Arte della libertà. Antifascismo, guerra e liberazione in Europa (1925-1945). Catalogo della mostra (Genova, 1995)

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La mostra è posta sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro e del Presidente del Parlamento Europeo Klaus Hinsch Comitato d’onore Carlo Scognamiglio, Presidente del Senato della Repubblica Irene Pivetti, Presidente della Camera dei Deputati

Lamberto Dini, Presidente del Consiglio dei Ministri Giancarlo Lombardi, Ministro della Pubblica Istruzione Antonio Paolucci, Ministro dei Beni Culturali

Giorgio Salvini, Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica Susanna Agnelli, Ministro degli Affari Esteri a Jean-Bernard Mérimé, Ambasciatore di Francia in Italia Dieter Kastrup, Ambasciatore della Repubblica Federale di Germania in Italia Patrick Fairweather, Ambasciatore di Gran Bretagna in Italia Maria de las Mercedes Rico Carabias, Ambasciatore di Spagna in Italia Enti promotori Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia, Guido Quazza, Presidente Comune di Genova, Adriano Sansa, Sindaco

Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Cinquantennale della Resistenza e della Guerra di Liberazione, Gerardo Agostini, Presidente

Enti partecipanti Regione Liguria, Giancarlo Mori, Presidente della Giunta Regionale; Giuliano

Gallanti, Presidente del Consiglio Regionale Provincia di Genova, Marta Vincenzi, Presidente Enti sostenitori Fondazione CARIGE

Fondazione San Paolo di Torino IP - Italiana Petroli SpA Fondazione Antonio Mazzotta, Milano Goethe-Institut Genua Collaborazione tecnica

Tartaglia Fine Art, Divisione SAIMA Servizi, Milano SIAT, Società ita Assicurazioni èi istanzialoni Genova

Progress Insurance Broker, Roma

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RAI-TV

Ferrovie dello Stato

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DELL'ISTITUTO BANCARIO SAN PAOLO PER LA CULTURA, LA SCIENZAE L'ARTE

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ARTE DELLA LIBERTÀ Antifascismo, guerra e liberazione in Europa 1925-1945

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Mazzotta

Comitato organizzatore Raimondo Ricci, coordinatore, Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia Giovanni Meriana, coordinatore, Assessore alla Cultura del Comune di Genova Francesca Ferratini Tosi, Direttore amministrativo dell'Istituto nazionale

per la storia del movimento di Liberazione in Italia Massimo Legnani, Direttore scientifico dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia Giovanni Persico, Regione Liguria Franco Ragazzi, Palazzo Ducale Augusto Roletti, Provincia di Genova Franco Sborgi, Università di Genova Laura Tagliaferro, Direttore del Servizio Beni Culturali del Comune di Genova Progetto scientifico e organizzativo Raimondo Ricci, Franco Sborgi, Franco Ragazzi

Ordinamento della mostra Franco Sborgi, Gianfranco Bruno, Enzo Collotti Comitato scientifico Franco Sborgi, coordinatore Gianfranco Bruno, Direttore dell’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova Enzo Collotti, Università di Firenze

Francesco Berti Arnoaldi Veli, Istituto nazionale per la stotia del movimento di Liberazione in Italia Rossana Bossaglia, Università di Pavia; Consiglio Generale di Palazzo Ducale Jean Clair, Direttore del Musée Picasso di Parigi; Direttore del Settore Arti Visive Biennale di Venezia; Consiglio Generale di Palazzo Ducale Mario De Micheli, Storico dell’arte Helmut Friedel, Direttore della Stadtische Galerie im Lenbachhaus di Monaco

Guido Giubbini, Direttore del Museo d’ Arte Contemporanea di Genova Peggy Loar, Direttore della Wolfsonian Foundation di Miami Beach, Florida Giovanna Rotondi Terminiello, Sovrintendente ai Beni Artistici e Storici della Liguria Angela Weight, Direttore del Dipartimento Artistico dell’Imperial War Museum di Londra con la collaborazione di Karin Herrmann

Gabriele Mazzotta Claudia Terenzi Netta Vespignani

Segreteria organizzativa

Monica Biondi Claudia Bovis Chiara Bricarelli Dello Strologo Paolo Sbordoni Dianella Speziale Bagliacca Catalogo Curatore: Franco Sborgi Saggi di: Gianfranco Bruno, Enzo Collotti, Mario De Micheli, Ralph Jentsch, Claudio Natoli, Franco Ragazzi, Franco Sborgi, Claudia Terenzi, Netta Vespignani, Angela Weight Contributi di: Lia Perissinotti Traduzioni: Lieselotte Longato (dal tedesco), Giulio Lupieri (dall'inglese) Redazione: Domenico Pertocoli

Impaginazione: Bianca Franchetti

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Gli organizzatori e l'editore desiderano porgere un vivo ringraziamento ai musei e alle collezioni pubbliche, agli artisti, alle gallerie e ai collezionisti privati che con i loro prestiti hanno reso possibile la realizzazione della mostra, e in particolare a: Akademie der Kiinste, John Heartfield-Archiv, Berlino; Bayerische

Staatsgemaldesammlungen, Staatsgalerie Moderner Kunst, Monaco; Galerie der Stadt Stuttgart, Otto Dix-Stiftung, Stoccarda; Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea, Torino; Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma; Gemaldegalerie Neue Meister, Dresda; Graphische Sammlung Albertina, Vienna; Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington DC.; The Imperial War Museum, Londra; Istituto Mazziniano, Genova; Kunstmuseum Bern, Paul Klee-Stiftung, Berna; Kulturgeschichtliches Museum, Osnabriick; Kunstsammlung Gera, Otto Dix-Archiv, Gera; Staatliche Kunstsammlungen Dresden, KupferstichKabinett, Dresda; Magyar Nemzeti Galéria, Budapest; Markisches Museum, Berlino; Munch-museet, Oslo; Musée Goya, Castres; Musée Jenisch, Fondation Oskar

Kokoschka, Vevey; Musée National d’Art Moderne - Centre Georges Pompidou, Parigi; Musée Picasso, Parigi; Musée Zadkine, Parigi; Musei Civici, Reggio Emilia; Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce, Genova; Museo Manzù, Ardea; Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid; Museu Picasso, Barcellona; Muzeum Narodowe, Varsavia; Narodni Galerie, Praga; Otto Dix-Archiv, Schaffhausen; Otto Pankok-Museum, Hiinxe Drevenack; Memorial Art Gallery, Rochester, NY; Staatliche Galerie Moritzburg, Halle; Staatliche Museen zu Berlin, Nationalgalerie, Berlino; Stadtische Galerie im Lenbachhaus, Monaco; Tate Gallery, Londra; Walker Art Center, Minneapolis; Whitney Museum of American Art, New York. Archivio Storico Tono Zancanaro, Padova; Associazione Arte e Spiritualità, Brescia; Ernst Barlach-Stiftung, Gistrow; Ernst und Hans Barlach GbR Lizenzverwaltung, Ratzeburg; Fondation Neumann, Gingins; Fondazione Antonio Mazzotta, Milano; Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata; Fundacié Joan Mirò, Barcellona; Fondazione Carlo Levi, Roma; Otto Dix-Stiftung, Vaduz; The Henry Moore Foundation, Much Hadham; The Wolfsonian Foundation, Miami Beach. Galerie de France, Parigi; Galerie Di Meo, Parigi; Galerie Louise Leiris, Parigi; Galerie Netuschil, Darmstadt; Galeria d’Art Oriol, Barcellona; Galleria Anna D’Ascanio, Roma; Galleria Martini & Ronchetti, Genova; Galleria Carlo Virgilio, Roma; Volker Huber, Editionsgalerie, Offenbach am Main. Renata Bentivoglio, Giovanni Bertonati, Mario Bessone, Rosa Birolli, Zeno Birolli, Paolo Boccardo, Frank Brabant, Gianfranco Bruno, Serena Cagli Basaldella, Marcello Canale, Fabio Carapezza Guttuso, Giovanna Carpi, Pinin Carpi, Mario Corica, Marzio Cortinovis, Agenore Fabbri, Famiglia Fazzini, Metella Ferrazzi, Ninetta Ferrazzi, Boris Ferri, Antonietta Fiorentini, Giulio Fiz, Ester Fumagalli, Luigi Gianelli, Titta Guarnieri, Floriano Hettner, Giuseppe Iannaccone, Ralph Jentsch, Ronald S. Lauder, Miriam Mafai, Achille e Ida Maramotti, Marina Marchetti, Carla Marchini, Alessandro Marini, Giovanni Battista Martini, Diego e Marguerite Masson, Vincenzo Mazzone, Susanne e Gabriele Mucchi, Francesco Muzzi, Alfredo Paglione, Fernando Pia, Francesco Pirelli, Marinella Pirelli, Pietro Pirelli, Alberto Ronchetti, Pierpaolo Ruggerini, Aligi Sassu, Francesco Sassu, Raffaele Siervo, Francesco Tacchini,

Elda Terenzi, Emilio Vedova Renzo Vespignani, Nelda Riva Ziveri, e tutti i prestatori che hanno preferito mantenere l'anonimato. Si rivolge un particolare ringraziamento alle associazioni partigiane:

ANPI, Arrigo Boldrini, Presidente; FIVL, Paolo Emilio Taviani, Presidente; FIAP, Aldo Aniasi, Presidente; e a tutte le altre associazioni della Resistenza

e combattentistiche facenti parte della Confederazione. Si ringraziano i dirigenti della Sovrintendenza ai Beni Storico-Artistici della Liguria, e in particolare Giuliana Algeri, Piero Donati, Marzia Cataldi Gallo, Franco Boggero, e i dirigenti, funzionari e il personale del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, ja d.

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Divisione VII, Roma; Peter Osborne della Museums and Galleries Commission

di Londra; Pietro da Passano, responsabile operativo del Consorzio Palazzo Ducale, e Patrizia Berninsone, responsabile della Daniele Jacorossi SpA - Artesia; Tiziana

Ginocchio e Alfredo Tavani del Servizio Beni Culturali del Comune di Genova; Gustavo De Meo, Paride Piasenti; Roberto Vatteroni, Carmelo Maniaci, Luigi Poli,

Mario Serio; Giorgio Gaggero e Vito Grasso dell’Istituto Italiano di Cultura di Madrid; Andrea Traverso; l’Istituto di Storia dell’ Arte dell’Università di Genova; l'Accademia Ligustica di Genova; lIRRSAE Liguria; l’Istituto Storico della Resistenza in Liguria; CGIL, CISL, UIL e in particolare Aldo Giunti, Renzo Miroglio, Emilio Gabaglio; SPI CGIL; ARCI; le ACLI; la COOP Liguria; la Lega delle Cooperative della Liguria; ENIT; l'Azienda di Promozione Turistica di Genova; i dirigenti e i funzionari dei

musei e delle collezioni pubbliche e private: Petra Albrecht, Renate Altner, Giancarlo Ambrosetti, Jean-Paul Ameline, Jean-Louis Augé, Zsuzsa Baké, Ernst Barlach, Lérand

Bereczky, Marian Bisanz-Prakken, Ulrich Bischoff, Bernard Blatter, Per Bj Boym, Christine Bògli, Allan Borg, Peter Boswell, Ellin Burke, Catherine Clement, Marcella Cossu, James Demetrion, Rafael Domenech, Margaret R. Dong, Northild Eger, Arne Eggum, Paloma Esteban Leal, Viviane Faret, Manlio Gaddi, Mariann Gergely, Liz Glawe, Anita Gross, Horvath Gyòngy, José Guirao Cabrera, Kathy Halbreich, Herbert Hampe, Josef Helfenstein, Wolfgang Holler, Dieter Honisch, Ingrid Huber, Anna Javor, Elizabeth S. Kujawski, Quentin Laurens, Brigitte Léal, Francesco Lechi, Sylvain

Lecombre, Hans Ulrich Lehmann, Nathalie Leleu, Rosanna Maggio Serra, Rosa Maria Malet, Bruno Mantura, Claudine Martin, Paule Mazouet, Gabriele Mazzotta, Henriette Mentha, Michael D. Moody, Leo Morabito, Iris Miller-Westermann, Claus K. Netuschil, Teresa Ocafia, Vlasta Odell, Eva Pankok, Riccardo Passoni, Rainer Pfefferkorn, Sandra Pinto, Johann Georg Prinz von Hohenzollern, Volker Probst, Gérard Régnier, Marie-Frangoise Robert, Douglas J. Robinson, Thorsten Rodiek, Peter Romanus, Ulrike Rudiger, Ferdynand B. Ruszczye, Carmen Sanchez Garcia, Marjorie B. Searl, Nicholas Serota, Barbi Schechter Spieler, Johann-Karl Schmidt, Werner Schmidt, Angela Schneider, Jiri Sevcik, Monica Simpson, Kazimierz Stachurski, Renate Steffen, Andrej Stoga, Madelaine Strobel Neumann, Julie Summers, Catherine Thieck, Klaus Tiedemann, Roger Tolson, Wolfgang Trautwein, Luigi Vannucci, Germain

Viatte, Pia Vivarelli, Kinga Szczepkowska-Naliwajek, Ingebjorg Ydstie, Barbel Zausch, Ursula Zeller, Miguel Zugaza Miranda. Si ringraziano inoltre: Carlo Bachschmidt, Franco Balestrini, Silvia Beraudo, Isabella Bianchi Perugino, Matteo Bianchi, Paolo Blendinger, Claudia Campanella, Roberta Canu, Compagnia del Disegno, Lucia Crespi, Anna Croce, Goffredo De Francesco, Luisa De Vettor, Raffaella Della Rovere, Casimiro Di Crescenzo, Richard Feigen, Esperia Ferrari, Matteo Fochessati, Luigi Fornasero, Carole Fregonara, Vincenzo

Gaetaniello, Giovanni Garbarino, Nehama Guralnik, Otto e Marianne Hofmann, Ahuva Israel, Florian Karsch, Alexander Klee, Olda Kokoschka, Sandor Kuthy, Leo Lecci, Henry Meyric Hughes, Angioletta Magnani, Mario Matasci, Carla Mirabella, Nicola Neonato, Luisa Nizzoli, Ugo Perone, Simona Piccardo, Ewald Rathke, Giovanni Roggero Fossati, Luca Rolandi, Ulrich Schneider, Barbara Serrati, Alessandra Sette, Ernesto Treccani, Antonio Valente, Paolo Vallorz, Marina Zanaboni.

L’arte fiorisce nei tempi di libertà come in quelli di oppressione. Ma essa nasce, ugualmente, da uomini interiormente liberi e così capaci di esprimersi con pienezza e misura.

L'espressione artistica allora, pur manifestandosi in libertà, può tuttavia non assumerla a proprio tema e non occuparsene affatto: a riprova, appunto, d’essere libera. Ma talvolta l’arte sceglie, per bisogno imperioso o misteriosa necessità, di prendere la libertà o la sua patita mancanza a proprio oggetto: questa è l’“arte della libertà” che Genova raccoglie e celebra, a nome di tutta l’Italia, nel cinquantesimo anniversario della Liberazione, per memoria, consolazione e speranza comune. Adriano Sansa Sindaco del Comune di Genova

L'Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia ha promosso con profonda convinzione questa mostra di dimensione europea che conclude le manifestazioni del cinquantennale della Resistenza. La rottura dei tradizionali confini disciplinari della storiografia ha portato a un più ravvicinato confronto con le arti figurative. I prodotti di queste sono stati ricompresi a pieno titolo fra le fonti della storia e, in pari tempo, si è riconosciuta all’arte, alla letteratura, alla musica, al cinema la capacità di anticipare in forma

sintetica, e perciò particolarmente efficace, gli stessi giudizi storiografici. Questi infatti, come la nottola di Minerva, spiccano il volo, quando lo spiccano, soltanto a eventi compiuti.

In secondo luogo, l’ampio arco cronologico e tematico rappresentato nella mostra corrisponde pienamente all’allargamento del quadro entro il quale soltanto è possibile cogliere in tutti i suoi aspetti non solo il grande evento della Resistenza, ma l’intero dramma che ha caratterizzato la prima parte del nostro secolo, trascorso sull’orlo di un abisso che solamente in virtù di immani sacrifici è stato possibile evitare. Arte della libertà significa perciò anche arte per la libertà. Accanto alla testimonianza di un recente passato la mostra contiene così un messaggio per il difficile presente in cui viviamo.

Claudio Pavone Vicepresidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia

L’arte da sempre è testimonianza della cultura di un popolo nelle diverse epoche della sua storia. Le diverse espressioni artistiche hanno sempre consentito, quando non al servizio di regimi liberticidi, di far sentire la voce degli uomini liberi contro i soprusi e le discriminazioni. Una esposizione di opere di pittura, scultura e grafica di grandi autori, con l’obiettivo non solo di presentare una produzione artistica degna della massima attenzione, ma soprattutto per invitare a non dimenticare e per dare l’opportunità alle nuove generazioni di scegliere in libertà e coscienza. Giancarlo Mori Presidente della Giunta della Regione Liguria

“Arte della libertà” è una mostra significativa per la quantità e la qualità delle opere esposte e originale perché trasmette i valori della democrazia, della pace e della concordia tra i popoli attraverso il linguaggio più alto che l’uomo ha saputo produrre nel corso della sua storia: quello artistico. Nella sua articolazione interna e nelle sue numerose iniziative collaterali, altret-

tanto qualificate, si configura come un viaggio nel tempo e nello spazio, in cui vengono toccati gli abissi della barbarie e dell’intolleranza e i vertici che solo un’arte di opposizione, assolutamente non conciliante, riesce a raggiungere, in

un raro amalgama di rigore etico, di commossa pietà per gli offesi e, nonostante tutto, di indiscussa fiducia nell’uomo.

Marta Vincenzi Presidente della Provincia di Genova

Con la mostra “Arte della libertà” viene fornito uno spaccato particolarmente significativo e rilevante della partecipazione degli intellettuali alla lotta contro l'oppressione e contro la violazione dei diritti fondamentali nel corso del nostro secolo. Si tratta di un contributo originale e nuovo che merita di essere conosciuto e riflettuto perché resti viva la memoria anche attraverso l'immaginazione di artisti che hanno interpretato eventi drammatici che hanno segnato la storia della prima metà del secolo in Italia e in Europa. La Fondazione Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, fornendo il suo concreto contributo alla realizzazione di questa manifestazione, ha inteso collaborare perché soprattutto i giovani — e anche i meno giovani — possano sentire il valore della libertà e delle sue istituzioni anche attraverso l’immagine artistica. Il risultato conseguito conferma l'opportunità della scelta. Fausto Cuocolo Presidente della Fondazione CARIGE

Non c’è vera arte se non c’è vera libertà: la libertà interiore, che è fattore costitu-

tivo della persona umana; ma anche la libertà di agire, operare, manifestare, anche nell’arte e con l’arte, i propri ideali e le proprie speranze. Se la prima è insopprimibile, la seconda è esposta all’arbitrio del potere che si pretende assoluto, del potere che invece di porsi al servizio dell’uomo si arroga il diritto di determinarne il destino. Questa libertà si può difendere solo con la memoria e la testimonianza: non la storia è maestra di vita ma l’umiltà con cui l’uomo d’oggi accetta di ricordare gli errori del passato per non ripeterli, il coraggio con cui raccoglie e porta avanti l’impegno di chi prima di lui ha lottato per la propria e altrui libertà. Certo, il valore degli ideali e il coraggio della testimonianza non bastano, da soli, a creare autentica arte. Ma non c’è arte da cui non traspaia il coraggio di un ideale. Gianni Zandano Presidente della Fondazione dell'Istituto Bancario San Paolo di Torino

per la Cultura, la Scienza e l'Arte

Questa mostra ripropone, attraverso la creatività dei maggiori artisti europei e secondo le loro opere nate lungo un preciso percorso storico-artistico, uno dei momenti più significativi e drammatici del nostro secolo: l’incompatibilità tra gli ideali dell’uomo e l’intolleranza dei regimi dittatoriali. Questi valori universali fanno di “Arte della libertà” un evento che travalica il messaggio artistico.

IP è orgogliosa di partecipare a questa mostra nella splendida sede di Palazzo Ducale, che le è cara.

Guido Albertelli Presidente di IP - Italiana Petroli

Allestimento Progetto: Roberto Melai con la collaborazione di: Francesca Beltrametti, Antonio Albrizio, Vincenzo Ariu, Giovanna Burlina,

Franco Melis

Direzione tecnica: Giuseppe Spadavecchia Consulenza illuminotecnica: Archiluce di Jean-Claude Asquié e Liliana Tadeluca Realizzazione: Daniele Jacorossi SpA; COFASA; Sciutto Imballaggi, Genova Comunicazione e promozione Ufficio stampa e pubbliche relazioni del Comune di Genova: Maria Candida Barabino, Cesare Torre Ufficio stampa di Palazzo Ducale, Genova: Luisa Dufour, Michela Gregoretti,

Camilla Talfani Ufficio stampa della casa editrice Mazzotta: Alessandra Pozzi Marketing e comunicazione Media Activity l’arte srl Centro didattico di Palazzo Ducale Silvia Bordo, Cristina Nocciolini

CD-ROM GGallery, Genova Internet

L’indirizzo per consultare pagine informative sulla mostra'è il seguente: http: //Awww.it.net/ART OF FREEDOM

Trasporti Tartaglia Fine Art, Divisione SAIMA Servizi, Milano Assicurazioni SIAT, Società Italiana Assicurazioni e Riassicurazioni, Genova

Progress Insurance Broker, Roma

Referenze fotografiche: ANG-Archiv, Staatliche Museen zu Berlin - Preussischer Kulturbesitz, Nationalgalerie; Archivio fotografico Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid; Arxiu Fotogràfic de Museus, Ajuntament de Barcelona; Fototeca dei Musei Civici di Torino; Réunion des Musées Nationaux, Paris: Musée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou, Paris; Photothèque des Musées de la Ville de Paris © by SPADEM 1995; Munch-Museet, Oslo; André Morain, Paris; Galerie Louise Leiris; Uwe Seemann, Giistrow; Strenger, Osnabriick / Christian Grovermann; Hans-Joachim Bartsch, Berlin; Giorgio Bergami, Genova; Agent Foto, Torino; Ulrich Fischer, Gera; Klaus Gòken, Berlin; Lee Stalsworth, Washington; Klaus E. Géltz, Halle; Walter Klein, Dusseldorf; Mester Tibor Foto, Budapest; Grazia Neri, Milano; Maura Parodi, Genova; H. Romanowski, Varsavia; Archivio Aligi Sassu, Milano; Giuseppe Schiavinotto, Roma; Larissa Soffientini, Milano

© 1995 Edizioni Gabriele Mazzotta

Foro Buonaparte 52 - 20121 Milano ISBN 88-202-1152-1

Sommario

17.

Antifascismo, guerra e liberazione nelle arti in Europa 1925-1945 Franco Sborgi

31

Premonizione e denuncia: rappresentazione e dramma del linguaggio Gianfranco Bruno

41.

George Grosz: un piccolo sì e un grande no Ralpb Jentsch

53

Gliartisti inglesi e la guerra Angela Weight

59

Le premonizioni e il dramma della guerra nelle opere degli artisti a Roma Claudia Terenzi e Netta Vespignani

63

Scritti degli artisti

68.

Bologna ’65 / Genova ’95: due mostre diverse sulla Resistenza Mario De Micheli

73.

Artee

cultura nella montagna partigiana

Franco Ragazzi

79

Aspettie problemi della Resistenza in Europa Enzo Collotti

92

L’antifascismo in Europa tra le due guerre mondiali Claudio Natoli

107

342

Arte della libertà: 108 Inquietudini e prefigurazioni 130 Il volto del totalitarismo - 166 La guerra di Spagna 185 Ernst Barlach e Kathe Kollwitz - 196 Verso l’Apocalisse 211 La guerra, la violenza - 244 La guerra, la distruzione 265 L’olocausto - 283 La rivolta - 321 La terra desolata

Notizie biografiche sugli artisti e catalogo delle opere Lia Perissinotti

Otto Dix, Trittico della guerra, 1929-32.

Antifascismo, guerra e liberazione nelle arti in Europa 1925-1945 Franco Sborgi

Molte sono state le mostre che nel corso del dopoguerra si sono succedute per commemorare la fine della guerra e la resistenza al nazifascismo, e ognuna ha avuto una sua propria fisionomia, strettamente legata al momento storico, all’area geografico-culturale in cui si svolgeva e, infine, alla personalità stessa dei suoi curatori.! Quindi anche questa mostra ha una sua specifica fisionomia, diversa, per alcuni aspetti, e con tangenze, per altri versi, con quelle che l'hanno preceduta. Ma, soprattutto, essa si propone di essere un momento di riflessione attualizzante sull’opposizione e sulla lotta che gli artisti hanno condotto, pur con partecipazioni, tempi e modalità diverse, al nazifascismo durante i vent’anni in cui esso ha

Giuseppe Scalarini, Il manganello fascista, 1924.

! Se ne potrebbero citare molte, ma non è questa la sede per una rassegna bibliografica esaustiva. Fra esse ricordiamo Arte e Resistenza in Europa, cat. mostra a cura di M. De Micheli, Bologna-Torino, 1965, ampia mostra che seguiva un ordinamento per nazioni. Un testo che resta an-

cor oggi fondamentale per un’ampia riflessione sull'argomento è quello di E. Frommhold, Kunst im Widerstand, Dresda, 1968 (ed. it. Arte

della Resistenza 1922-1945, Milano, 1970). Per l’Italia ricordiamo due fra le più recenti: C. Terenzi, N. Vespignani (a cura di), Rorza sotto le

stelle del ’44 - Storia, arte e cultura dalla guerra

segnato tragicamente la storia europea. Partecipazione molto diversificata, certo, ma che indubbiamente ha come connettivo la denuncia, attraverso i mezzi specifici dell’arte, dell’angoscia individuale e collettiva che il dramma storico ha comportato lungo il suo intero svolgersi. Ma la mostra è allo stesso tempo l’occasione di ripercorrere, attraverso la qualità delle quasi trecento opere esposte, provenienti da musei e collezioni europee e statunitensi, il senso di un’esperienza artistica fondamentale nel quadro culturale del nostro secolo, che ha saputo coniugare il linguaggio di un’arte di ricerca con la testimonianza di una coscienza del tempo, proponendosi in un ruolo necessariamente oppositivo nei confronti di quelle forze che tale coscienza tendevano a spegnere con la violenza fisica e con quella morale. Opposizione che la cultura artistica è andata man mano esprimendo nel corso degli anni con una sempre più forte determinazione e chiarezza: dalla diffusa inquietudine tra metà anni Venti e primi Trenta, che accompagna il drammatico clima di involuzione delle democrazie europee, fino alle esplicite condanne delle dittature fascista e nazista. La mostra segue un percorso cronologico di circa vent'anni, dalla metà degli anni Venti fino al termine del conflitto, e si articola in sezioni che individuano i temi e

i problemi che contraddistinguono le diverse fasi e le diverse angolazioni che hanno segnato la progressiva presa di coscienza della cultura figurativa: diversità di posizioni e di rappresentazioni che corrispondono ai diversi modi e tempi con cui la cultura artistica europea è coinvolta in questo processo. Non sempre, infatti, la risposta dell’arte è tempestiva e corrispondente al verificarsi storico degli eventi.

Caso emblematico è certo quello dell’Italia, in cui una cultura figurativa di espli-

cita opposizione al fascismo si propone — salvo poche eccezioni — solo in forme sporadiche prima del 1936°: anno in cui l’imperialismo fascista si manifesta con la certa evidenza dei fatti, attraverso la partecipazione diretta alle sciagurate imprese di Etiopia e di Spagna. Il volto “bonario”, da rivoluzione populista (“bonario” si fa per dire: era già stato scandito dal delitto Matteotti, dalla persecuzione violenta degli oppositori e dalla loro emarginazione, dal confino, dall’istituzione del Tribunale speciale, dall’in-

quietante e costante presenza dell’OVRA, dalla sistematica fascistizzazione del paese, dopo il 1926, solo per fare alcuni esempi),' oggetto possibile di ironia per i suoi aspetti plateali — si pensi, ad esempio, alle sarcastiche caricature di Scalarini e Galantara—) sembra venire progressivamente meno per mostrare un sempre più inquietante apparentamento, nelle sue forme, con l’amica Germania hitleriana. E d’altra parte non erano mancati, al tempo stesso, quegli intellettuali che avevano cercato di riscuotere la cambiale sedicente rivoluzionaria del regime, che ancora nel 1932 (e anche dopo) sembrava a taluni riscuotibile: non si dichiarava forse una “rivoluzione” il regime quando celebrò con la ben nota mostra il proprio decennale, e non sembrarono credervi quelle stesse avanguardie che furono chiamate a celebrarne l’immagine?” Di lì a poco molti di essi dovettero ricredersi di fronte all’esplicitarsi sempre più inequivoco del suo carattere totalitario e staraciano (sempre più becero e irridente nei confronti di una cultura che non si appiattisse su schemi nazional-popolari e, quindi, vista come irrimediabilmente “diversa”)”, che finì per coinvolgere in

una progressiva emarginazione non solo le avanguardie, ma quegli stessi artisti (Sironi, ad esempio), che più avevano cercato di aderire (e non solo con i temi,

ma con l’onestà di un linguaggio intenzionato al rinnovamento totale della comunicazione artistica) a una ipotesi rivoluzionaria che sembrava evocare, almeno nei primi anni Venti, le ingenue speranze palingenetiche delle avanguardie d’inizio secolo. Diversa fu in parte la storia di quei paesi europei che vissero tensioni e drammi più visibili (ma forse si trattava di voler vedere), che fecero maturare più in fretta e più radicalmente una coscienza del tempo e resero sempre più necessario schierarsi, individuati chiaramente quei fattori antagonisti che erano divenuti palesi minacce non solo per la democrazia ma per la sopravvivenza stessa della cultura e dell’arte. Emblematica fu la storia della Germania (e non è certo un caso che più di un terzo delle opere in mostra appartengano proprio alla cultura tedesca), dove l’esperienza tragica di una guerra perduta, della sua follia e soprattutto l’identificazione degli attori protagonisti di questa follia portarono rapidamente alla maturazione di una coscienza storica e politica già a partire dalla prima guerra mondiale. Coscienza storica e politica che vide protagonisti, pur in modo diverso, molti di quegli artisti che dalle istanze contrappositive della cultura d’avanguardia dei primi decenni del secolo avevano tratto una riflessione conseguente: coniugando tanto l’impegno quanto il valore testimoniale di un linguaggio lontano dai compromessi evasivi in cui l’arte spesso era stata confinata nella società del tempo. L’arte tedesca maturata dalla prima guerra mondiale, facendo tesoro dell’eredità espressionista e dell'esperienza dadaista, seppe infatti già negli anni Venti essere lucida testimone delle tendenze involutive della società contemporanea: testimone, certo, delle grottesche contraddizioni della società, ma contemporaneamente della drammatica frattura che tali contraddizioni imponevano e avrebbero sempre più imposto all’identità dell’individuo e dell’artista. La violenza quotidiana, la reazione tanto becera quanto determinata che percorrevano la società tedesca

alla liberazione, cat. mostra, Roma, 1994 (in cui

è affrontata la situazione a Roma, oltre che dal punto di vista artistico, da quello storico-culturale); e M. De Micheli (a cura di), Le ragioni della libertà, Milano, 1995 (improntata alla

continuità di valori e tematiche resistenziali dagli anni di guerra a oggi). Si sono inoltre andate succedendo, soprattutto in questi ultimi anni, indagini sul tessuto storico-culturale complessivo, includenti la dialettica fra arte ufficiale e di opposizione. Particolarmente indicativa quella attualmente in corso a Londra alla Hayward Gallery, Art and Power -Europe under the Dictators 1930-1945, Londra, 1995.

2 Si veda, per il quadro generale di quegli anni, Anni Trenta - Arte e cultura in Italia, cat. mostra, Palazzo Reale, Milano, 1982. E ben vero,

peraltro, che vi furono molte forme di non allineamento alle posizioni più ufficiali favorite dal regime. Resta inoltre il fatto che un’opposizione dichiarata, come quella che si registra in Germania negli anni Venti e Trenta, non si ha in Italia se non negli ultimi anni Trenta e negli anni di guerra, intorno a gruppi come Corren-

te, ad esempio; oppure nelle grottesche immagini del regime proposte da artisti come Tono Zancanaro. Si veda, per la complessa lettura di questi fenomeni, in Anni Trenta..., cit., in parti-

colare i saggi di V. Fagone, Arte, politica e propaganda, G. Armellini e A. Borgogelli, La reazione contro il Novecento, G. Armellini, Gli artisti di “Corrente” e la cultura degli anni Trenta, L. Caramel, GY astratti. Si veda anche D. Morosini, L’arte degli anni difficili (1928-1944), Roma, 1985. Più generalmente, G. Turi, I/ fa-

scismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, 1981. Sul confronto fra la situazione artistica italiana e ca tedesca si veda Z. Birolli, E. Crispolti,B. Hinz, Arte e fascismo in Italia e in Germania, Milano, 1974. Perl’ aspetto più specificamente storico si vedano, qui in catalogo, i saggi di E. Collotti e C. Natoli. } Il 3 ottobre 1935 era iniziata la guerra italoetiopica, conclusasi l’anno successivo con la proclamazione dell'impero (9 maggio); l’impresa italiana trovò l'immediato sostegno del governo del Reich. L’intervento italo-tedesco, nel 1936, in appoggio alla rivolta di Francisco Franco contro la Repubblica, fu determinante per le successive vicende della guerra di Spagna. I due eventi, come è noto, segnarono l’ini-

zio dell’alleanza italo-tedesca, con non poche conseguenze sulle trasformazioni, anche “formali”, del regime fascista. 4 Dal 1926 al 1943 furono condannate al confino diecimila persone. ° Gabriele Galantara (1865-1937), illustratore politico per l’“Avanti!” e poi per “L’Asino”, condusse una feroce satira del fascismo dalle ola di questi giornali. Giuseppe Scalarini (1873-1948), anch'egli illustratore politico dell’“Avanti!”, di particolare efficacia polemica, subì costantemente le persecuzioni del fasci-

smo. Sulla loro satira antifascista si veda Arte e Resistenza in Europa, cat. mostra, Bologna-Torino, 1965.

© D. Alfieri, L. Freddi (a cura di), Mostra del decennale della rivoluzione fascista, cat. mostra, Bergamo, 1933: “...la parola d’ordine del duce chiara e precisa: far cosa d'oggi, modernissima dunque, e audace, senza malinconici ricordi degli stili decorativi del passato”. Cfr. Anni Trenta..., cit., pp. 48-49. ? Mussolini, nel discorso alla Camera del 26 maggio 1927, poteva affermare: “E tempo di dire che l’uomo prima di sentire il bisogno della cultura, ha sentito il bisogno dell’ordine.” Si veda, sul carattere, U. Silva, Ideologia e arte del fascismo, Milano, 1973, pp. 29-39. Indicativi sono due brani di A. Soffici citati da Silva: “Un’arte, la quale rifugga da tutti gli sciocchi e nebulosi teoricumi, dalle aberrazioni snobistiche e ribellistiche...” (da “Critica Fascista”, n. 20, 1926); “...il popolo non ama né gli artifici raffinati, né le astruserie, né le morbose complessità [...] tutto ciò è appannaggio del borghese invertito ed ebraizzato” (Selva, Firenze,

1943, p.340).

8 Si veda R. Bossaglia, I/ Novecento di Sironi, il muralismo, il clima novecentista, in Anni Trenta, cit., pp. 81-84.

? Th. Mann, Vor deutscher Republik, 1922, a favore della Repubblica di Weimar. 10 Sulla continuità fra il clima contrappositivo antecedente l’ascesa di Hitler e quello successivo al 1933, vista soprattutto nell’ambito delle esperienze espressioniste-realiste, si veda C. Hoffmeister (a cura di), Revolution und Realismus - Revolutionire Kunst in Deutschland 1917 bis 1933, cat. mostra, Altes Museum Berlin, Berlino, 1978.

11 Si veda E. Keuerleber (a cura di ), Otto Dix -

Kritische Grafik 1920-1924 - “Der Krieg”, Radierwerk 1924, cat. mostra a cura dell’Institut fir Auslandsbeziehungen, 1993. 1? Da A. Negri, Lea Grundig, in “Quaderni del Dibattito”, n. 1, Milano, aprile 1974. Ricordiamo che nel 1924 Grosz fu fra i firmatari (con Schlichter, Heartfield ecc.) del manifesto del Rote Gruppe, gruppo di intellettuali e artisti impegnati col proprio lavoro a sostenere la lotta del proletariato tedesco contro le classi egemoni.

3 L’opera di Derkovits Terrore - Per il pane (1930) si riferisce specificamente alla repressione della dimostrazione popolare del settembre 1930 contro il governo di Horthy (che nel 1919 aveva guidato le forze reazionarie contro la Repubblica dei consigli operai di Béla Kun, instaurando la dittatura dal 1920 al 1944), prelu-

dio al governo fascista e filonazista di Gombòs (1932-36). Durante le manifestazioni gli operai sfilarono con alcune riproduzioni delle-incisioni di Derkovits sulla rivolta contadina del 1514. Si veda D. Micacchi, Derkovits, cat. mostra, Galleria La Nuova Pesa, Roma, 1961.

erano di una evidenza ineludibile: pure se diversi anche qui furono i gradi e i tempi sia della coscienza che della risposta. Nei primi anni Venti — quando la tragedia italiana giungeva al suo compimento con la “marcia su Roma”, i nazionalsocialisti assassinavano in Germania il ministro Rathenau e Hitler stava progettando il poi fallito putsch di Monaco (1923) — intellettuali come Thomas Mann, Bertolt Brecht?, artisti come George Grosz, Otto Dix, John Heartfield, Kathe Kollwitz ecc. esprimevano, pur in modo diver-

so, il proprio dichiarato dissenso; ma, soprattutto, la coscienza che solo l’impegno della cultura e dell’arte potessero contribuire a contrastare eventi che si pre-

annunciavano sempre più tragici e apocalittici.!° Di lì a poco (1924), infatti, Kathe Kollwitz lanciava il generoso appello Mas più guerra contro i sempre più ricorrenti rigurgiti nazionalisti e militaristi; Otto Dix

realizzava il drammatico ciclo di incisioni La guerra!!, al tempo stesso memoria e premonizione; e George Grosz (testimone spietato, con la sua arte, della violenza quotidiana di una classe dominante che, pur colpevole della appena avvenuta catastrofe, non solo non ne accettava la responsabilità, ma cercava di troncare sul

nascere ogni tentativo di rifondare su nuove basi la società tedesca) invitava gli artisti a un impegno cosciente dei propri mezzi nel noto scritto L'arte è ir perico-

lo (1925), in cui, in una prospettiva fortemente politicizzata, affermava: “L’artista di oggi, se non vuole essere uno che corre nel vuoto o un vagabondo cieco fuori

del tempo, può solo scegliere fra tecnica e propaganda di classe. In entrambi i casi si deve rinunciare all’‘arte pura’. Sia nel caso che come architetto o ingegnere o disegnatore pubblicitario si inserisca nell’esercito [...] che sviluppa le forze industriali e sfrutta il mondo, sia nel caso che, rispecchiando come descrittore e come critico il volto del nostro tempo, si schieri come propagandista e come difensore dell’idea rivoluzionaria e dei suoi partigiani nell’esercito degli oppressi che lottano per la loro giusta partecipazione ai valori del mondo, e per una organizzazione di vita sociale e ricca di significato.”! Ma altri paesi stavano vivendo in questi stessi anni analoghe drammatiche tensioni con altrettanto forti necessità testimoniali: basti ricordare l’esperienza dell’Ungheria, dominata già dagli anni Venti dal terrore del regime di Horthy, che vide il drammatico impegno di un artista come Gyula Derkovits:! indubbiamente una delle figure più alte della cultura figurativa ungherese del tempo, e non certo la sola voce di forte dissenso in quel paese; o la vicenda della Spagna, ad esempio (essa diverrà più avanti vero e proprio emblema della tragedia europea), che stava sperimentando dal 1923, pur in forme meno vistose e col consenso della monarchia di Alfonso XIII, la dittatura di Primo de Rivera.!

La forma del dissenso e dell’esplicita opposizione, nel corso degli anni Venti e nei primissimi Trenta, sembra articolarsi soprattutto fra la denuncia della violenza delle classi dominanti, il presagio sempre più inquieto di un’apocalisse prossima ventura, e il progressivo definirsi dello spazio di relazione — l’immagine della città, soprattutto — come luogo di perdita d’identità, scenario di un grottesco carnevale, che va assumendo sempre più fisionomie millenariste o alla Bosch (dal Grosz di Germania, una fiaba d'inverno, del 1918, ad esempio, fino al Dix di

opere come il polittico La grande città del 1927-28). La mostra ha voluto prendere l'avvio da questo angosciante contesto, attraverso opere che denunciano, pur in forme diverse, i segni ricorrenti di un’inquietudine che coinvolge, direttamente e indirettamente, tanto le immagini quanto il linguaggio dell’arte (si veda in proposito il saggio di G. Bruno in questo volume).!° Abbiamo qui affiancato, infatti, in una prima sezione, una serie di grandi opere, fra metà anni Venti e primissimi Trenta, particolarmente rappresentative di que-

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sta ricorrente bipolarità fra inquiete simbolizzazioni e sempre più drammatiche constatazioni.

La mostra si apre con un gruppo di dipinti e sculture che parlano soprattutto di inquietudini e che, nel loro aspetto ancora fortemente simbolico, dicono di angosce non descrivibili, di attese apocalittiche non precisabili, se non nell’individua-

zione di chi ne sarà vittima, l’uomo, appunto. La forte deformazione espressionistica, il cromatismo violento che allude al sangue, degli uomini dell’ Apocalisse di Scipione (1930) — un artista che proprio nella rottura del linguaggio propone il proprio istintivo dissenso al conciliante tradizionalismo del contesto culturale ufficiale dell’Italia fascista — trova riscontri di inquietudine nella Crocifissione laica di Pirandello (1930), o più fantastiche allusioni nelle visionarie Sodorza e Gomorra di Savinio (1929). Ma è soprattutto in opere come La lotta (1932-35) di Edvard Munch, negli uomini-insetto di Massacro di André Masson (1931), o nel pietrificato Paesaggio con canale nero di Franz Radziwill (1931), 0, più avanti nel tempo ma con analoghe istanze, nell’Uozzo nel buio (1934) di Max Beckmann, che l’inquietudine soggettiva dell’artista assume via via il valore di simbolo assoluto della violenza generalizzata del tempo e, soprattutto, di preannuncio dell’apocalisse. Ma allo stesso tempo il simbolo tende a incarnarsi in immagini più precise e contestualizzate. Ciò avviene particolarmente, ancora una volta, nella cultura tede-

sca, dove l’intreccio di simbolo e realtà propone un immaginario figurativo via via sempre più grottesco e inquietante, come in un film di Murnau o di Lang. Di questo clima, in mostra, sono particolarmente rappresentative le opere di Grosz, La repubblica delle prigioni (1924), di Rossig, Germania (1927), di Hub-

buch, Dancing (1928) — una sorta di grottesca “ultima danza sul Titanic” della società europea, con non poche affinità tematiche col pressoché coevo dipinto di Dix La grande città —, e il più tardo Monaco (1933-35), una visionaria rappresentazione, questa, della città, popolata da una folla di “homunculi” alla Bosch su cui domina inquietante il segno della svastica. Ma la denuncia di questa endemica violenza, come tema dominante della vita quotidiana e della storia presente, fra fine anni Venti e primi Trenta, trova una sorta di “crescendo” nelle opere di artisti di forte coscienza critica e politica, come ad esempio Grosz (se ne veda la grottesca metafora di Macelleria del 1931,!5 in cui il linguaggio stesso, nella intensa drammatizzazione, si fa asseveratore del significato) o Schlichter, nel dipinto Massacro alla Muraglia cinese del 1932: opera, questa, che se può forse avere una qualche allusività ai fatti del tempo, come l'occupazione giapponese della Manciuria nel 1931, ha in realtà il valore più generale di un’angosciante premonizione.!? Del resto già molte voci dell’arte europea, e in particolare di quella tedesca, erano uscite spesso dall'ambito della visionarietà e della simbolizzazione, individuando chiaramente fatti e antagonisti. Max Beckmann - artista in cui non verrà mai meno l’urgenza di una testimonianza di fronte al progressivo quanto rovinoso scivolare verso la catastrofe — già nel 1925, con Galleria Umberto, proponeva la denuncia del fascismo italiano nella grottesca rappresentazione di una congrega di deformi personaggi da corte dei miracoli (analoghi elementi allusivi sembrano comparire nel contemporaneo Fantasia italiana, dove il personaggio vociante sulla destra del dipinto sembrerebbe essere una caricatura di Mussolini).?® Ma l’insorgenza di un più generale autoritarismo, che pervade dei suoi segni di morte la realtà, si fa sempre più ricorrente. Si veda, a questo proposito, il dipinto di Schlichter Hausvogteiplatz (1926 c.): la forca insanguinata che campeggia sulla folla al passeggio, indifferente, mentre sul fondo gli astri — il Sole, la Luna, Saturno — danno alla visione il tono di una preapocalisse.

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14 La dittatura di Primo de Rivera durò fino al 1930. Nel 1931 le forze democratiche sconfissero la monarchia e proclamarono la repubblica. 15 George Grosz, Germania, una fiaba d'inverno, del 1918, già in collezione Wieland Herzfelde, Berlino. Otto Dix, La grande città, 1927-28,

Galerie der Stadt Stuttgart, Stoccarda. Questa lettura trova soprattutto spazio nella cultura di derivazione espressionista e particolarmente in molta parte dell’inquietante realismo allucinatorio del movimento degli anni Venti della Neue Sachlichkeit (nuova oggettività): a queste esperienze si rapportano molti degli artisti tedeschi presenti in mostra, da Grosz a Dix, Beckmann, Schlichter, Nussbaum ecc. Si veda il recente H.J. Buderer, Neue Sachlichkett - Bil-

der auf der Suche nach der Wirklichkeit - Figurative Malerei der Zwanzigerjahre, cat. mostra, Stadtische Kunsthalle Mannheim, Mannheim, 1994.

16 Si veda alle pp. qui di seguito.

!7 Giova ricordare che mentre George Grosz,

nel 1926, dipinge Le colonne della società (Nationalgalerie, Berlino), Fritz Lang realizza il film Metropolis. Per le interessanti connessioni fra cultura e arti figurative in rapporto alla figura di Grosz si veda P.K. Schuster (a cura di), George Grosz - Berlin-New York, cat. mostra,

Nationalgalerie, Berlino, 1994. 18 Tema già presente, con valore emblematico, in Grosz: se ne veda l’analogo soggetto del 1930 (P.K. Schuster, op. cit., pp. 364-365). Ricordiamo che lo stesso tema era comparso, con simili allusioni a una violenza grottesca, in Otto Dix nel 1920 (collezione privata, Italia). 19 Interessante l’interpretazione che di questo dipinto diede Emilio Bertonati (Rudolph Schlichter feticista, in cat. mostra, Galleria del

Levante, Milano, 1975): “...con l'avvicinarsi del fatidico 1933 [...] si sovrappone, elemento generante, continuo, incalzante e soffocante, l’in-

combenza di un pericolo tanto più enorme e tanto più impossibile allora a combattere ché immondo, viluppante, insidioso, mortale; ed è qui che si tura ogni spiraglio, ogni fessura, ogni tramite di respiro per la ‘speranza’ schlichteriana ed è qui l’enorme muro, addirittura la ‘grande muraglia’ dell'esemplare olio datato 1932 che impedisce ogni ulteriore procedere: al di qua non c’è che l’inizio del massacro; ed è proprio quest'opera ove l'allargamento di campo trasforma il sadismo-perversione di Schlichter in sadismo-denuncia: questa infatti è la sua prima opera dove, nel rispetto della leggibilità delle forme, i personaggi hanno perso ogni umana

fisionomia. Da quel momento, col nazismo al potere, nella.sua opera è il regno dei morti, è la clinica delle fisionomie, è l’ospizio delle più tragiche ed allucinanti allegorie...” 20 Italienische Fantasie, 1925, Kunsthalle, Bielefeld. Per Beckmann si veda K. von Maur (a cura di), Max Beckmann - Meisterwerke 1907-

Analoghi segni, anche più espliciti, ritroviamo nel Grosz di Ur orzo deciso

(1928), nell’incongrua quanto grottesca presenza del borghese che ostenta le insegne naziste e la divisa in mezzo ai bagnanti di una spiaggia.?! Ormai, infatti, la pericolosità dei movimenti fascisti per la democrazia risulta sempre più palese e gli artisti più critici, con coerenza, andranno testimoniando con sempre maggiore determinazione la loro opposizione. L'esempio italiano costituiva del resto un’inequivocabile testimonianza di quello

il. N ia '38

che sarebbe stato il destino dell’arte se i fascismi avessero trionfato in Europa.

Ludwig Meidner — artista che era già stato in primo piano nel denunciare l’apocalisse della prima guerra mondiale e diverrà angosciato testimone del calvario del popolo ebraico — nel 1929 poneva con sarcastica chiarezza il problema: “Adesso che [...] la grande epoca sembra seguita da un’epoca ancor più grande, in cui Mussolini tiene i suoi discorsi incendiari, Primo decreta, e Woldemaras

oltre a bere il caffè non compie imprese grandiose essenziali — adesso, in molti angoli e cantucci c'è puzza di veleno, di violenza, di agguato malvagio. La generale fiacchezza e mancanza di carattere, la miseria economica, in alleanza con

Giuseppe Terragni, “Mostra del decennale della rivoluzione fascista”, Roma, 1932.

1950, cat. mostra, Staatsgalerie Stuttgart, Stoc-

carda, 1994. 21 Analoghi caratteri grotteschi ha L'’agitatore, 1928, Stedelijk Museum, Amsterdam. 2 L. Meidner, Chi si loda non si imbroda ovvero trattato giocoso sulla ritrattistica, in “Kunstblatt”, 1929 (da Ludwig Meidner, cat. mostra, Galleria del Levante, con presentazione di F. Fortini, Monaco, 1977).

2 La “grande coalizione” del 28 giugno 1928 univa ai socialdemocratici il partito ultraconservatore (DNVP), il Partito democratico tedesco (Deutsche demokratische Partei) e il Centro con il cancellierato di Hermann Miller. 24 Il fascismo, che si era dato una propria forza paramilitare (la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale), nel 1925 si era trasformato in

una dittatura aperta. Nel 1928 Mussolini assunse il titolo di “duce”. Nel periodo fra il 1925 e il 1929 si era proceduto a una sistematica e capillare fascistizzazione delle arti e della cultura: è del 1931 l’imposizione ai docenti universitari del giuramento di fedeltà al fascismo (è emblematico che rifiutassero solo 13 su 1225). Se lo stesso Mussolini aveva dichiarato a più riprese di non volere un’“arte di Stato”, certo il

controllo pubblico sulle arti tendeva a proporsi, almeno parzialmente, attraverso l'istituzione

dei sindacati degli artisti (con le relative esposizioni), oltre che con una mirata politica di com-

mittenza pubblica e di premi volta a organizzare il consenso.

l'anarchia sessuale, o in parole più chiare la fornicazione dei nostri giorni, hanno reso facile ad alcuni tipacci l’abbattere il regime umano del liberalismo e lo spargere terrore in tutte le direzioni. Anche se nel volere di quel potente ci può essere qualche cosa di positivo e di rinnovatore, specialmente riguardo alle tendenze dissolutrici del tempo, ogni intellettuale dovrà sempre opporsi all’asservimento della coscienza e della libertà di opinione. Ma con un certo umorismo e un fine addestramento da leccapiedi si può anche tollerare benino il dominio dei fascisti, solo che bisogna saper leccare il sedere al dittatore, come sanno fare così bene oggi i nostri colleghi italiani. Ritraggono il duce in marmo, come Cesare o addirittura come Giove, in piedi, da padrone del mondo, col piede sopra vermiciattoli, pigmei, che devono simboleggiare i popoli della terra che il loro semidio ha soggiogato o soggiogherà più tardi. E una cosa così la trovo giusta — non intendo

dire il dittatore che soggioga, ma quanto vi è di ideologico — ed altrettanto giusto è il servilismo e lo strisciare, veramente bisogna imparare a farlo, ed è indispensabile anche trattando con la grande borghesia; e qui domando chi di voi è deciso a trascorrere assolutamente tutta la vita con carattere, rettitudine, orgoglio virile e fedeltà a un'idea! [...] Fare del vero kitsch non è tanto facile se uno di nascita non è di indole kitsch. Ognuno di noi fa le sue faccende e in fondo non può fare altro che quello che ha fatto ieri e l’altro ieri, e anche se volesse fingere, la sua vera anima trasparirebbe attraverso l’inganno...”?? Sono anni in cui il cerchio intorno alla democrazia si va sempre più stringendo: Hitler sta costituendo, dal 1925, il Partito nazista, e nel 1927 darà vita a uno

spettacolare raduno a Norimberga, a riaffermare inequivocabilmente la propria presenza. La Repubblica di Weimar e il suo spirito democratico stanno inesorabilmente andando verso un inarrestabile declino: l'alleanza fra socialdemocratici e ultradestra, nel governo del 1928, apre ormai la strada a una violenza a cui si va sempre più dando legittimità politica.?? Così come stava avvenendo del resto in Italia, dove il fascismo, ormai saldamente

insediato al potere con strumenti autoritari (le “Leggi eccezionali” del 1926, l’istituzione del Tribunale speciale, nel 1927, la sistematica fascistizzazione del

paese ecc.), cercava, nel 1929, più larghe legittimazioni attraverso il Concordato fra Stato e Chiesa e il Plebiscito.?* Segnali sparsi, ma altrettanto inquietanti, di ciò che sarebbe stato di lì a poco il destino della cultura e dell’arte sotto le dittature, venivano in questi anni dallo scenario tedesco. A Monaco, ad esempio, due dei famigerati protagonisti di quello che sarebbe stato il regime nazista, Himmler e Rosenberg, fondavano il

Kampfbund fur deutsche Kultur, un’associazione per promuovere una cultura “tedesca” consona ai principi nazisti. Ma che tali principi fossero tutt'altro che virtuali lo dimostrarono i nazisti in quelle regioni tedesche dove erano pervenuti al potere. W. Frick, ministro nazista della Cultura in Turingia, promulgava nel 1930 un'ordinanza contro quella che chiamava la “cultura negra”; e Schulze-Naumburg, a Weimar, nello stesso

anno ordinò la scialbatura degli affreschi di Oskar Schlemmer nell’edificio del Bauhaus e, allo stesso tempo, la rimozione dallo Schlossmuseum delle opere di Barlach, Klee, Kandinsky.?° Già da questi e molti altri segnali si poteva cogliere con chiarezza la radicale incompatibilità fra una cultura di ricerca — che aveva raggiunto in quegli anni alcuni dei suoi punti più alti — e ’armamentario di kitsch sottoculturale di cui si nutrono abitualmente le dittature. Sottocultura (utilmente paludata da schemi naturalistici e riferimenti mitici al passato, per renderla largamente assimilabile da una incultura di massa) che è il referente inscindibile per un kitsch politico fatto di plebiscitarismo, di slogan tanto superficiali quanto ripetibili, di presenze carismatiche di leaders salvatori della patria e delle sue “tradizioni”. La drammatica epoca fra la fine degli anni Venti e il fatidico 1933 vedrà gli artisti più consci, non solo in Germania, ma in molta parte d'Europa, impegnarsi nella

denuncia di questo tragico kitsch politico-culturale. Si incomincia del resto a comprendere che lo scontro non è solo politico, ma che è messa in discussione la sopravvivenza stessa dei valori della cultura e della civiltà europea di fronte a una nuova barbarie che ha volti diversi ma un fine unico: quello del trionfo di un sistema impostato sulla remissione critica della coscienza e sulla standardizzazione dei “valori” al loro livello più basso, quello del banale quotidiano. Artisti come Grosz, Heartfield, Dix, Kokoschka, la Kollwitz, Hans e Lea Grun-

dig, Derkovits, per citarne solo alcuni fra quelli in cui la ricerca artistica — volta a trovare un linguaggio sempre più stringente proprio sul piano della specificità dell’arte — si coniuga con una costante e coraggiosa riflessione critica, divengono

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Otto Dix, Metropoli, 1927-28.

2 Il Kampfbund fir deutsche Kultur (Lega di combattimento per la cultura germanica) fu fondato nel 1929 come organo ufficiale del Partito nazista per combattere la cultura d’avanguardia in nome di un’arte “di popolo”. Il fondatore, Alfred Rosenberg, figura di spicco del programma culturale nazista, scrisse nel 1930 Der Mythus des 20. Jabrbunderts (Il mito del XX secolo), in cui teorizzava la superiorità culturale della razza ariana (“La creatività fu spezzata perché si era orientata, ideologicamente e artisticamente, verso modelli stranieri e così non era più consona alle necessità della vita”). Heinrich Himmler, capo dal 1929 delle SS e dal 1936 della Gestapo, divenuto ministro dell’interno nel 1943, fu il fautore fanatico della “soluzione finale” contro il popolo ebraico. 26 Wilhelm Frick fu poi ministro dell'Interno del Reich dal 1933 al 1943. In tale veste fu il promotore della confisca delle opere d’arte di proprietà ebraica. Paul Schulze-Naumburg, teorico del nazismo, pubblicò nel 1928 Kunst und Rasse (Arte e razza). Sempre nel 1930 i nazisti interruppero, lanciando bombe, la rappresentazione di Ascesa e caduta della città di Mabagonny di Bertolt Brecht. “I promotori di questo manifesto antifascista furono Kathe Kollwitz e Heinrich Mann. Fra gli intellettuali che lo firmarono vi furono personalità come Einstein ed Ernst Toller. 28 $. Sabarsky (a cura di), Otto Dix, cat. mostra, Milano, 1986, p. 2

i protagonisti di un’azione di coscienza che non si interromperà neppure con l'avvento di Hitler al potere, né quando per molti di loro si aprirà la strada dell’esilio o della persecuzione. La presenza di questi artisti in mostra è stata voluta particolarmente rilevante proprio per il ruolo da essi svolto. Heartfield, ad esempio, che seppe indirizzare l'originale linguaggio del fotomontaggio, elaborato durante l’esperienza dadaista, a una forte quanto sintetica capacità di comunicazione di un messaggio al tempo stesso morale e politico, è rappresentato con oltre una decina delle sue più importanti e famose opere. Ugualmente i due Grundig, che caricarono il loro realismo espressionista di con-

tenuti di chiara testimonialità, che vanno ben oltre alla pura descrizione dei fatti, per divenire simboli di una umanità lacerata dalla violenza subita: perfettamente in coerenza con un impegno che li portò all’internamento e, nel caso di Lea, al successivo esilio (Hans Grundig, Prigioniero, 1935; Angoscia, 1936, ecc.; Lea Grundig, Gestapo nelle case, 1934, ecc.).

Così Kathe Kollwitz (firmataria, nel 1933, insieme a molti intellettuali tedeschi,

del famoso Appello urgente!) che puntualmente, lungo gli anni più bui della storia tedesca, testimonierà la violenza sull’umanità e sul singolo — sulla donna, in particolare, come vittima predestinata e inerme — proiettando il dramma individuale in una sorta di sacralizzazione laica, assoluta, della sofferenza.

Otto Dix, I sette vizi capitali, 1933.

22 E. Karcher, Otto Dix 1891-1969, Colonia, 1989, p. 196. Si discute se l'aggiunta dei baffi, che individuano precisamente la figura dell’omino con quella di Hitler, sia avvenuta originariamente o nel 1945. Al di là di ciò il riferimento è comunque chiaro. Del resto l’impegno di denuncia di Dix in questi anni non lascia margine di dubbio, con opere come il citato trittico La guerra (1929-32, Staatliche Kunstsammlungen, Gemaldegalerie Neue Meister, Dresda), Guerra di trincea (1932, affresco, già Museo di Igiene di Dresda, distrutto dai nazisti), Trincee (1932, Galerie der Stadt Stuttgart, Stoccarda), Trionfo della morte (1934, Galerie

der Stadt Stuttgart, Stoccarda). Del resto Dix fu tra i primi artisti a essere dimissionato dall'insegnamento con la motivazione che certe sue opere sconvolgevano gravemente il sentimento morale del popolo tedesco, e che altre avevano caratteri tali da pregiudicare la volontà di difesa del popolo tedesco. 30 Fra le varie iniziative repressive ricordiamo la chiusura, nel 1933, della mostra 30 Deutsche Kiinstler a Berlino, dove erano presenti artisti come Barlach, Beckmann, Nolde ecc. Sempre nel 1933 iniziano le “Schandausstellung” a Mannheim, Dresda ecc., in cui si espongono al ludibrio le opere delle avanguardie. Va altresì ricordato che dal 1933 la gestione delle arti è rigidamente regolata dalla Reichskulturkammer sotto la direzione di Goebbels.

In questo contesto di coraggiosa quanto tragica resistenza al sopraggiungere del nazismo si pone indubbiamente l’opera di Otto Dix, uno dei più drammatici testimoni del tempo (Hitler dirà, di fronte alle sue opere: “E un peccato che non si possa internare questa gente”).25 L’artista, che è presente in mostra anch'egli con diversi importanti dipinti, è proposto in questa sezione con un’opera fondamentale, come il grande cartone per I setti vizi capitali, cupa allegoria della società contemporanea, in cui il potente richiamo alla cultura tedesca visionaria del XVI

secolo — Bosch e Griinewald,

particolarmente — si fa simbolo di un’apocalisse che si è ormai concretizzata, e che trova ulteriore amplificazione nella scritta sul fondo del dipinto, tratta da Così parlò Zarathustra di Nietzsche: “Cresce il deserto: guai a chi dentro di sé cela deserti.” L’opera, concepita nel 1932 (momento molto fertile per l’artista: è dello stesso anno il trittico La guerra), fu realizzata l’anno successivo, proprio nel momento apicale della tragedia tedesca: non a caso l’omuncolo che raffigura l’Invidia, sulla groppa dell’Avarizia, è un chiaro riferimento a Hitler.?? L’ascesa di Hitler al potere nel 1933 confermerà inequivocabilmente le denunce e le angosce preannunciate dalla cultura e dagli artisti. Inizia infatti la sistematica e organica cancellazione di tutto ciò che, in quanto arte di ricerca (al di là, paradossalmente, dei suoi stessi contenuti politici), è visto — e a ragione, per il suo intrinseco potenziale critico — come una minaccia per l’appiattimento orizzontale

delle idee che si prefigge il nuovo regime. Accanto al rogo dei libri “contrari allo spirito tedesco”, iniziano il ritiro (e spesso la distruzione) delle opere delle avanguardie dai musei, la chiusura di scuole “sospette” come il Bauhaus (nel 1933, su ordine di Gòring), l'allontanamento dall'insegnamento degli artisti e il divieto non solo di esporre ma addirittura di produrre.?® Anche qui in un crescendo che, dalle “Schandausstellungen” (esposizioni degli scandali), che si succedono un po’ in tutto il paese, giungerà alla ben nota mostra della “Entartete Kunst” (Arte degenerata) nel 1937 a Monaco: mostra che espone al ludibrio del filisteismo dell’“uomo medio” quelli che sono certo fra i più alti

25

risultati della cultura artistica non solo tedesca, ma europea, dei primi quattro decenni del Novecento.?! In quello stesso anno Hitler inaugura, sempre a Monaco, la “Grosse Deutsche Kunstausstellung” con un discorso che non lascia adito a nessun equivoco: “Io non voglio che nessuno abbia false illusioni: il nazionalsocialismo ha posto come proprio compito primario di liberare il Reich tedesco, e così il popolo tedesco e la sua vita, da tutte quelle influenze che sono fatali e rovinose per la sua esistenza. E sebbene questa ‘purga’ non possa essere compiuta in un solo giorno, io non

voglio lasciare alcuna ombra di dubbio sul fatto che, presto o tardi, scoccherà l'ora della liquidazione di quei fenomeni che hanno preso parte a questa corruzione [...]. D’ora in poi noi condurremo una instancabile guerra di purificazione contro gli ultimi elementi di putrefazione della nostra cultura.” Il modello contrappositivo proposto dalla mostra era quello di un anodino naturalismo classicheggiante e retorico, con non pochi richiami alla cultura romantica tedesca, peraltro stravolta nelle sue istanze di fondo.” Esperienze di analogo appiattimento naturalista e classicista erano del resto già ben sperimentate da anni nella cultura figurativa e nell’architettura promosse ufficialmente dal fascismo italiano, dove peraltro i riferimenti a una identità nazionale si muovevano fra populismo, classicismo e neorinascimentalismo.?’ Di fronte al sistematico attacco alla cultura e all’arte, oltre che alla società demo-

cratica, anche artisti meno inclini a esplicite posizioni politiche sentiranno l’urgenza della testimonianza. È il caso, per fare degli esempi, di personalità come Paul Klee (Nerzico mortale, 1933, ecc.)?4 e Alfred Kubin (Colonne brune, 1933) — entrambi presenti in mostra con opere di particolare qualità — che trasferiranno questa angosciata denuncia nel tessuto più profondo delle loro opere. La convinzione che il fascismo sia una malattia mortale europea — nel 1933 non solo Germania e Italia, ma anche Ungheria, Polonia, Portogallo sono dominati

da regimi autoritari (e la stessa terno il periodo staliniano, con turale e in palese contrasto con pa)? — diventa ormai coscienza fica guerra, 1935;)° Heartfield,

Unione Sovietica sta attraversando al proprio inaltrettanto inquietanti riduzioni della libertà cull'appoggio che dà ai movimenti libertari in Eurodiffusa presso gli artisti (L. Grundig, Hitler signiQuesta è la salvezza che portano, 1938), sia fra

quelli che operano clandestinamente, sia fra quanti, dall’esilio, come ad esempio Kokoschka e Beckmann, alzanò la loro voce di condanna.

L’inarrestabile rovinare dell'Europa verso un conflitto apocalittico si fa ormai sempre più verosimile. Gli stessi eventi del 1935-36 — l’invasione italiana dell’Etiopia (si vedano qui, di Grosz, Mussolini il colontalista, 1935 c., e, di Heartfield,

Monumenti di gloria fascista, 1936) e l'appoggio congiunto di tedeschi e italiani al colpo di stato di Francisco Franco contro la Repubblica spagnola, tra la pressoché totale indifferenza delle democrazie europee — non appaiono più che una prova generale di quanto sarebbe avvenuto di lì a poco. Soprattutto la guerra civile di Spagna è occasione drammatica per la cultura europea democratica di una più vasta presa di coscienza di fronte a un primo e concreto avverarsi delle visioni tragiche prefigurate; e, allo stesso tempo, di fronte alla necessità di un impegno diretto ormai ineludibile. Essa diventa per gli intellettuali europei non solo il problema della sopravvivenza della Repubblica, ma l'emblema di una più generale sopravvivenza della società europea. Picasso, certo fra gli artisti più impegnati nel denunciare la violenza della nuova barbarie, nel 1937, mentre dipingeva Guerzica, disse: “La lotta spagnola è la battaglia della reazione contro il popolo, contro la libertà. Tutta la mia vita di artista è stata un’incessante contesa contro la reazione e la morte dell’arte [...] Nel mu-

24

31 Sulla mostra dell’“Arte degenerata”, e più complessivamente sui rapporti fra nazismo e cultura d’avanguardia, si vedano P.K. Schuster (a cura di), Die “Kunststadt” Mtnchen 1937 Nationalsozialismus und “Entartete Kunst”, cat. mostra, Staatsgalerie moderner Kunst, Monaco, 1987; S. Barron (a cura di), “Degenerate

Art” - The Fate of the Avant-Garde in Nazi Germany, Los Angeles-New York, 1991 (pubblicato in occasione dell’omonima mostra tenutasi al County Museum of Art di Los Angeles). La mostra, organizzata da Ziegler su ordine di Goebbels, non era che quella più organica di una serie che si succedette dopo il 1933 con analoghi intenti: comprendeva circa 650 opere e, nei quattro mesi in cui fu aperta a Monaco, ebbe più di due milioni di visitatori, ai quali se ne deve aggiungere un altro milione nei tre anni in cui fu fatta viaggiare in Germania e Austria (cfr. S. Barron, op. cit., p. 9). Sempre nel 1937 fu organizzata anche la mostra “Der Ewige Jude” (L’eterno ebreo). E nello stesso anno furono confiscate più di 16.000 opere d’arte contemporanea. Fra i principali artisti presenti alla mostra della “Entartete Kunst”: J. Adler, E. Barlach, W. Baumeister, H. Bayer, M. Beckmann, H. Campendonk, Kar/ Kaspar, M. Chagall, L. Corinth, H. Davringhausen, O. Dix, M. Ernst,

L. Feininger, C. Felixmiller, O. Freundlich, G. Grosz, H. Grundig, R. Hausmann, E. Heckel,

K. Hofer, J. Itten, A. von Jawlensky, W. Kandinsky, E.L. Kirchner, P. Klee, O. Kokoschka, W. Lehmbruck, El Lissitzky, F. Marc, G.

Marcks, L. Merdner, J. Metzinger, L. MoholyNagy, P. Mondrian, G. Muche, O. Mueller, E.W. Nay, E. Nolde, O. Parkok, M. Pechstein,

H. Richter, C. Rohlfs, O. Schlemmer, R. Schlichter, K. Schmidt-Rottluff, K. Schwitters, L. Segall, C. Voll ecc. (i nomi in corsivo corrispondono a quelli di artisti presenti in questa in mostra).

3? Per il discorso di Hitler cfr. L. Becker, Aspects ofthe Art of the Third Reich, in The Romantic Spirit in German Art 1790-1990, cat. mostra, Edimburgo-Londra-Milano, 1994, p. 309. Più generalmente, sui modelli dell’arte di regime, cfr. P. Adam, Art of the Third Reich, New York, 1992. Si veda anche il saggio di G.L. Mosse, Beauty without Sensuality, in S. Barron, op. cit., pp. 25-31.

? Si vedano, ad esempio, Anni Trenta... cit.; U. Silva, op. cit. 24 Klee, la cui repulsione morale nei confronti del nazismo è istintiva (si veda il disegno Ur avventore abituale del 1931, Kleestiftung, Berna, sarcastica caricatura di Hitler), nel 1933 è dimissionato dall'Accademia di Diisseldorf e i nazisti perquisiscono il suo studio. Risale a questo momento il noto dipinto Cancellato dalla lista (già collezione Felix Klee, Berna). ? Sull’arte ufficiale dei tempi di Stalin si veda M. Cullerne Bown, Art under Stalin, Oxford, ISEE

rale al quale lavoro, e che chiamerò Guerzica, e in tutte le mie ultime opere, si manifesta il mio ribrezzo davanti alla casta militare che ha gettato la Spagna in un mare di sofferenze e di morte...”?? E l’appello si faceva ancora più chiaro nel messaggio che l’artista inviava al Congresso degli artisti americani: “In questo momento desidero ricordarvi che ho sempre creduto e credo ancora che, davanti a un

?6 Lea Grundig realizzerà in questi anni cicli di incisioni come Sotto la croce uncinata (1933-37) e La guerra incombe (1935-37), a cui appartengono alcune delle opere proposte in mostra. 2? E. Frommbhold, op. cit., pp. 66-75. Rod P.I. ?? Joan Miré, nel 1937: “La spaventosa tragedia che viviamo può sicuramente scuotere i singoli geni e potenziarne le energie. Se le forze reazionarie che noi compendiamo nel nome di fascismo si diffondono ancora spingendoci sempre più in fondo nel vicolo cieco della crudeltà e dell’insensato, sarà la fine di ogni dignità umana” (ibid., p.51).

40 Sull’Esposizione universale di Parigi del 1937, su Guernica di Picasso e sulle presenze degli altri artisti (J. Miré con I/ falciatore, J.M. Sert, J. Gonzalez con La Montserrat, A. Calder ecc.) a sostegno della Repubblica spagnola si veda H.B. Chipp, Picassos Guernica, Berkeley Los Angeles, 1988, in particolare la parte III 41 André Masson (come del resto i surrealisti: del 1934 è un loro Appello alla lotta contro i fascismi) ha posizioni chiaramente antifasciste; nel 1934 è in Spagna, a Barcellona, durante lo sciopero generale che porterà alla proclamazione della Repubblica catalana. È vicino a gruppi anarchici e realizza caricature e manifesti antifranchisti. L'esperienza spagnola sarà proposta nel 1936 nella mostra parigina “Espagne 19341936”. Fra i dipinti più rappresentativi di questa partecipazione c'è indubbiamente Ritorno dall'esecuzione, 1937, Kunsthalle, Brema. Si veda D. Ades, André Masson, Barcellona, 1994, pp. 17-21.

4 La rivolta delle Asturie del 1934 è vista abitualmente come un'anticipazione del contrasto socia-

le e politico che confluirà nella guerra civile. 4 Su questa interessante figura di artista antifascista, che sin dal 1922 passa molta parte della sua vita fra arresti e confino e dal 1936 al 1939 partecipa con le Brigate internazionali alla guerra civile, si veda il recente saggio di A. Negri, Giandante X (1899-1984) - Ricerca artistica pura e decorazione d’agitazione, in “Studi di Storia delle Arti”, n. 6, Genova, 1991, pp. 20922247

44 Per fare solo alcuni esempi: Levi nel 1934 è arrestato e dal 1935 è inviato al confino in Lucania; sarà poi di nuovo arrestato e confinato nel 1943 (si veda Carlo Levi - Disegni dal carcere 1934 - Materiali per una storia, Roma,

1983).

Sassu nel 1935 (in rapporto anche al dipinto Fucilazione nelle Asturie) è processato dal Tribunale speciale e incarcerato per un anno e mezzo, quindi sottoposto a sorveglianza. Birolli è arrestato per antifascismo nel 1937.

conflitto che mette in gioco i più alti valori dell’umanità e della civiltà, l'artista che vive e opera con valori spirituali non può e non deve restare indifferente.”?8 Ma era consapevolezza comune.?? Difficilmente si era trovata in precedenza una tale concorrenza di esperienze culturali e linguistiche così diverse, dai surrealisti agli espressionisti, dai realisti agli astratti, con tensioni così alte nella ricerca di un proprio specifico linguaggio in grado di essere al tempo stesso moralmente e formalmente adeguato al dramma della temperie storica. La mostra documenta con opere particolarmente importanti questa alta convergenza di valori. Opere centrali di questa sezione sono indubbiamente quelle di Picasso, fra cui la Testa di cavallo (1937), il noto studio per Guernica che si è ritenuto di scegliere, per la sua emblematicità, come immagine-simbolo della mostra. L’artista è presente anche con altri importanti lavori, come le acqueforti Sogro e menzogna di Franco (1937), una Testa di donna (1939) e il bronzo tratto dalla scultura in gesso del 1931 presentata al padiglione della Repubblica spagnola all'Esposizione universale di Parigi del 1937 insieme a Guernica. Ma altre presenze spagnole sono ugualmente significative: le interpretazioni drammaticamente visionarie di Joan Miré (Azutate la Spagna, 1937; Personnaggi nella notte, 1938) o quelle di Julio Gonzalez (Testa della Montserrat, Figura che grida, le Mant), 0, ancora, di Javier Bueno (I/ combattente di Madrid, 1938). A esse si affiancano le testimonianze di artisti molto diversi, come i francesi André Masson (I r25etitori andalusi, 1935, ecc.), che ebbe parte egli stesso nelle vi-

cende spagnole,*! Francis Gruber (Splendore e sepoltura, 1939), e Yves Alix che con La resa (1933) ricorda la repressione dei moti anarchici. Al dramma della rivolta dei minatori delle Asturie, sanguinosamente stroncata da Franco, si rifarà anche Aligi Sassu con Fuailazione nelle Asturie (1935), che darà ulteriore testi-

monianza del dramma spagnolo con Fucilazione - Spagna 1937 (1939), come del resto farà Renato Guttuso in Fucilazione in campagna (1938; ispirato, come è

noto, alla fucilazione di Garcfa Lorca da parte dei falangisti). Per la cultura italiana, in particolare, come si diceva, la tragedia spagnola innescò un processo di drammatica presa di coscienza, che aprì la strada, come gli ultimi dipinti ricordati ben indicano, a un vero e proprio movimento e a un’arte antifascista che andranno sviluppandosi con progressiva intensità negli anni immediatamente precedenti il secondo conflitto mondiale e durante il suo svolgersi. La guerra civile spagnola aveva implicato infatti una scelta di campo: gli italiani stessi si erano trovati a combattere in Spagna nei contrastanti ruoli di aggressori e, per contro, di difensori della democrazia. Del resto gli artisti stessi (diversi di loro, come ad esempio Giandante X, combatterono nelle file delle Brigate internazionali)* avevano già incominciato a pagare di persona, nell'Italia fascista, con

il carcere e il confino, la loro opposizione o il sospetto di opposizione al regime (è il caso di figure come Carlo Levi, dello stesso Aligi Sassu, di Renato Birolli

CCC) La sconfitta della Repubblica spagnola sembrò segnare la sconfitta stessa della democrazia. All’arte non restò che testimoniare l’orrore dei fatti e dichiarare la propria pervicace opposizione alla barbarie e, allo stesso tempo, indicare la 0ggettiva responsabilità delle democrazie occidentali nella loro imbelle tolleranza: e non solo nei confronti della Repubblica spagnola, ma di tutta una serie di

drammatici episodi che si erano susseguiti nella seconda metà degli anni Trenta: dall’aggressione fascista all’Etiopia (1935-36) a quella nazista alla Cecoslovacchia, sancita dal Patto di Monaco (1938), fino all’Anschluss dell'Austria (1938).

Artisti come Kokoschka, Lohmar, Heartfield, Hans e Lea Grundig ecc., dichiararono senza mezzi termini la gravità di queste tolleranze. Kokoschka — la cui lotta antifascista era continuata incessante nell’esilio — in particolare ne divenne sarcastico testimone in una serie di opere di grande intensità,

da L’uovo rosso (sul Patto di Monaco; analogo riferimento ha il dipinto di Lohmar, Incontro a Monaco, del 1938), ad Anschluss - Alice nel paese delle meraviglie (sull'annessione hitleriana dell’ Austria), fino a I/ granchio (1939-40, presente in mostra), grottesca emblematizzazione dell’indifferenza delle democrazie occidentali nei confronti del tragico destino della Cecoslovacchia.” L’artista, che non aveva mai cessato di denunciare pubblicamente i pericoli del clima che si era venuto creando, sosteneva con una lucida analisi: “Oggi i tiranni politici hanno bandito l'artista, da quandoè apparso chiaro che, nonostante la storia dell’arte ufficiale, quella dell’artista è una funzione sociale. È scaduto il mito romantico, creato dal liberalismo, dell’artista nella sua torre d’avorio, o nel-

la mansarda, in lotta con un dio sconosciuto. Il romantico esercita una torbida influenza sulla morale, sul gusto e sulla filosofia dell’epoca; esso ha il compito di offuscare quell’ evidenza che rende impossibile la falsificazione della storia. È imposto dalla moderna plutocrazia che richiede l'appoggio di un oscurantismo medievale per aggredire con la guerra i popoli pacifici; per mantenersi al potere con il terrore, la provocazione, le esecuzioni in massa; per torturare gli avversari nei campi di concentramento, per provocare pogrom. Ora, la funzione dell’uomo creativo, la sola che lo giustifichi socialmente, è quella che lo chiama a opporsi al potere, a strappare il velo della superstizione dall'azione umana, a testimoniare con la propria vita per la vita.”4

Accanto alla denuncia, la preveggenza dell’apocalisse divenne ormai immagine comune, in quegli anni che immediatamente la precedettero. Alla sospesa e interiorizzata profezia di un Barlach (L’arzo tragico 1937, del 1936), che nella chiu-

sura stessa delle linee della scultura, quasi “gotica”, sottolinea l’impotenza del dramma dell’individuo (“tutti i lupi ululano contro di me e dentro a me”, “ certamente ho sempre vissuto in ‘questa’ epoca; l’epoca dell’innocenza tormentata, delle streghe, dei forsennati [...] già esisteva e ha soltanto preso colori più stridenti”, scrisse l’artista in una lettera citata da Frommhold),# si affianca una

rappresentazione che si fa sempre più grottesca e inquietante, prendendo ispirazione dai miti catastrofici della storia dell'umanità, da quelli biblici (L. Meidner, I dolori dell'era messianica, del 1938, o anche Senza titolo, dello stesso anno)"3,

dalle antiche leggende. La “bestia immonda”, che viene a segnare la fine dell’umanità nell’ Apocalisse di San Giovanni, si veste dei più cupi immaginari di fronte all’impotenza angosciante per la sua ineludibile venuta (Hofer: “La mia avversione della prima ora si basava su una ripugnanza fisica che aumentò man mano che le figure brune con gli stivali dominarono la strada [...]. La profezia millenaria di Nostradamus sugli uccelli dalle ali di bronzo, inesorabili, che distruggeranno la terra col fuoco, cominciò a realizzarsi”).4° La “grande bestia”, la Superbestia del dipinto di Lohmar o il mostro dello Strargolatore di Schlichter (1938), invade il mondo, così come i sanguinari lupi che

sbranano gli orsi nella nota opera di Hans Grundig, Lotta di lupi e orsi (1938), anch'essa visibile in mostra.

4 Sull’impegno politico di Kokoschka si veda E. Lachnit, The Power of Images - Political Invotvement 1931-1953, in K.A. Schréder, J. Winkler (a cura di), Oskar Kokoschka, Monaco, 1991, pp. 37-44. Circa le opere citate: L'uovo rosso,

1940-41, Narodni Galerie v Praze, Praga; Anschluss - Alice nel paese delle meraviglie, 194142, Wiener Stadtische Wechselseitige Versicherugsanstalt, Vienna; Per che cosa combattia-

mo, 1943, Kunsthaus, Zurigo. Il granchio, dipinto in Inghilterra, è un’esplicita condanna della politica inglese nei confronti della Cecoslovacchia: il granchio allude al primo ministro inglese Chamberlain, che guarda senza interve-

nire la Cecoslovacchia che annega (:bid., p. 184).

46 E. Frommbhold, op. cit., p. 17. Ibid psi 48 Ludwig Meidner, a fronte delle persecuzioni antiebraiche, negli anni Trenta riprende tematiche visionarie caricandole sia di riferimenti specifici che di un più generale senso di condanna delle colpe contro l’umanità. Nel 1937 riprende il tema delle Visioni (quarantacinque fogli); nel 1939, dall’esilio londinese, realizza la serie delle A//egorie (“composizioni visionarie [...] nelle quali aleggia lo spirito del tempo”); nel 1942 il ciclo di disegni Sofferenze degli ebrei in Polonia. Nel giugno 1942 scriveva: “Le mie composizioni ad acquarello sono chiaramente allegoriche, sono simboli dell’epocae pertanto orribili, come orribile è questo nostro tempo [...]. Ora ho ritrovato l'equilibrio, anche se nei

nuovi fogli imperversano terribili temporali e incombe l'apocalisse. Alla fine della guerra una enorme

rivoluzione si estenderà per tutto il

mondo civile e, con tutta probabilità, raderà al suolo l’intera cultura borghese. Forse [i miei fo-

gli] sopravviveranno al tempo e mostreranno come un pittore avesse presentito tutto ciò” (H.

Adkins, L. Merdner in England - Vierzebn Jabre eines erbarmlichen Lebens, in Breuer-Wagemann, Ludwig Meidner Zeichner, Maler, Literat, Stoccarda, 1991, vol. I, p. 179). * Frommhold, op. cit., pp. 73-74.

TARTETE

Nella particolare sezione che la mostra dedica all’approssimarsi della guerra queste simbolizzazioni dell’apocalisse trovano le forme più diverse, quasi in uno sforzo dell’arte di trovare nuovi mezzi e linguaggi per rappresentare ciò che per la sua terribilità non può essere rappresentato: dal Paesaggio apocalittico di Grosz (1936) all’A/ba degli idoli di Kubin (1939), ai drammatici disegni di Klee (nell’intrecciarsi di un destino individuale con quello collettivo), fino al Moloch sanguinario con cui Zeller rappresenterà Lo Stato bitleriano. Ma, certo, a questo clima di angoscia appartengono anche opere maggiormente allusive, che esprimono la tensione del tempo: in questo senso possono essere interpretate le Maschere vaganti di Birolli (1938), la Fuga dall’Etna di Guttuso (1938), o, in qualche misura, le Risse di Ziveri, allusione a una violenza tanto grottesca quanto banale (Lotta di popolane, 1939). Ma la follia atroce della guerra e dello sterminio supererà di gran lunga anche queste stesse attese apocalittiche. L’inenarrabilità dei mostri generati dal sonno della ragione può dialogare solo con la perdita dell’identità e con la follia, come

Copertina del catalogo della mostra “Arte degenerata”, Monaco, 1937.

sembrano indicare le opere di Hofer (Uorziri stolti, 1940) o di Sandro Cherchi (La pazza, 1939). La funzione dell’artista sarà quella di trasformarsi in lucido testimone non solo delle atrocità ma della perdita di identità che esse comportano (ricorderà più tardi Kokoschka: “...io alzai la mia voce a Londra in tempo di guerra perché il tempo e le circostanze resero imperativo essere umani ancora una volta”).?° I diversi linguaggi troveranno, al di là delle singole scelte di poetica, un tono comune, un tono “alto”, da tragedia classica, l’unico possibile perché la testimonianza si potesse trasformare, in futuro, in memoria.

La violenza immane degli eventi non lascia infatti spazio alla pura notazione o all’evocazione patetica: sia che si proponga la crudezza dei fatti, sia che si senta il bisogno di fornire, di questa violenza che penetra dappertutto, una dimensione di simbolo generale e assoluto. Lo scenario di un'Europa messa a fuoco e ridotta a macerie assume infatti una connotazione da tragedia dantesca, quasi surreale nella sua incredibilità, sia nelle

opere di Nash (La battaglia di Gran Bretagna, Segui il Fiihrer sopra le nevi), sia nelle visioni di distruzione delle città inglesi di Graham Sutherland (1940-41)? di John Piper (S# Mary Le Port, Bristol, 1940), e in dipinti come Casa bombardata di Corrado Levi (1942), o nella Terra desolata di Radziwill;?? 0, ancora, di una

20 E. Lachnit, op. cit., p. 40. 21 G. Sutherland: “Ripensando a quel periodo devo riconoscere che la guerra ha avuto senz’altro un profondo effetto sulla mia coscienza” (G. Bruno, L’opera di Grabam Sutherland, in Grabam Sutherland - Storia segreta 1922-1979, cat. mostra, Accademia Ligustica, Genova,

1991, p. 19).

2 L’opera fu inizialmente pensata, nel 1939,

come parte di un trittico riguardante la prima guerra mondiale; fu poi ridipinta in parte nel 1944, e quindi nel 1960, con una progressiva accentuazione del carattere apocalittico. Si veda in proposito The Romantic Spirit in German Art 1790-1990, cat. mostra, EdimburgoLondra-Monaco, 1994, p. 480.

umanità che ha perso ogni individualità, ridotta dal terrore a una sorta di primitiva vita catacombale, come è rappresentata nelle ben note visioni dei rifugiati nella metropolitana londinese di Henry Moore (1940-41). Fino al dolore delle nere donne fra le rovine del Paesaggio italiano (1943-44) — “coro” antico di una tragedia contemporanea — e l’incerta speranza di Cherubini e bambini (1944), entrambi di Ben Shahn, uno dei più alti testimoni d’oltreoceano della tragedia europea e mondiale. Quello della violenza dell’uomo sull’uomo, nella sua crudezza, diviene ormai

tema costante, con punte di drammaticità particolarmente alte, come ad esempio in Battaglia di Guttuso (1942-43), in Crirzinale di guerra di Lea Grundig (194243), nel Dolore di Masson (1944) e soprattutto nella serie delle Fantasie di Mafai (1940-43), una delle pagine più alte di testimonianza del massacro. Un massacro che, come mai era avvenuto, giunge a una dimensione veramente apocalittica nell’esperienza dell’olocausto. Mai, infatti, la morte si era incontrata con una sua programmazione così cinica e sistematica, su “scala industriale”, come è stato detto (nel 1942, a conclusione

delle persecuzioni già iniziate con l’avvento di Hitler al potere, si decide la cosiddetta “soluzione finale” contro la comunità ebraica e contro gli oppositori).

La voce degli artisti restituisce intero il senso di questa dimensione, con una capacità di cogliere in termini “oggettivi”, per così dire, senza enfatizzazioni, il fatto in sé. Le opere qui raccolte sono tutte accomunate da questa tensione interna, siano

esse quelle dei tragici protagonisti degli eventi, come Nussbaum (sono qui presenti dipinti particolarmente intensi, come Paura del 1941, l’Autoritratto al cavalletto del 1943, l’Autoritratto con passaporto ebraico del 1943, I dannati del 1944), Carpi (con i disegni di Gusen), oppure ne siano partecipi testimoni come Levi (Donne morte, 1942), Pankok (con le quotidiane scene di emarginazione e violenza del ghetto), Lea Grundig (Furerale ebraico), Kulisiewicz (le distruzioni del

ghetto di Varsavia): fino ai drammatici disegni di Corrado Cagli, che fu fra i primi a entrare, con le truppe alleate, nel campo di Buchenwald.?? Ma la dimensione stessa della tragedia della guerra e dell’olocausto induce spesso gli artisti a darne un'immagine sovratemporale, assoluta, ricorrendo a quelle rappresentazioni che nella storia dell’umanità hanno di volta in volta emblematizzato il dolore: Niobe (si veda l'intensa rappresentazione di questo tema in Antonietta Raphael, nel 1939), il Trionfo della morte (si veda il dipinto del 1943 c.,

con questo titolo, di Guttuso), Giobbe, la Pietà (oltre all'opera citata di Kathe Kollwitz ricordiamo qui quella di Sandro Cherchi, 1944-45),°4 la Crocifissione. Quest'ultimo tema, soprattutto, è particolarmente ricorrente, al di là delle adesioni confessionali, come simbolo di un rinnovato martirio dell’umanità.

E emblematico che a esso facciano ricorso, oltre che artisti di ispirazione cristiana (Manzà, I/ crocifisso e il generale, 1939-43), anche altri di cultura ebraica come Marc Chagall (Resurrezione, 1937-1948; Liberazione, 1937-1952), o laici come Renato Guttuso (Secondo studio per “Crocifissione”, 1940)? Aligi Sassu (Crocifissione, 1941), Domenico Purificato (Deposizione, 1943), Renato Birolli (I tre chiodi, 1944), Graham Sutherland (Cristo che porta la croce, 1947), Francis Bacon ecc.?8

GROSSE POLITISCHE SCHAU IN DER

NORDWESTBAHNHALLE IN WIEN.

AB 2.AUG.1938. TAGLICH GEOFFNET VON 10-20 UHR

Manifesto della mostra “L’eterno giudeo”, Vienna, 1938.

si passa alla testimonianza della lotta e del sacrificio. Ne derivano esperienze di grande forza, spesso legate alla partecipazione stessa degli artisti alla lotta. Il tema dell’insurrezione e del sacrificio guida molte delle opere qui presenti, eseguite dal 1943, soprattutto in Italia, dove l’esperienza resistenziale e quella di guerra, particolarmente crudele, scossero fino in fondo le coscienze. Le opere di Birolli (Insurrezione in campagna, Italia 44 ecc.), di Mafai (le citate Fantasie), di Genni (Dolore e vergogna) e Gabriele Mucchi (Partigiano ucciso), di Leoncillo (Madre romana assassinata dai fascisti), di Fabbri (La strage degli innocenti), di

53 Sulle rappresentazioni dell’olocausto si veda in particolare Z. Amishai Maisel, Depiction and Interpretation - The Influence of Holocaust on the Visual Arts, 1993. Sulla politica di discriminazione razziale in Italia si veda La menzogna della razza, cat. mostra, Bologna, 1994. 24 In memoria dell’esecuzione alle Fosse Ardeatine di Giorgio Labò. ? Sulla storia del dipinto (la versione finale è alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma) si veda E. Crispolti, La Crocifissione di Renato Guttuso, Roma, 1970. 26 E stato osservato come la figura maschile ai piedi della croce, uno dei carnefici, sembri riprendere i tratti di Mussolini. Cfr. Sassu - Opere dal 1927 al 1984, cat. mostra, Palazzo Reale, Milano, 1984, p. 89. °7 Di Graham Sutherland ricordiamo la Depostzione del 1944 di Northampton, di cui l’opera esposta in mostra costituisce il naturale sviluppo. Sul significato del tema in Sutherland si veda G. Bruno, L’opera di Graham Sutherland, cit., p. 20. Qui si ricorda la stretta relazione del tema con quello della violenza (in riferimento a immagini di violenza Sutherland disse: “ Queste immagini mi colpirono profondamente [...]

Treccani (Fuailazione), di Garelli (L’imzpiccato), di Mirko (Furore), di Fazzini (I/

i corpi straziati, nelle foto, mi sembrarono figu-

Una parte fondamentale, all’interno della mostra, è dedicata, naturalmente, alle

testimonianze che l’arte ha dato, durante gli anni di guerra, del moto di rivolta morale e poi di resistenza vera e propria al nazifascismo, fino alla sua definitiva sconfitta. Le opere di cui abbiamo detto sin qui sono già di per se stesse parte di questa volontà di rivolta e di resistenza. Ma, man mano che ci si inoltra negli anni di guerra, la speranza di una riconquista della libertà e, allo stesso tempo, di un’identità perduta, si accompagna a un impegno sempre più fortemente deter-

minato. Dalla dimensione della speranza e dell’auspicio (si vedano, ad esempio, La morte di Cesare, 1938-39, di Aligi Sassu o il Tirannicida, 1942, della Raphael),

fucilato), sono certo fra le testimonianze più alte. Ma analoghe intensità confluirono in opere come quelle di Lea Grundig (Aprite!, 1943), di Marc Chagall (La guerra, 1943, oltre alle già citate Resistenza, Resurrezione, Liberazione), di Lurcat (Libertà, 1943, trascrizione del poema di Eluard: “...sulle

re deposte dalla croce. L'idea di dipingere il Cristo crocefisso acquistò concretezza in me...

sentii che ora sarei stato in grado di ritrarre il Cristo sulla croce”). °* Bacon realizzò il noto trittico Tre studi per

GROSSE DEUTSCHE KUNSTAUSSTELLUNG IM

HAUS DER DEUTSCI TEN KUNST ZU MUNCHEN

OPFIZIELLER

AUSSTELLUNGSKATALOG

“Grande mostra d’arte tedesca”, Monaco di Baviera, 1937.

forme scintillanti / sulle campane dei colori / sulla verità fisica / scrivo il tuo nome... Libertà”), di Zadkine (La prigioniera o La Francia prigioniera, 1943). L’urlo rivolto al cielo dalla figura di Zadkine per La città distrutta (l’opera, del 1947, fu progettata dall’artista già nel 1942-43 come “il grido dell’orrore contro il mostro inumano che inventò la semente del boia”) compendia e conclude, in una tensione esemplare, quasi in un gesto assoluto di liberazione e di memoria, questa lunga angoscia. Ma l’uomo non sarà più lo stesso: la presenza dell’orrore, nella memoria, resterà come la macchia di un nuovo peccato originale. L’arte stessa non sarà più uguale. Il suo linguaggio aveva dovuto essere reimpostato alle radici per potere ancora una volta essere adeguato al dramma. Picasso, in Guernica, aveva mostrato la strada e, soprattutto, aveva testimoniato come una frattura storica così drammatica dovesse necessariamente rimettere in discussione il linguaggio e la funzione stessa dell’arte. Le opere che in mostra documentano gli anni di guerra ne sono chiara testimonianza, nella più volte ricordata volontà di proporre forme di linguaggio che fossero, nella loro essenzialità espressiva, al di sopra del tempo e oltre il tempo, che sostituissero alla descrizione il simbolo e la proiezione di una interiorità profonda.

Ma per alcuni artisti ciò fu ancora più chiaro, nell’urgenza di reinventarsi un linguaggio che esprimesse l’orrore della frantumazione dell’identità, della perdita delle connessioni logiche della storia, di fronte alla tabula rasa di una intera cultura. Un linguaggio, cioè, che si ricomponesse in una sorta di primarietà espressiva e comunicativa, ben differente da quelle convenzioni di “qualità” e “compiutezza” che avevano reso riconoscibile l’artisticità del passato. Una sorta di filo sotterraneo unisce questi artisti, al di là delle collocazioni geografiche e delle formazioni culturali di ognuno. Ma, soprattutto, costituisce un sottile ponte fra l'orrore della guerra e l’angosciata riflessione che ogni artista deve ormai inevitabilmente porsi negli anni immediatamente successivi alla liberazione e alla fine del conflitto, di fronte a un deserto che non è solo quello delle macerie, ma è, con evidenza, quello della coscienza.

Questo percorso, che costituisce la conclusione stessa della mostra, collega la drammatica primarietà linguistica di opere come quelle dell'ultimo Klee — in cui l’orrore si traduce nell’impossibilità di costruire l’immagine, se non per incerti frammenti (se ne vedano Restate in piedi, Resistere!, Senza titolo del 1940) — al

Ivo Saliger, I/ riposo di Diana, 1939-40. figure alla base di una Crocifissione nel 1944 (Tate Gallery, Londra; purtroppo non è stato possibile ottenerne il prestito). In precedenza, nel 1933, aveva

realizzato una Crocifissione

(collezione privata). Bacon spiegò così la scelta del tema: “...questa scena è diventata una magnifica armatura su cui appendere sentimenti e

sensazioni le più diverse... non ho trovato un soggetto altrettanto capace di ricoprire certe

aree del sentimento e del comportamento umano” (F. Bacon, La brutalità delle cose, conversazioni con D. Sylvester, in “Quaderni Pier Paolo Pasolini”, Milano, 1991).

drammatico quanto amebico fluttuare del segno nelle opere di Wols, all’informe allusività di morte nella materia di Fautrier (Testa di ostaggio 11, 1943), fino al viluppo astratto di forme spinose con cui Mirko, ormai nel dopoguerra, commemorerà, al di fuori di ogni retorica, il massacro delle Fosse Ardeatine. Primarietà linguistica che coinvolge peraltro quegli stessi artisti che non rinunciano alla proposta di un'immagine, pur lacerata e frammentata, dell’uomo: come il Munch dell’Autoritratto del 1940-44, nella sua pittura povera e sfaldata; o pittori come Dix, Grosz, Kokoschka, profeti e testimoni dell’orrore. Il “balbettio” grottesco delle forme nelle opere di Dix dell’immediato dopoguerra, come Maschere tra le rovine, E una nuova vita sorgerà dalle rovine (1946) o l’Autoritratto come prigioniero di guerra (1946), dice di questa tragica quanto imprescindibile necessità di ricostruire il linguaggio. Così come in Grosz, che dagli anni di guerra, già da un’opera come I/ viandante (1943), e via via attraverso dipinti come I/ sapore della disfatta, Pace II, Ritirata (fra il 1945 e il 1946), o come

Nemico dell'arcobaleno (il curioso personaggio fiammiferiforme), testimonia, con una pittura che si fa incerta e allo stesso tempo pervasiva della realtà (essa occupa, quasi in una sorta di horror vacui, ogni spazio del dipinto), dell’impossibilità

di riproporre la simulazione di un ordine ormai irreale.

Ma in questi stessi anni ricomincerà un defatigante, quanto disperato, tentativo, da parte dell’arte, di ricomporre i frammenti dell’identità lacerata. Da questa stessa coscienza, e in una ideale continuità con quei punti di non ritorno del linguaggio, come furono appunto Guerzica o le lezioni dell’espressionismo e del surrealismo che in essa si condensano attraverso il filtro delle avanguardie, pur in maniera assai diversa, artisti come Bacon, Giacometti, Sutherland — se ne veda qui, in mostra, il grande Cristo che porta la croce, conclusivo (è del 1947) di una

serie di intense variazioni su questo tema che l’artista intraprende già negli ultimi anni di guerra —, Kokoschka (col drammatico guardarsi allo specchio e interrogarsi nell’allucinato Autoritratto - Fiesole del 1948, che chiude idealmente il cerchio di una introspezione iniziata nel 1933 con il famoso Ritratto di un artista degenerato del 1937),?? fra gli altri, cercheranno con fatica, e con piena coscienza della frattura epocale intervenuta, di ridare una qualche forma all’immagine dell’uomo.

Oskar Kokoschka, Ritratto di un artista

degenerato, 1937.

”? Collezione privata, Port Williams, Scozia.

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Premonizione e denuncia: rappresentazione e dramma

del linguaggio Gianfranco Bruno

Nell’arte del Novecento, a fronte degli eventi storici che squassano l'Europa, esiste una strada maestra della pittura impegnata sul piano civile e politico, un’arte diretta, che denuncia i fatti e li contesta sin dal loro nascere. E un'arte senza veli, esplicita, appunto, nelle sue denunce, e che innesta le diver-

se componenti del linguaggio — attente anche a quelle innovazioni delle avanguardie che maggiormente si prestano a potenziare e attualizzare l’espressione —

! Cfr. B. Krimmel (a cura di), Zeugnisse der Angst in der moderner Kunst, Mathildenhée, Darmstadt, 1963.

2 Sul tema dell’identità si sono tenute due grandi mostre: “La ricerca dell’identità”, a cura di G. Bruno, Palazzo Reale, Milano, 1974; “Iden-

tità-alterità - Figure del corpo 1895-1995”, a cura di J. Clair, Biennale di Venezia del 1995. La prima, che comprendeva opere da Géricault a Kienholz — dalla pittura all'oggetto — con attenzione al risvolto psicologico e sociologico del tema, partiva dalla constatazione che in particolari condizioni storiche, quali si sono verificate tra il XIX e il XX secolo, l’arte ha assunto il carattere di una strenua difesa dell’identità minacciata. La seconda comprendeva opere dal 1895 al 1995 sul tema del corpo e del volto nei suoi sviluppi conseguenti ai rapporti intervenu-

ti tra l’estetica e la scienza moderna.

su una fondamentale ripresa di modi che rinnovano l’antico figurare. E un’arte storica, che ha una precisa pertinenza con i nodi cruciali del tempo in cui si realizza, che attinge l'assoluto nella misura in cui sublima i contenuti della cronaca nel linguaggio, che trova spesso nel massimo di compromissione con gli eventi il punto di sua maggiore incidenza diretta in senso civile e politico. Sono in modo diverso protagonisti di quest'arte Grosz, Dix, Hans e Lea Grundig, Heartfield, la Kollwitz e tutti quegli artisti che piegano il loro linguaggio a un resoconto e a una severa stigmatizzazione della barbarie e dell’involuzione del tempo. AI di là di questa strada maestra l’arte europea presenta due diversi, e complementari, modi di porsi rispetto ai grandi eventi che hanno caratterizzato la storia europea dei primi cinquant'anni del Novecento. Il primo è un modo diretto, che attesta, nel modificarsi dell'immagine dell’uomo sino a subire una metamorfosi che la trasforma in una dubbiosa icona, il premere di dimensioni ossessive esterne, che hanno condotto l’artista appunto a essere un “testimone dell’angoscia”.! Il terrore si è insinuato all’interno della raffigurazione dell’uomo e delle situazioni di vita, inarrestabili forze hanno causato una tale

lacerazione, in quel luogo di contemplazione e di riflessione che l’arte è, da produrre anche nell’artista quello smarrimento morale che non poteva non condurlo ad aggrapparsi all’esperienza della pittura come a un'estrema “ricerca dell’iden-

tità”.? Il secondo modo è in relazione con il primo, e in conseguenza degli stessi fattori che lo hanno prodotto. E un modo che si manifesta in profondità, all’interno del linguaggio e senza un apparente, esplicito ricorso a individuabili forme di denuncia. Prospetta invece nuove soluzioni formali, figure assolutamente inedite rispetto all’abituale esperienza visiva del mondo, emergenti a specchio di quell’oscuro mondo dell’inconscio nel quale albergano le angosce che la patente precarietà dell’uomo si trova a vivere. I due modi d’espressione procedono in parallelo, con caratteristiche diverse, e

non senza opportuni scambi di forme. E hanno in comune il loro affondare le radici in quel tessuto storico di fine secolo caratterizzato dalle prime voci profetiche, e di cui alcuni artisti del nuovo corso - Munch per esempio — sono stati, in virtù della lunga storia della loro arte, anche protagonisti. Le voci profetiche: van Gogh, Munch appunto. Entrambi gli artisti si pongono come voci di allarme nel tessuto apparentemente pacificato della visione impressionista. Entrambi gli artisti stravolgono il linguaggio usando forme espressive nuove per denunciare un’angoscia che prorompe nella coscienza individuale e sarà, negli anni a venire, la condizione di tutti di fronte al manifestarsi degli eventi che rendono tangibile e concreto il dominio dell’orrore. Van Gogh, scrive Artaud, “non si è suicidato in un momento di follia, nell’ango-

scia di non giungere, ma al contrario era giunto e aveva scoperto ciò che era e chi era, quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi strappato a lei, lo suicidò”. Van Gogh aveva una fede: si batteva contro l'ingiustizia ed era stato, prima d'essere pittore, pastore tra i minatori nell’oscuro villaggio del Borinage. Vincent è un protagonista tragico, vittima della società nell’attimo stesso in cui ne è divenuto la coscienza. Francis Bacon dipinge i ritratti immaginari di van Gogh “4 vedendo in lui non solo il modello tragico, il prototipo dell’artista nella società alienante, ma un Cristo di sciagure, colui che ha svelato una condizione di tutti, senza riscatto. In anticipo rispetto ai grandi disastrosi eventi sociali che squasseranno il nuovo secolo, van Gogh vive da emarginato sociale il tragico presentimento di una sorte che oscura ogni anelito di verità e di libertà. Da Géricault a van Gogh l’itinerario della violenza moderna si è trasposto in immagine nel segno di una individuale veggenza: van Gogh è la vittima anche fisica. Bacon, scegliendo Vincent come termine di confronto per l’artista di oggi, scopre nel passato recente i germi della sopraffazione insopportabile. L’esperienza di Edvard Munch rompe la soglia incerta tra natura e profondo, mette a nudo ossessioni e paure, l’oscura altra parte di cui parla Kubin, il mondo nascosto dell’ipocrisia che volutamente ignora l’incubo immanente della menzogna sociale. Il rapporto di Munch con van Gogh è immediato. La fuga dallo spazio, il risucchio del piano sul quale si proietta la disfatta immagine dell’orrore, hanno un precedente nell’accelerazione spaziale dei dipinti di van Gogh Viadotto ad Arles, Ospedale di Saint-Remy, nella loro simultaneità allucinata di vicinolontano. Il labirintico spazio delle Rocce a Saint-Remy, o la fuga angosciosa dei campi di Auvers, aprono la strada all’esperienza dell'incubo di Munch. L’insicurezza ontologica che trapelava nelle soluzioni formali dell’antico manierismo lascia il passo all'emergenza totale di un mondo, allora presentito, di terrore e di buio. La struttura spaziale dell’immagine non si commisura su un esterno visibi-

Francis Bacon, Studio per un ritratto di van Gogh II, 1957.

le, né sulla tradizione dell’arte; l'incubo non si apre un varco nelle connessure di

un razionale sistema rappresentativo del mondo, ma accampa strutture proprie, forme concrete del suo essere presente nella totalità dell’esperienza. E significativo che un artista come Munch, rivolto verso l’immagine-mito del mi-

Edvard Munch, Il ritorno dei lavoratori, 195315#

stero, mistero della morte, della nascita, del sesso, dipinga, tra il 1913 e il 1915, le

due grandi versioni del Ritorzo dei lavoratori, accompagnate da una serie di studi che attestano il profondo impegno dell’artista sul tema. Allo sfacelo dell’identità personale, presente ormai sul filo di un focalizzato terrore, s’affianca un pensiero critico sulla meccanica sociale della distruzione dell’individuo. Nel 1932-33 La lotta è poi un’opera emblematica di quel dissidio avvertito — “homo homini lupus” — nella problematica individuale alla radice fondamentale dell’essere, ma non in modo sovrastorico, se il precedente Ritorzo det lavoratori

testimonia l’identificazione di una più generale negatività del destino riferendosi a una precisa classe sociale. E sarebbe improbabile leggere gli ultimi squassati

? A. Artaud, Var Gogb - Le suicide de la société, Parigi, 1947; Van Gogb - Il suicidato della società, Milano, 1988. Una lettura del testo di Artaud in relazione al tema della violenza nell’arte moderna è stata data dalla mostra “La ricerca dell’identità”, cit.

4 Francis Bacon ha dipinto una serie di ritratti immaginari di van Gogh tra il 1956 e il 1960.

autoritratti di Munch come pura espressione di una perdita di centro e di una crisi totalmente individuale e psicologica, assente ai grandi eventi storici cui l’artista si trova ad assistere. Per tutti i primi trent'anni del secolo Oskar Kokoschka dipinge ritratti sconvolgenti: immagini del disagio esistenziale, le figure di Kokoschka mettono a nudo una condizione generale dell’uomo. Svelano le paure e il dubbio, la fragilità della persona oltre l’imperturbabilità della maschera sociale (“la gente viveva nella sicurezza — scriveva Kokoschka riferendosi ai ritratti dipinti tra il 1910 e il 1912 — ciò nondimeno erano tutti pieni di paura. Io lo avvertii attraverso il loro modo raffinato di vivere che derivava ancora dal barocco; io li dipinsi nella loro ansietà e nel loro panico”). È chiaro, alla luce dell’evento storico della grande guerra che di lì a poco coinvolge l'Europa, il valore di premonizione che queste opere di Kokoschka hanno, e valore di testimonianza in sommo grado viene ad avere l’Autoritratto con la mano alla bocca, del 1918-19; immagine spaurita dell’impotenza individuale di fronte all’incombere della catastrofe collettiva.

Oskar Kokoschka, Autoritratto con la mano alla bocca, 1918-19.

C'è una sotterranea linea dell’arte moderna che affonda le sue radici nell’esperienza di van Gogh e di Munch, elude il clamore delle avanguardie e giunge a proporre un'immagine dell’uomo che rende testimonianza della crisi che travaglia la coscienza europea. Un unico fondamentale principio anima esperienze incentrate su un’idea che percorre l'Europa dalle soglie della grande guerra almeno sino agli anni Quaranta. Essa vuole l’uomo al centro dell’arte, non come astratta mente pensante, ma nella concretezza di quell’inestricabile groviglio di tensioni che lo legano al mondo. Un’arte di testimonianza, e di difesa di un’identità umana che si avverte minacciata, in un'Europa che attraversa abissi nei quali l'artista stesso, come tutti gli uomini, appare sprofondato. Quest’arte ha una prevalente istanza contenutistica, ma non nel senso che essa metta in secondo piano i problemi della forma. Anzi la ricerca espressiva è più accanita, poiché l’immagine deve assolutamente corrispondere al pulsare della vita, al manifestarsi del reale. Anche sul piano formale, le diverse espressioni che a quest'area appartengono hanno in comune il fatto che l’immagine mantenga una presa diretta sul visibile, nasca dall'esperienza immediata, sia quindi immediatamente comunicabile. Ciò non significa ossequio al passato, ma persistenza di impronte che rappresentano orientamenti comuni al vivere, al vedere, all’immaginare. La cultura stessa è forzata a rientrare nell’alveo del reale: da esso riacquista anzi sostanza un patrimonio di forme, di immagini, di tecniche. Ci sono grandi esempi di questa storia: le opere di Munch nel Novecento, di Kokoschka, di Gerstl, Corinth,

AV

Richard Gerstl, Autoritratto, 1908.

Beckmann, Soutine, persino dell'ultimo Bonnard. Già Richard Gerstl, prima ancora dell’esperienza surreale, affondava la figura nell’oscuro e ne restituiva l’essenza fantasmatica, il senso della presenza oltre l’accadimento dell’apparire, il suo persistere come un dato certo in quanto strutturante l’atto conoscitivo del tempo e dello spazio. Tale processo si ritrova in questi anni in Munch, come nel tragico riso degli autoritratti di Meidner e di Corinth. L’Autoritratto (Uomo che ride) di Gerstl del 1908 non rispondeva certo alla volontà di raffigurare uno stato fisionomico: al culmine di una tensione in cui la figura sembrava perdere la propria riconoscibilità e identità, ne perseguiva una vera, poiché il gesto creava lo spazio quale contesto che affermava come reale la presenza. E la preveggenza di Gerstl era affermazione della precarietà di un destino, individuale ed esistenziale certo, ma alla cui precisa consapevolezza avviava l’acuta sensibilità dell’artista per la temperie storica che egli si trovava a vivere. Il processo di ricostituzione dell'identità che pervade gran parte dell’arte dei primi decenni del secolo è soprattutto un processo di drammatico accertamento di perdita dell’identità. Raramente l'individuazione e la denuncia delle cause è pre-

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sente, agendo esse a un oscuro livello della coscienza, e palesandosi lo smarrimento nell’impossibilità di figurare un'immagine dell’uomo che non sia emblema di quel coacervo di contraddizioni e paure che travaglia la coscienza individuale. La catastrofe d'Europa non ha un riflesso diretto nell’opera degli artisti partecipi di questa sotterranea storia, ma agisce a livello profondo, come impulso a restituire un'immagine dell’uomo che sia testimonianza di quella precarietà che gli eventi storici rendono evidente. Ciò non significa che le motivazioni non emergano. Già Ludwig Meidner negli anni Dieci dipinge ritratti sconvolgenti, e almeno uno, Io e la città, del 1913, denuncia il perdersi dell’identità dell’uomo

nel premere ossessivo delle conflittuali dimensioni urbane. E catastrofico valore di testimonianza e premonizione hanno le deflagranti visioni apocalittiche, sempre degli stessi anni, in cui l'artista colloca una spaurita umanità sullo sfondo di devastati paesaggi urbani. Sibille e profeti, nel tempo della grande guerra e oltre, rappresentano il terrifico annuncio di altre sciagure che percorrono l'Europa. Nel 1922 Lovis Corinth dipinge l’Ecce Homo, un’esplicita denuncia della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, ma l’intera sua opera, in questi anni, ha un preciso

valore di premonizione, poiché rivela che un oscuro terrore invade la coscienza individuale dell’uomo, impossibilitato ormai a restituire un'immagine pacificata e riflessiva della propria identità individuale. L’ossessione plasma la forma, e l'ampio impianto naturalistico che sosteneva le sue precedenti pitture si torce in flessioni espressionistiche, assumendo il colore-materia, e anche il segno, una funzione di drammatica escavazione dell'immagine, sino a far emergere dalla figura un suo fantasma carico di oscuri presagi. Il destino dell’individuo è la sua impotenza di fronte agli eventi, lo spazio è il vuoto incontrollabile, la figura, o il suo contratto fantasma, l’unica improbabile certezza nel precipitare delle coordinate esterne dell’esistenza. Proprio tra il 1923 e il ?24 Munch dipinge l’autoritratto Uorzo che passeggia di notte, affermazione di un superstite, drammatico resistere della figura al vuoto che si sostituisce allo spazio. La figura sopravvive per un’accumulazione di materia che si oppone alla corrosione del vuoto insinuando la presenza nel continuum dello spazio e del tempo: una singolare anticipazione della posizione creativa di Alberto Giacometti nel dopoguerra. Negli ultimi autoritratti, in particolare in quello presente in mostra, del 1940-44, le coordinate spaziali non sono nemmeno accennate, se non sull’autistico riflettersi della presenza nella sua ombra, estremo appello a una certezza esistenziale nello sfasciarsi di ogni certezza. L’uomo al buio di Max Beckmann, del ’37, è un "immagine eloquente del disagio esistenziale dell’uomo e insieme dell’oscurità degli eventi con i quali si trova a controntarsi. Ragioni della forma e istanze contenutistiche coincidono perfettamente nell’invenzione plastica di questa immagine, simboleggiante la catastrofe cui l’uomo storico sta andando incontro.

Ludwig Meidner, Io e la città, 1913.

Dalla consapevolezza storica, dalla volontà di testimoniare il presente, nasce una

nuova possibile immagine dell’uomo oltre l'impossibilità che gli eventi sembrano atfermare, oltre l'emarginazione che l’intelligenza e le forze creative sembrano subire dalla storia. Il nocciolo dell'opposizione dell’arte alla brutalità degli eventi consiste nel suo reperire una forma oltre lo sfacelo, nel dare testimonianza nel mentre che focalizza una sua probabilità di senso — dato dal fatto stesso che essa esista come significante forma — al di là dell’annullamento prodotto dalla barbarie reale. Dall’esperienza tragica di un'Europa dilaniata nasce un'ipotesi di sopravvivenza dell’uomo intero, e della sua immagine, seppur dilavata dall'ora tragica che si trova a vivere, oltre l’impossibilità che sembrava aver cancellato ogni sua orma storica. C'è uno sforzo di figurare, nell’arte di questi anni in Europa, dando for-

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Lovis Corinth, Ecce Homo, 1925.

ma ai lacerti di un’interezza consumata dalla storia: ne sono protagonisti appunto Munch, Gerstl, Kokoschka, Beckmann, Soutine, nei suoi tormentati autoritratti

l’ultimo Bonnard, non meno di coloro che hanno profetizzato o presentito le rotture, come Meidner, e l’italiano Scipione. All’affacciarsi del dopoguerra la coscienza dell’arte appare segnata a un punto che ogni ricostruzione di forma porterà il crisma dell’avvenuta catastrofe, e luogo obbligato sarà per ogni esperienza consapevole la svolta linguistica impressa dal surrealismo e da Picasso. Ogni altra arte, anche quella più socialmente impegnata, figura, rispetto alla profonda innovazione picassiana, non suscettibile di ripre-

Edvard Munch, Autoritratto - Uomo

che passeggia di notte, 1923-24.

sa. Se si tratta di manifestare una condizione, Picasso ha mostrato come il problema vada affrontato dal di dentro, scendendo al cuore del linguaggio, in quel momento costitutivo di forma che precede il farsi della pittura sulle figure dell’esistenza. Dove ogni forma o figura che nasce si compatta nello stringersi in un’unità di pulsioni, angosce e illuminazioni sull’automatismo del segno e nel coagularsi della materia della pittura intorno ai fantasmi reali dell’esistenza. La testimonianza di Picasso si attua ai livelli più profondi del linguaggio artistico: non per illustrazione, e non solo per assunzione diretta dei temi dell'orrore, ma per metamorfosi del linguaggio stesso, che si plasma, per così dire, sull’angoscia della coscienza collettiva e ne fa emergere i segni, gli emblemi e i simboli come direttamente estratti dal buio dell’inconscio. Nessun artista nei primi trent'anni del secolo stravolge il linguaggio al punto da proporre figure “altre” rispetto alle figure dell’esistenza, e al tempo stesso più direttamente collegate all’angoscia storica e infine — in Guernica — maggiormente testimoniali dell'evento. Guerzica

rappresenta l’esito estremo di un processo costitutivo di forme ed emblemi dell’assurdo avviato da Picasso sin dalla fine degli anni Venti. Non si dirà mai abbastanza quanto il mutamento di prospettiva della visione operato dal surrealismo abbia contribuito in modo decisivo a quel processo di radicale ribaltamento dei modi costitutivi della forma di cui Picasso è uno dei grandi protagonisti. La ricostituzione della figura dopo la disarticolazione dell’oggetto operata dal cubismo, dopo lo spiazzamento surrealista e la tabula rasa della scrittura automatica, poteva attuarsi solo in un ritorno alla realtà. E l’automatismo psichico poteva trovare una nuova attualità ove la sua azione non si limitasse a far emergere oscure grafie dell'inconscio ma, combinandosi con il gesto espressionista (l’espressionismo “primitivo” del Picasso protocubista, modellato sulla formante violenza plastica dell’arte negra), riempisse i vacui interstizi che dividevano quei segni di linfa, sangue, corpo. Nasceva così in Picasso una figura, inedita figura, flagrante di plasticità e drammaticamente presente. Trascinante memoria dell’abisso nel quale aveva giaciuto informe, fingendo un aspetto umano, per articolazione, braccia, testa: ciascuna modellata sulle sue funzioni. Picasso scagliava le sue figure sulle nude spiagge, ed erano figure dell'angoscia storica, non modellate sull’evento e neppure metafore di una crisi dell’esistenza individuale. Esse hanno un valore e un significato oggettivo: con un procedimento storico — l’immaginazione surreale e la pluridimensionalità cubista — Picasso dava figura all’angoscia collettiva, ne rendeva oggettiva la sostanza. Guernica è il punto di arrivo, l’opera in cui la realtà storica offre una verifica certa della preveggente intelligenza del mondo dimostrata dall’artista nelle sue opere immediatamente precedenti. Come l’Europa dopo la pioggia di Max Ernst rappresenta, nella sua dilavata sostanza materica e nelle sue fantasmatiche figure, una conferma della validità preveggente degli innumerevoli procedimenti sperimentati dall'artista a partire dal caso, così Guernica, nel massimo di distanza, nella sua genesi e nel suo divenire, Pablo Picasso, Crocifissione, 1930.

dai dati del vero visibile, assurge al massimo di veridicità storica: denuncia senza

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illustrare, fornisce a ogni forza storica, negativa o positiva, un emblema che la inchioda alla sua vera sostanza. Dal di dentro, dal fondo stesso del linguaggio, Picasso trova i mezzi per giungere alla brutalità del reale eludendo le forme del racconto. Guerrica è un grande esempio di arte impegnata, nel senso che la sua forma è inconcepibile in un distacco dal mondo, eppure essa ha anche un valore sovrastorico, perché il dramma avviene proprio all’interno del linguaggio, e la denuncia riguarda infine quella violenza come contingente manifestarsi di tutte le violenze. Accanto all’arte che ha dibattuto una persistenza della figura come estrema orma dell’immaginare in uno spazio improbabile in cui l’uomo si aggirava negli oscuri anni d'Europa, Guernica ha rappresentato la rivolta dell’arte che stravolge i suoi stessi modi per giungere al centro di una realtà di cui avverte la minaccia. Picasso non salva i modi di un antico immaginare partendo dalle cose, ma ribalta sugli eventi il dramma del linguaggio che ha subito nella sua sostanza più profonda l’insanabile ferita che gli ha tolto il mondo come oggetto, e l'oggetto proviene ora dall’esperienza di un mondo che si nega alla coscienza: dunque emerge da una zona oscura dove il non senso degli eventi acquista l’oggettivo significato che la coscienza operante a esso conferisce. Per questo le bagnanti sulle nude spiagge hanno questo terrifico significato di preveggenza, per questo già la Crocifissione del 1930 annuncia una violenza che sarà poi un dato storico, per questo sipuò imputare agli artefici della violenza la responsabilità della nascita di un’opera come Guernica? Guernica e l'Europa dopo la pioggia hanno segnato a un punto la

Pablo Picasso, Figura in riva al mare, 1931.

storia dell’arte del Novecento, e la coscienza stessa degli artisti, che nessuna for-

ma d’arte impegnata in un profondo anelito di conoscenza del contesto soggettivo e storico della realtà ne potrà prescindere. L’opera di Picasso rappresenta la rivolta della coscienza, e dell’arte, di fronte ai disastri che squassano l'Europa;

l'Europa dopo la pioggia è infine l'immagine emblematica di un continente percorso dal diluvio che l’ha sconvolto. Dopo gli eventi della guerra, e dopo Picasso, si instaura nell’arte un’autocoscienPablo Picasso, Guerzica, 1937.

° È noto che Picasso, alla richiesta di spiegazioni da parte di alcuni ufficiali tedeschi delle ragioni di Guernica, rispose attribuendo a loro, in quanto responsabili del conflitto, il “merito” di avere determinato la nascita del dipinto.

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Pi

Max Ernst, L'Europa dopo la pioggia, 1942.

za della profonda frattura che si è prodotta tra uomo, storia e società dominata da eventi drammatici. Dal momento che Picasso ha reperito nell’arte gli strumenti atti a rivelare e denunciare le oscure forze che muovono la storia, Guerrica

diventa un punto di riferimento obbligato per gli artisti, e l’intera invenzione di Picasso che ha portato a quell’esito storicamente così risonante il luogo principale dal quale muove l’interesse di coloro che intendono dare con la pittura una puntuale radiografia della superstite, nuova condizione umana. Consideriamo due artisti che in sommo grado hanno espresso inquietudini e ansie del mondo contemporaneo: Sutherland e Bacon. Sutherland s’affaccia sugli anni del dopoguerra avendo sceverato i temi fondamentali della sua pittura e definito nella “parafrasi” della natura una forma di equilibrio e di legame da cui l’esperienza creativa non può prescindere. La lezione di Picasso, particolarmente evidente in un ristretto gruppo di opere dopo il 1945, è ricondotta dall’artista nell’alveo dell’organico e, in un certo senso, della

Graham Sutherland, Figura piegata, 1946.

rappresentazione. Gli anni cui risalgono le meditazioni su Picasso sono gli stessi in cui anche Francis Bacon si rifà a quell’artista. Le donne di Dinard, le grandi bagnanti sulla spiaggia, le figure della fine degli anni Venti sino a Guerrica hanno rappresentato un punto di riferimento essenziale per la pittura europea alla ricerca di una possibile immagine figurale. Sutherland coglieva il momento metamorfico delle ambigue figure di Picasso, il loro essere, appunto, uomo, bestia, insetto. Così come Bacon aveva colto la carnalità immanente, il fardello di carne e di

sangue appeso all’impalcatura ossea, l’urlo trattenuto di queste figure del dirompente inconscio. I due artisti volgevano quell’indicazione, così vera per il tempo in cui era apparsa, così profetica per il tempo che annunciava, a un loro diverso intento espressivo: Bacon configgendola sui simulacri più inafferrabili della vita - lo sguardo, il movimento, l'ombra —, Sutherland riportandola dapprima a un'icona storica — la figurazione della Crocifissione — poi alla storia naturale. Gli anni del conflitto mondiale vedono Sutherland intento a quel lavoro di documentazione che dà origine ai Disegni di guerra. Le pagine di diario attestano con quanto impegno l’artista perseguisse il suo compito, e come la sua attuazione non

6 G. Sutherland, War Artist, lettera scritta verso la fine della guerra a Edwin Malin, in “Daily

Telegraph Magazine”, 1971.

fosse mai disgiunta da una continua riflessione sulle ragioni del linguaggio. “Ripensando a quel periodo — scrive — devo riconoscere che la guerra ha avuto senz'altro un profondo effetto sulla mia coscienza.” Gli eventi hanno inciso sugli artisti così come è accaduto per tutti gli uomini di coscienza che nel momento storico ne sono stati coinvolti, e che comunque su di esso hanno riflettuto. Ma c’è una valenza in più che a noi interessa, in quanto riguarda le sorti dell’espressione, un patrimonio collettivo. Sutherland accresce di nuovi spessori la lingua pittorica, non solo nel senso che la lunga esperienza disegnativa su oggetti e forme diverse lo avvia a rinvenire nuove soluzioni grafiche, ma nel senso che il coinvolgi-

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Francis Bacon, Tre studi per figure alla base di una crocifissione, 1944.

mento in un evento di tale significato collettivo, osservato attraverso la lente analitica dei segni, lo porta a scoprire nuovi spazi e figure, connessi con una sensibilità che cambia senza ritorno di fronte all’accadimento che dissesta il mondo. Un mondo deflagra, e non è solo il mondo delle miniere, l'abisso dei pozzi di carbone, la stazione distrutta, la macchina sventrata. E il mondo delle certezze e dei

valori, della fiducia nei rapporti umani. Una stagione difficile si prepara per l’uomo, e l’arte, come sempre è avvenuto, segue le sorti collettive con la difficoltà

e il disagio di chi cerca una risposta all’angoscia di ogni giorno. Credo che solo la coscienza del linguaggio, la fiducia nell’arte come missione oltre il corrompersi inevitabile della vita, consentano all’artista non una consolazione, ma una fer-

mezza, un tenere sullo scopo malgrado il negativo “profondo effetto sulla coscienza”. Riferendosi a immagini di violenza della guerra di cui venne in possesso, Sutherland scrive: “Queste immagini mi colpirono profondamente [...] i corpi straziati, nelle foto, mi sembrarono figure deposte dalla croce. L’idea di dipingere il Cristo crocifisso acquistò concretezza in me [...] sentii che ora sarei stato

in grado di ritrarre il Cristo sulla croce.” Non è un caso che in questi stessi anni anche Francis Bacon dipinga Tre studi per figure alla base di una Crocifissione (1944). “...Questa scena è diventata una magnifica armatura — dirà Bacon — su cui appendere sentimenti e sensazioni le più

diverse [...] non ho trovato un soggetto altrettanto capace di ricoprire certe aree del sentimento e del comportamento umano ...”* E, per Bacon, il procedere al rinvenimento della forma oltre gli accidenti del caso, il suo incanalarsi repentino entro simulacri o icone picassiane, è un dato certo. Come nelle grandi forme sulla riva del mare, surreali apparizioni nel Picasso degli anni Trenta, tali immagini sembrano scaturire dalla profondità dell'inconscio. C'è l'intenzione, in Suther-

Guernica bombardata, 26 aprile 1937.

land come in Bacon, di dare forma all’immaginario, e consapevolezza che sia

questa la sola via per stabilire una comunicazione di fondo, non effimera tra gli uomini. Oltre Picasso, ricreando la realtà sottesa all'apparenza, dando a essa figura, accrescendo quindi la sfera della conoscenza con l’offrire la possibilità di una visione comparata tra ciò che appare e il senso che l’arte ne trae. Scrive Sutherland: “Io tento di restituire tali forme [...] al campo puramente visivo, di gettarle nuovamente, per quanto possibile, nella culla originaria [...]. Penso che sia ormai venuto il momento di fare qualcosa di più che circoscrivere le nostre emozioni. Con questo intendo dire che fino ad ora si è avuta la tendenza a modificare le forme della realtà dal punto di vista emozionale e intellettuale, privandole della loro struttura ottica, o sostituendo invece ad essa una sorta di stenografia visiva — prodotta dall’osservazione e dalle nostre reazioni — che ci riconduca intellettualmente e sensibilmente al loro prototipo ideale, come nel caso di Guerrica di Picasso. Sono convinto che oggi sia possibile ampliare il campo della pittura collo-

7 Ibid.

8 F. Bacon, La brutalità delle cose - Conversazio-

ni con D. Sylvester, in “Quaderni P.P. Pasolini”, Milano, 1991, seconda conversazione.

cando le nostre parafrasi emozionali della realtà — purché siano state concepite con particolare cura visuale — nell’ambito della realtà ottica.” Le opere di Sutherland e di Bacon sono dunque una grande metafora dell’angoscia storica e della violenza, oltre Picasso, senza prescindere tuttavia dalle di lui figurazioni nate in quel cruciale nodo storico, e annuncianti una condizione del fare arte irrimediabilmente mutata dopo gli eventi che hanno spalancato un abisso di oscurità cui neanche l’arte, come la condizione umana, poteva sottrarsi.

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Ho interpretato per grandi linee — convinto che ciò fosse essenziale per dare evidenza alla risposta del linguaggio dell’arte ai grandi eventi che hanno gravato sull'Europa dei primi cinquant’anni del secolo — l’arte del Novecento. Ma è evidente — e questa esposizione lo dimostra attraverso le innumerevoli espressioni che dall'esperienza della guerra hanno tratto partito per una denuncia senza remissione della barbarie — che uno sforzo accomuna gli artisti consapevoli, con-

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Graham Sutherland, Crocifissione, 1946.

sciamente o inconsciamente mossi da una volontà: dare testimonianza per non

dimenticare. La memoria si oppone alla fredda compilazione di fatti propria alla storia, enunciazione assente alle passioni e ai sentimenti che hanno agitato gli

uomini che l'hanno vissuta. O forse la storia è suo malgrado una funzione dell'oblio di quell’altra vicenda, più significativa perché più umana, perché riguardante i giorni dell’uomo di cui si è perduto il nome, rammentandosi invece i fatti in cui egli si è suo malgrado trovato coinvolto? Sarebbe ancora troppo facile chiudere le espressioni che la mostra presenta nella loro sfera storica: sostenere che una necessità di a/lora ha mosso gli artisti a cercare nell'impegno una funzione sociale e critica che appariva offuscata se non decisamente negata in un’abbietta trasformazione dell’arte in uno strumento di consenso. Le innumerevoli sventure e le grandi passioni che hanno colpito e agitato l’uomo europeo negli anni della guerra sona materia di riflessione da parte di molti artisti. Non la cruda oggettività dei fatti, ma un’ostinata disamina dei sentimenti e delle passioni che hanno generato, un tenace constatare l’infimo destino dell’uomo, e una precisa denuncia delle cause che lo hanno prodotto. Se con tanta ostinazione il nazismo si è accanito contro i fenomeni artistici, anche quelli che non portavano esplicito il segno della denuncia della barbarie, ciò significa che era chiara nella feroce mente degli oppressori la forza chiarificatrice dell’arte. Sarebbe troppo facile, dicevo, attribuire all'arte di opposizione la sola valenza storica, rifiutandosi di capire che quella denuncia è aperta sul presente, che essa ha una formidabile forza di ammonizione al di là del suo contingente misurarsi con una cronaca rinchiusa in una sciagurata epoca storica. ‘Memento mori” diceva un’antica massima, e si raffigurava il tema intendendo richiamare l’uomo al suo destino. Non altrimenti l’arte di opposizione stigmatizza la barbarie come un fatto perenne. La malvagità contro il senso umano della vita, l’oppressione come dominio e sopraffazione del potere contro chi, indifeso, ne subisce la violenza. L’arte non muove tuttavia da un pessimismo storico, ma semplicemente da quella constatazione che la storia stessa rende possibile. I fatti si ripetono: la storia ha i suoi ricorsi. La strage degli innocenti è un antico tema in cui l’arte si è imbattuta, a esso attribuendo un valore emblematico universale, e al di là dell’evenienza

? G. Sutherland, Thoughts on Painting, in “The Listener”, settembre 1951.

che nella realtà storica l'aveva generato. Guerzica di Picasso urla l'orrore del bombardamento della cittadina basca, ma potremo forse dire che la realtà di quell’immagine non si attaglia alla crudeltà della guerra odierna, che il mondo di oggi non vive la sua terrificante “Guernica” negli eventi che periodicamente in alcune sue parti si verificano? Guernica ha poca attualità, o piuttosto il suo messaggio non è il monito più forte a preservare la memoria? Non ha essa invece un’attualità flagrante, non occorre ricordare al mondo che, se i fatti si ripetono,

Bosnia, Sarajevo, guerra civile, 1994 (foto diJean-Claude Coutasse / Grazia Neri).

esiste un’iniqua responsabilità che va combattuta? Bacon, dando un valore esemplare alla figura di van Gogh, non intendeva attribuire alla testimonianza dell’artista un valore storico in sé chiuso, ma constatava come egli avesse rivelato per primo una condizione di tutti, i cui esiti storici tutti avevano ormai sotto gli occhi. E che la violenza è un fatto latente a fronte del quale spetta anche all’arte gettare un grido di allarme. La memoria! è un essenziale strumento per la comparazione critica dei fatti. L’uomo senza memoria è in balia del destino, un irresponsabile infelice cui manca l'energia di opporsi alle eventuali ricadute cui l’eterna dialettica del bene e del male induce. Le ricadute non sono un fatto inevitabile, cui presieda un destino preventivamente segnato. L’uomo è artefice del proprio destino: l'indifferenza e il non impegno segnano nella storia, come tappe ricorrenti, il predominio delle forze negative. L’arte non ha esaurito la sua funzione. Come sarebbe assurdo pensare che l’arte di opposizione da sola potesse ergere un’invalicabile muraglia di fronte alla barbarie, così sarebbe improprio non riconoscere che essa ci insegna a guardare con occhi vigili al mondo: alimenta la coscienza del reale, e il suo grido suona come un allarme e un appello che risveglia la memoria dei fatti nelle loro più profonde implicazioni umane. La Resistenza fu un fatto storico, ma costante è la necessità di resistere ove si

manifesti la violenza, ove l'arroganza e il predominio del potere tendano a spegnere l’anelito di libertà che perenne alberga in petto a ogni uomo. Per questo la fenomenologia dell’arte in un certo momento storico ha un alto valore di insegnamento. Non ci spinge solo a comprendere meglio quei precisi fatti storici, ma a compararne la memoria con il mondo in cui viviamo: sicuro argine, questo, al pericolo che sciagurate evenienze storiche abbiano tragicamente a ripetersi.

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10 Una severa asserzione dell’etica della memoria è contenuta nell’importante testo di J. Améry, Jenseit von Schuld und Siibne Bew altigiwi: versuche eines Uberwdltigten, 1966; trad.i Intellettuale ad Auschwitz, Torino, 1987. pas. ry scrive che il nostro tempo “per quanto riguarda le atrocità regge il confronto con le epoche peggiori di una storia che è tanto reale quanto contraria alla ragione. Talvolta si ha l'impressione che Hitler abbia conseguito un trionfo postumo. Invasioni, aggressioni, tortu-

re, distruzione dell’uomo nella sua essenza. I segnali non mancano”.

George Grosz: un piccolo sì e un grande no Ralpb Jentsch

Un piccolo si è un grande no: così recita il titolo dell’autobiografia di Grosz, pubblicata da Longanesi a Milano nel 1948 ed edita due anni prima a New York in lingua inglese. In essa Grosz riferisce sulla sua infanzia a Berlino e in Pomerania,

sui suoi studi alle Accademie di Dresda e Berlino, sulla prima guerra mondiale che gli ha insegnato l’odio, sul pericolo crescente rappresentato dall’ascesa al potere del nazionalsocialismo, sulla sua vita di dandy, ammonitore, dadaista, mo-

ralizzatore e spauracchio della borghesia a Berlino, e infine sulla sua vita in America, il paese amato e desiderato fin dall’infanzia, nel quale per un caso di fortuna era emigrato poche settimane prima dell’avvento al potere di Hitler, sfuggendo così alla sorte del campo di concentramento o della morte immediata per mano dei nazisti. Perché Grosz diventa l’uomo più odiato dai nazionalsocialisti che ambiscono al potere? Come mai per oltre dieci anni viene ripetutamente citato in giudizio in quella Repubblica di Weimar che si considera un regime liberale? Perché come nessun altro egli smaschera il perbenismo piccolo-borghese, perché denuncia senza mezzi termini la spietatezza dei rappresentanti dell'esercito prussiano spe-

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Neues Jahrl*

Capitale ed esercito si augurano: Buon anno nuovo!, disegno di copertina per “Die Pleite”, Berlino, gennaio 1920.

rimentata di persona durante la guerra, perché stigmatizza l’ipocrisia degli esponenti del clero, perché mette la gente dinanzi a uno specchio in cui si trova a confronto con la verità nuda e cruda, insomma perché nutre una profonda diffidenza verso l’autorità, sia politica che militare, e non ne fa mistero. La sua arte è la sua arma di difesa e il suo strumento di vendetta tanto per il torto subito quanto per l’incessante violazione del suo “segreto ideale di bellezza”! da parte della brutalità umana. Hanno origine così innumerevoli disegni e acquarelli pubblicati in riviste e giornali politici o satirici. I libri illustrati satirici di Grosz, come Das Gesicht der berrschenden Klasse (Il volto della classe dominante) del 1921, Abrech-

nung folgt! (Seguirà la resa dei conti!) del 1923 e Der Spiesser-Spiegel (Lo specchio del borghese) del 1925, vengono stampati ad alte tirature dalla casa editrice Malik di Berlino. La sua opera illustrata forse più conosciuta, Ecce Homo, con 84 disegni e 16 acquarelli, uscita nel 1923, sempre presso Malik, è una straordinaria enciclopedia della società tedesca contemporanea e del filisteismo piccolo-borghese. Mutilati di guerra, venditori di fiammiferi, militari senza anima, il maestro

! Cfr. H. Graf Kessler, Tagebiicher, 1918 bis 1937, a cura di W. Pfeiffer-Belli, Insel, Franco-

fortes1982/p_343,

elementare libidinoso, il padre di famiglia satollo, il prete borioso, il patriota fanatico, il membro estremista del Partito nazionalsocialista, ma anche il disoccu-

pato affamato e il suicida disperato: in questa antologia della inesorabile mania di

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Il guaritore, foglio 5 della cartella Gott mit uns, litografia, Berlino, 1920.

Dalle loro nuvole fecero cadere mansuetudine e tolleranza e al dio dell'amore recarono vittime

George Grosz nel suo studio a Berlino, 1917.

umane, foglio 7 della cartella I briganti, litografia, Berlino, 1922.

osservazione di Grosz e del suo segno mordace si ritrovano tutti, senza eccezioni.

Non c'è da stupirsi, dunque, che simili “raffazzonature” gli fruttino processi per oltraggio alle forze armate del Reich, divulgazione di pubblicazioni oscene e atti blasfemi. Nel 1932 la Art Students League invita Grosz a tenere un corso estivo a New York. La grande metropoli lo entusiasma, i successi di vendita e le commissioni

di illustrazioni per riviste americane, fra cui il foglio satirico “Americana”, contribuiscono a fargli maturare la decisione di lasciare la Germania per sempre. Grosz giunge a New York il 23 gennaio 1933, poche settimane prima della presa del potere da parte di Hitler, in seguito alla quale egli viene immediatamente ricercato nel suo alloggio di Berlino. Le SS distruggono il suo atelier a colpi di scure. I nazisti redigono una lista di persone, appartenenti a tutti i settori della vita pubblica, cui togliere la cittadinanza, e tra esse figura il nome di Grosz. Tale provvedimento comporta anche il sequestro di tutti ibeni e del denaro in loro possesso. Grosz è a tal punto odiato dai nazisti che sarà il primo dei numerosi oppositori

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Copertina di Georg Grosz, Seguirà la resa dei conti, Berlino, 1922.

del regime a essere privato della cittadinanza, precisamente l’8 marzo, ossia dieci giorni dopo l'incendio del Reichstag. Dall’ America segue con attenzione il corso degli eventi nella Germania nazista e incolla nelle sue agende ritagli di giornale con brevi comunicati. In molte lettere ad amici e conoscenti dà sfogo all’ira e all’indignazione per quanto sta accadendo in Europa e per il “fallimento dei letterati e degli intellettuali”? La leggenda secondo cui negli Stati Uniti Grosz sarebbe diventato un artista apolitico, avrebbe dipinto esclusivamente nudi e paesaggi e si sarebbe dato all’alcol si è protratta fino ai giorni nostri. Durante tutto il suo periodo americano, al contrario, egli ha mantenuto vivo un atteggiamento critico tanto verso la politica americana quanto verso gli eventi politici contemporanei in Europa, manifestando la sua rabbia e l’orrore per i crimini commessi. Con più di mille acquarelli Grosz reagisce alla sanguinaria repressione della rivolta austriaca del febbraio 1934, all’assassinio di Erich Mihsam compiuto nello stesso anno nel campo di

concentramento di Oranienburg e alla guerra civile in Spagna, nella quale l’esercito tedesco ha una parte così funesta. Sono del 1934 i primi acquarelli e disegni di paesaggi apocalittici e scenari di guerra nei quali Grosz prevede profetico gli avvenimenti degli anni seguenti. Da allora al 1950 nascono oltre 40 dipinti eseguiti sotto la spinta di circostanze spesso minacciose anche per l’esistenza dell’artista stesso. Sono paesaggi apocalittici di guerra e distruzione, espressioni convincenti e insieme disperate di un artista i cui moniti e la cui preveggenza nulla pos-

sono per impedire la catastrofe. Sette di questi dipinti, degli anni 1936-1946, sono esposti in questa mostra di Genova.

Il ribelle Georg Ehrenfried Gross nasce a Berlino il 26 luglio 1893, figlio di un oste. Nonostante la morte precoce del padre la sua infanzia trascorre serena a Berlino e a Stolp, in Pomerania. Il nonno materno era cestaio a Finsterwalde, la madre si

2 Cfr. la lettera a Max Herrmann-Neisse, Bayside, Long Island, New York, 12 maggio 1934.

guadagnava da vivere facendo la cuoca in vari circoli per ufficiali. A quindici anni Georg viene espulso dalla scuola per avere restituito prontamente uno schiaffo a un insegnante. Alcuni docenti bendisposti riconoscono il suo talento per il disegno. Nel 1909 supera l'esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti a Dresda e tre anni dopo ottiene dallo Stato una borsa di studio che gli consente di frequentare la Scuola di arti applicate a Berlino. Insieme al suo compagno di studi Fiedler, Grosz girovaga per la metropoli, attratto soprattutto dalla periferia e dai luna-park. Risalgono al 1912 le prime scene di strada e di caffè. Nel novembre 1914 si arruola come “volontario” prevenendo la coscrizione ob-

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bligatoria. Dopo un crollo psichico, cui segue una breve degenza in un ospedale militare dove incontra molti feriti gravi provenienti dal fronte, viene temporaneamente congedato in quanto inabile al servizio. A causa della sua avversione a ogni forma di autorità e delle crudeli esperienze nell’ospedale militare Grosz ha ormai perso la fede nella bontà umana. Cresce dentro di lui l'odio, che si sfoga in centinaia di disegni pungenti, verso i responsabili e l’“orrida umanità”. “L'uomo non è buono, è una bestia”, afferma alludendo al libro L’uorzo è buono

di Leonhard Frank, scritto negli anni di guerra 1916-17. E in una lettera del settembre 1915 all’amico Robert Bell: “L’umanità tanto decantata dagli ottimisti (I tuoi e i miei fratelli! diceva Gesù Cristo — ah ah!) è stata ricacciata indietro di duemila anni. Ai soldati viene ingiunto di andare a messa mentre i giornali blaterano della rinascita dell’ideale cristiano — la religione si è ridotta a un cadavere mummificato.”* Nel 1916 americanizza il suo nome in George Grosz. Ormai rifiuta tutto ciò che è tedesco in quanto “brutto”. Mentre giudica la situazione politica in modo spas-

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sionato, tenta di sottrarsi a qualsiasi tipo di coercizione. “Detestavo essere soltan-

to un numero; non l’avrei sopportato nemmeno se fossi stato il numero uno. Mi hanno urlato addosso per tanto tempo che finalmente ho trovato il coraggio di rispondere urlando.” E a proposito dell’inizio della guerra, nel pamphlet L'arte è in pericolo, scritto insieme a Wieland Herzfelde nel 1925, riassume: “Lo scop-

pio della guerra mi fece capire che la massa che si riversava piena di entusiasmo nelle strade, suggestionata dalla stampa e dalla pompa militare, era del tutto priva di volontà, dominata dalla volontà dei politici e dei generali. Anch'io percepivo questa volontà superiore, ma non mi entusiasmai perché sentivo minacciata la

mia libertà personale. Desideravo vivere lontano dagli esseri umani e dalle loro istituzioni, e ora invece rischiavo di essere costretto a far parte della comunità militare insieme con persone tanto detestate. Il mio odio si concentrò su coloro che volevano impormelo.”° Tra il suo temporaneo congedo dal servizio militare e un imminente secondo reclutamento scrive all'amico Robert Bell: “Abito tuttora nel grazioso e rispettabile sobborgo piccolo-borghese di Sidende, dove il mio odio per i tedeschi viene ardentemente alimentato dalla bruttezza, sì, dalla negazione dell’estetica dei suoi tedeschissimi malvestiti cittadini [...]. Da quando iin Germania non vivono più stranieri, vedo solo uomini e donne trasandati, obesi, deformi, orrendi [...]. È un perenne supplizio vivere da vedente in mezzo a tutti questi fetidi ciechi [...l che per giunta detengono il potere di costringermi al loro servizio semplicemente facendomi arruolare o facendomi fucilare in qualche altro modo. Quale curioso concetto di umanità, dico io: a che pro sono esistiti tutti quei filosofi che, in gergo scolastico, ‘devono guidare iin alto noi uomini’ (me?)? È vero, sono un avversario di ogni sistema coercitivo [...]. Al momento mi ritrovo nella piacevolissima situazione di un giovane che sta per essere arruolato per la seconda volta al servizio della patria. Ah! È così bello non sapere nulla sul destino che mi attende, è così gradevolmente paralizzante, anche dal punto di vista economico. Dio, che tempi questi nostri! Ti sono grato, Signore (perdonami se ti importuno), per poter vivere tutto ciò. (Il testo originale è di Guglielmo II, imperatore tedesco e re di Prussia.)”” Grosz viene dunque richiamato sotto le armi, ma in seguito a uno svenimento

finisce ancora una volta in un ospedale militare. “Tutto è buio intorno a me, e intanto le ore volano via nere come la pece. Caro Schm., ho perso la gioia e il mio odio per il genere umano è cresciuto a dismisura.”* In preda a un raptus aggredisce un maresciallo del corpo sanitario. Le conseguenze: ricovero in una clinica neurologica, test dell’idiozia, minaccia di fucilazione per diserzione e, infine, su

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Sacco e Vanzetti, disegno a inchiostro, 1927.

? Dalla prefazione di Grosz al catalogo della sua mostra alla Galerie von Garvens, Hannover, aprile 1922. * Da una lettera a Robert Bell, Berlin-Siidende, fine settembre 1915. ° G. Grosz, Ein kleines Ja und ein grosses Nein, Rowohlt, Amburgo, 1955, pag. 101. 6 G. Grosz, W. Herzfelde, Die Kunst ist in Gefabr, Malik, Berlino, 1925, pp. 19-20. ? G. Grosz, Briefe 1913-1959,

a cura di H.

Knust, Rowohlt, Reinbeck, 1979, pp. 42-45. S Da una lettera a Otto Schmalhausen del 18 gennaio 1917, in G. Grosz, Briefe..., cit., p. 46.

tusrebintirioa che derheiloate o 1%.

La distribuzione dello Spirito Santo, foglio 9 della cartella Scerzarso, litografia, Berlino, 1928.

intervento dell’influente conte Kessler, dichiarazione di inabilità e congedo definitivo dal servizio militare. Si conclude così la carriera di Grosz come “difensore della patria” cui non è concesso di “cadere sul campo dell'onore”. Nessuno li ha contati esattamente gli assassinati, i bruciati, gli impiccati, i gassati, quelli soffocati, fatti a pezzi, fucilati, decapitati, i torturati a morte, i morti di fame, gli annegati e gli abbattuti. Dieci milioni di morti e quasi il doppio di feriti è il bilancio terrificante di quella guerra. Nel 1922 Grosz compie un viaggio in Russia dove incontra Trotskij e Lenin. Disincantato da quanto vede e vive, lascia il Partito comunista cui aveva aderito nel 1919. Ormai guarda al futuro privo di ogni illusione e assegna alla propria arte il compito della resa dei conti con coloro che considera i responsabili e i criminali della prima guerra mondiale. Al contempo però mette in guardia da quanto può ancora accadere: la borghesia non rappresenta un garante della pace sociale e politica, la Chiesa è un’istituzione ipocrita interessata esclusivamente al mantenimento del potere e dei propri privilegi, il capitale e l’esercito costituiscono un amalgama fatale che dalla guerra ha tratto soltanto vantaggi e non rifuggerà da un nuovo scontro armato. Nel 1922 il conte Harry Kessler, diplomatico di professione, uomo di mondo e collezionista delle opere di Grosz, annota nel suo diario: “Pomeriggio da George Grosz (il disegnatore). Nel culto esclusivo della bruttezza del moralismo piccoloborghese tedesco, tutta la sua arte è per così dire l’immagine rovesciata di un segreto ideale di bellezza che Grosz nasconde dentro di sé con una sorta di pudico velo. Egli disegna e persegue con occhio fanatico il contrario di ciò che reca in sé custodendolo come un sacrario dagli sguardi altrui. La sua arte è una guerra finalizzata allo sterminio del contrario del suo ideale nascosto, della sua misterio-

sa ‘amata’. Invece di cantarla come un trovatore, egli lotta quotidianamente con accanimento implacabile contro i suoi nemici, simile a un cavaliere ossessionato. Grosz rappresenta un caso assai singolare e raro: l’idealista di segno rovesciato. Solo nel colore traspare qualcosa del suo segreto ideale. Una natura sensibile come quella della mimosa, ma che a causa della sua emotività diventa incredibilmente brutale e possiede la forza creatrice di tale brutalità.”? L’ammonitore

Nell'ottobre 1918 Grosz si stabilisce in un atelier-padiglione di Berlino Wilmersdorf, in Nassauische Strasse 4, un indirizzo che manterrà fino al suo trasferimen-

to negli Stati Uniti. Senza dubbio la capitale del Reich, con la più grande concentrazione di case editrici e riviste, artisti e letterati, gallerie e mercanti d’arte, caba-

ret e caffè, club, associazioni e circoli privati di artisti, svolgeva un ruolo di primo piano in Germania. “A Berlino c'era movimento. Era diventata un grande centro. In campo artistico

aveva superato i vecchi centri di Monaco, Dusseldorf e Dresda. Si era progressisti a Berlino. Nelle botteghe d’arte, accanto a Cézanne e van Gogh, si esponevano anche pittori francesi più giovani, come Picasso, Matisse, Derain e altri che sta-

° H. Graf Kessler, Tagebiicher..., cit., p. 343.

10 G. Grosz, Ein kleines Ja..., cit., p. 94.

vano acquistando notorietà. A Berlino c’erano teatri favolosi, un circo gigantesco, cabaret e varietà. Birrerie grandi come l’atrio della stazione, locali per la degustazione di vini che si estendevano su quattro piani, la seigiorni dell’ippica, mostre del futurismo, il concorso internazionale di tango e il ciclo di Strindberg al teatro nella K6niggratzerstrasse — tutto questo era Berlino quando vi giunsi”, annota Grosz nell’autobiografia.! La fine della guerra e i successivi eventi rivoluzionari del 1918-19 provocano un mutamento radicale della situazione economica e politica in Germania. Per il frontespizio delle riviste di sinistra “Die Pleite”, “Der Blutige Ernst” e “Der Gegner” Grosz esegue disegni sovversivi con i quali combatte il capitalismo, l’eser-

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cito e i socialdemocratici alleatisi per stroncare la rivoluzione. Le sue opere di questi anni sono un contraddittorio impietoso con il militarismo superstite. Nel 1920, insieme con Raoul Hausmann e John Heartfield, organizza a Berlino nella bottega di Otto Burchard la “Prima esposizione internazionale dada”. Nel salone della mostra pende dal soffitto un pupazzo con le fattezze di un soldato. Opuscoli e quadri contro la guerra di Otto Dix, Grosz e altri occupano le pareti. Sopra un tavolo è esposta la cartella Got? 25 uns (Dio con not) con nove fotolitografie di Grosz, appena pubblicata da Malik. Il motto “Gott mit uns” è inciso sulla fibbia della cintura dei soldati tedeschi. Ciò che in origine voleva significare “Dio sia con noi” era stato tradotto in un arrogante “Dio è con noi”. I fogli di Grosz sono una radicale resa dei conti con l’odiato esercito. Ne consegue un processo per oltraggio alle forze armate del Reich a carico dell’autore e dell'editore Wieland Herzfelde, che si concluderà un anno dopo con la condanna a pagare una pesante ammenda. Resa nota la sentenza, Kurt Tucholsky pubblica due prese di posizione sul processo: “I disegni di Grosz sono una rappresentazione nuda e cruda del militarismo tedesco, a partire da Guglielmo fino al suo maggiore suc-

Maul half sind nvelia ditnoe

Cristo con la maschera a gas, Treni la bocca

chiusa e continua a servire, foglio 10 della cartella Scerario, litografia, Berlino, 1928.

cessore, il traditore dei lavoratori Noske. Marescialli, sottufficiali medici, mag-

giori pappini, generali avvinazzati, sottotenenti da bordello e quell’orrendo detenuto dei corpi franchi mai sono stati colti con tale precisione come in queste opere. Se le forze armate del Reich si sentono offese, ci fanno compassione. Perché, se la cosa non le riguarda, non c’è motivo di mobilitare un pubblico ministe-

ro ex ufficiale e dunque prevenuto; se invece le riguarda, allora ha ragione Grosz.”!! “Ciò che qui viene punito è l’intendimento. Che cosa è veramente successo? È chiaro che questo dibattimento non ha nulla a che vedere con la giustizia. Non ho capito perché l'imputato non sia stato costretto a entrare in aula dicendo: ‘Il mio nome è Grosz — grande criminale’, al che il presidente avrebbe replicato: ‘Piacere. Trecento marchi di ammenda!’ Si sarebbe risparmiato molto tempo e lavoro.”! Grosz non allenta la sua attività di agitatore politico. Presso la casa editrice Malik appaiono in rapida successione libri e cartelle come Im Schatten (Nell’ombra), Das Gesicht der berrschenden Klasse (Il volto della classe dominante), Die Riuber

(I banditi), Ecce Homo, Abrechnung folgt! (Seguirà la resa dei conti!) e Der Spiesser-Spiegel (Lo specchio del borghese). Il suo segno crudele e incisivo colpisce sul vivo gli odiati nemici. Vengono sequestrati 34 disegni di Ecce Horo, e Grosz e il suo editore vengono processati per divulgazione di pubblicazioni oscene. Nel 1928, in occasione della rappresentazione del So/dato Svejk alla Piscatorbuhne di Berlino, la Malik pubblica la piccola cartella Hinztergrund (Scenari) con 17 disegni. Tre fogli di essa procurano a Grosz la denuncia per atti blasfemi. Il terzo processo intentato contro di lui si svolgerà in cinque istanze, concludendosi tre anni dopo con una sentenza di assoluzione. Nella sentenza della corte al procedimento in secondo grado, contro la quale farà a sua volta ricorso il pubblico ministero, i magistrati avevano comunque dichiarato a favore di Grosz e di altri quanto segue: “E presumibile che vi siano persone incapaci di penetrare il significato dei quadri di Grosz, cogliendone soltanto l’aspetto esteriore. Sebbene tali

Per chi, foglio 16 della cartella Scenarso, litografia, Berlino, 1928.

persone non debbano perciò essere escluse dall’arte, tuttavia, se vogliamo evitare

di imporre a questa una camicia di forza che non le pertiene, l'opinione di costoro non può costituire il limite della pratica artistica. In tal caso infatti sarebbe impossibile per l’arte compiere la propria missione culturale tra il popolo, giacché questa implica che essa agisca da pioniere, abbandonando le vie convenzionali. Ecco perché di tanto in tanto accade che un artista o anche un'intera corrente artistica vengano capiti e giustamente apprezzati soltanto dopo anni. Come già esposto inizialmente, l’intento dell’artista, al momento dell’esecuzione dei dise-

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K. Tucholsky, Der k/esne Gessler und der grosse Grosz, in Gesammelte Werke, Amburgo, 1960, vol. I, pp. 751-752.

I. Wrobel (K. Tucholsky), Dada-Prozess, in “Die Weltbihne”, 28 aprile 1921, p. 454.

gni, mirava esclusivamente a combattere la guerra e a fustigare le aberrazioni della Chiesa nella persona dei suoi guerrafondai. In questo modo Grosz si è reso portavoce dei molti milioni di persone che vogliono abolire la guerra e ha sollevato un’istanza morale della massima importanza.”! Il profeta “Sopraggiungeva il periodo dell’inflazione — scrive Grosz nelle sue memorie —.

Fuori marciava un gruppo di uomini in camicia bianca che continuava a cantare ‘Germania, svegliati! Giuda, crepa!’ Seguiva un altro gruppo, anche questo marciando militarmente in riga per quattro, che declamava in coro: ‘Evviva Mosca! Evviva Mosca!’ Al loro passaggio lasciavano sempre qualcuno con la testa fracassata, la gamba maciullata e a volte una pallottola nella pancia [...]. La città era buia, fredda, in balia delle dicerie. Le sue strade divennero voragini desolate,

George Grosz sul tetto della casa dei suoceri in piazza Savigny 5, Berlino, 1928.

luogo di omicidi e di spaccio di cocaina, i suoi nuovi emblemi la verga d’acciaio e la gamba di una sedia spezzata sporca di sangue.”!4 E difficile trovare tra icontemporanei un altro che vede con tanta chiarezza dove va a parare in Germania il rafforzamento del fascismo. Nelle lettere agli amici, che gli fungono anche da diario,” Grosz profetizza gli eventi successivi con una precisione assoluta, talvolta fin nei dettagli. Già nel 1934 fissa in centinaia di acquarelli quella che solo anni dopo si rivelerà una realtà spaventosa. “Ho dipinto circa 350 grandi acquarelli. In parte immagini cupe — città distrutte a colpi di arma da fuoco, cadaveri di gente uccisa a tradimento da uomini in uniforme — e, di recente, una serie di combattimenti nelle strade — sulla scia delle vicende di

Vienna. Non mi aspetto proprio nulla da questi fogli — la mia soddisfazione deriva da una certa qualità del lavoro e dall’essermene liberato (interiormente). Ho dipinto anche Hitlermann!° come un incubo: sotto, villaggi in fiamme; nel cielo, aerei da bombardamento — alla maniera di Goya, come visione.”! : Nel 1934 ci sono ancora molte persone influenti in Germania, ma anche all’estero, convinte che Hitler sarà liquidato in breve tempo. A un pranzo privato con Thomas Mann e sua moglie, a New York, Grosz per poco non arriva a un diverbio violento con lo scrittore, il quale è persuaso che Hitler non rimarrà al potere per più di sei mesi. “Di recente ho avuto un lunch con Tom Mann, il fratello dello Heinrich don Chisciotte. E stato piuttosto interessante. Tom è fatto per scrivere libri ma non per professare la politica rivoluzionaria. Sosteneva che Hitlermann non rimarrà su a lungo. Io credo che vi rimarrà più a lungo di quanto molti non pensino, sostenuto dall'amore dei sudditi tedeschi, dell’industria pesante, della gloriosa armata e della zelante Gestapo.”!8 3 Dalla pubblicazione della sentenza nel processo per atti blasfemi a carico di George Grosz, firmata dal direttore del tribunale Siebert, dal

consigliere di tribunale Lembcken e dal giudice a latere Schneider, Berlino, 10 aprile 1929. 14 G. Grosz, Ein Kleines Ja..., cit., p. 118. 15 “Sai che non tengo un diario. Quando un evento mi appare degno di registrarlo, ne scrivo ai miei compagni” (da una lettera a Otto Schmalhausen, Berlino, 29 aprile 1918, in G. Grosz,

Briefe..., cit., p. 66). 16 Questa espressione ricorrente di Grosz evoca irresistibilmente il termine tedesco Hampelmann, marionetta [N.d.T.]. 17 Da una lettera a Wieland Herzfelde, New

York, 30 giugno 1934. 18 Da una lettera a Ulrich Becher, New York, 17 agosto 1934.

Grosz era un pensatore lucido e anche un discreto scrittore. Numerosi suoi arti-

coli di arte, politica e cronaca uscirono su riviste d’arte e pubblicazioni di carattere politico. Fra l’altro si interessò al cinema, cui profetizzò un grande avvenire. Nel 1928, per la rappresentazione alla Piscatorbihne di Berlino delle Avventure del buon soldato Svejk di Jaroslav Hasek, Grosz aveva preparato le scenografie e fornito circa 300 disegni per un filmato animato che veniva proiettato durante lo spettacolo sul fondale del palcoscenico, una novità assoluta nell’arte teatrale. Il saggio pubblicato da Grosz nel 1931 sulla situazione politica ed economica in Europa è di una straordinaria lungimiranza: “E chiaro che viviamo in un’epoca di transizione. Ogni idea si è progressivamente fatta dubbia e vacillante; un liberalismo ormai sorpassato è sulla via del tramonto. Non si sa più che cosa farsene della ‘libertà’ datata 1793. Ovunque ci si orienta diversamente, reagendo con decisione a quanto fino all’altro ieri era ancora considerato valido da tutti. La destra e la sinistra si dividono sempre più nettamente in vista dello scontro finale

per il potere. A entrambe è comune la volontà di ricevere ordini dall’alto e di

obbedire sull’attenti. Basta così poco! Dopo la guerra ero convinto che nessuno avrebbe più pensato alle uniformi, a mettersi sull’attenti ecc. [...]. Centinaia di migliaia di persone vorrebbero lavorare ma non trovano un’occupazione. Per ogni macchina nuova introdotta viene mandato in pensione un certo numero di lavoratori. Persino i capitalisti più ottusamente compiaciuti cominciano a preoc-

cuparsi e a rompersi il testone per trovare una soluzione al problema. C'è chi parla di dittatura, ma riuscirà questa a domare la macchina insaziabile? Mi permetto di dubitarne. Intanto si continua a coltivare allegramente vecchi e nuovi bisogni perché la bestia non si arresti. Ciò significherebbe infatti la fine della produzione e della prosperità. Non è pensabile che in un domanii boschi non vengano più trasformati in carta di cellulosa; inimmaginabile una civiltà senza calze e slip di seta artificiale! È necessario allora coltivareibisogni, scatenarsi nella produzione e nella concorrenza. La gara per assicurarsi i mercati è frenetica. Le parole d’ordine: ribassarei prezzi... aumentare il potere di acquisto interno. A nessuno viene in mente che tutta questa spazzatura di lamiera tranciata, smalti... vetro stampato e cartone di fibra non è affatto indispensabile per vivere. Case di riposo chilometriche e colonie per le vacanze al mare. Chi l’avrebbe immaginato nel 1830, quando alcuni folli distrussero con impeto profetico le prime macchine?... Un gran bel progresso, vero? Così è nel 1931, nell’era del sociali smo Grosz non inveisce soltanto contro gli avvenimenti in Germania (“Hitlermann, un grande della terra... maturo per comparire sui francobolli. C'è da vomitare”); egli vede la catastrofe incombere sull'Europa: “La prospettiva generale, per quanto io possa giudicare, è gloomy [...]. Vedo ben poche speranze per un'Europa come la intendiamo noi.”! Una lettera all'amico Max HerrmannNeisse, poche settimane dopo il suo arrivo a

parma pazeo= n

Scena da un campo di concentramento, Sparagliene ancora uno, acquarello, 1938 c.

New York, il 5 maggio 1933, dimo-

stra con quanta chiarezza Grosz abbia capito la situazione europea e quanto tale consapevolezza lo faccia soffrire: “Max, ne ho abbastanza. Ovunque c’è brutalità... ovunque si spara, si impicca, si perseguita... ovunque gli uomini sono pieni

di pregiudizi e di strizza, hanno il culto del potere... ovunque regna un piano schematico... più o meno militarista... In Germania, adesso, hanno la loro Ghepeu né più né meno che in Russia. Questa Europa è infarcita di polvere da sparo... e di uomini impauriti [...]. Tutto è fallito in pochissimo tempo [...]. Con una svolta di tre quarti, ma già da prima, ci si è convertiti al potere assoluto [...]. Max, io sono un vecchio ‘liberale’, amo la mia piccola parte di libertà... (certo, è un punto di vista piccolo-borghese) [...] Well, fa niente, me ne fotto [...]. A sinistra picchiano esattamente come a destra! [...] Non sono un idealista né un sognatore alla Rolland. Prova a pensare, se fosse venuto il comunismo... (naturalmente era assolutamente impossibile), ma solo per ipotesi... i profughi non si conterebbero nei paesi confinanti. Tutto è una brutale e insensata lotta per il potere [...]. Non ho abbastanza fede per immaginarmi un angelico dopodomani. Non hanno fatto altro che cianciare di un ‘dopodomani migliore’, a sinistra come a destra. Basta con le fesserie! Merda!... Chi sta in basso ci sta anche nella patria del proletaria-

to, e chi sta in alto ci resta e può comandare.” E in una lettera successiva, sempre a Herrmann-Neisse, Grosz specifica: “Non ne

voglio più sapere degli sproloqui culturali, è sempre la stessa cosa, a destra e a sinistra [...], culto del potere, sentimento di sudditanza [...], leccare il culo a Hitlermann o allo Stalin di ghisa [...]. Be’, adesso tocca per qualche anno agli altri [...]. Believe me, dear Max... se dopodomani venissero issate le bandiere rosse non te ne accorgeresti... gli stessi sudditi, struscioni, cultori del potere, leccaculo... pugnalare, giustiziare, torturare... spedizioni punitive... e così via: sempre la stessa identica cosa.”

19 G. Grosz, Unter anderem ein Wort fiir deutsche Tradition, in “Das Kunstblatt”, marzo 1931, pp. 79-84. 20 Da una lettera a Max Herrmann-Neisse, Bayside, Long Island, New York, 12 maggio 1934. 21 Da una lettera a Max Herrmann-Neisse,

Douglaston, Long Island, New York, 18 settembre 1936. 22 Da una lettera a Max Herrmann-Neisse, The

Cambridge Hotel, New York, 5 maggio 1933. 2 Da una lettera a Max Herrmann-Neisse, Bayside, Long Island, New York, 8 marzo 1935.

Visioni dell'orrore La produzione artistica di Grosz in America è imponente, nonostanteilcrescente consumo di alcolici e le sempre più frequenti crisi di depressione. Dal 1933 fino al suo ritorno in Germania, nel 1959, riempe oltre 60 album di schizzi con

centinaia di disegni e acquarelli. Inoltre esegue alcune migliaia di acquarelli di formato grande e più di 300 dipinti. Con i paesaggi che crea durante i soggiorni estivi a Cape Cod e con i numerosi nudi femminili e studi di modelli Grosz cerca di distrarsi dalla realtà europea, ma questa finisce sempre per raggiungerlo: con le visioni interiori, che deve affidare alla carta per liberarsene, o con gli incubi che lo perseguitano di notte; ma dopo la guerra civile spagnola e dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale sono soprattutto le notizie a raggiungerlo negli Stati Uniti, e lui le traduce in visioni dell’orrore.

“Vista dall'America, metà dell'Europa pareva essersi ritrasformata in una condizione infernale simile a quelle dipinte da Bosch e da Bruegel nel suo Trionfo della morte verso la fine di quell’incubo che fu il mondo medievale. Forse che il mondo era sempre stato così? I quasi cinquant’anni di pace durante i quali ero nato erano forse un'illusione? La Germania — niente più che un ricordo ormai. Ma talvolta l'orrore riemergeva e le atrocità uscivano dalla sanguinosa tredicesima stanza in cui le avevo confinate. Allora la memoria si riversava nei miei quadri: esseri umani guadavano paludi e nebbie insanguinate, le ossa sbattevano, la carne si staccava, l’abisso era piatto e lungo, eterno e senza fine, e nella luce ardente e

crepitante delle capanne incendiate e della terra avvelenata essi procedevano simili a fantasmi, senza speranza e senza meta.” La morte della madre, vittima insieme a sua sorella di un bombardamento su

Berlino, viene annunciata a Grosz da un sogno premonitore: “Un giorno — devo avere sognato — vidi un tremendo cratere, sentii chiamare il mio nome e mi trovai dinanzi a un cumulo di fumo e macerie. Molto tempo dopo mi comunicarono che la casa dove abitava mia madre a Berlino era stata completamente distrutta durante un bombardamento. Mia madre, sua sorella e gli altri abitanti della casa erano scomparsi. Erano rimasti soltanto un grande buco e i topi.” Negli anni 1936-1950 Grosz dipinge 40 opere che hanno per soggetto l’apocalisse e visioni funeste, la guerra e la rovina. Furono esposte in varie mostre tenute in musei americani, alcune mentre l’artista era ancora in vita, ma finora solo due di

esse erano state portate in Europa, nel 1962, in occasione della retrospettiva dell’autore alla Akademie der Kiinste di Berlino. Sette di questi dipinti, esposti per la prima volta in Italia, si possono vedere ora nella mostra “Arte della libertà”. Polarità - Paesaggio apocalittico, 1936 Fino a oggi il contenuto di quest'opera non è stato interpretato in modo adegua-

to dalla critica, né è mai stato riconosciuto il suo significato. Essa viene ora esposta per la prima volta in Europa. Nel quadro, suddiviso in due parti sulla base della coppia di colori complementari blu di cobalto e arancione, e dipinto alla maniera della pittura tedesca antica, regna la distruzione apocalittica apportata dagli elementi fuoco e acqua. A sinistra si vede un informe paesaggio infuocato, scosso da numerose detonazioni. Fiamme rosso fuoco, frammiste a fumo scuro,

24 G. Grosz, Ein Kleines Ja..., cit., p. 231.

2 G. Grosz, I Teach Fundamentals, in “College Art Journal”, vol. IX, n. 2, inverno 1949-50, pp. 199-200.

divampano dal focolaio dell’esplosione, al centro del quadro. L'ambiente è ormai così devastato che è impossibile riconoscere qualcosa della sua forma primitiva o scorgere una qualche traccia di vita umana. Altre detonazioni sconvolgono il paesaggio. Gas color giallo sulfureo e nubi di un verde velenoso si elevano dalla terra squarciata. Se nella parte sinistra del quadro infuriano violente tempeste di fuoco, nella parte destra, dipinta in blu di cobalto, si compie un’altra previsione dell’ Apocalisse: le cateratte del cielo si sono aperte e sulla terra si riversa-

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no fiumi d’acqua. In primo piano si vede sprofondare una città alla quale Grosz ha dato i tratti di New York. I grattacieli, che seguendo i grandi maestri ha dipinto in bianco sul fondo blu di cobalto, turbinano in un vortice di gigantesche masse d’acqua. Sono chiaramente riconoscibili i caratteristici pilastri del ponte che collega Manhattan a Queens. Tutto sprofonda in una colossale marea. La luna, appena velata dalle nuvole, si è spinta davanti al sole, stagliandosi nel cielo come una palla scura e minacciosa sopra una brillante luce fredda. Questo quadro fu dipinto nel 1936, l’anno in cui il Reich invitò a Berlino sportivi di tutte le nazioni per i pacifici giochi olimpici, e nessuno ancora parlava di una guerra che avrebbe precipitato nella rovina quasi l’intero mondo. Era l’anno in cui Grosz, in una serie di quadri fra cui questo, profetizzò le future distruzioni di portata apocalittica. Profughi con matali, 1937

Nel 1936 comincia a infuriare in Spagna la guerra civile, che farà oltre un milione di vittime. Le forze liberali tentano di difendersi dal sempre più vigoroso movimento fascista capeggiato dal generale Franco. Con l’aiuto dell’esercito tedesco la destra riesce a impadronirsi del potere. Il dipinto Profughi con matali nasce in relazione a tali eventi. Esso mostra una famiglia in fuga. I maiali che corrono in giro spaventati fanno pensare che si tratti di una famiglia di contadini. L'uomo ha raccolto lo stretto necessario in una coperta che porta sulle spalle a mo’ di fagotto; la donna ha avvolto in un panno il suo bambino e segue il marito. Macerie, fumo e fuoco sullo sfondo testimoniano che l’annientamento della patria è in

pieno svolgimento. Queste persone fuggono con pochi averi: l'importante è salvare la pelle. Combattimenti di strada (Corpo a corpo), 1937 Nel corpo a corpo è di particolare importanza la padronanza dell’arte della guerra, ossia dell’assassinio. Siamo nel 1937, in Spagna è in atto la guerra civile. Grosz rappresenta due soldati impegnati in un corpo a corpo. Uno dei due ha la baionetta in canna e la conficca con tutte le sue forze nel corpo dell’avversario già caduto a terra. Gli occhi sono iniettati di sangue, il volto manifesta una determinazione brutale. Per conferire ulteriore furia al colpo mortale si appresta a sferrare un calcio violento con lo stivale chiodato. Esplosioni di bombe nelle vicinanze, fuoco e nubi di fumo rimandano a un attacco aereo. Riflettori esplorano il cielo in cerca di aerei. Si combatte per terra e per aria.

Nella realizzazione di questo quadro Grosz si avvale di una tecnica pittorica appresa in America, che consiste nel sovrapporre vari strati di colore, farli asciugare, lavorare la superficie con carta vetrata e infine distribuire gli effetti di luce con olio di lino denso. Caratteristica del quadro è anche la tecnica dello sfumato, adottata frequentemente da Grosz, con la quale si evitano i contorni netti e la forma svanisce sullo sfondo, confondendosi con ciò che sta intorno. Dal tetto, 1937

Grosz ha realizzato questo scenario di un combattimento da casa a casa con pennellate vigorose. Due soldati si sono trincerati al piano superiore di una casa distrutta. Le travi del tetto in fiamme, frantumate dai colpi d'arma da fuoco, fanno pensare a combattimenti violenti. Il tetto manca completamente. Uno dei due soldati sembra colpito a morte. La sua testa pende fuori, sopra i resti della facciata barocca. Tiene ancora il fucile stretto nella mano sinistra. Il suo compagno ha una fasciatura sporca di sangue alla testa. Appoggiato ai resti del muro della mansarda distrutta, punta verso un avversario in una delle case di fronte.

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Autoritratto con sparviero e ratto, 1940

Non sono molti gli autoritratti di Grosz. Il primo, del 1927, lo presenta come ammonitore, con l’indice proteso. Altri lo mostrano nel suo atelier, talora con un modello, talaltra senza. Questo autoritratto, eseguito con vari strati di tempera, olio e impasto, è stato dipinto un anno dopo lo scoppio della guerra. Mostra

l’artista intento al lavoro nel suo studio. Consapevolmente Grosz si è messo al centro del quadro, con lo sguardo attento rivolto verso l’osservatore. Uno sparviero con un ratto morto nel becco sta volando verso di lui; anche un grosso

ragno nero, sul tavolo da disegno, gli si sta avvicinando. Il sole è mezzo coperto da rami, piccole nuvole nere compaiono nel bordo superiore destro del dipinto. E una visione onirica in blu, bianco e verde, che di per sé non ha nulla di minaccioso, almeno per l’artista. Eppure ne proviene una sensazione di minaccia. Da un momento all’altro potrebbe oscurarsi il cielo e scatenarsi una bufera distruttrice. E così che Grosz si vede alla vigilia della catastrofe che getterà l’intera Europa nella sciagura. Il sapore della disfatta, 1945 La Germania, che ha dato inizio alla guerra aggredendo la Polonia e la Francia, per dominare quindi tutta l'Europa, è ormai costretta a soccombere alla superiorità degli avversari. Le città tedesche vengono bombardate giorno dopo giorno senza tregua. La contraerea è ormai inoffensiva. I fronti hanno ceduto. Hitler,

che aveva voluto la guerra totale, ora vuole la rovina totale, la propria e quella del popolo tedesco. La catena di delitti commessi contro gli altri popoli non si arresta nemmeno dinanzi al suo popolo. Dal bunker sotterraneo nei pressi del Reichstag ordina ancora di difendere la patria fino all’ultimo uomo, mentre i sovietici hanno già conquistato quasi tutta la capitale e sono ormai a poche centinaia di

metri dalla Porta di Brandeburgo. La guerra spaventosa ha fine soltanto con il suo suicidio. Il reato criminale di Hitler e dei suoi generali non sta soltanto nell’avere scatenato una guerra mondiale, costata all'umanità milioni di morti e sofferenze indicibili, ma anche nell'aver proseguito una guerra ormai persa. È così che proprio sul finire del conflitto mondiale quasi tutte le grandi città tedesche vengono inutilmente distrutte per un’insensata prosecuzione dei bombardamenti alleati e per la speranza in una “vittoria finale” coincidente con la distruzione totale. Nel Sapore della disfatta, eseguito mediante vari strati di colori, in parte complementari, sovrapposti allo sfondo e con la tecnica dello sfumato, c’è un gruppo di case in fiamme. Sul terreno davanti esplodono due bombe che scagliano in aria le macerie. In primo piano due soldati giacciono nella melma, in mezzo a frantumi di legno e di metallo. Non si capisce se cerchino di ripararsi o se siano già morti. Grosz li ha dipinti come due mucchi informi, quasi fossero parte del paesaggio di fango e sangue. Sullo sfondo le luci dei proiettori esplorano il cielo alla ricerca degli aggressori, che a centinaia, a migliaia, lanciano il loro carico micidiale di ordigni sulla città trasformandola in un inferno di fuoco. Ritirata, 1946

Il titolo di questo quadro, Retreat, è stato scritto dallo stesso Grosz sul retro della tela e in seguito cancellato con un frego. Così non ci è dato sapere con precisione come egli intendesse intitolare il quadro, eseguito con vari strati di materia usando soprattutto colori complementari. Lo scenario dipinto è quello che tante volte fa da sfondo alla raffigurazione di truppe in ritirata da una zona di guerra: la politica della terra bruciata. Esso ricorda il dipinto La nascita di Cristo, del 1513 circa, di Heinrich Altdorfer, un grande maestro tedesco particolarmente amato

pil

da Grosz, ma il pacifico paesaggio di rovine di Altdorfer si trasforma qui in una scena di sfacelo. L'elemento macabro del quadro sta nell’assenza di ogni riferimento alla vita ma anche alla morte umana. C'è una casa in fiamme, colpita da una granata o da una bomba. La violenza dell’esplosione ha distrutto quasi tutte le mura esterne lasciando libera la vista sull’interno. Brandelli di tende incendiate svolazzano nel vortice di fuoco; bruciano anche le assi divelte di una scala di legno che conduce al piano superiore. Lo scheletro delle mura esterne riesce a reggere il peso del crollo del tetto ancora per pochi istanti; imuri maestri di mattoni rossi sono già stati spaccati dal calore. Dal piano superiore le fiamme gialle divorano il tetto. La casa non è sola in questo paesaggio di distruzione totale: anche i dintorni ardono

UN PICCOLO SI E UN GRANDE NO

arroventati. Nessun segno di vita umana: in questo inferno non c’è sopravviven-

za. L’ingordigia del fuoco si è portata via tutto, non restano che macerie e ciarpame in mezzo alla melma. Solo un frammento di parete rivestita con una commovente tappezzeria, all'ultimo piano della casa in fiamme, fa pensare che una volta vi abbiano vissuto esseri umani.

Copertina per l’edizione italiana dell’autobiografia di George Grosz, Milano, 1948.

Gli artisti inglesi e la guerra Angela Weight

Henry Moore è stato una figura centrale dell’avanguardia britannica degli anni Trenta. Il suo umanesimo e le sue radici nel mondo della natura gli consentirono di intrattenere buoni rapporti sia con il surrealismo che con l’astrattismo, senza doversi alleare con l’uno o l’altro dei due movimenti che proprio in quegli anni si imposero come spartiacque della scena artistica inglese. Nel 1937, sulle colonne di “The Listener”, così Moore deplorava le vane dispute tra surrealisti e astrattisti: “Tutta la buona arte ha contenuto entrambi gli elementi, l’astratto e il surreale, come pure l’elemento classico e quello romantico, l’ordine e lo stupore, l’intelletto e l’immaginazione, il conscio e l’inconscio.” Tuttavia, nello stesso artico-

lo, Moore spiegava come egli fosse giunto a preferire l’astrazione: “La mia scultura sta diventando meno figurativa, meno aderente alla realtà esteriore, identifi-

candosi sempre più con ciò che alcuni definirebbero astrattismo; ma soltanto perché in questo modo penso di poter presentare con maggiore intensità e auten-

ticità il contenuto psicologico della mia opera.”! Lo scoppio del secondo conflitto mondiale disperse il piccolo gruppo di artisti che vivevano a Hampstead; Ben Nicholson e Barbara Hepworth si trasferirono in Cornovaglia, Paul Nash a Oxford, Herbert Read nel Suffolk. Henry Moore traslocò dapprima nello spazio lasciato libero da Nicholson al 7 di Mall Studios, poi lui e Irina andarono a vivere nel loro cottage nel Kent, finché le restrizioni

della guerra non li costrinsero a trasferirsi a nord di Londra, a Much Hadham, nell’Hertfordshire. Nonostante che il suo studio fosse stato reso inabitabile dai bombardamenti del settembre 1940, due o tre volte alla settimana Moore conti-

nuava ad andare a Londra, dove aveva ripreso l'insegnamento alla Chelsea School of Art, riaperta all’inizio di quell’anno. Così, in una lettera a un amico, descriveva la vita a Londra in quel periodo: “La notte, a Londra, è come un altro mondo - il rumore è terrificante e tutto sembra

1 “The Listener”, 1937.

2 Lettera di Henry Moore a Arthur Sale, 10 ottobre 1940. War Artists Archive, The Imperial War Museum, Londra.

accadere proprio sopra di te — e l’irrealtà sta nell’esagerazione, come in un sogno. Ma ciò che non assomiglia a una pellicola cinematografica sono le code che, prima delle quattro del pomeriggio, si formano davanti ad alcune stazioni della metropolitana — donne e bambini miseramente vestiti aspettano che si aprano le porte del loro rifugio notturno — e le sudice lenzuola sdrucite allargate sui marciapiedi della metropolitana. È il più patetico, sordido, scoraggiante spettacolo cui si possa assistere.” La scarsità di materiali e di denaroe l’incertezza psicologica determinata dalla

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guerra gli resero impossibile creare nuove sculture, così il disegno divenne per Moore un'attività sempre più importante. Nelle scene della metropolitana londinese, che tanto lo affascinavano, trovò il soggetto dei suoi disegni: “L'impatto esercitato dall’improvvisa successione di scene laggiù nella metropolitana fu molto importante per me. Umanizzò tutto ciò che avevo fatto. Sapevo che quello che stavo disegnando rappresentava una svolta artistica...” Moore osservava i rifugiati mentre viaggiava in metropolitana, prendendo schizzi e appunti che avrebbero poi costituito lo spunto per i disegni realizzati nello studio. Quando, nel 1941, sir Kenneth Clark, direttore della National Gallery e presi-

dente del War Artists Advisory Committee vide alcuni di questi disegni, apprezzò subito la loro qualità e originalità e ne commissionò a Moore altri sullo stesso soggetto. Tuttavia, se l’artista non avesse già scelto di disegnare i rifugiati nella metropolitana, è improbabile che Clark avrebbe pensato di proporglielo. Clark non nutriva infatti simpatia per l’arte astratta e in seguito era solito giustificare la propria riluttanza a commissionare opere ad artisti astratti o a surrealisti sostenendo che il loro lavoro era troppo personale e individuale per poterli distogliere dal loro percorso artistico con richieste di carattere documentario. Con il senno di poi, l'argomento suona convincente, ma in realtà si negò così a questi artisti un ruolo nello sforzo bellico cui molti di essi aspiravano. Quando i disegni dei rifugiati nella metropolitana furono esposti nelle mostre della “National War Art” alla National Gallery, l'accoglienza del pubblico non fu buona. Annotava un critico contemporaneo recensendo la mostra nel 1943: “È una tragedia, per quanto comprensibile, che tanti londinesi siano sconcertati e offesi da questi disegni. C'è in essi un mondo sotterraneo dal quale si sentono totalmente esclusi, benché gli elementi siano tutti così familiari. La difficoltà risiede nella concezione che Moore ha della forma umana, e una certa conoscenza

della sua scultura è essenziale per comprendere appieno questi disegni [...]. Queste figure immobili, avvolte nei loro giacigli, non appartengono a un tempo e a uno spazio accidentali, ma sono testimonianze della durevolezza delle cose, della

pietra e del coraggio e della pazienza umana.”°

Graham Sutherland insegnò alla Chelsea School of Art insieme a Henry Moore alla fine degli anni Trenta, e per entrambi la chiusura della scuola, nel 1939, com-

portò la perdita di un’importante fonte di reddito. (La Chelsea School of Art riaprì dopo che l’atteso bombardamento non si verificò, ma fu gravemente danneggiata dal blitz del 1941.) Sutherland e Moore decisero allora di iscriversi a un corso per la produzione di munizioni al Chelsea Polytechnic, ma il numero degli iscritti era tale che nessuno dei due poté mai seguire le lezioni. A differenza dell’autosufficiente Moore, Sutherland si rivolse allora all'amico e facoltoso patron Kenneth Clark, che aveva acquistato il suo Red Tree del 1936 e aveva promosso la sua opera nell’ampia e influente cerchia dei suoi amici. Clark consigliò a Sutherland di lasciare il Kent e lo invitò insieme con la moglie a Upton Park, la sua casa di campagna vicino a Tetbury, nel Gloucestershire. Clark considerava Sutherland l'artista più importante della sua generazione, anche se questi, per quanto importante fosse la sua pittura, non si era mai investito di un simile ruolo, insicuro com'era rispetto ad altri artisti. Prima della guerra aveva esposto in diverse mostre collettive e nel 1938 gli era stata dedicata una personale, seguita poi da un’altra nel maggio 1940, che avevano contribuito ad assicurargli una posizione di rilievo nell’ambito della pittura di paesaggio. I suoi erano paesaggi psicologici, profondi e oscuri stati emotivi. La prospettiva di diventare un artista di guerra non entusiasmava particolarmen-

te Sutherland, che temeva gli sarebbe stata richiesta una mera registrazione della

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} Le fotografie di Lee Miller che ritraggono Moore mentre disegna nella metropolitana sono state fatte in posa. 4 Il War Artists Advisory Committee venne istituito dal ministero dell’Informazione per commissionare agli artisti l’incarico di documentare lo sforzo bellico in patria e all’estero. Gli artisti contattati furono oltre 300, e tra il 1940 e il 1945 furono acquisiti 6000 dipinti e disegni, circa metà dei quali sono oggi conservati all’Imperial War Museum. ? Nel 1964 i ricordi di Clark erano confusi: “L’idea di invitare Moore a disegnare i rifugi nella metropolitana era molto più speculativa. Non ricordo ora chi la suggerì: forse la sua passione per le figure sdraiate, forse la sua ossessione per i tunnel. Qualunque sia stata la loro origine, si trattò di un’autentica ispirazione, che produsse una serie di disegni destinati a restare immortali.” ° War Artists and War Art, articolo senza firma, in “Penguin New Writing”, 1943.

realtà, senza aggiungervi troppa immaginazione. Tuttavia, quando all’inizio del 1940 Clark gli suggerì di visitare un aeroporto nei pressi di Tetbury, Sutherland eseguì tre gouaches di bombardieri incatenati e mimetizzati, pur non subendo, diversamente da Nash, il fascino della forma o della “personalità” degli aerei. Uno dei disegni venne comunque acquistato dal War Artists Advisory Committee, che nell’agosto 1940 offrì a Sutherland un incarico trimestrale di raffigurare i danni causati dai bombardamenti. “Fino ad allora avevo indagato gli aspetti più riposti della natura — ricorderà trent'anni dopo Sutherland —; avevo cercato di parafrasare ciò che vedevo, di fare quadri che fossero paralleli alla natura, piuttosto che semplici copie. Ma ora, improvvisamente, ero un artista stipendiato, una specie di reporter, e, naturalmente, non solo dovevo guadagnarmi il mio stipen-

dio, ma dovevo anche indurre l'osservatore a riflettere sui temi che mi venivano proposti.”

Durante la guerra Sutherland lavorò in cinque commissioni, e i 36 disegni sui danni provocati dai bombardamenti nel Galles meridionale gli valsero una serie di contratti semestrali che gli fruttarono 650 sterline annue per tutta la durata del conflitto. Questo impiego gli consentì di lasciare Upton e ritornare nella sua casa nel Kent e, soprattutto, di disporre di tempo e denaro per dedicarsi alla pittura. I lavori commissionatigli dal War Artists Advisory Committee che riscossero maggiore successo furono quelli sui bombardamenti nella City londinese e nell’East End, le acciaierie di Cardiff e Swansea e le miniere della Cornovaglia. Il potere trasformativo della sua immaginazione mutava il cemento armato delle rovine dei palazzi per uffici in carcasse di animali con le viscere ancora fumanti. Le sue visioni apocalittiche, le facciate prive di finestre dell’East End, svuotate di ogni presenza umana, riflettono i suoi stessi timori e le sue insicurezze. Ed è di questa sua visione intensamente personale che il pubblico ha conservato memoria, non dei disegni umoristici sullo stesso tema di Edward Ardizzone. La figura umana appare per la prima volta nei quadri di Sutherland che raffigurano le fornaci delle acciaierie nei pressi di Cardiff: corpi seminudi e spossati avvolti dal vapore e oppressi da imponenti vaschedi metallo liquido. Sutherland si dilettava con i colori forti e ardenti di quegli inferni danteschi. I suoi disegni di minatori, con i corpi rannicchiati che sembrano embrioni nell’utero della terra,

rivelano per la prima volta un interesse per il volto umano, anticipando la sua futura passione per la ritrattistica. I disegni di minatori di Henry Moore, in gallerie altrettanto anguste, sembrano meno efficaci, limitati e soffocanti come la se-

zione trasversale di un formicaio, mentre Sutherland penetra con naturalezza i suoi viscerali passaggi sotterranei.

Nei primi anni Trenta John Piper era stato essenzialmente un pittore astratto, ma

dopo il 1936 il suo crescente interesse per l'architettura e per il paesaggio l’aveva portato a un graduale ritorno verso l’arte figurativa. Benché spesso classificato, insieme con Sutherland, Vaughan e Minton, tra i neoromantici, Piper può più appropriatamente essere definito come un neopittoresco. Nel 1938 percorse l’Inghilterra in compagnia di J.M. Richards, editor di “Architectural Review”, prendendo schizzi, appunti e fotografie non solo dei monumenti famosi, ma anche dell’architettura minore — pub, porti e fari — e di vari edifici in pietra. Scrisse la Guida Shell dell'Oxfordshire e collaborò alla guida dello Shropshire insieme al suo amico, il poeta John Betjeman, con il quale condivideva il gusto per le chiese inglesi di campagna, e i cui saldi principi anglicani lo convertirono alla Chiesa d'Inghilterra. Piper partecipò anche al progetto Recording Britain, avviato nel 1939 grazie a una sovvenzione dell’ American Pilgrim Trust, il cui intento era di registrare i

DD

Londra, gennaio 1941 (foto di Cecil Beaton).

paesaggi e gli edifici più significativi del paese in previsione delle distruzioni provocate dalla guerra. L'esplosione del conflitto conferì un fascino immenso ai romantici quadri di Piper raffiguranti case di campagna, preferibilmente cadenti, deserte o in rovina. La drammatica e desolata atmosfera di questi paesaggi appare filtrata attraverso l’esperienza del surrealismo, ma l’organizzazione formale deve tutto al suo passato astratto. Il che fu pienamente riconosciuto già dai critici contemporanei, i quali trovavano più che accettabili le sue “versioni astratte dei paesaggi inglesi”, ma rifiutavano la pura astrazione. “Piper guarda da terra, un angolo drammatico. La sua visione è romantica, ma con la disciplina di un pittore astratto. Il suo occhio nota le proporzioni tra i vari edifici, le traduce in rapporti astratti, le drammatizza con il colore e tratta quindi le textures: le aree strofinate, graffiate, i colori trasparenti, gli impasti, le superfici scintillanti come vetro colorato incastonato in una cornice nera. Piper non risparmia alcun dettaglio per conferire autenticità al soggetto, i suoi disegni sono astrazioni aggraziate, le cui composizioni si fondano

sulle più semplici e felici combinazioni di forme primarie.”” Più di ogni altro artista ufficiale di guerra Piper visualizza lo stato d’animo di molti intellettuali inglesi di fronte all’apocalittica distruzione dei monumenti culturali del paese: il Palazzo del Parlamento, la settecentesca città di Bath, la Catte-

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U Ibid.

drale di Coventry, le chiese di Bristol. La città bombardata, secondo Stephen

Spender, durante la seconda guerra mondiale ebbe lo stesso significato universale dei paesaggi devastati del fronte occidentale nella prima. Egli sosteneva che il blitz “nel quale una grande tradizione architettonica era bruciata in un incendio al tramonto” avrebbe avuto un effetto purificatore e rivitalizzante sulla compiaciuta e stagnante cultura britannica, come se, accorgendosi di ciò che avevano

perso, gli inglesi dovessero apprezzarlo di più. E difficile immaginare che gli italiani e i tedeschi, che avevano subito ben più vaste distruzioni delle loro città e dei monumenti storici (principalmente ad opera di inglesi e americani), potessero considerare la perdita del loro patrimonio architettonico (peraltro molto più antico) come una forma di pulizia culturale. L’opinione che la guerra esercitasse in qualche modo un'influenza positiva sull’arte non era insolita all’epoca, e aveva provocato la fine degli “esperimenti” e un ritorno all’ordine e alle radici britanniche secondo la tradizione romantica. L’artista avrebbe spezzato l’isolamento autoimposto e sarebbe stato di nuovo capito e apprezzato dal pubblico. Spender concludeva che “la guerra è il compimento delle profetiche visioni dell’arte e in un certo senso implica un ritorno alla realtà da parte di artisti che consideravano la pace troppo irreale per essere accettata al suo valore commerciale”. Nel 1940 il giovane pittore di sinistra Graham Bell osservò che dopo l’inizio della guerra “la pittura inglese stava fiorendo come non era più accaduto dagli anni Venti [...]. Per un po’ fu come se fosse ritornata l'età dell’oro”. L'opinione ufficiale, espressa nel 1943 da sir John Rothenstein, direttore della Tate Gallery, non era affatto diversa: “Gli artisti britannici sono stati fortemente influenzati dallo spettacolo della guerra e il patrocinio ufficiale ha dato loro ampie opportunità di esprimersi, orientandoli verso temi che non hanno mancato di sollecitare risposte stimolanti. Ne è risultato che molti artisti che prima della guerra sembravano coltivare una visione esoterica hanno trovato nelle loro reazioni alla guerra un comune terreno d’incontro con il pubblico, spezzando l’isolamento con cui negli anni precedenti il conflitto aveva caratterizzato la figura dell’artista, sempre più immerso nelle teorie o nell’esplorazione della propria personalità. Vi furono persino appelli per “artisti della pace”, ma questa spinta verso un’arte addomesticata e ordinata non sopravvisse alla fine della guerra e all’influsso di Picasso e Matisse, che esposero per la prima volta a Londra nel 1946. L’imperativo documentario svanì, i verdi viticci del neoromanticismo avvizzirono, la tradizione britannica apparve improvvisamente provinciale e conservatrice e ne conseguì una crisi di fiducia da cui gli artisti si ripresero pienamente soltanto nel decennio successivo.

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#

Mirko, Cagli e Afro a Pavia, 1934.

Mario Mafai, Antonietta Raphaél e le figlie Miriam, Giulia e Simona, Roma, 1939.

Saletta del Caffè Greco, 1945 (foto di Arthur Penn). Da destra si riconoscono: Brancati, Flaiano, Mafai, Orson Welles, Lea Padovani, Libero De Libero, Sandro Penna (in piedi), Vespignani (al centro), Fazzini (in piedi), Levi, Palazzeschi.

Scipione (secondo da sinistra) e Mario Mafai (quarto da sinistra).

bis)

Le premonizioni e il dramma della guerra nelle opere degli artisti a Roma Claudia Terenzi e Netta Vespignani

Non è nostra intenzione tracciare una storia, sia pure in sintesi, della cosiddetta

Scuola romana, in primo luogo perché questa mostra cerca di cogliere, al di là delle tendenze e della complessiva attività di ogni artista, quei momenti di particolare passione umana e tensione politica che portarono alcuni, ma non pochi, in Europa e fuori d'Europa, a esprimersi con forme e contenuti altamente significativi, che più direttamente riflettevano il dramma della guerra e dell’oppressione fascista. In secondo luogo, quello che ci interessa sottolineare è proprio la diversità delle ricerche degli artisti che in quegli anni operavano a Roma, e che a partire dalla fine degli anni Venti contribuirono a infrangere quel fronte apparentemente compatto del Novecento, mettendone in luce le ambiguità, il provinciali smo, la pacifica acquiescenza culturale al regime. La tematica di questa mostra ci ha portato obbligatoriamente a escludere artisti che pure, in quegli stessi anni, hanno avuto un ruolo importante nel rinnovamento dell’arte italiana e hanno condotto, con i mezzi della pittura, una decisiva battaglia culturale. Parlare di Scuola romana, si è detto, non avrebbe senso in questo caso; d’altra

parte non va dimenticato che tale denominazione veniva usata anche in quegli anni, dalla critica ufficiale, a indicare però un certo gusto per il colore locale, per

le ambientazioni, quasi una pittura di genere, dalla composizione scorrevole e vivace, riferita a vari pittori che operavano a Roma, esautorando così di ogni siAlberto Ziveri, Studio per “La rissa”, 1936.

gnificato le ricerche più avanzate che si andavano conducendo in quegli anni e riportandole a una generica e indifferenziata qualità narrativa ed estetica. Esattamente l’opposto, cioè, del valore che oggi si intende dare a queste poetiche, che in effetti non costituirono una scuola, con vocazioni ed esperienze univoche, ma

contribuirono in maniera determinante a un aggiornamento europeo della cultura italiana e alla riscoperta di quei valori di realismo e di espressività che coincidevano con precise scelte morali, oltre che artistiche.

Non va inoltre dimenticato che il fascismo, a differenza di altri regimi totalitari, soprattutto negli anni Trenta ricercava un consenso presso gli artisti, era più tol-

lerante verso le avanguardie europee e permetteva una certa libertà di ricerca, ovviamente sottovalutando e neutralizzando i contenuti sociali e i principi rivoluzionari che queste ricerche spesso esprimevano. Così nel 1941 fu possibile assegnare il secondo premio alla Crocifissione di Renato Guttuso nella quarta edizione del Premio Bergamo, ovviamente non senza aspre polemiche sia da parte delle gerarchie cattoliche che dei più accaniti sostenitori di un’arte di regime.

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Comunque l’opera rappresentava una forte rottura espressiva e una esasperata ricerca di contenuti umani: “In quel quadro c’era la mia ribellione alla strage, c’era una disperazione, un grido, qualche cosa che cercavo di spiegare a me stesso; quella mia Crocifissione era un quadro ibrido, come ibridi e incerti erano i miei sentimenti in quel momento”, dirà Guttuso. I disegni realizzati a Roma durante l'occupazione tedesca e solo in parte pubblicati tra il 1944 e il 1945 dalla Galleria La Margherita in un album dal titolo Got? r25f uns, con la prefazione di Antonello Trombadori, rappresentano il momento estremo del documento politico dell’artista. Alcuni furono esposti alla mostra “L’arte contro la barbarie: artisti romani contro l’oppressione nazifascista” aperta alla Galleria di Roma il 23 agosto 1944, organizzata dal quotidiano del partito comunista “L'Unità”. Diverso fu l'impegno pittorico di Mario Mafai, ma certamente non meno intenso sul piano della testimonianza umana e politica. Le sedici piccole Fantasie esposte in questa mostra (alcune presentate anche nella mostra “Arte contro la barbarie”) fanno parte di un ciclo di opere realizzate negli anni della guerra. Si tratta di raffigurazioni stravolte e grottesche della tragedia umana, in cui la violenza, la ferocia e la bestiale brutalità assumono le forme allucinate di una mascherata tragica di morte resa con forte espressività attraverso incisive e dense pennellate, masse di colore, scatti improvvisi delle forme. Un messaggio di grande tensione che rimane tra i documenti più significativi di quegli anni e di quegli eventi, totalmente affidato alla forza evocatrice e drammatica dei mezzi pittorici, preannunciando già allora quella che sarà la posizione di Mafai nel contrastato dibattito che esploderà negli anni del dopoguerra tra i sostenitori della priorità del soggetto e i sostenitori dell’autonomia espressiva della pittura: una polemica troppo spesso inficiata da motivazioni ideologiche, nella quale Mafai fu tra coloro che assunsero la posizione più sincera e coerente, spinto da una profonda sensibilità e da un’ansia di ricerca che lo portava a mettere continuamente in dubbio i risul-

Marino Mazzacurati mentre lavora

al Giocatore di tamburello, 1938.

tati raggiunti (viene in mente la frase di Matisse: “non posso fare distinzione tra il sentimento che ho della vita e il modo in cui lo interpreto”). La sua partecipazione alla battaglia politica fu molto attiva, a volte al limite della irresponsabilità. Amerigo Terenzi così rievocava quegli anni: “...il pericolo dell’occupazione tedesca, lo studio (di Mafai) trasferito in una stanza dell’abitazione del padre del collezionista Jesi in via Pisanello al Flaminio. Quell’appartamento dove le ‘bambine’ raccoglievano armi cospirative e dove si potevano incontrare i più diversi militanti antifascisti. Spesso capitava di trovare bombe, pistole e detonatori in cucina tra i bicchieri e magari in mezzo al carbone. Una volta fu persino smarrita una mina anticarro. Può essere considerato un miracolo se questa disordinata santabarbara non sia mai esplosa facendo saltare il palazzo.”

Carlo Levi espose per la prima volta a Roma, alla Galleria della Cometa, nel 1936, anno in cui, sotto la dura esperienza del confino in Lucania, la sua pittura si andava trasformando dalla precedente esperienza di accento tardoimpressionista, nell’ambito del gruppo dei Sei di Torino, verso temi veristi e iconografie suggerite dal contatto con la vita contadina. Il suo contributo al movimento antifascista a Torino (fu tra i fondatori di Giustizia e libertà), il carcere, il confino, la

partecipazione alla Resistenza a Roma e a Firenze, ebbero un riflesso diretto sulla sua opera, sempre più esplicitamente aperta a temi sociali. Nel 1935 scriveva alla madre dal carcere di Torino, dove era stato rinchiuso per attività antifascista: “Quello della pittura è un linguaggio che si crea facendolo, crescendo sopra se stesso quasi per una interna misura, e la esperienza ne è solo un presupposto.” I

dipinti degli anni di guerra, tra i quali La casa bombardata, Fucilazione, Le donne morte 0 lager presentito, La guerra (a quest'ultimo è riferita l'annotazione: “previsione dell’atomica, non ancora usata, e dell’ultimo deserto di una terra di apoca-

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Alberto Ziveri (a destra) e Francesco Grandjacquet, protagonista di Romza città aperta, nel 1938.

lissi”), riflettono la volontà di scomporre l’immagine in ampie, dense pennellate, di mescolare corpi e oggetti in un paesaggio allucinato, da apocalisse. Alla Galleria della Cometa, diretta da Libero De Libero, facevano riferimento

molti dei giovani artisti operanti a Roma, in particolare Cagli, Mirko, Afro e Leoncillo che pochi mesi dopo il suo arrivo a Roma nel 1935 ebbe i primi contatti con questo ambiente. Cagli e Mirko, sia pure con risultati diversi, portavano avanti un'idea dell’antico come recupero di mitologie figurative e di materie riproposte in forme moderne: non quindi la piatta acquiescenza e le nostalgie classiciste del Novecento, ma il “furor”, il “sentimento orfico”, che fu attribuito in particolare a Mirko, il senso delle origini, che a Cagli derivava anche dall’influenza di Bontempelli, suo zio. Non va dimenticato che Bontempelli, tra i fondatori del movimento e della rivista omonima, riteneva che il Novecento letterario non Fausto Pirandello, 1940 c.

avesse avuto alcun riflesso in pittura. In effetti le poetiche di Cagli e di Mirko miravano al recupero della pittura antica e delle tecniche, con l’idea di riportare la pittura a una “quotidiana operosità”. In questo sentimento dell’antico, e nell’ossessione della fattura manuale, si rivelava-

no però fermenti del tutto moderni che Mirko portò al lacerante espressionismo di opere come Furore, e ai grovigli spinosi dei cancelli per le Fosse Ardeatine, successivi a una personalissima esperienza postcubista. Cagli invece accentuò il significato allegorico delle immagini, una tendenza visionaria riscontrabile in A/legoria della tirannide del 1940 e in altri disegni ispirati all’antico, fino alla drammatica e scarna essenzialità dei disegni dei lager: “Ragazzo nel lager è l’unico documento che io conosca di forza veramente tragica che, denunziando la nefandezza nazista, raggiunga, per qualità espressiva, senza alcuna rettorica, l'altezza sublime della poesia” (G. Ungaretti). La poetica visionaria, intellettualistica di Scipione, espressa in grafie, in qualità luministiche, in valori pittorici, e al tempo stesso la inquietante angoscia delle sue immagini sono certamente episodi, tra i primi e più significativi, di totale rottura con l’arte ufficiale, che avranno conseguenze non soltanto nella pittura romana. Antonietta Raphael, che in questa mostra abbiamo voluto rappresentare con alcune delle sculture più importanti realizzate in quegli anni, ha saputo raggiungere una forza e un'autonomia creativa che va molto al di là della funzione di musa ispiratrice della Scuola romana per troppo tempo attribuitale e che infine, solo in tempi più recenti, è stata pienamente riconosciuta come uno degli scultori italia-

ni più interessanti di questo secolo. La vitalità tragica del Tirannicida, la disperata umanità della Niobe, la grandiosa plasticità del Toro morente raramente sono state raggiunte in quegli anni da opere altrettanto significative per struttura com-

positiva e per pathos dei sentimenti e degli affetti. Anche Giacomo Manzàù tenne la sua prima personale a Roma alla Galleria della Cometa, nel 1937, e nel 1939 realizzò, come presagio della guerra, otto rilievi in bronzo dal titolo Cristo e la nostra umanità, che insieme alle altre Crocifissioni

degli anni tra il ’40 e il 43 rappresentano, in grottesche e tragiche raffigurazioni spesso rese con la tecnica dello stiacciato, una lucida denuncia della tirannide e

Ferruccio Ferrazzi nello studio, 1941.

della cieca brutalità. Ma in quegli anni l'incursione di Manzù in ambiente romano fu molto breve, mentre l’artista era profondamente legato al clima culturale milanese. Crocifissione laica è il titolo di un’opera di Pirandello realizzata nel 1930, e anche in questo caso il tema della crocifissione o della deposizione rappresenta una forte contestazione nei confronti dei soggetti edulcorati e astrattamente formali della pittura del Novecento. Così come sono fortemente innovativi la qualità della pittura sfaldata, il taglio spaziale, la densa matericità di un soggetto non più solo rappresentato ma profondamente compreso.

Altra posizione, nell’ambito della cultura artistica romana, è stata quella di Ferruccio Ferrazzi, grande artigiano della pittura, capace di riscoprire tecniche antiche, come l’encausto, di utilizzare diversi mezzi espressivi, dall’affresco all’arazzo, al mosaico. Negli anni Venti fu vicino alle posizioni del Novecento, ricevette molti incarichi pubblici, ma accadde a volte che i suoi soggetti venissero rifiutati per la troppa autonomia e per la scarsa funzione celebrativa. Negli anni della guerra si accentuarono le sue visioni allucinate e simboliche: Autoritratto con la ferita alla fronte del ’41, La caduta del ’44, fino a La stanza - Gli anni di orrore del 1943-46, che è la sintesi di tutte le sue sconvolte allegorie. Si trattava, come ha

dichiarato in seguito l’artista, più di stati d’animo che di vere e proprie raffigurazioni simboliche della guerra, ricordando che la prima idea di questo quadro gli venne da un episodio di violenza a cui assistette: l’attentato all'Hotel Flora a Roma. Il dipinto di Alberto Ziveri Lotta di popolane, del 1939, testimonia la tormentata

ricerca dell’artista nell’indagare le qualità e la maniera della pittura antica e soprattutto nel ripercorrere e riproporre la grande tradizione del realismo, da Rembrandt fino al realismo ottocentesco di Millet e di Courbet. Questo impegno, che portava in qualche modo il pittore a un ostinato isolamento, non era però disgiunto da una precisa coscienza dei tempi in cui viveva e dall’adesione ai più avvertiti risultati della pittura contemporanea; un impegno che riversava anche in tematiche sociali e in soggetti che, per la violenza delle immagini, rappresentavano la violenza degli eventi che stavano accadendo in Europa. È questo il caso del grande dipinto La rissa, del 1938, un’opera certamente tra le più significative dell’intenzione di Ziveri di coniugare il carattere popolare, fortemente realistico, con le tecniche interpretative della pittura antica, così come, appunto, Lotta di popolane, che ha una forza espressiva e una qualità che comunicano pienamente il dramma di quel periodo. Infine, verso il 1943, cominciarono ad apparire le opere di un artista giovane, Renzo Vespignani, che annotava giorno per giorno le ossessioni della guerra e dell'occupazione tedesca, le difficoltà e le paure quotidiane, e cercava di cogliere nei suoi disegni le immagini della città sconvolta, le sofferenze della gente, con una straordinaria sensibilità e con una qualità di segni non lontana da quelle di Grosz e di Schiele: “Anche questa guerra, tra quarant'anni, sarà una guerra ‘in

Renato Guttuso, 1941.

costume’. I miei disegni, allora, diventeranno documenti di un conflitto artic0?

Gentilini mi mette in guardia dalla tentazione di fare cronaca, e con argomenti che so validissimi. E allora perché disegno case bombardate, vittime, fuggiaschi, mutilati? Ecco: la guerra è una bandiera tessuta con la stoppa del terrore e la seta dell'allegria e della giovinezza; una bandiera che copre l’intero continente. Io sono in qualche punto di questa Europa, nel buio. Non so dell’esistenza di altro. Questa guerra è tutto quello che ho”, scriveva Vespignani nei primi mesi del ’44.

Renato Guttuso, Gott wmzzt uns.

Scritti degli artisti

SCIPIONE

MARIO MAFAI

[Arco, 4 dicembre 1932] Riprendo a scriverti, caro Mario, dopo essere rimasto a letto otto giorni per la feb-

Mafai venne chiamato alle armi alla fine di agosto del 1939. Soldato semplice,

bre — oggi è diminuita e ora ne approfitto per scriverti. Dicevo dunque che non è per

nulla che la nostra vita è stata così. Voglio dire che il corso tortuoso, un pò disgraziato e soprattutto immerso nel bisogno e mai appagato della nostra vita è bene in vibrazione col tempo in cui viviamo. E quindi ci facilita, in certo modo, la com-

prensione di tante cose...... Ora siamo separati: ognuno è più entrato in se stesso e medita dentro, ma ancora sento che non so quello che veramente farei se potessi immergermi nel lavoro. Forse questo nascerebbe, anzi, sì, nascerà dal lavoro — dico nascerà, vedi, perché nonostante tutto quello

che mi accade, io seguito ad involtolarmi nella speranza come nei lenzuoli del mio letto e con essa dormo. [...] Domani spedisco un disegno a Falqui per l’Italia [Letteraria]; è molto personale, ma come dicevo prima è anche vivo per il nostro tempo. Sono due uomini che gridano; e il disegno è nato da un salmo che incomincia “Dal profondo gridai a te Signore”. Dopo averlo fatto mi sono accorto che le braccia sollevate in alto dagli uomini s’incrociano e formano il segno evviva: W. Infatti, come è spontanea e fotografica la grafia di quel sentimento. Non so se esiste una scienza che studia il significato e la nascita grafica dei segni. Il segno di abbasso, mi fa vedere due esseri che lottano abbracciati. [Lettera a Mario Mafai, in Scipione, Carte Segrete,

Firenze, 1943]

trascorse un primo periodo a Macerata, quindi a Roma presso il ministero. La famiglia era a Genova. Le lettere indirizzate alla moglie Antonietta sono molto “familiari”, con numerose notazioni relative alla vita militare e, come ovvio,

rarissime e prudenti considerazioni politiche. [Gennaio 1941] ...Ho letto la tua lunga lettera ma in questo momento non sono in grado di rispondere, perché non sono nulla, né Mario né non Mario ma un soldato qualunque. Non ho nessun progetto per l'avvenire... Se è possibile non leggere i giornali. Non si sa cosa succede e in tutti i modi fa male, molto male. Qui nessuno legge, nemmeno gli ufficiali. Che ignoranza! Il mio tenente, quando vuole in-

formarsi di politica, si rivolge all'amico giornalista e a me e noi gli diamo delle indicazioni sommarie. Quello però che mi è sembrato strano è che parla bene dei francesi e molto male dei tedeschi, e parla così davanti a tutta la compagnia. Nessuno capisce niente in

questo momento. Ci sono stati 70 tedeschi di Bolzano ai quali hanno chiesto se volevano andare in Germania a combattere e sono andati tutti. Uno di questi, parlando in trattoria assieme a un militare, gli diceva che l'Italia deve diventare una provincia della Germania... Peccato che non c'ero io, qualcosa gli avrei tirato addosso... [Agosto 1941] Disegno e ridisegno. Sono stato al cinema,

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da solo, a vedere Guerra ai Soviet da Leopoli a Riga. Ho disegnato qualche cosa che tradurrò sui legni per la solita serie. Sono cose tristi ma che mi eccitano per molti aspetti. Tutti questi paesi incendiati paurosamente con tronconi di case, qualcosa di desolato e di infinito nella campagna, sulle distese di grano che si muovono al vento con la felicità della natura che cresce. Ho visto anche Kaunas e Vilno con le piccole case basse e quei lunghi fiumi tranquilli tanto diversi da questi. Ho pensato a te e ad una di quelle case basse dove sei nata tu, piccola bionda e grassoccia. Poi ho visto delle cose ancora più tristi di cui è bene non parlare. Sono uscito scosso ma con tante visioni... L'ultima volta mi sono dimenticato di mettere da parte la famosa tavola. Pensaci tu...

[1945] Aspettavo alla stazione il treno del Nord;

Antonietta e Giulia dovevano arrivare con il treno dei congressisti. Freddo, umidità. Roma è triste senza sole e la stazione ancora più triste e più squallida. Vagavano sotto le tettoie e tra i binari ragazzi e uomini mezzo vestiti da soldato; mezzi gialli, mezzi verdi, mezzi scuri, vagabondi senza fisionomia, donne stanche, invecchiate innanzitempo, come se avessero perduto qualcosa 0 dovessero ritrovare qualcosa. I corpi sono ancora forti, sani, ma la faccia è consumata; anche negli alberi rimane il tronco ancora verde e solido mentre le foglie cominciano ad ingiallire. Ragazzi uomini mezzi vestiti da soldato, donne consumate, vagabondi senza fisionomia, gente senza speranza. Dove sono i viaggiatori con

il plaid scozzese e le valige di pelle? Oggi viaggiano in macchina o in aeroplano. Un ragazzo giù in fondo, in un angolo della stazione, la faccia lunga, pallida, consumata dalla fame, un paltò troppo lungo, troppo largo, rosso scuro; nelle mani due pacchetti azzurrini di Nazionali che teneva strette al petto come cose preziose, tra le mani inviolite dal freddo. Un pezzo di cielo, pensai. Si era dimenticato di gridare: “Monopolio, nazionali, zigrinate...” era lì fermo, astratto, senza pensiero, gli occhi senza sguardo. L’osservai con avidità, come è bello dissi dentro di me, quale meravigliosa pittura. La

faccia pallida ocra e terra verde, il paltò rosso terra di Saturno e quel pezzo di cielo azzurro del Monopolio, cobalto scuro. Più tardi arrivò il treno, vidi scendere grappoli di donne, uomini, ragazzi. Uomini malandati si sgranarono sulla pedana d’asfalto, folla indefinibile anche qui, mezzi soldati e mezzi operai, uomini pesanti di provincia, donne spettinate, senza grazia senza rossetti, qualche faccia saputa di studente povero. Ad un certo momento scartocciarono delle pezze rosse, delle bandiere rosse; non cantarono, si riunirono sotto la tettoia, l’uno vicino all’altro, come se

avessero paura di perdersi, di perdere qualcosa di loro stessi. Io dimenticati la pittura e il ragazzo pallido, li guardavo sfilare monotoni sotto quelle pezze di stoffa rossa che tentennavano sul cielo basso di quella grigia giornata. Mi sentivo imbarazzato e con la gola un pò stretta.

con cui obblighiamo il tempo a correre. E più fugge il tempo, la prospettiva dilaga come un fiume immenso e la nostra memoria non è più capace di ritenere niente. Perché quando soffriamo troppo a lungo, i pochi momenti di gioia muoiono sopraffatti; perché la gioia è una pianta più delicata della sofferenza. [27 agosto 1941]

Ogni tramonto del sole è una giornata della nostra vita passata che non tornerà più.

E ad ogni tramonto mi viene da chiedermi: “Che cosa hai fatto di buono oggi, Antoinette?” Ed io, quasi per scusarmi, penso fra me, “ma se mi riuscirà di portare a termine le Tre sorelle e il Toro morente come lo desidero io, allora non sarò più triste quando vedrò il bel tramonto del sole. Dirò che valeva la pena di vivere e soffrire! ... [Genova, 22 ottobre 1941] Stamattina, entrando nel giardinetto, ho tro-

vato il mio Toro morente, che stava per essere terminato, in frantumi per terra. Non posso descriverti, caro Mario, il mio grande dolore: vedere questa massa potente, armoniosa e sofferente, disseminata dappertutto nel giardinetto che ho adibito a studio. Che il Signore vuole forse provarmi? Raccoglierò tutte le mie forze e ricomincerò di nuovo! Nel mio faticoso cammino non ho fatto altro che ricominciare, senza

[Dai Diari, 1941-1945]

avere la soddisfazione di vedere un’opera, una mia creazione, terminata. E godermela con soddisfazione. Invece, a me tocca la sorte di ricominciare sempre.

ANTONIETTA RAPHAEL

[21 gennaio 1942] Oggi mi sento di buon umore. Ho lavorato

Nel 1939 Antonietta e le figlie, per

in gesso. E posso essere contenta. Ti ripe-

sottrarsi alle discriminazioni razziali, trascorrono prima alcuni mesi al Poveromo, presso Forte dei Marmi, poi raggiungono Quarto vicino agli amici e

collezionisti Emilio Jesi (anche lui ebreo) e Alberto Della Ragione. Qui conducono una vita appartata, in contatto con Manzà, Guttuso, Birolli e Camillo Sbarbaro.

[Genova, 10 luglio 1941] Mario caro, sono stata molto contenta del-

la lettera e delle bellissime fotografie che m'hai mandato. Anche io ho sentito un bagliore di gioia e poi mi sono rattristata nuovamente. Il tempo distrugge tutto; anche la nostra memoria. Ma più che il tempo, è il ritmo

to, caro Mario, che mi piace assai lavorare

in gesso perché ha due funzioni: modellare e scolpire. E t'impegna maggiormente mentre stai lavorando. È quasi scavare, perciò assomiglia a scolpire come fosse pietra. Ed è modellare perché puoi aumentare il volu-

me. Oggi ho voluto fare un pò d’ordine; ho raccolto tutte queste teste sparse per terra negli angoli dello studio, che davano la sensazione di un cimitero di uno scultore scomparso. Le ho messe certeune su delle cassette e certe le ho ritoccate e stanno raggruppate, così sembra un convegno di belle fanciulle. Fanno nient'altro che conversare della loro Odissea, da un angolo all’altro, fra mucchi di ferro e carte colorate.

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Jesi e Maria sono venuti a trovarmi, ma lo zucchero che ci hanno promesso, se lo sono dimenticati! ..... Invece sono rimasti scandalizzati da questo disordine. A me non disturba, lavoro bene così.

RENATO GUTTUSO Una mela, una bottiglia, un volto, uomini

in guerra o in pace, angeli nei cieli, estasi di santi, massacri, dannati nell'inferno, crocefissioni o concerti, giornali, cinematografi, musei, strade, campagna, palazzi e camere chiuse, letti disfatti, oggetti abbandonati e

impolverati. La pittura è la forma del nostro coesistere in ognuno di questi elementi, o in tutti questi insieme. Ma gli uomini vogliono i fatti: conoscono le conclusioni e non vogliono arrischiarne di nuove. E in ogni opera nuova vogliono ritro-

vare quel che hanno imparato a vedere nelle opere già viste. Né a loro interessa il senso della relazione tra il pittore e i suoi oggetti se non riportato a quella loro idea di conclusione, al “vedere” che hanno imparato (ma a “vedere” non s'impara). E dinanzi al quadro si dimenticano della loro vita e lo misurano a spazi senza averne terrore. Dico dei pittori

stessi che fanno i quadri. [...] Non dunque partigiani delle forme e partigiani di un dettagliato raccontare. Il conflitto non è nei caffè o sui giornali, un conflitto di partiti, ma un conflitto dentro il quadro, sempre composto nell’espressione, se C'è.

Una crocefissione che sembri una natura morta e una natura morta che sembri una crocefissione: ciò è capitato a ogni vera pittura dai bizantini a Caravaggio, a Picasso. Lo scheletro giallino delle foglie d’uva nella “caravagensis fiscella” dell’Ambrosiana esprime le stesse cose che il volto di san Matteo, nel Sar Matteo e l'Angelo di San Luigi dei Francesi. (Anche in Cézanne, un quadro grande di bagnanti come un chilo di mele su una tovaglia bianca.) [...] Paura degli amici, dei nemici, dei critici, dei mercanti, della propria cultura, dei libri che si son letti, del “breviario d’estetica”, dei quadri che si son visti e di quel che è stato detto e scritto su quei quadri, paura di se stessi, del proprio passato e del proprio avvenire, paura dell’illustrazione, del decorativismo, del naturalismo, del sentimento, dell’imitazione, paura dell’oggetto come oggetto, paura d’essere nella moda e paura d’esserne fuori.

Per paura che lo accusino di battere moneta, il pittore spende la moneta in corso. Donde il mito della “pittura”, un astratto regno, staccato dall'uomo e dai suoi pensieri e dalle sue azioni. Paura dell’arbitrio,

e non ci si accorge che all’arbitrio conduce di necessità tale idolatria della pittura che (coscientemente o no) incatena il pittore a ridurre ogni forma a quel suo predisposto fantasma di forma. [...] Non dunque idolatria ma concreta espressione di un concreto mondo di oggetti e di uomini a portata delle nostre mani, delle nostre discussioni, dei nostri pensieri; non

idolatria in un mondo moderno antiumanistico ma di cultura scontata ora per ora

nelle nostre azioni più eroiche e più usuali. [Da Paura della pittura, in “Prospettive”, 1942]

CARLO LEVI Coro diverso di grida, lamenti, di voci o-

scure e di violenza; paese straniero abitato di mostri, di immagini di spavento e di mistero; tempo senza felicità e senza speranza, pieno di difese; viscere sanguinose di

un mondo ignoto spalancate a un solo nemico; e tutto ciò non fuori, non lontano,

ma nello specchio stesso dell’anima, contemplazione di un Narciso angosciato dell’acque della nascita — o pittura del nostro secolo, anticipatrice dei tempi, finita coi tempi maturi, chi pensa su di te potrà forse usare il discorso matematico o il panegirico appassionato o l’epigramma o il funebre elogio, o non piuttosto limitarsi a riguardarti, onda perigliosa, se crede d’essere riuscito a una qualunque futura riva? Ma in ogni modo, e per qualsiasi atteggiamento dello spirito, l'occhio cadrà nel profondo, ai limiti dell'umano, nei luoghi del-

la più spenta miseria e del più giganteggiante orgoglio — più giù, nelle tenebre elementari della Paura di esistere. Poiché la pittura contemporanea, che ha inizio con la molteplicità cézanniana, che splende di disperata energia con Picasso, e che si spegne, caduta la sua Capitale, con il realizzarsi nei fatti dei suoi vaticinii, è stata lo specchio divinatorio della crisi del mondo e dell’uomo, l'oracolo, misterioso nella

sua semplice chiarezza, di un pericolo mortale. Il senso dell’esistenza come creazione dell'identità dell’uomo col mondo, di ogni relazione come atto d’amore, fa di ogni se-

gno, pittura. La libertà crea e suppone le passioni umane: la vita è come un albero turgido di succhi, ricca di una pienezza felice dove soltanto vi è posto, senza contraddizione, anche per il dolore e l’angoscia e la morte. L'individuo è opera d’arte: luogo di tutti i possibili rapporti; non ha dunque limiti se non infiniti. Ma per l’individuo limitato, e perciò incapace e timoroso di esistenza e di libertà, non esistono

cose, e non per tormentare il prossimo ed i

suoi averi. / G) Facoltà da concedere agli artisti ritrattisti ove non trovino per superiori ragioni d’arte, di loro convenienza

adattare l’opera al modello di poter addivenire con mezzi leciti da stabilirsi e con una certa coerenza alla loro linea estetica e allo stile della loro scuola, ad un assesta-

mento del modello in via definitiva e valido a tutti gli effetti di legge e da trascriversi

passioni, e il mondo diventa estraneo: è ve-

sulle carte di identificazione personale, an-

ramente, come dice il poeta, “Un monde

nonarie e certificati penali del ritrattato. [...] / L) Conversione di una quota parte degli Usceri delle Esposizioni in uomosandwich perché si aggirino con quadri sulle spalle nei quartieri a grande incremento demografico, onde immettere l’arte a contatto col popolo delle future generazioni. Succinte monografie con piccole riproduzioni in tricromia, sul retro dei bi-

dont je suis absent”. Costretti a vivere, ad accettare la vita in un

mondo da cui si è assenti, assenti dunque e estranei a noi stessi, avvolti nella solitudine, nessuna passione ci è consentita se non il terrore. Il terrore fondamentale e primordiale, la paura del mondo, della vita, della libertà, dell’uomo: la Paura della pittura. Il mondo, vuoto di noi, si riempie,

per noi, di mostri: e l’uomo stesso diventa un mostro a se stesso, poiché egli è assente da sé. La parola, amore delle idee e delle cose, non può più legare quello che è irrimediabilmente scisso: ma soltanto ricercare, fatta simbolica, difesa e certezza. La pittura non è più espressione creatrice, ma

magia, strumento di impossibile salute. La paura del deserto dell’anima desolata è il senso della pittura contemporanea: i suoi oggetti, non uomini e cose viventi, ma idoli. [Da Paura della pittura, in “Prospettive”, 1942]

FAUSTO PIRANDELLO Questo articolo è indirizzato al Sindacato Belle Arti e propone, come provocazione alle richieste di un'arte di regime, un elenco di desiderata dalla A alla Q. ... C) Petizione a S.E. il Governatore perché voglia adibire a deposito di utensili, macchine usate, dipendenze varie, garconnières, ninfei, etc., gli ultimi studi di pittu-

ra sopravvissuti alle demolizioni di Roma, onde maggiormente immettere gli artisti a contatto con la vita. [...] / F) Concessione agli artisti paesisti, ove non trovino un pae-

saggio interamente di loro gradimento, della facoltà di procedere a piccole demolizioni, disboscamenti, sterramenti o interramenti con terreni di riporto, purché di buona qualità e sempre che dimostrino di agire per vero interesse d’arte e per sentito

attaccamento alla Verità e alla Realtà delle

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glietti dei tram, autobus e filobus; [...] / N)

Notiziario aggiornato da fornirsi agli iscritti delle principali e più impellenti idee del giorno alle quali adeguare colori, vernici, pennelli, pennellata, coloritura, verniciatu-

ra, senso obliquo od orizzontale o verticale della composizione, opportunità nella scelta dei toni o del chiaro-scuro. [...] / P) Obbligo agli Iscritti di fotografare l’oggetto del proprio lavoro e di accluderne copia non truccata alle Giurie delle Esposizioni Concorsi e Mostre con annesse giustificazioni scritte per quanto di mutato, interpretato, svisato, sfigurato, travisato, sofisti-

cato, deformato, tolto, aggiunto, ecc. possa riscontrarsi nelle pitture... [Da Desiderata, in “Quadrivio”, 6 settembre 1942]

ALBERTO ZIVERI

[24 novembre 1942] La guerra di oggi logora il cervello di tutti. I sintomi che oggi viviamo sono quelli di un malato che si accorge della sua condanna dopo essere stato deluso dai consulti inutili. Questa condanna che porterà sicuramente ad un abbattimento morale di tutte le classi sociali. Ci si domanda il perché di tutto questo. Perché la distruzione di Paesi interi qualunque essi siano. Si ha l’impressione di essere al di fuori della civiltà e del buon senso ed essere invasi da un incubo.

[3 gennaio 1943] Oggi ho ricevuto una lettera di Katy da Milano, mi ha fatto gli auguri di buon

anno. Così ho pensato a Lei e naturalmen-

te al mio passato pieno di illusioni. Breve è questa vita, meschini i nostri risultati, poveri i nostri progetti. E l'avvenire? Che strana parola di questi tempi! Ho voglia di amore, ho voglia di calore. To so che l’arte è libertà e indipendenza e indipendente dalla medesima fantasia che la crea. La sola salvezza dell’arte è nella libertà, nessuno può né deve soffocarci.

sua animalità è viva e possente. Che grande contrasto con la tragedia attuale! [Dai Diari inediti]

MARINO MAZZACURATI Carissimo Geppe, sono partito martedì u.s. da Guastalla, con mia moglie, diretto a Roma. Giunti alla sta-

Mi sono avvicinato al quartiere di S. Lo-

zione di Bologna siamo stati sorpresi da un bombardamento di una violenza terrificante che ha completamente distrutto la stazione e la linea per un tratto di chilometri. Siamo vivi per miracolo. Bombe a decine sono piovute su di noi, alcune a meno di dieci metri di distanza dalle nostre teste. Ti racconterò un giorno i particolari di questa esperienza tanto spaventosa che sono tuttora mezzo inebetito dall'enorme violenza degli scoppi che, oltre i timpani e i visceri,

renzo, molte case distrutte, vuote, desolate, che sembrano ormai lontane come lon-

che ho visto è indescrivibile. Mia moglie è

[22 settembre 1943] Oggi sono ritornato sulle rovine di S. Lorenzo bombardata il 19 luglio. Ho riveduto la Basilica distrutta dietro la sacrestia (che confina con il Verano) ho visto le tombe devastate che sono ancora scoperte e lasciano intravedere le salme. Ho visto una stalla, i carri funebri distrutti e i cavalli riversi a terra.

tane ci sono quelle degli scavi di Pompei. Ma la più grande sensazione di tragedia me l’ha data una casa del tutto distrutta che ha seppellito i suoi inquilini nel rifugio sottostante. Più di quattrocento persone. La casa è ancora con alcuni infissi, le came-

re in sezione lasciano, attraverso gli oggetti, riconoscere una vita che ci è passata

dentro. Due comodini al quarto piano, di cui uno lascia scivolare una camicia di donna e un paio di calze di seta che il vento sbandiera. Nell’ultimo piano confinante col cielo, una fotografia appesa al muro, un attaccapanni con sopra una vestaglia verde che il vento gonfia e sembra voler dire qualcosa di terribile ai vivi. [...] giornata piena di caldo, due allarmi aerei, il primo alle 13 il secondo alle 23 la vita non è più vita, si finisce per perdere il senso della propria realtà. Tutta la mia vita che dedicavo giorno per giorno all’arte, oggi mi viene a mancare. I tedeschi ci hanno scempiata Roma, oltre che buona parte dell’Italia. Episodi veramente tristi provocano indignazione nella folla, che sembra essere più unita che mai nel ventre della vera Italia. E in mezzo a questo mondo bruciato da una tragica guerra, dove tutti gli esseri umani pagano con il loro sangue e la loro pena un ingiusto contributo, ecco apparire

fatti della natura che ti destano meraviglia. Ecco la grazia e la bellezza di una ragazza che riempie di gioia e dolcezza, talmente la

mi hanno sconquassato i nervi. La strage ridotta una straccio, ma è salva anch'essa.

Naturalmente abbiamo perduto tutto il nostro bagaglio con gli indumenti e i rifornimenti commestibili e anche con lavori miei, ma ciò mi sembra una sciocchezza. Ora è impossibile che io possa tornare costì, anche perché la linea è interrotta. Pensa che per tornare da Bologna a Guastalla abbiamo impiegato, con mezzi di fortuna, più di venti ore. Non potremo vederci che alla fine della guerra. Lascio in consegna a te il mio stu-

dio. Lascia ogni cosa come sta. L’affitto è pagato sino a tutto settembre. Se non potrò più comunicare con Roma provvedi tu al pagamento per i mesi successivi, oppure avverti la portiera della mia situazione e dille che avverta l’amministrazione che al mio ritorno pagherò tutti gli arretrati.

Scrivimi subito, dico subito, prima che interrompano completamente le comunicazioni. Lavora, se puoi... [Lettera a Giuseppe Persichetti del 1943, in Mazzacurati e gli artisti di Fronte, Roma, 1988]

FERRUCCIO RERRAZZI [22 luglio 1943] Partito il 19 stesso di sera, sotto la impressione del primo bombardamento di Roma. Arrivato alle 8 del mattino a Settebagni a 7 km. da Roma: tornato a piedi e arrivato a casa trovando ancora ogni cosa salva e la famiglia viva. La desolazione è la più spa-

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ventevole, lo stato d’animo è depresso, si attende da un’ora all’altra l’arrivo degli inglesi anche a Roma — Italia derelitta — a

quale punto la vostra baldoria di 21 anni ci ha condotto! C'è un’attesa di piombo che grava sulle cose in una luce esasperata di calore bollente. Mi sembra inutile dipingere tra tanto mare di pene e di turbamenti. [10 settembre] La città è sotto il fuoco tedesco — ore terribili per il paese. Situazione più tragica per l’Italia non potrebbe esistere — Roma è occupata, e così fino a Milano, dai tedeschi.

La completa anarchia è in tutta la nostra vita — tutto si è disfatto tutto è caduto e i responsabili fuggono.

,

[2 febbraio 1944]

E lungo il giorno e breve è il passato. Proprio le condizioni di chi muore; così muore l’Italia e Europa nello spasimo di ore eterne, nel pericolo di un attimo sull’altro, mentre la febbre divora tutte le forze ed ogni possibilità per ritornare a vivere. Ognuno di noi si sente morire giorno per

giorno nella rinunzia, e non tanto come fine della propria materia, ma come essere nel tempo, come continuità del passato e ci

si sente distrutti. [4 febbraio] Ho dipinto un Lacoonte terrificante con il gruppo della scuola — scheletro di cavallo e figura — giorni terribili che si trasmettono alla mia mano. (Il quadro è stato poi parzialmente modificato divenendo una delle “Cadute” o “Apocalissi”). [8 febbraio] ...Ora mi ritorna la grande tristezza che mi è sempre latente e che vinco con il lavoro come Deus ex machina che esalta questo povero uomo immerso e sommerso dal peso del vuoto e dagli avvenimenti. To sono figlio del tempo instabile, eppure pieno di conoscenze e di aspirazioni. Forse

siamo destinati, in questo periodo, a non lasciare traccia, come un'onda che si è tanto alzata per ricadere nello scroscio di un mare in tempesta. È per questo che amo la mia composizione della “Caduta” o della “Tragedia”. [5 marzo] Ho fatto un bozzetto sulla desolazione del-

la guerra — La vita è in lotta con la fame: le uova a 22 lire l’uno!

..Lo spazio che non è più l’ambiente, ma l'esaltazione di una architettura di masse,

come l’acqua di un torrente attorno ai blocchi caduti del monte. Ed una immensa caduta è il tutto di oggi, un succedersi di ritmi che precipitano in un vortice nel quale si agitano gli uomini per essere svegliati nel vuoto. [19 aprile]

prima del coprifuoco, dalla villa al portone di casa. Il cielo è blu madonna. La paura ci cammina a fianco, compagna

fedele. Eppure è stupefacente la bellezza dei tramonti, dei colori puliti dal freddo. Le imposte si chiudono una dopo l’altra, secche, avvertendo che si fa l’ora di rien-

trare. Rinaldo mi confessa che sente la morte vicina, come se gli soffiasse alla

Ogni giorno che passa è sempre più pauro-

nuca, sempre. Saremo ancora vivi a prima-

so nel presente e nell’avvenire — le notizie delle distruzioni sono spaventose — la miseria e l’ira sono dilaganti.

Poi un rumore di scarpe chiodate alle no-

[28 aprile] Rilavoro da giorni a casa intestandomi sul grande nudo che ho ripreso tutto con più agitazione di masse e di luci. [maggio] Lavoro da giorni al nudo di visione tragica, con colori ed olio. È una angosciata agonia. [Dai Dyari inediti, 1943-1944]

RENZO VESPIGNANI Ce ne stiamo sdraiati sulla terrazza che guarda la campagna, io, Armando, Giorgio e Rinaldo, a discutere dell’amor patrio. Ci sembra, dopo tanta scuola fascista, di

non sapere cos'è l’Italia; o forse di amarla soltanto in queste dieci strade del quartiere. Armando si domanda se il patriottismo non sia dopotutto un lusso. Io sospetto che sia esasperazione assurda, un’ultima e rabbiosa morale dei vinti. Breve passeggiata con Rinaldo, mezz'ora

vera, quando arriveranno gli americani? stre spalle, un 72arò: non ci bada anzi acce-

lera il passo quasi fosse lui a temere, con noi, le ronde notturne. Ha i nostri anni,

forse anche meno, i capelli chiari come il piumaggio di un pulcino. Pare impossibile, ma tra noi e questi fascisti giovanissimi

non c'è gran differenza. Sembriamo tutti ritratti mal riusciti dell’adolescenza, la car-

nagione itterica e lo sguardo sempre interrogativo, da cani tirati su a tozzi di pane e bastonate. In realtà, solo con l’aiuto di un

ragionamento, arguendo cioè da qualche vaga somiglianza delle fattezze, riusciamo a riconoscerci per quelli che eravamo l’anno scorso, a scuola. Non so che ombra

s’è attaccata al viso di tutti: certo che ognuno sembra essersi composta una fisionomia cattiva e insieme timidissima.

Il potere più feroce è quello che oltre a mistificare ti vuole rabbonire. Col tempo le incursioni sono sempre più frequenti. La sera due spitfire sorvolavano il viale dalla basilica di S. Lorenzo al ponte dello scalo, mitragliando la poca strada risparmiata dai bombardamenti di luglio. Subito dopo sono uscito. Freddo crepuscolo di marzo, col sole che sfiorava i cipressi del cimitero e la gente intirizzita. Sul cavalcavia traffico di autocarri tedeschi. Scendendo la scarpata verso lo scalo ho snidato, senza volerlo, due amanti acquattati nei cespugli. La donna piagnucolava e cercava di coprirsi le cosce. L’uomo è balzato in piedi e mi ha minacciato con un sasso. [...] Ricordo l’estate scorsa come un tempo che non c’è mai stato e che qualcuno racconta a mezza voce — sono di nuovo bambino — per addormentarmi. Immagini senza consistenza, rubate da uno specchio appannato. Ci sono giorni che sento, con straordinaria evidenza, l’odore caldo che saliva

dalla strada. Odore di catrame, di foglie secche. E la scuola finita, le pigrizie godute nel letto, la tela e i colori pronti, la tazza del caffelatte sul tavolo. Un vuoto improvviso, poi, una frattura del tempo: il giorno del bombardamento, lo

Vento freddo e tagliente dal ponte tiburtino, e fumo sfilacciato dal deposito delle lo-

schianto nelle orecchie e il prurito della cordite nella gola. Ora non so che strano disagio mi soffoca

comotive; ancora polvere dal mucchio di

nel ritornare a quei mesi, che senso di

macerie che copre S. Lorenzo. La luce è trasparente. Si vede una nuvola rosa sulla cima di Monte Cavo. Qualcuno stanotte ha gridato a lungo, come una bestia ferita. Non ho avuto il coraggio d’affacciarmi.

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sventura imminente di pericolosa malinconia. Come se mi consegnassi nudo ad un aguzzino. [...] [Dal Diario, gennaio-marzo 1944]

Bologna ’65 / Genova ’95: due mostre diverse sulla Resistenza Mario De Micheli

A cinquant’anni dalla Resistenza, le iniziative che la ricordano si sono fatte più frequenti. S'è trattato e si tratta di proposte di varia natura: storiche, letterarie e artistiche. Interessata all’arte è questa che si apre adesso a Genova, a Palazzo Ducale, appena preceduta dalla mostra organizzata. alla Triennale di Milano e inaugurata fatidicamente quest’anno, proprio il 25 aprile, in memoria della vittoria partigiana e alleata. Scrivendo la premessa a tale mostra dicevo: “La Resistenza non si è conclusa nel °45.I motivi per ‘resistere’, in questi ultimi anni, sono andati anzi moltiplicandosi poiché oggi, davanti all'uomo, stanno istanze più generali, dove è in gioco la stessa sorte del nostro futuro.” E, come conseguenza di una simile impostazione, i “documenti” esibiti venivano quindi avanti nel tempo sino a oggi, investendo anche i problemi più attuali, razziali ed ecologici. La mostra genovese di Palazzo Ducale si presenta invece con un criterio diverso: è cioè dedicata non solo agli artisti italiani, come la mostra milanese, ma anche e soprattutto a un ricco gruppo di pittori e scultori stranieri. Da questo punto di vista si può quindi dire che questa nuova mostra assomiglia maggiormente alla mostra di Bologna del 1965, anche perché il suo taglio è più strettamente storico. Comunque è bene precisare che, anche prima della mostra bolognese, altre manifestazioni erano state organizzate con analoghi intenti. Col titolo “Arte contro la barbarie”, una mostra di questo tipo era stata allestita a Roma addirittura prima che la guerra finisse, nel ‘44. Un’altra ebbe luogo a Milano, nel palazzo dell’Arengario, a pochi mesi dall’insurrezione popolare. Ricordo che, in quell’occasione, Morlotti aveva dipinto su una grande parete, a mo’ d’affresco, una scena di quella impetuosa rivolta. In anticipo sulla mostra di Bologna e Torino ci sono state soltanto due mostre: la prima ordinata nel maggio del ’61 a Roma, presso la Galleria dell’Obelisco, col titolo “Opposizione al nazismo”, dove s'incontravano, seppure in numero ristretto, un gruppo di artisti europei; e la seconda nel ’62, alla Galleria Hoepli di Milano, sotto l’insegna di una ammonizione biblica: “Non dimenticare”. Qui, fra quadri, sculture e disegni, erano allineate un centinaio di

opere di diversi paesi, di cui tuttavia una metà circa risultavano prodotte dopo il °45. Tale mostra può essere senz’altro considerata come una premessa dell’esposizione che poi si fece a Bologna e Torino, con in testa i nomi della Kollwitz e di Grosz. Di altre mostre a carattere europeo, collocate in quel giro di tempo e contenute

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in un quadro rigorosamente storico, non ho notizia. Invece varie altre iniziative,

ristrette di volta in volta a singole nazioni, sono state a suo tempo prese all’estero. Senza dubbio, tra le più significative, è da ricordare particolarmente la mostra allestita a Berlino nel giugno del ’64 dalla Nationalgalerie, che raccoglieva oltre

settanta artisti, da Barlach a Beckmann, da Otto Dix a Grosz, da Heckel a

Heartfield, da Hans Grundig a Zeller. Ma in che cosa si differenzia l’attuale mostra di Genova da quella di Bologna? Intanto a Palazzo Ducale ci sono almeno 300 opere, dunque 70 in più di quante ve ne fossero a Bologna, anche se ottenere i prestiti è stato più difficile. A Bologna, tanto per fare un esempio, eravamo riusciti a ottenere due opere “politiche” fondamentali di Kokoschka: L’uovo rosso del ’38, dominato in primo piano dal tronfio faccione di Mussolini, nonché Per che cosa combattiamo, un’opera del ’43

dove si vedono le vittime del nazismo associate agli ideologi della non-violenza. A Genova c'è invece I/ granchio del 1939-40 e l’Autoritratto del 48. Tuttavia il contributo austriaco alla mostra s’è arricchito di quattro splendidi disegni di Kubin, mentre a Bologna ce n’erano solo due. Indubbiamente però, nella mostra genovese, riveste un posto privilegiato la Germania, non solo perché, come a Bologna, c’è la presenza del capolavoro di Otto Dix, I sette vizi capitali del ’33, insieme con altre tre opere, ma anche perché Grosz, che a Bologna figurava soltanto con una sparuta litografia, qui può vantare quindici opere e anche un gruppo di opere americane. Così è presente a Genova Hans Grundig con un olio e otto puntesecche; purtroppo è assente il suo capolavoro: il Trittico del Reich millenario, che era a Bologna, e che io stesso non riuscii a riottenere quando, una quindicina di anni fa, organizzai a Como una sua grande mostra a cui intervenne anche la moglie Lea

che adesso è pure a Palazzo Ducale con una serie di opere. Di Heartfield poi, a differenza di Bologna, dove ce n’erano solo quattro, vi sono

qui quindici fotomontaggi. E allo stesso modo è folta la presenza della Kathe Kollwitz, che a Bologna aveva solo due bronzi, mentre qui ne ha cinque, accompagnati da otto litografie. Così, allo stesso modo, è rilevante la presenza di Klee, schierato ora con nove disegni, dove a Bologna aveva un solo quadro. Ma, a Palazzo Ducale, mi pare soprattutto opportuno segnalare la scelta di Meidner, che a Bologna non c’era. Quanto a Beckmann, presente a Bologna con il solo dipinto del Ritorno in patria del °41, ora è qui con un bronzo del ‘35, ma in particolare con la Galleria Umberto, dipinta tra il °24 e il 25: è la Galleria Umberto di Napoli, e dalla sua cupola di vetro pendono le vittime delle squadracce fasciste. Tra gli artisti tedeschi mancano purtroppo Otto Nagel e Kurt Querner con qualche opera degli anni Trenta, ma a questa mancanza si è supplito con la presenza di Hofer, di Hofmann, di Hubbuch, di Zeller e soprattutto con la presenza di Hettner, già membro di una fattoria autogestita con compagni che avevano partecipato ai moti spartachisti, e quindi allievo di Otto Dix a Dresda. Di lui, in una intervista, parla anche Munch; dice: “Cosa vogliono gli uomini? A Hettner si è

proibito di dipingere, il campo di concentramento lo minaccia se elude tale proibizione, le SA a ogni istante possono fare irruzione nel suo studio...” Da Dresda Hettner venne poi in Italia, a Milano, dove collaborò con alcuni disegni a “Corrente” e finì la sua vita, dopo molte peripezie, in una cascina di Vaprio d'Adda. Di notevole inoltre, nella mostra di Genova e sempre restando nell’ambito tedesco, ci sono anche due quadri di Radziwil, che a Bologna non c'erano. Ma non è il caso di continuare a parlare della Germania, anche se a Palazzo Ducale ci sono

altre opere di sicuro interesse. La mostra genovese non si è però prefissa, in maniera specifica, di riferirsi solo alle opere dedicate alla Resistenza, come invece era accaduto per la mostra bolo-

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gnese. Altre infatti vi si ispirano solo indirettamente, come La morte di Cesare di Aligi Sassu del 1938-39, che allude all’auspicata morte di Mussolini. Così, allo stesso modo, si riferiscono alla Resistenza le Fantasie di Mafai, dipinte tra il 40 e

il 44, che illustrano con modi grotteschi o violenti le nefandezze della dittatura: sono opere che anche a Bologna erano presenti; anzi, delle Fantasie, anziché quindici, come qui, ce n’erano sedici. Le opere di Scipione invece, presenti alla mostra genovese, i suoi oli e i suoi inchiostri, non erano a Bologna, Sesta allora considerati fuori del criterio a cui l’intera mostra si ispirava; ora, secondo un

criterio diverso, per l'inquietudine che anticipano sul clima italiano dell’epoca, si giustificano senz'altro ampiamente. Allo stesso modo si giustifica la presenza di Savinio, di Munch e di altri ancora. Degli inglesi, come già a Bologna, sono bene documentati Moore e Sutherland, ma, a chi ha fatto la scelta genovese, va il merito d’aver pensato anche a Stanley Spencer, uno dei più grandi artisti europei del Novecento, presente qui con un quadro sull'ultimo conflitto mondiale. E così, giustamente, è presente l’americano Ben Shahn, che c’era già anche a Bologna, e quindi Chagall con quattro opere significative. Degli artisti russi c'è solo da lamentare l’assenza di Deineka, almeno con la Difesa di Sebastopoli, presente a Bologna, e di Filonov, che però non era neppure a Bologna, ma le difficoltà di ottenere i prestiti sono state insuperabili. Degli spagnoli sono invece presenti sia Gonzalez che Picasso. Gonzalez è presente con cinque disegni e con un bronzo che rappresenta le mani di quella contadina di Montserrat, un piccolo paese vicino a Barcellona, che si oppose alla violenza franchista e di cui la grande scultura è allo Stedelijk Museum di Amsterdam; a Bologna figuravano soltanto un bronzo-studio e una maschera. Quanto a Picasso, nella mostra di Palazzo Ducale, al pari di Bologna, è riesposto Sogno e menzogna di Franco, i due fogli incisi grottescamente, dove il dittatore appare in diciotto immagini dissacranti; ma, a, differenza di Bologna, dove era stato presentato, ritoccato dallo stesso grande Pablo, il guazzo su carta dell’arazzo tessuto poi da René Diirrbach ispirato a Guerrica, qui son stati scelti tre altri pezzi, tra cui la Testa di cavallo dipinta negli stessi giorni in cui stava preparando l’opera più famosa per il padiglione spagnolo all’Esposizione universale di Parigi, nonché il bronzo di una Testa di donna del ’31 e un’altra Testa di donna dipinta a olio del ’39. Infine, sempre degli artisti spagnoli, vi sono qui il Miré di Azutate la Spagna, come a Bologna, e i Personaggi nella notte del °38 che a Bologna non c'erano. C'è invece, già presente a Bologna, il Corzbattente ferito di Madrid di Javier Bueno, un’opera che piaceva tanto a Trotskij, dipinta nel ’38, eseguita quindi a ventitré anni, oggi al Museo Goya di Castres; nella mostra alla Triennale di Milano, di Bueno c'era invece la Fucilazione del ’45. Purtroppo non sarà presente, già promesso, il progetto di Giacometti per il monumento a Gabriel Péri, eroe della Resistenza francese, che avrebbe dovuto esse-

re affiancato dal Busto del Colonnello Rol Tanguy, che invece era esposto a Bologna. Ed è tuttavia un peccato che, della Svizzera, non possano esserci neppure le opere di Walter Kurt Wiemken, già presente a Bologna, cui tra l’altro si deve una serie straordinaria sulla guerra di Spagna, dipinta fra il °36 e il ’38. A questo punto dovrei parlare della partecipazione italiana e della diversità tra la mostra bolognese e quella che adesso s'inaugura a Genova. Devo dire, senza scendere nei particolari, che in genere ognuno degli artisti presenti a Bologna è ugualmente presente ora a Palazzo Ducale, tranne qualche eccezione. Li cito disordinatamente: Manzù, Guttuso, Birolli, Cagli, Levi, Mucchi, Leoncillo, Afro,

Mirko, Treccani, Vespignani, Zancanaro, Mazzacurati, Pirandello, Purificato, Fabbri, Morlotti, Cherchi, Barbieri, Magnani, Carpi, Francese e Ciri Agostoni.

Sarà presente anche il capolavoro di Fazzini, il grande bronzo del Fucilato, e

forse il Cassinari della Pietà del 42, nonché qualche opera di Vedova e Pizzinato, entrambi partigiani. Purtroppo, per varie ragioni, non potranno esserci invece

opere di Giandante X, combattente della guerra di Spagna e cospiratore a Milano. Di tanti altri pittori e scultori che erano presenti a Bologna e che adesso sono presenti al Palazzo Ducale di Genova non ho tuttavia parlato. Scrivendo l’introduzione alla mostra bolognese dicevo: “Una rassegna come questa, pensandola in astratto, potrebbe anche dare l’idea di una rassegna dolorosa, di una mostra di

lutti e di orrori. La verità è un’altra: la mostra infatti non dà assolutamente l’idea di un dolore prostrato, di un lamento funebre. Certo, la severità del dolore e del

sacrificio parla da queste opere, ma parla anche il coraggio, la forza dei sentimenti, l’impulso a contrastare e battere il nazifascismo. Da queste opere insomma, dalle migliori di esse, si sprigiona una energia, una fiducia nell’uomo e nella sua sorte, che ribadiscono anche oggi, nell’attualità della nostra giornata, la perenne validità dei valori che nella Resistenza hanno superato la più difficile prova. Da questo punto di vista si può quindi pensare che la linfa ideale della Resistenza, lungi dall’essersi inaridita, continui ad operare.” Ecco: a cinquant'anni da quei giorni lontani, una nuova riflessione è d’obbligo, ma solo per rinnovare lo stesso impegno sui diversi problemi che nel frattempo ci si sono posti davanti.

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Renato Cenni, Partigiani in riposo, 1945 c. Penna su carta, cm 31x41,5. Istituto Mazziniano, Genova.

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Renato Cenni, Partigiani in azione, 1945 c. Penna su carta, cm 23,7X19,5. Istituto Mazziniano, Genova.

Renato Cenni, Prigionieri tedeschi. Arrivano i prigionieri, 1945 c. Penna su carta, cm 30x40,5. Istituto Mazziniano, Genova.

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Nicola Neonato “Pollaiolo”, Bri, 1944. Penna su carta, cm 24,3x35. Istituto Mazziniano, Genova. Park fim

Nicola Neonato “Pollaiolo”, Partigiano caduto, 1944.

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Penna su carta, cm 19,2X26,8. Istituto Mazziniano, Genova.

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Arte e cultura nella montagna partigiana Franco Ragazzi

! La collezione del giornale è stata ripubblicata in due edizioni: I/ Partigiano - 15 numeri stampati in montagna dall'agosto '44 alla liberazione, Edizione de “Il Partigiano”, Genova, 1947, e, con lo stesso titolo, Edizioni Quaderni de “Il Novese”, n. 2, nuova serie, ristampa “Resisten-

za”, supplemento a “Il Novese”, n. 7, Novi Ligure, 5 aprile 1979.

R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, 1953, p. 145; L. Longo, Ur popolo alla

macchia, Roma, 1964, p. 192. 3 Sulla repubblica di Torriglia cfr. M. Legnani, Politica e amministrazione nelle repubbliche partigiane, (Quaderni de “Il movimento di liberazione in Italia”, n. 2, s.d. (1967), pp. 22-23,

142-154. Con la definizione di “re EPblica di Sai lia” si intendono i territori ua comprendenti la val Trebbia, dal passo della Scoffera a Bobbio, e la val d'Aveto; contermine è la

parte dell'Alto Tortonese (val Borbera, sino a Pertuso, val Sisola, alta val Grue e val Curone sino a Brignano Frascata). 4 Giovanni Serbandini “Bini” (Chiavari 1912),

insegnante, giornalista, poeta, subisce una condanna dal Tribunale speciale (n. 29 del 2.3.1940) a quattro anni di reclusione

per costituzione,

appartenenza e propaganda al PCL E fra i primi organizzatori della Resistenza in Liguria con la costituzione dei CLN di Chiavari e Lavagna e, con G.B. Canepa “Marzo” e Aldo Gastaldi

“Bisagno”, della prima banda partigiana di Cichero. Dopo la liberazione dirige la redazione enovese dell’“Unità”: è eletto deputato al Parmento nel 1948 e nel 1953. Cfr. Bini, Poesie partigiane, Parma, 1961; 307 Anniversario della liberazione, in “Genova”, rivista del Comune, a. 55, 1975, p. 39; F. Ragazzi, Movimento operato

nel Tigullio - Il Partito comunista (1921-1943), Genova, 1981, pp. 58, 60, 66-70; F. Biga, P. Conti, R. Paoletti (a cura di), I precursori della

lotta per la libertà nella Liguria contemporanea Dizionario biografico, Genova, 1994, pp. 444445; P. Castagnino Saetta, Il cammino della libertà, Genova, 1999, p. 71.

La notizia di una “mostra d’arte” organizzata dai partigiani nelle zone liberate dell'Appennino ligure-emiliano compare sul numero 14 del “Partigiano” dell’8 aprile 1945. L’avvenimento, che probabilmente non ha riscontro in alcun paese d'Europa occupato dai nazisti, viene ideato e realizzato dalla Sezione stampa e cultura della VI Zona operativa ligure operante nei territori della provincia di Genova e della montagna fra Liguria, Piemonte ed Emilia. La Sezione stampa nasce contestualmente allo sviluppo e all’estensione del movimento partigiano. La sua prima e più significativa iniziativa sarà proprio la redazione, stampa e diffusione del “Partigiano”, di cui saranno pubblicati 15 numeri dall’1 agosto 1944, ancora come organo della III Divisione garibaldina Cichero — la “formazione madre”, come la definisce Battaglia, della VI Zona partigiana ligure —, alla liberazione. L'esigenza di dotare la Divisione, e poi la Zona, di ‘ un giornale per le formazioni e gli abitanti dei teatri della guerriglia era avvertita da tempo, ma si concretizza soltanto nell’estate del ‘44 quando una grande offensiva partigiana libera una vasta area dell’ Appennino fra Liguria, Piemonte ed Emilia destinata a essere ricordata come la “repubblica di Torriglia” La “repubblica” porta l’organizzazione partigiana a operare un salto di qualità in direzione della gestione e dell’amministrazione della cosa pubblica, realizzando quelle esperienze che, pur nei limiti e nelle comprensibili difficoltà del momento, intendevano prefigurare il nuovo Stato democratico che sarebbe nato dopo la liberazione. Da ciò le libere elezioni delle giunte comunali, l’approntamento di provvedimenti discussi e partecipati per garantire le risorse indispensabili alla sopravvivenza delle popolazioni e dei combattenti, le prime forme autonome di informazione e diffusione della cultura. In questo clima nasce l’esperienza del giornale e delle iniziative messe in atto dalla Sezione stampa. Suo responsabile, per unanime decisione, è “Bini”, Gio-

vanni Serbandini,* giovane professore di lettere, primo commissario politico della Cichero.” Il rigore intellettuale, l’esperienza militare, morale e politica della Cichero® distinguono il suo impegno anche come responsabile stampa. Nonostante le enormi difficoltà si doveva evitare ogni forma di superficialità o improvvisazione. “La Sezione lavora senza dilettantismi, con la coscienza che an-

che in questo campo la vita partigiana costituisce la preparazione alla futura vita democratica italiana: il movimento popolare-partigiano [...] deve creare una sua stampa e radio che sostituiscano i giornali e la radio fascisti e che anche tecnica-

mente, nonostante la scarsità dei mezzi a disposizione, la vincano sulla propaganda fascista per la passione, la sincerità, l’intelligenza che le anima...” “Il Partigiano”, di cui “si stampano dalle 4 alle 6000 copie, a seconda della disponibilità di carta”, è uno strumento di informazione, ma lontanissimo dall’idea di

un comune bollettino o di un organo di orientamento politico. Sulle pagine di quello che Battaglia definisce “uno dei giornali più evoluti della guerra partigiana”, stampato sempre avventurosamente in vecchie tipografie di fortuna e con carta di svariatissima qualità e provenienza, compaiono le rubriche: “Avanti per la lotta finale’ contenente il panorama internazionale della guerra contro il nazismo; ‘Pericolo! Zona infestata dai ribelli’, contenente il notiziario delle azioni

partigiane della VI Zona e delle zone vicine; ‘Dai paesi liberati’ in cui vengono trattati iproblemi delle giunte popolari, approvvigionamento, scuole, tassazioni, ecc.; articoli in cui sono messi in evidenza i caratteri del movimento popolare partigiano di liberazione; decreti del CLN; documentazioni della barbarie nazifascista; ritratti di partigiani e scene di vita partigiana; disegni...”, e ancora racconti, poesie, testi di canzoni partigiane.”

La vita del giornale riflette gli andamenti della guerriglia e, in particolare, le sorti della “repubblica di Torriglia”. Il numero 4 salta quando i tedeschi, con il grande rastrellamento d’agosto, rioccupano Bobbio, sede fino ad allora della redazione e della tipografia del giornale. Il 9 settembre, con il numero 5, le pubblicazioni riprendono da Bettola, un paesetto della val Nure dove viene reperita una tipografia, per poi riprendere ancora da Bobbio con i numeri 11 e 12 di novembre, quando si riforma la “repubblica”. Segnala con la sospensione delle pubblicazioni la durezza dell’inverno 1944-45 per tornare alla regolarità nella primavera successiva.

Alla stampa del giornale fa seguito la nascita della stazione radio “Radio Piacenza Libertà” che trasmette due volte al giorno “alle 12,30 e 19,30 sull'onda di m.

42”.!° Come per il giornale le cose sono fatte con la massima serietà: una fisarmonica intona la sigla, l’Inzo di Garibaldi, a cui seguono il notiziario dai fronti di guerra, conversazioni politiche, canti e poesie partigiane.

La Sezione stampa è dotata anche di una “sottosezione artistica” costituita da tre pittori dai nomi di battaglia “Neri”, “Marcello” e “Pollaiolo”; “i quali si occupano dell’impaginazione del giornale e — girando per le formazioni — ne riproducono figure e scene, preparando il materiale per una ‘Mostra partigiana’ da aprirsi nelle città italiane dopo la liberazione...”.!! Oltre al giornale e alla radio è la volta del cinema. Agli alleati, sbalorditi che tra le formazioni partigiane nascessero simili bisogni, vengono richiesti film sugli ultimi avvenimenti nei paesi democratici. Nel marzo del ‘45 insieme con armi e munizioni “piovono” le pellicole di tre documentari che vengono proiettati, preceduti da un discorso di “Bini”, a Fontanigorda, Varzi, Zavatterelle, Bobbio,

Santo Stefano.!? “Marcello” ha l’incarico di trasportare il proiettore da un paese all’altro su un carro tirato da buoi. Insieme con i film viene allestita nei diversi paesi la “Mostra partigiana” con i disegni di “Neri”, “Marcello” e “Pollaiolo”. La guerra sta per giungere alla vigilia dell’insurrezione, ma nei paesi della montagna partigiana tra Liguria ed Emilia, a pochissimi chilometri dagli avamposti tedeschi, tra una fase e l’altra dei combattimenti si organizzano mostre, si tengo-

no “conversazioni inaugurali”, si discute d’arte in un clima di notevole partecipazione popolare. Lo scopo appare con evidenza nello scritto di “Bini”: “La mostra comprende 54 disegni che valgono non solo come diretti documenti della vita partigiana, ma anche come i primi tentativi di un’arte nuova che si stacca dalla produzione artistica del ventennio fascista. Perché il fascismo, secondo la sua

politica applicata a tutta la vita nazionale, non potendo ‘fascistizzare’ l’arte, ha

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5 Sulle vicende della Cichero si rinvia a Marzo, Storia della Cichero, Chiavari, s.d. (1946). Nella

prefazione “Bini” la definisce, riprendendo un giudizio degli alleati, “forse la migliore formazione partigiana d’Italia” 6 Sul “codice morale” della Cichero (“punizioni e condanne decise a maggioranza del reparto;

non bestemmiare; non toccare le donne che

non lo vogliono; non portare via nulla ai contadini; il capo mangia sempre per ultimo, sceglie

er ultimo la sua parte o il boccone di vitto,

Ri per ultimo alla fonte o alla bottiglia; fa, di notte, il turno più pesante”) cfr. P.E. Taviani, Pittaluga racconta, Genova, 1988, p. 24. Sullo “spirito di severità spartana”, quasi “ascetica”,

di figure come “Bini” e “Bisagno” che distinguono il carattere della formazione, ritorna anche R. Battaglia, op. cit., p. 145.

? Da una relazione, firmata “Bini”, del gennaio 1945, pubblicata in G. Gimelli, Cronache weilitari della Resistenza in Liguria, Genova, 1969,

vol. II, pp. 381-383. Si rinvia alla stessa relazione per lecitazioni successive.

8 R. Battaglia, ciz., p. 407. ? Sul primo numero, ad esempio, viene pubblicato il testo di Sutta a chi tucca, la canzone in dialetto della Cichero ideata da G.B. Canepa “Marzo” sull’aria del vecchio inno russo Parti zan. Lo stesso “Marzo”.è autore di alcuni racconti, ripubblicati con altri testi in Marzo, La repubblica di Torriglia, Genova, 1955, riedito nel 1975 e nel 1985. 10 “T] Partigiano”, n. 10, 24 ottobre 1944. !! Relazione di “Bini” in G. Gimelli, op. at., p.381. 12 Nelle proiezioni eta 3 compaiono immagini dell’incontro di Yalta, i bombardamenti su Tokyo e Berlino, la guerra in Birmania, l'avanzata dell’Armata rossa, la ricostruzio-

ne nell'Italia libera e l’azione del governo democratico; da Notizie dal mondo libero, in “Il Partigiano”, n. 14, 8 aprile 1945. 3 L'episodio è riportato in Storia, prefazione anonima, alla ristampa de “Il Partigiano”, cit. Si veda anche il capitolo Una mostra di disegni partigiani in montagna, in P. Castagnino “Saetta”, Immagini ed avvenimenti della Resistenza in Liguria, Genova, 1979, pp. 120-121.

14 Mostra partigiana, in “Il Partigiano”, n. 14, 8 aprile 1945. L'articolo, anonimo, è ripubblicato a firma di “Bini” in 30° Anniversario della liberazione, cit. p. 42. La stessa pubblicazione è illustrata con numerosi disegni di Cenni, Neonato e Magnani eseguiti durante la Resistenza e in periodi successivi. 5 La collezione dei disegni della Resistenza del Museo del Risorgimento di Genova consiste di 44 fogli. Sono conservati anche tre oli eseguiti dai pittori partigiani immediatamente dopo la liberazione. Le opere sono state acquisite nell’ambito di un progettato “Museo delle guerre”, poi non n Ringrazio il direttore, Leo Morabito, per le cortesi segnalazioni. 1é M. De Micheli, Disegni della Resistenza, cat. mostra, Palazzo Agostinelli, Bassano del Grappa, 1994, p. 20; si veda anche, dello stesso autore, I disegni della Resistenza, 1943-45, in AA.VV., Le ragioni della libertà a cinquant'anni dalla Resistenza, cat. mostra, Palazzo della

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Nicola Neonato “Pollaiolo”, Prigionieri tedeschi, 1945. Penna su carta, cm 28,1X22. Istituto Mazziniano, Genova.

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Vittorio Magnani “Marcello”, Partigiani in riposo, 1945. Penna su carta, cm 19,6x28,5. Istituto Mazziniano, Genova.

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Vittorio Magnani “Marcello”, Partigiani in riposo, 1945.

Vittorio Magnani “Marcello”, Prigionieria riposo, 1945.

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Penna su carta, cm 28,6x19,7. Istituto Mazziniano, Genova.

Penna su carta, ’ cm 21,5x29,6.gine Istituto Mazziniano, Genova.

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fatto in modo che essa si astraesse dalla realtà [...]. I disegni [...] rappresentano il serio tentativo di accostarsi al mondo partigiano, di esprimerlo: sono gli ‘appunti, le premesse per le grandi opere che verranno. Come in tutti noi resistono residui di fascismo da cui cerchiamo di ripulirci, così anche nei disegni di questi compagni permane qualche residuo delle vecchie maniere. Ma essi ci indicano la strada giusta: come artisti la strada della realtà umana che penetrata fino in fondo suggerirà le sue naturali forme di espressione; come uomini la strada dell’azione partigiana a cui essi hanno fin dal principio partecipato.”!4 Di quei 54 disegni, e dei numerosi altri eseguiti nello stesso periodo, solo una parte si è salvata e conservata; molti infatti sono andati dispersi, perduti durante la guerra, smarriti con il passare degli anni. Qualche disegno è ancora custodito dagli artisti o dai loro familiari, qualcuno si trova in collezioni private, fortunatamente una buona parte è stata acquistata dal Comune di Genova subito dopo la

liberazione e conservata nel Museo del Risorgimento.! Una collocazione che sottolinea l’importanza storica, documentaria, di queste carte povere reperite molto spesso in modo fortunoso (carte da lettera o da pacchi, raramente da disegno, in alcuni casi fogli di antichi documenti provenienti dagli archivi comunali), di questi disegni realizzati senza una vera e propria preoccupazione artistica. La preoccupazione di “Neri”, “Marcello” e “Pollaiolo”, così come di altri artisti

che hanno vissuto direttamente l’esperienza della Resistenza, era quella di cogliere con rapidità e di fissare sulla carta i fatti che si svolgevano intorno a loro, di afferrarne l’essenza di violenza, durezza, fatica e sofferenza, brutalità ed eroismo.

“Di qui — come è stato osservato a proposito dei disegni della Resistenza — lo stile di quei disegni, uno stile spoglio, secco, nudo, non abile, non ripensato, non prezioso. Uno stile che tende esclusivamente alla brusca evidenza del tratto, all’ele-

mentarità.”!°

I tre artisti partigiani rappresentano tre percorsi di vita e d’arte molto differenti fra loro, uniti, oltre che dalla comune passione civile e democratica, dal carattere

immediato di queste opere in cui, comunque, traspaiono le diversità di temperamento e di formazione dei loro autori. “Neri”, Renato Cenni,” caratterizza i suoi disegni con un segno rapido, nervoso, incisivo, di forza e urgenza espressionista.

“Marcello”, Vittorio Magnani,!5 si esprime nei disegni più meditati con un linguaggio monumentale, di composta solidità plastica. “Pollaiolo”, Nicola Neonato,!? dimostra acutezza descrittiva e profondità psicologica nel cogliere scene corali e ritratti. “Questi disegni nati fra una battaglia e l’altra, fra la gioia della vittoria e il dolore per i compagni caduti, nei casoni pieni di fumo dove entra il vento e l’acqua e dove i partigiani seduti in circolo cantano le canzoni nate sui monti, salvati con le armi dai rastrellamenti, resteranno tra i documenti più importanti della vicenda attraverso la quale un popolo oppresso sta conquistando la sua libertà.”?° La liberazione conclude vittoriosamente una drammatica e dolorosissima vicenda che ha sconvolto interi paesi, società, moltitudini di coscienze. La vittoria dei

partigiani e degli alleati è il segno di una superiorità militare ma, proprio attraverso le straordinarie esperienze qui riassunte, anche di una indiscutibile superiorità umana e culturale.

Triennale, Milano, 1995, pp. 163-164. 17 Renato Cenni (Firenze 1906 - Genova 1977) studia all'Accademia di Belle Arti di Genova e successivamente a Parigi dove risiede dal 1937 al 1943. Dopo la guerra lavora a Roma, viaggia e soggiorna per lunghi periodi all’estero: nel 1954 in Africa, nel 1956 a Panama dove realizza un documentario sulla storia del canale, nel 1958 a Parigi, negli anni Sessanta negli Stati Uniti. Come scrive nelle sue autobiografie, “non partecipa a mostre collettive, premi e concorsi, né appartiene a scuole, gruppi e movi-

menti”. La sua pittura segue l’avvicendarsi di diversi linguaggi: dal realismo di cruda espressività del ciclo delle 12 tele del Calvario (195861) donato al Comune di Genova, all’informale dei primi anni Sessanta, come in Estate (1962),

scelto da Giovanni Arpino

per la copertina del

suo romanzo L'ombra delle colline (Milano,

1964), al ritorno alla denuncia espressionistica ispirata alle immagini — figure, palazzi, muri — della metropoli. Cfr. G. Costa, Renato Cenni Itinerario biografico e artistico, Genova, 1987.

18 Vittorio Magnani (Noceto 1912 - Milano 1994) studia all’Accademia di Brera di Milano con Aldo Carpi. Negli anni milanesi che precedono la guerra rimane estraneo al clima di “Corrente”; la sua pittura resta fedele per gran parte degli anni Cinquanta a un realismo aneora legato al classicismo novecentista. Dopo la guerra risiede a Genova, dove tiene diverse mostre personali. Dalla secon-

da metà degli anni Cinquanta si trasferisce a Mila-

no, dove attraverso un lento

processo si avvicina

alle poetiche dell’informale, da cui si distacca alla fine degli anni Sessanta attraverso una originale interpretazione del costruttivismo astratto. Partecipa alle decorazioni delle navi “Michelangelo” e “Raffaello” (1964), esegue le vetrate per la cupola della cattedrale di La Spezia (1973); fra le numerose mostre è presente alla IX Quadriennale di Roma (1965). Cfr. M. De Stasio, Vittorio Magnani, Salsomaggiore, 1991. 19 Nicola Neonato (Borzonasca 1912) studia pittura all’Accademia Ligustica di Genova e a Venezia, Firenze e Roma. Dopo la guerra insegna al Liceo artistico N. Barabino di Genova. Lasciato l'insegnamento, inizia una notevole attività di affreschista in chiese della Liguria e della Lombardia; affresca la cappella del lager di Dachau. Dagli anni Cinquanta affianca alla pittura una intensa attività di scultore, con una particolare sensibilità

verso i temi religiosi e della Resistenza risolti attraverso il linguaggio della realtà espresso con immediatezza ed energia plastica, senza retorica. Fra le opere: la stele ai Caduti della Pinan Cichero (1966), l’Orzaggio alla Coduri nel Municipio di Sestri Levante (1966), il monumento ai Caduti della Benedicta (1967), il monumento ai Caduti della guerra di liberazione di Novi Ligure (1969) e ai Caduti nei lager nazisti nel cimitero di Staglieno (1970). Vive e lavora a Genova. Cfr. S. Solimano, Ricerche contemporanee tra realtà e codice - Nicola Neonato, in F. Ragazzi (a cura di), Cento anni di scultura a Chiavari fra '800 e ‘900, cat. mostra, Antico Convento delle Clarisse - Quadreria della Società Economica, Chiavari, 1993, pp. 104-108, 178-185.

20 Mostra partigiana, in “Il Partigiano”, cit.

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Partigiani in una via di Brera, Milano

b)

1945 (foto di Tino Petrelli).

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Aspetti e problemi della Resistenza in Europa Enzo Collotti

Problemi storiografici E comunemente recepito nella storiografia il concetto della Resistenza come parte integrante della storia della seconda guerra mondiale. Essa scaturì dal carattere stesso di “guerra totale” che assunse il conflitto; ma fu anche specificamente l’espressione del coinvolgimento nella lotta di ingenti masse di popolazione, al di fuori degli organici di eserciti in misura incomparabilmente più larga di quanto non potesse essere già accaduto nel corso del primo conflitto mondiale. Le motivazioni di questo vasto coinvolgimento di popolazioni civili sono almeno duplici: esse derivarono in primo luogo da un fattore materiale, ossia dall’estensione dei territori che caddero sotto occupazione nemica; e in secondo luogo da un fattore più eminentemente qualitativo, vale a dire politico, che non era la generica spinta a combattere contro un esercito di invasione straniero (una condizione che si può considerare comune a tutti i movimenti di Resistenza, con l’unica eccezione di

1 Avvertiamo subito che, come non esistono lavori recenti complessivi di carattere comparato

sulla politica d'occupazione delle potenze dell'Asse, non esistono neppure studi complessivi analitici sui movimenti di Resistenza, periquali rimangono comunque validi i lavori un po’ invecchiati di H. Michel, un pioniere di questi studi. Tra essi ricordiamo almeno H. Michel, La guerra dell'ombra - La Resistenza in Europa, Milano, 1973. Inoltre G. Vaccarino, Storza della Resistenza in Europa 1938-1945 - I paesi dell'Europa centrale: Germania Austria Cecoslovacchia Polonia, Milano, 1981, e La Grecia tra

Resistenza e guerra civile 1940-1949, Milano, 1988.

quello tedesco, che non a caso proprio per questa particolarità incontrò peculiari condizioni di difficoltà), ma che nasceva dalla risposta delle popolazioni al tipo particolare di occupazione e di dominazione che fu imposto dalle potenze dell'Asse e in modo particolare dalla Germania nazista, in quanto parte egemone dell'alleanza italo-tedesca e promotrice intransigente di un progetto di dominazione continentale europeo.! Senza fare riferimento a questo tipo di dominazione non sarebbero comprensibili né la risposta corale delle popolazioni dei territori occupati né i metodi e la varietà di espressione che assunsero le diverse forme della Resistenza nei diversi contesti nazionali e sociali. Il primo elemento da sottolineare è appunto che la Resistenza dovette fronteggiare i metodi di una dominazione particolarmente severa e spesso spietata, che non mirava soltanto a tenere un territorio in via provvisoria come contingente misura precauzionale per la durata delle ostilità, ma che si presentava come parte di un vero e proprio progetto di destrutturazione

dell’assetto preesistente e di violenta trasformazione di strutture statali, sociali e nazionali, in funzione diretta degli obiettivi strategici e politici delle potenze dell'Asse. In altre parole, l'occupazione di buona parte dell'Europa, dall’Ovest all’Est, fu indissociabile dal tentativo delle potenze dell’ Asse di imporre la creazione di un “nuovo ordine europeo” fondato su principi di gerarchizzazione razziale, nazionale e sociale, che vedevano al culmine della piramide la volontà di dominazione della razza “superiore” del popolo germanico e dei suoi alleati e

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satelliti. Il ruolo subalterno che finì per svolgere l’Italia fascista nel rapporto ineguale con la Germania nazista non ne diminuisce certo le responsabilità né nello scatenamento della guerra d’aggressione né nella condotta delle operazioni belliche. Solo l’impreparazione militare e la minore capacità offensiva impedirono che prevalesse anche nella condotta bellica italiana il carattere di guerra di sterminio che fu sempre più presente nelle operazioni della Wehrmacht quanto più esse erano rivolte contro le popolazioni slave dell'Europa centro-orientale e contro i gruppi minoritari, dagli ebrei agli zingari, contro i quali era stata programmata l’abiezione della “soluzione finale”. L'opposizione all'occupazione e al nuovo ordine europeo assunse pertanto un carattere di estrema ideologizzazione, come componente organica della radicalizzazione dello scontro tra potenze occupanti e popolazioni occupate. questi caratteri, nella contrapposizione tra i due schieramenti, si aggiunse ge-

neralmente un terzo fattore, che contribuì fortemente anch'esso all’ulteriore radicalizzazione della lotta. Quasi dappertutto l’opposizione all'occupazione nazista e fascista si accompagnò a tratti di vera e propria guerra civile (è relativamente recente, per l’Italia, accentuazione del momento della “guerra civile” come parte organica della Resistenza per merito dell’importante opera di Claudio Pavone), per la presenza di forze locali che si prestavano a collaborare con le forze doccupazione, muovendo dalle motivazioni più diverse, e che per questo stesso fatto introdussero nello scontro momenti di violenza e di fanatismo affatto particolari, spesso con una responsabilità specifica di elementi intellettuali che fecero da supporto all’intransigenza razzista e specificamente antisemita della Germania nazista o all’estremismo della crociata antibolscevica.? AI di là di queste prime generalizzazioni e di alcuni caratteri comuni i movimenti di Resistenza ebbero peculiarità particolari a seconda dei diversi contesti nazionali e sociali nei quali si trovarono a operare; non ultima tra queste condizioni fu rappresentata, naturalmente, dalla prassi di volta in volta seguita dalla politica delle potenze occupanti. Fenomeno europeo, la Resistenza ebbe tuttavia forme e obiettivi diversi nell'Europa occidentale e nell'Europa centro e sud-orientale. Dappertutto la Resistenza mirò a contestare l’autorità degli occupanti, ma nell'Europa occidentale essa ebbe prioritariamente la funzione di riaffermare la sovranità e l’autorità dei governi legittimi cacciati dai tedeschi e nella maggior parte dei casi costretti all'emigrazione: fu la sorte del Belgio, dell'Olanda, della Norvegia; diver-

so fu il caso della Danimarca, in cui convissero a lungo occupazione e governo legittimo, fin quando (nell’agosto 1943) i tedeschi furono costretti a constatare l’incompatibilità dell'autonomia del paese rispetto alle necessità dell'occupazione. Ancora diversa e più complessa si presentò la situazione della Francia invasa. Essa fino al novembre del 1942 fu divisa tra una zona gravitante verso il Sud sotto il regime collaborazionista del maresciallo Pétain, la fascia atlantica e la zona settentrionale (Parigi compresa) sotto diretta occupazione tedesca, e un’area esigua (città principale Nizza) sotto occupazione italiana. Dal novembre 1942 l’intero tertitorio francese fu spartito tra gli occupanti e il governo pétainista divenne sempre più loro organo esecutivo. Dopo l’armistizio italiano del settembre 1943 uniche forze occupanti rimasero quelle tedesche. In questo quadro la Resistenza, cui fece appello la Francia libera che si riorganizzava in Inghilterra e nelle colonie sotto la guida di Charles de Gaulle, si rivolse contro gli occupanti ma anche, e con particolare virulenza, contro il regime pétainista, e non soltanto in quanto strumento

della collaborazione con i tedeschi ma soprattutto come protagonista di un processo di trasformazione autoritario, legittimista e tendenzialmente filofascista del regime politico della Terza Repubblica, con una involuzione regressiva tale da mettere in forse i principi di libertà e di uguaglianza della Grande Rivoluzione. Anche in Francia, quindi, lo scontro fu fortemente ideologizzato.4

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2 C. Pavone, Una guerra civile - Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, 1991. ? Rinviamo a E. Collotti, I/ co/laborazionismo con le potenze dell’Asse nell'Europa occupata: temi e problemi della storiografia, “Annali della Fondazione Luigi Micheletti”, vol. 6, Brescia, 1992, pp. 11-43, volume dedicato interamente al collaborazionismo 1939-1945. 4 Senza ricorrere alla citazione dell’enorme letteratura sulla Resistenza francese valga per tutte la sempre valida opera di H. Michel, Les cowrants de pensée de la Résistance, Parigi, 1962, che abbisognerebbe evidentemente di un aggiornamento bibliografico.

Ancora più radicale il movimento della Resistenza si presentò laddove la lotta contro l'occupazione coincideva per ragioni storiche e politiche non soltanto con la lotta per la liberazione dallo straniero e per il ripristino della sovranità nazionale violata ma anche, per eredità della lotta politica tra le due guerre, con la tensione a un cambiamento profondo del sistema politico e dell’assetto sociale. Fu questa, appunto, la situazione nella quale venne a trovarsi l'Europa centro e sud-orientale, che tra le due guerre mondiali non aveva conosciuto, salvo che in

Cecoslovacchia, un reale processo di democratizzazione, ma solo regimi dittato-

riali e semidittatoriali i quali avevano alimentato odi nazionali e razziali (in parti-

colare l'antisemitismo), su cui fecero leva gli occupanti nazisti e fascisti per dividere ulteriormente le compagini etniche e nazionali dei territori invasi. In particolare in Polonia, certo l’area sottoposta alle prove più devastanti del laboratorio nazista, in Jugoslavia, in Grecia, i movimenti della Resistenza (che furono tutti attraversati da profondi conflitti interni anche in corrispondenza alla contrapposizione di interessi tra le grandi potenze alla cui influenza i diversi spezzoni della Resistenza si richiamavano) si facevano protagonisti non solo dell’insurrezione contro lo straniero ma di un progetto di cambiamento politico e sociale ben più complessivo. Essi infatti miravano a contestare la legittimità storica dei regimi

prebellici e soprattutto a minarne l’autorità e la pretesa di continuare a rappresentare I rispettivi popoli e di riassumerne la guida dopo la guerra. Sotto questo profilo imovimenti di Resistenza rappresentavano anche l’ambizione di proporre, talvolta sperimentandoli nel corso stesso della lotta, nuovi modelli per la soluzione di antichi problemi sociali (in particolare per quanto riguardava le riforme agrarie) o della stessa questione nazionale (fu questo soprattutto il tentativo di federazione delle nazionalità compiuto in Jugoslavia dal movimento partigiano capitanato da Tito contro il secessionismo di serbi o croati fatalmente rigettati a ricercare nelle forze d’occupazione il sostegno al proprio particolarismo).? Ancora diversa si presentò, infine, la problematica della Resistenza nei territori

> Fondamentali per la Jugoslavia i contributi di vari autori raccolti nel volume Les systèmzes d’occupation en Yougoslavie 1941-1945, Belgra-

do, 1963, e per un caso esemplare, quello croato, almeno lo studio di L. Hory, M. Broszat, Der kroatische Ustascha-Staat 1941-1945, Stoccarda, 1964.

6 L’opera fondamentale sulla politica d’occupazione tedesca preliminare per comprendere anche le reazioni delle popolazioni dei territori sovietici occupati rimane A. Dallin, Gerzzan Rule in Russia 1941-1945 - A Study of Occupation Policies, Londra - New York, 1957.

occupati dell’Unione Sovietica. Qui la Resistenza non si sviluppò generalmente in autonomia dal governo legittimo, tanto meno poi contro di esso, come era potuto avvenire in altri paesi dell'Europa centro o sud-orientale. La Resistenza fu organizzata dalle stesse autorità sovietiche e dalla centrale operativa dell’Armata rossa. Prima ancora che politica fu questa una scelta determinata dalle caratteristiche stesse delle operazioni militari; il fatto, per esempio, che nella loro rapida avanzata delle prime settimane le forze tedesche si lasciassero alle spalle grossi contingenti dell’Armata rossa che controllavano estese aree rese possibile usare questi reparti come veri e propri cunei inseriti nel dispositivo militare tedesco; in questo la dirigenza sovietica poté fare leva non soltanto sullo spirito patriottico contro l’invasione straniera ma anche sulla necessità di opporsi per la sopravvivenza stessa a un nemico che conduceva una vera e propria guerra di sterminio. Ciò naturalmente non escluse che si manifestassero, soprattutto in regioni periferiche e animate da forte spirito di autonomia nazionale e di separatismo (per esempio in Ucraina), rilevanti tendenze centrifughe. Queste ultime potevano dare alla Resistenza anche finalità non coincidenti con quelle dell’Armata rossa, nel senso che non miravano alla preservazione e al consolidamento del sistema sovietico, o a sfociare addirittura nell’incoraggiamento a forme di collaborazione con i tedeschi nella speranza di realizzare vecchie aspirazioni separatiste, che peraltro non incontravano neppure il favore degli occupanti, i quali non avevano nessuna intenzione di rispettarne le aspirazioni ma soltanto di strumentalizzarle per meglio conseguire l’obiettivo di disgregare l'Unione Sovietica.9 La tipologia dei movimenti di Resistenza sin qui illustrata consente di porre il problema se e in quale misura si possa parlare di stretta contiguità fra la tradizione dell’antifascismo degli anni Venti e degli anni Trenta e l’esperienza della Re-

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sistenza nel corso della seconda guerra mondiale.” Spesso è stata accentuata la continuità tra antifascismo e Resistenza per quanto riguarda quella italiana, quasi che la Resistenza fosse il necessario sbocco del movimento antifascista. Per quanto alle origini della Resistenza vi siano state indubbiamente anche la presenza del patrimonio politico e culturale dell’antifascismo e la presenza fisica di esponenti formatisi alla lotta attiva contro il fascismo (in particolare attraverso la partecipazione alla guerra di Spagna), bisogna considerare che l’esperienza della Resistenza italiana non è generalizzabile ad altri contesti, se non altro per il fatto che essa pervenne a maturazione solo dopo la caduta del regime fascista. Essa fu, a parte il caso della Germania, l’unico esempio in cui la Resistenza si sviluppò sulla base di una tradizione antifascista legata alla presenza del fascismo al potere. Ma anche nel caso italiano la Resistenza non fu una semplice continuazione con altri mezzi dell’antifascismo tradizionale. Essa fu legata anzitutto a fattori anche generazionali nuovi; senza la crisi della sconfitta militare del paese gettato in guerra dal fascismo e senza la presa di coscienza di una generazione nuova, senza soprattutto l'occupazione tedesca dell’Italia per reazione all’armistizio del 1943 che spinse un grande numero di militari sbandati e di giovani decisi a sottrarsi alla cattura o all’arruolamento per il lavoro da parte dei tedeschi, la Resistenza non avrebbe assunto le dimensioni che ebbe. Il suo processo di politicizzazione, al di là dell’istanza elementare e originaria di ribellarsi all'occupazione tedesca, fu un processo lento, graduale, quello che ha trovato la sua migliore espressione letteraria nei racconti partigiani di Fenoglio, i cui protagonisti non sono gli eredi naturali dell’antifascismo di sempre, gli eroi stilizzati di una ininterrotta battaglia contro il fascismo, ma le nuove leve di una posteriore presa di coscienza. Se questo si può dire per la situazione italiana, a maggior ragione si deve sottolineare per il resto d'Europa il carattere non meccanico, non automatico dell’influenza dello spirito antifascista. Esso fu certo presente in quadri politici della Resistenza francese o di altri contesti che avevano vissuto l’esperienza del Fronte popolare e della guerra di Spagna, ma fu largamente estraneo al carattere di altri movimenti, in cui il coinvolgimento di larghe masse, uomini e donne, giovani e anziani, fu strettamente associato alla natura dell’occupazione nemica, che pose il più delle volte le popolazioni, più che dinanzi a opzioni ideologiche, dinanzi a elementari alternative esistenziali, alla lotta per la sopravvivenza pura e semplice. Forme della Resistenza La simultaneità con la quale, dopo i mesi iniziali di attesa e di sbandamento, i movimenti di Resistenza si trovarono a operare quasi dappertutto nell'Europa

invasa, e con maggiore vigore dopo che nel giugno 1941 l’aggressione nazista all’Unione Sovietica accelerò la mobilitazione della partecipazione dei comunisti, non deve fare pensare a una omologazione dei diversi movimenti né dal punto di vista delle loro motivazioni, né dal punto di vista delle forme e delle modalità della lotta. Spesso si è usata la distinzione a grandi linee tra Resistenza attiva e Resistenza passiva per designare i nuclei minoritari che formarono in certo senso l'avanguardia, la parte trainante del movimento, e rispettivamente la base di consenso senza la quale i primi non avrebbero potuto né sopravvivere né operare.

Anche questa distinzione risulta tuttavia insufficiente a definire la molteplicità dei comportamenti che animarono individui e collettività. Sicuro è che la Resistenza fu essenzialmente un moto collettivo, sia che si manifestasse nelle forme

della lotta armata (anch’essa articolata in una molteplicità di tipologie, dal maquis francese al modello operativo delle formazioni jugoslave o polacche, all’associazione di lotta armata e lotte di massa tipica della Resistenza italiana), sia che si faccia riferimento alle molte forme della partecipazione di civili. Non si tratta di stabilire alcuna gerarchia tra le diverse forme attraverso le quali

Nonostante la forte continuità con l’antifascismo sottolineata nella sua opera, il primo ad accentuare la cesura provocata dalla guerra e la formazione di nuovi stati d'animo destinati a sfociare nella Resistenza fu R. Battaglia, Sforza della Resistenza italiana, Torino, ed. 1964, pp. 36 sgg., con l'introduzione del concetto dell’“antifascismo di guerra”.

fu praticata la Resistenza. La rivendicazione avanzata con forza di recente dal Sémelin di una Resistenza condotta senza le armi, con una formulazione che tende a definire la Resistenza come una forma di disobbedienza civile,8 non modifi-

ca la fenomenologia già nota delle manifestazioni della Resistenza ma invita ad approfondire la vasta gamma degli atti individuali e collettivi di cui si sostanziò il comportamento di intere collettività nei confronti dell'occupazione. Non si può considerare attiva soltanto la Resistenza che sfociò in gesti di lotta armata; la stessa lotta armata non sarebbe stata possibile senza il supporto di un consenso assai più largo di quello dei suoi diretti protagonisti e soprattutto senza la predisposizione di una serie di iniziative e di comportamenti che crearono le premesse della sua realizzabilità. A sua volta una Resistenza “civile”, ossia condotta senza neces-

sariamente l’uso delle armi, conobbe una vasta gamma di possibilità che non erano qualitativamente in nulla inferiori ai gesti di azioni in armi. Dappertutto, si può dire, il presupposto della Resistenza come fatto collettivo fu l'isolamento morale nel quale le popolazioni spinsero le forze d'occupazione, facendo il vuoto intorno a esse. Fu questo il primo e più istintivo degli atteggiamenti con cui si espresse l’estraneità delle popolazioni, prima ancora che ai disegni e agli obiettivi, al mondo morale degli occupanti. Già in questo primo momento la contrapposizione di valori si segnalava come un fondamentale spartiacque che divideva le due parti in lotta. Nei più diversi contesti politici e sociali la stampa clandestina, che dappertutto assolse a una insostituibile funzione di propaganda ma anche di educazione civile e di comunicazione, stabilendo quella rete segreta di contatti senza la quale sarebbe stata impossibile la formazione di un comune sentire, rappresenta una delle fonti più significative per saggiare gli stati d’animo e le scelte al limite dell’assoluto, con la forza dell’odio piuttosto che della fede, che furono all’origine dell’invalicabile barriera che si creò tra il mondo degli oppressori e quello degli oppressi. Analogamente, se si interroga quell’altra fondamentale fonte che è la raccolta delle Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, ci si rende conto come, al di là di esperienze religiose, di origini nazionali, di radici sociali,

8 Si tratta di J. Sémelin, Senz'armi di fronte a Hitler - La Resistenza civile in Europa 19391943, Torino, 1993: la periodizzazione adottata viene motivata dall’autore in base al fatto che dopo Stalingrado anche la qualità della Resi-

stenza assunse una dimensione nuova, privilegiando il momento delle lotta armata. ? Ci riferiamo alla raccolta a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli, con prefazione di Thomas Mann, Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Torino, 1954, da integrare con altre analoghe raccolte, tra le quali, sempre a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli, con prefazione di E. Enriques Agnoletti, Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, Torino, 1952, e

Messaggi dei condannati a morte della Resistenza sovietica, Milano, 1974.

!0 Mancano studi generali sul fenomeno in sé della stampa clandestina; esistono nei diversi

paesi studi particolari e antologie di testi, quali, per esempio per l’Italia il libro di D. Tarizzo, Come scriveva la Resistenza - Filologia della stampa clandestina 1943-1945, Firenze, 1969.

prevale il senso di una comune umanità che è quella in nome della quale è fissato il confine nei confronti dell’occupante e dei valori che esso rappresenta. L’appello alla vita che emana da questi documenti, proprio nel momento della massima distruttività imposta dall’oppressione, è forse la lezione più importante che possiamo trarre da essi.? La stessa tradizione letteraria coltivata negli anni della Resistenza, che trovò talvolta espressione nella stampa clandestina, cui non a caso

prestarono la loro opera numerosi intellettuali, ha privilegiato il motivo dell’isolamento dell’occupante, singolarmente capace, per il gioco delle atmosfere e delle allusioni, di ricreare il senso di una distanza che al di là delle persone segnava il confine tra due sfere morali. Sotto questo profilo il documento letterario più autentico di quel momento rimane sempre il bellissimo racconto di Vercors I/ silenzio del mare che uscì sin dal 1941 nelle clandestine Editions de Minuit. Redigere, stampare, distribuire la stampa clandestina non era meno importante né meno pericoloso che compiere atti di sabotaggio, attentati o azioni armate.!° Nei contesti in cui mancò la visibilità estrema della lotta armata il significato della stampa clandestina (in Danimarca o in Olanda) è ancora più rilevante che altrove. E vero che essa non poteva avere alcuna regolare periodicità (su alcune testate italiane si legge “esce quando e come può”), né contare su alte tirature, né raggiungere cerchie troppo larghe di destinatari, ma la sua presenza, sia nella forma più assimilabile al modello giornalistico, sia in veste di volantino (talvolta addirittura senza parole: bastava un disegno o un fotografia), rappresentava comunque, pur nella sua anonimità, un punto di riferimento, un segno di rassicurazione. Essa fu uno strumento fondamentale di orientamento ma anche di informazione

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spesso nelle condizioni estreme. Si pensi alla produzione di stampa clandestina nei ghetti, ma anche e proprio durante l'insurrezione del ghetto di Varsavia, per citare uno dei casi limite.!! Se si facesse un censimento della stampa clandestina per tutti i paesi europei ci si avvedrebbe che si ha a che fare con migliaia e migliaia di voci tra testate di giornali, riviste, volantini e veri e propri libri stampati alla macchia: uno strumento insostituibile per la conoscenza degli ideali che ispirarono i diversi movimenti della Resistenza ma anche per identificare quello che fu uno dei loro caratteri comuni più riconoscibili: ossia la consapevolezza della inscindibilità della sorte dell'Europa, non un messaggio europeistico di maniera, ma il risultato di un’esperienza storica e della lotta in divenire per la sopravvivenza di fronte alla barbarie del fascismo e del nazismo. L’idea di Europa veniva identificata così con un ideale di liberazione dall’oppressione e dalla paura e associata a un'ipotesi di cambiamento politico e sociale, nel rispetto della dignità nazionale dei popoli offesi dall’oppressione del nuovo ordine europeo e del principio di autodeterminazione che i popoli stavano affermando con la loro partecipazione diretta alla lotta. Naturalmente, un messaggio che non poteva essere astratto dal contesto dei rapporti tra le potenze, anche tra le stesse potenze della coalizione antifascista e antinazista, e che quindi non poteva non risentire anch’esso delle tensioni e dei conflitti di interesse tra le potenze. Una problematica, questa del rapporto tra le potenze della coalizione antinazista e imovimenti di Resistenza, che qui è possibile soltanto richiamare ma non approfondire come sarebbe opportuno e necessario.!: Non si può dimenticare infatti che in determinate situazioni — certamente in Grecia, inJugoslavia, in Polonia, per citare i casi più rilevanti — i conflitti interni che divisero i movimenti di Resistenza, e che influirono in modo determinante

sui loro esiti e sulle prospettive dei rispettivi paesi anche al di là della liberazione, non furono frutto unicamente di scelte autoctone ma anche il riflesso di conflitti esterni tra le potenze e della proiezione nei singoli contesti nazionali dei condizionamenti derivanti dal gioco degli equilibri internazionali. Per tornare alla fenomenologia della Resistenza occorre ricordare che pressoché dappertutto essa fu il risultato dell’associazione di episodi di lotta armata — dove più accentuata in forme di vera e propria attività operativa, dove in forme prevalentemente di guerriglia 0, a un livello più circoscritto, di terrorismo — e di manifestazioni collettive di altra natura. Spesso si espresse in forme prevalentemente passive di sottrazione a obblighi imposti dalle autorità d'occupazione e dai loro collaboratori: quasi dappertutto in Europa il reclutamento per il lavoro a favore del Terzo Reich (in loco o direttamente in Germania) ebbe come risposta una forma di renitenza di massa; le popolazioni si sottraevano all’obbligo imposto dagli occupanti, non collaboravano, ma spesso erano costrette a passare a forme di opposizione attiva proprio per salvare la loro libertà di scelta. Per esempio, nell'Italia occupata dai tedeschi con il sostegno dei collaborazionisti fascisti di Salò, il tentativo di imporre il reclutamento per il lavoro o per le forze armate neofasciste si convertì quasi sistematicamente in un incremento delle forze partigiane: per chi non voleva collaborare con i tedeschi spesso non era sufficiente la ricerca di un rifugio precario, ma prendere la via della montagna significava automaticamente aggregarsi alle forze della Resistenza. Tra i movimenti collettivi che si dispiegarono in questi anni in Europa vanno segnalate almeno le astensioni dal lavoro che scossero alcune delle maggiori concentrazioni operaie come pure i movimenti di solidarietà a favore degli ebrei perseguitati. Gli scioperi di grandi masse di lavoratori, operai dell’ industria, lavoratori dei trasporti, ebbero risonanza particolare se non altro per la loro visibilità, dalla Francia all’Olanda, all'Italia, anche in altri contesti seppure con minore evidenza. Essi trassero origine da motivazioni diverse: furono veri e propri atti di

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1! Cfr. ad esempio P. Malvezzi, Le voci del ghetto - Varsavia 1941-1942 - Antologia della stampa clandestina ebraica, Bari, 1970. 2 Per una impostazione di questa problemati-

ca, che andrebbe aggiornata sulla base di posteriori studi sulle singole situazioni, si vedano comunque gli atti del convegno internazionale su La Resistenza europea e gli alleati, Milano, 1962

(a cura dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia).

sabotaggio dell’economia di guerra; strumenti di difesa del salario, dei livelli alimentari e del posto di lavoro, vere e proprie espressioni di lotta di classe anche nelle condizioni dell'occupazione; forme di protesta contro misure degli occupanti, per esempio contro deportazioni di lavoratori e in segno di solidarietà con

i deportati. Si trattò di una grande varietà di comportamenti, la cui maggiore o minore rilevanza per l’occupante derivava dalla loro estensione ma anche dal fatto che si trattasse di manifestazioni isolate, episodiche, o di manifestazioni inseri-

te in un ciclo di lotte o associate ad altre forme e modalità della Resistenza. Meno visibili erano le forme di solidarietà che con modalità molteplici furono espresse in quasi tutti gli ambiti nei confronti di categorie di perseguitati.! Meno visibili anche perché in genere esercitate individualmente, seppure in forme spesso mutuate dalla tradizione di solidarietà del movimento operaio. Sicuramente, oltre ai prigionieri di guerra alleati sfuggiti alla cattura o alla cattività e ai membri di reparti partigiani che incontravano aiuto e rifugio presso le popolazioni non direttamente coinvolte in attività clandestine, la categoria di perseguitati che incontrò maggiori aiuti fu quella dei perseguitati razziali, anche se le forme di solidarietà prevalentemente individuali prestate non potevano essere idonee a far cessare la persecuzione. Soltanto una ribellione di massa avrebbe forse potuto indurre i nazisti a desistere dalla deportazione e successivamente dallo sterminio fisico degli ebrei. Ciò nonostante l’aiuto prestato da persone fisiche o da comunità religiose agli ebrei perseguitati fu sicuramente di alto rilievo morale, anche in considerazione dei rischi che esso comportava. Basta ricordare il Diario di Anna Frank per rendersi conto che, senza l’aiuto di persone più o meno anonime che rifornivano dall’esterno e di nascosto gli abitanti del nascondiglio segreto, neppure la famiglia Frank avrebbe potuto sottrarsi alla persecuzione nei mesi che precedettero la scoperta del suo rifugio. Anche in Italia istituzioni religiose (specie nella cerchia della città di Roma) rappresentarono un rifugio per ebrei e politici perseguitati. Parecchie testimonianze dai ghetti della Polonia ci dicono come ebrei che fuggivano dal ghetto di Varsavia trovassero la salvezza nella parte “ariana” della città grazie alla complicità di non ebrei: ma si trattò pur sempre di casi, per quanto numerosi, limitati, anche se proprio per questo tanto più significativi,

perché implicavano rischi che i più non intendevano correre. Scarse furono viceversa le manifestazioni visibili di questa solidarietà: il gesto dei lavoratori dei trasporti olandesi che scesero in sciopero per bloccare i convogli della deportazione degli ebrei rimase un gesto isolato ma proprio per questo particolarmente rilevante, al pari di quello dei poliziotti danesi che si rifiutarono di procedere alla deportazione e che per questa ragione furono essi stessi deportati nei campi di concentramento nazisti.

13 Si vedano in proposito le considerazioni in ]. Sémelin, op. cit., pp. 48-54. 14 Se ne veda il testo in M. De Micheli (a cura di), 21 poeti bulgari fucilati, Milano-Roma,

1960, p. 78.

Intellettuali nella Resistenza Il ruolo che intellettuali e artisti svolsero nella Resistenza dappertutto in Europa non fu legato soltanto al naturale impegno nella stampa clandestina piuttosto che in altre attività loro particolarmente congeniali. “I poeti saranno tutti presi / a scrivere rime di propaganda, / ma la nostra angoscia non scritta / vagherà solitaria nello spazio”, lasciò scritto il poeta bulgaro Nicola Vazparov prima di essere fucilato.!4 E Giaime Pintor, nella sua ultima lettera prima di saltare su una mina tedesca, ebbe a teorizzare la necessità per gli intellettuali di passare all'impegno politico diretto nella fase cruciale in cui la guerra sembrava dovesse ferire a morte la civiltà europea: “A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento [...]. Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riesco-

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no quando le preparano i‘poeti e i pittori, purché ipoeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte.”!5 In uno dei primi numeri de “L’Italia Libera”, organo clandestino del Partito d’azione, si trova un apparentemente curioso Appello agli artisti che in realtà è l’appello non a una corporazione ma alla “responsabilità educatrice dell’artista”, come uno dei momenti essenziali di una mobilitazione e di una rigenerazione morale, di un recupero di dignità contro la corruzione, gli egoismi e i silenzi che avevano caratterizzato la tirannide fascista.!6 Spigolando nelle testimonianze dell’epoca sarebbe dunque facile rintracciare la consapevolezza del ruolo che in una lotta per la civiltà spettava agli uomini di cultura. Ma quello che preme sottolineare qui è che, anche indipendentemente da questa consapevolezza, il ruolo e l’impegno della cultura e dell’arte erano sollecitati direttamente dalle caratteristiche stesse del conflitto e della posta in palio. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che una delle caratteristiche del nuovo ordine europeo di marca nazista doveva consistere nella degradazione culturale delle popolazioni considerate inferiori e destinate a essere sottomesse. È stato fatto ripetutamente riferimento negli studi all’opera di saccheggio e di rapina di patrimoni culturali e di opere d’arte che reparti ed esperti nazisti realizzarono nei territori invasi. Spesso però se ne è parlato come se si fosse trattato unicamente

di un atto privato di rapina allo scopo di impinguare il bottino personale dei satrapi nazisti, da quelli particolarmente rapaci come Gòring a quelli ideologicamente più intransigenti come Rosenberg. Questo elemento era indubbiamente presente, ma l'operazione era comunque più complessa, come risulta anche dallo studio più recente portato a termine dalla storica dell’arte americana Lynn H. Nicholas.!” Il pregio del suo studio mi pare proprio quello di non cogliere unicamente gli aspetti del danno materiale che l’incetta di oggetti artistici praticata dai tedeschi avrebbe inflitto ai patrimoni nemici, ma di sottolineare i presupposti e le implicazioni culturali che erano alla base di quella incetta. Il vero e proprio “ratto d'Europa” consisteva infatti nella volontà di stabilire una gerarchia culturale simmetrica alla gerarchia razziale e nazionale e di condannare al saccheggio e all’estinzione i prodotti di culture considerate inferiori. I popoli furono espropriati dei loro patrimoni culturali anche in altre forme non meno violente della distruzione fisica. L’offesa all’identità culturale di popolazioni delle quali si volevano negare il diritto di esistere e l'identità nazionale conobbe anche altri stratagemmi: il più sottile fu forse quello di negare l’origine autoctona di artisti e di opere d’arte che si fossero trovati o fossero stati prodotti nei secoli passati in territori all'incrocio tra civiltà germanica e culture slave, con lintento di annettere alla cultura germanica, appunto mediante una massiccia “germanizzazione”, il numero maggiore possibile di opere che recassero tracce di questo incrocio. Il razzismo nell’arte era figlio dello stesso razzismo biologico e della stessa mistificazione ideologica ultranazionalista. Da questo punto di vista le vicissitudini dell’altare mariano di Veit Stoss asportato da Cracovia non sono che uno degli esempi più eloquenti della manipolazione culturale che si accompagnò alla spoliazione materiale.!8 In altri casi esse erano funzionali all’arricchimento patrimoniale del Reich, come nell’ipotesi del costituendo museo d’arte di Linz, che nei progetti magniloquenti e provinciali insieme di Hitler doveva diventare sede di una delle più importanti raccolte d’arte del continente: la sua creazione e le sue dotazioni dovevano essere realizzategrazie alla rapina, a livello appunto continentale, di opere di rinomanza mondiale chegli uomini di apposite équipes alle dipendenze di Rosenberg, di Gòring, di Goebbels e di Himmler dovevano rastrellare nei musei pubblici e nelle collezioni private dell’intera area occupata.!?

Direttori di musei e storici dell’arte tedeschi non negarono la loro collaborazio-

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> Dalla raccolta di scritti di G. Pintor, I/ sangue d'Europa (1939-1943), a cura di V. Gerratana, Torino, 1950, p. 247. 16 Da “L'Italia Libera”, n. 4, 27 luglio 1943, p. 2. !7 Si tratta dell’opera di L.H. Nicholas, Der Raub der Europa - Das Schicksal europaischer Kunstwerke im Dritten Reich, Monaco 1994. Ma non dobbiamo dimenticare il pionieristico lavoro di H. Brenner, La politica culturale del nazismo, Bari, 1963, con prefazione di R. Bian-

chi Bandinelli. !8 L'episodio, come tanti altri, è stato ripetutamente ricostruito negli studi, da ultimo in L.H. Nicholas, op. cit., pp. 84-85 e passim. !? In proposito cfr. E. Kubin, Sonderauftrag Linz Die Kunstsammlung Adolf Hitler - Aufbau, Vernichtungsplan, Rettung, Vienna, 1989.

ne, in una vera e propria polizia artistica destinata all’epurazione delle opere d’arte da asportare per gli interessi privati del Fiihrer e di altri gerarchi nazisti o per la gloria del Grande Reich. L’aspetto non meramente predatorio di questa epurazione, ma finalizzato alla distruzione dell’altrui identità, fu particolarmente

evidente nell’attività di una delle più importanti creature di Rosenberg, ideologo nazionalsocialista e dottrinario teorico del razzismo e dell’antibolscevismo, l’Einsatzstab Rosenberg, un gruppo d’impiego speciale costituito nell'estate del 1940 con il compito di sequestrare in archivi e biblioteche pubblici e privati i documenti considerati nocivi per i tedeschi o che, al contrario, potessero essere loro utili per diffamare e combattere i loro avversari.2° In questo quadro rientrava ad esempio il sequestro dei patrimoni culturali ebraici, che dovevano da una parte documentare l’eterno complotto ebraico contro la Germania e dall’altra fornire i materiali che agevolassero ai tedeschi la conoscenza del mondo e della vita ebraici per favorirne la lotta contro di essi. Così come i sequestri a opera degli uomini di Rosenberg dovevano servire a cancellare le tracce della cultura ebraica, anche la spoliazione delle opere d’arte doveva contribuire a privare i patrimoni culturali nazionali delle orme più significative del loro passato. Con la scusa di riappropriarsi di opere che in un passato non ben determinato avevano fatto parte di collezioni d’arte tedesche gli uffici nazisti misero in movimento un immane spostamento di opere d’arte e un mercato il cui contenzioso non è ancora spento, come provano le più recenti polemiche sulla restituzione alla Germania unita di opere d’arte a suo tempo trasportate in territori dell'odierna Russia quale bottino di guerra. Né infine va dimenticato che la gestione che i tedeschi fecero delle opere d’arte nei territori occupati non andò esente dall’estensione di categorie concettuali e di giudizio che già erano state applicate all’interno del Terzo Reich, con particolare riguardo alle correnti e alle opere che erano state oggetto della diffamazione e della condanna della cosiddetta “arte degenerata”. A questo proposito va sicuramente ricordata, tra le vere e proprie manifestazioni iconoclaste intraprese dagli occupanti, la distruzione di centinaia di tele e di opere grafiche operata nella Parigi occupata il 27 maggio 1943 con il rogo del Jeu de Paume, che vide l’annientamento di opere di Picasso, Klee, Ernst, Léger, Mirò...2!

Naturalmente la vita artistica nei territori occupati non fu determinata unicamente da questa dimensione distruttiva; in Francia, oltre a cercare di imporre

20 H, Brenner, op. cit., pp. 268 sgg. e successiva-

mente L.H. Nicholas, op. cit. 21 In proposito la testimonianza diretta di R. Val. land, Le front de l'art, Parigi, 1961, pp. 178 sgg. 22 L'espressione è di L. Bertrand Dorleac, Hzstoire de l'art - Paris 1940-1944 - Ordre national, traditions et modernités, Parigi, 1986, pp. 127 Sgg8.

anche il proprio modello estetico attraverso l’esibizione della scultura accademica e monumentale di un Arno Breker, gli occupanti dovettero tollerare o subire l’esistenza di “une vie artistique parallèle”, secondo l’efficace definizione di un’attenta studiosa del periodo.?2 Una “vita parallela” che non si riferiva soltanto ai modelli dell’arte nazista, ma che attraversava anche le contrapposizioni interne al mondo artistico e politico parigino, tra fautori e avversari della collaborazione con la Germania, nel campo estetico come in quello della lotta contro gli ebrei. L’accostamento non sembri improprio né sproporzionato: senza poter entrare qui nei dettagli delle polemiche che accompagnarono gli eventi artistici nella Parigi occupata, non bisogna infatti dimenticare che i fautori del ritorno all'arte tradizionale come a un’arte autoctonamente francese erano gli stessi che avversavano il “meticciato nell’arte”, che denunciavano la decadenza e la degenerazione del cosmopolitismo e che quindi rappresentavano l'equivalente francese dei fautori nazisti del “Kulturbolschewismus”. Anche questo un esempio interessante di quanto lo spirito filofascista e filonazista fosse diffuso e introiettato in Europa e contribuisse per parte sua alla fissazione di quello spartiacque lungo il quale si sarebbero assestati i due fronti contrapposti. Certamente la situazione francese negli anni dal 1939 alla liberazione offre uno degli osservatori più contraddittori. Se già complessa risulta la vicenda interna

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del regime di Vichy e la dialettica stessa del collaborazionismo, nei suoi due poli della pétainista “collaboration d’Etat” e del vero e proprio collaborazionismo ideologico filonazista dei gruppi oltranzisti parigini, non meno complessa fu la situazione del paese anteriormente all’armistizio del giugno del 1940, allorquando il governo francese mise in campo di concentramento migliaia di rifugiati antifascisti e antinazisti, ex combattenti di Spagna, antifascisti italiani e antinazisti tedeschi e austriaci, molti dei quali ebrei, considerati semplicemente cittadini stranieri e per lo più appartenenti a paesi in guerra con la Francia. La loro odissea

fu particolarmente amara e toccò anche le assurdità non solo burocratiche che sono state immortalate da Feuchtwanger in una delle più brucianti testimonianze di quest’epoca.?4 Un rilevante numero di scrittori e di artisti (si parla di una cinquantina di pittori) finì nei campi di concentramento della Francia meridionale, il più importante dei quali a Les Milles nei pressi di Aix-en-Provence. Vi passarono fra gli altri Max Ernst, Hans Bellmer (che rimase anche tra i più prolifici illustratori di quel periodo), Ferdinand Springer (anch'egli ha lasciatoi importanti documenti grafici della prigionia), Robert Liebknecht ecc. La loro sorte, già precaria e alla mercé della burocrazia francese, divenne ancora più incerta dopo l'armistizio del 1940, che imponeva alla Francia di consegnare alla Gestapo gli emigrati tedeschi. Molti di essi finirono infatti nelle mani degli occupanti. Altri riuscirono a sottrarsi alla consegna vivendo alla macchia; i più fortunati riuscirono alla fine a lasciare il suolo francese grazie all'attività di salvataggio che nella Babele marsigliese fu organizzata con le forze riunite di clandestini e di organizzazioni di soccorso ebraiche e americane. È un capitolo oscuro della politica francese, su cui i primi studi incominciano a fare luce mettendo in evidenza la contraddittorietà dei comportamenti delle autorità francesi e i paradossi dell’ospitalità ai rifugiati antinazisti.?? Dopo l’armistizio del 1940 il problema del salvataggio dei perseguitati non riguardava più comunque soltanto gli emigrati, ma in primo luogo— dopo le prime misure antisemite del governo Pétain, che precedettero le stesse richieste tedesche — tutti gli ebrei e coloro che non erano disposti a collaborare. Fu così che rifugiati e perseguitati poterono contare sull'aiuto dell’Emergency Rescue Committee creato da accademici e intellettuali statunitensi per procurare i passaporti e i visti d’ingresso per gli Stati Uniti, dei quali poterono profittare, fra gli altri, M. Ernst, M. Jacob, M. Lingner, J. Lipchitz, A. Breton, A. Masson e lo stesso Chagall, costretto a fuggire da Parigi.29 Se Picasso e Matisse, fra gli altri, rimasero a Parigi e continuarono a lavorare nella semiclandestinità, la maggior parte di coloro che riuscirono a raggiungere l'America continuarono a dare testimonianza con la loro opera della scelta di campo a favore della coalizione contro le potenze dell'Asse. Si ripeteva la sorte degli emigrati della prima ondata, quella immediatamente successiva all’avvento al potere del nazismo, nel 1933. La Resistenza come autodifesa culturale

Se dalle vicende della Francia ci volgiamo alle altre parti dell'Europa invasa ci rendiamo facilmente conto del livello di coinvolgimento che la politica degli occupanti sollecitava nelle popolazioni. Beninteso, non si tratta di omologare ogni comportamento ad atti di Resistenza, che vi furono, e numerosi, ma che non furono né generali né totalie e spesso soltanto arene in quanto non collaborazione con i nemico dominatore più che

espressione immediata di ostilità nei suoi confronti. In alcune aree le espressioni di una Resistenza furono particolarmente precoci. Esse assunsero ben presto le forme dell’autodifesa a opera di minoranze culturali in ragione diretta dell’obiettivo dell’occupante di annullare l’identità culturale e nazionale dei suoi abitanti. Tale fu certamente il caso della Cecoslovacchia, il cui smembramento ebbe inizio

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sa Tra ;molti studi essenziali: RO.

Paxton, La

France deVic by 1940-1944, Parigi, 1973, eP.Om, lari borateurs 1940-1945, Parigi, 1976 In LF cuchiaanger, Der Teufel în Frankreid - Ein Erlebnisbericht, Monaco - Vienna, 1983, me xla prima qa zione apparve nel 1942

° Ctr. per tutti A. Fontaine, Ur camp de con centration a Aix-en-Provence? Le camp d’étran gers des Melles 1939 1943. prefazione dì A. Grosser, Aix-en-Provence, 1989 °° La testimonianza del responsabile dell’opera zione > Sa ataggio è in V. Fry, Awuslreferung auf Ve n - Die Rettung deutscher Emigran straLAY.seille 1940Monaco - Vienna, 1986. (nuova pra ione ade memorie dì V. Fry originariamente apparse in America nel 1945),

dopo il patto di Monaco del 1938 e soprattutto dopo l’invasione del marzo 1939 in violazione degli stessi accordi di Monaco. Dopo la secessione della Slovacchia,

destinata a diventare null’altro che un satellite del nazismo, l'annessione diretta al Terzo Reich del Protettorato di Boemia e Moravia, come subalterna area colo-

niale, lasciava ben scarse possibilità di autonomia e soprattutto ben scarse prospettive per il futuro alla sua popolazione. Sin dal novembre 1939 furono gli studenti a farsi interpreti della volontà di non capitolare e a diventare il simbolo della lotta per la conservazione dell’identità nazionale. L'attacco portato alla cultura nazionale ceca, alle sue istituzioni scolastiche ed educative, alle sue istituzio-

ni teatrali e musicali, assunse presto le forme di una sistematica distruzione della cultura nazionale. Alle prime manifestazioni studentesche fecero seguito la chiusura delle università e la loro trasformazione in sedi di diffusione della cultura germanica; già nel novembre 1939 il governo emigrato del presidente Benes denunciava da Londra gli atti di violenza e il primo eccidio di studenti universitari, l’arresto e l’uccisione di docenti universitari. E quasi subito dopo l’invasione era incominciata la persecuzione degli ebrei, la loro segregazione civile e la loro spoliazione.?” Julius Fucik, scrittore, critico letterario e saggista, redattore della stampa comunista, impiccato nel 1943, ha lasciato in un celebre documento postumo, Scritto sotto la forca, la testimonianza universalmente conosciuta del calvario personale, della tortura subita nelle mani della Gestapo, ma pure la documentazione dei piccoli gesti di solidarietà che anche nelle condizioni più disumane attestavano la volontà di resistenza nazionale della popolazione ceca del Protettorato.?8 Ancora più radicale fu, dopo l’invasione della Polonia, la volontà punitiva e distruttiva che accompagnò l’occupazione tedesca. I livelli di umiliazione e di degradazione della popolazione soggiogata raggiunsero qui misure senza paragoni:

27 Cfr. Czechoslovak Ministry of Foreign Affairs, Two Years of German Oppression in Czechoslovakia, Londra, 1941.

28 Cfr.J. Fucik, Scritto sotto la forca, a cura di F. Calamandrei, Milano, 1951.

29 Tra le altre opere in proposito cfr. C. Klessmann, Die Selbstbehauptung einer Nation - NSKulturpolitik und polnische Wiederstandsbewegung, Diisseldorf, 1971; J.T. Gross, Polnish Society under German Occupation - The General Gouvernement 1939-1944, Princeton, 1979; T. Szarota, Warschau under dem Hakenkreuz, Paderborn, 1985.

nessun futuro era riservato a uno Stato nazionale polacco, nessuna prospettiva di autonomia a una società nazionale che era destinata, al più, a fungere da mera riserva di braccia da lavoro per la potenza dominante. I livelli di educazione e di istruzione della popolazione polacca dovevano essere rapportati alla sua funzione di fornire unicamente lavoratori non qualificati al Terzo Reich. Le istituzioni scolastiche superiori furono pertanto soppresse: al popolo degli schiavi non bisognava consentire di crearsi gli strumenti per il suo riscatto né di conservare la propria cultura nazionale. I polacchi erano destinati a subire un vero e proprio processo di imbarbarimento e di regressione antropologica. Ancora più feroce, in questo quadro, doveva essere la sorte della popolazione ebraica sulla cui pelle era portata alle estreme conseguenze la volontà di distruzione del Reich nazista. La reazione della popolazione portò alla creazione di una vera e propria controsocietà che nella clandestinità ritesseva i fili della sopravvivenza e della solidarietà, soprattutto per mezzo delle istituzioni scolastiche e universitarie che consentirono di dare una risposta adeguata ai piani di annientamento degli occupanti.?° La degradazione della nazione polacca passò infine attraverso l’ulteriore disgregazione della sua unità interna realizzata con la segregazione fisica degli ebrei. La ghettizzazione della popolazione ebraica, primo passo sulla via della sua distruzione fisica nei campi di sterminio, assommò tutte le caratteristiche della massima concentrazione di violenza morale e fisica realizzabile nei confronti di una grande densità di popolazione urbana, privata di ogni fattore positivo della moderna urbanizzazione e costretta unicamente a subire le conseguenze negative di un aggregato coatto, isolato dal mondo esterno e condannato all’autoconsumazione e all’autodistruzione. L’insurrezione del ghetto di Varsavia, che tra l'aprile e il maggio del 1943 sfidò le forze dell’occupante, non poteva avere alcuna prospettiva di successo, ma fu, per il fatto stesso di essere avvenuta, il più alto messaggio simbolico lanciato dall’in-

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terno di un popolo oppresso e sul punto di essere annientato. Non fu solo un atto di denuncia, che il mondo circostante non raccolse e al quale assistette impotente, fu un messaggio di vita e di vitalità. “I combattenti sono caduti non per volontà di morte, ma piuttosto per tenace e decisa volontà di vita [...]. La lotta per la libertà è il nostro scopo supremo”: così si trova scritto tra gli appunti sopravvissuti nell'archivio che Emmanuel Ringelblum, il cronista e lo storico del ghetto di Varsavia, aveva gelosamente custodito nella consapevolezza che egli, storico di professione, ebbe di dover consegnare al futuro una testimonianza indelebile per non dimenticare.?° L’acutezza delle sue annotazioni, la perizia delle sue ricostruzioni, lo spirito critico e autocritico nei confronti della stessa popolazione ebraica e della sua cultura che non lo abbandonò mai, neppure di fronte agli avvenimenti più tragici e agli spettacoli più orrendi, fanno della figura di Ringelblum una delle voci più alte e più significative di intellettuale e di combattente che siano state espresse dalla stagione dell’impegno della Resistenza.?! Una figura per molti aspetti assimilabile a quella di un altro grande storico, Marc Bloch, che all’estremo opposto dell'Europa si fece anch'egli critico e coscienza critica e morale del suo popolo.?? Essi furono accomunati anche nella fine: furono uccisi entrambi dai nazisti. Dall’un capo all’altro dell'Europa i messaggi della Resistenza, pur attraverso sensibilità diverse, credi religiosi diversi, diverse fedi politiche, diverse accentuazio-

ni morali, tuttavia ripetono una serie di motivi comuni. Indirettamente essi mettono in evidenza anche quanto monocorde e monotona finì per essere la stessa dominazione delle potenze occupanti, sottolineando il carattere meramente strumentale e occasionale di ogni differenziazione o dei tentativi di presentare talvolta un volto meno ostile e meno arrogante per far leva sulla collaborazione delle popolazioni locali. Ma se si considerassero le testimonianze che possediamo con riferimento alla Norvegia o all’Olanda, due territori che per ragioni razziali inazisti consideravano assimilabili alla razza germanica, non ricaveremmo risposte molto diverse da quelle che abbiamo citate. Molte delle vittime in questi paesi erano redattori di stampa illegale, in cui su un credo partitico prevaleva la fedeltà al governo legittimo costretto all'emigrazione in Inghilterra, in cui era assai forte la tensione morale alimentata da spirito religioso, spesso da un’intransigente etica protestante. Specchio di situazioni nelle quali l’invasione tedesca non aveva scosso equilibri politici e sociali assestati né rotto un sostanziale consenso intorno a istituti e istituzioni (in entrambi i casi la monarchia) in cui si riconosceva la

sintesi dell’unità nazionale e di valori comunemente riconosciuti.?3 Anche l’Olanda fu, analogamente alla Francia, terra di rifugio per antinazisti ed ebrei tedeschi. Conosciamo la sorte della famiglia Frank. Un grande pittore “degenerato” come Max Beckmann continuò a vivervi e a lavorarvi nella semiclandestinità: i ricordi della moglie, che recano la testimonianza di come Beckmann continuasse ostinatamente il suo lavoro tra le privazioni della guerra e i pericoli dell’occupazione, in un atelier privo di riscaldamento e di ogni comfort, spesso anche della luce che era necessaria per il lavoro del pittore, rappresentano a loro modo un documento della volontà di sopravvivenza, di resistenza e di contrapposizione ai disvalori dei quali si faceva portatore il Reich nazista.?4 Accenti certamente diversi da quelli che si possono riscontrare nelle testimonianze ben altrimenti drammatiche che possediamo dal fronte balcanico della Resistenza o dai territori sovietici, in cui la violenza dello scontro e della lotta assume-

va anche caratteri di fisica intransigenza uguali e contrari alla violenza della disgregazione e della distruzione che si era abbattuta su quei territori con l’invasione nemica e spesso con la riapertura di antiche piaghe sociali. Anche dal punto di vista della periodizzazione della Resistenza va sottolineata l’incidenza della disfatta tedesca a Stalingrado come momento di irreversibilità

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30 Cit. in A. Nirenstajn, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, Torino, 1958, p. 131. ?1 La raccolta più completa in italiano di suoi materiali è in E. Ringelblum, Sepolti a Varsavia - Appunti dal ghetto, Milano, 1962.

?2 Il riferimento è a M. Bloch, La strana disfatta, Torino, 1955; scritto nel 1940, il testo uscì postumo nel 1946. # Per l'Olanda, sul piano generale, a onta di successivi approfondimenti settoriali, sempre valido rimane il quadro complessivo offerto nell'opera di W. Warbrunn, The Dutch under German

Occupation

1940-1945,

Princeton,

1963.

2 Cfr. M.Q. Beckmann, Mern Leben mit Max Beckmann, Monaco-Zurigo, 1985.

delle sorti della guerra e di galvanizzazione dei movimenti di lotta contro gli occupanti. Si tratta di un fattore di accelerazione del conflitto che indubbiamente infuse anche maggiore sicurezza e rinnovato entusiasmo ai singoli movimenti di

Resistenza. Tuttavia il fattore veramente nuovo introdotto dalla svolta di Stalingrado riguardò essenzialmente i gruppi dell’opposizione all’interno della Germania.?? Fu infatti l’esperienza della guerra di Russia, prodromo della sconfitta della Wehrmacht e della tragedia del popolo tedesco, che fece identificare per i gruppi più decisi ed eticamente motivati della Resistenza, quali in primo luogo il gruppo

di giovani raccolti nella “Rosa bianca”, il momento in cui era necessario passare dalla semplice propaganda contro il regime al sabotaggio della guerra nazista, un tentativo che fallì per l’isolamento nel quale si trovava questo nucleo di giovani e per la persistente tenuta del consenso intorno al regime. I giovani della “Rosa bianca” finirono sotto la mannaia del boia nazista, ma il fallimento della loro

iniziativa non cancella l’alto valore morale e il coraggio del loro gesto: esso pone piuttosto la complessa problematica del rapporto tra opposizione e consenso e dei diversi livelli della Resistenza nella società tedesca sotto il nazismo.96 In condizioni diverse, la Resistenza non si arrestò neppure dinanzi ai cancelli dei campi di concentramento. A questo proposito non dobbiamo idealizzare al di là del lecito né spingere al limite della caricatura l’eroicizzazione della vita concentrazionaria. Nessuna comunità di internati nei campi di concentramento avrebbe potuto liberarsi da sola, le insurrezioni che si verificarono in diversi campi alla vigilia dell’arrivo degli eserciti liberatori ebbero carattere essenzialmente simbolico, assicurarono la gestione di una brevissima fase di vuoto di poteri, non pote-

3 Problematica e letteratura nei saggi a cura di C. Natoli, La Resistenza tedesca 1933-1945, Mi-

vano avere alcun altro significato. Non di Resistenza armata si era trattato nei lager, ma viceversa di forme di aiuto reciproco e di solidarietà per la sopravvivenza, fatti per nulla naturali nelle condizioni di indigenza e di abiezione in cui erano tenuti i deportati. Fatti di enorme portata umana per la sopravvivenza di moti di solidarietà in una situazione che tendeva viceversa quasi costituzionalmente a esaltare gli aspetti e gli istinti più egoistici della natura umana, a frantumare ogni comunione di interessi e di sentimenti, a spingere — all’estremo — a forme di cannibalismo morale, talvolta addirittura fisico. Anche questa una situazione della quale artisti e pittori hanno lasciato testimonianza dolente e toccante, nella grafica e nella pittura: fra gli altri, Aldo Carpi (e non solo nel Diario di Gusen) e Zoran Music, fra gli illustratori dell'esperienza concentrazionaria rispettivamente di Mauthausen e di Dachau. Ma come non pensare anche ai disegni e alle poesie dei piccoli deportati di Terezin, maturati in fretta nello squallore del lager, dai quali veniva un messaggio di forza per il presente e di speranza per l’avvenire, che racchiudeva in sintesi lo spirito della Resistenza senza cieli divisi? Ascoltiamone la voce:

lano, 1989.

36 In lingua italiana una ricostruzione giornalistica con un sufficiente aggiornamento bibliografico offre P. Ghezzi, La Rosa bianca - Un

gruppo di resistenza al nazismo in nome della libertà, Torino, 1993.

“Squallore e fame, questa è la vita che noi viviamo quaggiù, ma nessuno si deve arrendere: la terra gira e i tempi cambieranno.”

9]

L’antifascismo in Europa tra le due guerre mondiali Claudio Natoli

Il termine “antifascismo” contiene in sé un duplice significato: da una parte, esso rimanda a un movimento politico storicamente determinato in cui confluì un ampio fronte di forze diverse e che ebbe caratteri nazionali e internazionali; dall’altra si riferisce a un sistema di valori che si è dimostrato capace di trascendere ampiamente il suo referente originario e la stessa epoca storica dei fascismi. Inteso in quest’ultimo senso, l’antifascismo ha dimostrato, laddove non è stato

ritualizzato, una straordinaria vitalità, avendo attraversato larga parte del Novecento, soprattutto se si accoglie l’accezione di “secolo breve” recentemente proposta da E.J. Hobsbawm. Ed è auspicabile che esso costituisca anche in futuro una componente fondamentale dell'identità democratica e civile dell'Europa, contro i tentativi del “revisionismo conservatore” e degli ideologi “neoliberali” di sostituirvi un anticomunismo che sembra riesumare le più rozze teorie del totalitarismo degli anni della guerra fredda] e soprattutto contro la tendenza, tipica della società in cui viviamo, a distruggere “i meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti”. Per converso, l’antifascismo come movimento politico nasce, si sviluppa e per vari aspetti conclude la fase principale del suo itinerario storico nel periodo compreso tra i primi anni Venti e la fine della seconda guerra mondiale. Ha notato giustamente Enzo Collotti che la storia dell’antifascismo come movimento non solo è strettamente collegata ma in notevole misura è anche scandita da quella del suo antagonista storico, e cioè dal fascismo.? Quest'ultimo fu un fenomeno estremamente complesso, che, lungi dal rimanere uguale a se stesso sin dal suo primo apparire, conobbe una profonda trasformazione interna dalla fase del movimento a quella successiva alla presa del potere, dalla dittatura autoritaria degli anni Venti allo Stato totalitario e al regime di massa del decennio successivo, nello scenario radicalmente nuovo segnato dalla “grande crisi” del ‘29 e dalla spinta alla fascistizzazione dell'intera Europa, indotta, a partire dal 1933, dall’avvento al

potere di Hitler. Cosicché la vicenda del fascismo e dell’antifascismo sarà contrassegnata da due fasi profondamente diverse: la prima sarà circoscritta soprattutto al caso italiano; la seconda sarà proiettata in una dimensione internazionale, nel momento in cui la catastrofe del 1929 porterà al crollo della Repubblica di Weimar e della democrazia austriaca e i regimi fascisti si proporranno come alternativa globale alla crisi dei sistemi liberali, costituiranno un punto di riferimento per la proliferazione di Stati autoritari e per i movimenti eversivi della

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!' Emblematici per questi orientamenti sono E. Nolte, Nazzionalsocialismo e bolscevismo: la guerra civile europea 1917-1945, Firenze, 1989 (ed. or., Berlino, 1987); F. Furet, I/ passato di un'illusione - L'idea comunista nel XX secolo,

Milano, 1995 (ed. or., Parigi, 1995).

2 EJ. Hobsbawm, I/ secolo breve, Milano, 1995 (ed.or., Londra, 1994), p. 14. è E. Collotti, L'anzifascismo in Italia e in Europa 1922-1939, Torino, 1975, p. 12.

destra, destabilizzeranno il sistema delle relazioni internazionali e sconvolgeran-

no la carta geopolitica dell'Europa, sino a lanciare nel 1939 un vero “assalto al potere mondiale”. Queste osservazioni rimandano al carattere processuale e alla complessità di sviluppo dell’antifascismo tra le due guerre e al suo itinerario arduo e travagliato, sia

per le difficoltà di elaborazione di un quadro interpretativo attendibile del fenomeno fascista e quindi della formazione di una “coscienza antifascista” sul piano italiano e internazionale, sia per la molteplicità e diversità delle forze che a esso fecero riferimento, che resero estremamente difficile la costruzione di un movimento unitario.

Il periodo della prima formazione dell’antifascismo coincide in Italia con la fase compresa tra lo sviluppo del fascismo come movimento di massa e l'offensiva squadristica del 1921-22, che preparano la “marcia su Roma”, e la disfatta dell'opposizione aventiniana nel 1924-25. Furono in pochi allora, in Italia e

all’estero, ad avere una chiara percezione della reale natura e del pericolo costituito dal fascismo. Per tutta la fase che precede la conquista del potere tutti i potenziali avversari del fascismo rimasero prigionieri del clima di disorientamento e di disgregazione che accompagnò la crisi finale dello Stato liberale. Di fronte allo sfacelo della classe dirigente liberale, incapace di allargare le basi di massa del vecchio Stato e decisa a utilizzare il fascismo per soffocare il nuovo protagonismo delle classi lavoratrici nell’illusione di restaurare il gioco politico tradizionale, e di fronte alla paralisi del PPI di don Sturzo, stretto tra l’antisocialismo e il ricatto clerico-fascista, l’antifascismo si ridusse, sino alla “marcia su Roma”, alle

sole forze del movimento operaio direttamente investite dalla violenza squadrista. Ma anche queste ultime si rivelarono del tutto incapaci di contrastare l’avanzata del fascismo e rimasero piuttosto ancorate agli schemi mentali del passato. Se per un verso il massimalismo socialista consumava la sua crisi definitiva nel più assoluto immobilismo e nella mera difesa di una tradizione ormai esauritasi, la linea della “collaborazione parlamentare” sostenuta da Turati e dai riformisti individuava nel fascismo un mero “sottoprodotto” della psicologia di guerra, sottovalutando sia i suoi caratteri di massa, sia l’aggregarsi attorno al suo program-

ma di restaurazione autoritaria delle forze dominanti, a cominciare dalla borghesia industriale e finanziaria. Riemergeva nella posizione dei riformisti il sottofondo deterministico, già delineatosi nell’età giolittiana, secondo cui lo sviluppo del capitalismo avrebbe comportato di per sé l’atfermazione della democrazia politica, determinando una incompatibilità tra il fascismo e le forze industriali più moderne. D’altra parte anche la posizione del PCdI, malgrado l'impegno coraggioso dei militanti nella lotta antifascista, fu viziata nel 1921-22 da un estremo dottrinarismo. La prospettiva dell’instaurazione di una dittatura fascista venne categoricamente rifiutata dai comunisti (con la parziale eccezione di Gramsci) e ciò che prevalse fu la contrapposizione frontale con il PSI ereditata dalla scissione di Livorno (1921). La politica del PCdI fu caratterizzata in questi anni dal rifiuto di ogni contenuto democratico nella lotta antifascista e di ogni politica delle alleanze; dalla sconfessione di ogni movimento antifascista sorto al di fuori

4 È quanto sostiene erroneamente F. Furet, op. ci Py 206.

del partito; dalla negazione di ogni autonomia del fascismo dalla vecchia classe dirigente; dall’individuazione del PSI come “nemico principale” da battere per aprire la strada a una rivoluzione socialista la cui attualità si faceva meccanicamente discendere dallo sfacelo inarrestabile dello Stato liberale. Tale orientamento, lungi dall’essere stato imposto, era stato all'origine di un aspro contrasto tra il PCdI e l’Internazionale comunista (IC), che già nel 1921-23, mettendo a confronto l’osservatorio italiano e tedesco, aveva individuato la natura complessa

DS

del fascismo di reazione di classe e insieme di movimento di massa e aveva avviato la ricerca di una strategia di ampio respiro, incentrata sul fronte unico di tutte le forze del movimento operaio e su una politica delle alleanze volta a contrastare l'influenza fascista sui ceti piccolo-borghesi.” Questa politica, che si inseriva nel quadro della linea generale del fronte unico, aveva trovato un terreno di applicazione in Germania e avrebbe costituito in seguito un punto di riferimento per Gramsci e per il nuovo gruppo dirigente del PCdI, ma rimase per il momento del tutto disattesa in Italia. Ne derivò una sconfitta di portata storica, che si attuò nel più completo isolamento del movimento operaio, la cui disgregazione costituì la premessa fondamentale per l'instaurazione della dittatura fascista. Si sarebbero dovute attendere le elezioni politiche del 1924 e soprattutto il delitto Matteotti perché l’antifascismo, che anche dopo la “marcia su Roma” era rimasto sostanzialmente confinato ai partiti del movimento operaio, a cui si era aggiunta qualche voce isolata di intellettuali progressisti (è d'obbligo il riferimento alla “Rivoluzione Liberale” di Piero Gobetti), si allargasse a nuove forze che facevano riferimento a un liberalismo democratico (l'Unione nazionale di Giovanni Amendola) o a un cattolicesimo politico liberato dalle ipoteche clerico-fasciste. E tuttavia l’esperienza dell’Aventino segnò bensì una insanabile frattura politica e morale tra fascismo e antifascismo e il delinearsi di un potenziale fronte delle opposizioni che comprendeva comunisti, socialisti, repubblicani, liberali e popolari, ma rappresentò, con la sua opposizione esclusivamente morale e con il suo timore del “salto nel buio”, più lo specchio dell’esaurimento di un antifascismo parlamentare e legalitario rivolto verso il passato che non la prefigurazione di indirizzi e comportamenti profondamente nuovi. Proprio il fallimento dell Aventino, di fronte alla stretta autoritaria che prefigurava la definitiva instaurazione della dittatura fascista, costituì tuttavia il presupposto per una svolta determinante nella storia dell’antifascismo. Esso stava a indicare l’impraticabilità di una linea di mera restaurazione del vecchio Stato liberale al di fuori di una mobilitazione popolare e nel quadro di una soluzione pacifica della crisi per iniziativa della monarchia. Si poneva a questo punto la necessità non più prorogabile di procedere a un’analisi puntuale del fascismo e di ridefinire i soggetti e il concetto stesso della lotta per la conquista della democrazia. Di queste esigenze si resero interpreti gli esponenti di una nuova generazione di intellettuali di orientamento liberal-socialista già attivi nell’opposizione aventiniana: il gruppo composto da Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Nello Traquandi, raccolto attorno alla figura di Gaetano Salvemini, che pubblicò illegalmente nel 1925 il periodico “Non Mollare”; o anche la rivista “Il Caffè”, che uscì a Milano per iniziativa di Ferruccio Parri, Riccardo Bauer, Giovanni Mira e Lelio Basso. Ma ancora più rilevante fu il rinnovamento teoricopolitico del movimento operaio promosso dalla rivista “Quarto Stato” di Nenni e di Rosselli e dall’elaborazione del nuovo gruppo dirigente del PCdI costituitosi nel 1924 sotto la direzione di Gramsci. Il merito di “Quarto Stato” fu di procedere a un’analisi critica dell’azione e dell'ideologia socialista risalendo alle origini e all’età giolittiana e collegandola alla realtà storica dello Stato liberale in Italia. La disfatta del socialismo italiano di fronte al fascismo, secondo l’“autocritica socialista” sviluppata da Nenni e da Rosselli, aveva le sue radici lontane nell’orientamento deterministico e nell’inca-

pacità storica del PSI di condurre una lotta generale per la democrazia e di trasformare profondamente la struttura oligarchica del vecchio Stato liberale, e segnava il definitivo esaurimento tanto del massimalismo quanto del riformismo tradizionale. Ne derivavano la rivendicazione di un marxismo volontaristico e antidogmatico e una nuova e più ricca concezione della democrazia come “rivo-

94

? Su questo punto debbo rinviare a C. Natoli, La Terza Internazionale e il fascismo 1919-1 Roma, 1982.

923,

luzione in permanenza”, la cui principale fonte di ispirazione era il Programzza di Linz (1926), uno dei più tipici documenti dell’austromarxismo. La nuova piattaforma politica dell’antifascismo italiano doveva caratterizzarsi in questo contesto per il rifiuto di ogni ipotesi di restaurazione del vecchio Stato monarchico-costituzionale e doveva invece privilegiare il ruolo di guida della classe operaia nella lotta per l’instaurazione di una “repubblica democratica dei lavoratori” che costituisse anche un punto di riferimento per la spinta antifascista dell’intellettualità democratica, delle classi medie e dei ceti contadini. Su un altro versante, di centrale rilevanza fu, malgrado il processo di progressivo

irrigidimento politico-ideologico avviatosi con l'abbandono del fronte unico e la | “bolscevizzazione” dell'IC, la revisione autocritica dell’intera politica del PCdI promossa da Gramsci nel 1924-26. Essa ebbe come asse centrale l’incapacità del partito di comprendere e prevenire l’avvento del fascismo e il rifiuto di ogni astratto e meccanico centralismo all’interno dell'IC, in nome di un’azione “auto-

noma e creatrice” dei partiti comunisti nei diversi contesti nazionali. Ne derivarono un’attenta ricognizione delle forze motrici della rivoluzione italiana e la ricerca di una politica delle alleanze (con particolare riferimento al “blocco” operaio-contadino, agli intellettuali e alla questione meridionale), una approfondita analisi dei caratteri specifici del fascismo e del suo rapporto con la società italiana, con i limiti storici dello Stato liberale e con la crisi di egemonia delle élites dominanti nell'immediato dopoguerra, della sua evoluzione da movimento piccolo borghese a fattore di “unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organo politico [...] che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato”.” Nella strategia del PCdI alla lotta diretta per il potere si sostituiva una concezione della rivoluzione socialista come un processo complesso e ricco di fasi intermedie, la rivendicazione del ruolo della classe operaia come “forza direttiva” della lotta antifascista e la prospettiva di una fase democratica di transizione che avrebbe potuto assumere i contorni di un’Assemblea repubblicana. Nello stesso tempo si realizzava una profonda trasformazione della struttura organizzativa del partito, basata su una rete illegale estesa a livello nazionale che arrivò a comprendere oltre 25.000 militanti, mentre altri organismi legati al PCII, come il Soccorso rosso, raggiungevano nel 1926 i 40.000 iscritti. In questo tenace lavoro di riorganizzazione, iniziato sin dal 1923, nasceva un modello di

partito del tutto nuovo nella storia del movimento operaio nel contempo quella generazione di quadri illegali, con una plina, una motivazione ideale e una dedizione assoluta nei dell'IC che avrebbe animato l’azione clandestina in Italia oscuri del regime fascista.

italiano e si formava mentalità, una disciconfronti del PCdI e anche negli anni più

L’antifascismo italiano arrivava dunque all'appuntamento delle leggi eccezionali del 1926 sotto il peso di una schiacciante disfatta e di profonde divisioni politiche che l'esaurimento dell'esperienza aventiniana aveva ulteriormente acuito (nessun 6 In proposito si vedano i testi raccolti in D. Zucaro (a cura di), Il Quarto Stato di Nenni e di Rosselli, Milano, 1977.

? Dalle tesi su La situazione italiana e i compiti del PCI approvate dal Congresso di Lione

accordo fu possibile stabilire in questi anni tra i comunisti e le altre forze antifasciste, che peraltro versavano in uno stato di completa disgregazione), ma nel momento in cui si era aperto al suo interno un processo di rinnovamento che si sarebbe rivelato in seguito di grande rilevanza. Come ha scritto Simona Colarizi, da questo itinerario, considerato nel suo insieme, emerge il quadro di una mino-

(1926), ora in A. Gramsci, La costruzione del

ranza attiva, vitale e in movimento al suo interno, che, lungi dal rimanere ancora-

Partito comunista 495.

ta agli schemi politici e ideologici del passato, elabora, ricerca e prepara una propria “identità ideologica nuova, quale poi risulterà all'indomani della liberazione del paese”. La scelta di proseguire la lotta anche nelle condizioni più difficili fu comune tan-

1923-1926, Torino, 1971, p.

8 S. Colarizi, L'Italia antifascista dal 1922 al 1940 - La lotta dei protagonisti, Bari, 1976, pp. ‘2-3.

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to ai comunisti (che costituirono un Centro interno e un Centro estero sito prima

a Basilea e poi a Parigi), quanto ai gruppi dirigenti del PSI (massimalista), del PSULI (riformista) e del Partito repubblicano, quanto ad alcuni esponenti della sinistra cattolica, come Guido Miglioli, Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari, che rifiutarono la linea dell’autoscioglimento del PPI, quanto a singole personalità del mondo politico, come Francesco Saverio Nitti, e della cultura, come

Gaetano Salvemini, Silvio Trentin e in seguito Guglielmo Ferrero, Giuseppe Antonio Borgese e Lionello Venturi (Amendola e Gobetti erano nel frattempo morti in Francia a seguito dei postumi di selvagge aggressioni squadristiche). L’antifascismo democratico e socialista scelse come centro della propria attività la Francia, dove esisteva una forte emigrazione di lavoratori italiani e dove nel 1927 fu fondata la Concentrazione antifascista, cui aderirono anche la Lega italiana per la difesa dei diritti dell’uomo (LIDU) di Alceste De Ambris e Luigi Campolonghi e l'Ufficio della CGdL ricostruito all’estero da Bruno Buozzi. Fu proprio tra i lavoratori emigrati in Francia che l’antifascismo poté trovare un referente politico e sociale che ne garantì la sopravvivenza e l’allargamento della sfera di irradiazione negli anni in cui più fragili ed evanescenti tendevano a divenire i legami diretti con l’Italia. La Concentrazione svolse una funzione importante nel conferire credibilità politica all’antifascismo e nel condurre una incessante campagna di denuncia del carattere liberticida del regime fascista di fronte alla spesso disattenta opinione pubblica internazionale e agli estimatori di Mussolini presenti non solo in campo liberal-conservatore ma anche in settori del sindacalismo socialista, ed esplicò una vasta azione per contrastare l’influenza della propaganda fascista tra i lavoratori italiani all’estero. Di particolare rilevanza fu in questo contesto l’azione di Turati per sensibilizzare sulla funzione destabilizzante del regime fascista dell’intero equilibrio europeo i grandi partiti riformisti dell’Internazionale socialista (IOS). Questi ultimi, infatti, tendevano a considerare il fascismo un prodotto dell’“arretratezza” italiana e tornavano a confidare in un'illimitata espansione del capitalismo e della democrazia e in una pacifica composizione dei conflitti tra gli Stati nell’ambito della Società delle nazioni. Il limite della Concentrazione fu tuttavia di limitarsi a una denuncia di tipo morale e di non svolgere alcuna azione diretta contro il regime fascista in Italia. Inoltre, per tutta una prima fase, pesò sui suoi orientamenti l’eredità dell’esperienza aventiniana. In sostanza, la Concentrazione continuò a considerare il fascismo un “corpo estraneo” alla società e allo stesso capitalismo italiano, sottovalutandone sia il rapporto organico stabilito con le élites dominanti, sia la raggiunta stabilità politica, sia la capacità di aggregare attorno a sé un forte consenso di massa. Al mancato approfondimento delle radici storiche della crisi dello Stato liberale in Italia fecero riscontro un prolungato agnosticismo sul piano istituzionale e una persistente fiducia nella restaurazione delle vecchie istituzioni per iniziativa della monarchia, un’estrema vaghezza sul piano dei programmi economico-sociali e una vocazione attendista che costituivano altrettanti passi indietro rispetto alla ricca elaborazione sviluppata nel 1926 sulle colonne di “Quarto Stato”.? Chi invece proseguì risolutamente sulla strada del rinnovamento intrapresa nel 1924-26 fu il gruppo dirigente del PCdI. Il tratto più caratteristico dell’antifascismo comunista fu di continuare a considerare l’Italia il terreno privilegiato dell’azione del partito, costituendo una rete illegale radicata soprattutto nelle fabbriche, diffondendo la stampa clandestina, organizzando la protesta sociale, mantenendo in vita un'opposizione attiva nel paese. Questa scelta avrebbe fatto del PCdI la forza più attiva e determinata nella lotta antifascista (i dati indicano che oltre 80% dei 5620 processati dal Tribunale Speciale e dei 17.000 inviati al

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? Su questi temi si veda S. Fedele, Storia della Concentrazione antifascista 1927-1934, Milano, 1976. Sull’emigrazione italiana in Francia si segnala anche la ricerca Les italiens en France de 1914 à 1940, diretta da P. Milza, Roma, 1986.

confino, in grande maggioranza operai, contadini e artigiani, appartenevano all'area comunista) e permise al partito di mantenere una presenza continuata, anche se a tratti estremamente labile, nel paese per l’intero arco della dittatura. L'elaborazione del PCdI sul tema del fascismo raggiunse inoltre nel 1927-28 risultati di notevole rilievo. L’arresto di Gramsci (che morì nel 1937 a seguito di

una lunga agonia iniziatasi in carcere), di Terracini (che fu liberato solo nell’agosto 1943) e di altri dirigenti costituì senza dubbio una perdita irreparabile per il partito. Tuttavia il Centro estero riprese e sviluppò in questi anni, grazie soprattutto al contributo di Togliatti, Grieco, Tasca e Silone, la ricerca sul fascismo

tracciata nelle Tesi di Lione, ricollegandosi all’analisi sulla stabilizzazione del capitalismo portata avanti nell’IC da Bucharin, mentre il Soccorso operaio internazionale (SOI) diretto da Willi Miinzenberg e il Soccorso rosso (SRI) organizzavano, con un largo concorso di intellettuali progressisti (tra cui si distinsero Henri Barbusse e Romain Rolland), le prime campagne contro il fascismo italiano. In particolare va segnalata l’attenzione del gruppo dirigente del PCdI verso i processi di ristrutturazione industriale e finanziaria che facevano del fascismo una “formazione capitalistica superiore di organizzazione statale”, attraverso cui lo Stato si identificava “più strettamente con i gruppi dirigenti del capitalismo” intervenendo “nel processo produttivo dopo averne accentrato e controllato le forze”.!° La sottolineatura degli aspetti di “arretratezza” del capitalismo italiano non impediva al Centro estero di cogliere gli elementi di modernità del fascismo e le sue profonde radici nella società, non solo per i suoi legami con i settori più dinamici del mondo industriale, ma anche per la ricerca del consenso delle masse. Il ricorso all’analisi differenziata implicava il rifiuto della tendenza, assai diffusa nell’IC, a “sostituire allo studio approfondito del fascismo generalizzazioni del tutto astratte”, nonché la sollecitazione a individuarne i tratti specifici nel carattere di massa e nel regime statale di tipo nuovo da esso instaurato, caratterizzato dalla distruzione del movimento operaio organizzato e dalla soppressione di tutte le libertà politiche e di ogni forma di opposizione.!! La stessa serrata polemica con i partiti della Concentrazione non impediva al PCdI di individuarne il reale carattere antifascista, mentre la percezione del carattere totalitario del regime apriva la strada a una chiara definizione della sua incompatibilità con la socialdemocrazia. Emergeva in questo contesto una concezione della rivoluzione antifascista connotata in senso popolare e nazionale, che sottendeva la partecipazione di componenti politico-sociali diversificate, la possibilità di fasi politiche intermedie e la necessità di parole d’ordine di carattere democratico, come l’assemblea repubblicana, la terra ai contadini, il controllo operaio sull'industria e sulle banche. Questa analisi generale conteneva il limite di proporre una identificazione tra fascismo e capitalismo italiano che portava a respingere l'ipotesi di una restaurazione democratica che non fosse il preludio immediato di una rivoluzione socialista. Nondimeno il Centro estero forniva una lettura del fascismo per i tempi assai ricca e articolata, soprattutto se confrontata con le contemporanee posizio-

ni della TOS e della Concentrazione e con quelle che si stavano affermando con il VI Congresso (1928) nella stessa IC, che ormai evolveva verso la politica denominata “classe contro classe”. 10 Lg situazione italiana e i compiti del partito, in La Seconda Conferenza del Partito comunista d'Italia (Resoconto stenografico), Parigi, 1928, PE295: lA proposito del fascismo, ora in P. Togliatti, Opere, vol. II, a cura di E. Ragionieri, Roma,

1972, p.542.

La linea “classe contro classe” coincise con una svolta epocale nella storia del movimento comunista, e cioè con l’avvio della collettivizzazione forzata e Vinstaurazione dello stalinismo in URSS e con le radicali trasformazioni nell’ideologia, nella cultura e nel regime interno dell'IC che ne derivarono. Ma essa coincise anche con la “grande crisi” del ‘29 e le sue catastrofiche conseguenze a livello

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mondiale, l'enorme distruzione di ricchezza e la miseria e la fame per decine di milioni di persone, lo sviluppo dei movimenti e dei regimi fascisti, che sembrarono simboleggiare la fine dell’intera civiltà borghese-liberale. Al centro della linea “classe contro classe”, che comportò nell’IC e nel Partito sovietico una lotta a

fondo contro Bucharin sui temi del fronte unico, della stabilizzazione capitalistica e dell’alleanza tra operai e contadini in URSS, vi era la contrapposizione frontale tra i “due sistemi”: da una parte la “costruzione del socialismo” in URSS e le sue “grandiose realizzazioni”; dall’altra il capitalismo giunto alla sua “crisi finale”, ormai irrimediabilmente avviato verso il fascismo e la guerra. L’IC negava in linea di principio che il capitalismo fosse in grado di autoriformarsi o potesse ricostruire un nuovo equilibrio se non attraverso la reazione più esasperata e la fascistizzazione dei regimi borghesi, e di qui faceva discendere la previsione di una generale crisi rivoluzionaria che avrebbe investito l'Europa come gli Stati Uniti, i paesi sviluppati e quelli coloniali e semicoloniali. E mentre tutte le forze politiche non comuniste e la stessa socialdemocrazia venivano individuate come “soggetti attivi” della fascistizzazione dei regimi borghesi e assimilate tout court al fascismo (socialfascismo), l’IC respingeva come una pericolosa “illusione liberale” la lotta per la difesa delle libertà democratiche e la stessa distinzione tra democrazia e fascismo e indicava come unico obiettivo del movimento comunista la conquista rivoluzionaria del potere. In una prospettiva di più lungo periodo l'avvento dello stalinismo segnò l’assunzione da parte del Partito sovietico di un “ruolo guida” nell’IC, l’identificazione assoluta del movimento comunista con l'URSS, non°solo come baluardo da di-

fendere ma anche come unico modello per la conquista del potere e la “costruzione del socialismo”, irrigidì il regime centralistico dell'IC e pose limiti invalicabili alla ricerca di autonome “vie nazionali” da parte dei partiti comunisti. Nei primi anni Trenta la linea “classe contro classe” ebbe effetti deleteri sia sulla politica comunista, sia, più in generale, sullo sviluppo del movimento antifascista. In Germania il Partito comunista (KPD) poté bensì raccogliere ampi consensi tra

gli strati proletari più radicalizzati dalla crisi, ma scavò un fossato incolmabile tra sé e la maggioranza degli operai che ancora si riconoscevano nella socialdemocrazia (SPD), condannandosi alla passività e all’isolamento. L'ascesa vertiginosa del nazismo venne interpretata dalla KPD come il segno dello sfacelo del sistema capitalista e dell’attualità della rivoluzione socialista, nel quadro di una “lotta su due fronti” che intendeva sconfiggere al tempo stesso il sistema parlamentare, il fascismo, la borghesia e il suo principale “sostegno sociale” che sarebbe stato costituito dalla SPD. Quest'ultima per parte sua considerò sino al 1933 il nazionalsocialismo come mera espressione di strati sociali declassati senza profonde radici nella società tedesca, affidandosi a un’attesa passiva del riassorbimento della crisi in base agli automatismi di mercato e del conseguente ripristino dei meccanismi della democrazia weimariana e rifiutando una mobilitazione attiva e unitaria del movimento operaio, come invece sostenevano con ben maggiore lungimiranza i gruppi minori della sinistra e la parte più impegnata e sensibile del mondo intellettuale (si pensi al gruppo della “Weltbihne”). L’avvento al potere di Hitler nell’impotenza dell’insieme delle forze della sinistra, costituì il coronamento di questa immane tragedia. Ma anche in altri paesi, come la Gran Bretagna, la Francia, l Austria, la Cecoslovacchia, la Spagna, i primi anni Trenta riprodussero il medesimo scenario di divisioni tra un movimento socialista sempre più incapace di fronteggiare gli sconvolgimenti della “grande crisi” e i partiti comunisti più sensibili alla protesta sociale ma rinchiusi nel “ghetto” dello scontro frontale con la socialdemocrazia e della declamazione propagandistica degli “obiettivi finali”.!°

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1? Per un quadro generale si veda A. Agosti, La Terza Internazionale - Storia documentaria, vol. III (1), Roma, 1979.

In Italia la linea “classe contro classe”, dopo una fase di acuti dissensi tra il PCdI e IC, comportò una frattura traumatica nel gruppo dirigente del PCdI e il rovesciamento dell’intera politica seguita a partire dal 1924-26. Al progressivo inaridimento dell’analisi del fascismo avrebbe fatto riscontro l’individuazione di una disgregazione delle basi di massa del regime fascista e di una “situazione rivoluzionaria acuta”, la denuncia della “fascistizzazione” delle forze della Concentra-

zione, l'abbandono della parola d’ordine dell’ Assemblea repubblicana in nome della lotta immediata per il potere. Il tentativo di ricostruire in Italia un Centro interno di direzione del partito e di attivare i gruppi clandestini che fece seguito alla “svolta” incontrò bensì l'adesione degli elementi più giovani e favorì il reclutamento di una nuova generazione di militanti soprattutto in alcune regioni agricole della Pianura Padana, ma si scontrò con una situazione generale che vedeva la definitiva stabilizzazione del regime e l'assenza di movimenti antifascisti di massa nel paese, isolò ed espose i gruppi comunisti a un’ondata di arresti e provocò una crisi organizzativa che avrebbe reso negli anni Trenta sempre più difficile un'attività organizzata all’interno del paese. Sarebbe spettato all’isolata elaborazione di Gramsci fornire nei Quaderni del carcere una critica radicale alla linea “classe contro classe”, nonché una diversa chiave di lettura della crisi degli anni Trenta come terreno di una profonda razionalizzazione del sistema capitalistico capace di riattivare i meccanismi dello sviluppo economico e di realizzare nuovi sistemi di integrazione sociale e culturale delle masse. A essa avrebbe fatto riscontro una penetrante analisi del regime fascista che metteva in luce il ruolo propulsivo dello Stato nella ristrutturazione del sistema produttivo e nella mediazione del consenso sociale, nonché l’invito (inascoltato) al Centro estero a

13 Su queste tematiche si veda P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. II, Torino, 1969, pp. 163-369.

14 In proposito si rinvia a F. Sbarberi, I/ PCI e lo Stato 1929-1944, Milano, 1980, pp. 17-121. 15 Per un’analisi comparata si veda M. Telò, La

socialdemocrazia europea nella crisi degli anni Trenta, Milano, 1985.

conferire un contenuto democratico alla lotta antifascista incentrandola sul; l’obiettivo di un’ Assemblea costituente." A un’analisi retrospettiva l'avvento del nazismo in Germania, se assume il significato di una sconfitta epocale, rappresenta anche uno spartiacque nella storia dell’antifascismo tra le due guerre. La “catastrofe tedesca” avviò infatti una riflessione critica e autocritica che avrebbe comportato in prospettiva l'emergere di orientamenti profondamente nuovi e aperto la strada in una serie di paesi ai Fronti popolari antifascisti. Nel movimento socialista questo processo generò una molteplicità di esperienze e di indirizzi a seconda delle diverse realtà nazionali che finirono per contrapporsi proprio sul terreno delle strategie di lotta contro il fascismo internazionale (generando una crisi dissolutrice all’interno della IOS), ma che, nel loro insieme, comportarono una revisione del marxismo evoluzionistico che aveva orientato i grandi partiti riformisti negli anni Venti, determinandone la paralisi o il fallimento durante la “grande crisi”. In Svezia e in parte in Gran Bretagna ciò comportò la definizione di una nuova “cultura di governo” aperta alle problematiche di una politica economica anticiclica che anticipava le forme avanzate di Welfare State del secondo dopoguerra, mentre in Belgio si avviò una riflessione nuova sui temi del planismo e delle “riforme di struttura” come forme intermedie di transizione tra capitalismo e socialismo. Su un altro versante la riflessione autocritica di Otto Bauer si incentrò sull’approfondimento dei limiti delle esperienze socialdemocratiche di governo e sulle radici storiche più profonde della crisi delle istituzioni liberali di fronte all'ascesa dei movimenti fascisti e approdò a una rinnovata ricerca sul rapporto tra democrazia e socialismo. Riprendendo e sviluppando la ricca elaborazione già avviata dall’austromarxismo negli anni Venti, Bauer individuava nella lotta contro il fascismo e la guerra il terreno fondamentale per una ricomposizione unitaria capace di conciliare le tradizioni riformista e rivoluzionaria del movimento operaio e tracciava la prospettiva di una “nuova democrazia” al cui interno la restaurazione delle isti-

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tuzioni rappresentative e la crescita degli organi di autogoverno delle classi lavoratrici si accompagnassero alla distruzione delle radici sociali del fascismo e alla socializzazione della grande proprietà industriale e agraria.!° Infine, in altri importanti partiti come la SFIO e il PSOE, di fronte all’offensiva delle forze della destra in Francia e in Spagna e all’esaurimento della tradizionale politica riformista, si apriva un serrato confronto sul tema dell’unità d’azione del movimento operaio nella lotta antifascista. Il processo di rinnovamento che interessò nei primi anni Trenta l'emigrazione democratica e socialista italiana sarebbe incomprensibile se si prescindesse da questo panorama generale. E significativo che la riunificazione socialista del 1930, promossa da Nenni e da Saragat, segnasse la ripresa di alcune tematiche fondamentali di “Quarto Stato”, ma soprattutto avviasse un confronto ravvicinato del PSI con le diverse forze del socialismo europeo e con la sua corrente più aperta e avanzata rappresentata dall’austromarxismo. Alla lucida consapevolezza che dopo il crollo della Repubblica di Weimar la battaglia antifascista aveva ormai assunto una dimensione europea, fece riscontro nel nuovo gruppo dirigen-

te del PSI la critica alla concezione meramente istituzionale della democrazia impersonata dalla SPD e l'impegno per una riqualificazione classista del partito e per il fronte unico antifascista delle Internazionali operaie.!” Ma non meno importante per la successiva evoluzione dell’antifascismo italiano fu la fondazione alla fine del 1929 per iniziativa di Carlo Rosselli, di Giustizia e Libertà (GL). La nascita di GL portò all’interno della Concentrazione una forte carica volontaristica e la spinta a costruire un’opposizione attiva in Itàlia: nuclei clandestini composti prevalentemente da intellettuali si costituirono effettivamente a Milano attorno a Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Ferruccio Parri, e a Torino attorno a Car-

lo Levi, Mario Andreis, Aldo Garosci e Michele Guasco, che pubblicarono il

giornale “Voci di Officina”, e poi attorno a Leone Ginzburg, Renzo Giua e Vittorio Foa, mentre grande risonanza ebbe nel luglio 1930 il volo di Bassanesi su Milano. Successivamente Rodolfo Morandi, distaccatosi da GL, avrebbe dato

vita per la prima volta nel 1934 a un Centro interno socialista in Italia. Nello stesso tempo GL impersonò l'esigenza di una radicale rottura verso il mondo prefascista e la stessa piattaforma originaria della Concentrazione, nella prospettiva di un rinnovamento profondo della vita sociale e morale del paese. Lo schema di programma di GL, pubblicato nel 1932, rappresentava da questo punto di vista un originale tentativo di conciliare i principi di un liberalismo e di un socialismo profondamente rivisitati. Sulla scorta delle suggestioni di Henri De Man e della sinistra laburista di G.D.H. Cole, esso prefigurava come sbocco della rivoluzione antifascista una repubblica democratica connotata da profonde riforme strutturali, da un’economia mista e da ampie forme di decentramento e di autogestione, egualmente lontana sia dal vecchio Stato liberale, sia dal modello statalistico-autoritario alla base della pianificazione sovietica degli anni Trenta.!8 Di fronte alla ricchezza di questo panorama generale colpisce l’apparente immobilismo che sembrò caratterizzare, anche dopo l'avvento al potere di Hitler, la linea dell'IC, che nelle sue posizioni ufficiali rimase ancorata sino alla metà del 1934 alla linea “classe contro classe”, per poi riconvertirsi non senza forti resistenze (emblematica a questo proposito la posizione della KPD) all’unità d’azione antifascista. Questo profondo mutamento della politica dell’IC è stato interpretato per lungo tempo dalla storiografia occidentale e dalle rievocazioni dei “transfughi” del movimento comunista come il risultato di una scelta personale di Stalin e dei nuovi indirizzi della politica estera dell'URSS, che nel 1934, di fronte alla minaccia costituita dall’imperialismo nazista, cominciava a orientarsi verso la ricerca di un riavvicinamento con le democrazie occidentali. Le ricerche

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!é Su questi temi si veda l'ampia introduzione di E. Collotti in O. Bauer, Tra due guerre mondiali?, Torino, 1978. 7 Sulle problematiche relative al PSI negli anni Trenta si rinvia a L. Rapone, Da Turati a Nenni, Milano, 1992. 18 Su GL, oltre a A. Garosci, Vita di Carlo Rosselli, Firenze, 1945, si veda AA.VV., Giustizia e libertà nella lotta antifascista e nella storia d'Italia, Firenze, 1978.

più recenti hanno tuttavia teso a ridimensionare il ruolo personale di Stalin e della diplomazia sovietica e hanno messo piuttosto l’accento sulla molteplicità di fattori che concorsero all’avvio delle politiche di Fronte popolare, attribuendo una funzione determinante sia alla riflessione autocritica avviatasi a partire dal 1933 in entrambe le Internazionali operaie e alla provvisoria affermazione delle correnti comuniste e socialiste rinnovatrici, sia alla crescita dei movimenti anti-

sa di massa in Francia e in altri paesi e all'emergere di nuovi protagonisti sociali.

Nella fase preparatoria dei Fronti popolari un ruolo di inestimabile importanza fu svolto dall'impegno antifascista degli intellettuali, che avrebbe segnato profondamente il clima politico-culturale dell’epoca sino a divenire uno dei tratti caratteristici degli anni Trenta. Un posto di assoluta rilevanza spetta in questo contesto all’esodo dalla Germania di quasi tutti i principali protagonisti della “grande cultura” di Weimar, per la quale l’instaurazione dello Stato nazista rappresentava la totale distruzione, sia per le sue profonde radici nel mondo ebraico,

sia per i suoi caratteri di avanguardia e per la sua forte ispirazione sociale: tutti elementi che il regime considerava come l’espressione di un “bolscevismo della cultura” e di un’“arte degenerata” che non solo doveva essere ridotta al silenzio ma anche additata alla pubblica esecrazione. Fu questa la sorte riservata a tutti gli esponenti delle avanguardie artistiche del Novecento nella famigerata esposizione allestita a Monaco nel 1937,! mentre il rogo dei libri aveva colpito sin dal maggio 1933 l’intera tradizione democratica, umanistica, socialista e pacifista della scienza e della cultura austro-tedesca, da Einstein a Freud, da Heinrich Mann a Déblin, a Brecht, a Ossietzky, a Remarque, a Kraus, a Schnitzler, fino a tornare indietro a Marx e a Heine. Si calcola che ben oltre duemila scrittori,

giornalisti e operatori culturali, circa tremila scienziati e studiosi espulsi dalle università e dagli istituti di ricerca soppressi dal regime, centinaia di artisti, architetti, musicisti, registi e attori scelsero la via dell’esilio. Se l'emigrazione italiana era stata soprattutto politica, quella tedesca si caratterizzò soprattutto per quello che è stato definito “il più ricco trapianto di ingegno, talento e conoscenza che mai il mondo ebbe modo di vedere”: e basterà ricordare, facendo torto a moltissimi, inomi di Einstein, Thomas, Heinrich e Klaus Mann, Brecht, Déblin, Toller, Arnold e Stefan Zweig, Erich Fromm e Wilhelm Reich, Kandinsky, Klee, Grosz, Beckmann, Ernst Kassirer, Benjamin, Horkheimer e Adorno, Kracauer,

Gropius e, dopo l’annessione dell'Austria (1938), quelli di Freud, Musil e Joseph Roth. È merito inestimabile di questa emigrazione non solo di aver salvaguardato, attraverso le sue opere e le sue pubblicazioni, le sue riviste politiche e letterarie e le sue case editrici sorte a Parigi, Londra, New York, Amsterdam, Praga, Mosca, la continuità della grande cultura tedesca, ma di avere contribuito, con la

1? In proposito di grande interesse è il volume “Entartete Kunst” - Das Schicksal der Avantgarde im Nazi-Deutschland, Monaco, 1992.

20 P. Gay, La cultura di Weimar, Bari, 1978, p. 18 (ed. or., New York, 1968).

propria testimonianza sul carattere terroristico del regime nazista e sul pericolo che esso costituiva per la pace e la libertà dei popoli dell’intera Europa, alla prima formazione di un’opinione pubblica antifascista sul piano internazionale. Un momento di svolta fondamentale fu costituito in questo contesto dalla campagna internazionale sull’incendio del Reichstag e per la liberazione di Dimitrov e dei suoi compagni organizzata nel 1933 da Willi Minzenberg in una visione precorritrice del Fronte popolare. La pubblicazione del Libro bruno e l’organizzazione del Controprocesso di Londra, la denuncia estremamente lungimirante dei caratteri di oppressione e di barbarie della dittatura nazista, del rogo dei libri, dei pogrom antiebraici, del sistema dei campi di concentramento, costituirono la base per la crescita di un movimento di protesta e di solidarietà che coinvolse l’intellettualità progressista in Europa e negli stessi Stati Uniti, dirigenti politici e

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personalità di orientamento liberaldemocratico e socialista, giuristi e avvocati di fama internazionale, e che aprì la strada già alla fine del 1933 alle prime forme di unità d’azione tra comunisti e socialisti.?! Per la verità, se la campagna assunse questi caratteri, ciò avvenne soprattutto in virtù dell’iniziativa di Mùunzenberg e dei suoi collaboratori, né mancarono contrasti con i vertici e con altri organismi dell'IC, che cercarono a più riprese di ricondurla a una contrapposizione frontale tra fascismo e comunismo al di fuori di ogni alleanza e di ogni contenuto di carattere democratico. Nondimeno, per il suo svolgimento (memorabile l’autodifesa di Dimitrov contro Gòring) e per i suoi risultati (l'assoluzione e la liberazione dei comunisti arrestati), la campagna suscitò una straordinaria eco internazionale, innescando una dinamica che si sarebbe rivelata ben presto inarrestabile. Essa esercitò la sua massima incidenza in Francia, dove all’acutizzarsi della crisi

economica e sociale fece riscontro nel 1933-34 una violenta offensiva delle destre contro il sistema parlamentare e dove si assistette a una intensa mobilitazione antifascista che vide in prima fila gli intellettuali: mentre Gide e Malraux promuovevano la costituzione del Comitato Thalmann, un’altra iniziativa di ampio respiro unitario destinata a divenire il centro della campagna per la liberazione degli antifascisti tedeschi nel 1934-35, Paul Rivet, Paul Langevin e Alain, tre in-

tellettuali di area socialista, comunista e radicale, prendevano l'iniziativa per la costituzione del Comitato di vigilanza degli intellettuali antifascisti, che lanciava un pressante appello per la creazione di un fronte unico di tutte le organizzazioni operaie per difendere le pubbliche libertà e sbarrare la strada al fascismo, e che nel giro di pochi mesi raccoglieva oltre duemila adesioni tra le figure più eminenti della cultura francese. In precedenza un momento di svolta era stato costituito dallo sciopero generale e dalla grande manifestazione parigina del 12 febbraio 1934, che aveva rivelato l’esistenza di una spinta unitaria di base capace di superare le resistenze e le contrapposizioni ideologiche dei partiti maggiori del movimento operaio, e che si era svolta negli stessi giorni dell’insurrezione degli Schutzbundler austriaci contro l’instaurazione del regime clerico-fascista di Dollfuss. Al di là della sconfitta subita sul campo e della durissima repressione che ne era seguita, la resistenza della Vienna rossa costituì anch'essa un momento di crescita del movimento antifascista e un segnale che la passività e il “feticismo legalitario” che avevano portato alla disfatta la SPD appartenevano ormai al passato. Da questo momento il fronte unico antifascista diveniva un terreno di confronto obbligato che investiva l'insieme delle forze del movimento operaio. Mentre nella SFIO la convergenza di Blum con correnti della sinistra portava alla formazione di una nuova maggioranza favorevole al fronte unico antifascista, le posizioni del PCF riflettevano il confronto sotterraneo tra conservatori e rinnovatori apertosi al vertice dell'IC e conclusosi a favore di questi ultimi grazie anche al contributo determinante di Dimitrov, giunto in URSS subito dopo la liberazione dal carcere nazista. Era aperta così la strada alla firma nel luglio 1934 del patto d’unità d’azione tra il PCF e la SFIO, cui seguivano analoghi accordi tra i comunisti e socialisti austriaci e italiani. Nell’anno che seguì sarebbe venuto a maturazione il processo di formazione dei Fronti popolari antifascisti: in Francia con la convergenza del PCF, della SFIO e dei radicali su un programma comune in difesa della democrazia e della pace;? in Spagna con la nascita di un ampio fronte elettorale tra i gruppi repubblicani e le forze del movimento operaio contro la politica autoritaria dei governi della destra e per l’amnistia dei 40.000 detenuti politici a seguito della fallita insurrezione delle Asturie (1934).24 Nell’un caso e nell’altro lo sviluppo del Fronte popolare avrebbe comportato una estesa politicizzazione delle classi lavoratrici, che

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21 Cfr. B. Gross, Will Miinzenberg - A Political Biography, Michigan State University Press,

1974, pp. 234-266.

i

22 Su questi temi rinvio a M. Carli, Gli intellettuali antifascisti e le origini del Fronte popolare in Francia 1932-1935, in “Dimensioni e Problemi della Ricerca Storica”, n. 1, 1995. ? Per un aggiornato quadro d’insieme si veda]. Jackson, The Popular Front in France - Defending Democracy 1934-1938, Cambridge, 1988. 24 Sulle origini del Fronte popolare in Spagna si veda M. Tuîòn de Lara, Tres claves de la Segunda Republica, Madrid, 1985.

furono protagoniste nel 1936 di grandi movimenti sociali, e un’intensa partecipazione degli intellettuali, di cui l’espressione più emblematica (anche nelle sue tensioni e contraddizioni) fu il Congresso internazionale per la difesa della cultura

svoltosi a Parigi nel luglio 1935. Nel frattempo il VII Congresso dell'IC, convocato dopo una fase di preparazione difficile e travagliata, aveva segnato una svolta di portata storica, assumendo la difesa della democrazia politica come compito centrale dei partiti comunisti, rilanciando il fronte unico del movimento operaio contro il fascismo nel quadro di una politica di ampie alleanze con le forze democratico-borghesi, ponendo l’URSS al centro della mobilitazione internazionale contro il fascismo e la guerra. Per la verità il congresso aveva lasciato ancora irrisolti alcuni nodi fondamentali della politica comunista: dall’assenza di un’aperta autocritica della linea “classe contro classe” alla riaffermazione del quadro

teorico della “crisi generale” del capitalismo, della contrapposizione tra i “due sistemi” e dell’“unicità” del modello sovietico, alla mancata revisione del regime monolitico e centralistico dell'IC, destinato a entrare sempre più in conflitto con la varietà e la ricchezza che i movimenti di Fronte popolare andavano assumendo nei singoli contesti nazionali. Il congresso coincise inoltre con l’apogeo del sistema staliniano e con la degenerazione del sistema di potere in URSS (già delineatasi con l’assassinio di Kirov), che avrebbe aperto la strada ai grandi processi staliniani e al terrore di massa della fine degli anni Trenta. Per tutta la fase espansiva dei Fronti popolari questi elementi erano tuttavia destinati a rimanere sullo sfondo. L’annuncio del riarmo tedesco e l'aggressione di Mussolini all’Etiopia preannunciavano infatti una convergenza tra i due regimi fascisti che assumeva il significato di una minaccia non solo alla pace e all’autodeterminazione dei popoli, ma anche al patrimonio di valori e di conquiste consolidatosi nel corso delle rivoluzioni borghesi e sotto la spinta del movimento di emancipazione delle classi lavoratrici. La straordinaria forza di convincimento del mito dell'URSS e l’avvicinamento al comunismo di larghi strati di intellettualità democratica verso la metà degli anni Trenta, quando l’immagine dei successi dei piani quinquennali si intrecciò inestricabilmente con l’impegno antifascista del movimento comunista, risulterebbero incomprensibili se si prescindesse da questo contesto generale. L'impegno dell'URSS a favore dell’antifascismo e della “sicurezza collettiva” contro la politica di aggressioni e di guerra impersonata dai regimi fascisti, il sostegno offerto alla Spagna repubblicana di fronte alla politica di compromessi e di capitolazioni del governo britannico e di quello francese, l’esempio di tensione ideale che proveniva dai comunisti e dal loro ruolo protagonistico in tutti i fronti della lotta antifascista, contribuirono a far rimuovere le oscillazioni della politica estera sovietica e gli stessi tratti autoritari e terroristici del regime staliniano. La pianificazione sovietica divenne allora il simbolo della costruzione di un “mondo nuovo” e di una società in cui il lavoro liberato avviava il superamento di arretratezze secolari e in cui la fede nel progresso, così gravemente scossa dalle conseguenze della “grande crisi” e dal crollo dei sistemi economici e politici liberali, sembrava ritrovare un solido fondamento storico. In linea generale ciò non comportò un rifiuto di principio della democrazia, e anzi la battaglia antifascista assunse sempre più il significato della salva-

guardia di un'intera civiltà erede dell’illuminismo e della Rivoluzione francese,

2 In proposito si veda M. Flores, L'immagine dell'URSS - L’Occidente e la Russia di Stalin (1927-1956), Milano, 1990.

dei suoi valori e delle sue conquiste minacciate di annientamento. L'elemento nuovo era piuttosto costituito dalla convinzione che capitalismo e democrazia, lungi dall’identificarsi, tendevano a divergere radicalmente, che la difesa delle libertà democratiche ripudiate dalle classi dirigenti borghesi doveva poggiare in primo luogo sulla mobilitazione della classe operaia, che le finalità della lotta contro il fascismo avrebbero dovuto andare ben oltre la restaurazione delle isti-

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tuzioni liberali preesistenti e aprire la strada a “società più libere e più giuste” e che comunque si fosse giunti alla fine di un’intera epoca storica.?° La fase di più alta tensione politica e ideale e di più ampia irradiazione dell’antifascismo tra le due guerre fu segnata dal movimento internazionale di solidarietà che nell’estate-autunno 1936 si sviluppò a sostegno della Spagna repubblicana. Oltre 40.000 volontari accorsero da più di cinquanta paesi per combattere nelle Brigate internazionali e in altre formazioni minori della sinistra (tra cui va ricordata almeno la prima colonna italiana costituita in Catalogna da Carlo Rosselli), offrendo un contributo insostituibile alla difesa della Repubblica. Nello stesso tempo nei paesi e nei continenti più diversi si costituiva una rete vastissima di comitati di solidarietà che si impegnarono nella raccolta di fondi e nell’invio di generi di prima necessità, nell’offerta di medici, nell’organizzazione di ospedali e di servizi di sanità, nell’assistenza ai feriti, nell'adozione di bambini e in seguito nel sostegno agli esuli politici. Mentre l’azione della IOS, malgrado l'impegno dei socialisti austriaci e italiani e la costituzione di un Fondo di solidarietà con la Repubblica spagnola, fu paralizzata dall’opposizione irriducibile dei laburisti inglesi e dei partiti scandinavi al fronte unico coi comunisti e da un’oggettiva subalternità alla politica del “non intervento”, il movimento comunista, dopo alcu-

ne oscillazioni, impegnò tutte le proprie forze nel sostegno alla Spagna repubblicana. All’organizzazione delle Brigate internazionali si accompagnò la denuncia incessante delle deleterie conseguenze della politica di “non intervento”, mentre ancora per iniziativa di Minzenberg si costituiva un Comitato internazionale per il sostegno alla Repubblica spagnola che organizzava una serie di conferenze che vedevano una larghissima partecipazione di dirigenti politici e di personalità dei più diversi orientamenti, di esponenti di associazioni giuridiche e umanitarie, e soprattutto di intellettuali. Si può affermare con certezza che la parte più significativa della cultura internazionale si schierò allora nel campo dell’antifascismo, mentre l’adesione alla destra politica riguardò esigue minoranze: nell’elenco vastissimo dei nomi troviamo, accanto agli intellettuali dell'emigrazione tedesca e del Fronte popolare francese, le personalità più eminenti della letteratura e dell’arte spagnola e ispano-americana, da Picasso a Miré, a Garcîa Lorca, a Rafael Alberti, a Miguel Hernandez, a Antonio Machado, a Neruda, intellettuali cattolici francesi come Bernanos, Mauriac, Maritain, gli scrittori nordamericani

Dos Passos, Faulkner, Hemingway e Steinbeck, alcuni dei più grandi poeti inglesi del Novecento, come Auden e Spender, accademici di fama internazionale,

mentre un fenomeno profondamente nuovo fu costituito dall’adesione all’antifascismo di un numero rilevante di scienziati che in alcuni paesi (come la Gran Bretagna) abbracciò la quasi totalità del mondo scientifico.” Il movimento non si arrestò nemmeno di fronte alla barriera eretta dai regimi fascisti: proprio in Italia l'impatto e l'eco internazionale della guerra di Spagna costituirono il terreno per la maturazione antifascista di quella generazione di giovani intellettuali che aveva intrapreso un “lungo viaggio attraverso il fascismo”, e che costituì il fenomeno più sintomatico di un più generale processo di disgregazione delle basi di massa del regime in atto già prima dello scatenamento della guerra. Fu merito di coloro che si schierarono a fianco della Repubblica aver compreso per tempo che la guerra di Spagna, dopo l’intervento di Hitler e di Mussolini, aveva assunto il carattere di uno scontro internazionale tra fascismo e antifascismo in cui la posta in gioco era non solo la libertà e l’autodeterminazione del popolo spagnolo ma anche la possibilità di arrestare la preparazione da parte dei regimi fascisti di una nuova conflagrazione mondiale. In questo senso il volontariato internazionale rappresentò non solo una scelta etica ma una lucida risposta

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26 E.J. Hobsbawm, Gt intellettuali e l’antifascism0, in Storia del marxismo, vol. 3 (II), Torino,

1981, pp. 448-451, 485,

27 Cfr. ibid., pp. 456-478. 28 Cfr. il libro-testimonianza di R. Zangrandi, I/ lungo viaggio attraverso il fascismo - Contributo alla storia di una generazione, Milano, 1962.

politica, l’antitesi positiva alla strategia compromissoria e perdente dell’appeasement praticata dalle democrazie occidentali. Ma la guerra di Spagna rappresentò anche il terreno di crescita di nuove esperienze unitarie (che risultarono determinanti per l’antifascismo italiano) e di un profondo rinnovamento di culture politiche che ebbe al centro la definizione dei caratteri della rivoluzione antifascista. Nel movimento comunista riemerse nel 1936 la ricerca di un processo di transizione al socialismo diverso rispetto al modello sovietico che avrebbe dovuto assumere le forme di una “democrazia di tipo nuovo” e che sembrava prefigurare il superamento di quella scissione tra democrazia e socialismo che aveva dominato incontrastata negli anni della linea “classe contro classe” e che non era venuta a cadere neanche con la svolta del VII Congresso.?? Ma il significato più profondo delle potenzialità apertesi nel momento di più alta unità e tensione ideale tra le forze antifasciste era lucidamente colto da Carlo Rosselli nei giorni della difesa di Madrid: “L'esperienza in corso in Spagna è di straordinario interesse per tutti. Qui non dittatura, non economia da caserma, non rinnegamento dei valori culturali dell'Occidente, ma conciliazione delle più ardite riforme sociali con la libertà. Non un solo partito che, pretendendosi infallibile, sequestra la rivoluzione su un programma concreto e realista: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani collaborano alla direzione della cosa pubblica, al fronte, nella vita sociale.”?0 Certo la Spagna, per usare il titolo di un celebre romanzo di Malraux,! non irradiò solo il messaggio della speranza, parlò anche il linguaggio amaro della disillusione e della sconfitta (emblematica la testimonianza di George Orwell??),

29 Mi sia consentito ancora di rinviare a C. Natoli, Togliatti e il dibattito sulla “democrazia di tipo nuovo” nel Fronte popolare (1935-1939), in C. Natoli, L. Rapone (a cura di), A cinquant'anni

dalla guerra di Spagna, Milano, 1987, pp. 109-124. 30 C. Rosselli, Oggi in Spagna domani in Italia, ora in C. Rosselli, Scritti dell'esilio, vol. II, a cura di C. Casucci, Torino, 1992, p. 426. 31 A. Malraux, La speranza, Milano, 1956 (ed. Rata,

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32 G. Orwell, Orzaggio alla Catalogna, Milano, 1948 (ed. or., Londra, 1938).

33 Su questi temi si rinvia a P. Spriano, I comu nisti europei e Stalin, Torino, 1983, pp. 32-143.

quando con il 1937, di fronte ai problemi della conduzione economica e militare della guerra, esplosero contrasti insanabili tra le forze repubblicane e quando nell’IC prevalse la scelta di condurre uno scontro frontale con altre componenti della sinistra che trasferiva in Spagna e nel movimento comunista il clima di sospetto e di intolleranza e i metodi dei grandi processi di Mosca. In questo senso la caduta della Repubblica nel marzo 1939 derivò certo dall'enorme superiorità militare dei franchisti, ma fu anche la conseguenza delle divisioni e del venir meno della straordinaria tensione politica e ideale che aveva animato nell’autunno 1936 la mobilitazione popolare e l'insieme delle forze repubblicane. La fine della guerra di Spagna apre una diaspora inarrestabile dell’antifascismo in Europa, la cui unità era già stata profondamente minata dall’esaurimento del Fronte popolare francese e dalla divisione tra i sostenitori di un pacifismo sempre più incline a capitolare di fronte all’espansionismo fascista e coloro che invece ritenevano necessario prepararsi a una guerra generale, che appariva ormai inevitabile. La crisi finale dell’antifascismo fu determinata dalla firma del Patto Ribbentrop-Molotov, quando la dirigenza sovietica e la logica staliniana dell’identificazione assoluta con la “patria del socialismo” imposero ai partiti comunisti di lasciar cadere in nome della “difesa dell'URSS” la causa dell’antifascismo.?? E tuttavia troppo profonde erano state le esperienze maturate nella lotta clandestina e nei grandi movimenti di massa degli anni Trenta e troppo estesa era stata la maturazione delle coscienze sulla reale natura dei regimi fascisti (presto con-

fermata dalla realtà di oppressione e di genocidio che si accompagnò alla dominazione nazifascista dell'Europa), perché il patrimonio etico-politico dell’antifascismo potesse andare disperso. Esso avrebbe infatti costituito nell'Europa occu-

pata, in particolare dopo l'aggressione nazista all’URSS del giugno 1941, un retroterra essenziale dei maggiori movimenti di Resistenza, che avrebbero avuto tra i dirigenti e gli organizzatori i quadri politici e militari formatisi alla “scuola” del carcere e del confino, nell’illegalità e nell’emigrazione, nei Fronti popolari e nella guerra civile spagnola. Il nucleo più vitale della Resistenza come “nuova democrazia”, e cioè, per usare le parole di Vittorio Foa, una “democrazia rinnovata,

socialmente avanzata e fondata su una genuina partecipazione popolare”74 costituiva inoltre una acquisizione fondamentale dell’antifascismo degli anni Trenta. Certo, questa prospettiva sarebbe stata con la “guerra fredda” largamente disattesa a ovest e più ancora a est dell'Europa. E tuttavia la ricostruzione dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra non avrebbe assunto i caratteri di una mera “restaurazione”, quanto piuttosto quelli di un incontro tra liberalismo economico e “democrazia sociale” e di un allargamento dei diritti di cittadinanza profondamente nuovi rispetto ai sistemi liberali crollati con la crisi del ’29. Il fatto che gli ideologi del “libero mercato” cerchino oggi di cancellare la memoria storica tanto dell’antifascismo quanto dei sistemi più avanzati di Welfare State può costituire uno stimolo a indagarne i complessi rapporti di interazione e a riscoprirne la non esaurita vitalità.

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3 V. Foa, I/ cavallo e la torre - Riflessioni su una vita, Torino, 1991, p. 58.

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Il volto del totalitarismo

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