Art e Dossier n. 385 marzo 2021
 8809910192, 9788809910195

Table of contents :
Copertina
Colophon
Sommario
Art news
Save Italy. Nessuna giustificazione per l’incuria
Camera con vista. Parasite & co
Arte contemporanea. New York: riapre il Dia Chelsea
Arte contemporanea. Art Dubai 2021
Storia a strisce. Echi del passato nel presente
XXI secolo. 1 – Lee Seung-taek. Con la complicità della natura
Grandi mostre. 1 – Francesca Woodman online. Mimetizzarsi nel colore
XXI secolo. 2 – Alighiero Boetti e Salman Ali. Il capolavoro vivente
Grandi mostre. 2 – La collezione Ramo a Houston. Il disegno, essenza su carta
Architettura per l’arte. La luce naturale dentro
Grandi mostre 3. – Signac a Parigi. Vibrazioni a tinte forti
L’oggetto misterioso. Nevermore, la tela peregrina di Gauguin
Letture iconologiche – Le storie di Giunone e Giove di Andrea Appiani. Le trappole dell’eros coniugale
Studi e riscoperte. 1 – Giovanni Battista Della Porta e gli studi fisiognomici. Un campionario bestiale
Grandi mostre. 4. – I marmi Torlonia a Roma. La collezione delle collezioni
Grandi mostre. 5 – Gli olmechi a Parigi. Tra naturalismo idealizzato ed espressionismo astratto
Studi e riscoperte. 2 – La Testa di filosofo di Porticello. Un saggio dallo sguardo intenso
Aste e mercato
In tendenza. Una stella del mercato
Cataloghi e libri
Dossier: Hals
Sommario
Un modello per gli impressionisti
Haarlem
Gli inizi e la pittura di genere
I ritratti
Quadro cronologico
Bibliografia

Citation preview

IN MOSTRA SIGNAC A PARIGI LA COLLEZIONE RAMO A HOUSTON OLMECHI A PARIGI

MENSILE - ANNO XXXVI - NUMERO 385 - MARZO 2021

MARMI TORLONIA VITA COMPLICATA DI UNA GRANDE COLLEZIONE

DOSSIER HALS

DI CLAUDIO PESCIO

COSA CI DICE IL VOLTO DELLA PORTA E LA FISIOGNOMICA IL FILOSOFO DI PORTICELLO GLI AUTORITRATTI DI FRANCESCA WOODMAN

CONTEMPORANEI TRANSNAZIONALI LE NON-SCULTURE DI LEE SEUNG-TAEK ALIGHIERO BOETTI E SALMAN ALI

EDITORIALE Mensile culturale di GIUNTI EDITORE Numero 385 - MARZO 2021 (chiuso in tipografia il 28 gennaio 2021) Contiene inserti redazionali Direttore CLAUDIO PESCIO Comitato scientifico Rosalba Amerio Tardito, Achille Bonito Oliva, Christoph L. Frommel, Augusto Gentili, Jolanda Nigro Covre, Antonio Paolucci, Giandomenico Romanelli, Orietta Rossi Pinelli, Nicola Spinosa, Claudio Strinati, Alessandro Tomei, Matthias Winner Redazione Ilaria Ferraris (caporedattore) Giovanna Ferri (editing e coordinamento) Michela Ceccantini (segreteria di redazione) Sara Draghi (responsabile web e social) Progetto grafico RovaiWeber design Grafica e impaginazione RovaiWeber design Impaginazione dossier RocÍo González Hanno collaborato a questo numero Enrica Crispino (redazione Dossier e controllo fattuale) Gloria Fossi Ricerca iconografica Claudia Hendel Elisabetta Marchetti Pubblicità e marketing Antonella Rapaccini e-mail [email protected] tel. 055 5062277 Pubblicità interna Edoardo Frascino (grafico) Concessionaria pubblicità Progetto srl Trento 38122 - via Grazioli 67 Milano 20137 - via Tacito 6 Roma 00186 - piazza di Campitelli 2 tel. 0461 231056 e-mail [email protected] www.progettosrl.it Direzione, redazione e amministrazione Giunti Editore via Bolognese 165 - 50139 Firenze Tel. 055 50621 - Fax 055 5062298 per contattare la redazione: www.artedossier.it/contatti www.giunti.it Prezzi per l’Italia Prezzo di copertina € 5,90 Abbonamento annuale € 48 Iban IT61D0760102800000012940508 c.c.p. 12940508 intestato ad Art e Dossier - Firenze L’abbonamento può essere richiesto anche via SMS scrivendo “artedossier” al n. 3480976204 e sarete contatti. (Costo del servizio pari a un normale SMS) Servizio abbonati Tel. 055 5062424 (lunedì - venerdì 9-18) Fax 055 5062397 e-mail [email protected] www.giuntiabbonamenti.it

Claudio Pescio

marzo 2021

Volti Cosa nascondono, o rivelano, i lineamenti di un volto? Ormai da un anno questa porzione del corpo di gran parte delle persone che incontriamo è sottratta alla nostra vista. Possiamo solo immaginare cosa si cela dietro tutte quelle mascherine. Ci siamo ritrovati ad affidarci allo sguardo, che ha avuto un anno per allenarsi a svolgere da solo il lavoro che normalmente condivideva col resto del volto: comunicare. Per una vita siamo stati abituati a decifrare tutto il possibile dei nostri interlocutori proprio da quella specie di ritratto di noi stessi che le nostre facce propongono quotidianamente al mondo intero. Un manifesto al quale cerchiamo di dare il compito di parlare di noi stessi, con risultati a volte solo parzialmente coerenti con le nostre intenzioni; e che in realtà sfuggono spesso al nostro controllo. Pittori, scultori, fotografi, miniatori nel tempo hanno fissato in forma stabile, nel ritratto, alcuni momenti in cui questo manifesto veniva esposto. È quel che ha fatto per buona parte della sua carriera di pittore il protagonista del nostro dossier, Frans Hals; forse uno dei più attenti e capaci traduttori su tela di ansie, ambizioni, affetti che i suoi clienti decidevano di affidare a una forma visiva persistente, capace di perpetuare il messaggio rendendolo accessibile a molti più soggetti di quelli raggiungibili nella cerchia dei parenti stretti o degli amici. Così quei volti guardano anche noi, oggi, e viceversa; restituendoci, almeno in parte, il bagliore residuo di una vita reale di qualche secolo fa. Ma c’è anche chi, come Giovanni Battista Della Porta (se ne occupa un articolo di questo numero), già un secolo prima di Hals aveva cercato di andare oltre l’esigenza, vecchia come l’umanità, di fermare su un supporto qualunque una traccia di noi. E aveva svolto un’indagine sul rapporto fra sembianze umane e animali, individuando contatti e costanti rivelatori, a suo avviso, di affinità psicologiche, o quantomeno di indole. È l’avvio della fisiognomica, che nei secoli successivi si formalizzerà in forme parascientifiche. Un altro volto, un bronzo greco ritrovato in Calabria nel 1969, ha attirato la nostra attenzione proprio per la difficoltà di decifrarne l’appartenenza. È comunemente indicato come Testa di filosofo: un uomo anziano, dallo sguardo intenso, una lunga barba, l’espressione affaticata. L’identificazione con un filosofo è un automatismo iconologico, date le caratteristiche, ma il realismo dei dettagli ha fatto avanzare altre ipotesi. Semplicemente, a volte le risposte non le abbiamo, quegli sguardi hanno perso la capacità di parlarci in una lingua a noi nota, e dobbiamo accontentarci del fascino dell’enigma. Analoghe suggestioni troveremo negli articoli dedicati ai marmi Torlonia. Per venire all’oggi, dedichiamo spazio a quella particolare forma di comunicazione di sé che è l’autoritratto, nella versione però che mette il volto in secondo piano per affidare il compito al corpo, nella sua totalità o in forma parziale. Parliamo di Francesca Woodman, protagonista di una mostra virtuale che ne manifesta l’identità mimetica e metamorfica.

ISBN: 9788809951433

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MARZO 2021 In copertina: Donna scarificata (200 d.C. crica), Ciudad Valles, San Luis PotosÍ (Messico), Zona ArquelÓgica de Tamtoc, pp. 78-83.

06 F ART NEWS 07 F SAVE ITALY Nessuna giustificazione per l’incuria di Leonardo Piccinini 09 F CAMERA CON VISTA Parasite & co di Luca Antoccia 11 F

ARTE CONTEMPORANEA New York: riapre il Dia Chelsea di Cristina Baldacci

12 F ARTE CONTEMPORANEA Art Dubai 2021 di Riccarda Mandrini 14 F STORIE A STRISCE Echi del passato nel presente di Sergio Rossi 16 F XXI SECOLO. 1 Lee Seung-taek Con la complicità della natura di Riccarda Mandrini 22 F GRANDI MOSTRE. 1 Francesca Woodman online Mimetizzarsi nel colore di Francesca Orsi 28 F XXI SECOLO. 2 Alighiero Boetti e Salman Ali Il capolavoro vivente di Bruno Corà 34 F GRANDI MOSTRE. 2 La collezione Ramo a Houston Il disegno, essenza su carta di Irina Zucca Alessandrelli 40 F ARCHITETTURA PER L’ARTE La luce naturale dentro di Aldo Colonetti 44 F GRANDI MOSTRE. 3 Signac a Parigi Vibrazioni a tinte forti di Valeria Caldelli 52 F L’OGGETTO MISTERIOSO Nevermore, la tela peregrina di Gauguin di Gloria Fossi 56 F LETTURE ICONOLOGICHE Le storie di Giunone e Giove di Andrea Appiani Le trappole dell’eros coniugale di Enrico de Iulis

DOSSIER: Hals di Claudio Pescio

Al momento in cui andiamo in stampa, l’evolversi dell’emergenza causata da coronavirus non ci consente di fornire informazioni definitive sulle mostre e gli eventi qui presentati. Si consiglia, pertanto, di consultare i rispettivi siti web e/o di chiamare i numeri di telefono indicati per ricevere i necessari aggiornamenti.

62 F STUDI E RISCOPERTE. 1 Giovanni Battista Della Porta e gli studi fisiognomici Un campionario bestiale di Mauro Zanchi

ON LINE GLI INDICI DI TUTTE LE ANNATE DI

www.artedossier.it

68 F GRANDI MOSTRE. 4 I marmi Torlonia a Roma La collezione delle collezioni di Sergio Rinaldi Tufi 74 F LA PAGINA NERA C’è una grande querimonia dietro ai marmi dei Torlonia di Fabio Isman 78 F GRANDI MOSTRE. 5 Gli olmechi a Parigi Tra naturalismo idealizzato ed espressionismo astratto di Antonio Aimi 84 F STUDI E RISCOPERTE. 2 La Testa di filosofo di Porticello Un saggio dallo sguardo intenso di Damiano Fantuz 90 F ASTE E MERCATO di Daniele Liberanome 92 F IN TENDENZA Una stella del mercato di Daniele Liberanome 94 F CATALOGHI E LIBRI a cura di Gloria Fossi

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ARTNEWS

MARZO 2021

_ IL POLITTICO DI SAN LUCA VERONA Un’opera preziosa e poco nota, da poco acquistata dal Mibact, è entrata a far parte delle raccolte dei Musei civici di Verona, per essere esposta al Museo di Castelvecchio nella sala del Mantegna. È il Polittico di san Luca (in foto, particolare), opera complessa a tre scomparti e due registri che un anonimo intagliatore veronese scolpì attorno agli anni Settanta-Ottanta del XV secolo, memore degli insegnamenti mantegneschi. Inquadrato da una ricca cornice, con trafori applicati su fondi in carta rossi o blu, a imitazione degli smalti, raffigura la Madonna in trono e diversi santi fra cui san Luca evangelista allo scrittoio. Info: museodicastelvecchio.comune.verona.it

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NOVITÀ ALLA GALLERIA DELL’ACCADEMIA FIRENZE Con lavori di restauro in corso, la Galleria dell’Accademia ha riaperto i battenti con un percorso espositivo provvisorio, studiato per sorprendere il pubblico: tutti i dipinti della sala del Colosso, fra cui molti celebri capolavori del Quattrocento e del Cinquecento, sono stati trasferiti in alcuni ambienti di solito destinati a mostre temporanee; la collezione della gipsoteca, fra cui duecentosessantaquattro busti realizzati da Lorenzo Bartolini (1777-1850), sessanta sculture e quaranta bassorilievi, è stata distribuita nelle varie sale. La riapertura degli ambienti restaurati, con nuovi impianti di climatizzazione e illuminazione e un rinnovato itinerario museale, è prevista per luglio. Info: www.galleriaaccademiafirenze.beniculturali.it

_ GORMLEY IN PIAZZA DUOMO PRATO Shy è un’altissima figura in ghisa di Antony Gormley, artista londinese celebre per le sue opere ispirate alla relazione fra corpo umano e ambiente circostante. Realizzata nel 2017 con tremilaseicento chilogrammi di ghisa, la scultura è esposta fino a giugno nella piazza del duomo di Prato, in suggestivo dialogo con i calchi dei bassorilievi del pulpito di Donatello.

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SAVEITALY

Nessuna giustificazione per l’incuria

leonardo piccinini

Due casi emblematici. Due monumenti a rischio. Si invocano le istituzioni (che in verità hanno cominciato timidamente a reagire) ma decenni di degrado sono vergognosi da giustificare. Siamo poco a Sud di Reggio Emilia, in quella fascia pedecollinare così ricca di testimonianze architettoniche di pregio e di residenze estive della nobiltà estense. Il rovinoso stato in cui versano l’antica reggia di Rivalta (o perlomeno quel che ne rimane) e villa Levi a Coviolo, ben raccontato su più organi di stampa locale, ha scatenato mobilitazioni,

denunce, interrogazioni. Il Comune di Reggio assicura interventi, più promettenti nel caso di Rivalta, più vaghi per quel che riguarda Coviolo, magnifica villa neoclassica abbandonata nel 2019 dall’Università di Bologna che la acquisì nel 1971. E chissà quale straordinario complesso di edifici, giardini, laghi, fontane doveva essere questa delizia di Rivalta, costruita negli anni Venti del XVIII secolo per accontentare i capricci di una (futura) duchessa di Modena: Carlotta Aglae d’Orléans, madamigella di Valois, viziata frequentatrice di feste, balli e cacce e, soprattutto, figlia del reggente Filippo di Francia. L’arcigno duca Rinaldo d’Este l’aveva individuata quale sposa per il figlio (Francesco III), e la serie di ameni rilievi sui quali si realizzò il complesso di Rivalta risultavano adattissimi ai divertimenti rococò di Carlotta. Un grande palazzo, vari edifici satelliti immersi nel grande parco, e un lago per alimentare le fontane con al centro l’isolotto di Alcina (Ariosto era tra le memorie di casa d’Este…) sul quale fu edificato un casino chiamato Fuggi l’ozio. Una piacevole eco dei divertimenti grandiosi di Francia, quelli sì retti grazie a cospicue finanze: qui invece gli estensi nei decenni successivi cominciarono a venderne alcune parti non potendosi più permettere il costoso “giocattolo” di Carlotta, nel frattempo scomparsa. Il tracollo definitivo arrivò con le truppe di Napoleone e, peggio ancora, con la consegna a gente del posto degli ancor sontuosi edifici: depredati, smontati, demoliti, a eccezione di un lato della corte, ancor oggi esistente, dell’impianto a terrazze dei giardini e della cappella. La così detta Rivaltella diventerà poi stabilimento alimentare, e il casino al centro del lago, ben conservato, dancing e pizzeria… H

Villa Levi a Coviolo (Reggio Emilia), risalente nel suo impianto originario al XVII secolo.

Reggia di Rivalta (Reggio Emilia), costruita negli anni Venti del XVIII secolo.

QUALI EFFETTI HANNO AVUTO LE MOBILITAZIONI, LE DENUNCE, LE INTERROGAZIONI LEVATESI DA PIÙ PARTI PER RECUPERARE LA REGGIA DI RIVALTA E VILLA LEVI A COVIOLO, ENTRAMBE IN PROVINCIA DI REGGIO EMILIA, DA DECENNI IN STATO DI ASSOLUTO DEGRADO? PER ORA SOLO TIMIDI SEGNALI DA PARTE DEGLI ORGANI ISTITUZIONALI

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_ UN NUOVO GUIDO RENI ALLA GALLERIA BORGHESE ROMA Danza campestre (1601-1602 circa), tela attribuita di recente a Guido Reni, è stata acquisita dalla Galleria Borghese. L’opera è documentata nelle raccolte del cardinale Scipione Borghese, committente a più riprese del maestro emiliano. L’opera raffigura un arioso paesaggio popolato da numerose figure, alcune nell’atto di ballare. L’assegnazione a Guido Reni da parte di Keith Christiansen è condivisa dagli studiosi: la tela compare infatti negli inventari e nelle descrizioni della collezione Borghese per tutto il Seicento, con l’attribuzione a Guido Reni. Dopo vari passaggi, Danza campestre, da tempo all’estero, è stata esposta nel marzo 2020 al Tefaf di Maastricht, e quindi acquistata per il suo rientro definitivo in Italia. Info: www.galleriaborghese.beniculturali.it

_ IL MACTE RIAPRE E SI RINNOVA TERMOLI (CAMPOBASSO) Con un nuovo allestimento curato dalla direttrice Caterina Riva, è stato riaperto il MACTE - Museo di arte contemporanea di Termoli. Il museo ospita le opere di artisti italiani dal secondo dopoguerra a oggi, vincitori del premio Termoli, istituito nel 1955 per premiare i protagonisti dell’arte dal secondo Novecento a oggi. Il progetto di riallestimento, che vanta opere di Dadamaino, Carla Accardi, Nanda Vigo (in foto, qui sotto, Light Progressions. Trilogy, 1993), Tano Festa, Gastone Novelli, Mario Schifano e molti altri, non segue un percorso cronologico bensì vuole mostrare diverse strategie e materiali. Info: www.fondazionemacte.com

_ ITALICS, CON I GALLERISTI Una nuova piattaforma digitale, Italics. Art and Landscape riunisce un consorzio di oltre sessanta gallerie, fra le quali Gagosian, Galleria Continua, Carlo Orsi, Massimo De Carlo, Galleria dello Scudo, Franco Noero, Massimo Minini, Alfonso Artiaco, dall’antico al contemporaneo (in foto, da sinistra, Eva Rothschild, Middle Temple, 2015, Kaufmann Repetto, Milano; un’installazione di Tomás Saraceno, Pinksummer Contemporary Art, Genova). Con indicazioni su dove trovare e vivere l’arte in Italia o scovare bellezze e tesori poco conosciuti, un sito ricco di materiale utile per collezionisti e appassionati. Info: www.italics.art

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CAMERACONVISTA

luca antoccia

PARASITE & CO Parasite di Bong Joon-ho è stato il primo film coreano a vincere la Palma d’oro a Cannes (2019) e a guadagnare l’Oscar come miglior film straniero (2020). Il cinema coreano arriva al successo mediatico dopo quello di critica avuto da registi come Im Kwon-taek, Kim Ki-duk, Park Chan-wook. Quanto ai film di Bong Joon-ho, le recenti uscite in dvd di Parasite e di Memories of Murder (2003) grazie a Eagles Pictures Italia, il rinnovato appeal di Snowpiercer (2013, anche questo reperibile in dvd), dal quale è nata l’omonima serie tv americana (distribuita nel nostro paese, dalla primavera del 2020, su Netflix), aiutano a sviluppare un discorso critico. Senza dimenticare che la stessa società statunitense ha prodotto e continua a proporre Okja (2017), anarchica favola animalista, e la recente proiezione di una versione in bianco e nero di Parasite in occasione del Far East Film Festival di Udine. Per quest’ultima operazione Bong Joon-ho dà due motivazioni. La prima è che il bianco e nero più del colore aspira a diventare un classico per l’eternità. Più interessante la seconda, che immette nel mondo ideale dell’autore, sintetizzabile col motto che ha accompagnato l’uscita del film: «Nessuno è tutto nero o tutto bianco». Non è tanto la lotta di classe e la critica sociale a interessare il regista, quanto un’idea di umanità dove ogni essere umano ha in sé tutto il bene e tutto il male. I parassiti di Parasite non sono solo la famiglia ricca ma anche quella povera e in Snowpiercer

bastano due ore di film per trasformare l’eroe, Curtis, in una reincarnazione del Male, tanto che qualcuno ha visto nel personaggio positivo/negativo del saggio Gilliam una sorta di compassionevole e contraddittorio Buddha. In Parasite, visivamente, lo scontro tra le due classi è giocato sull’asse verticale, rappresentato metaforicamente dalle scale interne alla casa della famiglia ricca (notevoli i piani-sequenza), mentre in Snowpiercer dall’asse orizzontale dei vagoni del treno dei sopravvissuti. È però il sottofinale di Memories of Murder a testimoniare una visione parabuddhista della vita: la bambina, che ha visto in faccia l’assassino, racconta di un volto comune, indistinguibile. Come a dire: inutile rincorrere l’identikit dell’assassino, il male non si annida necessariamente, come si affanna a credere la polizia, in soggetti tarati o “diversi” perché il male è dentro ogni essere umano. Non sbaglia Quentin Tarantino a paragonare Bong Joon-ho a Spielberg per l’abilità nel mescolare temi alti e spettacolo in una visione pop, differente ma cionondimeno intrigante. H

Un frame da Snowpiercer (2013), di Bong Joon-ho.

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_ ARTECONTEMPORANEA

NEW YORK:

RIAPRE IL DIA CHELSEA CRISTINA BALDACCI

NUOVI SPAZI E NUOVI PROGETTI PER LA SEDE NEWYORCHESE DELLA DIA ART FOUNDATION NEL QUARTIERE DI CHELSEA CHE RIAPRE AD APRILE CON DUE GRANDI INSTALLAZIONI DI LUCY RAVEN

Dopo due anni di chiusura per lavori di rinnovamento degli spazi e riorganizzazione delle attività, ad aprile riapre la sede newyorchese della Dia Art Foundation nel quartiere di Chelsea. Le altre due sedi principali della fondazione si trovano fuori città. La sede di Beacon, in una ex fabbrica di cartone lungo il fiume Hudson; quella di Bridgehampton, quasi sulla punta di Long Island. A partire dalla sua nascita nel 1974 la Dia Art Foundation ha sostenuto la realizzazione di opere site-specific permanenti su larga scala che, senza un consistente aiuto economico, avrebbero avuto difficoltà a vedere la luce. Diversi sono i progetti di cui si è fatta promotrice negli Stati Uniti. Solo a Manhattan si contano due installazioni ambientali del land artist Walter De Maria (The New York Earth Room, 1977, e The Broken Kilometer, 1979), anch’esse di recente restaurate nelle rispettive sedi nel quartiere di Soho, e una degli artisticompositori minimalisti La Monte Young e Marian Zazeela (Dream House, 1993), a Tribeca. Di prossima apertura, il quinto luogo gestito dalla fondazione in città, sempre a Soho, in Wooster Street, dedicato a progetti temporanei.

Nelle gallerie al piano terra dei nuovi spazi del Dia Chelsea, frutto di una ristrutturazione, che ha coinvolto ben tre edifici adiacenti, la mostra di apertura presenta due grandi installazioni di Lucy Raven (Tucson, Arizona, 1977). Si tratta di un film, Ready Mix (2021), e di un lavoro tratto dalle Casters Series (2021) che indagano come sono stati costruiti il paesaggio e gli spazi urbani nell’Ovest americano. Per entrambi Raven fa uso dell’astrazione come mezzo di conoscenza. Altra novità: l’ampliamento del progetto, tuttora in corso, benché postumo, delle 7000 Querce di Joseph Beuys, le colonne di basalto simbolo dell’azione ambientale che l’artista tedesco (scomparso nel 1986) iniziò nel 1982 alla documenta 7 di Kassel e che, a partire dal 1988, vennero “piantate” anche sulla Ventiduesima strada, grazie alla Dia Art Foundation. H

Dia Art Foundation - Dia Chelsea New York www.diaart.org

Lucy Raven, Ready Mix, 2021, still da film.

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_ ARTECONTEMPORANEA

ART DUBAI 2021 Riccarda mandrini

Immagini di repertorio di Art Dubai 2019.

Nella settimana centrale del mese di marzo, in un costante clima perfetto per gli Emirati Arabi Uniti, si svolge la fiera d’arte di Dubai, Art Dubai. Fondata nel 2007 (come Christie’s Dubai) e nata sul modello della mono-sezione, nel tempo si è sviluppata su tre sezioni distinte: “Contemporary”, “Modern”, la cui prima edizione data 2014, e “Bawwaba” (che significa porta, passaggio in lingua araba) introdotta solo un paio di anni fa, dedicata alla produzione creativa del “Global South” e concepita come “Solo Presentation” (cioè attraverso il coinvolgimento di singoli artisti). Art Dubai oggi è una fiera matura e come ogni fiera internazionale di rilievo, al di là del necessario riscontro in termini di business per le gallerie, la sua ulteriore funzione è quella di costruire un ponte, fornire risposte culturali e informare il pubblico su realtà artistiche distanti, che in molti non avrebbero la possibilità di conoscere se non in occasione di una fiera.

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L’evento in sé esprime l’essenza della città araba. Una città moderna, internazionale nella quale convivono persone di oltre settanta nazionalità differenti, con un’alta percentuale di non nativi. Art Dubai ha fatto di questa internazionalità il proprio punto di forza, in un crescendo di esperienze autentiche che le hanno permesso di creare una vera e propria “art community”. Tra le tre varie sezioni, quella contemporanea è la più frequentata dai collezionisti e dal pubblico e il “display” proposto vanta un ampio raggio geografico di gallerie: europee (Templon, Parigi/Bruxelles; Galleria Continua, San Gimignano/Pechino/Les Moulins/L’Avana/Roma; Yusto/Giner, Marbella); africane (Gallery 1957, Accra; Addis Fine Art, Addis Abeba/Londra; Loft Art Gallery, Casablanca); dell’Asia Centrale (Aspan Gallery, Almaty) e dalle province baltiche (Gallery Artbeat, Tbilisi; The Rooster Gallery, Vilnius); numerose dal Medio Oriente (Dastan’s Basement, Teheran; Mono Gallery, Riad; Wadi

UNA FIERA MULTICULTURALE PER CONOSCERE, ATTRAVERSO LA PARTECIPAZIONE DI NUMEROSE GALLERIE PROVENIENTI DA EUROPA, MEDIO ORIENTE, ASIA CENTRALE E PAESI BALTICI, REALTÀ ARTISTICHE LONTANE MA UNITE IN QUESTO EVENTO IN UNA VERA E PROPRIA “ART COMMUNITY”

Finan Art Gallery, Amman; Sfeir-Semler Gallery, Beirut/ Amburgo) e dall’India (Experimenter Gallery, Calcutta). La sezione “Modern”, come per gli anni precedenti, assolve in modo virtuoso e specifico al suo compito di colmare una parte del “lack” storico-artistico della modernità dell’area mediorientale, del Sud Est asiatico e africana, integrandola a quella occidentale. Tra le gallerie presenti, Elmarsa di Tunisi e Dubai, in fiera con le tele del pittore tunisino Aly Ben Salem (1910-2001). E ancora Eye for Art fondata nel 2003 a Houston dai fratelli Ali e Jawaid Haider, galleria che opera esclusivamente nell’ambito dell’arte moderna del Pakistan. Tafeta di Londra, da anni presente in fiera, con il suo lavoro ha fatto conoscere le opere di diversi maestri africani e nigeriani tra cui, in particolare, Bruce Onobrakpeya (1932), Ibrahim El-Salahi (1930), Uche Okeke (1933-2016). E, infine, Aicon Gallery di New York, riferimento per l’arte moderna dell’area del Sud Est asiatico.

“Bawwaba” è proposta come una sezione aperta dove, attraverso un “up and down” di presenze di autori moderni e contemporanei, si integra una parte della produzione artistica dell’area australe del mondo. Tra le gallerie partecipanti: Blueprint 12 di Nuova Delhi con i lavori di Youdhisthir Maharjan (Nepal, 1984); Canvas Gallery di Karachi con una selezione di opere di Adeela Suleman (Pakistan, 1970); Galeria Vermelho di San Paolo con le installazioni pittoriche di Tania Candiani (Messico, 1974) e Saradipour Art Gallery di Los Angeles che introduce al pubblico della fiera le tele del pittore iraniano Moslem Khezri (Iran, 1984). H

Art Dubai 2021 Dubai dal 17 al 20 marzo www.artdubai.ae

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STORIEASTRISCE

ECHI DEL PASSATO NEL PRESENTE Sempre più graphic novel prendono spunto da personaggi, fatti, eventi della storia e del mondo dell’arte per offrire chiavi di lettura della realtà odierna. Esperienze narrative spesso ben riuscite ma, talvolta, mancanti di una esposizione compiuta

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Sergio Rossi

In alto, da sinistra: una tavola da La crociata degli innocenti di Chloé Cruchaudet; Controspionaggio. Sull’ascesa e la caduta di Viktor Gaplinsky, broker di Luca Negri. In basso, da sinistra: la copertina di Swan. Il bevitore di assenzio di Néjib; una tavola da L’insaziabile di Michele Petrucci.

In climatologia si studia il clima del passato per capire come la modifica di alcuni parametri fisici abbia provocato radicali cambiamenti geofisici che, essendo già accaduti, possiamo verificare e misurare puntualmente. Questi risultati sono poi usati per ipotizzare quale sarà il clima del futuro quando quelle stesse cause – come, per esempio, la presenza di gas serra in atmosfera, la cui scoperta risale all’Ottocento e che negli ultimi anni ha dimostrato di essere in forte aumento – si dovessero verificare di nuovo. Analogamente, molti scrittori, fumettisti e registi basano spesso le loro opere su un evento storico o sulla biografia di un particolare personaggio, per ritrovare echi e somiglianze nella realtà odierna e nuove chiavi narrative e interpretative. Il rischio di questo tipo di storie è che gli autori si concentrino più sul mostrare quanto sono stati bravi a studiare quel personaggio o quell’epoca che sul loro racconto, ottenendo così bellissime ricostruzioni illustrate ma con la tensione espositiva di un manuale scolastico e prive di legami con la contemporaneità. In libreria i graphic novel storici sono una realtà consolidata e, negli ultimi mesi, già da sola la casa editrice Coconino Press ne ha pubblicato molti e interessanti, a cui vale la pena dare un’occhiata. Da non perdere è Swan. Il bevitore di assenzio (184 pagine a colori), il primo tomo di una saga in più volumi, il secondo è già uscito oltralpe, scritta e disegnata da Néjib, autore tunisino da anni residente a Parigi dove è anche direttore artistico della prestigiosa casa editrice Casterman (quella di Tintin e Corto Maltese). La passione di Néjib per la storia o per figure cruciali di particolari settori (la musica, per esempio) è di lunga data. Dapprima infatti questo suo interesse lo ha portato sulle tracce di David Bowie (Haddon Hall, edito da Bao Publishing), poi di Federico II di Svevia (Stupor Mundi, edito da Coconino Press, tra i vincitori del Premio Micheluzzi 2018 al Comicon di Napoli), e ora nella Francia degli impressionisti per raccontarci l’appassionante vita di una ragazza americana, Swan, che vuole diventare pittrice sfidando le convenzioni dell’epoca, forse, in

parte, non così diverse da quelle che oggi le donne affrontano ogni giorno. Questo primo volume non è solo un romanzo di formazione, ma anche il racconto delle profonde mutazioni di ogni settore, artistico, politico, industriale, della società civile dalle quali si sviluppano quelle di oggi. Infine, grazie al suo segno essenziale e suggestivo, Néjib riesce anche a raccontare l’arte dei grandi pittori impressionisti senza cadere nell’imitazione accademica dei singoli stili. Riuscite a metà sono invece le opere di Michele Petrucci (L’insaziabile, 144 pagine a colori) e Chloé Cruchaudet (La crociata degli innocenti, 176 pagine a colori), dove la mera ricerca grafica ha decisamente la meglio sulla narrazione finale. Nell’Insaziabile, Petrucci racconta la storia vera di Terrare, «l’uomo più vorace al mondo», un popolano francese vissuto durante la Rivoluzione francese dotato di un appetito così irrefrenabile da diventare un fenomeno da baraccone per la sua capacità di mangiare anche terra e, addirittura, cadaveri. In questa fame incessante, Petrucci avrebbe voluto riflettere la bramosia del potere assoluto di personaggi come Robespierre o Napoleone ma purtroppo, nonostante il bellissimo tratto in bianco e nero e i notevoli colori acquerellati, le intenzioni dell’autore non si concretizzano in una narrazione compiuta. Stesso risultato si ritrova nella Crociata dei bambini, dove il racconto della truce leggenda medievale della crociata condotta da bambini, che vennero poi venduti come schiavi ai turchi da mercanti cristiani, non va oltre i disegni e i colori straordinari già ammirati nel libro precedente dell’autrice, Poco raccomandabile (ancora edito da Coconino). Peccato, insomma. L’altissimo livello grafico degli autori consiglia comunque la visione di questi libri. Nota di merito invece per Controspionaggio. Sull’ascesa e la caduta di Viktor Gaplinsky, broker (120 pagine in bianco e nero), scritto e disegnato da Luca Negri con protagonista un presunto rappresentante dell’americana Motorola nella Berlino del 1945. Grazie a una sceneggiatura serrata, che mescola più piani temporali, e a un segno in bianco e nero molto suggestivo e personale, Negri tiene alto il “climax” narrativo in ogni pagina e coinvolge il lettore fin dalla copertina, dove la presenza di un’illusione ottica annuncia il nostro ingresso sulla terra di nessuno tra reale e immaginario in cui si svolge questa ambigua “spy story”. H

F Néjib Swan. Il bevitore di assenzio 184 pagine a colori, € 20. F Michele Petrucci L’insaziabile 144 pagine a colori, € 18. F Chloé Cruchaudet La crociata degli innocenti 176 pagine a colori, € 22.

F Luca Negri Controspionaggio. Sull’ascesa e la caduta di Viktor Gaplinsky, broker 120 pagine in bianco e nero, € 20. Questi quattro graphic novel sono stati pubblicati nel 2020 da Coconino Press (Roma). 15

_ XXI SECOLO 1 LEE SEUNG-TAEK

RICCARDA MANDRINI

FIGURA CHIAVE PER LA NASCITA DELL’ARTE MODERNA E D’AVANGUARDIA COREANA, LEE SEUNG-TAEK HA TROVATO NELLA NATURA LA SUA PRINCIPALE FONTE DI ISPIRAZIONE, SFIDANDO I CANONI ESTETICI PREDOMINANTI E IN SINTONIA CON I VALORI SCIAMANICI, INCONTRATI DALL’ARTISTA FIN DAGLI INIZI DELLA SUA CARRIERA.

Lee Seung-taek è nato nella città di Kowon nel 1932. A quel tempo la Corea era parte di un’unica entità geografica, schiacciata da una opprimente dominazione giapponese iniziata sotto forma di protettorato nel 1905 e seguita da una formale annessione nel 1910. La sconfitta del Giappone nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, determinò la sua indipendenza. Ma da tempo essa era già l’obiettivo delle mire espansionistiche da parte di Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina. Ben presto la promessa di libertà sottoscritta dalle potenze alleate vincitrici della guerra le fu negata e le dispute per garantirsi il suo dominio politico portarono alla divisione del paese a livello del trentottesimo parallelo. In una situazione politica dominata da forti tensioni interne, le lotte tra Corea del Nord e Corea del Sud ripresero e in un crescendo di tensioni internazionali sfociarono nel 1950 in un’altra guerra, la guerra di Corea (1950-1953), che costò oltre due milioni e mezzo di vite umane. Alla fine del conflitto, Lee poté lasciare Kowon, che territorialmente apparteneva alla Corea del Nord, per andare a studiare scultura all’Università di Hongik a Seul (Corea del Sud). Nel presente di allora, in un paese pesantemente stremato, privo per gli uomini di riferimenti esistenziali, il giovane Seung-taek rivolse il suo sguardo verso la natura

Con la complicità Tutte le opere riprodotte in questo articolo, dove non diversamente indicato, si riferiscono all’esposizione Lee Seung Taek’s Non-Art: The Inversive Act (Seul, National Museum of Modern and Contemporary Art, Korea, fino al 28 marzo). In apertura, The Earth Touring Beijing (1994).

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d e l l a n at u r a

LEE SEUNG-TAEK HA ELABORATO UNO STILE CONCETTUALE ANTITETICO ALL’IDEA DI SCULTURA TRADIZIONALE PER CREARE UN PROPRIO MODELLO DI “NON-SCULTURA”

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Veduta dell’esposizione Lee Seung Taek’s Non-Art: The Inversive Act. Al centro, Wind (Paper Tree) (1983).

che presto divenne il suo medium come artista. In essa trovò gli elementi perfetti per la realizzazione delle sue opere: pezzi di legno, sassi, rami d’albero, carbone, corde di fibra vegetale, e, via via nel tempo, il vento, il fumo, l’aria stessa per realizzare le sue installazioni e i suoi “craft objects” (oggetti artigianali). Traslata in forma d’arte, la natura divenne presto sua complice e gli permise di sperimentare tutte quelle libertà concettuali che solo la creatività può offrire. Lee ha una collocazione centrale nell’ambito dell’arte d’avanguardia e moderna della Corea del Sud. Il suo seminale lavoro oggi è proposto nella rassegna Lee Seung Taek’s Non-Art: The Inversive Act, che il National Museum of Modern and Contemporary Art, Korea di Seul dedica all’artista (fino al 28 marzo) per ripercorrere, attraverso oltre duecentocinquanta opere, i suoi sessant’anni di carriera. L’artista cominciò a lavorare nella seconda metà degli anni Cinquanta quando era ancora studente. A quel tempo Lee incontrò i valori sciamanici che, insieme al binomio arte e natura, gli permisero di elaborare uno stile concettuale antitetico all’idea di scultura tradizionale per creare un proprio modello di “non-scultura”, come l’artista stesso amava definirla. Già all’inizio degli anni Sessanta sviluppava il concetto germinale di

Untitled (Burning Canvases Floating on the River) (1988 circa), Seul, National Museum of Modern and Contemporary Art, Korea.

opera d’arte, dove ogni singolo lavoro non è fine a se stesso, ma è generatore di un ciclo che verrà ripreso nel tempo. Nascono così le serie Wind, Tying e quelle dedicate alla pietra Godret, che è stato uno dei suoi materiali più amati. La pietra Godret è molto dura ed è usata dagli artigiani coreani come contro-peso per legare i nodi quando si intrecciano stuoie tradizionali. Essa divenne per l’artista un elemento “festish” che ha usato, legato e scolpito in una infinità di maniere, fino a trasformarla attraverso un finissimo processo concettuale nel perfetto esempio di “non-scultura”. Emblematica in questo senso Non-Sculpture (1960) dove la pietra Godret è legata con la corda al legno fino a formare un modello scultoreo. Per la serie delle Non-Sculpures l’artista ha sempre prediletto un posizionamento in orizzontale – a terra o appesa alla parete o al soffitto – prendendo le distanze da quello verticale, caratteristico della scultura celebrativa, come da secoli viene intesa. Negli anni Sessanta, un periodo socialmente duro per la Corea del Sud, segnato da una politica dittatoriale, Lee intraprese un viaggio alla ricerca di nuova ispirazione per le sue opere e la trovò nel contesto semplice della realtà rurale. Tra le prime opere di quel periodo Wind Fence (1964), una installazione

History and Time (1958), Seul, National Museum of Modern and Contemporary Art, Korea.

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realizzata in prossimità del fiume Han sull’isola di Nanji, costruita con rami di legno, ancora uno tra gli elementi più amati dall’artista, legati tra loro con pezzi di stoffa fino a formare un recinto. Il lavoro gli fu suggerito dalle recinzioni realizzate dai contadini per i campi di aglio. Successivamente nascono le sculture Oji ispirate dai tradizionali contenitori in terracotta usati in Corea per conservare gli alimenti. Come differenti altre, quelle con gli Oji “objects” diventano una prima serie iniziata negli anni Sessanta che nel 2020 darà luogo a Growth (Tower), una scultura verticale, ispirata a pentole e vasi tipici della più autentica cultura coreana. Instancabile, Lee negli anni lavora assiduamente e nel realizzare le sue opere, si prende appieno tutte le libertà che l’arte gli offre, incluse soprattutto quelle estetiche, spingendole al massimo livello della concettualità. Ma come artista non prescinde mai dalla condivisione dell’opera con lo spettatore, al quale chiede di essere parte di queste libertà e di fruire del lavoro artistico declinabile per ciascuno di noi in molteplici significati differenti.

Negli anni Settanta Lee torna alla Hongik University e nel campus realizza Wind (1971), una installazione composta di una infinita linea di sottili strisce blu mosse dal vento. Tra la fine degli anni Sessnata e il decennio successivo, installazioni e performance diventano un’unica modalità artistica. Untitled (Burning Canvases Floating on the River) è una performance in cui l’artista incendia le sue vecchie tele e le lascia libere di andare alla deriva sulle acque del fiume Han. Con Wind-Folk Amusement ripensa il modello dell’intervento performativo in termini fisici ed effimeri al tempo stesso. Realizzata sulle rive del fiume Han, la performance vede Lee e tre amici muovere lunghe strisce di tessuto rosso nel cielo. Il gesto sapiente e libero rimanda a quello del pittore che stende il colore su una tela infinita, che per Lee è il cielo della Corea. Seung-taek è una figura determinante nella storia dell’arte della Corea del Sud, ha contribuito alla nascita dell’arte moderna del paese. Quale testimone del suo tempo ha vissuto due guerre e due regimi politici, ha visto il mondo e il suo paese cambiare.

LA PIETRA GODRET DIVENNE PER L’ARTISTA COREANO UN ELEMENTO “FETISH”, LEGATO E SCOLPITO IN UN’INFINITÀ DI MANIERE

Un’altra veduta dell’esposizione Lee Seung Taek’s Non-Art: The Inversive Act con alcune opere presentate in una precedente mostra Lee Seung Taek: Non Sculpture at the Crossroad (Seoul, Hu Gallery, 1986).

Negli anni Novanta, quando le frontiere internazionali iniziavano ad aprirsi, nel pieno della sua maturità artistica, come un flusso di coscienza, in maniera letteraria, Lee è tornato sul tema della divisione del suo paese. Con A Bridge Not Able to Cross (1990) ha espresso, come artista, la sofferenza dell’uomo e degli uomini per la separazione della Corea. L’opera nasceva come conseguenza di un lavoro germinale: una delle sue primissime creazioni degli anni Cinquanta, di fatto la sua tesi come studente all’università, fu History and Time, una installazione di stoffa rossa e blu, avvolta da filo spinato. Nel corso della sua lunga carriera Lee Seung-taek non si è mai stancato di dialogare con la natura, difficile per lui nel tempo non avvicinarsi al Movimento Verde. Sono gli anni Ottanta quando nascono le serie Green e Green Campaign e più tardi la serie Earth Play che nel tempo svilupperà nella Earth performance che porterà in giro per diversi paesi. Una delle immagini più eloquenti è The Earth Touring Beijing (1994) in cui l’artista pedala sulla sua bicicletta nelle strade della capitale della Cina trasportando un grande globo terrestre.

Growth (Tower) (1964-2020). A destra, in alto, Land Wearing Roof Tiles (1988-2020).

Una veduta dell’esposizione Seung-taek Lee (New York, Lévy Gorvy, 15 marzo 22 aprile 2017).

Per concludere, l’attuale esposizione al National Museum of Modern and Contemporary Art, Korea, oltre a rappresentare un’occasione di conoscenza di questo interessante autore coreano, ci offre la possibilità di riflettere sul fatto che l’arte moderna, sia dal punto di vista del sentire sia dal punto di vista concettuale, non è stata una prerogativa esclusiva dell’Occidente. Essa ha trovato terreno fertile in molti paesi: dal Sud Est Asiatico all’Africa, al Medio Oriente. Ma su simili realtà ed esperienze, sotto il profilo storico-artistico, si è scritto solo in parte. Lee Seung Taek’s Non-Art: The Inversive Act contribuisce a colmare questa lacuna. H

Seung Taek’s Non-Art: The Inversive Act Seoul, National Museum of Modern and Contemporary Art, Korea a cura di Bae Myungji fino al 28 marzo www.mmca.go.kr

MIMETIZZARSI

_ GRANDI MOSTRE 1 FRANCESCA WOODMAN ONLINE FRANCESCA ORSI

LA CIFRA STILISTICA DI FRANCESCA WOODMAN – L’USO DELL’AUTORITRAT TO, L’APPARENTE CASUALITÀ DELL’IMMAGINE, L’AMBIENTAZIONE INTIMA – SI ARRICCHISCE E SI AMPLIFICA NELL’UNICA SERIE A COLORI MAI REALIZZATA DALLA FOTOGRAFA, FORSE UN OMAGGIO ALLA PIT TURA DEL QUAT TROCENTO ITALIANO. Una delle prime fotografie con cui Francesca Woodman (1958-1981) dà inizio alla sua produzione artistica è Self-portrait at Thirteen (1972), fatta a Boulder in Colorado, paese dove risiedeva con i genitori. Seduta all’estremità di una panca, il suo corpo assume una postura eretta ma rilassata, la sua mano destra ricade morbidamente lungo il bracciolo, ha il volto girato a un’angolazione tale da non poter essere riconosciuta e la sua mano sinistra manovra un bastone con cui azionare la macchina fotografica. Anche se a carattere embrionale, i suoi intenti, il suo focus artistico e il suo stile risultano già sapientemente evidenti in questa prima immagine, tanto da renderla una sorta di suo “manifesto”: l’autoritratto in primis come modalità rappresentativa, la fusione straniante tra l’io fotografante, il soggetto e l’oggetto (il corpo inteso come opera d’arte) dell’immagine, l’apparente casualità e semplicità della scena, l’ambientazione intima e l’intenzione di portare avanti tramite il ritratto del corpo una ricerca identitaria, non

NEL COLORE Untitled, New York (1979).

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esclusivamente privata ma nemmeno acclaratamente femminista. In Self-portrait at Thirteen il bastone con cui comanda e fa scattare la macchina fotografica risulta prolungamento del suo braccio ed emblema della sua intenzionalità a rendere la superficie fotografica dell’immagine spazio rappresentativo della rappresentazione stessa. Il corpo per lei, nudo nella maggior parte dei casi, si rende codice di comunicazione e messaggio contemporaneamente. Nel rappresentarlo tra spazio e tempo – incastrato nella finitezza dell’inquadratura o nella cornice di uno specchio, frammentato e pinzato con le mollette, considerato per la sua forma e volumetria ma mai per la sua eroticità – sono molte le influenze a cui la Woodman attinge: prima di tutte la corrente surrealista, l’uso degli specchi, la “mise en abyme”, lo sdoppiamento, la figura dell’“informe”

LO SPAZIO SCENOGRAFICO COME PROLUNGAMENTO DI UNO SPAZIO INTERIORE E PSICOLOGICO

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– o, come la definisce Rosalind Krauss, la figura della “caduta” – con cui, tramite la rotazione del corpo fotografato o dell’obiettivo fotografico, Man Ray e compagni conferivano al soggetto delle sembianze animalesche distorcendone la realtà; la Body Art che portava allo stremo l’utilizzo del corpo, nei limiti del dolore, come forma di ribellione e di rivendicazione; il pittorialismo per l’intenzionalità compositiva; Muybridge e le sue cronofotografie; e, nello specifico, il lavoro di Imogen Cunningham, membro del gruppo f/64, capeggiato da Ansel Adams, che faceva della naturalezza e dell’armoniosità il suo marchio distintivo per ritrarre corpi nudi di donna e fiori. Ma anche se tali influenze risultano evidenti nel corpus della fotografa americana, Francesca Woodman fa detonare la carica rivoluzionaria di questi movimenti e ne inti-

Untitled, New York (1979). Nella pagina a fianco, dall'alto: Untitled, New York (1979); Untitled, New York (1979-1980).

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mizza alcuni aspetti, facendoli propri, servendosene per creare uno stile artistico di cui, come ci dimostra Self-portrait at Thirteen, era consapevole fin dall’inizio. Alla Galleria Victoria Miro di Venezia è stata esposta fino al 12 dicembre 2020, ed è ora visibile sul suo sito web tramite l’applicazione di realtà virtuale Vortic, la mostra New York Works, che si compone degli ultimi lavori prodotti da Francesca Woodman a New York nel biennio 1979-1980. Tornata in America nel 1979 dopo il suo anno in Italia, che forgiò e stimolò immensamente la sua poetica artistica, lo stile di Woodman muta il suo aspetto e, in parte, anche il suo focus: torna a mettere in scena il dialogo serrato e metamorfico tra il corpo umano e la natura; spariscono, in alcuni lavori, le pareti dei luoghi chiusi che le assicuravano la resa intima e mentale dei suoi scatti, che adesso ambienta, invece, all’esterno per servirsi della vegetazione dei boschi e degli specchi d’acqua naturali; in Caryatid (1980) inizia a lavorare con grandi formati (non più solo con il suo solito 6x6) e prepara una sorta di ricostruzione della facciata di un tempio greco le cui cariatidi sono costituite da modelle avvolte in panneggi classici; inoltre e soprattutto, in una serie prodotta tra le sue mura domestiche, compare per la prima e unica volta l’uso del colore. Per questa serie senza titolo Woodman torna alla dimensione domestica e intima delle ambientazioni, allo spazio scenografico inteso come prolungamento di uno spazio interiore e psicologico, allo spazio fisico in opposizione allo spazio fotografico del negativo, dialogando tramite il suo corpo con i limiti dell’inquadratura e dello spazio che lo accoglie. Torna all’uso di tempi lunghi di esposizione fotografica per conferire al suo volto e al suo corpo una consistenza evanescente, come una traccia pronta a sparire. Anche in questo lavoro Francesca Woodman infatti abita lo spazio dell’inquadratura in maniera sfuggente, frammentaria, facendo vedere il proprio passaggio, ma proiettandosi sia spazialmente sia temporalmente altrove. Si serve del suo corpo per sperimentare, per giocare con la fotografia, rendendolo linguaggio identitario, per indagare

Caryatid (1980). Nella pagina a fianco, in alto, Untitled, New York (1979).

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L’USO DI QUESTI COLORI RICORDA LE AMBIENTAZIONI DI PIERO DELLA FRANCESCA O DI DOMENICO VENEZIANO

la propria natura e contemporaneamente la natura della rappresentazione fotografica. Famosi sono i suoi mimetismi, le sue metamorfosi, i suoi modi di occultare la sua figura e forse anche la sua identità, per questo motivo il suo lavoro è una costante e incessante ricerca. In Then at one point I did not need to translate the notes; they went directly to my hands (1976) inscena la sua sparizione cercando di mimetizzarsi con il muro e lo stesso succede nella serie a colori del 1979. Il colore verde pisello del suo abito si fonde, camaleonticamente, con la parete dello stesso colore dietro di lei e c’è da chiedersi se l’uso dei vestiti di questa serie, data la meticolosità con cui Francesca Woodman creava le sue scene, sia stato funzionale proprio alla sua volontà artistica e ironica di “cercare di sparire” o se sia stata semplicemente un’evoluzione della sua poetica. Quando la fotografa si trasferisce nell’appartamento dove metterà in scena questa sua unica serie a colori, lo trova già dipinto di rosa e verde pisello e decide coscientemente di conferire a questa nuova veste il grado di eccezionalità all’interno della sua produzione fotografica, forse come omaggio alla pittura

italiana del Quattrocento che aveva potuto apprezzare durante i suoi soggiorni in Italia. L’uso di questi colori, infatti, ricorda le ambientazioni di Piero della Francesca o di Domenico Veneziano, entrambi molto attenti alle sfumature del rosso e del verde e a un uso del colore che, insieme alle luci e alle ombre, andava a costruire lo spazio prospettico. Per esempio, infatti, la trabeazione rosata che incornicia la parte superiore dell’Annunciazione di Veneziano nella Pala di Santa Lucia de’ Magnoli è richiamata, senza troppo indugio, dal colore e dall’uso scenico della cornice della porta che compare nella serie della fotografa americana. Si è scritto e detto molto su Francesca Woodman, morta suicida a ventidue anni; molti danno una lettura psicanalitica della sua produzione, ma è troppo semplicistico sovrapporre la sua vita privata alla sua vita artistica. Al di là della sua storia biografica e della voglia voyeuristica di alcuni di risolvere un caso che non esiste, Francesca Woodman è entrata a pieno titolo nella storia della fotografia per la potenza del suo gesto artistico e per la complessità del suo stile polimorfico. Questo basta e avanza. H

Untitled, New York (1979-1980).

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Alighiero Boetti e Salman Ali sul balcone dello studio dell’artista a Trastevere, 1975.

TORNIAMO, A DISTANZA DI UN MESE, SUL TEMA DELLE “RESTITUZIONI” DI OGGETTI E OPERE D’ARTE AFRICANA DA PARTE DI MUSEI ETNOGRAFICI COSTRUITI SU RACCOLTE DERIVANTI DAL PASSATO COLONIALE DEGLI STATI EUROPEI. IN QUESTE PAGINE IL “CASO DIYABANZA”, CHE LO SCORSO ANNO MISE IN SUBBUGLIO ALCUNE ISTITUZIONI MUSEALI RIMETTENDO IN DISCUSSIONE IL CONCETTO STESSO DI MUSEO “UNIVERSALE”.

IL CAPOLAVORO

_ XXI SECOLO 2 ALIGHIERO BOETTI E SALMAN ALI Bruno Corà

DALL’INCONTRO CASUALE A KABUL TRA ALIGHIERO BOETTI E SALMAN ALI, NEGLI ANNI SETTANTA, NASCE UN SODALIZIO PERSONALE E FAMILIARE PROFONDO, DURATO FINO ALLA MORTE DELL’ARTISTA E OLTRE. UN LIBRO E UNA MOSTRA RACCONTANO LE VICENDE DI UNA “FELICE COINCIDENZA”.

VIVEN T E 29

«SONO NATO CON ALIGHIERO»

Alighiero Boetti, Annemarie Sauzeau Boetti, Agata Boetti, Matteo Boetti, Salman Ali e Gholam Dastaghir a Roma nel 1972. Salman Ali e Alighiero Boetti sul motorino nello studio dell’artista a Trastevere, 1975. Nella pagina a fianco, dall’alto: Salman Ali con una Mappa ricamata a mano in Afghanistan; Alighiero Boetti nel giardino del One Hotel a Kabul, inizio anni Settanta; Salman Ali e Alighiero Boetti nello studio dell’artista al Pantheon, 1989.

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La storia di Salman Ali sembra uscita dalla celebre antologia di racconti del mondo orientale Le mille e una notte. Pensando a quelle magiche atmosfere ho affermato, in altra occasione, che Salman Ali potrebbe essere considerato l’ombra vera e propria di Alighiero Boetti (1940-1994); ciò perché in tutti quegli anni – a partire dal 1973, anno dell’incontro tra loro – niente e nessuno li ha più potuti separare, nemmeno, perfino, quando «Capo», come dice Salman, «ha chiuso gli occhi». Era con questo epiteto – “Capo” – che Salman infatti parlava e parla ancora di Boetti significando con un solo sostantivo la centralità esercitata da Alighiero nella sua vita e in tutti gli eventi che da quella lontana data degli anni Settanta e sino a oggi hanno influito sulla vita di tante persone amiche e su quella della grande “famiglia”. Anche di questa parola Salman possiede una sua nozione originale formatasi nel tempo: la famiglia è quella individuata intorno ad Alighiero e di cui Salman sentì di far parte sin dall’incontro con “Capo”. Così, nell’autobiografia edita da Forma, Salman Alighiero Boetti, inusuale catalogo della mostra realizzata dalla Galleria Tornabuoni Arte a Milano con opere della collezione privata di Salman Ali e progettata personalmente da Michele Casamonti (dal 13 aprile al 3 maggio), dai prodigiosi e mitografici racconti di Salman è possibile capire quanto sia estesa quella concezione comunitaria di cui egli, naturalmente, fa inscindibilmente parte. Essere a fianco di Boetti per molti anni e anche dopo la sua scomparsa ha consentito a Salman Ali di condividere moltissime ore della giornata di lavoro, incontri, preoccupazioni, viaggi,

stati d’animo di “Capo”, attorno a cui ruotava la sua stessa vita e quella di molti amici, collaboratori, colleghi artisti, mercanti, scrittori, direttori di musei, galleristi, collezionisti con cui Alighiero tesseva relazioni. Nei racconti di Salman vengono alla luce molti aspetti inediti, più di quanto ne compaiano nelle ormai numerose narrazioni aneddotiche che circondano le gesta di Boetti ma che non hanno la stessa intensità e sentimento da “segnato dal destino” che in questo caso ha nome Alighiero. Questo fedele amico e collaboratore scelto da Boetti – come un tempo i maestri sceglievano gli apostoli e discepoli – nelle proprie dichiarazioni fa un’affermazione emblematica che – tra le altre – rivela un aspetto eloquente scaturito da una vera e propria iniziazione della sua persona a una diversa vita – una “vita nova” – dovuta all’incontro con il suo maestro e “Capo” Boetti. Salman, interrogato da suo figlio su cosa facesse prima dell’incontro con Boetti, rivela: «Sono nato con Alighiero». La perentoria risposta, in tal modo, illumina ogni successiva narrazione della sua avventura straordinaria accanto all’artista da cui si sentiva “rigenerato” ad altra vita rispetto a quella che, a causa delle origini della famiglia afghana hazara da cui proveniva, cioè dal ceto povero della struttura sociale afghana, sarebbe stato destinato a vivere. Salman, dunque, è il primo adepto di quella dottrina delle “felici coincidenze” di cui Alighiero è stato osservante e predicatore. Autrice di questo rovesciamento del destino di Salman Ali è dunque l’ansia conoscitiva di Alighiero Boetti, approdato a Kabul «un po’ per caso» in un certo momento della sua vita, sia

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QUELLA DI BOETTI È STATA SEMPRE UN’ESPERIENZA PLURALE, COMPLESSA, APERTA forse inseguendo un’antica traccia esistente nel proprio albero genealogico, in cui si annoverano le gesta di un antenato missionario, tal Giovan Battista Boetti, domenicano trasformatosi in Sheik Mansur, sia per un’inquietudine tutta propria posta nella tensione rigenerativa del suo “sesto senso”, il pensiero, incline sempre a nuove avventure e scoperte. Nel frangente temporale dei primi anni Settanta Boetti infatti è fortemente motivato – come un nuovo Rimbaud e con l’impulso di un Gauguin – a un radicale cambiamento delle proprie coordinate esistenziali. La32

Salman Ali prepara per il fotografo un Tutto mentre Alighiero Boetti lo osserva, nello studio del Pantheon, 1988.

scia la sua città natale, Torino, per una Roma meno austera e più solare del capoluogo piemontese dove aveva iniziato tra i primi, a metà degli anni Sessanta, a pensare e operare artisticamente contribuendo all’affermazione di quella modalità definita in quello stesso periodo Arte povera. A Roma, chi scrive lo incrocia e stabilisce con lui un immediato sodalizio trovandogli la casa e lo studio, oltre a seguirne assiduamente le nuove creazioni. Nel 1971, nel corso di un viaggio, Boetti sosta a Kabul provando forte attrazione, fino all’innamoramento, per le dinamiche di quell’Oriente in cui in ogni attività si respirano un altro tempo e altri costumi, e dove decide di acquistare il piccolo albergo One Hotel, di sole undici camere. Il manager afghano dell’albergo, Gholam Dastaghir, un paio di anni dopo, in occasione degli ulteriori soggiorni di Boetti a Kabul, gli procura, in qualità di assistente, Salman per la preparazione del “chai” (tè) e per ogni altra necessità. Da quel momento, precisamente dal 1973 alla fine della sua vita (1994), Boetti non farà più a meno della presenza insostituibile di Salman Ali che diverrà, appunto, la sua ombra seguendolo ovunque nel mondo dell’arte italiana e internazionale. Nelle vive

Salman Ali e Giordano Boetti alla 46. Biennale di Venezia, 1995.

Salman Ali, Alighiero Boetti, Annemarie Sauzeau Boetti, Matteo Boetti e Agata Boetti nella casa di Romazzano (Perugia), 1975.

riepilogazioni di tanti momenti ed episodi di quella incisiva e indelebile esperienza vicina a “Capo”, Salman, con una memoria di ferro, ci introduce nella vicenda, apparentemente privata ma assai significativa per la conoscenza della quotidianità di Boetti, delle sue frequentazioni, delle sue abitudini, dei suoi tempi operativi, delle sue difficoltà e poi dei suoi crescenti successi. Salman attraversa gli anni più intensi della vita dell’artista e della sua “famiglia”, che descrive attraverso le diverse stagioni durante le quali essa si modifica, e che nel tempo annovera, oltre ai suoi membri e ovviamente se stesso, amici, conoscenti e collaboratori più stretti. I nomi sono davvero tanti. D’altronde, quella di Boetti è stata sempre un’esperienza umana e artistica, affettiva, operativa e, perfino dal punto di vista ideologico, dichiaratamente plurale, complessa, aperta. Da un certo momento in poi egli ha firmato le sue opere sdoppiando l’identità nel binomio “Alighiero e Boetti”, come, peraltro, ha limitato in parte la produzione del suo lavoro alla sola ideazione, fornendo le modalità per l’esecuzione delle sue creazioni ma lasciando che fossero assistenti e aiutanti a impegnarsi con la propria manua-

lità e col proprio temperamento alla loro realizzazione. È per quella attitudine alla partecipazione condivisa del lavoro con altri, come nell’antica “bottega” d’arte rinascimentale, delegando a una cerchia di artisti più giovani e assistenti, che ha inizio la grande invenzione delle opere a “ricamo”, dei quadri con le sedici lettere policrome e delle Mappe riproducenti il planisfero decorato con i colori delle bandiere di tutti i paesi del mondo, e altre invenzioni formidabili come la classificazione dei 1000 fiumi più lunghi del mondo. Anche la narrazione di Salman riguardante “Capo” e la “famiglia”, di cui egli si considera il collante che tiene tutto unito, scorre come la vena sorgiva di un fiume spinto da una corrente di devozione pari a una dinamo inesauribile, aumentata dal grande rispetto e affetto per il suo maestro di cui egli tuttora contribuisce a mantenere viva la presenza. In un certo modo, infatti, Salman Ali è un capolavoro di autoconsapevolezza e di autodeterminazione del proprio destino, individuato e intuito anzitempo dal “veggente” Boetti, che ne ha saputo magistralmente favorire la piena realizzazione umana e culturale. H 33

_ GRANDI MOSTRE 2 LA COLLEZIONE RAMO A HOUSTON

IL DISEGNO, ESSENZA SU CARTA Irina Zucca Alessandrelli

LE OPERE SU CARTA DI AUTORI ITALIANI DELLA COLLEZIONE RAMO SBARCANO PER LA PRIMA VOLTA NEGLI STATI UNITI. ESAMINIAMO QUI CON LA CO-CURATRICE DELLA MOSTRA ALLA MENIL COLLECTION, NONCHÉ DIRETTRICE DELLA PRESTIGIOSA RACCOLTA MILANESE, L’IMPORTANZA DEL DISEGNO COME CREAZIONE IMMEDIATA DELL’IMMAGINAZIONE DI UN ARTISTA.

Adolfo Wildt, Animantium Rex Homo (1925). Questa e le altre opere qui riprodotte fanno parte della collezione Ramo di Milano.

La collezione Ramo è una raccolta di opere su carta di autori italiani dall’inizio del secolo scorso fino a oggi: da Medardo Rosso, ai futuristi, all’Arte povera, fino agli artisti che hanno lavorato a cavallo tra la fine secolo scorso e l’attuale. Unica nel suo genere, essa ha sede a Milano ed è stata esposta al pubblico per la prima volta nel novembre 2018 con una mostra intitolata Chi ha paura del disegno? presso il Museo del Novecento (sono stati esposti centocinque lavori su seicento). Quest’esposizione è poi andata a Londra presso la Estorick Collection of Modern Italian Art dove è rimasta fino al giugno 2019. Al momento una settantina di opere scelte dalla Collezione Ramo è visibile presso il Menil Drawing Institute presso la Menil Collection di Houston (nel Texas, qui alle pp. 40-43) con la mostra da me curata insieme a Edouard Kopp intitolata Silent Revolutions: Italian Drawings from the Twentieth Century.

Dal 2013 ho cominciato a lavorare a questa collezione, occupandomi in prima persona delle acquisizioni. Il compito era dimostrare, attraverso il disegno, inteso come opera su carta in senso ampio (matita, gouache, tempera, pennarello, collage), l’importanza storica e l’originalità dei movimenti artistici italiani durante il secolo scorso. Diversamente da quello che solitamente avviene per le collezioni private, la Collezione Ramo è fondata su una volontà molto chiara di costruire un percorso storico quasi didattico, più che su gusti personali. Le opere più significative sono state rintracciate per sottolineare il ruolo essenziale del disegno all’interno dell’arte italiana del secolo scorso con l’idea di formare una cultura su questo mezzo espressivo, prima di tutto italiano, che ancora manca. Il disegno, infatti, così fondamentale per tutti gli artisti novecenteschi, non è ancora

IL DISEGNO NASCE SEMPRE COME PRATICA INTIMA, COME DIALOGO CON SE STESSI E LE PROPRIE IDEE

conosciuto dal largo pubblico ed è molto raro imbattersi in una mostra dedicata. La collezione è stata presentata solo negli ultimi anni perché si desiderava che raggiungesse la maggior completezza possibile prima di essere vista, per quanto una collezione che copre l’arco di un secolo per sua stessa natura (*) non possa mai definirsi completa . Il disegno è in assoluto la prima forma esternata dell’idea dell’artista, e dunque il grado di libertà espressiva e di immediatezza è senza paragoni rispetto a pittura e scultura. A volte, il disegno ha coinciso con lo schizzo per qualche altra creazione a venire, ma non bisogna identificarlo con il bozzetto preparatorio perché nella maggior parte dei casi il disegno non rimanda ad altro da sé, è opera autonoma. Il disegno nasce sempre come pratica intima, come dialogo con se stessi e le proprie idee. Non tutti gli artisti hanno presentato i loro disegni alle mostre cui hanno partecipato, ma questo non significa che non fossero per loro fondamentali. Anzi, spesso dalle parole degli artisti risulta chiaro che, proprio per il grande valore attribuito a questa pratica, essi stessi abbiano preferito tenerla per sé in quanto di grande immediatezza e non “filtrata” in vista del pubblico e del mercato. Il disegno come mezzo di estrema autenticità è un bene prezioso per l’artista, da custodire con parsimonia. Un disegno non si corregge, ed è inizialmente concepito per un solo spettatore: l’artista stesso. Rappresenta l’artista messo a nudo e proprio in questo risiede la sua specificità. Molti disegni sono nati come opere d’arte autonome, non in vista di un dipinto o di una scultura, e sono veri capolavori spesso di maggior forza espressiva rispetto alle tele. Studiando approfonditamente circa un secolo di arte italiana, ho potuto scoprire quanto i pittori e gli scultori tenessero al disegno e lo considerassero di valore pari al loro mezzo espressivo d’elezione. Mi sono inoltre accorta che, anche di artisti molto famosi, pochi studiosi conoscono la produzione su carta, spesso vastissima e ritenuta imprescindibile dall’artista. In generale, il disegno italiano si conosce poco, come se non fosse una ricchezza speciale del nostro patrimonio artistico.

Emilio Scanavino, Senza titolo (1969).

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La selezione degli artisti per la collezione Ramo non ha seguito automaticamente i nomi noti dell’arte italiana, ma coloro che hanno dato al disegno un contributo fondamentale: in parte conosciuti, in parte quasi ignoti, in parte dimenticati (come per esempio Cagnaccio di San Pietro e Domenico Gnoli). Il punto di partenza non è stato quindi la storia dei movimenti avanguardistici, che spesso gli artisti hanno attraversato momentaneamente senza immaginare che poi, con il passare del tempo, sarebbero stati di conseguenza etichettati per un pubblico a venire, ma l’evoluzione della pratica del disegno attraverso i centoventi artisti selezionati. All’interno della collezione hanno un posto di rilievo, per esempio, gli splendidi disegni di grandi scultori di cui non si conosce quasi la produzione su carta, come Adolfo Wildt, Medardo Rosso, Fausto Melotti, solo per citarne alcuni. Una delle scelte alla base della collezione Ramo è stata quella di rappresentare ogni fase all’interno dell’evoluzione dello stile di un artista e non solo quella più nota, o più richiesta oggi. Si è sempre cercato di raccontare, dove possibile, una carriera, dagli inizi alle opere tarde, spesso completamente ignote e difficilmente visibili. Nel disegno è insita la grande fragilità della carta e in questa peculiarità risiede la sua forza e la sua bellezza.

Alberto Magnelli, Senza titolo (Composizione) (1936). In alto, Lucio Fontana, Senza titolo, dieci studi per Concetto spaziale (1953).

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UN DISEGNO NON SI CORREGGE, ED È INIZIALMENTE CONCEPITO PER UN SOLO SPETTATORE: L’ARTISTA STESSO Per proteggerlo per il futuro ed esporlo si devono prendere molte precauzioni. Apprezzarlo può essere immediato. Amarlo può implicare maggior fatica rispetto a una scultura o a una tela, perché può apparire a prima vista meno gratificante. Se si superano pigrizia e superficialità, però, il disegno ripaga con la sensazione di sentirsi più vicino all’artista, al suo modo di comunicare, al suo pensiero più autentico. Il disegno è il primo segno di creazione e quindi di partecipazione alla vita da parte dell’artista, che si trasforma in emozione per chi lo coglie, e rappresenta un accesso privilegiato al pensiero che l’ha generato.

Pino Pascali, Senza titolo (Appunti) (1964).

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La mostra in corso (fino all’11 aprile) rappresenta in assoluto la prima volta che una collezione italiana viene presentata all’interno della collezione di un museo che consta di diciassettemila opere tra cui la famosa cappella di Rothko. Si tratta anche della prima volta che negli Stati Uniti si fa luce sul disegno italiano del secolo scorso non solo con l’esposizione (promossa dall’ambasciata italiana di Washington e dal consolato italiano di Houston) ma anche con una serie di dialoghi e simposi tematici da seguire online fino al termine dell’esposizione. H (*) Per una nuova storia del disegno italiano e per le opere della collezione Ramo nei dettagli si veda: I. Zucca Alessandrelli, Disegno italiano del XX secolo, Milano 2018. Per le mostre passate, le interviste, e una rassegna stampa sulla collezione Ramo: www.collezioneramo.it

Silent Revolutions: Italian Drawing from the Twentieth Century a cura di Edouard Kopp e Irina Zucca Alessandrelli Houston, Menil Collection fino all’11 aprile catalogo Silvana Editoriale (Italian Drawings of the 20th Century, Works on paper from the Collezione Ramo) www.menil.org; www.collezioneramo.it

Maria Lai, Diario (1979). Fortunato Depero, Senza titolo, studio di Nitrito in velocità (1931-1932 circa).

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ARCHITETTURAPERL’ARTE

LA LUCE NATURALE DENTRO

Aldo Colonetti

La Menil Collection a Houston fa parte della storia, in quanto è il primo grande progetto di Renzo Piano dopo l’avventura del Beaubourg a Parigi con l’amico Richard Rogers. Come precisa lo stesso Piano: «Ha rappresentato il ritorno all’architettura dopo l'esperienza totalizzante francese». Siamo nel 1980, la storia della Menil Collection comincia con una telefonata di Dominique de Menil, dopo che Pontus Hultén, il grande curatore svedese di mostre e musei, tra i quali palazzo Grassi a Venezia, durante la gestione della famiglia Agnelli, aveva accennato all’amico architetto del desiderio della grande collezionista di affidargli la realizzazione di un museo (a Houston appunto) per ospitare la sua preziosa raccolta. La prima lettera di sondaggio per il progetto è del novembre 1980, il museo sarà inaugurato nel 1987. Un museo «piccolo fuori e grande dentro», come scriveva la signora De Menil, che doveva fare i conti anche con la particolare luce zenitale di uno stato come il Texas. Complessivamente la superficie costruita è di diciannovemila cento metri quadrati su due piani e un interrato, l’altezza degli spazi espositivi più di tredici metri, il tutto al centro di un parco di trenta ettari che ospita, oltre al padiglione dedicato a Cy Twombly sempre di Piano, la Richmond Hall con i lavori di Dan Flavin, il Menil Drawing Insititute e la famosa Rothko Chapel, costruita nel 1971, dedicata all’artista americano, di orgine russa, Mark Rothko. Diciassettemila opere esposte a rotazione, intorno ai grandi temi dell’arte moderna e contemporanea, con una serie di presenze straordinarie, per rarità e qualità di

LA MENIL COLLECTION A HOUSTON, EDIFICIO STORICO DI RENZO PIANO INAUGURATO NEL 1987, OSPITA UNA COSPICUA RACCOLTA DI OPERE D'ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA, AFRICANA E AMERICANA. UN MUSEO REALIZZATO DALL’ARCHITETTO GENOVESE SFRUTTANDO, CON SPECIFICI ACCORGIMENTI, LA MUTEVOLE E IMPERFETTA ILLUMINAZIONE NATURALE

La Menil Collection a Houston, in Texas, progettata da Piano & Fitzgerald, architects tra il 1981 e il 1984 e inaugurata nel 1987. In alto, uno schizzo di Renzo Piano. Il museo ospita fino all’11 aprile la mostra Silent Revolutions: Italian Drawings from the Twentieth Century (qui alle pp. 34-39).

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materiali, provenienti soprattutto dall’arte africana, americana e dalle isole del Pacifico. Come scrive Piano, nel volume curato da Lia Piano e Franco Origoni (The Menil Collection, uscito nel 2007 per conto della Fondazione Renzo Piano): «L’idea della luce naturale era la chiave poetica del progetto, una luce così imperfetta e così mutevole soprattutto in Texas dove spesso il cielo blu viene spazzato improvvisamente dal vento e il tempo cambia. Il problema era come portare dentro al museo la luce naturale, a tutela anche delle opere, oltre a un altro aspetto progettuale importante. Il pavimento non poteva essere molto chiaro per evitare che la luce venisse rifratta. Da qui, la scelta di un materiale come il pino trattato in maniera da diventare scuro, in modo tale che la superficie pavimen-

tale portasse anche il segno della gente che ci cammina sopra». Sul pavimento le tracce dei piedi restano, rendendo così il museo un po’ “imperfetto” e vissuto come una casa; il tempo cambia il percepito di uno spazio e la luce naturale, con alcune rare presenze – in relazione soprattutto alle sculture – della luce artificiale, trasforma il percorso espositivo in una serie di scoperte e sorprese, diverse e inattese.

RENZO PIANO, DOPO QUESTO PRIMO PROGETTO AMERICANO, È STATO ADOTTATO COME UNA SORTA DI BRUNELLESCHI CONTEMPORANEO Una sala della Menil Collection. In alto, da sinistra: un dettaglio e uno schizzo di Renzo Piano del Cy Twombly Pavilion progettato da Renzo Piano Building Workshop, Architects tra il 1992 e il 1995.

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Da qui la scelta progettuale che ne caratterizza anche l’impianto compositivo: le famose “foglie” in ferrocemento, spessore venticinque centimetri. Sono elementi di copertura a forma di foglia, appunto, posti a un’altezza di dodici metri, che, per una particolare configurazione strutturale, prendendo la luce da nord permettono di raggiungere all’interno dell’edificio una luminosità diffusa, evitando così una relazione diretta tra le opere e la luce zenitale. L’architettura, la vera architettura che resiste nel tempo, è fondata su questo sapere, sempre in equilibrio tra la memoria e la sperimentazione sul campo; in questo caso, hanno giocato un ruolo fondamentale le suggestioni di un maestro, sempre amato da Piano, Pier Luigi Nervi, e la collaborazione con un fraterno amico, scomparso troppo presto, l’ingegnere inglese

Peter Rice. «Questo risultato finale, così noto e caratterizzante dell’atmosfera della Menil Collection, è in realtà l’effetto di un procedere abbastanza saltellante che coinvolgeva saperi scientifici e tecnologici, utilizzati alla luce di un sano pragmatismo, genovese e anglosassone, senza mai dimenticare riflessioni di carattere più spirituale e artistico», scrive ancora Piano. Questa è la differenza tra un grande progettista che non dimentica mai da dove viene e la qualità media di un’architettura efficiente e senza anima; per tale ragione Renzo Piano, dopo questo primo progetto americano, è stato adottato come una sorta di Brunelleschi contemporaneo dalle fondazioni e istituzioni culturali degli Stati Uniti: scienza e arte e il cantiere come laboratorio quotidiano. H Particolare della facciata della Menil Collection. Qui sotto, un particolare del Cy Twombly Pavilion.

Menil Collection Houston www.menil.org

VIBRAZIONI A

_ GRANDI MOSTRE 3 SIGNAC A PARIGI

Valeria Caldelli

TINTE FORTI ALLA FINE DEL XIX SECOLO, IN PIENA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E TECNOLOGICA, IL GIOVANE SIGNAC, INSIEME A SEURAT E PISSARRO, ADOTTA LA TECNICA PUNTINISTA, CHE “SCOMPONE” I COLORI E REGOLA L’ACCOSTAMENTO DI PICCOLE PENNELLATE SULLA TELA CON UN EFFETTO VIBRANTE E LUMINOSO. LA LIBERAZIONE DEL COLORE DALLA FORMA, FIN QUASI ALL’ASTRATTISMO, È ORA RACCONTATA IN UNA MOSTRA AL MUSÉE JACQUEMART-ANDRÉ.

Fu un po’ una rivincita della razionalità contro le passioni, il successo dell’ottimismo sugli impeti tormentati dei sentimenti. Fu la scienza che apriva i suoi sterminati confini suggestionando con le sue leggi il campo impulsivo dell’arte. La lampadina, il motore a scoppio, il telefono, il grammofono, il tram, l’automobile, la bicicletta stavano cambiando la vita di tutti i giorni ma erano solo le conseguenze più visibili di quel flusso inarrestabile di scoperte scientifiche e conquiste tecnologiche che attraversarono la seconda metà del XIX secolo. Non è dunque un caso se nel 1884, mentre Parigi si preparava a celebrare il centenario della rivoluzione francese cominciando a innalzare la Tour Eiffel, simbolo della nuova tecnologia costruttiva basata sul ferro e sull’acciaio, tre giovani pittori sensibili al mutamento dei tempi fondarono una società di artisti indipendenti, pronti a “rivoluzionare” la tecnica pittorica attraverso principi scientifici. Così Seurat, Signac e Pissarro dettero vita a un piccolo gruppo, quello degli “impressionisti scientifici” che, facendo tesoro

Les Andelys. Tramonto (1886), particolare.

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I PIGMENTI PURI DIRETTAMENTE SULLA TELA, UNO ACCANTO ALL’ALTRO, ATTRAVERSO PICCOLI TOCCHI DI PENNELLO

delle nuove leggi dell’ottica, non univano più i colori sulla tavolozza, ma applicavano i pigmenti puri direttamente sulla tela, uno accanto all’altro, attraverso piccoli tocchi di pennello e secondo precisi accostamenti. In questo modo, secondo le moderne teorie del chimico Michel Eugène Chevreul, è l’occhio stesso, guardando l’immagine dalla giusta distanza, a mescolare i colori, liberandone la luce. Non più, dunque, la riproduzione spontanea e immediata della natura, come facevano gli impressionisti che dipingevano “en plein air”, catturando le sensazioni visive. Una pittura più meditata, riflessiva, invece, che della realtà rispettava le proporzioni, ma la rendeva più astratta, ricostruendola intellettualmente nell’atelier. L’obiettivo finale doveva essere la liberazione del colore, la sua indipendenza rispetto alla

Saint-Briac-sur-Mer. I fari (1890).

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forma, anche a scapito della gestualità dei protagonisti, i cui movimenti restavano rigidi. Nello stesso modo le emozioni non erano più legate al soggetto, ma dovevano trasformarsi in emozioni ottiche. Una rivoluzione artistica che non fu immediatamente compresa, ma che tuttavia non rinnegò mai la discendenza dai precursori impressionisti, tanto da riconoscersi nel nome di “neoimpressionismo”. Sì alla tradizione, dunque, ma guardando il presente. Tanto che lo stesso Signac nel 1885 volle partecipare ad alcuni esperimenti sul fenomeno della riflessione della luce bianca svolti nella manifattura dei Gobelins, storico laboratorio tessile di Parigi specializzato in arazzi, di cui Chevreul era direttore. Ed è proprio a Paul Signac, anticonformista, ribelle, anarchico e pioniere del neoimpressionismo che il Mu-

sée Jacquemart-André di Parigi dedica una mostra importante presentando un insieme di circa settanta opere riunite da più generazioni di una famiglia di grandi collezionisti. Dagli esordi impressionisti agli anni eroici della “mescolanza ottica”, dalla vita parigina ai colori forti del Midi fino alla luce trasparente della laguna veneziana, dai disegni, alle tele e infine gli ultimi acquerelli, in una carrellata cronologica che riapre anche il dialogo con gli artisti che condivisero l’avventura neoimpressionista. Seurat, Pissarro, Cross, Luce sono solo alcuni dei nomi più famosi che hanno fatto la storia della “decomposizione” del colore, e che oggi si confrontano di nuovo nelle sale del grande palazzo parigino di boulevard Haussmann.

Saint-Tropez. Dopo la tempesta (1895).

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PROGRESSIVAMENTE LA RICERCA DEL COLORE SOSTITUISCE QUELLA DELLA LUCE

Venezia. L'arcobaleno (1906). Avignone, mattino (1909). Juan-Les-Pins. Sera (1914).

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«L’opera di Signac è molto ricca. Se il suo approccio tematico si concentra su fiume mare e battelli, lui si appassiona anche a tecniche diverse. Non solo la pittura, dunque, ma anche l’acquerello e il disegno. Soprattutto il suo stile evolve dall’impressionismo al neoimpressionismo vicino a Seurat, poi a un secondo neoimpressionismo, più libero e più colorato», spiega Marina Ferretti, curatrice della mostra insieme a Pierre Curie, conservatore del Musée Jacquemart-André. «Si è dunque imposto un percorso cronologico per consentire al visitatore di seguire questo progresso espressivo». Ma in tutte le sue esplorazioni stilistiche, la ricerca della luce e la liberazione del colore per Signac restarono sempre un chiodo fisso. Non a caso, da giovane viziato, figlio unico di famiglia benestante, destinato a un’attività professionale, interruppe bruscamente gli studi di architettura dopo aver visto una mostra di Claude Monet. Era il 1880 e

quella determinazione a braccare anche il minimo riverbero di luminosità che ossessionava il maturo artista suggestionò anche il giovane studente che, proprio in quell’occasione, decise di diventare un pittore. Le sue prime opere avvengono dunque nel segno dell’impressionismo, con il pennello che accresce la luce attraverso il vacillamento dei suoi tratti sulla tela. Fu invece l’incontro con Seurat, quattro anni più tardi, ad aprirgli una nuova strada, quella del "pointillisme”, che prevede piccoli tocchi di colori puri, mai sovrapposti e accostati secondo la precisione scientifica indicata da chimici e fisici del tempo (non solo Eugène Chevreul, ma anche Charles Blanc e Ogden Rood). Vale a dire che i colori primari – rosso, giallo e blu – affiancati a quelli complementari – verde, viola e arancione – avrebbero prodotto nell’occhio in maniera automatica le tinte intermedie e secondarie, aumentandone la brillantezza. Se questa era la scienza, “avventurieri” artistici come Seurat e Signac

azzardarono la loro proposta. Che ebbe seguaci importanti, ma trovò anche molte resistenze. Basti pensare che nell’ottava e ultima mostra degli impressionisti in rue Lafitte a Parigi, nel 1886, a queste opere “puntilliste” venne lasciata l’ultima sala, anche perché sembra che Monet e Renoir si fossero rifiutati di esporre i loro quadri accanto a quelli dei neoimpressionisti. neoimpressionismo. D’altronde proprio il termine “pointillisme” venne al tempo utilizzato in maniera derisoria e rifiutato dagli artisti stessi. Comunque questi furono solo ostacoli momentanei. In realtà agli inizi del XX secolo Signac si era già conquistato un posto d’onore in Belgio, Olanda e Germania. In Francia, nel 1915, verrà nominato pittore ufficiale della marina militare. «È allora considerato come uno dei padri fondatori della pittura moderna, accanto a Cézanne, Gauguin e Van Gogh», racconta Marina Ferretti, ricordando che proprio la liberazione del colore era in quel periodo al centro del dibattito artistico, come dimostra la nascita del fauvismo in Francia, quella dell’espressionismo in Germania, senza dimenticare l’avvento dell’astrazione. In mostra, seguendo Signac nel suo cammino rivoluzionario lo incontriamo prima in Bretagna con Saint-Briac-

Tramonto (il ventaglio) (1905 circa). Studio di Concarneau (1891).

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sur-Mer. I fari e poi nel Sud della Francia con Saint-Tropez. Dopo la tempesta. «Difficile indicare quali siano le opere maggiori esposte al Jacquemart-André, perché il giudizio è sempre una questione molto personale», dice ancora la curatrice. «A me appaiono entrambe capolavori e trovo che la quasi monocromia della seconda sia particolarmente interessante». Non può tuttavia sfuggire l’amore di Signac per l’acqua. Forse fu il bisnonno, ufficiale di marina durante la Rivoluzione, a trasmetterglielo. O forse fu ancora una volta la sua passione per la luce a fargli trovare nel mondo del mare, delle vele e dei venti le sue ispirazioni più felici e ricorrenti. Nella sua vita si contano una trentina di imbarcazioni con cui, da navigatore esperto, amava solcare il Mediterraneo insieme al collega e amico Gustave Caillebotte. Eccolo allora di nuovo in Francia con Juan-les-Pins. Sera e Avignone. Mattino. E poi in Italia con Venezia. L’arcobaleno. «Lo dipinge nel 1906 e, in termini di colori, qui si libera chiaramente da una rappresentazione fedele alla realtà», commenta Marina Ferretti. «Progressivamente, infatti, la ricerca del colore nella sua opera sostituisce quella della luce».

Certo, guardando alcuni dipinti, come Tramonto sulla città di Saint-Tropez o Concarneau, sembra che insieme ai colori anche l’impatto emotivo si faccia spazio sulle sue tele, togliendo alla scienza lo scettro di formula ideale, per lasciarle solo il compito “burocratico” di trovare alcune soluzioni concrete. La tecnica dell’acquerello, di cui Signac diventerà appassionato seguace, gli permetterà più tardi di ritrovare il contatto diretto con il soggetto lasciando campo libero a quella spontaneità che il “pointillisme” aveva “ingessato”. Con Tramonto siamo davanti a un’opera che quasi precorre l’astrattismo, certamente più vicina ai Fauves che al neoimpressionismo. D’altra parte l’abolizione del volume e della profondità voluta dai puntinisti lasciava spazio a un equilibrio immaginario in cui il colore diventava l’interprete principale. Non stupisce che non solo i Fauves, ma anche Kandinskij, ai suoi inizi, ne siano stati influenzati. E fu così che infine l’arte si vendicò sulla scienza. H Signac, les harmonies colorées Parigi, Musée Jacquemart-André 5 marzo - 19 luglio a cura di Marina Ferretti e Pierre Curie www.musee-jacquemart-andre.com

Tramonto sulla città di Saint-Tropez (1892).

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L’OGGETTOMISTERIOSO

Gloria Fossi

Nevermore, la tela peregrina

SULLE TRACCE DI GAUGUIN, DALL’EUROPA A TAHITI, SVELIAMO LE PERIPEZIE DI UN CAPOLAVORO E DI UNA SUA COPIA ARCANA

di Gauguin Nevermore è un dipinto che m’intriga dal 1985: da quando, al Courtauld Institute di Londra, mi trovai per la prima volta faccia a faccia con la tela di Gauguin. Dal punto di vista di gradevolezza epidermica, Nevermore non è un’opera attraente, ma è fra le più interessanti, per il sincretismo culturale che esprime, sospesa fra immagini esotiche e ascendenze occidentali. La tela (60,5 x 116 cm) fu dipinta a Punaauia, costa nord-ovest di Tahiti, tra febbraio e marzo del 1897. La scritta Nevermore, in prossimità della sagoma di un pennuto, offre un immediato richiamo al capolavoro di Edgar Allan Poe, The Raven (Il corvo, 1845): poemetto vertiginoso, che con ritmo ossessivo, onomatopeico, itera la parola Nevermore, ovvero “Mai più”. La risposta stridula, sibillina e inquietante è quella di un corvo, piombato una notte d’inverno nello studio di un amante disperato per la perdita della sua Lenore. La poesia di Poe fu tradotta da Baudelaire nel 1849, e da Mallarmé nel 1875(1). Il successo in Francia, come già negli Stati Uniti, fu enorme, eppure non impedì all’autore di Gordon Pym, e di tanti racconti del mistero, di morire in solitudine, nel 1849, dopo una delirante agonia, su un marciapiede di Baltimora(2). Baudelaire parlò di una vita scarognata(3), ma intanto la fama postuma di Poe cresceva. Nel 1891 Le Corbeau (The Raven), nella traduzione di Mallarmé, fu recitata a Parigi in una serata di beneficenza a favore dell’indigente Verlaine e dello squattrinato Gauguin, in procinto di partire per la Polinesia. Gauguin giunse a Tahiti il 9 giugno 1891. Due anni

Paul Gauguin, Nevermore (febbraio-marzo 1897), Londra, Courtauld Gallery, dalla collezione privata di Samuel Courtauld.

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Jelka Rosen Delius, Nevermore (1912 circa, copia dall’originale di Gauguin del 1897), Melbourne, Grainger Museum, già nella casa di Frederick e Jelka Rosen Delius a Grez-surLoing (Francia).

dopo tornò a Parigi; a settembre 1895 era di nuovo a Papeete, capitale di Tahiti, da dove si trasferì nel 1896 a Punaauia. Qui dipinse Nevermore che dopo il primo incontro a Londra, in Portman Square, ho studiato nell’attuale sede del Courtauld in Somerset House, nello Strand. Se anche fosse possibile viaggiare di questi tempi, il Courtauld è in ristrutturazione, e oggi non resta che osservare virtualmente il dipinto. In primo piano s’impone il nudo integrale, ma non sfrontato di Pahura, giovane fidanzata (“vahiné”) dell’artista. Nel dicembre 1896 Pahura aveva partorito una bambina, sopravvissuta qualche giorno. La donna è imbronciata, con lo sguardo perso altrove, mentre il pennuto la osserva. Gauguin precisò all’amico de Monfreid che quello non era il corvo di Poe, ma «l’uccello del diavolo». Se pure non si tratti di un corvo (come potrebbe, con quelle zampe palmate?) il richiamo a Poe è inevitabile(4). A questo, e ai significati dell’enigmatico dipinto, dedicheremo presto un approfondimento(5). Qui, intanto, seguiamo le peregrinazioni di Nevermore: oltre ventimila chilometri, che ho ripercorso a ritroso, nel 2006, da Parigi a Tahiti. Da qui, nel marzo del 1897, la tela, arrotolata con altre sei, era stata affidata a Joseph Gouzier, ufficiale medico diretto in patria sull’incrociatore Duguay Trouin. Gouzier la consegnò tre mesi dopo a George Daniel de Monfreid, a Parigi. 54

È difficile, oggi, “trovare Gauguin” a Tahiti. Punaauia, tredici chilometri da Papeete, è una zona residenziale, con ville sulla collina e sul mare, e due centri industriali. La grande capanna ovale che Gauguin aveva costruito su un terreno in affitto è scomparsa, ma ho ritrovato, fra la chiesetta cattolica e la costa, il cimiterino che confinava col vasto appezzamento occupato dall’artista. Alle spalle, le montagne verdissime. All’orizzonte, la sagoma selvaggia dell’isola di Moorea, così come l’ammirava estasiato Gauguin. Se questa tela potesse parlare, cosa direbbe di aver visto e sentito? Il fruscio delle palme, il suono sordo dei frutti di cocco che cadono durante gli uragani, il tragitto su una carretta, o su una diligenza, da Punaauia a Papeete, e poi, la navigazione verso Marsiglia, sotto il cielo stellato della Croce del Sud. Poi, lo sbarco e il vociare dei portuali, infine il treno a vapore verso la rutilante Parigi, dove De Monfreid riuscì a venderla per 500 franchi, nel dicembre del 1897, a un musicista amico di Gauguin: Frederick Delsius (1862-1934). Che la portò a Grez-sur-Loing, nell’Île-de-France, dove abitava con la moglie pittrice, Jelka Rosen (1868-1935). Da allora, ha viaggiato ancora. Com’è giunta la tela nella raccolta di Samuel Courtauld? Nel dicembre scorso mi è venuta in soccorso un’asta di Sotheby’s, che ha venduto per oltre duemila sterline dodici lettere di Mau-

Lloyd Osbourne (a sinistra) e Frederick Delius (a destra) nella sala della musica a Grez-sur-Loing (Francia). Sulla parete di fondo, la copia di Nevermore di Gauguin dipinta da Jelka Rosen Delius.

de Cunard inviate a Delius, fra 1912 e 1918. Il compositore era in difficoltà economica, e l’amica gli suggeriva di vendere Nevermore(6). Delius, che nel 1906 l’aveva prestata al Salon d’Automne, la vendette, presumo agli inizi del 1912, al collezionista Alfred Wolff di Monaco di Baviera, che la prestò quello stesso anno a una mostra a Colonia(7). Gli archivi del Courtauld segnalano che l’opera passò ad Alex Reid a Glasgow, poi ad Agnew’s a Manchester, dove fu venduta a Herbert Charles Coleman. Da quest’ultimo dovette acquistarla Samuel Courtauld, che agli inizi del 1932 la prestò alla Royal Academy of Arts a Londra per una mostra epocale sull’arte francese(8). Fu poco prima della mostra, presumo, che Courtauld la comprò, per poi donarla al museo a lui intitolato. C’è di più. Torniamo al primo acquirente. Ho trovato una fotografia che ritrae la sala della musica di Delius a Grez-surLoing. Lloyd Osbourne, figliastro di Robert L. Stevenson, siede di fronte al musicista anziano, ma non ancora cieco e paralizzato come si vede nelle foto dei suoi ultimi anni. Sullo sfondo, Nevermore. Non è l’originale, senza dubbio, perché lo scatto risale a non prima della metà degli anni Venti. È invece la copia fedele, ora a Melbourne(9), che Jelka Rosen aveva dipinto, penso, prima che il marito vendesse, certo con tristezza, il vero Nevermore. Se solo la tela al Courtauld potesse parlare... H

(1) Le Corbeau (The Raven), poème par Edgar Poe, traduzione

francese di Stéphane Mallarmé, con illustrazioni di Édouard Manet, Parigi 1875. (2) G. Fossi, Introduzione, in E. A. Poe, Le avventure di Gordon Pym,

Firenze 2018, pp. 7-20 e 251-253. (3) C. Baudelaire, Edgar Allan Poe, sa vie et ses ouvrages, in “Revue de

Paris”, marzo-aprile 1852. (4) Lettera del 14 febbraio 1897, in Lettres de Paul Gauguin à Georges

-Daniel de Monfreid, précédées d’un hommage de Victor Ségalen, Parigi 1918, pp. 164-165. (5) G. Fossi, L’oggetto misterioso. In giro per il mondo sulle tracce di

arcani capolavori, in uscita presso Giunti, Firenze, nell’autunno 2021. (6) [F. Delius]. 12 letters by Maud Cunard to Delius, about his music,

Gauguin’s “Nevermore” and Beecham, 1913-1917, lotto 22 dell’asta di Sotheby’s, Londra, 20 dicembre 2020. (7) Internationale Kunstausstellung des Sonderbundes Westdeutscher Kunstfreunde und Künstler zu Cöln, catalogo della mostra (Colonia, 25 maggio - 30 settembre 1912), p. 35, n. 168. (8) Exhibition of French Art 1200-1900, catalogo della mostra (Londra, Royal Academy of Arts, 4 gennaio - 12 marzo 1932), Londra, 1932, p. 242, n. 533. (9) https://blogs.unimelb.edu.au/librarycollections/2017/02/20/delius-buys-

a-gauguin/#.X_2aAHC4lWo.gmail (Grainger Museum, February 2017).

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le trappole dell’eros coniugale

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_ LETTURE ICONOLOGICHE LE STORIE DI GIUNONE E GIOVE DI ANDREA APPIANI

I QUATTRO DIPINTI DEL CICLO LE STORIE DI GIUNONE E GIOVE, REALIZZATI DA ANDREA APPIANI PER CELEBRARE IL MATRIMONIO TRA NAPOLEONE E MARIA LUISA D’AUSTRIA, OFFRONO UNA DUPLICE INTERPRETAZIONE DEL TEMA DELLA SEDUZIONE E DELL’AMORE CONIUGALE.

Enrico De Iulis

Alla morte di Andrea Appiani nel 1817, nelle Carte Reina, una sorta di catalogo dei lavori di Appiani che ancora si trovavano nel suo studio al momento del decesso, era menzionato un gruppo di quattro dipinti a olio delle stesse dimensioni, raffiguranti Le storie di Giunone e Giove. Si smembrerà di lì a pochi anni e percorrerà strade diverse. La toletta di Giunone verrà acquistata da Paolo Tosio nel 1830 e attualmente rappresenta uno dei capolavori del XIX secolo della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia. Il suo pendant, Venere allaccia il cinto a Giunone, riapparirà nel 1982 in una collezione privata. Dei due dipinti, fortemente incompleti, raffiguranti Gli amori di Giove e Giunone e Il sogno di Giove, non si conosce il percorso intrapreso da quando vennero espunti dalle Carte

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Le opere riprodotte in questo articolo fanno parte del ciclo Le storie di Giunone e Giove (1810 circa) di Andrea Appiani. Nelle pagine precedenti, La toletta di Giunone, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo. Qui sopra, Venere allaccia il cinto a Giunone.

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Reina, ma sappiamo che le prime tre tele vennero messe a confronto nella mostra Antonio Canova e il suo tempo realizzata nel 2009 in occasione della XXII edizione di Brixiantiquaria a Brescia. Nel 2015 Francesco Leone riuscirà a trovare il quadro mancante (Il sogno di Giove) nella collezione Cavallini Sgarbi, rirpodotto poi nel catalogo della mostra dedicata alla stessa collezione nel 2018. L’ubicazione originaria del ciclo è chiarita nelle Carte da Francesco Reina. Il letterato e politico italiano dichiara negli stessi documenti che la serie era stata pensata per il Gabinetto dell’imperatore a celebrazione del matrimonio tra lo stesso Napoleone e Maria Luisa d’Austria, contratto nel 1810. L'iconografia delle quattro tele è il punto su cui soffermarsi perché mostra questioni iconologiche assai interessanti e inusuali. Nella Toletta di Giunone, Appiani adotta un’iconografia totalmente pertinente, in realtà, alla sfera venusiana: le stesse Grazie sono parte del mondo collegato a Venere. È raffigurato Eros che agita un drappo e una stella che ha doppia lettura: può raffigurare Vespero come prima stella della sera o Lucifero come ultima stella della notte a essere visibile nel cielo prima che l’aurora illumini la volta celeste, le due valenze del pianeta Venere. Giunone, al contrario, non è mai rappresentata con una stella come attributo e raramente è raffigurata assieme alle Grazie. In una scena di toletta, mai. Si tratta di una sostituzione, una sovrapposizione delle due dee che potrebbe rintracciarsi nei "desiderata" della committenza. Le quattro immagini rappresentate da Appiani traggono spunto dal XIV canto dell’Iliade in cui viene narrato di come Era (la romana Giunone, appunto), attraverso un inganno, chiede ad Afrodite/ Venere il suo cinto in grado di sedurre ogni essere vivente, compreso un dio. L’oggetto servirà a Era per riaccendere la passione di Zeus, al fine di distrarlo dagli scontri che infuriavano sotto le Porte Scee (le porte della città di Troia). La seduzione come arma strategica. In quest’ottica il quadro di Brescia avrebbe dovuto instradare il fruitore in un’atmosfera di intenzioni seduttive, una temperie sensuale a cui Giunone risulta aliena ma a cui può avvicinarsi sovrapponendole l’ambito più caro a Venere. Il dipinto Venere allaccia il cinto a Giunone racconta proprio il momento in cui il potere della seduzione viene passato da

VENERE ALLACCIA IL CINTO A GIUNONE RACCONTA IL MOMENTO IN CUI IL POTERE DELLA SEDUZIONE VIENE PASSATO DA UNA DEA ALL’ALTRA

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GIOVE IN UN SONNO RISTORATORE, DOPO L’APPAGAMENTO DEI MINUTI SUCCESSIVI ALL’INCONTRO INTIMO CON SUA MOGLIE una dea all’altra. Mentre Gli amori di Giove e Giunone descrive Era che seduce Zeus: è una scena molto intima con una dea erotica come mai si ripeterà in tutta la mitografia classica. L’ultimo quadro della serie di committenza napoleonica vede Giove in un sonno ristoratore, strettamente collegato alla spossatezza e all’appagamento dei minuti successivi all’incontro intimo con sua moglie. Eros è raffigurato a rappresentare l’ambito amoroso, mentre la figura non finita a destra suona una lira ma non è da riconoscere come Apollo, bensì come la

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Gli amori di Giove e Giunone.

terza Ora o una musa. L’acconciatura infatti, seppur accennata, è una treccia raccolta sulla nuca, già sfoggiata dalle figure femminili degli altri quadri, non la chioma riccioluta e sciolta dell’Apollo della lunetta del Parnaso dello stesso autore, mentre il busto è solo accennato al punto da non poter rendere chiara la visione di un eventuale seno o di un torso maschile. La destinazione delle opere ci permette di individuare un secondo piano di significato dell'intero apparato. Il ciclo, nonostante l’apparente tema amoroso di coppia, non è destinato alle stanze private degli sposi, ma al Gabinetto dell’imperatore che amava essere rappresentato come un novello Giove. La chiave di lettura potrebbe essere allora quella del monito, del non cedere totalmente alle lusinghe di una moglie troppo seducente a scapito della vigilanza e del governo. Un doppio binario iconologico (politico e matrimoniale), in cui accanto alla fantasia di una moglie disciplinata ma eroticamente attiva,

Il sogno di Giove.

si sottende una raccomandazione a non cadere nelle trappole che l’eros coniugale può far scattare, pena una non piena lucidità riguardo alla situazione politica, quella stessa lucidità che Giove perde nell’Iliade, distratto dagli intenti di Giunone avversa ai troiani. Un’ultima interessante notazione si aggiunge alla luce di quello che sappiamo essere stato l’apparato decorativo del Gabinetto di Napoleone preesistente al 1810, data presunta dei quattro dipinti. In una nota di Reina è riportato: «Le lunette di palazzo dovevano essere due: l’una della mattinata di Giove beato (opera finita meravigliosamente). L’altra Apollo citaredo». Le lunette in questione sono andate distrutte, ma sappiamo che erano state concepite come sovrapporta del Gabinetto. Una parola di Reina, «mattinata», può essere la chiave di una seconda lettura di una rappresentazione delle fasi del giorno.

Tre dei quattro dipinti, infatti, portano al loro interno un chiaro riferimento a una parte della giornata, lasciandoci anche azzardare una ipotesi di disposizione all’interno della stanza. Nell’incontro tra Giunone e Venere, in alto a sinistra, passa Aurora col suo chiarore sotto al manto gonfiato dal vento, nella Toletta di Giunone, Venere campeggia nel cielo sotto le spoglie della stella Vespero, la prima stella della sera. Infine Il sogno di Giove ci mostra un dio completamente addormentato su uno sfondo di nubi notturne. Inoltre nella lunetta di Apollo citaredo, nota attraverso un disegno preparatorio conservato alla Galleria d'arte moderna di Milano, la sera è chiaramente evocata dal riposo delle Grazie assise e dal sopimento di Amore. Il meriggio rimarrebbe inserito negli Amori di Giove e Giunone attraverso la finestra aperta su un cielo luminoso e punteggiato di nuvole. H

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_ STUDI E RISCOPERTE 1 GIOVANNI BATTISTA DELLA PORTA E GLI STUDI FISIOGNOMICI MAURO ZANCHI

Giovanni Battista Della Porta, Confronto tra la testa di un uomo e la testa di un ariete, dal De humana physiognomonia (1586), libro II.

UN CAMPIONARIO BESTIALE

È POSSIBILE RAVVISARE DELLE AFFINITÀ TRA LE SEMBIANZE UMANE E QUELLE ANIMALI? LA RIFLESSIONE SI ESAURISCE TUTTA SUL PIANO PURAMENTE FISICO OPPURE INTERESSA ANCHE LA SFERA PSICOLOGICA? UN PUNTO DI PARTENZA A QUESTE DOMANDE È OFFERTO DAL DE HUMANA PHYSIOGNOMONIA, OPERA REALIZZATA NEL CINQUECENTO DALLO SCIENZIATO E FILOSOFO NAPOLETANO GIOVANNI BATTISTA DELLA PORTA.

Quali segrete analogie legano i lineamenti delle persone e le forme dei musi, dei nasi, delle teste e dei caratteri animali? Il confine visibile che sta tra l’uomo e l’animale viene sondato nel Cinquecento da Giovanni Battista Della Porta: nei suoi studi i tratti fisiognomici umani si sovrappongono (o giustappongono) a quelli di diverse specie animali, entro un ciclo di metamorfosi visiva dove si condensano caso e milioni di anni in cui la natura ha dato vita alle trasformazioni degli esseri viventi. In ogni volto umano convivono tratti distintivi unici e la forma comune di una specie, e al contempo nel viso particolare, nella sua espressione, traspare una delle innumerevoli declinazioni del flusso evolutivo. Pur nella sua varietà il regno animale è unitario? Tutti gli esseri viventi sono costituiti dai medesimi principi? Nell’indagine traspare qualcosa che pare della stessa natura di Proteo, divinità minore della mitologia greca in grado di cambiare aspetto e forma in un continuo processo di trasformazione dall’uomo all’animale e viceversa. Differenti tratti morfologici e analogie tra diversi esseri viventi, rimontati in nuove modalità, danno vita a un curioso e bizzarro campionario di bestialità umana. Giovanni Battista Della Porta, Confronto tra la testa di un uomo e la testa di un bue, dal De humana physiognomonia (1586), libro II.

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Il pensiero e la ricerca di Giovanni Battista Della Porta stanno in equilibrio fra la cultura magica cinquecentesca (1) e il pensiero razionalistico del Seicento . Il suo trattato De humana physiognomonia (stampato a Vico Equense nel 1586) è uno dei testi imprescindibili all’interno degli studi sul volto umano, attraverso anche le rispondenze con le forme degli animali, per indagare il rapporto tra aspetto fisico e carattere: «Non è forse vero che l’uomo è ardito

IN OGNI VOLTO UMANO CONVIVONO TRAT TI UNICI E LA FORMA COMUNE DI UNA SPECIE E NELL’ESPRESSIONE DEL VISO TRASPARE UNA DELLE DECLINAZIONI DEL FLUSSO EVOLUTIVO

come il leone, che è timoroso come la lepre, che lo si può paragonare al gallo per la liberalità e al cane per l’avarizia? […] In breve, egli riassume le complessioni e i caratteri delle diverse specie di animali, è il condensato di tutto il (2) creato» . L’apparato illustrativo del trattato è costituito da disegni dotati di particolare efficacia nel mostrare le corrispondenze e i paragoni tra uomo e animale, anche nella dimensione psicologica. Questi studi fisiognomici sono un documento importante per comprendere come un filosofo naturale intende utilizzare i saperi ermetici, ereditati dal Rinascimento quali strumenti di conoscenza, per indagare i fenomeni e le corrispondenze che intercorrono fra microcosmo e macrocosmo, così che studiando con sguardo scientifico il mondo si possa esplorare più nel profondo anche la propria interiorità. Lo studioso napoletano parte dallo zoomorfismo già presente negli studi fisiognomici precedenti. Rinnegando, però, l’influsso degli astri, l’apporto dell’astrologia e della divinazione – tutte pratiche invise alla tradizione cattolica e all’Inquisizione (soprattutto nella seconda metà del Cinquecento), che culminerà nell’arresto e morte di Giordano Bruno –, si concentra sullo studio dei temperamenti e sul

Di Charles Le Brun, dall'alto: Somiglianze tra la testa di un leone e la testa di un uomo, dal Livre de portraiture pour ceux qui commencent a dessiner (XVII secolo), Parigi, Musée des Arts Décoratifs, Bibliothèque; Tre teste di uomini in relazione alla civetta, (1671), f. 53, Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques.

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(3)

metodo del «sillogismo del fisionomo» per indagare il (4) rapporto tra aspetto fisico e carattere . Recupera la dottrina degli umori del corpo, soprattutto riferendosi a Galeno, ad Aristotele e alle opinioni più interessanti dei filosofi antichi relative alla fisiognomica, per dimostrare la corrispondenza tra anima e corpo, lo scambio vicendevole, i “segni” che permettono di conoscere il temperamento, i costumi, le passioni delle persone. La trattazione sonda i segni sul viso umano e sul muso ferino mentre le immagini rendono visivamente la scansione delle correlazioni: si inizia dal capo, dalla conformazione e dalle misure, per poi analizzare le sue componenti (fronte, capelli, sopracciglia, tempie, occhi, orecchie, naso e narici, guancia, labbra, bocca, denti, lingua, collo, barba, peli, gola, chiave del collo, cervice), e infine con la disamina della faccia (mesta, allegra, umile, temeraria...) intesa come specchio della mente, le inclinazioni verso i vizi o le virtù nelle comparazioni con varie specie animali.

Qui sopra, Pierre Frédéric Lehnert, Traité physiologique de la ressemblance animale (1839), caricatura n. 103.

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UN’UMANITÀ AMBIGUA, CHE SI RICONGIUNGE AL MOSTRUOSO FANTASTICO DEL MEDIOEVO

Questa novità teorica negli studi fisiologici viene successivamente formalizzata nella cultura francese del Seicento, che ne individua il potenziale utilizzo sociale. Charles Le Brun attinge a questi studi applicandoli alla visione razionalista. Le Brun, Johann Kaspar Lavater e tutti i loro ammiratori dell’Ottocento hanno prodotto disegni e studi per spostare l’attenzione anche sull’uomo che scende verso la bestia, in un percorso contro-evolutivo, a ritroso verso l’origine delle trasformazioni. I volti umani assumono di caso in caso qualcosa che appartiene al muso di un leone, di un toro, di una pecora, di un gatto, di un cane o alla testa di un’aquila o di una civetta. Si viene a creare così un bestiario costituito da diverse possibilità metamorfiche, un'umanità ambigua che si ricongiunge al mostruoso fantastico del Medioevo. Cosa intendono far emergere principalmente dai disegni che rendono visibile lo zoomorfismo? Che i tratti esteriori rimandano anche a comportamenti e questioni morali. Nell’Ottocento, secolo del realismo e delle prime avanguardie moderniste, avviene che molte persone manifestino forte attrazione per (5) l’animalomania , non entro i dettami di una moda effimera ma per dare sfogo a una vera e propria ossessione tenuta continuamente a bada dall’autocontrollo e dalla società puritana. Gli artisti e i caricaturisti inventano persone che si trasformano in bestie e animali che si comportano come uomini. E torniamo di nuovo alla domanda iniziale: quali analogie legano i lineamenti e i caratteri delle persone a quelli degli animali? Ma soprattutto, chi era “umano” secondo Della Porta e tutti coloro che hanno seguito le derive del suo pensiero, tra cui Lavater, Franz Joseph Gall e i frenologi? H

(1) Fin da giovane Della Porta si dedica agli studi filosofici, alle scienze naturali, alla magia intesa come «naturalis philosophiae absoluta consumatio», alle pratiche alchimistiche che gli consentono di approdare a numerose scoperte chimiche. Secondo la sua visione il “mago” è colui che conduce le forze presenti nel mondo (ovvero le “simpatie”, le “antipatie”, le attrazioni magnetiche, le virtù delle pietre e delle erbe, le arti meccaniche, le illusioni ottiche, le “segnature”, le dinamiche chimiche) verso la facoltà di riprodurre con arte i fenomeni studiati nell’ambito di ricerca naturale. Keplero e Fabro attribuiscono a Della Porta l’invenzione del telescopio. Per tutta la sua vita quest’ultimo prosegue i suoi studi praticando feconde ricerche indirizzate verso molti interessi e branche del sapere fino al 1615, anno della sua morte a Napoli. (2) G.B. Della Porta, Della Fisionomia dell’Huomo, libro I, Napoli 1598. (3) Il sillogismo consiste nel «ritrovar questi segni proprii, primo è da considerare un genere di animali, nel quale in universale ci sia quella passione; appresso poi è da considerare l’altre generazioni d’animali, che non in universale, ma in particolare abbino quella passione» (G. B. Della Porta, op. cit.). (4) La fisionomia è veritiera «perché sta appoggiata su principi naturali, et utile per conoscere gli altrui vizii, per potersene guardare e per

Nella pagina a fianco, Giovanni Battista Della Porta, Confronto tra la testa di un uomo e la testa di un cane, dal De humana physiognomonia (1586), libro II. Qui sotto, Jean-Jacques Grandville, Testa umana trasformata in rana, da "Le Magasin pittoresque", Parigi 1844.

poter emandare e guarire i suoi proprii […]. E si può da questa ancora conoscere alcun de’ futuri avvenimenti, come spero mostrare» (G. B. Della Porta, op. cit.). (5) Nel 1836, Jean-Ignace-Isidore Gérard, caricaturista noto anche con lo pseudonimo di Grandville (Nancy, 13 settembre 1803 - Vanves, 17 marzo 1847), pubblica le sue animalomanie: L’Autre Monde (1844), un’opera riconosciuta da André Breton e Georges Bataille come precorritrice del surrealismo.

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LA COLLEZIONE DELLE COLLEZIONI

_ GRANDI MOSTRE 4 I MARMI TORLONIA A ROMA

sergio RINALDI TUFI

DA DOVE PARTIRE PER ILLUSTRARE L'ENORME PATRIMONIO DI SCULTURE ANTICHE DEI TORLONIA, FRUT TO DI ACQUISIZIONI PROVENIENTI DA ALTRE NOTE RACCOLTE E DA SCAVI COMPIUTI NELLE MOLTE RESIDENZE DELLA NOBILE FAMIGLIA ROMANA? NE ABBIAMO SCELTE ALCUNE TRA QUELLE ESPOSTE A VILLA CAFFARELLI. Eutidemo I di Battriana, chi era costui? Parafrasiamo questa celebre frase dei Promessi sposi (pronunciata da don Abbondio che si chiede chi fosse Carneade, filosofo greco noto agli studiosi ma ignoto ai più) per introdurre una delle più intriganti fra le novantadue sculture restaurate esposte nella mostra I marmi Torlonia. Collezionare capolavori aperta a Roma a villa Caffarelli, primo passo della risistemazione di una delle più importanti raccolte private di arte antica (seicentoventi opere). Anche Eutidemo in effetti è conosciuto dagli specialisti, ma non è proprio sulla bocca di tutti. La Battriana (attuale Afghanistan settentrionale) era uno dei territori occupati da Alessandro Magno nella sua avanzata verso Oriente, e divenuti, dopo la dissoluzione del suo impero, “regni indo-greci”, luoghi di cultura mista, classica e orientale. Ne fu re, fra 230 e 195 a.C., proprio Eutidemo, greco di Magnesia. Il ritratto individuato come Eutidemo apparteneva alla secentesca collezione Giustiniani, che fu acquistata dal principe Alessandro Torlonia nel 1816 e collocata nel museo di famiglia in via della Lungara a Roma, inaugurato nel 1876. Si approntò anche un grande catalogo in più edizioni a opera di Pietro Ercole e Carlo Lodovico Visconti: nell’ultima (1885) comparivano “storiche” fototipie. La testa, che era stata inserita in un busto non pertinente, raffigura un uomo di età avanzata, che indossa un particolare cappello a larghe tese. Espressione concentrata, impietose rughe sulla fronte, sul collo, sulle guance: dopo prime definizioni un po’ sprezzanti («un villano», anche per quello strano copricapo), si fece largo l’identificazione Statua di caprone, corpo (fine del I secolo d.C.), testa attribuita a Gian Lorenzo Bernini (1598–1680), dalla collezione Giustiniani. Questa e le altre opere qui riprodotte fanno parte della collezione Torlonia.

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Ritratto maschile, detto Eutidemo di Battriana (fine III inizi II secolo a.C.), dalla collezione Giustiniani.

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Ritratto maschile su busto moderno, detto Vecchio da Otricoli (50 a.C. circa).

con Eutidemo. Si conoscono numerose monete che raffigurano il re a varie età: quelle senili erano state confrontate con la nostra testa, e il cappello era stato interpretato come copricapo da cerimonia. L’identificazione, recentemente discussa, è stata poi di nuovo ritenuta plausibile. In quest’opera al confine fra il classico e l’esotico, illustrata nel catalogo dell’attuale esposizione romana da Stefania Tuccinardi, sono presenti tutti gli ingredienti dell’antiquaria: provenienza oscura, acquisti e cessioni, restauri e “pastiches”, cambiamenti di sedi, discussioni accanite a cui manca sempre qualche elemento decisivo. Eutidemo è il numero due della mostra, e il tre è il Vecchio da Otricoli (provenienza indicata nel catalogo con fototipie del 1885, ma non sicurissima), noto anche come Busto Torlonia. Troviamo qui un verismo ancor più spietato di quello dell’Eutidemo: naso gibboso, mento prominente, rughe profonde. L’aristocrazia romana di età repubblicana, in genere di origine terriera, non disdegnava che si esibissero gli effetti sulla pelle di una vita di duro lavoro nei campi. Nel museo Torlonia il Vecchio era “adattato” a raffigurare Galba (successore di Nerone nel 69 d.C.) in un sbalorditiva serie di centodieci ritratti di imperatori. Non era stato mai esposto vicino all’Eutidemo finché non ci hanno pensato, ora, Salvatore Settis e Carlo Gasparri, curatori della mostra (Gasparri fra l’altro fu il primo a visionare pezzo per pezzo la collezione dopo la chiusura di quarant’anni di cui parla qui Fabio Isman alle pp. 74-77). Con Laura Buccino, altra autrice del catalogo espositivo, torniamo nell’ambito della ex Giustiniani, e troviamo un’altra situazione singolare, e cioè una “coppia” che passa da una collezione all’altra. Si tratta di due copie (una delle quali sapientemente restaurata da Pietro Bernini) delle tante che furono eseguite in età romana della Afrodite al bagno. L’originale, oggi perduto, era opera di un noto scultore originario della Bitinia, Doidalsas, del III secolo a.C.: nella figura accovacciata (posa che assumevano per il bagno le dame delle classi elevate, in modo che le ancelle potessero versare l’acqua dall’alto) la sensualità dell’incarnato, lo schema compositivo piramidale sono espressione di una ricerca del raffinato e del peculiare propria dell’età ellenistica. Famoso è anche il Caprone, sempre dalla Giustiniani. Rinvenuto forse in una villa di età romana, fu sottoposto a un “restauro d’autore”: come il padre Pietro aveva lavorato su una delle due statue di Afrodite di cui si è appena detto, così il grande Gian Lorenzo Bernini, ancora ventiduenne (1620), rifece ex novo la testa dalle lunghe corna, quasi umanizzandola. L’arricciarsi del pelame nella parte alta e

TROVIAMO QUI UN VERISMO ANCOR PIÙ SPIETATO: NASO GIBBOSO, MENTO PROMINENTE, RUGHE PROFONDE

UN GRANDE NET TUNO, UNA FIGURA DI BACCO E UN ENORME OCCHIO APOTROPAICO, SIMBOLO CARO ALLA GENTE DI MARE il suo spiovere lungo le gote e sotto il mento sono un saggio, squisitamente barocco, di perizia tecnica, ma tutto è ravvivato dal taglio e dall’espressione dei grandi occhi, che nel catalogo espositivo Tomaso Montanari pone a confronto (per la resa dell’iride e della pupilla) con quelli del ritratto di Camilla Barbadori Barberini scolpito dallo stesso Gian Lorenzo nel 1619, oggi a Copenaghen. Come sottolineano Settis e Gasparri, la raccolta è una “collezione di collezioni”, e fra queste è particolarmente significativa quella di Bartolomeo Cavaceppi, complessa figura di scultore, copista e mercante del Settecento, amico di Winckelmann, restauratore a Roma di numerose opere dei Musei capitolini. Morì nel 1799 lasciando in eredità all’Accademia nazionale di San Luca il suo studio pieno di copie, calchi, restauri in corso: furono messi all’asta l’anno dopo e acquistati da Giovanni Torlonia. Fra le testimonianze del gusto di Cavaceppi, ma anche del nuovo proprie-

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Bassorilievo con veduta del Portus Augusti (200 d.C. circa).

tario, ricordiamo (rinvenuto sulla via Appia) un grande bacino marmoreo, frutto di sapienti montaggi, restauri, integrazioni. In gran parte originale (I secolo a.C.) è l’elegante fregio raffigurante le fatiche di Ercole. Oltre alle collezioni, a fornire opere da esporre contribuirono anche scavi eseguiti nei tantissimi terreni della famiglia Torlonia. Spicca un celebre rilievo marmoreo rinvenuto dal principe Alessandro nell’area del porto di Traiano a Fiumicino: raffigura proprio una nave che si prepara all’approdo, mentre un’altra l’ha preceduta e una scialuppa la affianca da poppa. È raffigurato un faro: era famoso quello del preesistente porto di Claudio, ed è perciò qui che la scena si ambienta. A poppa compiono una libagione (assistiti da un addetto) un personaggio maschile e uno femminile, in cui si ravvisano elementi propri dei ritratti di Settimio Severo e soprattutto dell’autorevole moglie Iulia Domna (pettinatura con scriminatura centrale e ampie bande on-

Statua di Meleagro, testa (metà I secolo d.C.) corpo (età imperiale), particolare, dalla collezione Giustiniani.

A destra, in alto, gruppo di sculture restaurate: in primo piano, Cariatide del tipo Eleusi, verosimilmente rinvenuta a Monte Porzio (40-50 d.C.), dallo Studio Cavaceppi; sullo sfondo, Statua di caprone, corpo (fine del I secolo d.C.), testa attribuita a Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), dalla collezione Giustiniani.

dulate che incorniciano il volto): forse la scena raffigura il ritorno dell’imperatore dal viaggio compiuto nel 204 d.C. nella provincia natia, l’Africa Proconsolare. Al di là delle navi, domina la scena un arco monumentale sormontato da una quadriga trainata da elefanti: elemento che agli antichi doveva indicare l’ubicazione, ma che a noi purtroppo non rivela molto. Una serie di figure allegoriche o divine compare qua e là (Bianchi Bandinelli parlava di dissolvimento del tessuto logico della rappresentazione): un grande Nettuno, una figura di Bacco (allusioni forse a culti praticati in edifici presso l’approdo) e soprattutto, ancor più scollegato dal contesto narrativo, un enorme occhio apotropaico, simbolo caro, però, alla gente di mare. Abbiamo selezionato alcuni esempi, ma speriamo che le visite (interrotte a causa del Covid) possano essere riprese per verificare non solo la consistenza di questa prima robusta tranche della collezione, ma anche le tappe della

Veduta dell’esposizione romana con alcuni ritratti restaurati per l’occasione.

sua formazione, ben individuabili nell’allestimento di David Chipperfield Architects. Si parte con i pezzi che erano nel museo Torlonia per risalire a quelli provenienti dalla collezione Giustiniani, e così via: un viaggio all'indietro nel tempo che si snoda attraverso gli ambienti di villa Caffarelli efficacemente restaurati dopo lunga chiusura. Sarà questa la sede definitiva? Il futuro non è del tutto chiaro, e le incertezze partono dal passato: anche su questi temi ci racconta molte cose Fabio Isman. H

I marmi Torlonia. Collezionare capolavori a cura di Salvatore Settis e Carlo Gasparri Roma, Musei capitolini, villa Caffarelli fino al 29 giugno catalogo Electa www.torloniamarbles.it

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PAGINANERA

C’È UNA GRANDE QUERIMONIA DIETRO AI MARMI DEI TORLONIA

FABIO ISMAN La famiglia che dal 1853 bonifica il Fucino, impresa tentata più volte invano a partire da Giulio Cesare, possedeva cento ritratti in marmo: busti imperiali, donne famose, personaggi qualunque. Nella mostra a Roma, di cui Sergio Rinaldi Tufi parla nelle pagine precedenti, se ne vedono in tutto ventitre, restaurati da uno sponsor, Bulgari, perché chissà se i proprietari avrebbero mai compiuto l’intervento. La collezione comprende seicentoventi antichità; ma a villa Caffarelli, luogo dell’esposizione romana, ne sono finite appena novantadue. L’accordo stipulato dalla Fondazione Torlonia con lo Stato nel 2016 contempla un futuro museo per la raccolta, in una sede individuata «d’intesa» tra le parti; ma i colloqui per l’«intesa» non sono nemmeno iniziati: quindi, vattelapesca quando si concreterà. Insomma, finora, abbiamo potuto rivedere soltanto il quindici per cento circa del più favoloso insieme privato di marmi greci e romani che esista al mondo: è appena un primo passo, non è certo un trionfo. Non solo: da oltre mezzo secolo, la collezione è al centro di “querelles” anche in tribunale; e di parentesi ed episodi oscuri, che non sono ancora archiviati. Carlo, il primogenito tra gli eredi, sostiene di essere stato defraudato, dopo che, nel 2017, è morto il padre Alessandro: ci sono stati anche dei sequestri, poi revocati. Un tempo si diceva: «O i Torlonia prosciugano il Fucino, o il Fucino prosciugherà i Torlonia». Ora la banca di famiglia, che reca il nome del bacino bonificato e di cui Carlo è stato anche vicepresidente finché il padre l’ha voluto, non è più florida come un tempo; e forse qualche rischio di impoverimento, se non di prosciugamento almeno parziale, potrebbe esistere. Ma questa è soltanto l’ultima delle “grane” che hanno colpito la collezione. La nascita ufficiale del museo in cui era conservata data al 1876: in un ex opificio per la lana, vicino a Porta Settimiana. Erano settantasette stanze: ce n’è ancora la pianta. Non era un vero e proprio museo: piuttosto, un tempio. Non vi entrava tutto il pubblico: solo le persone gradite; in certe foto del conte Giuseppe Primoli si vedono anche dei rari visitatori: donne con il cappellino, uomini in bombetta o cilindro. Si racconta che, per ammirare quelle opere, Ranuccio Bianchi Bandinelli si sia dovuto travestire da netturbino, e chissà se è vero, considerato quel certo snobismo di cui egli è accreditato. Le guide del tempo descrivono quel luogo, con le statue poste su basi in legno, a simulare il granito rosa, e suddiviso in settori: all’inizio, erano gallerie e corsie, e compartimenti. C’erano la Sala arcaica, quelle degli “atleti” e dei “sarcofagi”, una con gli affreschi dalla Tomba François di Vulci (Viterbo). Però, all’inizio degli anni Settanta del Novecento, senza dirlo a nessuno e senza permessi, con una licenza per rifare il tetto, quelle settantasette sale diventano novantanove miniappartamenti. E la collezione è rinchiusa in locali adibiti a depositi, le statue una accanto all’altra, e per giunta ben vigilate con scarsa spesa, perché, al di là

tante Vicende poco chiare attorno a una delle più rilevanti collezioni private di arte antica. Seicentoventi opere conservate, dal 1876, in un museo ma, dagli anni Settanta del secolo scorso, Finite nei depositi. Un accordo fra Stato e famiglia torlonia prevede la nascita di un nuovo museo. Ma quel patto, a oggi solo sulla carta, è preceduto da fatti inquietanti che hanno coinvolto perfino famigerati mercanti di antichità.

Visitatori nel museo Torlonia in una foto del conte Primoli. Ritratto di fanciulla da Vulci (50-40 a.C. circa). Questa e le altre opere qui riprodotte fanno parte della collezione Torlonia e si riferiscono alla mostra I Marmi Torlonia. Collezionare Capolavori (Roma, Musei capitolini, villa Caffarelli, fino al 29 giugno), qui alle pp. 68-73.

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La sparizione del museo produce un grande clamore. Il processo per l’abuso edilizio è prescritto. Antonio Cederna, quando è senatore, chiede invano l’esproprio dell’intera raccolta del muro, c’è una caserma di carabinieri. E così è rimasta: un tesoro d’antichità sottratto a generazioni di visitatori e di studiosi. Quantunque Alessandro Poma Murialdo, nipote del principe Alessandro Torlonia, che presiede la fondazione creata dal nonno poco prima di andarsene, presentando la mostra abbia parlato di «rigorosa tutela» da parte della famiglia. Ricordo an-

Statua di divinità con peplo, detta Hestia Giustiniani, replica del 120-140 d.C. circa da originale del 470-460 a.C.

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cora gli affreschi della Tomba François, nella “coffee house” a villa Albani poi Torlonia appena restaurata, malamente avvolti da fogli del “Messaggero” del 1954, e Antonio Giuliano, famoso archeologo, che diceva a don Alessandro: «Principe, scusi, ma non si tengono così le cose». In seguito, sono stati restaurati e, pur se poche volte, anche esposti. Sta di fatto che la sparizione del museo produce un grande clamore. Il processo per l’abuso edilizio è prescritto. Antonio Cederna, quando è senatore, chiede invano l’esproprio della raccolta. Le trattative per un acquisto non vanno mai in porto: solo a parole, se n’era interessato anche Berlusconi; pare che Emmanuele Francesco Maria Emanuele, per la Fondazione Roma, avesse proposto centotrenta milioni di euro, e il Vaticano quasi una decina per gli affreschi etruschi più belli al mondo, con le Storie di Mastarna, il futuro Servio Tullio, e Vel Saties (i corredi del sepolcro sono tuttavia al Louvre). I Torlonia vendono soltanto, per un miliardo allora di lire, quanto è stato ripescato dal Fucino: elmi di varie stagioni, armi, suppellettili, anche il più

Qui sotto e nella pagina a fianco, due vedute dell’esposizione romana con alcuni dei ventitre ritratti restaurati per l’occasione da uno sponsor, Bulgari.

grande rilievo imperiale romano di una città, del II secolo, ora al castello Piccolomini di Celano (L’Aquila), divenuto un museo. Ma la parentesi forse più oscura (e dolorosa) della collezione è databile a poco prima dell’accordo con lo Stato italiano. La Phoenix Ancient Art dei fratelli libanesi Hicham e Ali Aboutaam, mercanti d’antichità a New York, Ginevra e Bruxelles, ben noti alle inchieste del compianto magistrato Paolo Giorgio Ferri sulla “grande razzia” di beni provenienti dal sottosuolo della penisola, il 12 gennaio 2017 presenta a una Corte giudiziaria americana un atto, in cui pretende settantasette milioni di dollari, pari a sessantatre milioni di euro: la provvigione per la mancata vendita al Getty Museum di Los Angeles dei marmi Torlonia, valutati «da trecento a cinquecento milioni di dollari», quattrocento milioni e rotti di euro. I fratelli Aboutaam raccontano di una visita ai Torlonia, a Roma, del direttore del museo americano; dicono di avere catalogato, in mesi di lavoro, la raccolta, dopo il famoso volumone di Carlo Ludovico Visconti nel 1876: il primo al mondo di una collezione privata con tutte le immagini, in fototipia.

L’idea era che il Getty Museum acquisisse la raccolta, per collocarla in un palazzo di Roma: quello Mancini a via del Corso, che è in vendita; e con una serie di mostre, da lì ne esportasse poi, temporaneamente, i capolavori in tutto il mondo. I fratelli libanesi affermano che dopo, e violando i segreti, sono stati estromessi dall’operazione di disvelamento di un insieme tanto a lungo precluso. Manca una sentenza che dia loro ragione; ma la cronistoria è minuziosa, puntuale, e quanto mai dettagliata. È soltanto l’ultimo «pasticciaccio brutto» che coinvolge una collezione, per qualcuno addirittura «pari a un buon terzo del patrimonio antico posseduto dalla città di Roma», e che, già per Visconti, «di gran lunga eccedendo i limiti d’ogni privata raccolta, più non trova paragone, se non solo nelle sovrane e pubbliche collezioni, che insigni sono nel Vaticano e nel Campidoglio», le quali potrebbero invidiarne «non pochi degli oggetti», e «non senza giusta ragione». Ma di tutto ciò, e lo si può ben capire, il pur lussuoso catalogo dell’esposizione accuratamente non fa parola. H

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_ GRANDI MOSTRE 5 GLI OLMECHI A PARIGI

Antonio Aimi

TRA NATURALISMO IDEALIZZATO ED ESPRESSIONISMO ASTRATTO LA PRIMA ESPOSIZIONE EUROPEA DEDICATA ALLA CULTURA OLMECA: UNA DELLE CIVILTÀ MESOAMERICANE PIÙ IMPORTANTI E POCO CONOSCIUTE, DEFINITA IN MODO PUNTUALE SOLO A PARTIRE DAGLI ANNI QUARANTA DEL SECOLO SCORSO.

Lottatore di Uxpanapa (1500 - 400 a.C.), Città del Messico, Museo Nacional de Antropología.

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Finalmente gli olmechi sbarcano in Europa. Il merito del loro arrivo è del Musée du Quai Branly - Jacques Chirac di Parigi, che fino al 25 luglio ospita una mostra su una delle culture più importanti e sconosciute della Mesoamerica: quella, appunto, degli olmechi. E a rimarcare l’importanza dell’evento si può ricordare che finora nel mondo sono state fatte solo tre grandi mostre sulla cultura olmeca. Non a caso tutte si sono tenute negli Stati Uniti, le prime due risalgono al 1995-1996 e l’ultima al 2010-2011. Le ragioni della scarsa presenza degli olmechi nell’immaginario occidentale e, quindi, nelle iniziative espositive sulle culture extraeuropee, sono dovute soprattutto a due motivi. In primo luogo si deve ricordare che essi non entrarono in contatto coi “conquistadores”, dato che la loro cultura era scomparsa oltre mille anni prima dell’arrivo degli spagnoli e per questa ragione rimasero estranei all’epica della Conquista. In secondo luogo pesa il fatto che sul piano archeologico la cultura olmeca è stata definita con precisione solo nella Segunda Reunión de Mesa Redonda sobre problemas antropológicos de México y Centro América di Tuxtla Gutiérrez (Chiapas, Messico, 1942). Ovviamente, anche prima di allora diversi reperti olmechi erano presenti nei musei ed erano stati individuati i tratti stilistici che li univano. Inoltre, le prime ricerche archeologiche nei siti olmechi più importanti erano cominciate negli anni Venti del Novecento. Nonostante tutto questo, però, il ruolo della cultura olmeca non era ancora chiaro.

Uno dei tratti distintivi della cultura olmeca si caratterizza per la tipologia dei baby-faces

Signore di Las Limas (900 - 400 a.C.), Xalapa, Veracruz (Messico), Museo de Antropología de Xalapa.

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Bambino paffuto (1200 - 800 a.C.), Città del Messico, Museo Nacional de Antropología.

Ciò che, invece, è diventato sempre più chiaro è che la cultura olmeca sviluppò per prima e portò a piena maturità quei tratti culturali che caratterizzarono tutte le successive culture della Mesoamerica. Essa fu il risultato del processo che a partire dal 2000 a.C. portò a una certa stratificazione sociale e alla nascita di città e di un potere (è difficile capire se si trattò di “chiefdoms” o di Stati) che aveva l’autorità e il prestigio per organizzare la costruzione di centri cerimoniali, che richiedevano il lavoro coordinato di migliaia di persone. L’area nucleare di questo processo fu una regione abbastanza ristretta (circa ventimila chilometri quadrati) situata lungo la Costa del Golfo. Tre città, in particolare, ebbero una posizione di assoluto rilievo: prima San Lorenzo (il momento dell’apogeo si può collocare tra 1200900 a.C.), poi La Venta (600-400 a.C.) e infine Tres Zapotes (600 a.C. - 100 d.C.). Tuttavia, come queste città esercitassero la loro egemonia non è chiaro. È certo, però, che la loro influenza andò ben oltre la Costa del Golfo e, in particolare, arrivò a caratterizzare fortemente alcuni centri molto lontani senza mostrare un gradiente centro-periferia, ma, anzi, “saltando” intere regioni che nei monumenti e nell’arte non rivelano evidenti ed esplicite influenze olmeche. Inevitabilmente sorge l’ipotesi che l’egemonia delle capitali della Costa del Golfo, un po’ come successivamente fece Teotihuacan, non passasse attraverso una continuità territoriale, ma si limitasse a “controllare” alcuni avamposti in un oceano di tradizioni locali.

Una veduta della mostra. In primo piano una scultura del gruppo degli Azuzules (1200 - 900 a.C.), Xalapa, Veracruz (Messico), Museo de Antropología de Xalapa. In alto, Donna scarificata (200 d.C. circa), Ciudad Valles, San Luis Potosí (Messico), Zona Arqueológica de Tamtoc.

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Opere che spiccano anche per il loro valore archeologicoantropologico Dato che alcuni tratti della cultura olmeca (i calendari, i sistemi di scrittura ideografico-fonetici, certi stilemi artistico-architettonici, alcune divinità e il gioco della palla che, ovviamente, aveva connotazioni religiose più che sportive) finirono per imporsi al resto della Mesoamerica, la cultura olmeca è un po’ considerata la “madre delle culture mesoamericane”. Verso il 300 a.C., per quanto Tres Zapotes fosse ancora nel pieno del suo splendore, i tratti distintivi di questa cultura cominciarono a sfumare, per poi scomparire del tutto. Più che ad avvenimenti traumatici (guerre ecc.), che, peraltro, non si possono escludere, è probabile che quella che a noi sembra un’inspiegabile scomparsa non sia altro che una semplice e lunga trasformazione. Lungo la Costa del Golfo si svilupparono le culture epiolmeche, a cui si devono due invenzioni destinate ad avere molto peso soprattutto tra i maya del periodo classico: il Conto lungo (un calendario che nella sua versione più comune presentava un ciclo di 5125,3661 anni) e le stele che raccontavano le “res gestae” e le genealogie dei sovrani. Nella mostra, curata da Cora Falero Ruiz del Museo Nacional de Antropología di Città del Messico e da Steve Bourget del Musée du Quai Branly - Jacques Chirac, sono esposte

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Offerta 4 di La Venta, scena con sedici figurine e sei stele in miniatura (900 a.C. - 400 a.C.), Città del Messico, Museo Nacional de Antropología.

circa trecento opere, che non documentano solo la cultura degli olmechi, ma anche quella delle altre popolazioni della Costa del Golfo che vennero dopo di loro. Da questo punto di vista, però, è doveroso osservare che le scelte dei curatori sono alquanto discutibili, sia perché la scansione cronologica non è presentata in modo chiaro, sia, soprattutto, perché alcune di queste culture sono rappresentate in modo assolutamente insoddisfacente. Uno dei casi più clamorosi è quello della cultura Veracruz del periodo classico (300-900), che, pur avendo prodotto migliaia di opere di straordinario livello, è decisamente sottorappresentata. Il percorso espositivo si sviluppa in cinque aree tematiche: “Gli olmechi”, “Lingue e scritture”, “Donne e uomini del Golfo”,“Offerte”,“Scambi”. Tra le opere più significative dell’arte olmeca, un posto di primo piano sicuramente spetta alla Testa colossale 4 di San Lorenzo, una delle diciassette sculture analoghe (arrivano a quasi due metri), che sono una tipologia tipica ed esclusiva degli olmechi. Esse rappresentavano, probabilmente, teste di re raffigurati col naso camuso e le labbra carnose con le commessure tirate verso il basso, un elemento, quest’ultimo, tipico dell’arte olmeca. Accanto alla Testa colossale 4 è doveroso segnalare che la mostra del Musée du Quai Branly - Jacques Chirac presenta altre opere che da sole meriterebbero il viaggio per le loro

Monumento 1 di Tuxpan raffigurante una donna seduta sui talloni (1200-1521), Città del Messico, Museo Nacional de Antropología.

qualità artistiche o per la loro importanza archeologico-antropologica. Tra queste si deve segnalare il Signore di Las Limas, una scultura, scoperta solo nel 1965, che fu dapprima usata come utensile e poi come “matrona” in una chiesa. Raffigura un personaggio che tiene in braccio un bambino pardiantropo inanimato ed è la più bella rappresentazione del tema dell’offerta del bambino (come è noto, in alcune culture della Mesoamerica i bambini venivano sacrificati agli dei della pioggia). Accanto a questa opera si possono collocare gli Azuzules, gruppo di quattro sculture che in origine, probabilmente, rappresentavano i protagonisti di un mito cosmogonico: due felini in parte antropomorfizzati e due personaggi che stanno per sollevare il bastone che consente di separare il cielo dalla terra. Un altro gruppo di reperti unico al mondo è costituito dall’Offerta 4 di La Venta: una scena con sedici figurine e sei stele in miniatura, il cui posizionamento, cosa straordinaria nell’ambito delle mostre sulle culture preispaniche, non è dovuto all’immaginazione di qualche esperto di allestimenti museali, ma agli stessi sacerdoti di La Venta. Tra i pezzi che eccellono per via delle loro qualità artistiche emergono in particolare due dei capolavori dell’arte olmeca: il bambino paffuto scoperto a Tlapacoya e il cosiddetto Lottatore di Uxpanapa, che, nonostante il nome, potrebbe rappresentare uno sciamano in una postura che

Monumento 52 di San Lorenzo, raffigurante un uomo seduto (1200-1521), Città del Messico, Museo Nacional de Antropología.

evoca i movimenti atti a portare alla trance. Purtroppo, però, queste opere non sono valorizzate in modo adeguato, perché la mostra ignora rigorosamente la tematica delle attribuzioni. Da questo punto di vista, prendendo in esame i reperti in mostra a Parigi con le categorie interpretative della storia dell’arte, si può concludere che nell’arte olmeca coesistono, tra le altre, due macrocorrenti artistiche molto diverse: quella del naturalismo idealizzato e quella dell’espressionismo astratto. E dato che recentemente il famoso archeologo nippo-statunitense Takeshi Inomata, commentando le scoperte fatte ad Aguada Fénix, un sito collocato tra l’area olmeca e quella maya, ha scritto sulla prestigiosa rivista “Nature” che «l’immagine naturalistica di un animale contrasta con l’arte olmeca» non rimane che ribadire che la conoscenza degli strumenti analitici della storia dell’arte è indispensabile anche per gli archeologi. H

Les Olmèques et les cultures du golfe du Mexique a cura di Cora Falero Ruiz e Steve Bourget Parigi, Musée du Quai Branly - Jacques Chirac fino al 25 luglio orario 10.30-19, giovedì 10.30-22, chiuso lunedì catalogo Musée du Quai Branly - Jacques Chirac / Skira www.quaibranly.fr

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UN

Testa di filosofo di Porticello (V secolo a.C. circa), Reggio Calabria, Museo archeologico nazionale.

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_ STUDI E RISCOPERTE 2 LA TESTA DI FILOSOFO DI PORTICELLO

Damiano Fantuz

SAGGIO DALLO SGUARDO INTENSO Quando viene (ri)trovata un’opera d’arte, nel caso particolare una scultura antica, il personaggio che rappresenta può essere subito riconosciuto, per un’iconografia magari già nota o perché citata in qualche testo storico. Questo può essere il caso di sculture iconiche come il Discobolo di Mirone o come il busto di uno qualsiasi dei più celebri imperatori di Roma. Tuttavia, alcune opere presentano storie molto più controverse e dubbie, per la loro integrità, per la provenienza incerta o per molti altri motivi. È questo il caso della testa bronzea del cosiddetto “filosofo” di Porticello, una testa che raffigura un uomo anziano con una lunga barba e uno sguardo intenso. La storia del relitto di Porticello(1) e, soprattutto, della Testa di filosofo(2) è infatti complicata fin dal principio. Siamo nell’ottobre del 1969 nei fondali marini presso Porticello, una piccola località sul lato calabro dello stretto di Messina. In circostanze fortuite alcuni subacquei scoprono il relitto, i cui reperti cominciano subito a essere saccheggiati per essere destinati al mercato nero. Uno dei subacquei però, Giuseppe Mavilla, agisce contro i clandestini recuperando parte degli og-

getti (tra i quali la Testa di filosofo) per consegnarli alle autorità, in un secondo momento, denunciando i trafugatori. I reperti illecitamente sottratti vengono così recuperati e l’anno successivo cominciano le attività di scavo. Dal relitto, una nave mercantile, emergono ritrovamenti di diverso tipo: anfore, oggetti di uso quotidiano e frammenti scultorei in bronzo, pertinenti a due, tre o anche più sculture. Il naufragio, per le analisi effettuate sui resti lignei della nave e per la composizione del carico (soprattutto le forme delle anfore sono un ottimo elemento per la datazione) sembra essere avvenuto tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C. In quel momento, le città della Magna Grecia combattevano le guerre greco-puniche contro i cartaginesi, in Grecia si stava uscendo dall’esasperante guerra del Peloponneso e Roma stava ancora imponendo il suo dominio nella penisola italica. In sostanza, gran parte degli elementi e degli oggetti provenienti dal relitto portano a questa determinata fase storica. Ma la più notevole, appariscente e affascinante scoperta, ovvero quella testa di un vecchio barbato dall’occhio intenso, sembra dirci qualcos’altro. 85

LA TESTA DI FILOSOFO RINVENUTA A PORTICELLO, IN PROVINCIA DI REGGIO CALABRIA, È UNO DEI RARI ESEMPI A NOI NOTI DI SCULTURA GRECA IN BRONZO. LA SUA IMPORTANZA È PERÒ DIRETTAMENTE PROPORZIONALE AL SUO ENIGMA, CHE SEMBRA METTERE IN DISCUSSIONE SECOLI DI STUDI DI SCULTURA ANTICA. MA LA DOMANDA PIÙ GRANDE RIMANE SEMPRE UNA: CHI SARÀ MAI QUESTO MISTERIOSO PERSONAGGIO?

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Ancora due immagini della Testa di filosofo di Porticello (V secolo a.C. circa), Reggio Calabria, Museo archeologico nazionale. Particolare degli occhi e la scultura vista da un’altra angolazione.

UN VOLTO VIVIDO, RESO TALE DAL REALISMO DEI TRATTI E DALLA CURA DEI DETTAGLI, COME SI PUÒ VEDERE ANCHE DALLA REALIZZAZIONE DEGLI OCCHI

Rinvenuta da Mavilla in persona tra i resti del relitto, la Testa è quella di un anziano dall’espressione stanca, profonda, resa anche più corrucciata dal naso uncinato, con una lunga barba che gli infonde rispettabilità e con il capo stempiato cinto da una corona andata perduta. Un volto vivido, reso tale dal realismo dei tratti e dalla cura dei dettagli, come si può vedere anche dalla realizzazione degli occhi, fusi separatamente rispetto alla testa. Nonostante quello sinistro sia assente, il destro mostra una precisione meticolosa nelle sue componenti, anche nell’alloggiamento della pupilla mancante. È quindi proprio per l’aspetto vetusto, per l’aria intellettuale e per questo naturalismo dei tratti che la testa è stata detta di un filosofo, perché possiede le caratteristiche dei ritratti dei filosofi ellenistici, come quelli di Diogene o Antistene. Anche un altro dei frammenti scultorei provenienti dal relitto, una mano anziana stretta attorno a uno scettro o bastone, sarebbe in linea con tale interpretazione. Il problema è che questo tipo di ritrattistica si diffonde soltanto cento anni dopo il naufragio della nave di Porticello, da cui proviene la Testa di filosofo. Ed è da qui che si genera il mistero attorno alla testa. E se non fosse il ritratto di un filosofo? Se invece provenisse da un’epoca antecedente, magari dal V

Nella pagina a fianco, anfora “nicostenica” a figure rosse con al centro Achille e Chirone (520 a.C. circa), Parigi, Musée du Louvre.

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secolo, così da rendere coerente la sua presenza tra i resti del relitto? Alcuni infatti hanno notato che nonostante l’apparenza naturalistica, la struttura cubica e massiccia della testa, assieme ad altri tratti come le scavate rughe della fronte, assomiglia molto alle sculture di quel periodo. Essendo però la ritrattistica poco diffusa nel V secolo, una suggestione è che la testa possa raffigurare un personaggio non reale come una creatura mitologica, in particolare un centauro, come si può anche osservare dalla somiglianza con quelli raffigurati sulle metope del Partenone. Vi è però una differenza fondamentale: i centauri sono creature ibride ma dall’istinto violento e bestiale, e lo sguardo del nostro filosofo non può essere certo definito tale. Quindi se fosse un centauro non potrebbe essere un centauro qualsiasi, ma il più nobile della loro specie, colui che costituisce un’eccezione, ovvero il saggio Chirone, mentore di Achille. Altri paralleli coinvolgono esseri semibestiali come Proteo e Tritone, entrambi figli di Poseidone. Ci sono comunque anche alcune ipotesi che sostengono l’idea che possa trattarsi di un filosofo, ma del V secolo: anche per il capo coronato, alcuni pensano al sofista Gorgia, che dalle fonti sappiamo essere stato il primo uomo a dedicare una statua di se stesso, offrendola come voto ad Apollo in occasione della novantesima olimpiade (svoltasi tra il 416 e il 412 a.C.). Potrebbe invece anche trattarsi di un ritratto “ideale”, una forma diffusa anche nel V secolo, il volto cioè di un personaggio morto da secoli o mischiato con la mitologia, come i poeti

POTREBBE ANCHE TRATTARSI DI UN RITRATTO “IDEALE”, UNA FORMA DIFFUSA ANCHE NEL V SECOLO, VOLTI CIOÈ DI PERSONAGGI MORTI DA SECOLI O MISCHIATI CON LA MITOLOGIA

Busto di Omero, di tipo Epimenide, copia romana di un originale greco del V secolo a.C., Città del Vaticano, Musei vaticani, Museo Pio clementino.

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Busto di Diogene (la parte inferiore della statua non è pertinente), copia romana di un originale greco del IV-III secolo a.C. circa, Roma, villa Albani Torlonia.

Lotta tra centauro e lapita (447-438 a.C.), metopa XXXI, lato sud del Partenone, Londra, British Museum.

Omero ed Esiodo o l’antico legislatore di Catania Caronda, per un confronto con una sua possibile rappresentazione sulle monete, in un contesto peraltro assai vicino allo stretto di Messina. È impossibile accostare alla statua il nome di qualche artista, e fare i nomi dei maggiori bronzisti dell’epoca non può essere nulla più che una suggestione. La provenienza stessa della nave è incerta ma, dato lo stato frammentario delle sculture, poteva provenire dal saccheggio di qualche città magnogreca o siceliota depredata durante la guerra greco-punica.La realtà è che, semplicemente, non abbiamo abbastanza dati per elaborare una vera risposta. La statua è rimaneggiata e, inoltre, conoscendo la scultura classica soprattutto attraverso le copie romane in marmo, non abbiamo una reale e tangibile dimestichezza con le opere in bronzo (si pensi anche alle simili problematiche di altri capolavori dell’antichità come i Bronzi di Riace). Forse possiamo sbilanciarci e affermare che la Testa di filosofo doveva appartenere a un personaggio autorevole, a un saggio di un’epoca lontana, perché le sfumature del suo volto sono troppo acute per essere diversamente. Ma per il resto possiamo solo sognare, immaginare chi si nasconda dietro questo enigma, un po’ come se quello sguardo sottile e cieco da un occhio ci stesse mettendo alla prova. H

(1) Il testo di riferimento per tutto ciò che riguarda il relitto, il contesto e le sculture è C. J. Eiseman, B. S. Ridgway, The Porticello Shipwreck. A Mediterranean merchant vessel of 415 - 385 B.C., College Station 1987. (2) Per la Testa di filosofo riferimenti bibliografici recenti sono F. F. Di Bella, Il relitto di Porticello e l’iconografia del vate. Ritratto di ruolo e contesto nell’antichità classica, in “Quaderni di archeologia”, a cura dell’Università degli studi di Messina, VI, Pisa-Roma 2016, pp. 61-88; L. Buccino, Tre teste barbate di bronzo restituite dalle acque: tre casi di studio, in Capolavori dell’archeologia: Recuperi, ritrovamenti, confronti, Roma 2013, pp. 203209; B. S. Ridgway, The Porticello Bronzes Once Again, in “American Journal of Archaeology”, 114, 2010, pp. 331-342.

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ASTE E MERCATO

Marzo 2021

0,6 milioni di euro, seppure un decennio fa (Sotheby’s, Londra, 4 febbraio 2010).

Phillips Arte del XX secolo e contemporanea 11 marzo

Bonhams The Mind’s Eye/ Surrealist Sale 2 marzo Londra Deve la sua fama più alla sua biografia (i matrimoni, fra cui il primo con Max Ernst di ventisette anni più anziano di lei, la temporanea pazzia, la vita nell’effervescente Messico del dopoguerra) che per la sua vena di scrittrice e di artista. Eppure i pezzi di Leonora Carrington (19172011) si vendono abbastanza bene, anche di recente, come dimostrano i 700mila euro pagati da Auction Art Rémy Le Fur di Parigi lo scorso 15 dicembre per The Meal of Lord Candlestick (1938). Sulle ali dell’entusiasmo, Bonhams stima ora Operation Wednesday (in foto) 330-560mila euro, nonostante sia del 1969 e opere della Carrington di quegli anni siano state scambiate al massimo per 460mila euro (Sueño de Sirenas, 1963, Christie’s, New York, 17-18 luglio 2007).

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Londra La recente ascesa nelle quotazioni di Eddie Martinez (nato nel 1977) su tutte le piazze del mondo, non può lasciare indifferenti i collezionisti del settore. Le sue opere ricche di colori, sostanzialmente astratte ma con qualche forma definita, legate a una serie di stili del Novecento (come il graffittismo, che inizialmente l’autore americano aveva adottato, e l’espressionismo astratto), risultano innovative ma familiari. Così si spiega, per esempio, il successo di High Flying Bird – in cui il ritmo delle figure ricorda Guernica di Picasso–, venduto per 1,8 milioni di euro (Christie’s, Hong Kong, 23 novembre 2019). Phillips propone ora Mandala #7 (Frankenthaler Wash), opera dalle solite grandi dimensioni (305 x 244 cm, in foto) e la stima 224-336mila euro. La forma circolare non è di quelle tipiche dell’artista, ma il prezzo finale dovrebbe comunque superare le aspettative della casa d’asta.

daniele liberanome

Christie’s (Parigi) Disegni antichi e del XIX secolo 24 marzo

Tajan Collezione Jean e Huguette Ramié 17 marzo Parigi Quel giorno del 1948 in cui Picasso decise di trasferirsi nel borgo di Vallauris in Provenza, fu fortunato per i coniugi Ramié, ceramisti del posto, che poterono così lavorare con quel grande artista e creare con lui un rapporto di amicizia. Picasso regalò loro diversi suoi pezzi fra cui Tête d’homme ou Tête de mousquetaire del 1967 (in foto, in alto), un piccolo olio su tela (45,8 x 38,2 cm), ora messo in vendita dai figli dei ceramisti. Non si pensi che il soggetto sia uno degli eroi dei romanzi di Dumas: il pacifista Picasso chiamava così uomini che altro facevano ma agghindandoli alla moda settecentesca. L’opera è stimata ben 0,8-1,2 milioni di euro. È vero che un dipinto di moschettieri è stato venduto anche per 22 milioni di euro (Sotheby’s, New York, 6 novembre 2013), ma uno più simile a quello in vendita da Tajan, dal titolo Tête de mousquetaire e del 1967 non è stato aggiudicato per molto più di

Londra Fra i tanti grandi artisti che abitavano in Olanda fra fine Cinquecento e Seicento e che avevano fatto proprio lo stile detto manierismo nordico, Hendrick Goltzius (1558-1617) occupa un ruolo di rilievo tanto che le sue opere affollano soprattutto i musei di Amsterdam e Haarlem. Il suo Licaone trasformato in lupo (in foto, particolare), un disegno in cui perfino le tende e le nuvole paiono muoversi convulsamente secondo i dettami dello stile, è stimato ora 200-300mila euro. Non è mai stato assegnato un disegno di Goltzius a questi livelli di prezzo, ma siamo di fronte a un’opera di sicuro richiamo, e quindi l’aggiudicazione potrà avvenire nei dintorni della forchetta stabilita da Christie’s, anche se nella parte bassa.

TOPLOT

CALENDARIO IN BREVE 2 marzo

17 marzo

Bonhams, Londra

Artcurial, Parigi

The Mind’s Eye/Surrealist Sale

Interni del XX secolo

Cambi, Genova

Finarte, Milano

Una raccolta di disegni antichi dal XVI al XIX secolo provenienti da collezioni private

Fotografia

Christie’s, Londra Arte moderna britannica Sotheby’s, Londra Arte contemporanea Sotheby’s, Londra Arte impressionista, moderna e surrealista Tajan, Parigi

Opere su carta: disegni, dipinti e stampe dal secolo XV al XIX Pandolfini, Firenze Libri, manoscritti, autografi Tajan, Parigi Collezione Jean e Huguette Ramié Sotheby’s, Londra Stampe e mutlipli

Stampe moderne e contemporanee

17-24 marzo

3 marzo

Sotheby’s, Londra

Bonhams, Londra - Knightsbridge Arte europea e britannica

Arte moderna e contemporanea africana

Phillips, New York

23 marzo

New Now

Christie’s, Londra

8 marzo

Arte surrealista

Christie’s, Parigi Man Ray e i surrealisti. Collezione Lucien e Edmonde Treillard

9 marzo Artcurial, Parigi Libri e manoscritti

9-16 marzo Sotheby’s, Londra

Sarà stata pur una polemica a sfondo pedofilo a innestare questa favola di mercato, ma la sua rivalutazione fa impressione. Richard Prince (nato nel 1949) negli anni Ottanta sconvolse gli americani e non solo con una serie di fotografie dedicate a giovani modelle, e in particolare una dal beffardo titolo Spiritual America, dedicata a Brooke Shields bambina, nuda e in una posizione innaturale per quell’età. Si tratta della foto di una foto scattata nel 1975, quindi una sorta di copia, ma quando venne esposta nel 1983 in una galleria di New York, in una cornice dorata, fece scalpore. Non era certo una novità per Richard Prince, fotografo fra i più trasgressivi ma anche di maggior successo al mondo, ma qui pareva fosse andato oltre, proprio mentre la madre di Brooke Shields, stava combattendo in tribunale perché la foto venisse ritirata. Invece Spiritual America girò per una galleria di grido come quella di Barbara Gladstone, stazionò in Germania, per qualche anno, e passò poi di mano da Christie’s di Londra il 16 novembre 1999 per meno di 150mila euro. Ma lo scandalo innestato fruttò il colpo di scena. Quando, l’11 maggio 2014, dopo essere stata esposta per qualche anno prima in un salotto americano, Spiritual America venne riproposta da Christie’s di New York, il nuovo acquirente dovette sborsare 2,9 milioni di euro. La rivalutazione ha dell’incredibile.H

Pandolfini, Firenze

Arte impressionista e moderna Sotheby’s, Londra Made in Britain

Finarte, Roma Opere dalla collezione di Bruno Mantura

24 marzo Artcurial, Parigi Arte antica e del XIX secolo Christie’s, Parigi Disegni antichi e del XIX secolo Lempertz, Bruxelles Arte africana e oceanica Piasa, Parigi Design italiano Bonhams, Los Angeles

9-18 marzo

Stampe e mutlipli

Sotheby’s, Londra

25 marzo

Banksy

Sotheby’s, Parigi

10 marzo

Arte impressionista e moderna

Bonhams, Londra - New Bond Street

Cambi, Milano

Arte surrealista Phillips, Londra Arte contemporanea e del XX secolo Piasa, Parigi Mobilio e arti decorative

Una raccolta di Manifesti d’Epoca provenienti da affidamenti privati

31 marzo Tajan, Parigi Arte decorativa e design

11 marzo

Artcurial www.artcurial.com

Phillips, Londra

Bonhams www.bonhams.com

Arte del XX secolo

Cambi www.cambiaste.com

e contemporanea

Christie’s www.christies.com

16 marzo

Finarte www.finarte.it

Farsetti www.farsettiarte.it

Bonhams, New York

Lempertz www.lempertz.com

Oggettistica giapponese

Pandolfini www.pandolfini.it

Tajan, Parigi

Phillips www.phillips.com

Libri e manoscritti antichi

Piasa www.piasa.fr

Pandolfini, Firenze

Sotheby’s www.sothebys.com

Arcade - dipinti dal XVI al XX secolo

Tajan www.tajan.com

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INTENDENZA

Una stella del mercato Paul Signac, tra i principali artefici del neoimpressionismo, insieme all’amico Georges Seurat, dal quale apprese e mise a frutto le potenzialità del puntinismo, continua a collezionare un successo dopo l’altro. Le sue opere, dalle quotazioni milionarie, registrano, in alcuni casi, rialzi straordinari

Il Corno d’oro (Costantinopoli) (1907). Nella pagina a fianco, dall’alto: Porto al tramonto, Opus 236 (Saint-Tropez) (1892); Terrazza di Meudon (1899).

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Daniele Liberanome

Avrà forse sviluppato più nuove tecniche pittoriche che contenuti al passo coi tempi, i suoi quadri non saranno forse noti come i capolavori dei suoi contemporanei, ma Paul Signac (1863-1935) continua a mietere successi fra i collezionisti. Era un amante del mare, dei porti, delle barche che si ritrovano spesso nelle sue opere come nel Porto al tramonto, Opus 236 (Saint-Tropez) del 1892. L’artista francese sfruttò qui appieno le potenzialità del puntinismo appreso dall’amico Seurat, stendendo con brevissimi colpi di pennello tanti piccoli punti di colore, poi sovrapponendoli e accostandoli opportunamente in modo da ricreare all’occhio dell’osservatore la luminosità del tramonto in Costa Azzurra. Gli scienziati dell’ottica del tempo, che ispirarono la nuova tecnica pittorica, non poterono che rimanerne soddisfatti, ma lo fu anche Edgar Garbisch – giocatore di football degli anni Venti del secolo scorso, sposatosi con una Chrysler e diventato collezionista –, che si portò a casa il quadro il 12 maggio 1980 (Sotheby’s, New York). Nel rivenderlo ci guadagnò bene, anche se assai meno del magnate canadese David Graham che da lui lo acquistò per un equivalente di 1,5 milioni di euro (Sotheby’s, New York, 11 maggio 1993) e che dopo venticinque anni lo ha ceduto addirittura per 22 milioni di euro (Christie’s, Londra, 27 febbraio 2019). Una rivalutazione impressionante maturata di recente ma non isolata, perché cambiando anno di produzione delle opere e in parte stile, il risultato muta di rado: Signac è una cuccagna per chi possiede ampi portafogli. È infatti del 1907 Il Corno d’oro (Costantinopoli) che continua ad aumentare di valore nel tempo. L’aderenza di Signac ai dettami del puntinismo è qui chiaramente meno ortodossa e soprattutto salta all’occhio l’utilizzo di una tavolozza molto più ampia, con tonalità più forti, che allontanano marcatamente il quadro dal realismo di reminiscenza impressionista per riprodurre le sensazioni di stupore e di magnificenza che l’artista provò in

quello splendido angolo di terra e mare. Dopo qualche passaggio di proprietà, Il Corno d’oro (Costantinopoli) venne offerto il 6 maggio 2008 da Christie’s di New York e venduto per 4,2 milioni di euro; poi di nuovo dalla stessa casa d’asta, ma a Londra, il 7 maggio 2012, a fronte di 10,5 milioni di euro; infine il 12 novembre 2019 da Sotheby’s di New York è stato aggiudicato per 14,7 milioni di euro. In un decennio ha più che triplicato il proprio valore e chiunque l’abbia posseduto si è poi fregato le mani. Si potrebbe pensare che Signac sia una scoperta degli ultimi anni e che possa quindi aver vissuto di recente un momento particolarmente fortunato che rischia di passare in breve, ma la storia di mercato di Terrazza di Meudon pare indicare il contrario. Innanzitutto si tratta di un quadro del 1899, eseguito con uno stile puntinista più consapevole rispetto a Porto al tramonto, Opus 236 (Saint-Tropez), tanto è vero che proprio in quell’anno Signac aveva dato alle stampe uno scritto teorico sul neoimpressionismo (D’Eugène Delacroix au Néo-Impressionnisme) in cui aveva dimostrato una capacità di elaborazione sugli effetti cromatici

che andava oltre la lezione di Seurat. Terrazza di Meudon venne offerta da Christie’s di Londra il 5 febbraio 2008 e aggiudicata inaspettatamente oltre la stima massima per 4,2 milioni di euro; e quando venne riproposta da Sotheby’s di Londra il 19 giugno 2012 il suo prezzo era di nuovo lievitato a 4,5 milioni di euro. Tornando ancora a ritroso nel percorso artistico di Signac, ai primi approcci al puntinismo, ci imbattiamo in Clipper del 1887 in cui le pennellate hanno un sapore più impressionista allora in voga, seppur con un’attenzione cromatica differente. La risposta di mercato è stata comunque brillante: il quadro proposto da Sotheby’s di New York una prima volta nel 2008 (7 maggio) e acquistato per 3,6 milioni di euro, venne riproposto sette anni dopo (4 novembre 2015) e comprato per 5,8 milioni di euro dal Museum Barberini di Potsdam (Germania). In questo ultimo caso, la casa d’asta si era assunta un rischio maggiore perché le opere giovanili di Signac sono quelle che attraggono meno e registrano più di un invenduto. Ma si tratta comunque di un rischio relativo: i Signac di qualità non fanno che rivalutarsi. H

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MARZO 2021 a cura di Gloria Fossi

SCRIT TI. 1958-2012

CATALOGHI E LIBRI

Enrico Castellani Abscondita, Milano 2021 122 pp., 22 ill. b.n. € 22

Enrico Castellani (19302017) è fra gli artisti italiani più notevoli del secondo dopoguerra. La fama dell’artista ha varcato i confini del nostro paese per giungere fino negli Stati Uniti, dove ha esposto spesso, come peraltro in molte altre parti del mondo. Oggi le sue opere sono battute a cifre milionarie. Non sempre però i valori dei dipinti sul mercato corrispondono a un’effettiva qualità delle opere proposte. Non è questo il caso di Castellani, ammirato da collezionisti, studiato dai critici per le sue tele “estroflesse” e non solo: per quei materiali poveri, come i chiodi («le punte», come le chiamava), per quel dominio del colore bianco, in sintonia con le ricerche svolte con l’amico fraterno, e sodale, Piero Manzoni, di tre anni più giovane di lui. In attesa che Skira dia alle stampe il terzo tomo del catalogo ragionato dell’opera di Castellani (i primi due, dedicati agli anni 19552005, sono usciti nel 2012), Abscondita pubblica gli scritti dell’artista dal 1958 al 2012. Il curatore Federico Sardella ha qui ben riunito non solo i testi 94

I CARTONI RINASCIMENTALI DELL’ACCADEMIA ALBERTINA già noti e studiati, presenti anche nel catalogo sopra citato, ma anche diversi inediti, più intimi. Questi scritti, di solito brevissimi, in veste di appunti o di lettere mai inviate in tale forma, svelano aspetti di grande poesia e raffinatezza. E confermano, ancora una volta, la profondità del pensiero e delle amicizie del loro autore. Valga per tutte lo scritto dedicato a Piero Manzoni. Con lui, fra le altre cose, Castellani aveva fondato nel 1959 “Azimuth”: rivista epocale, ancorché uscita solo per due numeri. Piero Manzoni scomparve, com’è noto, il 6 febbraio 1963. Aveva trent’anni. Per Castellani fu uno strazio, una perdita mai risarcita. La “lettera” che gli scrive è rivolta a un Piero Manzoni che pare trovarsi ancora con gli altri al bar Giamaica di Milano. Proprio come poche ore prima, quando aveva bevuto realmente l’ultima bottiglia con l’amico. Mentre gli scrive, Piero però è morto, e quella della sera prima era stata davvero l’ultima bottiglia.

a cura di Paola Gribaudo Skira, Milano 2020 160 pp., 105 ill. b.n. e colore € 45

I cinquantanove cartoni di Gaudenzio Ferrari (Valduggia, Vercelli 1475/1480 - Milano 1546) e della sua scuola, oggetto di un riallestimento nel 2019, fanno parte dal 1832 delle raccolte dell’Accademia Albertina di Torino, donati da re Carlo Alberto di Savoia. Di fondamentale importanza per chi studia il Cinquecento lombardo e piemontese, essi sono riferibili a dipinti, anche di notevoli dimensioni, non solo di Gaudenzio, ma anche di Bernardino Lanino, Gerolamo e Giuseppe Giovenone, meno noti al grande pubblico. Stampato a seguito di una campagna fotografica in alta risoluzione, il libro curato da Paola Gribaudo presenta testi autorevoli di Andreina Griseri, Simone Baiocco, Enrico Zanellati e un catalogo delle opere redatto da Beatrice Zanelli ed Erika Cristina. Rileggiamo qui anche un testo vertiginoso di Giovanni Testori (morto nel 1993 a settant’anni), comparso nel catalogo dell’ancora insuperata mostra su Gaudenzio del 1982, curata da un altro grande studioso appena scomparso, Giovanni Romano, che ci ha lasciato la vigilia di Natale, a poco più di ottant’anni, che qui vogliamo ricordare.

DIPINTI & DISEGNI DAI LIBRI MASTRI Edward Hopper Jaca Book, Milano 2020 152 pp., 130 ill. b.n. e colore € 50

Edward Hopper (Nyack 1882 - Manhattan 1967) è fra i più amati artisti del secondo dopoguerra. Il grande pubblico ha imparato a conoscerlo perfino dalle copertine dei libri. Lo rivediamo anche, ci pare, in fermi immagini di registi come Bogdanovich (L’ultimo spettacolo, 1971), e, tra le righe, nell’algida solitudine postmoderna di autori come Don DeLillo o Paul Auster. Il nostro Aldo Nove gli ha dedicato un intenso racconto (Si parla troppo di silenzio, Skira, Milano 2012). La silente “American Way of Life” raccontata da Hopper, insomma, è ben nota. Assai meno, qui in Italia, la sua meticolosa “registrazione” dei suoi dipinti: tutti, proprio tutti, annotati nei libri mastri (i “ledger books”), che sua moglie Jo, artista ella stessa, ha conservato per tutta la vita e riordinato nei pochi mesi nei quali è sopravvissuta al marito tanto amato. Questi straordinari taccuini sono conservati al Whitney Museum di New York, che custodisce anche duemilacinquecento opere del grande maestro

newyorchese. E bene ha fatto Jaca Book a pubblicare in Italia il libro che in lingua inglese uscì nel 2012 (The Artist’s Ledger Book), con i testi di Adam D. Weinberg, Deborah Lyons e Brian O’Doherty. Tanto per capire l’importanza di questi taccuini citiamo qui un appunto riferito al famoso dipinto Cape Cod Evening (quello con il collie nell’erba alta): «Finito 30 luglio, 1932. Casa bianca, bosco verde; erba alta giallo pallido, un po’ verde sotto gli alberi. Abito donna verde bottiglia, come alberi. Cane marrone, petto, ventre, estremità coda bianchi». Nella pagina non ci sono solo gli appunti, che riportano anche i dati sulla vendita, le citazioni nell’Enciclopedia britannica e tutto ciò che riguarda la genesi del quadro ma c’è anche lo schizzo a penna del dipinto. Bellissimo libro, che in ogni doppia pagina “fotografa” da una parte il dipinto finito, così come lo conosciamo, e dall’altra il foglio del libro mastro al quale si riferisce, sempre illustrato da uno studio preparatorio, impeccabile quanto il quadro.

MOROZOV E I SUOI FRATELLI

Natalia Semënova Johan & Levi, Milano 2020 pp. 340, 50 ill. b.n. e colore € 30

È la Storia di una dinastia russa e di una collezione ritrovata, come suggerisce il sottotitolo di questo libro che si legge d’un fiato, per poi tornarvi sopra, a più riprese, volendo approfondire notizie legate a dipinti celebri di artisti come Cézanne, Van Gogh, Gauguin, Maurice Denis, Picasso, Matisse, fra i tanti. La dinastia in questione è quella del magnate moscovita Ivan Abramovič Morozov, incredibilmente ricco e precocissimo amante e collezionista non solo degli impressionisti ma anche delle avanguardie, in anticipo rispetto a molti altri imprenditori europei o statunitensi. Morozov è scomparso nel 1921 a soli cinquant’anni, in esilio, in Cecoslovacchia, vittima delle espropriazioni a seguito della rivoluzione bolscevica, che non solo lo depredò di tutti i suoi immensi beni mobili e immobili, ma soprattutto dei suoi meravigliosi dipinti, alcuni commissionati appositamente. È il caso della Sinfonia marocchina, trittico fra i più intensi del soggiorno di Matisse a Tangeri, che

l’artista francese dipinse per lui nel 1912. La collezione di Morozov vantava i più bei Gauguin, molti capolavori di Cézanne, e per lui nel 1907 Maurice Denis aveva dipinto la Stanza della musica nel fastoso palazzo moscovita. Al suo alter ego Sergej Ščukin, così diverso per carattere, era unito idealmente per le medesime passioni e gusti collezionistici. Rivali? Forse, in parte. Grazie a loro oggi ammiriamo all’Ermitage e al Puškin di Mosca capolavori assoluti di tutti i tempi, che dopo l’esproprio subirono vicende rocambolesche, magnificamente documentate in questo libro da Natalia Semënova, che già ci aveva regalato nel 2016 la biografia su Sergej Ščukin (Un collezionista visionario nella Russia degli zar, in collaborazione con André Delocque, anch’essa pubblicata in Italia da Johan & Levi). E chissà se mai aprirà e se potremo vedere la mostra dedicata a Morozov alla Fondazione Vuitton di Parigi, che segue quella su Ščukin del 2016. Per noi, la più bella in assoluto mai vista.

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IL PROSSIMODOSSIER

MARZO 2021

Dante e le arti Marco Bussagli

Occuparsi di Dante Alighieri (Firenze 1265 - Ravenna 1321) significa, potenzialmente, mettere mano all’intero corpo dei saperi medievali; spaziare fra lingua, letteratura, teologia, storia e scienza; confrontarsi – sul piano artistico, che è il tema del prossimo dossier – con opere e artisti che vanno dal Trecento alla contemporaneità. Una mole enorme di materiali che in vario modo popoleranno mostre, eventi, pubblicazioni in questo 2021 che vede celebrare a livello mondiale il settimo centenario di un poeta che è stato un vero crocevia culturale. In particolare, la sua Divina commedia è debitrice nei confronti di apporti visivi precedenti la sua realizzazione (non solo di arte occidentale), e a sua volta ha influenzato o ispirato artisti di ogni epoca. Ci troviamo così di fronte a un percorso che va dai mosaicisti del battistero fiorentino a Giotto, da miniatori come Oderisi da Gubbio a Pietro Cavallini e poi su fino a Botticelli, Michelangelo, Blake, Dalí e oltre. © 1986-2021 Giunti Editore S.p.A., Firenze - Milano ISSN 0394-0179 Pubblicazione periodica Reg. Cancell. Trib. Firenze n. 3384 del 21.11.85 Iva assolta dall’editore a norma dell’art. 74/DPR 633 del 26.10.72 Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB-C1- FI. Direttore responsabile: Claudio Pescio Direzione, redazione, amministrazione e pubblicità: Giunti Editore Via Bolognese 165, 50139 Firenze tel. 055-50621, fax 055-5062298 Prezzi per l’Italia: fascicolo e dossier € 5,90 Abbonamento annuo (sconto del 20%): € 48,00 Abbonamento biennale: € 84,00 Iban IT61D0760102800000012940508 c.c.p. 12940508, intestato a Art e Dossier Servizio Abbonati: dal lunedì al venerdì, ore 9-18 tel. 055-5062424 - fax 055-5062397 E-mail [email protected] www.giuntiabbonamenti.it L’abbonamento può essere richiesto anche via SMS scrivendo “Art e Dossier” al n. 348-0976204 (costo del messaggio pari al costo di un SMS) Servizio Vendita diretta libri: dal lunedì al venerdì, ore 9-18 tel. 199-195525 fax 055-5062543 E-mail [email protected] acquisti on line www.giuntialpunto.it L’editore si dichiara disponibile a regolare le spettanze per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte. Per quanto riguarda le didascalie: quando non altrimenti indicato, l’opera fa parte di collezione privata.

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HALS

Claudio Pescio

SOMMARIO Un modello per gli impressionisti

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Haarlem

9

Gli inizi e la pittura di genere

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I ritratti

31

Quadro cronologico

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Bibliografia

50

Nella pagina a fianco: Ritratto di coppia (1622), particolare; Amsterdam, Rijksmuseum.

In copertina: Il cavaliere sorridente (1624), particolare; Londra, Wallace Collection.

Qui sopra: Corteggio degli ufficiali e sottufficiali della compagnia di San Giorgio (1639), particolare con l’autoritratto dell’artista; Haarlem, Frans Hals Museum.

4

UN MODELLO PER GLI IMPRESSIONISTI I tre moschettieri di Alexandre Dumas, copertina del volume edizione BUR (2003) con un particolare da Frans Hals, Banchetto degli ufficiali della compagnia di Sant’Adriano (1627 circa).

«Ogni volta che vedo un Frans Hals sento il desiderio di dipingere, ogni volta che vedo un Rembrandt mi viene voglia di lasciar perdere». Partiamo da qui. È una dichiarazione di Max Liebermann, che per Hals nutriva una vera passione, quasi un’ossessione. Pittore a sua volta (Berlino 1847-1935), protago-

Nella pagina a fianco: un’immagine dal film I tre moschettieri di Henri Diamant-Berger (1921).

nista della Secessione berlinese del 1899 e fautore di un realismo senza compromessi, Liebermann trascorse molto del suo tempo a copiare opere di Hals. Era, la sua, un’attrazione invincibile, ma consapevole della gerarchia di valore unanimemente accettata riguardo al Seicento olandese: Rembrandt, Vermeer, e poi Hals, dei tre il più accessibile, tutto meno che sovrumano, enigmatico o complesso. È il più anziano dei tre, il primo a dare avvio a quello che sarà il Secolo d’oro per l’arte dei Paesi Bassi. Ma anche, forse, è dei tre il meno provvisto di un’identità forte, nitida, ben definita. Rembrandt è il drammatico protagonista di un incessante scavo nell’animo umano, Vermeer è “la Sfinge di Delft”, il misterioso creatore di atmosfere sospese e rarefatte. La pittura di Hals evoca invece la bonomia borghese dei mercanti delle Province Unite, tutti in posa per tramandare ai posteri (ma anche ai propri contemporanei) un’immagine positiva del loro status, un po’ in autocompiaciuta citazione del ritratto rinascimentale italiano e un po’ anche prototipo per quello che nell’immaginario moderno sono i Tre moschettieri – come nota Walter Liedtke (2011); una recita, insomma, per una platea di amici e parenti. Eppure, come vedremo, in Frans Hals c’è di più. E i primi ad accorgersene furono proprio alcuni artisti del secolo XIX, fra i quali molti impressionisti, che nella sua maniera di dipingere riconobbero – etichettandola subito come “moderna” – un modello da seguire. Il pittore settecentesco inglese Joshua Reynolds ne ammirava l’abilità ma ne deplorava la «sciatteria»: peccato, diceva, che 5

La zingara (1628-1630); Parigi, Musée du Louvre.

6

non sapesse «rifinire correttamente» i suoi quadri. E invece quel segno sporco, quella pennellata un po’ rude, quella disinvoltura, l’atteggiamento stesso dei soggetti, sicuri di sé e leggibili perfettamente nei loro pensieri, emozioni, stati d’animo non potevano sfuggire all’ammirazione incondizionata di alcuni fra i più inquieti spiriti della pittura europea e statunitense del secondo Ottocento: Courbet, Manet, Sargent, Merritt Chase, il citato Liebermann, Van Gogh; tutti ado-

ravano Frans Hals e gli riconoscevano un incredibile talento. E Haarlem, la città che ne conserva tuttora i dipinti più importanti, era assediata da aspiranti artisti e ammiratori. Ci sono foto d’epoca che mostrano le sale dell’allora museo civico del capoluogo olandese (oggi le opere di Hals sono in quello che ha preso il nome di Frans Hals Museum, in altra sede) letteralmente ingombre di cavalletti, stracci, colori, tavolozze, pennelli e copisti – uomini e donne – arruffati nei

loro camicioni, pennello alla mano, intenti a studiare i loro modelli a distanza pericolosamente ravvicinata. Fu questo interesse “recente” a restituire a Hals un ruolo decisivo nella vicenda artistica del Seicento olandese. Fino alla metà dell’Ottocento era noto soprattutto come instancabile frequentatore di birrerie, scialacquatore di denaro e pessimo esempio per i suoi molti figli. E già ai suoi tempi, lo stile ruvido della sua pittura – condiviso peraltro

da altri artisti, come lo stesso Rembrandt, e così diverso da quello limpido e raffinato dei pittori alla moda – veniva alla fine identificato con uno stile di vita, specchio di un’irregolarità esistenziale. Nel 1868 un articolo su “La Gazette des Beaux-Arts” di Théophile Thoré-Bürger (lo stesso critico francese che riscoprì Vermeer) lo restituì al suo vero ruolo di innovatore dell’arte olandese, maestro di una nuova generazione di pittori e straordinario ritrattista. 

Max Liebermann, La zingara (1873 circa), copia da Frans Hals.

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HAARLEM

Jacob van Ruisdael, Veduta di Haarlem con campi di sbiancatura del lino (1670-1675); L’Aja, Mauritshuis.

Nella pagina a fianco: acquerello anonimo con Semper Augustus (prima del 1640); Pasadena (California), Norton Simon Art Museum.

Il Secolo d’oro della pittura olandese, il XVII, iniziò a Haarlem con qualche decennio di anticipo su Amsterdam. Eppure la cittadina – a una quindicina di chilometri dal centro principale della regione –, sorta nel Medioevo sulle rive della Spaarne, era uscita devastata dagli

anni Settanta del XVI secolo. Nel periodo in cui le Sette Province olandesi cercavano di rendersi indipendenti dall’impero di Filippo II fu saccheggiata dagli spagnoli guidati dal duca d’Alba nel 1573, e nel 1576 un incendio appiccato dai mercenari tedeschi al soldo degli imperiali distrusse un terzo della città. L’anno successivo le truppe di Filippo II si ritirarono e per Haarlem iniziò una rapida ripresa economica, dovuta soprattutto all’afflusso di migranti dalla Francia e dalle Fiandre, in fuga dal dominio spagnolo o dalle persecuzioni contro i protestanti. Una ricchezza imprevista, per quelle terre del Nord, dove in città come Leida o nella stessa Haarlem 9

Cornelis van Haarlem, La caduta dei titani (1588-1590); Copenaghen, Statens Museum for Kunst.

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la popolazione immigrata rappresentava ormai quasi il cinquanta per cento della cittadinanza. Il boom arrivò negli anni Novanta del Cinquecento, e interessò le produzioni tradizionali del luogo – birra (nel 1625 si contavano circa cento birrerie, in città, che producevano un quarto del fabbisogno nazionale), cantieri navali, maioliche – ma anche attività arrivate con i profughi, come la lavorazione della lana e del lino. I campi attorno alla città si rivestivano periodicamente di lunghe distese di lino posto a sbiancare nelle acque basse ed esposto alla luce del giorno (ne abbiamo un’immagine chiarissima in un dipinto di Jacob van Ruisdael, Veduta di Haarlem con campi di sbiancatura del lino, 1670-1675, L’Aja, Mauritshuis. Il benessere succeduto alla lunga e sanguinosa lotta antispagnola aveva lasciato il posto a una sorta di spensierato dopoguerra.

Dagli anni Venti del XVII secolo Haarlem diventò (e lo è tuttora) la capitale della produzione di tulipani, ritrovandosi a essere anche il centro della bolla speculativa sul prezzo dei bulbi, la Tulipomania, che arricchì pochi e ridusse sul lastrico molti olandesi. Dove il mercato è fiorente arrivano gli artisti. Fu così che Haarlem cominciò ad attrarre molti pittori fiamminghi, categoria a parte della più generale schiera dei fuorusciti diretti in Olanda. In realtà la città era da tempo un importante centro artistico. Tra i nomi più noti della scuola di Haarlem citiamo Geertgen tot Sint Jans (Leida 1460 - Haarlem 1490), Maarten van Heemskerck (Heemskark 1498 - Haarlem 1574), Karel van Mander (Meulebeke 1548 - Amsterdam 1606), Hendrick Goltzius (Muhlbracht 1558 Haarlem 1617), Cornelis van Haarlem (Haarlem 1562-1638). Fra questi, gli ultimi tre furono i principali animatori della

locale accademia, centro di diffusione di un’espressionistica, virtuosistica, eccentrica versione del manierismo europeo, la fonte principale di contatto indiretto tra gli artisti di Haarlem e la pittura italiana. Soprattutto, per gli artisti di Haarlem fu importante l’influenza del più celebre fra i pittori fiamminghi, Pieter Paul Rubens, non solo per la sua fama ormai conclamata a livello continentale, ma anche per la sua visita in città del 1612. L’artista anversano era semplicemente alla ricerca di incisori capaci per i suoi disegni, ma lasciò un’impronta fortissima su una generazione intera di pittori locali. Molto importante, nel corso del XVII secolo, sarà poi anche l’apporto di artisti dalla vicina e sempre più importante Amsterdam. La prima generazione di immigrati dalle Fiandre vide attivi a Haarlem – oltre che in altre città in rapida crescita economica, come Amsterdam e L’Aja – alcuni artisti

particolarmente impegnati nella pittura di genere, che stava prendendo il posto della pittura religiosa e di storia che aveva dominato il secolo precedente. Esaias van de Velde (Amsterdam 1587 - L’Aja 1630), giunto in Olanda profugo da Anversa ancora bambino, portò dalle Fiandre un gusto particolarmente raffinato che applicò a un genere di cui era in qualche modo l’inventore o quantomeno l’adattatore nei Paesi Bassi settentrionali: i “convivi in giardino”, scene di gruppo con tavole imbandite, fontane, aiuole fiorite, uomini e donne in vesti eleganti intenti a passare il loro tempo nella maniera più piacevole possibile. Lavorò a Haarlem tra il 1612 e il 1618 ed ebbe un’importante influenza sul fratello minore di Frans Hals, Dirck, come vedremo. Da Rotterdam veniva invece Willem Buytewech (1591/1592-1624), che impiegò il suo notevole talento naturalistico nel paesaggio e la sua verve satirica (era so-

Gerrit Adriaensz Berckheyde, Il Grote Markt a Haarlem (1696); Haarlem, Frans Hals Museum.

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Esaias van de Velde, Festa campestre (1619); Haarlem, Frans Hals Museum.

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prannominato Gheestige Willem, Willem lo Spiritoso) soprattutto nelle cosiddette “allegre compagnie”, accurati resoconti dei divertimenti della classe dominante del tempo, in particolare delle generazioni più giovani, amanti dei bei vestiti colorati, del gioco e della nuova, esotica alternativa al vino o alla birra, fumare tabacco. Lavorò a Haarlem dal 1612 (anno di iscrizione alla locale gilda di San Luca) fino a qualche tempo dopo il suo matrimonio, nel 1613, e collaborò in vario modo con Frans Hals; dipingevano insieme, si scambiavano modelli e disegni: alcuni dipinti sono stati attribuiti a entrambi. Dirck Hals (Haarlem 1591-1656) si dedicò soprattutto a dipingere convivi in giardino e allegre compagnie, raggiungendo risultati di grande effetto con strutture e messe in scena particolarmente elaborate, con sofisticate simbologie, spesso riferite alla rappresentazione dei cinque sensi. Dipinse anche scene di interni domestici e col tempo aderì alla tendenza a composizioni meno affollate e più semplificate, rispetto alle scene in giardino, e a una gamma più ristretta di colori. È tra

i primi artisti a lanciare un soggetto che in Olanda avrebbe avuto molto successo: la donna con lettera in un interno. In un’Europa perlopiù illetterata, colpisce la diffusione e capillarità del sistema postale dei Paesi Bassi nel XVII secolo, da alcuni messo in relazione con l’alta percentuale di olandesi sparsi nel mondo in quanto marinai, mercanti, colonizzatori di nuove terre. Fiammingo anche Adriaen Brouwer (Oudenaarde 1605/1606 - Anversa 1638) – attivo tra Fiandre e Olanda e allievo di Frans Hals e Adriaen van Ostade –, pittore che legò il suo nome a un genere particolare, le scene di osteria, ritratti caricaturali e bruegeliani della vita di paese, popolati di contadini rissosi, ubriachi e dalle espressioni fortemente accentuate. Tra i suoi estimatori anche Rubens, che ne possedeva alcune opere. Contadini, taverne, semplici abitazioni di paese sono protagoniste anche della pittura di Adriaen van Ostade (Haarlem 1610-1685), che ne propone un’immagine più edulcorata, meno espressiva, a volte quasi fiabesca.

Willem Buytewech, Allegra compagnia (1617-1620); Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen. Il dipinto presenta figure umoristiche, come il vecchio con collana di salsicce e il giovane a sinistra che urina in un vaso da notte. Una vena popolaresca che ritroveremo in alcune opere di Frans Hals e che diverrà un genere a sé nella pittura olandese. Dirck Hals, Donna che strappa una lettera (1631); Mainz, Mittelrheinisches Landesmuseum. 13

Jan Miense Molenaer, L’odorato, dalla serie I cinque sensi (1637); L’Aja, Mauritshuis.

A destra: Adriaen van Ostade, Il maestro di scuola (1662); Parigi, Musée du Louvre.

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Completano il panorama della ricca vita artistica nella Haarlem della prima metà del XVII secolo la coppia Jan Miense Molenaer e Judith Leyster, entrambi formatisi nella cerchia di Frans Hals. Jan (Haarlem 1610 circa - 1668) introduce un soggetto nuovo e di un certo successo nella pittura olandese: i bambini (spesso nella variante con gattino). Nella società olandese del tempo la “scoperta” dei bambini era cosa originale (rispetto al resto d’Europa) e recentissima, si ponevano molte aspettative su una buona educazione e sul gioco come esperienza fondamentale nello sviluppo della personalità. Raffigurazioni di bambini erano già apparse nella produzione dei caravaggisti di Utrecht, come Ter Brugghen, ma nella versione di Haarlem di questo genere pittorico vediamo un

atteggiamento più naturale, vivace, meno compostamente in posa. Nel 1636 Molenaer sposò la talentuosa Judith Leyster (Haarlem 1609 - Heemstede 1660), figlia di un calvinista anversano e una delle pochissime donne iscritte nella gilda dei pittori. Lavorarono insieme per il mercato artistico della loro città natale e poi soprattutto ad Amsterdam. Rispetto a Jan, Judith manifesta una gamma più

ampia di interessi: oltre a scene di taverna e soggetti infantili dipinse ritratti e nature morte, almeno fino a quando gli impegni familiari non la costrinsero ad abbandonare il mestiere per trasformarsi in aiutante del marito. Questo, sinteticamente, il contesto poliedrico, stimolante e ricco di contaminazioni in cui maturò, a Haarlem, l’esperienza di Frans Hals.

Judith Leyster, Autoritratto (1630 circa); Washington, National Gallery of Art.

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GLI INIZI E LA PITTURA DI GENERE

Frans Hals nacque tra il 1580 e il 1583 ad Anversa, città delle Fiandre Karel van Mander, La continenza di Scipione (1600); Amsterdam, Rijksmuseum.

Nella pagina a fianco: Jan Steen, Retorici alla finestra (1662-1666); Filadelfia, Philadelphia Museum of Art.

che i suoi genitori (il padre era un mercante di stoffe) lasciarono nel 1585 o poco dopo, in seguito alla sanguinosa aggressione da parte degli spagnoli. Come molti fiamminghi, gli Hals scelsero di andare in Olanda, provincia dei Paesi Bassi del Nord allora in pieno sviluppo economico. Haarlem si rivelava per molti la meta perfetta: ricca, accogliente, a poche miglia da Amsterdam. Al censimento del 1622 risulta abitata da quarantamila persone, era la terza città d’Olanda dopo la capitale e Leida. Le notizie di prima mano sulla vita di Frans Hals sono scarse. Non lasciò niente di scritto, non esiste disegno che mostri il luogo in cui viveva o lavorava, la sua casa.

Due autoritratti, supposti, sono l’unica traccia di sé che lasciò ai posteri. Alcune fonti lo danno allievo di Karel van Mander – anch’egli fiammingo (1548-1606), colto conoscitore dell’arte europea e in particolare italiana, autore di un volume di biografie di artisti del suo tempo, Het Schilder Boek (pubblicato nel 1604) – che risulta però lasciare Haarlem nel 1603, per cui dovette trattarsi di un apprendistato piuttosto breve, nel caso. La pittura dell’allievo, comunque, avrebbe conservato poco dello stile “fine”, fondato sul disegno, e dei soggetti storici praticati dal maestro. Due dei suoi fratelli si dedicarono anch’essi alla pittura. Il secondogenito della famiglia, Joost, morì relativamente giovane, nel 1626, e non si conoscono suoi lavori; Dirck (Haarlem 1591-1656) ricevette le prime lezioni di pittura dal fratello maggiore ma scelse un genere diverso dal suo, specializzandosi, come abbiamo accennato, in eleganti gruppi familiari e nelle cosiddette “allegre compagnie”, scene conviviali spesso ambientate all’aperto. 17

La carriera di Hals si svolse fra il 1616 circa e il 1666, anno della sua morte, pressoché interamente a Haarlem; città che lasciò poche volte, una delle quali per recarsi proprio ad Anversa (1616), unica occasione in cui uscì dall’Olanda. Nel 1610 era iscritto nei registri della gilda di San Luca. Più o meno in quegli anni sposò Annetje (o Anneke). Rimasto presto vedovo si sposò di nuovo, nel 1616, con Lysbeth Reyniers, la giovane bambinaia dei suoi figli, incinta di otto mesi al momento del matrimonio. Tra prime e seconde nozze ebbe nove figli (alcune fonti dicono undici), tre dei quali divennero a loro volta pittori. Nel corso della sua vita Hals ebbe alti e bassi, con momenti davvero neri negli ultimi decenni, quando un figlio e una figlia ebbero guai con la legge e furono imprigionati o comunque allontanati dalla comunità. Lo stesso Hals ebbe qualche problema con la giustizia; nel 1616, per esempio, fu citato in giudizio per non aver pagato dei colori; più tardi avrebbe avuto gli stessi problemi con un macellaio e un calzolaio. Altre voci, postume, sostennero che fosse comparso davanti ai giudici in quello stesso 1616 per aver picchiato la moglie Anneke; accusa dalla quale fu scagionato dagli storici per il semplice fatto che a quel tempo Anneke era morta da un anno. Si trattava di una vicenda capitata a un suo omonimo. Il pittore e memorialista Arnold Houbraken raccontava Hals, nel 1718, come un ubriacone, ma non esistono altre prove di questa sua inclinazione(1). Fece invece parte della guardia civica di San Giorgio ed era socio di una camera di retorica, genere di associazione teatrale e di poesia allora molto diffuso in Olanda e nelle Fiandre presso un pubblico di borghesi, artigiani, commercianti; luoghi di ritrovo per lettura e rappresentazioni di pezzi teatrali e farse satiriche, testimonianza di un diffuso desiderio di cultura e di divertimento al tempo stesso. Non riuscì mai a diventare ricco, visse sempre in abitazioni in affitto; all’attività di pittore Hals associava quella di restauratore e di mercante di quadri altrui; a volte pagava i suoi debiti con dipinti, e nei suoi ultimi anni – dal 1662, ormai fuori moda in un mondo che iniziava a guardare a modelli francesi e inglesi – dovette contare sul sostegno economico della collettività di 18

Ritratto di Jacob Zaffius (1611); Haarlem, Frans Hals Museum. Il primo ritratto conosciuto di Frans Hals – in uno stile ancora ben lontano dalla maniera veloce e sintetica che diventerà la sua cifra distintiva – raffigura un canonico cattolico della Grote Kerk di Haarlem, fiero oppositore dei calvinisti ma graziato da Guglielmo il Taciturno per i suoi meriti nei confronti della città. Il dipinto è da alcuni studiosi ritenuto una copia da un originale di Hals.

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I festaioli del martedì grasso (1615-1616 circa); New York, Metropolitan Museum of Art.

Haarlem: prima centocinquanta, poi, nel 1664, duecentocinquanta fiorini l’anno; un po’ sussidio, un po’ tributo, perché in città godette sempre di buona fama e stima. Alla sua morte, quasi ottantaquattrenne, nel 1666, fu sepolto nella zona dell’altare in San Bavone, la grande chiesa sul Grote Markt. Frans fu uno dei più attivi e ricercati ritrattisti del suo tempo. Dipinse circa centocinquanta opere (secondo i calcoli dello storico dell’arte tedesco Claus Grimm, ma è in corso un tentativo di definizione più precisa del catalogo halsiano da parte del Frans Hals Research Project); di queste, l’ottanta per cento circa è costituita da ritratti. Le copie di atelier erano numerose e seguivano abitualmente la commissione principale. I suoi compensi, per i ritratti, stavano attorno ai sessanta-settanta fiorini. Rembrandt all’apice della fama ne chiedeva cento(2). Posavano per lui le massime autorità cittadine e i membri delle famiglie più in vista. Ritrasse anche uno dei massimi filosofi del suo tempo, il francese René Descartes, Cartesio – che trascorse parte della sua vita e dei suoi studi in Olanda –; l’originale è perduto, ma se ne conserva una copia al Louvre. Non mancano, nel suo catalogo, opere di diverso genere, alcune di soggetto religioso, allegorie dei cinque sensi, “tronies”, allegre compagnie, scene che appartengono in gran parte alla prima fase della sua attività, prima dell’opzione esclusivamente ritrattistica. Restano invece esclusi dai suoi interessi generi che andavano per la maggiore, come le risse da taverna, le ambientazioni contadine, le scene di interno con figure femminili e qualche velata allusione erotica, pastorellerie, giocatori di carte, notturni a lume di candela… Sta di fatto che dagli anni Venti del secolo XVII in poi si fanno sempre più rare sue opere che non siano ritratti. Del decennio precedente si sa davvero poco. La prima opera nota attribuita a

Frans Hals è del 1611, il Ritratto di Jacob Zaffius (Haarlem, Frans Hals Museum), assegnazione che presenta qualche dubbio per lo stile, molto lontano da quello della maturità, ma è lecito supporre che gli anni Dieci fossero per Hals un periodo di ricerca e di ambientazione. In tutta la sua produzione sono riconoscibili le radici della scuola di Haarlem, dai manieristi come Hendrick Goltzius, Cornelis van Haarlem e lo stesso Karel van Mander fino ai più prossimi Willem Buytewech ed Esaias van de Velde. Ma non mancano connessioni con i caravaggisti della scuola di Utrecht. Tra le opere di genere, I festaioli del martedì grasso (1615-1616 circa, New York, Metropolitan Museum) e il Giovane uomo con la sua ragazza in una taverna (o Il giovane Ramp e la sua bella, 1623, New York, Metropolitan Museum). I festaioli del martedì grasso, nella composizione piena e giocosa e nei colori vivaci manifesta uno stile pittorico ancora molto legato alle radici fiamminghe dell’artista. La scena racconta l’atmosfera festosa e popolare dei giorni che precedono la quaresima, che nei Paesi Bassi prevedevano grandi mangiate, bevute, recite in costume e scherzi grossolani. Qui vediamo a sinistra Pekelharing, letteralmente “aringa in salamoia”, nomignolo attribuito a un popolarissimo, al tempo, personaggio del teatro comico, caratterizzato da una sete inestinguibile (è qui il rimando all’aringa…) con la quale giustificava la sua conclamata passione per la birra; qui ha in mano una coda di volpe, simbolo di follia. A destra Hans Worst (altro personaggio delle farse, potremmo tradurre con Gianni Salsiccia), ha una salsiccia attaccata al cappello e fa un gesto osceno all’indirizzo della ragazza (o ragazzo vestito da donna) in abiti vistosi, seduta al centro. Sparsi ovunque oggetti o cibarie allusivi al sesso (altre salsicce, fagioli, cozze, uova, una cornamusa…).

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Giovane uomo con la sua ragazza in una taverna (o Il giovane Ramp e la sua bella) (1623); New York, Metropolitan Museum of Art. Hals si dedicò alla pittura di genere in età giovanile, e il suo approccio appare simile a quello di artisti suoi contemporanei come Adriaen Brouwer, Judith Leyster, Jan Miense Molenaer e Adriaen van Ostade (da alcuni ritenuti suoi allievi o collaboratori). Alcune opere di Judith Leyster sono state a lungo attribuite a Hals.

Il Giovane uomo con la sua ragazza in una taverna mostra come già nei primi anni Venti siano evidenti due principali caratteristiche del modo di dipingere di Hals: la composizione in diagonale che dà movimento alla scena e la tecnica pittorica, fatta di colori brillanti e pennellate corpose, capaci di suggerire non solo la forma ma la materia di cui è fatto ogni singolo dettaglio; e l’uso di collocare i protagonisti in primo piano, riducendo a minimi dettagli la definizione dell’ambiente in cui la scena si svolge. Ma è soprattutto evidente un’altra tipicità: l’approccio emotivo al soggetto, quella gioia di vivere che gli veniva riconosciuta unanimemente da critici e colleghi. Il soggetto introduce anche a una delle questioni fondamentali per l’interpretazione del senso della pittura di genere olandese. Qual è il messaggio – o l’intento, il significato profondo – che trasmettono scene come questa? Noi, e il pubblico a cui si rivolgevano dipinti del genere, vediamo un giovanotto abbastanza su di giri, sulla soglia di una taverna, che alza un bicchiere e accarezza il cane mentre una ragazza sorride e si appoggia alla sua spalla. È tutto qui? O ci troviamo di fronte a una simbologia da decifrare? È possibile che in realtà siamo di fronte a un episodio della vicenda neotestamentaria del Figliol prodigo (per la precisione a uno dei momenti di vita dissoluta che precedono il suo ritorno fra le braccia del padre)? Il dibattito sulla potenziale vocazione allegorica della pittura di genere dei Paesi Bassi si innesta sulla fondamentale definizione di metodo tracciata da Erwin Panofsky nel 1939 e poi da lui ripreso nel 1962 riguardo alla lettura di un’opera d’arte. Lettura che può essere svolta su tre livelli: un livello primario che si limita al riconoscimento dell’essenza naturale dei soggetti raffigurati (livello preiconografico); un livello in cui i soggetti vengono identificati e associati a un contesto specifico di carattere storico, letterario, religioso (livello iconografico); un ultimo passaggio in cui il soggetto viene contestualizzato nell’ambito in cui è stata prodotta l’opera e di conseguenza interpretato (livello iconologico)(3). Un metodo costruito sull’arte italiana del Rinascimento, difficile da adattare al naturalismo della pittura nordica, apparentemente semplice – soprattutto nell’accezione olandese qui presa in esame –, lontana dalle 23

Peckelharing (1630 circa); Kassel, Schloss Wilhelmshöhe.

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sottigliezze colte dei maestri italiani, priva di meandri in cui andare a cercare significati supplementari rispetto a quel che si vede dipinto. Lo stesso Panofsky affrontò il problema parlando di un «simbolismo nascosto», camuffato, totalmente assorbito dalla realtà raffigurata(4). Lo studioso olandese Eddy de Jongh riprese questo metodo interpretativo

dicendo che l’intento degli artisti olandesi del tempo era di «istruire e dilettare», dissimulando messaggi morali o semplicemente istruttivi in un’attraente confezione resa credibile e piacevole dall’aderenza all’esperienza visiva di chi guardava(5). Ai primi anni Venti del Seicento appartiene una serie di quattro evangelisti che

Suonatore di liuto (1623 circa); Parigi, Musée du Louvre.

segna l’unica incursione conosciuta di Hals nella pittura di soggetto religioso. A chiusura di questo periodo iniziale si colloca un altro dipinto di genere, un Peckelharing (1630 circa, Kassel, Schloss Wilhelmshöhe), personaggio che in questa versione si diffuse e venne copiato; una sua riproduzione incisa, pochi anni

dopo, era sulla copertina di un libro di barzellette. Alcune sue opere appartengono a un genere intermedio, quello dei “tronies”, o “studi di carattere”, figure non necessariamente individuate da un nome e cognome e non destinate al soggetto raffigurato: come il Suonatore di liuto (1623 25

Bambino sorridente (1625 circa); L’Aja, Mauritshuis.

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circa, Parigi, Musée du Louvre); il tondo con Bambino sorridente (1625 circa, L’Aja, Mauritshuis); Il fumatore (1625 circa, New York, Metropolitan Museum); La zingara (1628-1630, Parigi, Musée du Louvre); L’allegro bevitore (1628-1630, Amsterdam, Rijksmuseum); Malle Babbe (1633-1635, Berlino, Gemäldegalerie). Quest’ultimo è uno dei dipinti più noti di Hals, replicato e copiato con varianti per molto tempo, fino al secolo XIX. Il dipinto “ritrae” Barbara (Babbe) Claes,

una delle ospiti della Werkhaus (“casa di lavoro”) di Haarlem – via di mezzo tra ospizio per malati mentali e prigione – detta Malle Babbe, Babbe la folle. La casa ospitava in quel tempo anche Pieter, uno dei figli del pittore. In questo caso l’artista utilizza i tratti somatici di una persona reale per un quadro di genere. Raffigura una donna, piuttosto anziana, in abiti da lavoro, con una cuffia e un ampio colletto bianchi, un enorme boccale da birra nella mano destra e un gufo sulla spalla

sinistra. Hals trascura la resa dei dettagli per affidare a una pennellata sommaria e veloce l’effetto sorpresa di una figura colta in una smorfia improvvisa, accentuata dalla torsione del corpo e dal fatto che la protagonista guarda qualcosa o qualcuno che noi non vediamo; nei due lacci della cuffia che svolazzano dalla sua tempia è il segreto dell’effetto di movimento generale della composizione. Un modo di dire olandese, “essere ubriaco come un gufo”, chiarisce sufficientemente il senso della

scena, un monito moraleggiante frequente nella pittura di genere. Ma i toni scuri, il fatto che il gufo compaia spesso come simbolo di follia o stupidità, il ghigno sul volto suggeriscono anche una componente quasi selvatica, demoniaca o stregonesca. L’allegro bevitore consente una riflessione sul pregiudizio per cui un po’ tutti gli artisti che, praticando la pittura di genere, proponevano spesso ambientazioni o situazioni equivoche – bordelli, osterie, bevitori, giocatori di carte, situazioni di caos dome-

Il fumatore (1625 circa); New York, Metropolitan Museum of Art.

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Nella pagina a fianco: Malle Babbe (1633-1635); Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.

Da sinistra: L’allegro bevitore (1628-1630); Amsterdam, Rijksmuseum. Gustave Courbet, Malle Babbe (1869), copia da Frans Hals; Amburgo, Kunsthalle.

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stico – dovevano senza dubbio condividere lo stesso stile di vita dei soggetti raffigurati. È un’etichetta che è toccata anche ad artisti come Adriaen Brouwer e Jan Steen, e mai sufficientemente confermata da dati concreti. Lo stigma riflette una gerarchia di valori tutta interna al sistema delle arti: i pittori di soggetti storici, mitologici o religiosi (come Houbraken o Gerard de Lairesse, a sua volta molto critico nei confronti anche di Rembrandt, per esempio) praticavano una snobistica equazione per cui chi praticava generi pittorici “bassi” doveva appartenere a una classe inferiore, per indole ed educazione. Pregiudizio che riecheggiò a lungo nella critica d’arte, se ancora John Ruskin, nel primo volume del suo Modern Painters (1843) esprime giudizi feroci sulla pittura dei «vari Van qualcosa» (riferendosi agli artisti olandesi in genere): «La miglior forma di mecenatismo nei confronti di quelle arti sarebbe quella di raccoglierne l’intero corpus e darlo alle fiamme», con tutto il loro «realismo da birreria» evidentemente ispirato dalla «natura essenzialmente porcina» dei loro artefici «stupidi, infidi e debosciati», spesso impegnati, nel loro lavoro sulla tela, nella «pensosa imitazione di una carota». E così via, in una serie di argomentazioni sul tema della volgarità, trivialità, insignificanza che abbraccia artefici e artefatti. Toni che, evidentemente, vanno al di là della mancata condivisione della stessa gerarchia dei soggetti pittorici, ma che chiedono anche di essere conte-

stualizzati nel clima di polemica antitradizionalista che Ruskin rappresentava nell’Inghilterra vittoriana. Un discorso a parte merita il citato Bambino sorridente del Mauritshuis (1625 circa), un dipinto allegro e con ogni evidenza svincolato da obblighi di committenza, molto probabilmente destinato alla famiglia del pittore stesso. In questo caso non possiamo neanche considerarlo un “tronie”, si tratterebbe di un ritratto privato, forse un figlio, un po’ gioco e un po’ libera esercitazione della pennellata “alla Hals” nella sua forma più disinvolta, con la materia che si disfa in semplici pennellate di colore, sicure di sé e della propria forza espressiva.

(1) Arnold Houbraken, pittore a sua volta, pubblicò a partire dal 1718, all’Aja, De groote schouburgh der Nederlantsche konstschilders en schilderessen (Il gran teatro dei pittori olandesi), raccolta di biografie molto romanzate dei pittori del suo tempo, in tre volumi. (2) Può essere utile avere alcuni punti di riferimento per capire meglio il rapporto fra prezzi delle opere d’arte e costo della vita nell’Olanda del XVII secolo. Un fiorino era diviso in venti soldi. Un boccale di birra costava uno o due soldi; un pane di segale fra i sei e i nove soldi; lo stipendio settimanale di un operaio qualificato era di poco meno di tre fiorini; una piccola casa valeva trecento fiorini. (3) E. Panofsky, Studi di iconologia (1939-1962), ed. it. Torino 1975. (4) Id., Early Netherlandish Painting (Cambridge, Mass., 1953), ed. francese consultata Parigi 2010. (5) E. de Jongh, Zinne-en minnebeelden in de schilderkunstvan de zeventiende eeuw, Amsterdam 1967.

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I RITRATTI

Banchetto degli ufficiali della compagnia di San Giorgio (1627), particolare; Haarlem, Frans Hals Museum. Nella pagina a fianco: Banchetto degli ufficiali della compagnia di San Giorgio (1616), particolare; Haarlem, Frans Hals Museum.

In una città come Haarlem, non diversamente da molti altri centri olandesi, la presenza di una classe borghese affluente desiderosa di decorare degnamente le proprie abitazioni provocò un rapido e massiccio incremento del mercato delle opere d’arte. La sostituzione della committenza ecclesiastica con un nuovo target ampliò la scelta dei soggetti, ridusse le dimensioni dei quadri, calmierò i prezzi, in una parola democratizzò il mercato. Rappresentò l’occasione per un ricambio

generazionale, per lo sviluppo di talenti originali (in regime di concorrenza occorre distinguersi), per la nascita di un nuovo linguaggio figurativo, quello della neonata Repubblica: orgogliosamente diretto, espressivo, naturale. Nacquero fiere periodiche e mercati specializzati (sul modello della Fiera del libro di Francoforte, attiva già nel XVI secolo). L’arrivo di ondate di prodotti scadenti (i vicini fiamminghi avevano notato la nascita di un mercato nuovo a pochi chilometri dai loro confini e cercarono presto di approfittarne) fu contrastato da nuove regole per il commercio, a difesa delle gilde locali. A essere favorito fu soprattutto il genere del ritratto. I ritratti costavano meno se piccoli, con solo volto e busto e senza mani. Tra i principali artisti a concentrare la propria attività su questo tipo di produzio31

Banchetto degli ufficiali della compagnia di San Giorgio (1616), Haarlem, Frans Hals Museum. Nella pagina a fianco: Corteggio degli ufficiali e dei sottufficiali della compagnia di San Giorgio (1636-1639); Haarlem, Frans Hals Museum. Banchetto degli ufficiali della compagnia di Sant’Adriano (1627 circa); Haarlem, Frans Hals Museum.

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ne troviamo ancora Frans Hals, che conferisce al genere uno stile pittorico nuovo, vivace, dal tratto energico ed espressivo. Quel che emerge immediatamente è la sua capacità di imprimere dinamismo a un soggetto statico per definizione. Il suo talento gli garantì attenzione e committenze da parte dell’élite cittadina, sia di fede protestante che cattolica, fatta di mercanti come di predicatori, di insegnanti, artisti e letterati. Non si conoscono disegni di Frans Hals, il pittore abbozzava la composizione direttamente sulla tela, dipingeva fondali e costumi, poi aggiungeva le teste e le mani, che costituivano l’elemento essenziale dell’individuazione. Polsini e colletti, con i loro bianchi esplosivi, venivano sovrapposti agli strati sottostanti solo alla fine. Lavorava in velocità, ma non trascurava minimamente l’aderenza al modello, neanche per le vesti, i suoi ritratti sono considerati documenti affidabili per la storia del costume dell’epoca (ma anche per le armi, gli strumenti musicali, i vetri e il vasellame). Hals usava come supporto quasi soprattutto la tela, tre suoi dipinti su quattro hanno questa caratteristica, per il resto pannelli di legno e in tre casi piccole lastre

di rame. La tela di lino è resistente, leggera e facile da trasportare. A caratterizzare i suoi lavori è più che ogni altra cosa la pennellata rapida, meno materica di quella di Rembrandt ma come guidata da un’invidiabile sicurezza, da una straordinaria capacità di controllo dell’effetto finale; una serie di tocchi fluidi o a contrasto, sempre privi di ogni apparente incertezza, capaci di rendere la vibrazione luminosa delle superfici e al tempo stesso la solidità delle forme. Un effetto di immediatezza apparentemente “facile”, dovuto a una mano felice che coglie l’obiettivo al primo tocco (questa era, per esempio, l’impressione che ne trasse Van Gogh), e che è in realtà il risultato di pazienti sovrapposizioni di strati successivi. La pennellata è sempre libera, visibile, non cerca la precisione ma l’effetto immediato. Fin da subito, Hals appare come un virtuoso, capace di un dominio assoluto della tecnica pittorica. Col tempo, a prevalere saranno soprattutto i colori chiari, almeno fino agli anni Quaranta, quando torneranno tonalità più scure e alla luce diurna si sostituirà un’ambientazione più cupa, con interni meno luminosi e una tendenza alla monocromia. «Frans Hals deve avere almeno ventisette

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Riunione degli ufficiali e dei sottufficiali della compagnia di Sant’Adriano (1633 circa); Haarlem, Frans Hals Museum.

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neri», scriveva uno dei suoi più accesi ammiratori, ancora Vincent van Gogh, in una lettera al fratello Theo nell’ottobre del 1885. Il suo modello era il concittadino Rubens, e tra gli altri anversani soprattutto Jacob Jordaens, ma la sua maniera di dipingere rimanda anche ai veneti – a Tintoretto su tutti –, a El Greco; e lo rende unico nel panorama pittorico del suo tempo e dell’ambiente in cui operò. Rispetto alla tradizione italiana del ritratto è evidente una minore stratificazione di significati, sono più scarsi i rimandi alla storia o al mito. Nei suoi ritratti non emergono tanto la psicologia o l’indole del personaggio quanto l’espressione del momento, lo stato d’animo, la capacità comunicativa. Questo soprattutto nei lavori del primo periodo e della maturità, per lasciare poi il posto a una certa gravità e compostezza, a una rappresentazione consapevole del ruolo sociale del soggetto. A Haarlem, e negli altri centri dei Paesi Bassi, si diffonde in particolare la moda del ritratto di gruppo. A volte, in occasioni

particolari, un certo numero di funzionari o commercianti, reggenti di ospizi, militi delle guardie civiche si associavano per farsi ritrarre condividendo i costi. Frans Hals deve la notorietà soprattutto ai suoi nove ritratti di gruppo di grandi dimensioni: sei di milizie cittadine e tre di reggenti di istituzioni benefiche; otto di questi dipinti si trovano al Frans Hals Museum di Haarlem, uno al Rijksmuseum di Amsterdam. Rispetto ai ritratti eseguiti dalla maggior parte dei suoi colleghi (a eccezione di Rembrandt) i ritratti di Hals appaiono meno formali, meno finti, meno in posa, più vivaci. I protagonisti dei ritratti di milizie di Harlem, tutti ufficiali e sottufficiali, appartenevano a due compagnie, quella dei Cluveniers (moschettieri) di Sint Adriaan (Sant’Adriano) e quella di Sint Joris (San Giorgio); in realtà in origine erano armati di arco, poi di archibugio (“caliver”), ma al tempo di Hals erano entrambe in realtà dotate soprattutto di moschetti. I loro

Frans Hals, terminato da Pieter Codde, La magra compagnia (o La compagnia del capitano Reinier Reael e del luogotenente Cornelis Michielsz Blaeuw), (1633-1637); Amsterdam, Rijksmuseum.

membri appartenevano alle classi agiate e avevano il ruolo di difensori della popolazione in caso di aggressione esterna, disordini, incendi; ogni cittadino doveva servire per qualche tempo nella milizia. Per la maggior parte del tempo le due compagnie equivalevano ad associazioni tra il ricreativo e l’addestramento paramilitare, con frequenti occasioni di feste e banchetti, ma al tempo della guerra antispagnola si erano dimostrate all’altezza del compito. Agivano sotto il controllo del consiglio comunale e furono abolite solo alla fine del XIX secolo quando fu istituito il servizio militare nazionale. I ritratti erano destinati a decorare il quartier generale di ogni milizia. Diciotto dei venti ritratti delle compagnie civiche di Haarlem giunti fino a noi – di differenti artisti locali – si trovano nel Frans Hals Museum. Tra le più precoci opere note di Hals compare il primo dei suoi ritratti di gruppo, il Banchetto degli ufficiali della compagnia di San Giorgio del 1616. Un altro banchetto degli ufficiali della stessa compagnia lo dipinse nel 1627 circa. Un Corteggio degli ufficiali e dei sottufficiali della compagnia di San Giorgio lo dipinse tra il 1636 e il 1639. All’altra milizia cittadina sono dedicati il Banchetto degli ufficiali della compagnia di

Sant’Adriano (1627 circa) e la Riunione degli ufficiali e dei sottufficiali della compagnia di Sant’Adriano (1633 circa). Tutti e cinque questi ritratti si trovano, come accennato, a Haarlem, al Frans Hals Museum. Nello stesso anno iniziò il ritratto della Compagnia del capitano Reinier Reael e del luogotenente Cornelis Michielsz Blaeuw, lavoro che abbandonò per non essere costretto ad andare ad Amsterdam, sede della compagnia; il dipinto fu terminato nel 1637 da Pieter Codde (oggi si trova al Rijksmuseum). Le figure esili che compongono il gruppo gli valsero il titolo con cui è più noto, La magra compagnia. Fin dal primo esempio citato dei suoi ritratti di gruppo – il Banchetto degli ufficiali della compagnia di San Giorgio del 1616 – appare evidente un’inedita capacità di dinamizzare la scena; le pose e le espressioni appaiono naturali, qualcuno “guarda in camera” e qualcuno no, interagisce con i compagni. Un confronto con altri ritratti di gruppo olandesi del tempo è eloquente: la sensazione è spesso quella di trovarsi di fronte a una composizione artificiale di ritratti eseguiti separatamente e poi montati in un’unica scena, silenziosi e isolati «come estranei in un ascensore», come li descrive efficacemente Walter Liedtke(6). I modelli che possono aver influito su questa scelta di movimentare le scene di

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Cornelis van der Voort, La compagnia di Pieter Dirksz Hasselaer (1623); Amsterdam, Amsterdam Museum. Ancora un ritratto di gruppo e ancora di una milizia cittadina, ma è evidente, nel confronto, la capacità di Hals di dare dinamismo e vivacità alla composizione.

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gruppo da parte di Hals possono essere rintracciati andando a ritroso attraverso il manierismo fiammingo del secolo precedente (Frans Floris, per esempio), il genere delle “allegre compagnie” diffuso anche in forma di incisione, fino alle “cene” di Veronese e a esempi italiani in genere; altro modello di queste composizioni animate e complesse è la pittura di storia di Rubens. Quel che differenzia radicalmente questi modelli, rispetto ai ritratti di gruppo di Hals, ha a che fare con il target, il budget e i soggetti: committenza colta (aristocratica o ecclesiastica), compensi elevati, temi sacri (per esempio le Nozze di Cana, o la Cena in casa di Levi, che non escludono l’inserimento di eventuali ritratti di persone reali) o mitologici (banchetti degli dei). Con Hals ci troviamo evidentemente in un diverso contesto socioculturale: qui troviamo borghesi occasionalmente in armi che vivono del proprio lavoro e aspirano a tramandare la propria immagine al massimo a figli e nipoti o ai futuri membri della compagnia di appartenenza. Sta di fatto che questa naturalezza era percepita già dai suoi contemporanei. Uno storico locale, Theodorus Schrevelius, nel 1648, in Harlemias, scrive che i quadri di Hals hanno tanta vitalità che «sembrano respirare e vivere». Thoré-Bürger, il grande riscopritore ottocentesco dell’arte dei Paesi Bassi, scrive a proposito di questi ritratti di gruppo: «Perché queste riunioni di franchi-tiratori olandesi non dovreb-

bero essere considerati grande arte? […] Se questi Hals del museo di Haarlem e quello del Palazzo comunale di Amsterdam fossero al Louvre, nel Salon Carré, per confrontarsi con i due capolavori di Paolo Veronese, forse la critica francese si degnerebbe finalmente di ammettere i maestri olandesi allo stesso livello degli artisti italiani […] In coscienza, queste predilezioni esclusive, che riposano sulla pretesa nobiltà dei soggetti, non significano niente»(7). Le figure del Banchetto del 1616 sono a grandezza naturale, siedono attorno a una tavola riccamente imbandita per festeggiare la fine dei tre anni passati in servizio come ufficiali e dovevano essere molto familiari all’artista, che apparteneva alla stessa compagnia già da qualche anno. Due dei tre portainsegne (sono quelli con le bandiere, che restavano in carica per più tempo) li ritroviamo nel ritratto della stessa organizzazione di qualche anno dopo, il Banchetto della compagnia di San Giorgio del 1627. Nello stesso anno, Hals dipinse anche la festa di addio dell’altra compagnia cittadina nel Banchetto degli ufficiali della compagnia di Sant’Adriano. Nell’ultimo dei suoi ritratti dedicati alle compagnie, il Corteggio degli ufficiali e dei sottufficiali della compagnia di San Giorgio (1636-1639) Hals inserisce quello che è comunemente ritenuto un suo autoritratto (è il secondo in alto da sinistra), una possibilità che gli fu consentita in via eccezionale, evidentemente, visto che i militi semplici come lui non rientravano di solito in questi lavori di carattere ufficiale. Altri tre ritratti per così dire “istituzionali” sono I reggenti dell’ospizio di Santa Elisabetta di Haarlem (1641), I reggenti dell’ospizio dei vecchi (1664) e Le reggenti dell’ospizio dei vecchi (1664); anche questi tre dipinti sono conservati nel Frans Hals Museum di Haarlem. I toni scuri, la sobrietà di gesti e vestiti appaiono lontani dalla vivacità dei ritratti dedicati alle milizie civiche e più in sintonia sia con il ruolo di membri della pubblica amministrazione che con l’età avanzata del pittore. L’istituzione che si occupava del ricovero degli anziani (potevano accedere al servizio gli ultrasessantenni) rimanda al rigoroso e capillare sistema di welfare vigente nella repubblica calvinista delle Sette Province Unite dei Paesi Bassi settentrio-

I reggenti dell’ospizio di Santa Elisabetta di Haarlem (1641); Haarlem, Frans Hals Museum.

nali. Alcuni storici hanno sostenuto che lo stesso Hals avesse trascorso i suoi ultimi anni nell’istituzione, anche se appare più probabile che – pur usufruendo di un sussidio – avesse una sua abitazione nella stessa strada dell’ospizio. Oggi, l’edificio è la sede del Frans Hals Museum. Nei ritratti individuali, più che in quelli di gruppo (dove prevale la teatralità della circostanza), emerge l’interesse di Hals a restituire caratteri e stati d’animo dei soggetti. Caratteristica che acquista una forte valenza emotiva nei ritratti di coppia, dove due personalità dialogano e si confrontano, e nei gruppi familiari. Questo far prevalere la personalità rispetto allo status è forse il principale contributo di Hals – e di Rembrandt –all’arte del ritratto. Forse, per Hals, potremmo dire che a emergere sono gli stati d’animo, i rapporti reciproci tra i protagonisti, più che lo scavo psicologico, che in Rembrandt appare vertiginosamente profondo. In Gruppo di famiglia in un paesaggio (1648 circa, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza) è evidente il gioco di sguardi reciproci tra i coniugi, a loro volta osservati dalla figlia; il leggero sorriso dei due protagonisti al centro, l’unione delle mani,

l’inclinazione del busto accompagnano il contatto visivo fra i due dando una vivida impressione di immediatezza. Da notare la presenza di un bambino di colore, sempre più frequente nella pittura olandese a partire dagli anni Trenta del secolo, gradita a molte famiglie come elemento “esotico” e di status, legata per la verità alla nuova realtà del traffico internazionale di schiavi a cui si dedicò anche parte della flotta commerciale olandese. C’è chi, notandone l’abbigliamento curato, non dissimile da quello dei suoi coetanei del posto, ne ha supposto un’origine africana di lignaggio elevato, magari un bambino inviato in Europa perché avesse un’educazione ispirata a modelli occidentali. La stessa animazione di questo gruppo di famiglia pervadeva già la prima prova di Hals nel genere considerato, il Ritratto della famiglia Van Campen in un paesaggio (1623-1625, Toledo, Ohio, Museum of Art) che, nonostante sia stato per ragioni ignote tagliato ricavandone almeno tre quadri oggi in musei diversi, conserva un’atmosfera giocosa e diretta; molto diversa, per fare solo un esempio, dall’analoga e più o meno contemporanea scena di gruppo del Ritratto di famiglia in un

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I reggenti dell’ospizio dei vecchi (1664); Haarlem, Frans Hals Museum.

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paesaggio dipinto da Thomas de Keyser nel 1625-1630 e ora a Gotha (Schloss Friedenstein), con le sue cinque figure schierate in posa e impegnate a non lasciarsi sfuggire la minima espressione del volto. Nella porzione di tela conservata a Toledo compare una parte dei quattordici figli della coppia Van Campen; la più piccola delle figlie, seduta per terra accanto al padre e a un cesto di mele rovesciato, fu aggiunta dal pittore Salomon de Bray nel 1628 quando il dipinto (non ancora frazionato) era già stato completato con quella che si credeva dovesse essere la dotazione di figli definitiva: nell’assetto di qualche anno prima la bimba con le gote rosse non era prevista(8). Il dialogo tra le figure si instaura anche nei ritratti di coppia “à pendant”, come in Uomo seduto con un cappello e Donna seduta con ventaglio (1650 circa; Cincinnati, Taft Museum of Art). Due figure ritratte di tre quarti – elegantissime, i volti illuminati da un leggero sorriso – che nonostante guardino verso di noi (e non l’uno l’al-

tra) riescono a comunicarci che lo stanno facendo insieme; effetto forse innescato dal semplice fatto che il ventaglio della donna indirizza la nostra attenzione verso il partner. L’occasione più comune per commissionare un doppio ritratto – su una sola tela o su due distinte – erano un fidanzamento, un matrimonio o un anniversario. Due sposi sorridenti ci guardano seduti in giardino nel celebre Ritratto di coppia (1622; Amsterdam, Rijksmuseum) che raffigura Isaac Massa e Beatrix van der Laen. Lo sposo rappresenta in modo esemplare quanto la scelta di tolleranza politica e religiosa operata dalla Repubblica olandese avesse contribuito alla prosperità del paese; gli antenati di Isaac Massa erano infatti ugonotti sfuggiti alle persecuzioni cui erano sottoposti in Francia e approdati a Haarlem come in un porto sicuro. Ricco mercante di grano, con incarichi diplomatici, viaggiatore, Isaac fu uno dei primi a scoprire la Moscovia come luogo di traffici proficui, a stabilire degli scambi

Le reggenti dell’ospizio dei vecchi (1664); Haarlem, Frans Hals Museum.

anche culturali tra quel paese e l’Olanda e a definire una mappa e una descrizione di quella parte di Russia e della costa siberiana, allora pressoché sconosciuti, diventando una fonte storica importante sugli ultimi anni di regno dello zar Boris Godunov e dell’accendersi del periodo detto “dei torbidi” (1598-1613). Una vita avventurosa che scompare totalmente nel momento di felice sospensione di ogni cura e affanno che questo quadro descrive. Isaac doveva avere una certa familiarità con Hals, che ne dipinse altri ritratti e lo ebbe come padrino di battesimo per uno dei suoi figli. Beatrix van der Laen – figlia di borgomastro – partecipa con evidente piacere all’atmosfera di scampagnata domenicale che pervade la tela. Sovvertendo un certo formalismo che caratterizzava altri dipinti realizzati in questo genere di occasioni in quel tempo, la coppia appare disinvolta e naturale, come accade in molte foto di matrimonio che cercano di sembrare istantanee ma non

rinunciano alla posa, all’ambientazione prestigiosa e al bel vestito. Il linguaggio del corpo trasmette un affetto reciproco sottolineato da rimandi simbolici: lo sposo tiene la mano sul cuore, mentre lei poggia la mano inanellata sulla sua spalla, segno di supporto (per alcuni di dipendenza, così come la vite sullo sfondo sceglie l’albero come proprio sostegno); anche l’edera e il cardo rimandano al legame matrimoniale. Ma la vera novità in questo dipinto sta nel sorriso. Nella pittura del tempo si ride solo nei dipinti di genere, se si è ubriachi o sciocchi. Hals invece porta qui allo scoperto quella disinvoltura nel mostrare i propri sentimenti in pubblico che era tipica della cultura olandese e che lasciava assai perplessi molti viaggiatori provenienti da altri paesi europei (a volte anche scandalizzati, per esempio dal fatto che alcune coppie andavano in giro mano nella mano o si scambiavano effusioni per strada), che mai si sarebbero sognati di farsi ritrarre col sorrisetto impertinente che inalbera qui Beatrix facendo capoli39

Gruppo di famiglia in un paesaggio (1648 circa); Madrid, MuseoThyssenBornemisza.

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In basso: Ritratto della famiglia Van Campen in un paesaggio (1623-1625); Toledo (Ohio), Toledo Museum of Art.

no come un bocciolo dalla sua strepitosa gorgiera “a ruota di mulino”. Questa irruzione di “verità” nella ritrattistica borghese rappresenta un altro apporto di Hals alla pittura europea del tempo. Rendere evidente l’attrazione di coppia, esibire calorosamente la dimensione in qualche modo intima di una relazione coniugale era anche il segno di un rapporto “moderno” fra i sessi che andava facendosi strada. Un modo nuovo di vedere l’istituzione matrimoniale. Ne abbiamo un altro esempio nel doppio ritratto di Stephanus Geraerdts e Isabella Coymans (1650-1652; Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten e collezione privata parigina). I due sposi svolgono qui un vero e proprio dialogo di sguardi e gesti; nessun sussiego, nessuna ritualità, solo il sorriso di chi è contento di essere lì a festeggiare quel momento con la persona giusta. In realtà è una celebrazione di coppia tardiva, al momento del ritratto i due erano sposati già da sei-sette anni. Geraerdts, nato ad

Nella pagina a fianco in alto, da sinistra: Uomo seduto con un cappello (1650 circa); Donna seduta con ventaglio (1650 circa); entrambi Cincinnati (Ohio), Taft Museum of Art. In basso, da sinistra: Ritratto di coppia (1622); Amsterdam, Rijksmuseum: Pieter Paul Rubens, Autoritratto con Isabella Brandt sotto la pergola di caprifoglio (1609-1610); Monaco, Alte Pinakothek.

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In questa pagina: Ritratto di Willem Coymans (1645); Washington, National Gallery of Art. Nella pagina a fianco in alto, da sinistra: Stephanus Geraerdts (1650-1652); Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten.

Amsterdam, era magistrato a Haarlem, discendente di una dinastia di ricchi mercanti. Anche Isabella apparteneva all’alta borghesia. Figlia di un mercante di vestiti della stessa cittadina, indossa per l’occasione uno degli abiti più belli della ritrattistica olandese del tempo. In piedi, con i capelli che le scendono sul collo e le spalle, sorride e offre una rosa al marito che, seduto,

alza la mano per accoglierla. Divisa dal suo pendant nel 1886, è tornata a offrire la sua rosa allo sposo solo una volta, per una mostra nel 1962. Lo stemma con quattro teste di mucca appeso alla parete dietro Isabella appare anche nel Ritratto di Willem Coymans (1645; Washington, National Gallery of Art), altro membro della famiglia, e allude

Isabella Coymans (1650-1652).

Nella pagina a fianco in basso, da sinistra: Lucas de Clercq (1625 circa), Amsterdam, Rijksmuseum. Feyntje van Steenkiste (1625 circa); Amsterdam, Rijksmuseum.

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Ritratto di donna (1655-1660); Hull (Gran Bretagna), Hull City Museum. Nella pagina a fianco: Willem van Heythuysen (1625-1630); Monaco, Alte Pinakothek.

al cognome del casato, Coymans, in olandese, significa qualcosa come uomo-mucca (o uomo delle mucche). Dandy sapientemente spettinato, elegantissimo, disinvolto nella posa, mostra la sua adesione a quel misto di negligenza e distaccato autocompiacimento che in Italia, e di qui poi ovunque in Europa a partire dal XVI secolo e da una definizione di Baldassarre Castiglione, prende il nome di “sprezzatura”, modello di riferimento per molti giovani aspiranti

gentiluomini. La forza del quadro è tutta in quello sguardo un po’ strafottente e nella manica in primo piano, rimboccata ad arte, spettacolare esibizione di virtuosismo pittorico, nel bianco abbagliante del polsino venato di grigio e nella resa della stoffa cangiante della giacca. Niente pendant anche per Willem van Heythuysen (1625-1630, Monaco, Alte Pinakothek), che manifestamente basta a se stesso. Ricco mercante che posa ad 45

aristocratico, ritratto a grandezza naturale, calvinista e benefattore ma decisamente già lontano dalla sobrietà e dal basso profilo della generazione dei padri della patria neerlandese. Piuttosto alfiere dell’orgoglio della nuova classe borghese ormai installata ai vertici della società; un’immagine in cui tutto è verticale: il pilastro sulla destra, lo sfondo di una porta coperta da un tendaggio, il protagonista in nero damascato, la spada, che Willem impugna con un vigore tale da far brillare le nocche della mano. Chiudiamo con un ritratto giovanile, una delle opere più famose di Frans Hals, il Cavaliere sorridente (1624, Londra, Wallace Collection), che compendia perfettamente ogni aspetto del talento del pittore nato fiammingo e diventato uno dei protagonisti dell’arte olandese. Il nome del personaggio che ci guarda – è il caso di dirlo – sorridendo enigmaticamente sotto i baffi è ignoto: una versione maschile della Gioconda (con baffi propri e non aggiunti da Duchamp). Un’iscrizione latina in un angolo ci informa che al momento del ritratto ha ventisei anni e siamo nel 1624. È certamente benestante, forse un ufficiale, o un mercante, manifestamente compiaciuto del proprio aspetto e del magnifico abito che indossa, un vero capolavoro di sartoria, di simbologie amorose ricamate su seta e intrecciate nel pizzo; e riportate poi qui sulla tela, grazie al pittore, dai piccoli tocchi di pennello. Ancora un sorriso, abbiamo detto, e come abbiamo già segnalato è questa una delle innovazioni di Frans Hals: aver portato fino a noi la luce dei volti di queste persone, attraversando quattro secoli e restituendocene così una scintilla di vita reale.

(6) W. Liedtke, Frans Hals. Style and Substance, New York 2011, p. 11. (7) Th. Thoré-Bürger, Frans Hals, in “Gazette des BeauxArts”, XXIV, 1868, pp. 219-230 e 431-448. (8) Per una ricostruzione della grande tela con la Famiglia Van Campen cfr. Les portraits de Frans Hals. Une réunion de famille, catalogo della mostra (Toledo, Museum of Art, ottobre 2018 - gennaio 2019 e Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique, febbraioaprile 2019), Monaco 2018, pp. 55 sgg.

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Qui sopra: Ritratto di uomo (Nicolaes Hasselaer?) (1630-1633); Amsterdam, Rijksmuseum.

Nella pagina a fianco: Il cavaliere sorridente (1624); Londra, Wallace Collection. Un capolavoro di brillantezza e virtuosismo tecnico. L’identità del Cavaliere sorridente resta ignota, forse si trattava di un mercante di tessuti. La sua stessa identificazione con un “cavaliere” è arbitraria e tarda. Resta il fascino di un personaggio che ci guarda con un sorriso ironico, sicuro di sé, vero manifesto di una borghesia di ricchezza recente ma decisamente fiduciosa nelle proprie capacità.

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QUADRO CRONOLOGICO AVVENIMENTI STORICI E ARTISTICI

VITA DI HALS 1582

10 luglio: Guglielmo il Taciturno, guida degli indipendentisti olandesi nella prima fase della guerra degli Ottant’anni, viene ucciso a Delft da un fanatico cattolico a caccia della taglia messa da Filippo II sulla testa del nemico calvinista.

1584

8 agosto: disfatta dell’Invencible Armada navale spagnola a opera della flotta inglese, alleata degli insorti dei Paesi Bassi e guidata da Francis Drake. Nasce il cartografo olandese Janssonius.

1588

1591

Nasce ad Anversa Antoon van Dyck.

Probabilmente in questo anno nasce ad Anversa, nelle Fiandre, Frans Hals, figlio di Franchois, mercante di tessuti cattolico, e di Adriaentje van Geertenryck.

A Haarlem è registrato alla nascita il fratello minore di Frans, Dirck: è la prima traccia documentaria del trasferimento in Olanda della famiglia dell’artista.

Muore all’Aja il principe Maurizio d’Orange, statolder d’Olanda; gli succede il fratello Federico Enrico. Muore Giacomo I d’Inghilterra, gli succede Carlo I.

VITA DI HALS 1616

È membro di una “camera di retorica” cittadina. Compie un viaggio ad Anversa. Dipinge il suo primo ritratto di gruppo, il Banchetto degli ufficiali della compagnia di San Giorgio.

1617

Il 12 febbraio sposa in seconde nozze la figlia di un pescivendolo, Lysbeth Reyniers, che aveva assunto come bambinaia. Le nozze si svolgono in un paesino fuori Haarlem per nascondere alla meglio gli otto mesi di gravidanza della ragazza. Grazie ai documenti si conoscono i nomi di undici dei loro figli.

1625

1629

Lavora come restauratore per un gruppo di opere provenienti dalla confraternita di San Giovanni. L’incarico gli fu verosimilmente commissionato dalla comunità cittadina, dal momento che le opere d’arte sacra scampate all’iconoclasmo della seconda metà del Cinquecento nei Paesi Bassi erano state tutte confiscate alle autorità cattoliche.

Un ampio canale collega Haarlem con Amsterdam.

1631

Ha problemi di debiti insoluti con un macellaio.

Nasce a Delft Jan Vermeer.

1632

1599 1600

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AVVENIMENTI STORICI E ARTISTICI

Viene fondata la Compagnia olandese delle Indie Orientali (VOC).

1602

Morte di Elisabetta I, regina di Inghilterra. Le succede Giacomo I.

1603

Carel van Mander pubblica Het Schilder-boek (Il libro dei pittori), fonte primaria per le biografie di molti artisti fiamminghi e olandesi.

1604

Nasce a Leida Rembrandt van Rijn.

1606

Nascono a Haarlem Jan Miense Molenaer e Judith Leyster, entrambi forse allievi di Hals e poi coniugi. Inizia la Tregua dei dodici anni tra Repubblica olandese e Spagna. Prime osservazioni del cielo con un cannocchiale da parte di Galileo Galilei. Espulsione dei “moriscos” dalla Spagna.

1609

Tra quest’anno e i successivi svolge il suo probabile apprendistato col pittore fiammingo ma residente a Haarlem Carel van Mander.

Scoppia la “tulipanomania”: bolla speculativa sui bulbi di tulipano che per due anni ossessiona gli olandesi, lasciando una scia di crack finanziari.

1610

È nelle liste dei membri della gilda di San Luca di Haarlem. È probabilmente l’anno in cui sposa Anneke Harmensdr.

1611

Battesimo del suo primo figlio, Harman. Risale a quest’anno il Ritratto di Jacob Zaffius, il primo dipinto che gli viene attribuito.

1612

il «M. [moschettiere] Frans Hals pittore» è nei ruoli della milizia cittadina di San Giorgio.

1615

Morte della prima moglie, Anneke.

1633

Attorno a questa data dipinge Malle Babbe.

1635

La sua probabile ex allieva, la pittrice di Haarlem Judith Leyster lo accusa di averle sottratto un allievo (pagante) ed è costretto a rimandarlo alla collega.

1637

La città di Haarlem gli accorda una cifra annuale per la cura del figlio Pieter, affetto da patologie mentali.

Morte del pittore Cornelis van Haarlem.

1638

Morte di Pieter Paul Rubens.

1640

Samuel van Hoogstraten pubblica Inleyding tot de Hooge Schoole der Schilderkonst (Introduzione all’accademia della pittura), in cui Hals non è citato.

1641

Rembrandt completa la Ronda di notte. In Inghilterra scoppia la guerra civile.

1642

La figlia Sara, incinta di un secondo figlio illegittimo, è rinchiusa in una casa di lavoro. La stessa in cui si trova il fratello Pieter.

1647

Theodorus Schrevelius pubblica Harlemum, sive urbis Harlemensis incunabula, in cui cita con encomio sia Frans che Dick Hals. Muore Federico Enrico, diviene statolder Guglielmo II.

AVVENIMENTI STORICI E ARTISTICI Decapitazione di Carlo I, re d’Inghilterra.

VITA DI HALS 1648 1649

Muore Guglielmo II, segue un periodo di ventidue anni in cui la carica di statolder resta vacante.

1650

Nel mese di maggio inizia la prima guerra anglo-olandese.

1652

Oliver Cromwell diviene “lord protettore” d’Inghilterra.

1653 1654

Ha duecento fiorini di debito con un fornaio. Viene costretto a vendere parte dei suoi beni.

1655

Fidanzamento della figlia Adriaentje con il pittore Pieter van Roestraten, allievo di Hals. Frans Hals è confermato nella chiesa riformata.

Gli olandesi conquistano l’attuale Sri Lanka. Morte di Dirck Hals. Rembrandt dipinge la Lezione di anatomia del dottor Deyman. Velázquez dipinge Las Meninas.

1656

Morte di Judith Leyster. In Inghilterra torna la monarchia con Carlo II.

1660

Inizia la seconda guerra anglo-olandese; si concluderà due anni dopo con la distruzione di parte della flotta inglese a Chatham.

Attorno a questa data dipinge un ritratto di Cartesio, oggi perduto (se ne conserva una copia al Louvre).

1661

Per l’età avanzata, è esentato dal pagamento delle quote annuali alla gilda di San Luca.

1662

La città di Haarlem gli riconosce una pensione annuale di duecento fiorini e un certo quantitativo di torba per il riscaldamento.

1664

Dipinge i ritratti dei reggenti e delle reggenti dell’ospizio dei vecchi.

1665

1666

Muore il 26 agosto, all’incirca all’età di ottantaquattro anni, a Haarlem; il 1° settembre viene sepolto nel coro della chiesa di San Bavone.

1862

Molte opere di Hals vengono raccolte nella pinacoteca civica di Haarlem, che ha sede nel palazzo comunale.

1913

Apertura del Frans Hals Museum, a Haarlem, nella Groot Heiligland, ex sede dell’ospizio dei vecchi; nella stessa strada, per qualche tempo, aveva abitato la famiglia Hals.

2012

Un ritratto maschile di Hals, già proprietà di Elizabeth Taylor, viene venduto da Christie’s per due milioni di dollari.

Ragazzi con boccale di birra (1626-1627 circa); Leerdam, Hofje van Aerden Museum.

Questo dipinto ha il poco invidiabile primato di essere stato rubato già tre volte: nel 1988, nel 2011, nell’agosto 2020. Durante l’occupazione nazista dell’Olanda era stato spostato in un luogo più sicuro, a Rotterdam, con altre opere del piccolo museo di Leerdam.

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L’autore ringrazia la direzione e lo staff del Frans Hals Museum di Haarlem per la cortese e preziosa collaborazione.

REFERENZE FOTOGRAFICHE Tutte le immagini appartengono all’Archivio Giunti, a eccezione delle pagine seguenti: 4, 8, 13b, 14b, 25, 27, 42ab, 45 (© Alamy Stock Photo/IPA; 9, 14a, 26: © Mauritshuis); 3, 30, 31, 32, 33, 34, 39 (© Frans Hals Museum, Haarlem); 11 (© Frans Hals Museum, Haarlem, photo Tom Haartsen); 12, 19, 38 (© Frans Hals Museum, Haarlem, photo Margareta Svensson); 15, 43 (© Washington, National Gallery of Art); 17, 28a, 35, 41c, 42cd

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(© Amsterdam, Rijksmuseum); 20, 22 (© New York, Metropolitan Museum); 24 (© Museumslandschaft Hessen Kassel); 28b (© bpk/ Hamburger Kunsthalle/Elke Walford); 29 (© Photo Scala, Florence/BPK, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlino); 36 (© Amsterdam, Amsterdams Historisch Museum); 37 (© Elisabeth van Thüringenfonds and Frans Hals Museum, Haarlem, photo René Gerritsen); 44 (© Prisma Archivo/Alamy Stock Photo/IPA); 47 e copertina (© Bridgeman Images).

Copia da un autoritratto dell’artista (metà del XVII secolo); Indianapolis, Indianapolis Museum of Art.

In didascalia, dove non è indicata la collocazione si tratta di collezione privata.

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