che era stata artificialmente adattata come ninfeo di una villa romana che sorgeva nelle immediate vicinanze. È proprio da questa caverna, in latino spelunca, che l’odierna cittadina ha tratto il nome. Il mare, che ne lambisce l’enorme ingresso, fu fatto entrare artificialmente nella caverna con la costruzione di un primo bacino, che dava poi in un’ampia vasca circolare ancora più interna (Fig. 9.5). Al centro del bacino d’ingresso era lasciata una sorta di piccola isola rettangolare destinata ai banchetti. Era questa la grotta appartenuta all’imperatore 795

Tiberio, descritta da Tacito perché nel 23 d.C. parte del soffitto crollò, e lo stesso imperatore rischiò di rimanervi ucciso. Tutto l’insieme doveva essere riccamente decorato di sculture, che furono volutamente fatte in migliaia di minuti pezzi nella tarda antichità e buttati poi nelle vasche, dove furono ritrovati negli scavi degli anni Cinquanta. Il lavoro di ricomposizione non è stato facile, ma ha dato un’idea sufficientemente precisa della decorazione scultorea nel suo insieme.

Fig. 9.5 Grotta di Sperlonga, ricostruzione.

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Fig. 9.6 Gruppo di Scilla. Sperlonga, Museo.

Al centro della vasca circolare, su di un’isoletta artificiale che fungeva da sostegno, troneggiava nella penombra un colossale, terrificante gruppo di Scilla (Fig. 9.6). Così come lo descrivono le fonti letterarie, il mostro emerge dalle acque, simile a una donna dall’inguine in su, e assale la nave di Odisseo, brandendo come arma il timone. Il timoniere, caduto sulla prua, cerca disperatamente di sfuggirle aggrappandosi alla nave, ma Scilla l’ha già afferrato con la destra per i capelli e sta per trascinarlo tra i flutti, dove altri compagni di Odisseo sono ormai preda delle teste canine che le spuntano dalle pinne del ventre. La testa del timoniere ricorda, nella sua patetica espressione, quelle dei due figli del Laocoonte (Fig. 9.3a), i cui corpi richiamano, nel tentativo di divincolarsi dalle spire dei serpenti, i corpi dei Greci, caduti ormai preda di questo mostro marino. Nei salienti tra le due vasche, due gruppi scultorei 797

rappresentavano, l’uno, un eroe che ne trascina un secondo fuori dal campo di battaglia, secondo il tipo del cosiddetto Pasquino, qui interpretato come Odisseo che regge il corpo di Achille; l’altro, il ratto del Palladio, cioè il furto dell’antica statua di Atena da Ilio (Troia), operato da Diomede e da Odisseo. Oltre la vasca circolare, sul fondo della caverna, un piedestallo ospitava il gruppo più colossale. Dominava l’insieme il corpo del ciclope Polifemo (Fig. 9.7), steso su una roccia, addormentatosi per il troppo vino bevuto, il gran corpo disteso obliquamente, il capo abbandonato all’indietro. Ne sono stati rinvenuti solo alcuni pezzi, tra i quali la grande gamba muscolosa che, come il Laocoonte o l’Alcioneo o il Torso del Belvedere, inizia una potente diagonale che percorre l’intera composizione: quasi un marchio di fabbrica. Alla sua sinistra, i compagni di Odisseo spingono in direzione del suo unico occhio il palo appuntito; lo stesso Odisseo dirige il colpo con entrambe le mani, stando all’apice della piramide disegnata dall’insieme delle figure. Dell’eroe abbiamo la testa (Fig. 9.8), coperta dal caratteristico pileo, il copricapo del navigante. L’espressione è resa ancora più intensa dall’approfondimento delle orbite, la concentrata profondità dello sguardo, l’irrigidirsi di tutti i muscoli del viso, dalla bocca semiaperta nella tensione del momento. Una testa che sotto molti aspetti richiama quella del Laocoonte del Vaticano (Fig. 9.3b).

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Fig. 9.7 Gruppo di Polifemo. Sperlonga, Museo.

Tutto il gruppo è teso nell’esecuzione dell’azione: l’accecamento dell’essere mostruoso. Sulla destra, il compagno che aveva portato l’otre sembra ritrarsi, atterrito dalla drammaticità dell’evento, come indicano il sollevarsi del braccio, quasi a proteggersi dalla visione di ciò che si sta compiendo, e il volgersi repentino della testa, dall’espressione atterrita. Per questo ciclo di sculture, che Tiberio volle accompagnasse i suoi banchetti, è stata usata la felice definizione di «Odissea in marmo». In tutti i casi, siamo abbastanza sicuri che ci troviamo di fronte a copie marmoree: il Pasquino, la Scilla, il Polifemo seguono modelli ben attestati anche prima. In più, c’è nella Scilla un largo uso di puntelli, che generalmente caratterizza le copie marmoree di originali bronzei.

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Fig. 9.8 Testa di Odisseo. Sperlonga, Museo.

Ma c’è dell’altro: sul banco dei rematori del gruppo della Scilla c’è la firma degli scultori: gli stessi Agesandro, Atanodoro e Polidoro di Rodi, che secondo Plinio avevano scolpito il Laocoonte. E che, qui a Sperlonga, firmano una copia. Come stile, ma anche come scelta di contenuti, non ci sono dubbi: tra tutte queste sculture e la grande ara di Pergamo c’è una stretta parentela, siano esse copie di originali creati in una generazione felice, o siano esse rielaborazioni in altri luoghi e in altri tempi di uno stile ormai estraneo.

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9.3 La scultura del medio e tardo Ellenismo 9.3.1 Una pluralità di produzioni

I decenni che vedono l’annichilimento a più riprese della Macedonia, dall’inizio dell’intervento romano, attorno al 220 a.C., alla battaglia di Pidna del 168 a.C., con conseguente eclissi politica di Rodi e in parte di Pergamo, e la riduzione a provincia del 148 a.C., fino poi al sacco di Corinto del 146 a.C., con le migliaia di statue portate a Roma da Mummio, non sono certo per la Grecia momenti felici. Pure, il mondo ellenistico è sempre più caratterizzato dalla pluralità dei centri di produzione, con la conseguente possibilità di avere contemporaneamente stili diversi nelle officine delle diverse città. Questo rende impossibile seguire un ordine strettamente cronologico per la scultura ellenistica nel suo insieme, e induce piuttosto a considerare la nascita e lo sviluppo di singole tendenze, che si intrecciano tra di loro. Quello che in un certo modo può accomunare molta di questa produzione, appartenente agli stessi anni in cui, attorno alla corte di Pergamo, le glorie dinastiche vengono celebrate dal magniloquente stile «Barocco», è la scelta di generi che potremmo definire «d’evasione». Si tratta di un’evasione dalla difficoltà del momento, tipica, come lo è stata nel nostro Rinascimento, delle corti; ma anche di un distaccarsi dalla realtà da parte dei ceti più fortunati, in un Ellenismo che sempre più vede ampie fasce di diseredati. 9.3.2 Immagini di genere e realismo bozzettistico

Soprattutto nell’ambiente della corte alessandrina, il gusto per il curioso, il sorprendente, il diverso, che caratterizza molta produzione artistica del medio Ellenismo, 801

sembra sposarsi con l’enciclopedismo e l’attenzione all’esotico. Nascono curiose creazioni di esseri deformi, ispirate da descrizioni di genti lontane, ma anche dall’osservazione delle miserie del popolo. E nascono anche riproduzioni di popolani, di diseredati. Abbiamo più copie di una statua che raffigura un vecchio, che procede piegandosi in avanti, parzialmente coperto da un trasandato mantello, mentre con la sinistra tiene un cesto per il pesce (Fig. 9.9). La testa, coperta da un pesante cappello dalla foggia popolaresca, sembra quella di un vecchio poeta, con gli occhi infossati e una barba disordinata; ma la pelle avvizzita gli ricade sullo scarno petto e ai lati dell’addome, lasciati scoperti, come veristico segnale di un’età che va in direzione opposta all’ideale di bellezza. Lo stesso tema si ritrova anche in altre creazioni, mostrando il successo di una rappresentazione che anche i confronti con i ritratti portano alla fine del III o alla prima metà del secolo II a.C. Viene invece riferito generalmente ad ambiente microasiatico un capolavoro del realismo ellenistico di genere bozzettistico, la vecchia ubriaca (Fig. 9.10), di cui si hanno repliche nella Gliptoteca di Monaco di Baviera e nei Musei Capitolini. La vecchia siede a terra, con le gambe incrociate, stringendo a sé con entrambe le braccia, in un gesto bramoso, una grossa fiasca da vino. Il capo è lasciato cadere all’indietro, gli occhi spalancati; con lo sguardo sembra rivolgersi verso l’imprevisto passaggio dello spettatore. La bocca si apre in un ghigno che l’avvicina alle rappresentazioni delle menadi e ancor più dei satiri; ma alla rappresentazione della sfera del vino si intreccia qui quella, così esasperata da divenire più macchiettistica che verista, della vecchiaia, resa evidente dal disfacimento delle masse carnose, che fa sì che la pelle penda in lunghe pieghe dalla sottostante ossatura, portando in superficie gli zigomi, il 802

mento, le clavicole. La fiasca che stringe a sé ha un nome preciso, lagynos, che ci riporta al nome delle feste in onore di Dioniso che si tenevano ad Alessandria alla fine del secolo III a.C., e una forma che, come il modo di portare il fazzoletto annodato alla sommità della testa, si può riferire alle produzioni della stessa epoca. Il riferimento all’Asia Minore sembra invece derivare da un passo di Plinio, che cita una «vecchia ubriaca di Smirne», attribuendola però a Mirone, quindi al secolo V a.C. Certamente questa non può essere la datazione della statua che conosciamo. Piuttosto sembra convincente una recente ipotesi, che parte da un epigramma ellenistico ove si canta di una vecchia bevitrice di Efeso a nome Maronide, nome derivato probabilmente da quello di Marone, il sacerdote che diede a Odisseo il vino per far addormentare Polifemo. Si è così supposto un errore nella fonte di Plinio, che avrebbe letto Myronis, al genitivo, anziché Maronis, al nominativo. L’accostamento agli epigrammi, che conobbero grande successo proprio in età ellenistica, soprattutto nella Ionia, è tutt’altro che arbitrario: per la loro immediatezza e per la possibilità che davano all’artista di cogliere un momento nell’ambito delle più diverse situazioni e di esercitare così la propria arguta osservazione, gli epigrammi sembrano essere veramente il corrispettivo letterario di questo genere di rappresentazioni.

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Fig. 9.9 Vecchio pescatore. Roma, Museo dei Conservatori.

Del resto, il gusto per il diverso, per l’esotico, non può essere limitato solo all’Egitto tolemaico. L’abbiamo già visto affiorare nelle teste dei Galati dei donari pergameni. Ma, a distanza di tempo, lo ritroviamo anche in una piccola figura bronzea di fantino, recuperata assieme all’allungato corpo del cavallo dal relitto del Capo Artemision (Fig. 9.11), lo stesso dal quale proviene il cosiddetto Posidone, o meglio Zeus, di età severa (Fig. 4.34). I capelli a ciocche scomposte, 804

il naso camuso, le labbra rigonfie lo indicano come un piccolo personaggio di razza nera. Sembra però improbabile che, come spesso si dice, si volga verso altri concorrenti di una corsa: l’atteggiamento è piuttosto quello tipico di una caccia. Il suo piccolo corpo contrasta con le dimensioni del cavallo, lanciato al galoppo, che ricorda piuttosto gli slanci diagonali delle figure della fine del secolo. In questo caso, proprio l’insieme di tradizioni diverse induce ad accettare la datazione tradizionale alla metà del secolo II a.C.

Fig. 9.10 a,b Vecchia ebbra. Monaco di Baviera, Gliptoteca.

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Fig. 9.11 Fantino del Pireo. Atene, Museo Archeologico Nazionale. 9.3.3 Le Muse

In questo periodo, dunque, il desiderio di sfuggire alle difficoltà del presente diventa ancor più esteso ed evidente. Dopo la distruzione di Corinto e la definitiva annessione romana della Grecia, ma forse già qualche anno prima, inizia quel fenomeno artistico che Bernard Andreae ha chiamato con felice sintesi «L’età del ritrarsi dell’arte nella sfera privata: le muse, l’amore, il vino». Questi soggetti saranno sempre più amati, già dunque contemporaneamente alle ultime creazioni del Barocco ufficiale a Pergamo. La sempre maggiore attenzione volta alle arti si evidenzia nella comparsa di innumerevoli rappresentazioni delle Muse, che ne costituiscono le personificazioni. La serie più celebre è quella esposta nel Portico di Ottavia a Roma, che la tradizione attribuisce a Filisco di Rodi, che l’avrebbe creata probabilmente poco prima del 150 a.C. Ma le varie serie di Muse che ci sono giunte non presentano mai gli stessi tipi, ad eccezione di tre o quattro casi di particolare fortuna; e questa variabilità dimostra come nascessero di continuo modelli nuovi. 806

All’opera di Filisco vengono comunque tradizionalmente ricondotte le figure che compaiono su un rilievo di ridotte dimensioni, scolpito all’incirca una generazione dopo e firmato da un Archelao di Priene (Fig. 9.12). La scena si svolge su più registri, uniti da uno stesso ambiente montuoso. Nel registro più in basso è rappresentata l’apoteosi di Omero, alla presenza di sovrani e di varie personificazioni, tra le quali, accanto al trono, quelle dell’Iliade e dell’Odissea: i motivi per cui ora è elevato tra gli dei. In mezzo, un altare sottolinea la sacralità della cerimonia, mentre i nomi di ciascuna figura sono indicati in minute lettere sui listelli.

Fig. 9.12 Rilievo di Archelao con l’apoteosi di Omero. Londra, British Museum.

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Fig. 9.13 Polimnia, copia romana. Roma, Museo Nuovo Capitolino.

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Fig. 9.14 Cleopatra e Dioscuride. Delo, Museo Archeologico.

Nei due registri superiori si dispongono nove figure femminili, dominate dalla loro guida, l’Apollo Citaredo, qui anche nella tipica funzione di Musagete, o conduttore delle Muse. Subito accanto a lui si vede una statua, indicata come tale dall’alto basamento su cui si trova, in posizione separata, accanto allo spigolo destro della lastra: rappresenta con ogni verosimiglianza lo stesso dedicante del rilievo, onorato con una statua per una sua qualche benemerenza nei campi protetti dalle Muse. Le nove figure femminili danno allo scultore l’occasione di variare posizione e uso dei panneggi, talora pesanti, talaltra trasparenti, in un gioco accademico che si rifà di volta in volta a modelli tradizionali. Gli archetipi sono spesso nelle grandi creazioni del secolo IV a.C.; la stessa bottega di Prassitele contribuisce alla loro diffusione, come sappiamo dalla base di Mantinea (Fig. 6.27). Sembra che, di volta in volta, le singole botteghe vogliano variare le loro fonti di ispirazione, talora anche componendole; e questo può essere considerato uno dei motivi per cui non ci sono rimaste delle serie di Muse con le stesse figure. Tra i tipi che hanno comunque un successo tutto particolare, c’è la cosiddetta Polimnia, che compare quasi al centro del rilievo di Archelao, e abbiamo anche in numerose statue a tutto tondo. Se ne può ricordare, come esempio tra i più noti, la copia dei Musei Capitolini (Fig. 9.13): la figura femminile è anche qui avvolta in un pesante mantello, ma la concentrazione si fa tale che, dimentica delle compagne, ruota su se stessa, e appoggia i gomiti a un sostegno esterno, alzando inoltre l’avambraccio sinistro, in modo da poter così dare un appoggio alla testa, perduta nei suoi pensieri. Anche la creazione di questo tipo è anteriore al rilievo di Archelao:

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come in altri casi di Muse, va inquadrato piuttosto all’interno della scuola che nasce da Prassitele. Poco dopo gli anni in cui Archelao riassume molte di queste creazioni nella sua apoteosi di Omero, i tipi ormai canonici delle figure panneggiate femminili cominciano a diffondersi anche nell’ambito familiare: sono divenuti un simbolo che indica con immediatezza la virtù, il livello civile e intellettuale della persona rappresentata. Le celebri statue di una ricca ateniese, Cleopatra, e del marito Dioscuride (Fig. 9.14), trovate nella loro casa di Delo e datate dall’epigrafe della base al 138 a.C., vogliono mostrare proprio queste caratteristiche dei proprietari, oltre che, beninteso, il loro successo economico, reso già evidente dalla casa in cui si trovano. Lui, nel pallio tipico del greco, proclama fieramente la stessa origine ateniese di tanti oratori e filosofi; lei, simile a una Musa anche nel tipo, è rappresentata avvolta in un mantello che aderisce al corpo in ampie superfici luminose. 9.3.4 Le composizioni erotiche e il mondo di Dioniso

Negli stessi anni si va affermando sempre più l’importanza del privato, sentito non solo come insieme di valori familiari, ma anche come erotismo, protetto da Dioniso e dai suoi culti. Vengono create allora composizioni pervase da un erotismo sempre più complicato e percorse da un movimento sempre più turbinoso. L’ambiente è quello di corte, o delle grandi famiglie delle più ricche città libere. All’inizio della serie, come concezione ma probabilmente anche come cronologia, sta il gruppo che rappresenta l’unione di Eros e Psiche (Fig. 9.15), cioè dell’Amore e dell’Anima pensante. Un erotismo che nasce dunque da una consapevole base filosofica. Per questa statua vengono accostati due tipi di tradizione classica, i cui corpi salgono a spirale, per ricongiungersi nel bacio finale. Una scena tanto 810

leggera all’apparenza, quanto virtuosistica e complessa nell’esecuzione; ed è questo che attira ancor di più l’attenzione. Le vesti di Psiche sono ancora quelle di una Afrodite, dal panneggio schiacciato sul corpo, a creare un gioco di trasparenze; ma la vera seduzione viene affidata al turbine del movimento.

Fig. 9.15 Eros e Psiche, copia romana. Roma, Musei Capitolini.

Questo rapporto viene spinto all’eccesso da composizioni sempre più complicate, mentre lo scultore cerca di conquistare nello spettatore un’attenzione crescente con l’inserimento di personaggi sempre più sorprendenti: Eros e Psiche vengono così sostituiti, trasponendoli in un’amata sfera silvestre, da un satiro e una ninfa; e in alcune estreme creazioni il satiro lascia il posto a un ancor più animalesco Pan, oppure quella che a prima vista sembra una ninfa 811

sorprende lo spettatore mostrando l’ambivalenza di un ermafrodito, come nel concitato gruppo di Dresda (Fig. 9.16), noto da più repliche. Ancor di più il grande protagonista è il movimento: l’intrecciarsi di gambe e di braccia in un vortice, reso con estrema abilità tecnica. Tutto questo ha fatto sì che per queste creazioni, e per altre di significato non più erotico ma pur sempre volto alla sorpresa, si sia usato il termine di «Rococò», nato per indicare una fase della scultura moderna: anche in questo caso esasperata e illeggiadrita erede di un periodo «barocco». La stessa composizione a spirale viene applicata a figure singole, pure destinate a colpire per il loro particolare erotismo. La stessa figura dell’Afrodite stante di origine prassitelica conosce, probabilmente agli inizi di questo periodo attorno alla metà del secolo, una variante che unisce avvitamento a novità: nasce così l’Afrodite Callipigia (Fig. 9.19). Qui la dea, con una complicata capigliatura fermata da un nodo sopra al capo come nell’Afrodite Capitolina, si svela per entrare nell’acqua. Lo fa però con una torsione a spirale che cominciando dal piede destro e salendo ai fianchi e al torso si conclude con il braccio sinistro levato e con il volto, girato ormai di 180 gradi rispetto ai piedi. Lo sguardo, rivolto in basso, sembra accompagnare quello dello spettatore verso il lato che la Capitolina nascondeva e che, in questa statua, grazie alla rotazione, sembra diventare il maggior protagonista della seduzione della dea, come sottolinea il nome tradizionalmente attribuito a questo tipo. Un avvitamento molto simile si ha in un’altra creazione della stessa epoca, che in più aggiunge l’uso sorprendente della figura dell’ermafrodito (Fig. 9.17) che abbiamo visto poco sopra. Il trattamento delle superfici e persino i tratti del volto sono pure molto simili. Si tratta certamente di creazioni tra loro vicine nel tempo. 812

Restano anche le composizioni di più figure. Gli stessi soggetti perdono però, avvicinandosi alla fine del secolo, il loro turbinoso, virtuosistico avvitamento, ed è il soggetto che riprende il sopravvento. Si scelgono momenti curiosi, qualche volta anche di grande poesia, come nel gruppo cosiddetto de «l’invito alla danza», oggi ricostruito con i calchi delle due statue (Fig. 9.18). Qui un giovane satiro, giunto spesso molto frammentario e restaurato nei modi più disparati, muove sinuosamente il corpo muscoloso nell’accennare a un passo della danza che accompagna Dioniso, forse stringendo nella mano uno strumento musicale. La ninfa sta seduta su una roccia leggermente in disparte, tenendo la mano sulle gambe, accavallate in modo ben più disinvolto della Tyche di Antiochia (Fig. 8.2), che pur deriva dallo stesso lontano archetipo; volge verso il satiro il giovane volto, illuminato da un dolcissimo sorriso compiaciuto.

Fig. 9.16 Synplegma: satiro e ermafrodito, copia romana. Dresda, Skulpturensammlung.

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Fig. 9.17 Ermafrodito dormiente, copia romana. Roma, Museo Nazionale delle Terme.

Un momento particolare, ma con un risultato ben più artificioso, è colto anche in una statua rinvenuta a Delo, e databile verso il 100 a.C. (Fig. 9.20). Il corpo nudo dell’Afrodite prassitelica è posto accanto a quello di un piccolo Pan, con zampe, corna e muso da caprone. Una poco disinvolta rotazione di quasi 90 gradi di tutta la figura consente alla piccola, mostruosa creatura di volgersi verso le lucenti superfici della dea, e di afferrarla per il braccio con cui lei si copre pudicamente il ventre. Da una parte il brutale desiderio d’unione, dall’altro il ritrarsi, con l’appoggio di una pantofola brandita nella mano destra: oggetto di uso quotidiano, che fa sì che questo gruppo, derivato per metà dalla sublime Cnidia, sia noto anche come «Afrodite con la pantofola (o sandalo)». In mezzo alle due figure principali spunta da sopra la spalla della madre, come ulteriore elemento di curiosità, il dio dell’amore, che cerca di allontanare l’importuno, pur presiedendo all’intera vicenda. Parlando del mondo di Dioniso, non si può non citare qui una statua ormai celeberrima, il satiro bronzeo, lanciato in una danza sfrenata (Fig. 9.21), venuto alla luce dal fondo del mare del canale di Sicilia. Essendo di Mazara i pescatori, autori della scoperta, la statua è oggi nota come Satiro di Mazara. La sua interpretazione è chiara: la testa scomposta in un ghigno, i capelli disordinati, le piccole corna che spuntano dalle tempie non lasciano dubbi: si 814

tratta effettivamente di un satiro. Certamente non era da solo: la sua posizione, con la gamba destra che sembra lanciata all’indietro, le braccia che reggono il tirso in avanti, la testa bruscamente girata, indica l’appartenenza a un gruppo, evidentemente di soggetto dionisiaco. Anche il tipo è ben noto, replicato innumerevoli volte dal secolo IV a.C. all’età romana. Ma proprio questo ne ha reso sinora difficile la collocazione cronologica: la critica, come spesso succede quando dei nuovi originali vengono creati replicandone e componendone altri, è ancora divisa in una serie di datazioni che vanno dall’epoca di Prassitele ad Augusto.

Fig. 9.18 Invito alla danza, ricostruzione.

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Fig. 9.19 Afrodite Callipigia, copia romana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 9.20 Afrodite del sandalo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 9.21 Satiro danzante. Mazara, Museo Archeologico.

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Se però per il Satiro di Mazara è giusto attendere una migliore comprensione, possiamo qui ricordare che il periodo di cui si sta parlando, cioè il medio e tardo periodo ellenistico, certo conosce bene questo genere di compositi prodotti. 9.3.5 Il mondo dei ginnasi

Le molteplici possibilità che le composizioni di più corpi, creati sin dal tardoarcaismo, offrono al continuo studio della figura umana e del suo movimento nello spazio vengono sfruttate nel tardo Ellenismo anche per rappresentare scene di palestra. Tra i tanti, un esempio tipico sembra essere quello dei lottatori oggi al Museo degli Uffizi (Fig. 9.22), verosimilmente copia di un originale bronzeo. Plinio cita statue di lottatori già negli anni a cavallo tra i secoli IV e III a.C. Ma qui si è andati molto avanti nella ricerca di effetti nuovi, nel variare e comporre motivi tradizionali. Nessun gruppo di lottatori è noto da più copie; il che conferma che deve trattarsi di varianti create occasione per occasione, difficili da collocare, sia cronologicamente che come luogo di produzione: come accade per le Afroditi, possono essere prodotti in qualsiasi officina. La compattezza, la classica muscolosità dei corpi sembrerebbero portare tutta la serie a una fase ancora iniziale dell’Ellenismo, quando artisti ben più intensi stanno per creare i Galati pergameni, o anche prima. Ma queste realizzazioni di bottega, giunteci attraverso copie romane talvolta più creative che fedeli, sembrano cronologicamente galleggiare nell’ampio ambito di una grecità che, per usare una felicissima espressione di Smith, ricicla se stessa. È giunto sino a noi invece un originale bronzeo, di più alto livello, rappresentante un pugilatore singolo (Fig. 9.23 a,b). È stato trovato depositato in una cantina dell’Esquilino, assieme a una statua di dinasta, essa pure 818

ellenistica e in bronzo, ma per il resto di tutt’altro genere, di cui abbiamo già parlato (Fig. 8.41). L’atleta siede spossato, le grandi masse muscolari rilassate, le braccia lasciate cadere sino ad appoggiarsi sulle cosce; i pugni, che ancora sono avvolti dalle bende usate in gara, sono ormai privi di tensione, lasciati a ravvicinarsi in mezzo alle ginocchia. Il torso, piegato in avanti, sottolinea il momentaneo abbandono delle forze. Ma la testa, pur essa piegata in avanti, si volge bruscamente a destra e verso l’alto, a guardare lo spettatore, o più probabilmente un’altra figura. Proprio nella testa abbondano i particolari realistici, come i segni delle ferite; ma il volto resta inespressivo, caratterizzato solo dalla forza che promana dalle robuste arcate sopraccigliari, dalla capigliatura e dalla barba erculee, e dalla stanchezza con cui lo sguardo si perde nel vuoto. Le grandi masse muscolari rilassate del corpo avrebbero consentito una maggiore ricerca di effetti chiaroscurali, come nei poderosi torsi pergameni; ma l’attenzione dell’artista sembra rivolta piuttosto a connotazioni brutalmente realistiche: il naso appare rotto, e i tagli e le ferite del corpo sono sottolineati da inserimenti in rame. Certamente è un pugilatore; resta però il dubbio che possa trattarsi di un pugilatore mitico. In questo caso si potrebbe pensare a una rappresentazione del mitico re dei Bebrici, Amico, che sfidava al pugilato ogni viaggiatore che fosse sbarcato nella sua Creta; vintolo, lo uccideva; sino a che, durante il viaggio degli Argonauti, non gli si oppose il semidio Polluce, uno dei due Dioscuri, che lo costrinse alla resa.

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Fig. 9.22 Gruppo dei lottatori, copia romana. Firenze, Museo degli Uffizi.

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Fig. 9.23 a,b Pugilatore delle Terme. Roma, Museo Nazionale delle Terme. 9.3.6 Le case di Delo

Un luogo privilegiato per capire questa fase dell’Ellenismo resta Delo. Piccola isola posta quasi al centro dell’Egeo, aveva fama d’aver offerto rifugio a Latona, quando era in fuga da Hera perché portava in grembo i figli che stava per avere da Zeus. Proprio qui ella avrebbe partorito i due divini gemelli Apollo e Artemide, sotto una pianta presso il Lago Sacro; e da allora l’isola sarebbe stata consacrata al loro culto. Certo, un santuario di Apollo vi esisteva da tempi antichissimi; sull’isola sono stati infatti rinvenuti i resti di un insediamento dell’età del bronzo; per tutta l’età arcaica fu luogo tra i più venerati della Grecia, nominato anche da 821

Omero nell’Odissea; all’inizio dell’epoca classica fu scelto a sede della lega marittima che faceva capo ad Atene, detta appunto delio-attica. Spostato ad Atene il tesoro della Lega nel 454 a.C., la sua importanza ne restò sminuita. Praticamente spopolata durante la guerra del Peloponneso, quando fu proclamata isola sacra, con il divieto di nascervi e di morirvi, rimase uno dei santuari più venerati e re ellenistici come Antigono Gonata e Filippo V di Macedonia vi fecero erigere sontuosi portici. Dopo la battaglia di Pidna e la definitiva sconfitta della Macedonia da parte dei Romani, questi restituirono l’isola ad Atene, con l’intesa di renderla porto franco (166 a.C.). Si trattò di una mossa fatta per contrastare il potere marittimo di Rodi, punendola di un suo presunto avvicinamento alla causa macedone. Di fatto il nuovo porto si sviluppò enormemente, grazie ai nuovi grandi traffici tra Asia e Roma: traffici nei quali la tratta degli schiavi rivestiva un considerevole peso. Sorsero così tumultuosamente nuovi quartieri di ricche case (Fig. 9.24), ben diversi dalle case tutte uguali degli isolati di Olinto e di Priene. In essi si trasferirono armatori e trafficanti da tutto il Mediterraneo: non solo dall’Italia, ma anche da Atene, da Berito, da Alessandria. Molti ebbero qui le loro associazioni, per le quali fecero costruire sedi e santuari.

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Fig. 9.24 Delo, pianta dei quartieri d’abitazione.

Gli scavi di Delo sono condotti sin dal 1872 da una missione francese e sono ancora in corso. Hanno permesso di riportare alla luce la vasta area del santuario, di grande interesse soprattutto per le fasi arcaiche e del primo Ellenismo, e, attorno a questa, ancor più grandi quartieri comprendenti abitazioni e altri complessi civili e religiosi. In particolare questi quartieri si sono rivelati un’inesauribile miniera di conoscenze su un periodo altrimenti non molto noto, quello del medio Ellenismo, che vide l’imporsi di Roma in Oriente. È infatti un periodo pieno di devastazioni in gran parte dell’Asia, ma che vede il grande fiorire di Delo. Si tratta di una prosperità per altro assai breve, perché tutto finisce con le guerre mitridatiche e le due feroci espugnazioni dell’88 a.C. e del 69 a.C., per cui quello che abbiamo noi oggi sono le tracce d’una fase particolarmente ricca, ma 823

cronologicamente molto ben definita della vita della città, durata un’ottantina d’anni e poi bruscamente interrotta. Una fase in cui molti ricchi italici dovettero risiedere nell’isola, riportando in patria un modo di vivere e abitare alla greca che non mancò di influenzare profondamente le abitudini di Roma. Il santuario vero e proprio, subito alle spalle del porto, restò il nucleo centrale dell’isola. Più a nord, verso il lago sacro e oltre, si sviluppò dopo il 166 a.C. un quartiere di ginnasi e di ricche abitazioni, alcune delle quali molto grandi e con un impianto urbano abbastanza regolare. Tra queste spiccano la Casa detta del Diadumeno, perché in essa fu rinvenuta una copia del Diadumeno di Policleto (Fig. 5.51), e quella detta dei Commedianti (Fig. 9.25): scavata tra il 1961 e il 1964, è uno degli esempi più significativi di ricca dimora del medio e tardo Ellenismo, sviluppatasi attorno a una corte centrale porticata. È una delle case di cui è stato possibile ricostruire tutto l’aspetto, sino ai tetti, rivolti all’interno, per conservare la poca acqua piovana. Come sempre nelle città greche, l’aspetto esterno è segnato da lunghi muri compatti in cui si aprono poche finestre, con uno stridente contrasto rispetto alla luminosità degli ambienti interni, che prendono luce dalla corte centrale, e alla ricchezza delle decorazioni. Lo stesso nome con cui la casa è oggi nota deriva da una serie di pitture parietali con scene di teatro. Nel corso del secolo II a.C. furono eretti, proprio a ridosso del lago sacro, la cosiddetta agorà degli Italici e l’edificio dei poseidoniasti di Berito, grandiosi complessi destinati alle riunioni di alcune delle congregazioni commerciali più potenti. L’agorà degli Italici, in particolare, consisteva di una grande piazza quadrangolare circondata da colonnati, nei quali si apriva una serie di ambienti; una vera e propria agorà riservata ai commercianti provenienti 824

dall’Italia, e anche luogo destinato alle autocelebrazioni: da qui provengono alcune statue e numerose basi di monumenti celebrativi di personaggi romani.

Fig. 9.25 Delo, Casa dei Commedianti, ricostruzione.

Un secondo quartiere di ricche abitazioni si sviluppò a sud del santuario, arrampicandosi sul pendio del monte Cinto, sino a circondare il luogo dove già sorgeva il teatro. Qui non si poté fare ricorso a un’urbanistica regolare e le case risultano tutte diverse l’una dall’altra, anche per ricchezza ed estensione. La maggior parte fu obbligata dal poco spazio e dalla pendenza del terreno a raggiungere un considerevole sviluppo in altezza. La Casa di Hermes, ad esempio, si arrampicava per quattro piani, allungandosi a ogni piano sempre più all’indietro rispetto alla facciata, adattandosi mano a mano al pendio. Il suo cortile centrale diventava come una specie di pozzo colonnato, profondo per tutti i quattro piani (Fig. 9.26). Almeno tra le più ricche è però individuabile uno schema comune, lo stesso usato anche nella Casa dei Commedianti: 825

centro della casa è un grande spazio scoperto, spesso circondato da colonnato su uno o più lati. L’accesso avveniva dalla strada direttamente in questo cortile, per mezzo di un semplice corridoio, talora con un vestibolo; dal cortile si poteva accedere all’andròn, il locale più importante, destinato al ricevimento e a quel momento essenziale della vita sociale alla greca che restava il simposio. Tutti i locali accessibili alle visite, e talvolta anche quelli destinati ad abitazione vera e propria, avevano una decorazione che poteva comprendere pavimenti a mosaico con emblema figurato entro motivi geometrici, pareti dipinte e stucchi a rilievo, statue più o meno grandi in bronzo o marmo. La casa appartenuta, come informano le iscrizioni, a Dioscuride e a Cleopatra, cittadini ateniesi, conserva ancora le statue dedicate a se stessi dai due proprietari (Fig. 9.14), pur non essendo tra le case più grandi.

Fig. 9.26

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Delo, Casa dell’Hermes, ricostruzione.

Fig. 9.27 Delo, Casa delle Maschere, mosaico di Dioniso.

Particolarmente consistente il numero dei mosaici rinvenuti a Delo. Da una delle case più ricche, detta Casa delle Maschere per un altro mosaico con elementi geometrici in un motivo con maschere teatrali, proviene il mosaico forse più celebre, raffigurante Dioniso sulla pantera (Fig. 9.27). Il soggetto compariva già in un finissimo mosaico di una casa di Pella, e si ritrova assai spesso nelle case dell’isola: è un altro aspetto del favore per l’ambiente dionisiaco, che è presente in tutto l’Ellenismo, e che abbiamo già visto per la scultura. Come nella maggior parte dei casi, il quadro era stato composto a parte, e poi inserito all’interno d’un più ampio mosaico geometrico. Il dio, avvolto in un elegante panneggio, sta seduto sul dorso della belva a lui sacra come 827

un’Europa sul toro. Nella destra stringe il tirso, mentre volge uno sguardo come d’intesa verso i grandi occhi della pantera, che gira il muso a sottolineare lo stretto rapporto che la lega a lui. Le forme allungate, la ghirlanda che le gira sul collo, l’accuratezza con cui è resa la maculatura della pelle sembrano contrastare con la ferinità degli artigli e delle zanne. L’aderenza al modello pittorico era assicurata dall’enorme numero delle tessere impiegate, che rendono questo mosaico un capolavoro di raffinatezza. La Casa delle Maschere si trova poco oltre il teatro. Ancora più in alto sul monte sorsero altre case e soprattutto altri santuari isolati, dedicati a Serapide, a Iside, alle divinità di Samotracia, sacri a culti giunti con commerci e commercianti da ogni parte del Mediterraneo. Quello dedicato alle divinità di Samotracia, o Samothrakeion, fu particolarmente caro a Mitridate durante la sua occupazione dell’isola e in esso furono collocate le statue dei suoi generali. Proprio in cima al monte il santuario di Zeus e Atena Cinzia riprendeva l’antico legame con Atene. 9.3.7 Arte greca per Roma

Delo sembra essere uno dei punti focali anche per capire il fenomeno delle copie, del loro significato e del loro utilizzo per monumenti nuovi. Si tratta di opere notissime, che non sarà inutile riconsiderare in quest’ottica. Una delle case dell’isola è detta del Diadumeno, perché vi è stata trovata la splendida, accurata, celebre replica dell’originale policleteo, oggi al Museo Nazionale di Atene (Fig. 5.51). Siamo certamente prima del 70 a.C., anche se forse non di molto: una delle date più alte, per il nascente fenomeno delle copie marmoree di originali celebri. Ovvero, per usare un’altra definizione dello stesso fenomeno, la creazione di multipli marmorei dei grandi originali bronzei. Un mondo 828

greco-romano che guarda al passato greco e lo vuole rivivere. Così come avevano fatto i dinasti ellenistici, anche i nuovi vincitori iniziano a usare i vecchi tipi classici delle divinità. Il fenomeno comincia forse con Flaminino, certamente con Emilio Paolo, e poi diffusamente nel periodo degli Scipioni. Così è a Delo, ad esempio per il cosiddetto Pseudo-atleta (Fig. 9.28): un corpo classico, d’ascendenza policletea nelle forme e nella ponderazione, con una altezza di 2,22 m che ne indica l’appartenenza a una sfera sovrannaturale, sormontato da un ritratto realistico. L’operazione non è molto diversa da quella che aveva già fatto fare per la propria statua-ritratto Cleopatra, moglie di Dioscuride. Ma, concettualmente, quest’eroizzazione di potenti mortali tramite tipi divini celebra il sostituirsi di una nuova aristocrazia ai vecchi dinasti. Sempre a Delo, l’agorà degli Italici aveva parecchie di queste statue che riprendono, o in parte copiano, corpi creati per divinità classiche, al fine di ritrarre i vincitori, a cominciare dalla statua di Ofellio Fero (Fig. 9.29), firmata da Dionisio e Timarchide, alta 2,36 m senza testa, e pure derivata da un originale di secolo IV a.C. A partire dalla sua iscrizione è stata ricostruita un’intera famiglia di scultori in marmo che sembrano aver lavorato soprattutto per committenti romani: tra il primo e il secondo quarto del secolo II a.C., un Timarchide I fu forse a Roma, al servizio di Marco Emilio Lepido e di Marco Fulvio Nobiliore; attorno alla metà del secolo i suoi figli Polykles e Dionisio fecero varie opere a Roma, soprattutto di divinità, anche al servizio di Metello Macedonico; e fu questo stesso Dionisio, assieme al nipote Timarchide II, figlio di Polykles, a eseguire la statua di Ofellio Fero a Delo, pochi anni prima del 100 a.C. Statue nuove, nello spirito e nell’esecuzione, che volutamente riprendono tipi classici. 829

Fig. 9.28 Statua dello pseudoatleta. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 9.29 Statua di Ofellio Fero. Delo, Museo Archeologico.

Un gusto che viene presto ripreso anche dai comandanti delle ultime sommosse della grecità; così alla statua probabilmente di un generale di Mitridate, che proviene dal Samothrakeion di Delo (Fig. 9.30), di tradizione lisippea, fa riscontro la statua del più castigato generale di Tivoli (Fig. 9.31), policletea, suo contemporaneo e probabilmente suo avversario. Lo stesso linguaggio viene usato nel raffigurare, in Grecia e in Italia, i due contendenti.

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Fig. 9.30 Statua di navarca. Delo, Museo Archeologico.

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Fig. 9.31 Statua di generale, da Tivoli. Roma, Museo Nazionale delle Terme.

Contemporaneamente, sempre a Delo, numerose officine moltiplicano sia in bronzo che in marmo altri tipi classici, adattandoli a erme, statuette, piedi di tavola, vasi decorati, ogni cosa insomma che possa piacere al nuovo mercato italico per ornare le case e i giardini nel gusto d’una grecità passata. A Rodi, ma anche ad Atene, succede qualcosa di simile; con l’aggiunta, nel caso di Atene, di una nostalgia che fa preferire tipi creati in un momento in cui Atene è sentita al centro della cultura del mondo: un’Atene un po’ delle 833

Guerre Persiane, un po’ di Pericle. Nasce anche da questo sentimento un nuovo gusto artistico, contrario al Barocco e a tutto quello che può ricordare i secoli del declino di Atene. A Roma piace anche questo. Anzi, lavora a Roma un artista che è non solo portatore, ma anche teorico di questo neo-atticismo, Pasitele. È un artista magnogreco, che Plinio ricorda come inventore della tecnica che prevede l’esecuzione di modelli in argilla, prima di scolpire il marmo. Noi possiamo parlare anzi di una vera e propria scuola di Pasitele, operante in Italia e soprattutto a Roma nelle ultime generazioni della Repubblica e ancora agli inizi dell’età imperiale. Alla sua scuola deve appartenere per esempio l’Arcesilao autore della Venere Genitrice nel foro di Cesare, amico di Lucullo e morto probabilmente nel suo stesso anno, il 42 a.C., che non può dunque non seguire un gusto largamente dominante proprio nel centro del potere. Un algido corpo di atleta liberato da ogni sentimento, detto Atleta Albani (Fig. 9.32) dal nome della collezione nella quale è conservato, è firmato da Stefano, che si dichiara allievo di Pasitele; e sempre a Stefano, tra molte altre opere, è attribuito anche il gruppo di Oreste ed Elettra da Pozzuoli (Fig. 9.33), sulla base del fatto che la figura maschile è una copia dell’Atleta Albani, riutilizzata in un gruppo che doveva essere considerato originale.

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Fig. 9.32 Atleta Albani, Stefano. Roma, Villa Albani.

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Fig. 9.33 Oreste ed Elettra, Stefano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 9.34 Oreste ed Elettra, Menelao. Roma, Museo Nazionale delle Terme.

A sua volta si proclama allievo di Stefano un Caio Cossuzio Menelao che firma un gruppo variamente interpretato, e generalmente noto anch’esso come Oreste ed Elettra (Fig. 9.34): due tipi classici vengono banalizzati e leggermente movimentati e poi malamente accostati per creare una stridente composizione nuova, che a Menelao non deve neppure troppo dispiacere, visto che l’ha firmata, così come non deve essere dispiaciuta ai suoi committenti. 837

Il pregio non sta più nella creazione di tipi nuovi, ma nella citazione di tipi antichi, e nella loro reinterpretazione in un’atmosfera rarefatta. Ed è in questo modo che l’arte greca finisce nella Roma di Augusto, già sempre più piena degli originali predati in Grecia e in Asia.

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9.4 La pittura del medio e tardo Ellenismo 9.4.1 Ambulanti e fattucchiere

La piena età ellenistica conosce una serie infinita di variazioni su soggetti curiosi, un po’ particolari, presi dal teatro o dalla strada: scene leggere, divertenti, destinate a colpire lo spettatore facendolo sorridere, e perciò molto amate anche in ambienti domestici. L’esempio più noto lo abbiamo in due celebri quadretti a mosaico, ritrovati nel 1764 a Pompei, in una villa romana appena fuori da Porta Ercolano, dove erano inseriti al centro del pavimento di due ambienti simmetrici, presso l’atrio. Sono di piccole dimensioni, misurando rispettivamente 43 × 41 e 42 × 35 cm, e portano entrambi la firma del mosaicista Dioscuride di Samo, che, a giudicare dai caratteri epigrafici, deve averli eseguiti attorno alla metà del secolo II a.C., o poco dopo, come emblemata, ossia quadretti da inserire successivamente in un pavimento. Il primo quadretto mostra due musicanti che, l’uno con nacchere, l’altro con un cembalo, danzano in primo piano, portando una maschera da commedianti e contorcendosi in modo buffo come fossero su un palcoscenico (Fig. 9.35). Sulla sinistra, sullo sfondo e un po’ discosti, li accompagna con il suono dei flauti una donna, mentre un fanciullo dalla corta tunica sembra assistere rapito all’esibizione. Si tratta di un gruppo di metragyrtai, musici ambulanti appartenenti al culto di Cibele, probabilmente colti all’interno della rappresentazione di una commedia. Le tessere sono straordinariamente piccole; il mosaico è così in grado di riprodurre, come in una pittura, non solo le lunghe ombre che si stagliano verso sinistra, sul suolo e sui muri, ma anche

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il rapido variare dei colori, dal verde al blu al bruno al giallo, nelle vesti dei protagonisti investite dalla luce.

Fig. 9.35 Mosaico con suonatori, Dioscuride, dalla Villa di Cicerone presso Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. (tav. 46)

Fig. 9.36 Mosaico della fattucchiera, Dioscuride, dalla Villa di Cicerone presso Pompei. Napoli, Museo

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Archeologico Nazionale. (tav. 47)

Il secondo riproduce tre donne che indossano maschere teatrali, in un episodio forse da ricollegare a una commedia di Aristofane (Fig. 9.36). A un’ambientazione teatrale sembrano rimandare anche i gradini e, riprodotte in alto, le quinte, che racchiudono un piccolo ambiente aperto solo verso lo spettatore. Due giovani donne sembrano qui a colloquio con una maga popolaresca, che ha già indossato la maschera: per questo il quadretto è tradizionalmente conosciuto come il «Consulto della fattucchiera». Anche qui ci sono solo pochi personaggi, disposti spazialmente con grande maestria a completare il quadro. Più sobria la policromia in questo secondo caso, in cui del resto la scena doveva svolgersi nell’ombra. I due quadretti musivi riprendono certamente modelli più antichi, come dimostrano la sicurezza nella disposizione delle immagini e il fatto che questi tipi si ritrovino anche in altre classi monumentali, comprese le terrecotte dell’Asia Minore. Questo sembra trovare una conferma nella stessa origine di Dioscuride, Samo, tanto che Ranuccio Bianchi Bandinelli ha proposto che simili creazioni pittoriche, con questo particolare gusto della luce e dei suoi riflessi, che trova riscontro nella tradizione della pittura mitica successiva ad Alessandro, possano riferirsi a quell’ambiente, fiorito forse ancora nella prima metà del secolo III a.C., pur con un successo prolungatosi, come dimostra Dioscuride, almeno sino alla fine del secolo successivo. 9.4.2 Soso

Sicuramente microasiatico, per l’esattezza di Pergamo, è anche l’unico mosaicista a essere ricordato per le sue creazioni e la sua abilità: Soso, vissuto nella prima metà del secolo II a.C. Plinio gli attribuisce la creazione di un’altra famosa composizione, riprodotta e variata all’infinito per 841

tutta l’antichità: quella delle colombe che, posatesi sull’orlo di un bacile, si abbeverano specchiandosi nell’acqua (Fig. 9.37). Questo permette all’artista uno studio delle varie disposizioni assunte dagli animali, ma anche, ancora una volta, del riverbero della luce: sulle loro penne, sul lucente bronzo del bacile, nell’acqua. Qui un eccezionale virtuosismo ha preso totalmente il posto dell’importanza del soggetto. Accanto a questa «natura viva», allo stesso Soso viene attribuita da Plinio la creazione di un altro tipo, nel genere piuttosto della «natura morta», pur sempre campo adatto a esercitare la sua estrema abilità: il cosiddetto «asarotos oikos», la stanza non ancora spazzata, dopo che vi sono caduti i resti del banchetto (Fig. 9.38). Qui a essere riprodotti con minuziosa fedeltà sono frammenti di crostacei, gusci di molluschi, pezzi di frutti e di altri cibi, persino un topolino, accorso per l’occasione.

Fig. 9.37 Mosaico con colombe che si abbeverano, Soso, da Villa Adriana presso Tivoli. Roma, Museo Capitolino.

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Fig. 9.38 Asarotos, Soso. Roma, Musei Vaticani. 9.4.3 I cataloghi di animali

Questa attenzione ai particolari si intreccia con un altro fenomeno caratteristico del pieno Ellenismo: la puntigliosa riproduzione della natura nei suoi aspetti più minuti. Nascono veri e propri cataloghi illustrativi. Il più celebre è il catalogo dei pesci, riprodotto numerosissime volte sui mosaici pavimentali (Fig. 9.39 a,b). Il mosaico, infatti, è particolarmente adatto alla presenza, in vasche o fontane, dell’acqua e questa è ovviamente richiamata da un soggetto del genere. La composizione non avviene secondo una collocazione prospettica: i pesci sono disposti uno accanto all’altro, come in una sorta di moderno catalogo. L’esattezza delle singole rappresentazioni consentiva allora, e consente 843

ancora oggi, un immediato riconoscimento con quanto era noto nella realtà di tutti i giorni, ampliandone anzi la conoscenza, con un intento apertamente didascalico. I pesci, poi, non sono sempre gli stessi: evidentemente ciascuna riproduzione avveniva attraverso cartoni separati, combinati di volta in volta, e non attraverso cartoni d’insieme. Per la loro origine non siamo dunque in grado di risalire a un singolo pittore; abbiamo però molti elementi di confronto, che ci indicano come essi siano stati creati negli ambienti delle grandi biblioteche di corte, in particolare ad Alessandria e poi anche a Pergamo. Quando è meno forte l’influenza del mare, nascono cataloghi di altri animali; papere delle diverse razze e altri animali più esotici riempiono le acque di altri mosaici spesso derivati da soggetti nilotici (Fig. 9.40a-c); mosaici di modesta concezione, formano talvolta semplici tappetini, come nella stessa Casa del Fauno a Pompei, presso la grande battaglia di Alessandro.

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Fig. 9.39 a,b Mosaico con pesci, dalla Casa del Fauno a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Fig. 9.40 a,b Mosaico con anatre, dalla Casa del Fauno a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Fig. 9.40c Mosaico con anatre, dalla Casa del Fauno a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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9.4.4 Il mosaico nilotico di Palestrina

Di ben maggiore impegno, anche se inseribile nella stessa linea, è uno dei mosaici più celebri, quello di Palestrina. Esso è comunque un grande mosaico di età ellenistica, perché è stato eseguito presso il santuario laziale della Fortuna Primigenia, a una quarantina di chilometri a est di Roma, verso la fine del secolo II a.C. È però sicuramente creato da maestranze di Alessandria, abituate a rappresentare i paesaggi del delta e del corso del Nilo, e risale senza dubbio a modelli creati nell’Egitto tolemaico (Fig. 9.41). Lo scorrere del fiume Nilo è infatti il grande protagonista: dal basso all’alto è rappresentato tutto il suo corso, risalendo dal porto di Alessandria attraverso zone sempre meno abitate da uomini e sempre più popolate di animali esotici e talora fantastici, rappresentati con minuziosità di particolari e indicati con il loro nome greco, sino alle selvagge terre della Nubia e a lontani monti, dai quali il fiume sgorga, aprendosi la strada tra le rocce (Fig. 9.42a). L’ampio inquadramento geografico, che mostra, come a volo d’uccello, tutta la valle del grande fiume, offre lo sfondo alla rappresentazione di un gran numero di vivaci vignette, ricchissime di particolari. Nella parte più bassa, l’arrivo al porto di Alessandria (Fig. 9.42b): una grande imbarcazione ha già issato le vele accanto a una barchetta di giunchi dalla quale un pescatore ha buttato l’amo, mentre entra, a forza di remi, una nave da guerra. Intorno, edifici colonnati di stampo ellenistico. Davanti alle quattro colonne corinzie di quello in primo piano, protetti da grandi teloni, dei soldati armati stanno concludendo un rito, forse in onore di Iside, con alcune navi che stanno per attraccare. Questa scena, ora in basso a destra, era probabilmente in origine in posizione centrale; ma il mosaico è stato rinvenuto, strappato e ricomposto nel Settecento; non siamo sempre sicuri che i 847

vari frammenti siano stati esattamente collocati al loro posto. In un altro punto, è rappresentato un banchetto agreste (Fig. 9.43a), al fresco di una pergola di giunchi intrecciati, proprio accanto all’acqua che scorre; altrove, contadini intenti al loro lavoro presso capanne di canne, mentre ovunque emergono ibis, coccodrilli e ippopotami, tipici dell’Egitto (Fig. 9.43b). Più in alto, altri edifici, tra i quali spiccano alcuni templi che riproducono le costruzioni tolemaiche, nello stile dell’Egitto classico, che ancora oggi si possono vedere sul medio corso del Nilo (Fig. 9.44). Nel complesso è un bellissimo mosaico, più o meno di 5 × 5 m. Non sembra essere la riproduzione di un grande originale famoso, ma piuttosto una delle tante varianti ottenute unendo quadretti diversi su uno sfondo geografico.

Fig. 9.41 Mosaico nilotico. Palestrina, Museo Prenestino.

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Fig. 9.42 a,b Mosaico nilotico, particolare. Palestrina, Museo Prenestino. (tav. 48a)

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Fig. 9.43 a,b Mosaico nilotico, particolare. Palestrina, Museo Prenestino. (tav. 48b)

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Fig. 9.44 Mosaico nilotico, particolare. Palestrina, Museo Prenestino.

Ad esso viene spesso accostato un aneddoto narrato da Diodoro: quando uno dei principi ellenistici, Tolomeo VI Filometore va a Roma, nel 165 a.C., vi incontra un suo conterraneo, un certo Demetrio, topografo, ovvero pittore di paesaggi. La raffigurazione di paesaggi visti dall’alto nascerebbe proprio nell’ambiente alessandrino in questo periodo, agli inizi del secolo II a.C. Le fonti letterarie ne ricordano anche a Roma, dove viene considerata un capostipite la grande pittura che rappresentava la conquista della Sardegna, che circola più o meno negli stessi anni. 9.4.5 La Tazza Farnese

Nelle corti reali, e in particolar modo in quella di Alessandria, l’abilità nel riprodurre minuti particolari trova spesso un logico trasferimento anche sui supporti più raffinati: gioielli, gemme, paste vitree. Le gemme, incise in questo periodo per il piacere delle corti da maestri che firmano anche le loro opere, sono innumerevoli; la gran parte passa in possesso dei conquistatori romani. Lo stesso Plinio afferma che la passione per le gemme comincia a 851

Roma con il trionfo di Pompeo su Mitridate; un gran numero ne arriva certamente in mano ad Augusto, quando egli diventa erede dei Tolomei; molte superano anche la fine dell’età antica, per entrare nelle collezioni dei sovrani, e poi dei musei dell’epoca moderna. Gli artisti del mondo greco avevano messo a disposizione una quantità infinita di tipi; molti, avevano acquistato o andavano acquisendo un significato simbolico. Uno dei gioielli più impressionanti ha per soggetto ancora una volta la valle del Nilo; non però per descriverla con scenette minuziose, bensì per usarla come punto di riferimento di un’apoteosi dinastica fortemente simbolica. Si tratta (Fig. 9.45) di un grande cammeo in agata sardonica, certamente prodotto nell’Egitto tolemaico, poi passato per Roma, per Bisanzio, per la collezione di Federico II e per quella dei Medici, e infine arrivato alla Collezione Farnese, assieme alla quale è oggi al Museo Nazionale di Napoli. Scavato a tazza, ha nel tondo interno una raffigurazione, che si avvale con straordinaria abilità dei diversi strati della gemma. In primo piano, in basso, sta accovacciata una sfinge, rappresentante Osiride, con il corpo ricavato da uno strato più scuro di quello del volto. L’ambientazione egizia è quindi chiara. Sulla sfinge siede una figura femminile, la dea Iside, che si volge verso altri due personaggi, le personificazioni delle stagioni della piena del Nilo e delle messi che ne derivano, come mostrano gli attributi che stringono nelle mani. Dietro Iside, una figura maschile in movimento, Oro-Trittolemo, allude anch’essa alla fertilità, stringendo in mano il bastone dell’aratro; sulla sinistra siede, con sguardo benevolo, la grande figura barbata dello stesso Nilo, con la cornucopia simbolo dell’abbondanza. In alto, due giovinetti in volo simboleggiano i venti efesii, che a loro volta favoriscono l’arrivo della feconda piena. Tutto ruota attorno alle tre figure centrali, Osiride, Iside e 852

Oro-Trittolemo, che garantiscono il perpetuarsi di una così fortunata vicenda; ma è facile osservare come i loro volti non siano quelli classici delle tre divinità, e abbiano invece tratti fisiognomici. Purtroppo il perpetuarsi di tipi uguali nella ritrattistica tolemaica, secondo un’usanza comune anche presso le altre corti, non rende facile il riconoscimento. L’ipotesi più tradizionale vede nella testa della sfinge di Osiride il ritratto di Tolomeo V Epifane, che regnò dal 203 al 181 a.C.; in Iside quello della regina madre, Cleopatra, che fu reggente al trono dopo la morte del marito e sino alla maggiore età del figlio; in Oro-Trittolemo, l’erede al trono, Tolomeo VI Filometore. Si tratterebbe dunque d’un mirabile gioiello dal forte contenuto propagandistico, creato grosso modo tra il 180 e il 170 a.C. alla corte dei Tolomei. Altri pensano piuttosto a Cleopatra III, al marito Tolomeo VIII e al figlio Tolomeo X Aléxandras, e quindi a mezzo secolo più tardi. Resta in ogni caso una splendida testimonianza della raffinatezza e dell’abilità degli artigiani della corte tolemaica del secolo II a.C., e anche di come questa si volesse autorappresentare.

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Fig. 9.45 Tazza Farnese. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 9.4.6 Protagonista il paesaggio

I nomi dei grandi artisti diminuiscono drasticamente nelle nostre fonti già dagli inizi del secolo III a.C.; possiamo però continuare a seguire una storia della pittura anche ben oltre, sino a dentro il tardo Ellenismo. Il virtuosismo, il manierismo, l’enciclopedismo segnano l’ultima fase anche di quella ricerca di «luce e colore», come dice Villard, che è la principale caratteristica dell’Ellenismo sino alla metà del secolo II a.C. Grosso modo verso il 150 a.C. nasce anche un gusto nuovo: procedendo nella linea già iniziata con le pitture geografiche, il paesaggio diventa il grande protagonista, e i personaggi umani o animali che vi vengono inseriti, o anche 854

le singole architetture, divenuti definitivamente quadretti di genere, ne costituiscono poco più che il pretesto.

Fig. 9.46 Paesaggio con capretta, dalla Villa di Fannio Sinistore a Boscoreale. New York, Metropolitan Museum.

Si tratta sempre di scene particolari, di maniera, come la capretta che in un grande paesaggio montuoso viene sospinta verso un santuario campestre (Fig. 9.46); o anche di scene mitiche, tratte talvolta dall’Odissea, come nel caso delle pitture di una casa vicino all’Esquilino (Fig. 9.47), nella quale un lungo criptoportico era ornato con tutta una serie di pitture, che, inframmezzate da colonne e lesene, davano l’impressione che ci si potesse affacciare e si potesse vedere l’Odissea svolgersi in un paesaggio irreale di montagne e roccioni. Immerse nel paesaggio, le piccole figure narrano la particolare vicenda, indicano quale sia l’occasione che ha dato origine al quadro, ma non sono le vere protagoniste, perdono la loro importanza fondamentale: il grande protagonista è ormai il fantastico paesaggio. Le singole scene sembrano traduzioni visive di 855

passi dell’Odissea, come se fossero fatte per illustrare un libro. Ma non solo l’Odissea, naturalmente, veniva illustrata in questo modo: si illustrano singoli passi tratti dall’epica o dai testi di mitologia, sempre inserendoli in grandiosi paesaggi.

Fig. 9.47 Odisseo incontra i Lestrigoni, da una casa sull’Esquilino. Roma, Musei Vaticani.

Una pittura venuta alla luce nella villa augustea di Boscotrecase, presso Pompei, e oggi al Metropolitan Museum of Arts di New York, rappresenta il mito di Perseo e Andromeda (Fig. 9.48). La fanciulla è ancora legata al grandioso faraglione, che occupa tutta la parte centrale del quadro; in basso a sinistra spunta dalle acque un drago marino che le fa la guardia. Perseo giunge in volo dal limite sinistro, con arpa, calzature alate e mantello all’indietro, minuscola figurina sperduta nella vastità del paesaggio marino. Lo stesso eroe, vestito dell’identico abito, ricompare nella scenetta in alto a destra, come è tipico nelle narrazioni inaugurate dalla Telefeia. Lo si vede già arrivato a un piccolo abitato, dove c’è un palazzo che il pittore descrive 856

minuziosamente sin nelle tegole; stringe la mano al re Cefeo, padre di Andromeda, segnalato come re dallo scettro che tiene con la sinistra, davanti al popolo speranzoso. Anche questa pittura muraria appare derivare da una grande composizione pittorica, nella quale le persone costituiscono poco più di un’occasione per raffigurare grandi rocce, mostri marini, flutti in un momento di tempesta nel quale questo paesaggio tenebroso è il vero protagonista. Due secoli prima, come si ricorderà, lo stesso episodio era stato raffigurato con un gusto totalmente diverso (Fig. 7.26): dall’accostamento (Tavv. 41, 42) si può ben vedere quale grosso cambiamento si sia verificato nello sviluppo della pittura ellenistica. Si passa da un momento in cui è forte l’intensità che emana dai due grandi personaggi, in primo piano su un fondo naturalistico, perché l’importante è mostrare il rapporto quasi sospeso che li lega; a un momento in cui invece, due secoli dopo, lo stesso soggetto, che rappresenta il medesimo mito secondo le stesse fonti letterarie, viene concepito come una serie di scenette successive, tutte all’interno di un paesaggio immaginario, mostruoso, drammatico, che è divenuto il vero protagonista: le figure sono rimaste l’occasione per realizzare una grande pittura di paesaggio.

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Fig. 9.48 Paesaggio con Perseo e Andromeda, dalla Villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase. New York, Metropolitan Museum. (tav. 42)

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Appendici

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Il tempio greco Le piante

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Gli ordini architettonici

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Ordine dorico

Ordine ionico

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Il conflitto angolare Il problema del conflitto angolare e le sue soluzioni:

a) Assenza del conflitto angolare in un ipotetico ordine architettonico protodorico (la larghezza del primo triglifo è cioè uguale al diametro della sottostante colonna nella sua porzione superiore).

b) Visualizzazione del conflitto con disposizione del primo triglifo in asse con la prima colonna.

c) Soluzione mediante l’ampliamento della prima metopa.

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d) Soluzione mediante la contrazione dell’interasse d’angolo (ossia spostamento verso il centro della prima colonna).

e) Soluzione mediante la contrazione degli ultimi due interassi d’angolo (doppia contrazione angolare). (rielaborazione da LIPPOLIS E., LIVADIOTTI M., ROCCO G., Architettura greca. Storia e monumenti del mondo della polis dalle origini al V secolo, Milano 2007, p. 868.)

Le forme vascolari1 Recipienti per contenere, per attingere e per versare

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Anfora Il termine stesso allude a un recipiente che, dotato di due anse verticali, viene sollevato e trasportato da «ambo i lati»; trattandosi di un contenitore capiente, è per lo più destinato a trasportare, contenere e conservare alimenti di vario genere, soprattutto liquidi (vino, olio), ma anche solidi. Può presentare un profilo continuo (a), oppure una netta distinzione del collo (b).

Hydría (femminile; plurale hydríai) È un recipiente, molto capiente, specificamente destinato ad attingere l’acqua e a trasportarla; si distingue infatti per la combinazione di due anse orizzontali per sollevare il vaso e di un’ansa verticale per versare il liquido.

Oinochóe (femminile; plurale oinochóai) È una brocca a bocca rotonda o trilobata, dotata di un’unica ansa verticale, spesso sormontante, utile appunto a impugnare il vaso per versarne i liquidi (soprattutto vino).

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Pelíke (femminile; plurale pelíkai) È un vaso a labbro arrotondato e corpo con profilo a sacco; la sua funzione è genericamente quella di contenere e conservare liquidi, anche olii profumati.

Olpe (femminile; plurale ólpaì) È una brocca caratterizzata da un’imboccatura piuttosto larga, per lo più rotonda e da un corpo con profilo a «S»; è dotata di un’unica ansa verticale.

Recipienti per mescolare e raffreddare il vino

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Cratere È un grande vaso di forma aperta che in sede di banchetto serve a mescolare vino e acqua. Se ne distinguono vari tipi: il cratere a colonnette (a), di origine corinzia, è dotato di un ampio labbro piatto dal quale aggettano due placchette, che si appoggiano sopra le anse e, staccandosi dal corpo del vaso, formano appunto due «colonnette» di sostegno. Il cratere a volute (b) (il cui più antico esemplare è il celebre cratere François) è così detto perché le anse sono collegate al labbro mediante ampie volute. Il cratere a calice (c), che ricorda nella forma una sorta di grande coppa, è caratterizzato da pareti molto alte, tese e di uniforme curvatura. Ultimo in ordine di tempo è il cratere a campana (d), il cui corpo ha infatti la forma di una campana rovesciata.

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Déinos (maschile; plurale déinoi) Trattasi di un recipiente di grande capienza, con un’imboccatura spesso molto larga e un corpo fortemente globulare; in assenza di un piede di appoggio il vaso viene per lo più montato su un alto sostegno.

Stámnos (maschile; plurale stámnoi) È un vaso con il corpo sviluppato in altezza, collo breve, bocca rotonda, spesso dotato di coperchio.

Psyktér (maschile; plurale psyktéres) Serve per raffreddare il vino e altre bevande; pieno di neve o di acqua fredda, viene inserito all’interno di un cratere per raffreddarne il contenuto. Il corpo dello psyktér ha un profilo piriforme e un robusto stelo cilindrico.

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Recipienti per bere

Kántharos (maschile; plurale kántharoi) Tipico attributo del dio Dioniso, il kantharos è una coppa a vasca profonda, su alto piede, dotata di due anse verticali fortemente sormontanti.

Kýlix (femminile; plurale kýlikes) Trattasi di una coppa a vasca larga, ma poco profonda, dotata di un alto piede a stelo; viene impugnata tramite due anse orizzontali, impostate appena sotto l’orlo.

Skýphos (maschile; plurale skýphoi) o kotýle (femminile; plurale kotýlai). Coppa a vasca profonda, con basso piede ad anello e due anse orizzontali sotto l’orlo; può avere un labbro distinto o indistinto dalla vasca.

Recipienti per toilette e altri usi igienici

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Alábastron (neutro; plurale alábastra) Derivato probabilmente da un simile contenitore in alabastro di produzione orientale, quello in ceramica, fabbricato per la prima volta dai ceramisti corinzi verso la fine del secolo VII a.C., ne eredita la forma, a sacchetto apodo (senza piede) con ampio bocchello e unica piccola ansa ad anello, e la funzione; conteneva infatti unguenti e olii profumati.

Arýballos (maschile; plurale arýballoi) È un piccolo contenitore di unguenti e olii profumati prodotto per lo più dai ceramisti protocorinzi e corinzi, raramente in seguito. Nell’ambito della ceramica protocorinzia nasce di forma globulare per evolversi rapidamente nelle forma conica, ovoide e piriforme (a). Torna a essere un vasetto globulare (b), con ampio bocchello e unica ansa a largo nastro verticale, allorchè alla ceramica protocorinzia succede quella corinzia.

Lékythos (femminile; plurale lékythoi) È un’ampolla per olii e sostanze profumate, dotata di un’unica ansa a nastro verticale. Viene elaborata dai ceramisti attici nella seconda metà del secolo VI a.C. In principio ha corpo globulare allungato a profilo continuo; in seguito si impone la forma con bocchello troncoconico, spalla a spigolo vivo e corpo cilindrico che conosce grande fortuna per tutto il secolo V a.C.

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Pisside Con questo nome i Greci indicano scatole di diverse forme e grandezze, destinate a contenere per lo più cosmetici e strumenti da toilette.

1 I nomi dei vasi sono indicati nella loro forma più corrente in ambito archeologico. Sono scritti in tondo se trattasi di un nome italiano, in corsivo se trattasi di un nome greco; in tale caso, tra parentesi, si indica se sia un sostantivo femminile o maschile e se ne riporta il plurale.

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Bibliografia

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Bibliografia1

La bibliografia sull’arte della Grecia antica è sterminata: scendere nel dettaglio per ogni artista, ogni opera, ogni monumento citato è, oltre che impossibile in questa sede, comunque estraneo ai propositi del manuale, che si prefigge di introdurre allo studio dell’arte greca. Di seguito si fornisce quindi solo una bibliografia di base, privilegiando i repertori e le opere di carattere generale, per lo più in lingua italiana o di cui sia disponibile una versione italiana; da questa prima bibliografia il lettore potrà trarre indicazioni più specifiche per approfondimenti.

Opere generali Lessici, monografie e manuali fondamentali sono: Enciclopedia archeologica, voll. I-II, Roma 2002. (EAA) Enciclopedia dell’Arte Antica Classica e Orientale, voll. I-VII, Roma 1958-1966 (con successivi supplementi 1971-1994). (LIMC) Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, voll. I-VIII, Zürich-Düsseldorf-New York-Berlin, 19821997. ARIAS P.E., L’arte della Grecia, Torino 1967. BEJOR G., CASTOLDI M., LAMBRUGO C., PANERO E., Botteghe e artigiani. Marmorari, bronzisti, ceramisti e vetrai nell’antichità classica, Milano 2012. BIANCHI BANDINELLI R., PARIBENI E., Grecia, Torino 1976. 874

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Gli autori

Giorgio Bejor è professore ordinario di Archeologia e storia dell’arte greca presso l’Università degli Studi di Milano. Ha studiato alla Scuola Normale di Pisa e, con borse DAAD, in Germania; ha quindi insegnato presso le Università di Pisa, Cosenza e Venezia. Riveste attualmente l’incarico di Direttore della Scuola di specializzazione in Archeologia dell’Università degli Studi di Milano ed è docente di Archeologia e storia dell’arte greca presso la Scuola Archeologica Italiana di Atene. In particolare, si è occupato di problemi di scultura, architettura e urbanistica, conducendo scavi e ricerche in Toscana, Calabria, Sicilia, Sardegna (Nora), Grecia (Gortina), Turchia, Siria. Marina Castoldi è ricercatore e docente di Archeologia della Magna Grecia presso l’Università degli Studi di Milano; la bronzistica greca e romana, l’artigianato artistico, la coroplastica e la ceramografia greca e italica sono fra i suoi principali campi di ricerca. È direttore del progetto di ricerca Oltre la chora e dello scavo archeologico di Jazzo Fornasiello (Gravina in Puglia, Bari). Claudia Lambrugo è ricercatore in Archeologia classica e insegna Archeologia e storia dell’arte greca presso l’università degli Studi di Milano. Partecipa a diversi progetti di ricerca e scavo archeologico in Sicilia, Magna Grecia e a Gortina (Creta). I suoi principali ambiti di ricerca sono l’archeologia funeraria, specie in riferimento alla Sicilia arcaica, l’universo infantile (giochi e giocattoli e archeologia funeraria infantile), lo studio delle ceramiche greche e 901

magnogreche con attenzione alla lettura delle immagini e all’analisi dei contesti. Ha al proprio attivo numerosi articoli in riviste scientifiche, contributi a volumi miscellanei, cataloghi di mostre e atti di convegno; insieme a Giorgio Bejor e Marina Castoldi, è inoltre autrice di Botteghe e artigiani. Marmorari, bronzisti, ceramisti e vetrai nell’antichità classica (Mondadori Università, 2012).

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Nella stessa serie: Giorgio Bejor, Maria Teresa Grassi, Stefano Maggi, Fabrizio Slavazzi, Arte e archeologia delle province romane Giorgio Bejor, Marina Castoldi, Claudia Lambrugo, Elisa Panero, Botteghe e artigiani. Marmorari, bronzisti, ceramisti e vetrai nell’Antichità classica

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INDICE Arte greca Colophon Indice Premessa Capitolo 1 L’età protogeometrica e geometrica (secoli X-VIII a.C.) Claudia Lambrugo 1.1 Il Difficile passaggio tra II e I millennio a.C. 1.1.1 Crolli e turbolenze dell’età oscura 1.1.2 L’età di Omero e di Esiodo 1.2 Le prime manifestazioni dell’arte di costruire 1.2.1 Materiali effimeri per una sperimentazione vivace 1.2.2 Delimitare e recingere lo spazio del dio 1.2.3 Vivere nella città e nello spazio domestico 1.3 Un’arte florida e potentemente espressiva: la ceramica 1.3.1 Lo stile geometrico nelle ceramiche greche 1.3.2 L’identità culturale di Atene attraverso le sue ceramiche Stile protogeometrico (1050-900 a.C.) Stile geometrico antico (900-850 a.C.)

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Stile geometrico medio (850-760/750 a.C.) Stile geometrico tardo (760/750-700 a.C.) L’arte del vasaio: argille e tornio 1.4 La piccola plastica 1.4.1 Tripodi e bronzetti per gli dei

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Capitolo 2 L’età orientalizzante (secolo VII a.C.) Claudia Lambrugo

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2.1 Un’età di profonde trasformazioni 2.1.1 L’epifania di un mondo irrazionale e mostruoso 2.1.2 Legislatori, tiranni e colonizzazione 2.2 Verso la pietrificazione del tempio 2.2.1 Gli sviluppi nel Peloponneso 2.2.2. ... e nella Ionia 2.3 La nascita della scultura monumentale 2.3.1 Dedalo e il rivelarsi dell’artista Delo, l’isola «invisibile», culla dei divini gemelli 2.3.2 Lo stile dedalico a Creta 2.3.3 . e nel Peloponneso 2.3.4 Le Cicladi: il kolossòs e il marmo 2.4 Oreficerie, bronzi e avori 2.5 Il tracciante luminoso delle ceramiche 2.5.1 La ricca Corinto e le sue ceramiche Dai vasi geometrici ai vasi protocorinzi Stile protocorinzio antico (720-690 a.C.) Stile protocorinzio medio (690-650 a.C.) Stile protocorinzio tardo (650-630 a.C.) 905

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Sulle tracce di Damarato: appunti di commercio arcaico 2.5.2 Irrequietezza e crisi ad Atene L’arte del vasaio: tecniche di decorazione

Capitolo 3 L’età arcaica (secolo VI a.C.) Marina Castoldi, paragrafi 3.3, 3.5-3.8 Claudia Lambrugo, paragrafi 3.1-3.2, 3.4, 3.9-3.10 3.1 Da Pisistrato alle Guerre Persiane: dalla tirannide alla democrazia 3.1.1 Atene: Solone, Pisistrato e la nascita della democrazia 3.1.2 Gli altri protagonisti 3.1.3 I Greci per la libertà La «colmata persiana» 3.2 La definizione degli ordini architettonici 3.2.1 L’ordine dorico e «i colonnati, opere belle» 3.2.2 Il genio di Rhoikos e i grandi dipteri ionici 3.2.3 Le Cicladi e l’architettura di marmo 3.3 Scultura in pietra (600-530 a.C.), dal mondo degli eroi al mondo degli uomini 3.3.1 La bellezza del kouros, il dono più gradito agli dei 3.3.2 Statue votive sull’Acropoli di Atene 3.3.3 La plastica ionica, espressione di potere e di eleganza 906

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3.3.4 La kore, ricca custode dell’eterna giovinezza 3.4 Architettura ed edilizia nell’Atene di età arcaica 3.4.1 L’Acropoli in età arcaica I frontoncini Sotto il Partenone di Pericle L’Architettura H Le fondazioni Dörpfeld I Propilei arcaici 3.4.2 L’Agorà in età arcaica 3.4.3 L’Olympieion 3.5 La scultura ad Atene da Clistene alle Guerre Persiane (510-480 a.C.), gli anni della svolta 3.6 Le sculture del tempio di Atena Aphaia a Egina, fra tradizione arcaica e stile severo 3.7 Scultura e artigianato in bronzo e in avorio 3.7.1 Rhoikos e Theodoros e la fusione cava 3.7.2 Il vaso più grande 3.7.3 L’avorio e le statue crisoelefantine 3.8 Il santuario di Delfi 3.8.1 ... e i cicli decorativi dei tesori La Grecia di Pausania, rinascita e nostalgia 3.9 Le Ceramiche corinzie: sviluppo e tramonto Dai vasi protocorinzi ai vasi corinzi Stile corinzio antico (620-590 a.C.) Stile corinzio medio (590-570 a.C.) Stile corinzio tardo (570-550 a.C.) 907

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3.10 Le ceramiche attiche: il trionfo del mito e degli 309 eroi 3.10.1 I precursori delle figure nere (prima 309 metà del secolo VI a.C.) Un capolavoro di pittura: il Cratere François 3.10.2 Pittori e vasai all’ombra dei Pisistratidi (seconda metà del secolo VI a.C.) Lydos, la grazia di Amasis e la grandezza di Exechias 3.10.3 Una trovata rivoluzionaria: la tecnica a figure rosse 3.10.4 I Pionieri delle figure rosse (520-500 a.C.) L’arte del vasaio: la fornace e la cottura Tavole a colori

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Capitolo 4 L’età dello stile severo (480-450 a. 388 C.) Marina Castoldi 4.1 Una generazione di passaggio 4.2 Lo «stile severo» 4.3 L’architettura sacra: rinnovamento, armonia e rigore geometrico 4.4 Il santuario di Olimpia 4.4.1 ... e il ciclo figurativo del tempio di Zeus 4.5 La scultura, ponderazione e movimento 4.5.1 Alla ricerca di un nuovo equilibrio 4.5.2 Movimento e tensione 4.5.3 L’attimo sospeso di Mirone 908

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4.5.4 Variazioni sul peplo 4.6 Ceramografia e pittura 4.6.1 La ceramografia tra tardoarcaismo e stile severo 4.6.2 La nascita della grande pittura

Capitolo 5 L’età classica (secolo V a.C.) Marina Castoldi 5.1 Il secolo di Pericle 5.1.1 Perché parliamo di età classica 5.2 Il grande cantiere dell’Acropoli 5.2.1 Uno scrigno di marmo per Atena 5.3 Urbanistica e architettura 5.3.1 Dall’urbanistica ortogonale all’urbanistica funzionale 5.3.2 Oltre il Partenone: gli scambi tra ordini architettonici e la conquista dello spazio interno 5.4 La plastica a tutto tondo e il rilievo 5.4.1 Fidia, l’interprete degli ideali di Pericle 5.4.2 Policleto e la sua scuola, alla ricerca della perfezione 5.4.3 I collaboratori di Fidia 5.4.4 Una gara tra scultori: le amazzoni di Efeso 5.4.5 Lo «stile ricco» dell’ultimo trentennio del secolo V 5.5 Dalla grande pittura alla ceramica, originalità e 909

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maniera 5.6 Il rilievo funerario: la morte come immagine dell’esistenza

Capitolo 6 L’età classica (secolo IV a.C.) Giorgio Bejor 6.1 L’età delle egemonie effimere 6.2 I nuovi cantieri nel Peloponneso 6.2.1 Nuove fortificazioni 6.2.2 Nuovi santuari: Epidauro 6.2.3 Nuovi edifici nei santuari: Tegea 6.3 I grandi scultori del secolo IV a.C. 6.3.1 Cefisodoto e Prassitele 6.3.2 Il «maestro del pathos»: Skopas 6.3.3 Altri scultori del Mausoleo: Timoteo e Leocare 6.4 Il Mausoleo di Alicarnasso 6.5 Le tradizioni dei grandi maestri 6.5.1 L’influsso di Policleto 6.5.2 L’influsso di Prassitele 6.5.3 L’influsso di Skopas

Capitolo 7 L’età di Alessandro (336-323 a.C.) Giorgio Bejor

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7.1 Filippo II, re di Macedonia 645 7.2 L’altra Grecia: l’imporsi della Macedonia 647 7.2.1 Le necropoli della Grecia settentrionale e 647 della Tracia 910

7.2.2 I tumuli di Verghina 7.2.3 I palazzi macedoni 7.2.4 Olinto e Priene: la casa greca nel secolo IV a.C. 7.3 Lisippo, tra classicità ed Ellenismo 7.3.1 L’Aghias di Delfi e il gruppo di Daoco 7.3.2 L’Apoxyomenos

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7.3.3 L’Eracle Farnese 7.3.4 Il Socrate del Pompeion 7.4 Il ritratto di Alessandro 7.4.1 Il breve regno di Alessandro: un cenno storico 7.4.2 L’Alessandro a cavallo di Lisippo 7.4.3 L’Alessandro con la lancia 7.4.4 L’Alessandro dipinto da Apelle con la folgore di Zeus 7.4.5 La battaglia di Alessandro 7.4.6 Le nozze di Alessandro 7.4.7 La fortuna di Alessandro e i suoi ritratti postumi 7.5 La pittura della generazione di Alessandro 7.5.1 Apelle, il pittore che «superò tutti quelli che erano stati prima» 7.5.2 Il Perseo e Andromeda di Nicia 7.5.3 L’Achille a Sciro di Atenione di Maronea 7.5.4 Altri soggetti tratti dal mito: Achille e Briseide 7.5.5 Il Teseo liberatore

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Capitolo 8 Il primo Ellenismo e l’arte di Pergamo (fine del secolo IV - metà del secolo 707 II a.C.) Giorgio Bejor 8.1 L’età dei diadochi e degli epigoni 8.2 La scultura del primo Ellenismo 8.2.1 L’arte dei Diadochi 8.2.2 Il Sarcofago di Alessandro 8.2.3 Da Curupedio a Magnesia (281-189 a.C.): il secolo d’oro dell’Ellenismo 8.2.4 Le statue di Afrodite 8.2.5 Altre statue di culto 8.2.6 La Nike di Samotracia 8.3 L’architettura ellenistica fra tradizione e novità 8.3.1 La ripresa dell’ordine ionico: il tempio di Apollo a Didyma e il tempio di Artemide a Sardi 8.3.2 I nuovi sviluppi dell’ordine ionico 8.3.3 I nuovi complessi scenografici 8.3.4 Edifici pubblici e stoài 8.4 Una nuova capitale culturale: Pergamo 8.4.1 Un’antica cittadella 8.4.2 Il Donario Galata 8.4.3 Il gruppo del Pasquino 8.4.4 Il supplizio di Marsia 8.4.5 Il Toro Farnese 8.4.6 Il Principe delle Terme 8.5 L’Altare di Pergamo 912

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8.5.1 L’Altare 8.5.2 Il grande fregio 8.5.3 Il fregio della Telefeia

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Capitolo 9 Dal medio Ellenismo all’intervento di Roma (dopo la metà del secolo II a.C.) Giorgio Bejor

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9.1 Il trionfo di Roma e la fine dell’Ellenismo

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9.2 La tradizione del «Barocco pergameno» 9.2.1 Il «Barocco pergameno» 9.2.2 Il Piccolo Donario 9.2.3 Il Laocoonte 9.2.4 Il Torso del Belvedere 9.2.5 Sperlonga 9.3 La scultura del medio e tardo Ellenismo 9.3.1 Una pluralità di produzioni 9.3.2 Immagini di genere e realismo bozzettistico 9.3.3 Le Muse 9.3.4 Le composizioni erotiche e il mondo di Dioniso 9.3.5 Il mondo dei ginnasi 9.3.6 Le case di Delo 9.3.7 Arte greca per Roma 9.4 La pittura del medio e tardo Ellenismo 9.4.1 Ambulanti e fattucchiere 9.4.2 Soso

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9.4.3 I cataloghi di animali 9.4.4 Il mosaico nilotico di Palestrina 9.4.5 La Tazza Farnese 9.4.6 Protagonista il paesaggio

Appendici

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Il tempio greco Le piante Gli ordini architettonici Il conflitto angolare

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Le forme vascolari

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Bibliografia Gli autori

874 901

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