Argomentare. Dal Cinquecento al Settecento [Vol. 3]

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Argomentare

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Argomentare

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corso di filosofia

quecento cento

... Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

Il volume è stato realizzato da

!.:'opera è stata ideata e curata da Giovanni Boniolo e Paolo Vidali.

Giorgio Tognini

I problemi Che cosa possiamo conoscere?, C'è. un metodo che guida la conoscenza?, Che cos'è il linguaggio?, Come si interpreta un testo?, Qual è il sistema dell'universo?, Lo spazio e il tempo sono assoluti o relativi?, La realtà è matematica? sono a cura di

progettazione editoriale Marina Bardini

progettazione grafica Lorinda Gospodnetich

redazione

Giovanni Boniolo e Paolo Vidali, i quali hanno anche curato la parte di laboratorio delle unità Individuo e

Korygràf

impaginazione elettronica

stato: quale rapporto?, Volontà e legge: quale rapporto? Essi hanno

Cecilia Lazzeri

Serafino Cecconello

inoltre rivisto la parte didattica e predisposto i relativi piani di discussione di metà delle unità del volume.

Immagine di copertina:

Il problema Che cos'è la matematica? è a cura di Mario Piazza.

Museo Bibliografico Musicale, Bologna

Il problema Che cos'è la sostanza? è a cura di Roberto Poli.

ricerca iconografica

controllo qualità

Ritratto di Rameau,

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LIBRI DI TESTO E SUPPORTI DIDATTICI La qualità dei processi di progettazione, produzione e commercializzazione . della casa editrice è certificata in base alla norma UNI EN ISO 9001

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I problemi Che cos'è la natura?, Che cos'è la storia?, Chi è Dio? sono a cura di Mauro Sacchetto.

Il problema Com'è possibile la cognizione? è a cura di Gabriele De Anna. Il problema Qual è il rapporto tra pensiero e materia? è a cura di Eddy Carli. Il problema Pensare è calcolare? è a cura di Roberto Cordeschi e Guglielmo Tamburrini.

Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest'opera, l'editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti.

I problemi Che cos'è l'individuo?, Come educare l'individuo? sono a cura di Fabio Grigenti.

Il problema Che cos'è l'uomo? è a cura di Silvana Borutti e Flavio Cassinari. La parte tematica dei problemi

Individuo e stato: quale rapporto?, Volontà e legge: quale rapporto? sono a cura di Giovanni Fiaschi.

È vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. !.:'editore potrà concedere a pagamento l'autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all'Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell'Ingegno (AIDRO), via delle Erbe 2, 20121 Milano, tel. e fax 02.809506.

Tutti i diritti riservati. © 2003, Paravia Bruno Mondadori Editori Stampato per conto della casa editrice presso Rotolito lombarda, Pioltello (Mi), Italia. Ristampa.

Anno

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I problemi Che cosa sono il bene e il sommo bene?, Qual è il movente dell'azione morale? sono a cura di Antonio Da Re. Il problema Che cos'è il bello? è a cura di Carlo Gentili. Ha collaborato alla revisione didattica del volume e ai piani di discussione Marina Santi. Le schede sugli Autori e movimenti sono a cura di Giuliano Parodi.

Referenze iconografiche Archivio Paravia Bruno Mondadori Editori Archivio Electa Archivio Scala Robert Doisneau Elliott Erwitt Luigi Pulese/3M Willy Ronis . . Luigi Scrimaglio/3M Smith .

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!Jorsèè-pift esatto definifla,comè un-tentativo di rispàndereirdoniande difondò, poste:da,uominf inseriti in; ; ima certa cultura ed epoca :storica:: che cos:è krveri"tà? che cos'.è.·la. conoscenza? che cos·~: la .iealtà? thè• cos'è .. 'la condizione umana? che cbs' è: agiusto?'ch'e .cos'è.,._... ìl .•bene? ihe. coS' è li divino? .èhe cos'è ifbello? . . ... . .... ··'

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Ma, per pptersi dfrefilosofi o per poter affermare di. fare filosofia, non è sufficiente porsi doman-..-.. . dé fonclélrne~t~Ji; ·~é.trovare·rispqste a,.télJi'.ficli~rofessi~ne: . .-Quèst'attività non si ciovrebbE:J svolgere ciascuno di noi è-chiamato a esercitarla; riaturalrn:ente entro iconflni· delle sue·possibilità e delle s.ue c:cmoscenze, in quanto ogrìuno di noi è chiàmato suo cpmpito' di essere razionale: '• .-. -Lo Stticlio della filosofia· viene. affrontato durante. ll periodo delle scuole superiori; in uri' età in . cui si è sollecitai:ra prendere in esame, per èonferina~le o modificarle, le opinlbni _che si sono .. •·-· ricevute dallél famiglia, dall'ambiente E! dalle letture ché si· sono fatte. Per farlo, divei;lta unc?-~tiu- · mento prezioso la -familiarità. ton .i grandi pensatori del passato'. Imparate come essi hanno affrontato certi problemi fondameritélli; come hanno criticatò le risposte di altri. pens,atori e ·come hanno argomentato a favore della propria risposta può rivelarsi. un aiuto irnporta:iite quan~ .do ci si trova di fronte agli stessi problemi che, ripetiamo; sono i problemi di tutti n()i, anche se assumono, nel tempo, forme easpetti differenti.

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· La filosofia come argomentazione ··C'è una grande distinzione fra.·ciò ché èdim9strazione e ciò che è argomentazione. La.•dimo7strazione è possibile solo all'interno di un sapere formale, come lo è quello di certe scienze, dove si parte da premesse assuntecomevere_e··sidiniostra una condu~ione necessariamente vera. Invece, l'approccio filosofico rimette in gioco anche le premesse e .i principi di fpndo: anzi,

si potrebbe affermare che quando si fa filosofia si discute proprio clei'prÌfi~T~fid'f"fc:>ndo, Perquesta ragione la dimostraziòne non entra nella filosofia, che è invece carattetiii~t~cfall'argomèn­ tazione. Argomentare significa, come vedremo, portare delle buc:>ne l'aW~rit a sostégf1ò di . una certa risposta o in sostegno dell'accettazione di certi principi. Non vi è filosofia se non vi è giustificazione argomentativa di principi e di soluzioni. . . . . ...

.Studiare filosofia Nella tradizione scolastica italiana si è insegnato e si continua a insegnare la filosofia storica· .mente. Non èl'unico moçlo di farlo, ma certo ha deipregL Lo sviluppo storico ci consegna pro. blemi'vecchi e nuovi e mÒcli ye'cèhi·e nuovi di affrontélrILNel far questod insegna anche i con· . :cetti, strategie, i valori elabotati riel passat() ~: in qÙalche ca.s6Jìltrati fino a noi. · . · Ha qÌlindi un senso ripensare alla filosofiacome'a una storia, a i.uìa'narrazione-:: lo faremo anche no_· i,.. m_.a non si deve credere_ che çonoscerela storiàçlèlla filosofia equivalga a conoscerela filòsdfia. o, ancor~ inenò, a fare filosofia:' · · .. ·.. • ... · ; ; · '· ·,' .. '. . Questo Corso è stafo ideàfo e scrittÒ partire daJi~ cghceiiorié della'filosofia che àbbiaino illU~ sùatpi Per questo è stn1tturato in unità pr9blèmatiche. ciascuna delle quali approfondisce. un •interrogativo! passando. in rassegna le. pririeipali ·soluzioni e le argorr1entazioni avanzate per . sos.tenerle eia parte di pensqtori della cµltura qq~identale qi 1,m dato peri0 çlo .storico (I' antichità, .HMedioevo,J'~tà'·moderria,l'Ottocento'~HNove2ento). ··· , •. · . ·• ·••· .. ·• .· . ·. · . tè unitàsono ratcplt~ iri' ~ei gr~llai ambiti. ~°c)griuiw dei quali eideahf1ènt~-s~ddiviso in sottoàmbiti .,.: che raggrùppan6 ì pòssihlli problemi filosofici. :Atltbitfe •sottòambiti rappresen-

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il .guaclro di: riferimento .del sapere filosofico.

La:.struttùra deL cò.rso è quindi inevitabiJmènté ··contemporanea'\, anche quando affronta .il pensiero _antico o: modemq. Cjò non significà '.'.inventare". çon gli ocçhi di oggi problemi che non potevano n~scere in un altro Contesto; significa piuttosto che certe atten:zioni contemporanee (sull'ermeneutica, slllle sdenze del vivente, sulle tebrfo della mente; solo per citarne ··alcune) vengono considerate àmbiti pròbleinatid rilevànti, ·anche. se· 1a storiografia filosofica ·· •· li ha ritenuti trascurabili Iri cei;t:LperiociL . . . . . .· Ecco una pòssibile mappa dè~li àrnbiti é dei sott6àrnbiti'. •••



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. Seguenddquéstépiste, disegriilté.dal sapere filòsoficod:i'ntenipbraheo,:cer~ cheremo di affrC>rìtarèJe questidni-eJé diversè soluzicmi ché~el tempo sono state pròdotte,: Cosl ·facendo tmpareremò~ a:, porre~·problemi filosoficarnente '· ·. riléval)ti; a c::.ohfrontcire e. a criticàre;Ie- sòluziorii'a\f~.l)z~te;, àip()rre e risolvere · ·.·.·· .:. .· · , questioni filosofiche:Imparerémo'dòe ac:hirg0tne11tare filosoficamente. . . ,.··· .. · , :-. . . ·: ·.··.·· ... ''·''··' · .. '

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alti è aperta da una breve , . . .......... utile a collocare problema nelle:·sue ·pre- · messe storiche e teoriche, ed è corredata da alcuni strumenti·essenziall:·un•dlplDiOdelle· posizioni espresse e dei contributi offerti dai vari pensatori nònché un elenco del concetti daÌnentaU.che verranno messi a fuoco nel corso della trattazione.

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·. ·seguorio alcuni paragrafi; ciascuno destinato all'illustrazione della posizione di un .autore o di una scuola in merito al problema~ Per ogni autore si troveranno esposte non solo le posizioni sostenute, ma anche i presupposti e gli strumenti argomentativi che egli mette in campo; la presenza dibrevl testi, che ripropongono gli snodi fondamentali dell'argomenta~ zione dell'autore, consente di consòlidarne la comprensione, anche grazie alle esercitazioni previste per ciascun testo.

O

gni unità è completata da un ampio laboratorio, che guida a ripercorrere le argomentazioni · e le Psizioni dei vari pensatori. e insieme attiva la capacità di costruzione del ragionamento e l'esercizio degli strumenti tipici della disciplina filosofica. Un'apposita sezione del laboratorio, chiamata strumenti filosofici, è dedicata di volta in volta a un modello di argomentàzione. a un principio del ragionamento o a un nodo concettuale. in modo che nel corso dello studio sia possibile predisporre una sorta di piccolo bagaglio di "ferri del mestiere" per affrontare le questioni filosofiche. Per mettere in rapporto tutto questo con la vita reale e con l'esperienza, i plani c:U discussione si propongono come altrettanti inviti a quel gioco della.domanda e della risposta razionale in.cui consiste il fare filosofia.

C

hiude il volume un'ampia sezione dedicata ad alcuni quadri storici e culturall e ad autori e movimenti. utile a inquadrare storicamente i diversi filosofi affrontati e a ricostruirne sinteticamente il pensiero. con puntuali riferimenti alle diverse unità problematiche in cui viene evidenziato il loro contributo all'argomentazione filosofica. È, come si vede, un testo innovativo, nelle premesse da cui muove e nell'impianto che utilizza. Ma la novità sta solo nella struttura e nell'approccio didattico. La filosofia, infatti, è ed è sempre stata proprio questo succedersi di domande, risposte e nuove domande. in un dialogo inin· terrotto, anche a distanza di secoli, in cui l'essere umano cerca, con lo strumento della sùa ragio· ne. di comprendere se stesso e il mondo in cui vive.

Giovanni Boniolo e Paolo Vidali

Conoscenza del metodo, delle teorie, del linguaggio

6. Gli illuministi Lingua e progresso sociale 80 Conclusioni Il linguaggio, uno strumento per capire l'uomo 83

Come si interpreta un testo? Che cosa possiamo conoscere? I. Galilei La nuova scienza 2. Cartesio La fondazione del sapere moderno 3. Locke La via empirista 4. Leibniz L'innatismo delle facoltà 5. Hume La critica empirista alla conoscenza 6. Kant La costituzione della conoscenza Conclusioni Il soggetto legislatore dell'esperienza

12 14 16 20 24 27

Che cos'è La matematica? 42

63

Che cos'è il linguaggio?

66

6

88 89 92 95 96 99

39

I. Bacone L'induzione critica 2. Galilei Tra esperimento e dimostrazione 3. Cartesio La via deduttiva 4. Newton L'induzione sperimentale 5. Hume L'induzione come sapere probabile Conclusioni Le condizioni del conoscere determinano l'essere

I. Bacone Alle origini del dibattito moderno sul linguaggio 2. Hobbes Il convenzionalismo linguistico 3. Locke L'empirismo nel linguaggio 4. Port-Royal Dal pensiero al linguaggio 5. Leibniz Tra calcolo linguistico e lingua naturale

86

31

c~ un metodo che guida

la conoscenza?

I. I.:Umanesimo Il ritorno alla tradizione antica 2. Lutero e la Riforma protestante L'esegesi come esperienza 3. Flacio Illirico Il circolo ermeneutico fra tutto e parte 4. Galilei Il contrasto fra scienza e lettura biblica 5. Spinoza Tra senso e verità Conclusioni I percorsi dell'ermeneutica

44 48

I. Cartesio Alle origini di una scienza dell'universalità 2. Leibniz La matematica come logica dell'immaginazione 3. Newton L'unificazione di grandezza e moto

102 104

108 Ili

52 55 59

68 70

Conoscenza della realtà ~e cos'è La sostanza? I. Cartesio Sostanza materiale e sostanza spirituale 2. Spinoza

118 120

Deus sive natura 3. Berkeley

71 75 77

Esse est percipi 4. Leibniz La comunicazione fra le sostanze 5. Hume La sostanza come collezione di proprietà

126 128 136

6. Kant La sostanza come noumeno Conclusioni Diverse ipotesi sulle sostanze materiali e spirituali

144

Che cos'è La natura?

148

138

2. Galilei L' efficaèia della matematica nella teoria fisica 200 3. Berkeley La matematica come strumento per fini pratici 202 4. Kant Due livelli conoscitivi diversi 204 Conclusioni Una fisica matematizzata, quindi platonica 208

I. Bruno

La natura come animazione infinita 2. Cartesio La natµra come estensione 3. Leibniz La monade come sostanza individuale 4. Gli illuministi La natura come totalità di fenomeni 5. Kant La natura come connessione di fenomeni Conclusioni Un mondo di relazioni

Oual è il sistema dell'universo?

150 152 155 158 160 164

Com'è possibile La cognizione? I. Cartesio La nascita del problema gnoseologico nel pensiero moderno 2. Locke La soluzione empirista 3. Leibniz La critica a Locke 4. Kant Conoscenza e mondo fenomenico Conclusioni Il problema cognitivo rimane irrisolto

210

212 217 220 222 225

168

I. Copernico

La formalizzazione della tesi eliocentrica 2. Padre Clavlo e Keplero La disputa fra realisti 3. Gallie I Per l'interpretazione realistica del sistema copernicano

Lo spazio e il tempo se>no assoluti o relativi?

170 175

I. Cartesio

177

186

I. Il sostanzialismo di Newton

Spazio e tempo assoluti 188 2. Il relazlonallsino di Berkeley Spazio e tempo relativi 190 3. Leibniz e Clarke Il relazionalismo contro il sostanzialismo 191 Conclusioni Sostanzialismo, relazionalismo e la questione kantiana 194

La realtà è matematica? I. Antica Grecia e modernità Dalla fisica senza matematica alla fisica matematizzata

Che rapporto esiste tra pensiero e matena? 228

196

L'anima come res cogitans 2. Locke Le idee e l'esperienza 3. Leibniz La monade come spirito e come corpo 4. Hume Metodo sperimentale e studio della natura umana Conclusioni L'obiettivo è una conoscenza «chiara e distinta»

Pensare è calcolare? I. Ragionamento e calcolo Le questioni fondamentali 2. Hobbes Il pensiero come calcolo 3. Leibniz Il carattere algoritmico del ragionamento

230 233 235

239

242

246 248 249 252

198

7

Conoscenza della condizione umana ·e dei rapporti fra gli uomini Che cos'è l'individuo?

Individuo e stato: quale rapporto? Le domande fondamentali della politica moderna

260 262

2. Hobbes

La condizione naturale dell'umanità

265

3. Hutcheson

Il senso morale

.267

Conclusioni

Una nuova idea di individualità

306

2. Machiavelli

I. Cartesio

La mente solitaria

304

I. Individuo e stato

270

L:individualismo come rottura dell'unità medievale della prassi

308

3. Hobbes

Il potere assoluto dello stato moderno 4. Locke i.: autonomia dell'individuo dallo stato 5. Rousseau Disuguaglianza degli individui e uguaglianza nello stato 6. Kant L:universale nell'individuo

311 315

320 324

Conclusioni

La svolta kantiana e il superamento del giusnaturalismo

Che cos'è l'uomo?

329

274

I. Montaigne

L:infondabile centralità dell'uomo 2. Cartesio La duplicità dell'uomo, fondamento del suo primato

276

I. Grozio

278

3. Pascal

La miserevole grandezza dell'uomo

281

4. Hobbes

Il primato dell'uomo nel materialismo

283

Conclusioni

Come può l'uomo conoscere, volere, agire?

Che cos'è la storia?

Volontà e legge: quale rapporto? 332

286

i.: autonomia della ragione giuridica 2. Hobbes La nascita del diritto positivo 3. Rousseau Il diritto dei cittadini 4. Kant Il senso universale del diritto positivo

Come educare l'individuo? 288

La storia come progresso civile delle nazioni 295 4. Kant 297 La storia come progresso dei valori 5. Herder 299 Lo sviluppo incerto della storia Conclusioni

Conclusioni

li metodo geometrico e la svalutazione dei saperi umanistici 2. Vico li piano prowidenziale della storia

290 292

3. Voltaire

La filosofia come indagine sul senso della storia

8

301

336 341 345

352

I. Comenio

La fondazione della didattica moderna 2. Locke La formazione del carattere 3. Port~Royal La pedagogia francese del Seicento 4. Gli illuministi li progetto pedagogico dell'Enciclopedia 5. Rousseau t.:Emilio 6. Francke L:educazione pietista

I. Cartesio

334

L:educazione: un diritto dell'individuo, un dovere della comunità

354 357 359 362 364 368

369

2. Spinoza Dio, fondamento immanente della realtà 3. Pascal «Il cuore, e non la ragione, sente Dio» 4. Hume La religione come credenza naturale 5. Rousseau La religione come credenza naturale e razionale 6. Kant I..:indagine sulla metafisica

Conoscenza

del bene

Che cosa sono il bene e il sommo bene?

414 416 418

420 421

Conclusioni

I nuovi spazi della riflessione su Dio

424

374

I. Spinoza

Il bene come conservazione del proprio essere 376 2. Leibniz

La verità innata del bene 3. Kant il primato della legge morale e il bene

381 384

Conclusioni

Un costante riferimento al concetto di bene 389

Oual è il movente dell'azione

Conoscenza del bello Che cos'è il bello?

430

I. Vico Una «metafisica poetica»

432

mora~?

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2. Batteux

I. Cartesio Le passioni dell'anima

394

3. Shaftesbury

Il sistema delle "belle arti"

2. Spinoza Gli affetti delfoomo e laforza dell'intelletto 396 3. Hume il movente delle passioni 400 4. Kant Il movente della ragion pura pratica

403

Conclusioni

La positività delle passioni e il loro controllo razionale 405

Il concetto morale-estetico di entusiasmo

434 436

4. Hume

Il carattere soggettivo della bellezza

437

5. Baumgarten

Il "battesimo" dell'estetica

440

6. Kant

«Bello è ciò che piace universalmente senza concetto»

442

Conclusioni

Dall'estetica alla filosofia dell'arte

Conoscenza

del sacro e del divino chi è Dio?

Strumenti Quadri storici e culturali I.:Europa moderna I.:età del Lumi

410

I. Cartesio

Dio come oggetto di indagine razionale

451.

412

452 458

Autori e movimenti

462

Indice del brani

478

9

del

meto delle te del

linguag Che cosa possiamo conoscere? C'è un metodo che guida la conoscenza? Che cos'è il linguaggio? Come si interpreta un testo? Che cos'è La matematica?

Galilei, Cartesio, Locke, Leibniz, ' Hume, Kant Bacone, Galilei, Cartesio, Newton, Hume Bacone, Hobbes, Locke, Port-Royal, Leibniz, Condillac Erasmo da Rotterdam, Lutero, , Flacio Illirico, Galilei, Spinoza Cartesio, Leibniz, Newton

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Il rapporto tra esperienza, matematica e teoria Diventa più comprensibile, allora, il rapporto che esiste, in Galilei, tra «sensata esperienza» e «discorso». L'esperienza è la constatazione sensibile del fenomeno, l'osservazione naturale, pur potenziata da strumenti che la ampliano e la precisano. Il discorso è invece la concatenazione tra asserti, il passaggio da verità date ad altre che si mostrano necessariamente connesse (Galilei parla di «dimostrazioni necessarie»). Non si tratta di due ambiti separati. Aver reso omogenei le dimostrazioni matematiche e i fenomeni, considerati solo per le loro qualità primarie, permette a Galilei di saldare teoria ed esperienza. In un famoso passo dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed ai movimenti locali (1638), Galilei ricorda che è noto a ogni artigliere che per sparare una cannonata il più lontano possibile l'alzo più efficace è quello di 45°. Ma è decisivo spiegare perché ciò awiene .. Fornire una dimostrazione matematica di questa pratica balistica, cioè usare il «discorso dimostrativo» per raggiungere tale certezza, sopravanza ogni esperienza. In questa correlazione di esperienza, matematica e teoria, si possono fare delle previsioni che l'esperienza confermerà. La regolarità naturale, grande premessa al libro del mondo, se correttamente individuata dal discorso, permette di governare l'esperienza, in un efficace equilibrio di ragione e osservazione. Si può sollevare una critica a queste pur fondamentali affermazioni. La differenza solo quantitativa tra la matematica umana e quella divina non trova, nelle pagine galileiane, né argomentazione né spiegazione. Inoltre, tutta l'Indagine fisica di Galilei serve anche a giustificare il rac· cordo fra matematica ed esperienza: le leggi da lui scoperte, le sue teorie, le sue previsioni scientifiche possono essere viste quali forme di argomentazioni a posteriori che mostrano come l'esperienza risponda nei fatti alla corretta descrizione matematica che se ne fa.

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Conoscenza della condizione umana e dei rapporti fra gli uomini

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Verso la nuova scienza Tutto il sistema galileiano si regge su una fiducia assoluta nella matematica come strumento razionale di indagine naturale. Ma su che cosa si basa tale fiducia? Perché, anche ammesso che sia vero, la matematica fornisce una conoscenza qualitativamente superiore a quella offerta dalla scienza aristotelica? E poi, ciò non awiene al prezzo di una riduzione e forse anche di una semplificazione di ciò che può essere oggetto di conoscenza scientifica? Tali domande mostrano che l'affermazione della nuova scienza richiede una revisione ancora più profonda dei presupposti e delle categorie del pensiero moderno. Accettare questa nuova concezione della scienza naturale significa rifondare dalle basi l'edificio della conoscenza umana, e per fare questo occorre un laborioso impegno filosofico. Sarà Cartesio il primo a porvi mano.

Conoscenza del bene

Conoscenza del sacro e del divino

Cartesio (1596-1650) è il pensatore che nel periodo moderno più di altri ha collocato al c~ntro della propria filosofia il problema della conoscenza. La sua formazione matematica, oltre che filosofica, gli aveva già mostrato il valore deduttivo e il rigore del modo di procedere delle scienze formali. Su tale modello egli costruisce un generale metodo di indagine, volto a cogliere la verità necessaria non solo in rapporto agli enti matematici, ma a ogni oggetto del conoscere. Ma perché l'algebra e la geometria, a differenza di altre scienze, giungono cosl sicuramente alla verità?

Conoscenza del bello

La verità sul modello della matematica Una risposta a tale domanda viene dalle Regole per la guida dell'intelligenza (1628). I.:aritmetica e la geometria - sostiene Cartesio - sono di gran lunga le più certe fra tutte le discipline, perché

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esse sole «trattano di un oggetto abbastanza puro e semplice da non accettare nulla che l'esperienza abbia reso incerto ed esse sole, in generale, consistono in una serie di conseguenze razionalmente deducibili» (Regole per la guida dell'intelligenza, in Opere filosofiche, Utet, Torino 1981, p. 51 ). Come si vede, il successo epistemologico della matematica è connesso all'essere «puro e semplice» dell'oggetto matematico, posta la sua indipendenza dall'incertezza e dalla fallacia sensibile. In più, la natura necessaria delle dimostrazioni matematiche trasferisce alle conclusioni la verità delle premesse, permettendo di ragionare con certezza nel passare dalla verità delle premesse alla verità della conclusione. Da questa concezione derivano i presupposti della proposta cartesiana: basta infatti che ogni oggetto di conoscenza sia riconducibile a una evidenza modellata su quella matematica, oppure sia una conseguenza deducibile da evidenze di quel tipo, perché la verità diventi raggiungibile anche in ambiti diversi da quello matematico.

Le regole del metodo Nel Discorso sul metodo, un testo del 1637 che ripercorre anche autobiograficamente il suo cammino intellettuale, Cartesio giunge a formulare quattro regole metodologiche da utilizzare ogni volta in cui sia in gioco una conoscenza vera. «La prima era di non accettare mai per vera nessuna cosa che non riconoscessi tale con evidenza, cioè di evitare diligentemente la precipitazione e la prevenzione e di non comprendere nei miei giudizi nulla più di quanto si presentasse così chiaramente e distintamente al mio spirito, da non lasciarvi alcuna occasione di dubbio. La seconda era di suddividere ogni difficoltà che esaminavo nel maggior numero di parti possibili e necessarie per meglio risolverla. La terza di condurre per ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere, per salire a poco a poco, come per gradi, fino alla conoscenza dei più complessi, presupponendo un ordine anche tra gli oggetti che non si precedono naturalmente l'un l'altro. E l'ultima era di fare ovunque enumerazioni così complete e revisioni così generali da essere sicuro di non omettere nulla» (Discorso sul metodo 11637]. in Opere filosofiche, cit., pp. 144-145). Obiettivo della prima regola del metodo è la verità, garantita dall'evidenza: essa è descritta come assenza di prevenzione e precipitazione, ma soprattutto come chiarezza e distinzione che, a loro volta, derivano dalla mancanza di dubbio. Dal punto di vista logico il punto di partenza è guindi il dubbio da cui. posto e rimosso. seguono la chiarezza e la distinzione. guindi l'evidenza e infine la verità. Porre e rimuovere il dubbio è quindi il processo fondamentale da cui segue la possibilità di cogliere il vero. A guardar bene, che il soggetto del dubitare sia l'io non è enunciato, ma solo implicitamente affermato dalla struttura del discorso, tutto volto alla prima persona singolare. Il soggetto umano è il solo arbitro del dubbio e del suo superamento. La verità. in guesta prima regola. è decisa dal soggetto umano. A questa prima regola se ne affiancano altre tre che, complessivamente, generalizzano il metodo dimostrativo della matematica: l'analisi o scomposizione, la sintesi o composizione, la ricostruzione e il controllo della catena dimostrativa sono infatti i passi che vengono compiuti ogni volta che si affronta un problema matematico o geometrico. Tali passi sono diventati, in Cartesio, i momenti essenziali della conoscenza in generale.

La prima verità indubitabile: cogito ergo sum Che cosa possiamo conoscere, sulla base di tali premesse? Il primo compito di tale metodo è distruttivo, cioè critico nei confronti delle conoscenze fin qui acquisite. Possiamo essere certi della conoscenza sensibile? Assolutamente no: se i sensi hanno sbagliato una volta, come è stato, non è detto che non sbaglino ancora. Quante volte, sognando, abbiamo creduto presenti e reali fatti del tutto immaginari? Usando l'argomento pragmatico dell'e· semplo, Cartesio cosl sospende la validità di tutta ,la conoscenza sensibile. 17

Conoscenza de(:·

Ma anche se stiamo sognando, due più tre fanno sempre cinque e un quadràto è composto sempre da quattro lati. Cartesio giunge a dubitare anche di questi enunciati, ipotizzando l'esistenza di un genio maligno e potente che ci inganni ogniqualvolta sommiamo due a tre o contiamo i lati delle figure geometriche. Non esiste quindi nulla di cui, seguendo la prima regola del metodo, non possiamo dubitare? Sl, una verità esiste, ed è l'evidenza del fatto che, se dubito, sono. Il metodo cartesiano ha prodotto la sua prima verità: se dubito penso. se penso esisto (cogito ergo suml. In questo passaggio essenziale prende corpo Io spostamento moderno dall'essere al pensiero, la dipendenza dell'ontologia dalla teoria della conoscenza e dai suoi risultati. Solo ciò che è certo ed evidente è.

/( n1etod all'esperienza Ce guindi a gualcosa di sensibile>. Per esempio; lo schema del concetto empirico di cane è la regola per l'applicazione del concetto di cane al fine di unificare in. un~unica rappresentazione oggettiva quelle particolarhensazio- .... ni che provengono dahensi.; , ,

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NUCLEI TEMATICI

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Il metodo corretto comporta l'unione di intelletto ed esperienza e si basa sull'induzione per eliminazione Galilei La conoscenza naturale deve concentrarsi sugli aspetti matematizzabili della realtà; il metodo ipoteticodeduttivo procede per ipotesi e dimostrazioni Il metodo procede attraverso il dubbio, l'intuizione .e;Ja deduzione e muove da una verità indubitabile: • r:-;., • ,cq{!f' ,,.._,,,,'.• .. e go sum corretto è caratterizzato da una stretta tra formulazione di principi generali i empiriche . :,.p.che se non può mai portare a un sapere universè e'é nècessariO, può servire per produrre una conoscenza probabile fondata sull'esperienza

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l problema del metodo La ricerca di un metodo che guidi la conoscenza è un'esigenza tipicamente moderna. Certo, anche il mondo antico, con Platone e soprattutto con Aristotele, si era posto il problema dei passi necessari per raggiungere la conoscenza, tuttavia, la sua messa in discussione organizzata la si ha solo a partire dal X.VII secolo. Perché? La risposta sta nel particolare ideale di sapere che si forma nel X.VII secolo. Esso è già visibile nelle parole di Cartesio: «Intendo per metodo regole certe e facili, grazie alle quali chiunque le avrà rispettate in modo esatto non supporrà mai il falso come vero, e senza stancarsi in sforzi inutili, ma sempre aumentando per gradi la conoscenza, perverrà alla vera cognizione di tutte le cose di cui sarà capace» (Regole per la guida dell'intelligenza [1628], in Opere filosofidie, Utet, Torino 1981, p. 56). Al di là delle differenze, tutti i filosofi che in epoca moderna hanno riflettuto sul metodo possono riconoscersi in questa definizione. Il metodo. infatti. è costituito da regole, economizza le forze, seleziona gli oggetti da trattare, permette delle ipotesi, preserva dall'errore e rende possibile una conoscenza cumulativa. A quale tipo di sapere guarda una simile metodologia? A ben vedere, in questa come in altre definizioni simili, la ricerca moderna di un metodo trascina con sé una riflessione più ampia, riferita al tema della verità, al rapporto critico con il sapere tradizionale, alla natura collettiva della conoscenza, alla struttura generale del modo umano di conoscere. Si pone il problema del metodo, infatti, se c'è una teoria della verità, o almeno la fiducia nella possibilità di coglierla. Per stabilire "come" cercare occorre avere un'idea chiara di "che cosa" cercare: detto in altri termini, la metodologia presuppone e circoscrive l'ontologia.

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a critica al sapere tradizionale La riflessione sul metodo, poi, si fa più urgente nei contesti culturali di passaggio, in cui un sistema di concetti, di valori, di teorie entra in crisi e lascia il posto a un diverso sistema di riferimento, a un diverso "paradigma culturale". Si pone il problema del metodo solo se si awerte la possibilità dell'errore, solo quando domina l'insoddisfazione per i procedimenti tradizionali. Così. in epoca moderna, riflettere sul metodo diventa esercitare una critica al sapere tradizionale: nel caso della filosofia moderna la critica è rivolta alla filosofia scolastica, accusata di essere vuota e sterile, quando non addirittura dannosa per il procedere della scienza. Per questa sua natura critica, il metodo spesso si articola in una pars destruens, fatta di obiezioni, divieti e cautele, e in una pars amstnums, cioè nell'insieme di regole che debbono preservare dall'errore. Ma il metodo serve anche, nel pensiero moderno, per poter condividere la conoscenza ottenuta, per poter rendere pubblico quanto scoperto mettendo chiunque in condizione di raggiungere lo stesso risultato. C'è, in questa esigenza, una grande fiducia nel valore oggettivo della conoscenza e nella dimensione cumulativa del sapere. Una conoscenza valida e oggettiva è possibile: laddove non la si raggiunge. ciò dipende dall'assenza di un metodo o dalla presenza di un metodo sbagliato.

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iverse posizioni, diversi procedimenti Questa omogeneità di intenti non

significa uguaglianza di posizioni. I vari autori moderni che si occupano di metodologia, pur condividendone l'importanza, differiscono non poco sul tipo di descrizione del metodo migliore. Ciò dipende, per lo più, da una diversa idea di verità raggiungibile dall'uomo, per qualcuno necessaria e universale, per altri solida ma costantemente correggibile, per altri ancora sempre probabile e fallibile. Da questa diversa concezione dipendono anche i diversi procedimenti proposti. Per alcuni, come nel caso di Bacone o di Newton, si tratta di partire dall'esperienza per salire verso generalizzazioni che vanno nuovamente controllate sul piano empirico. Per altri, invece, come nel caso di Cartesio, il processo è per lo più discensivo, posto che l'uomo possiede delle conoscenze certe e indubitabili, a partire dalle quali può derivare con sicurezza conseguenze valide anche sul piano empirico. Per altri, infine, come nel caso di Hume, la conoscenza certa e universale non può venire dai sensi, il che comporta l'impossibilità di salire dall'esperienza al piano universale dei principi: ma ciò non impedisce che si diano alcune regole metodologiche per ricercare un modo accettabile di collegamento tra cause ed effetti. · Nel tema dell'arco della conoscenza emerge così il problema di fondo che sta alle spalle della riflessione moderna sul metodo: il problema del rapporto tra ragione ed esperienza.

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La figura di Francesco Bacone (I 561-1626) appare, sulle soglie del XVII secolo, come quella di un precursore. Uomo di scienza e di legge, politico influente e discusso, filosofo critico del sapere tradizionale e sostenitore di un radicale rinnovamento nello studio della natura, è uno dei primi autentici pensatori moderni. Nel descrivere i modi e gli scopi della conoscenza umana Bacone annuncia una svolta; per molti aspetti ancora oggi percepibile: la conoscenza umana non deve ripiegarsi in un sapere sterile e fine a se stesso, ma ha il compito di migliorare le con~ dizioni di vita degli uominLPer questo essa deve rivolgersi allo studio della natura, al fine di governarla proprioperché ne conosce leJeggi. Ma ciò può awenire solo se il sapere si unisce alla tecnica e se i ricercatori cooperano in un comune progetto di scienza pensata come un'impresa collettiva.

Conoscenza della realtà

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La critica al sillogismo aristotelico Bacone delinea il suo grandioso progetto di rinnovamento delle scienze in vari scritti, il principale dei quali, l'Instauratio magna, vede la luce solo parzialmente. Nel piano di quest'opera la seconda parte, intitolata Novum Organum, appare fin dal titolo esplicitamente critica verso il sapere tradizionale. L:Organon, infatti, era l'insieme di cinque libri in cui Aristotele aveva fissato i prindpi e le regole del ragionamento sillogistico: è contro questa logica di indagine che Bacone muove le sue obiezioni. Il sillogismo è considerato uno strumento inutile nella ricerca della verità, incapace di penetrare nelle profondità della natura, in grado di «costringere il nostro assenso, non la realtà» (Instauratio magna, Novum Organum, I, Il, in Opere filosofiche, Laterza, Bari I965, voi. I, pp. 259). Perché questo giudizio impietoso? Bacone giustifica questa tesi in vari modi, complessivamente riconducibili a due argomenti. Anzitutto Bacone riporta il sillogismo ai suoi costituenti: il ragionamento sillogistico - egli afferma - consta di proposizioni, le proposizioni di parole e le parole sono etichette di nozioni. Sono quindi le nozioni ciò da cui dipende tutto il ragionamento. Ebbene, se le nozioni sono confuse, tutto il ragionamento, anche se appare necessario e convincente, resta confuso. Bacone utilizza qui un argomento a priori detto di propagazione, in cui la negatività del punto iniziale si trasmette a tutta la considerazione che da quel punto deriva. La seconda giustificazione che viene addotta nella critica alla logica sillogistica si fonda sul modo di produrre enunciati generali. Il sillogismo, infatti, prevede tra le sue regole che almeno una delle premesse sia universale. Ma come si giunge a ottenere tali universali? O vi si giunge da altri assiomi, cioè sillogizzando a partire da altri enunciati universali, o Io si fa partendo dall'esperienza, che per definizione è sempre particolare. Nel primo caso nessun enunciato universale ricavato dal ragionamento permette di guadagnare una nuova verità, perché «la profondità della natura supera di gran lunga la sottigliezza dell'argomentare» (ibid.,i, 24 ). Nel secondo caso, irwece, occorre riconosceredÌe gli "assiomi" -cioè le proposizioni generali-: attualmente in uso sono ricavati da un piccolo «manipolo di esperienze», generalizzando senza ordine su pochi casi che presentano aspetti comuni. Nel primo caso Bacone usa un argomento per essenza, in base al quale il gran numero di verità che la natura nasconde non può essere colto dal nostro ragionare; nel secondo, invece, egli solleva un vero e proprio problema di metodo. Come individuare una procedura migliore per essere certi delle nostre generalizzazioni?

della condizione umana e dei rapporti fra gli uomini

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Conoscenza del bene

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Conoscenza del bello

La pars destruens: la teoria degli idoli Bacone non elude il problema che ha sollevato: se la via proposta dagli antichi appare malferma e astratta, se non «stringe da presso la natura» e non riesce a carpirle le sue verità, occorre proporre un'altra strada, cioè seguire un nuovo metodo. Per farlo, tuttavia, occorre avere presenti le difficoltà e i pericoli a cui siamo naturalmente esposti. Come uomini, infatti, tendiamo naturalmente a salire con grande rapidità da scarni partico-

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lari a esuberanti generalizzazioni. Ciò awiene perché la mente umana è esposta al rischio di false nozioni, «idoli» (idola) che assediano il nostro spirito e compromettono il corretto ragionare. Gli idoli, per Bacone, sono di quattro specie. · a. Gli idoli della tribù (idola tribus). chiamati cosl perché legati alla natura umana: seguendo tali pregiudizi tendiamo a deformare la luce delle cose in funzione di ciò che vorremmo trovarvi; cosl cerchiamo parallelismi, corrispondenze e regolarità, come quando si afferma che il

moto dei cieli è un cerchio perfetto. «L'intelletto umano - scrive Bacone - quando trova qualche nozione che lo soddisfa, o perché ritenuta vera, o perché awincente e piacevole, conduce tutto il resto a convalidarla ed a coincidere con essa» (ibid., I, 46). b. Vi sono poi gli idoli della spelonca (idola specus) che derivano dal singolo uomo. dal piccolo mondo in cui ognuno si aggira cercandovi la propria verità: l'educazione ricevuta, le esperienze personali, le idee a cui ci si affeziona fino a trasformarle in teorie generali sempre valide sono tutti casi di idoli della spelonca, da cui guardarsi prima di awiare una vera indagine naturale. c. Gli Idoli del mercato (idola fori) sono guelli che derivano dal linguaggio. strumento di scambio e comunicazione per eccellenza. Gli uomini credono di dominare con l'intelletto le parole, ma accade spesso che siano le parole a prevalere sulla ragione, imponendosi nel loro significato anche contro la realtà che dovrebbero rappresentare. Sono idoli di questo tipo termini di realtà inesistenti ("primo mobile", "fortuna"). oppure confusamente astratti dalle cose (per esempio "umido" di cui Bacone elenca otto diversi significati correnti). Questa incertezza spesso genera inutili dispute e false conoscenze, da cui guardarsi con un costante ricorso alla realtà significata dalle parole. d. Infine vi sono gli idoli del teatro (idola theatri). penetrati nell'animo umano attraverso le teorie filosofiche. Sono idoli di questo tipo molte tesi aristoteliche (il rapporto tra categorie e realtà, il moto naturale dei corpi, la concezione dell'anima come entelechia). ma non sono meno pericolosi gli idoli degli empiristi, come nel caso degli alchimisti che traggono le proprie teorie sulla base di pochi esperimenti mal condotti. L'ideale a cui guarda Bacone è quello di una conoscenza decantata dai diversi pregiudizi che affliggono l'animo umano. Ci si potrebbe chiedere, tuttavia, se tale ideale non sia, esso stesso, un idolo, magari del teatro della filosofia di Bacone. Certo questa pars destruens serve a Bacone per aprire la strada alla sua proposta di indagine. Qual è, allora, la via da seguire, una volta sgombrato il campo dagli idoli della mente umana?

BACONE, LA TEORIA DEGLI IDOLA La pubblicazione dell'lnstauratio magna avviene nel 1620, anche se la stesura del Novum Organum, che ne rappresenta la seconda parte, inizia già dal I 608. Esso rappresenta la

parte più famosa dell'opera, peraltro rimasta incompiuta, anche per la vastità del progetto. Nel Novum Organum Bacone enuncia il nuovo metodo di indagine, basato sulla cooperazione tra esperienza e ragione. Il brano riportato descrive la tipologia dei pregiu;. dizi da evitare per avviare un'autentica indagine naturale. 38. Gli idoli e le nozioni false che hanno invaso l'intelletto umano gettandovi radi-

ci profonde, non solo assediano la mente umana sì da rendere difficile l'accesso alla verità, ma

(anche dato e concesso tale accesso), essi continuerebbero a nuocerci anche durante il processo di instaurazione delle scienze, se gli uomini, di ciò avvisati, non si mettessero in condizione di combatterli, per quanto è possibile. 39. Quattro sono i generi di idoli che assediano la mente umana. A scopo didascalico li chiameremo rispettivamente: idoli della tribù, idoli della spelonca, idoli del foro, idoli del teatro. 40. L:unico mezzo per scacciare gli idoli e tenerli lontani dalla mente umana sta nel seguire il naturale sviluppo dei concetti e degli assiomi per mezzo dell'induzione vera, ma già la delineazione degli idoli è di grande vantaggio. La teoria degli idoli sta infatti alla interpretazioi:ie della natura, come la dottrina degli elenchi sofistici sta alla dialettica comune. 45



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41. Gli idoli della trifJù sono fondati sulla natura umana stessa, e sulla stessa famiglia umana, o trifJù. Erroneamente si asserisce che il senso è la misura delle cose. Al contrario. tutte le percezioni, sia sensifJili che intellettive, sono in relazione con la natura umana, non in relazione con la natura dell'universo. E l'intelletto umano è come uno specchio ineguale rispetto ai raggi delle cose; esso mescola la propria natura con quella delle cose, che deforma e trasfigura. 42. Gli idoli della spelonca derivano dall'individuo singolo. Ciascuno di noi, oltre le afJerrazioni comuni al genere umano, ha una spelonca o grotta particolare in cui la luce della natura si disperde e si corrompe; o per causa della natura propria e singolare di ciascuno; o per causa della sua educazione e della conversazione con gli altri, o per causa dei lifJri ch'egli legge e dell'autorità di coloro che egli ammira ed onora; o per causa della diversità delle impressioni, secondo che esse trovino l'animo già occupato da preconcetti oppure sgomfJro e tranquillo. In ogni modo lo spirito umano, considerato secondo che si dispone nei singoli individui, è assai vario e mutevole, e quasi fortuito. Perciò ottima è la sentenza di Eraclito: «Gli uomini vanno a cercare le scienze nei loro piccoli mondi. non nel mondo più grande, identico per tutti». 43. Vi sono ancfte idoli cfte dipendono per così dire da un contratto e dai reciproci contratti del genere umano: noi li cftiamiamo idoli del foro, riferendoci al commercio e al consorzio degli uomini. Il collegamento tra gli uomini avviene per mezzo della favella, ma i nomi sono imposti alle cose secondo la comprensione del volgo, e vasta questa informe e inadeguata attrifJuzione di nomi a sconvolgere in modo straordinario l'intelletto. Né valgono certo, a ripristinare il naturale rapporto tra l'intelletto e le cose,. tutte quellt definizioni ed esplicazioni dtlle quali i dotti si servono sovente per premunirsi e difendersi in certi casi. Perché le parole fanno gran vio,.. lenza all'intelletto e turbano i ragionamenti,. trascinando gli uomini a innumerevoli controver. . sie e consideraiioni vane. 44. Altri idoli, infine, sono penetrati nell'animo umano ad opera delle diverse dottrine filosoficfte e a causa delle pessime regole di dimostrazione: noi li cftiamiamo idoli del teatro; percfté consideriamo tutti i sistemi filosofici che sono stati accolti o escogitati come altrettante favole preparate per essere rappresentate sulla scena, fJuone a costruire mondi di finzione e di teatro. Non intendiamo parlare soltanto dei sistemi filosofici attuali o delle sette filosoficfte antiche; molte altre favole simili a quelle si possono comporre e mettere insieme, giaccfté anche dei più diversi errori le cause possono essere quasi le stesse. Dicendo ciò non pensiamo, inoltre, soltanto alle filosofie nella loro universalità, ma ancfte ai molti princìpi e assiomi della scienza cfte si sono affermati per tradizione, fede cieca e trascuratezza. F. Bacone, Instauratio magna, Novum Organum, I, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1965, pp. 264-267

Conoscenza del sacro e del divino

PER LA COMPRENSIONE 1. Tra i pregiudizi oggi operanti prova a ricercarne almeno uno per ogni tipo di idolo proposto da Bacone.

La pars construens: l'induzione per eliminazione Né la deduzione sillogistica né l'induzione classica servono allo scopo. La prima, come abbiamo visto, è sterile o fasulla, la seconda è "puerile", perché conclude senza necessità, rimanendo esposta al pericolo di un'istanza che la può contraddire. Serve un nuovo modo di operare nell'indagine sulla natura: per Bacone è il metodo dell'induzione per eliminazione. li suo compito è permettere di passare dalle osservazioni agli "assiomi", cioè alle definizioni della natura dei corpi e delle relazioni che ne regolano le trasformazioni, non solo generalizzando. ma soprattutto individuando la causa del fenomeno indagato.

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L'ordine dei dati: le tavole Come esempio di induzione per eliminazione Bacone utilizza il calore. Dovendo ricercare «la natura del caldo», si raccolgono in una prima tabula, la tavola delle.presenze, tutte le occorrenze in cui appare il fenomeno indagato (Bacone ne indica 27): i raggi del Sole, soprattutto d'estate e a mezzogiorno, i raggi del Sole riflessi e condensati, come fra i monti o fra pareti e soprattutto negli specchi ustori, le meteore infuocate, i fulmini, le eruzioni vulcaniche ecc.

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In una seconda, la tavola dell'assenza, si riportano tutti i casi in cui il fenomeno indagato non si presenta, nonostante fosse lecito attenderselo per affinità con i casi inscritti nella tavola precedente: per esempio, i raggi della Luna e delle comete, che non risultano caldi al tatto, la riflessione dei raggi del Sole nelle regioni polari, i fuochi fatui ecc. Infine in una terza, la tavola dei gradi, si indicano i casi in cui il fenomeno indagato appare a diversa intensità, dal più al meno caldo, nel nostro caso. Qui si inscrivono, tra i 41 casi riportati da Bacone, i corpi inanimati predisposti alla combustione, come lo zolfo o il petrolio, i corpi animati con le loro variazioni termiche, i corpi celesti, più o meno caldi, il movimento, che accresce il calore, come accade nei mantici ecc. A questo punto occorre eliminare i casi che non si riscontrano nella tavola delle presenze, ma solo nelle altre, o che si trovano nella tavola dell'assenza, o che crescono laddove il calore diminuisce, o decrescono laddove il calore aumenta.

La selezione delle ipotesi Solo a questo punto, condotto con ordine il rilevamento dei casi, si introducono le ipotesi che possono spiegare il calore e le si mette a confronto con le tavole, operandone così una selezione. Rispetto ai fuochi sotterranei si esclude l'ipotesi sulla loro natura celeste, data la loro distanza; quanto alla capacità di riscaldarsi propria di ogni tipo di corpo per vicinanza al fuoco o a un altro corpo caldo, si esclude l'ipotesi che il calore dipenda dalla natura interna dei corpi; quanto al ferro, che riscalda altri corpi e non diminuisce di peso, si esclude l'ipotesi che il calore sia una sostanza che passa da corpo a corpo; quanto all'acqua bollente e all'aria, ai raggi dell& Luna e delle altre stelle, si esclude l'ipotesi dell'associazione del calore alla luce, poiché esso si manifesta anche senza luminosità. Ora è possibile proporre una generalizzazione che dia ragione dei casi residui e che differisca dalle ipotesi scartate. Nel caso del calore, tale ipotesi esplicativa è il movimento, rintracciato come costante in tutti i casi presentati e in grado di spiegare, in ognuno di essi, la sua manifestazione. Si può quindi concludere, secondo Bacone, che «il caldo è un moto espansivo, costretto, svolgentesi secondo le parti minori>) (ibid., II, 20). Il metodo induttivo per eliminazione consente di scremare sia le osservazioni sia le ipote~ fil. Si eliminano le osservazioni improprie, quando si confrontano i casi delle tre tavole e così facendo si individuano delle incongruenze. Inoltre si elimina ogni ipotesi esplicativa se questa non appare plausibile a spiegare tutti i casi presenti nella prima e nella terza tavola.

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Il ruolo dell'esperienza Bacone si sforza di evitare i rischi dell'induzione per enumerazione semplice, anzitutto attraverso una sistematica osservazione tradotta nelle tavole, e più in generale rimandando a un rapporto tra ipotesi esplicativa generale e osservazione empirica "falsificante". L'esperienza più che per costruire le ipotesi serve per controllarle. eliminando quelle incongrue, Quella di Bacone si presenta quindi come un'induzione critica, dove il raccordo con l'esperienza serve a controllare le ipotesi. La riuscita del metodo baconiano si basa, però. su una premessa discutibile, cioè che sia possibile arrivare a un'unica ipotesi coerente con le tavole. Questa è un'assunzione non giustificabile in modo definitivo. Possono infatti esservi più ipotesi esplicative associabili alla totalità dei casi, cioè, nel nostro esempio, più ipotesi sulla natura del calore in grado di spiegare tutti i fenomeni presi in considerazione. È questo il. problema che la filosofia contemporanea chiamerà sotto-determinazione delle teorie rispetto ai dati.

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Conoscenza della realtà

Né ragni, llé formichè, .ma api .· · Il metodo baconiano diventa una specie di processo fatto alla natura. e come in ogni processo l'indagine è complessa, articolata e non priva di insidie. Il centro della sua attenzione è ii· passaggio dall'esperienza alle ipotesi, cioè l'ascesa dal piano dei fenomeni a quello degli "assiomi": «La via da percorrere, infatti, non è piana. ma in salita e in discesa: prima si sale agli assiomi, poi si discende alle opere» (ibid~. I, 103), Bacone si concentra nella parte ascendente, cioè nell'individuazione della forma, o natura. In ciò mostra ancora il suo debito con una fisica qualitativa, proprio negli anni in cui stava nascendo la scienza moderna attraverso l'opera di Galilei. Eppure, nonostante questa "falsa partenza", quello baconiano è un grande disegno di rinnovamento del metodo, che cerca di evitare tanto i rischi del razionalismo puro quanto quelli del semplice ricorso all'esperienza. Con una celebre metafora. Bacone ricorda che non dobbiamo essere né ragni, che ricavano da sé medesimi la tela delle loro teorie, né formiche, che accumulano dati senza saperli interpretare. L'ideale perseguito da Bacone è unire intelletto ed espe· rienza. facoltà sperimentale e razionale. La vera metafora da seguire è quella delle api, che ricavano la materia prima dai fiori e la trasformano, producendo qualcosa di nuovo, il miele.

Conoscenza della condizione umana e dei rapporti fra gli uomini

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Conoscenza del bene

alilei Tra esperimento e dimostrazione

Conoscenza del sacro e del divino

È Galileo Galilei (1564-1642) il primo a praticare. oltre che a teorizzare, un nuovo modo di indagare la natura. La scienza moderna nasce con ricerche, con ostinata fiducia nella verità di quanto attestano ragione ed esperienza, con consapevole limitazione del campo di indagine, con ipotesi ardite e con esperimenti pensati e realizzati. Anche per questo ruolo esemplare il metodo di indagine galileiano è stato piegato alle più diverse interpretazioni. Potremmo dire che ogni idea di scienza ha trovato chi, nel sostenerla, ha ricondotto le sue caratteristiche alla ricerca galileiana. Cosl Galilei è diventato volta per volta sostenitore di concezioni di scienza sensibilmen· te diverse: sperimentale, teorica, ipotetica o argomentativa, solo per citare le principali. Anche questo è il segno di una centralità che mostra quanto sia stato decisivo il ruolo delle sue ricerche per capire che cosa intendiamo oggi per conoscenza scientifica. Nella «filosofia naturale» di Galilei - era questa l'espressione con cui, fino al Settecento compreso, si definiva la fisica - confluiscono diverse tradizioni, da quella platonica, con la sua visione del reale organizzabile per strutture matematiche, a quella aristotelica, attenta alla logica, alla dialettica e all'indagine empirica, a quella archimedea. in cui l'analisi matematica viene applicata ai problemi fisici, a quetla veneziana dell'Arsenale, grandioso laboratorio di progetta·

Conoscenza del bello

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zione e produzione tecnica, a quella più generica ma non meno importante dei grandi architetti e ingegneri del Rinascimento italiano. Tutto questo già esisteva prima di Galilei, ma occorre del genio per fondere e rielaborare tradizioni cosl diverse producendo qualcosa di nuovo e di unitario. Questo genio fu tutto e solo di Galilei.

La critica agli aristotelici Anche nel ·caso di Galilei l'obiettivo critico è il sapere tradizionale, rappresentato più dagli aristotelici che da Aristotele. Essi, a giudizio di Galilei, sono incapaci di intendere le stesse ragioni del loro maestro, cioè il richiamo all'esercizio della ragione e all'osservazione dei sensi. Incatenati al principio di autorità, ritengono vero anche quello che non può più dirsi tale, date le nuove osservazioni o il potenziamento dei sensi offerto dagli strumenti, primo fra tutti il cannocchiale. Di Aristotele Galilei loda il contributo all'indagine naturale e al corretto ragionamento, mentre ne critica un certo apriorismo, talvolta l'assenza di una controllata osservazione, spesso la fedeltà a principi generali, utili forse nella filosofia ma nocivi nell'indagine naturale. In generale, come in Bacone, per Galllei la ricerca inizia guando ci si libera dai pregiudizi che derivano dall'autorità: Bacone direbbe che si tratta di idola tfzeatri. Chi indaga servendosi dei testi scritti da Aristotele o da altri autorevoli filosofi del passato non è un vero filosofo naturale ma, al più, uno storico o un «dottore di memoria». L'invito è a disputare «con ragioni e con dimostrazioni, vostre o di Aristotele, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta» (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo [ 1632 L in Le opere di Galileo Galilei, Barbera, Firenze· 1968, voi. VII, p. I 39). Come si vede, qui l'argomento di Galilei consiste nel ritenere fallace il ricorso all'autorità, che diventa falsa autorità - da qui la fallacia - quando copre la pochezza dei propri discorsi, delle proprie teorie, delle proprie ricerche. Galilei si spinge addirittura a ipotizzare che, se Aristotele tornasse in vita e potesse vedere le nuove scoperte astronomiche ottenute con il cannocchiale, sarebbe il primo a non volere «che i suoi decreti fussero .anteposti ai sensi, alle esperienze, alla natura istessa» (ibid., p. 137). Con un efficace argomento pragmatico ad ftominem. Galilei si appella al senso profondo dell'insegnamento di Aristotele, alla sua onestà intellettuale e alla sua passione per il sapere. Sulla base di questi valori egli stesso oggi sarebbe dalla parte di Galilei e disdegnerebbe la cieca adesione all'autorità professata dai suoi cosiddetti "discepoli''.

La critica alla religione Non diversa è la critica alla religione, quando viene intesa come ricorso all'autorità della Bibbia per affermare una tesi cosmologica - il moto solare - a scapito di un'altra - il moto terrestre. Qui la critica di Galilei è ancora più sottile, perché solleva il problema dell'interpretazione del testo biblico. Occorre aver chiaro il senso profondo del testo sacro per poter intendere l'indicazione che ci offre, e nondimeno bisogna saper distinguere ciò che viene scritto per adattarsi «all'incapacità del vulgo» e non per affermare una verità valida sempre. Le Scritture, per Galilei, sono rivelazione divina quando indicano «come si vadia al cielo», cioè come si guadagna la salvezza della nostra anima; non hanno. invece, nessun valore conoscitivo quando indicano «come vadia il cielo», cioè quando prospettano una concezione fisica. L'ermeneutica biblica, insomma, diventa uno strumento per superare le resistenze a una nuova idea di universo e di scienza.

La regolarità della natura e il Linguaggio matematico La metodologia dell'indagine naturale in Galilei dipende strettamente da alcune fondamentali premesse, quelle stesse che stanno alla base della sua idea di natura e di scienza. La prima e più importante è che la natura agisce in modo uniforme, si comporta, tanto nei cieli quanto sulla Terra, con una regolarità che l'uomo può conoscere. Potremmo dire che questa è la premessa di ogni progetto scientifico di indagine sulla natura. Ma, nel caso di Galilei, è una premessa che va ribadita perché, per la dottrina aristotelica, la concezione fisica dei moti terrestri possedeva sl un ordine, ma non una regolarità paragonabile a quella celeste. Uno dei gran-

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. Cono5cen:Za del metodo, delle teorie, del'

di meriti di Galilei, nel sostenere la tesi copernicana, è invece proprio l'aver unificato in un'unica descrizione la fisica celeste e quella terrestre, al punto da rendere insignificante la differenza tra i due aggettivi. Su questa base tutta la descrizione fisica può avvalersi della matematica, vale a dire di un linguaggio teorico che, fino ad allora, era stato riservato solo alla descrizione dei moti celesti, gli unici che erano ritenuti così perfetti e regolari da poter essere tradotti in espressioni matematiche. Ci si potrebbe chiedere quale sia la ragione dell'interesse galileiano a una descrizione matematica di tutta la natura. La risposta viene dalla sua convinzione che la matematica è il linguaggio originario con cui è descrivibile la natura: cercare di comprenderla dipende dalla nostra capacità di conoscerne i caratteri, cioè «triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche». D'altra parte, la conoscenza matematica è la sola nella quale l'uomo raggiunge un sapere paragonabile a quello divino. L'uomo conosce in modo processuale e parziale, Dio intuitivamente e globalmente, ma nel caso delle dimostrazioni matematiche, la necessità cui giunge l'uomo è uguale a quella cui giunge Dio. Tutto ciò permett~ di operare uno spostamento decisivo: la conoscenza naturale non deve ·«tentare le essenz~». cioè ricercare le.fÒrme aristoteliche, ma deve concentrarsi sugli aspetti matematizzabili della realtà. In un passo de Il Saggiatore (1623) Galilei ne fornisce l'elenco: figura, grandezza, spazio, tempo, moto, numero. Sono queste le qualità primarie, oggettive, indipendenti dall'osservatore e, per questo, diverse dalle qualità secondarie (sapore, odore, colore ecc.), che attribuiamo.ai corpi solo attraverso la mediazione di un osservatore: infatti, «rimosso il senziente», esse spariscono. Resta un problema, che poi è la premessa per la ricerca di un metodo: come è possibile cogliere tali aspetti oggettivi nei processi naturali? E, più in generale, come agisce la teoria, intesa come ricerca di regolarità matematizzabili, in rapporto all'osservazione?

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Conoscenza della condizione umana e dei rapporti fra gli uomini

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Conoscenza del bene

Il metodo per ipotesi e dimostrazioni Galilei non ha dedicato una specifica trattazione al tema del metodo, ma l'attenzione che vi ha posto è testimoniata da molti passi in cui illustra il modo di procedere nell'indagine scientifica. Schematizzando, potremmo raccogliere queste indicazioni in sei regole metodologiche. I. La prima regola, come abbiamo visto, è sospendere il principio di autorità: il richiamo a testi autorevoli serve fino a quando non entra in contrasto con l'osservazione empirica e la ragione. 2. La seconda regola è limitare l'indagine ad alcuni ambiti definiti, senza la pretesa di estenderla alle cause ultime o alle essenze. Questo richiamo, forse poco "filosofico'', serve in realtà come un principio di economia della ricerca: se per spiegare il moto di un corpo non serve ricorrere alla sua tendenza naturale, cioè per esempio alla sua natura terrigna piuttosto che umida, tale indagine va esclusa, per «limitarsi ad alcune affezioni» di cui possiamo avere conoscenza certa. Tali affezioni sono, principalmente, le qualità primarie del corpo e la regolarità del suo comportamento fisico. 3. La terza regola consiste nell'avere «sensata esperienza» di ciò su cui si indaga. Galilei accentua, in molte occasioni, la necessità di riferirsi a casi e fenomeni sottoponibili a osservazione e invoca questa esperienza come un valido criterio per dirimere le contese scientifiche. 4. La quarta regola è averne certa dimostrazione. I dati osservati devono scaturire dall'ipotesi su cui si sta lavorando. cioè venir dimostrati a partire da essa. La loro misura deve quindi confermare per via empirica quanto la dimostrazione matematica aveva previsto. 5. Ma la natura non sembra presentare la stessa precisione dell'oggetto matematico. Qui entra in gioco la capacità dello scienziato di ricondurre il dato osservativo alle qualità primarie. Per riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto bisogna che lo.scienziato «difalchi !cioè tolga] gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici» (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, cit., p. 234).

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6. L.:ultima regola è piuttosto un invito, quello a unire scienza e tecnica, utilizzando a pieno titolo il potenziamento dell'esperienza operato dagli strumenti. Galilei rompe definitivamente infatti il cosiddetto "tabù del naturale", sostenendo che il potenziamento dei sensi attraverso lo strumento non solo non compromette il risultato dell'osservazione, ma al contrario lo completa e lo potenzia. Anche per questo in Galilei si assiste a un consapevole passaggio dall'esperienza all'esperimento. Esso consiste in osservazione organizzata dalla ragione, che cerca di eliminare quanti più fattori di disturbo possono interferire con la verifica sperimentale dell'ipotesi di partenza. Il punto centrale di questo impianto metodologico è lo stretto rapporto tra sensate esperienze e matematiche dimostrazioni. La nozione di esperimento è la concreta applicazione di tale rapporto. È la stessa indagine naturale, anche quella di Aristotele, a seguire questa cadenza: egli infatti. scrive Galilei. sembra nei suoi testi procedere a priori, dimostrando conseguenze empiriche partendo da principi; in realtà, nell'investigazione, il procedimento è opposto: «io tengo per fermo ch'ei procurasse prima, per via de' sensi, dell'esperienze e delle osservazioni, di assicurarsi quanto fusse possibile della conclusione, e che doppo andasse ricercando i mezi da poterla dimostrare» (ibid., p. 75).

I quattro momenti dell'indagine naturale Forse la più chiara esposizione del metodo galileiano si trova in un'operetta giovanile, il Trattato della sfera (1597). in cui vengono chiaramente distinti i quattro momenti dell'indagine naturale: I. l'osservazione dei fenomeni, da cui prendere le mosse; 2. la formulazione di un'ipotesi, cioè di una supposizione generale sulla struttura dei fenomeni; 3. la dimostrazione geometrica, cioè la trasformazione dell'ipotesi in un modello matematico in grado di descrivere il processo indagato; 4. infine la deduzione di ulteriori proprietà osservabili dal modello costruito sull'ipotesi. Per questo si definisce il metodo galileiano come metodo ipotetico-deduttivo. Esso consiste in un salire e scendere l'arco della çonoscenza. Si parte dal piano dell'osservazione per concentrarsi sulle gualità primarie dei corpi. Da gui è possibile formulare ipotesi generali sulla regolarità dei processi studiati. Da gueste ipotesi. infine. è possibile dedurre conseguenze osservabili attraverso la costruzione di un adeguato esperimento.

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AULEI, LO SCIENZIATO E NATURALE In un'opera giovanile, il Trattato della sfera, Galilei si sofferma sul metodo utilizzato dall'astronomia matematica. Così facendo cadenza i quattro momenti dell'indagine: l'osservazione dei fenomeni, la formulazione di un'ipotesi, la dimostrazione geometrica e da questa la deduzione di altre proprietà osserva6ili. Qui appare un Galilei non ancora copernicano - si veda il richiamo alla Terra al centro dell'universo - ma del tutto consapevole del modo di procedere dello scienziato nell'indagine naturale.

Quanto al metodo, costuma il cosmografo procedere nelle sue speculazioni con quattro mezzi: il primo de' quali contiene l' apparenze, dette altrimenti fenomeni; e questo altro non sono che I' osservazioni sensate, le quali tutto 'l giorno vediamo, come, per esempio, nascere e tramontare le stelle, oscurarsi ora il sole or la luna, e questa medesima dimostrarcisi ora con corna, ora mezza. or tonda ed or dél tutto stare ascosa, moversi i pianeti di moti fra loro diversi, e molte altre apparenze. Sono nel secondo luogo l'ippotesi: e queste altro non sono che alcune supposizioni appartenenti alla struttura de gli orbi celesti, e tali che rispondino ali' apparenze; come sarà quando, scorti da quello che ci apparisce, supporremo il cielo essere sferico, muoversi circolarmente, partecipare di moti diversi; la terra. essere stabile, situata nel centro. Seguono poi, nel terzo luogo, le dimostrazioni geometriche; con le

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quali per le proprietà de' cerchi e delle linee rette, si dimostrano i particolari accidenti, che all'ipotesi conseguiscono. E finalmente, quello che per le linee s'è dimostrato, con operazioni aritmetiche calculando, si riduce e distribuisce in tavole, dalle quali senza fatica possiamo poi ad ogni nostro beneplacito ritrovare la disposizione de' corpi celesti ad ogni momento di tempo. G. Galilei, Trattato della sfera 115971, in Le opere di Galileo Galilei, Barbera, Firenze 1968, voi. II, pp. 211-212

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PER LA COMPRENSIONE 1. Basandoti su quanto hai letto nel brano di Galilei, prova a definire i seguenti termini: a. apparenze b. ipotesi c. dimostrazioni d. calcolo

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Nella filosofia moderna la centralità di Cartesio ( 1596-1650) deriva anche dai problemi che ha affrontato. non solo dalle soluzioni che ha•r-

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::....1GJ Le massime per una scienza dei segni Sulla base di questa articolazione Arnauld e Nicole delineano quattro massime di una scienza dei segni, utili a evitare errori e scorrettezze: I. la prima massima ribadisce l'impossibilità di concludere dalla presenza del segno la presenza della cosa significata; 2. la seconda insiste sulla possibilità. da parte di un segno. di essere a sua volta qualcosa per un altro segno; 3. da qui, terza massima, la possibilità di una cosa di essere a seconda dei casi cosa e segno, magari celando come cosa quello che svela come segno; 4. infine il segno va considerato autonomo dalla cosa significata e sussisterebbe anche se ciò che rappresenta venisse distrutto. Su questa quarta massima, curiosamente, Arnauld e Nicole portano l'esempio dell'eucarestia. Non importa, essi dicono, che il pane dell'eucarestia sussista o no nella propria natura, purché nei nostri sensi sia suscitata l'immagine di un pane che indica il modo in cui Cristo si è fatto nutrimento delle nostre anime. È interessante notare il richiamo molto insistito, qui come altrove, alla religiosità giansenista, che si esprime proprio a partire dal convento di Port-Royal. Ma soprattutto va sottolineato che questa massima semiotica serve ad accentuare proprio la dimensione materiale e corporea del segno eucaristico, il suo essere pane, non la sua dimensione sacramentale, cioè il suo diventare corpo di Cristo. È un caso in cui attraverso la semiotica passa una teologia, più interessata all'amore di Dio per l'uomo che alla dimensione sacramentale dell'atto eucaristico. Questa, assieme ad altre ben più significative prese di posizione, varrà ai giansenisti di Port-Royal l'avversione della Chiesa ufficiale e, infine, la condanna del loro movimento.

eibniz Tra calcolo linguistico e lingua naturale La posizione di Gottfried Wilhelm Leibniz ( 1646-1716) circa lo sviluppo del problema del linguaggio è curiosamente ambigua. Da un lato, prosegue nella direzione indicata dai logici di Port-Royal, cercando di costruire un linguaggio universale su basi puramente logiche; dal[' altro lato; egli mostra un interesse inedito nei confronti dello sviluppo storico delle lingue e della ricerca etimologica, dando corpo all'idea che in ima lingua si mostri non solo il pensiero umano ma la stessa esperienza di un popolo.

La «characteristica» universale Il ruolo che Leibniz ha svolto nel dibattito secentesco è complessivamente marginale: ciò è dovuto anche al fatto che i suoi testi più rilevanti sull'argomento sono stati pubblicati molto dopo la sua morte: Storia ed elogio della lingua caratteristica universale, scritto probabilmente nel 1679-80, viene pubblicato nel 1765; Sulla scienza universale o calcolo filosofiço e Sulla caratteristica, entrambi del 1686, vedono le stampe solo a metà dell'Ottocento; gli stessi Nuovi saggi sull'in77

telletto umano. un serrato confronto con la filosofia di Locke. scritti tra il 1703 e il 1705, sono stati pubblicati solo nel 1765. Tuttavia, fin dagli anni giovanili, J,,eibniz mostra un vivo interesse per la creazione di un linguaggio universale, ma non segue la strada che altri hanno intrapreso prima di lui.

Wilkins e la costruzione di una lingua artificiale Sulla scia indicata da Bacone, infatti, John Wilkins ( 1614-1672), vescovo inglese, teologo e matematico, nonché segretario della Royal Society di Londra:, aveva ipotizzato una lingua artificiale da utilizzare negli scambi tra scienziati. Il suo progetto, anticipato nello scritto Mercurio (1641), vede la luce con la pubblicazione del Saggio per un carattere reale e un linguaggio filosofico (1668). Poiché non è possibile recuperare l'originaria lingua adamitica; il superamento della diversità delle lingue può realizzarsi costruendo una lingua artificiale universale. Disponendo le nostre nozioni primitive in tavole rispettivamente indicanti nozioni di genere, differenza e specie, si può associare convenzionalmente ognuna di queste nozioni a parole composte da tre segmenti. Deba, per esempio, vuol dire "fiamma" e il suo significato deriva dalla: composizione di ' elemento. (dg). pr'imo tra gli elementi (deb,). parte 'del primo tra gli elementi (debg) che significa appunto "fiamma". La. parola così costruita, nelle intenzioni di Wilkins, esprime direttamente il concetto di cui è segno. Pur essendo aperto, il sistema proposto da Wilkins mostra non pochi limiti, primo fra tutti la necessità di fissare le tavole delle nozioni comuni. Potremmo chiederci, infatti, se la difficoltà di determinare tali nozioni non sia ben maggiore dell'invenzione di una lingua universale artificiale. Come in altre simili proposte di lingua artificiale - tra cui ricordiamo quella di Comenio ( 15921670) - l'obiettivo di Wilkins è superare una diversità linguistica awertita come negativa perché fonte di incomprensioni.

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Leibniz e la differenza dei punti di vista Il caso di Leibniz è diverso. Egli non vede nelle lingue naturali un limite da superare. La sua stessa concezione filosofica, centrata sulla nozione di monade, prevede che ogni intelletto colga la verità da prospettive diverse pur se integrabili in una nozione comune. La differenza dei punti di vista, e quindi anche dei modi di esprimersi, non è considerata negativamente da Leibniz. Lo sono, invece, il fraintendimento e l'errore che derivano da un cattivo ragionare. La sua proposta. quindi, va nella direzione di un controllo del calcolo logico. Originariamente il suo progetto prevedeva di:

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a. individuare un sistema di nozioni primitive; b. associarvi una grammatica idealizzata; c. integrarla con una serie di regole fonetiche; d. elaborare un lessico di caratteri sui quali si potesse calcolare.

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In tal modo la «cfraracterlstica», come egli la chiama. diventa il procedimento logico-linguisti· co per misurare i ragionamenti e risolvere le dispute. Leibniz si concentrerà, alla fine, solo su quest'ultimo punto, ma la necessità di stipulare un sistema delle conoscenze rimane centrale e viva, nel suo pensiero. Saranno, invece, gli illuministi che progettano l'Enciclopedia a dare corpo a questa intuizione.

La critica a Locke Il rapporto tra Leibniz e Locke fu problematico e, sostanzialmente. sterile. Il primo cercò a più riprese di misurare il proprio pensiero con quello di Locke, anche arrivando a scrivere l'opera costruita in forma di dialogo, i Nuovi saggi sull'intelletto umano, che rappresentano un commento e una critica puntuali al Saggio sull'intelletto umano di Locke. Ma anche così, dal filosofo inglese non vennero significative risposte. Circa il tema del linguaggio la critica leibniziana. si çoncentra sulla convenzionalità, un aspetto decisivo per Locke. Abbandonando questo punto fermo, Locke avrebbe lasciato spazio a una naturalità del segno che poteva preludere alla reintroduzione di quelle idee innate di cui era cri~

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tico severissimo. Ecco perché, pur essendo empirista, Locke ritiene che il linguaggio non rispecchi la natura ma rispecchi, nella convenzione delle lingue, il pensiero, l'idea. È l'idea, quindi, che si misura con la realtà naturale, non la parola. Leibniz centra la sua critica proprio su questo punto. La nostra conoscenza deriva da un patri· monio di nozioni innate e non dipende, come sostiene Locke, solo dal mondo empirico. Per questo Leibniz non ha difficoltà a sostenere un fondamento universale e naturale delle parole: esso è un'essenza. una verità colta dall'intelletto e restituita dal linguaggio. Emblematica è la polemica sulla parola "oro". Locke sostiene che quando diciamo "oro" e intendiamo un'essenza reale commettiamo un abuso. Leibniz, invece, afferma che questo uso è legittimo. perché «è verissimo che nell'idea complessa dell'oro è implicito che è una cosa avente un'essenza reale, la cui costituzione non ci è conosciuta in dettaglio se non per mezzo delle qualità, come la malleabilità, che ne dipendono» (Nuovi saggi sull'intelletto umano, lii, X, par. 17). Filalete, che nel dialogo assume la posizione di Locke (mentre Teofilo è il portavoce di Leibniz), giunge ad ammettere di «aver avuto torto a negare il riferimento alle essenze col pre· testo che sarebbe rendere le nostre parole segni di un nulla o di un'incognita. In realtà quel che è sconosciuto sotto certi aspetti potrebbe farsi conoscere in un altro modo» (ibid., par. 21). Leibniz spinge quindi Filalete-Locke a mutare posizione gnoseologica, ammettendo la conoscenza di essenze. Per raggiungere questo obiettivo, Teofilo-Leibniz Io accusa, implicitamente, di com'lnettere la fallacia pseudo-deduttiva ad lgnorantlam. Filalete-Locke sostiene infatti che finché non si giustifica un sapere di essenze, questo è falso. Ma la mancanza di giustificazione di una tesi non prova la sua falsità, né, owiamente, la sua verità: mostra solo il bisogno di effet· tuare altre indagini. Più in generale, come si può notare, la divergenza tra i due pensatori non è tanto sul ruolo del linguaggio. che continua a essere immagine del pensiero, bensl su ciò che possiamo conosce· re: per Leibniz si possono cogliere, anche se parzialmente e progressivamente, delle essenze reali che per Locke, invece, sono solo operazioni del pensiero.

E55enza e qualità in Leibniz

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Il valore delle lingue naturali Anche per Leibniz la lingua primigenia è un linguaggio perduto per sempre. Ciò che ne rimane non è una lingua, ma la modalità con cui si produce naturalmente un linguaggio. Esso nasce dal modo di vivere e di sentire le esperienze: è frutto più della sensibilità che della ragio·

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ne. Le parole nascono dai nostri bisogni; dai nostri interessi; dalle occasioni e dalle circostanze in cui la specie umana si è imbattuta. In esse si sedimenta la storia delle nostre scoperte. Studiare il linguaggio equivale ad analizzare etimologicamente le parole, a cercare le radici comuni a diverse lingue, a esaminare i fonemi, cioè i suoni; che si ritrovano simili in lingue lontane. Tanto la cfraracteristica è lo studio di un linguaggio ideale, quanto l'etimologia è lo studio delle ragioni di un linguaggio reale. Anche il linguaggio, infatti, è sottoposto al principio di ragion sufficiente, per il quale ogni ente reale ha una causa sufficiente a spiegarlo. Anche quell'apparente arbitrio che è la scelta dei termini significanti; ha delle cause in gran parte riconoscibili. I suoni che compongono molte parole sono, nella loro radice, la traccia della situazione e dell'emozione che li hanno generati. In lingue diverse, per esempio, i suoni aspri, come la "r", si trovano a designare situazioni di brusca rottura: Riss (strappo) in tedesco, rumpere (rompere) in latino, régnymi (spezzare) in greco, arracher (strappare) in francese, stracciare in italiano, per citare solo uno dei non pochi esempi portati da Leibniz. Le parole, scrive Leibniz, sono specchio dello spirito, ma il parlare non è un mero e passivo registrare. Esso è il mezzo che plasma l'esperienza e le dà voce. La lingua, per questa via, riflette la storia di un popolo. Paradossalmente il razionalista Leibniz, che crede nell'essenza di idee espresse dal linguaggio, si indirizza disinvoltamente verso la lingua storica e la .sua, analisi; l'empirista Locke, troppo impegnato a mostrare che non vi è innatismo, accentua il valore astratto e mentale dell'idea, ne fa l'unico referente del segno linguistico e così finisce pertrascurare la componente empirica e storica delle diverse lingue.

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a matematizzazione del sapere Nel periodo della "rivoluzione scientifica", che viene fissato tra il De revolutionibus (1543) di Niccolò Copernico ( 1473-1543) e i Principi matematici (1687) di Isaac Newton ( 1642-1727). le risorse concettuali della matematica sono sistematicamente mobilitate per scopi teoretici: la matematica instaura profonde relazioni con differenti aree della conoscenza attraverso un processo di "esportazione" di nozioni, tecniche, teorie e stili. Nel XVII secolo - il secolo del metodo - numerosi autori, anche profondamente diversi, assumono così il postulato filosofico di una matematizzazione generale della conoscenza umana, ossia ]'adozione della matematica come canone di intelligibilità, strumento per la spiegazione del mondo e perfezionamento della mente. La scienza è una questione di metodo e questo metodo è intrinsecamente matematico poiché la matematica è interna alla scienza. La chiarezza del metodo matematico suggerisce per analogia la possibilità di un metodo comprensivamente applicabile per acquisire, fondare e ordinare conoscenze. t:evidenza matematica diviene la fonte ispiratrice per ogni certezza razionale.

In questo arco di tempo la matematica si trasforma, aprendo nuovi territori concettuali e ridisegnando i propri confini. Le due principali linee di sviluppo della ricerca matematica, che s'intersecano con profonde prospettive filosofiche, sono l'algebra simbolica e il calcolo infinitesimale. Esplicita, non aggirabile, si rivela una duplice questione: 1. nel rapporto tra matematica e metafisica. guaii sono gli elementi fondanti che l'una fornisce all'altra? Come confrontare le loro possibilità giustificative? 2. nel rapporto tra matematica e fisica. propriamente tra geometria e meccanica. guando si può dire che un principio fisico è matematico?

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imboli, relazioni e strutture La nascita dell'algebra simbolica (ossia la teoria delle equazioni algebriche, simbolicamente espresse) è l'indice di un mutamento radicale nel pensiero matematico che ha luogo in Europa tra Cinquecento e Seicento. Questo mutamento è caratterizzato da tre componenti distinte ma interdipendenti. 1. L.:introduzione sistematica di un simbolismo matematico, quasi sconosciuto alla matematica greca e medievale, è certamente un riflesso dell'invenzione della stampa: una buona notazione diventa allora cruciale per veicolare conoscenze matematiche. Soprattutto, comincia a risultare evidente che un efficiente apparato simbolico, oltre che per la comunicazione, è anche utile euristicamente, cioè è un alleato dell'attività di scoperta vera e propria, dal momento che consente di entrare nel cuore di un problema matematico, riformulandolo in modo economico e fedele. L'economia di espressione, che segna il passaggio dall'algebra verbale all'algebra simbolica, comporta così un maggiore controllo concettuale sull'indagine algebrica e matematica in generale. Il simbolismo rende il processo del pensiero visuale, iconico, e al tempo stesso lo facilita. 2. Mentre per la matematica greca i numeri possedevano una priorità ontologica rispetto alle relazioni sussistenti fra essi, la matematica di guesto periodo adotta una mentalità strutturale, ossia considera come proprio oggetto d'indagine le strutture matematiche. La teoria delle equazioni algebriche, che è il contributo più rilevante della matematica tra Cinquecento e Seicento, può essere interpretata astrattamente come la teoria delle relazioni che valgono tra grandezze simbolizzate. Le equazioni stesse sono oggetti matematici, ciò che conta è la loro struttura generale: cosl. l'interesse dell'algebrista si sposta dalle soluzioni alle procedure di soluzione, cioè al metodo. Il simbolismo è al servizio di questa generalità, esprimendo il passaggio dal numero determinato (denotato da cifre) al numero indeterminato (denotato da lettere). ossia il passaggio dallo studio di un'equazione come: 6x2 + 5x + 1 =O a quello dell'equazione quadratica: ax2 + bx + c =O. 3. Per la matematica greca, il numero era una molteplicità determinata di oggetti definiti, cioè era sempre numero di qualcosa, riconducibile al processo del contare. Il sistema numerico era quindi circoscritto ai numeri interi positivi. Di contro, l'emergente mentalità strutturale comporta che i numeri siano svincolati dall'intuizione spaziale e fisica in genere, imponendo così un ampliamento del sistema numerico. I numeri negativi e i numeri irrazionali sono pienamente giustificati in virtù delle loro relazioni strutturali con altri oggetti matematici. I numeri che per la matematica greca erano "impossibili" su una base fisica e quindi inconcepibili. sono ora possibili. e anzi necessari. su un piano strutturale. senza riferimento a gualcosa di esterno alla struttura di appartenenza.

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artesio Alle origini di una scienza dell'universalità

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Conoscenza della realtà

Conoscenza della condizione umana e dei rapporti fra gli uomini

Con Cartesio (I596-I650). la nuova algebra partecipa a un progetto filosofico generale, un progetto per il quale il paradigma di ragionamento umano è il ragionamento matematico e il ragionamento matematico è a sua volta identificato con il ragionamento algebrico, concentrato su oggetti simbolicamente comprensibili e quindi generali: ciò che non può essere espresso algebricamente è privo della chiarezza e precisione della conoscenza matematica. L'algebrizzazione della geometria è il naturale approdo del programma della mathesis universalis, ossia la scienza dell'universalità, che ha il compito di disporre ogni ente in un ordine seriale.

Il problema dèlla dimensionalità Per i matematici greci, la traduzione delle operazioni aritmetiche di addizione e moltiplicazione in termini di costruzioni geometriche era prigioniera di un'interpretazione fisica della nozione di dimensione (un punto non ha dimensioni, un segmento ne ha una, un rettangolo due ecc.). vale a dire: I. solo elementi della stessa dimensione si possono sommare tra loro (linea retta con linea retta, rettangolo con rettangolo ecc.); 2. la moltiplicazione di due elementi si risolve nella costruzione di una figura di dimensione superiore, ossia comporta un cambiamento di dimensione (il prodotto di due linee rette è un rettangolo, il prodotto di un rettangolo e una linea retta è un parallelepipedo). In altre parole, il risultato della moltiplicazione è incomparabile con ciascuno dei fattori; 3. non è possibile moltiplicare fra loro più di tre linee rette, poiché essendo il loro prodotto un volume, si supera il numero delle dimensioni possibili.

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Conoscenza del bene

In sostanza,.la fedeltà a questa interpretazione. cioè a una concezione intuitiva e fisica dello spazio, fu responsabile della mancata geometrizzazione del calcolo da parte della matematica greca. Sul piano della dottrina filosofica, inoltre, l'unificazione di geometria e aritmetica implicava l'abbandono della concezione aristotelica circa una netta separazione di geometria e aritmetica, le quali per oggetto hanno, rispettivamente, la quantità continua e la quantità discreta.

Con Cartesio la nozione di dimensione è svincolata da un'interpretazione fisica per essere assorbita e generalizzata. dalla matematica. Nel suo scritto programmatico, le Regole per la guida d.ell'intelligenza ( I628), egli si sofferma sulla proporzione continua formata dalle potenze successive dell'incognita e che comincia con l'unità, cioè:

Conoscenza del sacro e del .divino

I : x =x : x2

=x2 : x3 = ...

Il suo ragionamento è il seguente: poiché d possono essere rapporti o proporzioni solo tra grandezze omogenee - cé;riformemente a:Ha définizié;ne ud idea negli Elementi...,. allora le potenze del.-.. ·. . l'incognita. termini•di una·proporzione,'d~vono esséreomogenee traforo e.con l'~nità.Daqui .. : . p~endedorma Jidea di ~interpr~tare le operazio~i ge~mettiche cOme rhanÌpolazioni di grandezze '· · propÒrZiOnali e omogeneeix2 e··x3 non esprimono, rispettivamente, lln quacfràto e Uil cubo av:en~ tf fati di lungh~ x, ·ma grandezze che sorio dimensionaiinente omogenee; legate•fra loro da: relaiioni . astratte, ossìa relazioni struttural(.fdunque possibile rrianipdlare ra,diçi, quadrati ~cubi ~ehza associarli a lunghezze, superfici o volumi: «la radke, il quadrato, il cubo, ecc. non sono se non · . grandezze proporzionali continue, a cui si suppone éhe sia preposta quella unità convenzionale». La matematica si occupa di grandezze generali: in ciò consiste la sua universalità. La Geometria ( I637), pubblicata come appendice al Discorso sul metodo, si apre con l'annuncio che «tutti i problemi di geometria possono facilmente esser riportati a termini tali che poi, per costruirli, non c'è da conoscere che la lunghezza di alcune linee rette». Tutto in geometria può essere quindi riconducibile a segmenti rettilinei: come l'aritmetica è costituita da cinque opera• zioni (addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione, estrazione di radici), cosl in geometria.;i;

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Conoscenza del bello

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i segmenti che si cercano sono ottenuti aggiungendo o sottraendo altri segmenti, oppure stabi· !endo delle proporzioni tra essi, una volta che si sia arbitrariamente fissato un segmento con lo stesso ruolo dell'unità in aritmetica. I numeri e i segmenti sono dungue immersi in una comu· ne struttura: le cinque operazioni aritmetiche sono traducibili in termini di costruzioni geometriche semplici.

:=±-~.~r1 -------------l'p''I----------------. CARTESIO, CASTRAZIONE

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Le Regole per la guida dell'intelligenza, scritte nel 1628 e mai completate, sono lo scritto giovanile più importante di Cartesio. In questo passo egli getta le fondamenta della sua

successiva geometria algebrica. E affinché tutto ciò sia compreso più chiaramente, è da avvertire in primo luogo che i calcolatori sono soliti indicare le singole grandezze mediante più unità, ossia mediante un numero, e noi invece in questo caso facciamo astrazione perfino dai numeri, non meno di quanto abbiamo fatto astrazione poco prima [Regola XV) dalle figure geometriche, o da qualunque altra cosa. Il che facciamo, sia per evitare il tedio di una lunga e superflua operazione di calcolo, sia soprattutto, affinché gli elementi dell'oggetto che rientrano nella natura della difficoltà, rimangano sempre distinti e non siano involti in inutili numeri; così, se si chieda la base del triangolo rettangolo, i cui lati siano 9 e l 2, il calcolatore dirà che essa è --J225 o l 5; noi invece in luogo di 9 e di l 2 poniamo a e b, e troviamo che la base è --J a 2+b 2 , e rimarranno distin· te quelle due parti a 2 e b2 , che nel numero risultano confuse. Si deve pure avvertire che è mediante il numero dei rapporti, che si debbono intendere le proporzioni susseguentisi in ordine continuo, le quali taluni nell'Algebra comune si sforzano di esprimere mediante più dimensioni e figure, e la prima delle quali chiamano radice, la secon· da quadrato, la terza cubo, la quarta biquadrato, ecc. Confesso di essere stato io stesso ingannato per molto tempo da taluni nomi; poiché mi sembrava che niente potesse esser messo di più chiaro dinanzi alla mia immaginazione, dopo la linea e il quadrato, che il cubo e le altre figure formate a similitudine di queste; e col loro aiuto risolvevo non poche difficoltà. Ma infine dopo molte esperienze mi accorsi che con cotesto modo di procedere io non trovavo mai cosa che non potessi conoscere in maniera di gran lunga più facile e distinta senza di esso; e che tali nomi debbono togliersi via del tutto, affinché non turbino l'intendimento, poiché la stessa quantità, sebbene sia chiamata cubo o biquadrato, tuttavia secondo la regola precedente, non deve essere esibita all'immaginazione che non come linea o superficie. È pertanto da notare soprattutto che la radice, il quadrato, il cubo, ecc. non sono se non grandezze proporzionali continue, a cui si suppone che sia preposta quella unità convenzionale [... ): alla quale unità la prima proporzionale si riferisce immediatamente e per via di un unico rapporto; la seconda, invece, con la mediazione della prima, e pertanto per via di due rapporti; la terza, con la mediazione della prima e della seconda, e per via di tre rapporti, ecc. Dunque in seguito chiameremo prima proporzionale quella grandezza che in algebra si chiama radice; seconda proporzionale quella che si dice quadrato, e così via. Cartesio, Regole per la guida dell'intelligenza 116281; trad. it. di G. Galli, in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari 1986, voi. I, pp. 83·84

PER LA COMPRENSIONE 1. In che cosa consiste la novità introdotta dall'algebra? 2. Quali sono i motivi che spingono Cartesio a non indicare le grandezze tramite numeri? , 3. Quali sono le conseguenze matematiche? 105

La definizione cartesiana di dimensione e la geometria algebrica La teoria delle proporzioni euclidea-eudossiana (che studia il rapporto tra grandezze sia commensurabili sia incommensurabili) è al centro del progetto geometrico cartesiano, essendo Io strumento con il quale la geometria può divenire algebrica: le scienze matematiche «tutte concordano in quanto negli oggetti considerano solo i diversi rapporti o proporzioni che vi si riscontrano» (Discorso sul metodo). Tutte le dimensioni sono rappresentabili mediante segmenti che stanno in una certa proporzione con altri segmenti: questi oggetti, immediatamente intelligibili, sono i costituenti primi dell'intuizione geometrica ed è l'intuizione a renderci certi dei metodi matematici. Nella nuova prospettiva cartesiana, la nozione di dimensione riceve cos1 un'interpretazione molto ampia, divenendo di fatto intercambiabile con le nozioni di misura, numero, lunghezza: la dimensione è «la misura e la norma» secondo cui un oggetto qualunque risulta misurabile (Regola XIV). E la mathesis universalis-scienza generale dell'ordine e della misura - finisce con il coincidere con la geometria algebrica.

Conoscenza della realtà

La classificazione delle curve L'assimilazione delle operazioni su segmenti rettilinei a operazioni su numeri è alla base della rappresentazione in termini algebrici (ossia tramite equazioni) delle curve, che è il culmine del programma geometrico cartesiano: si tratta di mettere in relazione i punti della curva con i punti di una linea retta. Per impostare un'equazione per una curva si sceglie una linea retta AB e un punto su di essa, poniamo A (di fatto Cartesio seleziona ciò che nella nostra terminologia è un asse di coordinate e un'origine). Da un punto arbitrario C della curva si traccia una linea retta CB che forma con AB un dato angolo. La posizione di C è cos1 determinata dalle linee AB e BC, che indichiamo con x e y (vedi la figura sottostante). La curva a cui C appartiene è descritta da un'equazione - espressa in termini di x e y - che specifica una proprietà condivisa da tutti i suoi punti.

Conoscenza della condizione umana e dei rapporti fra

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Conoscenza del bene

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Descrivere le curve in termini di relazioni algebriche tra segmenti rettilinei comporta per Cartesio l'esclusione dalla geometria di quelle curve che non sono soggette a questa descri· zione: le curve geometricamente ammissibili, ossia le curve che per lui godono dello status di oggetto geometrico, sono le curve algebriche, ossia quelle curve le cui equazioni coinvolgono solo le operazioni algebriche+,-, x, +,{(per esempio, cerchi, coniche, concoidi); le curve inammissibili, dette trascendenti, sono quelle che non ammettono un'equazione del genere (per esempio, cicloidi e spirali). In sostanza, i punti di una curva trascendente non possono essere costruiti in un numero finito di passi. Cartesio cos1 esclude l'infinito dalla geometria: tutto ciò che è matematicamente conoscibile può essere costruito in un numero finito di passi a partire da idee semplici.

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Conoscenza del sacro e del divino

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La definizione di analisi e sintesi Alla nuova algebra, l'algebra simbolica, è significativamente assegnato il nome di ars analytlca. L'algebra è infatti intesa come l'arte di risolvere problemi matematici. Per questo nella Geometria di Cartesio non si trovano assiomi, postulati, definizioni; l'opera, priva di un impianto assiomati~ co, non è pedagogicamente orientata. La struttura della Geometria è dunque molto diversa da quella deduttiva degli Elementi di Euclide, coerentemente con l'idea direttrice del progetto carte;

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siano: stabilire analogie tra concetti matematici, associare nozioni che hanno un'origine diversa. Nelle Risposte alle seconde obbiezioni alle Meditazioni (1641), Cartesio traccia una chiara distinzione tra il metodo analitico e quello sintetico. I.:analisi mostra «la vera via. per mezzo della quale una cosa è stata metodicamente scoperta. e fa vedere come gli effetti dipendano dalle cause»; la sintesi procede in direzione opposta, senza insegnare come la cosa è stata trovata, ma disponendo automaticamente all'assenso di verità contenute in quelle da cui si parte. In sostanza, la sintesi offre una presentazione di ciò che l'analisi ha in precedenza scoperto. La sintesi è un metodo appropriato per giustificare conoscenze matematiche, ma non per giustificare conoscenze metafisiche, poiché in un ambito metafisico risulta assai problematico stabilire quali siano le nozioni o informazioni iniziali da cui dobbiamo dedurre certe conclusioni. Infatti, per Cartesio, mentre in una dimostrazione geometrica gli assiomi sono in accordo çon l'esperienza sensoriale e dunque essi sono facilmente ammessi da ognunO,. lo stesso rion si può dire per i presupposti della conoscenza metafisica.

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SINTE~I

CARTESIO, ANALISI E .' In questo passo delle Risposte alle seconde obbiezioni alle Meditazioni (1641), Cartesio si sofferma sulla distinzione tra analisi e sintesi. La maniera di dimostrare è doppia: l'una si fa per mezzo dell'analisi o risoluzione, e l'altra per mezzo della sintesi o composizione. I.; analisi mostra la vera via, per mezzo della quale una cosa è stata metodicamente scoperta, e fa vedere come gli effetti dipendano dalle cause; sì che, se il lettore vuol seguirla, e gettare gli occhi accuratamente su tutto quel che contiene, intenderà la cosa così dimostrata non meno perfettamente, e la renderà non meno sua, che se l'avesse trovata lui stesso. Ma questa sorta di dimostrazione non è propria a convincere i lettori ostinati o poco attenti: poiché se si lascia sfuggire, senza farvi attenzione, la minima delle cose che propone, la necessità delle sue conclusioni non apparirà più; e non è solita esprimere con molta ampiezza le cose che sono abbastanza chiare per se stesse, benché ordinariamente esse siano quelle cui è d'uopo fare maggiormente attenzione. La sintesi, al contrario, per una via affatto diversa, e come esaminando le cause per i loro effetti (benché la prova che essa contiene sia sovente anche degli effetti per mezzo delle cause), dimostra, a dire il vero, chiaramente tutto quello che è contenuto nelle sue conclusioni, e si serve di un lungo seguito di definizioni, postulati, assiomi, teoremi e problemi, affinché, se si negano certe conseguenze, essa possa far vedere come queste sono contenute negli antecedenti, e strappi il consenso del lettore per quanto ostinato e testardo egli possa essere; ma non dà, come l' altra, un'intera soddisfazione agli spiriti di quelli che desiderano d'imparare, perché non insegna il metodo col quale la cosa è stata trovata. Gli antichi geometri erano soliti di servirsi solamente di questa sintesi nei loro scritti, non perché ignorassero interamente lanalisi, ma, a mio credere, perché ne facevano un sì gran conto da riservarla per sé soli, come un segreto importante. Cartesio, Risposte alle seconde obbiezioni alle Meditazioni; trad. it. di A. Tilgher, in Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari 1986, voi. li, pp. 144-145

PER LA COMPRENSIONE

1. Perché la sintesi, a differenza dell'analisi, può strappare il consenso a un lettore «ostinato e testardo»?

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L'integrazione di intellezione e immaginazione L:epistemologia matematica di Cartesio si risolve nell'integrazione di due facoltà cognitive: l'intellezione e l'immaginazione: I. l'intellezione (o concezione pura) è un processo puramente mentale che non è accompagnato da immagini. essendo capace di produrre una rappresentazione concettuale della natura di un oggetto; 2. l'immaginazione (una versione della pnantasia degli stoici) opera in relazione a oggetti corporei. producendone appropriate rappresentazioni.

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Conoscenza della realtà

.L:immaginazione è necessaria aWindagine matematica. poiché rende determinati. gli oggetti che l'intelletto apprende indeterminatamente: :per esempio, l'intellezione è capace di comprendere "l'essere cinque" :come ciò che è separato (astratto} da cinque oggetti particolari, qualcosa che è considerato come sola moltitudo, cioè una struttura indipendente dalle sue esemplificazioni; l'immaginazione fa invece corrispondere "l'essere cinque" a ciò che è concretamente presente nel mondo, non tenendo separata l'idea di numero dall'idea dell'oggetto numerato. Applicare la matematica significa afferrare, tramite l'immaginazione, queste concrete determinazioni: complessivamente l'immaginazione permette di essere persuasi della verità della matematica. L:immaginazione garantisce inoltre la possibilità della conoscenza simbolica, consentendoci di cogliere il legame tra i simboli, materialmente esistenti, e le grandezze simbolizzate. Per esemplificare la differenza tra immaginazione e intellezione, Cartesio nella Sesta Meditazione fa l'esempio del chiliagono, un poligono di mille lati uguali: tale figura risulta per noi inimmaginabile, cioè non visualizzabile, e tuttavia siamo perfettamente in grado di concepirla e di conoscere le sue proprietà geometriche. Così concepiamo un chiliagono e ce ne formiamo una rappresentazione puramente concettuale, con la medesima facilità e rapidità con cui concepiamo il fatto familiare che un triangolo è composto di tre lati.

Conoscenza della condizione umana e dei rapporti fra

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eibniz La matematica come logica dell'immaginazione Conoscenza del sacro e del divino

Per Gottfried Wilhelm Leibniz ( 1646-1716), la questione della relazione tra matematica e filosofia, ossia della delimitazione dei loro campi, si risolve nel differente statuto epistemologico dei rispettivi oggetti: la matematica è «la scienza delle cose immaginabili», la metafisica è «la scienza delle cose intellettuali». L:uso della dimostrazione e di procedure simbolico-formali rende il ragionamento matematico più libero del ragionamento metafisico riguardante oggetti puramente intelligibili, il pensiero e l'azione, poiché ci permette di accorgerci degli errori. Nel ragionamento matematico, la dimostrazione ha dunque un duplice ruolo, regolativo e critico. La matematica è la logica dell'immaginazione, ossia la scienza che studia ciò che cade sotto l'immaginazione. È dunque nel pensiero che risiedono le condizioni di verità della matematica . L:immaginazione s'interessa della qualità (similitudini e differenze delle forme, oggetto della combinatoria) e della quantità (numero, grandezza e figura, rispettivamente oggetto di aritmetica, algebra e geometria). A differenza di Cartesio, Leibniz perviene a una definizione del concetto di numero: il numero è ciò che è omogeneo all'unità (Principi metafisici delle matematiche, 1714). Questa definizione è gene· raie perché si applica tanto ai numeri naturali, quanto ai numeri razionali, irrazionali, immagi· nari e trascendenti come 7t. Essa implica che l'unità non sia la grandezza minima, come è evi· dente se si considera il rapporto l/n, quando n cresce all'infinito.



Conoscenza del bello

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La cogitatio caeca e il calcolo Mentre per Cartesio il metodo è una sorta di conversione filosofica della mente, che di fatto si risolve nell'adesione a una serie di precetti che rendono affidabile la nostra conoscenza, ,Qgr Leibniz il metodo ha un intrinseco carattere operatorio. essendo lo strumento o arte generale per costruire algoritmi: è infatti il processo stesso del ragionamento umano - che si compie tramite sequenze di simboli - ad avere un carattere algoritmico che opera in modo simile a un algoritmo algebrico. Ricordiamo a questo proposito che un algoritmo è una procedura effettiva (cioè finitamente descritta e specificata in anticipo) che risolve un certo problema (matematico) in un numero finito di passi discreti; per esempio, la sequenza di passi per trovare il massimo comune divisore di due numeri è un algoritmo. Esiste un alfabeto del pensiero umano che è matematicamente strutturato: le conclusioni derivanti da questi elementi primitivi possono essere scoperte tramite un calcolo, allo stesso modo in cui si risolvono i problemi aritmetici e geometriçi. Leibniz si lascia allora tentare dal progetto della costruzione di un linguaggio simbolico (la caratteristica universale) con cui ogni ragionamento può essere espresso. Leibniz chiama il pensiero simbolico cogitatio caeca, a sottolineare il fatto che le cifre, le lettere e i simboli, possedendo un'organizzazione e una dinamica proprie, ci esentano dal richiamare alla mente, di volta in volta, le nozioni a esse corrispondenti: la cogitatio caeca, o symbolica, riesce cioè a guidarci alla risoluzione di problemi senza che sia necessario esplicitare tutto quel che sappiamo sui concetti o sulle idee a cui i simboli si riferiscono. Ciò abbrevia, e quindi in definitiva rende più sicuro, il nostro percorso cognitivo: i simboli, scelti appropriatamente, ci mettono a disposizione «una specie di filo meccanico del meditare». La razionalità operatoria dell'algoritmo. la sua forma logica. rende superflua l'intuizione.

Un nuovo algoritmo per trattare oggetti geometrici, basato sulla nozione di quantità generale, e capace di operare oltre l'ambito dell'algebra ordinaria, implementa il "ragionamento cieco": il calcolo infinitesimale. Per Leibniz il calcolo è un ragionamento cieco perché possiamo fare affidamento sulla sua efficacia computazionale anche dimenticandoci della sua motivazione o interpretazione geometrica: per usare il calcolo non è insomma richiesta una consapevolezza geometrica, cosl come un abaco può esserci utile anche se ci dimentichiamo perché i suoi componenti si devono muovere in una certa maniera. I..:efficacia algoritmica rende allora irrilevante - matematicamente - ogni questione metafisica circa l'esistenza della più problematica com· ponente del nuovo calcolo: l'infinitesimo.

Il calcolo infinitesimale Il calcolo infinitesimale fu creato indipendentemente e in modi diversi da Leibniz e Newton (impegnati tra l'altro in un'acerrima disputa di priorità). anche se le sue origini sono rintracciabili nel tentativo dei geometri greci di determinare la lunghezza o area delle curve mediante una linea retta connessa alla figura (per esempio, la circonferenza di un cerchio è espressa in termini di un raggio). Espressione matura di questo tentativo è il cosiddetto "metodo di esaustione": Archimede (287-212 a.e.) approssima la circonferenza di un cerchio tramite un poligono regolare iscritto e un poligono regolare circoscritto, entrambi di 96 lati: il risultato è un multiplo del raggio.

• l:infinitesimale secondo Leibniz...

ziazione, che consiste nel prendere la

Nel Seicento la tradizione del metodo di esaustione e il concetto medievale di infinitesimale (o infinitamente piccolo) confluiscono: Leibniz afferma a più riprese che la chiave per comprendere il suo calcolo è concepire una curva come un poligono di infiniti lati; d'altro canto una tangente a una curva può essere concepita come una linea retta che congiunge due punti della curva a una distanza infinitamente piccola. Nel 1684 egli pubblica sugli Acta Eruditorum una breve memoria, Nuovo metodo per i massimi e i minimi, in cui espone un "nuovo metodo" per studiare le curve. Leibniz definisce un'operazione sulle variabili, la differen-

differenza tra due valori infinitamente vicini delle variabili (i differenziali) e presenta le regole elementari per trovare i differenziali delle somme, sottrazioni, moltiplicazioni. divisioni, potenze e radici. La differenziazione si può anche applicare ai differenziali, essendo i differenziali stessi delle variabili: il differenziale della variabile x, ossia l'incremento infinitesimale, è indicato con dx. In sostanza, Leibniz concepisce l'infinitesimale come ciò che rende commensurabili fra loro tutte le grandezze: le curve trascendenti - che per Cartesio non erano oggetti geometrici - possono ora essere considerate omogenee alle linee rette. In una Jet-

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tera del 1702 Leibniz paragona la nozione di infinitesimale alle radici immaginarie come -../-2 che sono utili e necessarie per esprimere grandezze reali: essa è una finzione ben fondata la cui forza consiste nel potere algoritmico.

Conoscenza della realtà

Conoscenza della condizione umana e dei

• ... e secondo Newton

li calcolo infinitesimale di Newton, sviluppato intorno al 1665 (ma la sua prima esposizione fu pubblicata solo nel 1687 nei Principi), è equivalente a quello leibniziano, ma è ispirato dalla cinematica. Egli concepisce le grandezze matematiche come generate da un moto continuo: le linee sono gene-

nozione di quantità infinitesima o evanescente («fantasmi di quantità scomparse» egli chiama sarcasticamente gli infinitesimali): come può una quantità non divenire né più grande né più piccola, aggiungendo e sottraendo il suo infinitesimale? Per il vescovo Berkeley la correttezza dei risultati del calcolo infinitesimale si regge su una sorta di compensazione degli errori. Nel XVII e XVIII secolo i matematici forniscono una base diversa del calcolo infinitesimale, che riceve finalmente una rigorosa fondazione con Kart Weierstrass ( 18151897), nella seconda metà dell'Ottocento.

La dimostrazione matematica Rispetto al rapporto analisi/sintesi, indissociabile e complementare, Leibniz ha una concezione che risulta opposta a quella di Cartesio. Per Cartesio la sintesi, identificata con la deduzione, è una strategia per presentare verità già disponibili, ma incapace di produrne di nuove; per Leibniz. la sintesi è invece un metodo di scoperta vero e proprio che mostra in che

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modo le verità matematiche sono sistematicamente connesse fra loro e dunque estende la nostra conoscenza.

La sintesi non è solo una messa in forma razionale, rria esprime !;ordine naturale, l'evoluzione necessaria dei nostri pensieri: proprio perché la sintesi rivela l'ordine naturale del pensiero (ma rivela anche che il pensiero ha un ordine), la sua fondazione - ossia il «trovare certe progressioni» - è «un lavoro che vale in perpetuo», a differenza dell'analisi che è «maggiormente necessaria in pratica per risolvere i problemi che si presentano>> e che dunque è meno generale (Sulla sintesi e sull'analisi universale, 1679-1680 ca). . Di conseguenza, mentre Cartesio insegue il progetto di emancipare la matematica dalla logica, concentrandosi piuttosto sulla corrispondenza tra algebra e geometria. Leibniz cerca di far emergere le procedure e le esigenze logiche che sono proprie della matematica: per il primo, ciò che caratterizza la matematica è la soluzione di problemi, per il secondo è la sua capacità di strutturare la conoscenza a partire da pochi principi.

Conoscenza del bene

Conoscenza del sacro e del divino

rate per moto continuo di punti, le superfici per moto di linee e i solidi per moto di superfici. Queste quantità generate sono le fluenti e la velocità di generazione della fluente è la flus-sione. Se la fluente x ha per flussione m, essa diventa dopo l'istante infinitamente piccolo O, x + m O. li calcolo di Leibniz è superiore a quello newtoniano per la sua notm;ione: la lettera d indicante l'operazione di differenziazione conferisce a questa operazione un'autonomia sufficiente per essere soggetta al calcolo. Nel Settecento George Berkeley (1685-1753), nel suo pamphlet J..:Analista (1734). sottopone a una dura critica la

La scomposizione delle definizioni Leibniz impara da Aristotele che la definizione è una sorta di numero, in quanto è divisibile in elementi indivisibili: le definizioni, cioè, sono scomposizioni e la dimostrazione deduttiva·. è una catena di definizioni. Nei Nuovi saggi sull'intelletto umano, scritti nel 1703-1704, egli presenta una dimostrazione della proposizione aritmetica 2 + 2 = 4: tale proposizione, pur essendo autoevidente, può e deve essere dimostrata. Questa dimostrazione è epistemicamente informativa perché rivela gli ingredienti concettuali che sono impliciti nella proposizione e il modo in cui essi si combinano fra loro. In sostanza, l'obiettivo filosofico di Leibniz - contro John Locke ( 1632-1704) - è quello di mostrare che anche una verità autoevidente può dipendere da altre verità: la verità della proposizione 2 + 2 = 4 dipende infatti da opportuni assiomi e definizioni. Occorre dunque scindere le nozioni di autoevidenza e di verità: l'autoevidenza di una proposizione p non dipende dalla dimostrazione di p (p può infatti apparirci autoevidente anche senza averla dimostrata), ma la verità di p dipende sempre e soltanto dalla sua dimostrazione.

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--------------i:~'(i::Tt--------------..... LEIBNIZ, CHE COS'È UNA DEFINIZIONE In questa lettera al giurista Hermann Conring, del 19 marzo 1678, Leibniz articola la

sua teoria della definizione. La dimostrazione è il ragionamento per il quale una proposizione diviene certa. Il che avviene ogni volta che si mostra che essa necessariamente consegue da premesse (che si assumono certe). [... ) La dimostrazione è una catena di definizioni. Poiché nelle dimostrazioni di qualsiasi proposizione non si impiegano se non definizioni, assiomi (ai quali qui vengono ridotti i postulati), i teoremi già dimostrati e gli esperimenti. Dovendo i teoremi a loro volta venir dimostrati, e potendosi dimostrare tutti gli assiomi eccetto le identità, risulta infine che tutte le verità si risolvono in definizioni, proposizioni identiche ed esperimenti (quantunque le verità puramente intelligibili non abbiano bisogno di esperimenti). [... ) La definizione di una idea composta consiste nella scomposizione di essa nelle sue parti, allo stesso modo in cui la dimostrazione non è altro che la risoluzione di una verità in altre verità già note. E la soluzione di un problema in quanto deve essere elaborato, è la risoluzione del problema in altri problemi più facili, ossia che già sappiamo di poter risolvere. Questa è la mia analisi, già provata nella matematica come nelle altre scienze, e destinata al successo. Se qualcuno non ne avesse un'altra, mi meraviglierei se quella alla fine non si ridu~ cesse a questa o non ne fosse una parte o un corollario. G.W. Leibniz, Lettera a Hermann Conring del 19 marzo 1678, in Scritti di logica, a cura di F. Barone, Laterza, Roma-Bari 1992, voi. II, pp. 436-438

PER LA COMPRENSIONE 1. Qual è per Leibniz La strategia generale per risolvere un problema?

ewton LUnificazione di grandezza e moto Il programma della matematizzazione della fisica che si sviluppa nel Seicento, ossia la rico~ struzione dei fenomeni naturali entro il campo dell'intelligibilità matematica, raggiunge il suo apogeo con i Principi matematici della filosofia naturale ( 1687 1, 1713 2, 17263) di lsaac Newton ( 16421727), dove la dinamica è presentata da un rigoroso punto di vista matematico: lo scienziato inglese formula le leggi del moto ed elabora la teoria della gravitazione universale. Sebbene i Principi siano organizzati in una tradizionale forma sintetica (con assiomi, proposizioni, lemmi, teoremi e corollari) che guarda inevitabilmente al modello della geometria di Euclide, le scoperte newtoniane furono ottenute interamente per via analitica, come il loro autore non mancò di sottolineare. Ancora una volta, quindi, assistiamo a una separazione tra la procedura con cui sono acquisite nuove conoscenze e la procedura con cui esse sono giustificate L'analisi - come Newton sottolinea nella seconda edizione dell'Ottica ( 1717) - è un elemento essenziale della filosofia sperimentale, poiché ci permette di «procedere dalle cose composte alle cose semplici, dai movimenti alle forze che li producono e in generale dagli effetti alle loro cause».

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Matematica, geometria e meccanica Per Newton la matematica è la controparte più legittima e stabile possibile di oggetti o processi fisici che sono idealizzati o semplificati nel corso della nostra indagine sulla natura. Ciò comporta una duplice conseguenza: da un lato, il definitivo abbandono degli immediati dati di senso della scienza aristotelica; dall'altro, il fatto che la matematica, e la geometria in particolare, non hanno un'origine autonoma, anche se possono essere studiate indipendentemente dalle loro applicazioni alla conoscenza fisica: Nella prefazione alla prima edizione dei Principi, Newton delinea la propria posizione sulla relazione tra la geometria e la realtà fisica: i principi della geometria «sono presi altrove», nella meccanica; la geometria «si fonda sulla prassi della meccanica, e non è nient'altro che quella parte della meccanica universale !sia razionale sia praticai che propone e dimostra l'arte di misurare accuratissimamente». Di conseguenza, la grandezza è una maniera matematica di considerare il moto, e dunque il moto è a sua volta analizzabile in termini di grandezza: questo spiega il motivo per cui Newton, senza contraddirsi, può riferirsi ai «principi matematici della filosofia naturale» e nello stesso tempo ritenere che questi stessi principi abbiano un'origine extramatematica. Già Thomas Hobbes (1588-1679), nel li corpo (1655) aveva considerato le figure geometriche come il risultato di un movimento. Quasi tutte le scienze matèmatiche, sostiene Newton, sono originate dalla meccanica. Così, nel presentare il proprio calcolo delle flussioni, in cui le grandezze matematiche sono considerate «non come costituite di parti piccole a piacere ma come generate da un moto continuo», Newton si premura di osservare che «queste generazioni hanno veramente luogo in natura, e si osservano ogni giorno nel movimento dei corpi» (Sulla quadratura delle curoe, 1704 ). In altre parole, il calcolo delle flussioni è fondato su concetti cinematici: è proprio in quanto deriva dalla natura che per Newton il suo metodo delle flussioni è superiore a quello di Leibniz.

Conoscenza della realtà

Conoscenza della condizione umana e dei rapporti fra gli uomini

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Conoscenza del bene

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Il sensorio comune, intermedio fra i sensi e l'intélletto Seguendo la tradizione del De anima di Aristotele, Leibniz riconosce poi che, oltre ai sensi esterni, c'è anche un senso (o sensorio) comune che serve per percepire proprietà che appartengono a diversi sensi e non sono specifiche di uno solo di essi. Si tratta, per esempio, delle proprietà di numero, estensione, figura, massa, movimento, quiete e grandezza. -

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Conoscenza del metodo, delle teorie, del linguaggio

Il sensorio comune è intermedio fra il piano dei sensi e quello dell'intelletto. Da una parte, esso è in rapporto con l'esterno (come i sensi veri e propri), dall'altra ha a che fare con le idee dell'intelletto puro. Per questo motivo il sensorio comune ci offre idee che ci connettono con l'esterno e che contemporaneamente, a differenza delle percezioni vere e proprie, sono di tipo analitico, owero sono definibili e possono far parte di argomentazioni e deduzioni. Perciò, Leibniz chiama conoscenza distinta il sapere relativo al sensorio comune . La conoscenza chiara e confusa dei sensi esterni e la conoscenza chiara e distinta del sensorio comune compongono il senso interno dell'immaginazione. Leibniz distingue quindi tre livelli di conoscenza:



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I. quella puramente sensibile; 2. quella che è contemporaneamente sensibile e intelligibile; 3. quella puramente intelligibile.

L'analisi del concetto di ""estensione" Leibniz studia a lungo le idee che caratterizzano il sensorio comune. Vediamo per esempio la sua analisi del concetto di "estensione", con la quale mostra che la concezione di Cartesio, secondo cui l'estensione è il tratto fondamentale e irriducibile della sostanza corporea, è in fin dei conti errata. Per ottenere tale risultato, Leibniz fa vedere che l'estensione è scomponibile in idee più elementari, quelle di pluralità, continuità e coesistenza. Merita anche notare che ognuna di tali proprietà appartiene pure ad altre realtà: la pluralità è comune a estensione e numero, la continuità a estensione e tempo, mentre la coesistenza è comune sia alle cose estese sia a quelle non estese. Per avere estensione ci deve quindi essere qualcosa che si ripeta continuamente oppure ci devono essere più oggetti coesistenti. L'estensione in definitiva richiede qualcosa che sia esteso. Non è un carattere originario, ma necessita di un soggetto. La teoria dell'appercezione di Leibniz è anche il punto di partenza della sua teoria della sostanza. Per Leibniz, il concetto di sostanza deriva dalla consapevolezza che accompagna le percezioni coscienti. dal pensiero cioè che una certa.percezione sia una mia percezione «E quando concepisco che anche altri esseri possono avere il diritto di dire me, o che si potrebbe dirlo per essi, è così che concepisco ciò che si chiama la sostanza in generale» (Lettera alla regina Sofia Carlotta; trad. it. in Scritti filosofici, Utet, Torino 2000, voi. I, p. 531 ).

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Conoscenza della condizione umana e dei rapporti fra gli uomini

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Conoscenza del bene

La realtà e i suoi indizi La grande attenzione dedicata alla percezione e alle sue proprietà non fa dimenticare a Leibniz che quando descriviamo il mondo. noi descriviamo gli oggetti delle nostre percezioni e non le percezioni stesse In altre parole, se è ben vero che possiamo "vedere" il mondo solo attraverso il filtro dei nostri concetti e dei nostri sensi, non per questo dobbiamo pensare che gli oggetti delle percezioni riguardino i sensi invece del mondo. Leibniz sa molto bene che si tratta di un problema particolarmente delicato (e sembra quasi prevedere quello che succederà nella filosofia a lui successiva, per esempio con la "rivoluzione copernicana" di Kant). Per capi· re il problema, proviamo a porci la classica domanda dello scettico: come facciamo a sapere che i fenomeni che percepiamo sono reali? Una delle risposte di Leibniz è la seguente: possiamo sapere che i fenomeni sono reali per• ché diversi indizi ci inducono a pensarlo Leibniz distingue in tal senso tre tipi di indizi:

G) ConÒscenza del sacro e del divino

I. indizi interni al fenomeno stesso; 2. indizi legati ai fenomeni precedenti; 3. indizi legati ai fenomeni successivi.

Conoscenza del bello

La classe degli indizi interni al fenomeno è quella più ricca. Fra essi si possono menzionare i caratteri di vivezza (quando il fenomeno presenta qualità sufficientemente intense), moltepli· cità (quando il fenomeno presenta molte diverse qualità che possono essere sottoposte a verifica e indagine) e congruità (quando il fenomeno è legato ad altri fenomeni in un modo di cui si può rendere conto per mezzo di opportune ipotesi). Nel caso degli indizi legati a teno-

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meni precedenti e successivi, il principale elemento che entra in gioco è quello del criterio di congruità: i fenomeni sono legati fra loro in un modo di cui si può rendere conto.

La materia prima, divisibile all'infinito e dinamica Per Leibniz, sia la scienza dei suoi tempi sia la filosofia sono conciliabili con la dottrina di Aristotele. Lo si vede, per esempio, nel suo recupero e nella sua interpretazione della teoria della materia prima. Seguendo Aristotele e Cartesio, anche per Leibniz il carattere fondamentale della materia prima è quello di essere divisibile all'infinito. Il secondo è di avere moto, cioè di essere dinamica. Leibniz si distingue dai suoi predecessori per l'immensa importanza che assegna al problema scientifico e metafisico del movimento. In effetti, le teorie di Leibniz sono fortemente dinamiche. Per Leibniz la materia prima può essere considerata come una specie di fluido indifferenziato e indistinto. Le forme che ne emergono e le parti che lo compongono derivano dall'incessante moto interno che opera in questa specie di fluido originario. Senza il movimento non ci sarebbe alcuna distinzione né alcuna parte. Nella materia prima tutto deriva dal moto e tutto si dissolve nella quiete. Senza il moto, in essa non ci sarebbe alcuna differenza.

L'importanza del moto e l'assenza di vuoto Il moto segmenta. divide. scompone la materia prima introducendo confini e quindi discontinuità. Da un punto di vista teorico, si possono distinguere due tipi di discontinuità:

I. una discontinuità che separa le parti che vengono distinte e che quindi non sono più contigue fra loro; 2. una discontinuità che è compatibile con la contiguità delle parti. Nel primo caso si può ammettete il vuoto, nel secondo no. La differenza è molto importante. Se viene accettato il primo tipo di discontinuità (quello che ammette il vuoto), si è costretti ad accettare che almeno alcune forme siano state create sin dall'inizio assieme alla materia, e quindi si deve concludere che non c'è solo la materia prima, ma anche la forma prima. Se si accetta il secondo tipo di discontinuità, si può sostenere che tutte le forme sorgono per via del moto. La teoria della materia di Leibniz implica che in natura non ci sia il vuoto, ma che tutto sia pieno. Inoltre, tutto è in movimento. I corpi solidi sono delle strutture momentaneamente· coese, che però possono sempre sciogliersi ed eventualmente formare altri oggetti. La materia è tutta dinamica, percorsa da innumerevoli movimenti che la dividono in punti diversi in modi differenti. La materia, inoltre, non è mai né totalmente rigida né totalmente fluida perché ciò che è rigido può diventare fluido e ciò che è fluido può diventare rigido. Inoltre essa non contiene alcun elemento minimo assolutamente rigido (cioè non divisibile o fluidificabile) o assolutamente fluido (non irrigidibile). Oltre all'idea di materia prima, Leibniz dedica molta attenzione all'idea di corpo e sviluppa una sua originale teoria dei corpi.

I corpi come aggregati di elementi Per Leibniz tutti gli oggetti o corpi sono aggregati di elementi elementari. La loro unità deriva dalla nostra percezione e dalla nostra mente che li osserva e che li riconosce come un corpo (un sasso, t}n albero. un uomo). Per questo motivo si può dire che i corpi hanno una realtà semimentale: la loro unità non è intrinseca. ma dipende da qualche percezione. La loro realtà deriva dall'unificazione effettuata dalla mente.

Questa funzione unificatrice della mente non procede però a caso. Non si tratta infatti di prodotti arbitrari della nostra fantasia. L'unità assegnata dalla mente opera a partire da un fondamento che è costituito dagli elementi che formano l'aggregato. Sia l'unificazione fornita dalla mente sia il suo fondamento hanno una loro forma di unità: nel secondo caso infatti interviene quella che Leibniz chiamerà monade (o forma sostanziale). L'idea leibniziana di monade è piuttosto sofisticata e deriva, come vedremo, dall'analisi di alcuni

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Conoscenza del metodo, delle teorie, del linguaggio

profondi problemi. Per ora ci limitiamo a notare che la monade, poiché agisce come momento di unità intrinseca dell'aggregato, risulta perfettamente analoga all'idea di anima. Per questo motivo, Leibniz sostiene che le monadi sono spirituali. E come le anime, le monadi sono indivisibili, indistruttibili e ingenerabili. In realtà, però, non tutti i corpi sono realmente unificati. Oltre ai corpi unificati dalla presenza di una monade, abbiamo anche i meri aggregati, corpi privi di forma sostanziale che non hanno una vera unità (come un mucchio di pietre, un blocco di marmo, il cadavere di un animale, un tavolo o un vaso). A differenza dei meri aggregati, tutti gli esseri organici (piante e animali) sono unificati dall'azione di una monade. Riassumendo: i meri aggregati ricevono unità esclusivamente dalla nostra attività mentale. I corpi invece possiedono sia un'unità indipendente dalla nostra attività mentale (guella fornita dalla monade) sia un'unità secondaria che dipende dalla nostra attività mentale. Per Leibniz, gli aggregati organici sono di gran lunga più rilevanti degli aggregati inorganici perché in ultima istanza i primi fondano i secondi (e non viceversa, come si potrebbe ingenuamente pensare!). Un corpo inorganico è un corpo la cui parte organica è per così dire dormiente, in attesa delle condizioni per potersi attivare. Torniamo all'attività unificatrice della mente per chiederci quali siano gli elementi di base a partire dai quali la mente può esercitare la sua opera unificatrice. Per sapere come procedere, ci servono delle ipotesi di lavoro. Cerchiamo quindi di riflettere sul problema degli aggregati.

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LEIBNIZ, LA MONADE E GLI AGGREGATI La Monadologia è un hreve testo costituito da novanta tesi. In questo lavoro, Leihniz sin·

tetizza in forma definitiva le sue ipotesi metafisiclie. Vediamo come inizia, riprendendone le prime cinque tesi. I. La monade, di cui qui parleremo, non è altro che una sostanza semplice, che entra nei composti; semplice, cioè senza parti. 2. E debbono esservi sostanze semplici, perché ve ne sono di composte: il composto, infatti, non è altro che un ammasso o aggregatum di elementi semplici. 3. Ora, dove non esistono parti, non v'è né estensione, né figura, né divisibilità possibile. Codeste monadi sono i veri atomi della natura: in una parola gli elementi delle cose. 4. Inoltre non è da temersi che una sostanza semplice possa dissolversi, e neppure è concepibile un modo qualsiasi in cui possa estinguersi naturalmente. 5. Per la stessa ragione non v'è alcun modo, in cui una sostanza semplice possa avere un' ori· gine naturale, perché non può formarsi per composizione.

Conoscenza del sacro e del divino



Conoscenza del bello

G.W. Leibniz,

Monadologia

[17141. Laterza, Bari 1986, p. 33

PER LA COMPRENSIONE

1. Formula esplicitamente il motivo per cui La monade non ha figura, non può nascere né morire. 2. IL punto 2. contiene in realtà due diverse tesi: a. gli aggregati sono composti di parti; b. Le parti degli aggregati sono elementi semplici (senza parti). A ben vedere, però, c'è qualcosa che manca fra a. e b. Che cosa?

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La natura degli elementi ultimi Se ci sono aggregati di sostanze, ci devono essere anche gli elementi che compongono tali aggregati. Se anche questi a loro volta fossero degli aggregati, ci dovrebbero comunque essere gli elementi di cui essi sono composti. Alla fine del processo di scomposizione, dovremmo in ogni caso arrivare a degli elementi ultimi, a partire dai quali sono composti tutti gli aggregati. La domanda ora diventa: guai è la natura di questi elementi ultimi? Secondo Leibniz gli elementi che compongono gli aggregati possono essere: I. punti matematici; 2. atomi (per esempio nel senso di Epicuro); 3. elementi dotati di vera unità.

Vediamo le risposte di Leibniz. La prima ipotesi (quella secondo cui i corpi derivano dall'aggregazione di punti matematici) non sembra accettabile perché sostiene che i corpi reali sono composti di punti ideali (torneremo più avanti sulla differenza fra piano reale e piano ideale). Anche la seconda ipotesi, quella degli atomi di Epicuro, non sembra accettabile: chi ha mai visto tali atomi? Non sembra ragionevole basare la realtà su unità di cui non c'è alcuna traccia nell'esperienza e a cui non si arriva per analisi della stessa esperienza. Non rimane che accettare la terza ipotesi e riconoscere che in fin dei conti ci devono essere elementi dotati di vera unità. Come nel caso degli atomi, questi elementi ultimi non si rintracciano nell'esperienza, ma - diversamente dal caso ipotetico degli atomi - gli elementi ultimi veramente unitari sono il risultato di una profonda analisi dell'esperienza. Leibniz chiamerà sostanze o monadi gli elementi ultimi dotati di effettiva unità. Dal ragionamento sinora svolto si ottiene quindi la conclusione che i corpi hanno: I. una forma di unità fornita dalla mente che si rivolge a essi; 2. una base oggettiva, indipendente dalla mente, che ne costituisce il fondamento ultimo; e che 3. gli elementi della base sono dotati di una vera unità.

Le teorie leibniziane di materia prima e di corpo sono i pilastri a partire dai quali viene elaborata una innovativa teoria del continuo.

Il labirinto del continuo Il problema del continuo è uno dei due famosi labirinti «nei quali la nostra ragione spesso si smarrisce: uno riguarda il grande problema di ciò che è libero e di ciò che è necessario [... 1; l' altro consiste nella discussione della continuità e degli indivisibili» (Teodicea [ 17101. in Scritti filosofici, cit., voi. lii, p. 23). Per Leibniz, si può sperare di essere in grado di uscire dal labirinto del continuo solo se si possiedono la «giusta concezione della sostanza» e la «giusta concezione della materia». Vediamo quali sono queste «giuste concezioni». Come abbiamo visto, i corpi sono delle molteplicità unificate e quindi coese, in cui la stessa coesione genera un continuo. Un presupposto fondamentale della teoria del continuo di Leibniz è la tesi secondo cui il tutto è maggiore della parte. Questa tesi costringe Leibniz a rifiutare l'idea secondo cui i punti sono parti dei segmenti. Se, infatti, i punti fossero parti dei segmenti arriveremmo a conclusioni inaccettabili: nel caso in cui i punti avessero una qualche sia pur minima estensione, tutti i segmenti sarebbero infiniti; d'altra parte, se i punti non avessero alcuna estensione, allora anche i segmenti avrebbero una lunghezza nulla. Non rimane che la scelta di affermare che i punti non sono parte dei segmenti. Questa tesi caratterizza in modo fondamentale la teoria della scienza e la filosofia di Leibniz. Si tratta, infatti, di una tesi che avrà conseguenze fondamentali per la sua teoria della sostanza e per il rapporto fra sostanze e corpi. Il primo passo sarà quindi quello di distinguere la composizione parte-intero, in base alla quale un oggetto è composto di oggetti della stessa natura (un segmento è com(:5osto di altri segmenti ecc.), dal rapporto fra un esteso e i limiti che esso contiene.

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Conoséenza del metodo, delle teorie, del

condizione umana e dei rapporti fra gli uomini

La teoria del continuo di Aristotele Ma per capire la posizione leibniziana conviene ritornare ad Aristotele e ricordare che la sua teoria del continuo era, in realtà, una teoria del contiguo, owero di parti contigue le une alle altre. In effetti, il continuo aristotelico è il risultato di una costruzione per tappe che inizia con il concetto di consecutivo, procede con contiguo e solo alla terza tappa perviene al continuo vero e proprio. Consecutivo è ciò che non presenta alcun intermedio dello stesso genere tra se stesso e quello di cui è consecutivo. Per esempio una fila di case è consecutiva quando abbiamo una casa dopo l'altra. Contiguo è il consecutivo in contatto: le case del precedente esempio sono contigue quando ogni casa è in contatto con quella successiva. Il continuo, infine, si ottiene «quando i limiti di due cose, mediante i quali l'una e l'altra si toccano, diventano uno solo» (Fisica, V, 3, 227a, 11-12): due case in contatto sono continue quando hanno un'unicà parete in comune. La teoria delle parti e degli interi entra in gioco quando si prende iri considerazione. la caratteristica della solidarietà: un oggetto continuo è solidale quando le pa.rti si muovono nello stesso istante e nella stessa direzione dell'intero. Ne segueche.. per Aristotele, un·c9rpo le cui parti siano perfettamente solidali è più continuo di un corpo le cui parti non sono solidali. In tal senso si può affermare che, per Aristotele, il continuo e l'intero sono uno perché il loro movimento è indivisibile. Inoltre, il continuo come intero è in atto, mentre le sue parti sono in potenza. Per questo motivo esso non è mai divisibile in atto: perché se fosse diviso non sarebbe più un continuo (ma due continui: uno per ogni parte in cui è stato diviso).

Contiguo fisico e continuo matematico Ebbene, per Leibniz. la materia è un contiguo divisibile in atto all'infinito. Ogni sua parte si divide in altre parti della stess.a natura, all'infinito, senza mai arrivare a degli atomi ultimi (altrimenti si ritornerebbe alla tesi secondo cui un esteso è composto di punti). Il contiguo fisico è infinitamente diviso in parti attuali. Il microscopio ce ne offre una certa evidenza: quello che sembra uniforme risulta specificamente diviso in parti diverse. Avendo microscopi sempre più potenti riusciremmo a scoprire divisioni sempre più minute, senza mai arrivare a elementi ultimi. Intesa in questo modo, la materia non è un continuo. ma un discreto. A fronte di questa situazione, quella del continuo matematico è una situazione completamente differente. Il continuo che vale in matematica non è qualcosa di attualmente diviso, ma qualcosa di potenzialmente divisibile in infiniti modi diversi. La differenza fra il contiguo fisico e il continuo matematico è uno dei principali risultati della riflessione di Leibniz. I punti o atomi sono limiti che hanno una natura del tutto diversa da quella dell'intero di cui sono limiti. La teoria della materia, la teoria di ciò che è realmente esteso, appartiene allo studio del piano reale. La teoria dei limiti appartiene invece allo studio del piano ideale. In definitiva, la materia è un aggregato di sostanze ed è quindi totalmente in atto. La linea invece è un intero totalmente potenziale e non contiene alcuna parte in atto. La materia e le realtà attuali sono interi formati dalle loro parti. Le idee sono invece interi che precedono le loro divisioni in parti. In riferimento al piano reale. la parte precede l'intero. In riferimento al piano ideale. l'intero precede la parte. Il continuo matematico è ideale: è una idealizzazione che deriva dalla percezione del con• tiguo fisico. In questo senso il continuo ideale dipende dal contiguo fisico. Gli infinitesimi, i punti non estesi, sono concetti ideali inventati dai matematici e dai filosofi, non parti della realtà. Per evitare errori categoriali, si deve stare attenti a non confondere il piano del continuo ideale con quello del contiguo reale. Il problema del labirinto del continuo è precisamente un problema che deriva dalla confusione fra piano reale (caratterizzato da materia contigua) e piano ideale (in cui vale il vero e proprio continuo matematico). Come abbiamo visto, i due piani si distinguono anche per le diverse teorie delle parti e degli interi che li caratterizzano: nel caso del piano ideale il tutto precede le parti e le parti sono elementi potenziali dell'intero; nel caso del piano reale, le parti precedono il tutto, gli aggregati richiedono gli elementi di cui sono composti. Nonostante le differenze che distinguono il contiguo fisico dal continuo ideale, è necessario ricordare che esiste anche un fondamentale punto di contatto. Così come i punti sono limiti delle rette e in fin dei conti le generano senza esserne parte. nello stesso modo le sostan· ze (o monadi) sono limiti dei corpi e in fin dei conti li generano senza esserne parti.

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La teoria delle monadi Da un punto di vista metafisico, per Leibniz, i corpi e gli oggetti che percepiamo nel corso della nostra esperienza quotidiana sono aggregati di sostanze individuali o monadi. L:idea di monade è quindi l'idea di sostanza individuale. Gli oggetti del mondo sono contemporaneamente fenomeni e aggregati di monadi. Sono fenomeni dal punto di vista delle nostre percezioni e sono aggregati di monadi (o sostanze complesse) da un punto di vista metafisico. Dal momento poi che l'analisi metafisica è più profonda e fondamentale di quella psicologica. si ottiene l'ulteriore conclusione secondo cui il mondo dei fenomeni si basa su sostanze individuali (monadi). Le monadi sono enti individuali. sostanze spirituali. perennemente attive.

Per Leibniz, in natura non ci sono mai due oggetti assolutamente uguali. Se infatti due oggetti fossero del tutto identici, allora essi avrebbero le stesse caratteristiche e non sarebbero più distinguibili, quindi non sarebbero due oggetti ma un solo oggetto. Leibniz si riferisce a questo principio come al principio della identità degli indiscernibili. Fra le conseguenze di tale principio, quella più importante è che le monadi sono enti individuali, owero che sono tutte diverse le une dalle altre.

La dizione di monade è tipica della maturità di Leibniz (la Monadologia è l'ultima opera pubblicata dal filosofo, nel 1714). Nel corso della sua vita, Leibniz ha usato diversi termini per indicarle e quelle che alla fine sono state chiamate monadi erano state precedentemente nominate in molti modi diversi, come per esempio «atomi spirituali», «sostanze individuali», «forme sostanziali», «vere unità», «unità costitutive», «entelechie». Le monadi svolgono un ruolo unificante del tutto simile a quello svolto dall'idea tradizionale di anima o psiche (come principio di unità del corpo vivente). Per questo motivo, Leibniz sostiene che le monadi sono sostanze psichiche. organizzate in una gerarchia secondo il loro grado di sviluppo psichico. Al livello più elevato c'è Dio, la monade totalmente sviluppata, mentre alla base ci sono le monadi che rappresentano il mondo materiale. talmente poco sviluppate da non sembrare nemmeno spirituali. Il mondo quindi non è una realtà fisica, ma è fondamentalmente una realtà psichica. Per Leibniz le sostanze individuali o monadi sono forme o concentrati di energia da cui emerge la materia dei corpi, senza che esse ne siano parte.

La gerarchia delle monadi in Leibniz

MONDO MATERIALE

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caratterizzato da

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Conoscenza del metodo, delle teorie, del linguaggio i\:

L'ipotesi dell'armonia prestabilita I corpi sono il risultato dell'attività di innumerevoli monadi. Leibniz riconosce che ci deve essere qualcosa che unisce le monadi da cui essi risultano. La loro unificazione dipende dal fatto che esiste una monade dominante che governa sulle altre. Il problema del rapporto fra monade dominante e le monadi a essa subordinate è analogo al problema del. rapporto fra mente e corpo. Per Leibniz, entrambi sono composti di monadi: la mente è una monade e il corpo è un insieme di monadi. Se siamo in grado di risolvere un problema, saremo in grado di risolvere anche l'altro. Leibniz avanza in merito l'ipotesi dell'armonia prestabilita (stabilita da Dio sin dall'inizio dei tempi), owèro di un perfetto parallelismo tra fisico e psichico. La teoria delle monadi presenta anche aspetti che sembrano alquanto strani. Leibniz infatti sostiene non solo che le monadi sono gli elementi da cui originano i corpi, i veri atomi della natura, ma anche che esse non hanno né parti, né estensione, né figura e che sono totalmente indipendenti le une dalle altre. Come possono essere gli elementi delle cose e non avere forma, estensione, parti e non essere in alcun modo connesse con altro? Come se non bastasse, Leibniz aggiunge anche che le monadi sono assolutamente semplici e «non hanno finestre, dalle quali possa entrare o uscire qualcosa».

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