Archivio di filosofia 2009 n. 1. Rudolf Otto. Opere [LXXVII]

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Archivio di filosofia 2009 n. 1. Rudolf Otto. Opere [LXXVII]

Table of contents :
SOMMARIO......Page 5
Introduzione
RUDOLF OTTO, FILOSOFO DELLA RELIGIONE......Page 6
NOTA EDITORIALE......Page 42
NOTA BIOGRAFICA......Page 44
BIBLIOGRAFIA......Page 47
LA FILOSOFIA DELLA RELIGIONEKANTIANO-FRIESIANA APPLICATA ALLA TEOLOGIA.INTRODUZIONE ALLA DOGMATICAPER STUDENTI DI TEOLOGIA
......Page 59
SOMMARIO......Page 60
PREFAZIONE......Page 61
A. DOTTRINA DELLE IDEE......Page 65
B. TRATTI FONDAMENTALIDELLA FILOSOFIA PRATICA......Page 116
C. LA FILOSOFIA DI FRIESIN RELAZIONE ALLA TEOLOGIA......Page 141
IL SACRO.L’IRRAZIONALE NELL’IDEA DEL DIVINOE IL SUO RAPPORTO AL RAZIONALE1*......Page 187
Sommario*......Page 188
LA RINASCITA DEL SENSUS NUMINISIN SCHLEIERMACHER
......Page 304
IL SENSUS NUMINIS COME ORIGINESTORICA DELLA RELIGIONE.UN CONFRONTO CON MYTHUS UND RELIGIONDI WUNDT
......Page 315
MISTICA ORIENTALE E MISTICA OCCIDENTALE
......Page 343
CHE COS’È IL PECCATO ?......Page 364
VALORE, DIGNITÀ E DIRITTO
......Page 371
AUTONOMIA DEI VALORI E TEONOMIA......Page 413
Indice dei nomi......Page 422

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A RC H I V I O DI FILOSOFIA A RC H I V E S O F P H I L O S O P H Y

Opere Rudolf Otto A cura di Stefano Bancalari

Editor Stefano Semplici Associate Editors Enrico Castelli Gattinara · Francesco Paolo Ciglia · Pierluigi Valenza Editorial Board Fr ancesco Botturi · Bernhard Casper · Ingolf Dalferth · Pietro de Vitiis Adriano Fabris · Piergiorgio Gr assi · Jean Greisch · Marco Ivaldo Jean-Luc Marion · Virgilio Melchiorr e · Stéphan Mosès† · Adriaan Peperzak Andrea Poma · Richard Swinburne · Fr anz Theunis Managing Editor Stefano Bancalari Editorial Assistant Fr ancesco Va lerio Tommasi * Si invitano gli autori ad attenersi, nel predisporre i materiali da consegnare alla Direzione, alle norme specificate nel volume Fabrizio Serra, Regole editoriali, tipografiche & redazionali, Pisa-Roma, Serra, 20092 (Euro 34,00, ordini a: [email protected]). Il capitolo Norme redazionali, estratto dalle Regole, cit., è consultabile Online alla pagina «Pubblicare con noi» di www.libraweb.net. The authors are prayed to observe, in preparing the materials for the Editor, the rules stated in the Fabrizio Serra, Regole editoriali, tipografiche & redazionali, Pisa-Roma, Serra, 2009 2 (Euro 34,00, ordini a: [email protected]). Our Editorial Rules are also specified at the page «Publish with Us» of www.libraweb.net. * «Archivio di Filosofia» is a Peer-Reviewed Journal.

A RC H I V I O D I F I LO S O F I A archives of philosophy a j o u r na l f o u n d e d i n 1 9 3 1 b y e n r i c o c a s t e l l i f o r m e r ly e d i t e d b y m a r c o m . o l i v et t i

l x x v i i · 2 0 0 9 · n. 1

opere rudolf otto A cura di Stefano Bancalari

pisa · roma fa b r i z i o s e r r a e d i t o r e mmx

Rivista quadrimestrale * Amministrazione e abbonamenti Fabrizio Serr a editore Casella postale n. 1, succursale n. 8, i 56123 Pisa, tel. 050 542332, fax 050 574888, [email protected] * Casa editrice Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, i 56127 Pisa, tel. 050 542332, fax 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, i 00185 Roma, tel. 06 70493456, fax 06 70476605, [email protected] I prezzi ufficiali di abbonamento cartaceo e/o Online sono consultabili presso il sito Internet della casa editrice www.libraweb.net. Print and/or Online official subscription rates are available at Publisher’s website www.libraweb.net. I pagamenti possono essere effettuati con versamento su c.c.p. n. 17154550 o tramite carta di credito (American Express, CartaSi, Eurocard, Mastercard, Visa). * www.libraweb.net * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2010 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma, e «Archivio di filosofia» · «Archives of Philosophy» * «Archivio di filosofia»: autorizzazione del Tribunale di Pisa n. 27 del 14 giugno 2007 «Archives of Philosophy»: autorizzazione del Tribunale di Pisa n. 19 del 14 giugno 2007 Direttore responsabile: Fabrizio Serra Stampato in Italia · Printed in Italy issn 0004-0088

SOMMARIO Introduzione. Rudolf Otto, filosofo della religione Nota editoriale Nota biografica Bibliografia

9 45 47 51

volumi La filosofia della religione kantiano-friesiana applicata alla teologia. Introduzione alla dogmatica per studenti di teologia

65

Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto al razionale

201

saggi La rinascita del sensus numinis in Schleiermacher

327

Il sensus numinis come origine storica della religione. Un confronto con Mythus und Religion di Wundt

339

Mistica orientale e mistica occidentale

367

Che cos’è il peccato ?

389

Valore, dignità e diritto

397

Autonomia dei valori e teonomia

439

Indice dei nomi

449



Introduzione RUDOLF OTTO, FILOSOFO DELLA RELIGIONE 1. I criteri di composizione del volume

R

udolf Otto non è solo l’autore de Il sacro. 1 Lo straordinario successo di quest’opera, che ne ha reso celebre il nome ben al di là della cerchia ristretta del pubblico specialistico, ha provocato, per contraccolpo, la diffusione di una figura stilizzata dell’autore, impoverita dall’oblio toccato al resto della sua produzione e, peggio, dalle semplificazioni e dai fraintendimenti che ogni decontestualizzazione inevitabilmente porta con sé. 2 La selezione dei testi che compongono questo volume risponde innanzitutto al proposito di offrire una prospettiva relativamente ampia sul lavoro di Otto, in modo da evitare l’effetto di distorsione derivante da una concentrazione esclusiva dello sguardo sull’opera maggiore : tenuto conto del fatto che la versione originaria del saggio su Schleiermacher è del 19033 e che la stesura di Autonomia dei valori e teonomia, 4 pubblicato postumo, risale presumibilmente al 1935, il lettore trova qui raccolta una produzione dislocata su un arco temporale di più di trent’anni. Questo, però, non significa che l’immagine di Otto che ne risulta possa avanzare pretese di completezza : al contrario, un secondo e complementare criterio di scelta è stato quello di mettere in risalto uno solo tra i molti versanti della poliedrica personalità di uno studioso, la cui vastità di interessi, alimentando il sospetto di dilettantismo, è risultata un ulteriore impedimento ad una recezione adeguata. Otto è un teologo, un filosofo della religione, uno storico e uno scienziato delle religioni : 5 pur con la consapevolezza che sarebbe forzato stabilire cesure troppo nette tra questi ambiti discipli 





1   Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Breslau, Trewendt und Granier, 1917 [DH] ; cfr. infra, pp. 201-308. 2  Come rileva Schütte : « Questo scritto [DH], con l’abbondanza di interpretazioni che lo accompagnano, ha oscurato le opere precedenti e quelle successive. Il libro che ha preservato il nome di Rudolf Otto dall’oblio non soltanto si è esposto al fraintendimento, ma ha anche favorito l’isolamento che ha colpito le altre opere » ; H.-W. Schütte, Religion und Christentum in der Theologie Rudolf Ottos, Berlin, De Gruyter, 1969, p. 7. Così anche Almond : « Purtroppo Il sacro ha avuto un’influenza tale da oscurare le altre opere di Otto, al punto che la maggior parte di esse è stata consegnata all’oblio » ; Ph. C. Almond, Rudolf Otto : Life and Work, « Journal of Religious History », 12, 1983, pp. 305-321, qui p. 306. 3   Wie Schleiermacher die Religion wiederentdeckte, « Die christliche Welt », 17, 1903, pp. 506-512 ; ripubblicato con il titolo Der neue Auf bruch des sensus numinis bei Schleiermacher, in Sünde und Urschuld und andere Aufsätze zur Theologie [SU], München, Beck, 1932, cap. x, pp. 123-139 : cfr. La rinascita del sensus numinis in Schleiermacher, infra, pp. 327-337. 4   Autonomie der Werte und Theonomie, ora in Aufsätze zur Ethik [AE], hrsg. von J. S. Boozer, München, Beck, 1981, cap. 6, pp. 215-226 ; cfr. infra, pp. 439-447. 5   Per tacere delle attività extra-accademiche di parlamentare, riformatore della liturgia, promotore di una « lega religiosa dell’umanità », fondatore di un museo di reperti storico-religiosi (la Religionsgeschichtliche Sammlung). Cfr. la Nota biografica, infra, pp. 47-49. Per la ricostruzione della biografia di Otto, oltre al già citato saggio di Almond, si vedano : R. Boeke, Rudolf Otto. Leben und Werk, « Numen », 14, 2, 1967, pp. 130-143 ; R. Schinzer, Rudolf Otto – Entwurf einer Biographie, in E. Benz (Hrsg.), Rudolf Otto’s Bedeutung, für die Religionswissenschaft und die Theologie heute, Leiden, Brill, 1971, pp. 1-29 ; G. D. Alles, Introduction, in R. Otto, Autobiographical and Social Essays, Berlin – New York, De Gruyter, 1996, pp. 1-43.  















































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rudolf otto, filosofo della religione

nari, che nell’opera e nella persona stessa di Otto formano un intreccio difficilmente dipanabile, si è tuttavia cercato di operare una scelta del materiale testuale in modo da privilegiare il tratto più marcatamente filosofico del suo pensiero. A tutta prima, i due criteri di scelta potrebbero sembrare incompatibili. Una considerazione complessiva dell’opera di Otto, infatti, rileva subito un’evoluzione che può esser descritta come un progressivo recedere del teologo di fronte al filosofo, e poi del filosofo di fronte allo storico della religione ; 6 così che l’accentuazione del versante filosofico sembrerebbe comportare non già un allargamento di prospettiva, ma anzi una concentrazione dell’attenzione sulla sola fase centrale di questo percorso : quella, per intenderci, della Filosofia della religione kantiano-friesiana (1909), 7 che fa da spartiacque tra l’interesse prettamente teologico della dissertazione su Lutero (1898)8 e una ricerca fenomenologica, nel senso storico-empirico del termine, che comincia con la pubblicazione del Sacro (1917) e prosegue fino all’ultima grande opera sul carattere escatologico del cristianesimo (1934). 9 Ora, questo schema evolutivo in tre tappe ha senz’altro il pregio di scandire con chiarezza alcune vistose differenze tematiche tra le opere fondamentali di Otto ; ma rischia di risultare eccessivamente lineare, e di occultare continuità più profonde e istanze teoriche che si sviluppano in parallelo, più che semplicemente sostituirsi l’una all’altra. 10 Su tali continuità vorremmo richiamare l’attenzione in queste considerazioni introduttive, che si propongono di tracciare un percorso di lettura delle opere presentate, abbozzando un profilo complessivo del filosofo Rudolf Otto. Prima, però, è necessario affrontare una questione preliminare, che la scelta di tradurre anche l’opera più nota pone in modo del tutto specifico. A differenza di tutti gli altri testi qui raccolti, infatti, che non sono mai apparsi prima in versione italiana, Il sacro era già disponibile nella pregevole e autorevole traduzione di Ernesto Buonaiuti : 11 perché, dunque, una nuova traduzione ? Una prima ragione consiste nel tentativo di apportare un contributo di chiarezza sulla situazione filologicamente intricata che si è venuta a creare in seguito al rapido succedersi di edizioni dell’opera. Vivente Otto, Il sacro conobbe ben venticinque edizioni, in ciascuna delle quali l’autore, mostrando di non essersi mai ritenuto definitivamente soddisfatto del risultato finale, apportò modifiche più o meno sostanziali : scrupolose revisioni dell’ortografia 12 e  











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  Così, per esempio, A. Aguti, Autonomia ed eteronomia della religione : Troeltsch, Otto, Barth, Assisi, Cittadella, 2007, il quale sottolinea opportunamente come evoluzione non significhi « rottura epistemologica » (p. 67). L’accurata esposizione di Aguti è uno dei pochi lavori in italiano che affrontino il pensiero di Otto nel suo complesso, e si aggiunge allo studio ormai classico di A. N. Terrin, Scienza delle religioni e teologia nel pensiero di Rudolf Otto, Brescia, Morcelliana, 1978. 7   Kantisch-Fries’sche Religionsphilosophie und Ihre Anwendung auf die Theologie [KFR], Tübingen, Mohr, 1909 ; cfr. infra, pp. 65-199. 8   Die Anschauung vom heiligen Geiste bei Luther [AHG], Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1898. 9   Reich Gottes und Menschensohn : Ein religionsgeschichtlicher Versuch [RGM], München, Beck, 1934. 10   Non pare del tutto convincente, per esempio, la periodizzazione, proposta da Tribuljak, tra un periodo « recettivo », in cui prevarrebbe l’elaborazione di « concezioni di altri filosofi », e un periodo « produttivo », che comincerebbe con DH ; cfr. T. Tribuljak, Philosophie und Theologie bei Rudolf Otto, Kroatien, Osijek, 2000, p. 1. Lo stesso autore si propone, per altro, di mostrare, muovendo da KFR, l’« unitarietà dell’opera di Otto » (ivi, p. 5). 11  R. Otto, Il sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, tr. it. di E. Buonaiuti, Bologna, Zanichelli, 1926. 12   In alcune righe fuori testo dell’edizione del 1917, Otto scrive : « Sembra arrivato il momento, infine, per sostituire il segno prolisso per il nostro suono “sch”, che invece è senz’altro un suono unico, con un segno semplice, unico. La tipografia A. Favorke, di Breslau, possiede il caratttere che gli corrisponde nella forma : $. Nel seguito ne faccio uso, perché mi sembra pratico. Questo carattere potrebbe, mi sembra, esser  

































introduzione

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delle scelte lessicali, variazioni stilistiche, riformulazioni, inserimento o cancellazione di periodi più o meno lunghi, nonché di appendici. 14 Buonaiuti tradusse l’opera nel 1926 sulla base della quattordicesima edizione, apparsa nello stesso anno ; tale traduzione fu in seguito rivista dallo stesso Buonaiuti, che tenne conto dell’ultima edizione su cui Otto intervenne, quella del 1936. 15 Considerato che non è a tutt’oggi disponibile un’edizione critica, nonostante Il sacro sia divenuto, nel frattempo, un classico a tutti gli effetti, ci è sembrato opportuno procedere con una qualche cautela filologica e mettere il lettore in condizione di misurare l’ampiezza di movimento di quel processo di revisione permanente al quale Otto ha sottoposto l’opera per circa vent’anni. Abbiamo dunque scelto di tradurre la prima edizione, che è reperibile ormai con difficoltà, riportando in appendice, senza alcuna pretesa di esaustività, alcuni tra gli interventi più consistenti e significativi (sotto il profilo teorico) apportati nell’edizione definitiva : 16 avere a disposizione il testo nella sua forma base, per altro più agile e più lineare delle rielaborazioni successive, consente non soltanto di leggere Il sacro nella stessa versione con cui ebbero modo di confrontarsi i vari Troeltsch, Tillich, Bultmann, Husserl, Heidegger, per citare solo alcuni tra i lettori e gli estimatori più illustri ; ma consente anche di comprendere e apprezzare meglio il senso delle modifiche operate dall’autore, che vennero poi accumulandosi e stratificandosi in modo piuttosto disordinato. 17 Ma c’è una seconda ragione, più strettamente connessa al carattere specifico della 13







assunto senza modificazione anche nel gotico. Con ciò, la questione “sch” sarebbe risolta per entrambi i tipi di scrittura ». La soluzione deve essersi poi rivelata meno pratica di quanto sembrasse a tutta prima, visto che viene prontamente abbandonata nelle edizioni successive. Si mantiene invece, fino all’ultima edizione, l’uso della « f » invece del « ph », per cui Otto usa scrivere : « Fänomen », « Filosofie », ecc. È significativo, ai fini di una valutazione dell’effetto tipografico complessivo della prima edizione di DH, che Tillich non manchi di menzionare, tra le ragioni per ricordare l’incontro con l’opera come un « evento indimenticabile », il fatto che fosse pubblicato da una « casa editrice sconosciuta » e che presentasse « alcune stranezze nell’ortografia » ; P. Tillich, Der Religionsphilosoph Rudolf Otto (1925), ora in Id., Begegnungen, Gesammelte Werke, XII, Stuttgart, Evangel. Verl.-Werk, 1971, pp. 179-183 ; qui p. 179. 13   A partire dall’ottava edizione (Breslau 1922), Otto si preoccupa di evitare il ricorso a termini di origine diversa da quella germanica (non senza qualche farraginosità nelle soluzioni adottate) : così, per esempio, « Analogie » viene sistematicamente sostituito con « Entsprechung », « Analyse » con « Zergliederung », « spezifisch » con « besonder », « psychisch » con « seelisch », « Faktum » con « Tatsache », ecc. (l’elenco potrebbe continuare a lungo). Cfr. quanto Otto osserva nella Prefazione all’ottava edizione : « Ignoti lettori mi hanno inviato il libretto di Eduard Engel, Sprich Deutsch [Parla tedesco], con il monito corrispondente. Sento con forza la serietà di questo monito, tanto più nell’epoca odierna in cui è sempre più un dovere sacro (heilig) meditare sul proprio germanesimo : ringrazio il mittente e sarei felice di saper scrivere così. In questa edizione ho tentato di scuotere con forza l’albero, e inutile ciarpame di ogni sorta è già caduto giù. Ma, se si vuole evitare un arbitrio senza confini, si dovrebbe, per lo meno per tutte le espressioni scientifiche tecniche, costituire una accademia della crusca [in italiano nel testo] volontaria, che, con sensibilità raffinata e con profondissima conoscenza della nostra lingua, ritrovando, padroneggiando e rimettendo in gioco le forze creatrici di quest’ultima, ci offrisse, invece di abborracciature da pasticcioni, un tedesco puro e nobile ; invece delle invenzioni estemporanee dei singoli, qualcosa di universalmente valido, che si imponga non per costrizione o per legge, ma per la sua autenticità, bontà e utilizzabilità ». 14   Le appendici che Otto, nel susseguirsi delle edizioni, via via aggiunge e sottrae a DH sono raccolte nei tre volumi : Aufsätze das Numinose betreffend, Stuttgart, Perthes, 1923 [ANB], Sünde und Urschuld und andere Aufsätze zur Theologie, München, Beck, 1932 [SU] e Das Gefühl des Überweltlichen (Sensus Numinis), München, Beck, 1932 [GÜ]. 15   La traduzione rivista è stata pubblicata dall’editore Feltrinelli, 1966, 19945. 16   Ora in München, Beck, 2004 [Beck]. 17   Con ciò non si intende affatto colmare il vuoto – che resta tale – di un’edizione critica ; l’intento, semmai, è quello di renderlo più evidente.  

   























































































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rudolf otto, filosofo della religione

traduzione di Buonaiuti, che rende, a nostro avviso, opportuna una nuova versione italiana del Sacro. Nella Prefazione, il traduttore dichiara di aver interpretato il proprio ruolo in ossequio al « diritto [dell’autore dell’opera] di esigere che l’impressione delle sue idee personali e del suo programma originale esca [...] non turbata e non pregiudizialmente ottusa dall’intervento e dalla mediazione di chi volgarizza il suo testo » : 18 e non v’è dubbio che la volontà di restituire al lettore italiano l’« impressione », appunto, l’impatto anche e soprattutto emotivo del testo di Otto, traspaia in tutta chiarezza e rappresenti uno degli aspetti più riusciti (e certo non eguagliabili) della traduzione di Buonaiuti. Si tratta di una scelta che è senz’altro fedele agli intenti e allo stile argomentativo dell’autore, il quale invita chiunque non si senta in grado di entrare in risonanza emotiva con la sua opera a chiudere subito il libro ; 19 ma è una scelta che riflette palesemente – e del tutto legittimamente, beninteso – anche le « idee personali » e il « programma originale » dello stesso traduttore. Vediamo meglio. Per Buonaiuti è decisivo rintracciare e rimarcare, nel testo di Otto, l’« affinità sorprendente con alcuni indirizzi di apologetica religiosa, intorno a cui si è fatto un gran battagliare in Italia e fuori, nel primo decennio del secolo » : 20 l’allusione al modernismo, sul fronte del quale Buonaiuti è schierato in prima persona e fino alle estreme e più dolorose conseguenze, 21 è trasparente. E la sorprendente affinità che egli individua tra questo tentativo di « rinnovamento culturale cattolico » e il pensiero di Otto –, affinità nient’affatto stemperata dalle divergenze che pure Buonaiuti ha presenti in modo quanto mai nitido 22 –, consiste innanzitutto nel « postulato » della « predialetticità dell’esperienza del divino », 23 ossia nel privilegio metodologico dell’esperienza sorgiva e immediata rispetto alle strutture teorico-dottrinali che si sforzano di comprenderla, ma che inevitabilmente la irrigidiscono. Ora, non stupisce che il criterio guida di una traduzione dell’opera volta a far risaltare l’elemento « predialettico » sia più la preoccupazione di riprodurre la modulazione dei registri espressivi, di restituire la ricchezza di pathos e suggestione del linguaggio di Otto, che non lo scrupolo filologico e la fedeltà al suo apparato terminologico-concettuale. Càpita, così, che l’espressione tecnica, e ormai celeberrima, « das “Ganz Andere” » (per la quale abbiamo adottato, per parte nostra, la traduzione ormai consueta « totalmente altro ») sia tradotta da Buonaiuti in modo oscillante, ora con « essenzialmente altro », 24 ora con « completamente altro », 25 ora con « tutto diverso » ; 26 ma càpita, soprattutto, che alcuni termini, che attestano in modo inequivocabile il contesto teorico all’interno del quale Otto si muove, siano resi difficilmente riconoscibili, come accade quando « Schematisierung » viene tradotto con  



































































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  E. Buonaiuti, Prefazione, in Il sacro, cit., 19945, p. 11. 20   Cfr. DH, p. 8 ; infra, p. 207.   Prefazione, cit., 19945, p. 12. 21   L’adesione al modernismo valse al sacerdote Buonaiuti la scomunica « espressamente vitando », formalizzata il 25 gennaio dello stesso anno in cui lavorava alla traduzione del Sacro (conclusa nel giugno del 1926). Un sobrio cenno a questa vicenda per lui dolorosissima è racchiuso nel « nonostante tutto » con cui Buonaiuti, pur nella dichiarata sintonia con il testo tradotto, ribadisce il proprio sentimento di appartenenza al cattolicesimo : « L’Otto viene dalla più squisita preparazione luterana ; il traduttore, nonostante tutto, è profondamente aderente alla continuità storica del messaggio cattolico » (cfr. ivi, p. 11). 22   Cfr. gli acutissimi rilievi mossi da Buonaiuti in La religione nella vita dello spirito, Roma, Ricerche religiose, 1926, in cui viene sottolineata la mancata connessione tra l’esperienza religiosa e la dimensione comunitaria della medesima. Questo testo avrebbe dovuto, nell’intenzione di Buonaiuti, essere la Prefazione all’edizione italiana di DH, ma Otto lo rifiutò : cfr. Id., Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, a cura di M. Niccoli, introduzione di A. C. Jemolo, Bari, Laterza, 1964, p. 522. 23 24   Prefazione, cit., 19945, p. 12.   Cfr., Il sacro, cit., 19945, p. 36. 25 26   Cfr., p.e., ivi, pp. 34 e ss.   Ivi, p. 89. 19





















introduzione

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« estrinsecazione » ; « Gefühlserlebnis » con « esperienza psichica » ; « Gemüt » con « facoltà » ; 29 « Begriff » con « idea ». 30 Con ciò non si vuol dire affatto che la traduzione di Buonaiuti non sia tuttora uno strumento prezioso : 31 e anzi l’abbiamo tenuta costantemente presente, sfruttandone in più occasioni soluzioni e scelte interpretative ; ma che era ormai necessaria, a nostro avviso, una traduzione diversa, che fosse mossa più dall’interesse per Otto come pensatore, che dal coinvolgimento immediato in ciò di cui Otto tratta ; una traduzione che si facesse carico della cautela imposta dall’enorme dibattito che nel frattempo si è venuto svolgendo sulle questioni sollevate da Otto, facendo del Sacro, appunto, un classico, e che fosse perciò più aderente, nei limiti del possibile, al lessico, alla sintassi e alla costruzione del periodo, anche a costo di risultare magari meno elegante e suggestiva in italiano.  











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2. Lutero e il « problema religioso fondamentale »  



La questione, cui accennavamo sopra, della continuità o discontinuità tra le opere di Otto è uno dei luoghi classici del dibattito tra gli interpreti, per lo meno a partire dalla autorevole recensione di Troeltsch del 1919, il quale coglieva, in particolare tra la Filosofia della religione e il Sacro, « un contrasto più forte di quello che il semplice sviluppo (nel senso del progresso e dell’ampliamento) di un autore porta con sé più o meno sempre » : 32 per Troeltsch si trattava, senza mezzi termini, di un « totale cambiamento di fronte ». 33 Senza entrare subito nel merito del giudizio troeltschiano, limitiamoci, per il momento, ad osservare che un’analisi che, per contro, si proponga – come tenteremo di fare qui – di riannodare i robusti fili che intrecciano il Sacro al complesso della produzione di Otto si traduce per forza di cose nella messa in questione di una fin troppo facile e diffusa lettura « irrazionalistica » del suo pensiero, che pure sembrerebbe avallata dal sottotitolo stesso dell’opera maggiore (L’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto al razionale) e che ha senz’altro contribuito significativamente a determinarne il successo. 34 Certo non è un irrazionalista l’autore del lavoro su Die Anschauung des Heiligen Geistes  













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28   Ivi, p. 18.   Ivi, p. 34. 30   Ibidem.   Ivi, p. 15. 31   Di diverso avviso, evidentemente, l’anonimo curatore della ristampa recentemente pubblicata da se (Il sacro, Milano 2009), che ha riproposto la versione di Buonaiuti, intervenendo sul testo con una certa, per dir così, disinvoltura : non soltanto la traduzione subisce « alcune modifiche », disseminate qua e là senza che il lettore sia avvertito della natura e dell’entità degli interventi, ma viene persino ‘corretta’ la Prefazione di pugno dello stesso Buonaiuti ! Il risultato di questa operazione editoriale è un ibrido di dubbia utilità, che non offre al lettore italiano né la traduzione ormai divenuta classica, né una traduzione nuova, visto che tutti gli aspetti problematici di cui sopra, incluse le vere e proprie sviste, sono, con altrettanta disinvoltura, mantenuti tali e quali. 32   E. Troeltsch, Zur Religionsphilosophie. Aus Anlaß des Buches von Rudolf Otto über Das Heilige (Breslau 1917), « Kant-Studien », 23, 1919, pp. 65-76, qui p. 76. 33   Ibidem. Un’impressione opposta ebbe Wilhelm Bousset, il quale, subito dopo aver letto il manoscritto dell’opera, scrive a Otto come a suo giudizio essa si muova sul solco della linea Fries-De Wette-Schleiermacher, dunque in piena continuità con KFR ; cfr. Wilhelm Bousset an Rudolf Otto vom 3.12.1916, cit. da H.-W. Schütte, Religion und Christentum, cit., p. 127. 34   Cfr. T. A. Gooch, The Numinous and Modernity. An Interpretation of Rudolf Otto’s Philosophy of Religion, Berlin – New York, De Gruyter, 2000, in particolare il cap. V : Das Heilige and German « Irrationalism » after the First World War. 29





















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rudolf otto, filosofo della religione

bei Luther [L’idea di Spirito Santo in Lutero], che fu presentato all’Università di Marburgo come dissertazione nell’aprile del 1898. Quest’opera prima, alla quale Otto comincia a lavorare nel 1895, merita, a nostro avviso, assai più attenzione di quanta gliene sia accordata generalmente : nonostante l’autore prenda successivamente le distanze da questo « libro da principiante, ancora completamente sotto l’influenza di Ritschl », 35 esso mostra, in embrione, ma già ben riconoscibile, un’impostazione teorica che resterà determinante nella riflessione successiva. 36 Vale dunque la pena soffermarsi, sia pur brevemente, su questo testo, che non rientra tra quelli qui tradotti, ma che risulta estremamente utile per comprendere alcuni nodi strutturali di questi. Il proposito di determinare contenuto e funzione della nozione di « Spirito Santo » nella teologia di Lutero viene inquadrato in un più ampio contesto di interessi che delinea in modo molto definito il profilo intellettuale del giovane studioso. In sede di prefazione, Otto chiarisce che l’interesse storico per la figura di Lutero, un « virtuoso e un eroe della religione », 37 è senz’altro centrale nel lavoro, ma non è l’unico e nemmeno il più importante : non si tratta, per Otto, di soddisfare una curiosità di stretta pertinenza dell’esegesi luterana, ma di comprendere Lutero chiedendosi « che cosa vi sia da pensare e che cosa significhi per noi ». 38 E quel che è da pensare, per Otto, è niente di meno che « il problema religioso fondamentale » (das religiöse Grundproblem) : la « questione del rapporto e dell’influsso di una causalità extramondana sull’interiorità dell’uomo ». 39 Otto formula innanzitutto tale problema nei termini e con i concetti propri della tradizione nella quale Lutero si muove, per poi chiedersi se e fino a che punto egli possa essere considerato davvero interno a questa tradizione medesima. Uno degli appellativi della terza persona della Trinità, che la distingue dal Padre (creatore) e dal Figlio (redentore), è quello di « santificatore » (Heiliger) : lo Spirito santifica in quanto opera nell’uomo la conversione, il passaggio dal peccato alla vita nuova. Questo però implica che sull’« interiorità dell’uomo » – ossia, come significativamente si esprime Otto, sul suo « vissuto » (Erlebnis) – agisca in modo efficace qualcosa di qualitativamente eterogeneo rispetto ad essa ; il che suscita diversi interrogativi : « Come opera  

















































35   Beck, p. 123 ; cfr. infra, p. 320. In realtà Otto, che in un primo momento aveva preferito iscriversi all’università di Erlangen, meno aperta alla teologia liberale e dunque per lui più rassicurante stante la rigorosa educazione pietistica ricevuta, frequentò un primo semestre all’università di Gottinga nello stesso anno (1889) in cui Albrecht Ritschl, che vi insegnava dal 1864, morì. Nonostante ciò, avendo abbandonato definitivamente Erlangen per Gottinga nel 1891, egli ebbe modo di entrare in contatto, e di stringere relazioni significative e durature, con i cosiddetti « Ritschlianer » e con la nascente « scuola storico-religiosa » (Religionsgeschichtliche Schule), che, per lo meno nella sua prima fase, prendeva le mosse dall’insegnamento del teologo berlinese. Su questo, oltre al già citato T. A. Gooch, The Numinous and Modernity, cfr. G. Lüdemann – M. Schröder., Die religionsgeschichtliche Schule in Göttingen. Eine Dokumentation, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1987. A questo proposito è significativo il contesto di ricerca nel quale Otto esplicitamente inserisce il lavoro su Lutero : « La seguente trattazione mostra da sé in che misura e fino a che punto sia dipendente da Ritschl, A. Harnack, Loofs, Eichhorn, von Herrmann, Reischle, H. Schultz, Thieme » ; AHG, p. 3. 36   Sottoscriviamo dunque, anche se per ragioni in parte diverse, il giudizio di Almond : « Se i risultati effettivi delle successive opere di Otto si trovano qui [sc. : AHG] solo in forma embrionale, molto della loro struttura è già sostanzialmente in evidenza » ; Ph. C. Almond, Rudolf Otto : An Introduction to His Philosophical Theology, Chapel Hill and London, University of North Carolina Press, 1984, p. 28. Più che sottolineare, seguendo la lettera delle dichiarazioni di Otto (cfr. DH, p. 104 ; infra, p. 260), l’individuazione già in AHG « delle profondità essenzialmente non razionali della religione a dispetto del tono ritschliano dell’opera » (Ph. C. Almond, Rudolf Otto, cit., p. 28), è nell’originale impostazione del rapporto tra ciò che successivamente definirà « razionale » e « irrazionale » che ci sembra di poter cogliere il principale elemento di continuità con la produzione successiva. 37 38 39   AHG, p. 1.   AHG, p. 3.   AHG, p. 1.  











































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Dio la vita nuova ? Come si realizza ? Nel contesto di una chiara causazione psicologica o nell’oscurità e nell’enigma di un’azione miracolosa puramente soprannaturale ? ». 40 La formulazione stessa della domanda lascia chiaramente intendere che Otto non è certo incline a prender partito per l’oscurità e l’enigma, verso i quali non mostra alcuna simpatia, di contro alla chiarezza della comprensione psicologica : e lo svolgersi del ragionamento ne dà piena conferma. Il nodo della difficoltà consiste nell’attribuire un effetto che è sostanzialmente di ordine psicologico – la fede, ossia « il realizzarsi del nuovo stato etico-religioso nell’uomo » 41 – ad una causa che è di ordine diverso (spirituale, appunto, ossia divino), ma che in qualche modo, o meglio : ad un certo punto, deve di necessità tradursi in quell’evento psicologico. Il che pone due problemi : si tratta di stabilire, in primo luogo, se sia possibile rendere meno arduo il passaggio dall’uno all’altro ordine inserendo tra causa ed effetto degli eventi intermedi ; e, in secondo luogo, se la concessione della possibilità di un intervento del soprannaturale sull’uomo non significhi eo ipso annientamento dell’autonomia dell’agire di quest’ultimo. Nei termini di Lutero : lo Spirito agisce direttamente (come una « forza magica », chiosa Otto 42) o solo per dona sua ? E la sua azione è di per sé efficace oppure lo Spirito è solo causa prima, che necessita comunque del concorso della fede quale causa secunda ? La tesi centrale di Otto è che in Lutero, sotto la superficie di formulazioni che si sforzano di apparire ineccepibili dal punto di vista dell’ortodossia dogmatica, si nasconda in realtà una soluzione radicale e radicalmente innovativa per questi problemi : « Lutero non pensa a costruire un ambito nel quale valga la motivazione della fede, e contemporaneamente a mostrare le crepe e le lacune in cui debba insinuarsi l’azione di supporto dello Spirito » ; 43 più semplicemente : in Lutero « non è dato trovare alcuno spazio per una seconda causalità extrapsicologica. La causalità empirica della fede prende completamente il posto di quella [corsivo nostro, c.n.] ». 44 Si tratta di un’affermazione molto forte, che potrebbe facilmente essere intesa nel senso di una lettura quanto meno semplificatoria di Lutero da parte di Otto, finalizzata ad espungere una dimensione « soprannaturale » che evidentemente mal si concilierebbe con alcune sue opzioni teoriche pregiudiziali : se ne potrebbe, in tal caso, concludere che l’irrazionalismo del Sacro non sarebbe altro che una reazione, magari eccessiva, all’eccesso di razionalismo degli esordi. In realtà l’interpretazione di Otto è assai più raffinata 45 e muove da un’istanza teorica che, variamente rimodulata, sarà un motivo ispiratore costante di tutta la produzione ottiana successiva (Sacro compreso) : mostrare e fondare la qualità del tutto specifica e irriducibile dell’elemento religioso, senza che ciò si traduca necessariamente nella posizione di un ambito separato rispetto a quello della realtà naturale e potenzialmente in conflitto con quest’ultimo. Nella Anschauung questo progetto teorico non emerge ancora in modo autonomo e resta subordinato al compito esegetico, ma è ben riconoscibile nei suoi tratti essenziali. Otto rileva come Lutero, pur non mettendo mai esplicitamente in questione il dettato del dogma trinitario (perché in realtà poco interessato al piano della riflessione dottrinale), mostri di fatto una concezione del tutto subordinata dello Spirito rispetto al Padre e al Figlio. Un’attenta analisi del linguaggio di Lutero consente ad Otto di  



















































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41 42   AHG, p. 20.   AHG, p. 2.   AHG, p. 15. 44   AHG, p. 43.   AHG, p. 38. 45   Lo stesso Otto si preoccupa di precisare che già all’epoca di AHG gli « erano chiare le trame irrazionali-numinose in Lutero e in ogni autentico concetto di Dio » ; Beck, p. 123 ; infra, p. 320. 43









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cogliere la radicalità di tale subordinazione, mediante la messa in luce di un dato sorprendente : « la fede riceve tutti i predicati dello Spirito. È la fede stessa che giustifica, rigenera, illumina, etc. ». 46 Questo significa che la nozione (soprannaturale) di « Spirito » e quella (psicologica) di « fede » sono in realtà considerate da Lutero interscambiabili, al punto che i due termini, a ben guardare, non sono altro che puri e semplici sinonimi. Espressioni altrimenti incomprensibili (« per spiritum fidei », ad esempio) risultano del tutto perspicue se si parte dall’assunto di una « diretta identificazione dei due concetti » ; se si tien fermo cioè che per Lutero « spiritus sanctus è il nome per ciò che è operato dalla fede ». 47 Ma c’è di più : lo stesso rapporto di sinonimia può essere riscontrato anche tra « Spirito » e un altro concetto fondamentale di Lutero : la « parola » ; con il risultato che comprendere l’azione dello Spirito Santo non significa altro che comprendere il nesso strutturale tra parola e fede ; nesso da cima a fondo empirico, che non può esser studiato e compreso sulla base di una riflessione teorica astratta, ma a partire dalla « descrizione di un dato di fatto o di un vissuto (Erleben) religioso ». 48 L’ascolto della parola, con tutto ciò che ne consegue, è un Erlebnis che, nel suo carattere formale di vissuto, è un evento di coscienza simile a qualsiasi altro, che come tale deve essere esaminato : « Ogni rappresentazione, ogni contenuto concettuale che entra nella coscienza di un uomo [...] esercita immediatamente e di per sé il suo effetto sull’interiorità dell’uomo, determina il suo sentimento di piacere o dispiacere, stimola la facoltà di sensazione che corrisponde al contenuto, attiva in lui, mediante ciò, motivazioni per la volontà ». 49 Questo processo radicalmente empirico ha luogo ogni qual volta si ascolta una parola, la quale è sempre una sintesi di contenuto e valore. In questo la parola del vangelo, che non è un « abracadabra », 50 è simile a qualsiasi altra. L’azione dello Spirito, dunque, « è un processo chiaro, che si attua attraverso la coscienza e la sua motivazione » 51 e che coincide integralmente con il processo psicologico che questa parola – speciale quanto al contenuto e al valore determinati, ma in tutto e per tutto identica a qualsiasi altra – innesca in colui che la ascolta ; nel caso specifico : sentimento della propria nullità e della colpa, ma anche consolazione dall’angoscia, « fiducia, timore reverenziale, amore » 52 nei confronti del Dio che salva. Ora – ecco il punto che ci interessa sottolineare – l’individuazione del parallelismo tra Spirito, da una parte, e fede-parola, dall’altra, l’affermazione di una sovrapposizione integrale tra la causa divina e l’effetto umano, non portano affatto Otto a sostenere che la riflessione di Lutero acquisterebbe in rigore se uno dei due piani fosse semplicemente tolto mediante riassorbimento nell’altro : Otto, insomma, non si limita a proporre una lettura riduzionistica del vissuto religioso in Lutero, volta a depurare l’aspetto psicologico da residui teologici ritenuti spuri. L’idea di Otto è un’altra, ed è tale da attribuire a Lutero una posizione più audace dal punto di vista teorico, dietro la quale non è difficile cogliere la posizione dello stesso Otto. Lo stesso fenomeno, per esempio il verificarsi di certi vissuti in seguito all’ascolto di una determinata parola, è passibile di una doppia interpretazione, integralmente legittima in ciascuno dei suoi due versanti : « Per ogni intenso sentire religioso accade che la medesima cosa, e nella medesima misura, sia ricondotta, nel “modo di esprimersi  







































































46

  AHG, p. 38.   AHG, p. 48. 51   AHG, p. 49. 49



47

  AHG, p. 40.

48

  AHG, p. 9.   AHG, p. 48.   AHG, p. 50.

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umano”, alla connessione naturale, e contemporaneamente e integralmente (sogleich und ganz), nel giudizio religioso, all’agire di Dio ». 53 L’una e l’altra interpretazione si propongono come esaustive : il « modo di esprimersi umano » riconduce tutto, senza lacune, alla connessione causale naturale ; il « giudizio religioso » all’agire di Dio. Nonostante possa sembrare a prima vista paradossale, Lutero, secondo la lettura di Otto, ritiene che i due tipi di giudizio non si escludano reciprocamente, ma siano in qualche modo compossibili. Non nel senso, semplicistico, per cui il giudizio religioso interverrebbe là dove il giudizio umano si arresta, colmandone le inadeguatezze : « Lutero non costringe la causalità divina ad uno o a più luoghi nel nesso causale : per lui è possibile un doppio modo di considerazione (eine doppelte Betrachtungsweise) riguardo al tutto ». 54 E questa doppia considerazione è tale per cui « all’interno dell’una [considerazione] non si può riconoscere altro che causazione e motivazione, che la catena chiusa dei “mezzi esterni” nell’ambito naturale » ; nell’altra, « di cui la prima è solo il volto mondano », non si può riconoscere « nient’altro che il soffio e l’azione dello spirito divino ». 55 Lo Spirito non interviene in qualche momento determinato del processo di ascolto della parola, trasformando ad un certo punto quest’ultimo da ordinario evento psicologico in vissuto spirituale e straordinario. È lo stesso vissuto che può esser sottoposto a due modi di considerazione o, come Otto dirà riprendendo questi medesimi temi in un saggio più tardo, a « due sguardi » (zwei Anblicke). 56 L’azione della parola su chi la ascolta è un processo integralmente psicologico – « un vissuto reale » 57 – e, nello stesso tempo e senza contraddizione, integralmente descrivibile in termini di azione dello Spirito. E il compito della teologia non è altro che quello di « tentare la dimostrazione del diritto e della possibilità delle due [considerazioni] l’una accanto all’altra, ossia infine, della loro interna identità ». 58 Il dato di fatto incontestabile che per qualcuno la parola possa restare frigida notio, che essa risulti cioè incapace di muovere l’uditore al vissuto della fede, non preclude affatto la possibilità di « un doppio modo di considerazione », anche in questo caso specifico : Lutero « descrive innumerevoli volte [questa situazione] con il misterioso dominio dello Spirito, che soffia dove e quando vuole ». 59 Otto non ha difficoltà a riconoscere che l’esclusione di un intervento soprannaturale implica il rischio di una certa circolarità : in sostanza, se non si può ricorrere ad un’azione puntuale e straordinaria per spiegare la mutazione qualitativa del vissuto, se tutto è riducibile al vissuto psicologico reale della comprensione (che può aver luogo o non aver luogo), questo potrebbe significare che l’esito dell’ascolto è già determinato prima che esso abbia effettivamente luogo : che la parola è davvero compresa solo da chi è già in condizione di farlo, ossia che la parola muove alla fede solo chi già è nella fede. E in un certo senso è del tutto ovvio che sia così, come Otto prova a spiegare ricorrendo ad un esempio che riutilizzerà poi diverse volte, e soprattutto in un luogo teoreticamente decisivo del Sacro : « Chi non possiede ancora alcuna comprensione per la musica resterà freddo di fronte a qualsiasi esecuzione musicale ; se però deve arrivare alla comprensione, allora l’unico mezzo è che egli ascolti e pratichi della musica. Così  



































































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54 55   AHG, p. 58.   AHG, p. 102.   AHG, p. 106.   Cfr. Rationale Theologie gegen naturalistischen Irrationalismus, in SU, p. 220. 57 58   AHG, p. 72.   AHG, p. 106. 59   AHG, p. 72. Scrive ancora Otto : « L’intus docere di Dio non è legato ad alcuna condizione umana. Non è né in mano del maestro, né dell’uditore. Può esser connesso al primo ascolto della parola, ma può anche giungere molto dopo ; e può non giungere affatto ». 56









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anche con la parola. Chi non è devoto resterà freddo. Ma se deve diventare devoto, allora deve lasciarla agire su di sé in modo duraturo. La parola può di per sé scaldare chi è freddo. È nell’ascolto che arriva la comprensione ». 60 Si profila già qui in tutta chiarezza quella che in seguito diventerà una vera e propria teoria dell’a priori religioso. Ma è opportuno concludere su un altro esito particolarmente interessante di questa teoria della doppelte Betrachtungsweise, anch’esso destinato a riprese e sviluppi significativi e del quale tuttavia Otto non sembra fino in fondo consapevole. La paradossale coesistenza (o « interiore identità ») del dominio empiriconaturale e di quello spirituale accade, come si è visto, sul piano di un Erleben religioso, che per il fatto stesso di esser ascrivibile contemporaneamente all’uno e sull’altro piano, si rivela eccedente rispetto ad entrambi ed attiva una terminologia e una concettualità nuova, irriducibile all’uno e all’altro. La fede è un evento integralmente psicologico e contemporaneamente, e senza contraddizione, è opera del soffio dello Spirito : la dialettica di esclusione reciproca tra naturale e soprannaturale diviene tutta interna all’Erlebnis, 61 che si arricchisce così di una nuova dimensione di profondità. Questa situazione non può esser descritta adeguatamente, se non rinunciando alla categoria della causalità, naturale o soprannaturale che sia, e adottando un linguaggio assai più semplice e più prossimo all’esperienza ordinaria. Scrive Otto : « il suo [di Lutero] Dio non agisce nella natura dell’uomo, né nell’uomo in quanto natura, ma da persona a persona » ; 62 e dunque « Il Dio del cristiano è quello personale, che ha voluto l’uomo a sua immagine e in comunità personale. Le persone non interagiscono tra loro, non operano l’una sull’altra senza o a prescindere dal “mezzo”. Questo significa : senza o a prescindere dalla rivelazione, l’autopresentazione della propria interiorità, dell’intenzione, della volontà e senza l’effetto di questa espressione di sé sul sentimento e sulla volontà dell’altro in quanto impulso e motivo. La causalità tra persone è motivazione, e quel che tra loro non è motivazione, lo operano come cose : cose forse di ordine iperfisico e di influssi miracolosi, ma non come persone ». 63 La dicotomia naturale/soprannaturale è pertinente nel mondo delle cose, non in quello delle persone e dei loro vissuti. Al termine del percorso è possibile osservare che la formulazione di partenza del « problema religioso fondamentale » risente di un’impostazione già viziata da una concettualità che ne impedisce una corretta interpretazione e da una comprensione indebitamente naturalistica della psicologia, incapace di accedere alla complessità dell’Erlebnis. Il ragionamento di Otto mira a mostrare come il religiöses Grundproblem coincida in ultima istanza con l’analisi del « vissuto religioso fondamentale (das religiöse Grunderlebnis), che Lutero stesso lega sempre di nuovo allo “spiritus sanctus” ». 64 Un vissuto che, come Otto accenna in conclusione, con un’espressione che non può non suonare familiare a chi conosca l’opera del 1917, può esser definito come il « sentire specificamente religioso » solo quando è « il sacro brivido di fronte all’eterno (das heilige Erschaudern vor dem Ewigen) ». 65  







































60

  AHG, p. 72. Cfr. DH, cap. xxi, p. 166 ; infra, p. 295.   Cfr. H.-W. Schütte, Religion und Christentum, cit., pp. 14-5 : « È istruttivo osservare che l’esclusione della motivazione soprannaturale, che è esposta dal concetto “spiritus sanctus”, include una peculiare dialettica. Le serie di motivazione, che in prima battuta si rapportano l’una all’altra in modo esteriore e che sembrano tendere alla riduzione di una all’altra senza che questa riduzione accada completamente, si trasferiscono nel concetto stesso di religione. Con ciò la contrapposizione tra fondazione soprannaturale e fondazione empiricopsicologica della religione diventa una contrapposizione interna alla fondazione psicologica stessa [c. n.] ». 62 63   AHG, p. 52.   AHG, pp. 97-98. 64 65   AHG, p. 1.   AHG, p. 86. 61









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3. Antinomia e presentimento : le chiavi di volta della filosofia della religione di Otto  

Dal lavoro su Lutero emergono due elementi chiave in funzione dei quali Otto riformula il problema religioso fondamentale : a) un modo nuovo di impostare il rapporto tra naturale e soprannaturale (i « due sguardi ») ; b) l’individuazione dello spazio del « vissuto » (Erlebnis), quale dimensione specifica – non naturale, né soprannaturale – della religione. Più che acquisizioni definitive sono indicazioni di un percorso che Otto imboccherà con decisione nella produzione successiva. Lo attesta il volumetto su vita e opera di Gesù, che – pur esibendo, fin dal sottotitolo, una piena adesione alla « concezione storico-critica » 66 e dunque al proposito di separare il nucleo storico dei testi neotestamentari dall’elemento di « leggenda » che « qua e là » affiora in essi 67 –, fa perno proprio sulla nozione di « vissuto interiore » 68 per rifiutare una lettura riduzionistica del fatto religioso. 69 Ma lo attesta, soprattutto, l’assai più ampio lavoro Naturalistiche und religiöse Weltansicht [La visione del mondo naturalistica e quella religiosa], pubblicato nel 1904, nel quale Otto dà luogo ad un amplissimo confronto tra la visione del mondo religiosa e quella offerta dalla scienza ; un confronto che, discutendo sistematicamente le principali posizioni filosofiche ispirate al darwinismo, si interroga sul « diritto e [sulla] libertà della visione devota del mondo nei confronti della conoscenza universale del mondo », 70 e studia i modelli di possibile compatibilità tra le due. 71 È però con la già più volte citata Filosofia della religione kantiano-friesiana, pubblicata nel 1909, che Otto arriva a configurare in una visione complessiva le due questioni summenzionate. Fino all’incontro con Leonard Nelson, che dal 1903 riuniva a Gottinga un circolo di studio e discussione dedicato a Jakob Fries, la giustificazione teorica per fare del « vissuto » il nucleo essenziale della religione era declinata da Otto per lo più in termini schleiermacheriani (di uno Schleiermacher letto evidentemente con la mediazione di  





































66   Leben und Wirken Jesu nach historisch-kritischer Auffassung, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 19054 [LWJ]. Il testo raccoglie una serie di conferenze tenute a Hannover nel 1901 e stampate in prima edizione nello stesso anno « come dattiloscritto ». Il tentativo di tenere una posizione d’equilibrio tra gli eccessi opposti di un tradizionalismo astorico e di un liberalismo teologico paradossalmente cieco di fronte allo specifico dell’esperienza religiosa, scontentò gli uni e gli altri : il Berliner Oberkirchenrat, giudicando il testo troppo liberale, bloccò la chiamata di Otto a Breslau (che si concretizzò poi solo nel 1915) ; per motivi opposti fallì la chiamata a Basilea (cfr. R. Schinzer, Rudolf Otto. Entwurf einer Biographie, in E. Benz (Hrsg.), Rudolf Otto’s Bedeutung..., cit., pp. 1-29). 67 68   LWJ, p. 48.   LWJ, p. 50. 69   Cfr., per esempio, LWJ, p. 38, dove a proposito del racconto dell’apertura dei cieli in occasione del battesimo di Gesù, Otto si chiede : « Di che vissuto si tratta ? Noi parliamo di visioni, di allucinazioni visive e uditive e costruiamo in fretta diverse spiegazioni psicologiche plausibili : “eccitazione potente della vita emotiva, fantasia plastica, sovreccitazione nervosa”. Ma queste parole sono adeguate all’elemento più intimo del processo ? Spiegano questa immediata certezza di ogni coscienza profetica di aver colto nel sentimento la realtà stessa divina ed eterna ? ». 70   Naturalistische und religiöse Weltansicht, Mohr, Tübingen 1904 [NRW], p. 5. 71   Cfr. NRW, p. 32 : « Potrebbe essere, infatti, che l’interpretazione e la considerazione matematico-meccanica delle cose, anche nel caso in cui avesse successo nel suo ambito, non toglierebbe alla natura quel carattere che la devozione cerca in essa e di cui ha bisogno (telelogia, dipendenza e mistero). Oppure potrebbe essere che la natura stessa non corrisponda a quell’ideale di esplicabilità matematica, per cui tale ideale sarebbe, certo, un filo conduttore nel procedere, ma non sarebbe sarebbe un’evidenza fondamentale che varrebbe veramente per la natura in totalità e secondo la sua essenza ; e che anzi non si riuscirebbe a sottoporre la natura come tutto a questa regola se non con violenza ».  

















   









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Dilthey, al quale, non a caso, Otto dedica l’edizione delle Reden curata in occasione del centenario della pubblicazione 73). In questo senso il saggio sulla Rinascita del sensus numinis in Schleiermacher, la cui versione originaria (1903) precede l’incontro con Nelson e lo studio di Fries, rappresenta un documento significativo : qui, infatti, a differenza di altri luoghi in cui prevale la sottolineatura di una presa di distanza, 74 Otto dichiara senza reticenze il proprio debito nei confronti dell’autore delle Reden. A questo « Padre della Chiesa del protestantesimo moderno » 75 Otto riconosce il merito di aver colto, nella « formula definitoria : “intuizione e sentimento dell’universo” », 76 lo specifico della religione, che, paradossalmente, consiste nel « fatto che non si è in grado di dare una definizione di “religione in generale” » : 77 intuizione e sentimento, infatti, non rimandano ad un atto dell’intelletto o della volontà, ma ad « un silenzioso e profondissimo Erleben dell’animo ». 78 Se, però, ancora nella Naturalistische und religiöse Weltansicht, la teoria del « sentimento » di Schleiermacher (« meno preciso nell’espressione, ma più ricco di Fries nell’idea » 79) viene ritenuto un punto di riferimento teorico privilegiato rispetto alla dottrina friesiana, a partire dalla Filosofia della religione il giudizio si ribalta : « La dottrina del presentimento (Ahndung) compare in Fries sin dal principio in una solida posizione filosofica : in Schleiermacher, invece, è innanzitutto una divinazione, che conserva qualcosa del metodo delle “intuizioni improvvise” con cui si filosofava nei circoli romantici [...]. E quando la concezione originaria vuole esprimersi in modo più preciso nel successivo sviluppo di Schleiermacher, dell’originaria ricchezza e abbondanza resta solo il “sentimento dell’assoluta dipendenza”, una descrizione assai inadeguata e unilaterale del sentimento religioso che Fries sviluppa in modo molto più vario e determinato ». 80 In altri termini : nella teoria friesiana della Ahnung 81 (per come egli la comprende 82) Otto ravvisa una cornice teorica complessivamente più solida di quanto non siano le « intui72











































72   Non è certo da Schleiermacher che Otto poteva aver tratto la pregnanza teorica dell’Erlebnis. Come rileva Gadamer, infatti, « la parola Erlebnis non si trova ancora in Schleiermacher, anzi, a quanto pare, nemmeno la parola Erleben [...]. Di fatto troviamo nella biografia di Schleiermacher di Dilthey, là dove si parla dell’intuizione religiosa, un uso particolarmente pregnante della parola Erlebnis » ; cfr. H. G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen, Mohr, 1986, p. 69 ; tr. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 20012, p. 151. 73   Cfr. F. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1899, 19062. 74   Cfr., p. e., i tre « errori » di Schleiermacher che Otto rileva e discute nei capp. iii e iv di DH. 75 76   SU, p. 124 ; infra, p. 327.   SU, p. 134 ; infra, p. 333. 77 78   SU, p. 134 ; infra, p. 333.   SU, p. 131 ; infra, p. 332. 79 80   NRW, p. 58.   KFR, p. 9 ; infra, p. 75. 81   Questa è la grafia corretta del termine. Come spiega Kluge (F. Kluge, Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache, Berlin, De Gruyter, 1960, s.v.), la variante Ahndung è una retroformazione erronea, che si diffonde in quelle regioni il cui dialetto modifica la terminazione -det della terza persona di alcuni verbi (findet, bindet) in -t (fint, bint). Dalla forma corretta ahnt (es ahnt mir) si risale dunque, per analogia, ad ahndet e dunque al sostantivo Ahndung, che in realtà significa di per sé « punizione ». La forma errata si diffonde nel periodo classico, soprattutto per influenza di Klopstock, al punto che nella Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (§35, nota), Kant non esita a dichiararla come l’unica corretta, arrischiandosi persino a ‘dedurre’ il significato di « punizione » da quello di « presentimento ». Alla spiegazione kantiana si oppone Herder che nella Metakritik osseva come i vocaboli, e i rispettivi significati, siano del tutto indipendenti (cfr. J. G. Herder, Verstand und Erfahrung. Eine Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft, Ester Teil, Leipzig 1799, pp. 454-455 ; ora in « Aetas Kantiana », Bruxelles, Culture et civilisation, 1969). 82   Per una valutazione del rapporto tra acquisizione e rielaborazione originale del pensiero di Fries da parte di Otto, la cui lettura è influenzata, tra l’altro, in modo significativo da Ernst Friedrich Apelt, cfr. A. Paus, Religiöser Erkenntnisgrund. Herkunft und Wesen der Aprioritheorie Rudolf Ottos, Leiden, Brill, 1966.  







































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zioni improvvise » o il « sentimento di dipendenza assoluta » : e ciò accade, come ci proponiamo di verificare, perché è Fries – e non Schleiermacher – che offre gli strumenti per configurare in una forma teoreticamente convincente il tema dei « due sguardi » ereditato da Lutero. Ma procediamo con ordine. Nella Prefazione della Filosofia della religione Otto riformula il problema dell’essenza della religione, con un’articolazione e una sistematicità tutta nuova rispetto alle opere precedenti. La domanda « che cos’è la religione ? » viene ora articolata su quattro piani diversi : i primi due, che Otto definisce « filosofia della religione in senso largo » e che riguardano il problema dell’« essenza della religione », sono costituiti dalla psicologia della religione (consistente nell’« autoosservazione della coscienza religiosa » e della sua « esperienza interna » 83) e dalla « storia della religione comparata » (che consiste nell’estensione, per « induzione storica », 84 dei risultati ottenuti sul primo livello). Della domanda sulla « verità della religione » si occupa invece la « filosofia della religione in senso stretto », che Otto caratterizza in termini manifestamente kantiani e che si articola, a sua volta, in due momenti fondamentali : il primo è quello della « critica della ragione », che si interroga su « come la religione, la convinzione e l’esperienza vissuta religiosa, sorga nello spirito razionale, da quali facoltà e disposizioni del medesimo essa proceda e quale pretesa di validità con ciò abbia » ; 85 il secondo momento è quello della « metafisica », che individua « contenuto supremo e massimamente universale di principi, di conoscenze e convinzioni somme e universalissime » 86 relativi all’ambito specifico della religione (che la « critica » ha preliminarmente delimitato). Da sottolineare che Otto riserva a quest’opera la trattazione della « filosofia della religione in senso stretto », demandando ad un volume successivo l’indagine psicologica e quella storico-comparata. La tesi centrale di Otto è che la domanda critico-trascendentale circa il radicamento della religione in una facoltà dello « spirito razionale », domanda che, pur con qualche riserva, viene accostata alla tematica troeltschiana dell’« a priori religioso », 87 possa esser correttamente elaborata soltanto avvalendosi della profonda revisione del kantismo operata da Jakob Fries. La prima giustificazione addotta dell’attenzione privilegiata riservata a questo autore coincide, ancora una volta, con una chiara rivendicazione di razionalismo da parte di Otto. Fries, secondo la lettura di Otto, è il vero successore di Kant, poiché come quest’ultimo – e a differenza dei più noti esponenti dell’idealismo classico tedesco – è un autentico prosecutore dell’illuminismo : la dottrina friesiana del « presentimento », quali che siano le risonanze misticheggianti del termine Ahnung (che si potrebbe tradurre anche « presagio », se ciò non privilegiasse inopportunamente il versante, appunto, ‘irrazionale’ del termine), può esser compresa soltanto nel contesto della « linea razionalistica dell’illuminismo ». 88 Certo, Fries si oppone alla riduzione unilaterale del razionalismo in « pregiudizio razionalistico », 89 ma anche questo, per Otto, è un atteggiamento tipico del più schietto spirito dell’illuminismo, e più in generale di quel movimento storico di ampio respiro, che ha tra i suoi esponenti Voltaire, Lessing, Rousseau, Hume, Locke, Leibniz, Spinoza e Cartesio, e che risale – ecco il punto – fino a Lutero : « tra il De servo arbitrio di Lutero e la grande dottrina di Kant vi è una catena evolutiva  













































































































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84   KFR, p. v ; infra, p. 67.   KFR, p. vi ; infra, p. 67. 86   KFR, p. vi ; infra, p. 68.   KFR, p. vii ; infra, p. 68. 87   « Espressione non molto felice ed esposta a fraintendimenti », KFR, p. 3 ; infra, p. 72. Cfr. E. Troeltsch, Psychologie und Erkenntnistheorie in der Religionswissenschaft, Tübingen, Mohr, 1905. 88 89   KFR, p. 18 ; infra, p. 83.   KFR ; p. 6 ; infra, p. 74  

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continua » ; e un’analoga continuità, aggiungiamo noi, tiene insieme la Anschauung e la Filosofia della religione. Secondo Otto, tutti i tratti caratteristici di quell’atteggiamento illuministico e razionalistico nei confronti della religione, di cui Fries è legittimo erede, possono essere ricondotti al Riformatore. Per esempio, l’idea che la religione non possa essere dedotta da verità contingenti, e che dunque non abbia a che fare con il miracolo, con l’autorità o con il magistero, ma con un’adesione interiore e libera alla sua verità necessaria, e dunque accessibile a priori, è implicita nel tema della « testimonianza interiore dello spirito », già emerso nell’Anschauung. 91 Ma anche la convinzione, altrettanto tipica dell’illuminismo, per cui la religione non ha la sua verità in dottrine complicate e artificiose, ma in quella lockeana « ragionevolezza » accessibile tanto ai dotti quanto ai semplici, « prosegue il tratto e lo spirito che vive in Lutero » : e questo, per Otto, è tanto « evidente » che « Mettere in rapporto di contrapposizione e reciproca esclusione illuminismo e riforma significa contraddire la storia ». 92 C’è infine un terzo elemento che salda la catena di continuità tra Lutero, il razionalismo illuminista e Fries, con l’evidenziazione del quale Otto si riallaccia direttamente al problema posto nell’opera prima : « già nella teologia di Lutero si attua quella significativa rottura con la rappresentazione ingenua del rapporto tra il mondo soprannaturale e quello dei sensi, dell’esperienza, della scienza della natura. Questa prima rappresentazione pone ingenuamente Dio, eternità, aldilà, mondo soprasensibile, come una parte di questo stesso mondo, solo invisibile. Da qui scaturisce, fino ad oggi, ogni genere di pericolo per la validità della convinzione religiosa. Nel crescere della comprensione del mondo, infatti, il mondo visibile cresce, conquista spazio dopo spazio, diviene sempre più autosufficiente, finché l’invisibile deve rifugiarsi nelle crepe e nelle giunture del naturale. Già in Lutero, però, si prepara la visione che viene poi per lungo tempo portata avanti dalla teologia dell’illuminismo e che forma la prima contrapposizione possibile alla rappresentazione ingenua, divenendo il primo stadio di una soluzione migliore e più sicura ». 93 Se si identifica l’ambito di pertinenza della religione con il soprannaturale, ossia con quel mondo invisibile che si annuncia nelle crepe o nelle momentanee interruzioni della legalità propria della natura visibile, la religione vedrà progressivamente erosi i propri territori e sarà costretta a confinarsi in uno spazio via via più angusto, a misura che le scoperte della scienza allargano il dominio della natura. L’errore di fondo di questa concezione, concepire il divino come soprannaturale, impedisce di cogliere il carattere propriamente trascendente del divino medesimo. Due mondi posti l’uno accanto all’altro, il primo visibile e il secondo invisibile, formano in realtà un sistema unico : Otto insiste a più riprese sul fatto che il miracolo non è che l’altra faccia della legalità naturale, che presuppone e conferma quest’ultima. Si potrebbe riassumere la posizione di Otto con la formula lapidaria : o la trascendenza è – paradossalmente – di questo mondo, o semplicemente non è. La vera novità rispetto alla Anschauung è che Otto ritiene di avere ora gli strumenti  



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  KFR, pp. 26-27 ; infra, p. 88.   Cfr. AHG, p. 39, in cui Otto discute la lettura proposta da Lutero del « testimonium Spiritus » paolino in Rm 8, 15-16. Propriamente l’espressione « testimonium spiritus sancti internum » è di Calvino, per il quale tale « testimonianza interiore dello spirito » è il criterio veritativo ultimo della Scrittura e della sua interpretazione : cfr. Institutiones christianae religionis, i, 7, 4. 92 93   KFR, p. 19 ; infra, p. 84.   KFR, p. 24 ; infra, p. 87.  

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per sostenere che la posizione di Lutero è solo « il primo stadio di una soluzione migliore e più sicura » ; una soluzione che viene alla luce innanzitutto grazie al modo in cui Kant riformula il tentativo luterano di superare il « dualismo ingenuo » : Kant, infatti, « mediante la sua dottrina delle antinomie [...] offre a quella prima, grandiosa e radicale contrapposizione dell’eterno e del temporale, dell’infinito e del finito, la sua salda posizione filosofica ». 94 L’antinomia è insomma il modo filosoficamente maturo di impostare il medesimo problema dei « due sguardi » di Lutero, come Otto aveva ipotizzato, senza approfondire la questione, sin dalla Anschauung. 95 La scoperta kantiana dell’apriorità della conoscenza garantisce, contro l’obiezione scettica, la validità razionale dell’« immagine del mondo di Galilei e Newton » ; 96 un mondo descrivibile nei termini della scienza naturale, matematico, meccanico, i cui eventi interni sono senza eccezione possibile determinati dalla causalità, « ermeticamente chiuso ». 97 E tuttavia, la ragione, nel descrivere questo mondo in sé apparentemente autoconsistente, non riesce a sottoscrivere alcune tesi che l’intuizione sembrerebbe attestare in modo inconfutabile (estensione illimitata nello spazio e nel tempo, composizione, assenza di causalità libera, assenza di un incondizionato), perché le antitesi appaiono ugualmente giustificate e incontrovertibili. Kant « scopre l’errore e scioglie così per sempre questo conflitto » : 98 il mondo di cui si parla nei due casi non è lo stesso ; in un caso è il mondo che conosciamo (fenomeno), nel secondo caso è il mondo nella sua vera essenza (in sé). Ma questa soluzione kantiana rischia di essere interpretata come ennesima versione del dualismo ingenuo naturale/ soprannaturale, tale per cui l’in sé deve essere sostituito al fenomeno, quasi che questo fosse mera parvenza di quello. Su questo punto Otto è inequivocabile : non si tratta di optare per il corno vero del dilemma, rigettando quello falso, ma di comprendere la natura profonda del nesso antinomico stesso. E questo nesso – che evidentemente non è una semplice contraddizione – è possibile in virtù del fatto che tesi e antitesi non si escludono reciprocamente, perché si muovono su piani diversi. Otto usa un’immagine molto efficace : l’antinomia rivela la finitezza della nostra conoscenza fenomenica, che è limitata e parziale come limitata e parziale è la visione di un paesaggio immerso nella nebbia. Ma questa rivelazione non toglie la nebbia : « la “nebbia” che copriva il “paesaggio” non si squarcia, ma viene conosciuta come nebbia ». 99 Secondo Otto, mentre l’idealismo ha imboccato la versione, per dir così, banale dell’antinomia kantiana, Fries ha proseguito sulla diramazione più feconda tra quelle che si dipartono da Kant, impostando correttamente il rapporto tra il mondo fenomenico e quello in sé : ciò richiede, però, la correzione del criticismo su un punto fondamentale. È chiaro, infatti, che tutto il ragionamento appena svolto funziona solo se uno dei due lati dell’antinomia può essere effettivamente còlto come espressione dell’« in sé » : il che presuppone una possibilità reale di accesso a quest’ultimo che evidentemente la conoscenza fenomenica non è in grado di garantire. Vediamo meglio. L’intera discussione delle antinomie è finalizzata, dichiara Otto, ad un unico esito decisivo : « L’esposizione drammatica dell’antinomia della ragione è ora, propriamente,  

























































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  KFR, p. 27 ; infra, p. 88.   Cfr. AHG, p. 103 : « Sarebbe un compito a sé quello di determinare se si possa gestire il problema [...] ancor meglio nel modo del criticismo, tenendo aperta la strada di quella “doppia valutazione” mediante il rimando alla differenza della cosa in sé e del fenomeno ». 96 97   KFR, p. 29 ; infra, p. 89.   KFR, p. 39 ; infra, p. 97. 98 99   KFR ; p. 58 ; infra, p. 109.   KFR, p. 59 ; infra, p. 109.  

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soltanto un mezzo particolarmente drastico per renderci attenti e per portare alla coscienza ciò che risiede nascostamente in ogni ragione quale più profonda e immediata conoscenza fondamentale ». 100 L’allargamento del campo di validità di questa « conoscenza profonda e immediata », che Kant ha individuato, senza però esplorarne tutte le possibilità, è l’elemento che Otto saluta come rinnovamento e inveramento del kantismo da parte di Fries. Per Fries, Kant incappa in un « errore » che limita significativamente la portata della scoperta critica : egli dà, infatti, per scontata l’equiparazione di due attributi della conoscenza, che in realtà non sono affatto connessi in modo necessario : apriorità e soggettività. Kant ritiene che una conoscenza che non derivi dall’esperienza (una conoscenza che sia, appunto, a priori) non possa dare accesso ad una realtà esterna al soggetto e che sia dunque essa stessa soggettiva, fenomenica, meramente ideale. Questo assunto, per Fries, è falso e si basa su una concezione riduttiva (e in ultima analisi contraddittoria) del rapporto tra « a priori » ed « esperienza » : sostenere che la percezione sensibile è il criterio dell’oggettività di una conoscenza, perché in essa il soggetto subisce l’affezione di un oggetto esterno, significa attribuire in partenza alla causalità (che in quanto categoria a priori dovrebbe essere appunto soggettiva e ideale) quella oggettività che si doveva dimostrare. La circolarità non è casuale ed è il segnale più chiaro del fatto che qui una dimostrazione è per un verso impossibile, e per altro verso superflua. Il dato fondamentale e primo è « il fatto della fiducia della ragione nei confronti di se stessa di avere una conoscenza reale, ossia, in primo luogo e in modo del tutto universale, la fede (Glaube) nella realtà oggettiva dell’essere e dell’esistenza in generale. Questa fede non è passibile di dimostrazione (Beweis) ». 101 Si deve notare che quest’opposizione di « dimostrazione » e « fede » non ha a che fare (per lo meno in prima battuta) con l’apertura di un dominio specifico di pertinenza della religione, ma è tutta interna alla conoscenza in generale. Quest’ultima si rivela in qualche modo più ampia del solo « sapere », e richiede di conseguenza un approccio che rinunci alla « dimostrazione » (Beweis) in favore di un’« attestazione » (Nachweis) consapevole del proprio intervenire solo « dopo » (nach, appunto) e in conseguenza di una preliminare presa d’atto di ciò che si dà senza poter essere dimostrato. 102 Otto sottolinea come il merito di Fries consista nell’aver reso esplicito un livello del complesso funzionamento dell’apparato trascendentale, che in Kant resta inesplicito e, in gran parte, inindagato : la « conoscenza immediata della ragione » non è soltanto la condizione di possibilità della « scienza pura della natura », ossia del mondo fenomenico oggetto possibile di indagine scientifica ; è, più originariamente, la condizione del rapporto al mondo in generale, anche a quello « quotidiano », nel quale il problema critico non si è ancora posto e al quale l’uomo (non necessariamente filosofo) è fiduciosamente aperto : « Assai prima che abbia luogo questa scoperta critica della conoscenza immediata della ragione, quest’ultima è efficace tanto nel quotidiano, quanto nella scienza. [...] Ma lo stato in cui la conoscenza immediata si dimostra efficace anche prima che l’oscurità originaria sia illuminata è il sentimento della verità. Nel sentimento della verità possediamo e si rendono valide conoscenze oscure : esprimerle chiaramente e render 









































































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101   KFR, p. 60 ; infra, p. 110.   KFR, p. 60 ; infra, p. 110.   Sulla possibilità di rilevare una vicinanza tutt’altro che estrinseca con alcuni temi e istanze della fenomenologia cosiddetta filosofica (husserliana, e non solo), ci permettiamo di rimandare al nostro Rudolf Otto e le due fenomenologie della religione, « Archivio di filosofia », 75, 2007, pp. 169-182.  



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sene consapevoli secondo la loro validità è affidato alla filosofia quale suo compito più importante ». 103 Il « sentimento della verità », per l’Otto discepolo di Fries, accompagna e contribuisce a strutturare l’incontro tra il soggetto e il mondo, assicurando al soggetto che in tale incontro ha luogo a tutti gli effetti una conoscenza, ancorché implicita e indimostrabile, e una conoscenza a priori del mondo quale realmente è, non quale noi lo conosciamo. 104 Se questo appare paradossale dal punto di vista strettamente kantiano, è perché domina incontrastato il vizio d’origine denunciato da Fries : perché l’a priori, ridotto ad idealità, subisce una ingiustificata mutilazione delle sue proprie possibilità. Si considerino le categorie : di per sé « sono “concetti puri a priori”. Come tali sono conoscenze. In esse cogliamo puramente da noi stessi, dalla ragione pura, e del tutto indipendentemente dall’esperienza, ciò che in generale è determinazione fondamentale di ogni essere ». 105 Questa conoscenza a priori diventa in effetti soggettiva nel momento in cui le categorie subiscono quella « restrizione » della loro validità che ha luogo nello schematismo trascendentale, e che consiste nel proiettare la categoria sulla serie temporale. Si tratta, certo, di una restrizione inevitabile per la conoscenza del mondo spazio-temporale quale oggetto possibile di una scienza, il quale non può mostrarsi se non in virtù dell’azione combinata di intuizione e intelletto (Fries, per tornare all’esempio di cui sopra, non pretende di diradare la nebbia 106). Ciò non toglie che le categorie consegnino alla ragione una conoscenza a priori, di per sé perfettamente valida, che si estrinseca nelle « idee » della ragione : queste ultime non sono altro che l’espressione di « ciò che è disposto oscuramente nella conoscenza immediata », 107 prima che subisca la restrizione ad opera dell’intuizione spazio-temporale. Sul piano del pensare, queste idee sono meramente negative, anzi doppiamente negative, in quanto sono frutto di una negazione (seconda) della negazione (prima) rappresentata dalla restrizione sensibile. Ma in virtù del « sentimento della verità », ossia – friesianamente – della Ahnung, queste idee esibiscono un contenuto positivo ; un contenuto che coincide con il contenuto della religione : divinità, immortalità dell’anima, libertà degli spiriti, non sono altro che il modo in cui il presentimento schematizza la conoscenza a priori – in sé solo negativa – che le categorie offrono indipendentemente dalla restrizione della sensibilità : « mediante la fede si conosce, e si conosce in “doppia negazione” ». 108 È significativo che Otto, con un movimento in tutto e per tutto simile a quello che abbiamo riscontrato nella conclusione della Anschauung a proposito del « vissuto », insista sul fatto che questa conoscenza di « fede » – che non può risolversi in contenuti positivi sul piano teoretico – è condizione trascendentale di possibilità del darsi non già di un qualche sopramondo trascendente, ma del nostro mondo quotidiano, il quale non è quello dell’immagine naturalistica di Newton e Galilei : un conto è il mondo dell’esistenza materiale, che appare al soggetto trascendentale dotato di intelletto e sensibilità, e nel quale l’ente ci è dato nei « predicati puramente spazio-temporali (estensione,  





















































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  KFR, p. 43 ; infra, p. 98.   Sulla portata gnoseologica del sentimento cfr. GÜ, p. 327 : « Per “sentimento” non intendiamo qui stati soggettivi, ma un atto della stessa ragione, un modo della conoscenza, che si distingue dal modo della 105   KFR, p. 35 ; infra, p. 93. conoscenza mediante l’“intelletto” ». 106   Da questo punto di vista rischia di essere sviante il modo in cui Paus restituisce il « filo rosso » tra le opere di Otto, individuandolo nella « concezione secondo la quale il mondo esteriore percepibile con i sensi è immagine di un altro mondo » (A. Paus, Religiöser Erkenntnisgrund. Herkunft und Wesen der Aprioritheorie Rudolf Ottos, cit., p. 84). 107 108   KFR, p. 63 ; infra, p. 113.   KFR, p. 82 ; infra, p. 124.  

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movimento, modificazione di movimento e situazione) e secondo rapporti puramente quantitativi » ; 109 un conto è il mondo che appare allo « spirito » e che appare « del tutto diversamente (gänzlich anders) nel modo determinato qualitativamente : nelle qualità esterne, quelle del colore, del suono, dell’odore, del peso, del calore, della durezza, della dolcezza, e così via, e nelle qualità interne come piacere, dispiacere, sentire, rappresentare, volere, appetire, collera, odio, amore ». 110 Non sfugga questa anticipazione del « totalmente altro » che rischia di passare inosservata e che è invece una spia preziosa del fatto che il mondo banalmente quotidiano, e proprio perciò « gänzlich anders » rispetto a quello scientifico, è lo stesso mondo rivelato dalla religione : « Di per sé la religione è esperienza vissuta del mistero assoluto : non di un mistero che sarebbe tale solo per i non iniziati e che sarebbe risolto per i gradi superiori ; ma mistero, che può esser sentito, di tutta l’esistenza temporale in generale, trasparire della realtà eterna attraverso il velo della temporalità per un animo dischiuso a ciò ». 111 Il mistero è la possibilità del « doppio sguardo », che non investe questa o quella parte incomprensibile dell’esistenza, ma l’esistenza temporale in quanto tale, del tutto accessibile nella banalità del quotidiano, e contemporaneamente del tutto misteriosa. Questo è il senso profondo dell’antinomia, la quale rivela per contraccolpo tutte le dimensioni della « conoscenza immediata della ragione », il radicarsi di quest’ultima nel presentimento, perché soltanto una ragione capace di « presentimento », è capace anche di cogliere la « peculiare doppiezza dell’ente che è impossibile arrotondare ad unità ». 112 Con l’individuazione del « presentimento » quale luogo sorgivo della religione il filosofo ha raggiunto gli obiettivi che si prefiggeva all’inizio e ha aperto un nuovo campo di ricerca allo studioso della religione : « Se si desta la domanda circa la validità della convinzione religiosa, allora c’è qui soltanto un metodo : quello dell’autoaccertamento della coscienza religiosa, ossia, appunto, la ricerca delle sue sorgenti, della conoscenza immediata e della sua affidabilità. Questo metodo è quello della “deduzione”. È l’esibizione critica del che, del come e di quali idee si fondino realmente sulla ragione. Ha la forma di una dimostrazione, ma in effetti è soltanto un esame e una riflessione introspettiva (Selbstbesinnung) ». 113 L’introspezione religiosa deve insomma chiarire quali sono le forme della coscienza religiosa, cioè del vissuto del presentimento. Ma con ciò, l’ambito di indagine dell’opera maggiore è chiaramente predelineato.  



























































4. Il « sacro » come categoria d’interpretazione del fenomeno religioso  



Uno degli aspetti più caratteristici e affascinanti del Sacro, pubblicato appena prima che Otto fosse chiamato a Marburgo sulla prestigiosa cattedra che era stata di Wilhelm Herrmann, consiste nell’estrema compattezza dell’opera, tutta concentrata su un’unica idea portante, efficacemente espressa, suggestiva e soprattutto capace di proporsi come apertura di un campo di ricerca nuovo. La riflessione introspettiva sulle forme del sentimento tipiche della coscienza religiosa, preannunciata nella Filosofia della religione, si concentra ora nell’individuazione di un vissuto del tutto specifico, capace di tracciare con esattezza i confini di una zona d’esperienza a sé e irriducibile ad ogni altra : quella, per l’appunto, del « sacro » (heilig). Sulla base di alcune enfatiche affermazioni dello stesso Otto si potrebbe esser tentati di fissare con esattezza la data d’inizio della gestazione del capolavoro del 1917, facen 



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  KFR, p. 65 ; infra, p. 114.   KFR, p. 65 ; infra, p. 114.

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  KFR, p. 65 ; infra, p. 114.  

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  KFR, p. 75 ; infra, p. 120.   KFR, p. 75 ; infra, p. 121.

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dola risalire al viaggio in Nordafrica che Otto intraprende nel marzo del 1911 e in particolare all’episodio di profonda commozione vissuta dall’autore durante la preghiera del sabato in una sinagoga di Mogador in Marocco. Otto racconta che nel momento in cui il salmodiare indistinto degli oranti esplode nel triplice « Santo » (Qādôsh in ebraico, Heilig in tedesco) di Isaia 6, 3, gli si rivela d’un colpo e per la prima volta che « queste sono le parole più maestose che siano mai uscite da labbra umane ». 114 Naturalmente la questione è più complessa e, pur tenendo nel giusto conto l’importanza del dato biografico, sarebbe riduttivo ricondurre all’evento puntuale di un’illuminazione improvvisa il maturare di un’opera saldamente inserita in una trama di riferimenti interni (alla precedente produzione dell’autore) ed esterni (ad altri autori) che debbono essere tenuti ben presenti. 115 Vale la pena richiamare innanzitutto l’attenzione sul significato dell’assunzione del « sacro » quale oggetto specifico d’indagine, la quale appare di estremo interesse già sotto il profilo meramente terminologico. Che l’aggettivo heilig compaia nella forma neutra sostantivata das Heilige e sia inteso di conseguenza come denominatore comune, o come nucleo essenziale e definitorio di ciò che in generale è relativo alla religione, è proprio di un uso relativamente recente nel lessico specializzato tedesco. Molto opportunamente si è parlato di una « “scoperta” del sacro come categoria interpretativa dei fenomeni religiosi », 116 la quale ha inizio nel corso dell’Ottocento, ma si consolida definitivamente solo nel ventesimo secolo, in un processo del quale Otto rappresenta senz’altro uno degli snodi fondamentali : una scoperta di metalivello, che riguarda la categoria e non, evidentemente, il termine in sé ; 117 e che risente, tra l’altro, dell’esigenza di trovare strumenti sufficientemente flessibili e non troppo compromessi con impegnativi presupposti teorici, così da rendere possibile l’allargamento dello sguardo a tradizioni e culture religiose anche molto diverse da quella di volta in volta propria dell’eventuale osservatore. 118 Per quel che riguarda l’ambito tedesco, che qui particolarmente ci interessa, non stupisce tanto che Hegel (secondo quanto significativamente gli rimprovera Eschenmayer) « nella sua intera filosofia della religione non conceda mai al sacro la dignità di esponente specifico » : 119 colpisce piuttosto l’assenza di un’esplicita equivalenza tra la « religione » e il « sacro » in uno dei padri fondatori di quella tradizione nell’ambito della quale essa è poi venuta imponendosi, ossia Schleiermacher. 120 Ma la preistoria, per dir  

































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  Abbiamo riportato l’intero passo, tratto dal resoconto di viaggio pubblicato dallo stesso Otto sulla « Christliche Welt » nella Nota biografica, cfr. infra, p. 48. 115   Cfr. su questo G. Pfleiderer, Theologie als Wirklichkeitswissenschaft : Studien zum Religionsbegriff bei Georg Wobbermin, Rudolf Otto, Heinrich Scholz und Max Scheler, Tübingen, Mohr, 1992, p. 105. 116   G. Filoramo, Che cos’è la religione. Temi, metodi, problemi, Torino, Einaudi, 2004, p. 89. 117   Sulla storia e sull’evoluzione del termine « sacer » nelle lingue indoeuropee resta imprescindibile E. Benveniste, Vocabulaire des institutions indoeuropéennes, t. ii : Pouvoir, droit, religion, Paris, Minuit, 1969. 118   Il percorso biografico di Otto ripete questo più ampio movimento culturale, e in questo senso i numerosi viaggi (di cui diamo conto nella Nota biografica) rappresentano un dato rilevante : la scoperta del « sacro » è certo conseguenza e contemporaneamente condizione di un confronto via via più intenso con altre tradizioni religiose. 119   C. A. Eschenmayer, Die Hegel’sche Religionsphilosophie verglichen mit dem christlichen Princip, Tübingen 1834, §34, p. 25. 120   Cfr. Ph. C. Almond, Rudolf Otto : An Introduction, cit., p. 57 : « Il termine sacralità e quello affine sacro hanno una circolazione limitata nel pensiero tedesco prima del ventesimo secolo. Nella letteratura filosofica tedesca Heiligkeit, o vocaboli affini, compaiono negli scritti di Kant, Schleiermacher, Hegel e Nietzsche, ma in nessun caso nel senso di Otto ».  

























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così, del progressivo consolidarsi della categoria « das Heilige » è ancora tutta da studiare. 121 Limitiamoci dunque ad una rapidissima ricognizione del contesto di significato e d’uso del termine nel momento in cui Otto interviene, con l’opera del 1917, ad imprimere una modificazione decisiva e, per molti versi, definitiva a quel contesto medesimo. Nel movimento di appropriazione e di applicazione operativa del « sacro » come categoria interpretativa del religioso in genere, si può individuare, con un’estrema semplificazione, una polarizzazione tra i due estremi rappresentati dall’approccio criticotrascendentale e da quella storico-empirico. Emblematico del primo approccio è senz’altro l’importante saggio di Windelband del 1902, intitolato, per l’appunto, Das Heilige, 122 del quale è ragionevole presumere (pur in assenza di riferimenti espliciti) Otto fosse a conoscenza. 123 Windelband muove dall’idea che le tre grandi funzioni culturali dell’umanità – scienza, morale, arte – tendenti, rispettivamente, ai « fini ideali » del vero, del buono e del bello, esauriscono l’« ambito delle funzioni psichiche », 124 anch’esso, a sua volta, tripartito e articolato in rappresentazione, volontà e sentimento. Windelband si interroga quindi su come debba esser collocata la religione, e il sacro quale « fine, norma, ideale » 125 di questa, se non si vuole surrettiziamente postulare una facoltà ad hoc che renda conto di questa quarta fondamentale funzione culturale umana, manifestamente irriducibile alle tre summenzionate. La soluzione è sottile : il sacro non definisce un ambito accanto agli altri, ma esprime l’antinomia strutturale tra il piano normativo e quello empirico che la « coscienza scissa » 126 vive in ciascuno degli altri tre, facendo esperienza diretta del fatto che vero, buono e bello non sono suoi « prodotti » : « Il sacro è dunque la coscienza normativa del vero, del buono e del bello, vissuti come una realtà trascendente ». 127 Un uso mutatis mutandis simile si riscontra in Scheler, che, nella prima parte del Formalismus (pubblicata nel 1913), individua nel « sacro » un ambito autonomo e irriducibile di valori, che è a priori e dunque « del tutto indipendente da ciò che in epoche diverse e presso vari popoli sia valso come “sacro” » 128 e rispetto al quale « tutti gli altri valori si manifestano come simboli ». 129 È interessante osservare che Otto, che senz’altro si richiama esplicitamente alla portata trascendentale del concetto di « sacro » – come dimostra, tra l’altro, la definizione di quest’ultimo in termini di « categoria a priori » 130 – , non ritiene che ciò precluda un’appropriazione positiva delle acquisizioni guadagnate sul versante storico-empirico : l’influenza di alcune figure centrali di questo secondo approccio è esplicita e inequivocabile. Con Nathan Söderblom, per esempio, che in un fondamentale articolo del  

























































121   È utile, ancorché fin troppo scopertamente finalizzato ad una verifica empirica dei presupposti filosofico-religiosi di Rudolf Otto da cui è ispirato, il pioneristico (e isolato) studio di I. Papmehl-Rüttenauer, Das Wort Heilig in der deutschen Dichtersprache, Weimar, Böhlaus, 1937. La studiosa, che si concentra sul lessico poetico tedesco da Pyra a Herder, ritiene di poter individuare una progressiva « secolarizzazione » dell’aggettivo heilig, che si traduce in uno spostamento dall’accento « dall’ambito dell’oggetto a quello del soggetto » (p. 50) : « inoltre heilig abbandona il contesto delle rappresentazioni cristiane e si trasferisce in quello del “religioso” in senso più ampio » (p. 51). 122   W. Windelband, Das Heilige. Skizze zur Religionsphilosophie (1902), ora in Id., Präludien. Aufsätze und Reden zur Philosophie und ihrer Geschichte, ii, Tübingen, Mohr, 1921, pp. 295-332. 123   Cfr. A. Paus, Religiöser Erkenntnisgrund, cit., p. 111. 124   W. Windelband, Das Heilige, cit., p. 299. 125 126 127   Ivi, p. 297.   Ivi, p. 300.   Ivi, p. 305. 128   M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Gesammelte Werke, II, BernMünchen, Francke Verlag, 1980, p. 125. 129 130   Ivi, p. 126.   Cfr. DH, cap. xvi.  













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1913 individua l’origine empirica della religione nella reazione spirituale di spavento e sconvolgimento di fronte al sacro (holiness) inteso come potenza, 131 Otto è in rapporto personale già dall’estate del 1900132 (e non a caso lo studioso svedese è menzionato sin dalla prima edizione del Sacro). Ma nel progressivo precisarsi della posizione ottiana è decisivo anche il confronto diretto con Wilhelm Wundt. Nei tre tomi di Mythus und Religion [Mito e religione], che nel complesso costituiscono il secondo volume della Völkerpsychologie [Psicologia dei popoli], Wundt propone un’interpretazione della nascita della religione dal mito, che coglie nel momento del cosiddetto « animismo » lo snodo fondamentale di questa evoluzione. In questo contesto, a partire da un’analisi del concetto di « tabù », egli illustra il progressivo costituirsi di una distinzione decisiva « per la nascita delle forme del culto e, mediante queste, per la formazione delle rappresentazioni religiose » : « la distinzione dei concetti del sacro e dell’impuro », 133 in prima istanza ambiguamente accomunati dall’essere entrambi oggetto del divieto di contatto fisico, ma sempre più chiaramente distinguibili a misura che la semplice « paura » nei confronti della contaminazione con un oggetto impuro diviene « timore reverenziale » (Ehrfurcht) di fronte a ciò che è sacro. 134 A questa concezione di Wundt Otto dedica il saggio pubblicato nel 1910 sulla « Theologische Rundschau » (poi ripubblicato in versione definitiva in Das Gefühl des Überweltlichen), 135 che costituisce il lavoro più impegnativo del periodo che va dalla Filosofia della religione all’opera del 1917. Come è tipico degli interventi di Otto sui suoi propri testi, il saggio del 1910 viene ripreso (quasi) integralmente nella versione definitiva, che si arricchisce di ampi innesti riportanti materiale empirico e acquisizioni teoriche guadagnate via via. Per restituire nella sua completezza il confronto con l’opera wundtiana abbiamo preferito condurre la traduzione su quest’ultima versione : qui, però, terremo conto della sola versione originaria, 136 in modo da concentrare l’attenzione sull’evoluzione interna del pensiero di Otto, e in particolare sullo snodo in cui matura Il sacro. La radicale presa di distanza dal tentativo wundtiano di derivare la religione dal piano qualitativamente eterogeneo del mito (procedimento che Otto chiama, appunto, « eterogonia ») coincide chiaramente con un primo tentativo esplicito di saggiare l’efficacia di un’impostazione centrata sul vissuto nell’elaborazione di una « fenomenologia delle forme iniziali della religione », 137 ossia nel render conto di fenomeni dei quali Otto ancora non si è propriamente mai occupato : la genesi e l’evoluzione empirica della religione, il rapporto tra forme primitive e forme mature della medesima, la sua dimensione comunitaria. 138 L’analisi del testo wundtiano è molto dettagliata e si snoda in una serie di rilievi,  









































131   N. Söderblom, Holiness, in Encyclopedia of Religion and Ethics, VI, Edinburgh 1913, pp. 731-743. Richiamandosi esplicitamente a Schleiermacher, Söderblom motiva l’opportunità di sostituire la nozione di holiness a quella di « Dio » con la necessità di non escludere arbitrariamente dal campo di indagine fenomeni che sono manifestamente religiosi. 132   Cfr. la Nota biografica, infra, p. 48. 133 134   W. Wundt, Mythus und Religion, ii, Leipzig 1906, p. 309.   Ivi, p. 310. 135   Cfr. Il sensus numinis come origine storica della religione. Un confronto con Myhtus und Religion di Wundt, ora in GÜ, pp. 11-57 ; infra, pp. 339-366. 136   Mythus und Religion in Wundts Völkerpsychologie, « Theologische Rundschau », 13, 1910, pp. 251-275 e 293137   Ivi, p. 252 (GÜ, p. 12) ; cfr. infra, p. 339. 305. 138   Significativa l’affermazione che si trova nelle conclusioni di KFR, p. 197 ; infra, p. 197 : « In ogni caso i compiti di una vera scienza della religione [...] cominciano di solito soltanto dove e quando lo “storico della religione” la smette con lo studio dei miti e della religione dei primitivi. [...] Probabilmente non riusciremo mai a comprendere quel che totem e tabù significavano realmente per i “primitivi” ».  



















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tutti estremamente istruttivi quanto al progressivo emergere del tema portante del Sacro ; rilievi che convergono nell’obiezione fondamentale secondo cui Wundt avrebbe in ultima analisi sacrificato il dato genuinamente empirico ad una costruzione concettuale sostanzialmente astratta, in virtù di cui la religione viene ridotta a parto illusorio della fantasia, o più precisamente di quella sua forma peculiare che è l’« empatia » (Einfühlung). Dopo aver messo in evidenza le oscillazioni wundtiane circa lo statuto cognitivo delle prestazioni dell’empatia, che sarebbero appunto illusioni nel caso della creazione di miti o di religione, ma – curiosamente – non nel caso del riconoscimento dell’interiorità altrui, che pure non è accessibile ad « intuizione immediata », 139 Otto si concentra sull’insufficienza della cosiddetta « appercezione personificante » nel cogliere l’elemento propriamente religioso di un certo fenomeno : quando un bambino rimprovera la sedia contro cui ha urtato, attribuisce a quest’ultima un’anima, ma non per questo vive un’esperienza religiosa. 140 È solo quando interviene un vissuto specifico, non necessariamente connesso con la rappresentazione di un’anima, che emerge il livello propriamente religioso dell’esperienza : « La concezione del respiro come animato [...] non avrebbe in sé proprio niente di “mitico” se ad essa non si collegassero i peculiari sentimenti dell’orrore (Grauen), che sono di natura del tutto specifica e che necessiterebbero di un’analisi molto approfondita ». 141 Nel 1910, evidentemente, l’« analisi approfondita » è ancora di là da venire, e Otto non dispone ancora della precisione e delle sottili sfumature lessicali tipiche del Sacro per caratterizzare questi « peculiari sentimenti dell’orrore » ; ma l’idea, che diverrà poi il nucleo portante dell’opera maggiore, è già inequivocabilmente presente : « Sin dal suo inizio la religione è vissuto del mistero » 142 e « Al livello più basso questo sentimento è “timore” (Scheu). Ma è un orrore, un temere di tipo del tutto specifico, tipicamente diverso dalla “paura” nel senso abituale ». 143 L’assenza di una nozione tecnicizzata di « sacro » si fa sentire nella suggestiva chiusa del saggio (espunta dalla versione definitiva), in cui il vissuto propriamente religioso viene senz’altro identificato con un termine tratto senza remore dell’interno alla tradizione cristiana : « L’erompere del sentimento del soprasensibile, l’esser afferrato dalla sua potenza e l’esser riempito delle sue forze si chiama, nel linguaggio religioso, “grazia”. Quelle che osserviamo in tutti i gradi del processo religioso sono rozze analogie della grazia. E una corretta storia e psicologia della religione dovrebbe essere una storia della grazia ». 144  



















































5. Il « sacro » come « totalmente altro »  







La nuova declinazione della comprensione ottiana della religione, che nel saggio su Wundt emerge solo in frammenti e per contrasto, si organizza in un quadro complessivo nell’opera del 1917, nella quale finalmente il « sacro » diventa a pieno titolo il perno dell’esperienza religiosa, nonché dell’interpretazione categoriale della medesima. Sin dal capitolo II, a riprova di quanto poco scontata fosse questa scelta lessicale, Otto si sofferma su un’analisi del termine e affronta subito la questione della strutturale ambiguità semantica che grava sull’aggettivo tedesco heilig (e che tanta rilevanza avrebbe poi assunto nel pensiero filosofico-religioso successivo) : per un verso il termine indica  





139

  « Theologische Rundschau », p. 260 (GÜ, p. 21) ; infra, p. 345. 141   Ivi, p. 263 (GÜ, p. 24) ; infra, p. 346.   Ibidem (cfr. GÜ, p. 23 ; infra, p. 346). 143 144   Ivi, pp. 304-5.   Ivi, p. 302.   Ivi, p. 305.

140 142











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il « predicato etico assoluto », come inequivocabilmente attesta l’uso di Kant, che riserva l’aggettivo alla legge morale o alla volontà perfettamente buona ; per altro verso, rileva Otto, quest’uso « non è rigoroso », perché il termine heilig contiene « un’eccedenza » che qualifica « tutte le religioni come ciò che in esse vi è di più proprio e intimo e senza di cui non sarebbero affatto religioni ». 146 A dispetto della comoda soluzione a portata del traduttore italiano, che generalmente non trova particolare imbarazzo nello sciogliere e nell’univocare la polisemia dello heilig tedesco nel modo di volta in volta più opportuno (il testo sacro, la volontà santa), è interessante osservare che Otto non contempla la possibilità di proiettare questa duplicità di significati sulla coppia latina sacer/sanctus ; entrambi i termini, infatti, si collocano secondo lui sullo stesso versante religioso, pur intrattenendo entrambi un rapporto con il significato etico : cosa che vale, del resto, anche per altri equivalenti di heilig, come l’ebraico qādôsh o il greco a[gio~. Il punto è che per Otto l’ambiguità semantica tra il significato etico e quello religioso è del tutto secondaria : è solo il riflesso di un’ambiguità presente nella ‘cosa stessa’, che deve essere opportunamente chiarita e interpretata. Per indicare in modo univoco l’eccedenza che sarà oggetto d’indagine dell’opera, ossia heilig « meno il suo momento etico », 147 Otto introduce il neologismo « numinoso ». Pur individuando in quest’ultimo il vero tratto pertinente dell’esperienza religiosa in quanto tale, occultato dal sovrabbondare di interpretazioni astrattamente concettuali che definiscono la religione in base a criteri per lo più estrinseci (credenza nei demoni, nell’anima, in Dio, in un certo complesso di dottrine teoriche o etiche, e simili), Otto non offre, e pour cause, una definizione del numinoso, che deve esser piuttosto colto dall’interno del vissuto e nell’intera molteplicità di articolazioni con le quali si presenta : analizzando materiale empirico (prevalentemente testuale) di diversa provenienza – muovendosi sostanzialmente nell’ambito ebraico-cristiano, con occasionali esempi tratti da altre tradizioni culturali e religiose – Otto descrive quindi il numinoso come vissuto del tremendum, della majestas, dell’energico, del misterioso, del fascinosum, del meraviglioso. Non è questo il luogo per seguire nel dettaglio le suggestive e celeberrime analisi mediante le quali Otto illustra la caratteristica « armonia di contrasto » tra i momenti attraenti e quelli repulsivi del vissuto numinoso, evidenziando le qualità che rendono irriducibile ad un’esperienza semplicemente « naturale » ciascuno dei modi in cui si presenta, ogni volta sopraffacendo e debordando le facoltà ricettive del soggetto esperiente. Ci limitiamo a porre una questione che appare ineludibile stante il profilo filosofico di Otto che siamo venuti sin qui tracciando. Sin dalle primissime battute dell’opera, Otto insiste energicamente sul tratto propriamente « irrazionale » della religione, il cui carattere numinoso deve esser fatto emergere per contrasto rispetto alla « tendenza alla razionalizzazione [che] predomina ancor oggi, e non soltanto nella teologia, ma anche nelle ricerche religiose in generale ». 148 La religione non è traducibile in concetti « chiari e distinti » e anzi, in ciò che ha di più proprio, è inesprimibile, ineffabile, « completamente inaccessibile ad un coglimento concettuale » : 149 essa affonda le sue radici in quelle zone oscure dell’esperienza che resistono alla luce del concetto. Il sentimento del numinoso, infatti, è « orrore quasi spettrale », 150  



145



























































145

  DH, p. 5 ; infra, p. 205.   DH, p. 4 ; infra, p. 204.

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146

  DH, p. 6 ; infra, p. 205.   DH, p. 5 ; infra, p. 205.

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147 150

  Ibidem ; infra, p. 205.   DH, p. 14 ; infra, p. 209.  



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gelarsi del sangue nelle vene, accapponarsi della pelle, 151 annihilatio di fronte a ciò che è « incommensurabile con la mia essenza e di fronte al quale perciò mi ritraggo sbalordito ». 152 E l’oggetto numinoso non è il Dio dei filosofi, né l’ordine morale del mondo, ma il « numen assoluto », quello che « si contrappone a ciò che è “ragionevole” e che ragionevolmente ci si dovrebbe aspettare » ; 153 quello che, come Otto ripete con Lutero, « è più terrificante e ripugnante del diavolo ». 154 È chiaro che una simile « contrapposizione » (Gegensatz)155 tra razionale e irrazionale sembra a tutta prima una brutale semplificazione – se non una decisa smentita – della posizione filosofica che siamo venuti ricostruendo. L’identificazione tra religioso e irrazionale sembra far sfumare in una lontananza irrecuperabile alcuni elementi caratteristici dell’impostazione di Otto quale sin qui emersa : la teoria del « doppio sguardo », il rifiuto deciso di relegare la religione nel soprannaturale e il tentativo di una giustificazione trascendentale della verità della medesima, l’insistenza sulla continuità tra Lutero e l’illuminismo, la rivendicazione del « razionalismo » friesiano. Tuttavia, prima di sottoscrivere senz’altro il già menzionato giudizio di Troeltsch sul « totale cambiamento di fronte » che interverrebbe tra la Filosofia della religione e Il sacro, è opportuno esaminare con più attenzione la questione del rapporto tra le due opere : per quanto Otto si mostri tutt’altro che interessato all’elaborazione di un pensiero sistematico o alla rivendicazione della coerenza interna tra posizioni espresse in fasi successive del suo percorso di studio, l’ipotesi di un’incoerenza tanto radicale (e tanto poco avvertita) quanto quella che sembra delinerarsi a prima vista appare davvero eccessiva. 156 È da osservare, innanzitutto che Otto non rileva mai esplicitamente fratture o cambi di paradigma tra l’opera del 1909 e quella del 1917, ma anzi saggia, all’occasione, la possibilità di interpretarle come versanti di un’unica ricerca ; possibilità che, come si è visto, era già stata in qualche modo prefigurata nella Filosofia della religione : nel riservare a questo testo la questione della fondazione critica della verità della religione (ossia della filosofia della religione « in senso stretto ») Otto rimandava ad una trattazione successiva l’elaborazione di una psicologia e di una storia comparata della religione (ossia della filosofia della religione « in senso largo », che preannuncia anche nella chiusa del saggio su Wundt). Con una strategia molto simile, in una nota all’inizio del capitolo II dell’opera maggiore, nel momento stesso in cui individua nell’aspetto irrazionale del sacro il tema specifico dell’indagine, Otto chiosa : « Nel mio libro Kantisch-Fries’sche Religionsphilosophie, l’oggetto è l’altro lato della religione, quello razionale ». 157 Ora, quali che siano i motivi (su cui sarebbe per altro interessante ragionare) che spingono Otto a rimuovere questa nota nelle edizioni successive, è innegabile che la possibilità stessa di articolare in un quadro unitario il lato razionale e quello irrazionale dell’indagine è un indizio abbastanza robusto del fatto che la coppia stessa razionale/ irrazionale non allude affatto ad una pura e semplice dicotomia. E in effetti, quella « contrapposizione » che in prima battuta sembra essere la struttura portante stessa del Sacro – nella misura in cui sorregge la rivendicazione del carattere irrazionale della religione di contro agli occultamenti razionalistici della medesima – rappresenta, a ben  



























































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152 153   DH, p. 17 ; infra, p. 211.   DH, p. 25 ; infra, p. 216.   DH, p. 105 ; infra, p. 261. 155   DH, p. 104 ; infra, p. 260.   DH, p. 3 ; infra, p. 203. 156   Quanto mai opportuno appare l’invito alla prudenza di Almond, il quale mantiene una posizione estremamente equilibrata sulla questione : « Qualsiasi affermazione relativa ad una discontinuità radicale tra Il sacro e le opere precedenti di Otto deve esser trattata con cautela » ; Ph. C. Almond, Rudolf Otto : An 157   DH, p. 5 ; infra, p. 205. Introduction, cit., p. 89. 154























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guardare, una patina piuttosto superficiale rispetto agli intenti dell’autore. Il quale, evidentemente, non tardò ad accorgersene, se è vero che avvertì l’esigenza di fare chiarezza su « cosa significa irrazionale » aggiungendo ex novo un intero capitolo all’opera. 158 Qui, dopo aver rilevato come il termine sia talmente equivoco da imporre a chiunque lo utilizzi il dovere di dichiarare che cosa intenda esattamente, Otto rigetta esplicitamente il significato di « ciò che è indistinto, ottuso, ciò che non è ancora assoggettato alla ratio e che [..] recalcitra di fronte alla razionalizzazione ». 159 Come viene precisato subito dopo, l’elemento qualificante di quel che è irrazionale non è affatto una generica opposizione alla ragione, ma l’esser strutturalmente irriducibile a quanto viene definito « pensiero concettuale » : il che però non è tanto una chiarificazione del termine « irrazionale », quanto piuttosto un esplicito riconoscimento della sua inadeguatezza. Non è un caso che di esso non si avverta alcun bisogno nella Filosofia della religione, in cui pure, come si è ampiamente riscontrato, la possibilità di un ambito che « si sottrae in gran parte all’esposizione e all’analisi concettuale » 160 è non soltanto presente, ma determinante : è l’ambito del sentimento, che non ha nulla di irrazionale, ma anzi è una forma del tutto specifica di « conoscenza », e precisamente « lo stato in cui la conoscenza immediata si dimostra efficace anche prima che l’oscurità originaria sia illuminata », ossia « è il sentimento della verità », in cui « possediamo e si rendono valide conoscenze oscure ». 161 Non stupisce dunque che, nel prendere le distanze da una comprensione corriva dell’irrazionale, Otto preferisca spostare progressivamente il baricentro del discorso sulla nozione che in effetti appare assai più precisa nell’esprimere l’intenzione dell’autore e che è quella, divenuta poi celebre, del « totalmente altro » (ganz Anderes), che presumibilmente Otto mutua da Fries : 162 a differenza dei sentimenti che vengono suscitati da un oggetto interno al mondo accessibile in virtù dell’esperienza sensibile, nel caso del sentimento del totalmente altro « non si riesce a portare dall’oscurità del sentimento all’ambito della comprensione concettuale il che-cosa e il come dell’oggetto che suscita la beatitudine. Resta nell’indissolubile oscurità di un’esperienza puramente conforme al sentimento e non concettuale, che solo con la notazione di ideogrammi indicativi può essere non già spiegata, ma indicata per accenni. Questo è ciò che per noi significa : è irrazionale ». 163 Ora, quanto ci interessa sottolineare, seguendo il filo conduttore di queste considerazioni introduttive, è che la comprensione della trascendenza veicolata dall’idea di « totalmente altro » non è affatto incompatibile con il tentativo che Otto persegue, come si è visto, sin dalla Anschauung : e anzi ci sembra di poter dire che, sotto un certo profilo, ne rappresenti l’esito più coerente e forse anche la formulazione più felice ; sotto un certo profilo : perché Otto, per la verità, lascia del tutto aperta la possibilità di un’interpretazione banalizzante, ossia irrazionalistica del « totalmente altro », e anzi qua e là non manca di incoraggiarla esplicitamente. Quasi che la religione non fosse altro che il ricettacolo di tutto ciò che si contrappone al sapere razionale e di fronte a cui la ragione semplicemente abdica : zona franca in cui le leggi di natura sono sospese, popolata di spettri, demoni e divinità più o meno grottesche. Se però si tiene ben fermo il filo di continuità con le opere precedenti – che lo stesso  



































































158   Si trattava inizialmente del capitolo xi, Was heißt irrational ?, divenuto poi il x nell’edizione Beck : pp. 159   Beck, p. 75 ; infra, p. 316. 75-78 ; cfr. infra, pp. 315-317. 160 161   KFR, p. V ; infra, p. 67.   KFR, p. 43 ; infra, p. 98. 162   Cfr. KFR, p. 17 ; infra, p. 82. Su questo cfr. anche Ph. C. Almond, Rudolf Otto : An Introduction, cit., p. 67. 163   Beck, p. 76 ; infra, p. 316.  

















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Otto, preoccupato di far risaltare la scoperta del numinoso, tende a leggere in modo unilaterale 164 –, emergono tratti ben più complessi e interessanti. Otto, in effetti, afferma a chiare lettere che la trascendenza del ganz Anderes non è, banalmente, quella degli spettri, che sono « propaggini apocrife » del numinoso, 165 o dei miracoli, che in realtà non contestano affatto la trama razionale nella quale si inseriscono a pieno titolo ; 166 né è quella del « soprannaturale » : « Definizioni come “soprannaturale” e “oltremondano” sembrano ancora predicati positivi e sembra che, quando li attribuiamo al misterioso, il mysterium dismetta il suo significato inizialmente solo negativo e divenga un’affermazione positiva. Il che è solo un’apparenza dal punto di vista del concetto, perché “soprannaturale” e “oltremondano” sono evidentemente predicati solo negativi che si limitano ad escludere la natura e il mondo ; ma è corretto dal punto di vista del contenuto di sentimento, che è di fatto altamente positivo e, anche qui, non esplicitabile ». 167 A ben guardare l’affermazione appena citata non è altro che la rigorosa applicazione della logica antinomica elaborata nell’opera del 1909. Il termine « soprannaturale » è improprio, perché suggerisce l’idea di un predicato concettuale positivo, mentre in realtà è solo la negazione di un predicato. Questa strutturale negatività non viene integrata, né superata : la nebbia, per riprendere l’esempio della Filosofia della religione, non viene diradata, ma conosciuta come nebbia. Il sentimento, che pure rappresenta un accesso positivo a questa dimensione, non è la « dimostrazione » di ciò che la ragione non può dimostrare, e dunque non toglie il carattere concettualmente negativo del soprannaturale. Tanto è vero che, come Otto afferma inequivocabilmente, la nozione cardine di « totalmente altro » è un « elemento formale » 168 e non contenutistico : è un modo di dire l’eccesso o la sproporzione che il sentimento vive in certe esperienze che di per sé non sono affatto necessariamente legate a contenuti non naturali. Anche perché « in generale non abbiamo la possibilità di stabilire che un evento non deriva da cause naturali, che cioè va contro le leggi di natura ». 169 È vero che alcune dichiarazioni di Otto potrebbero essere lette come affermazioni del contrario : « In esso [numinoso] troviamo disposti convinzioni e sentimenti che sono qualitativamente diversi da tutto ciò che è in grado di darci la percezione sensibile “naturale” ». 170 Ma l’idea di un possibile al di là della percezione sensibile o cosiddetta « naturale » (le virgolette sono significative) non deve essere inteso come estensione dell’ambito di validità della percezione ad un presunto soprannaturale, ma come un eccesso interno alla percezione sensibile medesima. Il passo prosegue infatti così : « [quelle convinzioni e quei sentimenti] non sono percezioni sensibili, ma innanzitutto singolari interpretazioni e valutazioni innanzitutto di qualcosa che è dato nella percezione sensibile e poi, ad un grado più elevato, di oggetti ed entità che di per sé non appartengono più al mondo della percezione sensibile, ma sono pensate in aggiunta (hinzugedacht) e al di sopra (über) di questo mondo. E così come non sono percezioni sensibili, non  





















































164



  Cfr. DH, p. 104 ; infra, p. 260 : « Sul De servo arbitrio di Lutero si è formata la mia comprensione del numinoso e della sua differenza dal razionale, molto prima che la ritrovassi nel qādôsh dell’Antico Testamento e nei momenti del “timore religioso” nella storia delle religioni in generale ». 165   DH, p. 29 ; infra, p. 216. 166   Cfr. DH, p. 3; infra, p. 204 : « La teoria tradizionale del miracolo quale violazione occasionale del nesso causale naturale da parte di un essere che l’avrebbe posto e che dunque ne sarebbe il signore, è essa stessa così massicciamente « razionale », che non potrebbe esserlo di più ». 167 168   DH, p. 31 ; infra, p. 217.   DH, p. 145 ; infra, p. 283. 169 170   DH, p. 149 ; infra, p. 286.   DH, p. 120 ; infra, p. 270.  



























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sono neanche “trasformazioni” di percezioni sensibili ». Il numinoso è in primo luogo un’« interpretazione » e una « valutazione » di quel che la percezione sensibile offre, non la registrazione di una caratteristica interna al sensibile in quanto tale, come dimostra, del resto, il fatto che lo stesso oggetto sensibile (una pietra o un pezzo di legno) può lasciare del tutto indifferente l’uno e suscitare sentimenti di venerazione nell’altro. 172 È in funzione di questo rifiuto di un’interpretazione riduzionistica della percezione che è opportuno inquadrare, a nostro avviso, tutta l’analisi ottiana – sviluppata nei due capitoli (xvi e xix) più teoreticamente impegnati dell’opera – del « sacro come categoria a priori » ; nozione questa che, se la si volesse comprendere quale elemento di uno strumentario concettuale sostanzialmente kantiano, 173 risulterebbe assai oscura e apparirebbe immediatamente come scaturigine di una serie di ambiguità kantianamente scandalose : l’indistinzione tra « categoria » e « idea », per esempio, o l’oscillazione, ancor più grave, per cui « sacro » o « numinoso » sembrano poter essere attribuiti indifferentemente all’apparato categoriale del soggetto esperiente o alla struttura interna dell’oggetto esperito (che risulta immediatamente accessibile nella sua oggettività in sé e non solo fenomenica 174). Va da sé che la sovrapposizione tra categoria e idea, o la possibilità che nel sentimento si dia un’esperienza non sensibile di un contenuto anch’esso paradossalmente a priori appaiono tutt’altro che inconsapevoli travisamenti del pensiero kantiano alla luce della rielaborazione in chiave friesiana del lessico trascendentale Filosofia della religione, che nel Sacro è evidentemente considerato acquisito. Quel che il sentimento rivela è che l’ambito dell’esperibile è più ampio di quello circoscritto dalle leggi che regolano la percezione di oggetti spazio-tempo rali del mondo fisico ; e la pretesa che quest’ultimo sia la base a partire da cui « spiegare » per derivazione ogni tipo di dato fenomenico è un principio metodologico arbitrariamente restrittivo, che cade vittima della fallacia logica dello hysteron proteron : « voler derivare e comprendere » l’uomo partendo dall’animale « significa fare della serratura la chiave, significa illuminare il chiarore con l’oscurità. Il primo sfavillio di una vita cosciente nella materia morta è un dato semplice e inesplicabile », 175 ossia, appunto, a priori. Come a priori sono tutte quelle « disposizioni » (Anlagen) dello spirito che, pur attivandosi sol 







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  DH, pp. 120-121 ; infra, p. 270.   Il punto è colto con estrema chiarezza da Bultmann, che in una lunga lettera a Otto (alla quale, per altro, Otto non rispose), osserva : « Ora, sembra anche che il sentimento numinoso non sia una facoltà conoscitiva o l’organo di conoscenza che coglie l’oggetto religioso, ma una interpretazione e una valutazione di oggetti, che sono colti da un qualche altro organo di conoscenza » (Rudolf Bultmann an Rudolf Otto vom 6.IV.1918, cit. da H.-W. Schütte, Religion und Christentum, cit., p. 130). Bultmann, oltre a rilevare in ciò una patente contraddizione con l’affermazione per cui la religione è definita come relazione con esseri oltremondani (ibidem), deduce l’impossibilità di distinguere tra un’applicazione vera e un’applicazione falsa del sentimento numinoso a questo o quell’oggetto intramondano. 173   H. J. Paton, The Modern Predicament. A Study in the Philosophy of Religion, London, George Allen & Unwin LTD, 1955, rileva una « strana perversione » (p. 138) nel modo in cui Otto prende a prestito la terminologia kantiana, stravolgendo, come nel caso dello schematismo, il significato di concetti chiave : « Kant – scrive – deve essersi rivoltato nella tomba » (p. 139). Le conclusioni di Paton sono ormai acquisite : a buon diritto Gooch, nel già citato The Numinous and Modernity, si stupisce del fatto che Ryba continui a ritenere necessario insistere sul fatto che la nozione ottiana di « categoria a priori » non sia utilizzata in un senso correttamente kantiano (T. Ryba, The Philosophical Loading of Rudolf Otto’s Idea of the Sacred, « Method & Theory in the Study of Religion », 3, 1991, pp. 24-40, p. 38). 174   Questa è la sostanza della critica rivolta Schleiermacher, il quale, secondo Otto, non si avvede del fatto che il « sentimento di dipendenza » è solo il riflesso soggettivo di un momento del sentimento che « che senza dubbio come prima cosa e immediatamente si indirizza ad un oggetto fuori di me. Ma questo è appunto 175   DH, p. 122 ; infra, p. 270. il numinoso » ; DH, p. 11 ; infra, p. 208.  

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tanto in seguito ad esperienze sensibili, non possono essere derivate da questa, come il talento musicale o, per l’appunto, quell’apertura al sacro, che Otto definisce « divinazione ». Non si faticherà a riconoscere la medesima circolarità tra ascolto e fede già perfettamente individuata nella sua struttura logica nell’Anschauung. Se si colloca l’opera maggiore su questo sfondo teorico e problematico, il suo nucleo portante si rivela essere non tanto la (pur dirompente e decisiva) scoperta del numinoso, quanto piuttosto il tentativo di chiarire come debba esser pensata la relazione tra i due versanti che sono propri del « sacro » quale « categoria complessa » : il versante razionale e quello irrazionale o, più precisamente, il versante accessibile al concetto e quello accessibile al sentimento, il versante etico e quello numinoso. 176 Anche in questo caso, Otto fa leva su una nozione kantiano-friesiana, quella di « schematizzazione ». Quest’ultima sembra garantire la possibilità di sostenere l’affermazione antinomica per cui l’elemento etico-razionale e quello numinoso sono, per un verso, radicalmente irriducibili l’uno all’altro (pena la razionalizzazione – e il conseguente isterilimento – della religione), e però, per altro verso, strettamente intrecciati in un nesso in virtù del quale soltanto il sacro è ciò che è : « Il numinoso-irrazionale, schematizzato mediante il concetto razionale […], ci offre la categoria complessa del sacro perfetta e completa, nel suo senso più pieno. L’autentica schematizzazione si distingue dalla mera combinazione analogica per il fatto che non si disgrega, né si scinde con lo sviluppo e l’elevazione del sentimento della verità religiosa, ma viene anzi riconosciuta in modo più saldo e determinato ». 177 La schematizzazione è una sorta di traduzione del numinoso sul piano etico. Nel capitolo xix Otto connette ai diversi momenti del numinoso il relativo schema razionale : il tremendum schematizzato mediante l’idea etico-razionale di giustizia diviene la sacra « ira di Dio » ; il fascinosum, schematizzato mediante l’idea di bontà, diviene la « grazia » ; il mysteriosum, schematizzato dall’idea dell’assolutezza dei predicati razionali della divinità, diviene, come si è già avuto modo di accennare, il momento (formale) del « totalmente altro ». Questi nessi, secondo Otto, non sono di tipo logico : non vi è nulla nella paura numinosa allo stato grezzo, come quella che si prova nei confronti di un’entità demonica, che lasci sospettare una possibile trasformazione del demone temuto in un dio al quale si possa affidare fiduciosamente la propria esistenza. E tuttavia si tratta di nessi che sono a loro volta a priori, in quanto sono rivelati come tali dal sentimento, che non ha esitazione nel riconoscerne la validità non appena l’esperienza gliene dia occasione : « È la stessa esperienza che abbastanza spesso fanno i missionari. Laddove siano state espresse e comprese una volta le idee della unità e della bontà del divino, esse attecchiscono in modo sorprendentemente veloce se è in generale presente il sentimento religioso. Spesso la propria tradizione religiosa viene adattata in questo senso ; oppure, quando ci si oppone alla nuova dottrina, spesso ciò accade con una notevole repressione della propria coscienza ». 178 Da queste considerazioni Otto ricava un criterio valutativo in base al quale gerarchizzare le religioni storicamente date : quanto più la schematizzazione risulta armonica,  





















































176   Questa linea interpretativa è sviluppata in modo del tutto convincente da J. Greisch, Le buisson ardent et les lumières de la raison. L’invention de la philosophie de la religion, Tome II, Les approaches phénoménologiques et analytiques, Paris, Cerf, 2002, pp. 71-116 (capitolo dedicato ad una ricostruzione complessiva del pensiero di Otto). 177 178   DH, p. 49 ; infra, p. 227.   DH, p. 143 ; infra, p. 282.  



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quanto più in una religione il rapporto tra momento razionale e momento irrazionale è equilibrato, tanto più quella religione è « evoluta ». Al culmine della scala evolutiva si colloca, va da sé, il cristianesimo, all’interno del quale i due elementi sono mescolati in quella « bella e sana armonia », che gli conferisce una « superiorità assoluta rispetto alle religioni sorelle ». 179 Si tratta, come è facile intuire, di uno dei punti più controversi dell’intera opera. Non tanto o non solo per la conclusione, che sembra sbarrare la strada a quella comparazione non pregiudiziale tra le religioni, che pure Il sacro vorrebbe fondare. Il punto delicato è soprattutto l’effettiva compatibilità tra le due posizioni apparentemente contraddittorie : il rifiuto radicale di ogni « eterogonia » o « epigenesi », da una parte, e l’affermazione di un’evoluzione nella schematizzazione, dall’altra, che consentirebbe un progressivo avvicinamento all’equilibrio perfetto. Come sostenere che l’evoluzione dai demoni « partoriti da orrore e terrore » agli « dèi, [...] nei quali si scorge origine e sanzione della morale, della legge, del diritto e del canone giuridico », 180 non sia una vera e propria metábasis in un genere diverso, piuttosto che l’esplicazione di un medesimo principio religioso dato a priori ? In altri termini, nonostante Otto si mostri convinto di aver trovato una soluzione accettabile del problema « a priori religioso e storia », come recita l’ambizioso titolo del capitolo conclusivo dell’opera, la questione meriterebbe ben altro approfondimento. Si tratta di un problema che eccede ampiamente la portata di queste considerazioni introduttive (e che richiederebbe un’analisi assai più dettagliata, di quella che abbiamo potuto svolgere qui, delle molteplici accezioni di « a priori » che si intrecciano nell’opera 181) : ci basti qui l’aver segnalato che è questo l’ordine di questioni di cui l’operazione teorica tentata nel Sacro si alimenta ; e non certo l’esaltazione irrazionalistica del sentimento di contro al concetto, o della religione di contro alla teoria.  











































6. La nozione di « sacro » tra indagine comparativa e teoria dei valori  



Per completare il profilo filosofico di Otto che stiamo tentando tracciare in queste considerazioni introduttive, e a ulteriore riprova dell’impossibilità di confinarlo negli anni tra il 1909 e il 1917, è opportuno, in conclusione, segnalare due direzioni di ricerca, lungo le quali Otto ha modo non soltanto di rendere produttiva la nozione di « sacro » elaborata nell’opera maggiore, ma anche di elaborare da punti di vista diversi le medesime questioni aperte nei lavori precedenti.  

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180   DH, p. 146 ; infra, p. 284.   DH, p. 141 ; infra, p. 281.   L’accezione di « a priori » sulla quale abbiamo preferito insistere qui, che è a nostro avviso la più interessante e la meno studiata, nonché quella che marca con più evidenza la continuità tra Il sacro e la Filosofia della religione convive, in modo non del tutto pacifico, con diverse altre ; il che genera quelle tensioni interne all’opera su cui il dibattito critico non ha mancato di attirare l’attenzione. Troeltsch, nella recensione già più volte citata, dichiara sostanzialmente fallito il tentativo di pensare la coesistenza di razionale e irrazionale, tra teoria della conoscenza e psicologia, con la conseguenza, tra le altre, che Otto si rifugia in una filosofia della storia apparente, in quanto paradossalmente priva della nozione stessa di sviluppo storico (E. Troeltsch, Zur Religionsphilosophie. Aus Anlaß des Buches von Rudolf Otto über Das Heilige, cit., pp. 73-74). Secondo Holm mentre nella Filosofia della religione vi è un uso corretto della nozione di a priori, che risulta legittimamente collocata sul piano trascendentale, nel Sacro Otto insinuerebbe una versione « illegittimamente empirica » del medesimo che gli consentirebbe l’applicazione altrimenti impossibile (ma sostanzialmente contraddittoria) al materiale storico (cfr. S. Holm, Apriori und Urphänomen bei Rudolf Otto, in E. Benz (Hrsg.), Rudolf Otto’s Bedeutung..., cit., pp. 70-83, qui p. 73). Anche Paus vede nella necessità di tener conto dei fenomeni « fattuali » (faktisch) la ragione per cui nel Sacro la conoscenza religiosa non è più radicata nella struttura trascendentale generale della ragione (come accadeva nel 1909), ma si appoggia su un a priori specifico ed autonomo (distinto da altri) : cfr. A. Paus, Religiöser Erkenntnisgrund, cit., pp. 11-12. 181





















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La prima direzione è quella dell’indagine storico-religiosa di tipo comparativo, alla quale Otto dedica sempre maggiori energie dal 1917 in poi : un’indagine volta a scoprire le tracce del « numinoso » in tradizioni religiose molto diverse, con l’ambizioso obiettivo ultimo di riuscire a circoscrivere un terreno di confronto fecondo, che però non risulti dalla diluizione dell’elemento propriamente religioso in altre (e più generiche) dimensioni dell’esistenza umana, ma sia capace di salvaguardarne l’irriducibile specificità. 182 La possibilità di individuare un tratto accomunante tra le religioni che non sia mera astrazione, ma « vissuto vivente del sacro », 183 che non sia dunque « denominatore comune privo di contenuto, ma essenza della religione », 184 viene salutata come una vera e propria liberazione da quell’impostazione metodologica che, dopo Otto e anche grazie a Otto, si sarebbe venuta consolidando come « fenomenologia della religione » : accoglienza del tutto simmetrica al sospetto di chi guarda invece alle audaci comparazioni di Otto come riprova di quanto poco scientifica sia la « teoria del vissuto » (Erlebnistheorie), che ne costituisce il fondamento epistemologico e che è irrimediabilmente viziata da un pregiudizio individualistico e antistorico. 185 In questo senso il saggio su Mistica orientale e mistica occidentale, scritto in occasione dell’invito a tenere le Haskell Lectures (1924) e nucleo germinale dell’opera pubblicata due anni dopo, 186 restituisce paradigmaticamente luci e ombre del metodo comparativo di Otto : il presupposto per cui la mistica deriva da « potenti motivi originari dell’anima umana, che come tali sono del tutto indifferenti alle distinzioni di clima, di regione o di razza », 187 gli consente di considerare senza troppi scrupoli filologici come « contemporanei » 188 Śan˘kara e Eckhart, che vivono a quattro secoli di distanza l’uno dall’altro, e di allestire un suggestivo raffronto tra le forme in cui i rispettivi vissuti del « totalmente altro » vengono ad espressione. Ma più che le ambiguità metodologiche, quel che di questo saggio ci interessa ora mettere in evidenza è un altro suo elemento di paradigmaticità, che accenniamo soltanto, ma che  





































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  Per una panoramica complessiva di questo versante dell’opera di Otto, cfr. G. Mensching, Rudolf Otto und die Religionsgeschichte, in E. Benz (Hrsg.), Rudolf Otto’s Bedeutung..., cit., pp. 49-69. È interessante osservare che lo studioso, che classifica la produzione dello Otto scienziato della religione nelle tre categorie delle traduzioni, delle ricerche religionswissenschaftlich e delle ricerche storico-comparate, sottolinea espressamente che « Il sacro non appartiene a nessuno di questi gruppi » (p. 53). 183   G. van der Leeuw, Rudolf Otto und die Religionsgeschichte (1938), ora in G. Lanczkowski, Selbstverständnis und Wesen der Religionswissenschaft, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1974, pp. 76-86, p. 184   Ivi, p. 83. 81. 185   Paradigmatica la posizione di W. Baetke, Das Heilige im Germanischen, Tübingen, Mohr, 1942, che rimprovera a Otto di far leva sul presupposto irrealistico di un’esperienza religiosa « pura » (« Non vi è alcuno specifico sentimento “numinoso”, distinto in modo essenziale da altri sentimenti », p. 19) ; esperienza che è invece sempre storicamente condizionata e mediata da una comunità e da una tradizione : « Questo vuol dire : nella considerazione scientifico-religiosa la fede [in quanto fede del singolo] non è creazione originaria, ma è prodotta ; vive del patrimonio, conservato dalla comunità religiosa, di miti, riti e culti. Queste cose sono il “sacro” in senso vero e proprio » (p. 39). Questa radicale presa di distanza non impedisce a Baetke di assumere aspetti decisivi della teoria ottiana : non soltanto il netto rifiuto dell’eterogenesi (su cui « Otto [...] ha già detto l’essenziale », p. 8) ; ma anche e soprattutto l’idea di un’« armonia di contrasto » tra tremendum e fascinans, che trova, secondo Baetke, una interessante conferma sul piano della storia delle lingue germaniche : « Nella coesistenza di *wihaz e *heilagaz [da cui l’opposizione, nel tedesco moderno, tra weih- e heilig] possiamo vedere una conferma del fatto che l’armonia di contrasto tra il momento repulsivo e quello attraente non manca neanche nella religione germanica » (p. 216). 186   West-Östliche Mystik. Vergleich und Unterscheidung zur Wesensdeutung, Gotha, Klotz, 1926 ; tr. it. a cura di M. Vannini, Mistica orientale, mistica occidentale : interpretazione e confronto, Casale Monferrato, Marietti, 1985. 187   Östliche und westliche Mystik, « Logos », 13, 1924, pp. 1-30, p. 2 ; infra, p. 367. 188   Ivi, p. 3 ; infra, p. 368.  





















































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rende ragione dell’opportunità di inserirne la traduzione in questo volume : esso attesta chiaramente come l’intensificarsi delle ricerche storico-critiche e scientifico-religiose, non significhi affatto l’eclissarsi dell’interesse specificamente filosofico. Dal confronto tra i due maestri della mistica, infatti, emerge sotto un nuovo profilo, e dunque rafforzata, l’idea portante di una strutturale solidarietà tra l’elemento razionale e quello irrazionale, che rimanda patentemente ad alcuni motivi della Filosofia della religione. Lungi dallo smentirsi reciprocamente, razionale e irrazionale concorrono nel garantire all’uomo l’accesso alla realtà nella pienezza delle sue dimensioni, e tanto Eckhart, quanto Śan˘kara forgiano un linguaggio nuovo, capace di esprimere nella sua integralità l’esperienza umana e di sopportarne l’antinomicità. Il mysticus intuitus, ovvero il darśana, non è altro che il nome autentico di ciò che sul piano « profano » chiamiamo « “ragione pura”, che si contrappone alla percezione sensibile e alla ragione in quanto facoltà dell’intelletto soltanto riproduttiva » ; 189 e il « totalmente altro », cui l’intuizione mistica dà accesso, non è l’opposto dell’essere, ma « il vero essere » : 190 « in entrambi i maestri è chiaro che il concetto dell’“essere” puro (anche nonostante i significati valoriali menzionati) è appunto il massimo che il concetto o la ratio possono offrire per avvicinarsi alla cosa cosa somma ». 191 Lungo una seconda linea di ricerca, caratteristica dell’ultima fase dell’itinerario di pensiero di Otto, assume una consistenza via via maggiore il versante etico della sua riflessione, fino a dar luogo all’elaborazione di una sorta di teoria del « valore », che è significativamente diversa dalle contemporanee etiche dei valori (Scheler e Hartmann in primis) e che può esser letta anch’essa, tra l’altro, come ulteriore figura del tentativo di pensare la coesistenza possibile tra razionale e irrazionale, tra etica e religione. Nell’opera maggiore la nozione di « valore » emerge qua e là come definizione diretta del numinoso o del sacro, in opposizione al « disvalore » del profano, o come specificazione della categoria del sacro, che è appunto una « categoria di valutazione » (Bewertungskategorie) : ma non vi è una trattazione esplicita che consenta di precisare, per esempio, se vi sia una pluralità strutturata di valori, nel contesto della quale il sacro e/o il numinoso debbano essere collocati, e in virtù di quale o quali facoltà essa si renda accessibile. Anche in questo caso è più esauriente la Filosofia della religione, nel cui capitolo viii viene argomentata la necessità di integrare il formalismo etico trascendentale con un contenuto materiale : in questo contesto Otto dichiara a chiare lettere che « l’imperativo categorico può valere soltanto sotto la condizione che in generale vi sia un valore assoluto », 192 e mostra di sottoscrivere la proposta friesiana di dedurre la tavola dei concetti morali fondamentali non già dal concetto della libertà, ma, appunto, da quello del valore. È opportuno rimarcare che è a questa linea di riflessione che si riallacciano i saggi scritti a partire dagli anni ’30, anche in vista dell’invito alle Gifford Lectures (che Otto si vide costretto a declinare per ragioni di salute) : saggi raccolti da J. S. Boozer nel volume, pubblicato postumo, Aufsätze zur Ethik [Saggi di etica]. Con ciò non si intende negare che vi siano evoluzioni, anche significative, nel modo di teorizzare la nozione di valore, la quale, per esempio, appare ormai autonoma rispetto alla concezione friesiana (nonostante l’insistenza con cui Otto continua a dichiarare il proprio debito nei confronti di Fries) e mostra chiare influenze scheleriane. Sottolineare, ancora una volta, la  

















































189

  Ivi, p. 21 ; infra, p. 381.   Ibidem.

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190

  Ivi, p. 9 ; infra, p. 372.   KFR, p. 96 ; infra, p. 132.

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continuità interna al pensiero ottiano significa piuttosto cautelarsi da unilateralità interpretative come quella segnalata da Boozer, per cui « diversi interpreti del libro più noto di Otto, Il sacro, hanno sostenuto che gli sarebbe stato impossibile elaborare un’etica, senza abbandonare la posizione sviluppata nel Sacro ». 193 In realtà è esattamente il contrario : e non soltanto perché il Sacro è una tappa intermedia di un tragitto teorico più ampio ; ma anche perché, senza la questione posta dall’opera maggiore, non si capirebbe l’esigenza di un ripensamento approfondito del concetto di valore, volto a vagliare se e fino a che punto quest’ultimo possa costituire un medium plausibile per pensare la comunicazione tra i due versanti della categoria complessa di « sacro ». Emblematico del problema di fondo che muove Otto è l’attacco del saggio Valore, dignità e diritto : « La legge morale avrà senz’altro qualcosa a che fare con “buono/malvagio” e la volontà di Dio con “sacro”. Ed entrambi, buono/malvagio e sacro, sono “predicati di valore”. E di “valore” si dovrà trattare tanto nell’etica quanto nella teologia. Ma che cos’è il “valore” ? ». 194 Il valore sembra candidarsi subito a svolgere una funzione di cerniera tra etica e teologia, tra legge morale e volontà di Dio. La questione, tuttavia, è più complicata e in questo testo viene lasciata intenzionalmente sullo sfondo in favore di un’ampia disamina delle ambiguità presenti nella nozione di « valore ». Su quest’ultima si sono venuti depositando strati diversi di significato, nei quali Otto si propone di mettere ordine : il risultato, come l’autore lascia intendere sin dal titolo, è l’imporsi di una scomposizione della nozione indagata in almeno tre concetti distinti, ancorché connessi. Otto prende le mosse dalla constatazione dell’impossibilità di individuare un concetto generale di « valore », sotto cui riportare senza difficoltà l’enorme varietà di casi in cui il termine viene per lo più utilizzato. Ritiene perciò opportuno muovere da quella che definisce « domanda etica fondamentale » e che riguarda il problema di cosa sia il bene e, correlativamente, il male : Otto riconosce che si potrebbe esser tentati di considerare anche questi ultimi come « valori », ma osserva che, ciò facendo, non si coglierebbe una differenza qualitativa ed essenziale. Quale che sia il significato del termine « valore » certo è che bene e male, o meglio i rispettivi predicati : buono e malvagio, si riferiscono non già direttamente a valori, ma ad azioni che promuovono o ostacolano valori. Essi riguardano dunque l’intenzione morale e « sono predicati per un riferimento della volontà a “valori” », 195 ma non sono valori essi stessi ; il che richiede l’introduzione di un concetto diverso, che eviti ogni possibile confusione : Otto sceglie il termine « dignità » (Würde), avvertendo immediatamente dello slittamento semantico rispetto all’uso tecnico kantiano del medesimo. La dignità non è una qualità che pertiene alla persona come tale, ma un predicato che spetta alla volontà solo nella misura in cui è buona, ossia è positivamente riferita a valori. Chiarito questo punto essenziale, Otto passa all’esame – che si svolge per lo più sul piano descrittivo di un’analisi del linguaggio ordinario – di cosa si intenda generalmente per « valore ». Nel tentativo (che appare assai più disordinato e flessibile rispetto, per esempio, alla tassonomia strutturata fissata da Scheler nel Formalismus) di individuare alcune classi di valori, come quelle del piacevole, dell’idoneo, dell’utile, Otto si imbatte in un’ulteriore distinzione fondamentale e qualitativa, stavolta interna al concetto  





























































193

  J. S. Boozer, Einleitung, in AE, pp. 7-52, qui p. 12.   Wert, Würde und Recht, in AE, p. 53 ; infra, p. 397.   AE, p. 63 ; infra, p. 404.

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stesso di « valore » : « bisogna far riferimento ad un uso linguistico che finora non abbiamo menzionato e che non è soltanto moderno, ma che era presente da tempo anche nelle lingue antiche e su cui certamente si è modellato l’uso della nostra lingua : mi sembra che sia quel senso di valore da cui ogni “assiologia” ha preso originariamente l’espressione. “Assiologia” viene da axion, che traduciamo con dignum e con “di valore” (wert) : ma axion in prima battuta non significa che colui o ciò che è axion sia un “valore per qualcuno”, ma che avanza pretese valide nei confronti di qualcuno ». 196 Il valore della bellezza, per esempio, non si esaurisce affatto nel suo esser piacevole : un oggetto bello avanza la pretesa, valida, di esser salvaguardato. Allo stesso modo un essere vivente, per il solo fatto di esser tale, attesta il suo valore esprimendo il divieto « neminem laede ». L’individuazione di questa classe di valori (o forse, meglio, di questo aspetto specifico del valore come tale) che Otto definisce, appunto, « esigenziali » consente di stemperare il contrasto tra i teorici dell’etica materiale dei valori e i sostenitori del formalismo di stretta derivazione kantiana ; contrasto che deriva, in ultima analisi, dal mancato riconoscimento, da parte degli uni e degli altri, del carattere intrinsecamente normativo del valore, e dunque dalla equiparazione di fatto dei valori (intesi come timia piuttosto che come axia) a « beni ». Dignità e valore non sono però sufficienti a coprire l’intero campo dei fenomeni relativi all’etica. Vi sono esigenze o pretese valide – Otto prende qui esplicitamente le distanze da Scheler – che non dipendono da un valore. Il salario è dovuto al lavoratore, e non perché costui si sia guadagnato un qualche valore con il suo lavoro : è un suo « diritto », al quale corrisponde evidentemente un simmetrico dovere altrui di rispettare tale diritto. Con l’introduzione della nozione di diritto, che, come Otto specifica, precede e rende possibile ogni diritto statutario e positivo, si completa il quadro predelineato dal titolo del saggio. Ma, per Otto, non è ancora tutto : « a rischio di diventare troppo sottili » 197 è necessario introdurre un’ulteriore e importante distinzione e riconoscere che vi sono doveri che non derivano dal valore e nemmeno dal diritto. La gratitudine nei confronti di un benefattore, per esempio, è inequivocabilmente un dovere da parte del beneficiario, il cui adempimento, tuttavia, non può esser preteso dal benefattore medesimo (perché altrimenti cesserebbe di esser tale e rivelerebbe di aver agito per interesse e non gratuitamente). Dello stesso tipo è il dovere di aiutare chi si trovi in condizione di bisogno, che non è simmetrico rispetto ad un diritto che il bisognoso potrebbe rivendicare e che però comanda l’adempimento da parte di chi si trova in condizione di offrire la propria opera di soccorso (Otto richiama la parabola evangelica del samaritano compassionevole). Nel riflettere sulla natura vincolante di questi doveri affatto particolari che poggiano su ciò che egli chiama un « diritto superiore » e che non esclude il carattere di gratuità dell’azione di chi vi obbedisca, inserisce una chiosa e poi una nota, entrambe particolarmente significative : quel che è qui in gioco, scrive, è « un dovere eccezionalmente grave (già qui siamo quasi costretti a dire sacro) ». 198 E aggiunge in nota : « Anche per lo studioso di etica, che in quanto tale non ha alcun diritto all’espressione “sacro”, questo predicato si impone, soprattutto nei doveri di pietà che sono essenzialmente doveri di gratitudine ». 199 È, questo, l’unico punto del saggio nel quale viene sfiorata la questio 























































196 198

  AE, p. 76 ; infra, p. 415.   Ibidem; infra, p. 429.  

197

  AE, p. 94 ; infra, p. 428.   Ibidem.

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ne del « sacro » ; e le considerazioni che vi vengono sviluppate, ancorché molto brevemente, sono degne di molta attenzione : Otto dichiara in modo inequivocabile che lo studioso di etica « non ha alcun diritto all’espressione “sacro” ». È un’affermazione fondamentale rispetto alla domanda radicale posta in apertura del saggio, in cui Otto individuava nel valore ciò con cui sia l’etica (che si occupa del buono) sia la teologia (che si occupa del sacro) debbono aver a che fare : in realtà, scopriamo ora, la possibilità di utilizzare il medesimo concetto di « valore » nell’uno e nell’altro caso non autorizza a postulare un medesimo ambito, gerarchicamente strutturato, che accomuni il valore del sacro ai valori di stretta pertinenza dello studioso di etica (secondo quanto aveva teorizzato, per esempio, Scheler nel Formalismus). Gli ambiti restano distinti : il che non significa affatto che essi siano irrelati e che sia smentita la posizione espressa chiaramente nell’opera maggiore, per cui anzi il versante etico-razionale può e deve esser pensato come schematizzazione di quello numinoso-irrazionale. 200 Solo che la nozione di « valore » non appare di per sé sufficiente a render conto della concretezza di tale relazione (e rischia anzi di offrirne una versione eccessivamente semplificata) ; cosa che, del resto, non stupisce visto che uno dei risultati più significativi dell’intero saggio è l’esibizione dell’inadeguatezza del « valore » a riassumere ed esaurire in sé (come invece auspicherebbero i teorici dell’etica dei valori) il quadro dei concetti etici fondamentali. E non è un caso che laddove, quasi di sfuggita, il predicato « sacro » « si impone », come dice Otto, nel contesto di una riflessione etica è per qualificare doveri propri di una sfera molto particolare di questa, una sfera che coinvolge direttamente il rapporto tra persone come tali, a prescindere dal valore (che eventualmente esse possiedano) e dai diritti (di cui godono per il semplice fatto di essere persone). Come si è già accennato, in questo scritto la questione della relazione tra etica e religione viene intenzionalmente messa tra parentesi : essa è invece oggetto di trattazione diretta nell’ultimo dei saggi della raccolta curata da Boozer, Autonomia dei valori e teonomia, 201 che è dedicato ad un confronto con il pensiero di Hartmann e che rappresenta per molti aspetti il compimento della riflessione etica inaugurata da Valore, dignità e diritto. Otto prende le mosse dalla tesi hartmanniana di una sostanziale incompatibilità tra etica (che per Hartmann significa etica dei valori) e religione, basata sul fatto che quest’ultima negherebbe in ultima analisi la libertà che è invece il fondamento stesso della prima. Il modo in cui Otto affronta la questione attesta, ancora una volta, la persistenza di quell’ispirazione teorica di fondo che abbiamo tentato di rintracciare sin dall’opera su Lutero. Otto non nega la difficoltà e non si mostra incline a conciliazioni affrettate. Riferendosi implicitamente a quanto sostenuto nel saggio su Valore, dignità e diritto, egli ribadisce che il sacro, quale contenuto assiologico specifico della religione, non può esser forzatamente incluso tra i valori etici : « Come ho tentato di mostrare altrove, nelle mere “etiche” il sentimento per il sacro e, con ciò, la possibilità del sentimento per il  











































200   Allo stesso modo, come Otto argomenta ampiamente nel saggio Was ist Sünde ?, il carattere numinoso del « peccato » rende quest’ultimo irriducibile alla semplice « trasgressione » sul piano etico, il che non toglie che « per essenza i concetti di cattivo e di peccato sono intrecciati e appartengono l’uno all’altro ; sono cioè l’uno il reciproco dell’altro mediante mutua sussunzione delle rispettive categorie, ossia in reciproca compenetrazione dei due ambiti di contenuto » (SU, p. 8 ; cfr. infra, p. 393). 201   Autonomie der Werte und Theonomie, in AE, pp. 215-226 ; infra, pp. 439-447.  



















introduzione

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peccato sono propriamente illegittimi ». Il che però non è una soluzione della difficoltà, perché nemmeno l’affermazione di una pura e semplice estraneità tra il sacro e l’etica è sostenibile fino in fondo, nella misura in cui una qualche relazione – magari illegittima – è comunque data e non può essere semplicemente ignorata : « Può anche essere difficile dal punto di vista teorico lasciare che valori fondati autonomamente in natura rerum dei loro portatori, si fondino oltre a ciò in Dio : in ogni caso il fenomenologo dovrebbe tener conto del fatto che ciò non viene soltanto asserito, ma viene attestato dal vissuto del raccoglimento devoto ». 203 Non si tratta dunque di negare l’« antinomia tra etica e religione » 204 individuata con chiarezza da Hartmann, ma di pensarla con una radicalità alla quale Hartmann non riesce a pervenire, perché, pur riconoscendo che l’antinomia non dimostra affatto l’insussistenza di uno o magari di entrambi i suoi termini, 205 non è poi in grado di rendere fecondo il vincolo che li stringe. Stante quanto siamo venuti dicendo nei paragrafi precedenti, non stupirà che, per contro, è proprio sul tentativo di pensare la dinamica interna dell’antinomia che fa leva il discorso di Otto, teso a mostrare che, per quanto paradossale possa suonare, autonomia dei valori e teonomia possono e debbono esser tenuti insieme. Otto sottolinea innanzitutto che i termini stessi dell’antinomia debbono essere individuati con chiarezza. Non regge, per esempio, la formulazione hartmanniana dell’antinomia come reciproca esclusione tra l’« aldiquà », quale territorio di pertinenza dell’etica, e l’« aldilà », quale dominio proprio della religione : se si assume il punto di vista di quest’ultima, l’« aldiquà » è opera di Dio e dunque esso non è un luogo dal quale fuggire in direzione dell’« aldilà », ma è anzi già da sempre orientato alla trascendenza, ed è anzi lo spazio all’interno del quale l’uomo è chiamato a realizzarla, compiendo la volontà del suo creatore. Ma nemmeno è veramente antinomica l’opposizione fondata sulla presunta esclusione da parte dell’etica di quei concetti che sarebbero invece fondamentali per la religione, come perdono, assoluzione, redenzione. L’errore è tipico di un’etica che ritenga di potersi fondare interamente sul concetto di valore (unilateralità che, come si è visto, Otto contesta per ragioni strettamente etiche) e ignori, così facendo, che invece il perdono e assoluzione trovano la loro dimensione più propria « là dove, nell’etica, si tratta delle relazioni più profondamente etiche, quelle tra persona e persona, o delle pretese fatte valere da parte di una persona nei confronti di un’altra ». 206 La vera antinomia, piuttosto, è nel rapporto tra l’autonomia dei valori, su cui l’etica si fonda, e la teonomia, ossia la subordinazione del valore alla volontà di Dio. Delle due l’una : o il valore è tale perché posto da Dio, e dunque non è propriamente un valore, ma un comandamento divino, fondato sulla volontà di Dio, ma di per sé arbitrario ; oppure ha una sua validità intrinseca che però, nella sua autonomia, contesta l’assolutezza divina. Pensare il rapporto tra religione ed etica, in sostanza, sembra equivalere a porre la domanda paradossale : « Ci sono degli dèi accanto a Dio ? ». 207 Ancora una volta, la chiave della soluzione proposta da Otto consiste nel pensare correttamente l’eccedenza del sacro (la sua irrazionalità), che è tale da non smentire in alcun modo la razionalità (ossia l’autonomia) tipica del valore : « È caratteristico anche e  

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  AE, p. 220 ; infra, p. 443.   AE, p. 215 ; infra, p. 439. 206   AE, p. 218 ; infra, p. 441. 204







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  Ibidem.   Cfr. AE, p. 217 ; infra, p. 440.   AE, p. 222 ; infra, p. 444.

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proprio del vissuto del valore religioso che esso non inibisce la facoltà della valutazione oggettiva che chiamiamo “coscienza”, ma si connette intimamente al rispetto della volontà di Dio, tanto che il profeta li coglie come sinonimi. Il comandamento di Dio non è un ordine e tantomeno l’ordine di un despota che richiede un’obbedienza cieca. La volontà di Dio, per il cristiano, non è cieca o, più esattamente, il cristiano non è cieco rispetto alla volontà di Dio, ma capace di cogliere ciò che è evidente, e i comandamenti della volontà di Dio sono essi stessi evidenti quanto alla loro validità ». 208 Otto non esita a radicalizzare le conseguenze di tutto ciò e a sostenere che l’autonomia dei valori, per quanto paradossale possa sembrare, è il presupposto stesso della teonomia : e lo è esattamente nello stesso senso per cui un mondo perfettamente funzionante secondo leggi dell’immanenza è l’unico presupposto posssibile di un’agire divino autenticamente trascendente. Riprendendo direttamente un esempio già utilizzato nella Filosofia della religione, Otto si richiama alla controversia tra Clarke e Leibniz, prendendo partito per la posizione di quest’ultimo e sostenendo che postulare l’incompletezza del mondo per far posto all’azione di Dio significa in realtà sminuire il creatore, imputandogli l’incapacità di creare un mondo che davvero gli assomigli : « La situazione è simile quando si crede di dover scuotere l’autonomia dei valori immanenti al mondo per far posto alla teonomia ». 209 Il vissuto del sacro non scuote affatto l’autonomia dei valori, ma li ricomprende in un contesto più ampio che consente di tenere insieme ciò che dal solo punto di vista etico non può esser tenuto insieme. Questo non significa che « risolviamo l’enigma che sussiste tra ciò che è al di qua e ciò che è al di là. Ma, nell’immediatezza di un vissuto ingenuo, qui non sentiamo neanche un enigma, ma riteniamo di vedere delle ovvietà quando riconosciamo chiaramente il linguaggio dei valori del mondo nella coscienza e cogliamo in ciò la richiesta di Dio “insegnata dallo Spirito” ». 210 Il riferimento all’insegnamento dello Spirito non è casuale. Ancora una volta, la posizione corretta del rapporto tra razionalità e irrazionalità rimanda alla teoria del « doppio sguardo » che Otto ha appreso da Lutero : la prospettiva religiosa non completa, né corregge in alcun modo l’imperativo etico, ma lo arricchisce di una dimensione e di una prospettiva ulteriori ; è a questo che allude il versetto evangelico che Otto ama citare : « Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te ». 211 La trasgressione è contemporaneamente etica e religiosa : una contemporaneità che può esser vissuta, ma non dimostrata, anche perché sul piano etico-razionale, in sé perfettamente autonomo, di una simile dimostrazione non vi è alcun bisogno.  





























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  AE, p. 221 ; infra, p. 443.   Ibidem.  

209 211

  AE, p. 224 ; infra, p. 446.   Lc 15, 22.  

NOTA EDITORIALE

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li estremi delle edizioni originali su cui è stata condotta la traduzione sono riportati in nota all’inizio di ciascun testo. Stante la natura per lo più episodica dei riferimenti di Otto ad opere di altri autori, abbiamo evitato – salvo un’unica, importante eccezione – di utilizzare le traduzioni italiane esistenti, anche perché nella maggior parte dei casi sarebbe stato necessario apportare significative modifiche per ragioni di uniformità lessicale. L’eccezione è rappresentata dal testo della Critica della ragion pura di Kant, con cui Otto, soprattutto nella Filosofia della religione, si confronta in modo approfondito, riportandone ampi brani. In questo caso abbiamo ritenuto opportuno rimandare alla traduzione di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo-Radice, rivista da Vittorio Mathieu (Roma-Bari, Laterza, 19969). Le traduzioni (riportate in nota) dei passi che l’autore cita in lingua originale diversa dal tedesco sono state condotte sulle rispettive traduzioni tedesche, citate o effettuate dallo stesso Otto. Anche per quanto riguarda i passi biblici si è preferito tradurre direttamente dal tedesco, non soltanto per le ragioni di uniformità di cui sopra, ma anche per restituire al lettore italiano quella giusta distanza rispetto alla versione del testo biblico su cui Otto lavora, che l’assuefazione alle traduzioni correnti avrebbe rischiato di livellare. Le note dell’Autore sono richiamate con lettere alfabetiche progressive ; quelle del Curatore sono contrassegnate da esponente numerico. Solo per il Sacro si è reso necessario un terzo ordine di note, indicate con asterischi in numero progressivo, che rimandano alla seconda Appendice, nella quale sono riportate alcune tra le varianti più significative dell’edizione Beck (1936) rispetto alla prima (1917).  

AE – Aufsätze zur Ethik AHG – Die Anschauung vom heiligen Geiste bei Luther ANB – Aufsätze das Numinose betreffend Beck– Das Heilige (1936) DH – Das Heilige (1917) GI – Die Gnadenreligion Indiens und das Christentum GG – Gottheit und Gottheiten der Arier GÜ – Das Gefühl des Überweltlichen KFR – Kantisch-Fries’sche Religionsphilosophie und ihre Anwendung auf die Theologie LWJ – Leben und Wirken Jesu NRW – Naturalistische und religiöse Weltansicht RGM – Reich Gottes und Menschensohn SR – Siddhānta des Rāmānuja SU – Sünde und Urschuld WÖM – West-östliche Mystik

NOTA BIOGRAFICA 1869 Louis Karl Rudolf Otto nasce a Peine (Hannover), il 25 settembre, da Wilhelm, proprietario di una fabbrica di malto, e Katherine Reupke. È il penultimo di 13 fratelli. Nella Vita zum 1. Examen, redatta per accedere al primo esame teologico, dichiara di « esser cresciuto nella cerchia ristretta della famiglia, dei parenti più prossimi e degli amici, in una situazione schiettamente borghese e provinciale ». Riceve un’educazione religiosa molto rigorosa e matura presto il desiderio di diventare pastore. 1880 Si trasferisce con tutta la famiglia a Hildesheim, dove il padre ha acquistato una seconda fabbrica. 1881 Viene iscritto al Gymnasium Andreanum. Il padre muore, ma la situazione finanziaria della famiglia è tale da poter comunque consentire a Rudolf la prosecuzione degli studi. 1884 Viene confermato nella religione evangelico-luterana. 1888 Nel mese di febbraio consegue la maturità. Ad aprile si immatricola presso la FriedrichAlexander Universität di Erlangen, che preferisce alla più vicina Università di Gottinga, perché più conservatrice di quest’ultima e meno orientata alla teologia liberale. Come dichiara nella Vita, intende « far propri in modo approfondito i mezzi per difendersi » da « innovazioni e innovatori » in teologia, che « con i loro metodi [...] allontanano dalla verità ». Nel corso dei primi due semestri presta il servizio militare. 1889 Dopo il congedo, raggiunge alcuni colleghi più anziani che si erano trasferiti a Gottinga e frequenta un corso di Hermann Schultz sull’apologetica. Nel semestre invernale torna ad Erlangen. Trascorre le vacanze in Inghilterra. 1890 Ad Erlangen frequenta i corsi di Johannes Gloel, Rudolf Seeberg e Franz Reinhold von Frank. 1891 Si immatricola a Gottinga, dove viene in contatto con la scuola di Albrecht Ritschl e con la nascente scuola storico-religiosa (W. Bousset, E. Troeltsch, J. Weiß, W. Wrede). Frequenta i corsi di Rudolf Smend e Theodor Häring (che era arrivato da Zurigo nel 1889). Dal 16 agosto al 9 ottobre è in viaggio in Grecia con l’amico Karl Thimme. 1892 Il 26 marzo supera il primo esame teologico (pro venia concionandi). 1893 Fino alla Pasqua svolge la funzione di vicario nella Chiesa evangelica tedesca di Cannes. Quindi entra nel Seminario per predicatori di Erichsburg. 1895 Il 24 gennaio sostiene il secondo esame teologico (pro ministerio). Probabilmente in conseguenza degli studi di arabo e aramaico, effettua un viaggio in Egitto, in Palestina e sul Monte Athos con Karl Thimme, che lo porta per la prima volta in contatto con forme di devozione e di espressione religiosa molto eterogenee : resta molto colpito dallo spettacolo dei dervisci danzanti, dal culto copto, dalla cerimonia ortodossa della lavanda piedi. Al ritorno diviene Inspektor al Theologischer Stift di Gottinga, un incarico di supervisione ben remunerato e poco oneroso che gli consente di lavorare in tranquillità alla dissertazione (AHG). Otto si avvale della possibilità, prevista dall’ordinamento dell’Università di Gottinga risalente al 1831, di conseguire con un unico esame la licenza e l’abilitazione (il dottorato veniva attribuito solo honoris causa). 1898 Consegue l’abilitazione in teologia e pubblica AHG. Ottiene la venia legendi per due anni con una Probevorlesung sul concetto di religione in Kant. 1899 Cura l’edizione commemorativa delle Reden di Schleiermacher per il centenario della prima pubblicazione. 1900 Tra agosto e settembre è impegnato in un viaggio in Russia alla volta degli antichi monasteri del Volga, tra cui quello dell’isola di Vaalam sul lago Ladoga. Secondo quanto  

















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riferisce lo stesso Otto in alcune lettere relative a questo viaggio, nel far tappa a Karlsruhe conosce Nathan Söderblom, che all’epoca ha appena conseguito il dottorato alla Sorbona con uno studio sul Mazdeismo. 1901 Pubblica LWJ. Il testo viene giudicato eccessivamente liberale dal Berliner Oberkirchenrat, cosa che gli preclude per diversi anni il conseguimento dell’ordinariato. Vive un periodo psicologicamente difficile, nel quale medita seriamente di abbandonare la carriera accademica, e che lo porta sulla soglia di un esaurimento nervoso. L’epistolario attesta l’importanza del sostegno di Ernst Troeltsch. 1904 Pubblica NRW. Conosce Leonard Nelson, che lo invita, in un primo momento senza successo, a prendere parte al circolo neo-friesiano. 1906 Viene nominato professore straordinario a Gottinga, con l’incarico di tenere corsi prevalentemente nell’ambito della filosofia della religione. 1907 Il 2 agosto, l’Università di Gießen gli conferisce il dottorato honoris causa in teologia. 1909 Pubblica KFR. 1911 Tra il 26 marzo e il 5 luglio, grazie ad un finanziamento della Stiftung für Auslandsreise von deutschen Gelehrten und Lehrern, effettua un viaggio di studio a Tenerife e poi in Nordafrica, di cui pubblica i resoconti sulla « Christliche Welt ». In Marocco, in una sinagoga di Mogador (ora Essaouira) assiste alla preghiera del sabato, durante la quale resta particolarmente impressionato dall’erompere improvviso del triplice « Santo » (Qādôsh) : « È sabato ed è già scuro. In un corridoio straordinariamente sporco ascoltiamo le “benschen” (benedizioni) delle preghiere e delle letture bibliche, questo salmodiare cantilenante e nasale che la sinagoga ha lasciato in eredità alla chiesa e alla moschea. All’inizio l’orecchio cerca invano di separare e di afferrare le parole e vuole interrompere lo sforzo : quando improvvisamente il groviglio di voci si sbroglia e – mentre un terrore solenne corre per le membra – si erge all’unisono, chiaro e inequivocabile : “Santo, santo, santo il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria”. In qualunque lingua risuonino, queste sono le parole più maestose che siano mai uscite dalle labbra umane e afferrano sempre il fondo più profondo dell’anima, eccitando e toccando con un brivido dolce il mistero del soprannaturale che vi riposa ». In ottobre riparte, con un finanziamento della Kahn-Stiftung, alla volta dell’India, per poi proseguire in Birmania, in Giappone e in Cina : svolge un’attività intensissima, incontra esponenti di spicco delle tradizioni religiose con le quali viene a contatto (induismo, buddhismo, taoismo) e stabilisce contatti che resteranno importanti. È nel corso di questo viaggio che prende forma l’idea di una Religionskundliche Sammlung, una raccolta di oggetti di culto e rituali attestanti la varietà delle forme e dei mezzi di espressione religiosa. 1912 Torna in Germania (luglio), passando per la Russia.  



















1913 Partecipa a Parigi al Congresso mondiale per il libero cristianesimo e per il progresso religioso. Nel suo intervento prefigura l’idea di una lega tra le religioni. Viene eletto tra le file del partito liberalnazionale nel parlamento prussiano, in cui resterà fino alla fine della Prima Guerra Mondiale. 1915 In conseguenza del trasferimento di G. Wobbermin a Heidelberg, riceve la chiamata dall’Università di Breslau per la cattedra di teologia sistematica. Con l’appoggio del ministero costituisce una commissione per la traduzione di testi di altre tradizioni religiose nella collana Quellen der Religionsgeschichte [fonti della storia della religione]. 1916 Pubblica la sua prima traduzione dal sanscrito (che probabilmente ha cominciato a studiare nel corso del viaggio in India del 1911) : Dīpikā des Nivāsa : Eine indische Heilslehre. 1917 Riceve la chiamata per la cattedra di teologia sistematica dell’Università di Marburgo, come successore di Wilhelm Herrmann. Pubblica DH e le traduzioni : Vischnu-Nārāyana, Siddhānta des Rāmānuja.  





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1920 Su « Christliche Welt » avanza la proposta di una « lega religiosa dell’umanità » (Religiöser Menschheitsbund). 1921 Pubblica su Deutsche Politik il programma della Lega. Sorgono gruppi locali a Amburgo, Darmstadt, Offenbach, Berlino, Lipsia e quindi, grazie a Johannes Hessen, a Colonia. 1922 Il primo agosto, a Wilhelmshagen (Berlino), ha luogo il primo congresso della Lega. Sono presenti i rappresentanti di otto diversi gruppi religiosi e confessionali. 1923 Pubblica ANB.  







1924 Nell’autunno è invitato dallo Oberlin College di Oberlin (Ohio) per le Haskell Lectures : le conferenze vertono sul rapporto tra mistica occidentale e mistica orientale (poi pubblicate come WÖM). 1925 Conosce Birger Forell. Il 5 maggio è nominato senatore della Deutsche Akademie. 1926 Pubblica WÖM. Forell lo invita per a Uppsala per le Olaus Petri Lectures (poi pubblicate come GI). Ottiene fondi per la « Religionskundliche Sammlung ». 1927 Inaugura la « Religionskundliche Sammlung ». Il 18 ottobre ha inizio un nuovo viaggio, insieme a Birger Forell, che lo porta a Ceylon, dove prende contatto con la Young Men’s Buddhist Association, e poi in India, in Palestina e nei Balcani. 1928 Partecipa, a Gerusalemme, alla seconda Weltmissionkonferenz. Torna in Germania a maggio. 1929 Ottiene di essere emeritato, prima del tempo, per ragioni di salute. 1930 Pubblica GI. 1932 Pubblica GÜ, GG, SU. Viene insignito di un dottorato honoris causa dall’Università di Uppsala. 1933 Pubblica RGM. È costretto a declinare, per ragioni di salute, l’invito a tenere le Gifford Lectures, che aveva deciso di dedicare al tema « legge morale e volontà di Dio ». 1935 Pubblica la traduzione della Bhagavad-Gītā. 1936 Pubblica la traduzione del Katha-Upanis≥ad. Nell’ottobre si verifica un incidente, che, stanti le circostante non del tutto chiare, lascia aperta l’ipotesi di un tentativo di suicidio : durante una visita in un maniero a Staufenberg, Otto cade da una torre. 1937 Il 6 marzo muore a Marburgo. La causa ultima è una polmonite contratta nell’ospedale psichiatrico, dove era stato ricoverato otto giorni prima per superare una dipendenza dalla morfina che ha cominciato ad assumere in seguito all’incidente della torre. I medici riscontrano tuttavia anche una grave arteriosclerosi in fase molto avanzata.  















BIBLIOGRAFIA Opere Die Anschauung vom heiligen Geiste bei Luther, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1898. Leben und Wirken Jesu nach historisch-kritischer Auffassung, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1902 (stampato in prima edizione come manoscritto, col titolo Die historisch-kritische Auffassung vom Leben und Wirken Jesu, Göttingen 1901). Naturalistische und religiöse Weltansicht, Tübingen, Mohr, 1904. Kantisch-Fries’sche Religionsphilosophie und Ihre Anwendung auf die Theologie, Tübingen, Mohr, 1909. Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Breslau, Trewendt und Granier, 1917. Aufsätze das Numinose betreffend, Stuttgart, Perthes, 1923. Zur Erneuerung und Ausgestaltung des Gottesdienstes, Gießen, Töpelmann, 1925. West-Östliche Mystik. Vergleich und Unterscheidung zur Wesensdeutung, Gotha, Klotz, 1926. Die Gnadenreligion Indiens und das Christentum. Vergleich und Unterscheidung, Gotha, Klotz, 1930. Das Gefühl des Überweltlichen (Sensus Numinis), München, Beck, 1932. Sünde und Urschuld und andere Aufsätze zur Theologie, München, Beck, 1932. Gottheit und Gottheiten der Arier, Gießen, Töpelmann, 1932. Reich Gottes und Menschensohn : Ein religionsgeschichtlicher Versuch, München, Beck, 1934. Freiheit und Notwendigkeit : Ein Gespräch mit Nicolai Hartmann über Autonomie und Theonomie der Werte, hrsg. von T. Siegfried, Tübingen, Mohr, 1940. Aufsätze zur Ethik, hrsg. von J. S. Boozer, München, Beck, 1981.  



Principali saggi Darwinismus von heute und Theologie i , « Theologische Rundschau », 5, 1902, pp. 483-496. Wie Schleiermacher die Religion wiederentdeckte, « Die christliche Welt », 17, 1903, pp. 506-512 (ripubblicato con modifiche in SU, cap. 10). Die mechanistische Lebenstheorie und die Theologie, « Zeitschrift für Theologie und Kirche », 13, 1903, pp. 179-213. Gott und das Unendliche. Von einem Theologe, « Die Christliche Welt », 17, 1903, pp. 174-176. Ein Vorspiel zu Schleiermachers Reden über die Religion bei J. G. Schlosser, « Theologische Studien und Kritiken », 76, 1903, pp. 470-481. Darwinismus von heute und Theologie ii -iii , « Theologische Rundschau », 6, 1903, pp. 183-199 e 229-236. Die Überwindung der mechanistischen Lehre vom Leben in der heutigen Naturwissenschaft, « Zeitschrift für Theologie und Kirche », 14, 1904, pp. 234-272. Darwinismus von heute und Theologie iv-v, « Theologische Rundschau », 7, 1904, pp. 1-15. Goethe und Darwin. Darwinismus und Religion, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1909 (ripubblicato con modifiche in SU, cap. 14). Jakob Friedrich Fries’ Religionsphilosophie, « Zeitschrift für Theologie und Kirche », 19, 1909, pp. 31-56 e 108-161. Jakob Friedrich Fries’ praktische Philosophie, « Zeitschrift für Theologie und Kirche », 19, 1909, pp. 204-242.  







































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bibliografia

Mythus und Religion in Wundts Völkerpsychologie, « Theologische Rundschau », 13, 1910, pp. 251-275 e 293-305 (ripreso con modifiche in ANB, cap. 25 e in GÜ, cap. 2). Religiöser Menschheitsbund neben politischem Völkerbund, « Die christliche Welt », 9, 1920, coll. 133135. Vom Religiösen Menschheit-Bunde, « Die Christliche Welt », 30, 1920, coll. 477-478. Religiöser Menschheitsbund, « Deutsche Politik », 10, 1921, pp. 234-238. Chrysostomus über das Unbegreifliche in Gott, « Zeitschrift für Kirchengeschichte », 21, 1921, pp. 239246 (ripreso in ANB, cap. 1 e in GÜ, cap. 8). Über eine besondere Form des japanischen Buddhismus, « Zweites Mitteilungsblatt des Religiösen Menschheitbundes », 1922, pp. 6-11 (ripreso in ANB, cap. 15 e GÜ, cap. 9). Zum Verhältnisse von mystischer und gläubiger Frömmigkeit, « Zeitschrift für Theologie und Kirche », 3, 1922, pp. 255-265 (ripreso in ANB, cap. 12, in SU cap. 11). Prophetische Gotteserfahrung, « Die christliche Welt », 37, 1923, coll 437-447 (ripreso in ANB, cap. 17 e in SU, cap. 6) Östliche und westliche Mystik, « Logos », 13, 1924, pp. 1-30. Religiöse Kindheitserfahrungen, « Religionspychologie. Veröffentlichungen des Wiener Religionspsychologischen Forschung-Institutes », 1, 1926, pp. 99-105. Sinn und Aufgabe moderner Universität. Rede zur vierhundertjährigen Jubelfeier der Philippina zu Marburg, Marburg, Elwert, 1927. Bewusstseins-Phänomenologie des personalen Vedanta, « Logos », 18, 1929, pp. 151-184. Die Methoden des Erweises der Seele im personalen Vedanta, « Zeitschrift für Religionspsychologie », 2, 1929, pp. 232-253 e 293-333. Ein Stück indischer Theologie, « Zeitschrift für Theologie und Kirche », 10, 1929, pp. 241-293. Wert, Würde und Recht, « Zeitschrift für Theologie und Kirche », 12, 1, 1931, pp. 1-67 (ripreso in AE, cap. 1). Wertgesetz und Autonomie, « Zeitschrift für Theologie und Kirche », 12, 2, 1931, pp. 85-110 (ripreso in AE, cap. 2). Das Schuldgefühl und seine Implikationen, « Zeitschrift für Religionspsychologie », 4, 1931, pp. 1-19 (ripreso in AE, cap. 3). Das Gefühl der Verantwortlichkeit, « Zeitschrift für Religionspsychologie », 4, 1931, pp. 49-57 e 109136 (ripreso in AE, cap. 4). Pflicht und Neigung. Eine Untersuchung über objektiv wertvolle Motivation, « Kant-Studien », 37, 1932, pp. 49-90 (ripreso in AE, cap. 5). Die Urgestalt der Bhagavad-Gītā, Tübingen, Mohr, 1934. Nārāyana, seine Herkunft und seine Synonyme, « Zeitschrift für Missionskunde und Religionswissenschaft », 49, 1934, pp. 290-312. Die Katha-Upanis≥ad in ihrer Urgestalt, « Zeitschrift für Missionskunde und Religionswissenschaft », 51, 1936, pp. 33-41.  















































































Traduzioni ed edizioni curate da Otto F. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1899. E. F. Apelt, Metaphysik, Halle, Hendel, 1910. H. Schmid, Vorlesungen über das Wesen der Philosophie und ihre Bedeutung für Wissenschaft und Leben, Halle, Hendel, 1911. Dīpikā des Nivāsa : Eine indische Heilslehre, Tübingen, Mohr, 1916.  

bibliografia

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volumi

LA FILOSOFIA DELLA RELIGIONE KANTIANO-FRIESIANA APPLICATA ALLA TEOLOGIA. INTRODUZIONE ALLA DOGMATICA PER STUDENTI DI TEOLOGIA 1 1   Edizione originale : Kantisch-Fries’sche Religionsphilosophie und Ihre Anwendung auf die Theologie, Tübingen, Mohr, 1909.  

SOMMARIO 67

Prefazione a. dottrina delle idee Capitolo primo, Introduzione Capitolo secondo, Tratti fondamentali e contesti storico-ideali della filosofia della religione friesiana Capitolo terzo, La conoscenza della natura Capitolo quarto, Passaggi alla conoscenza ideale Capitolo quinto, Fondamento della conoscenza ideale Capitolo sesto, Le idee speculative Capitolo settimo, La rivitalizzazione pratica delle idee

71 81 89 97 105 113 119

b. tratti fondamentali della filosofia pratica Capitolo ottavo, Dottrina dei fini dell’uomo (Teleologia soggettiva) Capitolo nono, Dottrina del fine del mondo (Teleologia oggettiva) Capitolo decimo, Dottrina del presentimento Capitolo undicesimo, Conclusione

127 137 143 151

c. la filosofia di fries in relazione alla teologia (de wette. tholuck) Capitolo dodicesimo, Racconto didascalico di De Wette Capitolo tredicesimo, La Dogmatik di De Wette Capitolo quattordicesimo, La Sittenlehre di De Wette Capitolo quindicesimo, Tholuck Capitolo sedicesimo, Conclusione

153 171 187 191 195

Alla veneranda Facoltà teologica dell’Università di Gießen con deferente gratitudine. 1

PREFAZIONE

C

he cos’è la religione ? Ci vuol poco a mettere in dubbio che questa sia o possa essere, nel complesso, una domanda filosofica ; e magari a negarlo subito, proprio per quel che vi è di più fine, di intimo e di individuale nella religione. Nel suo versante migliore, quest’ultima è interamente cosa della profondità intima della nostra vita spirituale, si perde con radici profonde nell’oscuro, nel semiconscio o nell’inconscio, e vive nel sentimento : può dunque esser còlta solo e soltanto col sentimento e si sottrae in gran parte all’esposizione e all’analisi concettuale. Ciò non esclude che anche il pensiero concettuale possa porre per la scienza la domanda sull’essenza della religione e che vi possa rispondere per approssimazione. Il solo punto di partenza possibile per ogni serio tentativo di rispondervi e di determinare l’« essenza della religione » è quindi quello che Schleiermacher ha dato una volta per tutte a questo lavoro : l’intuizione interna del religioso in se stessi, l’autoosservazione della coscienza religiosa. Si tratta di conoscere, mediante esperienza interna, quell’ambito della vita dello spirito, i suoi contenuti e le sue proprietà, che – con una chiarezza e una compattezza più o meno rigorosa – si stacca dagli altri in quanto specificamente religioso e di contro ad essi si distingue e delimita. In questo modo si ottiene innanzitutto un concetto empirico di religione e della sua più generale specie ed essenza, della specificità dell’esperienza vissuta religiosa e di ciò che un uomo trova e vuole in essa. Questo primo lavoro può esser designato con l’espressione, non del tutto immune da obiezioni, « psicologia della religione ». Con il paradigma di religione così ottenuto si può accedere all’ambito dello sviluppo storico della vita spirituale umana in genere e, attenendosi ad esso come filo conduttore, si possono cercare gli elementi che si corrispondono, che sono simili o affini, se ne possono cogliere empiricamente lo sviluppo, gli stadi, le molteplici forme di manifestazione e le leggi (in contatto con l’etnologia, la psicologia dei popoli e la storia della cultura) ; e si può contemporaneamente ampliare e determinare più dappresso per induzione storica quell’intuizione iniziale e solo paradigmatica dell’essenza della religione. Questa occupazione è allora compito e scopo ultimo di una storia della religione comparata (induzione storica). Per approssimare la nostra questione alla soluzione, debbono entrambe, psicologia e storia della religione, intrecciarsi l’una all’altra nei modi più vari, completandosi, chiarendosi e determinandosi vicendevolmente. Si utilizza di consueto il nome « filosofia della religione » anche già per questo duplice lavoro. Che cos’è la verità della religione ? Anche questa domanda è in gran parte sottratta ad una trattazione filosofica rigorosa, ad una prova universalmente valida e vincolante per tutti. Ciò che in essa vi è di più fine è, di nuovo, a tal punto questione di esperienza vissuta e di sentimento individuale, di libero accordo e convincimento, è a tal punto questione di una risoluzione personale, caparbia, volontaria, audace, che ogni ragionamento filosofico sembra diventare nullo e tutto sembra lasciato alla « testimonianza  

























1

  Il 2 agosto 1907 l’Università di Gießen aveva conferito ad Otto un dottorato honoris causa in teologia.

68

prefazione

interiore dello spirito ». Ma per quanto poco il carattere interiore e personale dell’esperienza vissuta religiosa possa esser forzato o reso universalmente valido cavillando con la ragione, sarebbe tuttavia grave se la religione, e la convinzione religiosa, secondo la sua essenza universale non potesse giustificarsi quanto ai suoi presupposti fondamentali e alle sue pretese più alte e più universali ; e se non potesse guadagnare una salda posizione di fronte alla conoscenza. Il che può accadere soltanto con una riflessione e una ricerca che deve ora esser definita filosofia della religione in senso più stretto e più rigoroso. Questa deve indagare come la religione, la convinzione e l’esperienza vissuta religiosa, sorga nello spirito razionale, da quali facoltà e disposizioni del medesimo proceda e quale pretesa di validità con ciò abbia. Questo lavoro è semplicemente una parte di quell’esame dello spirito razionale in generale, relativo alla sua capacità di conoscenza e di verità, che a partire da Kant si chiama « critica della ragione ». Tale critica ci deve mostrare come e in quale modo l’uomo sia capace di conoscenza e di verità negli ambiti della natura e delle scienze naturali. Ma deve, inoltre, mostrarci come e in quale modo egli sia capace di quell’altra e superiore conoscenza che definiamo conoscenza della fede. E questo è il primo grande compito della filosofia della religione nel senso più stretto del termine. Essa è dunque, innanzitutto, integralmente parte della « critica della ragione » in generale, quella che si può definire (insieme alla critica della conoscenza etica e di quella estetica) la sua parte superiore. La parte prima ed inferiore della critica della ragione ci mostra come e mediante quali disposizioni dello spirito razionale sia « possibile » la conoscenza propria della matematica, della fisica e delle scienze naturali. Corrispondentemente c’è una parte superiore della critica, che indaga e scopre come e mediante quali disposizioni e facoltà della ragione sia per noi « possibile » un’esperienza vissuta e un convincimento religioso, etico, estetico che abbia una pretesa di validità. Sulla base di tale critica, però, si ottiene contemporaneamente per ogni ambito della vita dello spirito un contenuto supremo e massimamente universale di principi, di conoscenze e convinzioni somme e universalissime, sotto la cui legge quegli ambiti si sviluppano. Kant chiama questi principi « metafisici » e in questo modo trova la « metafisica » della conoscenza matematica, così come della conoscenza scientifico-naturale, etica, estetica. Egli scrive i « principi metafisici » delle scienze naturali, così come della dottrina della virtù o del diritto. Si può dunque parlare anche di una « metafisica della religione » e dei principi metafisici di una dottrina della religione : rintracciarli e svilupparli è la seconda occupazione della filosofia della religione nel senso più stretto del termine. a Questa filosofia della religione retroagisce sul punto di partenza, menzionato sopra, dell’indagine sull’essenza della religione. Mediante essa, infatti, si fa più netta quella determinazione di tale punto di partenza, che è còlta empiricamente ed è ampliata e completata dall’induzione storica. Solo in quanto così si chiarisce da quali radici dello spirito razionale essa scaturisca e in che modo queste ultime si rapportino alle altre e all’intero della vita spirituale in genere, si fa determinata, netta e chiara anche la determinazione dell’essenza della religione. E solo così anche il processo di sviluppo della religione nella storia si fa più trasparente e più facile da seguire. Come tutta la storia  

2





































a   Anche se non si deve pensare ad ipotesi e sogni fantasiosi sul regno dell’ultraterreno. La cosiddetta metafisica, nel senso kantiano, è una cosa molto sobria che non ha nulla a che spartire con imprese fantasiose.

  Riferimento al « testimonium spiritus sancti internum » ; cfr. supra, p. 22.

2







la filosofia della religione kantiano-friesiana

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dello spirito, così anche la storia della religione è una storia dello sviluppo, del dispiegamento e degli effetti di disposizioni e facoltà dello spirito razionale dell’uomo. E questa storia può passare per me dall’oscurità alla chiarezza nella misura in cui mi sono chiari l’essenza di questo stesso spirito, le sue disposizioni, il loro reciproco rapporto e il modo in cui agiscono. In ciò che segue si tenterà un’introduzione e un abbozzo di questa filosofia della religione in senso stretto. (È sperabile che al momento opportuno seguano una psicologia della religione e quell’induzione storica sopra citata, così che queste, connesse con la prima, diano la base su cui erigere una dottrina cristiana dei costumi e della fede.) Che ciò possa accadere soltanto su un fondamento kantiano, non ha bisogno, ci sembra, di giustificazione. Ma deve esser al contempo un fondamento friesiano, perché rispetto al nostro oggetto solo con Fries è stata pienamente compiuta l’opera, cominciata da Kant, di critica della ragione ; solo con Fries è stata liberata da errori e unilateralità ed ha assunto una forma che permane, quanto a ciò che è principale ed essenziale, come duratura base del lavoro di una scienza della religione. Il che non esclude critiche ad entrambi, né che si proceda oltre, il più possibile, nel lavoro. Il riferimento a Schleiermacher si impone qui da sé. Si è tentato di presentare il lavoro kantiano-friesiano in modo tale che fosse comprensibile e potesse servire come filo conduttore al principiante della scienza della religione : si è pensato soprattutto a studenti di teologia sistematica, la quale sviluppa in misura sempre crescente i suoi fondamenti filosofici e li mette sempre più in rilievo anche nei piani di studio. Come poi la filosofia della religione si rapporti alla teologia e in particolare alla teologia sistematica, come quella si applichi a questa e come questa presupponga quella, e quindi le antiche e importanti questioni preliminari della teologia sistematica relative al rapporto tra filosofia e teologia, tra filosofia della religione e dottrina cristiana della fede, tra etica filosofica e dottrina dei costumi teologico-cristiana, questo dovrà essere trattato e chiarito, per chi voglia studiare queste cose, in un’altra parte di questo scritto. La filosofia della religione kantiano-friesiana è entrata in una strettissima relazione con la teologia già con de Wette, amico e allievo di Fries. A partire da un confronto con questo tentativo di mettere in relazione l’una all’altra, il rapporto tra le due può essere sviluppato in modo istruttivo per il principiante. Insieme a ciò si ottiene, senza cercarlo, quel che per questi è altrettanto necessario : una presentazione del peculiare spirito e della specie di quella teologia che, dopo i giorni del razionalismo, tenta di nuovo (e in modo nuovo) di cogliere, su una base filosoficamente e teologicamente più ampia, l’essenza e lo spirito del cristianesimo e di portarlo ad una esposizione didattica. De Wette e Schleiermacher sono gli iniziatori di questa nuova teologia del xix secolo : i due sono legati in modo così stretto, che la relazione dell’uno all’altro si impone da sé. La teologia sistematica, che oggi tentiamo, è la prosecuzione del lavoro che essi hanno cominciato. I loro inizi restano per noi sempre istruttivi ed è necessario conoscerli se si vuole entrare nel lavoro attuale della teologia sistematica. La seguente presentazione della filosofia della religione kantiano-friesiana e la sua applicazione alla teologia era stata inizialmente pensata per la « Zeitschrift für Theologie und Kirche », in cui la prima parte è stata anche pubblicata. Poiché però il tutto è cresciuto oltre i limiti di una rivista, poiché, per di più, l’autore è stato sollecitato ad una pubblicazione a parte, il tutto esce adesso così. L’intento è, come indica il titolo,  











70

prefazione

quello di essere utili a studenti di teologia, che si avvicinano alla sistematica, attraverso la presentazione dell’impresa filosofico-religiosa di Fries. Che quest’ultima sia significativa, che aiuti a progredire e che sia istruttiva deve riconoscerlo anche chi, a differenza dell’autore, non la faccia propria. In pari tempo è raccomandabile proprio per gli studenti, perché si ricollega nel modo più stretto all’impresa di Kant, della quale deve presupporsi una certa conoscenza in ogni studente di dogmatica. In cosa consista il suo significato storico e quello relativo a questioni che oggi sono di nuovo della massima attualità vien detto nell’introduzione (cfr. pp. 71 e ss.) Il tutto è anche impostato in modo tale da poter essere utilizzato dal lettore come filo conduttore per una lettura parallela dell’opera principale di Kant. Nelle note a piè di pagina si dipana il relativo rimando ai passi ogni volta corrispondenti della Kritik der reinen Vernunft.

A. DOTTRINA DELLE IDEE Capitolo primo Introduzione 1. Punto di vista ; 2. Interesse attuale della filosofia della religione friesiana : questione di un principio religioso a priori – secondo la validità oggettiva della conoscenza a priori – secondo trascendenza o immanenza ; 3. Posizione storica di Fries rispetto : a Kant – a Jacobi – a Schiller – al romanticismo – a Schleiermacher – a Leibniz e all’illuminismo. – Allievo : de Wette ; 4. Opere.  









1.



T

ra i diversi pensatori che il periodo dell’idealismo tedesco ha prodotto, Jakob Friedrich Fries veniva generalmente apprezzato, lo si nominava con rispetto, ma nelle presentazioni dei movimenti di idee del suo tempo veniva per lo più sfiorato molto rapidamente. Nella storia della filosofia scomparve di fronte a pensatori del suo tempo presuntamente più grandi, ma in realtà più di successo : scomparve dietro Fichte e Schelling, e in particolare dietro Hegel. Nella storia della filosofia della religione si rimandava, sì, ad una certa affinità tra Fries e Schleiermacher quanto alla dottrina del « sentimento » religioso, ma si riteneva che quest’ultimo fosse lo spirito più originale e completo. In verità, dal punto di vista della scienza religiosa, Fries è particolarmente interessante non tanto per ciò che lo collega a Schleiermacher, quanto per ciò che lo separa da lui ; e anche in ciò che li accomuna è del tutto originale e, a ben guardare, più completo, profondo e convincente. a Ma quel che conta in quanto segue non è una riabilitazione di Fries o un paragone con i contemporanei. In generale ci guida molto meno un interesse storico, che non quello per la cosa. Poiché condividiamo l’idea e l’opinione sempre più diffusa nei nostri circoli, per cui dopo tutto lo storicismo, dopo tutto questo far comparazioni e induzioni e dopo le numerose improvvisazioni personali e le costruzioni d’emergenza, il lavoro della scienza della religione deve di nuovo riallacciarsi a quella grande indagine metodologica sui fondamenti razionali della religione nello spirito umano, che l’idealismo tedesco ha intrapreso in forma molteplice ricollegandosi ai tentativi preparatori dell’illuminismo, ci guida la convinzione che, tra i vari suoi rappresentanti e orientamenti, Fries e l’orientamento friesiano sia stato il più felice nel metodo, il più affidabile nei risultati e quindi sia importante per il nostro lavoro come punto di avvio e partenza. 2. In sé e per sé, e anche in relazione proprio a quelle domande che tra noi sono le più attuali, le peculiarità più importanti della filosofia della religione friesiana sono soprattutto queste : a) Nella disputa tra le confessioni, nella comparazione tra le religioni appena conosciute, l’illuminismo era arrivato in parte ad un atteggiamento relativistico e scettico (Hume, materialismo francese), in parte alla convinzione che il criterio di ciò che nelle religioni storiche è vero o falso, valido o non valido, non potesse esser posto esso stesso  









a   Nel mio NRW2, p. 57, ho dichiarato il contatto tra Fries e Schleiermacher, ma il primato colà affermato di Schleiermacher su Fries deve essere revocato in favore di quest’ultimo.

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capitolo primo

nella storia. Questa convinzione era connessa – a torto – con un’ampia sottovalutazione dello storico in generale, ma di per sé era una conoscenza significativa, da non abbandonare di nuovo. In realtà non avremmo la possibilità di distinguere tra il maggiore o minore valore delle formazioni storiche, o la capacità di concordare, riconoscere, discernere la verità e la validità delle affermazioni religiose o morali, senza lo « spiritus sanctus in corde », senza un peculiare principio del vero che si trova in noi stessi, sul quale misurare e col quale decidere. Dottrine e convinzioni che nascono storicamente potrebbero imporcisi solo come suggestioni, ma non essere accolte con un convincimento interno e con un reale assenso da parte nostra. Ricercare questo principio nel nostro spirito, rintracciarlo e portarlo alla luce è evidentemente il primo compito di ogni reale sforzo filosofico-religioso, senza il quale anche la ricerca storico-religiosa può perdere la sicurezza del controllo. Una filosofia della religione in questo senso è un compito assai sobrio, che ha poco a che fare con quelle fantasiose costruzioni che volano alto, con quegli slanci poetici e quei sogni per metà o interamente mitologici, che in genere sono stati collegati a questa espressione. La sua occupazione principale, per dirla con Kant, è la « critica della ragione », vale a dire l’analisi e l’esame dello spirito umano per verificare se e cosa esso realmente possieda di tali principi. Nella sua dottrina delle idee, questa somma e bellissima conquista del suo pensiero, lo stesso Kant ne ha posto il fondamento. L’idealismo tedesco ha assunto e proseguito in diverso modo il lavoro di Kant, ancora incompleto e affetto da alcuni gravi errori. Ma è Fries che ha custodito e adoperato nel modo più sicuro il metodo critico, il solo qui valido, e che ha tentato di esibire con esso il principio ricercato. Quanto « attuale » sia ancor oggi una simile operazione è evidente. Oggi cerchiamo di nuovo, da ogni parte, l’« a priori religioso ». Soprannaturalismo e storicismo rifiutano di offrire un criterio e un principio del vero nella religione. La storia della religione cresce a dismisura. Ma come può pretendere di progredire dalla mera descrizione alla scienza della religione, se non è altro che storia della religione (fosse pure tale da riuscire ad includere financo quella « storia religiosa dei guanti » 1 che ci viene promessa) ! Come può essere anche solo storia della religione se non ha prima in sé, sia pure oscuramente, un principio per selezionare la materia storica e, a maggior ragione, per raggrupparla. b) Il lavoro di rintracciare l’« a priori religioso » – per utilizzare ancora una volta questa espressione non molto felice ed esposta a fraintendimenti – viene oggi assunto da più parti. Ora però, proprio questo lavoro conduce ad una nuova difficoltà che forse è fatale non soltanto per la ricerca scientifico-religiosa, ma per la stessa religione vivente. In ogni ricerca di conoscenze a priori si cercano e si stabiliscono quei concetti, idee, giudizi che si fondano sulla pura ragione, indipendentemente da ogni esperienza, che la ragione possiede puramente da se stessa come la sua proprietà più sicura e inattaccabile. La scoperta di questo « a priori » in generale è stato il grande lavoro della kantiana critica della ragione. Ma Kant aveva collegato all’esposizione delle conoscenze aprioriche la pericolosa affermazione della loro validità solo soggettiva e dell’« idealismo » di quanto mediante esse è conosciuto. Poiché queste conoscenze scaturiscono dalla pura ragione e non le sono date « dall’esterno », allora, sostiene, non hanno alcuna pretesa di valere a prescindere dalla nostra rappresentazione ; non hanno alcuna pretesa che  







































1   Nelle Author’s Notes alla traduzione inglese del testo, Otto scioglie questo riferimento, che resta enigmatico nell’edizione tedesca, spiegando che aveva « trovato l’annuncio di un trattato sul significato del guanto nella storia della religione » (ora in AE, p. 228).  



la filosofia della religione kantiano-friesiana

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all’esterno corrisponda loro qualcosa di effettivo. Gli esempi più noti di questo modo di deduzione applicato da Kant sono quelli della sua « estetica trascendentale » : lo spazio e il tempo. Egli aveva mostrato che spazio e tempo sono forme a priori della nostra sensibilità. Immediatamente ne deduce che non sono validi per la « cosa in sé », secondo la conclusione : « poiché a priori, allora “ideali”, ossia non validi per l’essenza delle cose stesse ». b Si vede facilmente dove portino qui, nel nostro ambito, queste vie. Delle conseguenze della conclusione kantiana dall’apriorità all’idealità risentiamo ancor oggi. Proprio nelle moderne filosofie della religione troviamo, da una parte, un significativo e potente affannarsi intorno all’« a priori religioso », alle « categorie religiose » che, accanto alle « categorie di natura », debbono avere un diritto autonomo, un’uguale validità ed importanza ; e in connessione con ciò troviamo un più esteso interesse per la religione e la storia della religione. Contemporaneamente, però, si presenta l’impossibilità di trovare per questo « a priori » una validità a prescindere dal nostro rappresentare, un suo essere in sé. Ora, può darsi che per lo scenziato naturale sia indifferente se le categorie che applica nella sua ricerca, se la legge che conosce sia soltanto una forma del mondo delle sue rappresentazioni o se le corriponda e obbedisca un mondo della realtà : per il religioso non è la stessa cosa. Per costui, anzi, tutto dipende dal fatto che le idee religiose abbiano una validità a prescindere dalla sua rappresentazione. Qui vi è ora il secondo punto in cui il lavoro di pensiero di Fries diviene immediatamente attuale e significativo proprio per la nostra situazione del momento. Uno dei punti di partenza del suo filosofare in generale è la scoperta del peculiare e fatale errore fondamentale di Kant, che introduce nella critica kantiana quella singolare e cangiante penombra che più d’uno avrà patito ; errore che è divenuto tanto significativo per la prosecuzione della filosofia kantiana : la falsa conclusione dall’apriorità di una conoscenza all’idealità dell’oggetto in essa conosciuto. Da questa falsa conclusione segue, in Kant, la posizione non sicura della sua bella dottrina delle idee, la sviante dottrina della « dialettica dell’apparenza trascendentale », i tentativi erronei e insufficienti di conferire alla dottrina delle idee una posizione secondaria mediante i « postulati della ragione pratica » e la « dimostrazione morale », e in generale tutto quel vicolo cieco, per così dire, in cui con lui la filosofia della religione doveva incorrere ed è incorsa. Per il grande miglioramento che qui Fries ha apportato alla filosofia kantiana abbiamo oggi di nuovo il più vivo interesse, poiché senza di esso giungeremmo ancor oggi ad una filosofia della religione che ucciderebbe ciò su cui vuole filosofare. c) Anche in rapporto alle altre questioni che oggi di nuovo e in vario modo ci inquietano e ci confondono, quelle relative a panteismo e monismo, ad un’immanenza totale o incompleta, la filosofia di Fries ha un interesse immediatamente attuale. Essa libera dai tentativi di adattare l’uno all’altro, mediante espressioni così oscillanti e poco chiare, ambiti di rappresentazione estranei, mostrando criticamente per quali concetti ed idee la ragione stessa trova in sé il fondamento e per quali no. 3. Sulla collocazione storica di Fries, in breve quanto segue : è espressamente un allievo di Kant, non nel senso della prima e primitiva scuola kantiana, il cui tipico rappresentante è Kiesewetter, la quale si mattenne strettamente e saldamente allo stadio e nella  





















































b   I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 42 [tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice rivista da V. Mathieu, Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 58] : « Lo spazio non rappresenta punto una proprietà di qualche cosa in sé [...]. Giacché né le determinazioni assolute, né quelle relative possono esser intuite prima dell’esistenza delle cose alle quali appartengono, e quindi a priori ».  





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capitolo primo

sfera di influenza del maestro, essenzialmente ripetendone le dottrine, raccogliendole e talora spiegandole ; ma nel senso che, senza lasciarsi trascinare dal « geniale » rivolgimento della filosofia ad opera di Fichte, del romanticismo e dei sistemi nati dal romanticismo, ma, anzi, resistendo allo spirito e al tratto generale di quell’epoca, pone ogni energia nel completamento e nello sviluppo della critica della ragione e dello stesso metodo critico. Incontreremo più avanti i grandi ampliamenti e miglioramenti che con ciò apporta all’opera kantiana. Ciò che gli è più proprio è qui la sua impresa di porre la « quaestio iuris » per i concetti metafisici, da Kant solo rintracciati, nella sua Neue oder anthropologische Kritik der Vernunft [Nuova critica, ovvero critica antropologica della ragione] (1807, 18282), 2 e di rispondere ad essa mediante l’attestazione « antropologica » della « conoscenza immediata » dalla quale tali concetti scaturiscono. È in voga l’accostamento di Fries a Jacobi. E in effetti tra i due vi è una stretta affinità. Jacobi condusse già prima di Fries la lotta contro ciò che Fries chiama « pregiudizio razionalistico », contro la presunta onnipotenza e sovranità assoluta della dimostrazione. Il razionalismo voleva lasciar valere come verità certa soltanto ciò che è dimostrabile. Jacobi mostrò che per dimostrare qualcosa c’è bisogno prima di conoscenze a partire da cui si dimostra, che queste, a loro volta, sono dimostrabili a partire da conoscenze precedenti e così via per un po’, ma che infine si deve arrivare ad una fine, o piuttosto ad un inizio, che consiste in qualcosa di non dimostrabile ma di immediatamente certo, poiché altrimenti non si potrebbe arrivare ad alcuna dimostrazione. D’altra parte Jacobi riconosceva già abbastanza chiaramente la debolezza della critica kantiana nel suo atteggiamento oscillante nei confronti delle « cose in sé », di una realtà indipendente dal rappresentare. Entrambe le cose tornano in Fries. Ma l’affinità non è una dipendenza. E, già ad una prima considerazione, vi è una grande differenza tra i due. Jacobi non riesce ad esibire quell’elemento « immediato » nella ragione filosofando, ma, con una protesta contro la filosofia in genere ; si salva in ciò che chiama « fede » e « rivelazione », e diviene confuso e dogmatico. Viceversa, proprio Jacobi, nelle edizioni successive della sua opera, si è servito dei risultati della critica friesiana, con ciò conferendo alle sue intuizioni una posizione filosofica più solida. E molto di ciò che circola come dottrina di Jacobi è piuttosto, financo nelle espressioni, di proprietà di Fries. c Di profonda influenza su Fries è stato il suo compagno di kantismo Schiller. Questi gli  







































c

  Cfr. nel bello scritto di [F. H.] Jacobi, Von den göttlichen Dingen und ihrer Offenbarung, [Leipzig] 1811 (18282), p. 86, le particolareggiate citazioni da [J. F.] Fries, Kritik, I1, [Heidelberg 1807], p. 339. A p. 126 egli raccomanda espressamente Fries come colui che (insieme a Bouterweck) « ha discusso dettagliatamente questo oggetto e reso giustizia alla questione in un modo tanto compiuto e altamente istruttivo rispetto al tutto della filosofia ». Cfr. p. 133, citazione da Fries, Kritik, I, [ivi], pp. 199-207 ; p. 137 su deduzione e dimostrazione ; p. 138 : « significato oggettivo delle categorie » ; p. 142 : citazione dallo scritto di Fries, Über die neuesten Lehren von Gott und der Welt [Heidelberg 1807] ; citazione lunga una pagina da Fries, Kritik der Vernunft ; p. 146 : citazione da Fries, Über die neuesten Lehren, pp. 198 e 206. In particolare, però, cfr. tutta la terminologia che percorre l’opera. Quando già avevo scritto ciò di cui sopra, il Dr. L. Nelson, direttore delle Abhandlungen der Fries’schen Schule. Neue Folge, ha messo a mia disposizione appunti autografi di Fries sulla propria vita. Qui lo stesso Fries parla occasionalmente del suo rapporto a Jacobi : « In Heidelberg avevo uno scambio simile [...] finché non mi sono trovato con de Wette [...]. Nel frattempo mi stimolava particolarmente anche lo scambio con Jacobi, come mostra la mia partecipazione alla sua disputa con Schelling. Quando infine, grazie al carteggio, compresi il suo rigoroso razionalismo, fui dispostissimo a dargli ragione ovunque per quanto possibile  



























2   Salvo un unico caso (cfr. la nota c), Otto cita sempre la Kritik der Vernunft dalla seconda edizione. Tutte le opere di Fries sono ora disponibili nelle Sämtliche Schriften, a cura di G. König e L. Geldsetzer, Aalen, Scientia, in cui è riportata la paginazione dell’edizione originaria utilizzata da Otto.

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è strettissimamente affine nell’interesse per le questioni estetiche e nel modo della loro trattazione. È probabile che qui il più giovane abbia imparato direttamente dal più vecchio. Entrambi sono però dipendenti dal medesimo maestro, Kant, e dalla sua Kritik der Urteilskraft. Rispetto alla validità meramente soggettiva della conoscenza estetica affermata da Kant, Fries, nella terza parte della sua critica, ne ha mostrato la validità oggettiva in modo più nitido e metodico. Egli si divide rigorosamente dal romanticismo e dalla filosofia romantica, la cui rottura e ostilità con l’illuminismo gli sono del tutto estranee. In lui, come nello stesso Kant, persistono il chiaro spirito e i motivi migliori dell’epoca illuministica, approfonditi e arricchiti dal « periodo classico », dal nuovo umanesimo e dalla cultura estetico-letteraria del tempo. La sua propria formazione matematica e il metodo rigoroso della scuola kantiana lo dividono dall’orientamento di pensiero in cui la genialità entusiasta e la fantasia furono elevati ad organo della filosofia. E assai netta è la sua lotta contro la « retorica » di Fichte e l’irrompente mistagogia di Schelling. Con ciò Fries, che non porta la fantasia ma il sentimento al posto che gli spetta nella filosofia, è anche qui un prosecutore di ciò che si era preparato nell’illuminismo, in particolare con Rousseau. Con Schleiermacher Fries ha in comune la formazione giovanile da Herrnhuter 3 e quindi la conoscenza della religione dal lato del sentimento. Lo cita già – evidentemente dalle Reden über die Religion – nel suo Wissen, Glauben und Ahndung [Fede, sapere, presentimento] del 1805, d ed è d’accordo con lui nel valorizzare, per la religione, il sentimento. La sua dottrina del « presentimento » è in stretto contatto con l’« intuizione e il sentimento dell’universo » di Schleiermacher. Su questo punto si avvicinano due pensatori, che sono altrimenti assai distanti. Non vi è però dipendenza dell’uno dall’altro, in nessuno dei due versi. La fonte della dottrina del presentimento in Fries è – per quel che, appunto, non è frutto del suo proprio seno – la kantiana Kritik der Urteilskraft. Chi infatti ha l’udito fine e considera altre affermazioni, in parte già molto precoci, di Kant troverà che in lui questa importante dottrina, che accompagna quella delle idee, è già presente. Accade così che la dottrina del presentimento compaia in Fries sin dal principio in una solida posizione filosofica : in Schleiermacher, invece, è innanzitutto una divinazione, che conserva qualcosa del metodo delle « intuizioni improvvise » con cui si filosofava nei circoli romantici : e abbastanza spesso nelle Reden l’atto di forza del genio sostituisce la fondazione filosofica e storica. Il modo in cui l’universo si « lascia intuire e sentire », e cosa questo significhi in espressioni più chiare e sobrie, resta nella semioscurità poetica. E quando la concezione originaria vuole esprimersi in modo più preciso nel successivo sviluppo di Schleiermacher, dell’originaria ricchezza e abbondanza resta solo il « sentimento dell’assoluta dipendenza », una descrizione assai inadeguata e unilaterale del sentimento religioso che Fries sviluppa in modo molto più vario e determinato.  































e per questo diedi occasione a parecchi critici di valutare in modo completamente errato il mio rapporto con lui. Quando ero giovane Jacobi ebbe su di me un piacevole effetto di stimolo con i suoi romanzi. Ma in filosofia non sono mai stato suo allievo : le mie opinioni derivano solo da quelle di Kant, che ho tentato di perfezionare nella filosofia della religione. Anche la mia visione del sapere, della fede e del presentimento, come le mie teorie sul sentimento, sono state sviluppate del tutto indipendentemente da Jacobi. È piuttosto Jacobi che, nei suoi ultimi lavori sulle cose divine, mi ha in parte seguito ». d   P. 239 : « vogliamo intenderci con coloro che hanno finora filosofato sulla religione... ».  









3   Herrnhut – letteralmente « pascolo del Signore » – è il nome del villaggio che il pietista Nikolaus Ludwig von Zinzendorf fondò nel 1722, in una tenuta di sua proprietà, per accogliere una comunità di esuli protestanti moravi. Nacque così una comunità religiosa il cui modello organizzativo, economico e spirituale, si diffuse presto molto al di là di Herrnut e diede luogo al sorgere di numerose colonie di « fratelli moravi ».  







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La differenza più significativa tra i due, quella a causa della quale Fries va, in generale, sostanzialmente allontanato dalla « filosofia del sentimento », è la seguente : in Schleiermacher si riesce solo con difficoltà a stabilire il collegamento – che resta sempre qualcosa di secondario – tra il sentimento religioso e la convinzione religiosa, senza la quale il primo mancherebbe di solidità, di fondamento e di diritto. Inizialmente la validità di una tale convinzione viene da Schleiermacher semplicemente rifiutata, a tutto svantaggio della religione e in contraddizione con la sua più elementare essenza ! La convinzione religiosa deve essere vera e deve anche poter esibire la sua verità, deve cioè avanzare la pretesa di essere conoscenza. e Altrimenti la religione stessa diviene impossibile e può rimanere al massimo un libero sognare di cuori sensibili. È qui che la filosofia della religione friesiana si separa nel modo più profondo da Schleiermacher. Rintracciare la « fede » originaria, l’ideale ambito di convinzione, e assicurargli la sua verità, è per Fries, sin dal principio, il compito supremo della filosofia in genere, di fronte al quale egli ritiene ogni altro sforzo, in ultima analisi, come una « digressione ». Con ciò egli rappresenta l’interesse vitale della stessa religione. Del tutto corrispondente è la differenza tra Fries e Schleiermacher nel giudizio sul rapporto tra religione e morale. Anche in Fries è presente l’idea che la religione non è morale e viceversa. Egli abbandona completamente anche il falso tentativo di Kant di fondare la convinzione religiosa su quella morale e di attribuire solo a partire da quest’ultima una validità secondaria e forzata alla prima. Ma lo stretto ed organico rapporto tra le due, di cui la storia della religione dà unanime testimonianza, viene esibito chiaramente da Fries, mentre su base schleiermacheriana deve essere stabilito sempre e solo in modo artificioso. Talvolta lo stesso Fries si annovera tra i « leibniziani ». Per altro verso parla abbastanza poco di Leibniz nella sua storia della filosofia. 4 Ma che appartenga, insieme con la filosofia kantiana, alla scuola e all’orientamento spirituale di Leibniz è fuor di dubbio : in riferimento non tanto al grande sistema dogmatico leibniziano, con l’armonia prestabilita e la dottrina delle monadi, quanto a certe tendenze di fondo del suo modo di pensare in generale. Soprattutto nei leibniziani Nouveaux Essaies si prepara l’intuizione fondamentale e, con ciò, la direzione fondamentale dell’intero filosofare critico : quella per cui c’è, in generale, qualcosa come una « ragione pura », che deve essere esaminata mediante autoosservazione. La nozione leibniziana per cui nell’intelletto nulla è innato al di fuori dell’intelletto stesso potrebbe essere il principio guida per la nuova critica della ragione di Fries. La grande dottrina fondamentale, poi, dell’idealismo trascendentale è preparata nelle convinzioni fondamentali, che con Leibniz si aprono la strada, per cui spazio e tempo sono di natura fenomenica : un’idea che propriamente è in contrasto con la dottrina dell’armonia prestabilita (cfr. Leibniz, Entgegnung auf Bayle [Risposta a Bayle 5], in Kl[einere] phil[osophische] Schr[iften], Reclam Ausgabe, [Leipzig 1883], p. 121 : « Riconosco che il tempo, l’estensione, il movimento e il continuo in  

































e   Ogni sapere è conoscenza. Ma non ogni conoscenza deve essere sapere. Parliamo espressamente di « conoscenze di fede ». Questa distinzione ad opera di Fries tra conoscere in generale e sapere è assai significativa.  



4

  Cfr. J. F. Fries, Die Geschichte der Philosophie, dargestellt nach den Fortschritten ihrer wissenschaftlichen Entwicklung, 2 voll., Halle 1837 e 1840. 5   Reponse aux Reflexions contenues dans la second Edition du Dictionnaire Critique de Mr. Bayle, article Rorarius sur le Système de l’Harmonie préetablie, 1702.

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generale, nel modo in cui queste cose sono concepite nella matematica, sono soltanto cose ideali [...] Persino Hobbes ha definito lo spazio come un phantasma existentis »). La dottrina friesiana, per cui con spazio e tempo l’esistenza materiale in genere dilegua e di fronte all’idea solo il regno dello spirito e della libertà restano salde come realtà eterne, è la meta, oscuramente afferrata, anche del pensiero di Leibniz, per quanto in lui sia dogmaticamente irrigidita e si circondi di false premesse, conseguenze e idee secondarie che le si mettono di traverso. Infine, l’intera base « antropologica » della filosofia friesiana, la sua dottrina della conoscenza oscura della nostra ragione e della sua ri-osservazione nella riflessione è possibile soltanto grazie alla scoperta leibniziana delle rappresentazioni oscure, chiare e distinte, e della differenza tra la coscienza e il rappresentare inconscio. f La dottrina friesiana del rapporto dello spirituale al corporeo ha una chiara relazione con quella di Leibniz per il fatto che Fries fa corrispondere la forma dell’organismo all’anima ; lo stesso ha in mente Leibniz con la sua dottrina delle « nature plastiche ». 6 Quando Hegel fu chiamato a Berlino, era stato fatto anche il nome di Fries. Forse, se la scelta fosse caduta su quest’ultimo, ci sarebbe stato un periodo friesiano invece che hegeliano : luogo, ascendente e circostanze contribuirono molto a diffonderne la scuola. Ma forse no, perché lo spirito del tempo, l’effetto del romanticismo, la restaurazione e la reazione nelle cose ecclesiastiche e politiche trovarono molte possibilità nella filosofia hegeliana, nessuna in quella friesiana. Una scuola friesiana, non insignificante, c’è stata anche così, con nomi notevoli. Il più noto è di solito de Wette. Era amico di Fries e di Schleiermacher e lo si considera senz’altro una specie di anello di congiunzione tra i due. Ma la base della sua filosofia della religione è interamente friesiana. g Questa  













f   In Fries si ripetono anche gli errori della dottrina leibniziana. Già Leibniz confonde la coscienza, il possesso cosciente di una rappresentazione, con il « senso interno », ossia con la coscienza del possesso di una rappresentazione. Cfr. Prinz. der Nat. und Gn. [Principes de la nature e de la grâce fondés en raison, 1714], op. cit., p. 140 : « ...la coscienza o il sapere relativo a questo stato interno (cioè la rappresentazione delle cose esterne) ». Questa confusione si ritrova molto diffusamente in Fries e non è senza conseguenze sulla sua critica. L’ambito delle rappresentazioni oscure, o, come si dice oggi, dell’inconscio, del subconscio, attira sempre più su sé l’attenzione degli psicologi. James, nel suo Varieties of Religious Experience [London 1902], lo ha impiegato molto estesamente per la comprensione del vissuto religioso. Il significato dell’ambito delle rappresentazioni oscure è per Fries, anche da questo lato, ben noto : « Sì, questo campo oscuro delle nostre rappresentazioni è persino di gran lunga più grande di quello chiaro, di cui siamo coscienti. Nell’intero insieme delle nostre rappresentazioni di volta in volta diverse, quelle chiare costituiscono solo singoli punti luminosi in uno smisurato ambito di oscurità. [...] Uno studioso vedrebbe stendersi di fronte ai suoi occhi mezzo mondo se improvvisamente l’intero insieme delle rappresentazioni oscure della sua memoria gli divenissero chiare. O quale insieme di rappresentazioni debbono in pochi attimi esser destate nell’animo di un musicista che improvvisa sull’organo e magari nel contempo parla con qualcuno ; laddove, per giunta, ciascuna di queste rappresentazioni necessita di un proprio giudizio sull’appropriatezza, visto che egli noterebbe ogni suono stonato e invece l’improvvisazione prosegue così bella che si rammarica di non averla scritta. Quanto poco è cosciente di tutte queste rappresentazioni mentre suona ! Lo stesso si mostra in ogni riflessione : raramente diveniamo coscienti di tutte le singole rappresentazioni che guidano noi e il nostro giudizio. Chiamiamo genio il talento del poeta, quasi fosse uno spirito superiore, che gli ispira le idee e guida la sua attività, appunto perché il poeta qui è completamente in potere delle sue oscure rappresentazioni e di assai poche cose può dire come sia stato in grado di crearle. Da questa misteriosa interiorità Socrate udiva le massime del suo demone » (Kritik, I, pp. 115 e s.). g   In appendice alla biografia di Henke su Fries vi è il saggio di de Wette, Zum Gedächtnis [sc. : Andenken] von Fries e il carteggio con lui [cfr. E. L. T. Henke, Jakob Friedrich Fries. Aus seinem handschriftichen Nachlasse dargestellt, Leipzig 1867, rispettivamente pp. 277-297 e 344-364]. Qui il suo rapporto di allievo emerge in  























6   Cfr. le Considérations sur les Principes de Vie, et sur les Natures Plastiques par l’Auteur du Système de l’Harmonie préétablie, 1705.

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viene ad espressione in forma divulgativa nel suo bel libretto, tuttora prezioso, Über Religion und Theologie, [Su religione e teologia, Berlino] 1815 (18212), in prossimità e in collegamento con i pensieri schleiermacheriani ; e nella sua opera maggiore, Über die Religion, ihr Wesen, ihre Erscheinungsformen und ihre Einfluß auf das Leben [Sulla religione, la sua essenza, le sue forme di manifestazione e il suo influsso sulla vita] (Berlin 1827), diviene la chiave per le molteplici forme di manifestazione della religione nella storia. (In questo libro de Wette offre in pari tempo un esempio metodologico per la compenetrazione e fecondazione tra lavoro storico e chiare intuizioni filosofiche fondamentali circa l’essenza della religione.) Con l’applicazione della « dottrina del presentimento », de Wette ha autonomamente esteso la dottrina friesiana all’ambito della storia. (Presentimento della provvidenza divina nella storia, tanto più in quella religiosa.) Con il suo Metaphysik (Leipzig 1857), Apelt, allievo di Fries e professore di filosofia a Jena (+ 1859), ha scritto, per dir così, il libro di testo della filosofia kantiano-friesiana. Nel suo acume metodologico, e in pari tempo nella sua pregnante chiarezza, è degno di ammirazione e forse, da questo punto di vista, non è superato da alcun libro della letteratura filosofica. Contiene i punti essenziali della dottrina della religione. Una Religionsphilosophie di Apelt, breve e in forma manualistica, è stata pubblicata nel 1860. Notevolissimo è l’esame e il confronto con l’intera filosofia della religione di Schleiermacher dal versante dell’orientamento friesiano che ha offerto H. Schmid, professore di filosofia a Heidelberg, nel suo Über Schleiermachers Glaubenslehre mit Beziehung auf die Reden über die Religion [Sulla dogmatica di Schleiermacher con riferimento ai Discorsi sulla religione, Leipzig] 1835. h 4. Tra le opere proprie di Fries vengono prese in considerazione : Wissen, Glaube und Ahndung, [Jena] 1805. i In questo libro, che si mantiene al livello divulgativo, Fries anticipa i risultati della sua ricerca. Quest’ultima viene presentata nei tre volumi della sua opera principale Neue oder anthropologische Kritik der Vernunft del 1807 ; quindi nel System der Metaphysik [Sistema della metafisica, Heidelberg] del 1824 e nello Handbuch der praktischen Philosophie [Manuale di filosofia pratica] (I. Ethik oder die Lehre der Lebensweisheit, [Etica o dottirna della saggezza della vita, Heidelberg] 1818 ; II. Religionsphilosophie und Aesthetik, [Filosofia della religione ed estetica, Heidelberg] 1832) e nel romanzo filosofico Julius und Evagoras, oder die Schönheit der Seele, [Julius ed Evagoras o della bellezza dell’anima, Heidelberg] 1822. Egli ha presentato le sue basi logiche e psicologiche nel suo System der Logik, [Sistema di logica, Heidelberg 1819], e nel suo Handbuch der psychischen Anthropologie oder der Lehre von der Natur des menschlichen Geistes, [Manuale di antropologia psichica o di dottrina della natura dello spirito umano, Jena] 1820. (Cfr. su questo H. Schmid, Versuch einer Metaphysik der inneren Natur, [Saggio di una metafisica della natura interiore, Leipzig] 1834, che è dedicato a Fries e che ne prosegue il lavoro psicologico.) Di interesse è anche l’opuscolo di Fries, Fichtes und Schellings neueste Lehren von Gott und der Welt, [cit.,] 1807,  











modo molto esatto e preciso : « Ritengo Fries uno dei più grandi geni che la storia della filosofia vanti [...] Si sa già che sono affezionato alla sua dottrina con piena convinzione » [ivi, p. 284 e p. 285]. L’intero saggio offre un profilo molto buono e conciso del modo di pensare friesiano. h   Cfr. ancora di H. Schmid, Mystizismus des Mittelalters, Jena 1824. La filosofia friesiana si contrappone decisamente ad ogni misticismo. Questo libro mostra, però, che anche sul suo terreno è possibile una comprensione e un apprezzamento per ciò che vi è di significativo e sostanziale in questo peculiare fenomeno storico. Il tentativo di una trattazione « antropologico-psicologica » della materia è assai notevole. i   Riedita da Nelson, Göttingen, Vandenh. e Rupr., 1906. Cfr. la segnalazione e il sommario in « Christliche Welt », 34, 1908.  













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e Von deutscher Philosophie, Art und Kunst, ein Votum für Jacobi gegen Schelling, [Della filosofia, della specie e dell’arte tedesca : un voto per Jacobi contro Schelling, Heidelberg] 1812. Il luogo storico del filosofema friesiano si trova al meglio nella sua propria Geschichte der Philosophie, dargestellt nach den Fortschritten ihrer wissenschaftlichen Entwicklung, [Storia della filosofia, esposta secondo i progressi del suo sviluppo scientifico, Halle] 1837-40 e nelle Epochen der Geschichte der Menschheit, [Epoche della storia dell’umanità, Jena] 1845, tomo II, di Apelt. Una presentazione molto dettagliata della filosofia di Fries (esclusa la sua filosofia della religione) è stata offerta da Elsenhans nel suo Kant und Fries, Gießen 1906. Sulla « Christliche Welt », 34, 1908, si parla della vecchia « scuola friesiana » e di quella nuova, sorta recentemente. Quest’ultima ha ripreso la pubblicazione, in una nuova serie, delle Abhandlungen der Fries’schen Schule. Il più notevole è quello di Nelson, Über das sogenannte Erkenntnisproblem [Sul cosiddetto problema della conoscenza]. l  









l   Pubblicato come tiratura a parte, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1908 ; cfr. la discussione in « Christliche Welt », 1909.  





Capitolo secondo TRATTI FONDAMENTALI E CONTESTI STORICO-IDEALI DELLA FILOSOFIA DELLA RELIGIONE FRIESIANA 1. Citazioni. 2. Le verità religiose [come] verità necessarie – razionalismo ; 3. Religione laica – deismo ; 4. Sentimento contro riflessione – antirazionalismo ; 5. Immediatezza – sentimento ; 6 Idealismo trascendentale.  







Q

uel che i filosofi fissano nei loro sistemi in modo sistematico, metodico, sottile, con espressioni astratte del linguaggio di scuola, e che è difficilmente compren sibile per l’inesperto, di solito è quel che essi posseggono preliminarmente anche nel sentimento, e in un atteggiamento più universale e dinsinvolto, come personali convinzioni fondamentali, come orientamento del pensiero e dello spirito. Spesso è utile, per comprenderli nel loro modo di parlare astratto e per seguire le loro spiegazioni metodologiche, conoscere in quella forma più semplice questo fondamento, dal quale il loro lavoro filosofico si solleva e si configura, e sentire il filosofo innanzitutto, per dir così, nella lingua di casa sua, prima di ascoltarlo parlare il linguaggio astratto e artificioso della sua scienza. Con queste convinzioni fondamentali – visto che nessuno comincia subito da se stesso il pensiero o la vita dello spirito in genere – un filosofo è anche sempre nel contesto dei movimenti spirituali del suo tempo : c’è un’idea pessimistica della storia della filosofia e dei sistemi dei filosofi, che non vuole vedervi nient’altro che le opinioni, espresse in modo più astratto, e gli errori dello spirito del tempo. Ma trovarsi nel contesto dei movimenti spirituali e delle formazioni ideali del proprio tempo non significa necessariamente essere soltanto un rappresentante di casuali opinioni di quel tempo, perché non soltanto gli errori, ma anche la conoscenza si elabora innanzitutto in modo graduale e in connessione con il generale movimento delle idee. Che poi sia o non sia realmente conoscenza ciò che viene assunto dallo spirito del tempo, la prova è nel fatto che al filosofo riesca realmente di tradurlo in filosofia o che invece con quello gli riesca di innalzare soltanto un edificio apparente. Segue, dunque, innanzitutto una serie di citazioni, che esprimono la visione fondamentale e l’orientamento di pensiero di Fries ; e a ciò si allaccia una breve attestazione dei contesti ideali del tempo, nei quali egli si trova.  



La vera fede, la fiducia in Dio, è fondata nello stesso modo in ogni uomo e guadagna forza soltanto con l’amore, con l’incremento della forza di volontà morale nella devozione e mai mediante una mera formazione scientifica dell’intelletto. Nessuna scienza procura all’uomo una conoscenza di Dio diversa da e più elevata di quella che si ottiene con il primo, semplice sentimento religioso. Nessuna scienza fonda per noi la fede, ma l’intero compito scientifico per la formazione della dottrina religiosa mira a mettere in risalto questa fede di fronte alla coscienza puramente per se stessa e a distinguerla da tutto ciò con cui può essere facilmente scambiata : e con cui è scambiata in una dottrina falsa o nella superstizione (Handbuch der Religionsphilosophie, p. 32). 1  

1   Si tratta del già citato Handbuch der praktischen Philosophie, volume secondo : Religionsphilosophie und Aesthetik, Heidelberg 1832.  

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capitolo secondo

Le convinzioni religiose su ciò che non possiamo vedere e in cui però abbiamo fiducia non possono esser scaturite da contatti sensibili del nostro spirito. Sono infatti patrimonio originario della ragione e debbono vivere in ogni spirito umano con eguale verità (Handb., p. 15). Nella fiducia in Dio della fede vivono per me i più elevati sentimenti del rispetto che ama, del timore reverenziale e della venerazione (Geschichte der Philosophie, ii, p. 450). Il punto centrale del nostro spirito è una fede infinita e un amore eterno. Soltanto per mezzo di questa fede e di questo amore puro ogni vivente si presenta nel mondo di fronte ai nostri occhi. In esso, nel nostro intimo, è l’unica fonte di tutta la nostra vita. Di qui soltanto, nel sentimento più oscuro dell’apprezzamento del valore della virtù, nel sentimento più oscuro del piacere del bello e del sublime e, infine, nel sentimento dell’elevatezza della religione, si annuncia per l’intelletto comune ciò che sussiste eternamente. La fede più comune e la più raffinata speculazione sono qui identiche, se si tratta di cogliere l’ideale del sommo bene nell’unificazione dell’amore più puro e del più puro rispetto nel sentimento dell’adorazione. Lo stesso vale per ogni altro oggetto della religione (Kritik, I, p[p]. [385]-386). E così, infine, all’intera considerazione (della visione del mondo fisico-matematica) resta solo un significato fisico. In ultima analisi, proprio per la sua grandezza, per la smisuratezza dei suoi spazi e dei suoi periodi di tempo, perde per l’uomo ogni significato. È sufficiente che tu muoia e perderai di colpo l’intero spazio insieme al tempo. Ma dentro, nello spirito, non si allontana da te né la bellezza dei campi fioriti, né l’amore che è nel tuo cuore, né l’amore eterno che abbraccia tutto (Geschichte der Philosophie, II, p. 357). Comunemente coloro che hanno religione, ma che non sono religiosi in senso eminente, intendono per religione nient’altro che la loro professione di fede relativa al loro rapporto a Dio e ad un altro mondo. Chi però si interessa di più di religione, chi è propriamente religioso, in essa trova di più e, per dir così, trova qualcosa di totalmente altro. Chiunque sia religioso mi concederà che, sebbene io non abbia scelto le espressioni a lui più care, si potrebbe tuttavia dire : il sentimento, in cui per lui la religiosità propriamente consiste, è il presentimento dell’eterno nel finito (Wissen, Glauben und Ahndung, p. 235 e s.). Le convinzioni religiose poggiano sulla contrapposizione universale tra l’eterno e il finito. Se nella dottrina della religione si contrappone all’essere finito quello eterno, allora non bisogna intendere per eternità un essere che attraversa ogni tempo, ma si contrappone l’eternità al tempo stesso. L’essere eterno è un essere, indipendentemente da tutti i limiti nello spazio e nel tempo. Ogni essere nel tempo è soltanto un essere finito, il solo che ora possiamo comprendere, al quale però, nella fede, contrapponiamo un essere eterno in Dio. Questa contrapposizione è la stessa che la filosofia kantiana indica con la differenza tra il fenomeno e l’essere in sé. L’essere vero o eterno è l’essere in sé ; l’essere finito in sé, però, è un fenomeno di quell’essere eterno in Dio. La religiosità non consiste soltanto nella fede nell’eterno, ma nel raccoglimento devoto. Quest’ultimo è quella peculiare tonalità emotiva dell’animo che viene scoperta mediante il presentimento dell’eterno nel finito della natura. (Mediante questo) vive (per la ragione) nell’essere finito lo spirito dell’eterno. La religiosità diviene per noi soltanto il fatto che nella finitezza della natura intorno a noi e nella nostra propria vita interiore finita il sentimento ha il presentimento dell’eterno, il calore e la vita dell’eterno compenetrano il nostro intero essere – e questa è la tonalità emotiva del raccoglimento devoto (ivi, pp. 237 e s.).  



In queste citazioni si esprime in forma universalmente comprensibile una determinata e fondamentale opinione religiosa che, condivisa da Fries e da molti altri della sua epoca, si trova in determinati contesti della storia delle idee del tempo. È una concezione che, accanto e di contro ad altre concezioni, si è venuta elaborando, e gradualmen-

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te rafforzando, chiarendo e approfondendo in una lunga preparazione, nel deismo e nell’illuminismo. Le sue caratteristiche essenziali sono le seguenti. 1. 2 Le convinzioni religiose e quelle morali, e la religione e la morale in genere, non possono essere « verità contingenti ». Questa convinzione si sviluppa soprattutto nella linea razionalistica dell’illuminismo, il cui prosecutore, sotto questo profilo, è Fries. Nell’illuminismo essa diviene molto presto, come si sa, polemica ed è a partire da essa che si lottò contro ciò che ovunque passava per religione : le religioni « positive ». Ma in verità questa conoscenza era originariamente sorta dalla religione, dalla stessa dottrina di scuola. Nella dottrina del testimonium spiritus sancti internum era già implicito che l’ultimo fondamento di validità della verità religiosa non poteva essere l’autorità, il magistero, la tradizione ecclesiastica, la scrittura, il miracolo, la fattualità storica, ma un principio specifico nell’interiorità dell’uomo. Da ciò deriva anche l’ovvietà di questa convinzione. Lessing attesta che su fatti storici non potrebbe fondarsi alcuna verità necessaria. Ma che la verità religiosa debba essere una « verità necessaria », questo non lo attesta : per lui, come per tutta la sua epoca, è ovvio. Questa ovvietà corrisponde totalmente al sentimento della verità religiosa. La contrapposizione tra verità storico-empirica e verità necessaria concorda completamente con quella tra il mero apprendere per insegnamento e il vedere da sé (= l’essere interiormente convinto). Che, però, nella religione tutto dipenda da quest’ultimo, è per essa realmente « ovvio ». Da Cartesio a Spinoza, a Leibniz, a Lessing questa convinzione si viene elaborando. In generale, però, essa è una parte di quella base assai unitaria e concordante di convinzioni fondamentali, che dà unità all’« illuminismo » nonostante la diversità delle scuole. Propriamente essa è il senso degli sforzi del tempo, inani, ma sempre nuovi, per la « dimostrazione ontologica di Dio », per un’autoassicurazione relativa a Dio senza alcuna « commistione empirica », puramente a priori, derivante esclusivamente dai mezzi dello stesso spirito razionale. Il movente che vi si nasconde è il giusto sentimento del fatto che le idee somme dello spirito razionale e la loro verità non possono – né è loro lecito – fondarsi in ultima analisi su alcunché di esteriore, « contingente ». 2. Connessa con questa è una seconda caratteristica che, di nuovo, trova la sua lunga e silenziosa preparazione nel lavoro teologico dell’illuminismo, specialmente del deismo : la convinzione che la religione debba avere le sue proprie fonti e una vita propria indipendente da artificiosi sistemi di scuola, dal lavoro del pensiero e dai sillogismi, dalla speculazione, dal lavoro dei dotti, dalle polemiche di scuola e dall’apologetica, dalle scuole di teologi, dalla grazia del filosofo e dalla fatica della dimostrazione. Varrebbe la pena seguire questo tratto nel quadro completo dell’illuminismo. Si radica in quell’apertura universale del « cristianesimo dei laici » all’inizio del medioevo, su cui si basa anche la Riforma ; apertura che ha la sua prosecuzione nel movimento inglese degli indipendenti 3 e che di qui, in connessione diretta, continua nel deismo e nell’illuminismo. Generalmente si guarda soltanto alla « razionalizzazione » e all’« intellettualiz 

















































2   Ho preferito non seguire la numerazione dei paragrafi secondo la correzione proposta da Otto alla fine del sommario (cfr. p. xiv dell’originale), per cui questo paragrafo diventerebbe il secondo, così da ricalcare, in modo piuttosto artificioso, l’articolazione del sommario posto all’inizio del capitolo : ho mantenuto quella originaria, che consente, a mio avviso, di seguire meglio lo svolgersi del ragionamento. 3   Nell’ambito del puritanesimo, i congregazionalisti (o indipendenti, appunto), a differenza dei presbiteriani, si opponevano a qualsiasi Chiesa di Stato e sostenevano l’autonomia di ogni congregazione di fedeli.  

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zazione » della religione da parte dell’illuminismo. Ma, così facendo, si trascura il fatto che un potente impulso verso quel che si definisce in questo modo risiede proprio in ciò che qui è indicato : nella spinta verso ciò che è semplice, immediato, « comprensibile anche all’uomo comune », in contrapposizione a quel che è frutto di teologizzazione, di apprendimento e di sottigliezze da esperti. a Il libro da cui prese le mosse il movimento deistico ne è la più eloquente dimostrazione : Reasonableness of Christianity [Ragionevolezza del cristianesimo, London 1695] di Locke. Qui il momento della « intellettualizzazione » della religione non ha alcun ruolo. « Reasonableness » significa qui conformità alla ragione non in un senso teoretico, ma totalmente pratico, come il nostro « ragionevole » (räsonabel). Non si tratta di contestare la « soprarazionalità » o la « rivelazione », ma di attestare un valore e un senso del cristianesimo che sia semplice, utilizzabile praticamente, e che grazie alla sua utilità pratica sia chiaro e comprensibile per un’intelligenza semplice. Si attesta che esso è qualcosa che « noi cosiddetti laici » possiamo utilizzare. E la sua summa è « a plain intelligible proposition », sono « articles for the labouring and illiterate man [...] suited to vulgar capacities », e applicabili là, « where the hand is used to the plough and the spade ». 4 Il libro è nella più evidente connessione con la contrapposizione del cristianesimo laico inglese alle arti e alle tecniche dell’erudizione e dei sistemi di scuola. E la « reasonableness » del cristianesimo è ciò che è schietto, semplice, universalmente accessibile, utile e comprensibile. Già in Hobbes, e anche in Spinoza, questo tratto è chiaro e attivo nella loro polemica. Ma nel deismo persiste. Anche in Voltaire riveste un suo ruolo. In Lessing è evidente e si presenta con forza religioso-edificante. Rousseau e Kant sono strettamente connessi a questo contesto. La prima parte della Grundlegung zur Metaphysik der Sitten di Kant (Passaggio dalla comune conoscenza morale razionale a quella filosofica) è l’esempio sempre classico per la convinzione che le più elevate arti filosofiche non creano propriamente nuovi valori o vedute sublimi, ma possono soltanto esibire quelli che risiedono nello spirito umano e sono efficaci anche nell’« uomo comune ». Anche i tentativi filosofico-religiosi di Kant, per quanto artificiosi siano, sono  





















































a   Che anche sotto questo profilo l’illuminismo prosegua il tratto e lo spirito che vive in Lutero, è del tutto evidente. Sin dai giorni delle prime glosse ai Salmi, Lutero cerca la « breve summa », il « verbum consummatum ac breve » che pone fine agli ambagi delle « molte arti ». Mettere in rapporto di contrapposizione e reciproca esclusione illuminismo e riforma significa contraddire la storia. Su come anche lo spirito della devozione proprio della generazione dell’illuminismo si trovi in strettissima connessione con il luteranesimo e con ciò che vi è di più proprio nella devozione luterana ; su come ne derivi e come formi con quest’ultima una tipica contrapposizione alla tonalità della devozione specificamente cattolica ; su come, dunque, l’illuminismo si radichi nel luteranesimo proprio secondo la tonalità emotiva, e, in connessione con ciò, sul modo in cui l’intera concezione dell’illuminismo relativa al rapporto del soprannaturale al naturale abbia il suo chiaro punto di partenza in Lutero, cfr. il mio saggio Darwinismus und Religion (« Abhandlungen der Fries’schen Schule », nuova serie, i, 1909, e tiratura a parte). b   Che curiosa immagine di questi « materialisti » o « atei » continua a circolare ! La stessa spinta verso ciò che è « semplice », che corrisponde all’uomo comune, si mostra nella religione, non senza efficacia, in B. Spinoza, Theol.-pol. Trakt. [Tractatus theologico-politicus, Amsterdam 1670], cap. xiii ; cfr. il titolo : Dove si mostra che le dottrine bibliche sono molto semplici. Spinoza si indirizza qui contro coloro che hanno introdotto nella religione così tante speculazioni filosofiche, che la Chiesa è divenuta un’accademia e la religione una scienza, mentre la Scrittura contiene solo le cose più semplici, quelle che anche un semplice potrebbe comprendere. La vera conoscenza di Dio non è un comandamento divino, ma un dono divino. E Dio non ha preteso dagli uomini altra conoscenza che quella della sua giustizia e del suo amore, una conoscenza che non è necessaria per la scienza, ma soltanto per l’obbedienza.  





































4   J. Locke, The Reasonableness of Christianity, London 1695, ora in Id., Writings on Religion, ed. by V. Nuovo, Oxford, Clarendon, 2002, p. 209.

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tutti in difesa di una religione dei laici, e della sua convinzione, che sia la più semplice possibile. L’intero tentativo kantiano mira ad assicurare alle convinzioni religiose la loro immediatezza di fronte alle arti della della speculazione e agli ambagi dell’erudizione. Anche qui Kant, esattamente come Locke, è avvocato dell’« uomo comune ». Fries si riconnette immediatamente a ciò col suo lavoro, che, in rigorosa differenza dalle teosofie dei suoi compagni filosofici, non intraprende altro che la fondazione della convinzione già data con il « primo e semplice sentimento religioso ». 3. Ora, proprio in questo contesto e nei tentativi di individuare un « verbum consummatum ac breve », una « breve summa », ci si era indirizzati a brevi e chiare autoassicurazioni della convinzione religiosa e queste, conformemente al pregiudizio dell’epoca, erano state cercate in « dimostrazioni » che si ritenevano universalmente e semplicemente evidenti. Si era sviluppata una nuova, dotta scolastica delle « dimostrazioni » cui la religione si sarebbe dovuta subordinare. È però solo la prosecuzione del medesimo tratto succitato il fatto che ora l’immediatezza del religioso si rivolge contro il razionalismo in genere, ossia contro la tecnica delle dimostrazioni, contro quella specie della vita dello spirito in generale, e della religione in particolare, che è erudita e mediata, derivata e riflessa, e cerca fonti e accessi completamente propri, nuovi e diretti. Quel che era l’iniziativa personale del « laico » diviene ora proclama dei diritti del « sentimento » nei confronti della riflessione. E Rousseau, Herder, Jacobi ne sono gli annunciatori. La specificità della filosofia friesiana è quella di intervenire in questo contesto con l’intento di portare a chiarezza su sé ciò che qui è un impulso oscuro, di valutarlo nella chiarezza filosofica, nel diritto e nei limiti della riflessione invece che in annunci profetici, di attestarlo, di contro al razionalismo, nel sentimento di una conoscenza viva e immediata. 4. Il quarto punto è strettissimamente connesso ai punti 2 e 3 e vi si accompagna sempre. Nella grande resa dei conti, che si attuò nella Riforma, tra il « fanatismo » e il « mezzo della grazia » ecclesiastico, Lutero aveva legato tra loro « lo spirito e la parola », 5 Dio e il « mezzo ». L’esito e il senso di ciò fu che la normale, anzi l’unica relazione del devoto all’oggetto religioso consisteva nella « fede », cioè nella fiduciosa convinzione di costui, e nei sentimenti e negli impulsi interni che tale fiduciosa convinzione produce e attraverso cui essa ravviva l’animo e la volontà. « E qui è l’intero mysterium Christianismi, la parola e la fede ». 6 Questa dottrina era divenuta normativa nella teologia. La conseguenza fu che la « mistica », ossia l’assunzione o la facoltà di vivere autonomamente un’esperienza dell’oggetto religioso, venne esclusa. Quel che viene definito « intellettualismo » della teologia dell’illuminismo non è infatti nient’altro che il conseguente effetto di ciò, unito al fatto che questo tipo di rappresentazione degrada il livello originario della sua coscienza del peccato e del perdono a qualcosa di più generico. Del tutto corrispondente alla dottrina verbum-fides è il fatto che nella teologia dell’illuminismo relativa a Dio e all’oggetto religioso in genere vi sia la quintessenza di certe verità che rendono l’uomo felice, lo « tranquillizzano » e lo rafforzano. Assumere fiduciosamente queste verità con questo scopo : ecco la religione. c Come là il vissuto  





































































c   Dire, come fa Schleiermacher nelle Reden, che per l’illuminismo la religione è stata « metafisica e morale » è molto vago. Per l’illuminismo la religione era senz’altro anche l’effetto della sua « fede » sull’animo e sulla volontà. Questo è pienamente « riformato », anche se nel senso di quell’« abbassamento ». « Essa ci offre una piena fiducia nella bontà del nostro Signore e Creatore, una fiducia che produce una vera quiete dello  







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  Cfr. AHG, p. 56.   Luthers Werke, Weimarer Ausgabe, 9, p. 624. Cfr. AHG, p. 63.

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proprio e immediato dell’oggetto religioso è « entusiasmo e esaltazione », così qui è « fanatismo » ed « esagerazione ». Ciò che nella concezione di ambo le parti era pienamente giustificato risiedeva nel fatto che senza Credo non c’è religione e che il contenuto del Credo, che determina l’animo e la volontà, e il suo effetto, che ne libera, ne porta e ne rinnova la vita, è la base e il tratto specifico di una particolare religione. L’elemento unilaterale era la chiusura ermetica del vissuto immediato, che in tal modo si ottiene, nei confronti dello stesso oggetto religioso, in piena contraddizione con l’esperienza e il messaggio dell’intera storia della religione. E mentre prima la contraddizione con la dottrina chiesastica si manteneva nei moti d’animo mistici, l’epoca dell’illuminismo porta il contraccolpo contro questo intellettualismo teologico e filosofico nella « sensibilità » e nel pietismo. La convinzione del pietismo – « nel sentimento puoi ben rivelarti » 7 – e il « cuore sensibile » che viene « toccato » dal mondo attraverso i contenuti d’animo, vanno di pari passo e sono espressioni di un’epoca divenuta più soggettiva e più delicata, e anche più tenera. Ciò che qui si prepara in parallelo, si incontra e si interseca variamente in Rousseau, Lavater, Hamann, Herder e altri. In Goethe diviene conoscenza e grandiosa esperienza vissuta della natura :  





























Il mondo degli spiriti non è chiuso : i tuoi sensi sono chiusi, il tuo cuore è morto ! Su, discepolo, immergi con coraggio il petto mortale nell’aurora. 8  



In Herder diviene esperienza vissuta di Dio nella natura. Nel romanticismo erompe tumultuosamente. Dappertutto resta nella non chiarezza su di sé, oscillando tra mistica e spazio poetico. Ma l’anziano Kant, nella terza critica, si arrischia ad ottenere solidità filosofica per questa materia oscillante. Su ciò Schiller fonda la sua estetica e Fries prende in carico da entrambi questo lavoro nella sua « dottrina del presentimento ». 5. Infine : già nella teologia di Lutero si attua quella significativa rottura con la rappresentazione ingenua del rapporto tra il mondo soprannaturale e quello dei sensi, dell’esperienza, della scienza della natura. Questa prima rappresentazione pone ingenuamente Dio, eternità, aldilà, mondo soprasensibile, come una parte di questo stesso mondo, solo invisibile. Da qui scaturisce, fino ad oggi, ogni genere di pericolo per la validità della convinzione religiosa. Nel crescere della comprensione del mondo, infatti, il mondo visibile cresce, conquista spazio dopo spazio, diviene sempre più autosufficiente, finché l’invisibile deve rifugiarsi nelle crepe e nelle giunture del naturale. Già in Lutero,  





spirito, ma non come negli stoici, che pazientano forzatamente, ma in virtù di una soddisfazione presente che ci assicura anche una futura felicità », G. W. Leibniz, Die in der Vernunft begründeten Prinzipien der Natur und der Gnade, in Kleinere philosophischen Schriften, Reclam, cit., p. 149. Tra l’altro ciò è ben noto allo stesso Schleiermacher. Cfr. il bel riconoscimento che (a p. 49 della prima edizione) « tributa a quei libri modesti, che erano correnti qualche tempo fa nella nostra modesta patria e che trattavano, sotto un titolo povero, cose importanti ». Intende i settimanali morali e gli scritti religioso-popolari dell’illuminismo tedesco che andavano in quello spirito. « Essi annunciano tuttavia soltanto metafisica e morale e alla fine tornano volentieri a ciò che hanno annunciato. Ma tocca a voi togliere questa scorza ». Ha completamente ragione : dietro la metafisica ingenua e inadeguata delle dimostrazioni fisico-teologiche di questi « scritti modesti » si cela il potente sentimento religioso naturale, che tenta di intendersi con se stesso con mezzi impacciati. Schleiermacher concorda qui interamente con Fries ; Kritik, ii, p. 284.  

















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  Verso tratto dall’inno di C. Gregor (1723-1801), Ach mein Herr Jesu, dein Nahesein. La strofa completa recita : « Il volto tuo benigno, di benevolenza e grazia colmo/ noi non vediamo in carne e ossa/ ma l’anima nostra lo sa/ nel sentimento puoi ben rivelarti, anche senza esser visto ». 8   J. W. Goethe, Faust, i, vv. 443-446.  





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però, si prepara la visione che viene poi per lungo tempo portata avanti dalla teologia dell’illuminismo e che forma la prima contrapposizione possibile alla rappresentazione ingenua, divenendo il primo stadio di una soluzione migliore e più sicura. Non soltanto Lutero lega lo spirito alla Parola, ma è, in generale, una delle sue rappresentazioni preferite quella per cui Dio opera « attraverso il mezzo », per cui, cioè, l’intero sistema delle « cause seconde » non è altro che la forma, per dir così, dello stesso operare divino onnipotente, e che si deve cercare l’operare di Dio proprio nelle cause strumentali. d Questa intuizione è riassunta nel modo più energico in quei goffi tentativi filosofici nel De servo arbitrio, dove egli identifica spiritus e omnipotentia Dei con la causalità naturale. Proprio così procede innanzitutto la teologia dell’illuminismo, per arrivare ad un equilibrio tra la fede in Dio e la nuova comprensione del mondo conforme alle leggi di natura, dopo che con la scomparsa dell’antica concezione aristotelica della natura, semi-soprannaturale, e dell’antica concezione tolemaica del mondo, la necessità di un equilibrio era molto più avvertita. (Con ciò si mostra di nuovo l’ampia base comune nella visione del mondo dell’illuminismo nonostante la separazione delle scuole e delle regioni.) Muovendo dalla medesima esigenza, essenzialmente apologetica, troviamo la convinzione che l’essere naturale e l’accadere sotto la legge di natura non è nient’altro che l’operare divino stesso ; convinzione del tutto omogenea tra uomini che per il resto si combattono e ritengono di essere su posizioni incompatibili. Questa convinzione che la natura stessa non sia altro che la forma dell’onnipotenza divina non si trova affatto solo tra i panenteisti della scuola cartesiana, Geulincx e Malebranche : si trova già in modo del tutto puro ed esplicito in Hobbes. (Cfr. la prima proposizione del suo Leviathan : Naturam, id est illam, qua mundum Deus condidit et gubernat, divinam artem...) Altrettanto chiaramente in Spinoza nel suo Tractatus theologico-politicus. I suoi giudizi sulle cause seconde, sul governare di Dio mediante le cause strumentali, sull’onnipotenza di Dio nella forma della natura, non vanno in nulla al di là del De servo arbitrio. e Anche la tendenza originariamente religiosa, in fondo apologetica, di questa rappresentazione nel Tractatus è ancora molto chiara, ed è in pari tempo chiaro che quella costruzione singolare e rigida che Spinoza ne trae nell’Etica (e dal modo sorprendente in cui lo fa i teologi possono ancora trarre gusto) ha qui una delle sue radici principali. Il pensiero si ritrova completamente immutato ed identico in Leibniz, che lo elabora nella sua discussione con Clarke e Newton : e la sua dottrina della creatio continua ne è l’espressione conseguente. Sulla linea che parte da Hobbes e passa per Locke lo troviamo in Berkeley sviluppato in quell’acosmismo, al quale avrebbe dovuto approdare, per arenarsi, già l’equiparazione di omnipotentia e causalità naturale ad opera di Lutero. Nella filosofia popolare dell’illuminismo questo pensiero recede, ma è di nuovo sommamente vivo, sotto l’influsso di Spinoza e Leibniz, in Goethe e soprattutto in Herder, nei suoi collo 















d   Per lui lo stesso « spirito » propriamente non è altro che l’efficacia « psicologica » « naturale » della « Parola ». Cfr. AHG. Sulla significativa influenza successiva di questi pensieri per la rappresentazione del rapporto del soprannaturale al naturale in generale, cfr. il mio saggio Darwinismus und Religion, citato a p. 84 in nota. e   B. Spinoza, Theol.-pol. Traktat, Cap. vi : « Essi (i sostenitori della concezione ingenua) si rappresentano due potenze tra loro separate, quella di Dio e quella delle cose naturali [...]. Essi non sanno però cosa intendono per l’una e per l’altra, per Dio e per natura, ma si rappresentano la potenza di Dio come una specie di signoria di una qualche maestà regale, e la natura come una forza o un impulso [...] Per questo la maggioranza non si meraviglia più della potenza di Dio, come quando pensa la potenza della natura per dir così costretta da Dio ». L’intero capitolo funge da confutazione di questa prima intuizione.  





















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qui su Spinoza così come nella sua Introduzione alle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit [Idee per una filosofia della storia dell’umanità, Riga – Leipzig 1784-1791]. Questo tentativo di superamento di quel primo « dualismo » ingenuo è esso stesso ancora ingenuo e forzato, e propriamente, come si può vedere in Lutero e in molti passi del Tractatus di Spinoza, non è altro che l’enunciazione del semplice giudizio religioso, che pone senz’altro anche nel decorso « naturale » l’azione e il governo divini : enunciazione che qui viene solo dogmaticamente ripetuta senza che la ricerca e la soluzione del problema che vi risiede sia stata realmente tentata. Molto presto, però, questa considerazione si approfondisce e da essa gradualmente cresce ciò che poi si compie nell’« idealismo trascendente 9 ». L’uno spinge verso l’altro e tra il De servo arbitrio f di Lutero e la grande dottrina di Kant vi è una catena evolutiva continua. Invece della semplice equiparazione comincia a farsi strada la convinzione che la natura, l’accadere e la legalità di natura, siano soltanto un fenomeno e un’immagine inadeguati, condizionati da un modo limitato d’intendere, delle vere cose e del vero mondo, che è libero dalla legge di natura, da matematica e meccanica, un mondo dello spirito, degli spiriti, un « Regno della grazia », un mondo di Dio. La grande e liberante dottrina dell’« idealismo trascendentale » si prepara. I motivi sono espressamente religiosi. Concorre a ciò e agisce da diversi lati (Bacone, Hobbes) la comprensione della natura contraddittoria dello spazio, dell’infinito e del continuo, della divisibilità infinita e dell’estensione illimitata. Questo è presente espressamente e nel modo più chiaro in Leibniz (e contemporaneamente mal bilanciato con la sua dottrina dell’armonia prestabilita e della creatio continua, che era originariamente modellata su questo mondo nello spazio e nel tempo e sotto leggi di natura). Kant è anche qui colui che prosegue e compie l’illuminismo. Mediante la sua dottrina delle antinomie, che è sorta dal secondo momento, offre a quella prima, grandiosa e radicale contrapposizione dell’eterno e del temporale, dell’infinito e del finito, la sua salda posizione filosofica e introduce quale salda dottrina filosofica l’idealismo trascendentale che, scaturito dal sentimento della verità, sino ad allora era stato presente soltanto in forma fantastica e come ipotesi dogmatica. Nell’assunzione e nella rielaborazione della medesima dottrina Fries ottiene l’elemento caratteristico e il contenuto proprio della sua filosofia della religione, in quanto contrappone il mondo della fede a quello del sapere, attesta la fede quale forma di una conoscenza superiore, che si fonda in modo sicuro nello spirito razionale e contro la quale il sapere si supera in quanto valido soltanto per il fenomeno, e cerca la facoltà di cogliere il mondo eterno della fede nel mondo del fenomeno. Se i suoi tentativi hanno successo, allora è risolto il problema più grande che fu posto alla teologia dell’illuminismo dalla nuova scienza della legalità naturale, ed è giunto al termine il movimento di pensiero nel cui contesto qui interviene Fries.  





















f   Si può vedere come questo scritto agisca nell’illuminismo nella disputa di Hobbes con il vescovo Bramhall (The questions conserning liberty, necessity and chance, [1656]). 9

  Sc. : « trascendentale », come risulta evidente dal prosieguo.  





Capitolo terzo LA CONOSCENZA DELLA NATURA 1. Procedimento. – 2. Fondazione della conoscenza naturale sulla ragione pura. – 3. Il metodo critico contro quello scettico e quello dogmatico. – 4. Attuazione dei principi fondamentali della conoscenza naturale. – 5. Filo conduttore per il rinvenimento delle categorie. – 6 Le categorie. – 7. Validità oggettiva delle categorie. – 8. La schematizzazione e restrizione della conoscenza categoriale da parte dell’intuizione del tempo dà i principi fondamentali.

1.

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ui è possibile offrire solo uno schizzo di tutto il faticoso lavoro di Fries. Il che è difficile perché nella sua ricerca è tutto già molto conciso e, in realtà, ogni parte esige l’altra. Si deve quindi tentare di parlare il più possibile in un modo universalmente comprensibile e di tradurre la terminologia assai accurata, ma per noi inconsueta, in una più corrente. Restituire singolarmente tutte le sue fini e difficili ricerche è impossibile. Né seguiamo esattamente il percorso rigorosamente metodico della sua opera principale, ma tentiamo di aprirci i nostri accessi al suo pensiero, così come sembra che ci si offrano nel modo più agevole per una prima conoscenza. Non si tratta di un surrogato della sua opera, ma di un rimando e di una preparazione ad essa. Il primo intento del lavoro filosofico-critico di Fries è, come nello stesso Kant, rivolto alla filosofia della natura, rivolto cioè ad ottenere quei principi e quelle conoscenze metafisiche attraverso cui sono possibili la matematica e la scienza della natura (tra cui annovera anche la psicologia) e quindi l’intero mondo del « sapere » in genere. Solo a partire da qui il suo lavoro procede verso la dottrina delle « idee » e il mondo della « fede ». Propriamente ci riguarda soltanto questo secondo intento. Ma di quel primo bisogna premettere quanto è necessario alla comprensione del secondo. 2. La filosofia critica non fa che compiere ciò che la scienza dell’illuminismo ha iniziato, risolvendo il grande problema che quest’ultima aveva posto in modo sempre più pressante. Essa offre la giustificazione ultima per la scienza e per l’immagine del mondo di Galilei e Newton. La nuova scienza si era imposta con l’assicurazione e la pretesa di porre una conoscenza rigorosamente causale al posto di rappresentazioni semi-animistiche, una conoscenza universale e necessaria al posto di opinioni oscillanti. Con ciò era essa stessa ancora ingenua e deviata « dogmaticamente ». Il suo lavoro si basava su e procedeva secondo certi supremi principi e proposizioni fondamentali, quelli che Newton aveva raccolto nelle Leges della sua filosofia della natura, 1 ed era sufficientemente sicura e inattaccabile sotto il presupposto della loro validità. I principi fondamentali erano stati anche individuati e presentati correttamente, ma la loro validità era stata assunta senza un esame. Il lavoro concettuale doveva contribuire da sé ad assicurarsi del proprio diritto. Questo lavoro doveva fallire finché fosse stato intrapreso solo secondo i due metodi principali dell’epoca : quello dell’esperienza e quello della dimostrazione. Una legge come quella di sostanza o di causalità non può essere ottenuta dall’esperienza : esperienza, osservazione scientifica, esperimento poggiano  



















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  Cfr. gli Axiomata, sive leges motus nei Philosophiae naturalis principia mathematica, Londini 1687.

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essi stessi sulla legge causale ed hanno senso solo sotto il presupposto di quella. Ma da sé non offrono mai una legge, ossia una regola universale e necessaria. E il procedimento dimostrativo non poteva offrire alcun risultato, perché i principi fondamentali sono appunto quelli che sono e debbono essere indimostrabili. Lo scetticismo di Hume scoprì il problema che era al fondo dell’intera nuova scienza, ma che, anche senza Hume, si sarebbe necessariamente presentato a suo tempo. a 3. La soluzione del problema si trova nella critica della ragione e nella scoperta e nell’attestazione, che avviene attraverso tale critica, di una conoscenza originaria della ragione, che questa possiede in modo oscuro, indipendente da ogni esperienza, ossia a priori, solo da sé, in quanto « ragione pura » ; e nell’attestazione del fatto che quei principi fondamentali della scienza della natura, quella « scienza pura della natura », si fondano realmente su di essa. b Tutta la nuova scienza poggiava però sulla matematica. Quest’ultima era la regina delle scienze e la sua validità era così sicura che di contro ad essa ammutoliva anche la scepsi di Hume. Ammutoliva per la ragione che si credeva che essa sottostesse completamente alla « dimostrazione », ossia che anche i suoi principi fondamentali si ottenessero secondo le leggi puramente logiche dell’identità e della contraddizione, che i suoi giudizi fossero « analitici ». c Qui è solo e proprio lo stesso Kant a rompere il « sonno dogmatico ». Egli supera il carattere logico dei giudizi matematici fondamentali, mostra che anche questi sono sintetici e che il carattere della conoscenza matematica non è di natura logica, ma intuitiva. d Come là si aveva la domanda : « come è possibile una pura scienza della natura ? », così ora si ha anche qui : « come è possibile la matematica ? ». La risposta, anche qui, è analoga : attestazione critica del fondamento, immediato e indipendente dall’esperienza, della conoscenza della matematica nello spirito stesso. Con ciò è significativo che questo tipo di filosofia non derivi da un capriccio cartesiano o dall’idea ossessiva di « dubitare di tutto », ma dalla fiducia che abbiamo conoscenze, soprattutto nelle scienze, che procedono così bene e così imperturbabili, come la matematica e la fisica, nonostante tutti gli attacchi scettici. Il compito della filosofia non è convincere a tutti i costi lo scettico trascinandolo per i capelli, ma portare persone preparate, che vivono in una naturale e sana fiducia della ragione nei confronti di se stessa, a riflettere e ad accordarsi sugli elementi della loro propria conoscenza. La filosofia muove da conoscenze effettive e date, esamina ciò che in esse è dato quanto a presupposti, e se e come esse si fondino sullo spirito razionale. Che e come quest’ultima cosa le riesca è la giustificazione definitiva di quel punto di partenza. Qui risiede la differenza del metodo critico tanto rispetto alla scepsi, quanto, in pari tempo, rispetto ad ogni dogmatica. Non vengono raccolti e posti all’inizio dei principi per poi sviluppare progressivamente da questi un edificio della conoscenza. Né vengono tentate ipotesi e speculazioni ipotetiche per portare all’unità di un edificio concettuale certe opinioni o dati mediante fantasia speculativa. La considerazione analizzante procede invece regressivamente dalle conoscenze date, ne cerca i presupposti, separa secondo le diverse fonti della conoscenza e rintraccia così infine quali conoscenze fondamentali la ragione  









































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  I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 1-30: Introduzione [tr. it., pp. 33-50].   Ivi, Introduzione, B i. Della differenza tra conoscenza pura ed empirica [tr. it., p. 33]. ii. Noi siamo in possesso di certe conoscenze a priori e né anche il senso comune ne è mai privo [tr. it., p. 35]. c   Ivi, B iv. Della differenza tra giudizi analitici e sintetici [tr. it., p. 39]. d   Ivi, B v. In tutte le scienze teoretiche della ragione sono compresi, come principi, giudizi sintetici a priori. Dimostrazione per matematica, fisica, metafisica [tr. it., p. 42]. b

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effettivamente abbia e quale filosofia è per lei possibile. Il metodo filosofico-critico si distingue nel modo più deciso da quello « geometrico », secondo il quale avrebbe volentieri filosofato il razionalismo (cfr. Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata), per il fatto che esso non inanella dimostrazioni l’una dopo l’altra, ma opera un’analisi della conoscenza e, mediante ciò, una selezione della conoscenza originaria, puramente razionale. 4. L’attestazione critica del fatto che possediamo un’« intuizione pura », mediante cui la ragione conosce intuitivamente, a priori, indipendentemente da ogni esperienza, e dunque in modo universale e necessario, le determinazioni fondamentali dello spazio e del tempo, risolve la prima questione : « Come è possibile la matematica ? ». f L’attestazione del fatto che anche la conoscenza matematica è di natura « sintetica », che dunque qui c’è, in ogni caso, un « a priori », un principio della conoscenza indipendente dall’esperienza, aveva da sé ridotto al silenzio il pregiudizio empiristico e razionalistico per cui esperienza e logica (la dimostrazione) sono gli unici principi della conoscenza, e aveva aperto la strada per rispondere alla domanda : « come è possibile una scienza pura della natura ? ». Ancor più in profondità della conoscenza matematica per intuizione pura vi è nel nostro spirito un’altra oscura « conoscenza originaria » puramente razionale. Essa ci si fa chiara e ne diveniamo consapevoli in certi concetti, le « categorie », che sorgono in essa, e nelle quali la ragione conosce in modo completamente puro e a priori, dunque universale e necessario, le prime e più universali determinazioni di ogni ente esperibile in generale. In quanto la conoscenza delle cose, che abbiamo mediante le loro categorie, si connette con quell’apprensione che otteniamo nell’intuizione pura di queste (in quanto la conoscenza categoriale si « schematizza » spazio-temporalmente) si ha la possibilità della « scienza pura della natura », ossia la prima e suprema conoscenza fondamentale della natura e dell’esistenza naturale, che è espressa in quelle universalissime leggi di natura (legge di sostanza, di causalità, ecc.). Essa si dà come conoscenza inattaccabile, universale e necessaria per ogni ragione umana in generale e, a partire da essa, la scienza che poggia su quelle leggi guadagna il suo carattere apodittico, incontrovertibile. g 5. Che a Kant, dopo la scoperta dell’intuizione pura, sia riuscito anche di trovare il « filo conduttore » secondo cui potessero essere scoperte con sicurezza tutte le categorie nella ragione e potessero essere determinate nel loro luogo, è stata in effetti, nonostante lo scherno di Schopenhauer, la cosa più difficile e significativa in tutta la filosofia fino ad oggi. Una volta fatta, la scoperta, come tutte le scoperte, appare molto semplice e paragonabile all’uovo di Colombo. Ogni conoscenza scientifica viene espressa in giudizi. Ogni materia del giudizio proviene dall’intuizione e non dalla ragione. Se, dunque, deve esserci un elemento proprio, aggiunto alla percezione dalla pura ragione, allora deve mostrarsi nella forma del giudizio. E le diverse forme possibili di giudizio divengono così filo conduttore per il reperimento dei diversi supplementi di pura ragione. Kant individua così con sicurezza le 12 categorie e stabilisce il fatto del loro esser presenti. h e





















































e

  Ivi, B 1, secondo capoverso [tr. it., p. 34].   Contenuto dell’« estetica trascendentale ». (Dello spazio. Del tempo). Ivi, B 33-73 [tr. it., pp. 53-75]. g   Contenuto della prima parte della « logica trascendentale », ossia dell’analitica trascendentale. Ivi, B 74 e ss. [tr. it., pp. 77 e ss.]. h   Contenuto del primo libro dell’analitica trascendentale, ossia dell’analitica dei concetti (dei puri concetti originari, cioè delle categorie). Ivi, B 90-169 [tr. it., pp. 87-130]. Cfr. B 91 : Del filo conduttore per la scoperta di tutti i contetti puri dell’intelletto [tr. it., p. 88]. f











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capitolo terzo

Ma dopo questa quaestio facti si solleva la quaestio iuris, ossia la questione del fondamento di validità di queste categorie. A questa risponde solo Fries. Il quale attesta il fatto che tutti i concetti puri di natura sono soltanto le forme più disparate della rappresentazione fondamentale che lo spirito razionale ha dell’unità e della necessità universale, o, detto altrimenti, che essi sono determinazioni singolari e peculiari di quella conoscenza fondamentale della necessità e unità di ogni ente in generale, che è posta al fondo di ogni ragione come ciò che vi è di più immediato e profondo. Questa « deduzione delle categorie » è l’aspetto più peculiare di Fries in quest’ambito. Essa soltanto dà all’intera, grandiosa dottrina il sostegno necessario e sostituisce lo sforzo infruttuoso e contraddittorio di Kant di sostenerla per mezzo di « dimostrazioni trascendentali ». i 6. Quel che delle cose conosciamo sotto le categorie è sommamente « banale » e universale. Ciò che conosciamo a priori e vediamo da noi stessi, senza aver bisogno in aggiunta dell’esperienza, non è quante cose debbano esserci, né che in generale ce ne sono alcune – tutto questo possiamo saperlo soltanto dall’esperienza : potrebbe anche non esserci nulla –, ma che se qualcosa c’è, allora deve essere sotto la legge della quantità, ossia che qualcosa può essere in quanto uno o nella molteplicità e che la quantità si compone nella totalità dei singoli elementi. Conosciamo inoltre a priori non il modo in cui tutto, o qualcosa di singolare, è costituito – non possiamo conoscere un singolo carattere indipendentemente dall’esperienza –, ma che se qualcosa c’è, allora deve esser costituito in qualche modo. Che tutto ciò che possa mai darsi debba essere « in qualche modo », è del tutto « ovvio ». Altrimenti non è « nulla » : questo « lo vede anche un bambino ». Infatti, ma questa convinzione è in pari tempo del tutto indipendente dall’esperienza, anzi in ogni esperienza essa è presupposta. Tutto sottostà alla legge di « qualità ». Tutto ha una qualche « realtà » (nell’uso linguistico dell’epoca, non come si intende da noi talvolta quale equivalente di « esserci », « effettualità », esistenza ; il reale designa che cosa qualcosa è : p. e. blu, dolce, chiaro, malato). Si tratta delle categorie della qualità (« realtà, negazione e limitazione »). Molto più ricche di contenuto di queste prime sei categorie sono le seguenti tre, quelle della « relazione ». Sono quelle che propriamente hanno un contenuto, le categorie « metafisiche », che ci istruiscono ontologicamente, che offrono informazione e certezza sui rapporti fondamentali nell’essere delle cose. Sul filo conduttore delle forme di giudizio categorico, ipotetico e divisivo si scopre qui innanzitutto la categoria della sostanza e inerenza, ossia la circostanza per cui ciò che è propriamente essente è pensabile soltanto come cosa con qualità. Tutte e tre le categorie di relazione non sono altro che le tre forme, le « tre dimensioni », per dir così, della rappresentazione fondamentale che la nostra ragione ha della regolare unità e del collegamento nell’essenza del mondo e dell’ente o, detto soggettivamente, nella molteplicità delle nostre percezioni. In queste ci è dato soltanto ciò che definiamo qualità delle cose, non anche una « cosa » in aggiunta. Ma in e dietro le percezioni pensiamo necessariamente delle « cose » come portatori e fondamento di queste qualità in questo collegamento. (Si prenda come esempio l’oro. Qui abbiamo le percezioni di una certa durezza, pesantezza, composizione chimica, di un certo elettromagnetismo. Ma per noi questo è già oro ? Niente affatto. Questa sarebbe soltanto una « rapsodia di percezioni ». E la nostra rappresentazione « oro » deriva soltanto dal fatto che essa include anche la rappresentazione « cosa », la rappresentazione di un fondamento e di un portatore unitario di queste qualità che  

















































































i









  Tavola delle forme possibili di giudizio : ivi, B 95 [tr. it., p. 90]. Tavola delle categorie corrispondenti : ivi, B 106 [tr. it., p. 96].  



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contemporaneamente è la legge del peculiare e insuperabile uno-accanto-all’altro.) Hume attaccava le « cose » sottolineando il fatto che non abbiamo né esperienza delle « cose », né potremmo dimostrarne l’esistenza. E in effetti non abbiamo quella, né possiamo dimostrare questa. Ma anche lo scettico « vede » che l’essere è possibile soltanto come essere di cose con qualità. Unità e connessione sottostanti alle percezioni si producevano, dunque, nella sussistenza e inerenza. L’unità e la connessione sottostanti alla molteplicità delle cose si producono mediante causa ed effetto (causalità e dipendenza) e nella comunanza delle cose mediante azione reciproca : entrambe, di nuovo, « categorie », concetti e conoscenze sull’essere delle cose del tutto a priori. (Hume mostra in modo convincente che esse non sono conformi ad esperienza, né « dimostrabili ». Poiché non conosce la conoscenza immediata, gli resta soltanto la via d’uscita scettica di rifiutarle. Hume spiega il fatto, psicologicamente inconfutabile, che però ciascuno possiede il concetto di causalità e lo applica continuamente – non soltanto la scienza, ma nemmeno la vita quotidiana sarebbero possibili senza di esso – con « l’attesa, per abitudine, di un caso simile secondo la legge dell’associazione di idee ». 2 Ma già la stessa abitudine è possibile soltanto se vale la causalità. Essa stessa è un effetto psichico della ripetizione. E nell’associazione di idee non è data l’attesa di un caso simile, ma soltanto il ricordo.) Infine : nel momento della modalità si hanno le tre ultime categorie del possibile, effettivo e necessario. 7. Le categorie sono « concetti puri a priori ». Come tali sono conoscenze. In esse cogliamo puramente da noi stessi, dalla ragione pura, e del tutto indipendentemente dall’esperienza, ciò che in generale è determinazione fondamentale di ogni essere. Sappiamo preliminarmente che ogni ente deve corrispondere ad esse. In questo senso prescriviamo all’essere delle leggi. In Kant quest’ultima proposizione ottiene un senso singolare, dal quale sono sorti la speculazione sull’io e l’acosmismo della filosofia fichtiana, e gli inizi di quella schellinghiana. l Kant ne deduce che poiché questa conoscenza è del tutto a priori, essa può valere soltanto per il mondo soggettivo del nostro rappresentare, ma non per un mondo oggettivo, indipendente da noi, dell’essere in sé. Dall’apriorità delle categorie conclude alla loro idealità. Solo nelle percezioni sensibili deve annunciarcisi un’effettività che è indipendente da noi in quanto ci « affètta ». Ma le categorie devono essere principi soggettivi formali attraverso cui configuriamo per noi un’immagine del mondo che perciò non ha una pretesa all’oggettività. Già nell’estetica trascendentale aveva concluso, nello stesso modo, all’« idealità » dello spazio e del tempo. È già stato mostrato in che modo Fries corregga questi errori. La conclusione dall’apriorità all’idealità non vale e poggia su un falso presupposto, quello per cui la causalità che l’oggetto esercita su noi viene resa criterio della validità oggettiva. Anche nella percezione sensibile, però, questo criterio può essere applicato solo apparentemente : Kant, qui, deve conferire realtà a quella medesima categoria di causalità che dichiara ideale. E, soprattutto, questa causalità nell’affezione dobbiamo assumerla in seconda battuta (appunto perché la legge apriorica di causalità è oggettivamente valida), ma non possiamo richiamarci ad essa per la verità della percezione sensibile visto che di lei non percepiamo proprio nulla  









































l   Cfr. già ivi, B 148, § 23 e il « ma di ciò meglio in seguito » [tr. it., p. 120]. Cfr. in particolare B 294 e ss., il paragrafo Del principio della distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni [tr. it., p. 199].  

2



  Cfr. D. Hume, A Treatise on Human Nature, 1739-1740, vol. i, Libro i, parte iii, sez. vi.

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capitolo terzo

e dunque non possiamo addurre la sua assenza o presenza come criterio di conoscenza. Che nella nostra percezione sensibile conosciamo effettivamente qualcosa, che cioè cogliamo un oggetto effettivamente essente e lo cogliamo in modo conforme al suo essere, poggia unicamente sulla naturale fiducia della ragione nei confronti di se stessa di essere capace di verità e conoscenza ; fiducia che nessuna scepsi può scuotere. E questo vale più (e non meno) delle conoscenze a priori che non delle conoscenze per intuizione sensibile. Quelle verità « ovvie », che vede ogni bambino, quelle prime leggi metafisiche valgono per la ragione in modo assoluto come leggi relative al mondo oggettivo stesso. In quelle la ragione vede ciò che è effettivamente così ; e potrebbe abbandonare questa convinzione soltanto se volesse abbandonare se stessa. Così anche l’idealità di spazio e tempo non consegue affatto dall’apriorità dell’intuizione pura ; tutto al contrario : da quest’ultima deriva, in universalità e necessità, la « loro realtà empirica ». Che essi, in quanto spazio e tempo, non debbano valere come tali per la vera essenza delle cose, deriva piuttosto da una circostanza totalmente diversa : dall’antinomia cosmologica scoperta da Kant. Anche qui, l’idealità non significa che in generale spazio e tempo non siano nulla, ma che sono un coglimento inadeguato, condizionato dai limiti della ragione umana, del loro analogo superiore (di una molteplicità, distinzione ed esteriorità reciproca), la cui idea possiamo esprimere solo in « doppia negazione ». 8. Le categorie di per sé non offrono in alcun modo quei sommi principi fondamentali della scienza della natura che cerchiamo. Ma questi scaturiscono immediatamente dal fatto che ciò che nelle categorie conosciamo dell’essenza delle cose si accompagna contemporaneamente al coglimento nello spazio e nel tempo. m Di fronte alla nostra intuizione sensibile non abbiamo altro che la sintesi figurale dei fenomeni nello spazio e nel tempo. A questa si accompagna come sfondo la conoscenza categoriale, in modo tale che solo così abbiamo e comprendiamo il mondo, che ci circonda, dell’accadere naturale. n Per esempio : nell’intuizione sensibile abbiamo un certo complesso di percezioni, spazialmente delimitato, delle quali le une perdurano attraverso il tempo, le altre cambiano, passano e si presentano di nuovo. A questa datità puramente intuitiva si accompagna la conoscenza della « cosa con qualità ». Conosco la cosa che perdura e che, anche nel mutare dei suoi stati, resta uguale a se stessa : come la cosa « acqua », che perdura come acqua con l’essenza chimica di H2O anche se passa dallo stato liquido a quello ghiacciato o gassoso. In quanto il fenomeno intuitivo-temporale viene compreso mediante la categoria che gli si accompagna, in quanto la categoria si « schematizza » temporalmente e contemporaneamente si « restringe », nasce ogni volta un principio fondamentale puro. Per esempio, nel nostro caso : « ciò che permane : è, appunto, la sostanza ». O : « la sostanza è ciò che permane » ; principio sommamente importante per la scienza della natura, che l’esperienza non può offrire, ma solo confermare. Si noti però : il principio è « sintetico ». Nella categoria per sé, infatti, non si trova nulla del momento del tutto temporale del « permanere », della « durata ». « Sostanza », puramente per sé, è soltanto ciò che è identico con sé in una molteplicità e diversità dei suoi stati comunque pensata. Soltanto per il fatto che ogni essere ci è dato solo nel tempo risulta che la molteplicità degli stati deve essere un « cambiamento » « temporale » (ossia una successione temporale) e che quell’identità con sé deve essere un permanere temporale. Attraverso  



















































































m   Contenuto del secondo libro dell’analitica trascendentale : analitica dei principi (cioè della fisica, della conoscenza naturale). Ivi, B 169-315 [tr. it., pp. 131-213]. n   Cfr. ivi, B 176 e ss. : Dello schematismo dei concetti puri dell’intelletto [tr. it., pp. 136 e ss.].  



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la riunione della conoscenza categoriale (per cui il soggetto dell’essere è « sostanza con accidenti ») e dello « schema » temporale (del perdurante e del mutevole) si ottiene quel principio fondamentale ; e, del pari, la conoscenza del fatto che deve esserci nel tempo qualcosa di assolutamente permanente (cosa che, di nuovo, non può essere ottenuta dall’esperienza, se è vero che è un presupposto di ogni scienza della natura). Così, in generale e relativamente a tutte le categorie, si ottengono quelle leggi costituzionali della conoscenza naturale, quella tavola dei principi metafisici che costituiscono la base della scienza della natura. 0  









o   Ivi, B 187 e ss : Sistema di tutti i principi dell’intelletto puro [tr. it., pp. 142 e ss.]. E ivi, B 197 e ss. : Rappresentazione sistematica di tutti i principi sintetici del medesimo [tr. it., pp. 147 e ss.]. Nei quattro gruppi : assiomi dell’intuizione, anticipazioni della percezione, analogie dell’esperienza e postulati del pensiero empirico in generale, essi vengono enumerati con sorprendente finezza di distinzione e caratterizzazione. Contemporaneamente qui Kant compie l’erroneo tentativo di una « dimostrazione » trascendentale di questi principi ; dimostrazione di cui essi non sono passibili e, secondo la loro deduzione, nemmeno hanno bisogno.  











Capitolo quarto PASSAGGI ALLA CONOSCENZA IDEALE 1. La legalità naturale non si fonda sulla categoria, ma sulla categoria schematizzata. – 2. Significato della scoperta della pura conoscenza di ragione. – 3. Passaggi all’idea. – 4. Limiti della conoscenza. Facoltà delle idee.

1.

K

ant aveva compiutamente elaborato questa dottrina dello « schematismo temporale » delle categorie e della scienza pura della natura che ne deriva ; Fries l’ha assunta senza cambiamenti, come un risultato ultimato e saldo. Sarà certo sufficientemente nota, ma se ne doveva parlare in modo più dettagliato, perché qui vi è già qualcosa di molto importante per l’« idea ». Con i principi puri la scienza della natura dell’illuminismo era fondata definitivamente e irrefutabilmente assicurata. Questo però significa contemporaneamente : predominio della scienza della natura, matematizzazione, meccanizzazione, concatenamento in una causalità senza lacune e asservimento all’azione reciproca, estensione infinita nello spazio e nel tempo, mondo ateo e sdivinizzato della scienza della natura, ermeticamente chiuso a libertà e cominciamento creatore, a eternità e oltremondanità. Si presti però attenzione al punto in cui questo momento entra nella considerazione e attraverso cui viene presentato : è appunto lo « schematismo » delle categorie ! E nelle categorie stesse non si trova nulla di ciò. In quanto la categoria viene schematizzata, essa viene in pari tempo « ristretta » – Kant utilizza frequentemente questa espressione a – ossia limitata rispetto a limiti che in partenza non risiedono in lei. Per sé essa è molto più universale ed estesa che non nella sua forma schematizzata e ristretta. Nella categoria della quantità, puramente per sé, si trova il momento della molteplicità in generale, non già quello della molteplicità sotto la legge del numero e della misura. Nella categoria della qualità non si trova ancora nulla del momento del « grado ». Nella sostanza con accidenti, per sé, risiede solo ed esclusivamente il concetto di ciò che è identico a sé in una molteplicità possibile di stati distinti. Nella nostra serie temporale qualcosa del genere può presentarsi come ciò che permane attraverso ogni tempo e non comincia, né finisce. Ma nella categoria stessa, nulla esclude il poter esser posto o il poter anche non esser posto. b Certamente la categoria della causalità, schematizzata, esclude una « causalità libera ». Poiché, infatti, il presentarsi temporale di una modificazione deve essere compreso come effetto di una causa, ne consegue che nella serie temporale ogni causa deve, di nuovo, essere  































a   « Ma è pur evidente che, sebbene gli schemi della sensibilità realizzino primieramente le categorie, nello stesso tempo tuttavia anche le restringono, cioè le limitano a condizioni che son fuori dell’intelletto (ossia nella sensibilità). [...] Ora se noi mettiamo via una condizione restrittiva, allora veniamo ad amplificare, sembra, il concetto dianzi limitato ; e così le categorie dovrebbero valere nella loro pura significazione, senza tutte le condizioni della sensibilità, per cose in generale, come esse sono, laddove i loro schemi rappresentano soltanto queste cose come esse appaiono ; e avere un significato indipendente da tutti gli schemi, e molto più esteso », Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 186 [tr. it., p. 141]. b   Così la sostanza, p. e., se si tralascia la determinazione sensibile della permanenza, non significherebbe altro che qualcosa che può essere pensato in quanto soggetto (senza essere predicato di qualcos’altro) ; ivi, B 186 [tr. it., p. 141].  









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effetto di una causa precedente che era essa stessa una modificazione, e così via. Se la causa non fosse stata una modificazione in ciò che precede, allora il suo effetto avrebbe dovuto già sempre esserci e dunque non sarebbe stato una modificazione in ciò che precede. Nel concetto della pura categoria di causalità, però, non vi è altro che il fatto che una cosa sia fondamento per l’esistenza o per lo stato di un’altra cosa, ma non della necessità di essere, a sua volta, effetto di un’altra per poter essere causa. Solo mediante la « restrizione » della categoria nella sua proiezione sulla serie temporale si introduce il momento che di per sé è per essa del tutto estraneo. Questo deve esser tenuto a mente e diviene significativo se si dà, d’altra parte, che la rappresentazione dello spazio e quella del tempo non colgono l’essenza delle cose, ma derivano dalla limitatezza della nostra conoscenza. 2. Per l’ambito della convinzione ideale, però, la scoperta di questa conoscenza a priori ha un valore immediato e, già qui, evidente. Quali che siano le conseguenze « naturalistiche » che derivano per la nostra immagine del mondo da quella conoscenza fondamentale su indicata, in essa si scopre tuttavia qualcosa di sommamente meraviglioso : una conoscenza immediata della ragione che è nascosta nel suo interno e poggia sul fondo inconscia e oscura, completamente ignota al suo stesso proprietario : al punto che si può discutere se l’abbiamo oppure no. Essa riposa. E si attiva, per dir così, solo quando l’uomo comincia a fare esperienza e ad esprimere la sua esperienza in giudizi, e la esercita nella percezione, in modo, di nuovo, di per sé completamente inconsapevole. Soltanto così l’uomo ottiene la conoscenza effettiva del suo mondo, che possiede già nel quotidiano e che elabora in quello scientifico. Egli ritiene di dover ringraziare di tutto ciò innanzitutto l’esperienza e solo con un’analisi artificiosa e con un’autocritica egli separa la trama puramente razionale e riconosce che solo grazie a questa possiede un sapere effettivo e affidabile. Assai prima che abbia luogo questa scoperta critica della conoscenza immediata della ragione, quest’ultima è efficace tanto nel quotidiano, quanto nella scienza. Ogni essere razionale ha in sé la conoscenza matematica, così come quella metafisica, e la applica, in modo inconscio, costantemente. Ognuno sa oscuramente che tra due punti la retta è il percorso più breve e agisce di conseguenza quando deve fare un percorso. Ognuno ha la conoscenza oscura della legge di causalità e la rende, anche nelle relazioni quotidiane, il criterio del suo giudicare ed agire. E poiché la « scienza pura della natura » risiedeva ed era da lungo tempo efficace nello spirito di Galilei, Keplero e Newton, la loro scienza della natura poté percorrere il suo cammino privo di preoccupazioni, fiducioso e ricco di successi, prima ancora che ne fosse data la giustificazione critica. Ma lo stato in cui la conoscenza immediata si rivela efficace anche prima che l’oscurità originaria sia illuminata è il sentimento della verità. Nel sentimento della verità possediamo e si rendono valide conoscenze oscure : esprimerle chiaramente e rendersene consapevoli secondo la loro validità è affidato alla filosofia quale suo compito più importante. c  

















c   Sulla confusione tra la teoria della conoscenza immediata e quella delle « idee innate », in breve quanto segue : di fatto la teoria delle idee innate era una preparazione di quella corretta, ma in forma inadeguata ed erronea, che, tra l’altro, è già quasi superata nei Nouveaux Essais di Leibniz. Che vi sia realmente qualcosa come le idee innate fu contestato nel modo più appassionato e fatto oggetto di scherno da empirismo e naturalismo, mentre oggi viene asserito, altrettanto appassionatamente, dallo stesso naturalismo. Tutti gli istinti tecnici degli animali, tutte le « associazioni di idee » che sono al fondo degli istinti sono esattamente idee innate, che vengono acquisite nel processo di sviluppo e nella storia di una specie e che ora per il singolo individuo sono innate, nel senso più autentico del termine, in quanto « mneme », « engrafo », o « memoria  



















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Ciò che ci si mostra qui per la « ragione teoretica » ci dà già preliminarmente una chiave per la comprensione dell’ambito della « ragione pratica » e per la fiducia nel fatto  







ereditaria ». E il trucco più raffinato di questo genere di naturalisti è di atteggiarsi a kantiani e di concedere, anzi di asserire con enfasi che le rappresentazioni di spazio e tempo, le categorie, la legge di causalità e tutte le leggi « a priori », infine persino i giudizi di valore sono indipendenti dall’esperienza del singolo. Solo che oggi non è più Dio, ma, per dir così, il diavolo, ossia la lotta per l’esistenza, che ha impiantato nell’uomo questo « a priori ». Questa dottrina, però, trascura il fatto che né Dio, né il diavolo possono impiantare conoscenze. Le idee innate sono pensieri costretti e per questo appunto non sono conoscenze. Nel conoscere non si tratta di avere certe peculiari rappresentazioni di cui non possiamo liberarci, ma del fatto che vediamo noi stessi che qualcosa è così. A ciò, però, non giova affatto che abbiamo da qualche parte pensieri innati, anche nel caso in cui questi fossero in sé perfettamente corretti. Non gioverebbe neanche se questi pensieri ci sgorgassero dalla fonte della verità eterna. In tal caso sarebbero al massimo ammaestramenti, ma non conoscenze, non intuizioni. Se debbono esserci conoscenze, allora anche Dio può procedere soltanto così : creando esseri che sono ciò che egli stesso è : esseri con una ragione pura, ossia tali che sono capaci non soltanto di pensieri corretti, ma di una propria intuizione della verità. Ora, tali esseri ci sono. Il moderno rinnovamento della vecchia dottrina delle idee innate ha totalmente ragione dove si tratta di ciò che è istintivo, ma per la questione della conoscenza non ha alcun significato e poggia su un errore psicologico. Le proposizioni in avvio della kantiana Kritik der reinen Vernunft contengono la soluzione dell’intero enigma : « Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta dalla esperienza. Infatti potrebbe esser benissimo che la nostra stessa conoscenza empirica fosse un composto di ciò che noi riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra propria facoltà di conoscere vi aggiunge da sé (stimolata solamente dalle impressioni sensibili) ; aggiunta che noi propriamente non distinguiamo bene da quella materia che ne è il fondamento, se prima un lungo esercizio non ci abbia resi attenti ad essa, e non ci abbia scaltriti alla distinzione » [ivi, B 1-2 ; tr. it., p. 34]. Ciò significa : nessuna singola conoscenza si trova realmente nell’anima prima e senza dell’esperienza. Se però esperienza e conoscenza cominciano con la percezione sensibile, allora in e tra le percezioni sensibili si produce contemporaneamente una conoscenza che non deriva dall’esperienza, ma che c’è indipendentemente da ogni esperienza, p.e. l’intera conoscenza matematica. Questo rimanda al fatto che non avevamo dal principio conoscenze anempiriche, ma la possibilità di queste, una facoltà, una fonte propria di queste nello spirito. Se si traduce a priori sempre soltanto con « indipendentemente dall’esperienza », allora non può intervenire l’equivoco di una conoscenza che precede temporalmente l’esperienza e che ha luogo senza di questa. Tantomeno i termini « originario, immediato » indicano un rapporto temporale. L’odierna derivazione naturalistica delle idee innate da un’esperienza ereditaria è quindi ancora molto più rozza e inadeguata della vecchia derivazione razionalistica, secondo la quale si dovrebbe per lo meno riconoscere che in generale abbiamo concetti di causa, necessità, legge. Secondo la prima, però, questo non è più possibile. Perché il « mneme », cui ci si riferisce, non è altro che un’esperienza ereditaria e accumulata. Poiché però nell’esperienza come tale tutto quello non può essere stabilito, allora anche soltanto la presenza dei concetti di ciò nel nostro pensiero sarebbe un puro miracolo. Cfr. lo stesso Kant, ivi, B 166 : « Se si volesse [...] che le categorie siano disposizioni soggettive del pensare, piantate in noi [...], e così ordinate dal nostro creatore [p.e. la « selezione naturale » di Darwin, che qui si potrebbe senz’altro mettere al posto di Dio, senza alterare il senso dell’affermazione kantiana] che il loro uso s’accordi esattamente con le leggi della natura secondo le quali si svolge l’esperienza, [...] contro ci sarebbe questo argomento perentorio : che in tal caso alle categorie mancherebbe la necessità che è essenziale al loro concetto. Infatti il concetto, ad es., di causa, che esprime la necessità di un effetto supposta una condizione, sarebbe falso qualora riposasse su una qualsiasi necessità soggettiva, innata in noi, di unire certe rappresentazioni empiriche secondo una tale regola di relazione. Io non potrei dire : l’effetto è collegato con la causa nell’oggetto (cioè necessariamente) ; ma : io sono così fatto da non poter pensare questa rappresentazione se non così collegata ; che è proprio ciò che più desidera lo scettico ; giacché allora tutta la nostra convinzione, fondata sul supposto valore oggettivo dei nostri giudizi, non è altro che una semplice illusione, e non mancherebbero di quelli, che di sé non confesserebbero questa necessità soggettiva (che deve essere sentita) : per lo meno non si potrebbero fare contestazioni a nessuno su ciò, che è fondato solo sulla maniera in cui ciascun soggetto è organizzato » [tr. it., pp. 129-130]. L’intera critica della ragione di Fries poggia su questo e illustra che la nostra ragione è spontaneità stimolabile, ossia che essa sottostà totalmente alle condizioni del senso. Ogni suo vivere e agire interviene e diviene effettivo soltanto in relazione allo stimolo che è dato nella sensazione sensibile. E se questo non precede, essa non ha rappresentazione, né tendere, né agire : è in effetti solo tabula rasa. Ma se lo stimolo ha luogo allora compaiono insieme e tra le iscrizioni della percezione sensibile anche iscrizioni che non derivano da questa e non possono da questa derivare. Tutto dipende  































































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che anche qui corrispondentemente, nascosto in ogni ragione, ci sarà qualcosa che è proprio di una conoscenza immediata, in cui quel che vale universalmente e necessariamente avrà la sua origine e il suo criterio sommo. In pari tempo si offre una chiave per la comprensione dello sviluppo storico in quest’ambito. Del tutto indipendentemente dal fatto che questo principio, profondamente nascosto nello spirito, sia notato o no, esso è sin dall’inizio efficace nella storia dello spirito umano nella forma del sentimento della verità morale, religiosa ed estetica : il quale, capace, come ogni sentimento, di tutti i gradi, è più oscuro o più puro, più potente o più debole, diverso secondo la dotazione del popolo o dell’individuo ; può riposare per secoli e poi erompere nelle personalità elette, geniali, preminenti, di scopritori e di profeti ; può presentarsi e illuminare con la potenza di un oracolo divino e di un’autorità suprema. La possibile diversità delle sue espressioni e l’intima affinità, che in fondo è assai più sorprendente, delle sue molteplici rivelazioni può esser compresa in questo modo. E nello stesso modo può esserlo la pretesa di ogni « profeta » alla più immediata e suprema autorità e, d’altra parte, al fatto che l’uditore debba dare ragione e approvazione a chi annuncia. La differenza tra il sentimento della verità in quest’ambito e quello nel primo ambito è che questo si lascia completamente « risolvere », cioè che le conoscenze oscure in quanto sentimento si lasciano completamente « svolgere » e i sentimenti si lasciano riportare in concetti ; il primo, invece, è risolvibile solo in parte : in parte non lo è. Intraprendere questa risoluzione, da un lato, e stabilire e delimitare l’ambito di ciò che non è risolvibile, dall’altro, è anche qui il compito fondamentale della filosofia. « Ragion pura », e dunque critica della ragion pura, c’è soltanto perché c’è questa conoscenza immediata, originariamente oscura. La rappresentazione di questa guida lo stesso Kant, seppur ancora oscuramente, nella sua impresa. Il fatto che non l’abbia colta chiaramente ha avuto molte conseguenze svantaggiose per la sua critica e in particolare ha impedito che la dottrina delle idee vi si fondasse. Particolarmente da questo punto di vista Fries è divenuto un autentico perfezionatore di Kant, in quanto rende più chiaro il polo segreto attorno al quale ruota senza requie lo stesso pensiero di Kant. 3. Abbiamo definito « naturalistica » l’immagine del mondo kantiano-friesiana che si ottiene dalla « scienza pura della natura ». Lo è in quanto sottopone il mondo alla legalità naturale, lo estende in modo smisurato e autosufficiente nel tempo e nello spazio, cancella dalla sua compagine cielo, empireo, creazione di mondi, trama soprannaturale, e in esso spiega tutto a partire da cause immanenti. In questo mondo non possono esserci « miracoli » : il miracolo è un’eccezione alla legge naturale, che però non sarebbe possibile accertare. A noi infatti è dato soltanto tutto ciò che è intuibile sensibilmente. Se però un’intuizione sensibile sia « oggettiva » o sia soltanto immaginazione, allucinazione o simili, l’unico criterio per stabilirlo è appunto la concordanza con quella legge. A ciò si aggiunge il rifiuto di ogni dogmatismo spiritualistico. La « psicologia razionale » e la dimostrazione dell’anima quale sostanza « semplice, non soggetta a corruzione » è impossibile. L’« anima » ci è tuttavia data come una « unità » che, in quanto semplice, non è capace di corruzione per dissoluzione in parti ; ma ci è data come unità di qualità interne, che, come ogni qualità in questo mondo del numero, è una quantità intensiva, sottostà alla legge del « grado » e al graduale passaggio allo zero. In confronto col materiale lo spirituale è fondato solo in modo incerto. In questo mondo è la materia ciò che  

































































dall’essere « scaltriti alla distinzione ». E questo è il primo compito della critica della ragione. Il secondo è scoprire « come queste siano possibili ».  







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per noi è fondato in modo sicuro e insuperabile. Definita con « ciò che si muove nello spazio », essa viene conosciuta totalmente in caratteristiche spazio-temporali e perciò assolutamente a priori. Poiché qui « permanenza » è lo schema e dunque l’unico criterio per l’applicabilità della categoria della « sostanza », la materia è la sostanza per eccellenza, mentre nulla ci legittima ad applicare questa categoria allo psichico, visto che qui manca il criterio di applicabilità intuitivo-sensibile, ossia la « permanenza ». Tuttavia bisogna rifiutare l’equivoco per cui questa dottrina, completamente fondata su Kant, sia propriamente una « concessione al positivismo » o abbia conseguenze naturalistiche o materialistiche, che successivamente sarebbero eliminate con un salto arbitrario nel regno dell’idea. Questo non c’è nel senso del filosofema friesiano. Piuttosto il « mondo del sapere » è esso stesso già tale che, da un certo punto di vista, si « annette all’idea », ha ed offre « passaggi » alla conoscenza ideale nella « fede ». d Anche per il sapere, infatti, è « immediatamente chiaro che il vivente non può esser derivato da ciò che è morto », lo spirito dal materiale. Il materiale e i suoi processi di movimento si trovano accanto allo spirituale, senza che sia possibile un’unione o una derivazione dell’uno dall’altro. Come nel materiale, così altrettanto nello spirituale si dà una connessione propria dell’accadere, in quanto lo spirituale viene spiegato sempre soltanto dallo spirituale. La comprensione psicologica non viene ottenuta da processi fisicofisiologici. Psicologia e fisica non hanno a che vedere l’una con l’altra. Così come con l’esistenza dell’organizzazione corporea, alla quale per noi l’« anima » è sempre legata, non si è spiegato nulla dell’esistenza dello psichico. Questo resta completamente oscuro ; e mentre là, per il fenomeno, abbiamo un compito possibile, indagare le connessioni causali, qui ci si innalza un limite della spiegazione causale per sempre inamovibile. Lo spirito è ciò che è interiormente vivente, l’assolutamente attivo : nella sua attività è sottoposto ad una legge, che però è del tutto propria e che viene scoperta nell’antropologia psichica, nella logica, nella critica della ragione pura. Soprattutto la scoperta della stessa ragione pura innalza la libertà e la nobiltà dello spirito non soltanto al di sopra di ogni tentativo materialistico, ma anche al di sopra di riduzioni psicologistico-empiristiche, che per parte loro sottrarrebbero ad esso ogni proprietà e libertà e lo farebbero derivare da « sensazioni ». Per lo spirito stesso è propriamente presente e valido, anche già nel tempo, un mondo totalmente altro da quello della matematica e della materia. Solo nel rapporto delle cose tra loro, queste sostanze materiali sono sotto le leggi del movimento. Per lo spirito, però, esse vengono conosciute anche come mondo dei colori, suoni e profumi, come il mondo in qualità : una conoscenza che per l’apprensione scientifico-matematica di questo mondo temporale, spaziale e materiale non può esser portata ad una solida posizione, ma deve esser trasposta ; e che però, per parte sua, è anche una conoscenza : e mentre resta, da quel lato, senza significato, dall’altro offre proprio il « passaggio all’idea ». Ciò che è più importante per questo passaggio è la coscienza dell’io, data nella « pura appercezione », che è la forma insuperabile del contenuto del senso interno, come lo spazio è la forma del contenuto del senso esterno. Nel sentimento dell’io il molteplice dell’esperienza interna si raccoglie in quella unitarietà nella quale esso di fatto si trova. E con questa unità dell’io è contemporaneamente dato ciò che nello spazio e nel materiale, nonostante la dottrina atomistica, non può mai esser dato, ossia un assolutamente semplice che non può esser pensato come consistente di parti.e  

































































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  Questo è il senso dell’affermazione a p. 27 del mio NRW.   Cfr. qui più nel dettaglio NRW2, pp. 225-244. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 419 e s. : « Ma nella terza

e





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4. Il nostro sapere si indirizza a questo mondo nel tempo e nello spazio. Un altro sapere non lo abbiamo e non possiamo averlo. È impossibile andar oltre : anche la questione se in generale un « oltre » avrebbe un senso sarebbe del tutto oziosa e non potrebbe presentarcisi se non ci fossero due cose : la conoscenza, propria della ragione, dei limiti della propria conoscenza e la facoltà delle idee. Un cieco nato, che conoscesse il mondo soltanto mediate i quattro sensi inferiori, non potrebbe arrivare al fatto che c’è una conoscenza delle cose superiore e diversa dalla sua. Solo se da altra parte gli viene comunicato che una tale conoscenza c’è, egli esperisce i limiti della sua conoscenza. Ma la ragione è in condizione di vedere da sé che la sua conoscenza è limitata e di vedere in cosa consistano i suoi limiti ; e nel decorso del suo sviluppo essa arriva necessariamente a notarli. « Idea », nell’uso linguistico dell’epoca, aveva perso del tutto il profondo senso originario che le aveva dato Platone, e, in particolare con l’empirismo inglese e con la dottrina dell’« associazione di idee », idea era decaduto semplicemente a rappresentazione in genere, a sensazione e percezione. Kant le aveva restituito il suo senso elevato. f Idea è concetto di qualcosa che oltrepassa assolutamente ogni esperienza e che non viene nemmeno applicato all’esperienza, come invece i concetti puri dell’intelletto (catego 

















proposizione l’unità assoluta dell’appercezione, l’io semplice, diviene anche per sé importante [...] sebbene io non abbia ancora stabilito nulla circa la costituzione o sussistenza del soggetto. L’appercezione è qualcosa di reale, e l’unità di essa c’è già nella sua possibilità. Ora, nello spazio non c’è reale che sia semplice : perché i punti (che costituiscono l’unico semplice nello spazio) sono soltanto limiti, ma non sono per se stessi qualcosa che serva a costituire, come parte, lo spazio. Ne viene, dunque, l’impossibilità di spiegare la costituzione del me (come soggetto semplicemente pensante) con i principi del materialismo » [tr. it., p. 272]. E ivi, B 424 e s. : « dove tuttavia il rigore della critica [...] rende un servizio non privo di importanza, ponendola [la ragione] intanto al sicuro contro tutte le possibili affermazioni del contrario [ossia del materialismo] » [tr. it., p. 274]. Cfr. tutta la bella sezione B 423-426. Da vedere in generale anche Fries, Rel. Phil., [Handbuch der praktischen Philosophie, ii, cit.], p. 80, sul rapporto tra la visione del « sapere » sulla base della legge naturale e quella teleologica che esige la religione : « Ma non possiamo connettere questa dottrina con l’affermazione che il naturalismo e la teleologia si contraddicono reciprocamente. Al contrario : le visioni teleologiche possono sempre esser pensate come sovraordinate all’intero naturalismo. Le opinioni teleologiche scaturiscono dalla conoscenza interna dello spirito e ci si possono presentare sempre e soltanto in analogia con la valutazione pragmatica delle attività umane. Qui il rapporto è chiaro. Ogni macchina deve esser spiegata naturalisticamente per la produzione dei suoi effetti secondo le leggi delle cause efficienti. La volontà umana, però, sa servirsi di questa legge naturale, in quanto ordina le parti della macchina sotto le sue condizioni in modo tale che l’effetto naturale corrisponda contemporaneamente ai suoi scopi. Così è anche per il mondo. Se presuppongo che una volontà superiore ha ordinato le cose sotto leggi naturali per ottenere effetti naturali nel mondo, questo presupposto non contiene alcuna contraddizione. Aggiungiamo che esso vale per noi uomini non in quanto scientifico, ma secondo le idee della verità eterna ». Cfr. su questo NWR2, pp. 59 e ss., dove il problema della legalità naturale e della teleologia viene trattato nel medesimo senso e più dettagliatamente ; e cfr. il cap. iv (Darwinismus), in cui in particolare vengono messe in relazione a ciò la teoria della discendenza e quella della selezione (pp. 66-144). f   Cfr. la seconda parte della logica trascendentale. Se la prima trattava dei « concetti » puri dell’intelletto e dei « principi », che da quelli derivano e che insieme offrono la metafisica inferiore (cioè la conoscenza pura che è a fondamento della scienza della natura), la seconda parte tratta dei « concetti della ragione », le « idee », da cui si ottiene la metafisica superiore, che Kant erroneamente vuole lasciar valere soltanto come « apparenza trascendentale ». Si sente però immediatamente che il suo proprio intimo interesse dipende proprio da questa metafisica delle idee. Il primo libro della dialettica trascendentale tratta « delle idee in generale », delle « idee trascendentali » e del « sistema delle idee trascendentali » ; I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 368-396. Cfr. B 370 : « Platone si servì dell’espressione idea in modo, che si vede bene che per essa egli intendeva qualcosa che non soltanto non è ricavato mai dai sensi, ma sorpassa anche di gran lunga i concetti dell’intelletto di cui si occupò Aristotile » [tr. it., pp. 246-247] ; e B 377 : « A chi si sia abituato una volta a questa distinzione, deve riuscire intollerabile sentir dire idea la rappresentazione del color rosso. Essa non può dirsi nemmeno nozione » [tr. it., p. 250].  







































































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rie) ; è inoltre un concetto di pura ragione che dobbiamo farci necessariamente. Fries mostra perché dobbiamo necessariamente farci tali concetti e attesta la loro validità oggettiva, mostrando il loro derivare dalla « conoscenza immediata » della stessa ragione. Mostra inoltre che sul fondamento della conoscenza immediata della ragione ci formiamo idee attraverso cui conosciamo l’essenza delle cose in contrapposizione alla nostra conoscenza di esse nello spazio e nel tempo ; che abbiamo in tali idee una visione insuperabile dell’essenza delle cose stesse rispetto a cui la conoscenza di queste nello spazio e tempo si supera in quanto limitata, ossia si rivela tale che vale soltanto per il fenomeno delle cose per noi, non per l’essenza delle cose stesse. Questa è la grande dottrina dell’idealismo trascendentale, nella forma peculiare che le ha dato Fries. Fenomeno non è « apparenza » ; non è un nostro proprio prodotto che deriva dalla nostra soggettività, ma è fenomeno delle cose stesse per noi, in quanto conosciamo limitatamente. Chi vede un paesaggio attraverso la nebbia, in genere non conosce un nulla, non sogna e non vede una fata morgana, ma conosce il paesaggio stesso e la sua conoscenza ha una validità, ma limitata. E se egli sa anche cos’è la nebbia e come agisce sul vedere, allora conosce anche il fatto della sua limitazione e può andar oltre questa, in quanto può rappresentarsi quali tratti mancherebbero nella conoscenza piena (il grigio e lo sfumato), sebbene non possa completarsela con ciò che si deve aggiungere positivamente.  













Capitolo quinto FONDAMENTO DELLA CONOSCENZA IDEALE a. Le antinomie. – 1. Il mondo, infinito nello spazio e nel tempo : il mondo completo. – 2. Tutto composto, nulla semplice : l’ultimo semplice. – 3. Legge di natura, nessuna causa libera : causa libera. – 4. Condizionatezza senza fine : necessità. b. Soluzione mediante l’idealismo trascendentale. c. Fondamento positivo delle idee.  







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L

a limitazione della nostra conoscenza viene scoperta mediante il peculiare fatto dell’« antinomia della ragione », che a lungo aveva confuso la filosofia. La coscienza di tale antinomia sorge con gli eleati, seppur ancora confusamente e con esempi inadeguati. Su questa si affatica la filosofia del Medioevo. Nella lotta tra Averroè e Tommaso resta nascosta sullo sfondo. In Bruno si avverte chiaramente nel dialogo Della cosa, principio et uno e in De l’infinito, universo e mondi. Nella filosofia dell’illuminismo ha la stessa funzione del bilanciere nell’orologio, anche se non ci se ne cura seriamente. Bacone enumera già quasi tutti i suoi punti, per poi procedere oltre senza chiarirsi l’enorme portata della cosa. È desta in Hobbes e Leibniz. Altrettanto in Shaftesbury. E su essa si affatica la filosofia popolare dell’illuminismo.a In verità, però, dovette essere il punto di partenza di ogni visione del mondo cólta in generale. Perché senza di essa il fondamento è posto dal principio in modo erroneo ed è falso ; e l’intero edificio è al massimo un rifugio dogmatico. Questi principi cosmologici, infatti, non sono qualcosa di lontano e indifferente, ma sono condizioni fondamentali dell’essere stesso, su cui deve esserci chiarezza e certezza se non si vuole che ogni nostra conoscenza del mondo sia nebulosa e oscillante.b Nella « cosmologia », nella riflessione sul mondo e sull’essere mondano in generale, la ragione cade irrimediabilmente, sembra, in determinazioni contrastanti ed escludentisi, che però per lei sono entrambe egualmente importanti e necessarie. (Kant conduce anche qui, sedotto dal pregiudizio della « dimostrazione », dimostrazioni dei lati opposti dell’antinomia. c Cosa impossibile e contraddittoria. Ma si tratta di conoscenze che si  













a   Cfr. il saggio, assai radicale, Die Zertheilung der Körper nel settimanale « Die Ehre Gottes aus der Betrachtung des Himmels und der Erde », 25, 1767 : « Lo scienziato naturale pone dei limiti alla divisibilità dei corpi naturali quando, nel pensiero, si imbatte nei corpuscoli originali che sono indissolubili in quanto non hanno interstizi. Il matematico ride dell’asserita impossibilità di una divisibilità infinita della materia. Egli conduce rigorose dimostrazioni che nella sua sfera sono pienamente corrette. Peccato che i suoi elementi, i punti, le linee e le superfici, dunque anche i corpi, sono mere chimere, ma di infinita utilità. Sarebbe desiderabile che tutte le altre scienze umane fossero costruite su chimere tanto utili. Allora si avrebbe in esse tanta correttezza e convinzione quanta se ne ha nella dottrina delle grandezze ». (Che epoca cólta, tra l’altro, quella che invece di giornali della domenica e di « Gartenlaube [Sottotitolo : Giornale illustrato per famiglie] » leggeva tali « settimanali ». Si capisce che in questa atmosfera generale la filosofia di Kant abbia potuto essere un evento : e non per le stanze da studio, ma per la collettività.) b   I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 432-489 : Dialettica trascendentale, libro secondo, capitolo II : L’antinomia della ragion pura ; prima e seconda sezione. Nella seconda sezione i due lati dell’antinomia nelle colonne stampate l’una accanto all’altra (B 454 e ss. [tr. it., pp. 290 e ss.]). c   Cfr. ivi, B 454, Dimostrazione della tesi e a fronte B 455, Dimostrazione dell’antitesi. E così ogni volta per i quattro lati dell’antinomia.  



























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contrappongono : in effetti uno « scandalo per la ragione », se il conflitto non si lasciasse risolvere.) L’antinomia è nota ed è sufficiente abbozzarla brevemente. 1. α. Conosciamo il nostro mondo, senza alcuna possibile contraddizione, come esteso nello spazio e nel tempo. Spazio e tempo, però, procedono oltre ogni limite, senza fine. E la nostra fantasia lascia senz’altro che il mondo e i mondi si estendano nello spazio, continuando infaticabilmente a contare e porre stella su stella, sistema su sistema, « volta dell’universo » su volta dell’universo. Anche se tralasciassimo quest’ultima cosa e volessimo assumere, limitando la nostra fantasia, che il mondo sia solo nello spazio presso di noi, e che al di là vi sia il vuoto, non si riuscirebbe però a vedere alcun motivo per cui lo spazio, proprio in questo punto, dovrebbe essere pieno. E lo spazio stesso proseguirebbe in ogni caso senza fine, e in esso spazi su spazi, come sue parti. Altrettanto con il tempo e l’accadere nel tempo. Questo prosegue infinitamente, a parte post e a parte ante. E se si volesse porre in esso un’isola dell’accadere, e prima di questa un tempo vuoto, mancherebbe, di nuovo, il fondamento per cui qualcosa cominci proprio in questo punto del tempo e non sia piuttosto già sempre stata. β. Il mondo si mostra incontestabilmente in questo modo nella nostra intuizione : altrettanto chiaramente vediamo quel che in ciò vi è di intrinsecamente impossibile. Lo vediamo nel modo più chiaro con l’esempio del tempo. In un decorso di giorni, ore o momenti qualsiasi del tempo in genere, il quinto, il sesto, l’n-simo momento può intervenire soltanto quando tutti i precedenti si siano conclusi. La sua intera serie deve esser giunta ad un decorso completo. Il tempo a parte ante regredisce però senza fine. Un tempo infinito dovrebbe esser stato completo, il che evidentemente si esclude. Prima di ogni spazio di tempo si estende sempre di nuovo uno spazio di tempo. Ve ne è sempre di nuovo uno di più e non sono mai tutti. Dovrebbero però esser dati assolutamente tutti, se dovesse realmente intervenire l’« ora ». Questa è un’intuizione della ragione tanto evidente e immediata, che una contraddizione non è possibile. In una parola : « in realtà » non può aver luogo un regresso in infinitum ; il compimento della serie è richiesto per l’« essenza stessa delle cose ». Per lo spazio è lo stesso. Ciò che realmente è, è tutto ciò che è, e non continuamente qualcosa in più. È nella totalità completa dei suoi fattori, che siano stelle, mondi stellari, molecole o spazi su spazi. Per ciò che realmente è, questo incessante « qualcosa in più » è assolutamente contrario alla ragione. d Il paradosso della rappresentazione del tempo si può anche chiarire così. In prima battuta, nulla ci sembra essere più chiaro e più semplice di tale rappresentazione. Tuttavia, il sentimento ne ha sempre avvertito la paradossalità ; sentimento che si può sciogliere facilmente con la seguente riflessione. Quando propriamente viviamo nel tempo ? Che cosa nel tempo è reale ? Non è realmente evidente che cosa era. Ciò che era non è più e per questo, appunto, non è. Tantomeno è realmente evidente ciò che sarà. Poiché ancora non è, appunto non è. Non v’è dubbio che è soltanto ciò che è adesso, e ciò che adesso non è, in generale, appunto, non è, perché non è più o non è ancora. All’inizio ciò suona semplicissimo e sembra che non comporti difficoltà : ma se si guarda più dappresso, si mostra allora che conduce proprio ad un puro controsenso. Si mostra che in generale non vi è adesso, che la sua rappresentazione toglie se stessa e che, se realmente valesse la proposizione : è soltanto ciò che è adesso, allora nel tempo nulla è. Il che, però, non significa altro che questo : la rappresentazione stessa del tempo non è  









































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  Cfr. più nel dettaglio, NRW2, pp. 52-55.



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compatibile con quella dell’essere realmente. Chiediamoci però soltanto : cos’è propriamente adesso ? Il giorno di oggi ? No. Perché per metà è già passato, e dunque non è più. E per metà è ancora futuro, e dunque non è ancora. O quest’ora ? Ma è esattamente la stessa cosa. O questo minuto, questo secondo, questo sessantesimo di secondo ? O un pezzetto incredibilmente piccolo di tempo ? Ma anche un trilionesimo di secondo è sempre già in parte passato e per l’intera altra parte ancora futuro. Quella non sarebbe più e questa non sarebbe ancora. Ora : il punto che è nel mezzo tra passato e futuro. Ma con ciò si rivela proprio l’impossibilità dell’intera rappresentazione. Un punto, infatti, di per sé non è parte della linea, ma ne è soltanto il limite. Se diciamo : solo un punto, ci esprimiamo in modo inesatto, intendendo propriamente o una parte della serie che è molto piccola per la nostra facoltà di intuizione, o, appunto, il limite tra due parti di una linea, che però non può esser parte della linea poiché altrimenti non la limiterebbe. Che, però, qualcosa è realmente, non lo contesta neanche uno scettico. La fede nella realtà assoluta è fondata senza alcuna possibilità di contraddizione nella ragione stessa. Su essa si infrange la rappresentazione del tempo. Essa si rivela come una forma limitata di apprensione dell’essere reale. 2. In secondo luogo, l’« antinomia della ragione » si mostra nel « semplice e composto ». Nella prima antinomia si trattava dell’infinitezza secondo l’esterno, verso il sempre più grande ; qui dell’infinitezza secondo l’interno, verso il sempre più piccolo, della « continuità » di spazio e tempo. α. L’intuizione ci mostra incontestabilmente che tutto ciò che è dato nel mondo è « composto », risolubile in parti, scomponibile, divisibile, e che un indivisibile non può mai esser rappresentato intuitivamente. Tutte le differenze di grandezza, infatti, sono soltanto relative. Quel che in questo mondo spazio-temporale è smisuratamente piccolo, che si tratti di un corpo esteso nello spazio o di un processo esteso nel tempo, di una particella microscopicamente piccola o di un milionesimo di secondo, consiste delle sue metà, terzi, millesimi, milionesimi, e queste di nuovo delle loro metà e miliardesimi e così via senza fine, proprio come le masse più grandi, gli spazi più ampi, i tempi più lunghi. Ciò significa, però, che nel mondo non può esserci mai e in nessun luogo qualcosa di semplice, ultimo, primo, che non sia composto e col quale ogni composizione, in generale, abbia inizio. β. Ma proprio questo è evidentemente impossibile e contrario alla ragione. Non può esser così. Chiunque vede che nulla, in questo modo, propriamente è. Il mondo sarebbe una composizione di composizioni di composizioni... e così via senza fine, senza che appaia un qualcosa che propriamente dia la materia per ogni possibile composizione. Ma un ente reale ci è dato. E poiché è realmente, il processo di composizione deve esser in lui concluso, completo. Vediamo che deve esserci un semplice poiché deve esserci un qualcosa nella composizione e perché, di nuovo, ogni regresso in infinitum contraddice la completezza sotto la quale soltanto è pensabile un ente reale. 3. α. Non può esserci alcuna causa libera nel mondo. Poiché la connessione causale ci è data come catena intuitiva di modificazioni che si succedono temporalmente, è allora chiaro che ogni causa libera è esclusa. Un « effetto » può esserci dato come modificazione nello stato precedente a partire da un certo punto temporale c. (Se non si modificasse qualcosa, allora tutto resterebbe com’era e non si produrrebbe alcun effetto.) La causa di questa modificazione effettuata in ciò che precede nel punto c deve deve esser stata una modificazione effettuata in qualcosa di precedente nel punto b. Se infatti in b  





































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non si modificasse nulla dello stato precedente, ma tutto restasse com’era, allora quella modificazione che interviene in c non avrebbe alcun fondamento per intervenire solo in c ma avrebbe dovuto già esistere. Così in una catena causale che, come il mondo, si presenta come catena di modificazioni che intervengono succedendosi temporalmente, è esclusa ogni causalità libera. β. Ma appunto questo è impensabile. Un simile mondo non può esserci, perché in esso non potrebbe in generale realizzarsi alcun accadimento. Debbono esserci cause libere, tali, cioè, che a partire da esse cominci in modo autonomo e indipendente una connessione causale. Senza di esse, infatti, non sarebbe pensabile il realizzarsi di alcuna singola azione, di alcun singolo evento che si attua realmente. Prendiamo un processo g. Forse non è « libero », ossia autonomo, ma è l’ultimo anello di una catena causale di più anelli. È effetto di f, questo di e, e così via regredendo per un po’. Ma alla fine deve arrivare un a, un vero e proprio inizio della serie. Questo, infatti, è chiaro : solo se tutte le cause di un processo hanno avuto luogo senza lacune e completamente, il processo stesso può realizzarsi. La totalità e la completezza contraddicono, anche qui, una fuga nell’infinito. Una tale fuga significherebbe soltanto aggiornare continuamente la datità della connessione causale, non « dare » questa stessa nella sua completezza. Manca il chiodo dal quale pende la catena. Ci può essere un mondo soltanto se in esso ci sono anche « cause libere ». 4. α. L’intuizione del nostro mondo ci insegna infallibilmente che tutto in esso è « condizionato » e che qualcosa di non condizionato, un essere necessario, non può esserci mai e da nessuna parte. Ogni processo, ogni rapporto, ogni posizione di una stella rispetto ad un’altra, di un oggetto rispetto ad un altro non ha il suo fondamento in se stesso, ma in un altro accadere, in un altro essere ed esser situato. Nell’intreccio infinito delle azioni reciproche, nella contemporaneità e nella connessione causale, nella successione è data la condizionatezza di tutto e di ogni cosa : e ciò si spande, senza fine, dappertutto, e senza fine risale all’indietro. β. Ma contro la conoscenza immediata torna, di nuovo, il fatto che un mondo reale siffatto non potrebbe essere. Tutto ciò che è ha la sua necessità, ha la sua ragion sufficiente per cui è piuttosto che non essere, e per cui è proprio così e non altrimenti. Questa conoscenza agisce ingenuamente già nel pensiero e nell’agire dell’uomo comune ed è il principio motore, il pensiero guida di ogni scienza della natura. Che nulla ci sia e accada « da sé », « per caso », in quanto « lusus naturae », e perché tutto sia e succeda proprio nel modo in cui è e succede, questo è il senso di tutto il nostro spiegare, indagare e creare leggi. Un mondo, però, che non fosse altro che una connessione di condizionatezze che procedono all’infinito rimarrebbe di per sé una colossale casualità. e Un mondo realmente essente è pensabile soltanto se c’è anche un essere necessario sul quale si fonda ultimamente tutto ciò che è dipendente. (Bisognerebbe pensare se un tale essere necessario sia intra- o extramondano, ma non è questo il luogo.) In pari tempo questa conoscenza esclude, a sua volta, da sé il regresso in infinitum.  































e   Propriamente, in tutto il suo lavoro di ricerca, la ragione cerca e intende, nel suo fondamento più profondo, questa necessità suprema e ultima di tutto e di ogni cosa in generale ; e soltanto attraverso ciò che ci è dato nel tempo e nello spazio viene guidata ad un flusso infinito della serie delle condizioni per cui essa, invece di scoprire il fondamento necessario e sufficiente, riesce a porre al posto del condizionato sempre e soltanto qualcosa di condizionato e a scoprire, quale surrogato inadeguato del fondamento necessario, soltanto l’incrollabile regola del decorso del processo (la legge sotto cui questo si trova).  

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b. Da tempo, nella storia della filosofia, queste contrapposizioni si erano scontrate. E poiché ognuna, dal suo punto di vista, è nel giusto, la ragione avrebbe dovuto dichiarare bancarotta se nell’intera disputa non si fosse insinuato inavvertitamente un errore. Kant scopre l’errore e scioglie così per sempre questo conflitto. Per di più la scoperta dell’errore è contemporaneamente la scoperta definitiva dell’idealismo trascendentale. f Del « mondo » si dice qualcosa di contrapposto in modo tale che ciò che vien detto sui due lati è incontrovertibile. Ma, a ben guardare, si mostra (nell’esposizione che Fries e Apelt hanno dato dell’antinomia, che è più chiara della presentazione kantiana) che « mondo » non è preso nello stesso senso nell’antitesi e nella tesi. L’antitesi (che abbiamo sempre premesso) parla del mondo così come esso ci è di fronte nell’intuizione spazio-temporale. La tesi parla del mondo e dell’essere così come esso deve esser pensato per sé, in modo necessario e incontrovertibile. Ora si mostra anche che ciò che di fatto è dato nell’intuizione contraddice ciò che dell’essenza delle cose conosciamo con sicurezza e incontrovertibilmente. Solo di qui si ottiene in modo incontrovertibile l’idea che il mondo, che si trova nello spazio e nel tempo, sotto il numero e il grado, interminabile e continuo, sotto leggi di natura e regresso interminabile, non corrisponde all’essenza del mondo in sé ; che quelle sue determinazioni sono una limitazione che può essere superata, a sua volta, per negazione ; che a quelle noi dobbiamo contrapporre predicati contrapposti per la vera essenza delle cose, predicati che tuttavia, in seguito al nostro esser vincolati a quella concezione limitata, non possiamo rappresentarci positivamente, ma solo pensare in « doppia negazione ». La « nebbia » che copriva il « paesaggio » non si squarcia, ma viene conosciuta come nebbia. Così il « fenomeno » delle cose per noi si oppone alla loro vera essenza : non nel senso che sia solo apparenza e che in esso non sia conosciuto propriamente nulla. Senza dubbio conosciamo : e non i nostri sogni, ma le cose e la realtà stessa, soltanto non in modo illimitato e perfetto così come sono in sé, ma in modo limitato. Se guardiamo a ciò che si è detto prima, è chiaro che tutta quella conoscenza che si esprimeva puramente per sé nelle categorie, ancora non « schematizzate » e « ristrette », resta totalmente ferma. Qui non c’è alcuna « antinomia », nessuna contrapposizione tra le categorie e ciò che vediamo delle cose stesse : le categorie, anzi, esprimono quel che vediamo delle cose stesse. Spazio e tempo, forma interminabile e continua della molteplicità delle cose, si fanno da parte. Resta soltanto l’idea di un loro analogo intelligibile, a partire dal quale è possibile dire che deve esserci una forma della molteplicità nella quale mancano interminabilità e continuità. Con ciò però viene a cadere quella « restrizione » delle categorie da parte dello schematismo temporale. Per l’essenza delle cose esse valgono « senza restrizione ». g  





















































f   I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 490-595 [tr. it., pp. 310-365]. L’antinomia della ragion pura, terza sezione : Dell’interesse della ragione in questo suo conflitto. Sesta sezione : L’idealismo trascendentale come chiave della soluzione della dialettica cosmologica. Nona sezione : soluzione caso per caso delle quattro antinomie. g   Come si presenti in sé l’unità nella molteplicità, che noi concepiamo come spazio e come serie temporale dell’accadere, non possiamo dirlo. Ma nell’ultima parte si mostrerà che di ciò non abbiamo un concetto, ma un presentimento. Nelle impressioni estetiche cogliamo fattualmente e giudichiamo forme dell’unità nel molteplice (le idee estetiche secondo Kant) il cui principio resta per noi inesprimibile e viene colto in sentimenti inanalizzabili. L’essere reale delle cose, che cogliamo concettualmente solo come fenomeno, diventa per noi qualcosa che può essere sentito nel modo in cui esso è realmente in sé. Che possa esserci una molteplicità, un’esteriorità e una diversità, del tutto a prescindere dall’esteriorità spaziale, è senz’altro chiaro. Il mondo dei suoni, una sinfonia, ne sono esempi semplici. Ma soprattutto il nostro intero mondo interiore psichico. Pensieri, sentimenti, non sono l’uno sopra, o davanti o sotto o dietro o dentro l’altro ;  







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capitolo quinto

c. L’esposizione drammatica dell’antinomia della ragione è ora, propriamente, soltanto un mezzo particolarmente drastico per renderci attenti e per portare alla coscienza ciò che risiede nascostamente in ogni ragione quale più profonda e immediata conoscenza fondamentale. L’abbiamo già sfiorata più volte. Anche senza la presentazione nell’antinomia si può giungere ad essa e accertarsene. Innanzitutto definiamo qui, ancora una volta, il fatto della fiducia della ragione nei confronti di se stessa di avere una conoscenza reale, ossia, in primo luogo e in modo del tutto universale, la fede nella realtà oggettiva dell’essere e dell’esistenza in generale. Questa fede non è passibile di dimostrazione. Poiché, infatti, la ragione non può mai uscire da sé, così essa non può comparare e stabilire dall’esterno se al suo conoscere corrisponda un essere in generale. Ma il senso chiaro e indubitabile del conoscere è questo. E questa pretesa, o meglio questa convinzione che il conoscere vada all’esistenza è immediatamente già là dall’inizio. (Se questo non fosse il caso, non si vedrebbe come sarebbe potuto venire anche soltanto il concetto di una validità oggettiva del nostro conoscere, di qualcosa che esiste a prescindere dalla nostra rappresentazione nella coscienza.) Ma non è che questa fede della ragione nell’oggettività della sua conoscenza si trovi « nella volontà » del singolo e dipenda da una decisione etica (per poter agire ; « primato della ragion pratica »). Questa fede è semplicemente un fatto in ogni ragione. E soltanto con un ragionamento artificioso ci si può ingannare a questo proposito. A ciò, però, si connette subito una seconda cosa. La conoscenza dell’unità e della necessità nell’essenza delle cose si scopre quale conoscenza più profonda, autentico mistero fondamentale e fondamentale essenza della ragione. L’attestazione di questa rappresentazione fondamentale della ragione è l’elemento più importante nella critica friesiana in generale. Fries esprime chiaramente ciò che era oscuramente divenuto la legge fondamentale dell’intera nuova scienza e il suo infallibile principio conduttore, ciò che è a fondamento di ogni ricerca di connessione, legge, spiegazione dei fenomeni. Innanzitutto l’unità. h Non è la rappresentazione grottesca che ogni molteplice nel  









le « dimensioni » di questo molteplice sono totalmente a-spaziali. Non possiamo rappresentarci qualcosa di corrispondente per il tempo, perché la nostra stessa vita interiore non è affatto nello spazio, ma appare nel tempo. Tuttavia il paradosso del tempo, e la sua inconciliabilità con la rappresentazione di ciò che realmente è, è quasi più evidente di quello dello spazio. Un sistema non temporale di molteplicità sotto leggi di unità e connessione si ha nella logica. L’esempio della logica può essere utile per richiamare innanzitutto in generale l’attenzione sul fatto che la molteplicità, il fondamento, il collegamento, la connessione non sono già la medesima cosa dei rapporti di relazione temporali. Tuttavia questo esempio non può essere utilizzato oltre (l’errore di Leibniz !). Le relazioni metafisiche infatti non sono logiche. Proprio la peculiarità dell’agire e dell’agire libero, che deve esser posto per l’essere delle cose in sé, esclude totalmente ogni vera e propria somiglianza con rapporti logici. h   In Wissenschaft und Hypothese ([La science et l’hypothèse, Paris 1902,] tr. ted. di [F. e L.] Lindemann, Leipzig 19062) H. Poincaré scrive a p. 147 : « L’unità della natura. Dobbiamo soprattutto prestare attenzione al fatto che ogni generalizzazione, fino ad un certo grado, presuppone la fede nell’unità e semplicità della natura. Riguardo all’unità è presente una difficoltà. Se le diverse parti dell’universo non si rapportassero tra loro come organi di un medesimo corpo, allora non potrebbero agire l’uno sull’altro. Non si conoscerebbero reciprocamente e noi, in particolare, conosceremmo soltanto uno di questi organi. Non abbiamo perciò bisogno di chiederci oltre se la natura sia unitaria, ma solo come si realizzi questa unità ». È certamente così e senza unità della natura la fisica non avrebbe alcun senso. È giustissimo anche che qui si tratti di una fede, solo che questa non è affatto capace di un grado (cfr. « fino ad un certo grado »), ma è data in modo del tutto concordante in ogni ragione come un fatto. Anche il fisico non la ha fino ad un certo grado, altrimenti il suo proprio lavoro avrebbe senso soltanto fino ad un certo grado. La domanda « come questa unità si realizzi » non è più una domanda della fisica.  



















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mondo è propriamente soltanto una cosa (il modo contraddittorio di rappresentazione del « monismo », che è soltanto un’espressione rozza e confusa del reale pensiero fondamentale della ragione) ; ma che tutto in generale costituisca un’unità sintetica, ossia un tutto nella connessione continua dei suoi elementi, un mondo unitario dell’essere e dell’accadere. Non un ammasso di fenomeni disparati e privi di connessione, di cui non sarebbe possibile l’esperienza, né l’osservazione, che perciò sarebbe cieco e senza senso, una « mera rapsodia di percezioni », ma la connessione di un collegamento unitario e continuo. Ciò che fonda questa connessione sono le categorie, in particolare quelle propriamente « metafisiche » della sostanza, causalità e azione reciproca. Esse non sono altro che le « dimensioni », i diversi modi della rappresentazione fondamentale, da parte della ragione, dell’unità sintetica continua dello stesso essere. « Sostanza » è legge e forma dell’unità degli accidenti. Causalità e dipendenza è il rapporto dell’unità e connessione delle cose tra loro. Comunanza per azione reciproca è che ogni e ciascuna cosa in generale sia collegata nell’unità di un tutto del mondo. In secondo luogo la necessità. È la stessa cosa vista da altro lato. Invece dell’espressione doppia « unità e necessità » va altrettanto bene « unità necessaria ». Solo nello stato ingenuo, in cui la ragione non è ancora divenuta pienamente consapevole, ci si può ingannare circa questo suo pensiero fondamentale e si può parlare di « caso » e « casuale ». Nel maturare e nel destarsi dell’impulso scientifico viene subito in chiaro nella coscienza la conoscenza del fatto che ogni caso significa soltanto visione difettosa da parte nostra, che nell’essenza delle cose esso non può aver luogo, che tutto ciò che è ha la sua necessità e si fonda su ciò che è necessario. Quel che nello spazio e tempo è dato alla nostra sensibilità, dispiegandosi qui separatamente nelle serie infinite delle cose e nella catena altrettanto infinita della successione temporale delle modificazioni, non è altro che un coglimento intuitivo proprio di questa unità sintetica e necessaria nell’essenza delle cose. È il senso delle stesse intuizioni spazio-temporali quello di essere un coglimento dell’unità necessaria. E in quanto operano ciò, non indicano in generale soltanto un’apparenza, ma offrono un che di oggettivo, solo in limitatezza, per una apprensione limitata. Tali intuizioni vengono infatti superate proprio da ciò che vogliono riprodurre : dal pensiero dell’unità necessaria realmente attuata. Da quest’ultima, pensata in collegamento con la fede nella realtà delle cose, si ottiene immediatamente come legge suprema per l’essenza delle cose « il principo della completezza » (come si è già mostrato nelle seconde proposizioni dell’antinomia), che esclude da tutti i possibili punti di vista il « regresso infinito ». Ciò che realmente è può essere pensato solamente nella totalità completa di tutto ciò che è (solo un’altra espressione dell’unità sintetica necessaria) : non, perciò, nell’esser « sempre ancora uno di più » della serie numerica infinita e non, in generale, sotto la legge del numero, della numerabilità, della matematica. Può esser pensato solo nella totalità completa della composizione, in quanto consiste di elementi ultimamente semplici, nella totalità completa delle sue cause, in quanto include cause libere, e nella totalità completa delle condizioni, mediante la sua conclusione nel necessario.  





















































Capitolo sesto LE IDEE SPECULATIVE 1. Essere assoluto : completezza, il semplice e il reale assoluto, eternità, incondizionatezza. – 2. Anima. – 3. Libertà. – 4. Divinità.  

1.

C

on la conoscenza fondamentale immediata (in sé oscura e nascosta in profondità) dell’unità sintetica necessaria nell’essenza delle cose da parte della ragione abbiamo trovato il fondamento positivo delle « idee » della ragione. In queste si esprime in modo chiaro e distinto, e con coscienza, soltanto ciò che è disposto oscuramente nella conoscenza immediata. Come, però, le idee debbano presentarsi di fronte alla coscienza, Fries lo mostra molto chiaramente. Nelle idee deve estrinsecarsi quella visione del mondo che, in contrapposizione a quella spazio-temporale, che è inadeguata, esprime l’essenza delle cose non quale appare di fronte all’intuizione sensibile nello spazio e nel tempo, ma quale è pensata dalla ragione puramente per se stessa, ossia secondo i « principi della completezza ». Ora, la nostra conoscenza dell’essenza delle cose si estrinsecava nelle categorie e la nostra intuizione sensibile del mondo si configurava in base ad esse, in quanto le categorie erano schematizzate da spazio e tempo. La nostra intuizione puramente razionale del mondo, dunque, si otterrà se invece applichiamo alle categorie lo « schematismo ideale », ossia se le pensiamo senza restrizione e secondo il principio della completezza. Si ottiene così con chiarezza, per le categorie della quantità, ciò che nel sentimento della verità religiosa agiva da tempo oscuramente e aveva portato a rappresentazioni figurative e a modi di espressione di vario genere ; ciò che aleggiava anche in tutte le filosofie, spingendo a speculazioni dogmatiche : l’idea dell’essere assoluto in generale (ossia dell’essere completo, absolutum = concluso, compiuto). L’idea del semplice e della realtà assoluta, per le categorie della qualità. Per le categorie della modalità, l’idea dell’« eternità », che è l’idea del superamento dell’esistenza spaziotemporale e dell’esistenza infinitamente « condizionata » nell’incondizionato, ossia nella necessità assoluta nel fondamento di ogni ente in generale. (« Incondizionatezza » accanto a « completezza » : il secondo momento dell’essere « assoluto ».) Di nuovo un’idea che si è fatta valere sempre più con forza immediata in particolare nella religione, nel sentimento e nel presentimento, e che ha catturato l’animo con il suo misterioso incanto. Viva nel sentimento immediato, ha influito sulle poesie, mitologie ed escatologie che commuovono nel modo più profondo e potente. Da tale idea deriva quella forza di commozione che risiede, per chiunque giudichi in modo imparziale, anche nelle più primitive rappresentazioni della « fine di tutte le cose », del « cielo » e dell’ultimo giorno, del crepuscolo degli dèi e delle « cose ultime » : queste rappresentazioni, infatti, sono tutte l’effetto sensibile-temporale e il travestimento di quell’« idea ». Col sentimento ci accorgiamo della sua verità, che è nascosta e di cui lo « spirito nel proprio cuore » dà testimonianza immediata. 2. Per noi, però, le categorie più importanti diventano quelle « autenticamente metafisiche » del terzo momento, la relazione, ossia sostanza e accidenti, causa ed effet 































































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capitolo sesto

to, comunanza per azione reciproca. Cosa sono queste categorie « pensate in modo completo », sotto lo schematismo della completezza ? L’ente ci appare in una peculiare doppiezza che è impossibile arrotondare ad unità, nonostante ogni « monismo » : da una parte come « esistenza materiale », ossia in predicati puramente spazio-temporali (estensione, movimento, modificazione di movimento e situazione) e secondo rapporti puramente quantitativi ; e questa è la concezione attraverso cui soltanto il « sapere » si conclude. D’altra parte ci appare del tutto diversamente nel modo determinato qualitativamente : nelle qualità esterne, quelle del colore, del suono, dell’odore, del peso, del calore, della durezza, della dolcezza, e così via, e nelle qualità interne come piacere, dispiacere, sentire, rappresentare, volere, appetire, collera, odio, amore. Sotto lo « schematismo temporale » si poteva trovare un appoggio sicuro per la categoria della sostanza solo nella concezione quantitativa, solo nel mondo materiale, perché lo « schema temporale » di questo, ossia il criterio della sua applicabilità, era qui la « durata nel tempo », la « permanenza » ; e questo criterio si mostrava solo nell’elemento materiale e non in quello « qualitativo ». Di qui la difficoltà, che sempre sussiste e sempre è sussistita, di trovare una fondazione sicura per ciò che è propriamente e solamente vivente : la necessità, che chiunque sente come colossale paradosso, di dover valutare meno, da questo punto di vista, il vivente rispetto a ciò che è morto. Questo rapporto si capovolge totalmente sotto lo « schematismo ideale ». Poiché « spazio e tempo » cadono in quanto inadeguati, e poiché la « materia » viene conosciuta in modo del tutto esclusivo in predicati spazio-temporali (ciò che è mobile nello spazio), essa ora perde ogni validità per la conoscenza superiore. Di essa non ci resta da pensare nient’altro che il pensiero vuoto del « qualcosa in generale ». Del tutto diverso con la conoscenza qualitativa. Qui si toglie soltanto la forma temporale della stessa, ma non il contenuto qualitativo che non ha nulla in comune con « spazio » e « tempo » e resta fermo. E, in forza della fede della nostra ragione nella realtà in generale, proprio in esso viene riconosciuto l’ente. La categoria della sostanza, però, trova qui la possibilità della sua applicabilità : nella conoscenza dello spirituale, in quell’unità e semplicità dell’« appercezione pura » che abbiamo già visto sopra, nella coscienza di Io dello spirito. Qui è dato realmente qualcosa di « semplice », che non ha nulla in comune con l’« estensione » e dunque con la « divisibilità » : e a questo la categoria della sostanza si sottopone da sé. Soltanto nello spirito unitario ( = personale) con le sue « qualità interne » diveniamo consapevoli di ciò che le sostanze sono. In analogia con esso interpretiamo l’ente come un mondo dell’essenza e della vita spirituale, delle sostanze spirituali in genere, dove però questa conoscenza analogica, quanto più i suoi anelli si stringono attorno ai gradi più profondi dell’ente, tanto più diviene oscura e inadeguata. Questa idea agisce oscuramente in tutte le credenze sull’anima, dalle più rozze fino ai gradi più elevati. Essa è il fondamento ultimo del fatto che tale fede è inestirpabile e irrinunciabile. Si ripropone sempre di nuovo contro ogni naturalismo. La dottrina dell’« immortalità » ne è un travestimento. Tale dottrina ha il suo buon diritto e la sua verità nella conoscenza dello spirito come sostanza eterna, superiore ad ogni tempo, « incorruttibile », e fallisce soltanto, come fallivano le escatologie sotto l’idea dell’eternità, per il fatto che l’eterno viene scambiato con l’ombra che proietta sul nostro conoscere : con la rappresentazione di una durata eterna nel tempo, che però di per sé è nulla. a Proprio l’individualità, la personalità e l’eternità dello spirito nella personalità  









































































































a

  La religione dice che quando qualcuno muore è « richiamato dalla temporalità », è « eternizzato » ; e,  









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è il vero e proprio pensiero fondamentale della ragione. Il presunto rifluire in un universale spirito del tutto e del mondo, in un « io » sovrapersonale e sovraindividuale, e rappresentazioni simili non sono quelle « superiori » e illuminate di un uomo che si è elevato al di sopra dell’opinione volgare e ingenua, ma sono forme non chiarite e confuse della rappresentazione razionale fondamentale. L’aspetto « volgare » e « ingenuo » consiste esclusivamente nella confusione tra l’« eternità » e la « durata eterna », nella mescolanza tra il momento ideale e quello sensibile-intuitivo. (E questo è conservato dalla dottrina dello « spirito del tutto », perché la dissoluzione in esso è uno stato di aggregazione spirituale che deve dissolvere temporalmente lo stato di aggregazione della coscienza individuale.) Proprio l’« appercezione pura », la coscienza di Io, è ciò grazie a cui la categoria della sostanza si sottopone con sicurezza allo spirituale in contrapposizione al materiale. 3. La seconda categoria della relazione è la causa e l’effetto, causalità e dipendenza, ossia l’agire, l’operare della sostanza e la forma di questo. Sotto lo schematismo ideale, come abbiamo visto, si toglie la restrizione della causalità alla successione temporale naturale. E al suo posto compare l’idea della libertà, di un operare che non è a sua volta effetto di un’altra causalità. Poiché ci si fa chiaro cos’è la sostanza soltanto per mezzo dell’idea dell’anima con le sue qualità interne, la causalità in genere, sotto lo schematismo ideale, diviene causalità spirituale nella forma della volontà. E poiché siamo condotti dalla causalità sotto leggi di natura all’idea della causalità libera, la categoria della causalità diviene idea della volontà libera delle sostanze spirituali, in analogia con la quale devo pensare ogni causalità nella vera essenza delle cose in generale ; analogia che, anche qui, più si procede verso il basso e più diviene indeterminata. 4. Il più profondo pensiero fondamentale della ragione, il suo mistero più immediato, è quello che si esprime prima della riflessione nell’idea della divinità. È difficile rintracciarlo : « To;n me;n ou\n poihth;n kai; patevra tou`de tou` panto;ı euJrei`n te e[rgon, kai; euJrovnta eijı pavntaı ajduvnaton levgein » (Platone, Timeo 5 1). Ma nel sentimento della verità è stato in ogni tempo tanto più vivo e se ne può scoprire e seguire l’effetto fin nei miti dei « più primitivi » ; l’occhio esercitato riconosce questo effetto già e ancora nelle configurazioni spesso rozzissime e grottesche della mitologia, come anche del pensiero più iniziale. Qui diviene possibile indicare la sorgente profondamente nascosta del pensiero supremo, anzi della suprema conoscenza dello spirito umano : all’idea della divinità conduce la terza categoria metafisica (la più ricca quanto a contenuto)  















































con un corretto sentire, contrappone l’essere eterno ad un « essere per tutto il tempo ». Se l’« immortalità » pertenga all’anima nel senso del perdurare nel tempo dopo la separazione dal corpo, è una questione a sé. Non deve essere scambiata con la questione dell’eternità della nostra vera essenza, che è l’unica che conta per la religione. Si deve concedere che questa non è esclusa da quella. « Essere eternamente » e « durare nel tempo » non si escludono. Noi viventi, infatti, facciamo entrambe le cose. Ma il pensiero elevato della religione, o in ogni caso della nostra religione, mira senz’altro al primo. E interessarsi al secondo è spiritismo, che non è metafisica, tantomeno religione, ma fisica. Se buona o cattiva, se lo può chiedere chi si sente attratto da tali oggetti. I fantasmi non possono esser colpiti da scomuniche metafisiche. Se anche si potesse attestar loro con fondamenti a priori che nel nostro mondo dell’intuizione sensibile non possono presentarsi spiriti senza materia, questi risponderebbero che ne hanno una, solo che è molto sottile. Fries : « La fede ha luogo soltanto se è fede nell’eternità della nostra esistenza. Permanenza dopo la morte o mortalità dello spirito è al contrario un tema della fisica interiore, a proposito del quale dobbiamo sapere o decidere secondo probabilità » [Kritik, ii, p. 232].  





















1   Tim. 28 c : « È difficile trovare il fattore e il padre di questo universo ; e, trovatolo, è impossibile renderlo manifesto a tutti ».  







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capitolo sesto

sotto lo schematismo ideale : la categoria della comunanza di ogni ente in generale in quanto pensato come « completamente » valido. Qui suona molto astratto, ma forse si può chiarire velocemente. Che tutto ciò che è casuale si fondi sul necessario è, come già esposto in occasione dell’antinomia, il pensiero fondamentale della stessa ragione, il quale sostiene anche la scienza in quanto pensiero guida (per lo più non riconosciuto e applicato in modo ingenuamente ovvio). È senz’altro una conoscenza a priori, perché senza di esso non vi potrebbe essere in noi il concetto di necessario (e con ciò quello di « legge »), che però abbiamo tutti. Dall’« esperienza », infatti, non può essere ottenuto, anzi è questo che rende l’esperienza possibile. Abbiamo già visto anche che esclude da sé il nesso infinito delle condizioni, le quali per un verso presuppongono un incondizionato e, per altro verso, debbono essere date in modo « completo », se anche solo un condizionato deve potersi realizzare. Quest’idea è inconfutabile. Ma da sola non conduce all’idea della divinità, a qualcosa di necessario al di là e al di sopra del mondo. Perché il necessario non dovrebbe trovarsi nello stesso ente ? Il principio universale : « Tutto deve avere un fondamento » non è corretto se deve significare : « un fondamento al di fuori di se stesso » (perché allora anche Dio dovrebbe avere un fondamento al di fuori di se stesso, e questo a sua volta un altro e così via all’infinito). Anzi il concetto del necessario implica di per sé un essere che abbia il suo fondamento in se stesso. Tuttavia deve esserci un fondamento perché sia qualcosa e non piuttosto nulla, e perché sia così e non altrimenti. Ma questo fondamento potrebbe trovarsi anche nell’ente ed esserci sconosciuto. Veniamo guidati in modo totalmente diverso, se tentiamo di renderci chiaro come pensiamo di fatto e come soltanto possiamo pensare la « categoria della comunanza » di ogni ente in generale in quanto in sé valida. Con « comunanza » intendiamo il fatto che tutto ciò che è costituisce l’unico tutto del mondo in connessione e riferimento reciproci : un fatto che, p. e., è l’ovvia base e il presupposto dell’astronomia b e che, non raggiungibile nell’esperienza, viene conosciuto puramente a priori. Ma cos’è questa comunanza ? Come può essere ? Cos’è il « vincolo » del mondo, come lo chiamava Schelling ? Ammesso che ogni singola cosa nel mondo, diciamo ogni luna, pianeta, sole, stella fissa, sia per se stessa « causa sui », che cioè porti eternamente in se stessa la propria necessità, che abbia in se stessa il fondamento del perché è ed è proprio così, non si sarebbe con ciò spiegato nulla dell’esistenza di un « mondo », di un tutto continuamente unitario in cui tutto è connesso nella più stretta unità dell’uno-con-l’altro e dell’unoattraverso-l’altro. Il mondo non è affatto una somma di molti elementi singolari l’uno accanto all’altro, ma un tutto organico di parti, è una « comunanza mediante azione reciproca ». Perché sia un mondo, perché sia tale e quale sia, non può risedere nei singoli elementi che esso comprende in sé. Il fondamento di ciò può esser pensato soltanto come posto in un essere necessario che è diverso da tutto ciò che è nel mondo, che è causa di ogni ente in generale e dunque anche causa della comunanza di tutto in generale. La categoria della comunanza può esser pensata compiutamente solo come effetto di una causa unitaria, essenziale, necessaria, extramondana del tutto. Si può pensare la stessa cosa anche così : cosa significa spiegare un processo o un dato stato nel mondo, per esempio quello attuale ? Nient’altro che ricercare e mostrare perché debba aver  



































































b

  È perché aveva questa conoscenza a priori che Leverrier poté conoscere a priori l’esistenza di Nettuno e confermarla a posteriori grazie al cannocchiale.

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luogo necessariamente proprio questo, proprio così, proprio ora e proprio qui ; significa dunque riconoscerne la necessità. Riconosco quest’ultima quando conosco la legge dell’azione reciproca, sotto la quale si trova tutto ciò che è contemporaneo, e quando conosco le leggi secondo cui da stati precedenti deve seguire proprio questo. Oltre a ciò non posso afferrare alcuna spiegazione scientifica. Ora, però, questa spiegazione è incompleta da un duplice punto di vista e non raggiunge la necessità che propriamente cerchiamo. Ammesso, infatti, che io conosca tutte le leggi di tutti i possibili accadimenti nel mondo, sarei in possesso della famosa formula universale di cui parlavano Laplace e Du Bois-Reymond e potrei calcolare ogni evento nel mondo, procedendo all’infinito in avanti e all’indietro, se soltanto ne fosse data una certa sezione in un certo momento ; proprio come in astronomia è possibile determinare tutte le posizioni del mondo astronomico per migliaia di anni in avanti e all’indietro, purché sia data una certa epoca. In realtà solo il decorso delle modificazioni è conosciuto secondo la legge come « necessario », ma non il fatto che in generale ci sia qualcosa che obbedisce a quella legge, né che ci sia proprio questa cosa, né, infine, che ci sia questo determinato e peculiare raggruppamento e composizione del molteplice. L’esistenza delle cose in generale e la loro composizione è, di contro alla legge, assolutamente « casuale » e necessita del suo fondamento sufficiente. Leibniz lo esamina in questo modo : c poniamo che il mondo sia infinito anche a parte ante e che in esso si trovino oggi, o in un qualche momento, dei libri, per esempio l’Iliade, che si spiegherebbero col fatto che sono stati copiati da libri precedenti, che sono stati copiati da libri precedenti, che sono stati copiati... ∞. In tal caso non è spiegato che in generale nel mondo vi siano libri e che vi sia proprio l’Iliade. Per questo ci vuole ancora un Omero come fondamento sufficiente della serie delle condizioni in generale, anche se pensiamo quest’ultima come infinita e poniamo che il singolo libro contingente sia sempre sorto, come copia, da uno precedente. Così per la composizione del mondo e per il fatto che in generale ve ne sia uno e che sia tale, ci vuole una causa unitaria. Che questa molteplicità composta si intrecci nel modo in cui si intreccia non ce lo spiega la legge dell’azione reciproca. La legge è soltanto la regola di un accadimento, ma di per sé non è la causa efficiente. La legge consiste soltanto nella rappresentazione di un essere pensante, ma di per sé è assolutamente priva di essere. Un ente, e l’unità dell’ente molteplice, può fondarsi soltanto su un essere autonomo ed efficiente. Il mondo quale comunanza di sostanze può fondarsi soltanto su una causa essenziale e necessaria di tutte le sostanze e delle loro capacità in generale. Con ciò si rivela contemporaneamente che ogni panteismo, che equipari il mondo stesso alla divinità, è un’espressione poco chiara e confusa dell’autentica conoscenza fondamentale della ragione. Volendo pensare il mondo anche come « Dio », il panteismo vuole soddisfare questa conoscenza fondamentale, in quanto vuole spingersi, al di là della contingenza della sua composizione, all’assolutezza e alla necessità che in effetti la ragione esige. Ma equiparando mondo e Dio rende erroneamente, come Schelling, il « vincolo », ossia la legge della comunanza, qualcosa di efficiente : lo rende una realtà che è contro la ragione. Schelling segue quel falso realismo dell’antichità che vedeva nel generale, nelle idee, nei logoi, ossia nelle leggi dell’accadere e dello sviluppo, capacità di azione, di contro alla conoscenza per cui soltanto qualcosa di realmente essente, soltanto un essere può agire, porre, determinare. È proprio la ragione che esige cau 

















c







  Leibniz, Über den letzten Ursprung der Dinge [De rerum originatione radicali, 1697], Kleinere philosophische Schriften, Reclam, cit., p. 217, xx.

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capitolo sesto

se assolutamente « trascendenti », che hanno un essere oltremondano. Soltanto come effetto di queste la categoria di « comunanza » può essere pensata in modo realmente completo. d (L’errore di Spinoza, d’altra parte, consisteva nel credere di arrivare dalla categoria della sostanza all’idea della divinità. La categoria della sostanza, però, non porta all’idea della divinità, ma, come abbiamo visto, all’idea dell’« anima ».)  











d   Fries : « Secondo l’opinione corrente nel popolo, la divinità viene pensata come causa suprema del mondo e come sacro fondamento del supremo ordine delle cose, e nessuna speculazione potrà apportare altra correzione a questo modo di rappresentazione, se non quella di rendere più chiara questa idea per mezzo della differenza del fenomeno e dell’essere eterno delle cose. Per raffinarla i filosofi cercano di elevarsi al di sopra di questa idea, ma ne sono sempre rimasti al di sotto ». « Se vogliamo unificare positivamente ogni essere nella sostanza unitaria della divinità, allora non vi è nulla oltre la divinità, tutto è uno. Ma allora la coordinazione del finito e dell’eterno resterebbe totalmente impensabile. Non solo non possiamo dare al fenomeno alcuna realtà in relazione all’eterno, ma essa non sarebbe possibile nemmeno come apparenza. Poiché, infatti, qui ogni essere è soltanto l’uno e il sommo, allora non vi è nulla al quale potrebbe soltanto apparire. Allora è possibile soltanto un in sé, ma non l’immagine cangiante del fenomeno » (Kritik, II, p. 284 e 286).  









Capitolo settimo LA RIVITALIZZAZIONE PRATICA DELLE IDEE 1. Schematismo pratico delle idee. – 2. Presentimento, mistero nella natura e nella vita dello spirito. – 3. Indimostrabilità. Deduzione. « Dimostrazioni dell’esistenza di Dio ». Errori di Kant nella dottrina delle idee. – 4. Vita immediata della convinzione religiosa nel sentimento della verità. – 5. Sapere e fede. – 6. L’eterno è inaccessibile ad una conoscenza concettuale positiva. – 7. Ma è esperibile positivamente nel sentimento. – 8. Filosofia della religione e scienza della religione.  



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a convinzione che si fonda su una conoscenza immediata della ragione, e che si esprime in tali idee, di per sé non è affatto religione, ma fredda e formale metafisica ; mentre la religione, in contrapposizione alla metafisica, ha la sua vita nell’animo e nella volontà. Per poterla avere, però, essa necessita di rappresentazioni salde e fondate, che sono metafisiche in senso eminente in tutte le religioni. Non può darsi affatto una religione senza metafisica, se per Dio si deve intendere realmente Dio, e per eternità qualcosa che è realmente reale. Tutte le religioni si creano anche una metafisica primitiva che per lo più nasce in modo tale che l’espressione puramente ideale della conoscenza fondamentale si mescola con immagini temporali e dell’aldiquà. In sé e per sé, dunque, le idee sono fredde e vuote ; e resterebbero tali, e mai condurrebbero alla religione, se non ricevessero il loro grande e autentico contenuto rivitalizzante, che agisce sull’animo e sulla volontà, da un versante totalmente altro : dal versante pratico dello spirito razionale. « Spirito » diviene un concetto realmente pieno di contenuto solo se nel « pratico » la sua vita si rivela con tutti i suoi grandi e ricchi contenuti. a Solo così diviene evidente perché il regno invisibile ed eterno dello spirito può essere il « sommo bene », la meta dell’anelito e del desiderio del presentimento. Da fredda e indifferente « causa essenziale e necessaria di tutto in generale » diviene creatore vivente, personale, onnipotente e padre degli spiriti, signore del regno eterno e datore del sommo bene, bontà eterna, santa (heilig), onnisciente. Le rappresentazioni in sé fredde e formali di « libertà » ricevono nell’ambito pratico i contenuti più profondi che la religione poté raggiungere : le idee di bene, male, responsabilità, possibilità e fattualità del peccato come colpa, le profonde e significative valutazioni dell’esistenza come colpevole, il grande giudizio fondamentale della religione sull’intera « temporalità » quale forma d’esistenza insufficiente, che contraddice la nostra propria interiorità, e il suo anelito all’essere presso Dio al di là di questo mondo, alla purificazione e alla santificazione. Con tutto ciò soltanto la religione diviene comprensibile come la forza più potente che la storia abbia visto, ciò che muove, commuove, trasforma gli uomini nel modo più profondo. E il mondo delle idee diviene autentica patria dell’anima. 2. E ancora : la presa di conoscenza dell’elemento pratico nel nostro spirito ci rivela  

































a   « La parola morta della nostra idea speculativa è dunque unicamente che pensiamo la divinità come causa somma nell’essere eterno delle cose, attraverso cui l’ordine superiore delle cose sussiste. Questa idea riceve vita e calore solo dall’intimo del nostro essere agente. Nella speculazione questa idea è l’ultima che possiamo esprimere, ma per la fede vivente è l’idea intima e prima nel nostro essere, in quanto fede nella realtà del sommo bene dal quale ogni vita ideale procede e al quale ritorna, dopo che, nel gioco vivente della bellezza, si è estesa sulla natura e sulla vita singolarizzata nella storia dell’umanità » (Kritik, II, p. 291).  



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un’altra rivitalizzazione dell’idea. Non soltanto possiamo contrapporre, nella convinzione della fede, il mondo delle idee, in quanto vero, a quello dei fenomeni ; ma possiamo anche coglierlo, nell’esperienza, come qualcosa di reale che colma di felicità. Prese in modo puramente astratto le idee sono « forme somme dell’unità » nell’essenza delle cose. Nel sentimento estetico abbiamo però la facoltà di riferire la molteplicità fenomenica alle forme somme dell’unità, di subordinare quella a queste. Proprio in ciò consiste la peculiarità del giudizio estetico, come mostra già Kant nella Kritik der Urteilskraft. Questa subordinazione non accade grazie alla mediazione di un concetto chiaro, ma esclusivamente in un sentimento che non può essere sciolto concettualmente (i « concetti inanalizzabili » secondo Kant). b 1 Il nostro linguaggio definisce « presentire » un coglimento simile, che non è esprimbile concettualmente e si attua soltanto nel sentimento. Che tale coglimento dell’idea per presentimento possa esercitare su noi questa impressione potente, che si estende attraverso tutti i gradi del vissuto, deriva appunto dal fatto che l’« idea », nell’oscura interiorità del nostro spirito, si è sempre già « schematizzata », si è rivitalizzata con i grandi contenuti « pratici » di cui si parlava. Nei vissuti del bello e del sublime presentiamo oscuramente anche nella vita della natura il mondo vero ed eterno dello spirito e della libertà, il mondo del sommo bene e la potenza e la saggezza della bontà eterna. È anamnesis platonica dell’idea nel senso più vero, e mediante la quale soltanto è comprensibile la profondità ineffabile, il grande incanto e la magia del mistero che avvolge questa esperienza vissuta. Solo così è comprensibile il fatto che talvolta, in questa esperienza, l’anima esce quasi dai propri limiti e dalle sue labbra pende la parola che svelerebbe l’enigma di tutto l’essere. Qui è in gioco il « mistero nella religione ». Di per sé la religione è esperienza vissuta del mistero assoluto : non di un mistero che sarebbe tale solo per i non iniziati e che sarebbe risolto per i gradi superiori ; ma mistero, che può esser sentito, di tutta l’esistenza temporale in generale, un trasparire della realtà eterna attraverso il velo della temporalità per un animo dischiuso a ciò. Qui è la verità, che è a fondamento di ogni slancio « mistico » e di ogni gioco della fantasia, e il luogo del mistico stesso in ogni religione. In ciò si deve prestare attenzione a come l’estetico, il bello e il sublime, sia compreso in Kant e soprattutto in Fries. È facile che limitiamo questi concetti a bellezza e sublimità della natura. Propriamente, però, questi sono solo i gradi inferiori su cui poggia ciò che è bello e sublime spiritualmente. Così lo spirito umano, la personalità, il carattere e la storia, in cui tutto ciò si dispiega, diviene il teatro ancor più importante del « presentimento » dell’eterno e delle sue rivelazioni. (Per offrire una presentazione esaustiva della filosofia della religione di Fries sarà necessario esporre anche la sua filosofia pratica e lo « schematismo pratico » delle idee, che con quella si fa chiaro.) 3. Nelle idee rappresentate in modo chiaro e distinto diveniamo coscienti, riflettendo, con una conoscenza mediata, di ciò che risiede oscuramente, quale conoscenza immediata, nel fondamento dello spirito razionale. Come tale, la conoscenza ideale erompe di quando in quando, singolarmente o come tutto, in modo completo o in 













































b   Cfr. la citazione dalla Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels di Kant in NRW2, p. 57 e, su tutto, cfr. ivi, pp. 56-58. 1   Per l’esattezza l’espressione utilizzata da Kant è « unausgewickelt » (e non « unauswickelbar » come riportato qui da Otto) ; cfr. I. Kant, Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, Akademie Ausgabe, i, p. 367. Cfr. anche DH, infra, p. 288.  









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completo, nei diversi gradi dello sviluppo dello spirito umano : innanzitutto inconsapevole delle sue proprie sorgenti, come un dono dall’alto, emergendo vittoriosa per forza propria, senza alcuna « dimostrazione ». Le dimostrazioni non hanno mai un ruolo nelle epoche vive e creative della religione, ma arrivano sempre dopo : e si trascura il fatto che là dove compaiono, la religione c’era sempre già da lungo tempo, viva prima di ogni dimostrazione ; che dunque essa deve avere sorgenti proprie e totalmente diverse, e che solo in queste ultime possono risiedere anche i fondamenti supremi della sua validità. Se si desta la domanda circa la validità della convinzione religiosa, allora c’è qui soltanto un metodo : quello dell’autoaccertamento della coscienza religiosa, ossia, appunto, la ricerca delle sue sorgenti, della conoscenza immediata e della sua affidabilità. Questo metodo è quello della « deduzione ». È l’attestazione critica del fatto che le idee si fondano realmente sulla ragione ; l’attestazione di come vi si fondino e di quali siano tali idee. Ha la forma di una dimostrazione, ma in effetti è soltanto un esame e una riflessione introspettiva (Selbstbesinnung). Non vi è alcuna dimostrazione possibile della tridimensionalità dello spazio, ma soltanto l’attestazione del fatto che ogni essere umano razionale lo conosce di fatto così ; né vi è una dimostrazione della validità della legge di causalità, ma soltanto l’esibizione del fatto che la conosciamo nella nostra ragione e la deduzione (« antropologica ») del modo in cui è « possibile », ossia a partire da quali facoltà dello spirito e da quale rapporto tra le medesime essa ha luogo per la nostra ragione ; né c’è una dimostrazione del « semplice » o dell’« esistenza di Dio », ma la riflessione introspettiva su come la ragione conosca di fatto la « comunanza » delle cose non mediante una legge inessenziale, ma soltanto come effetto di una causa unitaria ed essenziale. Ogni dimostrazione è analitica. Può far emergere soltanto ciò che già era nelle premesse. La rappresentazione fondamentale di ciò che è unitario e necessario da parte della ragione, però, non può essere ottenuta analiticamente da alcuna premessa d’esperienza, ma si aggiunge in modo puramente sintetico a partire dal patrimonio proprio della ragione. Nella considerazione deduttiva la conoscenza fondamentale non viene ottenuta, ma soltanto necessitata a farsi notare e a farsi cosciente. Per questo ha ragione Kant con la sua critica alle dimostrazioni dell’esistenza di Dio. La dimostrazione ontologica non « dimostra » proprio nulla, poiché, presa come dimostrazione, fallisce sul fatto che l’« esistenza » di una cosa non può esser « estratta » dal suo possibile concetto. L’errore di quella cosmologica è nel fatto che, poiché dal contingente non può mai esser ottenuto analiticamente qualcosa di necessario, essa deve tornare a quella ontologica ; e quella fisico-teologica deve tornare alle prime due. Ma già ad un’attenta lettura della stessa critica kantiana colpisce immediatamente che il materiale del ragionamento, che si cela sotto la falsa forma della « dimostrazione », esercita sullo stesso Kant la più grande impressione : e così deve essere per chiunque, poiché in tale materiale si presentano considerazioni che debbono necessariamente mostrarsi così, sul fondamento della stessa ragione. È realmente vero che nella considerazione della contingenza infinita dell’esistenza si rende avvertibile la conoscenza fondamentale del fatto che l’esistenza del mondo e l’accadere si fondano sulla necessità. E così anche negli sforzi ontologici vi è un senso buono : quello per cui l’idea somma non è apposta all’uomo dall’esterno, ma è fondata nell’intimo della ragione, e la sua validità oggettiva è data immediatamente con la fiducia della ragione in se stessa. c Questo elemento po 































































c   Fries : « In fondo nessuno dei fisico-teologi sostiene davvero una tale dottrina rigorosamente scientifica dei fini naturali [...] ci si è sbagliati soltanto nella esposizione dialettica [...] questa considerazione si con 



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sitivo nella critica kantiana delle dimostrazioni viene per lo più completamente trascurato : e a torto. Anche la conoscenza del fatto che nella riflessione proprio la categoria della comunanza ci guida al pensiero di Dio è già presente in lui molto chiaramente. d Che però per lui la riscoperta della grande dottrina delle idee si configuri in modo così insoddisfacente come dialettica dell’« apparenza », questo si fonda su due errori. Innanzitutto sull’erronea sofisticheria di cercare le idee come presuntamente poste nelle forme del raziocinio : sedotto dal grande successo di aver scoperto per mezzo della mera forma dei giudizi un contenuto proprio e autonomo di conoscenza – nelle categorie – a partire dalla pura ragione, ha tentato lo stesso con i raziocinii nell’intento di arrivare da questi alle idee, mentre i raziocinii, in quanto giudizi puramente analitici, non offrono alcun contenuto proprio, né secondo la materia, né secondo la forma. e Si fonda, d’altra parte, sul suo falso raziocinio, già spesso riportato, che conclude dall’apriorità alla mera idealità di una conoscenza e che non può aver affatto luogo. f 4. Lo scopo della deduzione è l’autoassicurazione relativa alle affermazioni del sentimento di verità ; il che è necessario, perché ogni affermazione che voglia appellarsi soltanto al sentimento di verità resta soggettiva e oscillante, e perché solo così c’è sicurezza di fronte ai propri sogni, alle immaginazioni e ai pregiudizi dello spirito del tempo e della mera tradizione. Diviene, così, indispensabile il lavoro della critica antropologica. D’altra parte si è già sottolineato che non è solo mediante quest’ultima che la conoscenza ideale viene alla luce, ma, nello sviluppo della vita spirituale dell’umanità, compare e si forma prima e del tutto indipendentemente. Quello che dunque si espone con molta fatica e sottigliezza nella « deduzione », nell’artificiosa attestazione dell’organizzazione della ragione, delle schematizzazioni, restrizioni e superamenti di tali restrizioni mediante schematismo ideale, si dà nella vita reale dello spirito, nell’unità immediata delle sue funzioni, senza alcuna ricerca o sforzo e con una sicurezza immediata. L’applica 













trappone allo sterile giudizio materialistico che, cogliendo le leggi necessarie delle determinazioni dello spazio e del tempo, vuole spiegare il mondo a partire da queste. Per contro questa considerazione ribatte in un modo che è stimolante e accessibile per tutti : non puoi comprendere il significato spirituale di alcun suono, di alcun colore. Comprendi tanto poco la costituzione di un filo d’erba, quanto poco l’intero risuonare spirituale della natura mossa dalla vita » (Rel. Phil., pp. 84 e 85). « I maestri precedenti non conoscevano la differenza tra l’esame di queste idee per il sentimento della verità e l’argomentazione di una dimostrazione [...]. Propriamente si sbagliarono soltanto sulla forma logica e qui, dunque, l’obiezione resta sempre unilaterale, se accanto a questo rifiuto della forma logica non si ha riguardo anche dell’autentico intento del maestro » (Rel. Phil., p. 96). Cfr. ivi anche le efficaci osservazioni sulla « dimostrazione » ontologica. d   Cfr. in Kant l’Appendice alla dialettica trascendentale, p.e. [Kritik der reinen Vernunft], B 706 : « per render possibile, col sussidio d’un tal fondamento originario, l’unità sistematica, l’unità del molteplice nell’universo» [tr. it., p. 426]. E ivi, B 709 : « Ma la ragione non può concepire altrimenti questa unità sistematica, che attribuendo insieme alla sua idea un oggetto » [tr. it., p. 428]. E ivi, B 714 : « [...] la ragione richiede che ogni connessione del mondo venga considerata secondo i principi di un’unità sistematica, e però come se tutte quante fossero provenute da un Essere unico onnicomprensivo, quasi causa suprema e onnipotente » [tr. it., p. 430]. E infine ibidem : « La terza idea della ragion pura, che contiene una supposizione, semplicemente relativa, di un Essere causa unica ed onnipotente di tutte le serie cosmologiche, è il concetto razionale di Dio » [tr. it. ibidem]. e   Nella seconda sezione del primo libro della dialettica trascendentale (ivi, B 378 [tr. it, p. 251]) Kant dice : « La forma dei giudizi [...] produsse le categorie, che guidano nella esperienza ogni uso dell’intelletto. Parimenti, possiamo aspettarci che la forma dei raziocinii [...] conterrà l’origine di particolari concetti a priori, che possiamo denominare concetti puri della ragione, o idee trascendentali ». f   Nelle speculazioni sull’ens realissimum in quanto base contenutistica del pensiero di Dio, che offre in ivi, B 598 e ss. [tr. it., pp. 368 e ss.], Kant cade, per giunta, vittima proprio di quella pericolosa « anfi bolia dei concetti di riflessione », che aveva egli stesso precedentemente scoperto in modo tanto magistrale.  











































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zione della legge di causalità o anche della legge suprema della ragione pratica nella valutazione delle azioni è tanto facile, sicura, universale e immediata, quanto faticosa e sottile è la sua fondazione critica. g 5. La convinzione ideale è « fede ». La fede è una convinzione che tiene per certo ciò che non può esser visto, né còlto con i sensi. Fries si riferisce esplicitamente a Eb 11, 1. h Così sapere e fede si vengono incontro in modo distinto. Il sapere va verso il mondo dell’intuizione sensibile ed ha nel senso il testimone di quel mondo. La fede è abbandonata da ogni testimonianza dei sensi. È conoscenza che la ragione possiede puramente in quanto ragione, in cui essa si fida esclusivamente di se stessa : e solo in quanto fiducia etica diviene realmente vivente. Ma appunto perciò la fede deve esser valutata come conoscenza : ciò che crediamo è realmente vero ; anzi, essa deve esser valutata persino come una conoscenza superiore, di fronte alla quale la conoscenza nel sapere è in parte superata – dal lato, cioè, della sua forma – e, per quanto riguarda l’essenza delle cose, rigettata. Non regge in nessun modo il significato corrente di fede quale « sapere » dai fondamenti manchevoli o tener per vero secondo probabilità. Ma anche il senso kantiano del termine « fede » deve esser rifiutato : secondo lui la fede sarebbe – nella forma del postulato pratico e in vista del primato della ragione pratica – un tener per vero per  



















g   « Così ogni uomo sa e conosce molte leggi matematiche e filosofiche. Egli giudica e agisce conformemente ad esse senza essere consapevole di saperle. Solo con l’apprendimento scientifico della matematica e della filosofia ritroviamo queste stesse leggi in noi. Così, p. e., ciascuno, quando trova una modificazione, ne cerca la causa. Ma solo con la filosofia diveniamo consapevoli della legge di causalità » [Kritik, I, p. 106]. « Tutti i principi metafisici, che oltrepassano la fisica, poggeranno dunque su idee. Si definisca fede, o come altro si vuole, il tener per vero queste ultime : tale fede si renderà e si manterrà valida sempre nell’uso comune dell’intelletto, come una convinzione immediata di semplice ragione. Ma al filosofo spetterà il compito più difficile, quello di capire in quale modo quasi misterioso questi principi indipendenti da ogni intuizione arrivino ai nostri giudizi » [Kritik, ii, p. 12]. La dottrina atomistica dei nostri fisici è l’esempio più radicale di come le idee, molto prima che si riesca a derivarle metodologicamente, sorgano « da sé » nell’essere umano pensante, in seguito alla pressione che la conoscenza fondamentale della ragione esercita continuamente e che diviene reale nel sentimento religioso, morale o scientifico della verità. Essa non è altro che la conoscenza immediata del fatto che ciò che è realmente deve avere a fondamento, nella sua composizione, qualcosa che infine è semplice, perché nelle composizioni deve esserci un che-cosa e perché la composizione deve essere completa, se in generale un composto deve potersi dare. Questa conoscenza è del tutto inattaccabile ed è il fondamento del perché la dottrina atomistica usi presentarsi con tale robustezza e ingenua affidabilità. L’ingenuità consiste solo nel fatto che si trascura che questa intera conoscenza è « ideale » e si tenta di applicarla al mondo della scienza naturale, ossia al mondo dello spazio e del tempo, in cui essa è, appunto, impossibile. Ci si immagina in tutta serietà che questa materia consista di elementi ultimi semplici, indivisibili (« atoma »), e se ne ricava la fuga tragica e comica nel sempre più piccolo. Non appena si trova requie negli atomi, ecco che si annunciano proto-atomi, elettroni, ioni, cariche elettriche. E poiché tutti questi elementi piccolissimi sono nello spazio, e tutti i rapporti spaziali sono puramente relativi, si vede allora a priori che ogni ipotesi di un elemento « ultimo » o « semplice » non è altro che un arresto arbitrario in una fuga infinita. Una molecola, così come oggi la si schematizza, è come un sistema solare. Grande e piccolo qui sono punti di vista del tutto marginali. Di solito si aggiunge un’altra ingenuità. Proprio gli « atomisti », seguendo il filo conduttore di un’infinita legge di causalità che include tutto, sono i fautori più convinti della « legge di natura », dell’unità e della connessione universale. Ma chi vuole introdurre il « semplice » nel mondo, non può far altro che introdurre anche « cause libere ». Entrambe le rappresentazioni, infatti, sorgono da un unico e medesimo fondamento e si esigono reciprocamente. Entrambe sono componenti della medesima e sicura conoscenza dell’essenza stessa delle cose, contro cui ogni conoscenza secondo spazio e tempo viene superata in quanto conoscenza limitata. h   In generale sulla relazione del suo filosofare a Eb e a Paolo cfr. il saggio Über den Glauben und die Ideen vom Guten und Bösen in Beziehung auf die Lehren des Apostels Paulus, nella rivista « Für Theologie und Philosophie. Eine Oppositionsschrift », a cura di Fries, Schröter e Schmit, volume 3, Jena 1830, p. 85. Questa rivista, con lo scopo particolare di opporsi alla reazione ecclesiastica, a Hegel, a Schelling e al misticismo romantico, era interamente nello spirito friesiano ed era diretta per lo più dai suoi allievi.  

















































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interesse ; per un interesse, in realtà, molto importante : quello morale. Ma nessun interesse può essere criterio della verità. E le stesse convinzioni pratiche non potrebbero valere per noi se non fossero preliminarmente vere. In questo modo la religione non poggia sulla convinzione morale, ma è quest’ultima che ha il suo sostegno ultimo nelle idee. 6. Mediante la fede si conosce, e si conosce in « doppia negazione », ossia in modo tale che non otteniamo contenuti positivi di conoscenza circa entità trascendenti, ma li pensiamo mediante negazione dei limiti della conoscenza che possediamo. Ci è precluso l’esprimere qualcosa di positivo sull’in sé delle cose eterne. Nessuna filosofia penetra dietro il velo dello spazio e del tempo (se non mediante negazione di entrambi). In questo modo anche la fede non può esprimere assolutamente nulla sull’in sé della divinità ; tantomeno sul procedere del mondo da Dio. Qui Fries rimane nella più netta opposizione alle aeree speculazioni dei vari Fichte, Schelling, Hegel, Baader, che tentano di cogliere in « intuizione intellettuale » il procedere del molteplice dall’uno, il passaggio da Dio al mondo. Ogni desiderio di passeggiare o di costruire nel trascendente, ogni cosmogonia o teogonia sono escluse. Non è necessario osservare quanto utile sia alla religione una tale conoscenza. Tutte le proteste contro la commistione tra religione e metafisica e contro le opinioni erronee, per cui in generale non vi sarebbe religione senza metafisica, avevano soltanto questo senso. La metafisica in quanto scienza dell’aldilà non è, in effetti, religione e Dio viene conosciuto soltanto in quei predicati puramente religiosi indicati sopra. Questa concezione corrisponde integralmente al tratto antidogmatico della fede e dell’opera di Lutero, per cui Dio non si deve cercare quale Egli è « nella maestà », ma quale è « per noi », e alla tesi di Melantone nei suoi Loci communes, del 1521, della prima dottrina della fede protestante : « mysteria divinitatis rectius adoraverimus quam vestigaverimus », 2 per cui la conoscenza cristiana consiste in « practicae cognitiones ». 7. Per pervenire a espressioni positive sull’infinito servirebbe in effetti quell’« intuizione intellettuale » di cui sono fanatici i fichtiani. Ma questa ci è negata. La nostra intuizione è del tutto riassorbita in quella sensibile e per questo non ci è possibile una conoscenza « concettuale », una conoscenza dell’infinito in concetti positivi. Questo resta per noi l’incomprensibile. Quel che non può la comprensione, lo possiamo nel sentimento. Il sentimento ci offre una terza specie di conoscenza oltre al sapere e alla fede, che collega le altre due e le porta all’unità : il « presentire ». Nella potenza degli oscuri sentimenti del bello e del sublime in tutte le sue forme, nella natura e nella vita dello spirito, comprendiamo immediatamente l’eterno nel temporale e il temporale come fenomeno dell’eterno. Qui, mediante il « presentimento », il mondo della fede si annuncia in modo abbastanza percettibile e positivo, seppur inesprimibile, nel mondo del sapere. i 8. La filosofia della natura non è scienza della natura ; la filosofia della storia non è scienza della storia. La filosofia è invece scienza dei principi di ogni scienza particolare. Le offre i concetti supremi, generali e formali, e le leggi grazie a cui questi divengono possibili. In questo modo anche la filosofia della religione non sarà scienza della religione e non potrà assumersi il lavoro di questa. Proprio nella filosofia della religione  



















































i   Nello scritto Wissen, Glaube und Ahndung, Fries ha esposto in particolare il rapporto di questi tre modi di conoscenza, tra loro distinti. 2

  Ed. H. G. Pöhlmann, Gütersloh 1993, p. 19.

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friesiana il rapporto sembra essere colto in modo del tutto puro. Le idee che esibisce sono puramente formali e di per sé vuote, e non costituiscono ancora una religione. L’esibizione scientifica di quelle, dunque, di per sé non è ancora affatto scienza della religione. Quel che la filosofia opera qui è, in modo del tutto corrispondente a quel che opera in altre circostanze, l’esibizione di ciò che è supremo e puramente formale e l’attestazione antropologica di ciò attraverso cui la religione stessa diviene possibile nello spirito umano : lo « schematismo pratico » e il « sentimento religioso ». Qui, però, termina subito l’ambito dei principi a priori e anche qui, come in altre scienze particolari, interviene l’esperienza, quella religiosa, e con ciò la storia, quale esperienza allargata, e con ciò l’intera scienza della religione, in quanto apprensione della religione nel suo manifestarsi storico e nella sua varietà, in quanto comparazione e commisurazione di valore, in quanto critica, chiarificazione e, se possibile, perfezionamento, in quanto tecnica di formazione della religione e della comunità religiosa. Come la teologia non è più, come prima, una fisica soprannaturalmente ispirata e una metafisica delle cose celesti, ma appunto una scienza della religione mirante all’esercizio pratico e alla cura della religione, allo stesso modo deve esser determinato anche il rapporto della filosofia alla teologia.  









B. TRATTI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA PRATICA Capitolo ottavo DOTTRINA DEI FINI DELL’UOMO (teleologia soggettiva) 1. Rapporto con Kant. – 2. Ragione pura pratica. Sensazione. Sentimento. – 3. Valori, fini. – 4. Piacevole, spiacevole. Inclinazione. – 5 Nobile, ignobile. Amore puro. Il principio del suo giudizio è a priori. – 6. Bene, male. Rispetto. Dovere. – 7. Dignità della persona. – 8. Dottrina del dovere, etica. – 9. Dovere della religione. – 10. Disposizione dell’etica. – 11. Regno dei fini. – 12. Libertà psicologica mediante decisione razionale. – 14. Rifiuto dell’edonismo. – 15. Dottrina del diritto, politica.

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nc he nella filosofia pratica, Fries è in tutto un successore di Kant. Costruisce sulle basi delle grandi scoperte kantiane, che non possono più essere abbandonate da alcuna successiva morale scientifica, e delle definizioni concettuali delle leggi fondamentali dell’agire umano, universali e necessarie, conosciute a priori : l’idea del dovere, la volontà buona in quanto volontà di ciò che è buono in modo assoluto e senza paragone, la determinatezza « formale » della volontà buona in quanto obbedienza nei confronti del comando morale per il comando, l’autonomia della legge morale, la rigorosa separazione del « puro rispetto » da ogni « inclinazione ». Contemporaneamente, però, egli porta avanti il lavoro cominciato da Kant e corregge i difetti dell’indagine kantiana, che minacciavano di diventare pericolosi per l’intera impresa. I suoi meriti più importanti sono qui i seguenti. Fries supera l’impossibile tentativo kantiano di sviluppare nel dettaglio, a partire dallo stesso imperativo categorico, un sistema dei comandi del dovere. Mostra che l’« imperativo categorico » di Kant sta ancora sotto la condizione di un’altra legge, quella del valore assoluto. Invece della tavola kantiana delle categorie morali con le sue « finestre cieche », la quale aveva posto erroneamente l’idea della libertà come elemento supremo da suddividere, ottiene la vera tavola dei concetti morali fondamentali, attestando che tale elemento è l’idea del « valore ». Risolve la controversia tra Schiller e Kant in quanto che, distinguendo il kalovn dall’ajgaqovn, coordina e subordina agli imperativi puri il giudizio formato sul moramente bello, e chiarisce il rapporto del puro e rigoroso comando del dovere all’« amore puro ». Porta alla luce l’erronea confusione kantiana tra la decisione puramente razionale e quella ragionevole e, con ciò, la confusione tra la libertà metafisica e quella meramente psicologica. Fonda l’intera dottrina su una dettagliata teoria della ragione pratica. 2. Il compito della filosofia si esaurirebbe con la filosofia teoretica se la ragione e l’uomo non fossero altro che conoscitivi. Ma al conoscere si aggiungono altre due facoltà dello spirito, attraverso cui la ragione è veramente vivente e in cui la sua essenza, la  





























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capitolo ottavo

sua essenza superiore, si mostra compiuta e completa. Fries le chiama « cuore » e « capacità di azione ». a Sono entrambe facoltà autonome, autonome l’una rispetto all’altra e rispetto al conoscere. Ciò significa che non possono essere ricondotte l’una all’altra. Contemporaneamente, però, si esigono reciprocamente. Il conoscere è a fondamento di tutto. E la ragione può divenire capace di azione soltanto per il fatto che le è data la facoltà mediana del « cuore », ossia dell’« impulso », della attribuzione di valore. La ragione non soltanto conosce diverse cose, ma attribuisce loro un valore, e un valore diverso secondo i diversi « impulsi » che trova in sé e grazie a cui essa valuta. Solo così la sua capacità di agire può diventar viva e può passare all’azione. Dal puro e freddo conoscere non potrebbe mai seguire un agire. D’altra parte la facoltà del valutare non è di per sé già agire, ma dà soltanto i motivi all’azione. Si potrebbe rappresentare uno spirito al quale sia accessibile il valore delle cose in sentimenti di piacere o di dolore, in approvazione o disapprovazione, ma che sia esposto a tutto ciò – come forse le anime delle piante – solo passivamente e non possa passare all’azione. La sua interiorità si muoverebbe in tali sentimenti, timore, speranza, desiderio, ma non produrrebbe alcuna azione. La ragione umana – e presumibilmente ogni ragione in genere – lo può. Essa ha capacità d’azione. In realtà, neanche così potrebbe ancora esserci una filosofia pratica, se l’empirismo avesse ragione. Nell’ambito del conoscere l’empirismo tentava di sostenere che allo spirito è dato tutto il suo contenuto dall’esterno, attraverso i sensi, e che il conoscere si costruisce dalle sensazioni. In modo corrispondente esso tenta qui di mostrare che i moventi dell’azione sono dati nelle sensazioni e che l’agire stesso non è altro che il risultato di questi moventi sensibili. Lo spirito non avrebbe, dunque, nulla di proprio : come là non vi sarebbe alcun principio teoretico proprio, così qui non ve ne sarebbe nessuno pratico. Non vi sarebbe affatto una « ragione pura ». Dunque non vi sarebbe alcun principio pratico di pura ragione. Al posto della filosofia interverrebbe una descrizione del sentire e della meccanica delle sensazioni. Nell’ambito della ragione teoretica il bando ad opera dell’empirismo era già infranto dall’attestazione del fatto che in effetti c’è una conoscenza « pura » e che solo attraverso di essa l’esperienza (empiria) è possibile. Con ciò il falso pregiudizio sensistico è depotenziato ed è aperta la strada per un’indagine non prevenuta su questo : se possediamo principi del pratico e quali siano ; ossia la strada per la critica della ragione pratica, la quale può essere soltanto « antropologica » (può essere, cioè, solo un’indagine psicologica). Essa si fa soltanto attraverso un’autoosservazione interna, in un’« esperienza interna » che mira a conoscere quali principi pratici a priori abbiamo. Una tale conoscenza del possesso di conoscenze a priori non è, naturalmente, essa stessa una conoscenza a priori, ma è interamente empirica. Qui la prima cosa è venire in chiaro circa il senso della sensazione e circa il suo rapporto alla nostra interiorità in generale. L’empirismo, come confonde nel teoretico « sensazione » con « percezione sensibile », così qui confonde « sensazione » con « sentimento » e cioè con « sentimento di piacere e dispiacere ». Se la stessa sensazione fosse già sentimento, già con essa, e dunque dall’esterno e mediante i sensi, sarebbe dato in noi piacere e dispiacere (dunque un movente), e noi non saremmo nulla di proprio, ma saremmo soltanto, nelle nostre azioni, il risultato di effetti esterni. La ragione pura pratica sarebbe dal principio impossibile. Ma non è questo il  





























































a   La suddivisione psicologica di Fries coincide quasi, ma non del tutto, con la suddivisione corrente in « conoscere, sentire, volere », ma è più precisa.  



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caso, già nel più semplice piacere sensibile. Piacere o dispiacere non è di per sé la sensazione, ma qualcosa che si aggiunge come risposta alla sensazione, a partire dalla nostra interiorità. « Sentimento » non è senso, ma è un peculiare giudizio su un dato sensibile. Il sentimento è capacità di giudizio. Ciò che è dato nella sensazione può esser lo stesso in diversi casi : la nostra risposta di giudizio e valutazione nel sentimento può essere per ciascun caso diversissima. Lo stesso gusto, lo stesso profumo, la stessa sensazione di calore, in momenti diversi e in situazioni diverse della mia interiorità può occasionare sentimenti contrapposti di piacere o di avversione. La sensazione soltanto è data dall’esterno ; il sentimento che giudica non lo è affatto, ma viene da me. 3. Poiché nel nostro rappresentare le cose colleghiamo a queste un valore (riconosciamo in esse un valore), ci sentiamo spinti verso di esse. Valutare una cosa, positivamente o negativamente, significa avere rispetto ad essa diletto o fastidio. Mediante questa valutazione e questo dilettarsi di una cosa rappresentata, la sua rappresentazione riceve per noi una causalità, pone in movimento capacità di azione e volontà di rendere il rappresentato reale. Una rappresentazione con tale causalità è un fine. Che poniamo valori, che tendiamo a fini e a quali fini tendiamo, è, di nuovo, soltanto cosa dell’esperienza interna e dell’autoosservazione. 4. Questa ci insegna che innanzitutto poniamo un valore secondo il punto di vista del piacevole e dello spiacevole. Se non si vuole ingenerare una confusione, si deve stabilire un uso rigoroso dei termini. Il piacevole non è tutto ciò che in generale viene valutato e diletta, ma ciò che diletta i sensi, che viene giudicato mediante un sentimento di piacere sensibile. Il piacere col quale giudico un profumo soave, un soffio d’aria fresca, il decorso rapido di una riflessione – percezioni mediante senso esterno o interno – è specificamente altro dal piacere col quale ammiro un grazioso gruppo di alberi, un’azione risoluta o l’adempimento di un dovere. Posso porre tutto ciò sotto il « diletto », l’« approvazione » o il « piacere ». Ma in questo genere le specie sono molto diverse. Qualcosa è « piacevole » sempre « per me ». Ciò significa che propriamente viene giudicato sempre un rapporto di una cosa a me. « Piacevole » è tutto ciò che – qualunque cosa sia in sé – promuove ed eleva il mio sentimento di vita del momento. In questo modo non dico proprio nulla della cosa in questione, non riconosco nulla in essa, ma soltanto del suo rapporto, solo momentaneo, a me. Solo in questo – in verità, dunque, solo nel mio stesso sentimento vitale – pongo il valore e, quindi, se definisco una cosa piacevole, approvo propriamente l’esistenza della mia propria vita e del suo allettamento eccitante. Del tutto diversamente nei tipi superiori di diletto. Qui pongo un valore oggettivo fuori di me e del tutto indipendente da me ; e non lo riconosco relativamente al mero rapporto con me, ma alla cosa stessa. Che la valutazione delle cose secondo il piacevole e lo spiacevole sia empirica, è evidente di per sé. Conoscere a priori qualcosa come piacevole o spiacevole non avrebbe senso. Ciò che può promuovere o ostacolare il mio sentimento vitale, infatti, è del tutto dipendente dal momento e dalla situazione, può essere esattamente l’opposto in ogni nuovo momento e viene conosciuto esclusivamente per mezzo dell’esperienza. Voler fare del piacevole una legislazione morale, con carattere di validità necessaria, è dal principio impossibile. (Da un altro punto di vista si mostra però, senz’altro già a questo livello, un momento significativo. Già nel sentimento sensibile di piacere e dispiacere si fa valere che la ragione attribuisce valore a ciò che promuove ed è condizione della  

































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sua propria vita, ossia a se stessa e alla sua esistenza. Lungi dall’essere « sensibile » in contrapposizione col « razionale », come voleva l’etica antica, lo stesso sentimento di piacere sensibile è espressione della conoscenza della ragione, del valore di questa stessa e della sua esistenza vivente, che qui si mostra nel grado più basso e che si sviluppa poi ulteriormente in quelli superiori. Questa conoscenza, però, è assolutamente a priori. L’esperienza interna ci può mostrare che di fatto l’abbiamo tutti, ma essa stessa, secondo il suo contenuto, non può affatto essere ottenuta mediante esperienza.) 5. Il giudicare secondo il « piacevole » e lo « spiacevole » mediante il sentimento sensibile di piacere e dispiacere è proprio di ogni vivente in generale, si riferisce alle condizioni animali dell’esistenza della ragione e accade attraverso l’« impulso animale » che la ragione umana ha in comune con tutti gli altri viventi. Inoltre troviamo in noi un impulso significativamente diverso da questo, quello « umano », attraverso cui attribuiamo valore all’esistenza specificamente umana, secondo tutte le possibilità del suo dispiegamento. Tale impulso coincide con quello di « perfezione », grazie a cui si giudica secondo il punto di vista del « nobile », della bellezza spirituale e della sublimità, della bellezza dell’anima. Per le cose « perfetto » significa lo stato in cui esse corrispondono al fine per cui vengono utilizzate. Qui però è compreso come lo stato in cui tutte le disposizioni e capacità dell’essenza spirituale dell’uomo sono sviluppate e connesse in un’armonia che viene giudicata come bellezza dell’anima sotto l’ideale della « saggezza », e alla quale si tende. L’inclinazione spinge al « piacevole » ; il « puro amore », che di per sé è bellezza spirituale, al « nobile » o all’« eccellente ». Da tale amore deriva ogni nobiltà ed elevatezza nell’agire umano. Questo impulso opera come fattore potente e vivo nella storia dell’umanità. Il suo dispiegamento, sempre più pieno, è quasi il senso e la meta razionale di tutta la storia umana. Mediante questo e in conformità a questo hanno luogo tra gli uomini amore e stima. Questo secondo impulso può entrare in contraddizione con il primo. Entrambi consegnano alla volontà i loro motivi ; l’intelletto sceglie e decide tra questi e, mediante la decisione, conduce all’azione. b Con ciò, il secondo impulso avanza la pretesa di essere quello superiore, del quale l’altro è al servizio. Ma quel che qui ha valore non è la repressione di uno, ma l’armonia di entrambi (secondo un principio che dobbiamo ancora discutere). Entrambi, infatti, derivano dalla conoscenza di valore della medesima ragione, la quale in entrambi dà valore alla sua propria esistenza. Solo un’erronea illusione può disconoscere la fattualità vivente, la capacità e l’efficacia di questo secondo impulso, che coopera sempre, in tutti i gradi dell’umanità. c L’etica dispiega i contenuti spirituali che valutiamo secondo questo impulso : è la dottrina pratica della natura da cui si deve ben distinguere la dottrina del dovere in senso stretto (morale). Si ottiene interamente per mezzo di induzioni dall’esperienza interna.  





























































b   « La capacità dell’autocontrollo o dell’intelletto, che ci è propria nella natura interna, [...] [è] la nostra cosiddetta libertà psicologica della volontà » (Ethik, p. 124). c   « L’opinione corrente di molti antropologi, per cui l’uomo non riterrebbe buono nient’altro che il correr dietro, con piacere, al proprio divertimento e vantaggio, o il sottoporre alla legge, con dispiacere, l’inclinazione combattuta, è del tutto unilaterale e falsa, e derivata da un’ipotesi arbitraria circa i nostri sentimenti di piacere. Già il gioco dei bambini, ma ancor più la rinuncia a sé in vista dell’amicizia e la maggior parte di ciò che di potente e bello accade nella storia, può insegnarci qualcosa di meglio (Kr., iii, p. 107). [...] In effetti l’uomo attribuisce valore alla vita, a quella estranea come alla propria, e alla vita del tutto più che alla propria ; e l’interesse lo spinge all’azione in modo conforme a ciò. Si soddisfino i bisogni del singolo, e solo allora questi comincerà a vivere rettamente, in imprese liberamente afferrate per qualcosa fuori di lui, che gli è estraneo, che gli può apparire come la cosa più importante » (Kr., iii, p. 108).  









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Solo a posteriori possiamo venire a sapere in quali facoltà, abilità e capacità, intenzioni e attività la ragione vive a questo livello superiore, di quali elementi è costruita la sublimità e la bellezza spirituale. A priori non sappiamo nulla, né di formazione, né di amore, né dell’agire nella professione, nell’arte, nella scienza, nello Stato. Ma è interamente a priori, dunque anche universale e necessario, il principio secondo cui attribuiamo un valore peculiare ad ogni singolo elemento di ciò e alla totalità della loro connessione in armonia. Ciò che io pongo come « piacevole » secondo il primo impulso lo è solo per me, e anche per me lo è solo nel caso singolo. Domani, forse, quello stesso grappolo che oggi era amabile, mi sarà sgradito. E quel che per me è piacevole, ripugnerà forse ad un altro. Qui vale il « de gustibus non est disputandum ». Totalmente diverso è per il secondo impulso. Ammesso che amicizia, dedizione, amor di patria, vita attiva, formazione di sé abbiano valore, presumo tutto ciò in ciascuno e, se qualcuno non lo afferra, dichiaro il suo giudizio rozzo, incolto. L’attribuzione di un valore ad opera del secondo impulso mira a universalità e necessità. Lo può soltanto se il suo principio è a priori, se risiede nella ragione stessa ed è indipendente dall’esperienza, se viene còlto esclusivamente dalla ragione e viene dunque riconosciuto in modo necessario da chiunque abbia una ragione formata. Qual è questo principio ? Lo si può chiarire soltanto in una più precisa indagine dei nostri giudizi estetici, che sono analoghi a quelli del secondo impulso. Qui basti questo : tutte quelle cose che vengono valutate secondo tale impulso hanno in sé qualcosa di peculiare che chiamiamo bello, nobile, eccellente e a cui diamo la nostra approvazione con un identico sentimento di commozione e di elevazione. Propriamente non possiamo però esprimere concettualmente quale sia la nota distintiva del bello, dell’eccellente, ecc. Si tratta di una conoscenza per mezzo del solo sentimento, senza concetto. Di qui l’inanità di ogni sforzo di dilungarsi, nell’etica, in sistematizzazioni e classificazioni. Di qui la sicurezza del giudizio etico in ciò che è delicato e intuitivo, piuttosto che in ciò che è razionale e oggetto di riflessione. Di qui la somiglianza tra l’etico e la genialità. Si tratta di sentimento, ossia di « concetti inanalizzati » e inanalizzabili, di una conoscenza oscura, che non è esprimibile nella chiarezza del concetto. Si tratta in pari tempo di una conoscenza cui non manca nulla quanto ad affidabilità e universalità e che è indipendente da ogni esperienza. Ciò che è « bello » o « nobile », infatti, dobbiamo saperlo preliminarmente da noi prima di poterlo riconoscere in una cosa. (Anamnesis di Platone.) 6. Al di sopra della legge di valore del nobile, del bello, dell’eccellente vi è quella del buono e del dovere. Solo qui la ragione esprime il suo intimo e lo fa nell’« impulso puro ». Incomparabilmente più in alto anche della « bellezza » e « nobiltà » dell’anima, nel significato di cui sopra, vi è anche la « dignità della persona » e la virtù della « volontà buona » ; al di sopra dell’« inclinazione » e dell’« amore » vi è il « rispetto » verso il comando assolutamente obbligante del bene in sé, senza alcuna « inclinazione », per il puro sentimento del dovere. Cos’è buono ? Non può essere riconosciuto o derivato a partire da nient’altro ; né ottenuto in qualche altro modo. Solo quell’autocomprensione circa la somma conoscenza di valore, che la ragione possiede, può condurre qui allo scopo. Definiamo buono non un qualche dono o privilegio, qualcosa che è degno di amore o una qualità degna di stima del nostro spirito in generale, ma soltanto la nostra volontà. Questa è buona quando agisce « per dovere ». Il che significa, però, quando tende, vuole, fa o non fa, ciò che deve assolutamente essere fatto o non fatto. In ciò vi sono tre cose : primo, che c’è qualcosa che deve assolutamente essere  







































































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fatto o non fatto, che dunque ha un valore in modo assoluto, che nell’essenza delle cose c’è un valore, e un disvalore, assoluto, un fine sommo, il quale è fine in se stesso, non per qualcos’altro, ed è un fine assoluto, ossia deve assolutamente realizzarsi. Secondo, che questo fine viene conosciuto e riconosciuto come tale da colui che vuole. Questi deve coglierlo e porselo come assoluto ; deve rendere questo stesso legge del suo agire : deve, cioè, volere autonomamente. Terzo : deve seguire questa legge non per la dolcezza del contenuto del comando, non per « inclinazione », ma puramente « per la legge », ossia in modo tale che la conoscenza del dovere assoluto stesso sia per lui movente. Buona è dunque una volontà che segue la massima : agisci così come sei convinto di dover agire. Questa è una regola che consiste in concetti chiari. E qui l’impulso puro e la sua legalità è chiaramente distinto dal secondo. Il secondo impulso giudica per sentimento, il quale non è risolubile concettualmente. « Buono, però, è ciò che piace secondo concetti ». Il secondo impulso approva nella valutazione ; quello puro secondo la valutazione. In tutto ciò la base kantiana è chiara. Ma si presti attenzione anche alle differenze essenziali. Al di sopra del noto imperativo categorico kantiano non vi è certo un altro imperativo. Ma l’imperativo categorico può valere soltanto sotto la condizione che in generale vi sia un valore assoluto, sotto la cui legge si deve agire : esso si trova sotto la condizione dell’esistenza di un valore assoluto oggettivo che di per sé non si dà. Non è diverso anche nella nota formulazione che lo stesso Kant dà del principio pratico sommo. Infatti il suo comando : « agisci in modo tale che tu possa anche volere che la massima del tuo agire divenga legge universale », o va al di là della forma vuota di un « amore per l’ordine », del quale non si capirebbe come potrebbe determinare in modo assoluto una volontà, come potrebbe essere « grandioso » o ispirare « rispetto » ; oppure rimanda, proprio mediante il « che tu possa anche volere », ad un criterio esterno di opportunità e con ciò ad un valore assoluto come condizione. Del tutto a ragione, però, con la sua esigenza « rigoristica », Kant tien fermo che la legge non deve determinare la volontà mediante la materia, ma solo mediante la forma, ossia in quanto legge. Non v’è dubbio che per lo più anche l’« inclinazione » o l’« amore » o simili mi attireranno verso il contenuto che mi è comandato. Ma l’elemento morale nell’azione sussiste solo se con consenso mi inchino al dovere. 7. Qual è, però, il contenuto del comando ? Cos’è che deve assolutamente essere ? Che cosa ha quel valore assoluto a cui mira il puro impulso e riconoscendo il quale una volontà è buona ? Niente che possa essere incontrato nel mondo del fenomeno. Qualcosa di assoluto può esser pensato soltanto, come abbiamo visto, sotto idee, in quanto viene contrapposto alla finitezza del mondo dei fenomeni in « doppia negazione ». Tutti i valori della nostra esistenza temporale fenomenica possono essere soltanto molto elevati, ma mai in modo assoluto. Contrapponiamo ad ogni valore finito il valore assolutamente perfetto con il termine « dignità ». Essa è propria di ciò che viene pensato, sotto l’idea, come sostanza assoluta : lo spirito personale nella sua indipendenza e libertà dal meccanismo dell’intera natura. « Dignità della persona » è il principio ideale sotto cui giudichiamo ogni uomo in quanto fenomeno di uno spirito personale eterno. Quel che con ciò gli attribuiamo è, come in ogni sussunzione ideale, esprimibile solo negativamente : un valore che non sottostà al grado, al più o meno, ma che è « perfetto », « assoluto ». L’elemento positivo dell’idea è per noi, per la nostra conoscenza concettuale, del tutto  

























































































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nascosto, ma tanto più vivo nel sentimento che lo spirito personale ha di se stesso, del proprio valore assolutamente superiore all’intera natura, in breve della « fortuna somma dei figli della terra : la personalità » (Goethe). 1 8. Come non è possibile alcuna derivazione sistematica da alcuno dei principi ideali, così nemmeno da quello della dignità personale. La dottrina della dignità non si lascia dispiegare in un canone della dottrina del dovere applicata. Non possiamo creare uno spirito personale e quindi non possiamo porci questo e la sua esistenza come un fine positivo dell’agire. Ma questo principio diviene applicabile per il nostro agire da un duplice punto di vista. In primo luogo in esso risiede il comando del rispetto assoluto di ogni personalità. Ne consegue : a) regole dell’intenzione in riferimento a noi stessi e ai nostri simili e contemporaneamente b) massime che di per sé non danno al nostro agire fini positivi, ma fissano, quando in generale agiamo, linee di direzione. Queste si fanno valere come limitazioni e divieti – così come tutta la legislazione morale si annuncia innanzitutto in certi divieti. Ma sono espressioni di un pensiero fondamentale sommamente positivo, che di per sé non è un divieto, ma un comando. Ad esse appartiene tutto ciò che deriva dalla legge kantiana : agisci in modo tale da non utilizzare mai l’umanità, tanto nella tua persona, quanto in quella degli altri, soltanto come mezzo, ma in pari tempo sempre anche come fine. E ad a) appartengono, quale espressione immediata del rispetto della dignità della persona, l’esigenza dell’onore personale per quanto riguarda noi stessi, quella della giustizia per quanto riguarda gli altri. Onore e giustizia (con avvedutezza e fortezza) sono le virtù cardinali in assoluto. In secondo luogo, però, per questa nostra vita nel tempo il secondo e il primo impulso si sottopongono al comando del dovere dell’impulso puro, uno più e l’altro meno secondo le gradazioni dei loro rapporti di valore. La ragione dà valore alla loro stessa esistenza : in modo assoluto nel valore assoluto della dignità della persona, in modo relativo secondo i valori graduati dei due altri impulsi. Poiché la ragione appare a se stessa nel divenire temporale e sotto la condizione della capacità di perfezionamento, l’ambito dell’agire secondo i due altri impulsi (dunque la forza e la salute dell’elemento animale, la bellezza e la perfezione di quello spirituale e l’armonia di entrambi) si appoggia all’idea del dovere. In questo modo, vengono posti alla volontà buona compiti positivi, in quanto che, mediante le valutazioni del secondo impulso, le viene data la convinzione del modo in cui deve agire. Questa subordinazione, però, si fa interamente nel sentimento, così come nell’etica scoperte ed elaborazioni sono interamente cosa del sentimento morale. d Così l’etica si rivela quale dottrina della vita e dell’azione dello spirito razionale nel tempo. Essa dà alla storia dell’umanità il suo senso, il suo compito e la sua meta (cfr. Schleiermacher : etica, libro delle formule della storia 2). Nell’« etica generale » si distingue per sé, in modo puro e rigoroso, come elemento supremo la dottrina del dovere (dottrina morale in senso stretto). Il suo contenuto è ciò che è stato esposto sull’idea del dovere e, inoltre, le massime morali supreme, il comando della dignità della persona, le dottrine dell’onore e della giustizia, le massime limitative dell’agire in generale, che ne determinano la direzione, e, infine, la dottrina  















d



  Non del « senso » (Sinn) morale.  



1

  Cfr. J. W. Goethe, West-östlicher Diwan, 1819 e 18272, Buch von Suleika.   Cfr. F. D. Schleiermacher, Grundriß der philosophischen Ethik, Berlin 1841, p. 33, §108 : « La scienza storica è il libro delle immagini della dottrina dei costumi, e la dottrina dei costumi è il libro delle formule della scienza storica ». 2







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della volontà buona e della sua virtù, che si sviluppa come carattere e solidità di carattere, avvedutezza, fortezza, onore, giustizia, purezza d’intenzione. Quest’intero ambito è capace di concetti rigorosi. È dottrina della virtù nel senso rigoroso del termine : ciò che altrimenti chiamiamo così, ha solo un significato traslato. Che sia impossibile sviluppare concettualmente a partire da qui un codice di singoli « doveri », Fries lo mostra in modo molto convincente a proposito dei noti esempi della critica kantiana ; il che è assai indovinato : ogni tentativo simile, infatti, finisce necessariamente in doveri « perfetti e imperfetti », interi o dimidiati, e rende oscuro il concetto stesso di dovere, oppure ne spalma uniformemente il duro e rigoroso comando su qualsiasi esigenza del sentimento morale (Stoa), contraddicendo con ciò la realtà del giudizio morale che riconosce nell’etico tutti i gradi del più e meno importante, del più e meno di valore. E poiché viene cancellato il confine netto tra la valutazione in base al secondo e quella in base al terzo impulso, il bene corre il rischio di esser mescolato con il nobile e con l’eccellente e, in questo modo, di veder messa in pericolo la sua singolare ed esclusiva dignità. 9. Le eccellenze e le abilità secondo la regola del secondo impulso guadagnano una relazione al bene e al dovere in senso rigoroso soltanto mediante ciò che Fries chiama, in questo contesto, « religione », e perciò annovera anche tra le virtù fondamentali : il costante, vivente, interiore riferimento all’idea e la disponibilità a condurre interamente la propria vita sotto il punto di vista di questa, ossia di agire conformemente ad essa, quale che sia il modo in cui lo indica il sentimento morale. e Appunto questa religione, la fede e l’esser riferiti nel sentimento all’idea del valore assoluto dello spirito razionale, che nella storia si mostra in sviluppo, dà ad ogni agire morale il suo senso più profondo : quello di subordinare i fini della vita propria a quelli della storia dell’umanità (che deve essere la storia della ragione diveniente). Concettualmente è molto difficile, se non impossibile, dire come possiamo giungere a questo sublime principio fondamentale di tutte le grandi azioni morali. È una sussunzione puramente sentimentale, ma del tutto affidabile, del proprio essere e agire sotto l’idea del valore assoluto, che si attua mediante una massima posta in modo inesprimibile nella devozione. Tutte le rappresentazioni del fatto che dovremmo cooperare ai fini del mondo (cooperari Deo) sono palesemente figurate. Tuttavia, in tali immagini risiede indiscutibilmente il senso più profondo del nostro compito di vita morale in generale. 10. L’etica di Fries si dispiega in modo del tutto corrispondente. Dopo aver trattato della morale nel senso più rigoroso e, in questa, dell’ideale del carattere, dell’ideale del dovere della virtù in generale e dei doveri della virtù della giustizia, in quanto dovere della giustizia in senso più stretto, della veracità e della fedeltà, illustra ciò che qui, come « bellezza dell’anima », sottostà all’idea rispetto al secondo impulso : l’amore, le sue attività nell’assistenza, nella beneficenza e nella gratitudine, le sue forme particolari quali amicizia, vita familiare e spirito comune. A ciò si collega l’ideale della dignità dell’uomo o il dovere della virtù dell’onore e, in modo corrispondente, ciò che qui sottostà all’idea come bellezza dell’anima : l’ideale della grazia dello spirito con purezza e armonicità ; e, in aggiunta, l’ideale della devozione (nella relazione indicata sopra) e quello della professione. 11. Se la ragione agente, che pone fini, si presentasse solo come singola o anche come  































e   « Definiamo, dunque, virtù religiosa innanzitutto quell’entusiasmo che eleva l’animo al di sopra dell’opinione comune della vita quotidiana [...]. Questa virtù dell’occhio dello spirito, fisso diritto al cielo è la vera virtù del nostro Evangelo » (Eth., pp. 367-368).  



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molteplice, ma isolata, potrebbe indirizzarsi solo ai propri fini e porsi soltanto i compiti di autoformazione, perfezionamento e dominio della natura. Essa, però, non è singola e i singoli esseri razionali non sono isolati, ma sono in comunanza e azione reciproca delle loro azioni e del loro porre fini. Così, dal principio fondamentale della dignità della persona si ottiene l’idea morale suprema del regno dei fini. E questo, in certo modo, in tre gradazioni. Primo, il principio morale fondamentale dà ad ogni agire, quale che ne sia il motivo, la forma limitativa cui ogni agire, l’uno rispetto all’altro, deve sottoporsi. Da qui si ottiene il principio della [suddivisione della] 3 dottrina del diritto in diritto e obbligo. Secondo, si ottiene positivamente l’idea dell’uno per l’altro in generale, sotto cui vengono riconosciuti i fini dell’altro come propri ; terzo, l’idea della comunitarietà dei fini della collettività fino all’esser in comune del genere umano e dei suoi fini nella storia in generale. L’ordinamento della propria condotta di vita sotto questa idea e l’offerta di sé, fino al sacrificio di sé, è quanto di sommo si possa raggiungere nell’etico. Qui la sussunzione, come già detto al punto 10, si fa totalmente a partire dal secondo impulso, secondo « massime inesprimibili », ed è religiosa. Questo regno dei fini è lo stesso mondo vero, rispetto a cui ogni esistenza naturale esteriore diviene indifferente, ed è ciò che solo resta fermo, quale autentica realtà, di fronte all’idea. È l’autentica realtà superiore. L’essere in generale era conosciuto secondo le sue determinazioni fondamentali nelle categorie. Ora dobbiamo solo riferire queste ultime a tale essere superiore, all’essere con valore, per avere in mano anche l’intera tavola dei possibili concetti morali fondamentali. Così le categorie della relazione, sostanza con accidenti, causante e causato, comunanza mediante azione reciproca, divengono qui : persona e suoi stati, persona e cosa, diritto e obbligo. Qui il valore è la qualità, il « reale », il « che cosa ». E le tre categorie della realtà, negazione e limitazione diventano : valore, disvalore e collisione di valori. Secondo la quantità, il singolare è qui il « fine ». Alla totalità corrisponde il fine in genere o il « fine ultimo ». E tra i due, come molteplicità dei fini intermedi, vi è il « mezzo ». Secondo la modalità, però, la « possibilità » morale è l’esser lecito ; il moralmente « reale », ciò che non è soltanto stato lecito, ma che si è anche potuto ; il moralmente « necessario », l’esser dovuto (dovere). 4 Le tre categorie modali sono dunque : esser lecito, esser possibile, esser dovuto. 12. La dottrina della libertà metafisica deve esser completamente esclusa dall’etica. Essa è presupposto e non contenuto della dottrina morale. I diversi impulsi danno alla volontà i motivi. La differenza dell’uomo dall’animale consiste anche nel fatto che l’uomo non ha bisogno di seguire lo stimolo momentaneo, ma è capace, in forza di un autocontrollo razionale, di sospenderne l’effetto, di mettere in relazione i diversi stimoli del medesimo impulso e i diversi impulsi tra loro, di porsi delle massime, che a loro volta agiscono come stimoli duraturi, e così di decidersi secondo una scelta. Questo è ciò che costituisce la decisione razionale, che è propria del nostro agire e che, mediante formazione ed educazione, sottrae sempre di più la volontà al precipitoso esser determinata da stimoli sensibili e del momento. Ma anche lo scegliere della decisione razionale è determinato sufficientemente dallo stimolo alla fine più forte. Scopo di ogni formazione del carattere è qui quello di far sì che i motivi più nobili divengano in noi anche i più forti. Qui, nel mondo del fenomeno temporale, la libertà non ha luogo. Senz’altro ci muoviamo un rimprovero, nella coscienza morale, se l’azione è risultata contraria  





































3

  Assente nell’originale.   Nell’originale : « Das Sollen (Pflicht) ».

4

















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alla legge e presupponiamo di essere liberi nonostante la serie chiusa di motivazioni. Ma questo giudizio trova la sua giustificazione solo successivamente e non per il fatto che si interrompe la serie dei fenomeni e vi si introduce una « causa libera », che però in essa non può esserci. La decisione razionale è una libertà di contro all’esser vincolata dell’animalità, ma di per sé non deve esser già scambiata con la libertà metafisica. 13. Per la nostra esistenza temporale fenomenica il determinismo conserva il suo pieno diritto. Non però quello edonistico con il quale spesso viene precipitosamente equiparato. L’edonismo argomenta in questo modo. Anche la motivazione per sentimento del dovere è in fondo eudemonistica : non obbedire al dovere mi esporrebbe al dispiacere dell’autorimprovero, obbedire ad esso mi porta il sentimento elevato del rispetto di sé. Agisco per evitare quello e per ottenere questo. Agisco, dunque, eudemonisticamente, solo in modo più raffinato. Ma questa è una conclusione ingannevole e abbastanza grossolana, e poggia su una difettosa autoosservazione. Il sentimento elevato del rispetto di sé può intervenire soltanto – a meno che non sia in generale presente un semplice autoinganno – se si è agito realmente bene, se, cioè, si è adempiuta la legge puramente per la legge. In generale, quel sentimento elevato può esserci, ma solo successivamente e come concomitante, se prima, nell’azione, si è agito per impulso puro ; in caso contrario è una menzogna che ha gambe cortissime. Se già prima miravamo al sentimento elevato e volevamo agire in vista di quello, ci coglie il rimprovero morale e il sentimento di dolore. Così questo edonismo si toglie da sé. Per di più la comparsa di questo sentimento concomitante successivo, quando in generale compare, dipende completamente per grado e specie, da momenti e circostanze e può comparire in grado maggiore o minore, o può non comparire affatto. 14. Come contraltare della dottrina della virtù, che indaga la volontà buona puramente per sé, vi è la dottrina filosofica del diritto. Come là Fries ha superato lo sfortunato e rigido tentativo di Kant e della più stretta scuola kantiana di trarre dal dovere puro un canone dei doveri, così qui ha superato quello di costruire a priori un « diritto naturale ». Vi è qualcosa di filosofico nella dottrina del diritto solo nella misura in cui qui la medesima legge del dovere, che nella dottrina della virtù era stata sovraordinata alla « dottrina della natura interiore » (etica) e all’agire del singolo, sia sovraordinata alla società degli uomini e al loro rapporto. L’unico comando che si ottiene in questo modo è l’uguaglianza delle persone ; comando che è poi passibile di una qualche elaborazione. La politica corrisponde qui a ciò che là è etica applicata.  

















Capitolo nono DOTTRINA DEL FINE DEL MONDO (teleologia oggettiva) 1. L’essere stesso sottostà ad un fine eterno (nascosto). – 2. Religione è la relazione a questo. – 3. Come tale essa si dispiega nei misteri religiosi fondamentali : a) della nostra destinazione eterna ; b) della coscienza di colpa ; c) dell’eterna provvidenza di Dio.  





1.

L

a dottrina delle idee aveva esposto di quali rappresentazioni sul trascendente siamo capaci. Là esse costituivano, di per sé, cose di pensiero ancora astratte e fredde, che potevano esser buone per la speculazione metafisica, ma che non dicevano nulla all’animo e alla volontà. Solo mediante la conoscenza dell’ente come regno di valori si animano e, in quanto pensieri fondamentali della « visione pratico-ideale delle cose », fioriscono in quei potenti fattori che afferrano l’animo e che sono conosciuti e posseduti dalla religione. Solo qui, dunque, può mostrarsi la dottrina filosofica della religione. Di per sé, però, essa è la seconda parte della « filosofia pratica », non perché, come in Kant, viva di « postulati pratici » e sia dunque solo un’appendice della morale, ma perché la dottrina della religione, tanto quanto l’etica, è « dottrina dei fini » nel suo più profondo fondamento e secondo il suo autentico intento. Nel modo seguente : l’etica ci offriva i valori e i fini che sono possibili e assegnati all’uomo come singolo e all’umanità come tutto, nel corso della sua storia. Lo faceva sul fondamento dell’intuizione pratica fondamentale della ragione, per cui la nostra esistenza si trova sotto leggi di valori che devono essere realizzati, per sviluppo e formazione, nel tempo. Sotto la forma della conoscenza ideale, però, questa conoscenza si eleva da sé alla fede nel valore assoluto dell’ente in generale, al fine oggettivo e all’oggettiva conformità al fine del mondo vero, la quale gli è insita grazie alla sua causa santa e onnipotente (heiligallmächtig), la divinità, e mediante la quale esso è « il sommo bene ». 2. Esser consapevoli di questo fine eterno ed essergli riferiti è religione. Dunque la dottrina della religione, secondo il suo intento, mira interamente alla « dottrina del fine del mondo », alla « teleologia oggettiva ». Concettualmente essa raggiunge questo intento solo in affermazioni « doppiamente negative » ; è però affermativa nello sviluppo e nella descrizione dei sentimenti religiosi, mediante cui cogliamo e riconosciamo nel mondo fenomenico il mondo vero, secondo il suo fine e il suo valore oggettivo. Questa elaborazione concorda, molto più di quanto inizialmente sembri, con ciò che veniva inteso per religione anche nella dottrina di scuola. Anche secondo quest’ultima, infatti, il senso sommo della nostra fede è appunto quello di credere che il mondo, l’esistenza e noi stessi siamo un « mondo di Dio », in cui il « decretum aeternum », il « decreto eterno » – o quale che sia l’espressione che si sceglie – viene realizzato e in cui, con ciò, il « regno di Dio » è dato. La dottrina della religione, però, soprattutto quella protestante, conformemente agli impulsi di Lutero, non voleva essere una fisica speculativa celeste, neanche nel suo periodo scolastico, ma una dottrina del decreto divino di salvezza, ossia una dottrina del sommo bene, del modo in  



















































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cui questo si fonda in Dio e viene da questi realizzato quale « regno di Dio » ; vale a dire : « teleologia oggettiva ». 3. Tale « teleologia oggettiva » si fa valere con ogni forza ed energia nella religione. Si esprime nei grandi misteri fondamentali della religione. Perciò propriamente non si esprime affatto. Ogni dogmatica che tenti di sciogliere concettualmente questi misteri non è soltanto inutile, ma anche rozza. La religione vuole mantenere intatto il mistero in quanto mistero. Un mistero della religione non è soltanto qualcosa di provvisoriamente oscuro, che si lascia risolvere col tempo come i misteri della chimica, né è un « arcano », che è un mistero solo per i circoli profani inferiori, ma si lascia tradurre in gnosi per gli iniziati : è invece un a[rrhton, qualcosa di assolutamente ineffabile. D’altra parte non è qualcosa di immaginato e fantasticato, ma è tale che se ne può determinare con sicurezza il luogo, che la sua inevitabilità e validità può esser attestata da ogni ragione umana, che i suoi diversi lati possono essere esibiti e che il suo sciogliersi nel sentimento ci viene accennato in modo inesprimibile. Questa dottrina della necessità del mistero nella religione mi sembra la cosa più raffinata e delicata nell’intera filosofia di Fries. Quanto più autentico e vero è il modo in cui questa dottrina corrisponde alla testimonianza immediata del sentimento religioso stesso, rispetto a quelle indiscrete mistagogie e a quel filosofare « assoluto » dal punto di vista di « Dio » che intratteneva i contemporanei di Fries ! Ma questa dottrina del mistero si distingue proficuamente anche dai nostri tentativi più recenti, che annunciano di nuovo « il mistero nella religione », ma lo cercano nelle arti dei visionari e nelle estasi dei dispensatori di oracoli. a a. La dottrina filosofica della religione dispiega sé e i misteri religiosi molto semplicemente, sviluppando le « idee » somme, precedentemente individuate, come « determinate praticamente » ; così che però all’elaborazione dottrinale resta poco da fare e la cosa stessa è interamente affidata al vissuto religioso. Sotto l’idea la sostanza assoluta, ciò che realmente è, era risultata essere spirito personale (e quel che si può pensare di analogo). Con la determinazione pratica e, in pari tempo, con la contrapposizione ideale ai valori solo relativi nel fenomeno, si ottiene qui l’idea del valore assoluto ed eterno della ragione personale e un fine eterno della medesima. Tale idea include ciò che abbiamo già conosciuto come « dignità della persona » e, oltre a ciò, una destinazione eterna del valore del singolo nel tutto e per il tutto. Già quella si lasciava elaborare solo nelle espressioni negative come « indipendenza e superiorità rispetto all’intero meccanismo della natura in generale ». La dignità, ma ancor più la nostra destinazione eterna può esser còlta da noi positivamente solo per presentimento, nel sentimento beatificante. È una destinazione, appunto, « eterna, la cui legge nessun orecchio terreno ha udito, nessun occhio terreno ha visto ; nessuna ragione mortale scoprirà il velo del suo mistero ». 1 Ma al sentimento si annuncia in modo sufficientemente vivo. b. Di un’elaborazione più ricca è suscettibile l’idea di « libertà ». Qui si ottiene la dottrina della libertà e contemporaneamente quel che risuona in modo più o meno oscuro anche in altre religioni, ma che dà al cristianesimo il suo sentimento più profondo e il suo punto centrale : il problema del bene e del male, il fatto assolutamente misterioso per cui ogni uomo è prigioniero della colpa, della quale rende testimonianza la coscien 

































































a   Da cui segue che si può ben considerare « religione » il ritrovamento delle asine smarrite, ma non l’esperienza vissuta di Buddha.  

1

  Cfr. 1 Cor 2, 9.



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za morale di ogni epoca, se ne viene udita la voce in modo completamente puro. « Solo una dolce superficialità, che vuole lusingare la sensibilità, ha osato dichiarare l’uomo assolutamente buono. Un unilaterale empirismo lo ritiene in parte buono e in parte cattivo o propriamente né l’uno né l’altro. La forza del giudizio filosofico, invece, si è sempre dichiarata per il rigore della distinzione tra bene e male e, rispetto all’uomo, per il giudizio di condanna. Ma come vogliamo motivarlo a dovere e limitarlo ? » (Kr., iii, p[p]. [246-]247). Secondo la conoscenza ideale lo spirito personale è la vera sostanza, la volontà è la causalità. E, secondo la medesima conoscenza, questa causa è una causa libera, per cui l’uomo che vuole in modo libero determina liberamente per se stesso le sue azioni e i suoi stati. Nella natura, certo, questa libertà non ha luogo. Qui stati e azioni procedono, secondo leggi, dall’azione reciproca del carattere empirico e degli stimoli e condizioni dell’ambiente contemporaneo. E il carattere empirico di ogni singolo appare di per sé quale conseguenza necessaria del carattere dei suoi genitori e di altre condizioni naturali che lo precedono nella serie temporale. Ma secondo la conoscenza ideale il carattere empirico è soltanto fenomeno di uno intelligibile, che come tale non è parte della serie causale temporale e non sottostà alla legge di natura, ma va pensato come azione e autodeterminazione di una causalità libera. Se ha determinato se stesso, allora compare, nell’ordine intelligibile delle cose, in connessioni e collegamenti la cui vera essenza ci è interamente nascosta e che però, in quanto fenomeni, ci si mostrano quali connessioni e collegamenti di serie di causalità temporali. La sua autodeterminazione, però, (che gli mostra contemporaneamente il suo posto nel tutto) può esser pensata come libera, perché nel mondo debbono esserci cause libere, come abbiamo visto, e deve esser pensata come libera per l’affermazione del nostro sentimento di responsabilità, per l’affermazione infallibile della nostra coscienza morale, che rende noi stessi autori delle nostre azioni. Tale autodeterminazione non consente la discolpa che le nostre azioni conseguono necessariamente alla nostra essenza ; anzi propriamente la sua asserzione fondamentale è questa : « Perché sei come sei ? ». b Essa diviene biasimo, anzi giudizio di condanna, in quanto diviene rimprovero del fatto che il comando del dovere non è ciò che determina in modo assoluto il nostro agire. Il rimprovero non è che siamo determinati anche in modo sensibile (etica antica), perché dobbiamo esserlo ; non è neanche che in generale non abbiamo in noi motivi del dovere, perché non è vero e soltanto un’erronea illusione, che distorce la sana essenza umana, può affermarlo. Ciò che invece ci rimproveriamo è che il comando non è ciò che determina in modo assoluto e totale la decisione. E la ragione sufficiente del fatto che così non sia è che il motivo del rispetto del dovere non compare in noi con una forza infinita, ma finita, e perciò può soggiacere ad altri motivi. Di fronte al giudice interiore, però, non scusiamo il fatto che in noi sia così come una deplorevole necessità, ma ne facciamo il rimprovero più grande e non lasciamo valere alcuna discolpa contro ciò. Questa è la colpa che è a nostro carico in quanto caduta originaria, fallo fondamentale per propria scelta. Non l’esistenza stessa è colpa, come fantasticano i mitologi, ma la nostra esistenza di manca 

















b   « Quando qualcuno dice : che posso farci se per nascita ed educazione sono divenuto un uomo simile ?, la risposta è questa : se non fossi un tale uomo nel tuo carattere intelligibile, non avresti mai potuto apparire in una tale vita. La concatenazione necessaria delle circostanze nella natura, che nella natura ti conduce, appartiene solo alla forma in cui divieni consapevole delle tue azioni. Le azioni, però, sono di per sé libere azioni del tuo carattere intelligibile » (Kr., ii, p. 259).  









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to adempimento del dovere. E colpa non nel senso mitico di « colpa del mondo » o simili, ma colpa personale nel senso di un proprio, libero fallo : come tale è senz’altro un mistero insondabile e spaventoso. Questa è la piena verità di quella convinzione religiosa che si guarnisce mitologicamente dei dogmi del peccato originale ed ereditario. Questa dottrina è contenuta nella dottrina kantiana del carattere intelligibile e del male radicale, ma con errori, perché Kant, invece di pensare, come si deve, la « tendenza al male » puramente sotto l’idea, ossia secondo la nostra essenza intelligibile, la introduce come fattore naturale. (È un errore simile a quello per cui nella dottrina della religione, come tanto spesso accade, la condanna di sé, puramente religiosa, di fronte alla santità unica (Alleinheiligkeit) di Dio spingeva ad una dottrina della « corruzione della natura umana », alla tonalità emotiva dei « poveri peccatori » e all’autocommiserazione, per la quale alla fine la possibilità e la realtà di ciò che è nobile, buono e grande nell’agire umano in generale diveniva dubbio e sospetto. « Splendida vitia ». 2 Lutero vedeva il « male ereditario » nella mancanza della fiducia e nella superbia di fronte a Dio e attraeva così l’intera rappresentazione nell’ambito della relazione religiosa e della valutazione di sé. Egli reinterpreta completamente anche la contrapposizione di « carne » e « spirito » in direzione del religioso e non vuole lasciar valere che la carne in senso rigoroso (l’impulso animale, la vera e propria concupiscentia) sia una « tendenza al male ». Da questo punto di vista è già superiore allo stesso Kant, la cui grande dottrina del « male radicale », che secondo il suo autentico punto di partenza ha validità in quanto giudizio puramente religioso (ossia puramente sotto il punto di vista dell’idea), si deforma nella Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft in giudizi sulla natura morale empirica del genere umano, che sono attaccabili tanto quanto i rimpicciolimenti correnti dell’essere umano da parte della dogmatica volgare.) Questa dottrina porta però « ad un sentimento religioso di umiltà di fronte alla legge e di umile venerazione di Dio, a quella sottomissione adorante che non soltanto vede nell’irresistibile onnipotenza al di sopra di sé un Signore che dovrebbe essere temuto, ma vede in Dio la santità infinitamente elevata al di sopra di noi, la cui volontà, con puro rispetto, riconosciamo come legge per noi ». 3 Per la vita nel tempo, dalla conoscenza della colpa possono seguire soltanto l’impulso a far sì che nell’educazione di sé la forza dell’impulso morale divenga quella superiore, e il desiderio di conversione ; la quale nel mondo fenomenico, con la legge del grado e perciò con l’impossibilità di una capacità « perfetta », è irrappresentabile e però sotto l’idea è un atto senz’altro possibile di libertà, ma come tale è senz’altro anche un mistero della religione (Kr., iii, p. 253). c. Poiché essere e mondo si sono rivelati regno degli spiriti sotto leggi eterne del valore, la determinazione pratica dell’idea somma del nostro spirito, ossia quella dell’unità e della comunità di tutti in generale mediante la causa una, necessaria, essenziale e oltremondana, la divinità, conduce a Dio, la bontà assolutamente santa (heilig), onnipotente, che, creando conformemente al fine e al valore eterno, pone e determina il « sommo bene », il mondo eterno, come il « mondo migliore ». Ciò approda al mistero religioso del governo del mondo. La fede nel governo divino del mondo, ossia nella determinazione e nell’ordinamento di ogni essere e di ogni accadere secondo fine e  





















































2







  Il detto « virtutes paganorum splendida vitia » viene generalmente attribuito ad Agostino, sulla base di De civitate Dei xix, 25. 3   R. Otto, Jakob Friedrich Fries’ praktische Philosophie, « Zeitschrift für Theologie und Kirche », 19, 1909, p. 226.  







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valore eterno, è in ogni religione il possesso più vivo e immediato. In esso, la religione vive in modo essenziale. Contemporaneamente è però un mistero, il cui enigma resta qui assolutamente irrisolto. Dovremmo esser stati a « consiglio con Dio », dovremmo poter conoscere ed esprimere la legge del fine in sé, ciò che è sommo nell’essenza delle cose, per poter dire in generale qualcosa del contenuto del governo divino del mondo. Poiché, però, questo resta per noi inesprimibile già in riferimento al tutto, è ancora meno possibile esprimerlo in riferimento all’elemento singolo e alle parti, che solo nel tutto hanno senso. In una sussunzione religiosa possiamo rapportare solo i nostri propri compiti di vita pratici e morali al fine assoluto (in quanto valutiamo i nostri doveri morali come volontà di Dio). Il pensiero del governo divino, del « mondo migliore » ad opera dell’onnipotenza di Dio, è il bene più puro della visione religiosa delle cose : è ciò attraverso cui la religione procura al credente la pace e l’incondizionata fiducia. È un « credere, non un vedere » e per questo è incapace di uno sviluppo scientifico e inapplicabile come spiegazione nella descrizione della natura e nella scienza della storia. E tuttavia il governo del mondo, l’oggettiva conformità a fini nell’essenza delle cose non è « vedere », ma è più del mero « credere ». Trapassa in esperibilità per la conoscenza mediante sentimento, che « nel bello e nel sublime della natura al di fuori di noi, così come nell’interiorità della propria vita ha il presentimento della bontà eterna ».  

























Capitolo decimo DOTTRINA DEL PRESENTIMENTO 1. Presentimento dell’eterno nel temporale mediante sentimento. – 2. Giudizio estetico contro giudizio logico. Sentimento contro intelletto. – 3. Parabola. – 4. Esempi. – 5. Le tre specie fondamentali del sentimento religioso. – 6. Anamnesis : a) nel giudizio del bello ; b) nel giudizio estetico in generale (apprensione conforme al sentimento dell’unità eterna e della conformità a fini delle cose in sé) ; c) nel giudizio del sublime ; d) le tre determinazioni estetiche del sentimento. – 7. Presentimento del governo divino del mondo.  



1. «





I

l mondo degli spiriti non è chiuso : i tuoi sensi sono chiusi, il tuo cuore è morto ! Su, discepolo, immergi con coraggio il petto mortale nell’aurora », 1 dice Goethe. Nel sentimento puoi ben rivelarti, 2 dice ogni devozione. La « fede » non è l’unica relazione che abbiamo con l’eterno. La devozione di chi è « religioso in senso eminente », di chi propriamente è devoto, vive solo nell’accorgersi dell’infinito nel finito. La vita immediata dà testimonianza del fatto che la natura, ogni esistenza o accadimento, che noi stessi siamo realmente fenomeno di una realtà trascendente. L’idealismo trascendentale – questa convinzione che risiede nascostamente già nella più primitiva fede religiosa – viene vissuto nel sentimento come verità. La conoscenza per idee si costituiva, in quanto conoscenza teoretica, solo « negativamente », in doppia negazione. Ogni contenuto positivo ci era qui precluso. Ma in se stessa questa idea è assolutamente positiva, indica un oggetto di contenuto indicibilmente ricco. Tale contenuto positivo, che si sottrae totalmente alla nostra comprensione, che si può aprire al nostro conoscere concettuale soltanto se i limiti della nostra conoscenza sono, a loro volta, superati, ci si annuncia in sentimenti propri, che come tali sono anche chiaramente distinguibili, determinabili secondo la loro specie propria e comunicabili. Per noi è totalmente incomprensibile cosa sia una causa eterna, santa (heilig), onnipotente di tutto in generale. Con tutti questi attributi offriamo soltanto negazioni : con « eterno » diciamo che non è temporale, ma contrapposto a tutto ciò che è nel tempo ; con « santo » (heilig) e « onnipotente » che non è relativamente buono, relativamente forte, ma che è contrapposto ad ogni relativo. Ma che cos’è ? Nel sentimento del raccoglimento ci si sviluppa in modo molto solido e sicuro una conoscenza positiva, seppur completamente inesprimibile. E sebbene non possiamo dire cosa sia Dio, possiamo tuttavia sentirlo e non lasciare senza risposta colui che vuole saperlo, indicandogli l’occasione di lasciar che questo si ridesti in lui. 2. Quando veniamo afferrati nell’animo, quando veniamo commossi interiormente nella gioia, nella tristezza o in una qualche altra potente tonalità emotiva, questo rimanda comunemente ad un evento, ad un’esperienza che afferra, tocca, commuove ; esperienza che si lascia anche cogliere e presentare concettualmente in modo chiaro. Altre volte sembra che si agitino in modo del tutto immotivato moti dell’animo il cui  







































1

  J. W. Goethe, Faust, i, vv. 443-446.   Cfr. supra, p. 86, nota 7.

2

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fondamento non viene còlto subito. Si sente oscuramente che un fondamento deve esserci, ma per lungo tempo non si riesce a chiarire quale propriamente sia. Alla fine questo sentimento oscuro risulta però risolvibile e, dopo un po’ di introspezione, diviene concettualmente del tutto chiaro quale fosse il fondamento. Ma ci sono anche moti dell’animo di specie particolare, nei quali il sentimento è del tutto irresolubile e non può esser trasposto in alcun concetto. Erompono dalle profondità nascoste dell’animo e per la critica della ragione sono l’enigma più grande. Si legano a singoli oggetti concreti, a fatti, accadimenti : sono questi che muovono e commuovono in modo tanto peculiare. Ma, per quanto questi oggetti e fatti possano essere concettualmente chiari di per sé, è inesprimibile quel che in essi propriamente commuove così. Riconosciamo in essi un significato, un valore che talvolta ci rapisce fino all’estremo e che però resta completamente inesprimibile. Ciò facendo li giudichiamo, perché attribuiamo loro un peculiare predicato. E tutto questo è opera della nostra capacità di giudizio. Ma questo giudizio non è logico, perché nel giudizio logico il predicato che viene attribuito è un determinato concetto sotto il quale il soggetto viene sussunto. È invece un giudizio estetico. E la capacità di giudizio, che viene qui in questione, è quella del sentimento. (Sentire, in questo senso più stretto, è ciò che si contrappone al dedurre.) Generalmente si rimprovera a Fries che, mentre Hegel logicizza la religione, egli la estetizza, il che significherebbe che propriamente la accantona in quanto religione e la lascia decadere a godimento artistico. Questo è un fraintendimento assai grossolano. « Estetico », per lui, è innanzitutto la denominazione di una specie di sussunzione, nel giudicare in genere, contrapposta a quella logica. Gli si potrebbe rimproverare più di superare l’estetica nella religione, che non di far decadere la religione ad estetica : non tanto di estetizzare la religione, quanto piuttosto di religionizzare l’estetica. Il risultato della sua indagine, infatti, va senz’altro al di là della scoperta che l’elemento più profondo nell’impressione estetica, ciò che si eleva al di sopra del « freddo gusto » fino al sentimento vivo del bello e del sublime, è in effetti di natura religiosa. Come si pretenderebbe di contraddire una cosa simile ? Qui, però, per noi si tratta, in modo del tutto generale, del fatto che da cose, eventi, persone, da ciò che esiste e che accade in generale, possono derivare impressioni sul nostro animo, nelle quali ciò che in esse è còlto intuitivamente va molto al di là del loro « concetto », al di sopra di ciò che il singolo elemento presenta secondo concetti. Tali cose sono più di ciò che possiamo dire. E questo « più » non scompare per quanto completamente lo classifichiamo o lo comprendiamo secondo cause. Ciò che qui vien detto si lascia chiarire senz’altro con l’esempio di ogni oggetto che definiamo bello e sublime. 3. Si pensi una natura riccamente predisposta, uno spirito d’artista che cresce in una situazione di basso livello, confinato in un’esistenza banale e in un lavoro e in compiti comuni, senza l’occasione di dispiegare, di attivare o soltanto di scoprire la propria interiorità. Questi si esprimerà in tonalità emotive e sentimenti, in rappresentazioni oscure di qualcosa di « totalmente altro » che conosce solo « negativamente », ossia come quell’« altro » di cui possiede però una conoscenza positiva nel sentimento oscuro ; e inoltre in desideri, aneliti, sentimenti nostalgici, aspirazioni, la cui meta gli è del tutto oscura, ma sommamente reale, valida e commovente in quanto oscuramente sentita. Ciò si applica da sé, per analogia, all’idealismo trascendentale. Se lo spirito raziona 



































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le, secondo il suo essere, è realmente eterno, libero, di destinazione infinita, membro di un mondo del sommo bene sotto la signoria della bontà onnipotente, e se questo mondo della natura, del tutto opposto, che lo circonda, ed egli stesso in quanto sua parte non sono effettivamente nient’altro che un’immagine del vero, formata dalla limitazione della sua conoscenza concettuale, allora il vero stesso deve divenire per lui vivo nella conoscenza oscura del sentimento e deve porsi in contrapposizione a quell’altra conoscenza, deve farsi avanti in tonalità emotive, aspirazioni, rappresentazioni oscure di specie peculiare (che espresse con i mezzi del suo mondo concettuale danno in effetti l’intero grande ambito della mitologia e della simbolica religiosa). In fondo egli sa oscuramente la verità eterna. E nei sentimenti questo sapere fondamentale erompe come presentimento. Per contro, il fatto che in ogni animo che vive in modo più profondo un tale presentimento divenga reale e in vario modo vivente, diventa una testimonianza in favore dell’idealismo trascendentale. 4. Quel che qui si intende lo dicono le opere di Goethe con inimitabile precisione nel coglimento come nell’espressione dello stato di fatto psichico :  

Nella purezza del nostro seno si culla un’aspirazione Di consegnarci volontariamente, per gratitudine A qualcosa di più elevato, puro, sconosciuto Rivelandoci l’eterno-innominato. Lo chiamiamo esser devoti. 3

Fries ha spesso in mente il presentimento in questo senso del tutto generale, in quanto « risuonare dell’idea », un divenir vivo della verità eterna nel sentimento in genere. Esso si realizza ogni volta che una cosa o un processo destano sentimenti religiosi. Questo ridestarsi, in verità, non è altro che l’anamnesis di Platone. Mediante una somiglianza casuale o internamente fondata, o mediante analogia tra una cosa o un processo e un’idea ci si « ricorda » di quest’ultima : l’idea viene risvegliata – per lo più oscuramente – e con ciò viene risvegliato, contemporaneamente, il moto d’animo che le corrisponde. Ciò è chiarissimo in tutte le rappresentazioni di cose che chiamiamo sublimi (vedi infra). Ma anche nel miracoloso è così. (E con ciò la dottrina di Fries risolve un peculiare problema della storia della religione : ossia il senso religioso della fede nei miracoli e il fatto sorprendente per cui il miracolo è connesso in modo tanto inseparabile alla religione. Il miracolo è stato in tutti i tempi quel processo che è « totalmente altro » rispetto ad ogni accadimento usuale e quotidiano. E, in effetti, gli eventi non compresi, enigmatici, misteriosi quanto al da-dove e al perché hanno sempre esercitato un incanto del tutto meraviglioso, un’enorme impressione religiosa in senso indiscutibilmente autentico. Non v’è alcun dubbio che proprio in tali eventi sia sempre stato il più potente impulso a far sorgere sentimenti religiosi in genere, abbastanza spesso anche là dove non si erano ancora formate rappresentazioni di dèi o dell’aldilà. Ma come può riuscirci il momento del misterioso e del non compreso ? In effetti solo perché l’apparente mistero di un qualche processo « miracoloso » ridesta il « ricordo » del mistero dell’assolutamente soprasensibile, che riposa nel sentimento e che qui ora sembra comparire esteriormente nel corso delle cose. Così quel che qui sussume un processo sotto l’« idea » non sono raziocini e riflessioni concettuali, ma il giudizio immediato del sentimento. Di qui la potenza immediata con cui nel vissuto dell’« inesplicabile » il brivido religioso afferra  





























3

  Marienbader Elegie, 1823.





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chi lo vive. Come mostra la riflessione qui presentata, in questo caso è possibile la successiva analisi del sentimento attraverso cui un processo è stato qui sussunto sotto l’idea. Si può qui mostrare dove propriamente risiedeva il momento della concordanza, dell’analogia tra l’oggetto e l’idea : è il momento del segreto, dell’inesplicabilità, del limite della nostra conoscenza, che pertiene ad entrambi. Perciò questo giudizio non deve esser definito puramente estetico.) Un sentimento autenticamente religioso, che, dopo quanto detto, comprendiamo bene, è quello descritto in modo così classico nelle notissime parole di Agostino :  



Tu fecisti nos ad te, et inquietum est cor nostrum in nobis, donec requiescat in te. 4

È il sentimento dell’anelito religioso, che sarebbe psicologicamente del tutto inconcepibile senza l’idealismo trascendentale, ossia senza la circostanza per cui l’anima in fondo sa il luogo cui appartiene, ma lo sa solo in modo oscuro e non compreso. Apelt offre altri begli esempi nella sua Religionsphilosophie, cit., p. 143. L’elemento più generale è qui quel sentimento del tutto confuso, che resiste ad ogni espressione simbolica, dell’abissale profondità e del mistero dell’esistenza e del mondo in genere, che, anche di fronte ad ogni più estesa spiegazione e comprensione della natura per cause e secondo leggi, si afferma subito in modo del tutto immodificato. Può erompere dall’intimo quasi nel senso di una violenza che confonde e può far tremare ogni fibra. Dal punto di vista della psicologia e della storia delle religioni sarebbe significativo rintracciarne l’effetto nei culti dionisiaci, nella lamentazione per Adone e per Tammuz, 5 nel culto di Cibele e nel « terror panico ». a Se l’idealismo trascendentale non fosse stato da lungo tempo trovato, dovrebbe svilupparsi sempre di nuovo già solo da questo sentimento, se non in forma filosofica, almeno mitologica. 5. Le specie più alte di sentimento religioso sono quelle tre che corrispondono ai tre misteri religiosi sopra menzionati e che Fries ama chiamare : « entusiasmo, rassegnazione, raccoglimento ». 6 Il mistero della nostra dignità superiore a tutta la natura e della nostra destinazione eterna e imperitura vive in quell’elevazione a null’altro paragonabile, non felice, ma beata, in quell’entusiasmo che può arrivare sino all’ebbrezza, attraverso cui la religione esercita i suoi possenti effetti di superamento del mondo e di capacità d’azione etico-religiosa, e attraverso cui, nella maggior parte dei casi, l’individuo devoto si distingue da quello profano. Se questo entusiasmo religioso dovesse giustificarsi concettualmente rispetto a se stesso, saprebbe dire poco. Non si trasmette ragionando, ma si effonde con lingue di fuoco. 7  









a   Cfr. NRW2, p. 33. Se mi è consentito parlare di qualcosa di personale, questo sentimento è divenuto vivissimo per l’autore nel silenzio serale della sabbia del deserto di fronte all’immane Sfinge di Giza e ai suoi occhi che guardano l’infinito. È senz’altro latente in ogni anima e si sviluppa relativamente agli oggetti più disparati, ma nel modo migliore, forse, nel « silenzio del mezzogiorno » di una vasta brughiera. Schleiermacher, in quella parte mistico-debordante del suo secondo discorso (che nella mia edizione ho definito « intermezzo »), e Böcklin nel suo Das Schweigen im Walde [Il silenzio nel bosco, 1876] si avvicinano alla cosa da lati diversi.  







4

  Conf. i, 1.1.   Divinità semitica della vegetazione e del raccolto, che corrisponde all’Adone della mitologia greca : di entrambi veniva celebrata la morte all’approssimarsi dell’inverno con lamentazioni rituali. Cfr. Ez 8, 14 : « Mi condusse all’ingresso del portico della casa del Signore che guarda a settentrione e vidi donne sedute che piangevano Tammuz ». 6   Cfr., per esempio, System der Metaphysik, p. 61. 7   At 2, 3. 5

   





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Il mistero del bene e del male, della colpa della nostra esistenza naturale, vive nei sentimenti di un’umile rassegnazione di fronte alle mancanze, alle oscurità e alle confusioni della nostra esistenza temporale, che allora ci imputiamo e assumiamo come colpe, e contemporaneamente nei sentimenti del desiderio di redenzione e trasformazione. Il pensiero fondamentale del sommo bene ad opera dell’onnipotenza della bontà santa (heilig) vive invece nel sentimento del raccoglimento, della fiducia che ha fede e della speranza. In modo altrettanto molteplice si dispiega il sentimento religioso. Il sentimento della « dipendenza assoluta » è in effetti uno dei suoi lati. Si trova incluso nel sentimento del raccoglimento. Ma di per sé è di gran lunga insufficiente a descrivere il sentimento religioso in tutta la sua ricchezza ed è religioso, nel senso superiore del termine, solo se significa una dipendenza del nostro spirito personale dalla santa (heilig) causa di tutto, che ama e pone il fine sommo. 6. Guardiamo ancora una volta indietro al nostro artista camuffato : ad un Mozart che è dovuto crescere tra i Lapponi o tra gli Eschimesi. Se un individuo simile incontrasse per la prima volta della musica, mentre per la sua gente sarebbe soltanto un curioso rumore, per costui si desterebbe una comprensione di essa, a lui stesso incomprensibile, un presentimento di ciò che qui ha luogo, un « ricordo » e una conoscenza mediante peculiari sentimenti di diletto. Altrettanto : se lo spirito umano è realmente un cittadino del mondo eterno di Dio, un membro della comunità del sommo bene, in cui tutto ha valore eterno ed è conforme al fine sommo, allora laddove nella natura gli si fa incontro qualcosa di questa somma finalità non compresa, gli deve sorgere questo « ricordo » mediante un accordo secondo principi a lui stesso incomprensibili, mediante sentimenti di un diletto specifico. L’ambito distinto di un simile presentire mediante specifico diletto è quello del bello e del sublime. a. Giudichiamo qualcosa come bello in totale differenza dal piacevole. Con ciò attribuiamo alla stessa cosa giudicata un predicato di validità oggettiva, vediamo che questo predicato pertiene alla cosa del tutto a prescindere dal nostro proprio umore e dalla nostra inclinazione contingenti e presumiamo che ogni gusto, se è abbastanza formato per questo, giudichi nello stesso modo. Ma che cosa ascriviamo propriamente ad essa e sotto che cosa la sussumiamo se la riconosciamo come bella ? Noi stessi non siamo in grado di dirlo. È del tutto inesprimibile. « Bello » è indefinibile. E il genio, che produce il bello, non può produrre nulla secondo regole o concetti determinati. Si possono indicare solo le seguenti determinazioni formali : vi è sempre qualcosa di bello là dove qualcosa di intuitivo e di molteplice viene sentito da noi, in modo peculiare, come una unità. Singole impressioni isolate dell’udito o della vista non sono mai belle. Solo quando si presentano insieme in unità, secondo un certo principio che però è di per sé inesprimibile, può apparire qualcosa di bello. Ciò che è giudicato bello è, in verità, la forma dell’unità, che può esser molto diversa e può essere più o meno bella. Ma senza di essa non vi è in generale bellezza. Una tale forma dell’unità – quale che sia il peculiare principio che da un mucchio di freghi dà figura ad un arabesco bello, o da una molteplicità di suoni ad una melodia bella, o anche da una molteplicità di proprietà psichiche all’armonia del carattere – si chiama, secondo Kant, idea estetica. Ve ne sono innumerevoli, nelle formazioni della natura come dell’arte, nel corporeo e nello spirituale, nel perdurare delle figure e delle loro forme come nel cambiamento e nel  























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flusso dell’accadere. Dove ci si fanno incontro, sono « avvolte dal soffio magico ». 8 La facoltà delle idee estetiche è il gusto : può essere un gusto freddo, che non è altro che il virtuosismo di rintracciarle, classificarle e « intrattenersi » con esse ; ma allora non lo definiamo affatto, propriamente, un’esperienza vissuta del bello. Questa interviene solo per un sentimento estetico più profondo. Solo qui l’idea estetica diviene viva. Qui essa ottiene un senso, un significato interno che ci parla già nella semplice bellezza di un fiore e che parla in modo più toccante, e in misura sempre crescente, attraverso tutte le bellezze della natura e dello spirito. Non possiamo tradurre questa lingua nei nostri concetti, ma il suo mistero è completamente dischiuso al sentimento e lo muove con le tonalità emotive più disparate in tutti i gradi. b Con una crescita graduale, questo giudicare « estetico » si estende al di sopra dell’intera, grande, unica vita universale della natura in genere e della storia nel susseguirsi dei suoi fenomeni e ci interpella con un senso profondo e con un interiore spirito del tutto, che si offre sempre di nuovo all’interpretazione e che sempre di nuovo sfugge ad un tale giudicare, ma tiene desta la coscienza di un senso in genere, seppure solo sentito. c b. Come ciò sia possibile, possiamo svelarlo se ci lasciamo guidare da quel che soltanto nel giudizio estetico si lascia afferrare in modo sicuro. L’idea estetica è una forma – inesprimibile – di unità del molteplice. Noi conosciamo l’unità (e necessità) nelle cose nei concetti della natura e nelle idee. Nel giudizio estetico, dunque, l’intuizione del molteplice mi si presenta, in modo indeterminato, sotto la facoltà dei concetti della natura e delle idee. Questo significa che conosco indeterminatamente, oscuramente, e per presentimento, ma in modo del tutto specifico, l’intero mondo secondo le leggi somme della sua unità e necessità ; mondo che mi si chiarisce concettualmente nelle categorie in genere e soprattutto nelle categorie complete dell’eternità, dello spirito, della libertà, della divinità. Nella conoscenza estetica per presentimento conosco, in modo oscuro e inesprimibile, nel mondo intuitivo del fenomeno stesso l’essenza ideale in genere, in modo indeterminato rispetto al singolo lato. Di più. Proprio questo mondo, conosciuto sotto categorie e idee, è in verità il mondo dello spirito, il mondo sotto la legge del bene e del sommo bene, il « migliore dei mondi », il mondo del fine ultimo oggettivo. Diviene chiaro, così, perché quel coglimento estetico per presentimento non sia soltanto di natura « speculativa », perché non offra al sentimento soltanto fredde forme dell’unità, ma dia contemporaneamente i commoventi contenuti del sentimento che accompagnano quelle. In quanto nelle idee estetiche colgo oscuramente nel mondo del fenomeno l’unità e la connessione della vera realtà, quale essa sussiste in sé, colgo contemporaneamente per presentimento la sua teleologia. In quanto dichiaro qualcosa « bello », attribuisco ad esso un fine e un valore oggettivo, un valore che non c’è solo per me, ma in se stesso ; indico un fine in vista del quale ha senso che qualcosa sia piuttosto che non essere, e che può essere pensato come fondamento del fatto che un’eterna onnipotenza chiami delle cose all’esistenza. Non posso indicare concettualmente cosa sia propriamente questo valore in sé del bello. Ma lo sento e acconsento liberamente ad esso. E in generale l’im 































b   Cfr. Apelt, Rel.Phil., p. 132 : idee estetiche di singoli alberi secondo le immagini della natura di Masius. La « spiegazione » di una tale idea singola brancola in direzione dell’inesprimibile e non lo esprime. E proprio in ciò risiede lo stimolo alla rappresentazione. c   In NRW2, p. 280, ho tentato io stesso una tale interpretazione « brancolante » del tutto della natura, della sua vita e del suo sviluppo, mediante la « volontà di divenire ».  









8

  J. W. Goethe, Faust, Dedica.





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pressione stessa del bello non è altro che questo cogliere e questo gioioso riconoscere l’oggettiva conformità al fine della sua esistenza e del suo esser così. La ragione dà il valore assoluto all’esistenza del razionale e dello spirituale stesso. Il suo analogo è ciò che essa coglie e di cui ha il presentimento nella bellezza della natura. c. Nei vissuti del sublime tutto questo si fa ancor più prepotente che nel bello. Il vissuto del sublime porta in sé il carattere del presentimento dell’inesprimibile, della sussunzione sotto l’idea religiosa, in modo tanto inconfutabile che su questo non vi è mai stata una controversia. Già nella bellezza si è dovuto distinguere tra la bellezza « matematica » e quella « alta », tra la corporea e la spirituale, tra la bellezza della forma esterna e quella dell’espressione dello spirituale nella forma. E di qui si sono fatti gradi e differenze nel valore di sentimento delle impressioni. Il sublime è altrettanto molteplice. Il sublime matematico è ciò che sopraffà per grandezza spaziale : una cattedrale elevata, un’imponente parete di roccia, il mare smisurato, la volta del cielo. L’impressione si realizza qui totalmente solo per « sussunzione ideale ». Una cosa, infatti, è sublime nel senso spaziale solo se raggiunge i limiti della mia capacità di apprensione e così esercita l’impressione dell’assolutamente grande, ossia del perfetto. Una cosa diviene qui sublime in quanto, mediante la sua apparente assolutezza, diviene un’immagine del perfetto, dell’assolutezza stessa (esattamente come qualcosa di inspiegabile o di misterioso era un’immagine del mistero assoluto). Il sublime dinamico è tutto ciò che nella natura è ultrapossente, tutto ciò che è minaccioso-spaventoso. Ha un effetto di elevazione, perché fa « risuonare » e ridesta in noi l’idea dell’onnipotenza assoluta, della potenza divina. Con ciò, anche qui, quel che è sublime in senso spirituale si eleva a grandezza d’animo, eroismo, intrepidezza, e si eleva all’agire per dovere e a ogni sublimità nella storia e nel destino dell’uomo e dei popoli. d. Infinitamente varia è la possibilità di impressioni estetiche ; infinitamente diversa la forza e l’efficacia con cui si realizza per il sentimento giudicante questa relazione del finito all’infinito : ed è difficile distinguere come e da che punto di vista si realizza nel singolo. Ci guida qui la distinzione e la suddivisione corrente dell’impressione estetica in epica, drammatica e lirica, che corrisponde a quelle tre determinazioni fondamentali del sentimento religioso : entusiasmo, rassegnazione, raccoglimento ; e la coscienza di una destinazione eterna dell’uomo, del bene e del male, della colpa e della responsabilità e, infine, del senso eterno delle cose stesse, mediante la provvidenza che regge il mondo, ne costituisce la profondità. d  

























d

  Se si esaminano gli esempi dell’« intuizione dell’universo » che Schleiermacher adduce nelle Reden, si troverà che i più convincenti si adattano perfettamente a quest’ambito della dottrina friesiana del presentimento e dell’anamnesi. La maggior parte di essi potrebbero essere raccolti sotto il « sublime ». E che egli stesso abbia confusamente intuito quel che Fries configura in una chiara dottrina, si ricava dai sinonimi che impiega per « intuizione dell’universo ». Li ho raccolti nella postfazione alla mia edizione della versione originaria delle Reden. Sono molto istruttivi. Da essi si vede che appena le espressioni oscillanti di Schleiermacher si precisano meglio, finiscono esattamente nel contenuto indicato da Fries, nell’eterna « unità » posta da Dio e nella « conformità al fine » nell’essenza delle cose. La dottrina di Fries si fonda completamente sulla Kritik der Urteilskraft di Kant. Kant ha sostenuto in tutta chiarezza la dottrina dell’anamnesi e da questo punto di vista, e da altri, è stato molto più platonico dei nuovi platonici dell’epoca che, contro di lui, si atteggiavano a geni (p.e. Schlosser. Cfr. R. Otto, Ein Vorspiel zu Schleiermachers Reden über die Religion, « Theologische Studien und Kritiken », 1903, pp. 470 e ss.). Vengono qui in questione, in particolare, i capitoli kantiani sul sublime, nei quali la sua grande dottrina delle idee mette i germogli di una dottrina della religione che sono molto più autentici di quei prodotti forzati e artificiosi che aveva realizzato la dottrina dei postulati.  























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capitolo decimo

7. Alla concezione estetica della teleologia oggettiva nella natura e nel singolo fenomeno corrisponderebbe una divinazione del governo divino del mondo nella storia e nella vita del singolo, poiché « governo divino » non dice assolutamente altro che posizione e realizzazione di fini. L’allievo di Fries de Wette ha tentato di rendere un tale « presentimento del governo divino nella storia » il principio della sua interpretazione della storia della religione. e Il pensiero è significativo. Solo che si vede subito che non offre un principio scientifico di spiegazione, ma un principio « estetico » per l’interpretazione religiosa dello sviluppo storico.  











e   A questo si riferisce Fries, Rel. Phil., p. 41 : « Qui possiamo riconoscere nel sentimento del raccoglimento, in quanto grazia divina, che siamo divenuti degni di una visione tanto luminosa della religione. Possiamo, come dice de Wette, vedere l’idea della rivelazione in quanto presentimento del governo divino del mondo nella storia dello sviluppo delle verità della religione ».  





Capitolo undicesimo CONCLUSIONE 1. In Fries nessuna comprensione della singola formazione storica della religione. – 2. Chiave di questa comprensione nella dottrina friesiana del sentimento e del presentimento.

1.

F

ries ha mostrato così il luogo della religione nell’animo, le fonti dalle quali essa procede, il modo delle sue conoscenze, le sue relazioni con le altre attività dello spirito, le sue idee fondamentali generali e con ciò l’essenza generale della religione. Se la sua filosofia della religione deve valere come base di una scienza della religione odierna, deve fare ancora una cosa : deve dare anche una chiave per il manifestarsi della religione nella storia, per la sua diversità e molteplicità storica, per i suoi gradi e livelli, per le sue manifestazioni inferiori e per quelle supreme. Lo stesso Fries tenta qualcosa di simile nell’ultimo capitolo della sua Religionsphilosophie, sotto il titolo che allora, secondo il criterio del deismo, si utilizzava per questo : « le religioni positive ». Quanto qui offre è, comprensibilmente, ancora abbastanza povero. Quell’epoca possedeva solo una lontanissima comprensione reale di ciò che è totalmente inimitabile e individuale, che costituisce appunto il peculiare carattere di un fenomeno singolare tipico e l’impronta del sentimento e del vissuto religioso. Da questo punto di vista, lo stesso Fries è ancora completamente sotto l’influenza del deismo e, con ciò, dell’antica dottrina di scuola. Proprio da quest’ultima il deismo aveva tratto la convinzione che propriamente vi sarebbe solo la religione, secondo quello che era stato il presupposto ovvio dell’antico sistema dogmatico. Si credeva di poterla cogliere in poche, semplici caratterizzazioni e proposizioni. Non si dubitava che essa si esprimesse nel modo più puro nel cristianesimo, ma si credeva di poterla ritrovare in modo concordante e universale in tutti i popoli e in tutte le lingue. E la considerazione storico-religiosa del deismo consisteva proprio nel tentativo di far ciò. Secondo questo metodo il compito dello zoologo sarebbe quello di cogliere e di ritrovare universalmente nella tartaruga, nell’aquila e nell’uomo l’« essenza » dei vertebrati, trascurando l’elemento individuale come meramente « positivo ». Ma le religioni si distinguono tra loro in modo molto più preciso e interno che non la tartaruga e l’aquila, e tra loro non vi sono espliciti livelli di rango e dignità, come invece tra la tartaruga e l’uomo. Anche Fries fa la consueta distinzione di livello tra il feticismo, il politeismo e il monoteismo, a cui allora arrivavano tutti : come ora sappiamo è molto vaga e non dice proprio nulla della qualità delle religioni in questione. Ma anche il principio distintivo della maggiore o minore compiutezza e purezza delle « idee » religiose, alle quali la sua distinzione infine perviene, offrirebbe al massimo differenze di grado – e forse nemmeno queste – ma non condurrebbe a quelle profonde differenze qualitative che sussistono tra religione e religione. Mancava, qui, ancora la comprensione, anche solo la conoscenza dei fenomeni storici ; il che risulta forse nel modo più evidente rispetto alla storia della religione veterotestamentaria. Che ne sapeva quel tempo dell’elemento totalmente individuale della devozione di un Elia a differenza di quella di Geremia, di Ezechiele, della devozione dei Salmi o di quella farisaica ! Quanto indifferente diviene qui il « contenuto di idee comune » rispetto al  





























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capitolo undicesimo

differente contenuto di devozione e di tonalità emotiva che ogni volta si pone sotto a quello. Che ne sapeva quel tempo della specificità, reale e spirituale, del cristianesimo rispetto all’islam, al buddhismo o allo yoga secondo le loro interne differenze di qualità ! Ancora in Fries, proprio come nel deismo, smussando il più possibile l’impronta determinatamente storica, si prende un elemento in fondo totalmente « positivo », ossia, in verità, il tipo della fede cristiana, per la religione, la quale viene poi contrapposta a quella « positiva ». Ma anche il cristianesimo, e proprio secondo i suoi contenuti distintivi e non solo secondo la sua casuale forma storica, è una religione tra le religioni. Solo se la si è còlta in questo modo diviene in generale possibile un confronto e con questo poi, ne siamo convinti, la testimonianza che essa è la primogenita quanto a dignità e verità tra le sue sorelle. 2. La possibilità, però, di comprendere l’individuazione della religione e l’esistenza delle differenze di qualità – e con ciò anche l’esistenza delle differenze di valore e la necessità di distinguere tra religione più e meno perfetta non soltanto rispetto a chiarezza e oscurità, ma anche al peculiare spirito di ogni singola religione – , era offerta incomparabilmente bene, ci sembra, proprio nei fondamenti della filosofia della religione friesiana, sebbene lo stesso Fries non ne faccia uso : la sua dottrina del sentimento religioso e morale, e della « libera » capacità di giudizio in entrambi. Qui è data senz’altro la possibilità, anzi la necessità di esperire, cogliere e ricevere in modo individuale e qualitativamente proprio l’eterno. Come : lo mostrano l’esperienza e la storia. Dove nel modo più puro e vero : lo giudica, di nuovo, la « libera » capacità di giudizio del sentimento. L’una e l’altra cosa, però, solo dopo che la filosofia della religione ha offerto il fondamento e il filo conduttore dell’intera questione.  























C. LA FILOSOFIA DI FRIES IN RELAZIONE ALLA TEOLOGIA (de wette. tholuck) Capitolo dodicesimo RACCONTO DIDASCALICO DI DE WETTE 1. Significato di de Wette. – 2. Theodor. – 3. Neologia. – 4. Kantismo. – 5. Schelling, romanticismo. – 7. 1 Fries. – 8. Intelletto e ragione. – 9. Rivelazione interna ed esterna. – 10. Soprannaturalismo e naturalismo. – 11. L’immagine di Cristo. – 12. Ecclesializzazione. – 13. Dottrina del sentimento. – 14. Schleiermacher. – 15. Kant. – 16. Dottrina del presentimento. – 17. Elemento di stranezza.

1.

C

ol suo amico de Wette, la filosofia di Fries è entrata in relazione con la teologia nel modo più efficace e più ampio. Per chi voglia studiare la teologia, e la teologia moderna, de Wette – accanto a Schleiermacher – è interessante da diversi altri punti di vista e anche questi devono esser qui fatti valere. Risulta interessante in primo luogo, e del tutto in generale, perché nell’immagine e nel lavoro della sua vita si mostrano nel modo più tangibile e istruttivo quelle forze motrici che, dopo i giorni della teologia dell’illuminismo e del razionalismo, hanno riportato ad una configurazione dottrinale cristiana in un senso più specifico, e che hanno determinato, fino ad oggi, l’immagine complessiva della teologia del secolo precedente, avendo condotto in parte ad una esclusione dei risultati dell’epoca precedente, in parte ad una connessione con quelli : le due cose in molteplici gradi e passaggi. La connessione ha dato luogo alla « teologia della mediazione » con le sue ricche gradazioni : per la nascita e il carattere di questa de Wette è tipico, accanto a Schleiermacher, in un secondo e più ristretto senso. Insieme a quest’ultimo, egli significa molto per la questione più caratteristica della teologia moderna, quella relativa all’essenza e al significato della religione nel contesto della vita dello spirito umano in generale, e dunque anche per tutta quella recente trattazione della nostra religione nel contesto della religione in genere, ossia per la relazione tra la teologia e la scienza della religione in genere (tanto storia della religione, quanto psicologia e filosofia della religione). a Qui de Wette ha lavorato largamente in anticipo sul suo tempo e ha sviluppato in opere più ampie ciò che in Schleiermacher prende forma solo per « assiomi » nella Einleitung alla sua Glaubenslehre. Una volta Wellhausen mi disse in relazione a de Wette : « Un tipo intelligente ! In lui c’è già tutto quello che ho fatto io sull’Antico Testamento ». Ora, il grano di verità che vi è in quest’ammirevole nonsenso vale anche dell’Über Religion und  



















a   È solo in questo nuovo metodo che risiede il « moderno » : non nel maggiore o minore allontanamento dalla dottrina scolastica ortodossa. Potrebbe esserci anche una « ortodossia moderna ».  









1   Ho mantenuto l’errore nella numerazione dei paragrafi (manca il paragrafo 6), che torna nel resto del capitolo.

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capitolo dodicesimo

Theologie di de Wette e del successivo Über die Religion, ihr Wesen, ihre Erscheinungsformen und ihren Einfluß auf das Leben ; e facciamo male a comportarci come se tutti questi lavori fossero andati perduti : per il modo in cui oggi ci si pongono gli stessi problemi, sarebbe da parecchi punti di vista più utile riprendere questi testi piuttosto che lo scritto di Schleiermacher che porta lo stesso titolo (Reden über die Religion) ; tanto più se si tratta di introdurre studenti e principianti a queste cose fondamentali. Essi ci insegnano in che modo quell’epoca, in cui e nei cui motivi vi sono i punti di partenza della nostra teologia odierna, determinava il compito, la specificità e la situazione della teologia nel tutto della scienza in genere, e con ciò la relazione tra la scienza della religione cristiana e la scienza della religione in genere, tra la scienza della religione e la filosofia, tra la dottrina morale religiosa, e religioso-cristiana, e l’etica in genere. Così questi lavori gettano una luce su quello sviluppo successivo, che lo studente di dogmatica dovrebbe conoscere e comprendere, e aiutano, infine, a determinare in modo per noi nuovo e più valido tutti questi compiti oggi importanti. Con queste ultime indicazioni torniamo ad essere del tutto in connessione con quanto sin qui trattato. L’elemento filosofico in de Wette, infatti, è totalmente determinato da Fries, con alcune venature schellinghiane che però sono presenti solo in modo sparso. Egli riconosce spesso e con convinzione Fries come suo maestro, dal quale gli è stata data una base sicura per il proprio mondo concettuale. Assunta questa base, il suo proprio edificio teologico si amplia, crescendo gradualmente su di essa, solo poco a poco, come si può vedere assai chiaramente dalla serie delle sue opere e delle singole edizioni di queste, che si susseguono, una dopo l’altra, sempre più ampie. Proprio questo sviluppo è molto istruttivo per la questione del rapporto tra l’elemento specifico della teologia, ossia la dottrina della religione cristiana, la filosofia e la scienza in genere. Istruttivo, non ultimo, anche per i suoi errori. Nella seguente esposizione si prescinde totalmente dalle grandi prove di de Wette nell’esegesi e nella critica storica. b Ci guidano solo i punti di vista menzionati sulle questioni fondamentali e sui rapporti tra la teologia in genere e la dottrina morale e della fede in particolare, e ci guida, in pari tempo, il desiderio di mettere in contatto il principiante con i movimenti spirituali, i motivi dell’epoca e le relazioni sotto cui è nata la nuova teologia. Le durature relazioni con Schleiermacher si presentano da sé. 2. Nel romanzo didascalico Theodor, oder des Zweiflers Weihe. Bildungsgeschichte eines evangelischen Geistlichen [Theodor, ovvero dell’iniziazione del dubitante. Storia della formazione di un religioso evangelico, Berlin 1822], de Wette offre una viva descrizione della sua evoluzione, del suo proprio esser toccato dal cristianesimo, dei compiti teologici ed ecclesiastici, che il suo tempo pose in modo nuovo e peculiare, del ridestarsi sempre di nuovo sorprendente e toccante di una nuova interiorità, devozione e cristianità intorno alla fine del xviii e l’inizio del xix secolo, ancora prima dell’epoca del « risveglio », 2  









b   Da questo punto di vista e sulla vita e sul significato di de Wette in generale cfr. l’articolo di [G.] Frank – [F.] Kattenbusch in [A.] Hauck, Real. Enz., B. 21, e quello di [H.] Holtzmann in Allgem. Deutsche Biographie, volume 5, [Leipzig 1877, pp. 101-105] e anche : [A.] Wiegand, De Wette, [Erfurt] 1879, e [R.] Stähelin, De Wette nach seiner theol. Wirksamkeit und Bedeutung, [Basel] 1880.  

2   Con il termine « risveglio » (revival, réveil, Erweckung) vengono identificati diversi movimenti spirituali sorti in seno al protestantesimo tra il xviii e il xix secolo, a partire dal metodismo inglese. In Germania, il termine « Erweckung », inteso come conversione interiore, si diffonde nel lessico del pietismo grazie ad autori come G. Tersteegen, J. C. Lavater (Erweckung zur Buße, Frankfurt a. M. 1772), N. L. von Zinzendorf, C. H. von Bogatzki e altri (cfr. A. Langen, Der Wortschatz der deutschen Pietismus, Tübingen, Niemeyer, 19682).  







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ma anche dell’insieme vario e movimentato delle correnti spirituali di questo periodo tra il 1800 e il 1820, tanto interiormente inquieto ed eccitato, che sgorga prepotente da nuovi impulsi. Lo scrisse nel 1822 quando, deposto dal suo incarico 3 e in attesa di nuovo lavoro, viveva a Weimar, mentre era anche occupato con l’edizione delle lettere di Lutero. Aveva dietro sé il primo periodo della sua vita : la fruttuosa convivenza con Fries a Heidelberg, poi la proficua attività d’insegnamento a Berlino al fianco di Schleiermacher, in un’amicizia che diveniva via via sempre più stretta. Come per quest’ultimo, così anche per de Wette l’habitus specificamente teologico, rispetto a quello degli anni e degli scritti dell’inizio, aveva ricevuto l’impronta dall’incarico d’insegnamento e dal compito di preparare gli studenti per il servizio pratico nella Chiesa ; e anche nella configurazione della dottrina molto viene determinato dal riguardo per un possibile aggancio con la devozione della « comunità » della quale si vuole essere al servizio. Questo aggancio, però, non è forzato, ma discende dalla sua propria disposizione interiore e dal suo vissuto. La vita del suo animo, esattamente come in Schleiermacher, era sorta là dal razionalismo, qui dal romanticismo ed era divenuta intimamente affine al sentire biblico-cristiano e al comune spirito della Chiesa. Muovendo da questo punto di vista, e mescolando verità e poesia, nella figura di Theodor de Wette delinea essenzialmente la sua propria evoluzione teologica, facendo maturare in Theodor molto più velocemente ciò che in lui stesso prende forma solo negli anni più tardi e nell’incarico d’insegnamento, e saltando i gradi che sono ancora molto più vicini al razionalismo, come mostrano le prime edizioni delle sue opere, per esempio della sua dogmatica. Dal punto di vista della storia della Chiesa il libro deve esser definito una fonte, redatta da un conoscitore a partire dalla sua più propria esperienza. Per molti giovani teologi e « dubitatori » del suo tempo fu sicuramente quel che voleva essere, ossia una benedizione, e poiché sotto più di un profilo la situazione spirituale di oggi sembra di nuovo simile a quella di allora, potrebbe esserlo di nuovo anche oggi. Il suo valore artistico non ci interessa. Non ha pretese da quel punto di vista ed è più da imputare ad un’epoca che era usa a romanzi didascalici. Si riallaccia in tutto e per tutto al genere che Jacobi in particolare, con i suoi romanzi filosofici, aveva insegnato ad apprezzare e che caratterizzava una specie di lettori, i quali non desideravano tanto sensazioni o anche solo intrattenimento, ma un contenuto spirituale o un dialogo sui problemi della loro propria vita spirituale, che era effettivamente cólta. Senz’altro de Wette ha avuto una sollecitazione diretta a questa forma di comunicazione del pensiero dalla simile attività di scrittore del suo amico Fries, il cui romanzo didascalico Julius und Evagoras, oder die Schönheit der Seele, ricco di contenuto, appariva nello stesso anno nella sua seconda edizione. La trama del romanzo è piacevole e il tratteggio dei personaggi, che interpretano tutti determinati tipi dell’epoca, è chiaro e sicuro. 3. Theodor proviene da buona ed agiata famiglia, nella quale sono ancora vivi la devozione luterana ereditata e i buoni costumi della casa. Sua madre, con un voto pronunciato in un momento difficile, lo ha destinato, già da bambino, a diventare un ecclesiastico. Docilmente Theodor, insieme col suo amico Johannes, che pure ha scelto la professione ecclesiastica, va all’università. Johannes è di carattere quieto e tranquillo ; il suo spirito è incline meno a pensare da sé, che non al ricevere e a fissare ciò che gli vie 













3   Nel 1819 l’Università di Berlino tolse a de Wette la cattedra, in seguito alla lettera di solidarietà che questi scrisse alla madre di Karl Ludwig Sand, lo studente giustiziato per l’assassinio del drammaturgo tedesco August von Kotzebue (1761-1819).

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capitolo dodicesimo

ne offerto : per questo è portato soprattutto allo studio delle lingue e della storia. Senza impedimento attraversa tutti gli attacchi della nuova critica, la neologia dell’esegesi alla moda. È il più dotato nell’afferrare e comprendere la parola della Bibbia, nel notare dotte spiegazioni di dettaglio. Non raramente mostra l’arbitrarietà e le scorrettezze linguistiche delle nuove interpretazioni razionalistiche dei miracoli, e nelle difficoltà e contraddizioni dei resoconti si attiene al singolo elemento e in questo modo si accontenta facilmente. Theodor, al contrario, già da fanciullo aveva mostrato uno spirito penetrante, impertinente, acuto ; si era formato più nella logica e nella matematica che nella filologia e desiderava con impazienza le lezioni di filosofia. Le piccole rattoppature apologetiche di Johannes non lo soddisfano. Egli « guardava più al tutto ed osava giudizi radicali ». 4 Dalla trattazione della nuova critica gli deriva uno scossone generale delle sue convinzioni di fede, mentre Johannes si mantiene del tutto indenne. 4. Dopo lo scrupoloso esegeta, che espone coscienziosamente e meticolosamente tutte le opinioni, senza decidere qualcosa da sé, ascolta un docente più giovane che è in odore di eresia, ma che lo attrae molto, nonostante la superficialità delle spiegazioni linguistiche, con acute combinazioni, con l’interpretazione del miracoloso a partire dai costumi e dai concetti dell’epoca e con la riconduzione dei detti di Gesù a verità di ragione universali. Un kantiano lo introduce al mondo concettuale di Kant. E qui si mostra, in modo molto bello, in Theodor quel che del sistema kantiano aveva allora un effetto tanto potente, quasi inebriante sulle generazioni più giovani : l’autonomia della ragione nella sua legislazione, la volontà che si innalza al di sopra della natura e del destino nella sua libertà, il disinteresse della virtù senza ricompensa. Come era prima capitato a Fichte, queste cose riempiono anche lui, lo afferrano con « forza possente » e lo ricolmano di un alto sentimento di sé. Contemporaneamente Cristo diviene per lui il saggio kantiano, che nei suoi detti morali annuncia la medesima dottrina. Tuttavia cadono anche delle ombre sull’immagine di Cristo. Non si è variamente « accomodato » alla visione del suo tempo ? Non è, sotto più di un profilo, un « fanatico » ? Ma soprattutto : che cosa diventa la rappresentazione di Dio stesso secondo questa dottrina ! Con un postulato si aggiunge nel pensiero Dio per assicurare la signoria della ragione. Propriamente « non Dio è, e noi mediante lui e per lui, ma la ragione è, ed egli per amor di lei e per lei. È questo un Dio reale e vivente o non piuttosto un prodotto dei nostri pensieri ! ». 5 Nella sua anima cade una notte terribile. Si sente come un bambino al quale è stato tolto il padre. La preghiera non è più possibile, è al massimo un raccoglimento e un’elevazione dei propri pensieri, e Dio stesso, propriamente, non è nient’altro che l’ordine, la legge del mondo morale. E, tuttavia, non perde la letizia dello spirito. Se mette da parte quella preoccupazione e quel vuoto interiore, lo entusiasma di nuovo la fiducia in sé che sgorga dalla nuova dottrina ; e quel che gli manca della devota pace dell’animo e della superiore benedizione della fede, viene in certa misura sostituito dall’entusiasmo per gli ideali morali e in particolare dal pensiero edificante della libertà, che lo ricolma di amore ardente. Quanto è istruttiva questa evoluzione ! Guardiamo in modo quasi diretto all’interno dell’officina dello spirito di quell’epoca. Esattamente così, anche per Fichte dal pensiero kantiano derivava quel dominio di sé della ragione, che entusiasmava lui e i suoi seguaci, quel dominio di sé dell’« Io » che escludeva un Dio al di sopra di sé, che lasciava  





















   







  Theodor, Berlin 1822, i volume, p. 18.   Ivi, p. 26.

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solo l’ordine morale del mondo e lasciava spazio per l’azione, ma non per la fede. È sostanzialmente a partire da questa contrapposizione che anche i discorsi sulla religione di Schleiermacher erano afferrati da un animo devoto : e li si capisce totalmente soltanto se li si vede su questo sfondo. E la disposizione emotiva di Theodor ci fa capire subito perché essi, nonostante la loro forma rapsodica e la loro allure « atea », dovettero avere un reale effetto di risveglio della devozione e poterono suscitare un impulso ad un movimento eterno anche in animi del tutto disparati. Ci fa anche capire subito quel che Claus Harms 6 indica in modo apparentemente tanto bizzarro, e cioè che le Reden lo hanno improvvisamente liberato da ogni « santità dell’opera » (Werkheiligkeit) e dal vantarsi delle « proprie opere ». c 5. Interiormente Theodor è in rotta con la teologia. Su desiderio della madre tiene una predica, nel villaggio natale, sul valore del dominio di sé, ma è costretto a fare esperienza del fatto che le prediche morali servono a poco, e a dare ragione alla madre che gli spiega che dove è presente l’impulso del cuore ogni predica morale è superflua : una critica molto chiara al modo moralistico di predicare in generale e insieme una preparazione per la successiva conoscenza di come un tale impulso si desti nel cuore. d Theodor torna all’università per occuparsi di diritto e politica e subisce una nuova influenza spirituale, quella della filosofia romantica, quella di Schelling e di Schlegel. Il suo amico Sebald, esteta e geniale, anche pratico in affari d’amore, lo vuole sottrarre ai suoi dubbi tentando di fargli capire la superiore concezione delle cose e della storia che Schelling aveva presentato soprattutto nelle sue lezioni sul metodo dello studio accademico. 7 Questo suonava senz’altro allettante. La filosofia di Kant era intrapresa solo a partire dal punto di vista di una « riflessione » razionale e limitata. I teologi, i naturalisti come i soprannaturalisti, erano in entrambi i casi teste vuote, e il loro punto di vista, in particolare relativamente alla questione dei miracoli, era solo quello della riflessione. In questo modo, però, non era lecito considerare l’alto edificio della religione cristiana. Si trattava di collocarsi su un piano superiore, quello dell’« intuizione intellettuale », afferma Sebald, « senza tuttavia poterne rendere conto in modo più preciso ». 8 Chi si affaticherà con le spiegazioni dei miracoli ! La nuova filosofia della natura (di Schelling) apre gli occhi di fronte al fatto che siamo circondati da misteri da ogni lato e che dunque tanto meno siamo in grado di penetrare quei misteri là. Ragione e rivelazione, però, sono contrapposizioni solo su quel livello inferiore. La ragione è essa stessa una rivelazione originaria dell’essenza divina, grazie alla quale cogliamo una rivelazione divina, a sua volta, nella natura e nella storia. Le idee divine eterne muovono la storia, a maggior ragione la storia della religione. E nel cristianesimo, nel passaggio dal tempo antico a quello nuovo, si sono rivelate intuitivamente in immagini sensibili eterne. La storia di questa rivelazione è essa stessa fondamento e modello della storia comune.  





























c   Cfr. R. Otto, Schleiermachers Reden über die Religion, [Göttingen 1906], seconda edizione, Nachwort. Qui viene sottolineata questa contrapposizione alla tonalità emotiva fichteana, che sola dà ai discorsi il loro autentico rilievo. Schleiermacher si rapporta ad essa con lampante chiarezza, fino all’impiego di termini di scuola. È assai notevole che le Reden siano state spiegate abbastanza spesso col fichteanismo, ma non con l’antifichteanismo che pure rivendicano. d   La medesima opposizione spinge Schleiermacher, nelle Reden, alle sue esagerate contrapposizioni di morale e religione e all’esclusione di ogni oggetto morale dalla predicazione. 6

  Su Claus Harms, cfr. infra, p. 317, nota 10.   F. W. J. Schelling, Vorlesungen über die Methode des academischen Studiums, Tübingen 1803.   Theodor, I, p. 78.

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Ora Theodor studia Schelling, soprattutto le sue lezioni sullo studio accademico, non senza profonde impressioni. e Tuttavia anche in Theodor la critica interviene subito e al posto giusto. Quel che qui era esposto non era la scienza e il metodo scientifico, ma il sogno dei poeti che si atteggiava a scienza e che in questo modo guastava entrambi, sapere e poetare. La riflessione viene rigettata e però subito di nuovo impiegata per un’impresa impossibile : il tentativo di derivare e costruire a priori il finito e la nascita di tutte le cose. L’apparente riconoscimento del significato di religione e cristianesimo, e della loro storia, faceva in verità di questi qualcosa che non era più né religione, né storia : un rivestimento di idee che non avevano più alcuna relazione con l’esperienza vissuta religiosa. Questo Dio, che si effonde nel mondo, che annulla sempre di nuovo se stesso e rinasce, non è affatto Dio, ma nient’altro che la vita della natura, che permane e sempre si ringiovanisce, su cui domina un misterioso destino. L’« assoluto », di cui tanto si parlava, non era assoluto, ma sottoposto ad un’inesplicabile condizionatezza. E l’uomo non era altro che uno dei molti fenomeni passeggeri di questa vita del tutto, il quale procede da quest’ultima per poi esserne di nuovo inghiottito. Qui libertà e moralità divengono impossibili, impossibile la differenza tra bene e male, tra leggi che valgono in modo assoluto e valori. Così il tutto era solo un gioco interiormente insincero con la religione, condotto con allegorie e fantasiose interpretazioni, dove l’autentico contenuto e spirito della cosa veniva sovranamente disprezzato e intenzionalmente degradato. Ovvio che per Sebald il protestantesimo è disprezzabile rispetto al cattolicesimo, perché in questo egli trova ciò che in realtà cerca al posto della religione e con il nome di questa : tonalità emotiva, mistica, romanticismo, fantasia ed estetica. Anche Schelling, già nelle sue lezioni, aveva preso decisamente partito per il cattolicesimo e proprio allora cominciò l’epoca delle conversioni dei romantici al cattolicesimo. Dopo alcuni anni Theodor incontra di nuovo Sebald a Roma, dove nel frattempo questi è divenuto realmente cattolico. Quello che all’inizio era un gioco, lo aveva preso alla sprovvista e afferrato. E ora si inginocchia davanti al crocifisso, a teschi di morti e all’autorità dei preti, e, divenuto interiormente rozzo e non libero, oscilla tra dissolutezza e castità. f Nonostante questa tagliente critica, de Wette deve però parecchio all’influenza di Schelling. Fa ammettere allo stesso Theodor che qui, di fronte al moralismo kantiano, gli era penetrato nell’anima in modo più vigoroso l’oscuro presentimento di qualcosa di superiore « a quanto aveva fino ad allora còlto », di un significato della religione al di sopra dell’etico, in cui era fino ad allora rimasto preso : un presentimento che successivamente si era chiarito con gli strumenti della filosofia friesiana. g  















e   Si capisce come questo mosto in fermentazione di sogni e intuizioni geniali dovesse agire su una giovane generazione dopo l’aridità dell’intelletto dell’epoca precedente. Anche Schleiermacher nelle Reden gioca con la mistica della storia (cfr. Reden, ii, p. 100, ed. Otto, p. 64, k.). E un respiro di questa considerazione simbolico-mistica della storia aleggia da ultimo intorno all’immagine di Cristo di questo moderno padre della Chiesa nato dal romanticismo. Ancor più che in lui, però, in de Wette, che nella scuola rigorosamente critica di Fries ha seriamente contenuto, ma non ha mai del tutto eliminato, la profonda impressione che Schelling aveva esercitato su di lui. f   Che de Wette faccia dell’avversario romantico il protagonista di avventure amorose è forse una polemica un po’ a buon mercato, ma corrispondeva ai modelli che realmente esistevano e al rapporto che essi assumevano nei confronti della religione. In costoro anche questo rapporto rischiava di avere il carattere di un’avventura amorosa. g   È interessante che de Wette sostenga di non aver ricavato questo dalle Reden di Schleiermacher, che aveva conosciuto solo molto dopo, ma da Schelling. Ma anche questa è un’influenza di Schleiermacher, seppur indiretta. La trasformazione schellinghiana della tonalità emotiva fichteana, del tutto irreligiosa, –

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7. Theodor trova un impiego nel servizio statale e, attraverso Landeck, ha ingresso nella cerchia dell’alta società. La sua anima, predisposta alla interiorità e alla religione, si sente insoddisfatta e la fortuna dell’amico Johannes, che nel frattempo ha percorso il suo cammino normale, desta in segreto il suo desiderio. L’instabilità e la confusione interiore è grande. Allora incontra il maestro che dovrà mettere ordine nella sua vita interiore, portare in lui, come per magica chiamata, i molteplici inizi e frammenti ad un tutto ordinato, e dare al suo sviluppo una decisa svolta. Il filosofo che tiene una serie di lezioni alla società cólta della capitale è in verità Fries, col quale de Wette, come studente a Jena e poi come collega a Heidelberg, aveva la più grande familiarità di rapporti e il più profondo scambio spirituale. Le conversazioni riportate in Theodor restituiscono certamente nel modo più autentico, per l’essenziale, contenuto e spirito di questo rapporto, ma è in pari tempo chiaro che de Wette mette in bocca al maestro molte delle sue proprie idee e delle sue successive evoluzioni. (Questo vale sicuramente di tutti gli autentici ragionamenti teologici. Sicuramente, all’inizio del suo insegnamento, Fries non era incline ad una relazione tra la sua propria dottrina e il cristianesimo, la Bibbia e la teologia, quale ha corso già in questi dialoghi. I suoi giudizi sono spesso piuttosto aspri e sfavorevoli. Le cattive esperienze dell’ammaestramento religioso nella giovinezza, il giudizio generale e la disposizione emotiva anti-chiesastica dell’indirizzo deistico, nel cui contesto egli si trova, contro l’elemento « positivo », hanno su di lui un effetto molto deciso. Solo gradualmente, e certo non senza l’influenza di de Wette, la sua disposizione diventa diversa : predilige motti biblici per i suoi scritti, prende contatto con il fondamento biblico-cristiano della nostra vita religiosa e prende parte egli stesso al lavoro e alla controversia dei teologi sull’organizzazione della situazione religiosa generale.) È molto interessante – ed è sicuramente autentico – il lato e l’angolo visuale a partire da cui i pensieri di Fries esercitano l’effetto principale sul teologo. A quest’ultimo sembra che il sistema di questo filosofo sia situato « nel mezzo tra il sistema kantiano e quello schellinghiano » 9 e che unisca entrambi. Egli prese le mosse da una coscienza originaria dell’animo umano, che chiamò fede : il che ricordava l’intuizione intellettuale di Schelling. Ma da ciò non sviluppò, come fece Schelling, il mondo con le sue leggi e le sue forze, ma, attenendosi al punto di vista interiore (la svolta « soggettiva » della filosofia kantiano-friesiana !) mostrò come questa coscienza originaria (non quella cosmica di Schelling, di cui possiamo soltanto sognare, ma la nostra propria) si dispieghi nelle diverse attività dello spirito (critica della ragione e ri-derivazione deduttiva), come l’intero edificio della conoscenza umana si costruisca dall’esperienza e dall’attività spontanea del sé per composizione e collegamento, e come in tal modo si presenti allo spirito un mondo nel tempo e nello spazio e sotto leggi di natura. Questa conoscenza, però, sarebbe soltanto l’essenza imperfetta delle cose, la cui immagine originaria si trova racchiusa in quella coscienza originaria (« conoscenza immediata » dell’essere in sé  





















che Schelling condivide nel primo periodo del suo filosofare, che egli stesso, in protesta contro le Reden di Schleiermacher, esprime nel suo Hans Widerborst [sc. : Epikurisch Glaubensbekenntnis Heinz Widerporstens] e che Goethe gli fa risuonare in modo più fine e con più slancio nella poesia Weltseele – si è compiuta in lui in mistica e in glorificazione dell’infinito, espressamente anche sotto l’influenza delle Reden, come si può mostrare. Si può mostrare ancora come su de Wette il simbolismo e il panteismo, quali tonalità emotive, agiscano persistentemente, e non a vantaggio della chiarezza del suo pensiero.  

9

  Theodor, i, p. 111.

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in contrapposizione al suo fenomeno nel tempo e nello spazio : concettualmente solo negativa, ma positiva nella coscienza originaria e dunque per il sentimento in quanto presentimento) ; e la somma verità e la soddisfazione dello spirito si troverebbero solo nella fede : il mondo, rischiarato dalla luce di questa, apparirebbe come un tutto armonico nella magnificenza divina. Egli distinse intelletto e ragione : definì il primo coscienza mediata inferiore, attraverso cui il mondo viene concepito nello spazio, nel tempo e nelle sue leggi di natura ; intese la seconda come conoscenza immediata e come intera vita dello spirito in tutte le sue attività : h quale punto centrale di questa indicò la fede. Mostrò inoltre che la conoscenza è solo un lato dell’animo umano, che accanto ad essa vi sono il sentimento e la facoltà d’azione e che soltanto mediante tutte e tre le facoltà si completa la vita dello spirito. Con la mera conoscenza ( ?)10 non si capirebbero né il mondo, né la vita umana : solo il sentimento e l’amore darebbero ad ogni cosa il significato vivente, e l’azione porterebbe a compiutezza la veracità della conoscenza e del sentimento. 8. Di qui, diventa per Theodor particolarmente significativa la contrapposizione di ragione e intelletto e il profondo significato che viene dato alla prima. Qui risiede davvero, in effetti, il punto centrale del filosofema friesiano e il suo deciso progresso oltre Kant. Senza dubbio anche in Kant questo senso più profondo 11 era stato posto sullo sfondo ed era stato l’ideale che oscuramente guidava le sue ricerche, ma non era stato fatto emergere con sicurezza quale facoltà di una conoscenza originaria propria e indipendente, chiaramente distinta dalla conoscenza dell’intelletto che è sempre soltanto mediata. Theodor scopre subito anche quel che poteva esser messo in opera di fatto mediante esempi storici, ossia che questa contrapposizione getta una luce nuova e istruttiva sulla tradizionale contrapposizione tra « ragione » e « rivelazione » e si sovrappone a questa. Ciò che qui si chiama ragione e che come tale si combatte è in realtà l’« intelletto », ossia il collegare e il giudicare arbitrario e fatto in proprio, il nostro ritenere, opinare, poetare, in cui tutto è mediato, difettoso ed esposto all’errore. La « ragione », però, in quel senso più profondo, è contrapposta all’intelletto, che è appunto quel che Lutero chiama « la nostra propria ragione e capacità » ; e gli è contrapposta, in effetti, nel senso in cui là la « rivelazione » è contrapposta alla « ragione propria » : in quanto apprensione della stessa verità eterna, che è totalmente indipendente dal nostro proprio ritenere, poetare e pensare, assolutamente immediata e sottratta ad ogni arbitrio e ad ogni errore ; e che, nascosta sul fondo più basso e oscura per natura, costituisce l’intimo mistero dello spirito razionale. i Da qui si ottiene, in effetti, una posizione sulla questione di ragione e rivelazione che è essenzialmente diversa da quella sostenuta dai naturalisti dell’illuminismo : una posizione che non dà ragione ai soprannaturalisti, ma a partire da cui è possibile render loro giustizia e porre in una luce più chiara la disputa, tanto profonda, su « natura e grazia », vero e proprio cuore di ogni questione controversa realmente religiosa. Ma questa posizione, che qui Theodor/de Wette trova, è in  























































h   Cosa equivoca, perché l’intera vita dello spirito si può dispiegare proprio e solo mediante l’intelletto, la riflessione. Perciò l’enorme significato della riflessione, genialmente disprezzata da Schelling ! i   Non c’è bisogno della speculazione filosofica per saperlo : è sempre stato vivo nel sentimento devoto, che è sempre stato consapevole della sua fonte : « se dunque la luce che è in te... » (Mt 6, 23 ; Lc 11, 35).  





10

  Sic.   Sc. : della ragione.

11









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realtà quella sostenuta da tutta la successiva teologia della mediazione, per quanto si guarnisca spesso di espressioni tradizionali. l 9. Questi, più o meno, sono i suoi pensieri. Quel conoscere immediato posto nella profondità dello spirito – completamente indipendente da ogni esperienza possibile esclusivamente agli uomini e quindi definibile esso stesso « soprannaturale » – è (in forza della fede nella verità della nostra conoscenza) nient’altro che un’apprensione della stessa verità somma, assolutamente oggettiva ; dunque, per converso, è un annunciarsi, un rivelarsi della verità eterna nella profondità dell’animo umano, che è completamente misterioso, poiché non sappiamo nulla della specie della sua realizzazione, e misterioso in senso autentico, poiché questo mistero è assolutamente insuperabile ed è posto con i limiti della nostra stessa natura terrena.m Theodor lo definisce rivelazione interiore, luce interiore. Ora, essendo completamente oscuro, secondo la sua disposizione, in noi e in sé, non sarebbe per noi nulla se non si dispiegasse nel corso dello sviluppo dello spirito umano nella storia, ossia per il fatto che in singoli uomini privilegiati, in profeti, fondatori di religioni e mediatori, ciò che è predisposto prende forma, entra nella vita cosciente dello spirito e si trasferisce, a partire da loro, nella comunità. Tanto nella storia, quanto nella natura, tutto è in connessione rigorosamente causale, e per questo ogni elemento successivo è dato insieme ad ogni elemento precedente. Ma che in generale qualcosa sia, e sia proprio tale e sotto tali leggi, questo è assolutamente casuale e contrario all’ordine della natura, ed abbisogna del suo fondamento sufficiente che dobbiamo cercare in Dio. Così il corso della storia dello spirito umano, e in particolare il corso di quella religiosa, compare sotto il punto di vista della determinazione da parte di Dio. Che dunque si sia realmente manifestata la religione, e in essa la comunità con Dio, è opera sua ; e i profeti e i mediatori religiosi sono i suoi messi. Tutto questo governo divino della storia, appreso per presentimento, e l’invio dei suoi messaggeri divengono di per sé una seconda specie di rivelazione, quella esterna, che ha la rivelazione interiore come presupposto e come criterio della sua validità, ma che accanto a quella ha un significativo valore autonomo. Solo mediante essa, infatti, la religione diviene reale : senza, la possederemmo soltanto come predisposizione e in sparsi e volubili presentimenti. E solo in tale rivelazione esteriore Dio ci afferrerà con un’azione viva :  











In un animo simile la scintilla divina, che è la medesima in tutti gli uomini, non solo non si estingue né viene sepolta, come nella maggior parte degli uomini, ma anzi divampa in fiamma che rafforza e illumina tutte le facoltà inferiori dello spirito, così che la volontà obbedisce soltanto all’interiore impulso divino e non alle passioni ; e l’intelletto coglie in modo puro e non offuscato la luce divina e non si lascia traviare dalla conoscenza sensibile. In un animo simile la ragione si trasfigura in ragione divina. Ogni non verità e ogni immoralità ha il suo luogo nell’intelletto che, in quanto facoltà della coscienza arbitraria, si crea immagini ingannevoli e sottopone agli uomini queste invece della pura immagine originaria. Poiché però, laddove si è realizzata una tale rivelazione, l’intelletto è rimasto libero da ogni errore, esso ha obbedito alla voce divina nella profondità dell’animo e ne ha afferrato in modo puro i comandamenti e le dottrine. [...] Ogni uomo, nel quale l’elemento divino abbia ottenuto una relativa preponderanza e signoria su quello umano, è per i suoi contemporanei mediatore di una rivelazione ; quello però in cui si è realizzato il pieno accordo dell’elemento divino con quello umano, ha concluso l’ambito della rivelazione : questo è quanto crediamo di Cristo. 12  





l

  Ne è un esempio lo stesso Tholuck, come vedremo successivamente.   Cfr. supra, p. 138.

m 12

  Theodor, i, pp. 138-140.

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La fede nella rivelazione, però, non si attua con l’intelletto, ma, molto prima che l’intelletto l’abbia còlta con la sua apprensione concettuale, è il sentimento che vi aderisce. Dall’immediatezza del sentimento – nella cui profondità l’adesione e il riconoscimento si costituiscono, inconsciamente, secondo quei criteri che risiedono nascosti nella nostra interiorità e che sono, appunto, applicati molto tempo prima che l’intelletto ne dia conto, anzi contro le false applicazioni che molto spesso l’intelletto fa di essi – la fede erompe come un dono dall’alto, inconsapevole di se stessa e della sua origine. Molto più che con discorsi e ammonimenti l’inviato di Dio si comunica con azioni. Tra queste rientrano anche quelle azioni potenti che siamo soliti definire miracoli. Non sono eventi contro le leggi della natura, ma effetti della potenza superiore dello spirito rispetto alla natura, che risiedono nell’ambito del possibile e per i quali troviamo analogie anche tra di noi. C’è da aspettarseli, però, là dove è presente una superiore vita dello spirito e quindi anche i segni di questa. Ma una tale vita dello spirito si comunica immediatamente mediante atti morali, e poiché le azioni morali nella loro totalità costituiscono appunto il carattere personale, allora è solo la personalità totale del mediatore la prima e più sicura garanzia della fede. La fede dei cristiani poggia prevalentemente su questa base. 10. La disputa tra soprannaturalismo e naturalismo si compone per lui così :  

I razionalisti si attengono a ciò che essi chiamano naturale e che va in direzione di una psicologia e di una fisica razionale, empirica e limitata, e non sanno che ogni elemento naturale, che sia nello spirito o nel mondo corporeo, dipende dal soprannaturale ed è solo fenomeno di quello. Essi misconoscono il fatto che ogni elemento originario e immediato nello spirito sgorga da una fonte nascosta e misteriosa. Essi ritengono, secondo quel che hanno soltanto appreso e che ripetono a memoria, che anche in Cristo tale fonte sia soltanto qualcosa di appreso e al massimo di rielaborato a partire da una materia vecchia, ma non qualcosa di originario, di originalmente proprio e inesplicabile. E non hanno nemmeno il presentimento del fatto che nella natura corporea regnano forze nascoste che collegano spirito e corpo in modo misterioso e irridono ogni spiegazione degli studiosi della natura. I soprannaturalisti, per contro, sanno altrettanto poco della libertà e dell’originarietà dello spirito : e come hanno tutto dalla tradizione, così ritengono che tutto sia istillato in Cristo e negli Apostoli quasi come con un imbuto. E, malati e neghittosi come sono, ritengono che lo stato dell’esaltazione (ispirazione) sia malato e neghittoso, e pensano i miracoli, in cui essi credono, in un modo naturalmente materiale. Ritengono che le leggi della natura siano momentaneamente tolte e che la macchina naturale funzioni in modo un po’ diverso. Tanto esaltano la fede, quanto non sanno credere senza vedere. E se fossero vissuti al tempo di Cristo, non avrebbero visto alcun miracolo, perché, come i farisei, avrebbero preteso segni dal cielo. 13  

(Cfr. anche Theod., p. 282 : « La somma verità ha il suo posto là dove la ragione, inconsapevole di se stessa, si perde nella vita eterna dello spirito, dove regnano l’esaltazione, la negazione di sé, la devozione e cessano ogni riflessione e ogni sofisticheria ».)  





11. Muovendo da questi punti di partenza, il modo di pensare di Theodor si assimila sempre di più a quello della Chiesa. Da tutte le dottrine di quest’ultima guadagna via via un « buon senso ». Innanzitutto gli si sviluppa sempre di più la sua nuova immagine di Cristo. Come per Schleiermacher, Cristo diviene per lui immagine originaria, pienamente fenomenica, dell’umanità in genere e quindi centro dello sviluppo dell’umanità  

13



  Theodor, i, pp. 243-244.

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e punto di partenza di una nuova creazione. La sua speculazione è qui così affine a quella della Glaubenslehre di Schleiermacher, che si deve suppore che tra i due, a Berlino, debba essersi ampiamente realizzata una completa comunità di lavoro. Si potrebbe stabilire con sicurezza chi sia stato a dare di più solo se si conoscessero gli stadi preparatori della Glaubenslehre di Schleiermacher. Ma in ultima analisi questa si comprende a partire dal fatto che, nel loro lavoro, entrambi i teologi erano condotti dai medesimi motivi. Entrambi cercano una connessione, la più stretta possibile, con la figura storica della dottrina cristiana : ne sentono il valore e l’elevato contenuto e vogliono superarne l’unilateralità razionalistica. Entrambi subiscono inconsapevolmente le ripercussioni del periodo della Humanität 14 e della fede di questo nell’umanità (Menschheit), e cercano di interpretare la religione in generale e il cristianesimo in particolare come humanitas perfetta (per questo Cristo è per entrambi l’ideale dell’umanità fatto carne) ; dove però de Wette, come anche in altri casi, dipende chiaramente da Herder al quale, in ultima analisi, questo tentativo risale. E per entrambi è determinante – e questo è assai notevole e decisivo per la teologia successiva – l’immagine giovannea di Cristo. Il Vangelo di Giovanni è per essi, come per quasi tutte le teste più significative dell’epoca, il vero e proprio testo cristiano fondamentale ; il che ha fondamenti molto profondi e conseguenze notevoli. Nel carattere umanizzante della loro teologia, nella loro speculazione, nella loro posizione nei confronti del miracolo – che colgono in modo per metà allegorizzante, per metà realistico, restando complessivamente in un’indistinta sospensione – si imprime il carattere di questo Vangelo. E de Wette si incontra in modo ancor più preciso con lo spirito di questo, in quanto talvolta riprende anche da Schelling il pensiero, per metà lasciato cadere, del significato « storico-simbolico » della storia evangelica. Certo, per lui gli eventi della vita di Gesù sono anche fatti, ma sono contemporaneamente « simboli », dati dalla storia, di idee religiose, attraverso cui queste ultime debbono essere presentate e suscitate. n Sotto l’influenza di questi motivi la posizione di de Wette, inizialmente molto precisa, nei confronti degli elementi leggendari della tradizione evangelica cambia sempre di più e il velo del « simbolico », pericoloso e tanto comodamente a portata di mano, avviluppa molte cose. 12. L’incontro di Theodor con un nuovo amico, Härtling, uomo del popolo e fanatico di tutto ciò che è tedesco, mostra nel modo più chiaro quali motivi, in sé sommamente significativi, propriamente lo portavano qui. Su di lui esercita una profonda impressione il pensiero della comunità, sviluppatasi storicamente, nel popolo e nella Chiesa, che si trova di fronte al singolo come qualcosa di oggettivo, della quale si tratta di mettersi al servizio, che è impossibile cercare di curare da sé arbitrariamente e della quale è impossibile cambiare la forma secondo le soggettive opinioni di ogni singolo ; comunità che è però il bene superiore in cui il singolo deve assumere il suo posto e il suo ufficio. L’opinione di fede, che si è sviluppata e che è valida nella comunità, diventa per lui  



















n   Anche Fries ha una tale concezione, solo che considera gli eventi corrispondenti non storia, ma mito, e come tale vuole che siano impiegati simbolicamente nella religione popolare : un consiglio che ha gambe corte.  

14   Abbiamo preferito, qui e in seguito, lasciare in tedesco il termine, sia per distinguerlo da Menschheit, sia per sottolineare il significato tecnico herderiano, al quale qui Otto si riferisce, che intende non tanto l’umanità di fatto quanto l’ideale dell’umanità. Nel libro xv, 1 delle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, la Humanität viene definita come « lo scopo della natura umana », con il quale « Dio ha messo nelle mani della nostra specie il destino proprio di quest’ultima ». Cfr. anche, dello stesso Herder, i Briefe zur Beförderung der Humanität, Riga 1793.  







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degna di rispetto ; la maggiore connessione possibile con essa diviene desiderabile e la domanda se un’intuizione possa valere anche in quanto comune diviene quasi un canone critico. A partire da questa tonalità emotiva, egli può occasionalmente celebrare la condizione dell’ingenuità acritica e pretendere di attribuire una giusta forza soltanto alla fede, che non deve mai lasciarsi importunare dai dubbi. Ma queste sono tonalità emotive di contorno, che non oscurano il risoluto senso della verità. Proprio in un tipo delineato particolarmente bene, Walter, egli descrive in modo efficace e certo, secondo esempi frequenti già allora come oggi, il teologo che, entrato sin dal principio nella sua professione con insincerità, cerca la sua pace nella sottomissione cieca all’autorità della dottrina di scuola e nella tormentosa imitazione di una religiosità che in realtà gli è estranea, e prolunga la sua insincerità e illibertà nel fanatismo. L’interiore cambiamento di tonalità emotiva di Theodor si compie quando Johannes, l’amico di gioventù, gli scrive che, muovendo dal versante opposto e condotto dalle esperienze del suo ufficio pratico, si è evoluto in direzione di una concezione molto simile del cristianesimo e del suo significato per la vita reale.  

Quanto più amministro il mio ufficio, tanto più vedo che i dubbi che ti inquietavano non riguardano l’essenziale della nostra fede. Tu credi, come me, nella forza beatificante del vangelo, nell’incomparabile altezza di chi lo annuncia, che noi riconosciamo come nostro insegnante, maestro e predecessore. E con questa fede, se solo è profonda e viva, si possono condurre gli animi degli uomini a ciò che serve per la loro pace. [...] Il popolo non sa nulla della differenza tra ragione e rivelazione, e non vuole saperne nulla. Desidera la verità, che sia rivelata in modo soprannaturale o naturale, e tiene solo al fatto che provenga da Dio e che si sia depositata nella Sacra Scrittura. [...] E chi vuole negarlo ! 15  

Egli illustra, inoltre, con parole semplici e intime la fortuna della sua attività spirituale. Seguono molte esperienze vissute nella vita di Theodor e nella grande vita del suo popolo – combatte la guerra contro la Francia – , finché infine, con pieno fervore, sceglie di nuovo la professione spirituale e assume l’incarico. Il secondo volume ce lo mostra prima, quando è ancora in viaggio in Italia e con i compagni cattolici : qui si sviluppa in modo istruttivo il ridestarsi della coscienza specificamente protestante di questa nuova ecclesialità, che si distingue in modo sempre più rigoroso dagli slanci romantici dei primi giorni. 13. Qui ci interessa ancora il confronto con Kant e con Schleiermacher, quale è attuato da Theodor a partire dal punto di vista che ha ritrovato, la valutazione del sentimento per la religione e la relazione dell’estetica con essa, e il rapporto di religione, morale ed estetica quale egli lo determina riallacciandosi a Fries. L’appello al sentimento, al suo significato per la nostra vita spirituale in genere, era comparso nello sviluppo dell’illuminismo stesso come reazione e fenomeno concomitante dell’intellettualismo, o e le più recenti teorie si riallacciavano solo a ciò che era già presente anche prima. Si tende facilmente a vedere questo richiamo al sentimento come un indebolimento del pensiero più rigoroso : e un uso non critico del medesimo è realmente ricettacolo di ogni arbitrio e comodo riparo per tutte le opinioni soggettive, per idee cervellotiche e pregiudizi, soprattutto nel modo confuso in cui noi per lo più trattiamo con il concetto. Ma quell’epoca riflessiva e avveduta correva qui un  



o

  Cfr. supra, p. 84.

15

  Theodor, i, pp. 264-265.

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piccolo rischio : anelava a rendersi accuratamente conto di ciò che propriamente voleva dire quando si richiamava e si affidava ai sentimenti. È questo il caso già in Rousseau. Ancor più in Kant, la cui critica rigorosamente metodologica della capacità di giudizio non è altro che un’analisi del sentimento. E questo riceve una posizione solidissima con il meticoloso esame di Fries. Per Theodor il significato del sentimento si fa chiaro in una conversazione con un razionalista sulla Jungfrau von Orleans [Pulzella di Orleans] di Schiller, sulla missione di costei e sul tipo della sua ispirazione, che il razionalista vorrebbe liquidare come vano fanatismo. Per Theodor il sentimento riveste un ruolo nella religione prevalentemente là dove gli sorge la domanda su cosa propriamente muova gli uomini, cosa li costringa a riconoscere in un fenomeno come quello di Cristo una rivelazione divina e a sottomettersi ad essa ; in altri termini : su come arriviamo a vedere come valido ciò che ci è qui di fronte e ad assentire con il cuore e la coscienza. Evidentemente questo non accade mediante i concetti distinti dell’intelletto, che intervengono sempre solo molto successivamente e spesso, nel caso delle cose còlte nel modo più profondo, non intervengono affatto. Ma questa commisurazione allo « spiritus in corde », ai criteri eterni, e profondamente nascosti, del vero e del buono, che risiedono oscuramente in noi e che noi stessi possiamo portarci davanti ad una più chiara coscienza solo con una difficilissima riflessione, questo assenso colmo di gioia, che si distingue in modo tanto sicuro da ogni accettazione per autorità (« noi stessi abbiamo creduto e conosciuto »), si attua immediatamente prima di ogni riflessione razionale « con l’interiore ispirazione dello spirito », 16 come dice Lutero. E questa cos’è ? È il sentimento, il cui modo di apprensione si divide da quello dell’intelletto. È il tipo della « capacità di giudizio », che in noi è chiaramente distinto dalla « capacità di giudizio sussuntivo dell’intelletto ». La sua differenza rispetto al modo di attività dell’intelletto si mostra da tutti i punti di vista. Dove è presente il sentimento della lingua, là esso coglie l’elemento proprio, lo spirito, il ritmo e la logica di una lingua, e con ciò anche le relazioni grammaticali della medesima, in modo molto più veloce, sicuro e fine di quanto cerchi di appropriarsene un intelletto, per quanto acuto, secondo regole e concetti. Nessun intelletto, che deduce e conclude secondo regole, raggiunge la sicurezza nel colpire il bersaglio, la rapida prontezza e l’infallibilità del sentimento morale, del sentimento del tatto, che formulano entrambi i loro giudizi come per ispirazione e senza essere affatto in chiaro circa i loro presupposti e le loro premesse, e che di solito possono solo essere falsificati dal successivo ragionamento dell’intelletto. L’intelletto è totalmente impotente nell’ambito del bello, in cui il sentimento domina in modo esclusivo (per questo tutta la prima parte della critica del sentimento di Kant diventa anche una critica della « capacità del giudizio estetico »). Il sentimento è una facoltà di cogliere e giudicare prima e senza che ciò secondo cui comprendiamo e giudichiamo un determinato dato sia conscio e rappresentato concettualmente. Laddove questo si lasci anche cogliere in modo chiaro e portare alla coscienza, allora anche il sentimento si lascia successivamente « sciogliere », ma vi sono anche sentimenti irresolubili, sia in senso relativo che assoluto, come mostra una più fine introspezione. Un simile cogliere e giudicare mediante sentimento riveste in ogni religione il ruolo più importante e soltanto in esso è la vitalità, l’autenticità e l’immediatezza della medesima. La riflessione razionale è propriamente sempre soltanto un male necessario, che tien dietro zoppicando e che ha il suo scopo in quanto kathartikon.  

































16

  Cfr. AHG, pp. 72 e ss.



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Poiché, però, i sentimenti sono trasferibili (possono essere suscitati nell’altro in modo concordante), nasce il sentimento comune, mediante cui la religione diviene cosa della comunità : come tale, una cosa di pretese e carattere particolare per colui che voglia mettersene al servizio. È evidente quanto prossimo sia qui il contatto tra de Wette e Schleiermacher. In de Wette, però, l’intera dottrina ha maggior sostegno, poiché poggia sulla precisa antropologia di Fries che ha ripreso il filo che Kant aveva solo cominciato a tessere, mentre Schleiermacher non trovò mai davvero la via d’uscita dalla non chiarezza, che vi era già nelle Reden, quanto al rapporto del sentimento all’intuizione e alla conoscenza, e quanto al concetto stesso di sentimento. 14. Theodor conosce le Reden di Schleiermacher solo relativamente tardi e, significativamente, solo nella forma dell’edizione più tarda, che con la successiva sovrapposizione 17 non ha reso più chiara ed efficace la versione originale. È istruttiva la critica che indirizza ad esse da friesiano. Mai un libro, assicura Theodor, gli fece lo stesso effetto delle Reden. Ma le legge dal punto di vista della sua propria conoscenza del sentimento. Per lui è illuminante e fecondo il rimando alla vita originaria e inconscia della religione nell’esser afferrato dell’animo dallo spirito dell’universo e la separazione di questo elemento immediato dal sapere che se ne ha, dall’esprimere, ordinare, collegare il sentimento originario in un sistema di opinioni. Egli chiede invece del tutto correttamente : qual è propriamente il « sentimento dell’universo » che viene vissuto nel sentimento religioso, e qual è, con ciò, il contenuto concreto del sentimento stesso ? Qui la risposta di Schleiermacher è ancora assai vaga, ossia « sentimento di ogni finito di essere nell’infinito » (da cui successivamente si sviluppa in modo più chiaro la « dipendenza assoluta », che restituisce il contenuto del sentimento religioso altrettanto unilateralmente). Theodor si fa dire dal suo maestro che nel sentimento devoto cogliamo, in modo inesprimibile, qualcosa di duplice : l’unità (e necessità) eterna nell’essenza delle cose (che si dispiega nelle idee prima del coglimento speculativo) e contemporaneamente l’eterna finalità nelle cose. In effetti questo lo sente anche Schleiermacher e i molteplici sinonimi che utilizza per il vissuto religioso rimandano esattamente a questo : p ma in lui non viene in chiaro. Theodor ordina il rapporto tra il sentimento religioso e quello morale, che non lo soddisfa in Schleiermacher, in questo modo : nel sentimento morale ci si annunciano i fini che noi stessi dobbiamo porci per la nostra vita in questo mondo temporale ; il debordante sentimento religioso, invece, avverte in tutto il presentimento del valore eterno e del fine divino e, con ciò, conferisce anche all’agire morale il valore di eternità e l’elevato entusiasmo, così che in tal modo lo ridesta e lo stimola. E questa concezione (totalmente friesiana) sembra in effetti avvicinarsi molto al reale rapporto tra i due. Quel che ogni religioso sa dall’esperienza più propria, che cioè il vissuto e il sentimento di Dio suscitano e pongono in libertà, in un modo che prima non veniva affatto presentito, il sentimento morale e l’impulso morale : questo fatto, che può esser verificato in modo quasi sperimentale, che è il contenuto fondamentale di tutte le nostre dottrine della redenzione, è per l’analisi psicologica sempre di nuovo sommamente enigmatico, e le nostre ricerche sulla « capacità d’impulso morale della fede » non ci hanno anora portato molto lontano. Ma nella direzione della dottrina di de Wette e Fries potremo  































p   Cfr. Otto, Schleiermachers Reden über die Religion in ihrer ursprünglichen Form, [Göttingen 19062,] nella cui postfazione sono raccolti questi sinonimi (pp. xxi-xxii). 17

  Sc. : tra sentimento e intuizione.  

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probabilmente trovare la soluzione, se in generale è possibile trovarla e non scompare nell’ambito di ciò che non è più indagabile. Theodor descrive bene la sua intuizione, diversa da Schleiermacher, in questo modo :  

Il sentimento religioso è – come dire – inattivo, quieto, ma non inattivo in modo passivo. È il pieno soddisfacimento del cuore, per il quale si è placato ogni desiderio, ogni anelito. È però la fonte di ogni attività, in quanto dalla sua altezza l’uomo ritorna subito nella sfera dell’azione. 18

15. Egli regola subito e completamente il suo rapporto a Kant secondo le convinzioni di Fries. L’imperativo categorico pone preliminarmente una superiore legge del valore che mi dice cosa possa essere per me un dovere, un compito del mio agire e una meta del mio tendere. È ciò che è oggettivamente buono, che mi si annuncia nel sentimento morale nella sua ricchezza e contemporaneamente è oggetto non dell’inclinazione, che Kant contrappone erroneamente solo al sentimento puro del rispetto, ma del puro amore. Così soltanto diviene possibile l’eticità vivente e in pari tempo un’etica riccamente dispiegata al posto dell’arida serie di regole di presunti doveri singolari, che i kantiani più rigorosi cercavano di estrarre dall’elemento puramente formale dell’imperativo kantiano : deduzioni tra le quali nessuna, in verità, era realmente convincente. Invece del Dio postulato, che interviene solo successivamente, della speculazione di Kant (così la cosa gli si presentava : se del tutto a ragione, è assai discutibile) gli era stato offerto da tempo dalla dottrina friesiana un cammino diretto e un contenuto proprio sia del concetto di Dio, sia anche del vissuto religioso. q 16. Il romanzo è ricco anche di sue considerazioni estetiche. Anche qui egli segue completamente il suo maestro Fries e, attraverso questi, Schiller. La profonda concezione del bello, secondo cui questo non è altro che l’eterna bontà delle cose posta da Dio, la quale è concettualmente inesprimibile, ma viene « presentita » in modo sommamente positivo e vivente nel vissuto del bello, è anche la sua. Abbiamo l’esperienza vissuta della bontà delle cose in se stesse, nella quale crediamo perché crediamo in un mondo di Dio, nel loro apparirci come bellezza e sublimità. La dottrina friesiana del presentimento si mescola spesso con i già menzionati pensieri schellinghiani del simbolico e si applica di preferenza al racconto dei vangeli, che viene volentieri impiegato per conferire agli elementi miracolosi e leggendari una « superiore verità ». Fortunatamente oggi siamo divenuti sordi a ciò. Ma spiegazioni come la seguente sono importanti e lo restano tanto più, quanto più qui si esclude Schelling e ci si pone solamente sul terreno della dottrina friesiana del presentimento, che è chiara e può essere certificata psicologicamente, che, in generale, conduce a ricchezze e profondità dello spirito molto più grandi di quanto il suo stesso scopritore le abbia attribuito. Theodor rimprovera talvolta ai razionalisti di assumere Cristo « come mero uomo ».  















q   Cfr. su questo la bella descrizione dell’autentico « vissuto di Dio » che Theodor ha sul campo di battaglia, Thedor, i, p. 402 : « Spesso egli aveva avuto sacri momenti di contemplazione, in cui gli erano apparsi nella luce pura di un mondo superiore la verità, il valore supremo della vita, la vera essenza delle cose, la meta suprema di ogni umano tendere. Ora tutto questo confluiva nel pensiero vivente e sublime del Padre celeste. Era una specie di estasi inconscia quella in cui si trovava, o piuttosto uno stato di superiore coscienza. E quando il cuore, con gemiti inesprimibili, si fu liberato del suo impeto ed egli torno di nuovo in sé, fu ricolmo del sentimento gioiosissimo che aveva appena provato. “Grazie, Padre celeste, di esserti lasciato ritrovare !” ».  





18



  Theodor, i, p. 234.





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Essi trascurano il fatto che nel fenomeno temporale e limitato della sua vita viene intuito qualcosa di illimitato ed eterno ; detto altrimenti : che nella sua intuizione  



residua qualcosa che né può essere concepito con l’intelletto, né raggiunto con l’azione, ma che può essere còlto soltanto con il sentimento. 19

Per coglierlo secondo la sua vera perfezione e altezza, sostiene, Cristo dovrebbe esser visto non soltanto come oggetto di conoscenza o di imitazione nell’agire, ma anche come oggetto del sentimento (ciò significa, nel suo uso linguistico, « come simbolo estetico », p. 234). Questa è un’osservazione giusta e profonda, che indica realmente la via che conduce fuori dalla superficialità razionalistica della concezione della persona di Cristo r e dà libertà alla venerazione religiosa nei suoi confronti, senza riportare indietro ai labirinti della speculazione soprannaturalistica. Possiamo rendere evidente nel modo migliore ciò che qui è inteso con l’esempio della morte di Cristo, alla quale anche lo stesso de Wette, successivamente, lo applica nella sua Dogmatik. 20 La sofferenza dell’innocente, del devoto e del giusto in generale, è qualcosa che dai giorni di Giobbe ha commosso il sentimento devoto nel modo più potente e, da una parte, ha provocato l’intelletto a tutti gli inutili tentativi di teodicea ; d’altra parte, però, ha provocato il sentimento devoto a quei presentimenti meravigliosamente profondi che in Is 53 si esprimono in un modo che è classico per ogni tempo e che è il più profondo che l’antica alleanza abbia mai prodotto. Nella considerazione di questa sofferenza dell’innocente, assunta volontariamente e in obbedienza alla volontà eterna, si mostra in effetti che, come dice de Wette, « in ciò residua qualcosa che né può essere concepito con l’intelletto, né raggiunto con l’azione, ma che può essere colto soltanto con il sentimento » ; 21 che perciò non può essere concepito in teorie, ma che, come accade in Is 53, può essere solo rappresentato, ossia nel salmo. La storia offre ovunque analogie con quanto si mostra in Is 53. La sofferenza assunta volontariamente, la morte, la rovina destano sempre sentimenti e presentimenti che si esprimono anche in immagini e idee molto simili a quelle (« sacrificio della vita », « espiazione », « cancellazione della maledizione, soluzione del debito ») ; segno del fatto che qui non agisce nulla di casuale, ma qualcosa di universale e necessario. Di qui il senso e l’effetto, che nessun razionalismo può sciogliere, della morte sul Golgotha su ogni animo devoto che si offra ad essa realmente e apertamente. È il santuario più delicato della devozione cristiana, e la protesta della dottrina di scuola contro la sua dissoluzione razionalistica è del tutto giustificata e necessaria : solo che la esercita in modo grossolano nel voler fare di qualcosa di inesprimibile una teoria. (La croce di Cristo è un oggetto per gli altari e per l’ora della morte, per la contestazione e per l’allontanamento da Dio, ma assolutamente non per una riflessione dotta. Ogni  



























r   ...così come tutto ciò che è grande, profondo e misterioso negli uomini e negli eventi della storia in genere, come è ovvio per il punto di vista di de Wette. Questi, infatti, non vuole isolare il fenomeno di Cristo dall’accadere storico in generale, come fa il soprannaturalismo. Quel che ha anche altrove la sua analogia, ossia l’annuncio dell’eterno nel fenomeno per il sentimento in quanto presentimento, deve avere qui il suo culmine ; e che lo abbia è di per sé, di nuovo, un giudizio del sentimento devoto, che come tale non deve comparire in una ricerca e un’esposizione che resta esclusivamente nella scienza dello spirito.  

19

  Ivi, p. 342.   Lehrbuch der christlichen Dogmatik in ihrer historischen Entwicklung dargestellt, volume primo : Biblische Dogmatik. Alten und Neuen Testaments, Berlin 1813 ; volume secondo : Dogmatik der evangelisch-lutherischen Kirche, Berlin 1816. Cfr. infra, cap. xiii. 21   Theodor, i, p. 342. 20







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dogmatica diviene qui completamente nulla, come potrebbe provare al meglio la montagna, che cresce in modo quasi inquietante, di sempre nuove « teorie della riconciliazione ». Il problema che qui si saggia è per principio irresolubile e quindi non è neanche, in generale, un possibile problema. Questo si chiarisce subito se si è compresa l’essenza del « presentimento ». Con ciò si chiarisce anche – il che è ancora più importante – che si può avere un’esperienza vissuta della verità anche senza concetto.) 17. Si addice alla libertà interiore e all’autonomia di un rappresentante, quale è de Wette, di una teologia che sta ringiovanendo, il fatto di riconoscere in Theodor – e di lasciare talvolta che si dèstino anche in se stesso – tonalità emotive e moti religiosi che senz’altro si presentano anche in tutti noi, come una corrente che scorre al di sotto di una devozione specificamente cristiana determinata dalla relazione ad un Dio assolutamente oltremondano ; e che (nonostante le frequenti e un po’ comode assicurazioni del contrario) non si lasciano senz’altro aggiustare e adattare a quella. Queste tonalità emotive gli si presentano in un’escursione in Svizzera – e a chi non sarebbe successo in un posto simile ! – alla vista della magnificenza, sublimità e bellezza della grande vita del tutto della natura, e all’occasione la sua tonalità emotiva assume qui, come sempre gli capita, una piega panteistica. Egli fa il tentativo di impiegare il dogma cristiano della Trinità (ora il « logos » immanente al mondo, ora lo « spirito » di Dio, che, vivente, abita nel mondo, ora in modo più figurato, ora più serio), per conformare questi sentimenti di una religiosità estetica e inframorale a quelli del livello etico cristiano. (E chi non avrebbe fatto altrettanto ! Sembra una cosa profonda e molti credono di ottenere qualcosa in questo modo. Ma forse è soltanto un gioco dottamente teologico su cose, il cui reale equilibrio ci si sottrae.)  





















Capitolo tredicesimo LA DOGMATIK DI DE WETTE 1. Il suo carattere. – 2. Immagine della storia. – 3. Herder. Ispirazione. – 4. Presentimento della teleologia della storia. – 5. Profilo della storia biblica. – 6 « Contenuto dottrinale ». – 7. Metodo : a) fondazione filosofico-religiosa della dogmatica ; b) filosofia e teologia. – 8. La teologia. – 9. La filosofia della religione nel dettaglio : a) concetti fondamentali ; b) significato della religione nella vita dello spirito ; c) realizzazione della religione nella comunità e nella storia (rivelazione) ; d) dogmi ; e) principio della peculiare configurazione della religione nella storia ; f ) principio unitario nello sviluppo ; g) unione della presentazione della religione e della metafisica.  





















N

1. el 1813 de Wette pubblica per la prima volta il suo manuale di dogmati ca cristiana, 1 che conobbe più edizioni (la seconda, del 1818, 2 è dedicata al Dottor Schleiermacher). Vi si trovano la dottrina biblica di scuola e quella ecclesiastica « nel loro sviluppo storico », accompagnate dalla critica e dall’individuazione di quel che è « corretto ». Si tratta di una giustapposizione ancora indifferenziata di « teologia biblica », di un principio storico-religioso di « storia dei dogmi » e di un’impostazione dottrinale propria, in connessione con un’« antropologia religiosa » (psicologia e filosofia della religione). Questo libro è propriamente l’opera inaugurale della teologia che ora si sta reimpostando, della teologia moderna in genere, non perché determina lo sviluppo successivo, ma perché espone per primo e in modo tipico la nuova situazione spirituale in cui emergono i nuovi punti di partenza, e perché per primo (otto anni prima della Glaubenslehre di Schleiermacher) espone in sé un programma, sebbene ancora informe, della nuova teologia che ora si presenta come scienza della religione. Quel che qui è giustapposto in modo confuso, in seguito si separa, secondo natura, in singole discipline particolari. 2. Per comprendere la nuova formazione dottrinale è importante sapere quale immagine e che tipo di concezione della storia le stavano alle spalle, in modo taciuto o espresso, in modo più o meno oscuro. È specialmente nella concezione della storia che la nuova generazione (che de Wette rappresenta insieme a Schleiermacher) si distingueva dall’illuminismo, che proprio su questo punto veniva attaccato in modo particolare. Talvolta si definisce questa differenza come « ritorno ad una più profonda concezione dello storico ». Ma così è detto in modo sbagliatissimo. Non era il ritorno a qualcosa di precedente, perché prima del destarsi dell’autentico senso storico nell’illuminismo (nella forma del pragmatismo), la considerazione storica non c’era. Anche quel che qui è vivo in modo nuovo è solo una prosecuzione dell’impresa dell’illuminismo : ottenere una comprensione realmente storica. E l’irrisione che i romantici, in particolare, esercitavano nei confronti del metodo storico precedente era a buon mercato, e forse ingiusta, perché nella storia c’è anche il pragmatismo ; e le altre chiavi che si applicavano, fino all’« inganno dei preti, alla religione come dominio delle masse, etc. », erano offerte dalla storia propria del tempo in modo fin troppo chiaro. Ma in  





























1

  Cfr. supra, p. 168, nota 20.   Berlin 1818 e 1821.

2



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effetti si era arrivati ad un livello superiore, si comprendeva l’ingranaggio della storia in modo più intimo e variegato e, essenzialmente preparati dal fatto che il tempo appena trascorso si era occupato dei compiti più raffinati e che conducevano più in profondità nell’ambito dell’arte, della letteratura universale e della poesia, si era significativamente intensificato il sentimento e l’acume per le proprietà particolari, per le finezze e le immani complicazioni della storia della religione ; e tendevano a scemare le concezioni grossolane e rigide della « storia naturale della religione », per lo più determinate anche da antipatie soggettive. A questo si aggiunse il metodo della ricerca delle fonti, più sicuro ed esercitato grazie alla precedente critica letteraria agli autori classici, al quale lo stesso de Wette, da giovane principiante, aveva contribuito in modo tanto brillante nella sua critica della storia israelitica. 3 3. Dietro la concezione storico-religiosa di de Wette (e di Schleiermacher), così come, in generale, del periodo che comincia, vi è però innanzitutto lo stesso illuminismo e il suo tentativo, del tutto consequenziale, di includere anche la storia biblica nella storia della religione in genere. Di qui le profonde intuizioni di Herder, a il cui giudizio, modellato dallo studio della poesia popolare di tutti i tempi e di tutti i paesi, gli rese possibile una comprensione più vera e profonda anche per la comprensione delle creazioni della storia della religione, la quale rendeva contemporaneamente già possibile un superamento della controversia, totalmente fuorviata, su « naturale » o « soprannaturale ». Herder scoprì nella poesia popolare, in realtà nella poesia in generale, una creazione che emerge dalle profondità misteriose e nascoste dell’animo, di ciò che è inconscio, non voluto e non fatto, di una ispirazione che sgorga dalla profondità dello spirito data da Dio come un dono e un vissuto, del tutto analoga a ciò che in un altro ambito, quello religioso, è la « grazia » e lo « spirito che soffia dove vuole, ma non sai di dove viene e dove va ». 4 A partire da qui doveva profilarsi una comprensione per le formazioni religiose totalmente altra rispetto a quella rigida dell’epoca precedente. E l’opera propria  





















a   A chi, oltre che a Fries, debba le sue sollecitazioni, de Wette lo dice in R[eligion und] Th[eologie, cit.], p. 67. Ha parlato della nuova e più profonda concezione della religione, che cominciava a riemergere in modo entusiasmante e liberante dopo il razionalismo e la moralizzazione kantiana della religione medesima. Ora dice a chi, soprattutto, il suo tempo deve ricondurre questo effetto : « In questa forma (in quanto esperienza vissuta di Dio nel tempio della natura e nell’epos della storia) la religione è di nuovo, anche per noi, raccomandabile, dopo che un’età dubitante sembrava essersene totalmente liberata, e ci si è fatto chiaro che in realtà, credendo di non averla, l’avevamo. Herder ha il merito di averci ridestato, in modo eccellente, il senso per questo tipo di considerazione, in quanto con geniale ricettività per tutto ciò che è grande e bello in tutti i tempi e in tutti i popoli, con identico amore per lo spirito poetante degli ebrei e dei greci, del nord e del sud, per la bellezza di natura della semplice poesia popolare e gli ideali elevati dell’arte classica, con quella vera umanità, alla quale nulla di umano è estraneo, si è preso ad oggetto la storia della formazione del genere umano e ci ha insegnato a vedere in questo l’epos divino. Dopo che questi ci aveva indicato il cammino, la cerchia si allargò [...]. In queste aspirazioni, spesso fraintese, spesso anche mal condotte, la nazione tedesca si mostra come la più religiosa di tutte. Che però questo modo di considerazione delle cose, in particolare quello della storia, sia religione fu uno dei più felici pensieri di quelle Reden über die Religion che hanno tanto operato tra noi per il riconoscimento della religione e attraverso cui ci siamo accorti che non eravamo così totalmente estraniati dalla religione come credevamo, imparando così a stringere di nuovo amicizia con essa. Era una religione libera e naturale che ci veniva racomandata, ma in una figura tanto più viva e calda di quella che fino ad allora si era detta tale ; essa si servì del sentimento e della capacità di immaginazione e si innalzò al di sopra del tipo comune di considerazione delle cose. Questa intuizione religiosa del mondo, quale viene còlta nel sentimento immediato, costituisce insieme la vera vita della religione ».  







3   Cfr. i Beiträge zur Einleitung in das Alte Testament, 2 voll., Halle 1806 e 1807, e il Lehrbuch der hebräischjüdischen Archäologie, Leipzig 1814. 4   Gv 3, 8.

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di Herder, Vom Geist der Hebräischen Poesie [Dello spirito della poesia ebraica, Deßau 17821783], ne era il primo brillante tentativo. Il mito, la leggenda e la saga sacra, e anche la restituzione specificamente religiosa di qualcosa di realmente storico, ricevono ora un signifcato totalmente diverso rispetto a prima, quando si sapeva soltanto passar oltre a tutto ciò con un’alzata di spalle oppure farne futili favole di un’epoca incolta o il ben noto inganno dei preti. In esse si può trovare non soltanto bellezza, ma anche verità e dunque rivelazione ; una rivelazione di verità eterna attraverso il sentimento che apprende in modo oscuro e per presentimento, secondo analogie terrene. La dottrina di Herder trovava, per de Wette, una fondazione più profonda nell’antropologia di Fries e nella sua dottrina della « simbolica » religiosa, secondo cui il mito, il rito e le forme di culto sono modi d’espressione del sentimento religioso. A questo si aggiunge la fede nello spirito e nella forza dello spirito in generale, che affluiva a quegli uomini dall’illuminismo e in particolare dall’epoca, appena trascorsa, dell’elevato pensiero della Humanität 5 (fede che solo gradualmente si è disseccata per noi in modo tanto miserevole davanti all’invasione del materialismo e del positivismo francese). Si attribuiva, infatti, allo spirito il fatto di essere « capax infiniti », e con ciò si aveva la via d’uscita dalla disputa tra soprannaturalismo e naturalismo : questa diventava indifferente per la religione, alla quale preme cogliere Dio ed esser sicura che sia Dio stesso. Che ciò accada in modo tale che lo spirito si inserisce nel contesto della vita spirituale umana con singole spinte dalla sfera soprannaturale, o che esso, disposto nelle profondità dello spirito razionale, emerga da queste e divenga potente a suo tempo, è cosa interessante per la metafisica e per l’antropologia, ma del tutto indifferente per la religione. b 4. Vi è, infine, sullo sfondo ancora un terzo elemento : la convinzione puramente ideale, che procede da Lessing a Herder e al romanticismo, che la storia stessa sia un processo teleologico. Questo pensiero si esprime più o meno fantasiosamente : nel modo più fantasioso nella filosofia romantica, che vuole vedere nella storia il graduale pervenire a se stesso di Dio ; in modo più sobrio nell’idea per cui la storia della formazione dello spirito umano è una maturazione e uno sviluppo del suo proprio patrimonio di predisposizioni interiori, tale da accadere secondo necessità divina e sotto la divina provvidenza. (Così l’intera storia diviene un processo di rivelazione, nel senso in cui già si parlava prima del « presentimento del governo divino del mondo », supra, p. 150. c) Con ciò il punto di partenza dello sviluppo veniva pensato non nell’elemento più rozzo e incolto possibile, come fa l’attuale antropologia determinata dalla dottrina della selezione, ma in ciò che è semplice e non sviluppato, e si assumeva come analogia degli inizi del genere umano non la condizione degli abitanti della Terra del Fuoco o, in generale, di razze possibilmente degenerate, o le abitudini dei gorilla e dei babbuini,  





















b   Che in seguito nella teologia questo punto di vista si sia potuto occultare di nuovo a tal misura, dipende da quella scomparsa di una più profonda formazione antropologica e filosofica generale, che si verificò per l’epoca successiva della nostra vita spirituale in generale e altrettanto per la teologia ; e dipende, in pari tempo, dall’accomodarsi troppo confortevole e poco chiaro, anche da parte di quei teologi e dei loro allievi, alla vecchia terminologia soprannaturalistica e alla presunta « teologia della comunità » ; un accomodarsi che va rimproverato anche a Schleiermacher e che trasmette l’atteggiamento insicuro che le è proprio all’intera « teologia della mediazione ». c   Gradualmente anche Schleiermacher si orienta a questa visione più semplice (cfr. Schleiermacher, Reden, ed. Otto [Göttingen 1906], pp. 63-64).  





5

  Cfr. supra, p. 163, nota 14.







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ma la condizione dell’infanzia e di una vita dello spirito ancora non sviluppata, che troviamo tra noi stessi. d 5. Nelle sue ricerche critiche sulla storia israelitica, de Wette si era creato la base per una reale storia di Israele e della sua religione. Di qui alla reale comprensione, a Wellhausen, 6 alla Theologie der Propheten [Teologia dei profeti] di Duhm 7 e alla Religionsgeschichte [Storia della religione] di Smend, 8 il cammino era ancora lungo. Soprattutto manca ancora completamente un coglimento vivo del significato del profetismo e con ciò della nascita e della specie del contenuto religioso reale della religione veterotestamentaria. Le ingenue costruzioni dell’illuminismo perdurano ancora. Mosè « introduce il monoteismo », e che presumibilmente aveva ricavato dalle più profonde speculazioni degli Egizi. Lo collega al culto di Jehovah, che, a partire da Abramo, veniva venerato come dio tribale. A ciò aggiunge il « simbolismo » religioso della teocrazia, il punto centrale dell’« ebraismo ». Legge, culto e polizia risalgono solo in parte a lui e si sviluppano solo successivamente, esattamente come il messianismo. Il « contenuto estetico », ossia i sentimenti religiosi esprimentisi, vengono ogni volta rintracciati nei capitoli conclusivi e stabiliti secondo i tre sentimenti religiosi fondamentali che erano stati determinati da Fries. Il giudaismo nasce dall’ebraismo per contatto con il parsismo (la « filosofia orientale ») dopo l’esilio. Ora il messianismo si riempie di contenuti escatologici e si formano le rappresentazioni di demoni, anime e aldilà che ancor oggi troviamo nel Nuovo Testamento. Già nel racconto del Paradiso e nelle genealogie de Wette aveva trovato l’assunzione di materia mitica estranea. Nello spiegare il giudaismo con gli influssi del parsismo è totalmente dipendente da supposizioni di Herder, che risalgono alle traduzioni di Anquetil du Perron.9 Il giudaismo si dispiega nel tipo palestinese e in quello di Filone, ed entrambi divengono significativi per il cristianesimo in fase di sviluppo. Il contenuto di valore della religione veterotestamentaria risiede nell’« ebraismo », che era già stato determinato nell’essenziale da Mosé ed era stato protetto dai profeti contro il proliferare del sacerdozio, contro gli idoli e la contaminazione della sua essenza ideale. In questa prima versione della sua Dogmatik anche l’immagine neotestamentaria della storia è ancora maldestra e straordinariamente parziale ; equivale in ciò a quella di Schleiermacher : entrambi procedono verso un’immagine più viva solo con sforzo e senza riuscirci del tutto. L’immagine della vita di Cristo viene disegnata essenzial 



























d   Con ciò si arrivava forse più vicini alla verità di quanto non lo siano i nostri odierni descrittori dei « primitivi », in biologia così come nella storia della religione. Anche la dottrina dell’evoluzione, infatti, non costringe affatto a porre all’inizio dello sviluppo quel che è brutale e il più possibile selvaggio, dove in realtà non si riuscirebbe a vedere come da tali spine siano potute in generale derivare rose, ma soltanto quel che non è dispiegato, quel che è ancora latente. E a questo conduce già uno sguardo nel mondo della vita infraumano, nel quale scorgiamo tracce non soltanto del « bestiale » e del grezzo, ma forse, e molto di più, dello « spirito dormiente ». e   Al pensiero di una nascita della religione per introduzione si poteva arrivare in un’epoca in cui in effetti i governi « introducevano » le religioni.  









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  Cfr. J. Wellhausen, Israelitische und jüdische Geschichte, Berlin 1894.   Cfr. B. Duhm, Die Theologie der Propheten als Grundlage für die innere Entwicklungsgeschichte der israelitische Religion, Bonn 1875. 8   Cfr. R. Smend, Lehrbuch der alttestamentliche Religionsgeschichte, Freiburg i. B. 1893. 9   Abraham Anquetil du Perron (1731-1805), orientalista francese, gli si deve la prima pubblicazione dell’Avesta in una lingua europea. 7

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mente secondo il Vangelo di Giovanni, in parte preso in modo mirabilmente letterale, in parte anche reinterpretato, considerato come fonte storica autentica o comunque come quella relativamente più sicura. Con Giovanni si tace sulla storia della nascita e sull’infanzia, che vengono ritenute mitiche. Riconosciuto come Messia dal Battista in occasione del suo battesimo, Gesù si presenta sin dall’inizio con questa pretesa, in un senso spiritualizzato. Ci si aspetta dei miracoli, che quindi si verificano. La morte è necessaria per imporre la visione spirituale della sua messianità. Inaspettata per i discepoli e per lui stesso, la croce non è stata mortale. Un qualche evento reale deve aver avuto luogo. Le testimonianze sono troppo sicure. 10

Ma quale ? Di ciò si tace. All’inizio è ancora chiarissima, sullo sfondo, l’ipotesi di una morte apparente. Anche in Schleiermacher. In seguito non si tratta di una morte apparente consueta, ma di quella forza spirituale con cui Gesù ha agito sui malati, sui moribondi, forse anche sui morti, e che ora diviene efficace in modo così particolare anche in lui stesso. O si tratta di qualcosa di ancora diverso, che con il tempo si esprime in modo sempre meno chiaro e in cui è chiara solo la premura di restare il più vicino possibile al modo di espressione e alla convinzione biblica. Pentecoste e conversione di Paolo sono « raccontate in modo mitico ». 11 6. Ma questa è soltanto la cornice storica. Qual è il contenuto dottrinale ? Innanzitutto qui va detto che proprio questa questione, assai contestabile, del « contenuto dottrinale » è anche per de Wette il punto di vista a partire da cui scrive la sua dogmatica del Vecchio e del Nuovo Testamento. Si prosegue qui la vecchia trattazione della dottrina di scuola, che anche il vecchio razionalismo ha mantenuto in modo del tutto fedele, e si vede il senso supremo della storia del vecchio e del Nuovo Testamento nella dottrina che essi insegnano. 7. Ancora sul metodo del libro. a) Il tutto è preceduto da una introduzione di natura puramente filosofico-religiosa, che nell’opera scritta a completamento, Zur Theologie und Religion, 12 viene ancora ampliata in modo essenziale. Per poter cogliere la religione nella sua storia, infatti, come accadrà in quanto segue, si deve innanzitutto sapere cosa sia la religione, perché altrimenti non la si potrebbe cogliere affatto, non la si potrebbe separare da ciò che le è estraneo ed esaminarla quanto a purezza e validità. Si può però ottenere un tale concetto di religione soltanto mediante una deduzione antropologica. E questa occupa la prima parte. Quanto qui viene offerto è nient’altro che la filosofia della religione di Fries. Nella Prefazione egli dice espressamente che  











può contare soltanto sull’assenso di coloro che seguono le ricerche rigorose e profondamente penetranti di quel filosofo che ha scelto a sua guida : Fries.  

Poiché le conosciamo, su questa parte non c’è qui niente da osservare. In essa viene offerta una determinazione generale dell’essenza della religione, delle facoltà dell’animo da cui procede, dei fondamenti su cui poggia il suo peculiare modo di convincimento e anche dei criteri che utilizziamo sotto il profilo religioso. b) Ora, è interessante vedere come de Wette determinerà il rapporto tra filosofia e teologia. Che quest’ultima debba esser preceduta da una filosofia con un’antropologia, 10

  Lehrbuch der Dogmatik, i, § 200.   Lehrbuch der Dogmatik, i, § 225, b).   Il sottotitolo è infatti Erläuterungen zu seinem Lehrbuch der Dogmatik.

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lo mostra in modo molto chiaro : ciò è da lungo tempo stabilito nella teologia f e anche oggi lo si riconosce di nuovo sempre di più, a destra e a manca. Il significato e il valore di questa filosofia può crescere tanto da mettere alle strette la teologia, da far sì che non si sappia più indicare chiaramente il rapporto tra questa e quella o che questa sembri in generale scomparire del tutto accanto a quella. E l’ultima espressione sembra particolarmente adatta, se la stessa filosofia è tanto ricca di contenuto quanto quella di Fries, così che può sembrare che già di per sé assolva il compito della teologia. È stato il senso della filosofia della religione dell’illuminismo quello di non offrire una propedeutica e un’introduzione alla successiva e autentica dottrina della religione, ma di esserlo di per sé. Si credeva di poter costituire, in parte per comparazione, in parte mediante speculazione razionale, la religione stessa, quella « religione naturale » che doveva essere qualcosa di più di un canone e un criterio, che doveva esser proprio la religione stessa che si presentava, ancorché travestita, nelle religioni storiche, ossia « positive », anche nel cristianesimo. Il senso della trattazione storica della religione era allora, in effetti, soltanto quello di mostrare quanto, o quanto poco, e in che modo, puro o torbido, la religione naturale si presentava nelle singole religioni. È fuor di dubbio che in de Wette, nella prima versione della Dogmatik, la cosa si pone ancora in questi termini. Quel che qui viene proposto e individuato antropologicamente come concetto della religione è assai più ricco e ampio della « religione naturale » dell’epoca passata ; ma il rapporto tra filosofia e storia della religione, da una parte, e una teologia da rintracciare sul fondamento della storia della religione biblica, dall’altra, è molto simile alla vecchia concezione. Ma questa sarebbe una situazione assai sorprendente e dovrebbe essere assunta con sospetto anche da parte della filosofia : le sarebbe qui attribuito quel che altrove non accade mai. Ovunque, infatti, la filosofia è certo scienza dei principi, e dunque precede ogni singola scienza in quanto sua parte suprema e più universale, di cui determina concetti fondamentali e punti di partenza ; ma essa non è mai contemporaneamente anche la stessa scienza singola che si trova sotto tali principi e sotto di essi prende forma in modo totalmente autonomo. La filosofia della natura non è essa stessa scienza della natura, ma è totalmente diversa da questa. La filosofia della storia può offrire soltanto i concetti supremi con i quali la storia lavora, ma nessuna singola conoscenza storica. La filosofia morale elabora i concetti generali del bene e del bello. Ma cosa sia di per sé e nel dettaglio buono e bello, questo si può sapere solo per esperienza interna. E così possiamo ipotizzare già qui, e provvisoriamente, il corretto rapporto. Deve esserci una filosofia che dà quei concetti sommi e però, come abbiamo già visto precedentemente, totalmente astratti, quali eternità, contrapposizione tra essere mondano e essere oltremondano in generale, quella serie di idee che sono necessarie e efficaci in ogni religione e senza le quali essa dovrebbe sfumare in sentimenti oscuri, senza chiarezza e senza una sicura giustificazione di fronte all’esame ; una filosofia che dà quindi una attestazione delle più profonde facoltà e dei loro diritti (anche dei loro limiti), attraverso le quali soltanto diviene possibile ogni vissuto religioso. Ma la molteplicità, che deve essere subordinata a questi principi di per sé del tutto vuoti, non può, di nuovo, offrirla la filosofia, ma soltanto l’esperienza, e non l’esperienza del singolo, ma l’« esperienza ampliata », ossia la storia ; e non l’esperienza nostra di persone qualsiasi, ma quella di coloro che sono toccati dalla grazia di Dio e che sono stati inviati da Dio, guide e mediatori ; l’esperienza di coloro che ci accolgono « nella forza e nella beatitudine della loro  



























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  In Schleiermacher nella nota forma di quegli assiomi all’inizio della sua Glaubenslehre.

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coscienza di Dio » e ci danno ciò che noi non abbiamo. Il racconto di queste cose sarà allora quella scienza della religione, che oggi la teologia deve produrre. E di fronte ad essa la mera filosofia della religione sarà tanto povera, quanto lo è la filosofia morale di fronte ad un’etica vivamente dispiegata. Da questo punto di vista il libro di de Wette, nella sua prima edizione, va assai poco al di là della dogmatica dell’illuminismo. Il suo errore è quello dei suoi predecessori, per cui egli nell’evoluzione della religione biblica vede in realtà ancora l’« introduzione della religione di ragione », in seguito alla qual cosa si sbarazza dell’Antico Testamento con una critica da maestro di scuola, e dell’annuncio di Gesù con una lode non priva di una qualche preoccupazione : quel che vi è di migliore, tuttavia, ossia il peculiare spirito individuale sia del profetismo, sia dell’annuncio di Gesù resta del tutto oscuro. Se quell’« introduzione » fosse la cosa principale, allora il Timeo di Platone avrebbe più valore per la religione di quanto ne abbia Isaia. Perché ha senza dubbio concetti molto più « puri ». Non pensa Dio né come Jehovah, né seduto su un trono, né circondato da esseri angelici serpentiformi. 14 E tuttavia potremmo fare a meno senza sforzo del Timeo, ma non di Is 6. Da che dipende ? Non sarà che qui si annuncia, in un modo assai notevole, il mistero del rapporto tra teologia e filosofia ? La teologia biblica neotestamentaria di de Wette rappresenta un grosso progresso rispetto alla considerazione consueta nel razionalismo, in quanto che qui viene cercata una comprensione puramente storica e non si infligge agli autori una torsione alla dogmatica del proprio tempo, come avevano fatto sia la dottrina di scuola, sia la dogmatica razionalistica. Ma non si chiarisce che il significato di questi autori risiede in qualcosa di totalmente altro che non nella concordanza con le « idee » e nell’insegnamento delle convinzioni ideali (costoro non le insegnano e non le introducono affatto, ma le presuppongono e si appellano ad esse come a qualcosa di assolutamente ovvio). Il significato di Gesù non è che « insegna » la fede in Dio, ma che ha un vissuto di Dio, fonda una comunità di Dio e nello stesso tempo riempie la relazione a Dio di un contenuto che altrimenti, con questa specificità, semplicemente non c’è. E la dogmatica di Paolo, il cui genere filosofico de Wette crede di dover esaltare, è astrusa, ma non possiamo fare a meno di ciò che in lui è totalmente adogmatico e puramente conforme al vissuto, del suo « beato mediante la grazia » : e questo non è deducibile da una filosofia della religione.  

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Nella dogmatica, che ci rappresentiamo come una compilazione dotta dell’intera dottrina cristiana della fede, guidata dalla riflessione filosofica, contano tre cose : 1) la concezione storica della dottrina della fede cristiana ; 2) la trattazione metodologica e l’inquadramento di questa materia storica ; 3) la critica filosofica o la riconduzione della medesima a leggi universali della natura umana. 15  





Così de Wette, all’inizio della ii parte, determina il compito della dogmatica. Il rapporto tra teologia e filosofia, quale egli lo pensa, sarebbe dunque questo : innanzitutto la teologia, quale disciplina puramente storica, deve esporre la dottrina della fede cristiana in  

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  Cfr. F. Schleiermacher, Glaubenslehre, §94 e §100.   Otto allude al fatto che il termine plurale seraphim (« serafini »), che è di origine incerta e nell’AT compare una tantum in Is 6, 2 per designare gli esseri angelici attorno al trono di Jahweh (« ognuno aveva sei ali ; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi, e con due volava »), sembra derivare da saraph (singolare), cioè appunto « serpente » (cfr. Is 14, 29 ; Is 30, 6 ; Nm 21, 6 ; Dt 8, 15). 15   Lehrbuch der Dogmatik, ii, §13. 14





















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quanto storicamente divenuta e data. Dopo deve intervenire la critica, per stabilire se e fino a che punto essa sia valida. Questo deve accadere in modo tale da « ricondurla » a leggi generali della natura umana, ossia all’antropologia. Tale determinazione è significativa e, se liberata da errori, è davvero quasi il programma del lavoro teologico e insieme del rapporto tra la teologia, quale dottrina della religione, e la filosofia della religione. Il suo compito non può esser quello di costruire di testa sua la « corretta religione », per poi verificare quali forme storiche di religione concordano in modo puro con essa e quali no, e quindi provare anche ad aggiustarsi di conseguenza, per quanto possibile, il sistema nel quale casualmente si è cresciuti. Il punto di partenza può esser sempre solo la concreta realtà storica. Per questo il primo punto del programma è sulla via giusta, ma è allo stesso tempo insufficiente. La « dottrina della fede » è, in ogni caso, solo una parte del contenuto di realtà della religione cristiana, e in effetti non la principale. Uno sguardo profondo e ampio su quest’ultima nella sua interezza, nei suoi punti di partenza e nel loro dispiegarsi, uno sguardo su ciò che è simile e affine, una comprensione, dunque, del cristianesimo nel contesto della religione in genere sono necessari. Già con ciò interviene la critica e comincia a separarsi in sé l’essenziale dal casuale, l’eterno dal caduco. A questo lavoro viene incontro, dall’altro lato, l’antropologia filosofica. Il suo compito può esser ben definito come « riconduzione alle leggi universali della natura umana », se con ciò non si intende la risoluzione di ciò che è còlto storicamente in qualcosa da costruire a priori e razionalmente, cosa che non può affatto riuscire con quel che la religione ha di più raffinato e profondo, ma se significa ricerca delle facoltà dello spirito umano attraverso cui gli può esser data la religione e la certezza religiosa ; ricerca delle fonti nello spirito da cui essa può sgorgare e individuazione dei criteri nascosti rispetto a cui nel religioso misuriamo e valutiamo ciò che è valido e ciò che non lo è, il valore superiore o inferiore, e attraverso cui si attua per noi l’assenso o il rifiuto. In particolare un simile lavoro deve esser attuato anche, in modo oscuro o consapevole, non appena si tenti di attraversare l’ambito variopinto della storia universale della religione, se non si vuole finire privi di guida in ciò che è sterminato. 8. La teologia che de Wette offre nel seguito resta ancora molto insoddisfacente. Egli ripete in compendi assai concisi il sistema scolastico luterano – avesse almeno tentato di cogliere il cristianesimo di Lutero in modo vivo e di farne la base della sua critica ! – e, come nel Theodor con la dottrina della giustificazione, si affatica qui con le singole dottrine di un sistema che in fondo gli è estraneo, per ricavare da esse « un buon senso », senza però propriamente ritrovarsi nel centro di queste dottrine, da cui soltanto, in realtà, tutto riceve un senso, ossia nella grandiosa dottrina ecclesiastica della grazia. Ha perciò anche poco valore occuparsi dei suoi singoli tentativi di accomodamento, con la sua dottrina su Scrittura, ispirazione, Trinità, persona e opera di Cristo, per quanto vi si trovino singoli elementi buoni. L’edizione del 1818 rappresenta un progresso essenziale. Se la prima si avvicinava in realtà al tipo della dogmatica razionalistica, questa seconda e la terza, del tutto identica, (e poi tutto Das Wesen des christlichen Glaubens vom Standpunkte des Glaubens, [Basel] 1846) sono tipiche della nuova teologia della mediazione. Certo, una comprensione realmente storica, e dunque anche più profonda, della religione profetica veterotestamentaria non si trova nemmeno qui. Si resta a quel primo abbozzo, povero e schematico, e permane chiaramente qualcosa dell’avversione nei confronti dell’Antico Testamento da parte dell’illuminismo, che si rifiutava con orrore di riconoscere nelle  























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azioni e nelle idee di Giacobbe e Davide dei modelli per la ragione. (Nemmeno Schleiermacher ha mai guadagnato un interiore rapporto ad esso, che è possibile soltanto se lo si spiritualizza, come fa la tradizione, o se si guadagna una comprensione storica dello Jahwismo e del profetismo, dalla quale quel tempo era ancora lontano.) Ma la concezione della religione cristiana, del Nuovo Testamento e della dottrina ecclesiastica guadagna ora un proprio contenuto, diviene ricca e calda. Tuttavia ciò non produce un impulso realmente efficace ad un’autonoma e promettente costruzione dottrinale. Come dovremo ancora dire, infatti, mancava un centro realmente proprio e la base storica, su cui ci si poneva, era in realtà quella vecchia, ossia il quarto Vangelo : l’obiettivo segreto era il maggior allineamento possibile con la « dottrina di Chiesa », ossia con il sistema di scuola, per il quale de Wette fa presto un uso fin troppo copioso della dottrina friesiana del « presentimento » e del « significato estetico-simbolico ». Significativamente arricchita è l’introduzione filosofico-religiosa, che è più ampia, metodica e utile degli « assiomi » che Schleiermacher premette alla sua Glaubenslehre. Qui era veramente dato un germoglio che, se la successiva sistematica teologica avesse voluto assicurarsi una base scientifica di livello, non avrebbe dovuto morire. Ma il talento per quella trattazione dei problemi e per quella valutazione concettualmente salda, sicura e meticolosa, che proviene dall’addestramento matematico dello spirito dell’illuminismo, il talento per quella raffinata analisi che Kant aveva eseguito nelle critiche, nonché quella vera genialità, che non consiste nell’avere idee improvvise, ma nel cogliere in modo vero e puro un problema che risiede realmente nella cosa e nell’individuare « metodi » per la sua soluzione, tutto ciò andò perduto. E così questo lavoro avanzò poco. Il successivo sviluppo è contrassegnato da procedimenti eclettici, da insicurezze nel metodo, dal pensare in comune di circoli tra loro eterogenei, da tutto il nuovo tormentarsi su naturale e soprannaturale, da una formazione generale molto ampia, ma senza alcuna base filosofica ; e, d’altro lato, dal gioco dotto, dall’elevazione a « sistema » dei contenuti della predica comunitaria, cui si dà importanza con termini significativamente oscuri, dal dedurre, con molto acume, le minuzie della dottrina di scuola, persino le fantasie della cosmogonia schellinghiana (fino alle scorie del mondo), dalla « coscienza rinata ». Non meraviglia che una natura solida come Ritschl si sia allontanata risolutamente da questo tipo di trattamento della questione e che, con la potente unilateralità della sua volontà di unitarietà, chiarezza e compiutezza, abbia creato una dottrina, che però può valere più come espressione stimolante e rinfrancante di una personalità vigorosamente devota, che come esposizione dell’essenza della religione cristiana, o della religione in generale, individuata secondo criteri e metodi scientifici. Non meraviglia che, senza tante cerimonie, si sia tornati alla casa dei padri e ci si sia accontentati di compendi, ricchi di citazioni dagli antichi maestri ; compendi che riducono al minimo il contenuto e l’ampiezza della parte propria, che viene stampata grande : del tutto a ragione, visto che tutto ciò che deve esser detto si trova in effetti, detto molto meglio, già nei padri. 9. De Wette ha sviluppato in modo più dettagliato l’elemento filosofico-religioso della sua dogmatica nei due libri : Über Religion und Theologie (1815 e 1821) e Über die Religion, ihr Wesen, ihre Erscheinungsformen und ihren Einfluß auf das Leben (1827). Il primo scritto meritò una nuova edizione. Esso sviluppa innanzitutto, in un modo fresco, scorrevole e universalmente comprensibile, idea ed essenza della religione, seguendo totalmente Fries, ma facendolo proprio nel modo più vivo. Lo spirito autonomo e libero, che non lo ha mai abbandonato, aleggia su tutto e gli conferisce la sua impronta virile. Anche  





































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la nuova ecclesialità di quegli uomini non era un sottomettersi nuovo ad un giogo vecchio, ma derivava da un amore libero, e per questo in essa vive sempre lo spirito libero :  

Se Götze deve ancora riportare la vittoria su Lessing, allora abbandoniamo il sogno di un perfezionamento del genere umano : siamo destinati a girare in tondo e la cosa migliore sarebbe non muovere un passo. 16  

Ci sono tre specie di convincimento dell’uomo : mediante il sapere, mediante la fede, mediante il sentimento (« presentimento », che si esprime nel giudizio estetico). Coerentemente la dottrina viene elaborata a partire dal mondo del sapere, che esclude il soprannaturalismo dal mondo fenomenico. E in ciò de Wette non ha mai trascurato nulla. Le idee della fede, in sé fredde e formali, ricevono il loro contenuto e offrono così religione mediante l’elemento pratico dello spirito e mediante il sentimento religioso. In questo essa vive per la prima volta autenticamente ed ha l’esperienza vissuta del mondo della fede.  





Solo nel sentimento, secondo la legge del presentimento per cui l’eterno si fenomenizza nel temporale, possiamo ordinare le cose sotto le idee religiose. Un giudizio di sentimento o estetico è quello che opera la subordinazione del particolare ad una regola inesprimibile secondo concetti, in contrapposizione al giudizio intellettuale che accade secondo una regola determinata (Dogm., 3 ed., p. 17). 17

Come a Fries, così anche a de Wette si rimprovera, per questa definizione, una « estetizzazione della religione ». Questo è un equivoco quasi divertente, perché anche qui « estetico » interviene semplicemente in contrapposizione al logico e indica uno di quei modi di giudizio per sentimento in generale che sono contrapposti al giudizio logico ; indica cioè quel giudizio che non accade mediante subordinazione a concetti. Basta porre un giudizio di sentimento e subito la cosa si fa chiara. Questo ha la sua particolarità, per esempio, nel fatto che non è capace di alcuna dimostrazione o prova logica, ma ha luogo « liberamente », senza dimostrazione : la prova accade per un’attrattiva interna. E che tutti i giudizi religiosi lo siano è fuori questione. Le tre forme essenziali del sentimento religioso sono la tonalità emotiva dell’« esaltazione », dell’elevazione devota (entusiasmo), quella dell’umiltà e della rassegnazione, e infine quella del raccoglimento e dell’adorazione, nella quale  



















cerchiamo di cogliere il presentimento della santa (heilig) onnipotenza e dello spirito di Dio nell’essenza delle cose, di scorgere le tracce del governo divino del mondo, di percepire la voce di Dio nella nostra interiorità. 18

Quest’ultima forma è il principio della rivelazione nella storia e tutte e tre insieme sono certamente un dispiegamento del sentimento devoto molto più ricco e vero della dipendenza assoluta di Schleiermacher, che è inclusa nel terzo, ma è còlta in modo molto più profondo. b) È proprio della comprensione dell’essenza della religione che si renda chiaro cosa in realtà si voglia con essa, quale sia il suo significato per la nostra vita spirituale. Nel seguito questa questione diviene punto di partenza metodologico per accordarsi circa la sua essenza. Schleiermacher aveva posto questa stessa questione nella prima del16

  Über Religion und Theologie2, p. vi.   Lehrbuch der Dogmatik, i, §28. 18   Lehrbuch der Dogmatik, i, §30. 17

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le sue Reden, e aveva risposto che essa ci è necessaria in quanto momento sommo e conclusivo dell’umanità. Chi riconosce la domanda come corretta deve in realtà porla all’inizio della ricerca sull’essenza della religione e determinare attraverso di essa l’intero metodo. De Wette la porta in conclusione, al § 33, e in modo più dettagliato, caldo e attraente in Über Religion und Theologie2, pp. 50 e ss. :  

Il valore della religione è quello per cui essa, sul versante della conoscenza, risolve all’uomo l’enigma della vita. Sul versante dell’agire essa offre libertà e pace di fronte agli stimoli incostanti del mondo dei sensi, mediante il sentimento profondo e sacro dell’amore, che essa nutre, e mediante il fatto che, nel guazzabuglio dei fini terreni, essa gli mostra per presentimento l’eterno, al quale egli, nei fini terreni, cerca di rendere servizio ; in generale essa gli offre la consolazione eterna circa il destino, le avversità e i fallimenti.  

Queste sono determinazioni prese senza metodo dal linguaggio dell’edificazione, e il tutto è quasi solo un’osservazione occasionale. In ogni caso è indicato il punto che costituisce il perno nella ricerca religiosa. c) Come diviene reale la religione, che è determinata secondo la disposizione ? Nella comunità religiosa. Così si aggiunge ora la seconda edizione della Dogmatik. Qui si mostra la trama che Theodor doveva aver ricevuto da « Härtling », e che nella prima edizione è ancora rudimentale. Quel che erompe, quanto a rappresentazione e sentimento, dall’interiorità, viene condiviso, diventa patrimonio comune, forma una comunità nella quale viene accumulato, ereditato e costantemente accresciuto. Così nasce un contesto in cui la religione può svilupparsi storicamente, prendere forma, e in cui c’è anche un posto e una sfera d’azione per l’intervento di singoli eccellenti, nei quali la disposizione religiosa si rivela in modo sempre più pieno, in modo tale da esser anche perfezionata, ricreata e portata più in alto. Possiamo chiamare rivelazione ogni vera idea religiosa fatta emergere da questa profondità e portata nell’elemento mediato del linguaggio e della simbolica, poiché deriva dall’immediato (della rivelazione interna) e poiché il suo emergere non può accadere senza lo spirito di Dio nella ragione, che preserva da sbagli e guida l’arbitrio della contemplazione e della imitazione, né può accadere senza il sentimento della dipendenza da qualcosa di più elevato. È pensabile una sua gradazione. Ma quella rivelazione che rispecchia all’uomo l’elemento divino che è in lui nell’immagine perfetta e gli offre la più pura coscienza di se stesso, potrà essere riconosciuta da tutti coloro che grazie ad una certa formazione sono preparati per farlo, e potrà valere come l’ultima e la conclusiva. In essa lo stesso intelletto divino (Logos) sarà abbassato al genere umano, poiché l’intelletto umano è portato ad uno sviluppo libero e autonomo. D’ora in poi lo spirito divino regnerà nell’uomo, per interpretargli questa rivelazione e coniugarsi con la rivelazione interiore, ma non si presenteranno più nuovi inviati di Dio. Così il soprannaturalismo, che in realtà afferma la visione corretta, ossia la visione ideale del sentimento della fede, si coniuga con il naturalismo che mira ad una visione intellettuale, naturale e puramente storica, della religione, fino al razionalismo di cui, in questa forma approfondita, de Wette fa esplicita professione. È solo mancanza di chiarezza sulla natura dello spirito umano se si contrappone la rivelazione alla ragione, se si nega l’elemento divino nella ragione e si addossa la fallibilità dell’intelletto alla ragione infallibile. La ragione è l’apprensione pura e infallibile della stessa verità eterna e in sé non può ingannare. Solo nel momento in cui l’intelletto, con la sua fallibilità, ne assume la conoscenza immediata nella coscienza, l’« opera dell’uomo » si realizza in contrapposizione all’opera di Dio. Così, mediante intorbidamento  









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di ciò che qua e là, nello sviluppo dell’umanità, si desta in modo puro nel sentimento religioso della verità, nasce anche quella caricatura, contaminazione, deformazione grottesca, che la storia della religione e del culto esibisce, la ejqeloqrhskeiva, il « culto divino arbitrario », il simulacro della religione nel paganesimo e nella superstizione. De Wette è, come si vede, molto lontano dai comodi motti con cui si crede di fare storia della religione : « omnia humana et divina omnia ». 19 E la sua filosofia della religione gli ha offerto una buona possibilità di tener fermo il pensiero corretto della vecchia dottrina della rivelazione relativa alla norma divina assoluta, la quale è assolutamente superiore all’operare umano e non viene toccata dalle relatività dell’« evoluzione ». d) I « dogmi » nascono in una comunità religiosa quando le idee religiose divengono didattiche e vengono concepite per la comunicazione. A rigore essi possono essere solo « negativi », poiché ogni elemento positivo viene còlto in un sentimento che non è esprimibile in modo adeguato. Il mezzo d’espressione del sentimento devoto è l’immagine (figlio, padre, fanciullo, Regno di Dio, Dio come capotribù...) : la sua espressione è quindi sempre analogico-simbolica, dunque « oscillante », e può esser còlta correttamente, a sua volta, solo col sentimento. La sua espressione più pura è l’azione simbolica nel culto e nella cerimonia – per questo, necessariamente, la religione ne produce sempre – e l’esposizione poetico-artistica nell’inno e nella musica religiosa. Anche il mito e la leggenda sacra hanno qui le loro radici. Nella configurazione dottrinale, però, il dogma e l’espressione analogica del sentimento si intrecciano e dalla loro trattazione successiva e puramente razionale nasce la forma scolastica della dottrina di scuola, contro cui la critica razionalistica si dovette indirizzare, a ragione, cadendo però essa stessa nel medesimo errore : muovendo da una concezione puramente conforme all’intelletto, essa gettò con la forma scolastica anche il « contenuto estetico-ideale ». e) La seconda sezione di Über Religion und Thelogie opera il passaggio alla teologia. De Wette esige che la teologia abbia uno spirito filosofico e mostra in modo molto illuminante il primato della filosofia friesiana, rispetto ad altre, per la teologia. Mostra assai bene che in realtà la filosofia gnostica della filosofia dell’identità alla moda ha succhiato alla teologia il suo spirito proprio e la riempie di rappresentazioni in fondo irreligiose, utilizzando le rappresentazioni religiose come allegorie per contenuti totalmente diversi. La filosofia critica però – cioè quella kantiano-friesiana – non erige un sistema dottrinale della religione, per poi introdurre le dottrine di questo nel cristianesimo, né sottomette la teologia alla sua signoria, ma esibisce solo i principi su cui poi la teologia si deve liberamente dispiegare. Non vuole essere affatto una « magra dogmatica filosofica », 20 ma una vera e propria dottrina della fede cristiana, ricca e piena. E, nell’esposizione, il suo obiettivo – che in larga parte realizza – è senz’altro quello di offrire qualcosa di più della riscoperta di una « religione naturale », già precostituita filosoficamente, dietro le sue diverse maschere storiche. Ma non trova una soluzione sicura. E sicuramente non si è nemmeno chiarito del tutto il problema. Alla soluzione si avvicina in un passo molto successivo, e in modo quasi del tutto occasionale. A pag. 205 afferma :  











































così si deve ancora aggiungere una specie particolare di considerazione, che si fonda sulla differenza caratteristica di ogni religione. 19

  L’espressione è utilizzata da Jacobi, nella lettera del 5 settembre 1787 al fratello Johann Georg, per tratteggiare la capacità di Hamann di godere, « con il medesimo rapimento, delle cose più eterogenee [...] Omnia divina et humana omnia ! » ; F. H. Jacobi, Werke, iii, Leipzig 1816, p. 505. 20   Über Religion und Theologie2, p. 224.  

   



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Questa differenza non consisterebbe nel fatto che l’essenza universale della religione in generale sia stata casualmente afferrata qui in modo più puro, là più oscuro, qui più cólto, là più mitico. Questo fonderebbe solo una differenza relativa, che pure si presenta sempre nella storia di una religione. La vera peculiarità dovrebbe risiedere in un principio che costituirebbe quasi il nucleo interno della religione in questione. Egli lo enunciag e dice in modo del tutto corretto, cosa a cui sarebbe dovuto arrivare già da tempo nella parte sui principi della sua dottrina, che un tale principio deve essere di « contenuto estetico-ideale » e deve risiedere integralmente in ciò che appartiene al presentimento :  





Questo è infatti individuale e, sebbene poggi su una base universale, è capace di una configurazione peculiare. 21

Nonostante fosse possibile arrivare a questo pensiero in modo quasi necessario e del tutto puro muovendo dalla dottrina friesiana, bisogna però assumere che de Wette dipende qui quasi certamente da Schleiermacher. La scoperta più geniale che Schleiermacher ha fatto nelle sue Reden è quella della configurazione individuale della religione nella storia (quinto discorso). È con ciò che egli ha oltrepassato in modo tanto deciso la dottrina tradizionale della religione e si è avvicinato per la prima volta realmente al fatto storico della religione. La comparazione delle religioni, infatti, non insegna nulla di più chiaro della diversità qualitativa tra le religioni nei loro gradi superiori. In generale non c’è nulla che distingua in modo tanto intimo l’uomo dall’uomo, quanto la sua religione : non la razza, né il clima, né il tenore di vita. Cogliere e vivere in sé l’essere eterno come un karma onnipotente, che spinge di nascita in nascita al tormento sempre nuovo della sete di vita, dove la salvezza appare nell’estinzione della brama d’essere, o esperirlo come un custode della legge, con il quale la propria vita viene condotta come un conto corrente in « opere buone », rende uomini diversi ; così come rende uomini totalmente diversi il vivere tale essere eterno come il « Padre di Gesù Cristo » e la salvezza come possesso della vita eterna, non sapendo nulla del grande bisogno della tribolazione delle opere, della « legge » e dell’addestramento morale, perché, essendo uniti nell’intimo all’Altissimo, si fa il giusto per libero impulso. Ed è chiaro che con ciò anche la valutazione, il senso e il compito della vita, cioè anche l’ethos di ciascuno – essendo ciascuno tanto diverso da ogni altro – , devono prendere forma in modo del tutto individuale e diverso. Così una religione si fa avanti di contro ad un’altra, e la « religione naturale » è sempre soltanto là, dove lo spirito proprio di una religione autentica è svaporato, come residuo – per lo più abbastanza insulso – di quella. Ora, la dottrina friesiana del « sentimento » aveva la migliore chiave pensabile per questo fatto, con il quale soltanto ha inizio, in generale, una più fine storia comparata delle religioni. Tutti questi vissuti fondamentali dell’eterno sono « liberi giudizi » del sentimento « che è presentimento », che si crea liberamente la sua propria « simbolica », ossia la sua cerchia di denominazioni e rappresentazioni. E dove è intervenuto qualcosa di simile, non si comunica mediante convincimento raziocinante, ma agendo sulla « libera capacità di giudizio » : chi dispone di quest’ultima la presume in ciascuno con validità oggettiva, come accade per ogni altro « giudizio estetico ».  













































g   Come principio materiale e formale. Che questa divisione, che tanto a lungo fece scuola, derivi da qui ?  

21

  Über Religion und Theologie2, p. 206.

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Di questo Schleiermacher, nel suo scritto da principiante, 22 aveva un’idea chiara. 23 E che de Wette qui dipenda da lui è del tutto chiaro ; come è chiaro anche che egli determina il principio del cristianesimo esattamente nello stesso modo di Schleiermacher, e in modo altrettanto sbagliato nel medesimo punto, ossia come principio della « redenzione » : un modo che è evidentemente sbagliato e unilaterale, perché questo principio non è peculiare del cristianesimo nella sua universalità, visto che le grandi religioni dell’oriente sono senz’altro tutte religioni di redenzione ; visto che propriamente questo momento inerisce sempre alla religione, laddove questa compare formata in modo chiaro. Propriamente la religione è sempre religione di redenzione. Il principio del cristianesimo, la specificità, che non può essere inventata né dedotta, dello « Spirito di Cristo » e dell’« essere in Cristo », si lascia fissare in un rapido motto tanto poco quanto quella di un’altra religione, e vuole invece esser còlta col « sentimento » nella storia della sua nascita ed elaborazione, come tutto ciò che è individuale. Coglierlo e restituirlo nel modo migliore possibile : questa è la teologia cristiana, una cosa che non può tuttavia riuscire nelle « dogmatiche » scolastiche ; forse, con sforzo, ci si riesce in una « dottrina della fede ». Così in effetti dev’esserci una scienza della religione in generale, e una del cristianesimo in particolare. E questa si distinguerà in modo tanto preciso dalla filosofia della religione, quanto necessariamente la presuppone e ottiene mediante essa, in generale, un più rigoroso atteggiamento scientifico. Che Fries stesso non abbia còlto in modo più preciso questo rapporto non sorprende. Sorprende di più in de Wette. Dipende, certo, dal fatto che in lui agisce di nuovo, silenziosamente, la vecchia concezione dogmatica che propriamente vedeva nel cristianesimo la religione, e che vedeva altrove soltanto lo stadio preliminare e poco chiaro in cui non è formato qualcosa di realmente proprio. Chi è cristiano crede anche che il cristianesimo, secondo il suo contenuto spirituale, sia il tipo assolutamente sommo di religione tra gli uomini. Ma c’è religione anche al di fuori di esso, e religione reale. E può esserci una resistenza al cristianesimo che viene offerta per motivi di per sé religiosi, cosa che non sarebbe possibile se esso fosse il denominatore comune di tutte le religioni. Il cristianesimo non può affatto – come ci si immagina, mettendo con ciò in pericolo la chiusura caratteristica della sua specificità – semplicemente includere in sé tutto ciò che, ad altri livelli, si trova di un sentire religioso realmente autentico. Al contrario esso detronizza gli dèi, che non sono « nullità », per servire quello supremo. h  





































h   A tal proposito, lo stesso Schleiermacher non ha fatto, in seguito, alcuna applicazione della sua felice scoperta nelle Reden, come di tante altre cose buone che vi si trovavano. Al suo successivo e laconico sentimento di dipendenza si poteva applicare solo forzatamente e per tutt’altra via un « principium individuationis ». Inoltre l’espressione « positivo », che egli reintroduce per le forme storiche particolari di religione, è falsa. Per « positivo » il razionalismo aveva inteso ciò che vale per convenzione in contrapposizione a ciò che vale per natura e ragione, corrispondentemente al senso originario di questi termini quale era stato coniato all’epoca dai sofisti : « fuvsei » e « qevsei ». Il principio delle religioni da Schleiermacher dette positive è del tutto contrapposto ad ogni convenzione e a tutto ciò che vale per autorità ; ed è proprio la stessa ratio, che anche quelli intendevano nella loro « religione naturale », solo dal punto di vista per cui essa è contemporaneamente anche principio dell’individuale.  



























22   L’espressione « Anfängerschrift » si riferisce alle Reden. Come Otto dichiara nell’introduzione alla sua edizione dell’opera schleiermacheriana, le Reden furono scritte quando l’autore era « un giovane predicatore quasi sconosciuto » : il libro si « afferma » e diviene anzi « uno dei libri più famosi » che la storia conservi, « nonostante le tracce di incompiutezza e di un tratto da principiante (Anfänglichen), che porta abbastanza chiaramente in sé ; nonostante i capolavori più maturi che l’autore gli fa seguire » (R. Otto, Zur Einführung, in F. Schleiermacher, Über die Religion, cit., p. vii). 23   Cfr. ivi, ii, p. 31.  























la filosofia della religione kantiano-friesiana

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f) De Wette indica il rapporto tra filosofia della religione e storia della religione in modo molto chiaro a p. 198. Se si vuole offrire la storia di una cosa, bisogna sapere innanzitutto di quale cosa. Bisogna avere prima il concetto della cosa. Per esempio : per scrivere la storia dell’agricoltura, bisogna sapere cosa si intende per agricoltura. Così è per la storia della religione. Il suo principio è l’idea di religione, che devo avere prima, se non voglio vagare senza sentiero in ciò che è accaduto. Questa è certamente cosa dell’« antropologia ». E proprio mediante l’esempio dell’agricoltura viene ora afferrato molto bene il rapporto tra filosofia della religione e scienza della religione. Il concetto còlto preliminarmente, di cui ho di necessità bisogno come punto di partenza e guida, non mi è ancora di alcuna utilità, naturalmente, nel poter dire che tipo di agricoltura vi sia stata nel mondo, quali forme siano possibili, come queste si rapportino tra loro e che cosa, in singoli casi concreti, debba valere come agricoltura, ossia quale delle sue forme possibili sia quella valida. Ma, da questo lato, de Wette applica il suo proprio esempio solo in modo incerto : tanto più è importante il fatto che riconosca che anche nella storia dei dogmi vi è a fondamento qualcosa di unitario che si sviluppa ; riconoscimento attraverso cui accantona il pragmatismo e l’elemento meramente cronachistico-descrittivo dell’esposizione storico-dogmatica.  









Ogni storia espone nella molteplicità un’unità, nello sviluppo qualcosa che si sviluppa e che, nel cambiamento, ha consistenza (p. 197).

Ed è ineguagliabile la massima di p. 212 :  

Lo storico dei dogmi dovrà porsi ovunque il compito di una psicologia religiosa che penetri nell’officina interiore delle intuizioni religiose e mostri la nascita delle medesime nell’animo : una ricerca che, appunto perché deve cogliere la religione come qualcosa che è in divenire e fluttuante, presuppone il più fine senso per la religione e l’intima familiarità con la sua vera essenza, e che perciò non è cosa di chiunque.  

g) Non lo seguiamo nella sua monografia sui dogmi, nella sua critica e nel modo in cui li assume modificandoli. Una volta che si ha in mano la chiave, si può in realtà fare tutto da soli. In tante osservazioni buone e corrette manca un centro solido e proprio ; manca dunque un filo conduttore specifico per la formazione della dottrina. De Wette segue i passi del sistema di scuola e mostra quale senso buono esso abbia, se lo si comprende correttamente. Non offre, però, un tutto compatto, ma ciò che successivamente « si è chiamato miscuglio di metafisica e religione ». De Wette « scopre » anche il « senso buono », ossia il contenuto utilizzabile filosoficamente, di molti dogmi, per esempio quello della trinità o della resurrezione. i Restando, però, tali cose al centro nell’esposizione della stessa dottrina della religione, si preparano quei fatali « sistemi » che, di nuovo, sommergono l’esposizione puramente religiosa con le sabbie della speculazione e che alla fine ragguagliano meglio sulla serie degli eoni che non sulla salvezza dell’anima. In realtà è falso che la religione sia senza metafisica. Ma forse il guadagno più grande dell’idea che la teologia presuppone una filosofia è che ora si sa dove si debba portare quest’ultima. Tertulliano si preoccupava di sapere a chi spettino nella resurrezione i capelli di una parrucca, se al portatore della parrucca o a chi li ha prodotti. I filosofi della sua epoca avrebbero riso di questa metafisica ingenua. La loro metafisica era migliore  















i



  L’anima non è rappresentabile senza un organo e questo è appunto il « corpo spirituale » del mito.  



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capitolo tredicesimo

della sua, ma la sua religione era migliore della loro. Deve esser possibile cogliere ciascuna per sé ed esporla in luoghi separati. l l   Negli anni successivi de Wette ha riferito le sue intuizioni sull’essenza, sulla storia e sul significato della religione in modo attraente, tuttora istruttivo, profondo e con ampliata esperienza storica nel suo Über die Religion, ihr Wesen, ihre Erscheinungsform und ihrem Einfluß auf das Leben, 1827. Qui tutto è divenuto più chiaro e maturo, e viene offerto senza le pesantezze di un manuale. In ciò che è fondamentale non è però cambiato nulla e anche la sua successiva dottrina della fede, Das Wesen des christlichen Glaubens vom Standpunkte des Glauben, 1846, interessa, in un senso dogmatico più stretto, solo per il graduale progresso nell’elaborazione delle singole dottrine.

Capitolo quattordicesimo LA SITTENLEHRE DI DE WETTE 1. Rapporto tra etica filosofica ed etica teologica secondo de Wette. – 2. Correzione.

N

el 1819 apparve la Christliche Sittenlehre [Dottrina dei costumi cristiana] di de Wette (3 volumi, 1 nel secondo volume la storia dell’etica cristiana). La dedicò a Fries con le parole :  

Ricevi qui, amico mio, la dedica di un’opera la cui peculiarità scientifica ti appartiene [...]. Tu mi hai mostrato la via della speculazione pratica e della valutazione etica della storia e mi hai guidato, attraverso le unilateralità e gli errori della nostra epoca, alla meta dell’autentica scienza. In realtà, in questa dottrina dei costumi cristiana non ritroverai semplicemente la tua dottrina filosofica dei costumi tradotta in espressioni bibliche, ma un edificio teologico dottrinale indipendente. Né te lo aspetterai, perché nessuno meglio di te sa e ha imparato che tra le leggi e l’ideale della scienza e le loro realizzazioni storiche sussiste una differenza che, se trascurata in una veduta unilateralmente razionalistica, si vendica gravemente. E così continuiamo ad annunciare la dottrina della verità eterna, in accordo l’uno con l’altro, e tuttavia ciascuno dal punto di vista della sua professione scientifica : tu con l’indipendenza del pensiero filosofico ; io a servizio della storia e della Chiesa. 2  



Che cos’è questo « annunciare la dottrina della verità eterna a servizio della storia e della Chiesa » ? In altri termini : che cos’è per lui il rapporto tra etica filosofica ed etica teologica o, espresso meglio, il rapporto tra etica in generale ed etica religiosa e specialmente religioso-cristiana ? Con ciò si ripete, ancora una volta e con una locuzione particolare, la domanda sul rapporto tra filosofia e teologia. 1. Il rapporto tra religione ed etica viene innanzitutto determinato completamente in accordo con Fries. Nel sentimento etico cogliamo i fini del nostro agire e della nostra esistenza temporale. In quello religioso presentiamo la bontà eterna e la conformità a fini delle cose. I fini morali non sono di per sé nient’altro che la destinazione divina ed eterna dell’uomo, còlta nel fenomeno temporale e come compito per la volontà. Questo rapporto viene còlto così già dalla filosofia stessa e sotto di esso viene esposta l’etica. Che cosa farà, allora, la differenza determinante tra filosofia e teologia ? E c’è, in generale, una differenza ? De Wette tenta di determinarlo nell’introduzione : qui gli riesce un po’ più chiaramente di prima. Introduce più momenti che contengono qualcosa di giusto. Non sono messi in rapporto in modo molto determinato. Li separiamo in questo modo. Fondamentalmente entrambe le etiche contengono la medesima cosa secondo la materia, perché non c’è un bene molteplice. Ma la filosofia procede sinteticamente, cercando per via razionale, nella ragione, l’ideale etico secondo i suoi singoli tratti e componendolo mediante l’intelletto. La teologia, invece, procede analiticamente, poiché l’ideale le è dato già pronto nella persona di Cristo. Essa lo coglie con il sentimento e lo dispiega.  















1

  Berlin 1819-1823.   Ivi, pp. v-vi.

2

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capitolo quattordicesimo

Dietro questa affermazione, evidentemente del tutto impossibile, vi è la « dottrina dell’archetipo » che de Wette condivide con Schleiermacher. Tale dottrina non era altro che l’elevazione e il raffinamento della dottrina razionalistica del modello e del pensiero della Humanität.3 Herrmann ce ne ha liberato nel modo più approfondito con il suo Die sittlichen Weisungen Jesu [Le indicazioni morali di Gesù, Göttingen 1904]. Gli errori di tale concezione sono questi. Si fa di Gesù, in modo totalmente non storico, un compendio dell’umanità in genere, un uomo universale, che è proprio quello che egli, nella sua natura marcata, energicamente unilaterale, è stato meno di ogni altro. In questo modo, in verità, viene annientato proprio l’effetto imponente e fortificante. Ma poi tutta l’idea di un ideale universale in una persona, che dovrebbe essere solo dispiegato analiticamente, è in sé impossibile e quasi mostruosa. Così anche tutto questo tentativo è dal principio impossibile e conduce alla falsità per cui si proietta già prima nel suo ideale quel che se ne vuole ricavare, oppure, nel concreto svolgimento, viene silenziosamente superato e serve solo come ingresso ornamentale. E proprio così accade nello stesso de Wette. Più plausibile è il secondo momento. Secondo la dottrina propria di Fries l’autentico materiale nell’etica, che si sottopone all’elemento formale del concetto del bene in sé e del dovere, è interamente questione di sentimento e dunque è passibile di una configurazione individuale e del tutto dipendente dalla « formazione » particolare di una determinata cerchia. Sulla base delle esigenze etiche più universali e concordanti si innalzano così possibili ideali particolari, che non possono senz’altro essere resi universali, ma dipendono dal grado e dalla specie della cerchia di formazione a cui il singolo appartiene. Questa dottrina non è altro che quella stessa che la più semplice conoscenza della storia mette a portata di mano con chiarezza immediata. Anche de Wette richiama l’attenzione su questo, solo in modo troppo esitante e inadeguato. Tuttavia vi è una « cerchia di formazione » specificamente cristiana e vi è in essa un ethos proprio, di struttura sommamente particolare. E cogliere e presentare tale ethos in modo puro, svilupparlo e perfezionarlo, è una questione che ha sempre distinto l’etica teologica dalla filosofica, se non ha proprio « teologizzato » quest’ultima. Si capisce che un’etica teologica può esser fatta sensatamente solo da chi riconosca l’ethos cristiano come suo proprio. In ciò è incluso il dovere di critica e perfezionamento. L’uso che de Wette ne fa nello sviluppo di questi pensieri è ancora molto povero. Il terzo momento è allora, a buon diritto, questo. Per il fatto che la religione stessa, il suo esser praticata nella comunità, nel culto e nell’educazione diviene un compito di vita essenziale, l’etica religiosa sviluppa un contenuto proprio, per il quale l’etica filosofica può esibire al massimo i vuoti luoghi geometrici. Ed è su questo che essa deve enunciare delle norme. Le è propria, infine, la finalizzazione pratica della formazione dei futuri titolari dell’ufficio ecclesiastico. Essa trapassa in tecnica della morale, in didattica e pedagogia. La differenza più significativa che dunque de Wette realizza nell’elaborazione è quella per cui accoglie nell’etica un grande capitolo sulla « redenzione » e sul significato di quest’ultima nel liberarsi della capacità etica ; e in ciò si vede generalmente la differenza specifica dell’etica teologica rispetto a quella filosofica. Ma questa differenziazione è qualcosa di sviante. Una « redenzione », infatti, in quanto espiazione magica e infusione di capacità, non può costituire una differenza tra diverse etiche, ma toglie ogni etica in generale. Se però la redenzione viene compresa, come dovrebbe accadere nel cristia 



















3

  Cfr. supra, p. 163, nota 14.







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nesimo, come un vissuto che ha luogo nell’ambito di ciò che è personale, nell’ambito dell’animo e del volere, dunque come un vissuto che di per sé è di specie etica e non magica, allora quella contrapposizione è tutt’altro che assoluta. Anzi, anche in ogni etica filosofica – purché in essa, in generale, si tenga in considerazione il fatto della religione e i suoi effetti psicologici sull’animo, sulla volontà, sulla decisione, purché dunque si tenga in considerazione il suo effetto liberante – , si presenta un’analogia con la dottrina della redenzione. Per questo proprio il rapporto di de Wette a Fries è molto istruttivo. Se, infatti, si esamina l’efficacia di Cristo e la relativa dottrina di de Wette, se ne trova un’analogia molto bella e pura in Fries, nella sua Ethik, pp. 367 e 368. Qui, in realtà, vi sarebbero stati i presupposti per un’elaborazione molto più ampia e profonda di quella che offre de Wette nei suoi tentativi di adattare la cristologia di scuola. 2. Il vero rapporto, quello che anche de Wette ha in mente senza riuscire ad afferrarlo in modo puro, si configurerà così : cogliamo la teologia come deve essere còlta a partire da de Wette e Schleiermacher, ossia come dottrina della religione finalizzata alla pratica religiosa. Poniamo l’etica religiosa come distinta da quella profana e intendiamo per etica religiosa quella in cui, per un verso, la religione stessa interviene come valore vitale e compito etico, mentre, per altro verso, la vita e il compito di vita in genere vengono valutati sotto il punto di vista religioso, cosa che può essere diversa per specie e grado. (Lasciamo qui da parte la questione se ogni etica in generale, quando è realmente etica e poggia sulla base del concetto del bene e del dovere, non includa in sé un minimo di religione.) È allora innanzitutto chiaro che non c’è, né può esserci, alcuna differenza rispetto alla base universale dell’etica in genere, rispetto alla « morale » in senso più stretto, cioè rispetto al puro sviluppo della dottrina del bene e del dovere in genere. Non ha senso mettere in contrapposizione una « morale teologica » e una « filosofica ». Una « morale cristiana » è tanto impossibile quanto una geometria cristiana. Possono esserci differenze quanto alla materia dei giudizi morali, che la capacità di giudizio morale formula in modo diverso. Ma anche qui vi è un’ampia base comune, che deve esserci quasi in ogni etica che vuole esser tale. Ed è la « legge », di cui l’apostolo dice che è scritta allo stesso modo nei cuori dei giudei e dei greci, 4 e in cui non vi è nulla che debba essere raffinato con artificiose deduzioni particolari, sistematizzazioni e finezze. Al di sopra di questo livello si eleva allora l’ambito delle possibili configurazioni individuali e particolari, delle valutazioni di vita e degli ideali per la vita del singolo e della comunità ; ambito che tuttavia può agire profondamente anche in quello strato inferiore. E qui è il luogo geometrico per la possibilità e la necessità di un ethos cristiano specifico, che può esser còlto, presentato e perfezionato per sé. Il secondo, però, è questo. La valutazione della vita e la formazione dell’ideale cambiano essenzialmente non appena e nella misura in cui in un uomo, in un popolo o in una cerchia di formazione divengono vive delle convinzioni religiose. Innanzitutto cambia ciò che si può definire la tonalità emotiva o lo spirito dell’ethos, anche se all’inizio non si ottiene ancora, forse, alcun nuovo contenuto. Due uomini possono forse riconoscere lo stesso codice etico ed essere però diversi nel modo più profondo nella loro specie e direzione di senso, se uno, secondo Kant, coglie l’adempimento dei doveri etici contemporaneamente come culto verso Dio e l’altro no ; espresso in termini universalmente religiosi : se uno esercita la professione e il dovere morale col sentimento di fare qualcosa che ha un riferimento ed un senso eterno, sebbene nascosto, e l’altro no. Ma si ottengono contemporaneamente  























4

  Cfr. Rm 2, 15.





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capitolo quattordicesimo

anche modificazioni distintive della stessa materia morale. Innanzitutto l’esercizio e la pratica dell’intenzione religiosa della vita dell’animo, l’estetica religiosa, ogni « culto di Dio » nel senso di un sentimento religioso praticato ed esercitato autonomamente confluiscono in un grandioso ambito a sé. E dipende interamente dal carattere individuale e particolare della singola religione fino a che punto questo accadrà e quanto l’intero ethos sarà determinato da ciò. Può essere mirabilmente raffinato e interiorizzato, può anche assumere un carattere più robusto ed energico, più maschile o più femminile. Ma può anche esser limitato, ristretto al minimo e reso unilaterale. Se il nirvān≥a è il vero senso del mondo, allora l’etica cristiana, in particolare l’etica protestante che muove dall’azione, dalla prestazione e dal culto, è insensata. Si dispiegherà un ethos, un ambito forse anche molto determinato di doveri, di norme di organizzazione di questa vita, ma infinitamente diverso da ogni altro. Così si ottengono ethe configurati in modo religioso particolare e la loro concezione offrirà ogni volta un’etica teologica propria. Anche un’etica teologica cristiana si otterrà sempre in questo modo. Non si distinguerà da un’« etica in generale » per il fatto di procedere in modo « analitico », laddove quest’ultima procede in modo « sintetico ». Forse non potrà affatto esser distinta da un’« etica in generale », poiché può esserci una « morale in generale », ma ogni etica è già individuale. Dall’etica religiosa in generale si distinguerà mediante lo spirito particolare della religione cristiana che, come ogni spirito, non si lascia afferrare in regole e motti, ma solo in modo ampio, in immagini di tonalità emotive e di vita, in un’estesa intuizione storica per immedesimazione. Avanzerà la pretesa di validità universale e tuttavia non vi sarà nessuna altra fondazione per lei che questa : « lo spirito soffia dove vuole », 5 ossia l’assenso senza dimostrazione mediante l’interiore convincimento della libera capacità di giudizio. Questo rapporto si lascia esporre in questo modo con un’immagine. Si pensi a piramidi edificate su una base comune, che sono eccentriche l’una rispetto all’altra, diverse in altezza e ciascuna costruita internamente secondo un principio diverso. La base comune a tutte sarebbe la morale formale ; le singole piramidi, le etiche possibili su tale base. Esse sarebbero esterne alla base ogni volta secondo il grado della loro eccentricità, poiché dove esse si compenetrano reciprocamente hanno in comune parti significative di spazio, che possono essere più o meno grandi. Potrebbe anche accadere che una sia del tutto inglobata da un’altra. Altre, a loro volta, potrebbero divergere ampiamente nella massa principale e riempire spazi che le altre non riempiono. E la differenza del principio di costruzione le distinguerebbe ancora anche nelle parti comuni. Si potrebbero porre l’una nell’altra, secondo questo schema, un gran numero delle etiche che sono realmente esistite. (Nel secondo volume de Wette tenta, in modo assai notevole, di cogliere l’etica cristiana nel più ampio contesto del suo decorso storico. Non si può però dire che questo sia molto fruttuoso per il contenuto della sua propria etica. Quel che egli qui offre, non soltanto rispetto alla costruzione, ma anche rispetto alla materia, è essenzialente il bene friesiano. Lo stesso vale dei quattro volumi delle Vorlesungen über die Sittenlehre [Lezioni sulla dottrina dei costumi], Basel 1823 e ss. Ma, in particolare negli ultimi volumi, ciò che gli è offerto da Fries è còlto ed esposto in modo tanto autonomo, maturo e bello che essi affermano in modo compiuto il loro valore proprio. E in particolare gli ultimi meritano ancora di esser conosciuti come un testo di etica piacevole e istruttivo.)  

























5

  Cfr. Gv 3, 8.







Capitolo quindicesimo THOLUCK 1. Risveglio. – 2. Il bene friesiano in Tholuck.

1.

S

empre nell’anno 1822, subito dopo il Theodor di de Wette, apparve il Guido und Julius (die Lehre von der Sünde und vom Versöhner) [Guido e Julius (la dottrina del peccato e del riconciliatore)] di Tholuck. 1 Tholuck ha contestato che il suo scritto volesse essere una replica al Theodor. Ma, avendolo successivamente definito egli stesso « la vera iniziazione del dubitante », diede ad intendere molto chiaramente che per lui il Theodor non lo era stata. Nulla è più istruttivo che leggere di seguito le Reden di Schleiermacher nella loro prima forma, il Theodor di de Wette e il libretto di Tholuck. Si vede compiersi gradualmente il distacco di quel tempo dalla freddezza d’animo del razionalismo e il destarsi di una nuova interiorità, prima nella forma di un fanatismo romanticoreligioso, poi in un avvicinamento sempre più deciso ai contenuti peculiari della devozione cristiana, quindi in un avvicinamento tempestoso, caratteristico dell’epoca in generale, ai vissuti del peccato e della grazia, che erano andati quasi perduti. Fu un processo unitario nella psiche del tempo, che di per sé fu solo una parte di un contesto molto più ampio, nel quale erano inclusi anche il rafforzamento del sentire cattolico, la rigenerazione del papato e dell’ordine dei Gesuiti, la nascita dell’ultramontanismo, l’infallibilità e il dogma mariano. Processi, in verità, che sarebbe compito della psicologia della storia in grande stile cogliere nella loro unità e mettere in rapporto alle leggi della psiche universale. Dal punto di vista puramente religioso Guido è superiore a Theodor per quanto riguarda la forza, l’unitarietà e la compiutezza del vissuto religioso. Qui tale vissuto è realmente un momento centrale e questi uomini possono dire in modo molto preciso cosa è per loro religione : salvazione, salvezza, possesso beatissimo, libertà, base affidabilissima per la condotta di vita, forza di superamento di sé e del mondo. E qui la religione viene posseduta per se stessa, non come possesso complementare, né come conclusione e compimento della Humanität. 2 Vi erano motivi interni e necessari perché, a partire da qui, si riversasse nella teologia uno spirito nuovo e proprio. E chi non sapeva osservarlo e apprezzarlo nel « risveglio » non poteva parlare di religione : costui non la conosceva affatto. Che vi fossero motivi interni anche del fatto che l’autocomprensione relativa alla nuova esperienza vissuta religiosa dovesse essere così povera o che non dovesse proprio aver luogo ?; o del fatto che si avviluppasse in un biblicismo concepito in modo genial-romantico, al quale si doveva rendere servizio nel modo di gran lunga migliore rinunciando ad ogni formazione teologica e scientifica ? Sarebbe ingiusto rimproverare ad uomini come Tholuck la restaurazione e la rinuncia a gradi più avanzati di formazione. Egli non ritorna di nuovo e volontariamente agli orizzonti ristretti e alle stanzette della dottrina di scuola e, forse, è proprio il più com 















1

  Hamburg 1823.   Cfr. supra, p. 163, nota 14.

2

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capitolo quindicesimo

piuto rappresentante della « teologia della mediazione ». Il suo tipo spirituale è quello dei Lavater, degli Hamann, in breve del pietismo geniale, che voleva riuscire a connettere la cultura spirituale dei poeti e dei pensatori del suo tempo con il culto dell’agnello. Ma quanto è spaventosamente visibile qui quel generale rammollimento dei cervelli e del pensiero in cui ora, con questa nuova sentimentalità, l’epoca e la teologia incorrono. Quanto rapidamente viene sperperata l’eredità illuministica di rigorosa disciplina del pensiero, di metodo e concetti saldi. Al posto di un esame accurato compare una patetica edificazione. Si confrontino Theodor e Guido. Là un progresso tenace, coraggioso, inesausto in coscienziosa rielaborazione dei grandi problemi posti dal tempo, con sicuro addestramento nel metodo filosofico e scientifico ; qui nulla di tutto ciò o ridicolo dilettantismo e, al posto di una formazione realmente profonda, ecco un fiorire di erudizione filologica con citazioni in arabo e in greco. Un cattivo modello per la teologia, con l’effetto, purtroppo, che da allora in poi, al posto che avrebbe dovuto avere il coscienzioso lavoro sui problemi e un metodo formato, si presentò la predicazione edificante e un comodo richiamo alla « rinascita ». Il ragionare acerbo del non ancora ventiquattrenne sullo spirito e sulla filosofia dei suoi giorni è grottesco ; e grottesco al massimo grado è il modo accondiscendente con cui parla del lavoro filosofico-morale di Kant, che gli diventa un precursore delle sue proprie conoscenze nuove e sublimi, a malapena degno di esser riconosciuto come tale. Cosa doveva venir fuori dalla scientificità di una teologia che trovava qui il suo modello ! Poiché diminuisce la capacità di un lavoro autonomo sui problemi, resta solo la storia, ciò di cui appunto anche Tholuck è un esempio : abbastanza spesso, in effetti, l’erudizione storica è divenuta il surrogato di scientificità teologica. Lo stesso Tholuck, da questo punto di vista, era ancora messo e attrezzato meglio di molti suoi successori, dato che ancora possedeva una buona porzione dell’eredità della formazione del periodo precedente e per sé vi si atteneva sempre. È sempre ancora allievo dello spirito dell’illuminismo e quel che sta dietro le elaborazioni rapsodicodebordanti di Guido non è affatto, nonostante tutte le espressioni altisonanti, la vecchia dogmatica cristiana, ma è, in fondo, la stessa cosa che aveva preso forma anche in Schleiermacher e de Wette ; il che si mostra nel modo più chiaro nella sua posizione sulla « rivelazione » e sul « soprannaturalismo » in genere. Qui sostiene opinioni che lo distinguono chiaramente e sicuramente dalla ricaduta nel punto di vista ingenuo di parecchi autori posteriori : se poi le abbia portate a validità in modo conseguente è una questione a sé ; ma i pensieri filosofici che lo guidano provengono da Fries, cosa che finora non sembra esser stata notata, ma che si può mostrare in modo molto chiaro. Così, con questa attestazione, torniamo al nostro punto di partenza. 2. In seguito Tholuck scrisse delle aggiunte integrative al summenzionato scrittarello. La quinta tratta del rapporto tra la ragione e la rivelazione. Qui menziona occasionalmente Fries. È dubbio se conoscesse gli scritti dello stesso Fries e, per il tipo spirituale complessivo, non è probabile. Le sue elaborazioni sono però evidentemente dipendenti da Fries e ricordano Theodor in modo così marcato che si può ben assumere che ne provengano e che provengano dunque, in ultima analisi, da Fries. L’essenza dello spirito, così dice qui, è conoscere da sé e per questo esso non può mai cadere completamente in errore. La contrapposizione tra naturalisti e soprannaturalisti viene così interamente decisa e risolta nel modo che abbiamo visto in Theodor. Sussiste un’interna contrapposizione (rispetto al quale della loro religiosità), che però non  





























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risiede, o almeno non innanzitutto (p. 150 ), nell’ambito a cui si richiamano i nomi dei partiti in lotta. Deve esserci in noi stessi un principio che ci costringe internamente a riconoscere quel che per noi deve essere verità. Il razionalista lo chiama ragione. A buon diritto. Lo spirito in quanto spirito ha a fondamento di tutti i suoi fenomeni un essere immediato, dato a partire dall’interno, la vita in Dio, che rende spirito lo spirito. Qui è il focolare della vita spirituale, di qui deriva la spinta ad ogni pensiero e ad ogni decisione. Già Platone ha mostrato questo elemento immediato nello spirito, contrapponendo già questa visione immediata, questo istinto di ragione, alla conoscenza riflessa nel concetto (ejnqousiasmov~, maniva 4). Ciò che in noi è realmente grande e divino non lo dobbiamo alla tevcnh ( = intelletto), ma alla corda dell’anima messa in movimento dall’interno, quell’interiore eccitazione che è la madre di ogni scienza, di ogni arte e di ogni invenzione benefica : esso compare nell’anima come qualcosa di dato interiormente e, poiché l’uomo è appunto consapevole di non averlo creato, a chi altri dovrebbe esser ricondotto se non al Dio che incita ed eccita interiormente, dunque all’ispirazione ? L’errore dei razionalisti, così come dei soprannaturalisti, era, del tutto simmetricamente, quello di non riconoscere nell’anima questa vita di Dio. Il conoscere religioso, svincolato dall’immediata ispirazione mediante senso interno, dal coglimento di Dio nello spirito, era un desolato e arbitrario raziocinare sulle cose divine. E quanto più i teologi moderni venivano presi in quella direzione unilaterale verso il conoscere mediato, tanto più le loro spiegazioni della ragione, del conoscere religioso, dell’illuminazione, del divino nell’uomo, si riferiscono soltanto all’elemento mediato del raziocinio critico, dell’intelletto. Il sentimento viene gettato fuori bordo. Poiché l’uomo è nato da Dio, egli ha una testimonianza di Dio e il fondamento della verità per l’uomo è la vita di Dio in lui.a E appunto con ciò siamo andati oltre il sogno e l’opinione, meramente soggettivi, del divino. Quel che udiamo non siamo semplicemente noi ad insegnarlo, ma Dio.b Si comprende così la comprensione e l’interiore riconoscimento della rivelazione storica. Ciò che il cristianesimo vuole raggiungere nell’uomo è la stessa cosa che il divino annuncia in lui quale sua meta e destinazione. Chi vuole comprendere Platone deve possedere lo spirito di Platone. Il lettore intelligente deve essere un’estensione dell’autore. Chi vuole comprendere Cristo deve avere il senso di Cristo.5 Questo comprendere è appunto anche dimostrare ( = convincere). Quel che noi riconosciamo come affine a noi, quel che è disposto nella nostra interiorità come suo patrimonio, che ha appunto un’interiore necessità per noi : questo è il vero. Anche il Redentore parla di una luce interiore, di un occhio, nell’uomo. 3







Se questi passi fossero stati colti [dagli esegeti] nel loro pieno significato e fossero stati resi fondamento della teologia, allora i risultati avrebbero dovuto essere significativi. c 6 a   Qui si rivela in modo molto semplice, e certo molto involontario, ciò che quell’intera teologia propriamente intendeva per « umanità di Dio » e il modo in cui essa aveva un accesso tanto semplice al dogma antico. È stato un reale guadagno che essa ne facesse uso in modo tanto copioso ? b   Qui si mostra, di nuovo, in modo appunto tanto semplice, la chiave della nuova « dottrina della rivelazione ». Essa è anche davvero conclusiva, e la parola di Dio interviene bene e chiaramente di contro alla parola dell’uomo. c   L’affinità di tutte queste elaborazioni con i pensieri di De Wette in Theodor, e dunque in ultima analisi  









3

  Otto cita da A. Tholuck, Werke, i, Gotha 1862.   Cfr. ivi, p. 152. 5   Cfr. ivi, Werke, i, p. 159. 6   Ivi, Werke, i, p. 162. 4

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capitolo quindicesimo

(In effetti essi avrebbero risparmiato tutta la grande fatica su naturale e soprannaturale e avrebbero condotto invece il lavoro all’elaborazione e all’esposizione del peculiare vissuto e contenuto di religione e cristianesimo.) con Fries, dovrebbe essere evidente. È una felice conferma di questa acquisizione il fatto che Herrmann mi scriva che « Tholuck, a suo tempo, aveva esplicitamente richiamato la sua attenzione su Fries ».  



Capitolo sedicesimo CONCLUSIONE 1. Compito della teologia è la scienza della religione cristiana. – 2. Filosofia e teologia. – 3. Il metodo « ampio » della teologia. – 4. Storia della religione e teologia. – 5. La dottrina della fede e l’etica nel tutto della teologia.  



R

iassumiamo ancora una volta quanto abbiamo appreso nell’esame degli inizi della teologia moderna su spirito, compito e relazione della medesima alla scienza in generale e alla filosofia in particolare. 1. La vecchia teologia era una metafisica su Dio, uomo e mondo, e sulle loro relazioni, presuntamente ricavata da ragione e rivelazione. La stessa religione desidererebbe moltissimo un racconto delle azioni di Dio. La teologia moderna cerca un compito raggiungibile, dunque qualcosa di meno e di diverso : essa è scienza della religione, e la teologia cristiana è scienza della religione cristiana. 2. La scienza della religione è tanto poco una descrizione della religione, quanto poco la scienza del diritto è descrizione di un diritto sussistente o del diritto in generale. La scienza del diritto mira a trovare la validità del diritto e un diritto che sia valido : la storia del diritto è per lei soltanto un mezzo per il fine. La scienza della religione cerca la validità della religione e una religione che sia valida. Poiché le è precluso il ricorso a criteri soprannaturali (per motivi storico-critici e per motivi della stessa religione), essa deve procedere come la scienza della morale o del diritto, e come tutte le scienze dello spirito in generale. Queste devono tutte dedicarsi ad un esame dell’essenza spiritualerazionale dello spirito umano, alla critica della ragione e all’antropologia, devono stabilire che cosa sia spirito e che tipo di spirito sia, che cosa sia ad esso possibile quanto ad attività, vissuto, espressione secondo diversi lati, e così devono ottenere il concetto universale di scienza, di etica, di estetica, di religione e di vissuto religioso. Questa occupazione è filosofica e senza questo lavoro filosofico preliminare non è praticabile la scienza della religione come lavoro approfondito, metodico e in generale scientifico. Essa sarà praticata in modo diverso per tipo, spirito e destino, secondo il tipo di filosofia che viene riconosciuto. Per questo lavoro ci si è offerta la filosofia friesiana, nata dallo spirito del metodo critico kantiano. I fondamenti per cui proprio questa è adatta allo scopo sono indicati chiaramente in de Wette (Zur Religion und Theologie2, pp. 167-8). Nella dottrina della conoscenza immediata, dell’idealismo trascendentale, del sentimento in generale e dei sentimenti morali, estetici e religiosi in particolare, del triplice modo di conoscenza mediante sapere, fede e presentimento e nel superamento del punto di vista finito-limitato del sapere rispetto a quello della fede, nell’attestazione del versante pratico dello spirito umano e dei suoi « impulsi », nello schematismo delle idee ad opera di quest’ultimo e nel suo esser vivo nel sentimento, essa scopre tanto la disposizione alla religione nello spirito umano in generale, quanto il misterioso luogo sorgivo di tutte le sue manifestazioni storiche, come pure il fondamento della sua pretesa universale alla verità, alla verità somma e ultima in generale. E nella sua dottrina del sentimento risiede contemporaneamente la chiave, che il suo scopritore non seppe  







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capitolo sedicesimo

utilizzare abbastanza, per la comprensione del modo in cui può esserci religione in singoli fenomeni tanto diversi, affini nel fatto di essere tutti realmente religione, e però diversi non soltanto sotto il profilo di una maggiore o minore chiarezza, ma anche per proprietà, specie e spirito, così che la svalutazione dell’un fenomeno di contro all’altro diviene possibile e necessaria. Infine, l’antropologia di Fries opera qui ancora un’ultima cosa : esibisce la facoltà dello spirito attraverso cui un tale valutare e svalutare diviene possibile, la libera capacità di giudizio per mero sentimento e la sua pretesa alla validità senza dimostrazione. Questa è una base salda, una guida sicura per il lavoro stesso della scienza delle religioni. (Essa è la base necessaria e il presupposto anche per il lavoro della scienza della religione cristiana, per la teologia cristiana.) Più precisamente questo lavoro si fa così : esso muove da due diversi punti di partenza e percorre due vie in prima battuta diverse, che però conducono l’una all’altra e alla fine debbono incontrarsi. Muove, in primo luogo, da una introspezione e osservazione del vissuto (meglio di tutto nella propria interiorità) e della vita religiosa sviluppata, matura e vigorosa ; qui coglie empiricamente un paradigma della religione e arriva nella posizione di ottenere induttivamente un concetto empirico della specie, del carattere e dell’essenza della religione, mediante un confronto tra ciò che è simile, affine e corrispondente in altri, per altri tempi e luoghi, e infine attraverso la storia. D’altra parte esso prosegue il lavoro della « critica della ragione » nel complesso, apprende qui quali sono le facoltà dello spirito razionale per la conoscenza in generale e per la conoscenza superiore in particolare, e quali pretese la ragione avanza al diritto e alla validità delle sue conoscenze. E così come su questa base vengono trovati i principi universali, i concetti supremi e le leggi di tutti i singoli rami della conoscenza umana (la « metafisica » per ogni singola scienza), in modo del tutto corrispondente si scopre anche il contenuto universale supremo per il conoscere, sentire, avere esperienze vissute nell’ambito dell’etica, dell’estetica e della religione, sotto la cui legge queste si trovano e si dispiegano. Troviamo così la « metafisica della religione », nel senso in cui Kant cercò e trovò la metafisica dei costumi, la metafisica del diritto e quella dell’estetica. Qui le due vie si sono da tempo riunite. Ora si mostra, infatti, che queste facoltà dello spirito, esibite mediante critica della ragione, e questo contenuto « metafisico » sono viventi in ciò che là era stato còlto in modo empirico-induttivo come essenza della religione. E si risolve così, allo stesso tempo, la questione della verità della convinzione religiosa, alla quale non si può mai rispondere con un coglimento empirico-induttivo della sua fattualità. 3. Il compito della dottrina della religione cristiana sarà allora quello di cogliere su questa base essenza e spirito del cristianesimo, di presentarli e di comunicarli in forma di dottrina, chiarificandoli criticamente, configurandoli e dispiegandoli, in vista dell’esercizio e della pratica. Quest’ultima cosa può però accadere ad opera di qualcuno che sia egli stesso cristiano, la cui « libera capacità di giudizio », cioè, dia il proprio assenso alla verità del cristianesimo, che non può esser dimostrata, ma solo sentita. Questo può accadere in modo veramente scientifico proprio se si riconosce nel cristianesimo la più alta di tutte le altre forme di religione, se il cristianesimo viene còlto nella sua affinità essenziale e nella sua connessione con la religione in generale, dunque sullo sfondo della storia della religione e della comparazione tra le religioni, a cui, di nuovo, soltanto la filosofia della religione dà il corretto avvio. Per fare storia, infatti, devo sapere di che cosa. E per poter comparare, debbo sapere rispetto a cosa. Su questo sfondo, allora, il  

























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compito principale è innanzitutto la storia della religione cristiana, lo sviluppo della sua essenza originaria e paradigmatica nello sviluppo vetero- e neotestamentario, e in stretta connessione con ciò la sua elaborazione e il dispiegamento del suo spirito peculiare nella storia del cristianesimo. Questo metodo « ampio » è inaggirabile, perché quel che lo spirito di una religione è non si lascia indicare con una definizione come quella che definisce cosa è un triangolo. Né la cosa si può fare per compendio, eludendo l’intuizione storica ampia. Lo spirito, infatti, non si lascia distillare, ma deve essere còlto nelle persone, negli eventi e in altre produzioni della storia, in cui si è presentato in modo originale. Non coglieremo mai in modo chiaro, vigoroso e vero lo spirito di un Isaia o di un Geremia senza la loro storia ; per non parlare del cogliere lo spirito di Cristo senza i frammenti, ancorché così poveri, della sua vita e della sua morte. Lo spirito e la persona sono qui inseparabili l’uno dall’altra. E ogni successo nel riottenere qui, mediante una ricerca storica, qualcosa dell’elemento personale e storico è una vittoria. Questo penetrare per empatia nello spirito e nella specie della religione diveniente e divenuta è il compito più delicato del teologo. Per cogliere la sua essenza in modo pieno e puro si aggiunge poi il modo in cui il cristianesimo sfocia nella storia ulteriore, il modo in cui continua a formarsi e a trasformarsi in modo specifico. E per questo non serve affatto la « storia della Chiesa » nel senso più stretto, né una unilaterale storia della dottrina e del dogma, ma al più una tipologia religiosa, una biografia e una descrizione delle persone, e uno « studio delle confessioni » non in quanto scienza delle « dottrine particolari », ma in quanto tipologia universale dello spirito del cristianesimo. 4. Solo anatomia e fisiologia dell’uomo riguardano, in senso stretto, il medico ; in senso stretto, solo l’essenza e lo spirito della religione cristiana riguardano il teologo. A quello il lavoro si allarga da sé ad una « fisiologia e anatomia comparata generale » ; questo coglierà la sua propria religione in modo pieno soltanto in connessione con una storia della religione comparata. Che qui sia giusto il metodo, molto seguito, « dal basso in alto » e che sia il più efficace per una più profonda comprensione è assai dubbio. In ogni caso i compiti di una vera scienza della religione, che non lavora per gli archivi e i musei della religione, ma per la comprensione, l’organizzazione e la normazione di una religione che debba essere realmente praticata, e che solo come tale porta sensatamente il nome di scienza, cominciano di solito soltanto dove e quando lo « storico della religione » la smette con lo studio dei miti e della religione dei primitivi. Ciò che è perfetto non si comprende a partire da ciò che è imperfetto, né ciò che è sviluppato da ciò che non lo è, ma è esattamente il contrario. Forse possiamo riuscire a comprendere di nuovo quel che voleva Buddha. Ma probabilmente non riusciremo mai a comprendere quel che totem e tabù significavano realmente per i « primitivi ». Il grande punto di mezzo e di partenza per ogni scienza della religione, e in particolare per quella cristiana, è lo stesso vissuto religioso : qualcosa che non viene compreso con lo studio dei miti e con le anticaglie, ma che, se non lo si conosce da sé, può esser còlto a partire dalla vita dei religiosi nel senso più stretto ed energico del termine. Che la teologia nata dal risveglio ponesse al centro questo vissuto religioso stesso, era completamente giusto. Con ciò essa ottenne un suo centro saldo. Ma questo, in pari tempo, è significativo per la comprensione della religione in genere (cosa che quella, in realtà, non concederebbe mai). Colgo nel modo migliore ogni peculiare fenomeno spirituale là dove esso compare al suo apice,  







































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capitolo sedicesimo

in piena forza ; il che, nella sfera religiosa, accade in quel vissuto che il pietismo chiamava « irruzione della grazia », piaccia o no questa espressione. Questo è quanto significa « grazia » nell’uso linguistico cristiano più generale ed è connesso con « rinascita », « risveglio ». Di solito riferiamo queste cose soltanto al cristianesimo, e del tutto a ragione, naturalmente, quanto al contenuto specifico di questo vissuto. La cosa come tale è però religiosa in modo universale. Ciò di cui Buddha visse l’esperienza, nelle settimane precedenti l’irruzione dell’illuminazione, sotto l’albero della bodhi, 1 e la novità e la redenzione della sua vita da allora in poi, è il parallelo più esatto che si possa pensare con quell’« irruzione » e si lascia facilmente descrivere nei termini della dottrina della gratia antecedens, operans e succedens. E una storia della religione più approfondita dovrebbe tentare di individuarne ovunque le analogie. Si trovano. (Il criterio per stabilirne la presenza non è l’elevatezza della situazione spirituale della religione in questione, ma l’intensità. Tali vissuti sono da subito presenti anche in una religione rozza come l’Islam di Maometto, e lo stesso Maometto ne è un esempio.) Solo in questa presenza concentrata della religione diviene chiaro quale propriamente sia il senso effettivo della religione in generale, il fatto che essa non è un pezzo aggiuntivo dell’umanità, né una cosa per « tranquillizzare », né qualcosa per uno scopo che risieda al di fuori di lei : per esempio non è la garanzia per l’adempimento del desiderio di felicità o delle nostre inadeguatezze morali, ma qualcosa di peculiare e di immane che ha un significato di per sé, che affiora variamente dalle profondità dello spirito umano, che è attiva dappertutto in effetti e guizzi più sommessi, ma che in luoghi particolari emerge ed erompe con sconvolgente violenza. Quel che qui viene vissuto si esprime spesso in modo abbastanza bizzarro e sempre in dipendenza dalle rappresentazioni e dagli ideali del tempo. Ma in ciò il sentimento e la convinzione religiosa sono sempre quelli di avere ora ciò che è assolutamente importante, ciò di contro a cui ogni altra vita deve essere svalutata come « errore », « ignoranza », come peccato e mancanza, al massimo come preparazione e passaggio. In ciò non vi è mai felicità, ma salvezza. Solo laddove la religione spinge a tali vissuti comincia l’autentica materia di una reale storia della religione (anche nelle rozze religioni dei negri sembrano esserci analogie, seppur ancora rozze e grottesche. Che meraviglia ! Che la vita spirituale sia presente soltanto da noi è un assunto ridicolo). E nella ricerca della religione reale ci si dovrebbe lasciar guidare da questo filo conduttore, da una ricerca per presentimento e dall’irrompere di uno stato spirituale e di un vissuto che è il totalmente altro rispetto a tutto ciò che precede e l’assolutamente determinante. a A partire dalla nostra base filosofico-religiosa abbiamo il mezzo per interpretare in modo universale questo curioso fenomeno, che in verità costituisce il centro del vissuto religioso : è l’oscura conoscenza del divino in generale e della destinazione eterna dell’essere, che diviene viva nel sentimento. E, in quanto cristiani, crediamo che tale destinazione sia in verità l’« esser figli di Dio » e il « Regno di Dio ». Ma, come sempre, la inquadriamo nella nostra filosofia e, quale che sia il contenuto, la riempiamo comunque a partire dalla nostra propria religione : scendendo da questa cima si deve penetrare nella terra della religione, da questi fuochi si deve comprendere la luce  

















































a

  Che la dottrina di queste cose abbia quasi sempre, in tutte le teologie e non solo in quelle cristiane, preso forma soprannaturalistica, è del tutto comprensibile ed è persino – fintantoché non sia còlta in modo puro la dottrina dell’idealismo trascendentale e del presentimento – l’espressione del tutto corretta della cosa, corrispondente alla dignità e alla specificità del vissuto. 1

  Illuminazione.

la filosofia della religione kantiano-friesiana

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che rischiara altri luoghi con più debole distribuzione. Avremo còlto tanto più la religione nella sua storia, quanto più ci riuscirà di scriverla dal punto di vista della « grazia » e del vissuto della grazia, cominciando dalle sue forme chiaramente configurate, indietro e giù verso le sue rozze analogie e il suo comparire più blando e non più tipico. 5. La dottrina della fede, con l’etica, resta fuori da questo intero lavoro. Con confini necessariamente fluidi, sia rispetto all’etica che rispetto a quanto fin qui illustrato. Il suo saldo centro è il vissuto religioso cristiano, il vissuto della grazia di Dio, la « salvezza » cristiana : da comprendere pienamente sempre e solo a partire dallo spirito del cristianesimo che si manifesta nella sua storia. Si tratta di sviluppare autonomamente, e sotto tutti gli aspetti, la salvezza che è racchiusa in esso, la messa in libertà dell’intera vita superiore in noi, che è data con esso, la nuova valutazione della vita, del valore e del compito della vita. Bisogna superare totalmente quel seguire passo passo, zoppicando, la dottrina di scuola, come hanno tentato de Wette e spesso altri dopo di lui, il fortunoso adattarne le proposizioni e il confuso eclettismo. L’ideale è piuttosto quello di costruire, a partire da un centro saldo, còlto in modo sicuro, con una direzione tesa e in consapevole unilateralità e compiutezza, una totalità chiaramente distinta di convinzione, tonalità di vita e meta della volontà, il cui rapporto di riferimento e distinzione ad altre totalità religiose o profane possa essere ancora una volta reso intuitivo secondo lo schema di costruzione sopra indicato.  









IL SACRO. L’IRRAZIONALE NELL’IDEA DEL DIVINO E IL SUO RAPPORTO AL RAZIONALE 1 * 1   Edizione originale : Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Breslau, Trewendt und Granier, 1917.  

Sommario* Capitolo primo, Razionale e irrazionale Capitolo secondo, Il numinoso Capitolo terzo, I momenti del numinoso. Il « sentimento di creaturalità » come primo riflesso del numinoso sul sentimento di sé Capitolo quarto, « Mysterium tremendum » Capitolo quinto, Il momento del misterioso Capitolo sesto, Il fascinosum Capitolo settimo, Analogie Capitolo ottavo, Il sanctum come valore numinoso. Coprimento, espiazione Capitolo nono, Mezzi di espressione del numinoso. 1. Diretti Capitolo decimo, Mezzi di espressione del numinoso. 2. Indiretti Capitolo undicesimo, Mezzi di espressione del numinoso nell’arte Capitolo dodicesimo, Il numinoso nell’Antico Testamento Capitolo tredicesimo, Il numinoso nel Nuovo Testamento Capitolo quattordicesimo, Il numinoso in Lutero Capitolo quindicesimo, Sviluppi Capitolo sedicesimo, Il sacro come categoria a priori. Prima parte Capitolo diciassettesimo, La sua comparsa nella storia Capitolo diciottesimo, I momenti del « grezzo » Capitolo diciannovesimo, Il sacro come categoria a priori. Seconda parte Capitolo ventesimo, Il sacro nel suo manifestarsi Capitolo ventunesimo, La divinazione nel cristianesimo originario Capitolo ventiduesimo, La divinazione nel cristianesimo attuale Capitolo ventitreesimo, A priori religioso e storia

203 205

Appendice, Esempio di un componimento numinoso Appendice seconda, Raffronto con l’edizione del 1936

307 311













207 209 215 219 225 229 235 237 241 243 249 257 267 269 273 279 281 285 293 297 305

Capitolo primo RAZIONALE E IRRAZIONALE

P

er ogni concetto teistico di Dio, ma in modo eccezionale ed eminente per quello cristiano, è essenziale che la divinità sia còlta in modo preciso e determinato e qualificata con i predicati : spirito, ragione, volontà, volontà che pone fini, volontà buona, onnipotenza, unità essenziale, consapevolezza ; e che così essa sia allo stesso tempo pensata in analogia con quell’elemento razionale-personale che l’uomo avverte in se stesso in forma limitata e impedita. Tutti questi predicati vengono poi pensati come « perfetti », ossia assoluti. Sono tutti concetti chiari e distinti, accessibili al pensiero e all’analisi, nonché suscettibili di definizione. Se vogliamo chiamare « razionale » un oggetto che è capace di esser pensato in questo modo, allora l’essenza della divinità descritta con questi predicati deve esser qualificata come razionale, e una religione che li riconosce e li afferma è, per questo, una religione razionale. Soltanto grazie ad essi è possibile la « fede » in contrapposizione al mero « sentimento ». E almeno del cristianesimo non è vero che « Il sentimento è tutto ; il nome non è che suono e fumo ». 1 Nome equivale a concetto. Ma noi consideriamo un tratto caratteristico e un criterio del grado di elevatezza e superiorità di una religione che essa abbia « concetti » e una conoscenza – ossia una conoscenza di fede – del soprasensibile in concetti, quelli appena menzionati e altri che li sviluppano ulteriormente. E che il cristianesimo possieda concetti, e li possieda in superiore chiarezza, distinzione e completezza, non è l’unico, né il principale indicatore della sua superiorità rispetto ad altri gradi o forme di religione ; ma certo è un indicatore molto significativo in questo senso. Questo deve esser messo in evidenza subito e con decisione. Ma è necessario mettere in guardia contro un malinteso, che potrebbe condurre all’opinione erronea ed unilaterale per cui i predicati razionali, quelli menzionati e altri simili che se ne possono aggiungere, esauriscono l’essenza della divinità. Questo malinteso è ingenerato dal modo di esprimersi e dal mondo concettuale del linguaggio edificante, della trattazione dotta nell’omiletica e nella catechesi, e persino delle nostre Sacre Scritture. Qui il razionale è in primo piano e anzi spesso sembra che sia tutto ; ma che ciò accada qui, ce lo si può aspettare già a priori : ogni lingua, infatti, in quanto consiste di parole, vuole trasmettere concetti. Questo è il suo senso. E quanto più quelli sono chiari e univoci, tanto migliore è la lingua. In verità, però, i predicati razionali esauriscono tanto poco l’idea della divinità che anzi essi sono e valgono soltanto in rapporto a un irrazionale. Senza dubbio anche questi predicati sono essenziali, ma sono predicati essenziali sintetici e solo se li si intende così, li si intende correttamente ; solo se, cioè, ad essi è attribuito un oggetto, quale loro portatore, che in essi non è ancora còlto, né può esserlo, perché richiede un modo diverso e specifico di coglimento. In un qualche modo, infatti, bisogna pur poterlo cogliere : altrimenti non se ne potrebbe dire proprio nulla. In fondo anche la mistica, quando lo definisce l’a[rrhton, non lo intende davvero così, perché altrimenti non potrebbe far altro che tacere. E invece essa è stata per lo più molto eloquente.  







































1

  J. W. Goethe, Faust, i, v. 3457.

204

capitolo primo

Ci imbattiamo qui nella contrapposizione tra razionalismo e religione più profonda. Di questa contrapposizione e delle sue caratteristiche avremo ancora occasione di occuparci : ma qui risiede il tratto primo e più caratteristico del razionalismo, dal quale dipendono tutti gli altri. Spesso si sostiene che il razionalismo è una negazione del « miracolo » e che il suo opposto è un’affermazione del medesimo : ma questa differenza è palesemente falsa o per lo meno molto superficiale. La teoria tradizionale del miracolo, quale violazione occasionale del nesso causale naturale da parte di un essere che l’avrebbe posto e che dunque ne sarebbe il signore, è essa stessa così massicciamente « razionale », che non si potrebbe esserlo di più. I razionalisti hanno tollerato abbastanza spesso la « possibilità del miracolo » in questo senso o la hanno costruita essi stessi a priori. E abbastanza spesso risoluti non-razionalisti si sono mostrati indifferenti nei confronti della « questione dei miracoli ». Tra il razionalismo e il suo contrario vi è piuttosto una peculiare differenza di qualità nella tonalità e nei contenuti del sentimento dell’esser devoti, che è condizionata essenzialmente dal fatto che nell’idea di Dio il razionale abbia sopravanzato l’irrazionale, che lo abbia escluso del tutto o che sia accaduto invece l’opposto. In effetti, l’affermazione che si sente spesso, per cui la madre del razionalismo sarebbe stata proprio la stessa ortodossia, è in parte giusta ; ma, anche qui, non semplicemente perché l’ortodossia sia finita in dottrina e in costruzione di dottrine – come è capitato anche ai mistici più incalliti –, ma perché nel far questo non ha trovato il mezzo per render in qualche modo giustizia all’elemento irrazionale del suo oggetto e per mantenerlo vivo nell’esperienza vissuta della devozione : anzi, in un palese e caratteristico disconoscimento di questo, ha razionalizzato unilateralmente l’idea di Dio. Questa tendenza alla razionalizzazione predomina ancor oggi, e non soltanto nella teologia, ma anche nelle ricerche religiose in generale, fin negli aspetti più bassi. A tale tendenza sottostanno le ricerche sui miti e sulla religione dei « primitivi », come pure i tentativi di ricostruzione degli inizi e degli elementi primi della religione. Qui non si impiegano quegli elevati concetti razionali da cui abbiamo preso le mosse, ma è in questi e nel loro « sviluppo » graduale che si individua il problema principale della ricerca, per cui si costruiscono rappresentazioni e concetti di scarso valore che dovrebbero esserne i prodromi : in ogni caso è sempre a concetti e rappresentazioni che si mira, e a concetti « naturali », ossia presenti nella sfera generale delle rappresentazioni umane. Con un’energia e un’arte quasi ammirevoli si chiudono gli occhi di fronte a ciò che è del tutto specifico dell’esperienza vissuta religiosa, anche nelle sue espressioni più primitive ; ammirevoli o meglio sorprendenti, perché se in generale c’è un ambito dell’esperienza umana in cui si può osservare qualcosa di specifico che compare solo in esso, è proprio l’ambito religioso. In verità, l’occhio del nemico vede qui in modo più acuto che non quello di molti amici o teorici neutrali della questione. Sul versante degli oppositori si incontra una consapevolezza molto precisa del fatto che tutti gli « eccessi mistici » non hanno niente a che fare con la « ragione » ; il che è pur sempre un salutare incitamento a notare che la religione non si esaurisce nelle sue asserzioni razionali e a rendere limpido il rapporto tra i suoi momenti, in modo tale che essa divenga chiara a se stessa.  

















































Capitolo secondo IL NUMINOSO

È

quanto tenteremo di fare qui a con riferimento alla categoria peculiare del sacro. Innanzitutto il sacro è una categoria di valutazione che si presenta così soltanto nell’ambito religioso. Certo, essa si estende ad altri ambiti, per esempio all’etica, ma di per sé non scaturisce da altro ; è complessa, ma ha in sé un momento del tutto specifico, che si sottrae al razionale nel senso assunto prima e che è un a[rrhton, un ineffabile, in quanto è completamente inaccessibile ad un coglimento concettuale (come, in un ambito totalmente altro, lo è anche il bello). Quest’affermazione sarebbe in partenza falsa se il sacro fosse ciò che si intende in alcuni usi linguistici, come in quello filosofico e di solito anche in quello teologico. Siamo infatti abituati ad utilizzare « sacro » in un senso che è largamente traslato e in nessun modo originario. Di solito lo intendiamo come predicato etico assoluto, come ciò che è perfettamente buono. Così Kant definisce « heilig » (santa) quella volontà che obbedisce senza tentennamenti alla legge morale a motivo del dovere : ma questa è semplicemente una volontà morale perfetta. Così si parla della « santità » (Heiligkeit) del dovere o della legge anche se non si intende nient’altro che, appunto, la loro necessità pratica, l’universale validità della loro obbligatorietà. Ma un simile uso del termine non è rigoroso : « sacro » include, certo, tutto questo, ma contiene un’eccedenza che il nostro sentimento ancora avverte distintamente e che qui si tratta innanzitutto di isolare. Il punto è che la parola « sacro », o almeno i suoi equivalenti nelle lingue semitiche, in latino, in greco e in altre lingue antiche, indicava innanzitutto e prevalentemente soltanto questa eccedenza e non comprendeva il momento morale in generale, o per lo meno non dal principio e comunque mai esclusivamente. Poiché è fuor di dubbio che il nostro sentimento linguistico oggi include sempre nel sacro l’elemento etico, nel ricercare quell’elemento peculiare, sarà opportuno, almeno provvisoriamente e ad uso della nostra ricerca, inventare un termine particolare, che dovrà indicare il sacro meno il suo momento etico e, aggiungiamo subito, meno il suo momento razionale in generale. Ciò di cui parliamo e che vogliamo tentare, nella misura del possibile, di determinare, ossia di portare al sentimento, vive in tutte le religioni come ciò che in esse vi è di più proprio e intimo e senza di cui non sarebbero affatto religioni ; ma vive con una forza straordinaria nelle religioni semitiche e in modo del tutto privilegiato in quella biblica, nella quale ha anche un proprio nome : qādôsh, cui corrispondono a[gio~, sanctus e ancora più esattamente sacer. Che questi nomi, in tutte e tre le lingue, riguardino anche il « bene » e il bene assoluto, ossia il grado più alto dello sviluppo e della maturazione di questa idea, è certo, e per questo li traduciamo con « heilig » (santo) ; ma questo « heilig » è allora soltanto la progressiva schematizzazione e il progressivo riempimento etici di un peculiare e originario riflesso di sentimento che in se stesso può anche essere indifferente nei confronti dell’etico e che può essere preso in considerazione di per sé. Senza  











































a   Nel mio libro Kantisch-Fries’sche Religionsphilosophie und ihre Anwendung auf die Theologie, l’oggetto è l’altro lato della religione, quello razionale.

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capitolo secondo

dubbio, nelle fasi iniziali del suo sviluppo tutte quelle espressioni significano qualcosa di totalmente altro dal bene, come è generalmente riconosciuto dall’esegesi odierna. A ragione si ritiene che sia un fraintendimento razionalistico l’interpretare qādôsh semplicemente come « bene ». Si tratta quindi di trovare un nome per questo momento inteso nella sua isolatezza ; un nome che innanzitutto lo conservi nella sua specificità e che, in secondo luogo, renda possibile considerare e denominare le sue possibili sottospecie o i suoi gradi di sviluppo. A tal fine compongo qui il termine « numinoso » (se da omen si può formare « ominoso », allora si può anche formare « numinoso » da numen), che intendo come peculiare categoria di valutazione numinosa e come disposizione emotiva numinosa dell’animo che si presenta ogni volta che quella categoria si applica. Poiché è integralmente sui generis, questa categoria, come ogni dato primario ed elementare, è suscettibile di esser esaminata, ma non, a rigore, di esser definita. Si può aiutare l’interlocutore a capire, solo tentando di guidarlo con una discussione fino a quel punto del suo animo in cui è però la categoria stessa che deve attivarsi, sgorgare e rendersi cosciente. Si può venire in aiuto di questo processo indicando qualcosa che le è simile, o che le è contrapposto in modo caratteristico, o che si presenta in altre sfere dell’animo già note e familiari, per poi aggiungere : « Questo non è il nostro X, ma gli è affine ; quest’altro è l’opposto. Non ti viene ora in mente da sé ? » Il che significa : il nostro X non si può, in senso rigoroso, insegnare, ma solo suscitare, destare : come tutto ciò che viene « dallo spirito ».  



































Capitolo terzo I MOMENTI DEL NUMINOSO. IL « SENTIMENTO DI CREATURALITÀ » COME PRIMO RIFLESSO DEL NUMINOSO SUL SENTIMENTO DI SÉ  



I

nvitiamo ora chi legge a rievocare un momento di intensa eccitazione religiosa, che sia tale nel modo più univoco possibile. Chi non è in grado o chi in generale non ha di questi momenti è pregato di non leggere oltre. È difficile, infatti, praticare una psicologia della religione con chi è capace di ricordarsi dei sentimenti della sua pubertà, dei suoi disturbi digestivi o magari dei suoi sentimenti sociali, ma non dei suoi sentimenti propriamente religiosi. Lo si deve scusare se tenta, con i principi esplicativi che conosce, di spingersi per conto suo fin dove può e di interpretare l’« estetica » come piacere sensibile, e la « religione » come funzione dell’impulso sociale e della determinazione dei valori sociali, o in modo ancora più primitivo. Ma l’individuo estetico, che vive in sé lo specifico dell’esperienza estetica, declinerà con tanti ringraziamenti le sue teorie : a maggior ragione l’individuo religioso. Invitiamo inoltre, nell’esame e nell’analisi di questi momenti e degli stati d’animo del raccoglimento solenne e della commozione, a tener conto con la massima esattezza possibile di ciò che essi non hanno in comune con stati simili, come quello solamente etico dell’elevazione che interviene nella contemplazione di un’azione buona ; e a prestare attenzione ai loro contenuti di sentimento specifici. Da cristiani ci imbattiamo qui innanzitutto in sentimenti di cui senza dubbio abbiamo conoscenza, con minor intensità, anche da altri ambiti : gratitudine, fiducia, amore, affidamento, umile sottomissione e rassegnazione. Ma tutto questo non esaurisce affatto il momento della devozione e non restituisce ancora i tratti del tutto specifici del « solenne », della solennità propria di quella singolare commozione che solo qui si presenta in questo modo. Schleiermacher ha afferrato in modo felice un elemento assai notevole di questo vissuto : il sentimento di « dipendenza ». Ma a questa sua significativa scoperta va rivolta una duplice obiezione. Il sentimento che egli propriamente intende non è, nella sua qualità specifica, un sentimento di dipendenza in quel senso « naturale » del termine, per cui esso può presentarsi anche in altri ambiti della vita e dell’esperienza vissuta come sentimento della propria inadeguatezza, della propria impotenza e del proprio esser ostacolati dalle condizioni dell’ambiente. Tra questi sentimenti e quello vi è senz’altro un’analogia, che consente di qualificarlo analogicamente e di « esaminarlo » in modo da accennare alla cosa stessa affinché questa venga poi còlta di per sé nel sentimento. Ma la cosa stessa è in pari tempo qualitativamente diversa da questi sentimenti analoghi. Lo stesso Schleiermacher distingue il sentimento della dipendenza devota da tutti gli altri sentimenti simili : ma, appunto, li distingue soltanto come l’assoluto dal relativo. Li distingue, dunque, solo per il grado e non per una particolare qualità. Egli non vede che se definiamo quello sentimento di dipendenza abbiamo, a rigore, soltanto una semplice analogia con la cosa stessa. Si riesce ora, con questo paragone e questa contrapposizione, a trovare in se stessi quello che intendo dire, e che non posso esprimere mediante altro appunto  

































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capitolo terzo

perché è un dato primario ed elementare che può essere dunque determinato nello psichico soltanto mediante se stesso ? Forse posso venire in aiuto con un ben noto esempio, in cui si fa notare in modo assai marcato proprio il momento di cui vogliamo parlare qui. Quando Abramo (Gn 18, 27) osa parlare con Dio della sorte dei Sodomiti dice : « Ho avuto l’ardire di parlare con te, io che sono terra e cenere ». Questa è la professione di un « sentimento di dipendenza » che è però qualcosa di più e di diverso rispetto ai sentimenti di dipendenza. Sono in cerca di un nome per la cosa e la definisco sentimento di creaturalità : il sentimento della creatura che sprofonda nel proprio nulla e scompare di fronte a ciò che è sopra tutte le creature. Si vede facilmente che anche questa espressione, « sentimento di creaturalità », non è una spiegazione concettuale della cosa. Ciò che conta, infatti, non è soltanto quello che il nuovo nome da solo riesce ad esprimere, ossia il momento dello sprofondare e della propria nullità di fronte ad un’assoluta ultrapotenza in generale, ma il fatto che l’ultrapotenza sia proprio questa. E questo Come è appunto indicibile e lo si può indicare solo attraverso la peculiare tonalità e il contenuto della reazione di sentimento di cui si deve vivere in se stessi l’esperienza. L’altro errore a della determinazione di Schleiermacher è che egli in generale scopre soltanto una categoria di autovalutazione religiosa (ossia di svalutazione) e mediante questa vuole determinare il contenuto proprio del sentimento religioso. Quest’ultimo, secondo lui, sarebbe immediatamente e in primo luogo un sentimento di sé, il sentimento di una peculiare caratteristica di me stesso, ossia la mia dipendenza. Quindi per Schleiermacher ci si imbatte nel divino solo mediante una deduzione ; solo se, cioè, col pensiero aggiungo a tale dipendenza una causa esterna a me : il che è però in completo contrasto con il dato di fatto psicologico. È piuttosto il « sentimento di creaturalità » che è un effetto e un momento concomitante e soggettivo di un altro momento del sentimento, che senza dubbio come prima cosa e immediatamente si indirizza ad un oggetto fuori di me. b Ma questo è appunto il numinoso. Solo dove il numen viene vissuto come praesens, come nel caso di Abramo, o dove viene avvertito nel sentimento qualcosa che ha carattere numinoso, o l’animo da sé gli si rivolge, dunque solo in seguito ad una applicazione fattuale della categoria del numinoso, può sorgere nell’animo, quale sentimento concomitante, il sentimento di creaturalità e la sua dipendenza. Cos’è e come è questo numinoso stesso, che sento oggettivamente come qualcosa fuori di me ?  



























a

  Di un terzo errore si parlerà più avanti.   Questo è un fatto d’esperienza così chiaro che nell’analisi del vissuto religioso necessariamente si impone come prioritario anche allo psicologo. William James, quando sfiora la questione della nascita della rappresentazione greca del divino nel suo libro Die religiöse Erfahrung in ihrer Mannigfaltigkeit [The Varieties of Religious Experience, London 1902] (in tedesco Wobbermin2 [Leipzig 19142], p. 46), afferma con una certa ingenuità : « Non dobbiamo qui approfondire la questione dell’origine degli dèi greci. Ma l’intera serie dei nostri esempi ci porta più o meno alla seguente conclusione : è come se nella coscienza umana vivesse la sensazione di qualcosa di reale, un sentimento di qualcosa che è realmente presente, una rappresentazione di qualcosa che esiste oggettivamente, che è più profonda e più universalmente valida di qualsivoglia sensazione singola e particolare per mezzo di cui, secondo l’opinione della psicologia odierna, viene attestata la realtà ». Poiché il suo punto di vista empiristico e pragmatistico gli impedisce di riconoscere le disposizioni alla conoscenza e i fondamenti delle idee nello spirito stesso, James deve ricorrere ad ipotesi un po’ singolari e misteriose per spiegare questo fatto. Egli coglie quest’ultimo con chiarezza ed è abbastanza realista da non ignorarlo. Rispetto al dato primo e immediato di un simile « sentimento di realtà », sentimento di un numinoso dato oggettivamente, il « sentimento di dipendenza » è un effetto successivo, una svalutazione del soggetto esperiente nei confronti di se stesso. b

















Capitolo quarto « MYSTERIUM TREMENDUM »  



P

otrà essere indicato, dicevamo, soltanto mediante il suo particolare riflesso di sentimento nell’animo. « È tale che afferra e commuove l’animo umano con una disposizione emotiva così e così ». Questa disposizione « così e così » è quanto dobbiamo provare a tratteggiare, tentando di far risuonare sentimenti affini per mezzo, di nuovo, di analogie e contrapposizioni e di espressioni simboliche. Consideriamo lo strato più profondo di ogni intenso moto del sentimento di devozione, in quanto tale moto sia qualcosa di più che fiducia, amore o fede nella salvezza, in quanto sia ciò che talvolta, del tutto a prescindere da questi sentimenti concomitanti, può commuovere anche noi e colmare il nostro animo con una potenza capace quasi di sconvolgere i sensi ; osserviamolo, per empatia, compassione e immedesimazione, negli altri intorno a noi, nelle esplosioni violente del sentimento di devozione e nelle sue espressioni, nella solennità e nella disposizione emotiva di riti e culti, nel sentore che aleggia nei monumenti e negli edifici religiosi, nei templi e nelle chiese : allora soltanto un’espressione ci si presenta come adeguata alla cosa : mysterium tremendum. Questo sentimento può attraversare l’animo con un flusso dolce, che ci culla e ci acquieta nella tonalità emotiva di un raccoglimento assorto, per poi trapassare in una disposizione dell’anima che scorre continua, persiste a lungo e vibra, finché infine si smorza e l’anima è di nuovo nel profano. Può anche erompere dall’anima repentinamente, con scosse e convulsioni. Può portare ad una singolare eccitazione, all’ebbrezza, al rapimento e all’estasi. Ha le sue forme selvagge e demoniche. Può degenerare in un orrore quasi spettrale, che dà i brividi. Le espressioni tipiche dei suoi stadi primitivi sono grezze e barbariche. Ma conosce anche possibilità di sviluppo verso il raffinamento, la purificazione e la trasfigurazione. Può diventare quieto ed umile tremore e ammutolimento della creatura di fronte a – già, di fronte a cosa ? Al mistero ineffabile che è al di sopra di ogni creatura. È subito chiaro, di nuovo, che anche qui il nostro tentativo di determinazione per mezzo di un concetto è puramente negativo. Mysterium non definisce concettualmente nient’altro che ciò per cui si « hanno gli occhi chiusi », ciò che è nascosto, non manifesto, non concepito, né compreso, non quotidiano, né familiare : ma non lo determina più precisamente secondo la sua qualità. Ciò che è inteso è però qualcosa di assolutamente positivo, che viene vissuto soltanto in sentimenti. E questi sentimenti possiamo anche chiarirceli, esaminandoli e portandoli in pari tempo a risonanza.  





















Il momento del « tremendum »  



Alla qualità positiva rimanda innanzitutto l’attributo tremendum. In sé il tremor è soltanto paura, un ben noto sentimento « naturale » : qui ci serve come prima designazione, che è però solo analogica, per una reazione di sentimento del tutto specifica, la quale, avendo una somiglianza con la paura, può esser indicata per analogia con questa, ma di per sé è qualcosa di totalmente altro dall’impaurirsi.  





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capitolo quarto

In alcune lingue ci sono espressioni che designano esclusivamente o prevalentemente questa « paura » che è più che paura. Per esempio « hiq’dish », ossia « santificare » (heiligen) in ebraico. « Santificare » una cosa « nel proprio cuore » significa onorarla del sentimento di un timore peculiare, che non deve essere confuso con timori di altro genere ; significa valutarla con la categoria del numinoso. Il greco ha « sebastov~ ». Gli antichi cristiani sentivano chiaramente che questa qualifica non pertiene a nessuna creatura, nemmeno all’imperatore ; che era una qualifica numinosa e che si commetteva idolatria nel valutare un uomo con la categoria di numinoso chiamandolo sebastov~. L’inglese ha « awe », che nel suo senso più profondo e specifico si avvicina quasi al nostro oggetto. a In tedesco il verbo « heiligen » è solo il corrispettivo dell’uso linguistico della Scrittura : un’espressione propria e autoctona per la forma superiore e più matura di ciò che qui si intende non c’è. C’è invece per i gradi di sviluppo inferiori e più grezzi di questo sentimento : « Grausen » (orrore), « Schauer » (tremore) e « schauervoll » (tremendo). « Erschauern » (rabbrividire), per esempio « rabbrividire nel raccoglimento devoto », ci fa risuonare anche l’aspetto superiore in modo abbastanza puro. (Espressioni più grossolane e popolari per le sue forme depotenziate sono « Gruseln » [orribile] e « Gräsen » [orrido]. In queste, e propriamente anche in « gräslich » [orrendo], il momento numinoso viene inteso e qualificato in modo molto preciso.) Quando ho discusso l’animismo di Wundt, b ho proposto per la cosa il termine « Scheu » (timore), dove però l’aspetto specifico, ossia il numinoso, resta solo nelle virgolette. Si può anche dire : « timore religioso ». Il gradino preliminare è il timore « demonico » (terrore panico) con la sua propaggine apocrifa, il « timore spettrale ».* Quando Lutero dice che l’uomo naturale non può temere Dio, non solo ciò è del tutto corretto, anche dal punto di vista psicologico, ma bisogna aggiungere che l’uomo naturale non può inorridire nel senso autentico del termine. L’orrore, infatti, non è una paura usuale e naturale, ma è di per sé già una prima eccitazione e un primo sentore del misterioso, sebbene in una forma ancora così grezza ; è una prima valutazione secondo una categoria che non risiede nell’ambito consueto della natura e non riguarda il naturale. Esso è possibile solo per colui nel quale si sia destata una peculiare disposizione dell’animo che è decisamente diversa da quella « naturale » : una disposizione che all’inizio si esprime ancora solo in modo abbastanza grezzo e convulso. Non è necessario richiamare il modo in cui anche nell’Antico Testamento la « paura di fronte a Jahweh » assume occasionalmente ancora i tratti di un primitivo « orrore », anzi dell’« orrore » in sé. Soffermiamoci ancora un momento sulle prime espressioni, grezze e primitive, di questo timore numinoso, che nella forma del « timore demonico » è il vero e proprio contrassegno di quel primo movimento, ingenuo e grezzo, che è la cosiddetta « religione dei primitivi ». Quest’ultima, insieme con i suoi prodotti di fantasia, viene poi superata ed espulsa dai gradi superiori e dalle successive forme di sviluppo di quel misterioso impulso che è attivo in essi per la prima volta e in modo ancora grezzo, ossia il sentimento numinoso. Ma, anche laddove tale sentimento abbia da tempo raggiunto le sue espressioni superiori e più pure, è sempre possibile che i suoi impulsi primitivi erompano di nuovo dall’anima in modo del tutto ingenuo e siano vissuti di nuovo. Questo è attestato, per esempio, dalla forza d’attrazione che nei racconti di « spettri » e  























































































































a



  Si confronti anche : « he stood aghast » [« Restò atterrito »].   Cfr. « Theologische Rundschau », 1910 [cfr. Il sensus numinis come origine storica della religione, infra, pp. 339-366]. b















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di « fantasmi » l’« orrore » continua ad esercitare anche su chi abbia un alto livello di formazione generale. È da notare che questo peculiare timore di fronte allo « spaesante » provoca anche reazioni corporee del tutto peculiari, che non si presentano mai in questa forma nel caso di un terrore o di una paura naturali : « gli si gelò il sangue nelle vene », « mi si accapponò la pelle ». La pelle d’oca è qualcosa di « soprannaturale ». Chi è capace di un’analisi psichica sufficientemente dettagliata, non può non vedere che un simile « timore » non si distingue dalla naturale paura soltanto per grado e intensità. Esso può essere così forte da penetrare fino al midollo, da far rizzare i capelli e tremare le gambe : e queste reazioni può provocarle anche la paura naturale. Ma può presentarsi anche in un moto molto lieve dell’anima, come un impulso fugace e appena avvertito. Non ha nulla a che fare con l’intensità. Nessuna paura naturale si trasforma in un timore simile per semplice intensificazione. Si può essere in preda ad una paura, ad una angoscia, ad un terrore smisurati, senza che in ciò vi sia la minima traccia del sentimento di « spaesamento ». Avremmo le idee più chiare se la psicologia in generale tentasse di indagare in modo più deciso le differenze qualitative tra i « sentimenti » e di classificare questi in base a quelle. La suddivisione troppo grossolana tra « piacere » e « dispiacere » continua ad esserci d’ostacolo. Nemmeno i « piaceri » si distinguono soltanto per il grado di intensità ed è possibile una netta ripartizione secondo differenze specifiche. Se l’anima si trova in uno stato di piacere o di diletto, di gioia, di godimento estetico, di elevazione etica e, infine, di beatitudine religiosa dovuta ad un’esperienza vissuta di devozione, si tratta di situazioni emotive diverse per specie. Tra questi stati vi sono analogie e simiglianze, ed è per questo che essi si lasciano riportare sotto il concetto di una classe comune che li distingue da altre classi di funzioni psichiche : ma tale concetto non rende la differenza di specie una mera distinzione di grado relativa ad una medesima cosa, né aiuta a chiarire l’« essenza » di ogni elemento compreso sotto di esso. Il sentimento del numinoso nel grado della sua compiutezza è di gran lunga diverso dal timore meramente demonico, anche se non nasconde la sua provenienza e la sua parentela con esso, nemmeno nel suo grado sommo. L’« orrore » ritorna qui nella forma infinitamente più nobile di quel profondissimo e intimo tremore che scuote l’anima fin nelle radici e la fa ammutolire ; che la afferra con violenza anche nel culto cristiano nelle parole : « Santo, Santo, Santo » (heilig) ; che esplode nell’inno di Tersteegen :  









































































Dio è presente. Tutto in noi taccia. E si inchini profondamente di fronte a Lui. 1

Questo sentimento ha perso la capacità di sconvolgere i sensi, ma non quella di avvincerli in modo ineffabile. È un brivido mistico che provoca nel sentimento di sé, come riflesso, quel sentimento di creaturalità che abbiamo descritto e che è il sentimento della propria nullità, del proprio sprofondare di fronte a ciò che è vissuto come tremendo.* In quanto il momento di sentimento del tremor numinoso viene riferito all’oggetto numinoso, si ha una « proprietà » del numen che riveste un ruolo importante nei nostri testi sacri e la cui enigmaticità e inafferrabilità ha creato molte difficoltà ad esegeti e teologi dogmatici. È l’« ojrghv », l’ira di Jahweh, che torna nel Nuovo Testamento come  







1   Cfr. G. Tersteegen, Erinnerung der herrlichen und lieblichen Gegenwart Gottes (1729). I versi citati da Otto sono tratti dalla seconda strofa : « Gott ist gegenwärtig ; lasset uns anbeten,/ Und in Ehrfucht vor ihn treten !/ Gott ist in der Mitte ; alles in uns schweige/ Und sich innigst vor ihm beuge ! ».  









   

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ojrgh; Qeou`. Essa ha una chiara analogia con la rappresentazione della misteriosa « ira deorum », presente in moltissime religioni. (Se si percorre il pantheon indiano, si vede come in esso vi siano dèi che in generale consistono integralmente di una simile orghv, e anche gli dèi più alti e misericordiosi degli Indiani hanno molto spesso accanto al lato benevolo anche quello « collerico ».) Vi è un aspetto singolare nell’« ira di Jahweh » che è da sempre saltato agli occhi. Innanzitutto, in parecchi passi dell’Antico Testamento è palese che questa « ira », per sua natura, non ha nulla a che vedere con qualità etiche. Si « accende » e si esprime enigmaticamente « come una forza nascosta della natura », come si suole dire, come elettricità accumulata che si scarica su chi le si avvicina troppo. È « imprevedibile » e « arbitraria ». A chi è abituato a pensare la divinità soltanto secondo i suoi predicati razionali, essa deve apparire come una passione capricciosa : una concezione che sicuramente i devoti dell’antica alleanza avrebbero energicamente respinto, perché una simile ira appare loro come espressione naturale e momento nient’affatto toglibile della stessa « santità » (Heiligkeit), non come una diminuzione di quest’ultima. E del tutto a ragione. Questa ojrghv, infatti, non è nient’altro che il « tremendum » stesso che viene qui concepito ed espresso per mezzo di un’ingenua analogia con l’ambito naturale, ossia con la vita dell’animo umano ; un’analogia estremamente efficace e precisa, che come tale conserva sempre il suo valore ed è ancora, anche per noi, assolutamente inevitabile nell’espressione del sentimento religioso. Senza dubbio anche il cristianesimo ha qualcosa da insegnare a proposito « dell’ira di Dio », nonostante le proteste di Schleiermacher e Ritschl. Risulta così, ancora una volta, che questa espressione non indica un vero e proprio « concetto » razionale, ma solo un suo analogo : un ideogramma di un particolare momento del sentimento nel vissuto religioso, la cui caratteristica è di essere repulsivo e di riempire di timore ; il che certo disturba la cerchia di coloro che vogliono vedere nel divino solo qualcosa in cui confidare, solo bontà, mitezza, amore e in generale solo i momenti del suo esser volto al mondo. La razionalizzazione di questa ojrghv – che si è soliti definire, sbagliando, « naturale » e che in verità è del tutto innaturale, ossia numinosa – consiste nel suo completamento con i momenti etici della giustizia, come il contraccambio e la punizione per una mancanza morale. Ma si noti che la rappresentazione biblica resta sempre una sintesi tra l’originario e ciò che lo completa. Nell’« ira di Dio » si avverte sempre un guizzo o un lampo di irrazionale, che le conferisce un carattere terrificante che l’uomo « naturale » non è in grado sentire. Un’espressione affine all’« ira » o alla « collera » è quella dello « zelo di Jahweh ». E anche lo « zelo per Jahweh » è uno stato numinoso che trasmette ancora a chi vi si trova tratti del tremendum.  



















































































Il momento della majestas Si può riassumere quanto sin qui elaborato sul tremendum nell’ideogramma « assoluta inavvicinabilità ». Si sente subito, allora, che per esaurirne il contenuto si deve ancora aggiungere un momento : quello della « potenza », del « potere », dell’« ultrapotere », dell’« assoluto ultrapotere ». Come termine scegliamo qui « majestas », tanto più che nella « maestà » il nostro sentimento linguistico sente ancora vibrare un’ultima, lieve traccia del numinoso. Il momento della majestas può mantenersi vivo anche laddove il primo momento, quello della inavvicinabilità, receda e si smorzi, come può accadere, per esempio, nella mistica. Ed è proprio alla « majestas », al momento dell’assoluta ultrapotenza, che si riferisce il « sentimento di creaturalità » quale ombra e riflesso soggettivo di questa. Per contrasto rispetto al sentimento dell’ultrapotente come qualcosa di oggetti 





































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vo, esso si determina come sentimento del proprio sprofondamento e annientamento, del proprio essere terra, cenere, nulla, ed è, per dir così, la materia prima numinosa del sentimento dell’« umiltà » religiosa. Anche qui si deve tornare, ancora una volta, all’espressione utilizzata da Schleiermacher che definisce la cosa « sentimento di dipendenza ». Già sopra abbiamo criticato il fatto che egli fa un punto di partenza di ciò che di per sé è soltanto un riflesso e un effetto ; e che vuole raggiungere l’oggettivo soltanto per deduzione, ricavandolo a partire dall’ombra che proietta sul sentimento di sé. Qui però dobbiamo contestare ancora qualcos’altro. « Sentirsi dipendente » significa infatti, per Schleiermacher, « sentirsi condizionato » e, del tutto logicamente, egli elabora questo momento della « dipendenza » nei paragrafi sulla « creazione e conservazione ». Il correlato della « dipendenza » sul lato della divinità sarebbe la causalità, l’esser la causa universale, la condizione di tutto. Questo, però, non si trova affatto nell’immediato « sentimento devoto », quale lo cogliamo e analizziamo nel momento del raccoglimento. Appartiene integralmente al lato razionale dell’idea di Dio ; si lascia elaborare nitidamente in concetti e ha origine da tutt’altra fonte. La « dipendenza » espressa nelle parole di Abramo non è quella dell’esser creati, ma quella della creaturalità, è l’impotenza di fronte all’ultrapotenza, è la propria nullità. E non appena la speculazione si impossessa della « majestas », dell’« essere terra e cenere » di cui qui si parla, conduce ad una serie di rappresentazioni totalmente altre rispetto alle idee di creazione e conservazione. Conduce all’« annihilatio » del sé, da un lato, e alla realtà unica e totale del trascendente, dall’altro, che sono tipiche della mistica. In quasi tutte le forme della mistica, per quanto diverse siano tra loro contenutisticamente, incontriamo quale loro tratto principale e più universale, attraverso il quale forse riesce nel modo più facile una definizione di questo oggetto difficilmente definibile, quella svalutazione del sé, che ripete con palese somiglianza quella di Abramo : valutazione del sé, dell’io come di qualcosa che non è completamente reale o essenziale e che è anzi del tutto nullo. E tale svalutazione richiede di essere attuata praticamente di contro alla falsa illusione di un’ipseità : richiede di annihilare il sé. Essa conduce, d’altra parte, alla valutazione del relativo oggetto trascendente come qualcosa di assolutamente superiore per pienezza d’essere, di fronte al quale il sé sente, appunto, il suo nulla. « Io nulla, tu tutto ! ». Di un rapporto di causalità qui non si parla. Non un sentimento di dipendenza assoluta (ossia del proprio esser causato), c ma un sentimento di assoluta superiorità (dell’altro) è qui il punto di partenza della speculazione che, laddove si attui in termini ontologici (che spesso sono soltanto presi a prestito dalla « scienza »), trasforma la pienezza di « potenza » del tremendum nella pienezza d’« essere ».* Ovunque la mistica, secondo la sua essenza (è indifferente come sia nata storicamente : la derivazione storico-genetica non è interpretazione dell’essenza), è una tensione portata all’estremo del momento irrazionale nella religione e solo così risulta comprensibile. Possono esser diversamente accentuati momenti diversi dell’irrazionale, altri possono recedere di fronte a quelli accentuati, e questo rende diverso il carattere della mistica. Ma ciò che qui è stato analizzato è un momento che torna ovunque in essa : e non è altro che il « sentimento di creaturalità » portato a tensione estrema ; dove questa espressione non deve indicare « sentimento dell’esser creati », ma della « creaturalità », ossia della pochezza di tutto ciò che è creatura di fronte a ciò che è al di sopra di ogni creatura.d  

























































   

























c







  Che condurrebbe alla realtà del sé !   È caratteristica di ogni mistica l’identificazione – attuata in gradi diversi – con il trascendente. Questa

d



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capitolo quarto Il momento dell’ energico

I momenti del tremendum e della majestas ne implicano infine un terzo, che definisco energia del numinoso. Questo momento si fa sentire in modo particolarmente vivo nell’« ojrghv » e si attira ovunque le espressioni simboliche di vitalità, passione, emotività, volontà, forza, movimento, e eccitazione, attività, impeto. Tali tratti si ripropongono costantemente in modo tipico, dal livello del demonico fino alla rappresentazione del Dio « vivente ». È quel momento che ha ovunque destato la contraddizione maggiore e più forte contro il Dio « filosofico » della mera speculazione e definizione razionali. Dove tale momento è stato messo in campo, i « filosofi » lo hanno sempre condannato come « antropomorfismo » : per un verso a ragione, in quanto chi lo difendeva ha per lo più misconosciuto il carattere puramente analogico di questi termini presi a prestito dalla sfera dell’animo umano ; per altro verso a torto, in quanto, nonostante questo errore, era stato correttamente sentito un momento autentico del Qei`on, ossia quello irrazionale, e si era salvaguardata la religione dalla razionalizzazione. Infatti, dovunque si sia lottato in favore del Dio « vivente » e del « volontarismo », là hanno lottato irrazionalisti contro razionalisti, come Lutero contro Erasmo. L’« omnipotentia Dei » di Lutero, nel suo De servo arbitrio, non è altro che il congiungimento della majestas, quale assoluta superiorità, con questa « energia » che è impeto instancabile e incessante, attività, dominio, vitalità. Questo momento dell’energico vive in modo molto intenso anche nella mistica, per lo meno in quella « volontaristica », nella mistica dell’amore. Torna drasticamente nel calore dell’amore che consuma, la cui violenza impetuosa il mistico sopporta a malapena, che lo schiaccia al punto che questi lo prega di mitigarsi per non esserne distrutto. E in tale impetuosità questo « amore » ha ancora un’evidente affinità con la stessa ojrghv che divora e brucia : è la stessa energia, solo diversamente volta. « L’amore – dice un mistico – non è altro che ira liberata ». Ancora nella speculazione di Fichte sull’assoluto, quale gigantesco e irrefrenabile impulso all’azione, nonché nella demonica « volontà » di Schopenhauer ritorna questo « energico » ; e in entrambi con il medesimo errore che già commetteva il mito : i predicati « naturali », che possono essere utilizzati solo come ideogrammi per qualcosa di ineffabile, vengono trasferiti realmente all’irrazionale e i simboli dell’espressione del sentimento vengono presi per concetti adeguati e per basi di una conoscenza « scientifica ».  









































































identificazione ha ancora la sua fonte peculiare, che qui non è considerata e che scaturisce in momenti di cui bisognerebbe trattare in modo specifico. Ma l’identificazione soltanto non è ancora mistica, ma identificazione con un qualcosa di assolutamente superiore, quanto a potenza e realtà, e insieme di totalmente irrazionale. E qui troviamo questo momento della cosa. Récéjac, nel suo Essai sur les fondements de la connaissance mystique (Paris 1897) ha richiamato l’attenzione su ciò. A p. 99 scrive : « Le mysticisme commence par la crainte, par le sentiment d’une domination universelle, invincible, et devient plus tard un désir d’union avec ce qui le domine ainsi [Il misticismo comincia con la paura, col sentimento di un dominio universale, invincibile, e diviene più tardi un desiderio di unione con ciò che così domina] ». Esempi assai chiari di ciò, tratti dall’esperienza vissuta contemporanea, si trovano in W. James, Die religiöse Erfahrung, cit., p. 53 : « La quiete perfetta della notte rabbrividiva in un silenzio solenne. L’oscurità stringeva un’apparizione che veniva sentità tanto più forte, quanto meno era vista. Potevo dubitare della presenza di Dio tanto poco quanto della mia. Mi sentivo, se è possibile, come il meno reale di noi due ». Riguardo al rapporto con i « sentimenti di identificazione » della mistica, questo esempio è particolarmente istruttivo, perché qui il vissuto raccontato stesso è sul punto di trasformarsi in quelli. Poco prima si dice : « Ero solo con Lui [...] Non lo cercavo, ma sentivo la perfetta unificazione del mio spirito col suo ». Cfr. anche il vissuto a p. 56 : « Avevo la sensazione di aver perso il mio proprio sé ». e   La mobilitas Dei in Lattanzio.  



























Capitolo quinto IL MOMENTO DEL MISTERIOSO

A

bb iamo definito l’oggetto numinoso « mysterium tremendum » e ci siamo dedicati innanzitutto alla determinazione dell’aggettivo tremendum, perché la sua analisi è più semplice di quella del sostantivo mysterium. Anche di quest’ultimo dobbiamo tentare un’interpretazione più precisa. Il momento del tremendum, infatti, non è una mera esplicazione del « mysterium », ma un suo predicato sintetico. Certo, le reazioni di sentimento che corrispondono all’uno trascorrono facilmente in quelle che corrispondono all’altro. Ma i momenti del tremendum e del mysteriosum sono essenzialmente diversi ; e nel vissuto di sentimento il momento del misterioso nel numinoso può sopravanzare di tanto quello del tremendum, può venire in primo piano in modo così marcato, che accanto ad esso l’altro quasi si spegne. Sarebbe facile mostrarlo chiaramente in alcune forme di mistica. Certo, per il nostro sentimento linguistico il predicato sintetico, il tremendum, è connesso così saldamente con il momento del « mysterium », che non appena si nomini l’uno risuona immediatamente anche l’altro. Di per sé « mistero » è già « mistero tremendo ». Ma non è affatto detto che debba esser sempre così. Può anche accadere che l’uno assorba da solo l’intero animo senza che l’altro compaia.* Anche qui, se cerchiamo un’espressione per la reazione dell’animo corrispondente al mirum, troviamo innanzitutto soltanto un nome che indica uno stato d’animo « naturale » ed ha, di nuovo, soltanto un significato analogico : è « stupor », il quale è chiaramente diverso da tremor e significa lo sbalordimento, il « restare ammutoliti », la sorpresa assoluta.** Mysterium, preso in modo puramente naturale, significa innanzitutto « mistero » soltanto nel senso di ciò che in generale è strano, non compreso, né spiegato ; per questo, rispetto a quello che intendiamo noi, lo stesso mysterium è un concetto analogico ricavato dalla sfera del naturale, che ci si offre come denominazione di quello grazie ad una certa analogia che però non esaurisce realmente la cosa. Ciò che è misterioso da un punto di vista religioso è, per esprimerlo nel modo forse più adeguato, il « totalmente altro », ciò che cade assolutamente fuori dalla sfera dell’usuale, del comprensibile, del familiare e perciò del « rassicurante », che anzi si pone in contrapposizione a tutto ciò e per questo riempie l’animo di sbalordimento. Questo si verifica, lo ripetiamo, già allo stadio più basso della prima e primitiva eccitazione del sentimento numinoso. A questo stadio, il tratto specifico non consiste nel fatto che qui si abbia a che fare con « anime », con curiose entità che per circostanze contingenti non si possono vedere, come ritiene l’animismo. Rappresentazioni di anime e concetti simili sono anzi « razionalizzazioni » a posteriori, che tentano di interpretare in qualche modo l’enigma, con l’effetto di attutire e indebolire il vissuto. Da queste non deriva la religione, ma la razionalizzazione della medesima che spesso si risolve in una teoria tanto solida, con interpretazioni tanto plausibili che il mysterium viene decisamente espulso. a Un mito del tutto sistematizzato, così come una scolastica del tutto elaborata, sono irreggimen 

























































a   Di fronte ad un’anima « compresa » non si inorridisce più, come dimostra lo spiritismo. Con ciò l’anima smette di essere rilevante per lo studio della religione.  



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capitolo quinto

tazioni del processo religioso fondamentale, che prima lo appiattiscono e poi lo espellono. L’elemento caratteristico è piuttosto ancora una volta, anche in questo stadio infimo, solo uno specifico momento del sentimento : lo stupor, appunto, di fronte ad un « totalmente altro », che poi questo « altro » lo si chiami spirito, demone, deva o non lo si chiami affatto ; che si producano ex novo costrutti di fantasia per interpretarlo e fissarlo o che si utilizzino come base esseri immaginari che la fantasia fabulatoria ha già prodotto indipendentemente dall’eccitazione del timore demonico. Secondo leggi di cui dovremo ancora parlare, questo sentimento del « totalmente altro » dipenderà o sarà occasionalmente suscitato da oggetti che già di per sé sono enigmatici sotto il profilo « naturale », che hanno un effetto straniante, che colpiscono : fenomeni, processi e cose nella natura, tra gli animali o tra gli uomini, che risultano strane e sorprendenti. Anche qui, però, si tratta dell’associazione tra uno specifico momento di sentimento – quello numinoso – e uno « naturale », e non di una graduale intensificazione di quest’ultimo. Non c’è un passaggio di grado dallo straniamento naturale a quello demonico. E solo in riferimento a quest’ultimo l’espressione « mysterium » risuona nella pienezza del suo significato ; il che si avverte forse ancor più nell’aggettivo « misterioso » che non nel sostantivo « mysterium ». Nessuno può dire seriamente di un orologio del quale non riesce a capire il meccanismo o di una scienza che non comprende : per me è un « mistero ». Si potrebbe forse obiettare : è per noi misterioso ciò che è e resta in assoluto e in ogni caso incomprensibile, mentre ciò che non è al momento ancora compreso, ma che in linea di principio è comprensibile, deve esser definito solo « problematico ». Ma questo non esaurisce la questione. L’oggetto davvero « misterioso » è inafferrabile e incomprensibile non soltanto perché la mia conoscenza in rapporto ad esso ha certi limiti insuperabili, ma perché qui mi imbatto in qualcosa di « totalmente altro » in generale, che per specie ed essenza è incommensurabile con la mia essenza e di fronte al quale perciò mi ritraggo sbalordito. b Lo si può chiarire ulteriormente considerando le propaggini apocrife e le caricature del numinoso, come la paura dei fantasmi. Tentiamo un’analisi dello spettro. Il momento specifico del sentimento di « timore » di fronte ad esso lo abbiamo già definito sopra come quello dell’« orribile » o dell’« orrido ». È evidente che già l’orribile contribuisce all’attrattiva che esercitano le storie di fantasmi : il sollievo e la liberazione che successivamente ne derivano, infatti, provocano nell’animo una confortevole sensazione di piacere. Da questo punto di vista, però, non è propriamente lo spettro stesso ciò che dà piacere, ma il fatto di sbarazzarsene ; il che non è evidentemente sufficiente a spiegarne il fascino accattivante. L’attrattiva vera e propria consiste piuttosto nel fatto che lo spettro esercita di per sé un’attrazione enorme sulla fantasia e risveglia interesse e forte curiosità. È proprio lui, questa cosa insolita, ad allettare la fantasia ; ma non perché sia « qualcosa di lungo e di bianco » – come qualcuno ebbe a definirlo una volta 1 – , o per qualcuno dei predicati concettuali e positivi che la fantasia escogita, ma per il fatto che è una cosa che « in realtà non c’è », qualcosa di « totalmente altro », che non appar 

























































































b   In Conf., 11, 9, 1, Agostino restituisce ottimamente questo momento sbalorditivo del « totalmente altro », di ciò che nel numen è « dissimile » e si contrappone al suo lato razionale che è « simile » : « Quid est illud quod interlucet mihi et percutit cor meum sine laesione ! Et inhorresco, et inardesco. Inhorresco in quantum dissimilis ei sum. Inardesco in quantum similis ei sum » [« Cos’è, che a me traluce e mi colpisce il cuore senza ferirlo ? Inorridisco e ardo : inorridisco in quanto gli sono dissimile ; ardo in quanto gli sono simile »].  























1

  Cfr. il racconto di R. M. Rilke, Teufelsspuk, 1899.







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tiene all’ambito della nostra realtà, ma ad una realtà assolutamente altra, e che suscita nell’animo un interesse irrefrenabile. Il tratto che in questa caricatura è ancora riconoscibile è ben più marcato nel demonico, di cui quello è soltanto una propaggine. Sul piano del demonico questo momento del sentimento numinoso, questo sentimento del « totalmente altro », si intensifica e si chiarisce : qui si mostrano le sue configurazioni più alte, quelle che pongono l’oggetto numinoso in contrapposizione non soltanto a tutto ciò che è familiare e abituale – ossia, in ultima analisi, alla « natura » in genere – rendendolo « soprannaturale », ma che lo oppongono anche al « mondo » stesso, portandolo così all’altezza dell’« oltremondano ». c Definizioni come « soprannaturale » e « oltremondano » sembrano ancora predicati positivi e sembra che, quando li attribuiamo al misterioso, il mysterium dismetta il suo significato inizialmente solo negativo e divenga un’affermazione positiva. Il che è solo un’apparenza dal punto di vista del concetto, perché « soprannaturale » e « oltremondano » sono evidentemente predicati solo negativi che si limitano ad escludere la natura e il mondo ; ma è corretto dal punto di vista del contenuto di sentimento, che è di fatto altamente positivo e, anche qui, non esplicitabile. È per questo che i termini « oltremondano » e « soprannaturale » diventano inavvertitamente definizioni di una peculiare realtà « totalmente altra » e di una qualità della cui specificità sentiamo qualcosa senza poterne dare un’espressione concettualmente chiara.* Un raffronto tra i componimenti poetici che seguono può mostrare la differenza tra una celebrazione solo « razionale » della divinità ed una che dà anche un sentimento dell’irrazionale, del numinoso, secondo i momenti del « tremendum mysterium ». Gellert 2 sa cantare in modo sufficientemente potente e grandioso Die Ehre Gottes aus der Natur [La gloria di Dio nella natura] :  





























































I cieli esaltano la gloria dell’Eterno Il loro suono propaga il suo nome.

Qui tutto è limpido, razionale, familiare fino alla strofa conclusiva inclusa :  

Io sono il tuo Creatore, sono sapienza e bontà, un Dio dell’ordine e la tua salvezza. Sono io ! Amami con tutto il tuo animo E prendi parte alla mia grazia.  

Ma per quanto questo inno sia bello, qui la « gloria di Dio » non è còlta completamente. Manca un momento che si fa subito sentire se confrontiamo quest’inno con quello di E. Lange, di una generazione precedente, Die Majestät Gottes [La maestà di Dio] :  





c   Anche l’epékeina della mistica è la tensione estrema e somma di un momento irrazionale che di per sé è già presente nella religione. Essa porta all’estremo il carattere oppositivo dell’oggetto numinoso in quanto « totalmente altro », perché non si accontenta di contrapporlo a tutto ciò che è naturale e mondano, ma lo contrappone, alla fine, all’« essere » e all’« ente » stessi. Alla fine lo definisce « il nulla » e con ciò non intende soltanto quello cui non spetta alcun predicato, ma quello che è assolutamente e qualitativamente altro e che è contrapposto a tutto ciò che è e può essere pensato. Ma poiché la mistica accresce fino al paradosso la negazione, la contrapposizione, che è l’unica cosa che il concetto si può permettere per cogliere il momento del mysterium, diviene per lei massimamente vivo nel sentimento, e più precisamente nel trasporto, la qualità positiva del totalmente altro.  















2   Christian Fürchtegott Gellert (1715-1769), poeta, scrittore e filosofo, fu autore di favole in versi (Fabeln und Erzählungen, Frankfurt 1762) e inni spirituali (Geistliche Oden und Liedern, Leipzig 1757).

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capitolo quinto Di fronte a Te trema il coro degli angeli, abbassano gli occhi e il viso, tanto terribilmente compari loro innanzi. E di questo risuonano i loro canti. La creatura resta sbalordita di fronte alla Tua presenza di cui l’intero mondo è pieno. E questa manifestazione mostra, o spirito immutabile, un’immagine nella quale Ti nascondi. La Tua lode annunciano in eterno i Cherubini e i Serafini. Di fronte a Te la grigia schiera degli anziani con umiltà, in ginocchio, presta servizio. Perché Tua è la potenza e la gloria, il regno e il santuario, poiché lo sgomento mi lacera. In Te è la maestà, che è sopra a tutto, e ha nome santo, santo, santo. d

Qui c’è qualcosa di più che in Gellert. Eppure anche qui manca ancora qualcosa che invece troviamo nel canto dei Serafini di Is 6. Nonostante il suo « sbalordire » anche Lange riesce a cantare per dieci strofe : gli angeli di Isaia per appena due versi. E mentre Lange dà continuamente del « Tu » a Dio, gli angeli parlano di Jahweh in terza persona. e  









d

  Cfr. A. Bartel, Eine feste Burg ist unser Gott. Deutsch-christliches Dichterbuch, [Halle 1916], p. 274.   In effetti non si può sempre dare del « Tu » all’Altissimo, e forse non si può mai. Santa Teresa dice a Dio « Maestà eterna » e i francesi Gli danno volentieri del « Vous ». e













Capitolo sesto IL FASCINOSUM Tu, che solo dai diletto in modo così essenziale, così puro 1

Q

uesta caratteristica è, da una parte, il momento repulsivo del tremendum, già trattato, unito con la « majestas ». D’altra parte è evidente che è anche qualcosa di sin golarmente attraente, di seducente, di affascinante, che si trova nella curiosa relazione di un’armonia di contrasto con il momento repulsivo del tremendum. Di questa armonia di contrasto, di questo carattere duplice del numinoso dà testimonianza l’intera storia della religione, per lo meno a partire dallo stadio del « timore demonico », e in generale ne costituisce il fenomeno più singolare e notevole. Per quanto il demonicodivino possa apparire orrendo e spaventoso all’animo, comunque è contemporaneamente attraente e allettante. E la creatura, che trema di fronte ad esso nel più umile scoraggiamento, ha sempre contemporaneamente l’impulso a volgersi ad esso, a farlo in qualche modo proprio. Il mysterium non è soltanto il miracoloso, ma anche il meraviglioso. E accanto a ciò che sconcerta i sensi compare anche ciò che li incanta, li entusiasma, li estasia, e che abbastanza spesso si intensifica fino alla vertigine e all’ebbrezza : l’elemento dionisiaco degli efetti del numen. Le rappresentazioni e i concetti razionali che corrono parallelamente a questo momento irrazionale del fascinosum sono : l’amore, la misericordia, la compassione, la disponibilità all’aiuto ; tutti momenti « naturali » della comune esperienza psichica, solo pensati nella loro perfezione. Ma, per quanto importanti siano per l’esperienza vissuta religiosa, questi momenti non la esauriscono affatto. Come l’infelicità religiosa – quale esperienza vissuta dell’ojrghv – ha in sé momenti profondamente irrazionali, così è per il suo contrario. La beatitudine è più, molto più, che una naturale consolazione, fiducia, gioia d’amore, per quanto alto sia il grado di intensità. La « collera », pensata in modo puramente razionale o puramente etico, non esaurisce ancora la profondità di quel tremendo che è racchiuso nel mistero della divinità ; e una « disposizione benevola » (gnädig) non esaurisce ancora la profondità del meraviglioso che si trova nel mistero beatifico di un’esperienza della divinità. Lo si può ben definire con il termine « grazia » (Gnade), purché lo si intenda nel senso più pieno, quello che di fatto applica il linguaggio del mistico per cui esso include la disposizione benevola, ma appunto anche « qualcosa di più ». Gli stadi preliminari di questo « qualcosa di più » si trovano già ad un livello molto basso della storia della religione. È certo possibile, e quasi probabile, che il sentimento religioso nei primi gradi del suo sviluppo sia emerso soltanto con uno dei suoi poli, quello repulsivo, e che all’inizio abbia preso soltanto la figura del timore demonico. Ma se questo non fosse nulla di più, se non fosse un momento di qualcosa di più perfetto che preme per giungere a coscienza, allora non potrebbe derivarne alcun passaggio ai sentimenti di un positivo rivolgersi al numen, ma solo un culto in forma di « ajpaitei`sqai »  









































1

  G. Tersteegen, Abendopfer.



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capitolo sesto

e di apotrevpein, di espiazioni e propiziazioni volte a placare e allontanare la collera. Il timore demonico da solo non spiega il fatto che il numinoso venga cercato, bramato, desiderato : non si desidera qualcosa soltanto per il bisogno naturale dell’aiuto che ci se ne aspetta, ma anche per se stesso ; e non soltanto nelle forme del culto « razionale », ma anche in quelle singolari azioni « sacramentali », nei riti e nei metodi della comunione, in cui l’uomo tenta di appropriarsi del numinoso. Accanto alle forme e alle espressioni normali e facilmente comprensibili dell’agire religioso, come propiziazioni, suppliche, sacrifici, ringraziamenti, ecc., che hanno un posto di primo piano nella storia delle religioni, vi è una serie di fatti singolari, che sempre più attirano l’attenzione e nelle quali si crede di poter riconoscere, oltre che la semplice religione, le radici della « mistica ». Attraverso un insieme di singolari manipolazioni e di mediazioni ricche di fantasia, l’individuo religioso tenta qui di impadronirsi del misterioso stesso, di riempirsene, di identificarsi con esso. Queste manipolazioni si dividono in due classi : quella dell’identificazione magica di sé con il numen mediante un agire magico-cultuale, formule di « consacrazione », scongiuro, benedizione, esorcismo, ecc. ; dall’altra parte ci sono le procedure sciamaniche di « possessione », inabitazione, invasamento nell’esaltazione ed estasi. All’inizio il punto di partenza qui è solo magico e l’intento è soltanto quello di appropriarsi della forza miracolosa del numen per scopi « naturali ». Ma non ci si ferma qui. Il possesso del numen e l’esserne afferrati diventa un fine in sé, cercato per se stesso mobilitando i metodi più raffinati e selvaggi di ascesi. Comincia la « vita religiosa ». E il trattenersi in questi stati singolari, spesso bizzarri, di commozione numinosa diventa un bene in sé, una salvezza che è completamente diversa dai beni profani perseguiti con la magia. Anche qui comincia uno sviluppo che porta alla purificazione e alla maturità dell’esperienza vissuta, e il cui termine è costituito dagli stati sublimi del puro « essere in spirito » e dalla forma più nobile di mistica. E per quanto diversi questi possano essere tra loro, ciò che hanno in comune è che in essi il mysterium viene vissuto secondo la sua qualità, secondo la sua realtà positiva – ossia come qualcosa che rende straordinariamente beati –, ma in modo tale che ciò in cui propriamente questa beatitudine consiste non può esser espresso o reso in concetti, ma può soltanto essere vissuto. Ciò che la « dottrina della salvezza » mostra, quanto a beni promessi che possono essere positivamente indicati, una simile beatitudine li abbraccia e li amalgama tutti, ma non si esaurisce in questi. Compenetrandoli e fondendoli, essa ne fa qualcosa di più di ciò che l’intelletto può comprendere e dire : dà la pace che è al di sopra di ogni ragione.2 La lingua non può che balbettarne. E quella, di lontano, solo in immagini e per analogie, dà di sé un concetto inadeguato e confuso. « Quel che nessun occhio ha visto, né orecchio udito, quel che non è mai arrivato nel cuore di alcun uomo » : 3 chi non sente l’altezza del risuonare di queste parole e il dionisiaco impetuoso che in esse mugghia ? È significativo il fatto che in tali parole, in cui il sentimento vorrebbe dire il suo culmine, tutte le « immagini » recedano : qui l’animo « si allontana dalle immagini » e arriva ad un puro negativo. E ancor più significativo è il fatto che nel leggere e nell’ascoltare tali parole non avvertiamo punto il loro carattere meramente negativo ; il fatto, cioè, che possiamo entusiasmarci o persino inebriarci di intere serie di negazioni simili, e che sono stati composti interi inni capaci di impressio 





























































2

  Cfr. Fil 4, 7.   Cfr. I Cor 2, 9.

3





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narci nel modo più profondo e nei quali propriamente non si dice nulla ! Ciò è significativo perché mostra quanto il contenuto positivo sia indipendente dall’espressione concettuale, quanto vigorosamente possa essere afferrato, quanto approfonditamente « compreso », quanto profondamente apprezzato, solo nel e col sentimento. Il semplice « amore » o la semplice « fiducia », per quanto possano rendere felici, non ci spiegano quel momento di entusiasmo che vibra nei nostri inni più teneri e intimi, soprattutto in quegli struggenti canti escatologici come Jerusalem, du hochgebaute Stadt, o Ich hab’ von ferne, Herr, deinen Thron erblickt, o ancora :  



a













Essere beato, infinita delizia, Abisso del piacere più perfetto, Gloria eterna, sole magnifico, Che mai conosce cambiamento o variazione.

Oppure :  

Chi mai fosse annegato Nel mare originario della divinità, Questi sarebbe liberato Da ogni cruccio, angoscia e dolore.

Qui vive il « di più » del fascinosum. Vive nella tensione estrema propria di quelle esaltazioni del bene della salvezza, che tornano in tutte le religioni soteriche e che ovunque si trovano in un contrasto così singolare con la relativa povertà o col carattere spesso infantile delle immagini e dei concetti che in realtà vengono prospettati. Dappertutto la « salvezza » è qualcosa che dice spesso poco o nulla all’« uomo naturale » e che, al contrario, per come questi la capisce, gli risulta sommamente noiosa e poco interessante, talvolta del tutto contro gusto e natura, come la « visio beatifica » di Dio nella nostra soteriologia o la henosis del « Dio tutto in tutto » nei mistici. « Per come la capisce » : e infatti costui non ne capisce nulla. E poiché questi, senza il maestro interiore, lo spirito, scambia necessariamente per concetti naturali quel che gli viene offerto come espressione di tale salvezza, analogo concettuale e mero ideogramma del sentimento, e poiché è dunque costretto a comprendere anche quella in senso « naturale », egli non fa che allontanarsi dalla meta. Il fascinosum non vive soltanto nel sentimento dell’anelito religioso : è presente già nel momento della « solennità », tanto nella concentrazione e nell’immersione del raccoglimento privato, che innalza l’animo al sacro, quanto in un culto comunitario profondo e praticato con serietà (che da noi, purtroppo, è più un desiderio che una realtà). È ciò che nel solenne può colmare l’anima di pace in modo tanto indicibile. Nella religione cristiana, e forse in tutte le religioni razionalizzate ed eticizzate, vale in effetti di esso, e del sentimento del numinoso in generale, quanto Schleiermacher sostiene nel §5 della Glaubenslehre : da solo non potrebbe mai riempire un momento, cioè non potrebbe realmente aver luogo, senza collegamento e compenetrazione con elementi razionali. Tuttavia, anche se ciò fosse corretto, lo sarebbe per motivi diversi da quelli che adduce  





































a   E. Lange (morto nel 1727), Hymnus auf Gottes Majestät, in A. Bartel, [op. cit.], p. 273 : « O Dio, Tu, profondità senza fondo / come posso conoscerti a sufficienza / Tu, grandiosa altezza, come può la mia bocca / Nominare le tue qualità / Tu sei un mare incomprensibile / Sprofondo nella tua misericordia / Il mio cuore è vuoto di vera saggezza / Stringimi tra le tue braccia / Ho provato a rappresentarti / Per me e anche per gli altri / Però mi accorgo della mia debolezza / Perché tutto ciò che Tu sei / È senza inizio e senza fine / Tutti i miei sensi qui vengono meno ».  





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capitolo sesto

Schleiermacher ; e d’altra parte può presentarsi come più o meno predominante e può portare occasionalmente a stati di « hesychia » o di entusiasmo, nei quali riempie quasi da solo sia il momento, sia l’anima. Che sia nella promessa escatologica di un Regno di Dio che viene o di una beatitudine di un paradiso trascendente, o che sia nella forma di un ingresso individuale nella felicità oltremondana ; che sia nell’attesa e nel pre-sentimento, o già nel vissuto presente (« se solo ho te, non chiedo nulla in cielo e terra » 4) : nelle forme e nelle manifestazioni più diverse agisce l’impulso intimamente unitario e singolarmente potente verso un bene che solo la religione conosce e che è assolutamente irrazionale. L’animo ne sa qualcosa nel presentimento, che ne va in cerca, e lo conosce per simboli ed espressioni oscuri e inadeguati. Questa situazione indica che dietro e sopra il nostro essere razionale si nasconde un elemento ultimo e sommo della nostra natura, che non trova soddisfazione appagando e placando bisogni e appetiti dei nostri istinti sensibili, psichici e spirituali. I mistici lo hanno definito fondo dell’anima. Nel momento del misterioso, il « soprannaturale » e l’« oltremondano » derivavano dal « totalmente altro » ; a questi, in virtù di una tensione somma ed estrema dell’elemento irrazionale della religione, si aggiungeva nella mistica l’« ejpevkeina » : allo stesso modo anche per il momento del fascinosum si ripete la possibilità del passaggio alla mistica. Portandone all’estremo la tensione si arriva al momento mistico del « debordante », che corrisponde su questo piano a ciò che l’ejpevkeina è sull’altro, e che deve esser compreso come analogo di quello. Una traccia del debordante vive però in ogni autentico sentimento di beatitudine religiosa, anche laddove esso sia misurato e controllato. Lo dimostra nel modo più chiaro la psicologia di quelle grandi esperienze nelle quali il vissuto religioso, presentandosi in purezza tipica e attualità suprema, si mostra con una chiarezza più evidente che non nella forma meno tipica di una devozione tranquillamente assimilata con l’educazione : mi riferisco alle esperienze della « grazia », della « conversione », della « rinascita ». Nelle forme specificamente cristiane di questa esperienza vissuta l’aspetto centrale è costituito dalla redenzione dalla colpa e dalla schiavitù del « peccato ». Già questa redenzione, come vedremo in seguito, non può realizzarsi senza risvolti irrazionali. Ma è necessario richiamare sin d’ora l’attenzione sul fatto che non si può dire ciò che propriamente si è vissuto in tali esperienze, sul senso di beatitudine, sul non riuscire ad abbandonarsi, sullo stato di esaltazione, che sfiora l’anormalità e la stravaganza, in cui questa esperienza vissuta può trapassare. (Per quanto tutto questo possa risultare fatale al tentativo di costruirsi una « religione nei limiti della sola ragione » o una « religione dell’umanità », tuttavia, se ci si interroga dal punto di vista psicologico sulla religione non quale essa è all’interno di limiti tracciati preliminarmente, ma nella sua propria essenza, le cose stanno come abbiamo descritto. Tra l’altro questo procedimento di costruire un’« umanità » preliminarmente e a prescindere dalla facoltà centrale e più potente dello homo, equivale a quello di formarsi un concetto normativo del corpo dopo avergli mozzato la testa.) Son prova di ciò le testimonianze e le biografie di tutti i « convertiti », a cominciare da Paolo. James ne ha raccolte una gran quantità senza prestare attenzione all’« irrazionale » che in esse vibra :  













































































In quel momento non sentivo altro che una gioia e una delizia inesprimibili. È impossibile descrivere completamente l’esperienza. Era come l’effetto che fa una grande orchestra quando i 4

  Cfr. Sal 73, 25.

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singoli suoni si fondono in un’armonia che nell’ascoltatore risveglia soltanto questo sentimento : la sua anima viene portata in alto e quasi esplode di entusiasmo ([op. cit.], p. 55).  

E un altro :  

Ma più cerco le parole per illustrare l’intimità di questa relazione, più vedo chiaramente l’impossibilità di descrivere il vissuto secondo le nostre immagini consuete (p. 55).

Un terzo indica con precisione quasi dogmatica l’elemento qualitativamente altro della beatitudine rispetto ad una gioia « razionale » :  





Le rappresentazioni che i convertiti si fanno della bontà di Dio e la gioia che ne hanno sono qualcosa di completamente peculiare e di interamente diverso da tutto ciò che un uomo normale può possedere o anche solo rappresentarsi (p. 185). b

Gli atti che incontriamo nel cristianesimo come esperienze del vissuto di grazia e di rinascita hanno i loro analoghi fuori di questo nelle religioni spirituali superiori, come l’irruzione della bodhi salvifica, lo schiudersi dell’« occhio celeste », il jñāna, 5 che in un vissuto incommensurabile illumina e vince l’oscurità del non sapere, o il prasāda 6 di Īśvara. 7 c E anche qui è sempre immediatamente riconoscibile l’elemento interamente irrazionale e del tutto specifico della beatitudine. Nella sua qualità è sommamente e del tutto diverso da quanto viene vissuto nel cristianesimo ; ma è ovunque abbastanza simile quanto ad intensità, ovunque è un fascinosum assoluto, ovunque è una « salvezza », che rispetto a tutto ciò che è dicibile o paragonabile sul piano « naturale » è il « debordante » o ne ha in sé chiare tracce. Tutto questo vale anche del nirvān≥a e delle sue delizie, che solo apparentemente sono fredde o negative. Solo dal punto di vista del concetto il nirvān≥a è un negativum ; da quello del sentimento è un positivum della forma più forte e un fascinans che può anche portare i suoi devoti al fanatismo. Ho un ricordo molto vivo di una conversazione con un monaco buddhista che con accanita consequenzialità mi aveva sciorinato argomenti e negazioni della sua dottrina dell’anātmaka e della vacuità universale. Arrivato alla fine, alla questione di cosa sia il nirvān≥a, dopo lunga esitazione diede, sommessa e ritenuta, quest’unica risposta : « Bliss – unspeakable » 8. E nel suo esser sommessa e ritenuta, nella solennità della voce, dell’espressione e dei gesti, più che nelle parole, si fece chiaro quel che intendeva. Affermiamo dunque – per via eminentiae et causalitatis – che il divino è la realtà somma, la più forte, la migliore, la più bella, la più degna d’amore che un uomo possa pensare. Ma anche per via negationis diciamo che egli non è soltanto il fondamento e il superlativo di tutto ciò che è pensabile : in se stesso, Dio è anche una cosa a sé.  



























b   Cfr. anche le pp. 57, 154, 182 ; nonché la testimonianza di J. Böhme a p. 328 : « Che sorta di tripudio sia stato nello spirito, non posso scriverlo, né parlarne. Non può esser paragonato a null’altro che al sorgere della vita dal mezzo della morte ; è paragonabile alla resurrezione dai morti ». Nei mistici questi vissuti si intensificano fino a raggiungere pienamente il debordante : « Oh, se potessi dirvi quel che sente il cuore, come interiormente brucia e si consuma. Solo che non trovo parole per esprimerlo. Sappiate soltanto che se una sola goccia di ciò che sento cadesse nell’inferno, l’inferno si trasformerebbe in paradiso » ; così dice Caterina da Genova, e qualcosa di simile dice e testimonia l’intera serie di coloro che le sono spiritualmente affini. c   Vedi Dipika des Sri-Nivasa. Eine indische Heilslehre, tradotto dal sanscrito da R. Otto, [Tübingen, Mohr, 1916,] p. 51.  















5

  « Conoscenza » ; cfr. infra, Mistica orientale e mistica occidentale.   « Grazia ». 7   « Il Signore ». 8   « Beatitudine – inesprimibile ». 6





















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capitolo sesto

Un termine particolarmente difficile da tradurre, un concetto difficile da afferrare, con una singolare varietà di aspetti, è il greco « deinov~ ». Donde derivano difficoltà e inafferrabilità ? Dal fatto che non è altro che il numinoso, certo per lo più ad un livello inferiore, retoricamente e poeticamente diluito e in forma « depotenziata ». Per questo è dirus e tremendus, malvagio e impressionante, possente e straordinario, strano e mirabile, orrendo e affascinante, divino e demonico ed energico. Sofocle vuol destare un sentimento di timore numinoso in tutti i suoi momenti di fronte a quell’« essere meraviglioso » che è l’uomo nel canto del coro :  















polla; ta; deina;, koujde;n ajnqrwvpou deinovteron pevlei 9

Questo verso è per noi intraducibile proprio perché alla nostra lingua manca la parola che determina, isola e indica in modo esauriente l’impressione numinosa di una cosa. 10* 9

  Eschilo, Antigone, vv. 332-333.   Questo passo conclusivo del capitolo vi (« Un termine [...] esauriente ») costituirà nell’ultima edizione l’incipit di un capitolo vii, aggiunto ex novo, con il titolo : Immane (Momenti del numinoso v) ; capitolo la cui prosecuzione riportiamo nell’Appendice. 10









Capitolo settimo ANALOGIE

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er render conto di questo secondo aspetto del numinoso, quello attraente, abbiamo dovuto aggiungere al carattere suddetto di « mysterium tremendum » quello di assoluto fascinosum : in questo suo essere infinitamente tremendo e insieme infinitamente meraviglioso il mysterium trova quel suo specifico contenuto positivo che si rivela al sentimento. Questa armonia di contrasto nella qualità e nel contenuto del mysterium, che tentiamo di descrivere senza riuscirci, può essere indicata mediante un’analogia tratta da un ambito che non appartiene alla religione, ma all’estetica, sebbene questo corrispettivo sia soltanto un pallido riflesso della nostra cosa, per giunta difficilmente analizzabile : la categoria e il sentimento del sublime. Spesso e volentieri si riempie il concetto negativo di « oltremondano » con questo contenuto di sentimento molto familiare e si spiega anche l’oltremondanità di Dio con la sua « sublimità » ; il che è legittimo se si tratta di un tropus, di una denominazione analogica. Ma sarebbe un errore prenderla sul serio e intenderla in senso letterale. I sentimenti religiosi non sono estetici. Insieme al bello, e per quanto diverso da questo, il « sublime » appartiene ancora all’estetica. Le analogie di sentimento tra il numinoso e il sublime possono essere chiarite facilmente. Primo : anche il « sublime », per dirla con Kant, è un « concetto inanalizzabile ». 1 Si potrebbero, certo, raccogliere alcune note « razionali » generali, che tornano sempre non appena definiamo un oggetto « sublime » : per esempio che è « dinamico » o « matematico », che si avvicina ai limiti della nostra capacità di apprensione e che minaccia di superarli con poderose espressioni di forza o per la sua grandezza spaziale. Ma questa, evidentemente, è soltanto una condizione e non l’essenza dell’impressione : qualcosa che è solo grande, non è ancora sublime. Il concetto stesso resta inesplicato e ha in sé un che di misterioso : cosa che ha in comune con il numinoso. A questo si aggiunge, in secondo luogo, che anche nel sublime vi è quella peculiare duplicità per cui è un’impressione che innanzitutto respinge, ma che contemporaneamente esercita sull’animo un’enorme attrazione. Umilia e insieme esalta ; limita l’animo e lo porta al di là di sé ; provoca un sentimento che è analogo alla paura e che d’altra parte rende felici. Per questo è molto simile al concetto di numinoso ed è capace di « suscitarlo » e di esserne suscitato, di « trapassare » in quello o di far sì che quello trapassi in lui e in lui risuoni.  

































































Legge di associazione dei sentimenti Esaminiamo subito più precisamente queste espressioni, « suscitare » e « trapassare », poiché saranno ancora importanti per noi in seguito, e poiché la seconda, in particolare, è esposta a fraintendimenti assai persistenti nel moderno evoluzionismo, i quali gli rendono possibili le sue false teorie. È una nota legge fondamentale della psicologia che le rappresentazioni si « attraggono », che l’una suscita l’altra e, se le è simile, la lascia venire alla coscienza. a Per i sentimenti vale una legge molto simile. Anche un sentimento  





a

  Cfr. Dipika, [cit.,] p. 8.

1

  Cfr. KFR, supra, nota 1, p. 120. e infra, p. 288.







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capitolo settimo

può portare a risonanza un sentimento simile e far sì che io provi contemporaneamente l’uno e l’altro. Come là, per la legge di attrazione per simiglianza, si arriva allo scambio di rappresentazioni, in modo tale che ho la rappresentazione X mentre al suo posto dovrebbe esserci la Y, così qui si può arrivare allo scambio di sentimenti : posso reagire con il sentimento X ad un’impressione cui normalmente corrisponderebbe il sentimento Y. Io posso infine trapassare da un sentimento all’altro, con un passaggio graduale e innavvertito, quando il sentimento X progressivamente si smorza, nella misura esatta in cui il sentimento suscitato Y cresce e si intensifica. In verità ciò che qui « trapassa » non è il sentimento : non è questo, in verità, che gradualmente altera la sua qualità o si « sviluppa », che cioè si tramuta in qualcosa di totalmente altro. Sono io che trapasso da un sentimento ad un altro, attraverso il graduale scemare dell’uno e intensificarsi dell’altro. Il « trapassare » di un sentimento in un altro sarebbe una reale « trasmutazione », come quella del metallo in oro : sarebbe un’alchimia psicologica. Una simile trasmutazione è assunta dall’evoluzionismo moderno – il quale dunque dovrebbe essere chiamato trasformismo – che la introduce con il termine ambiguo di « sviluppo graduale » (da una qualità ad un’altra) o con altri, altrettanto ambigui, come « epigenesi », « eterogonia » b e simili. In questo modo dovrebbe « svilupparsi », per esempio, il sentimento del dovere morale. In prima battuta sarebbe presente – si dice – la semplice forza dell’uniformità e della consuetudinarietà dell’agire, come accade nella comunità del clan. Da qui « nascerebbe » l’idea dell’universale obbligatorietà del dovere. Come l’idea ci riesca, non viene detto. Non si capisce che qui si tratta di qualcosa di completamente diverso, sotto il profilo qualitativo, dalla costrizione dell’abitudine. Si trascura grossolanamente l’analisi psichica più fine, più penetrante e capace di cogliere differenze qualitative, e così non si capisce il problema. Oppure il problema viene sentito, ma poi lo si ricopre con lo « sviluppo graduale », che fa sì che una cosa diventi un’altra « par la durée », così come il latte dopo un certo periodo diventa acido. Il « dovere » è però un contenuto rappresentativo primario e specifico che si lascia derivare da altro tanto poco, quanto l’azzurro dall’acido. E come non vi sono « trasmutazioni » nell’ambito corporeo, così non ve ne sono in quello psichico. Solo a partire dallo spirito umano l’idea del dovere può « svilupparsi », ossia essere destata, perché è predisposta in esso. Se non lo fosse, nessuno « sviluppo » potrebbe portarcela. Può essere che la ricostruzione, che gli evoluzionisti propongono, del processo storico come graduale presentarsi, l’uno dopo l’altro, di diversi momenti di sentimento in successione storica sia completamente corretta. Solo che si spiega in modo totalmente altro, ossia secondo la legge del suscitare e destare sentimenti e rappresentazioni secondo il criterio della loro simiglianza. Tra la costrizione imposta dal costume e quella imposta dal dovere c’è una forte analogia : entrambe sono, appunto, costrizioni pratiche. Il sentimento della prima può quindi destare nell’animo il sentimento della seconda, se però l’animo stesso è predisposto. Allora può risuonare il sentimento del « dovere » e l’uomo può passare da quello a questo. Si tratta di una sostituzione dell’uno da parte dell’altro, ma non di una trasmutazione dell’uno nell’altro. Ciò che è vero del sentimento dell’obbligatorietà morale, lo è anche del sentimento del numinoso, che non è derivabile, né può « svilupparsi », da un altro sentimento, ma è  











































































b   Né l’eterogonia, né l’epigenesi rappresentano una vera e propria evoluzione. Sono esattamente ciò che in biologia si chiama generatio aequivoca, ossia una mera formazione aggregativa per addizione e accumulazione.

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un contenuto di sentimento qualitativamente specifico che però contemporaneamente ha numerose analogie con altri : per questo può « suscitarli » o occasionarne la comparsa, o può esser portato da questi a comparire. Rintracciare queste cause occasionali e questi « stimoli », chiarire attraverso quali analogie possono provocarlo, scoprire quindi la catena degli stimoli sotto il cui effetto si è destato il sentimento numinoso, tutto questo deve prendere il posto delle ricostruzioni epigenetiche (o simili) del processo di evoluzione della religione. Anche il sentimento del sublime è spesso uno stimolo, secondo la legge che abbiamo trovato e mediante le analogie che ha con quello. Ma senza dubbio compare solo tardi nella serie degli stimoli e probabilmente il sentimento religioso, che lo precede, lo ha destato e generato : generato non da se stesso, ma dallo spirito razionale e dalla sua facoltà a priori.  











Schematizzazione L’« associazione di idee » (Ideenassoziation) – o, con termini tedeschi, la concomitanza di rappresentazioni (Gesellung von Vorstellungen) – non dà soltanto luogo all’occasionale manifestarsi concomitante della rappresentazione Y quando è data la rappresentazione X, ma, in certe circostanze, fonda anche collegamenti duraturi e combinazioni stabili tra le due. Non è diverso il caso dell’associazione di sentimenti. Vediamo, infatti, che anche il sentimento religioso si trova in collegamenti permanenti con altri sentimenti che gli sono congiunti secondo tale legge : più congiunti che realmente legati. Da questo collegamento casuale secondo leggi di semplice analogia esterna, si distinguono i collegamenti necessari secondo principi di un’interna e legittima affinità e appartenenza. Uno di questi, cioè un collegamento secondo un principio interno a priori, è notoriamente, nella teoria kantiana, quello della categoria della causalità con il suo schema temporale, ossia con la successione temporale di due eventi, che in virtù di quella categoria viene riconosciuta come un rapporto causale tra i due. L’analogia tra i due ha luogo anche qui tra categoria e schema : non è però una somiglianza esteriore e casuale, ma una corrispondenza essenziale, e la coappartenenza è una necessità razionale. Sul fondamento di quest’ultima, la successione temporale « schematizza » la categoria. Ora, un simile rapporto di « schematizzazione » è anche quello tra il razionale e l’irrazionale nell’idea del sacro. Il numinoso-irrazionale, schematizzato mediante il concetto razionale che abbiamo indicato sopra, ci offre la categoria complessa del sacro perfetta e completa, nel suo senso più pieno. L’autentica schematizzazione si distingue dalla mera combinazione analogica per il fatto che non si disgrega, né si scinde, con lo sviluppo e l’elevazione del sentimento della verità religiosa, ma viene anzi riconosciuta in modo più saldo e determinato. Per questo motivo è probabile che anche la combinazione del sacro con il sublime sia qualcosa di più che una mera associazione di sentimenti e che quest’ultima sia stata forse soltanto l’occasione prima del suo destarsi storicogenetico. Il collegamento interno e permanente tra i due in tutte le religioni superiori indica che anche il sublime è un autentico « schema » del sacro stesso. L’intima compenetrazione tra i momenti razionali del sentimento religioso e una trama fortemente irrazionale può essere chiarita con un altro caso, che ci è ben noto, di compenetrazione con un momento altrettanto e del tutto « irrazionale ». Nei confronti della ratio, però, esso si trova sul lato esattamente opposto rispetto al numinoso : mentre  

























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capitolo settimo

questo è « al di sopra di ogni ragione », 2 quello è al di sotto, è cioè un momento della vita istintuale ; mentre il numinoso si cala da sopra nel razionale, l’impulso sessuale penetra – in modo sano e naturale – nel livello superiore dell’umano dal basso, dall’universale natura animale dell’essere umano. Così i due termini del paragone, che sono assolutamente estremi, sono però confrontabili nel rapporto di connessione con ciò che è nel mezzo tra loro. Questo altro termine del paragone è l’impulso alla riproduzione. Quando penetra dalla vita pulsionale nella vita superiore dell’animo e del sentimento, e dà la sua trama al desiderio, all’appetito, alla brama, all’inclinazione, all’amicizia, all’amore, alla lirica, alla poesia e ai prodotti della fantasia in genere, è solo allora che sorge l’ambito del tutto specifico dell’erotico. Ciò che gli appartiene è sempre un composto di qualcosa che compare in genere anche nell’ambito universale dell’umano (come come l’amicizia, l’inclinazione, il sentimento di socievolezza o la tonalità emotiva poetica, l’elevazione nella gioia) e di una trama di specie del tutto propria, che non è del medesimo ordine di quei sentimenti e che non viene avvertita, notata, compresa da chi non riceva interiormente l’insegnamento da amor stesso. E vi è un’altra analogia : i mezzi espressivi linguistici dell’erotismo sono in massima parte semplicemente termini tratti dal resto della vita dell’animo, i quali perdono la loro « innocenza » solo se già si sa che è appunto l’amante a parlare, poetare o cantare, e che, anche qui, il vero e proprio mezzo espressivo non è tanto la parola stessa quanto ciò che nell’esprimersi le viene in aiuto, come il suono, il gesto, la mimica. Che lo dica un bimbo di suo padre o una fanciulla dell’innamorato, proposizione e parole sono esattamente le stesse : « mi ama » ; ma nel secondo caso si intende un amore che è « qualcosa di più » e non soltanto riguardo alla quantità, ma anche alla qualità. Che lo si dica del figlio rispetto al padre o dell’uomo rispetto a Dio, proposizione e parole sono le stesse : « dobbiamo temerlo, amarlo, fidarcene » ; ma nel secondo caso vi è una trama nei concetti, che solo chi è devoto avverte, comprende e nota : una trama per cui il timore di Dio è e resta il più autentico timore reverenziale del bambino, ma anche « qualcosa di più », e non solo secondo la qualità, ma anche secondo la quantità. È questo che intende Seuse dell’amore e insieme dell’amore di Dio, quando dice :  







































Mai corda fu tanto soave : quando la si tende su un legno secco, non dà più suono. Un cuore senza amore può comprendere il linguaggio amoroso tanto poco, quanto poco un tedesco comprende uno straniero. c *  

c

  Deutsche Werke [sc. : Schriften], a cura di [H. S.] Denifle [München 1876], p. 309 e s.  

2

  Fil 4, 7.

Capitolo ottavo IL SANCTUM COME VALORE NUMINOSO. COPRIMENTO, ESPIAZIONE

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i siamo imbattuti sopra in quella reazione, insolita e profonda, del numinoso nell’animo, che abbiamo definito « sentimento di creaturalità » e che è accompagnata dai sentimenti dello sprofondare, dell’abbassarsi e dell’annichilirsi ; tenendo sempre conto del fatto che queste espressioni come tali non colgono ciò che realmente intendono, ma vi accennano semplicemente. a Questo abbassamento e questo annichilimento, infatti, sono totalmente altri rispetto a quelli propri di un uomo consapevole della propria pochezza, debolezza o dipendenza. In ogni caso, qui si è potuto osservare il tratto caratteristico di una determinata svalutazione di se stessi rispetto, per dir così, alla propria realtà, alla propria stessa esistenza. A questa svalutazione se ne affianca un’altra, che basta indicare perché nota da tempo e universalmente :  







Sono di labbra impure e [vengo] da un popolo impuro 1 Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore, 2

dicono Isaia e Pietro quando il numinoso si fa loro incontro e si fa sentire. In entrambi è caratteristica la spontaneità immediata, quasi d’istinto, di questa reazione di sentimento della autosvalutazione, che balena, per dir così, come un moto riflesso e immediato dell’anima di fronte al numinoso e non in seguito ad una ponderazione o all’applicazione di una regola. Oggi è universalmente riconosciuto che questi impeti di sentimento così immediati, che non scaturiscono soltanto da un’introspezione relativa alle trasgressioni commesse, ma sono dati immediatamente con il sentimento del numen, e che di fronte al numinoso svalutano sé e il proprio « popolo », e in realtà tutta l’esistenza in generale, non sono semplicemente, e probabilmente non sono innanzitutto, svalutazioni morali, ma appartengono ad una categoria di valutazione del tutto specifica. Certamente non si tratta della trasgressione della « legge morale », per quanto, ovviamente, laddove tale trasgressione sia presente, vi è inclusa. È il sentimento di una assoluta profanità. Ma questo sentimento, a sua volta, cos’è ? L’uomo « naturale » non può saperlo, né può riprodurlo in sé. Lo sa e lo sente solo chi è « in quello spirito », e lo sente con un’acutezza che lo trafigge e con il sentimento della più severa autosvalutazione. Questi la riferisce a sé considerando non soltanto le sue azioni, ma la sua intera esistenza, in quanto creatura di fronte a ciò che è sopra ogni creatura e che egli valuta, nello stesso momento, con la categoria di un valore completamente peculiare ; un valore che è l’esatto opposto dello specifico disvalore del « profano » e che pertiene al numen e a lui soltanto : « Tu solus sanctus ». Questo « sanctus » non è « perfetto », « bello », « sublime » e nemmeno « buono ».  

















































a   « Sumpta sunt vocabula ut intelligi aliquatenus posset quod comprehendi non poterat », dice Ugo da San Vittore [De sacramentis christianae fidei, iii, 31].  

1

  Is 6, 5.   Lc 5, 8.

2



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capitolo ottavo

D’altra parte mostra un’analogia chiaramente avvertibile con tali concetti : anch’esso è un valore, un valore oggettivo, un valore assolutamente insuperabile. È il valore numinoso, al quale corrisponde, dal lato della creatura, un disvalore numinoso. Non vi è religiosità che abbia raggiunto un superiore grado di sviluppo, nella quale non si sia sviluppata contemporaneamente anche un’obbligazione morale che vale come un comando della divinità. Ma vi può essere un riconoscimento profondamente umile del sanctum, anche senza che quest’ultimo sia sempre o necessariamente riempito di comandi morali : come qualcosa che esige rispetto e che va riconosciuto come un reale valore. Non che questo timore della sanctitas sia solo « paura » di fronte all’assolutamente ultrapossente, rispetto al quale non vi sarebbe altro che un’obbedienza timorosa e cieca. « Tu solus sanctus » è una esaltazione che non solo confessa balbettando l’ultrapotenza, ma che contemporaneamente vuole riconoscere ed esaltare un valore che è oltre tutti i concetti. Ciò che è così esaltato non è soltanto l’assolutamente potente, che avanza le sue pretese e costringe, ma è ciò che contemporaneamente ha sommo diritto alla pretesa somma che gli si renda culto, che lo si esalti perché è assolutamente degno di esserlo. « Tu sei degno di gloria, onore e potenza ». 3 Quando si capisce che qādôsh o sanctus all’origine non sono categorie morali, le si traduce senz’altro con « oltremondano ». Abbiamo già criticato l’unilateralità di questa traduzione e l’abbiamo completata con una più distesa presentazione del numinoso. Il suo difetto più essenziale è che l’« oltremondanità » è un predicato puramente « ontologico » e non di valore : essa può indurre ad inchinarsi per necessità, ma non ad un rispetto convinto. Per sottolineare questo lato del numinoso sarebbe utile introdurre un altro termine specifico e qui ci si offrono augustus e semnov~. Infatti augustus, tanto quanto sebastov~, pertiene propriamente soltanto ad oggetti numinosi : come i sovrani in quanto nati dagli dèi o affini ad essi. Mentre sebastov~ indica più l’essenza numinosa, semnov~ = augustus si indirizzerebbe più al valore numinoso, all’essere « egregio », « illustre ». Il fascinosum, allora, è qualcosa nel numen mediante cui questo ha un valore soggettivo, cioè beatifico per me. Esso è invece augustum, in quanto è un valore oggettivo da rispettare in se stesso.* Solo quando il carattere del disvalore numinoso si trasferisce alla mancanza morale e vi si insedia, solo allora la mera « illegalità » diviene « peccato », diviene « empietà » e « sacrilegio ». E solo quando essa è divenuta per l’animo « peccato » guadagna quella spaventosa gravità per la coscienza, che diventa per questa catastrofe e avvilimento circa le proprie forze. L’uomo « naturale » e quello soltanto morale non comprendono cos’è il « peccato ». La costruzione dogmatica per cui il comando morale come tale spingerebbe l’uomo al « crollo » e lo costringerebbe a ricercare la redenzione è evidentemente errata. Vi sono uomini moralmente serissimi, che si impegnano a dovere e che non comprendono affatto quest’idea, ma la rifiutano con un’alzata di spalle. Conoscono i loro errori e le loro mancanze, ma conoscono e mettono in pratica i mezzi dell’autodisciplina, procedendo per la loro strada con coraggio e vigore. Al vecchio razionalismo moralista non mancava né il rispetto o il sincero riconoscimento della legge morale, né l’onesto sforzo di conformarsi ad essa. Sapeva cosa è « ingiusto » e lo riprovava severamente, educando con prediche e insegnamenti a riconoscerlo e a prenderlo sul serio. Ma non si imbatteva mai nel « crollo » o nel « bisogno di redenzione » perché, come gli  



















































  Ap 4, 11.

















3

















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rimproveravano i suoi oppositori, gli mancava la comprensione di cos’è il « peccato ». b Su base soltanto morale non cresce né il bisogno di « redenzione », né quello di un altro bene particolare che, a sua volta, ha anch’esso un carattere totalmente e specificamente numinoso : il bisogno di « coprimento » e di « purificazione ».* Vi sarebbero assai meno controversie sulla legittimità e sulla validità di entrambe le cose nella dottrina cristiana della fede, se la dogmatica stessa non le avesse tolte dalla loro sfera mistica per trascinarle in quella etico-razionale, riducendole a concetti morali. Esse sono tanto autentiche e necessarie nel primo ambito, quanto apocrife nel secondo. Il momento del « coprimento » ci si fa incontro con particolare chiarezza nella religione di Jahweh, nei suoi riti e sentimenti, ma è contenuto in modo più oscuro anche in molte altre religioni. In esso vi è innanzitutto un’espressione del « timore », il sentimento del fatto che il profano non può senz’altro avvicinarsi al numen, il bisogno di avere una copertura o un’armatura di fronte alla sua « ojrghv ». Tale « copertura » è allora una « consacrazione », ossia un procedimento che rende per un momento « numinoso » colui che si avvicina, lo sottrae all’essenza profana e lo rende adeguato ad una relazione con il numen. I mezzi della consacrazione sono « mezzi della grazia » in senso vero e proprio : sono conferiti, derivati o istituiti dallo stesso numen. Questi conferisce qualcosa della propria natura, per rendere capaci di entrare in relazione con lui : un atto che è molto diverso dalla « cancellazione della diffidenza », secondo la razionalizzazione della situazione tentata da Ritschl. Anche la « purificazione » è un « coprimento », ma in una forma più profonda. Essa nasce soltanto dall’idea appena esaminata del valore e del disvalore numinosi. Il mero « timore », il mero bisogno di coprirsi di fronte al tremendum si eleva qui al sentimento del fatto che il profano non è degno di stare in prossimità del sacro, che il proprio completo disvalore « contaminerebbe » il sacro stesso. È evidentemente così nella visione della vocazione di Isaia. Si tratta di un sentimento che ritorna, attenuato ma completamente riconoscibile, nel racconto del centurione di Cafarnao, che dice :  







































































Io non son degno che tu entri sotto il mio tetto. 4 Qui ci sono entrambe le cose : sia il tremito sommesso del timore di fronte all’aspetto tremendum del numinoso, sia – e ancor più – il sentimento di quel peculiare disvalore che il profano sente in presenza del numen e con il quale crede di macchiare o danneggiare quest’ultimo. Qui si fa avanti la necessità e il desiderio di « purificazione », tanto più forte quanto più si ama e si brama come un bene, come il sommo bene, la vicinanza, l’interazione e il possesso duraturo del numen ; quanto più si desidera il superamento del disvalore che ce ne separa e che è dato con l’esistenza stessa della creatura e dell’essere naturale e profano. Questo momento non decresce a misura che il sentimento religioso si approfondisce e la religione perviene al suo grado sommo : al contrario, si fa sempre più  









b

  Cfr. la testimonianza di un animo non certo rozzo quale quello di Theodor Parker (in James, Rel. Erf., [cit.,] p. 66) : « Nella mia vita ho commesso molte ingiustizie e continuo a farlo ancor oggi. Se manco il bersaglio ci riprovo.... Essi (i classici antichi) erano consapevoli dell’ira, dell’intemperanza e degli altri loro vizi ; li combattevano e riuscivano a vincerli. Ma non conoscevano l’“inimicizia con Dio” e non se ne stavano con le mani in mano a sospirare e a lamentarsi di un male inesistente ». Un’affermazione del genere non è rozza, ma certo superficiale. Debbono esser scosse le profondità dell’irrazionale per scoprire con Anselmo « quanti ponderis sit peccatum » [Cfr. Anselmo, Cur Deus homo, i, xxi].  











4

  Cfr. Mt 8, 8 ; Lc 7, 6.  

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forte e caratteristico. Poiché appartiene integralmente al lato irrazionale della religione, può divenire latente là dove deve dispiegarsi in modo energico e prendere forma innanzitutto il lato razionale ; può, a maggior ragione, recedere dietro altri momenti e attenuarsi, ma solo per poi ripresentarsi più potente e impellente di prima. Allora 5 può divenire l’interesse unilaterale che esclude ogni altro interesse, può coprire col suo grido ogni altro suono, con ciò deformando e sfigurando il sentimento religioso : e lo farà facilmente là dove per periodi piuttosto lunghi il lato razionale della religione era stato coltivato unilateralmente e a scapito di quello irrazionale. Questo bisogno di purificazione, e il suo peculiare carattere di sentimento, può esser precisato con un’analogia tratta dalla vita di sentimento « naturale ». Poiché, però, intervengono frequenti confusioni è in pari tempo importante distinguerlo chiaramente da questa analogia, che, appunto, è soltanto un’analogia. Nell’ambito della mancanza etica esercitiamo una chiara svalutazione, che ci è ben comprensibile e familiare, quando valutiamo noi stessi colpevoli di una cattiva azione e valutiamo l’azione come cattiva. Il carattere cattivo dell’azione ci opprime, ci toglie il rispetto nei confronti di noi stessi. Ci accusiamo e interviene il pentimento. Accanto a questa svalutazione, però, ve n’è una seconda che può indirizzarsi alla medesima azione e che tuttavia impiega categorie modulate in modo totalmente altro. Quella stessa azione sbagliata ci macchia. Qui non ci accusiamo, ma ci sentiamo sporchi. E la forma caratteristica di reazione da parte dell’animo non è il pentimento, ma il disgusto. Interviene un bisogno che per esprimersi utilizza le immagini del lavare. La prima e la seconda svalutazione procedono parallelamente, possono riferirsi alla medesima azione, ma sono modulate evidentemente in modo che è intimamente ed essenzialmente diverso. Il secondo tipo ha una chiara analogia con il bisogno di « purificazione » e può esser dunque utilizzato nell’esame di quella. In pari tempo è però, appunto, soltanto un’analogia tratta da un’altra sfera. In nessuna religione il mysterium del bisogno di espiazione è stato espresso in modo così completo, approfondito ed efficace come nel cristianesimo, che anche qui mostra la sua superiorità rispetto ad altre forme di devozione. Il cristianesimo è religione perfetta ed è più perfetta delle altre, in quanto ciò che nella religione in generale è una predisposizione è divenuto in esso « actus purus ». La diffidenza largamente dominante nei confronti di questo suo mysterium si spiega con l’abitudine a tener conto soltanto del lato razionale della religione : un’abitudine di cui è colpevole la nostra attività teoretica, omiletica, cultuale e catechetica. Ma la dottrina della fede cristiana non può rinunciare a questo momento, se vuole rappresentare una religiosità cristiana e biblica. Dovrà chiarire, attraverso un’analisi del vissuto di sentimento della devozione cristiana, come qui sia il « numen assoluto » a farsi mezzo di purificazione, comunicando se stesso. È chiaro, infatti, che in questo contesto si sviluppano necessariamente da sé relativi momenti di sentimento e peculiari idee ed intuizioni di fede, il cui diritto pretende di esser riconosciuto. Di fronte a queste non conta poi molto che gli esegeti stabiliscano se e che cosa Pietro, Paolo o lo Pseudo-Pietro abbiano scritto sull’espiazione e sulla purificazione, o se in generale la cosa « stia scritta » o no. Se anche non stesse scritta, potrebbe esser scritta oggi : ma sarebbe allora, di nuovo, sorprendente che non lo sia stata per così lungo tempo. Il Dio del Nuovo Testamento non è meno, ma più santo (heilig) di quello del Vecchio ; la distanza della creatura da Lui non è minore, ma assoluta ; il  





























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to.



  Nell’edizione Beck, l’intero passo da « allora » a « sfera » (conclusione del capoverso successivo) è espun 







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disvalore del profano di fronte a Lui non è attenuato, ma intensificato. Che il Santo (der Heilige) si renda avvicinabile non è un’ovvietà, come crede il commosso ottimismo tipico della tonalità emotiva del « Buon Dio », ma una grazia incomprensibile, un immane paradosso. Privare il cristianesimo di questo paradosso significa appiattirlo fino a renderlo irriconoscibile. Si vede allora che l’intuizione e il bisogno di « coprimento » e « propiziazione » sono quanto mai immediati. E i mezzi di autorivelazione istituiti da Dio, quando siano vissuti e degnamente riconosciuti come tali, la « parola », lo « spirito », la « promissio », la « persona Christi » stessa, diventano ciò verso cui si fugge, presso cui si trova rifugio, cui ci si « appiglia », per accostarsi, consacrati e deprofanizzati per mezzo di essi, al sacro stesso. La diffidenza nei confronti di queste cose nasce per due motivi. Il primo è che si moralizza 6 nella teoria un momento specificamente religioso. Tutte queste cose non sono applicabili, e in realtà disturbano, sul terreno della sola morale e di fronte ad un Dio che viene essenzialmente colto come una personificazione dell’ordine etico del mondo, cui si aggiunge, per sovrappiù, l’amore. Si tratta di intuizioni religiose, sulla cui legittimità o non legittimità è difficile discutere con un individuo interessato solo alla morale, ma non alla religione, perché costui non è in grado di apprezzarle. Chi invece accetti di tener conto dell’elemento proprio di un sentimento specificamente religioso e lasci che questo si risvegli in lui, può vivere tali intuizioni secondo la loro verità, non appena vi si immerga. Il secondo motivo è che nelle dogmatiche si tenta di sviluppare queste cose in teorie concettuali e di renderle oggetti di speculazione, in modo tale che alla fine si trasformano nel calcolo quasi matematico tipico della « teoria dell’imputazione » e della sua drastica conversione del « merito di Cristo » in guadagno per i peccatori, accanto a dotte ricerche su questioni come : « Dio formula giudizi analitici o sintetici ? ».*  





































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  Nell’edizione Beck il termine « moralizza » è sostituito con « razionalizza ».  









Capitolo nono MEZZI DI ESPRESSIONE DEL NUMINOSO 1. Diretti

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er chiarire l’essenza del sentimento numinoso è utile meditare su come esso si esprima esteriormente e su come si trasferisca e si trasmetta da un animo all’altro. In realtà, in senso proprio non lo si « trasmette » affatto : non può essere « insegnato », ma soltanto « destato » dallo « spirito ». Talvolta lo si dice anche della religione in generale e nel suo insieme. A torto. In questa vi è molto che può essere insegnato, trasmesso per concetti e anche tradotto in un insegnamento scolastico : tranne questo suo sfondo e fondamento, che può solo esser stimolato, suscitato, destato. E non con semplici parole o segni esteriori, ma nello stesso modo in cui di solito si trasmettono tonalità emotive e sentimenti : per empatia o immedesimazione in ciò che si verifica nell’animo dell’altro. Nella solennità dell’atteggiamento, dei gesti, del suono della voce e dell’espressione del volto, nell’espressione della rara importanza della cosa, nel raccoglimento solenne e devoto della comunità che prega, questo sentimento vive molto più che non in tutte le parole e definizioni negative che abbiamo trovato per esso. Queste ultime non indicano mai positivamente il loro oggetto, ma sono d’aiuto in quanto vogliono designare, in generale, un oggetto, contrapponendolo ad un altro dal quale questo si distingue e rispetto al quale è superiore ; per esempio : l’invisibile, l’eterno (atemporale), il soprannaturale, l’oltremondano. Oppure sono semplicemente ideogrammi per il peculiare contenuto di sentimento, che però allora bisogna aver già provato per capire quelli. Il mezzo di gran lunga migliore è costituito dalle stesse situazioni « sacre » e dalla resa di queste in raffigurazioni intuitive. A chi non si rende conto di cos’è il numinoso quando legge il capitolo sesto di Isaia, non saranno d’aiuto alcun « suono, canto e parola ». Quando una teoria, una dottrina o un’omelia non sono ascoltate, è abbastanza frequente che del numinoso non si avverta nulla, mentre magari l’esposizione orale ne è imbevuta. Nessun altro elemento della religione necessita quanto questo della viva vox, a della trasmissione vivente da parte di una comunità e di un contatto personale. Ma anche in questa forma la mera parola è impotente senza l’incontro con lo « spirito che è nel cuore », senza la congenialità di chi la riceve. E a questo spirito è affidata la parte più importante. Dove esso è presente, là molto spesso basta uno stimolo piccolissimo, una lontanissima sollecitazione dall’esterno. È sorprendente quanto poco basti, spesso, nonostante una grande goffaggine e confusione, per portare da sé lo spirito alla commozione più intensa e determinata. Dove esso « soffia », là i termini dell’annuncio, che sono razionali, sebbene per lo più provengano dalla comune vita dell’animo in genere, si fanno efficaci e sufficienti ad accordare l’animo sulla giusta tonalità. La schema 









































a   Della trasmissione Seuse afferma : « Una cosa bisogna sapere : tanto è diverso ascoltare di persona il suono soave di uno strumento a corde rispetto al sentirne parlare, quanto diverse sono le parole che sono ricevute in stato di pura grazia e che sgorgano da un cuore vivo e da una bocca viva rispetto alle medesime parole che arrivano su una morta pergamena. [...] Perché, non so come, ma così si raffreddano e impallidiscono come rose recise. Perché allora quella melodia soave, che soprattutto tocca il cuore, svanisce. E allora vengono ricevute nell’aridità di un cuore arido » (Werke, a cura di Denifle, [cit.,] p. 309).  







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capitolo nono

tizzazione interviene qui senza bisogno di null’altro e non necessita di alcun sostegno. Chi legge « in spirito » la scrittura vive nel numinoso, anche se non ha un concetto né un nome per esso, anche se è incapace di analizzare il suo proprio sentimento e di chiarire quella trama specifica.  



Capitolo decimo MEZZI DI ESPRESSIONE DEL NUMINOSO 2. Indiretti

V

i sono poi i mezzi indiretti per rappresentare e suscitare il sentimento numinoso, ossia tutti i mezzi per esprimere sentimenti dell’ambito naturale che sono affini o simili a quello. Abbiamo già incontrato questi sentimenti e li ritroveremo subito, non appena rifletteremo su quali mezzi di espressione la religione ha effettivamente utilizzato ovunque e da sempre. Uno dei più primitivi, che in seguito viene avvertito sempre più come inadeguato, per essere infine rigettato come « indegno », è, del tutto naturalmente, lo spaventoso, il terrificante, ciò che incute timore (e talvolta persino il disgustoso). Poiché i sentimenti corrispondenti hanno forti analogie con quello del tremendum, i loro mezzi d’espressione diventano mezzi d’espressione indiretti di quel « timore » che direttamente non è esprimibile. Ciò che vi è di spaventoso e di orrendo nelle primitive immagini e raffigurazioni degli dèi, e che abbastanza spesso ci appare tanto repellente, ha ancor oggi sui primitivi e sui semplici, ma all’occasione anche su di noi, l’effetto di suscitare autentici sentimenti di un autentico timore religioso. D’altra parte quest’ultimo agisce, a sua volta, come lo stimolo più potente di ogni altro a produrre lo spaventoso nella fantasia e nella rappresentazione. Le antiche immagini bizantine della Madonna, dure, severe, spingono parecchi cattolici al raccoglimento più di quelle di Raffaello. Questo tratto può essere osservato in modo del tutto particolare in certe figure di dèi indiani. Durgā, la « grande Madre » del Bengala, il cui culto può esser avvolto da un’autentica aura del più profondo tremore devoto, nella sua rappresentazione canonica ha davvero un ghigno demoniaco. Questa mescolanza tra il tratto spaventoso che sgomenta e quello di somma sacralità può esser forse studiata in modo più puro nell’undicesimo libro della Bhagavadgītā. 1 Visnù, che per i suoi fedeli è la bontà stessa, si vuole qui rivelare ad Arjuna in tutta la sua altezza di dio : anche in questo caso l’animo ha soltanto lo spaventoso quale mezzo d’espressione, compenetrato tuttavia dal momento, che dovremo subito esaminare, della sublimità grandiosa. a Ad un livello più alto, infatti, al posto dello spaventoso compare, quale mezzo d’espressione, appunto il sublime, che ritroviamo in forma insuperabile in Isaia, nel capitolo 6. Sublime qui è l’alto trono, la figura regale, i lembi ondeggianti del manto, la corte solenne degli angeli che lo circondano. Mentre lo spaventoso viene gradualmente superato, la schematizzazione e il collegamento con il sublime viene tenuto fermo e si mantiene come legittimo fino alle più alte forme del sentimento religioso : indicazione, questa, del fatto che tra il numinoso e il sublime sussiste una parentela nascosta che è più di una mera analogia. Di ciò è lontana testimonianza ancora la Kritik der Urteilskraft di Kant.  















a   Il momento irrazionale dell’orghv non può esser studiato in nessun altro luogo meglio che in questo capitolo, che perciò appartiene ai classici della letteratura religiosa. 1

  Cfr. la prima Appendice, infra, pp. 307-308.

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capitolo decimo

Ciò che si è detto sin qui riguardava il momento del numinoso che sopra abbiamo incontrato per primo e che abbiamo voluto simboleggiare con il tremendum. Il secondo momento era il misterioso. E qui ci imbattiamo in quella analogia e in quel mezzo d’espressione analogico, che per tutte le religioni è ciò che in prima battuta colpisce di più e la cui teoria possiamo qui fornire facilmente : il miracolo. « Il miracolo è il figlio prediletto della fede ». 2 Se non ce lo insegnasse la storia della religione, avremmo potuto comunque aspettarcelo e costruirlo a priori a partire dal momento, che abbiamo trovato, del « misterioso ». Non si trova nulla, infatti, nella sfera naturale dei sentimenti, che abbia un’analogia tanto immediata, seppure, certo, puramente « naturale », con il sentimento religioso dell’indicibile, impronunciabile, « assolutamente altro », misterioso, quanto il non compreso, l’insolito, l’enigmatico, in qualunque forma ci si faccia incontro : in particolare il non compreso che è potente e spaventoso, e che racchiude in sé una doppia analogia con il numinoso : tanto con il momento del misterioso, quanto con quello del tremendum, secondo entrambi i lati di quest’ultimo che abbiamo indicato. Se in generale ci sono sentimenti del numinoso che possono essere suscitati da analogie naturali e trasferiti ad esse, allora sono questi. E così è stato, in effetti, ovunque nell’umanità. Quel che ha introdotto nell’ambito del suo agire qualcosa di non compreso e di terrorizzante, quel che in accadimenti naturali, eventi, uomini, animali o piante ha prodotto straniamento, sconcerto e sbalordimento, tanto più se connesso a potenza o terrore, ha sempre destato e attirato a sé la paura demonica ed è divenuto portentum, prodigium, miraculum. Così, e solo così, è nato il miracolo. Viceversa, se il tremendum, come abbiamo visto sopra, è divenuto per la fantasia e la rappresentazione lo stimolo a scegliere come mezzo di espressione lo spaventoso, o ad inventarlo creativamente, così il misterioso è divenuto lo stimolo più potente per la fantasia ingenua ad aspettarsi, a inventare e a raccontare il « miracolo » ; è divenuto l’impulso inesausto di un’inventiva inesauribile in favole, miti, saghe e leggende, ha compenetrato il rito e il culto ed è ancor oggi, per i semplici, il fattore più potente nel mantenere vivo nel racconto e nel culto il sentimento religioso. Anche qui, come per lo spaventoso, nel processo verso un superiore sviluppo vi è l’eliminazione di ciò che è solo esteriormente analogo, quando ad un livello purificato il miracolo comincia ad impallidire, quando Cristo, Maometto, Buddha rifiutano unanimemente di essere « taumaturghi », quando Lutero scredita i « miracoli esteriori » come « giochi di prestigio » o « mele e noci per bambini », quando infine il soprannaturalismo viene separato dalla religione come qualcosa che è solo un analogo, ma non l’autentico schema del numinoso. In molti altri modi ancora si esprime l’attrazione del misterioso su cose e momenti che sono analoghi ad esso per il fatto di essere non compresi. Questo viene ad espressione nel modo più radicale nell’attrattiva che esercita una lingua di culto, divenuta parzialmente o interamente incomprensibile, e in quella intensificazione del timore devoto che senza dubbio ha effettivamente luogo grazie ad essa. Ne sono esempi le espressioni antiquate e non più completamente intelligibili nella Bibbia, nonché, nei nostri libri di canti, la forza emotiva degli alleluja, kyrieleis 3 e sela, 4 proprio perché sono  











































2

  W. Goethe, Faust, i, v. 766.   L’espressione, che nasce come forma abbreviata di « kyrie eleison », è una formula con cui terminava la strofa di un genere di canti sacri sorto in Germania nel medioevo, successivamente ripreso in inni e corali (detti appunto Leise) della Chiesa riformata. 4   Adattamento di un termine ebraico, di origine e significato incerti, che occorre in particolare nel salterio e che indicava forse una pausa o un’istruzione musicale indirizzata ai cantori. 3





il sacro

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non compresi e « totalmente altri » ; il latino della messa, che il cattolico non avverte come un male necessario, ma come particolarmente sacro, il sanscrito delle messe buddhiste della Cina e del Giappone, la « lingua degli dèi » dei rituali sacrificali di Omero e mille altre cose. Ne è esempio anche il tratto per metà manifesto e per metà nascosto nel culto della messa della liturgia greca e di molte altre liturgie. E in ciò vi è persino un elemento di legittimità. Anche i frammenti superstiti della messa, quali si ripropongono nei nostri rituali luterani, proprio perché nella loro disposizione vi è poco della regola e dell’ordine concettuale, senza dubbio hanno ancora in sé qualcosa di molto più devoto che non gli impianti dei moderni esperti, costruiti secondo schemi ben ordinati e nel modo pulito di un saggio accademico. Donde deriva dunque la tonalità emotiva di tutte queste cose che abbiamo menzionato ? Appunto dall’analogia, che queste cose presentano in modo simbolico e suscitano per anamnesi del simile, tra ciò che non è interamente compreso, inusuale (e contemporaneamente reso venerando dagli anni) e il misterioso stesso.  











Capitolo undicesimo MEZZI DI ESPRESSIONE DEL NUMINOSO NELL’ARTE

N

elle arti l’unico mezzo possibile di rappresentazione del numinoso è, quasi ovunque, il sublime ; soprattutto nell’architettura, e in questa, pare, prima che in ogni altra arte. È difficile sottrarsi all’impressione che questo momento abbia cominciato a destarsi già all’epoca dei megaliti. Se anche l’erezione di quei giganteschi blocchi di pietra, grezzi o lavorati, isolati o disposti in possenti circoli, ha avuto originariamente un senso magico, quello di realizzare un massiccio accumulo del numinoso quale « forza », di localizzarlo e di assicurarlo, la spinta al cambiamento di motivo deve qui esser stata subito troppo forte perché questo non intervenisse già molto presto. L’oscuro sentimento per la grandiosità solenne, così come per il gesto pomposo e sublime, è abbastanza elementare. E quando in Egitto si costruivano mastaba, obelischi e piramidi, questo grado era senza dubbio raggiunto. È indubbio che gli stessi costruttori di questi templi e della Sfinge di Giza, che fanno balenare nell’anima il sentimento del sublime e quello del numinoso, che gli si accompagna quasi come un riflesso meccanico, fossero consapevoli di questo effetto e abbiano voluto provocarlo.* Ma questi sono soltanto i mezzi di rappresentazione indiretti, di cui l’arte dispone. Quelli diretti sono solo due e sono, significativamente, negativi : l’oscurità e il tacere.a L’oscurità deve risaltare per mezzo di un contrasto che la renda ancor più percepibile : deve esser sul punto di superare un ultimo chiarore. Solo la semioscurità è « mistica » e il suo effetto giunge a compimento quando si unisce con il momento ausiliare del « sublime ». La semioscurità, la penombra delle volte elevate o quella tra gli alti rami di un viale alberato, stranamente animata e mossa ancora dal gioco misterioso delle mezzi luci, ha sempre parlato all’animo : e gli edificatori di templi, moschee e chiese ne hanno fatto uso. Nel linguaggio dei suoni, all’oscurità corrisponde il tacere.  



















Jahweh è nel suo santo tempio Taccia, davanti a lui, il mondo intero. 1

Noi, come probabilmente già il cantore, non sappiamo più nulla del fatto che dal punto di vista « storico-genetico » questo « tacere » (come l’eujfhmei`sqai) è derivato dall’angoscia di utilizzare parole ominose, che porta a preferire piuttosto il silenzio. Noi, il salmista 2 e Tersteegen, nell’inno Gott ist gegenwärtig. Alles in uns schweige, 3 sentiamo invece la necessità di tacere per un altro motivo, del tutto indipendente. Per noi è una reazione spontanea al sentimento del « numen praesens ». Anche qui, la catena « storico-genetica » non spiega ciò che compare ed è presente ad un grado di sviluppo superiore. Ma per l’analisi psichica religiosa noi, il salmista e Tersteegen siamo oggetti per lo meno altrettanto interessanti dell’eujfhmiva che praticano i « primitivi ».**  















a





  « Signore, parla Tu soltanto / Nel silenzio più profondo / A me, nell’oscurità » prega Tersteegen.

1





  Cfr. Ab 2, 20.   In realtà si tratta del profeta Abacuc (cfr. nota precedente). La svista è corretta nelle edizioni successive. 3   Cfr. supra, p. 211. 2

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capitolo undicesimo

Neanche la musica, che pure può offrire l’espressione più diversa a tutti agli altri sentimenti, possiede un mezzo positivo di espressione del sacro. Anche la più perfetta composizione per Messa esprime il momento più sacro e più numinoso di quest’ultima, quello della consacrazione, soltanto tacendo, con un silenzio assoluto e prolungato in modo tale che il tacere stesso possa, per dir così, risuonare : e neanche di lontano raggiunge, in qualche altro punto, la possente impressione di raccoglimento che ha questo « silenzio di fronte al Signore ». È istruttivo, a questo proposito, un esame della Messa in Si minore di Bach. La sua parte più mistica è, come è usuale in questo genere di composizioni, l’Incarnatus. L’efficacia qui è nella successione delle fughe, che entrano in modo sommesso ed esitante, quasi con un bisbiglio, e si smorzano in un pianissimo. I respiri trattenuti, a mezza voce soltanto, con quelle singolarissime cadenze discendenti per terze diminuite, gli arresti sincopati, le scale ascendenti e discendenti per stranianti semitoni che restituiscono il timoroso stupore : tutto ciò indica il mistero più che esprimerlo. E grazie a ciò qui Bach raggiunge il suo scopo in modo totalmente diverso che nel Sanctus, che infatti è un’espressione incomparabilmente riuscita di Colui al quale spetta la « potenza e la gloria », un impetuoso coro trionfale che esalta una perfetta e assoluta gloria sovrana. Ma questo Sanctus è completamente lontano dalla tonalità emotiva del testo sottostante alla musica, che è preso da Isaia 6 e che in base a questo avrebbe dovuto essere interpretato dal compositore. Da questo sontuoso inno non si coglie che i Serafini si coprono il volto con due ali. b  











b   Quel che in generale della cosa può esser colto dalla musica, lo coglie Mendelssohn nella sua composizione sul Salmo 2, versetto 11 : « Servite Dio con timore e con tremore esultate ». Anche qui l’espressione della cosa è meno nella musica stessa che non nel suo esser attenuata, trattenuta, si potrebbe quasi dire intimidita, secondo la resa magistrale di questo passaggio di cui è capace il coro della cattedrale di Berlino.  





Capitolo dodicesimo IL NUMINOSO NELL’ANTICO TESTAMENTO

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e in ogni religione in generale sono vivi i sentimenti dell’irrazionale e del numinoso, nella religione semitica, e speciamente in quella biblica, lo sono in modo particolare. Qui il misterioso è attivo e intensamente vivo nelle rappresentazioni del demonico e dell’angelico, rappresentazioni del « totalmente altro » da cui questo mondo è circondato, sovrastato e compenetrato. Diviene potente nell’escatologia e nell’ideale del Regno di Dio, che si contrappone al naturale talvolta come cronologicamente futuro, talaltra come eterno, ma sempre come ciò che è assolutamente mirabile e « totalmente altro ». È impresso nella natura di Jahweh e di Elohim (che è anche il « Padre celeste » di Gesù e come tale non perde il suo carattere di Jahweh, ma lo « compie »). Nei profeti e nei salmisti il livello più basso del sentimento numinoso è già da lungo tempo superato, ma non mancano echi occasionali, in modo particolare nei racconti più antichi. Questo carattere si avverte ancora con forza nel racconto (Es 4, 26 1) di come Jahweh, nella sua ojrghv, sorprende Mosè nella notte e « cerca di farlo morire ». A noi fa l’impressione di un’apparizione quasi spettrale e, dal punto di vista di un timor di Dio sviluppato, questo e simili racconti danno facilmente l’impressione che qui in generale non vi sia ancora « religione », ma « pre-religione », una volgare paura dei demoni o qualcosa di simile. Ma sarebbe un fraintendimento. Una « volgare paura dei demoni » si riferirebbe ad un « demone » nel senso più stretto del termine, che è sinonimo di diavolo, coboldo, spirito malvagio, e che indica ciò che è contrapposto al Qei`on. Un simile demone, però, non è stato un punto di passaggio e un anello della catena evolutiva del sentimento religioso, come non lo è stato lo « spettro » nel senso tecnico del termine : questo e quello sono derivazioni apocrife dei prodotti di fantasia del sentimento numinoso. Da un tale demone va distinto il daivmwn in un senso molto più generale, che di per sé non è ancora un dio, ma nemmeno è un anti-dio : è piuttosto un pre-dio, uno stadio ancora inferiore del numen, vincolato e trattenuto, dal quale gradualmente, in una manifestazione superiore, emergerà il « dio ». Sono gli echi di questo stadio che abbiamo in quei racconti. Due indicazioni possono, inoltre, aiutarci a comprendere l’effettiva situazione : innanzitutto il rimando a quanto abbiamo detto in precedenza, circa la capacità dello spaventoso in genere di suscitare ed esprimere il sentimento numinoso. Una seconda indicazione è la seguente : un temperamento fortemente musicale, finché è ancora quello grezzo di un principiante, può esser deliziato o estasiato dal suono di una zampogna o di un organetto, ma quando arriva ad esser musicalmente formato gli divengono entrambi intollerabili. Se egli riflette sull’elemento qualitativo del suo vissuto precedente e di quello attuale, noterà che nei due casi è attivo il medesimo lato del suo animo e che nella sua ascesa ad una figura superiore del suo sentimento numinoso non ha avuto luogo una metavbasi~ eij~ a[llo gevno~, ma un processo che chiamiamo sviluppo, sulla cui  



















































1   Il versetto è il 24 : « Mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne contro e cercò di farlo morire ».  





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capitolo dodicesimo

natura non siamo in grado di dire molto. Se ascoltassimo oggi la musica di Confucio, probabilmente non ci sembrerebbe altro che una successione di curiosi rumori : tuttavia egli parla già della forza della musica sull’animo in modo tale che oggi non sapremmo farlo meglio e ne coglie quei momenti che anche noi dobbiamo riconoscere. Da questo punto di vista ciò che più sorprende è il dono di apprendere facilmente e il talento di alcuni popoli primitivi, che, quando arriva loro la nostra musica, rapidamente e con piacere imparano ad eseguirla e a gustarla. Questo talento non si è introdotto in loro (per mezzo di una qualche « eterogonia », « epigenesi » o di qualche altro miracolo del genere) nel momento in cui è giunta loro una musica più matura, ma semplicemente era presente come « disposizione » naturale, si è attivato dall’interno e, nel momento in cui lo stimolo ha agito sulla disposizione già presente, si è sviluppato da questa. Si tratta della medesima disposizione che agiva già prima in forma ed espressione più grezze e primitive. Con un gusto musicale sviluppato, spesso riusciamo a mala pena – o non ci riusciamo affatto – a riconoscere come vera musica questa forma « grezza » e « primitiva », e tuttavia era anch’essa già espressione di un medesimo impulso, di un medesimo momento dell’anima. È esattamente lo stesso quando chi oggi ha « timor di Dio » ha difficoltà a ritrovare nel racconto di Es 4 qualcosa di affine al suo sentimento, o lo disconosce completamente. Si tratta di un punto di vista che in rapporto alla religione dei « primitivi » deve esser tenuto maggiormente in conto, seppur con molta cautela, perché se ne possono derivare conclusioni sbagliatissime ed è abbastanza grande il pericolo di scambiare gli stadi inferiori dello sviluppo con quelli superiori e di ridurre la distanza. Ma escludere questo punto di vista in generale è un errore ancor più pericoloso e, purtroppo, molto diffuso. Recentemente alcuni studiosi hanno tentato di rintracciare una differenza di carattere tra la severità di Jahweh e la familiarità patriarcale di Elohim : tentativo che ha qualcosa di molto plausibile. Secondo la ricostruzione di Söderblom, esso poggia sul fatto che la rappresentazione di Jahweh deriva da rappresentazioni « animistiche ». Non contesto il significato delle rappresentazioni « animistiche » per il processo di sviluppo della religione ; anzi, da questo punto di vista vado oltre Söderblom, che le ritiene solo una specie di « filosofia » primitiva e deve dunque separarle dall’ambito dei prodotti della fantasia propriamente religiosa. Che laddove si formarono rappresentazioni animistiche, esse possano essere state un anello significativo nella « serie degli impulsi » che svincolano e liberano dal sentimento numinoso il momento di « essenza » oscuramente presente in esso, questo si adatterebbe perfettamente alla mia ricostruzione. Ma ciò che distingue Jahweh da ’El-Shadday-’Elōhîm non è che il primo è un’« anima », ma che in lui il numinoso prevale sull’elemento razionale e familiare, mentre nel secondo è il lato razionale a prevalere su quello numinoso : una differenza in base alla quale si possono distinguere, più in generale, anche diversi tipi di dèi. E qui non si può parlare di una completa mancanza del momento numinoso in Elohim, ma solo di una prevalenza dell’altro momento. Il racconto autenticamente numinoso della teofania nel roveto ardente e il versetto tipico di Es 3, 6 – « Mosé allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio » – è eloistico. La ricchezza di singoli tratti della rappresentazione vetero-israelitica di Dio, che sono appartenenti a questa tradizione e che ancora si potrebbero menzionare, è offerta in modo così abbondante nell’enciclopedia storico-religiosa Die Religion in Geschichte und Gegenwart, vol. ii, p. 1530 e ss. e 2036, che qui basta semplicemente rimandare a  































































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quest’opera. Con la venerabile religione di Mosè inizia un processo di crescente moralizzazione e di razionalizzazione generale del numinoso e del suo compimento nel « sacro », nel senso pieno e autentico del termine. Questo processo si compie nella profezia e nel vangelo e in esso certamente risiede quella particolare nobiltà della religione biblica, che fa sì che essa avanzi a buon diritto, già allo stadio del Deutero-Isaia, la pretesa all’universalità di una religione mondiale. Già qui si trova la sua chiara superiorità rispetto, per es., all’Islam, il cui Allah è unilateralmente « numen » e, a ben guardare, è propriamente Jahweh, nella sua forma pre-mosaica, in figura accresciuta. Ma eticizzazione e razionalizzazione non sono un superamento del numinoso, ma dell’unilateralità del suo predominio. Esse si attuano nel numinoso e dal numinoso sono avvolte. Isaia è l’esempio di un’intima compenetrazione dei due momenti. Ciò che risuonava nella visione della sua vocazione, compenetra tutto il suo annuncio con una forza che si fa sentire. A questo proposito nulla è più indicativo del fatto che proprio in lui si consolida come espressione favorita per la divinità « il Santo (der Heilige) di Israele », la quale prevale su altre espressioni con la sua misteriosa forza : essa permane nella tradizione isaiana, negli scritti del « Deutero-Isaia ». Se mai abbiamo a che fare con un Dio la cui onnipotenza, bontà, saggezza e fedeltà è determinata in modo concettualmente chiaro, è proprio nel Deutero-Isaia. Questi sono predicati del « Santo » (der Heilige), il cui strano nome anche il Deutero-Isaia ripete quindici volte e sempre in passi in cui è particolarmente enfatico. Espressioni affini a quella della « santità » (Heiligkeit) di Jahweh sono la « collera », lo « zelo », l’« ira », il « fuoco divoratore » ecc. Tutte significano non soltanto la sua giustizia remuneratrice e non soltanto il Dio che agisce con carattere e che in generale vive in intensi « pavqh » : tutto questo è sempre anche circondato e compenetrato dal tremendum e dalla majestas, dal mysterium e dall’augustum della sua irrazionale essenza di Dio. Ciò vale anche dell’espressione « il Dio vivente ». La sua vitalità ha una palese parentela con il suo « zelo » e si esprime in questo, come in tutti i suoi « pavqh » in genere. a Con la sua « vita » questo Dio si distingue da ogni mera « ragione cosmica » : è l’essenza ultimamente irrazionale che si sottrae ad ogni possibilità di filosofare e che vive nella coscienza di tutti i profeti e messaggeri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Dove in seguito si è lottato contro il « Dio dei filosofi » e per il « Dio vivente », per il Dio dell’adirarsi, dell’amore e degli affetti, là si è sempre inconsapevolmente protetto il nucleo irrazionale del concetto biblico di Dio da una sua unilaterale razionalizzazione. E, in questo senso, lo si è fatto a ragione. Si è avuto torto però, e si è caduti nell’« antropomorfismo », quando si è difesa l’ira e gli affetti invece dell’« ira » e degli « affetti », quando si è disconosciuto il loro carattere numinoso e li si è ritenuti predicati « naturali », solo posti in assolutezza, invece di rendersi conto che essi possono valere solo come designazioni ideogrammatiche di un irrazionale, come simboli analogici del sentimento.  





























































































a   Cfr. Dt 5, 26 : « Dov’è un mortale che, come noi, ha udito il Dio vivente parlare dal fuoco con voce ben chiara ed è rimasto vivo ? » ; inoltre cfr. Gs 3, 10 ; 1 Sam 17, 26 e 36 ; 2 Re 19, 4 ; Is 37, 17 ; Ger 10, 10 : « Egli è Dio vivente [...], davanti alla sua collera trema la terra, i popoli non possono sopportare il suo furore » ; Ger 23, 36 ; 2 Mac 7, 33 ; Mt 26, 63 : lo scongiuro per il Dio vivente, lo spaventoso-terrificante. Eb 10, 31 : « È terrificante cadere nelle mani del Dio vivente ». Nell’idea del Dio che si vendica si compie la rappresentazione veterotestamentaria dello spaventoso-vivente. La sua espressione più dura è l’immagine che quasi sgomenta del « torchiatore », Is 63, 3 : « Nella mia collera li ho pigiati e nell’ira li ho calpestati, tanto che il succo è sprizzato sulle mie vesti e mi sono macchiato tutti gli abiti ». L’immagine spaventosa torna nel Nuovo Testamento, Ap 19, 15 : « Egli pigerà il torchio del vino della collera furiosa ».  



   















































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Il numinoso rivela la sua forza capace di tendere ed eccitare la fantasia secondo il momento del mysteriosum in modo particolare in Ezechiele ; ne fanno parte i suoi sogni e le sue immagini, il suo dipingere con la fantasia l’essenza di Jahweh e della sua corte : modello ed esempio del moto apocrifo dell’impulso religioso verso il mysterium, che si ottiene secondo le analogie precedentemente introdotte con lo strano, col miracoloso e col fantastico. La conseguenza di questa azione del sentimento religioso secondo un’analogia illegittima crea la propensione al « miracolo », alla leggenda, al mondo onirico dell’apocalittica e della mistica : tutte irradiazioni del religioso stesso, ma rifratte in un mezzo torbido, surrogato dell’autentico, che sfocia nella volgarità e ricopre infine, con le sue escrescenze, il sentimento genuino del misterioso, che viene ostacolato nel suo moto immediato e puro. Nel capitolo 38 del Libro di Giobbe, che appartiene ai documenti più notevoli della storia della religione in generale, ritroviamo in rara purezza il momento del mysteriosum. Giobbe ha questionato con i suoi amici contro Jahweh e di fronte a costoro ha evidentemente avuto ragione. Di fronte a lui essi debbono ammutolire. Allora appare Jahweh per prendere egli stesso le proprie difese ; e lo fa in modo tale che Giobbe confessa di esser sconfitto : sconfitto realmente e a buon diritto, non semplicemente costretto al silenzio da una ultrapotenza. Infatti confessa :  















Perciò ritratto e mi pento / in polvere e cenere. 2

Questa è la testimonianza di un convincimento interiore, non di un fallimento impotente o di una rassegnazione di fronte ad una mera ultrapotenza. Né qui è presente soltanto la tonalità emotiva che Paolo fa risuonare in Rm 9, 20 :  

Osa forse dire l’opera a chi l’ha plasmata : « Perché mi hai fatto così ? ». Forse non ha il vasaio il potere sull’argilla di fare con la medesima pasta qui un vaso per l’onore, là per il disonore ?  



   



Si fraintenderebbe il passo di Giobbe se lo si interpretasse in questo modo. In Gb 38 non viene annunciata la rinuncia e l’impossibilità di una teodicea : quel che deve esser dato è proprio una reale teodicea, che sia migliore di quella degli amici di Giobbe e che sia in grado di convincere lo stesso Giobbe ; anzi non soltanto di convincerlo, ma di acquietare nell’intimo la sua anima oppressa da dubbi. Infatti nel singolare vissuto che tocca a Giobbe in seguito alla rivelazione di Jahweh vi è contemporaneamente anche una distensione del tormento della sua anima e una pacificazione, che da sola basterebbe come soluzione del problema del Libro di Giobbe, anche senza la riabilitazione nel cap. 42 che è soltanto la caparra di un pagamento migliore. Ma cos’è questo singolare momento che opera contemporaneamente la teodicea e la conciliazione ? Nel discorso di Jahweh risuona quasi tutto quello che ci si sarebbe aspettati vista la situazione : appello e rimando alla sua potenza sovrana, alla sua altezza e grandezza e alla sua sovrana saggezza. Quest’ultima offrirebbe immediatamente una soluzione razionale plausibile dell’intero problema, se si compisse in proposizioni come : « Le mie vie sono più in alto delle vostre. Nel mio operare e agire ho fini che voi non comprendete », 3 come la prova o la purificazione del devoto, o come i fini relativi al tutto, al quale il singolo, col suo dolore, deve conformarsi. Muovendo da concetti razionali si  











2

  Gb 42, 6.   Cfr. Is 55, 8-9.

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anela, letteralmente, ad un simile esito del colloquio. Ma nulla di simile accade e simili considerazioni e soluzioni teleologiche non rappresentano affatto il senso del capitolo. In ultima analisi ci si richiama a qualcosa di totalmente altro rispetto a quello che può esaurirsi in concetti razionali : alla miracolosità stessa e assoluta che è oltre il concetto di fine ; al mysterium nella sua pura figura irrazionale. Qui gli esempi magnifici parlano una lingua chiarissima. L’aquila che abita le rocce e passa la notte sui denti di rupe o sui picchi, che spia la preda ; l’aquila i cui piccoli succhiano sangue e che « dove sono cadaveri, là essa si trova », 4 non è davvero un esempio di saggezza teleologica che tutto « dispone con avvedutezza e precisione ». Quest’aquila è piuttosto l’elemento singolaremiracoloso in cui si rende intuibile l’elemento miracoloso stesso del suo creatore. Lo stesso vale dello struzzo con i suoi enigmatici istinti nel versetto 13. In realtà, per come è qui descritto, esso appare alla considerazione « razionale » come una crux e come ben poco utile per chi vada in cerca di fini :  



















L’ala dello struzzo batte allegramente, ma son forse battiti e piume devoti ? No. Lo struzzo abbandona alla terra le sue uova dimentica che un piede può schiacciarle, è duro verso i suoi piccoli, come se non gli appartenessero perché Dio gli ha negato l’avvedutezza e non l’ha fatto partecipe dell’intelletto. 5  

Lo stesso per il bufalo e l’asino selvatico dei versetti 5 e 9 : animali la cui completa « dis-teleologia » viene illustrata in modo veramente magnifico ; animali che con i loro istinti misteriosi e il loro enigmatico comportamento sono come le camozze e le cerve (versetto 1), come la « saggezza » del vapore delle nubi (Gb 38, 36), come l’« intelletto » delle forme dell’aria con il loro misterioso andare e venire, sorgere e sparire, muoversi e formarsi, o come le singolari Pleiadi, alte nel cielo, e Orione e l’Orsa con i suoi figli. 6 Si ritiene che le descrizioni dell’ippopotamo e del coccodrillo (Gb 41, 15 e ss.), 7 siano state interpolate successivamente. Forse è giusto. Ma allora bisogna riconoscere che l’interpolatore ha sentito molto bene l’intento ultimo dell’intero brano, perché non fa che portare all’espressione più brutale quanto dicono tutti gli altri esempi. Mentre quelli offrono portenta, egli offre monstra. Ma il mostruoso è appunto il misterioso nella sua brutalità. Non si sarebbe potuto incorrere in esempi più infelici di queste creature per illustrare una « saggezza » divina che pone dei « fini ». Ma anche questi esempi, come tutti i precedenti e come l’intero contesto, il tenore e il senso del passo in generale, esprimono in modo magistrale b l’elemento assolutamente stupendo dell’eterna potenza creatrice, l’elemento quasi demonico, totalmente non-coglibile, l’incalcolabile, il « totalmente altro », che si fa beffe di ogni comprensione concettuale, che eccita, affascina e riempie l’animo nel profondo. Il « mysterium » è ciò cui si mira, in quanto è contemporaneamente il fascinosum. Quest’ultimo vive anche qui non in concetti chiari, ma nel tono, nell’entusiasmo, nel ritmo stesso dell’intera descrizione. E il fascinosum è la  































b   È innegabile ancor oggi che questi monstra hanno un certo effetto di spaventosa edificazione. Per lo meno sono veri animali diabolici. 4

  Gb 39, 30.   Otto cita liberamente da Gb 39, 13-17. 6   Gb 38, 31-32. 7   Si tratta in realtà del capitolo 40. 5

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capitolo dodicesimo

pointe dell’intero passo. In esso risiede la teodicea come soddisfazione e acquietamento. Il mero « mysterium » da solo, infatti, non sarebbe che quella « inconcepibilità assoluta » di cui sopra : al più chiuderebbe la bocca a Giobbe, ma non lo convincerebbe interiormente. Si sente qui invece un inesprimibile valore positivo dell’inconcepibile. Questo valore non viene posto in equilibrio con i pensieri di una teleologia umana e razionale e adattato a questi. Resta nel suo mistero. Ma, facendosi sentire, Elohim è anche giustificato e l’anima di Giobbe acquietata. c  









c   In uno scrittore moderno troviamo un vero e proprio controcanto a questo vissuto di Giobbe, inserito in un racconto novellistico che però suscita una profonda impressione. Nel suo Berufs-tragik, che si trova nella raccolta Hinter Pflug und Schraubstock [Stuttgart 1889], Max Eyth racconta la costruzione del grandioso ponte sul braccio di mare nella baia dell’Enno. Il più sottile e profondo lavoro del pensiero e la più fervida operosità professionale avevano edificato quest’opera, un miracolo dell’agire umano sensato e orientato ad uno scopo. Alla fine, nonostante infinite difficoltà e giganteschi ostacoli, è pronto. Si erge contro il vento e le onde. Ed ecco infuria un ciclone e getta nell’abisso costruzione e costruttore. Sembra che la completa insensatezza trionfi su quanto vi è di più sensato, come il « destino » sembra calpestare indifferente virtù e merito. Il narratore racconta di aver visitato la scena di quell’orrore e di essersene poi tornato indietro : « Quando raggiungemmo la fine del ponte il vento si era quasi placato. Alto, sopra di noi, il cielo era di un blu verdognolo e di uno spaesante chiarore. Dietro di noi, come una grande sepolcro scoperto, c’era la baia di Enno. Il Signore della vita e della morte aleggiava sulle acque nella sua quieta maestà. Lo sentimmo come si sente la propria mano. E il vecchio ed io ci inginocchiamo di fronte al sepolcro scoperto e dinanzi a Lui ». Perché si inginocchiarono ? Perché dovettero inginocchiarsi ? Di fronte al ciclone e alla violenza cieca della natura, di fronte a ciò che è semplicemente onnipotente, non ci si inginocchia. Ma lo si fa di fronte ad un mistero completamente incomprensibile, manifestamente non manifesto, l’anima acquietata, che sente il come e in ciò il diritto di quello.  













Capitolo tredicesimo IL NUMINOSO NEL NUOVO TESTAMENTO

N

el vangelo di Gesù si compie quella spinta alla razionalizzazione, moralizzazione e umanizzazione dell’idea di Dio, che è viva sin dai più remoti tempi della tradizione dell’antico Israele, specialmente nei Profeti e nei Salmi, e che, in modo sempre più ricco e completo, afferma nel numinoso i predicati dei chiari e profondi valori razionali dell’animo. Si è così giunti a quella forma di « fede in Dio Padre », che soltanto il cristianesimo possiede e che non può esser oltrepassata da nulla. Ma, anche qui, si commetterebbe un errore se si ritenesse che questa razionalizzazione sia una esclusione del numinoso : è un fraintendimento al quale porta l’odierna descrizione, fin troppo plausibile, della « fede di Gesù in Dio Padre », che però certamente non corrisponde alla tonalità emotiva della prima comunità ; il che può esser misconosciuto soltanto se si sottrae all’annuncio di Cristo ciò che esso, da cima a fondo e dal principio alla fine, vuole essere : « vangelo del Regno ». Ma il Regno – ce lo mostra di nuovo la ricerca più recente che si oppone in tutta fermezza agli addolcimenti razionalistici – è la grandezza assoluta del miracolo, il « totalmente altro » che si contrappone a tutto ciò che è qui e ora, il « celeste », circonfuso e avvolto dai più autentici motivi del « timore religioso », l’elemento « spaventoso », « accattivante » del misterioso stesso.* Dal « Regno » e dal suo carattere derivano il colore, la disposizione emotiva e la tonalità di ogni relazione ad esso per coloro che lo annunciano e lo preparano, per la vita e la condotta che ne sono la precondizione, per la parola che lo annuncia, per la comunità che lo attende e che lo raggiunge. Tutto viene « mistificato », 1 ossia tutto diventa numinoso. Lo mostra nel modo più evidente l’autodesignazione della cerchia di chi appartiene ad esso : costoro definiscono se stessi e si definiscono reciprocamente con il termine tecnico numinoso « santi » (die Heiligen). Che ciò non significhi moralmente perfetti è senz’altro chiaro : essi sono, anzi, quelli che appartengono al mysterium della fine dei tempi. È quella chiara e del tutto univoca contrapposizione ai « profani » che abbiamo incontrato sopra. (Per questo si sono potuti in seguito definire « popolo sacerdotale », designazione che non ha nulla a che vedere con il nostro « sacerdozio universale ».) La precondizione di tutto ciò, però, era data col vangelo stesso e con la sua pretesa di essere l’annuncio del Regno che viene. Il Signore di questo Regno è il « Padre celeste ».** In quanto ne è il Signore, non è meno « sacro », numinoso, misterioso, qādôsh, a{gio~, sacer e sanctus del suo Regno, ma lo è molto di più, in misura assoluta, e, sotto questo profilo, è l’elevazione e il compimento di tutto ciò che l’antica alleanza possedeva quanto a « sentimento di creaturalità », « timore sacro » e simili. Misconoscere questo significa trasformare il vangelo di Gesù in un idillio. Il fatto che questi momenti non si presentino propriamente in Gesù in forma di « insegnamenti » particolari trova il suo fondamento nelle circostanze che sono state in più occasioni indicate. E poi, che bisogno avrebbe avuto di « insegnare » quel che per  

























































































1   Otto intende evidentemente far risuonare il senso etimologico del verbo « mistificare », ossia : « rendere mistero ».  









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capitolo tredicesimo

ogni ebreo, e in particolare per chiunque credesse nel Regno, è assolutamente primo ed evidente, ossia che Dio è « il Santo (der Heilige) di Israele » ? Ciò che egli doveva insegnare e annunciare non era ovvio, ma era anzi la sua più propria scoperta e rivelazione, ossia che proprio questo Santo è un « padre » celeste. Nel suo « insegnamento » questo punto di vista doveva essere tutto, tanto più che era proprio quel punto di vista che la contrapposizione in cui si poneva Gesù spingeva in primo piano. Tale contrapposizione storica, che fece emergere il vangelo per reazione, era il farisaismo con la sua schiavitù della legge ed era Giovanni con la sua aspra concezione ascetica del concetto di Dio. Nei confronti di entrambi il vangelo della filialità e della paternità fu sentito quale giogo dolce e carico leggero ; 2 ed è questo che riempie necessariamente le parabole, i discorsi e gli annunci di Gesù, in modo tale che però il paradosso più audace e grandioso restasse il fatto che chi « è nei cieli » è « nostro Padre ».* Che ciò che è misterioso e temibile « nel cielo » sia contemporaneamente una volontà di grazia che si approssima per visitarci : soltanto la risoluzione di questo contrasto costituisce l’armonia dell’autentico sentimento cristiano fondamentale ; e la sente male chi non sente sempre risuonare in essa questa settima aumentata. Significativo, e però del tutto ovvio, è il fatto che la prima richiesta della preghiera della comunità cristiana cominci subito con : « Sia santificato il tuo nome ». Quel che significa nel contesto della comprensione biblica, dopo quanto detto precedentemente, è chiaro. Può essere che occasionalmente anche nelle prediche di Gesù riecheggino ancora suoni che lasciano avvertire qualcosa di quel singolare brivido e orrore di fronte al mistero dell’oltremondano di cui abbiamo parlato in precedenza. Un passo del genere è Mt 10, 28 :  







































Temete piuttosto colui che ha il potere di mandare in rovina corpo e anima nell’inferno.

Il suono oscuro e tremendo di queste parole si lascia sentire da sé, ed è già una razionalizzazione se lo si vuole riferire semplicemente al giudice e al suo giudizio nell’ultimo giorno. E lo stesso suono che riproposto in pieno nelle parole della Lettera agli Ebrei 10, 31 :  

È terrificante cadere nelle mani del Dio vivente !,  

o in Eb 12, 29 :  

il nostro Dio è un fuoco divoratore.*

(La modifica di Dt 4, 24 : « Il Signore è un fuoco divoratore » in « Il nostro Dio » offre un contrasto che diverrà orribilmente acuto e lancinante.) E quando l’occasione lo richiede torna allo scoperto anche l’autentico Dio veterotestamentario della « vendetta », come in Mt 21, 41 :  















Malamente ucciderà i malvagi.

Non è necessario insistere sull’aura di atmosfera numinosa in Paolo : « Dio abita in una luce cui nessuno può accedere ». 3 Ciò che nel concetto e nel sentimento di Dio è debordante porta in lui alla terminologia e al vissuto specifico della mistica. a In generale, in  





a   Proporrei come definizione provvisoria della mistica che essa è religione con una unilaterale predominanza del momento irrazionale, che contemporaneamente è in estrema tensione verso il debordante. Una 2

  Cfr. Mt 11, 30.   1 Tm 6, 16.

3

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Paolo si vive nei sentimenti di una disposizione emotiva entusiastica di esaltazione e in una terminologia pneumatica, che sono entrambe ben al di là del lato solo razionale della devozione cristiana. La svalutazione « dualistica » della « carne », in quanto elemento creaturale in generale, è una estremizzazione di quella autosvalutazione numinosa di cui si è parlato a p. 229 e ss. Queste catastrofi e queste peripezie della vita del sentimento, questa tragedia del peccato e della colpa, questa incandescenza del vissuto di beatitudine sono possibili e comprensibili solo sul terreno numinoso. E come l’ojrghv Qeou` per Paolo è qualcosa di più della mera reazione di una giustizia punitiva, ed è compenetrata dal tremendum del numinoso, così d’altra parte il fascinosum del vissuto dell’amore di Dio, che spinge lo spirito fuori dai suoi limiti e lo porta nel terzo cielo, è qualcosa di più che la mera assolutezza di un sentimento filiale naturale ed umano. L’ojrghv Qeou` è potentemente viva nel grandioso passo di Rm 1, 18. Riconosciamo qui immediatamente lo Jahweh adirato e furioso dell’Antico Testamento, che ora però è il Dio dell’universo, spaventosamente potente, che riversa su tutto il mondo la sua ira divampante. In ciò vi è l’intuizione autenticamente irrazionale, orribile e sublime, di Paolo, per cui l’adirato punisce il peccato con il peccare. In tre punti Paolo ripete questo pensiero del tutto insopportabile per una considerazione esclusivamente razionale :  









Per questo Dio li ha abbandonati all’impurità [...] al disonore dei loro corpi tra loro stessi. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami. 5 Dio li ha abbandonati ad un’intelligenza spregevole, così che fanno ciò che è indecoroso, colmi di ogni sorta di ingiustizia. 6 4

Per sentire l’impeto di queste intuizioni si deve tentare di dimenticare la tonalità emotiva dei nostri teologi dogmatici e dei nostri catechismi ben temperati, per riprovare il brivido che poteva sentire l’ebreo di fronte alla collera di Jahweh, l’elleno di fronte all’orrore della heimarmene, e l’uomo antico in genere di fronte all’ira deorum. C’è un altro aspetto in Paolo su cui è ancora necessario richiamare esplicitamente l’attenzione e che appartiene anch’esso necessariamente a questo contesto : la sua dottrina della predestinazione. Che con l’idea della predestinazione ci si trovi in un ambito assolutamente irrazionale, il razionalista lo sente nel modo più immediato. A tale dottrina costui non riesce proprio ad accomodarsi. E del tutto a ragione, perché sul terreno del razionalista essa è l’absurdum e lo skavndalon assoluti. Egli può forse adattarsi a tutti i paradossi della Trinità e della cristologia : ma la predestinazione sarà per lui sempre la più dura pietra dello scandalo. Non certo nel modo in cui, a partire da Schleiermacher, che segue Leibniz e Spinoza, fino a oggi, talvolta viene presentata. Qui, infatti, non vi è che una semplice capitolazione di fronte alla legge di natura e alle « causae secundae », e una concessione alla pretesa della psicologia moderna secondo cui tutte le decisioni e le azioni dell’uomo sottostanno alla coercizione dei motivi ; secondo cui, dunque, l’uomo non è libero ma predeterminato da questi. E si identifica una tale predeterminazione ad opera della natura con l’azione divina universale, in modo tale che alla fine la profonda intuizione,  









religiosità ottiene una « coloritura mistica » quando ha una propensione a ciò. In questo senso, il cristianesimo, a partire da Giovanni e Paolo, non è mistica, ma è una religione con coloritura mistica. E questo è legittimo.  

4

  Rm 1, 24.   Rm 1, 26.   Rm 1, 28-29.

5

6



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puramente religiosa, della preordinazione divina, intuizione che non sa nulla di leggi di natura, trascorre nel pensiero banale, proprio delle scienze della natura, di un intreccio universalmente valido di cause. Non può darsi una speculazione più apocrifa, una falsificazione più fondamentale delle concezioni religiose. Non è affatto con questa che se la prende il razionalista, perché essa è da cima a fondo razionalistica ; anzi, in verità è la completa eliminazione della stessa idea religiosa. Quest’ultima ha una duplice scaturigine ed è in se stessa divisa in due momenti del tutto distinti. Bisognerebbe indicarla con due nomi che andrebbero tenuti decisamente separati. Un’idea è infatti quella dell’« elezione » ; l’altra, modulata in modo essenzialmente diverso, è quella della vera e propria predestinazione. L’idea dell’« elezione », ossia dell’esser eletti e preordinati da Dio alla salvezza, si dà immediatamente come pura espressione del vissuto religioso della grazia. Chi ha ricevuto la grazia, quando torna con lo sguardo su se stesso, riconosce e sente in misura crescente che non è divenuto ciò che è per mezzo delle proprie azioni o dei propri sforzi, ma che senza il suo volere e potere gli è stata concessa la grazia, che lo ha afferrato, spinto e guidato. E anche le sue decisioni e adesioni più proprie e più libere diventano per lui, senza che si perda il momento della libertà, qualcosa che egli ha vissuto piuttosto che operato. Prima di ogni agire proprio egli vede all’opera l’amore salvifico che lo cerca e lo sceglie, e riconosce un decreto eterno della grazia su di lui, che è appunto una pre-ordinazione. Quest’ultima è una preordinazione alla sola salvezza. Non ha nulla a che fare con la « praedestinatio ambigua », cioè con la pre-determinazione di tutti gli uomini o alla salvazione o alla dannazione. La conseguenza logico-razionale, per cui se Dio ha eletto uno e non un altro bisogna concluderne che Egli destina gli uni alla beatitudine e gli altri alla perdizione, non viene qui tratta, né è lecito trarla, perché si tratta di un’intuizione religiosa che come tale sta e vale del tutto a sé, che non è affatto suscettibile di sistematizzazione e di manipolazioni logiche : tentare qualcosa del genere significa farle violenza. Da questo punto di vista Schleiermacher, nei suoi discorsi sulla religione, a buon diritto dice :  



















Ogni (intuizione) è un opera che sussiste per sé [...] di deduzioni e collegamenti essa non sa nulla. b

Dall’elezione va distinta la predestinazione nella forma in cui compare in Paolo in Rm 9, 18 :  

Dio è misericordioso con chi vuole e indurisce chi vuole.

Qui il pensiero dell’« elezione », che in Paolo è forte, risuona certo chiaramente. Ma la riflessione del versetto 20 è evidentemente modulata su un tono totalmente altro :  





O uomo, chi sei tu che vuoi questionare con Dio ? Osa forse dire l’opera a chi l’ha plasmata : « Perché mi hai fatto così ? ».  





   

Questa è un’argomentazione che non rientra nella serie di pensieri dell’« elezione ». Ancor meno, però, scaturisce da una « dottrina » astrattamente teorica dell’universale causalità di Dio, quale compare in Zwingli : anche quest’ultima produce una « dottrina della predestinazione », la quale è però un prodotto artificiale della speculazione filoso 













b

31.

  Cfr. le Reden di Schleiermacher Über die Religion, a cura di R. Otto, terza edizione, Göttingen [1913], p.

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fica, ma non il risultato di un sentimento religioso forte e immediato. E anche quest’ultimo in effetti c’è, e senza dubbio in Paolo è fondamentale. Lo riconosciamo facilmente come sentimento numinoso di fronte al « mysterium tremendum » e la sua caratteristica, quale ci si è presentata sopra nel raccconto di Abramo, torna qui, ma in forma enormemente rafforzata. La concezione religiosa del pensiero della predestinazione, infatti, non è altro che quel « sentimento di creaturalità », quello sprofondare, quell’« annullamento » della propria forza, del proprio diritto e del proprio agire, di fronte all’oltremondano come tale. Il numen, vissuto come ultrapotente, diviene tutto in tutto. La creatura, con la sua essenza, con il suo agire, il suo correre e affaccendarsi, progettare e decidere, diviene nulla. L’espressione analogico-concettuale per un simile sprofondamento nel sentimento di fronte al numen è allora impotenza e inanità del proprio scegliere, da una parte, e onnipotenza, che tutto determina e dispone, dall’altra. Anche la predestinazione, identica all’assoluta ultrapotenza del numen, non ha dunque innanzitutto nulla a che fare con una « volontà non libera » ; anzi, molto spesso essa si trova di fronte proprio la « volontà libera » e solo così acquista rilievo. « Vogli ciò che vuoi e come puoi ; progetta e scegli liberamente : tutto deve però andare come deve e come è determinato » : questa è l’espressione prima e più autentica della cosa. L’uomo si annulla, insieme al suo libero scegliere e agire, di fronte alla potenza eterna e questa cresce a dismisura proprio per il fatto di eseguire i propri decreti nonostante la libertà del volere umano. Numerosi esempi di racconti islamici, che vogliono illustrare l’inflessibilità dei decreti di Allah, sottolineano intenzionalmente proprio questo lato della cosa. Qui gli uomini possono progettare, scegliere, rigettare : in qualunque modo scelgano e agiscano, l’eterna volontà di Allah si impone, nel giorno e nell’ora stabiliti. Quanto qui si intende innanzitutto mostrare non è l’onnipotenza e l’unicità dell’agire, ma l’assoluta sopraffazione e determinazione dell’agire della creatura, ancora tanto forte e libero, da parte della scelta e dell’azione eterne. Solo quando il sentimento di creaturalità si accresce ancora, viene oltrepassato e per lo più si intreccia con considerazioni teoretiche, solo allora si ottiene il pensiero di un agire onnipotente e assoluto della divinità. Allora esso conduce alla « mistica » ed è solo una nuova e ulteriore conseguenza se nella mistica si allacciano anche le sue peculiari speculazioni sull’essere. Non solo l’agire, ma anche la vera e propria realtà, il pieno essere stesso viene allora negato alla creatura, e ogni essere, ogni pienezza d’essere viene attribuita all’assoluto ente. Esso soltanto è reale ; e ogni essere della creatura è soltanto o una funzione del suo essere – Esso la fa essere – o è in generale soltanto apparenza. Queste connessioni possono essere riconosciute in modo particolarmente chiaro nella mistica di Geulincx e degli occasionalisti : « Ubi nihil vales, ibi nihil velis ». 7 La punta mistica risuona talvolta anche in Paolo, nelle sue misteriose parole sulla fine di tutte le cose, dove « Dio sarà tutto in tutto ». 8 Ma quel passo della Lettera ai Romani porta solo fino al pensiero della predestinazione stessa, che però non è altro che un ideogramma e l’espressione concettuale di un sentimento di creaturalità intensificato, e si radica totalmente nel numinoso. Che debba esser così lo si può chiarire anche con un’altra considerazione. Se il sentimento del numinoso, in quanto « sentimento di creaturalità », è realmente la vera e  





















































7   Cfr. A. Geulincx, Metaphysica vera (1691), I, 11, in Id., Opera philosophica, a cura di J. P. N. Land, Den Haag 1893, ii, p. 155. 8   Cfr. 1 Cor 15, 28 e Col 3, 11.

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propria radice della predestinazione, c’è allora da aspettarsi che quella religiosità, che è prevalentemente e unilateralmente determinata da momenti irrazionali nell’idea di Dio, sia anche quella più incline al predestinazionismo. E proprio questo, evidentemente, è il caso. Nessuna religione è tanto caratterizzata dal predestinazionismo quanto l’Islam, la cui peculiarità è nel fatto che qui il versante razionale, e specialmente etico, dell’idea di Dio sin dall’inizio non riuscì ad ottenere quella solida e chiara impronta che ha, per esempio, nel giudaismo o nel cristianesimo. Il numinoso in Allah è assolutamente preponderante. Si critica l’Islam perché in esso il comando etico ha il carattere della « casualità » e vale in virtù della « casuale volontà » della divinità. La critica è del tutto corretta, solo che la questione non ha nulla a che vedere con il « caso ». Il punto è piuttosto che il numinoso, l’elemento inquietante-demonico di Allah, sopravanza il razionale. E appunto perciò si spiega anche ciò che si è soliti chiamare il tratto « fanatico » di questa religione. Un sentimento sovreccitato e selvaggio del numen, che non è temperato dai momenti razionali : questa è ovunque l’essenza del « fanatico ». Con quanto precede si è anche dato un giudizio di valore sul pensiero della predestinazione, che come tale è il tentativo di esprimere in modo analogico e concettuale qualcosa che in fondo non è esplicitabile in concetti. In quanto espressione analogica ha il suo pieno diritto. Ma diventa immediatamente summa injuria se se ne disconosce il carattere soltanto analogico e la si assume come teoria e come espressione adeguata. In tal caso, per una religione razionale come il cristianesimo, diviene addirittura perniciosa e insopportabile, per quanto si tenti di renderla innocua con abili artifici per aggirarla. Vi è anche un altro momento del pensiero di Paolo che, come il pensiero della predestinazione, affonda le sue radici nel numinoso : la sua completa svalutazione della « carne », che in lui non è altro che la datità della creaturalità in genere. Quest’ultima, come abbiamo visto a p. 213 e a p. 229, viene svalutata dal sentimento numinoso rispetto all’oltremondano tanto dal lato dell’essere, quanto da quello del valore : in quanto « terra e cenere », « nulla », dipendenza, debolezza, caducità e mortalità, dal primo punto di vista ; in quanto profanità, impurità, incapacità del valore del sacro e di vicinanza ad esso, dal secondo. Nelle rappresentazioni di Paolo ritroviamo esattamente entrambi i tipi di svalutazione : ciò che è specificamente paolino è l’intensità e la pienezza di questa. Donde Paolo tragga questo grado di intensità, se da sé o dall’influenza di un ambiente « dualistico », è una questione a sé. Continuità e derivazioni storico-genetiche non determinano nulla dell’essenza del valore di una cosa, e si può per lo meno osservare che negli impulsi più autentici della devozione numinosa già veterotestamentaria vi erano forti presupposti per tali influenze. Anche qui « bāśār », la « carne », è già principio sia dell’essere « terra e cenere », sia dell’« impurità » della creatura di fronte al sacro. Come in Paolo, così anche in Giovanni la trama numinosa è marcata. Come spesso accade nella mistica, il momento del tremendum si smorza, senza sparire del tutto, perché anche in Giovanni « mevnei hJ ojrghv », 9 nonostante Ritschl : ma tanto più forte è qui il mysteriosum e il fascinosum in figura, appunto, mistica. In Giovanni il cristianesimo assorbe dalle religioni concorrenti « fw`~ » e « zwhv » : c a buon diritto, visto che solo qui  













































































c

  E con ciò assorbe anche quelle, secondo il diritto del più forte. Da allora questi elementi gli appartengono inseparabilmente, come ciò che gli è proprio. Infatti « quando la potente forza dello spirito gli elementi / per sé ha afferrato, nessun angelo separò / la duplice natura unificata dei due che son nell’intimo uno » [cfr. J. W. Goethe, Faust, ii, 5, vss. 11958-9], meno che mai la critica filologica.  



9

  « Persiste l’ira ».  



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giungono a casa. Ma cosa sono ? Per non sentirlo bisogna essere di legno. Ma nessuno è in grado di dirlo : neanche Giovanni lo dice, in nessun luogo. Esse sono un aspetto debordante dell’irrazionale.*  



Capitolo quattordicesimo IL NUMINOSO IN LUTERO

I

l sentimento del numinoso vive in modo straordinariamente potente nel cattolicesimo, nel suo culto, nella sua simbolica sacramentale, nella forma apocrifa della fede nei miracoli e della leggenda, nei paradossi e nei misteri del suo dogma, nelle trame platonico-plotiniane e dionisiache delle idee cui esso dà forma, nella solennità delle sue chiese e delle sue cerimonie, e in modo particolare nello stretto contatto tra la sua devozione e la mistica ; tale sentimento vive molto meno, anche qui, per le ragioni già indicate, nei suoi sistemi dottrinali ufficiali. In particolare da quando i grandi « moderni » hanno connesso Aristotele e il metodo aristotelico con la dottrina della Chiesa, sostituendolo al « platonismo », ha avuto qui luogo una forte razionalizzazione, che la prassi e la vita del sentimento non hanno seguito, e alla quale non hanno mai aderito. Ciò che qui si scontra sotto la forma del « platonismo » e dell’« aristotelismo », nonché la persistente protesta contro i moderni in genere, non è in buona parte altro che la lotta tra il momento razionale della religione cristiana e quello irrazionale. Anche nella protesta di Lutero contro Aristotele e i theologi moderni agisce in modo chiaramente riconoscibile la medesima contrapposizione. Si conosceva lo stesso Platone soltanto in modo molto insufficiente e lo si interpretava attraverso Plotino e Dionigi. Era però corretto il sentimento che portava a scegliere come parole d’ordine di quella contrapposizione di tonalità emotive « Platone » e « Aristotele ». Certo, lo stesso Platone aveva potentemente contribuito alla razionalizzazione della religione. Secondo la sua filosofia la divinità era divenuta identica all’idea del bene, era dunque divenuta qualcosa di completamente razionale e concettuale. Ma l’elemento caratteristico nel modo platonico di pensare è che per lui la filosofia e la scienza sono troppo anguste per abbracciare l’interezza della vita dell’animo umano. In realtà egli non ha alcuna « filosofia » della religione. Coglie quest’ultima con mezzi completamente diversi da quelli del pensiero concettuale, ossia con gli ideogrammi del mito, con l’entusiasmo e la mania. Rinuncia al tentativo di portare l’oggetto religioso insieme agli oggetti dell’episteme, ossia della ratio, in un sistema della conoscenza : con ciò tale oggetto non gli si rimpicciolisce, ma diviene più grande, e contemporaneamente ciò che di quell’oggetto è completamente irrazionale arriva al sentimento in modo sommamente vivo. E non soltanto al sentimento, ma anche all’espressione. Nessuno più di questo maestro del pensiero ha affermato in modo tanto deciso che Dio è al di sopra di ogni ragione, non soltanto incomprensibile, ma anche non coglibile :  

































to;n men ou\n poihthvn [...] euJrei`n te e[rgon kaiv euJrovnta eij~ pavnta~ ajduvnaton levgein. a 1

Aristotele è molto più teologico di Platone, ma molto meno religioso quanto a tonalità emotiva, ed è assolutamente razionalista nella sua teologia. E questa contrapposizione si ripete in coloro che si riconoscono nell’uno o nell’altro. a

  Timeo, 27 [sc. : 5, 28c].

1



  « È difficile trovare il creatore, ed è impossibile che chi l’ha trovato lo annunci a tutti ».  



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capitolo quattordicesimo

Sin dai tempi dei più antichi Padri, con l’assunzione dell’antica dottrina dell’ajpavqeia della divinità, la dottrina della Chiesa ha subito un’altra influenza che ne ha attutito l’elemento irrazionale. Il Dio della teologia greca, e in particolare stoica, era costruito sull’idea del « saggio », che supera le sue passioni e i suoi affetti e diviene ajpaqhv~. Si è cercato di assimilare questo Dio al « Dio vivente » della Scrittura. Come già accennato sopra, anche in questa lotta agisce inavvertitamente la contrapposizione tra il momento razionale e quello irrazionale nel divino. Soprattutto Lattanzio, nel De ira Dei, combatte contro questo Dio dei philosophi ; e lo fa intensificando gli stessi termini del tutto razionali della vita di sentimento umana. Egli fa di Dio, per dir così, un animo colossale, di un’eccitabile ed eccitata vitalità. Ma chi lotta in questo modo per il Dio « vivente », lotta, senza accorgersene, per quell’elemento divino in Dio che non si esaurisce nell’idea di un ordine del mondo, di un ordine morale, di un principio dell’essere. Molte delle espressioni di Lattanzio afferrano e indicano qualcosa di più elevato. Citando Platone, afferma :  















Quid omnino sit deus, non esse quaerendum : quia nec inveniri possit nec enarrari. b 2  

In generale Lattanzio ama accentuare l’« incomprehensibilitas » di Dio :  





quem nec aestimare sensu valeat humana mens nec eloqui lingua mortalis. Sublimior enim ac maior est quam ut aut cogitatione hominis aut sermone comprehendi. c 3

Egli ama l’espressione della « majestas » Dei e rimprovera ai filosofi di giudicare in modo sbagliato circa la « singolare maestà » di Dio : sente il tremendum della majestas quando sostiene che Dio si « adira », quando esige il « timore » quale tratto fondamentale della religione, quando afferma :  



















Ita fit, ut religio et majestas et honor metu constet. Metus autem non est ubi nullus irascitur. d 4

Afferma che un Dio che non può adirarsi, non può nemmeno amare. E un Dio che non può né l’una, né l’altra cosa è immobilis e non è il Deus vivus della Scrittura. Nel Medioevo l’antica lotta di Lattanzio contro il « Deus philosophorum » rivive nella lotta di Duns Scoto per il Dio della « volontà » e per la validità di quest’ultima, nella religione, di contro al Dio dell’« essere » e alla « conoscenza ». E i momenti irrazionali, qui ancora latenti, erompono pienamente in Lutero, in certe sue peculiari concatenazioni di pensiero. In Lutero questo momento è stato in seguito silenziosamente messo da parte e viene oggi volentieri trattato come « apocrifo », come « residuo scolastico di speculazione nominalistica ». Curioso, allora, che un simile « residuo scolastico » abbia avuto, come è evidente, una simile potenza nella vita dell’animo di Lutero. In verità non si tratta di un « residuo », ma, senza alcun dubbio, di sfondi misteriosi e oscuri, quasi spaesanti, della sua devozione, dai quali soltanto propriamente si stacca la chiara beatitudine e la gioia  































b

  Op[era], ed. [O. F.] Fritzsche, [vol. 2, Lipsiae 1844], p. 227.   P. 116. d   P. 218. c

2

  « Che cosa mai sia Dio, non lo si deve chiedere, perché non lo si potrebbe trovare, né dire ».   « Lo spirito umano non è in grado di stimarlo, né può esprimerlo una lingua mortale. È più sublime e più grande, di quanto il pensiero o il discorso umano siano in grado di afferrare ». 4   « Così accade che religione, maestà e venerabilità riposino sulla paura ; ma non vi è paura dove nessuno si adira ». 3















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della sua fede nella grazia : è su quel contraltare che queste ultime debbono esser viste se le si vuole apprezzare nella loro piena forza e profondità. Da qualsiasi parte gli siano venute le sollecitazioni, se dal « nominalismo » o dalle tradizioni dottrinali del suo ordine, qui si tratta di moti del tutto originari dello stesso sentimento numinoso, secondo quei suoi momenti tipici che abbiamo conosciuto. Questo è confermato anche dal fatto che in lui tali momenti si presentano al completo, rimandando così al loro fondamento comune. 1. Prescindiamo qui dai molti fili che legano la sua devozione alla mistica ; fili che all’inizio sono robusti, poi più deboli, ma che non scompaiono mai completamente. Prescindiamo anche dalla sopravvivenza dell’elemento numinoso del culto cattolico nella sua dottrina della Cena, la quale non è interamente derivabile né dalla sua dottrina del perdono dei peccati, né dalla sua sottomissione a ciò che « sta scritto ». Per noi sono importanti, invece, le sue « mirae speculationes » su ciò che in Dio è « non rivelato » a differenza della « facies Dei revelata », sulla « divina majestas » e sulla « omnipotentia Dei » in contrapposizione alla sua « gratia », quali sono esposte nel De servo arbitrio. Poco importa indagare fino a che punto egli abbia mutuato queste « dottrine » da Scoto : esse sono strettamente dipendenti dalla sua più propria e intima vita religiosa ; erompono da questa in modo del tutto autentico e originario e come tali vanno esaminate. Lutero stesso assicura energicamente che non insegna queste cose solo come controversie di scuola o conclusioni filosofiche, ma perché appartengono alla devozione stessa del cristiano, il quale deve saperle in vista della sua fede e della sua vita. Rimprovera la scaltra cautela di Erasmo, che sosteneva le si dovesse nascondere almeno al popolo, le proclama egli stesso in una predica pubblica (sul libro dell’Esodo, a proposito dell’indurimento del Faraone) e le scrive nella lettera agli abitanti di Anversa. 5 Prossimo alla morte, Lutero dichiara ancora di riconoscere il trattato De servo arbitrio come quello più suo. « Avere un Dio non significa altro che fidarsi di Lui di cuore », dice nel Großer Katechismus ; e per lui Dio è colui che « si spande in pura bontà ». Ma il medesimo Lutero conosce gli abissi e le profondità della divinità, che gli avviliscono il cuore, di fronte ai quali si rifugia, come un tasso in un crepaccio, nella « Parola », nel sacramento, nell’assoluzione, nel conforto della predicazione istituzionale del Doctor Pommeranus, 6 ma, in generale, in ogni parola di conforto e promessa, in ogni promissio nei Salmi e nei Profeti. Ma lo spaventoso, che egli rifugge nello stato d’animo, che si ripete di frequente, di un angoscioso rabbrividire, non è solo il giudice severo che esige giustizia, perché questo è senz’altro anche « Dio rivelato ». Si tratta invece sempre del Dio secondo la sua « non rivelazione », nella tremenda maestà del suo stesso essere Dio : colui di fronte al quale trema non soltanto chi ha trasgredito una legge, ma la stessa creatura nella sua creaturalità « non coperta ». Lutero osa chiamare persino questo elemento tremendo-irrazionale in Dio come « Deus ipse, ut est in sua natura et majestate » (in effetti un’assunzione pericolosa e falsa, perché il lato irrazionale nella divinità non è affatto tanto diverso da quello razionale, quasi che questo pertenesse ad essa in modo meno essenziale di quello !). I relativi passi del De servo arbitrio sono citati abbastanza spesso. Ma ci si abbandoni  













































































5

  Sendschreiben an die Christen zu Antwerpen (1525), Weimarer Ausgabe, 18, pp. 547-550.   Johannes Bugenhagen, nato nel 1485 a Wollin (Pomerania) e morto nel 1558 ; Stadtpfarrer di Wittenberg dal 1523, celebrò nel 1525 il matrimonio di Lutero. 6



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all’effetto del passo seguente, tratto dalla predica su Es 20, e per rendersi conto dell’elemento quasi demonico di questo sentimento numinoso. Lutero non lascia nulla di intentato per raffigurare ciò che vi è di orrendo nel testo e per portarlo ad effetto :  

Certo, per il mondo sembra che Dio sia uno che apre la bocca solo per sbadigliare, un cornuto, un buon uomo che permette che un altro vada a letto con sua moglie e fa finta di non veder nulla,

ma egli inghiotte uno e ne prova un tale piacere che viene spinto dal suo zelo e dalla sua collera a divorare i malvagi. Quando comincia, non smette più. [...] Impareremo come Dio sia un fuoco divoratore che distrugge tutto e arde da ogni lato. È il fuoco che divora e ighiotte. f E se peccherai ti divorerà : g perché Dio è un fuoco che divora, inghiotte e arde, vi uccide come il fuoco divora una casa, la rende polvere e cenere. h  

E in un altro passo :  

È più terrificante e ripugnante del diavolo. Perché agisce e ci tratta con violenza, ci tormenta e ci martoria, e non bada a noi. i Nella sua maestà è un fuoco divoratore. l Nessun uomo sulla terra può fare a meno di questo : quando pensa davvero a Dio gli trema il cuore nel petto e vorrebbe fuggire dal mondo. Appena sente nominare Dio si fa timoroso e timido. m  

È* il numen assoluto, sentito qui unilateralmente dal versante del tremendum e della majestas. Se sopra, per denominare questo versante del numinoso, ho introdotto queste parole, è perché mi ricordavo dei termini di Lutero : li ho mutuati dalla sua « divina majestas » e dalla « metuenda voluntas » che da quando mi sono occupato per la prima volta di Lutero mi sono rimaste nell’orecchio.** Sul De servo arbitrio di Lutero si è formata la mia comprensione del numinoso e della sua differenza dal razionale, molto prima che la ritrovassi nel qādôsh dell’Antico Testamento e nei momenti del « timore religioso » nella storia della religione in generale. Bisogna aver visto queste profondità e questi abissi per capire poi correttamente cosa significhi che sia il medesimo uomo quello che cerca di porre l’intero cristianesimo nella fede fiduciosa. Quanto abbiamo detto della devozione del vangelo e del paradosso della fede in Dio Padre ritorna nel vissuto di devozione di Lutero con una acutizzazione inaudita. Che l’inavvicinabile si faccia vicino, che il sacro sia pura bontà, che la majestas si faccia familiare, questo è il cuore della questione ; il quale viene ad espressione solo in modo assai confuso nelle più tarde dottrine di scuola, quando l’elemento mistico dell’ojrghv, che non è altro che la sacralità stessa, informato dal bene, viene messo unilateralmente in rapporto con la « giustizia » di Dio. 2. Una volta che il sentimento numinoso si sia destato, poiché esso è una unità, ci aspettiamo che al comparire di uno dei suoi momenti facilmente compariranno anche gli altri : infatti in Lutero li troviamo, in primo luogo nella serie di pensieri che ho chiamato « giobica ». Abbiamo visto sopra che nel Libro di Giobbe è più questione della  





















e



  L[uthers] W[erke], Erl[anger] Ausg[abe] 36, pp. 210 e ss.   P. 222. g   P. 231. h   P. 237. i   [Erlanger Ausgabe] 35, p. 167. l   L. W., Erl. Ausg. 47, p. 145. m   [Erlanger Ausgabe] 50, p. 200. f



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majestas mysteriosa del numen che non della majestas tremenda ; è questione cioè dell’irrazionale in senso stretto, di ciò che è paradossale e dunque non coglibile, di quel che si contrappone a ciò che è « ragionevole » e che ragionevolmente ci si dovrebbe aspettare, di quel che alla ragione non va a genio. A ciò si indirizzano le violente invettive di Lutero contro la « ragione prostituta », che appaiono necessariamente grottesche se non si è compreso il problema dell’irrazionale nel concetto di Dio ; ma anche, in un senso particolare, certe formulazioni che in modo del tutto tipico tornano in Lutero e che mostrano il suo forte sentimento per il momento irrazionale della divinità in generale. Qui i passi più interessanti sono quelli nei quali arriva a potenti paradossi e non quelli in cui presenta questo sentimento con la moneta spicciola dell’edificazione popolare, che si accontenta del fatto che le vie di Dio sono troppo elevate per noi uomini. Egli riesce a parlare molto semplicemente e comunemente di come « il nostro Dio sia un Signore bizzarro » e a riportare questo al fatto che non ragiona e valuta come il mondo, che si mette dalla parte degli umili e dei piccoli, che ci abitua alla sua guida per vie bizzarre. Ma in Lutero, queste espressioni si radicalizzano in un modo che è tipicamente suo. In generale, Dio è per lui « mysteriis suis et judiciis impervestigabilis » ; 7 egli prova la sua vera majestas – come in Giobbe – « in metuendis mirabilibus et iudiciis suis incomprehensibilibus » ; 8 nella sua essenza Egli è assolutamente nascosto ad ogni ragione ; è senza misura, legge e scopo e agisce in ciò che è del tutto paradossale :  































ut ergo fidei locus sit, opus est ut omnia quae creduntur abscondantur. 9

E non si tratta soltanto di notare questo paradosso incomprensibile e piegarsi ad esso, ma di rendersi conto che appartiene al divino ed è proprio il suo segno distintivo :  

Si enim talis esset eius iustitia, quae humano captu posset iudicari esse iusta, plane non esset divina et nihilo differet ab humana iustitia. At cum sit Deus verus et unus deinde totus incomprehensibilis et inaccessibilis humana ratione, par est, imo necessarium est, ut et iustitia sua sit incomprehensibilis. n 10

L’espressione teologica per l’imbarazzo nel trovare una definizione per i momenti dell’irrazionale e del misterioso, è la ripugnante teoria che Dio sarebbe « exlex », che il bene è buono perché Dio lo vuole, e non che Dio vuole il bene perché è buono ; la teoria di una volontà assolutamente arbitraria in Dio che in effetti farebbe di Lui un « despota capriccioso ». Dottrine come questa compaiono con particolare forza nella teologia islamica ; il che è immediatamente comprensibile se è giusto quanto abbiamo affermato circa il fatto che sono espressioni imbarazzate dell’irrazionale-numinoso nella divinità e che proprio nell’Islam tale momento è predominante. Le ritroviamo in questa connessione anche in Lutero ; o ma in questo fatto vi è in pari tempo una scusante per tali horrenda che in effetti sono in sé blasfemi : ciò che ha condotto a simili cari 















n

  Wei[marer] Ausg[abe] 18, p. 784. Cfr. la lunga spiegazione in Erl. Aus. 85, p. 166.   Cfr. Erl. Ausg. 35, p. 166.

o 7

  « Nei suoi misteri e nei suoi giudizi inindagabili ».   « Nei suoi miracoli spaventosi e nei suoi giudizi incomprensibili ». 9   « Affinché vi sia spazio per la fede, allora tutto ciò che è creduto deve esser nascosto ». 10   « Se infatti la sua giustiza fosse tale da poter essere riconosciuta come giusta dalla facoltà umana di apprensione, allora chiaramente non sarebbe divina e non si distinguerebbe in nulla dalla giustizia umana. Ma poiché Dio è uno e vero, e per di più incomprensibile e inaccessibile alla ragione umana, è opportuno, forse necessario che anche la sua giustizia sia incomprensibile ». 8

















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cature è stato un difetto di psicologia e nella scelta di mezzi espressivi, non il disprezzo nei confronti dell’assolutezza dell’ethos. 3. Secondo il punto di vista che abbiamo esposto, con simili sentimenti fondamentali doveva necessariamente comparire, a suo tempo, la dottrina della predestinazione ; qui non è necessario postulare, come in Paolo, l’interno intreccio emotivo tra quei sentimenti e questa dottrina : essa è già evidentemente manifesta nel De servo arbitrio. Qui l’una dipende dagli altri in modo del tutto chiaro e con una coappartenenza d’essenza tanto presente al sentimento, che questo scritto diviene per noi la chiave psicologicoreligiosa per manifestazioni affini. 4. Solo raramente questi elementi puramente numinosi del suo sentimento religioso vengono così prepotentemente alla luce come nel De servo arbitrio. Nei combattimenti con la desperatio e con Satana, nelle frequenti catastrofi e malinconie, nella ricerca affannosa e sempre rinnovantesi della grazia, che lo ha portato alla soglia della malattia mentale, agisce qualcosa di più dei soli fondi razionali dell’anima. Anche quando parla con espressioni solo razionali del giudizio, della punizione o della severità di Dio, dobbiamo sentir risuonare i momenti profondamente irrazionali di tale « timore religioso », se vogliamo intendere tali espressioni nel senso di Lutero. Anche una simile ira di Dio ha in sé spesso, forse sempre, qualcosa della collera di Jahweh, dell’ojrghv del numinoso. Questa circostanza ci porta oltre. Nelle espressioni di un Dio non rivelato e della tremenda majestas tornano evidentemente solo quei momenti del numinoso che abbiamo innanzitutto incontrato a p. 209 e ss., in particolare il tremendum, il momento repulsivo del numinoso. Ma che ne è del « fascinosum » in Lutero ? Al suo posto troviamo soltanto i predicati razionali dell’esser degno di fiducia e dell’amore, nonché i momenti dell’animo che a ciò corrispondono, ossia la fede e la fiducia ? Evidentemente no. Qui il fascinosum è completamente intessuto in questi momenti, è in essi e con essi compare, è espresso e risuona. Si consideri quanto si è detto in precedenza, a p. 228, circa l’intreccio dell’irrazionale e del razionale, e circa il senso più profondo che assumono le espressioni razionali. Come l’elemento dell’oltremondano che fa rabbrividire è incluso nel Dio della severità, della punizione e della giustizia, così il suo aspetto beatificante è incluso nel Dio che si « riversa con pura bontà ». Risiede nel concetto di fede di Lutero, ossia nel suo carattere debordante e mistico. Il collegamento di Lutero con la mistica non può qui essere ignorato. Certo, al posto della « conoscenza » e dell’« amor di Dio », in Lutero compare in misura sempre più intensa la « fede » ; il che significa una grandiosa modificazione dell’intero mondo emotivo religioso rispetto alla tonalità emotiva della mistica. Ma, nonostante ogni modificazione, è evidente che la fede di Lutero conserva tratti molto determinati che la collocano dalla parte delle funzioni mistiche dell’anima e che la distinguono chiaramente dalla determinatezza razionale e dalla misura ben temperata della fede della dottrina luterana scolastica. Come la « conoscenza » e l’« amore », così la fede, per Lutero, resta costantemente e fino alla fine la peculiare facoltà dell’anima della « adhaesio Dei », che unisce l’uomo con Dio. Ma l’unificazione è il marchio della mistica ; e quando Lutero afferma che la fede « impasta » l’uomo con Dio o che essa lo 11 contiene « sicut annulus gemmam », non parla per immagini, o per lo meno non più di quanto lo faccia Taulero quando dice lo stesso dell’amore. Anche per Lutero la fede è qualcosa che non si esaurisce in concetti razionali e per la cui designazione  























































11   Nell’edizione Beck il pronome, del quale è in effetti difficile capire il riferimento, è sostituito da « Cristo ».  



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sono necessarie simili « immagini ». La fede è per lui quel centro dell’anima, che per i mistici era il fondo dell’anima, in cui si compie l’unificazione. La fede, inoltre, è la « cosa attiva, potente, creatrice » in noi, è l’affetto più forte, che si trova in stretta parentela con l’ejnqousiavzesqai. Assume le funzioni che tutti gli entusiasti, a partire da Paolo, hanno sempre attribuito al pneu`ma. p È la fede che « ci trasforma interiormente e ci fa nascere di nuovo » : da questo punto di vista è del tutto simile all’amor mysticus, per quanto ne differisca secondo la sua interna disposizione emotiva. Nella beatitudine della certitudo salutis, che essa afferra, e nella tonalità entusiasta della fede filiale di Lutero, ritornano, attutiti, i sentimenti filiali di Paolo, che sono più della mera consolazione dell’anima e della tacitazione della coscienza, o del mero sentirsi al sicuro. Tutti i « mystici » posteriori, da Johann Arndt 12 fino a Spener 13 e Arnold 14 hanno sempre sentito congeniale e affine  

















p

  Cfr. R. Otto, AHG, il capitolo su Geist und Glaube, pp. 25-46. Si confronti anche, nella stessa opera, la ricerca sul concetto di fede di Lutero, che per lui non è soltanto confidere e fiducia, ma « adhaerere Deo » con il sentimento e la volontà. Si studi quindi il pregevole scrittarello di Alberto Magno, De adhaerendo Deo, per riconoscere l’intima connessione di Lutero con la mistica, quanto al suo concetto di fede. Si veda in particolare il capitolo xii, De amore Dei, quod efficax sit : in questo capitolo Lutero non dice nulla sulla forza rigeneratrice, giustificante e santificante della fede, che non sia detto anche dell’amor mysticus : « Solus amor est, quo convertimur ad Deum, transformamur in Deum, adhaeremus Deo, unimur Deo, ut simus unus spiritus cum eo, et beatificemur cum eo ». L’amor è qui « la cosa attiva potente creatrice che ci trasforma e ci rigenera ». Anch’esso è affetto che non ha requie : « prohinde nihil amore acucius, nihil subtilius, aut penetrabilius. Nec quiescit, donec universaliter totam amabilis penetravit virtutem et profunditatem ac totalitatem, et unum se vult facere cum amato. Vehementer tendit in eum et ideo nuncquam quiescit, donec omnia transeat, et ad ipsum in ipsum veniat ». Ma l’azione della adhaesio è esattamente la stessa che spesso descrive anche Lutero : « Quippe qui Deo adhaeret, versatur in lumine [...] qua ex re est hominis in hac vita sublimior perfectio ita Deo uniri, ut tota anima cum ombnibus potentiis suis et viribus in Dominum Deum suum sit collecta, ut unus fiat spiritus cum eo ». Lutero definisce questo, in modo ancora più radicale, « essere una sola pasta con Dio ». Bisogna prestare attenzione al fatto che questo amor in Alberto è esso stesso già totalmente compenetrato di fede, fiducia, desiderio di consolazione, di certezza, di sicurezza, e che anche per lui la remissio peccatorum è il primo elemento dell’ordo salutis : « Sic scilicet in Domino Deo de omni sua necessitate audeat plene totaliter confidere. Hoc ipso facto in tantum Deo conplacet, ut suam ei gratiam largiatur, et per ipsam gratiam veram sentiat caritatem et dilectionem, omnemque ambiguitatem et timorem expellentem in Deoque confidenter sperantem » (Cap. v). Per questo anche l’adhaesio può tavolta accadere altrettanto bene mediante la fede : « sed tantum fide et bona voluntate adhaerere Deo » (Cap. vi). E l’assenza di preoccupazione, la fiducia e la certa consolazione dell’animo si ottiene in tipica conseguenza : « peccatorum remissio, amaritudinis expressio, collatio dulcedinis et securitatis, infusio gratiae et misericordiae attractio et corroboratio familiaritatis, atque abundans de ipso consolatio, firmaque adhaesio et unio ». Questi paragoni sono istruttivi per l’intera questione del rapporto di Lutero con la devozione mistica, non in senso storico, totalmente indifferente, ma in senso sostanziale. Si è detto che chi ama la mistica da protestante sarebbe un dilettante : dovrebbe diventare cattolico. Ma cos’è « la » mistica ? Se con ciò si intendono le struggenti gioie di sentimenti sponsali trascendenti allora l’affermazione è corretta. Il momento tipico della mistica, però, il « sentimento di creaturalità » e l’« unio », non è meno, ma più possibile sul fondamento della fede di Lutero (in quanto fiducia e adhaesio).  

































































12

  Gli scritti mistici e devozionali di Johann Arndt (1555-1621), in particolare i Bücher vom Wahren Christentum e il Paradiesgärtlein voller Christlicher Tugenden, ebbero una profonda influenza su Spener e sul pietismo in genere. 13   Philipp Jacob Spener (1635-1705) è il fondatore di quel movimento di rinnovamento spirituale interno al luteranesimo che va sotto il nome di « pietismo ». Quali rimedi alla « orribile corruzione » che riscontra nella Chiesa luterana, Spener propone i sei pia desideria (che danno il titolo alla sua opera principale, pubblicata nel 1675) : diffusione della Sacra Scrittura, restaurazione del sacerdozio universale, pratica delle virtù cristiane, amore nella polemica, recupero dell’interesse per la salvezza accanto a quello per lo studio, riorientamento della predicazione sul tema centrale dell’uomo nuovo. 14   Gottfried Arnold (1666-1714), teologo luterano pietista e storico della Chiesa e delle eresie. La sua opera principale, che ebbe notevole influenza sull’illuminismo tedesco, è una storia « imparziale » dei movimenti eretici (Unparteyische Kirchen- und Ketzer-Historie,1699). Fu anche autore di numerosi inni religiosi.  













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questo lato della vita emotiva luterana, e hanno raccolto accuratamente i relativi passi del beato Lutero per difendersi con ciò dagli attacchi della dottrina luterana di scuola razionalizzata. Infatti, i momenti irrazionali si mantengono vivi, di contro alle razionalizzazioni della dottrina di scuola, nella tarda fioritura della mistica occidentale sul versante cattolico e su quello protestante. In essa, e nella mistica cristiana in generale sin dai suoi primi impulsi, si riconoscono facilmente i momenti dell’irrazionale che abbiamo esaminato, in particolare quelli del mysteriosum, del fascinosum e della majestas, mentre quello del tremendum recede e si attutisce. In occidente non c’è stata una mistica dell’« orrore » come quella di alcune forme della mistica indiana, nel cap. XI del Bhagavadgītā, in alcune forme della mistica di Śiva e Durgā, nelle forme orribili del tantrismo in ambito buddhista e induista. D’altra parte il momento del tremendum, sebbene attutito, non manca però completamente nella mistica cristiana. Resta vivo nella caligo, nell’altum silentium, nell’abisso, nella notte, nel deserto della divinità in cui l’anima deve immergersi ; nel tormento dell’abbandono, nell’aridità, nella noia in cui essa deve restare ; nel brivido e nel tremore dello spossessamento di sé, nello sgomento e nella annihilatio, nell’infernum temporale. Dice Seuse :  









In questo momento inconcepibile del dove oltredivino [l’« oltresostanziale altezza della divina maestà] si spalanca un’abissalità percepibile da tutti gli spiriti puri. Là giunge [l’anima] nella nascosta innominabilità e nella miracolosa estraneazione. E là vi è l’abisso profondo e senza fondo per tutte le creature [...] là muore lo spirito – onnivivente nei miracoli della divinità. q  

E può accadere che talvolta egli preghi così :  

Ahimé, il Tuo volto incollerito è così terribile ! È così insopportabile quando, sdegnato, distogli lo sguardo. Ahimé ! E le tue parole ostili sono così roventi che trapassano il cuore e l’anima. r  



Anche i mistici posteriori conoscono bene questi toni. In un punto l’elemento irrazionale-spaventoso e anzi demonico del numinoso diviene sommamente vivo nella mistica : in Jakob Böhme. Questi accoglie i motivi della mistica precedente, tanto quanto, nella sua speculazione e nella sua teosofia, se ne distingue. Grazie ad essa egli vuole costruire e comprendere Dio stesso e, a partire da lui, il mondo : questo voleva anche Eckhart ; e anche per Böhme il primo punto di partenza è il fondamento originario, o piuttosto il non-fondamento, l’oltreconcettuale e l’inesprimibile. Ma per lui questo non è essere e oltre-essere, ma impeto e volontà ; e non tanto bene e oltre-bene, quanto un’irrazionale indifferenza e identità del bene-male, nel quale deve esser trovata la possibilità di entrambi, del bene come del male, e quindi insieme della doppia figura della divinità stessa, quale bontà e amore, da una parte, e quale collera e ira dall’altra. Dalla collera « origina » per lui Lucifero, nel quale la mera potenza del male diviene atto. Estremamente bizzarre sono le costruzioni e le analogie con cui Böhme compone un romanzo fisico-chimico di Dio ; ma estremamente significative sono le strane intuizioni del sentimento religioso che ci sono dietro. Sono intuizioni del numinoso che hanno un’affinità con quelle di Lutero : anche qui « vitalità » irrazionale e majestas concepite e simboleggiate come « volontà » ; anche qui il loro carattere tremendum. E questo, anche qui, è del tutto indipendente, secondo il fondamento, dai concetti di un’elevatezza o di una giustizia morali, ed è totalmente indifferente  

















q

  Die deutschen Schriften, a cura di Denifle, [cit.,] pp. 289 e ss.   Ivi, p. 353.

r









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rispetto ad un agire buono o cattivo : è piuttosto una « collericità », un’« ira che fa fuoco e fiamme », di cui si ignora il che cosa ; o anzi non c’è un che cosa, ma è un’ira in sé, una disposizione naturale che, presa seriamente nel senso di un vero adirarsi comprensibile concettualmente, sarebbe completamente priva di senso. E chi non vede subito che si tratta semplicemente del momento irrazionale del tremendum, per cui « ira », « fuoco », « collera » sono un eccellente ideogramma ! s Se un tale ideogramma viene assunto come concetto adeguato si arriva all’antropomorfismo di Lattanzio e del mito. Se si specula a partire da questi concetti si arriva a quella pseudoscienza che è la teosofia. Il marchio di ogni teosofia è infatti che le espressioni analogiche del sentimento vengono scambiate per concetti razionali ; questi ultimi vengono sistematizzati e da essi viene poi inventata la mostruosità di una scienza di Dio, la quale resta mostruosa, che la si costruisca utilizzando i termini della dottrina scolastica, come in Eckhart, o le sostanze e misture alchimistiche di Paracelso, come in Böhme, o le categorie di una logica animistica, come in Hegel, o vuote affermazioni retoriche indiane, come in Mrs. Besant. t 15 Non è certo per la sua teosofia che Böhme è interessante sotto il profilo storico-religioso, ma perché dietro quella agisce, quale elemento prezioso, il sentimento vivo del numinoso ; da questo punto di vista, egli custodiva un’eredità dello stesso Lutero, che nella scuola di quest’ultimo era andata perduta. Tale scuola, infatti, non ha reso giustizia al numinoso nel concetto cristiano di Dio : con interpretazione moralistica ha accantonato la sacralità e l’« ira di Dio ». Già a partire da Johann Gerhard 16 essa ha ripreso ufficialmente la dottrina dell’ajpavqeia e ha sottratto sempre più al culto i veri e propri momenti contemplativi e di « raccoglimento » in senso specifico. L’elemento concettuale e dottrinale, l’ideale della dottrina prevalse sull’inesprimibile, su ciò che solo nel sentimento della disposizione devota è vivo. La Chiesa divenne scuola e le sue comunicazioni arrivarono allo spirito sempre più soltanto attraverso ciò che Tyrrell ha chiamato « la fessura angusta dell’intelletto ». Solo Schleiermacher ha compiuto il primo tentativo di superamento di questo razionalismo, in modo audacissimo e coraggiosissimo nella rapsodia delle sue Reden, in modo più freddo e moderato nella sua Glaubenslehre e nella sua teoria del sentimento di dipendenza assoluta, che in effetti, come esposto sopra, presenta il primo moto del sentimento del numinoso. Sarà cosa dell’odierna dottrina della fede seguirne le tracce e compenetrare di nuovo l’elemento razionale del concetto cristiano di Dio dei suoi momenti irrazionali, per restituire a questi la loro profondità.  











































s   Ne ha un sentimento Joh. Pordage, l’allievo di Jakob Böhme, quando scrive (Göttliche und wahre metaphysica, 1, [Frankfurt – Leipzig 1715] p. 166) : « Spero dunque non vi adiriate con me se troverete in quanto segue che attribuisco a Dio asprezza, amarezza, ira, furia [...] e simili. Nemmeno Jakob Böhme, infatti, ha trovato parole diverse per esprime la sua elevata sensibilità (Empfindung) divina. Dovete dunque assumere tutti questi modi di dire in un elevato intelletto divino, lontano da ogni imperfezione ». t   Anche i « concetti fluidi » in Bergson sono propriamente ideogrammi di sentimenti ed intuizioni estetici e religiosi. Poiché li scambia con concetti scientifici vi è in lui la medesima mescolanza di « idea » ed « esperienza » che Schiller rimproverava a Goethe. Cfr. R. Otto, Goethe und Darwin, Göttingen 1909.  

















15   Annie Besant (1847-1933), scrittrice e attivista politica inglese, impegnata nella promozione dei diritti delle donne e nella lotta per l’indipendenza dell’India, dopo la conversione alla teosofia fu presidentessa della Società Teosofica (fondata da Helena Petrovna Blavatsky). Tra le opere : Esoteric Christianity, London 1901 ; Occult Chemistry, London 1905 ; An Introduction to Yoga, London 1908. 16   Johann Gerhard (1582-1637), teologo luterano autore della Patrologia sive de primitivae Ecclesiae christianae doctorum vita ac lucubrationibus opusculum posthumum, Jenae, 1653.  





Capitolo quindicesimo SVILUPPI

T

ale profondità non deve significare intorbidamento o diminuzione : senza i momenti razionali, e in particolare senza i limpidi momenti morali, che soprattutto il protestantesimo accentua nel concetto di Dio, il sacro non sarebbe il sacro del cristianesimo. Nel senso pieno del termine, che troviamo soprattutto nel Nuovo Testamento e che ora è divenuto l’unico per il nostro senso della lingua, « sacro » non è più soltanto ciò che in generale è meramente numinoso, né è quest’ultimo al grado sommo, ma è sempre ciò che è compenetrato e saturato da momenti razionali, teleologici, personalistici ed etici. È nel senso di questa sintesi che nel prosieguo determineremo e applicheremo l’espressione. Solo per comprendere distintamente lo sviluppo storico, chiariamo ancora quanto segue. Ciò che il sentimento religioso primitivo coglie innanzitutto nella forma del « timore demonico », e che in seguito gli si esplica, intensifica e nobilita, al principio non è, o non è ancora, un che di razionale o morale, ma qualcosa di particolare, di irrazionale appunto, cui esso reagisce in modo peculiare con i particolari riflessi di sentimento che abbiamo descritto. Questo momento attraversa in se stesso, anche a prescindere dal processo di razionalizzazione e moralizzazione che interviene già in stadi precedenti, un proprio processo di sviluppo. Il « timore demonico », che procede anch’esso attraverso numerosi gradi, si eleva al grado del « timore degli dèi » e del timor di Dio. Il Daimovnion diventa Qei`on. Il timore diviene raccoglimento devoto. I sentimenti sparsi, confusi, estemporanei, diventano religio. L’orrore diventa brivido sacro. I relativi sentimenti di dipendenza e di beatitudine nel numen diventano assoluti. Le false analogie e i falsi collegamenti vengono eliminati e respinti. Il numen diviene Dio e divinità. A quest’ultima appartiene allora il predicato qādôsh, sanctus, a[gio~, sacro nel significato primo e più immediato di questa espressione, quale numinoso puro e semplice, assoluto. Questo sviluppo, che all’inizio si attua nella sola sfera dell’irrazionale, è il momento primo e principale, ed osservarlo è il compito della storia delle religioni e della psicologia della religione generale. Compito subordinato è allora osservare come non proprio contemporaneamente con quello sviluppo, ma quasi, si attui la razionalizzazione e la moralizzazione nel numinoso. Possiamo seguire anche le tappe di questo processo negli ambiti più disparati della storia delle religioni. Quasi ovunque il numinoso attrae le concezioni derivate dagli ideali sociali o individuali di ciò che è obbligatorio, giusto, buono, che diventa « volontà » del numen. Il quale ne diventa custode, ordinatore, fondatore. Sempre più questi momenti penetrano nella sua essenza e la moralizzano. Il « sacro » diventa buono e il buono diventa, proprio per questo, « sacro », diventa « sacrosanto », fino a che non si arriva ad una sintesi non resolubile dei due momenti e al senso pieno e complesso di « sacro », nel quale sono contemporaneamente presenti il buono e il sacrosanto. Il tratto più caratteristico già della religione dell’antico Israele, per lo meno a partire da Amos, è l’intima riunione di questi due momenti. Nessun dio, come il Dio di Israele, è il Santo (der Heilige) assoluto. D’altra parte, nessuna legge lo è quanto quella di Jahweh, che ap 





































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capitolo quindicesimo

punto non è soltanto buona, ma contemporaneamente « sacra ». La razionalizzazione e la moralizzazione del numinoso, sempre più evidenti ed efficaci, sono esse stesse la parte più essenziale di ciò che chiamiamo « storia della salvezza » e che consideriamo come progressiva autorivelazione del divino. In pari tempo ci si fa chiaro che la « eticizzazione dell’idea di Dio », che abbastanza spesso ci viene presentata come problema capitale e tratto fondamentale della storia della religione, non è affatto una rimozione o una surrogazione del numinoso con qualcos’altro – ciò che ne risulterebbe non sarebbe più Dio – ma un riempimento dello stesso con un nuovo contenuto ; ci si fa chiaro, cioè, che tale eticizzazione si compie nel numinoso.  













Capitolo sedicesimo IL SACRO COME CATEGORIA A PRIORI. PRIMA PARTE

P

er noi, dunque, il sacro, nel senso pieno del termine, è una categoria composta. I suoi componenti sono i momenti razionali e quelli irrazionali. Secondo entrambi i momenti essa è una categoria puramente a priori : questo deve essere affermato in tutto rigore contro ogni sensismo e contro ogni evoluzionismo. Per un verso, le idee razionali di assolutezza, completezza, necessità, essenzialità, come anche quella di bene quale valore oggettivo e oggettivamente valido e vincolante, non « evolvono » da alcuna percezione sensibile. E ogni « epigenesi », « eterogonia » o qualsivoglia altra espressione di compromesso e di imbarazzo non fanno altro che nascondere il problema. La fuga nel greco è qui, come accade spesso, soltanto la confessione della propria insufficienza. Queste idee razionali ci allontanano da ogni esperienza sensibile e rimandano a ciò che, indipendentemente da ogni « percezione », è posto in « pura ragione » nello spirito stesso come il suo elemento più originario. I momenti irrazionali della nostra categoria del sacro ci rimandano a qualcosa di più profondo della « ragione pura » – per lo meno nella comprensione corrente di questa – ossia a ciò che la mistica ha definito, a buon diritto, « fondo dell’anima ». L’idea del numinoso e i sentimenti corrispondenti sono, proprio come quelli razionali, idee e sentimenti assolutamente puri, cui si applicano nel modo più esatto i criteri che Kant indica per i concetti « puri » e per il sentimento « puro » del rispetto. Le famose parole di apertura della Kritik der reinen Vernunft recitano :  







































Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza ; da che infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al suo esercizio, se ciò non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi [...] ? [...] Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta dalla esperienza. 1  



Già in riferimento alla conoscenza d’esperienza, egli distingue ciò che riceviamo dalle impressioni da ciò che la nostra propria facoltà conoscitiva, meramente occasionata dalle impressioni sensibili, offre da se stessa. Il numinoso è di questa specie. Erompe dal più profondo fondo conoscitivo dell’anima : indubbiamente non prima e non senza datità ed esperienze sensibili e mondane, ma in queste e tra queste. Non deriva però da queste, ma mediante queste. Esse sono uno stimolo e un’« occasione » perché tale sentimento si attivi, perché si intrecci e si intessa con l’elemento mondano-sensibile, all’inizio in modo ingenuo e insieme immediato, per poi espellerlo da sé con una graduale purificazione e arrivare ad un’assoluta contrapposizione. La dimostrazione del fatto che il numinoso consiste in momenti di conoscenza puramente a priori deve esser condotta mediante una « critica antropologica », 2 come è accaduto sopra.  









1

  I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 1 [tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice rivista da V. Mathieu, Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza, 19969, pp. 33-34]. 2   Nell’edizione Beck l’espressione (di chiara derivazione friesiana) è sostituita con « introspezione critica » (kritische Selbstbesinnung).  



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capitolo sedicesimo

In esso troviamo disposti convinzioni e sentimenti che sono qualitativamente diversi da tutto ciò che è in grado di darci la percezione sensibile « naturale » : non sono percezioni sensibili, ma singolari interpretazioni e valutazioni innanzitutto di qualcosa che è dato nella percezione sensibile e poi, ad un grado superiore, di oggetti ed entità che di per sé non appartengono più al mondo della percezione sensibile, ma sono pensati in aggiunta e al di sopra di questo mondo. E così come non sono percezioni sensibili, non sono neanche « trasformazioni » di percezioni sensibili. L’unica « trasformazione » possibile rispetto ad una percezione sensibile è quella dell’elemento concreto d’intuizione delle percezioni in generale nel concetto corrispondente : non è mai la trasmutazione di una classe di percezioni in una classe di realtà qualitativamente altra. Così queste, come già i « concetti puri dell’intelletto » di Kant e come le idee e i giudizi di valore morali ed estetici, rimandano ad una fonte autonoma e nascosta della formazione di rappresentazioni e sentimenti che risiede nell’animo indipendentemente dall’esperienza sensibile : rimandano ad una « ragione pura » nel senso più profondo, che, considerato il carattere debordante dei suoi contenuti, deve essere distinto, come qualcosa di più alto o di più profondo, anche dalla ragione pura teoretica e dalla ragione pura pratica di Kant. Il buon diritto anche della teoria evoluzionistica attuale consiste nel fatto che essa vuole « spiegare » il fenomeno della « religione » ; il che in effetti è il compito della psicologia della religione. Ma per poter spiegare bisogna avere dei dati, a partire dai quali ciò è possibile. Dal nulla non si spiega nulla. Si può spiegare la natura soltanto a partire dalle forze naturali fondamentali e ultime e dalle loro leggi, che si tratta di indagare. Ma voler spiegare anche queste è privo di senso. Nell’ambito spirituale, il principio a partire dal quale è possibile la spiegazione è lo stesso spirito razionale con le sue disposizioni, capacità e leggi, che devono essere presupposte e che non possono essere spiegate. Non si può dire come « sia fatto » lo spirito : ma è proprio questo che la teoria dell’epigenesi in fondo vorrebbe spiegare. La storia dell’umanità comincia con l’uomo. Lo si presuppone per comprendere, a partire da lui, tale storia. E lo si presuppone come un essere che quanto a disposizioni e facoltà è analogo a noi stessi, perché immergersi nella vita dell’animo di un pitecantropo è un’impresa disperata. Anche i moti della psiche degli animali possono essere interpretati solo mediante deboli analogie con i nostri e con una regressione che muove dallo spirito sviluppato. Ma voler derivare e comprendere questo a partire da quelli significa fare della serratura la chiave, significa illuminare il chiarore con l’oscurità. Il primo sfavillio di una vita cosciente nella materia morta è un dato semplice e inesplicabile. Quel che qui sfavilla è già una molteplicità qualificata che dobbiamo interpretare come una potenzialità paragonabile al germoglio, dal quale si schiudono, mediante una crescente organizzazione corporea, facoltà sempre più mature. L’intero ambito della psiche subumana riceve una qualche luce solo per il fatto che la interpretiamo, di nuovo, come una « disposizione » alla disposizione dello spirito sviluppato, la quale in rapporto a questo è come un embrione. Quel che significa « disposizione » non ci è però completamente oscuro. Nel nostro proprio destarci e crescere fino alla maturità dello spirito seguiamo in noi stessi, in qualche misura, l’evoluzione dal germoglio fino all’albero, che è il contrario di una trasformazione e di una addizione successiva. a  

















































a   L’analogo fisico di questi rapporti spirituali è il rapporto tra energia potenziale ed energia cinetica. Possiamo tuttavia aspettarci l’assunzione di un tale rapporto nel mondo dello spirito soltanto da chi sia in grado di decidersi ad assumere lo spirito assoluto, in quanto actus purus, come fondamento ultimo di ogni spirito nel mondo in generale, che sarebbe, come dice Leibniz, l’ellampatio del primo. E infatti tutto ciò che

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Definiamo questa sorgente una disposizione nascosta dello spirito umano che, stimolata, si desta. Nessuno che si sia seriamente occupato di storia della religione può negare che nei singoli individui vi siano simili « disposizioni », predisposizioni e predestinazioni alla religione, che possono divenire spontaneamente un presentimento istintivo, una ricerca, un inquieto andar tastoni, una brama struggente, ossia un impulso religioso che si acquieta solo quando si sia chiarito a se stesso e abbia trovato la sua meta. Di qui derivano gli stati della « grazia precorritrice » che Seuse (Werke, Denifle, [cit.,] p. 311) descrive magistralmente così :  









O amabile, tenero Signore ! Sin dai giorni dell’infanzia il mio animo, con sete ardente, ha cercato qualcosa : cosa fosse ancora non l’ho completamente compreso. Signore, sono ormai molti anni che ne vado in cerca con passione senza riuscire a trovarlo, perché ancora non so esattamente cosa sia. È qualcosa che attira a sé il mio cuore e la mia anima ; qualcosa senza cui non riesco a trovare pace. Signore, nei primi giorni della mia infanzia volevo cercarlo nelle creature, come vedevo fare ad altri prima di me. E più cercavo, meno trovavo. E quanto più mi ci avvicinavo, tanto più me ne allontanavo. Ora il mio cuore brucia dal desiderio di averlo... Ahimé ! Che cos’è o come è fatto per agitarsi in me in modo così misterioso ?  









Queste sono espressioni di una disposizione che diviene ricerca, impulso. Se vi è mai un caso in cui è stata realmente valida la « legge biogenetica fondamentale », per cui l’individuo ripete in sé gli stadi e i momenti di formazione della sua specie, allora è questo. La disposizione che la ragione umana ha portato nella storia quando è comparsa la specie « uomo » è divenuta, in parte mediante stimoli dall’esterno, in parte mediante una pressione propria dall’interno, impulso, impulso religioso. Quest’ultimo vuole rendersi chiaro a se stesso procedendo a tastoni, formando per tentativi rappresentazioni fantastiche, producendo idee che si spingono sempre più avanti ; e si fa chiaro a se stesso mediante esplicazione di quella stessa oscura base ideale a priori dalla quale era scaturito. b  









è in potenza presuppone l’actus come fondamento della sua possibilità, come ha già mostrato Aristotele. Come si può pretendere di venirne fuori senza questa presupposizione ! È inconseguente postulare nel mondo fisico l’actus quale punto di partenza, quale sistema di energia accumulata, il cui passaggio all’energia cinetica costituirebbe il meccanismo di questo mondo, e non nel mondo dello spirito. b   Cfr. quanto dice Kant nelle sue lezioni sulla psicologia (Leipzig 1889, p. 11 [« Akademie Ausgabe » xxviii, 1, p. 228]) del « tesoro che risiede nel campo delle rappresentazioni oscure e che costituisce il profondo abisso della conoscenza umana che non possiamo raggiungere ». Il « profondo abisso » è appunto il « fondo dell’anima » che agisce in Seuse.  

















Capitolo diciassettesimo LA SUA COMPARSA NELLA STORIA

S

olo sulla base di questi assunti diviene per noi comprensibile la nascita storica e l’ulteriore sviluppo della religione. Bisogna ammettere che all’inizio dello sviluppo storico-religioso vi sono certe cose strane che lo precedono come un preambolo e che poi continuano ad agire in profondità in esso : cose come i concetti di puro e impuro, la credenza nei morti o nell’anima e i rispettivi culti, magia, fiabe e mito, venerazione di oggetti naturali, terribili o mirabili, nocivi o utili, l’idea curiosa della « potenza » (orenda), feticismo e totemismo, culto degli animali e delle piante, demonismo e polidemonismo. In tutte queste cose, per quanto diverse tra loro e lontane dalla religione reale, si sente aleggiare un momento comune e ben afferrabile : quello numinoso. Queste cose non ne derivano originariamente, ma hanno, forse tutte, uno stadio preliminare nel quale non erano altro che meri prodotti « naturali » di una fantasia primitiva di un tempo ingenuo e remoto. Poi però ricevono una trama di carattere del tutto particolare e specifico, attraverso la quale divengono preambolo alla storia della religione ; una trama che le rende per la prima volta forme chiare e conferisce ad esse per la prima volta quell’immane potenza sugli animi, che la storia ovunque dimostra. Tentiamo di cogliere questa trama. 1. Cominciamo con la magia. In ogni tempo, e ancora oggi, vi è una magia « naturale », ossia semplici azioni analogiche, che vengono compiute in modo del tutto irriflesso e senza seguire alcuna teoria, per influenzare e regolare nel modo desiderato un certo processo. Lo si può osservare in ogni partita di birilli. Il giocatore tira la boccia : ha mirato e vuole che la boccia entri lateralmente sulla pista e abbatta il « castello ». Osserva teso il percorso della boccia. Inclina di lato la testa e il busto, si mette in bilico su una gamba ; quando la boccia raggiunge il punto critico della corsa, si lancia di colpo dall’altro lato, spinge ancora con la mano e con il piede, dà ancora un’ultima spinta. Poi è fatta. Dopo tanti pericoli la boccia arriva nel modo giusto. Che cosa ha fatto quell’uomo ? Non mimava il percorso della boccia : lo voleva prescrivere e determinare. Chiaramente senza alcuna riflessione sul suo bizzarro comportamento, senza la « convinzione dei primitivi che tutto – in questo caso la boccia – ha un’anima », o che vi sia una connessione simpatetica tra la propria forza « psichica » e l’anima della boccia. Egli ha compiuto soltanto un’ingenua azione analogica volta al raggiungimento di un desiderio determinato. Spesso, all’inizio forse sempre, gli armeggi di molti « maghi della pioggia », gli ingenui tentativi di influenzare il corso del sole o della luna, delle nubi e dei venti, non sono stati altro che simili azioni analogiche. Ma una cosa è chiara : finché non furono altro che questo, non erano magia nel senso vero e proprio del termine. Un’altra peculiare trama dovette aggiungersi : il momento che si chiama usualmente azione « soprannaturale ». In realtà, all’inizio la cosa non ha nulla a che vedere con il « soprannaturale » : l’espressione è troppo altisonante e pretende davvero troppo dall’ingenuità del primitivo. Il concetto di « natura » quale connessione dell’accadere secondo leggi è l’ultima cosa che l’astrazione trova, e la più difficile. E dovrebbe esser già stata trovata, o al 



























































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capitolo diciassettesimo

meno presentita, perché possa realizzarsi la sua negazione, ossia il « soprannaturale ». Checché ne dica Wundt, con la capacità « psichica » non si spiega nulla : innanzitutto perché oggi è generalmente riconosciuto che la magia è indipendente dalla credenza nell’anima e probabilmente precedente ; in secondo luogo il punto essenziale non è affatto capire mediante quale classe, ma mediante quale qualità di capacità – « psichiche » o di altro genere – si produca l’effetto magico. Ora, tale qualità può esser definita soltanto con il carattere « demonico » che si attribuisce all’azione di certe capacità, che siano forti o deboli, straordinarie o del tutto banali. Essa può essere indicata solo da quel peculiare momento del sentimento dello « spaesante » di cui abbiamo parlato sopra e il cui momento positivo non può esser affatto definito concettualmente, ma solo designato mediante quella sua reazione nell’animo che abbiamo chiamato « orrore ». 2. Lo stesso vale per il culto dei morti, che non deriva da una teoria dell’« animazione » secondo la quale il primitivo si figurerebbe come animato e capace di azione ciò che è senza vita, dunque anche i morti. Tutta questa teoria di una presunta animazione universale, che per giunta si continua a mescolare e confondere grossolanamente con la « credenza nell’anima », che è del tutto diversa, non è altro che un prodotto da scrivania. Il morto diviene una potenza per l’animo solo se e quando diventa qualcosa di « orribile » ; il che accade, tanto per il primitivo quanto per chi non è più tale, con una necessità del sentimento così immediata che siamo abituati ad accettare questa cosa come ovvia, e non consideriamo più che nella valutazione di qualcosa come « orribile » interviene un contenuto di sentimento completamente autonomo e del tutto specifico, che il mero fatto dell’esser morto non spiega. Reazioni di sentimento « naturali » nei confronti del morto sono evidentemente solo di due specie : da una parte il disgusto verso la putrefazione e il fetore, verso ciò che è nauseante ; d’altra parte il disturbo e l’ostacolo nei confronti della propria volontà di vivere, la paura della morte, lo sgomento che si accompagna immediatamente alla vista di un morto, in particolare se della propria specie. Entrambe le espressioni si trovano già tra gli animali. Potei osservarlo in modo impressionante quando, nel corso di una cavalcata solitaria, mi imbattei improvvisamente in un cavallo morto e la mia ottima Diana, riconosciuto il compagno di specie, mostrò tutti i segni di un naturalissimo sgomento. Ma questi due momenti di sentimento di per sé non sono affatto già l’« arte dell’orripilare », la quale è qualcosa di nuovo e richiede, come giustamente dice la nostra favola, di essere « appresa ». 1 Questo significa che non è affatto senz’altro già presente nelle restanti funzioni « naturali » dell’animo, come il disgusto o lo sgomento, né è analiticamente ricavabile da questi. È un « timore » di tipo del tutto specifico, rispetto al quale dobbiamo negare di aver a che fare con un momento generale della « psicologia dei popoli », ossia con un ovvio sentimento di massa di qualcosa di universale che deve essere presupposto ovunque. Senza dubbio anche qui vi sono stati, all’inizio, alcuni individui particolarmente predisposti, che possedevano tali sentimenti in actu e che, esprimendoli, li hanno suscitati in altri. Lo stesso timore dei morti e quindi il culto dei morti sono « istituzioni ». 3. Inoltre, le rappresentazioni di « anime » non furono concepite dai fantasiosi processi che ci raccontano gli animisti, ma ebbero una nascita assai più semplice, come si potrebbe mostrare se non ci portasse troppo lontano. Ma la cosa più importante non è affatto la genesi di tali rappresentazioni, ma, di nuovo, la qualità del relativo momento di  

















































































1   Il riferimento è alla fiaba Märchen von einem, der auszog das Fürchten zu lernen [Storia di uno che partì per imparare la paura], contenuta nella raccolta Kinder- und Hausmärchen dei Grimm.

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sentimento. Questa non è nel fatto che le anime siano più sottili o meno facilmente visibili del corpo, oppure invisibili o aeriformi : spesso sono tutto ciò, e altrettanto spesso non lo sono affatto, e per lo più lo sono e non lo sono contemporaneamente. L’essenza dell’« anima » non risiede affatto nella sua presentazione fantastica o concettuale, ma in primo luogo e soprattutto nel fatto che è uno « spettro », il quale suscita quel « timore » descritto sopra. Lo spettro non si spiega con sentimenti « naturali » ; tantomeno si spiega l’ulteriore sviluppo per cui questi « qualcosa » (questo è l’unico nucleo concettuale che realmente si possa attribuire loro), temuti sempre in modo molto vivo, diventano in seguito esseri che vengono positivamente venerati e amati, che possono elevarsi a eroi, pitri, 2 demoni, santi, dèi. 4. La « potenza » (orenda) può avere i suoi stadi preliminari del tutto naturali. Che in piante, pietre, oggetti naturali si veda la potenza, che attraverso il possesso di quelli ci si appropri di questa, che si divori il cuore o il fegato di un animale o di un uomo per appropriarsi della sua potenza e della sua forza, non è religione, ma scienza. La nostra medicina procede con le stesse ricette. Se la potenza di una ghiandola di vitello è efficace contro gozzo e cretinismo, chissà cosa possiamo sperare da cervello di rospo e fegato di ebrei. Tutto dipende dall’osservazione e, da questo punto di vista, la nostra medicina si distingue da quella dello stregone solo perché è più precisa e possiede il metodo dell’esperimento. La « potenza » compare nello stadio preliminare della religione solo quando in essa penetra l’idea di « magia », di « magico » ; solo allora l’appropriazione della potenza diviene ciò che si è soliti chiamare « riti di comunione » e « sacramenti ». 5. Vulcani, cime di monti, luna, sole, nubi vengono ritenuti dal primitivo vivi non in seguito ad un’ingenua teoria della « animazione universale » o del « pantelismo », ma secondo quel criterio – esattamente il medesimo – che noi stessi applichiamo per riconoscere qualcosa di vivo al di fuori del nostro sé vivente, l’unico vivente che possiamo osservare direttamente : qualcosa è cioè vivo se e in quanto in esso si crede di osservare – a torto o a ragione è, di nuovo, solo questione di osservazione più o meno esatta – movimento e azione. Secondo questo criterio quegli oggetti di natura possono diventare, per l’osservatore ingenuo, viventi. Ma nemmeno questo, di per sé, conduce al mito o alla religione. Quelle entità non sono ancora « dèi » per il solo fatto di essere viventi ; né lo diventano quando l’uomo rivolge ad essi desideri e richieste : chiedere, infatti, non è ancora pregare ; e la fiducia non è necessariamente religiosa. Essi lo diventano non appena si applichi loro la categoria del numinoso : e questo accade solo quando, in primo luogo, si tenti di influenzarli con mezzi numinosi, ossia con la magia, e, in secondo luogo, quando si ritiene in pari tempo che il loro agire sia di tipo numinoso, ossia magico. 6. La « fiaba » ha per presupposto il « naturale » impulso alla fantasia, al racconto, all’intrattenimento, e le sue produzioni. Ma la stessa fiaba è tale solo grazie al momento del « meraviglioso », grazie al miracolo, agli eventi e agli effetti miracolosi ; solo grazie ad una trama numinosa. E questo vale in misura maggiore del mito. 7. Tutti i momenti sin qui nominati sono solo il vestibolo del sentimento numinoso, un primo destarsi del numinoso che compare qui mescolato ad altro, secondo leggi dell’analogia di sentimenti che potrebbero essere facilmente indicate caso per caso. Solo la nascita del demone costituisce un inizio realmente autonomo. Abbiamo ancora  



















































































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  Termine sanscrito per « antenati » (letteralmente : « padri »).  









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di fronte la sua forma più autentica in quelle curiose divinità « vetero-arabiche », che propriamente non sono altro che instabili pronomi dimostrativi : né « formati dal mito », perché per lo più non c’è alcun mito, né « sviluppatisi dalle divinità naturali », né scaturiti dalle « anime » ; divinità, tuttavia, dall’azione potentissima e oggetto di vivissima venerazione. Sono puri prodotti del sentimento religioso e rispetto ad essi è chiarissimo che non derivarono dalla produzione collettiva di una fantasia di massa, né dall’« anima del popolo », ma furono intuizioni di nature profetiche. A questi numina appartiene infatti sempre il Kāhin, la forma primitiva originaria del profeta : egli solo ha l’esperienza vissuta originale di un numen. E solo dove e quando questo si è « rivelato » mediante un individuo simile, nasce il culto e la comunità di culto. Al numen appartiene un veggente e senza veggente non vi è alcun numen. 8. « Puro » e « impuro » ci sono già nel senso naturale dei termini. Ciò che è naturalmente impuro è qualcosa che suscita forti sentimenti di un naturale disgusto, il ripugnante. Proprio ai livelli primitivi i sentimenti di disgusto esercitano un forte potere sugli uomini : « ciò che non conosce, il contadino non lo mangia ». 3 Sono probabilmente portati dell’educazione naturale, la quale, con simili sentimenti di disgusto, ha fornito l’uomo, nel corso dell’evoluzione, di protezioni istintive a tutela di molte importanti funzioni vitali. L’effetto della cultura è quello di « raffinare » i sentimenti di disgusto dirottandoli su altri oggetti, sottraendo il carattere disgustoso a molte cose che per l’uomo naturale erano tali e attribuendolo a molti oggetti che per lui non lo erano. Quanto ad intensità questo raffinamento è un indebolimento : oggi non proviamo più disgusto con quell’energia robusta, potente e intensa del primitivo. Da questo punto di vista si può osservare ancor oggi una chiara differenza anche tra la popolazione di campagna, più primitiva, e quella di città, più raffinata. Ci disgustiamo di molte cose che lasciano indifferente il campagnolo, ma quando questi prova disgusto lo fa in modo molto più profondo di noi. Ora, però, tra un forte sentimento di disgusto e il sentimento dell’« orribile » vi è un’analogia molto stretta : il che, stante la legge dell’attrazione reciproca tra sentimenti analoghi, rende immediatamente chiaro come ciò che è « naturalmente » impuro abbia dovuto sconfinare nella sfera del numinoso. Qui si può quasi costruire a priori l’effettivo processo delle cose, non appena si abbia in mano la chiave del problema : quella analogia e questa legge. Noi stessi, oggi, nel caso del disgusto del sangue viviamo un’esperienza ancora quasi immediata di questa cosa : anche noi reagiamo alla vista del sangue che scorre in modo tale che sarebbe difficile dire se sia più intenso il momento del disgusto o quello dell’orrore. In seguito comparvero i momenti più evoluti del « timore » e si formarono le rappresentazioni superiori del demonico e del divino, del sacer e sanctus, in modo tale che le cose poterono diventare « impure », ossia numinose, anche senza che fosse presente, quale punto di partenza, qualcosa di « naturalmente » impuro. È qui istruttivo, per la situazione della « analogia tra sentimenti », il fatto che, viceversa, anche il sentimento del numinoso-impuro si associ immediatamente e facilmente ai sentimenti del naturale disgusto, il fatto, cioè, che divengano disgustose cose che in partenza non lo erano affatto. Questi sentimenti di disgusto possono mantenersi autonomamente ancora a lungo dopo che il timore numinoso, che essi una volta suscitavano, si è da molto tempo smorzato. Così si spiegano certi sentimenti sociali di disgusto, per esempio i sentimenti  







































































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  « Watt de Buer nich kennt, dat itt hei nich ».  







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di casta, che avevano una volta una radice puramente demonica e che però si mantengono anche quando questa radice si è da molto tempo seccata.* 9. Sulla base della nostra assunzione troviamo infine anche la spiegazione di quegli interessanti fenomeni su cui Andrew Lang a ha giustamente richiamato l’attenzione. Tali fenomeni non avvalorano certo l’ipotesi di un « monoteismo primitivo », parto dell’apologetica missionaria che vorrebbe salvare il secondo capitolo della Bibbia, pur sentendo una vergogna tutta moderna di fronte alla passeggiata di piacere di Jahweh nel giardino al fresco della sera. Essi alludono però a cose che, siccome restano enigmatiche sul terreno dell’animismo, del pantelismo o di altre spiegazioni naturalistiche della religione, vengono tolte di mezzo con ipotesi forzate. In numerosi racconti e mitologie di popoli barbarici si trovano trame che sopravanzano senz’altro il livello dei restanti riti e costumi religiosi : grandi dèi con i quali nella prassi quasi non si entra in rapporto e ai quali però, quasi involontariamente, viene attribuita una dignità che è superiore a quella di tutte le altre figure mitologiche e che può avere risonanze del divino nel senso più alto. Che tali grandi dèi abbiano attraversato un passato mitico è talora riconoscibile, talora no. Caratteristico ed enigmatico è il loro eccellere rispetto al livello degli altri. È facile e frequente che, dove interviene la predicazione teistica dei missionari, queste divinità somme siano riconosciute come Dio e offrano sostegni alla predicazione missionaria. I convertiti ammettono senz’altro di aver conosciuto Dio, ma di non averlo venerato. Che simili fenomeni possano essere spiegati talvolta con influenze o importazioni da religioni teistiche precedenti è certo giusto ed è talora anche comprovato dal nome di quegli esseri elevati. Ma, anche in questa forma, il fenomeno è molto raro. Cosa potrebbe indurre infatti i « selvaggi », immersi per il resto in un ambiente totalmente estraneo di barbarica superstizione, ad accogliere e mantenere simili rappresentazioni « importate », se non vi fosse in loro stessi una disposizione ad esse che non consente loro di abbandonarle, che anzi li costringe quanto meno ad interessarsi ad esse tramandandole, a sentire e a riconoscere molto spesso nella propria coscienza una testimonianza a favore di tali rappresentazioni ? D’altra parte l’ipotesi dell’importazione è senza dubbio impossibile per molti di questi accadimenti e può esser addotta solo forzatamente. In questi casi abbiamo chiaramente a che fare con pre-sentimenti e anticipazioni che, tenuto conto della spinta di una base ideale intensamente operante a livello intrarazionale, non sono sorprendenti, ma naturali – tanto naturali quanto lo sono le prestazioni musicali degli zingari in un ambiente culturale per il resto inferiore, sotto la spinta di una forte predispozione naturale alla musica –, e c’è anzi quasi da aspettarseli : senza tale base resterebbero però un puro enigma. Qui e in altri casi gli psicologi naturalisti ignorano un fatto che sarebbe però interessante, per lo meno sotto il profilo psicologico, e che con un’autoosservazione più lucida potrebbero osservare in loro stessi : l’autotestimonianza delle idee religiose nel proprio animo, che nei primitivi è senz’altro più robusta che non presso gli individui evoluti e che però potrebbe esser riconosciuta anche in più d’uno di questi ultimi, se volessero ricordare del tutto serenamente e obiettivamente le loro ore di catechismo. In circostanze favorevoli può erompere da sé, in un moto di pre-sentimento, ciò in favore di cui l’animo rende « testimonianza ». Questo fatto è trascurato, d’altra parte, anche dai sostenitori di  























a   Myth, Ritual and Religion, [London] 18992 ; The making of Religion, [London] 19022 ; Magic and Religion, [London] 1901. Cfr. anche P. W[ilhelm] Schmidt, Grundlinien einer Vergleichung der Religionen und Mtyhologien der austronesischen Völker, « Denkschriften der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften in Wien », Phil. hist. Klasse, Bd. 53, Wien 1910.  







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capitolo diciassettesimo

un monoteismo primitivo : se infatti i fenomeni in questione non si fondassero su altro che su tradizioni storiche e su ricordi offuscati di una « rivelazione storica originaria », non potrebbe esservi neanche questa autotestimonianza che sgorga dall’interno.  





Capitolo diciottesimo I MOMENTI DEL « GREZZO »  

I



nderivabilità e apriorità valgono senz’altro anche già per quei primi moti, primitivi e « grezzi », del « timore demonico », il quale si trova al principio della storia della religione e dello sviluppo storico-religioso. La religione comincia con se stessa ed è operante già nei suoi « stadi preliminari », quelli del mitico e del demonico. Il primitivo, il « grezzo », si trova qui solo nei momenti seguenti : a. Si trova nel fatto che l’emergere e destarsi dei singoli momenti del numinoso si compie solo in modo graduale e progressivo. Solo gradualmente, infatti, e in una concatenazione di stimoli che si susseguono con molta lentezza, il numinoso dispiega il suo pieno contenuto. Ma dove il tutto non è ancora presente, i suoi momenti parziali e iniziali, che si sono destati singolarmente, hanno in sé per natura qualcosa di bizzarro, incomprensibile e spesso grottesco. Questo vale in modo particolare di quel momento religioso che, come sembra, si è destato per primo nella vita dell’animo umano : il timore demonico. Preso per sé e isolatamente è naturale e necessario che esso sembri più il contrario della religione, che non la religione stessa. Isolato dai momenti concomitanti sembra più simile ad una spaventosa autosuggestione, ad una specie di incubo « psicologico-popolare » che non ad una cosa che abbia a che vedere con la religione ; e gli esseri cui qui ci si riferisce sembrano solo formazioni spettrali di una fantasia elementare e malata, che soffre di una specie di delirio di persecuzione. È comprensibile che molti studiosi abbiano potuto seriamente immaginare che la « religione » sia cominciata con il culto del diavolo e che il diavolo in fondo sia più vecchio di Dio. Da questo destarsi graduale e progressivo dei singoli aspetti e momenti del numinoso dipende anche che la classificazione delle religioni per generi e specie sia così difficile e risulti sempre diversa secondo chi la intraprende. Quel che qui deve esser suddiviso, infatti, per lo più non si trova nella situazione delle diverse specie rispetto al medesimo genere, secondo il punto di vista di un’unità analitica, ma in quella dei momenti parziali di un’unità sintetica. È come se un grosso pesce cominciasse a rendersi visibile sulla superficie dell’acqua solo per parti e si volesse tentare di classificare per generi e specie la curva dorsale, la punta della coda e la testa grondante d’acqua, invece di pervenire ad una comprensione essenziale di queste manifestazioni che le riconosca nella loro posizione e nel loro contesto come parti di un tutto, che deve prima esser compreso come tutto, perché se ne possano comprendere le parti. b. Il « primitivo » si trova inoltre nel carattere intermittente e occasionale del primo movimento ; in quel suo esser indistinto, che dà adito a confusioni e mescolanze con i sentimenti « naturali ». c. Si trova nel fatto che la valutazione secondo il momento del numinoso si lega innanzitutto e del tutto naturalmente ad oggetti, eventi o entità intramondani, che « occasionano », per analogia, i moti del sentimento numinoso e li legano a sé. È soprattutto in queste circostanze che si radica, p.e., quel che è stato definito culto della natura e divinizzazione di oggetti naturali. Solo gradualmente e sotto la spinta del sentimento  











































280

capitolo diciottesimo

numinoso stesso, queste connessioni vengono col tempo « spiritualizzate » o alla fine del tutto ripudiate, e il contenuto oscuro del sentimento che si indirizza ad entità assolutamente oltremondane viene alla luce in modo puro e autonomo. d. Si trova nella forma incontrollata, fanatica, entusiasta con cui il numinoso afferra l’animo in prima battuta, presentandosi come mania religiosa, come possessione da parte del numen, come delirio e furore. e. Si trova in modo del tutto essenziale nelle sue false schematizzazioni, nel suo esser collocato in qualcosa che certo gli è analogo, ma che interiormente non gli appartiene : ne abbiamo dato qualche esempio sopra. f. Si trova infine, e soprattutto, nel fatto che ancora mancano quella razionalizzazione, quella eticizzazione e quel perfezionamento, che intervengono solo gradualmente. Sotto il profilo del contenuto, tuttavia, già il primo moto del timore demonico è un momento puramente a priori. Da questo punto di vista è paragonabile al sentimento estetico e alla categoria del bello. Per quanto completamente diversi siano i vissuti dell’animo quando un oggetto viene riconosciuto come « bello » o come « orribile », i due casi coincidono nel fatto che attribuisco all’oggetto un predicato, ossia un predicato di significato, che non mi viene dato – né mi può esser dato – dall’esperienza sensibile, ma che ascrivo all’oggetto spontaneamente. Intuitivamente colgo nell’oggetto soltanto le sue qualità sensibili e la sua figura spaziale, nient’altro. Che in queste qualità e in virtù di queste pertenga ad esso quel peculiare significato che qualifico come « bello », o che un simile senso di valore in generale ci sia, quei momenti non me lo possono dire o dare in nessun modo. Devo avere un oscuro concetto del « bello stesso » e anche un principio di sussunzione secondo cui attribuirlo, altrimenti il più semplice vissuto del bello non è possibile. E questa analogia va ancora oltre : come infatti il godimento del bello è, sì, analogo al mero piacere del gradevole, ma se ne distingue per una chiara e irriducibile differenza qualitativa, così è il rapporto del timore specificamente numinoso nei confronti della paura meramente naturale.*  























Capitolo diciannovesimo IL SACRO COME CATEGORIA A PRIORI. SECONDA PARTE

T

anto i momenti razionali della categoria complessa di « sacro », quanto quelli irrazionali sono dunque a priori ; e i secondi lo sono nella stessa misura dei primi. La religione non è assoggettata né al telos, né all’ethos, e non vive di postulati. E anche l’elemento irrazionale in essa ha le sue radici proprie ed autonome nelle profondità nascoste dell’animo. Lo stesso vale infine, in terzo luogo, anche del collegamento tra i momenti razionali e quelli irrazionali nella religione, della necessità interna della loro coappartenenza. Le storie della religione riportano con una certa ovvietà il graduale compenetrarsi di questi momenti, il processo di « moralizzazione del divino ». In effetti questo processo è qualcosa di « ovvio » per il sentimento, al quale la sua necessità interna appare evidente : ma l’evidenza interna di tale processo è essa stessa un problema, che non possiamo risolvere senza assumere un’oscura conoscenza a priori di questi momenti. Perché non è affatto una necessità logica. Come dovrebbe succedere che dall’essenza ancora « grezza » e semidemonica di un dio luna o sole, o di un qualche numen locale, consegua logicamente che questo dio divenga un garante dei giuramenti, della veridicità, della validità dei contratti, dell’ospitalità, della sacralità del matrimonio, dei doveri di tribù e di clan ; che divenga inoltre un dio dispensatore di felicità e infelicità, il quale condivide le richieste della tribù, provvede al benessere di questa, ne guida il destino e la storia. Donde deriverebbe questo fatto massimamente sorprendente della storia della religione per cui esseri che evidentemente all’origine sono partoriti da orrore e terrore divengano dèi, ossia esseri che vengono pregati, ai quali si affidano gioia e dolore, nei quali si scorge origine e sanzione della morale, della legge, del diritto e del canone giuridico : e tutto questo in modo tale che, una volta che queste idee si sono destate, è sempre stato compreso come la più semplice ed evidente ovvietà che fosse così. Nella Repubblica di Platone, alla fine del secondo libro, Socrate afferma :  

























Dio, infatti, è semplice, è sincero in azione e parola. Non si trasforma e non inganna nessuno. 1

e Adimanto gli risponde :  

Ora che lo dici si fa chiarissimo anche a me. 2

L’aspetto più interessante in questo passo non è l’elevatezza e la purezza del concetto di Dio, né l’elevata razionalizzazione e moralizzazione del medesimo che viene qui affermata, ma l’apparente dogmatismo dell’affermazione di Socrate, che non mostra di voler compiere alcuno sforzo per fondare la sua proposizione, e il modo ingenuamente sorpreso e però completamente fiducioso con cui Adimanto concede una cosa per lui 1

  Rep. 382 d 8-9.   Rep. 383 a 1.

2

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capitolo diciannovesimo

nuova, nel senso che si convince. Non è che crede a Socrate : Adimanto vede. Ma questo è il contrassegno di tutte le conoscenze a priori, il fatto cioè che esse si presentano con la certezza di vedere in proprio la verità di un’affermazione, quando quest’ultima viene chiaramente espressa e compresa. Ciò che qui si svolge tra Socrate e Adimanto si è ripetuto mille volte nella storia della religione. Anche Amos, quando annuncia Jahweh come il Dio di un’assoluta giustizia, inflessibile e universale, dice qualcosa di nuovo, che però non dimostra. Nemmeno si richiama ad una qualche autorità, ma si appella a giudizi a priori, ossia alla stessa coscienza religiosa, la quale effettivamente ne dà testimonianza. Anche Lutero conosce bene e sostiene una simile conoscenza a priori del divino. Certo, di solito la sua collera nei confronti della ragione prostituta lo porta ad affermazioni contrarie :  



È una conoscenza a posteriore che esamina Dio dall’esterno, a partire dalle sue opere e dal suo governo, come quando si esamina a fondo un castello o una casa e se ne avverte il signore o padrone di casa. Ma nessuna umana saggezza ha ancora mai potuto vedere a priore, dall’interno, cosa e come Dio sia in se stesso o nella sua essenza interiore ; né alcuno può saperne qualcosa o parlarne, se non coloro ai quali è rivelato dallo Spirito Santo. a  

Lutero trascura il fatto che o si riconosce a priori il « padrone di casa » o non lo si riconosce per nulla. In altri passi concede moltissimo alla ragione umana universale, quanto a conoscenze di ciò che Dio « è in se stesso o nella sua autentica essenza » :  









Atque ipsamet ratio naturalis cogitur eam (sententiam) concedere proprio suo iudicio convicta, etiamsi nulla esset scriptura. Omnes enim homines inveniunt hanc sententiam in cordibus suis scriptam et agnoscunt eam ac probatam, licet invite, cum audient eam tractari : primo, Deum esse omnipotentem […] deinde, ipsum omnia nosse et praescire, neque errare neque falli posse. Istis duobus corde et sensu concessis... b 3  

In questa affermazione è interessante il proprio suo iudicio convicta, perché distingue le conoscenze da semplici « idee innate » o da rappresentazioni soprannaturalmente infuse : entrambe possono produrre pensieri, ma non convinzioni ex proprio iudicio. D’altra parte è interessante il cum audiant eam tractari, che corrisponde esattamente all’esperienza vissuta di Adimanto : « Ora che lo dici si fa chiarissimo anche a me ».* È la stessa esperienza che abbastanza spesso fanno i missionari. Una volta che siano state espresse e comprese le idee della unità e della bontà del divino, esse attecchiscono in modo sorprendentemente veloce, se in generale è presente il sentimento religioso. Spesso la propria tradizione religiosa viene adattata in questo senso ; oppure, quando ci si oppone alla nuova dottrina, spesso ciò accade con una notevole repressione della propria coscienza. Ho avuto notizia di queste esperienze da missionari che lavorano tra i tibetani e tra i negri africani. Raccoglierle sarebbe interessante, sia rispetto alla questione dell’a priori religioso in generale, sia, in particolare, dal punto di vista della conoscenza a priori della coappartenenza interna ed essenziale tra i momenti razionali dell’idea di  













a

  Erl. Ausg. 9, p. 2.   Wei. 18, p. 719.

b

3   « Ma la stessa ragione naturale è costretta a concedere quella (opinione) convinta dal suo proprio giudizio, anche se non vi fosse alcuna Sacra Scrittura. Tutti gli uomini infatti, non appena sentono che se ne tratta, la trovano scritta nel proprio cuore e la riconoscono, anche loro malgrado, come valida : primo, che Dio è onnipotente ; secondo che sa e prevede tutto, e che non può né errare, né sbagliarsi. Ammessi questi due punti con il cuore e con l’intelligenza... ».  







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Dio e quelli irrazionali. La stessa storia della religione ne dà una testimonianza quasi unanime. Per quanto manchevole possa esser stata la moralizzazione dei numina nelle diverse zone « selvagge » di questa storia, se ne trovano tracce ovunque. E ovunque la religione sia uscita dalla sua prima « rozzezza » e si sia innalzata ad una religione superiore, questo processo di sintesi è cominciato ed è poi proseguito con la massima forza. Il che è ancor più degno di attenzione, se si considera quanto diversi fossero i dati dai quali ha preso le mosse la creazione di figure divine ad opera della fantasia, e in quali differenze di razza, di disposizione naturale, di struttura sociale e politica il suo sviluppo è poi proseguito. Tutto ciò rimanda a momenti a priori che risiedono nello spirito umano in modo universale e necessario ; a quei momenti che ritroviamo immediatamente nella nostra propria coscienza religiosa quando anche noi, come Adimanto, in modo del tutto ingenuo e spontaneo approviamo le parole di Socrate come qualcosa di ovvio, qualcosa che noi stessi abbiamo visto : « Dio, infatti, è semplice, è sincero in azione e parola ». I momenti razionali, essendosi uniti, nel loro sviluppo storico-religioso, a quelli irrazionali secondo principi a priori, schematizzano questi ultimi. Questo vale in generale del rapporto tra il lato razionale del sacro in genere con quello irrazionale, ma vale anche dei singoli momenti parziali dei due lati. Il tremendum, il momento repulsivo del numinoso, si schematizza mediante le idee razionali di giustizia, volontà morale, esclusione di ogni elemento contrario alla morale, e, così schematizzato, diviene la sacra « ira di Dio » annunciata nella Scrittura e nell’omiletica cristiana. Il fascinosum, il momento attraente del numinoso, si schematizza mediante la bontà, la misericordia e l’amore e, così schematizzato, diviene la « grazia » nel senso pieno del termine, la quale è in un rapporto di armonia di contrasto con l’ira sacra e, come quella, acquisisce una coloritura mistica grazie alla sua trama numinosa. Il momento del mysteriosum si schematizza mediante l’assolutezza di tutti i predicati razionali della divinità. La corrispondenza tra questi due momenti probabilmente non diviene chiara al primo sguardo tanto immediatamente quanto nei casi precedenti. Ma è molto precisa. I predicati razionali di Dio si distinguono dai medesimi predicati di uno spirito creato per il fatto che non sono, come quelli, relativi, ma assoluti. L’amore dell’uomo è relativo, soggetto a gradi, e altrettanto il suo conoscere o il suo esser buono. L’amore, la conoscenza di Dio e quant’altro può esser espresso in concetti, ha la forma dell’assolutezza. È questo elemento formale che in presenza di uno stesso contenuto qualifica i predicati come divini. Un elemento formale è anche il misterioso come tale che, come abbiamo già visto a p. 215, è la forma del « totalmente altro ». A questa chiara corrispondenza tra i due se ne aggiunge un’altra : la nostra facoltà di apprensione coglie soltanto il relativo. Possiamo certo pensare l’assoluto che si contrappone al relativo, ma non possiamo immaginarlo : sottostà alla nostra facoltà dei concetti, ma oltrepassa i limiti della nostra capacità di coglimento. Per questo esso non è ancora l’autentico misterioso, come abbiamo già esposto a p. 216, ma è un autentico schema del misterioso. L’assoluto è inafferrabile, il misterioso non coglibile. L’assoluto è ciò che trascende i limiti della capacità di coglimento non per la sua qualità, che ci è ben familiare, ma per la forma della qualità. Il misterioso è ciò che in generale trascende ogni pensabilità e che per forma, qualità ed essenza è il « totalmente altro ». Così, rispetto al momento del misterioso nel numinoso, anche la corrispondenza del suo schema è molto precisa e può essere ben sviluppata.  



































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capitolo diciannovesimo

Che in una religione i momenti irrazionali restino sempre desti e vivi, la preserva dal diventare razionalismo. Che si sazi in abbondanza di momenti razionali è ciò che la preserva dallo sprofondare o dal perseverare nel fanatismo o nel misticismo e che la rende capace di essere una religione della qualità, della cultura e dell’umanità. Che entrambi i momenti stiano in bella e sana armonia è, a sua volta, un criterio per valutare la superiorità di una religione : ed è un’unità di misura propriamente religiosa. Anche secondo quest’ultima il cristianesimo ha sulla terra una superiorità assoluta rispetto alle religioni sorelle. Su un fondamento profondamente irrazionale si eleva lo splendido edificio dei suoi concetti luminosi e chiari, dei suoi sentimenti e vissuti. L’irrazionale è solo fondamento, margine, trama ; gli serba la sua profondità mistica e conferisce alla « religione » i toni gravi e le ombre della mistica, senza che in esso la religione stessa devii e degeneri in mistica. E così il cristianesimo, in una sana proporzione tra i suoi momenti, si configura nel carattere del classico e del nobile, che si attesta al sentimento in modo tanto più vivo, quanto più onestamente e senza preconcetti lo si includa nella comparazione tra le religioni e si riconosca che in esso è giunto a maturità in un modo particolare e superiore un momento della vita dello spirito umana che trova analogie anche altrove.  







Capitolo ventesimo IL SACRO NEL SUO MANIFESTARSI

U

na cosa è credere semplicemente in qualcosa di soprasensibile, altra cosa è averne un’esperienza vissuta ; una cosa è avere un’idea del sacro, altra cosa è coglierlo e rendersi conto del fatto che agisce, governa e, agendo, viene a manifestazione. Che anche la seconda cosa sia possibile, che ne diano testimonianza non soltanto la voce interiore, la coscienza religiosa, il tenue sussurro dello spirito nel cuore, il sentimento, il presentimento e lo struggimento, ma che lo si possa incontrare in particolari eventi, circostanze, persone, in effettive attestazioni di autorivelazione ; che dunque vi sia accanto ad una rivelazione interiore da parte dello spirito, anche una rivelazione esterna del divino, è una convinzione fondamentale di tutte le religioni e della religione stessa. Il linguaggio della religione chiama « segni » queste attestazioni, queste manifestazioni del sacro in un’autorivelazione percettibile. Sin dall’epoca delle religioni più primitive è valso sempre come segno tutto ciò che era in grado di suscitare il sentimento del sacro nell’uomo, tutti quei momenti e quelle circostanze delle quali si diceva sopra : lo spaventoso, il sublime, l’ultrapotente, ciò che sorprende e sconcerta, e, in modo del tutto particolare, ciò che è incomprensibile e misterioso, che è divenuto portentum e miraculum. Ma, come abbiamo visto, tutte queste circostanze non erano segni in senso autentico, ma solo cause occasionali per il sentimento religioso di suscitarsi da se stesso. E la causa risiedeva in un momento di mera analogia di tutte queste circostanze con il sacro. Che queste siano state interpretate come sue manifestazioni è dipeso da uno scambio tra la categoria del sacro e qualcosa che gli è solo esteriormente analogo : non si è trattato, però, di un’autentica « anamnesis », di un autentico riconoscimento del sacro stesso nel suo manifestarsi. Per questo, nello stadio di un superiore sviluppo e del puro giudizio religioso, tali circostanze vengono di nuovo respinte e rigettate come totalmente o parzialmente inadeguate, o come senz’altro indegne. C’è un processo esattamente analogo a questo in un altro ambito, quello del gusto. Anche in un gusto grezzo è già vivo un sentimento o un pre-sentimento del bello che deve provenire da un concetto oscuro del medesimo posseduto già a priori, altrimenti esso non potrebbe in generale aver luogo. In prima battuta il gusto ancora grezzo applica il concetto oscuro di bello « scambiandolo », e non a partire da una corretta e autentica anamnesis, ritenendo belle cose che non lo sono affatto. Anche qui il principio di una simile applicazione, che è ancora falsa, è rappresentato da certi momenti della cosa giudicati falsamente come belli, che costituiscono analogie prossime o distanti con il bello. Il gusto poi, una volta che si è formato, rigetta, anche qui, con un deciso rifiuto ciò che è meramente analogo al bello, ma di per sé bello non è, e diviene capace di vedere e giudicare correttamente, ossia di riconoscere come bello quell’elemento esteriore nel quale gli si « manifesta » realmente ciò di cui ha interiormente un’idea, ossia un’unità di misura.  























La facoltà di divinazione Definiamo divinazione qualsivoglia facoltà di conoscere e riconoscere autenticamente il sacro nel suo manifestarsi. C’è una simile facoltà ? E di che specie è ?  



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capitolo ventesimo

Per la teoria soprannaturalistica la questione è abbastanza semplice. In questo caso la divinazione consiste nell’imbattersi in un evento che non può esser spiegato « naturalmente », ossia secondo leggi naturali. Ora, poiché un simile evento ha luogo, poiché non può aver luogo senza una causa, e poiché non ha una causa naturale, allora deve averne una soprannaturale. Questa teoria della divinazione e del « segno », in quanto dimostrazione che è e si vuole rigorosa, è un’autentica teoria, costituita di solidi concetti. È solidamente razionalistica. E l’intelletto, la facoltà di riflessione per concetti e dimostrazioni, viene qui chiamato in causa come facoltà di divinazione. L’oltremondano viene dimostrato con la stessa inflessibilità e con lo stesso rigore con cui si dimostra qualcosa logicamente a partire da certi dati. È quasi superfluo argomentare in modo circostanziato contro questa concezione che in generale non abbiamo la possibilità di stabilire che un evento non deriva da cause naturali, che cioè va contro le leggi di natura. Lo stesso sentimento religioso si ribella di fronte a questo irrigidimento e a questa materializzazione di quanto vi è di più delicato nella religione : incontrare e trovare Dio. Se, infatti, c’è un caso in cui la coercizione mediante dimostrazioni o lo scambio con il procedimento logico o giuridico sono esclusi, in cui la libertà, il riconoscimento e l’intima adesione provengono dal più libero moto della più profonda interiorità, è proprio il caso in cui un uomo si avvede dell’azione del sacro in un accadimento proprio o estraneo, nella natura o nella storia. Non soltanto la « scienza naturale » o la « metafisica », ma già lo stesso sentimento religioso maturo respinge queste grossolanità che, nate dal razionalismo, generano razionalismo e che non soltanto frenano un’autentica divinazione, ma sospettano quest’ultima di fanatismo, misticismo o romanticismo. In generale l’autentica divinazione non ha nulla a che fare con la legge di natura e con la relazione o non relazione a questa. Essa non si interroga affatto sul prodursi di un simile fenomeno, sia esso evento, persona o cosa, ma sul suo significato, su quel significato per cui esso è un « segno » del sacro. Nel linguaggio edificante e in quello dogmatico la facoltà di divinazione si nasconde sotto il bel nome di testimonium spiritus sancti internum 1 (che qui viene limitato al riconoscimento della Scrittura come Sacra). Questo nome è anche l’unico corretto, e non soltanto in senso figurato, della facoltà di divinazione, se quest’ultima viene colta e giudicata per mezzo della divinazione stessa, ossia secondo l’idea religiosa della verità eterna. Con un’espressione della psicologia empirica parliamo qui di una « facoltà » che dobbiamo esaminare sotto il profilo psicologico. Tale facoltà è stata scoperta sul versante teologico, ed è stata portata a comprensione contro il soprannaturalismo e il razionalismo, da Schleiermacher nelle sue Reden über die Religion nel 1799, da Jakob Friedrich Fries nella sua teoria del « presentimento », e, con particolare riferimento alla divinazione del divino nella storia quale « presentimento del governo divino del mondo », dal de Wette, collega di Schleiermacher e allievo di Fries. Nella mia edizione di F. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern, a alla fine, alle pp. XV e ss., ho esposto più nel dettaglio la scoperta di Schleiermacher ; e nel mio libro Kantisch-Fries’sche Religionsphilosophie und ihre Anwendung auf die Theologie b ho presentato la versione più precisa della teoria del « presentimento » quale si trova in Fries e de Wette. Per un’esposizione più precisa rimando  







































a

  Nella terza edizione, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1913.   Tübingen, Mohr, 1909.

b 1

  Cfr. supra, p. 22.

il sacro

287

dunque a questi scritti. Qui, per caratterizzare questa teoria, riassumo brevemente i seguenti momenti. Propriamente ciò che Schleiermacher scorge è innanzitutto la facoltà di una contemplazione che sprofonda nel grande tutto della vita e della realtà, della storia e della natura. Quando un animo si apre alle impressioni dell’« universo », consegnandosi ad esse e immergendosi in esse, diviene capace, così egli insegna, di vivere intuizioni e sentimenti di qualcosa che, per dir così, è una « libera » eccedenza rispetto alla realtà empirica ; un’eccedenza che non viene còlta dalla conoscenza teorica del mondo e dalle connessioni mondane quali prendono forma nella scienza, ma che è afferrabile ed esperibile in modo massimamente reale per la facoltà dell’intuizione (Intuition) e che si forma essa stessa in singoli atti intuitivi (Intuitionen) che Schleiermacher chiama « intuizioni » (Anschauungen). Queste ultime assumono anche la forma di asserzioni e proposizioni determinate e formulabili, che sono analoghe a proposizioni teoriche, ma se ne distinguono chiaramente per il carattere libero e puramente conforme al sentimento. Di per sé sono più tentativi, accenni, analogie, che « asserzioni dottrinali » in senso stretto che possano essere sistematizzate e utilizzate come premesse di deduzioni teoriche. Sono di natura analogica e non adeguata e però, pur con questa limitazione, indubbiamente vere : per questo dovrebbero esser definite, nonostante la riluttanza di Schleiermacher nei confronti di questa espressione, come « conoscenze » ; le quali, certo, sono di carattere intuitivo e conforme al sentimento e non alla riflessione. Il loro contenuto, però, è che in e su ciò che è temporale viene còlto il trasparire dell’eterno, in e su ciò che è empirico viene còlto un fondamento e un senso delle cose sovraempirici : sono suggestioni di qualcosa che è carico di mistero e di presentimento. È significativo che lo stesso Schleiermacher impieghi talvolta, invece dei concetti principali di intuizione e sentimento, anche l’espressione « presentimento » e che utilizzi esplicitamente la divinazione profetica e la conoscenza del « miracolo » in senso religioso, ossia del « segno ». Quando, nelle sue disamine, tenta di chiarire mediante esempi l’oggetto del sentimento, arriva per lo più ad impressioni di un telos superiore, di un’ultima e misteriosa conformità del mondo a scopi, della quale avremmo un presentimento. Da questo punto di vista concorda interamente con le argomentazioni di Fries che determina il presentimento come una facoltà di divinazione della « teleologia oggettiva » ; e de Wette lo fa in modo ancor più deciso. Ma in Schleiermacher questo momento razionale è chiaramente radicato nel fondamento di un mistero eterno, dell’elemento irrazionale del fondamento del mondo, come si vede dalle autointerpretazioni del vissuto, sempre tentative e mai del tutto adeguate. E lo si vede in modo particolare quando anche Schleiermacher, di fronte alla natura, vive l’esperienza di tali impressioni non tanto attraverso la legalità razionale universale del mondo, comprensibile e interpretabile secondo l’idea del fine, quanto piuttosto attraverso quella che ci è apparsa come enigmatica « eccezione » a tale legalità e che per questo rimanda ad un senso della cosa che si sottrae alla nostra comprensione. c Una discussione dialettico-razionale o una giustificazione di tale intuizione non sono in alcun modo possibili, e nemmeno debbono aver luogo, poiché le toglierebbero la sua essenza più propria, che consiste piuttosto in una chiarissima analogia con il giudizio estetico. La facoltà di giudizio che qui Schleiermacher presuppone appartiene evidentemente alla « capacità di giudizio » che Kant analizza nella sua terza critica e che  













































c

  Cfr. ivi [Reden], p. 43, d.









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capitolo ventesimo

contrappone, in quanto capacità di giudizio estetico, alla capacità di giudizio « logico ». Ora, però, da questo non si può concludere che i giudizi formulati grazie ad essa siano giudizi di « gusto » quanto al contenuto ; né la distinzione di Kant intende che la facoltà del giudizio estetico sia innanzitutto e in generale un giudicare su cose « estetiche » nel senso specifico della nostra estetica. Con questo predicato Kant distingue, innanzitutto in modo solo molto generale, la facoltà del giudizio che è in generale conforme al sentimento, dalla facoltà dell’intelletto, in quanto facoltà del pensare discorsivo e concettuale, del dedurre e del concludere ; e individua come sua specificità il fatto che, a differenza del giudizio logico, non si attua secondo principi razionali chiari, ma « oscuri », i quali non possono essere esplicitati in proposizioni superiori, ma vengono solo « sentiti ». Talvolta, per tali oscuri principi dei giudizi di puro sentimento egli impiega anche la denominazione di « concetti inanalizzati » 2 e intende esattamente la stessa cosa che il poeta esprime nei versi :  





























Tu desti la potenza degli oscuri sentimenti Che miracolosamente dormono nel cuore. 3

Oppure :  

Quel che l’uomo non sa, o non considera va errando nella notte per il labirinto del petto. 4

D’altra parte tali giudizi di pura contemplazione e sentimento equivalgono, di nuovo, ai giudizi di gusto per il fatto che avanzano senz’altro la pretesa di validità oggettiva e anche in essi si può arrivare a necessità e validità universale. L’elemento apparentemente soggettivo, puramente individuale del giudizio di gusto, espresso nella massima de gustibus non disputandum, consiste solo nel fatto che si confrontano tra loro gradi diversi di educazione e maturità del gusto, i quali confliggono e non riescono ad accordarsi. Nella misura in cui il gusto matura e si esercita, cresce anche la concordanza del giudizio. Anche qui si ha la possibilità di discutere, di insegnare, di vedere in modo sempre più corretto, di convincere e provare. E lo stessso è per i giudizi di contemplazione. Laddove questa si approfondisce, si interiorizza, viene esercitata con arte e poggia su un autentico talento, essa può essere « esaminata », si può « portare al sentimento » ciò che si sente e come lo si sente, ci si può formare nel senso del vero e autentico sentire e vi si possono condurre altri. E questo è ciò che in quest’ambito corrisponde al ragionamento e al convincimento nell’ambito della prova logica. La grande scoperta di Schleiermacher ha due difetti. Da una parte egli presuppone inavvertitamente e ingenuamente la facoltà della divinazione come qualcosa di universale : ma essa non lo è nel senso che possa esser presupposta necessariamente in chiunque abbia una convinzione religiosa. Certo, Schleiermacher ha perfettamente ragione nell’annoverarla tra le facoltà dello spirito razionale in generale, nel considerarla come ciò che in esso vi è di più profondo e peculiare. In questo senso può anche  









2   Cfr. KFR, supra, p. 120. Qui però, a differenza che in KFR (e in DH, supra, p. 225), Otto riporta esattamente lo unausgewickelt kantiano, senza modificarlo in unauswickelbar. 3   J. C. F. Schiller, Der Graf von Hobsburg, 1803. In realtà i primi due versi citati sono « und wecket » (« e desta ») e non « Du weckest », come riporta Otto. 4   J. W. Goethe, An den Mond, 1777.  











il sacro

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esser definita un momento « universalmente umano », visto che definiamo l’uomo per mezzo dello « spirito razionale ». Ma ciò che è universalmente umano non è affatto universale e posseduto in actu da ogni uomo : molto spesso viene alla luce soltanto nella forma di un talento d’eccellenza e di una dote di singoli privilegiati. Nella sua interessantissima esposizione dell’essenza e del compito dei « mediatori », nel primo discorso, d Schleiermacher indica perfettamente come stanno realmente le cose su questa questione. (Questo passo contiene addirittura una teoria, sia pur modellata in modo eccessivamente romantico e assurdamente metafisico, della profezia e della dote della vocazione profetica.) Solo nature divinatorie hanno questa facoltà della divinazione in actu : non l’uomo in genere, come ritiene il razionalismo, o la massa indifferenziata di soggetti omogenei in azione reciproca, che sono ricettori e portatori delle impressioni dell’oltremondano, come pensa la moderna psicologia dei popoli. (E questo vale, senza dubbio, già dei gradi più bassi del moto primo e primitivo del « timore religioso » e dei suoi prodotti di rappresentazione. Derivare questi ultimi da un’originaria fantasia di gruppo e di massa che lavora comunitariamente è a sua volta una fantasia, i cui risultati si distinguono poco, talvolta, da quelli della prima quanto a stranezza e bizzarria.) Nonostante la sua scoperta della divinazione, e nonostante nel primo discorso egli lo affermi di se stesso, non è sicuro che Schleiermacher sia stato una natura propriamente divinatoria. In ogni caso, un altro individuo della sua epoca gli era decisamente superiore in questo dono : Goethe. Nella vita di Goethe la pratica viva della divinazione riveste un ruolo significativo : ne è una curiosa espressione la sua idea del « demonico », che espone con tanta energia in Dichtung und Wahrheit, libro 20, e nei suoi colloqui con Eckermann. e L’aspetto più caratteristico della sua rappresentazione del demonico è quello di oltrepassare ogni « concetto », « intelletto e ragione », di essere propriamente inesprimibile e « non coglibile » :  









































Il demonico è ciò che non può essere risolto da intelletto e ragione. Ama scegliersi tempi oscuri. In una città luminosa e prosaica come Berlino non avrebbe occasione di manifestarsi. Nella poesia vi è senz’altro qualcosa di demonico, soprattutto in quella inconscia, nella quale intelletto e ragione sono inadeguati e che perciò opera oltre ogni concetto. Opera, del pari, in sommo grado nella musica, la quale infatti è così elevata che nessun intelletto riesce ad afferrarla. Da essa deriva un effetto che domina ogni cosa e del quale nessuno è in grado di rendersi conto. Per questo il culto religioso non può farne a meno. La musica è uno dei primi mezzi per agire in modo miracoloso sull’uomo. – Il demonico non appare anche – chiede Eckermann – negli avvenimenti ? – Soprattutto in questi – disse Goethe –, in particolare in tutti quelli che non riusciamo a risolvere con intelletto e ragione. In generale si manifesta nei modi più disparati nell’intera natura, nel visibile e nell’invisibile. Molte creature sono di specie del tutto demonica, in molte agiscono parti di esso.  

Si vede come qui tornino chiaramente i momenti del numinoso che abbiamo trovato : il totalmente irrazionale e non coglibile con il concetto, il misterioso e il fascinosum, il tremendum e l’energicum. Il suo risuonare nelle « creature » ricorda Giobbe. f D’altra parte, l’intuizione goethiana del mysterium resta di gran lunga indietro rispetto a quella  



d



  Cfr. Reden, nella mia edizione, p. 6, l.   Cfr. l’edizione Cotta dei Sämtliche Werke di Goethe, volume 25, pp. 124 e ss. e [J. P.] Eckermann, Gespräche mit Goethe, a cura di A. v. d. Linden, [Leipzig] 1896, parte ii, pp. 140 e ss. f   Cfr. l’ippopotamo di Giobbe. e

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capitolo ventesimo

di Giobbe, perché Goethe, nonostante l’ammonimento del Libro di Giobbe, misura il mistero sul razionale, su intelletto e ragione, su concetti e sui concetti di leggi finalistiche umane. Per lui l’irrazionale diviene qualcosa di contraddittorio, insieme senso e non senso, vantaggioso e nocivo. Talvolta lo avvicina alla saggezza, come per esempio quando afferma :  

Nel modo in cui ho conosciuto Schiller c’è stato senz’altro qualcosa di demonico. Avremmo potuto incontrarci prima o dopo. Ma che sia accaduto proprio nell’epoca in cui io avevo terminato il viaggio italiano e Schiller cominciava a stancarsi delle speculazioni filosofiche, è stato importante e del massimo vantaggio per entrambi.

E lo avvicina quasi al divino :  

Mi è capitato spesso nella mia vita. E in questi casi si arriva a credere ad un intervento più alto, a qualcosa di demonico, che si adora senza pretendere di spiegarselo oltre (Eckermann, II, p. 132).

È sempre e comunque « energia » e « ultrapotenza » che si imprime in uomini impetuosi e ultrapotenti :  









– Mi sembra che Napoleone, dissi, sia stato di specie demonica. – Senz’altro, disse Goethe, e al sommo grado, tanto che non gli si potrebbe paragonare quasi nessuno. Anche il defunto Granduca era una natura demonica, di una forza e di un’inquietudine senza limiti. – Non ha tratti demonici anche Mefistofele ? – No. È un essere troppo negativo, mentre il demonico si esprime in una forza completamente positiva.  

In Dichtung und Wahrheit, p. 126, descrive ancor meglio l’impressione esercitata da queste persone numinose. Qui emergono in modo particolare il nostro « tremendum », in quanto « spaventoso », e contemporaneamente l’« ultrapotente » :  













Questo demonico appare nel modo più spaventoso quando in un uomo emerge come preponderante. Non sono sempre uomini che si distinguono per spirito o talenti e raramente sono raccomandabili per bontà di cuore, ma da loro procede una forza incredibile ed esercitano un incredibile potere su tutte le creature e persino sugli elementi. Chi può dire fin dove si estenda un simile effetto ?  

Il suo effetto è straniante anche quando è benefico, è più impeto inquieto che azione ; in ogni caso ciò che Goethe tenta di descrivere in quella serie di antitesi in Dichtung und Wahrheit, p. 24 è assolutamente irrazionale :  



[...] qualcosa che si manifestava soltanto in contraddizioni e che perciò non poteva essere còlto da alcun concetto e ancor meno da una parola. Non era divino, perché appariva irrazionale ; non umano, perché non aveva intelletto alcuno ; non diabolico, perché era benevolo ; non angelico, perché mostrava spesso una gioia maligna. Somigliava al caso, perché non dimostrava consequenzialità, e alla provvidenza, perché indicava una connessione. Tutto ciò che ci limita sembrava per esso permeabile. Sembrava disporre a piacimento degli elementi necessari della nostra esistenza : contraeva il tempo e dilatava lo spazio. Solo l’impossibile sembrava andargli a genio e respingeva il possibile con disprezzo. Sebbene quel demonico possa manifestarsi in tutto, nel corporeo e nell’incorporeo, e possa esprimersi negli animali nel modo più singolare, è però con l’uomo che si trova nella connessione più meravigliosa e forma una potenza che, se non si oppone all’ordine morale del mondo, tuttavia lo incrocia, in modo tale che si può considerare l’uno l’ordito e l’altro la trama.  







il sacro

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Non si può esprimere in modo più intuitivo di così il fatto che si sia concepita una divinazione del numinoso con un’impressione dell’animo d’immane intensità ; e evidentemente non soltanto una volta, ma in modo ripetuto e quasi abituale : una divinazione, però, che non coglie il numinoso come fa il profeta, né giunge all’altezza del vissuto di Giobbe, in cui l’irrazionale e misterioso viene vissuto ed esaltato come il valore più profondo e come il diritto autonomo del sacro ; una divinazione compiuta da un animo non ancora abbastanza profondo per queste profondità e al quale, perciò, il contrappunto dell’irrazionale alla melodia della vita poteva risuonare soltanto in una confusa consonanza e non con un’autentica armonia, indefinibile, ma coglibile nel sentimento. È divinazione autentica, ma è una divinazione del « pagano » Goethe, come egli usa talvolta considerarsi e definirsi. In effetti essa si muove solo sul livello preliminare del demonico e non su quello del divino e del sacro stesso. E qui è descritta, in modo da render molto facile l’immedesimazione, la specie di demonico che può presentarsi come tale nella vita di un animo di cultura elevata, ma con riflessi che sconcertano, che abbagliano più che illuminare o riscaldare. Goethe non ha saputo eguagliarli ai suoi superiori concetti del divino e, quando Eckermann porta su ciò il discorso, risponde in modo evasivo :  











– Sembra che nell’idea del divino, provai a dire, non rientri la forza operante che chiamiamo demonico. – Figlio caro, disse Goethe, che ne sappiamo dell’idea del divino e che pretendiamo che dicano i nostri ristretti concetti dell’essere sommo ! Se anche lo chiamassi, come fanno i Turchi, con cento nomi, non sarebbe abbastanza e, a paragone di qualità tanto illimitate, non avrei detto ancor nulla.  

A prescindere dal fatto che il livello è molto inferiore, abbiamo qui esattamente ciò che ha in mente Schleiermacher : « intuizione e sentimento », attuati in modo vivissimo da una natura divinatoria, non di qualcosa di divino, certo, ma di qualcosa di numinoso nella natura e negli eventi. Questa divinazione si attua qui secondo un principio totalmente indefinibile. Per quanti esempi Goethe offra, non è in grado di indicare che cosa il demonico propriamente sia, a partire da cosa lo senta e in virtù di cosa lo riconosca come identico in queste forme d’espressione variopinte e in contraddizione tra loro. È evidente che qui egli è guidato da un « mero sentimento », ossia da un oscuro principio a priori.  









Capitolo ventunesimo LA DIVINAZIONE NEL CRISTIANESIMO ORIGINARIO

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opra abbiamo parlato e trattato di uno dei difetti della teoria schleiermacheriana della divinazione. L’altro è che Schleiermacher, pur sapendo descrivere in modo molto caldo e vivo la divinazione nei confronti del mondo e della storia, le restituisce solo rapidamente e per cenni, ma non in modo chiaro e dettagliato, quell’oggetto che è per essa il più degno e conveniente : la storia della religione, soprattutto di quella biblica e del suo oggetto sommo, Cristo stesso. L’ultimo dei suoi discorsi introduce il cristianesimo e Cristo in modo enfatico e significativo. Ma qui Cristo è essenzialmente solo un soggetto della divinazione e non il suo vero e proprio oggetto. E tale resta anche nella Glaubenslehre. Anche in questa il significato di Cristo si esaurisce essenzialmente nel fatto che « ci rende partecipi della forza e della beatitudine della sua coscienza di Dio » : 1 un pensiero estremamente ricco di valore, che però non arriva a quel valore capitale che a buon diritto la comunità attribuisce a Cristo, quello di essere la « manifestazione stessa del sacro ». Nel suo essere, nella sua vita e nel modo in cui l’ha vissuta noi stessi « intuiamo e sentiamo » spontaneamente il rivelarsi dell’azione della divinità. Per il cristiano, infatti, è importante domandarsi se si dia una divinazione, un coglimento immediato e diretto del manifestarsi del sacro, un’« intuizione e un sentimento » del medesimo nella persona e nell’operato di Cristo ; se cioè in lui il sacro sia esperibile autonomamente e se egli ne sia una reale rivelazione. Sotto questo profilo non ci sono evidentemente utili in alcun modo le ricerche tormentose e in fondo impossibili sull’« autocoscienza di Gesù », che sono state tanto spesso intraprese. Impossibili lo sono già per il fatto che il materiale documentale in proposito è insufficiente e inadeguato. Gesù rende contenuto della sua predicazione e delle sue affermazioni il « Regno », la sua giustizia e la sua beatitudine, e non se stesso. E « vangelo » nella sua comprensione prima e semplice è « annuncio del Regno », vangelo del Regno di Dio. Le affermazioni riferite a sé sono solo occasionali e frammentarie. Ma anche se così non fosse, anche se riuscissimo a trovare in lui una dettagliata teoria a proposito di se stesso, cosa proverebbe ! Non di rado i fanatici religiosi sono ricorsi ai mezzi più elevati dell’autotestimonianza, e abbastanza spesso, senza dubbio, in piena buona fede in se stessi. Se vi è qualcosa che nella sua forma è massimamente dipendente da rappresentazioni dell’epoca, dall’ambiente, dall’apparato mitologico e dogmatico circostante, sono proprio queste autotestimonianze delle profezie di tutti i tempi. L’applicazione a sé che ne fa questo o quel profeta, ispirato o maestro dimostra soltanto il suo sentimento in generale, la sua missione, la sua superiorità, e la sua pretesa che gli si presti fede e obbedienza : tutte cose che sono in partenza ovvie quando un uomo si leva per vocazione interiore. Da una qualche autoaffermazione non conseguirebbe ciò di cui parliamo : può certo suscitare fede nell’autorità, ma non portare al vissuto proprio, alla visione spontanea e al riconoscimento : « Ora abbiamo conosciuto noi stessi che tu sei il Cristo ».  













































1

  Cfr. Glaubenslehre, §94 e §100.





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capitolo ventunesimo

Che la prima comunità lo abbia riconosciuto con una simile divinazione propria e spontanea, o almeno presunta tale, non può essere messo in dubbio. Senza di essa sarebbe in generale incomprensibile la nascita della comunità. Da un mero annuncio, da una mera autotestimonianza autoritaria non derivano quelle solide certezze, quei forti impulsi, quella forza e quella spinta all’affermazione che erano necessarie per la nascita della comunità cristiana e che sono chiaramente riconoscibili come suo tratto caratteristico. Ci si può sbagliare su ciò soltanto se si tenta di avvicinarsi al fenomeno della nascita della comunità cristiana unilateralmente, solo con i mezzi e le ricostruzioni della filologia e con i sentimenti e le facoltà di sentimento affievoliti della nostra cultura e del nostro spirito di oggi, che ha perso l’ingenuità. Sarebbe utile se a questi mezzi e metodi si aggiungesse il tentativo di procurarsi mediante esempi viventi, che possono essere rintracciati ancor oggi, un’idea più concreta di come sorgono conventicole e comunità religiose autentiche e originarie. Si dovrebbero cercare luoghi e occasioni in cui anche oggi è ancora viva la religione quale moto e impulso primigenio, istintivo e ingenuo. Questo può essere studiato ancor oggi in angoli remoti del mondo islamico e indiano. Nelle piazze e sulle strade di Mogador e Marrakech si possono trovare ancor oggi scene che hanno una singolare somiglianza con quelle che riportano i Sinottici. Compaiono dei « Santi » (Heilige) – per lo più assai bizzarri – intorno ai quali il popolo va a raccogliersi per ascoltarne le sentenze e vederne i miracoli, per osservarne la vita e l’operato. Nascono circoli più o meno saldi di discepoli e si formano e si raccolgono « logia », racconti, leggende. Sorgono confraternite o si aggiungono nuovi circoli a confraternite già esistenti. Il centro è però sempre l’uomo che in vita fu un « santo » (Heiliger), e il fulcro del movimento è sempre il carattere e la forza del suo essere personale e dell’impressione che esercita. Gli esperti assicurano che il novantotto percento di questi « santi » (Heilige) sono impostori. Ora, il due percento non lo è : una percentuale sorprendentemente alta in una questione come questa, che stimola e facilita l’impostura. E queste percentuali residue resterebbero altamente istruttive per il fenomeno stesso. Per il vissuto della sua cerchia già il « santo » (Heiliger), o il profeta, è più che « yilo;~ a[nqrwpo~ » : è l’essere meraviglioso e pieno di mistero, appartiene in qualche modo all’ordine superiore delle cose e si trova dalla parte dello stesso numen. Egli non presenta se stesso come tale, ma come tale viene vissuto. E le comunità religiose nascono soltanto da simili vissuti, che possono essere grezzi e che abbastanza spesso sono autoillusioni, ma che sono necessariamente intensi e profondi. Queste analogie sono infinitamente povere e molto distanti da ciò che una volta ebbe luogo in Palestina ; ma se già queste sono possibili solo per il fatto che il sacro stesso, reale o presunto, viene esperito in singole personalità, quanto infinitamente più vero deve esser stato in quel caso ! Che sia stato così lo testimoniano l’intera tonalità emotiva e la convinzione delle prime comunità, che in quei loro primi, modesti documenti riusciamo a rinvenire, in modo ancora immediato, come un tutto. E singoli tratti più minuti nell’immagine di Gesù dei Sinottici lo confermano esplicitamente nel dettaglio, come per esempio i racconti, già menzionati sopra, della pesca di Pietro e del centurione di Cafarnao, che indicano un riflesso di sentimento spontaneo di fronte al vissuto del sacro.* Nei racconti evangelici, simili indicazioni si trovano quasi solo incidentalmente : interessano poco il narratore stesso, per il quale è importante il resoconto del miracolo. Ma proprio per questo sono tanto più interessanti per noi. E quanto numerosi saranno stati vissuti simili, la cui traccia è stata cancellata appunto perché non vi era nessun  

































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miracolo da raccontare e la cosa stessa sembrava al narratore troppo ovvia. Tra questi vissuti rientra la fede nella superiorità di Gesù sul demonico e la tendenza alla leggenda, iniziata subito. Vi rientra il fatto che i suoi parenti lo ritenessero « posseduto » : un involontario riconoscimento dell’impressione « numinosa » che esercitava. E vi rientra in modo del tutto particolare la fede, che erompe spontaneamente come un’impressione, ottenuta non grazie alla teoria, ma all’esperienza vissuta, per cui per questa cerchia egli è « il Messia », l’essere numinoso assoluto. Il carattere di impressione e di vissuto di questa fede emerge molto chiaramente dalla prima confessione messianica di Pietro e dalla risposta di Gesù :  















Questo non te lo ha rivelato la carne e il sangue, ma il Padre mio in cielo. 2

Gesù stesso è sorpreso dalla confessione, a dimostrazione del fatto che Pietro non ha appreso tale conoscenza da un’autorità, ma l’ha trovata da solo : è stata una scoperta sorta dall’impressione e dalla testimonianza proveniente da quella profondità dell’animo dove chi insegna non è la carne, né il sangue, e nemmeno la « parola », ma lo stesso « Padre mio in cielo », il quale insegna senza intermediari. È assolutamente necessario, infatti, aggiungere anche questo : senza, qualsiasi « impressione » è inefficace o, meglio, non può aver luogo alcuna impressione. Per questo motivo sono inadeguate tutte le teorie dell’« impressione esercitata da Cristo » se non tengono conto di questo secondo momento, che in verità non è altro che la necessaria predisposizione per il vissuto del sacro, ossia la categoria del sacro, disposta nello spirito stesso come oscura conoscenza a priori. L’« impressione » presuppone qualcosa che possa essere impressionato : e l’animo non sarebbe tale, se in sé fosse solo una « vuota tavoletta di cera ». Per « impressione » non intendiamo qui la mera « impressio » che, secondo la teoria del sensismo, crea nell’anima la percezione come una traccia che lascia dietro di sé. Che qualcuno ci impressiona significa qui che conosciamo e riconosciamo in lui un peculiare significato, di fronte a cui ci inchiniamo. Ma questo è possibile solo grazie ad un momento di conoscenza, comprensione e valutazione che si fa incontro dalla propria interiorità, grazie allo « spirito interiore ». Secondo Schleiermacher alla « rivelazione » appartiene il correlato « presentimento ». La musica viene compresa soltanto da chi ha disposizione musicale ; solo costui ne riceve un’« impressione ». Ad ogni classe propria di impressioni reali appartiene anche un tipo proprio e specifico di congenialità che è affine a ciò che produce l’impressione. Nemo audit verbum nisi spiritu intus docente. 3 Ricordiamo ancora una volta il nostro esempio del bello. Qualcosa di bello può esercitare un’impressione, secondo il suo significato di bello, soltanto se e in quanto in un uomo è disposto un criterio per una specifica valutazione, ossia per la valutazione estetica. Questa disposizione possiamo comprenderla come un sapere originario e oscuro circa il valore del bello. Poiché questo sapere è in lui o, meglio, poiché ne è capace ed è capace di formarselo, l’uomo è in grado di riconoscere la bellezza quando incontra una singola e data cosa bella, di sentire l’analogia di questo oggetto con il suo « criterio » nascosto. E questo è appunto l’impressione.  















































2

  Mt 16, 17.   Cfr. AHG, p. 75.

3













Capitolo ventiduesimo LA DIVINAZIONE NEL CRISTIANESIMO ATTUALE

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iù della domanda se la comunità originaria abbia vissuto e abbia potuto vivere il sacro in e su Cristo, è per noi importante l’altra, se cioè anche noi ancora lo possiamo, se l’immagine del suo operare, vivere e agire, tramandata nella e dalla comunità, abbia anche per noi valore e forza di rivelazione o se qui ci nutriamo solo dell’eredità della prima comunità e crediamo sul fondamento dell’autorità e di una testimonianza estranea. Non vi sarebbe speranza di rispondere, se non potesse intervenire anche in noi quella comprensione per presentimento e quell’interpretazione dall’interno, quella testimonianza dello spirito che è possibile soltanto sulla base di una disposizione categoriale del sacro nell’animo stesso. Se già allora, in mancanza di questa, non sarebbero state possibili una comprensione e un’impressione del Cristo immediatamente presente, come potrebbe essere in grado di condurvici una qualche tradizione mediata ? Se invece possiamo assumere quella disposizione, allora le cose stanno in modo totalmente diverso. In questo caso non ci è più di alcun ostacolo il carattere frammentario e spesso incerto della tradizione, l’interpolazione di elementi leggendari e la patina « ellenistica » : lo spirito riconosce quel che è dello spirito. Per l’efficacia di questo principio interiore, che assiste, interpreta e si fa incontro con presentimenti – principio che secondo l’idea religiosa dobbiamo considerare come « spirito che dà testimonianza » – è stato per me istruttivo quanto mi raccontò un raffinato missionario che opera in una missione molto lontana. Mi disse che continua sempre di nuovo a stupirsi di come talvolta possa essere compreso in un modo tanto sorprendentemente profondo e intimo l’annuncio della Parola, così inadeguato in una lingua straniera e difficile, possibile sempre soltanto per allusioni e operante con concetti totalmente estranei. Anche qui è la comprensione per presentimento, che muove dal cuore di chi ascolta, che fa sempre la parte più importante. Senza dubbio è soltanto con ciò che abbiamo una chiave per la comprensione del problema Paolo. A questo persecutore della comunità cristiana poterono giungere indicazioni sull’essenza e sul significato di Cristo e del suo vangelo solo in brandelli, frammenti e caricature. Ma lo spirito gli ha imposto dall’interno quella conoscenza di fronte alla quale si è arreso a Damasco, e gli ha insegnato quella comprensione infinitamente profonda del manifestarsi di Cristo per cui, come ha dovuto riconoscere Wellhausen, in fondo nessuno ha compreso Cristo in modo tanto pieno e profondo quanto appunto Paolo. Naturalmente, se un vissuto del sacro in e su Cristo deve esser possibile, e se deve esser d’appoggio alla nostra fede, allora il primo, ovvio presupposto è che l’operare primo, proprio e più immediato di Cristo sia per noi ancora immediatamente comprensibile, che ci sia possibile viverlo secondo il suo valore e che esso dia immediatamente l’impressione della sua « santità » (Heiligkeit). Sembra che qui si sollevi una difficoltà la quale, se non venisse superata, renderebbe insolubili il problema e la domanda se ciò che oggi riteniamo di possedere rispetto a Cristo e al cristianesimo sia in fondo la stessa cosa che davvero Cristo intendeva dire e fare, e se sia la stessa cosa che ha vissuto la prima comunità rispetto al suo operare. È la stessa domanda di chi si chiede  















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capitolo ventiduesimo

se il cristianesimo possieda davvero un « principio » proprio che, sebbene sia capace di un’evoluzione nella storia, resta tuttavia identico a se stesso secondo l’essenza, così da rendere commensurabili e essenzialmente uguali il cristianesimo di oggi e la fede dei primi discepoli. In generale e in senso rigoroso il cristianesimo è « gesuanesimo » ? Vale a dire : nella sua essenza e nel suo senso interno, la religione che oggi conosciamo come cristianesimo, con i suoi peculiari contenuti di fede e di sentimento, quale si presenta come grandezza storica, che si distingue da altre religioni e si commisura ad esse, che solleva, muove, accusa o colma di felicità, attrae o respinge animi e coscienze, è ancora la stessa religione e religiosità « così semplice » e modesta che Gesù stesso ha avuto, che ha destato e fondato nella cerchia di quel piccolo gruppo irrequieto in quel remoto angolo di mondo della Galilea ? Che da allora essa abbia mutato in modo significativo colore e forma, che sia stata esposta a grandi cambiamenti e trasformazioni è universalmente riconosciuto. Ma nel succedersi delle sue manifestazioni c’è un’essenza perdurante, un principio identico che, pur essendo capace di sviluppi, resta però in sé uno ? Vi è uno sviluppo o invece vi è trasformazione, cambiamento, afflusso di elementi totalmente altri, che uno lamenta come capovolgimento, un altro ammira come felice sostituzione e un terzo registra come semplice fatto storico ? Il cristianesimo quale ci sta oggi dinnanzi, una grande « religione mondiale » esistente di fatto, è senza dubbio, nel suo senso primo e più autentico, una « religione di redenzione ». Salvezza – una salvezza debordante in un senso peculiarmente religioso –, liberazione e superamento del « mondo », di un’esistenza vincolata al mondo, della creaturalità in genere, superamento della lontananza da Dio e dell’inimicizia verso di Lui, redenzione dalla schiavitù e dal debito del peccato, riconciliazione e purificazione, ma quindi anche grazia e dottrina della grazia, spirito e comunicazione dello spirito, rinascita e nuova creatura sono i concetti che oggi lo caratterizzano, che sono comuni nonostante le molteplici scissioni in chiese, confessioni e sette. Mediante tali contenuti è caratterizzato in tutta chiarezza e determinatezza come assoluta « religione di redenzione », che sotto questo profilo è perfettamente comparabile alle grandi religioni d’Oriente con le loro contrapposizioni nettamente dualistiche di salvezza e perdizione, e che avanza la pretesa di non restar loro indietro quanto alla necessità della redenzione e al conferimento della salvezza, ma anzi di esser superiore tanto per l’importanza di questi concetti, quanto per il loro contenuto qualitativo. Senza dubbio il cristianesimo odierno ha in questi momenti il suo « principio » e la sua essenza. Ciò che è in questione è solo se questi grandiosi contenuti dell’animo e delle sue tonalità emotive siano realmente stati già il « principio » di quella semplice religione di Gesù, la cui fondazione deve esser definita come prima e più immediata opera di Cristo. Rispondiamo affermativamente a questa domanda, anche se richiamiamo la parabola del granello di senapa e dell’albero che cresce da questo, la quale si riferisce al Regno di Dio, ma si addice altrettanto bene al principio del cristianesimo. La parabola indica un cambiamento, perché l’albero è qualcosa di diverso dal seme ; ma è un cambiamento che non è trasformazione, ma passaggio dalla potenza all’atto : vero e proprio sviluppo e non « trasmutazione » o « epigenesi ». La religione di Gesù non si trasforma in religione di redenzione gradualmente, ma sin dal primo momento della sua comparsa, secondo la sua disposizione, lo è già : e lo è nel senso estremo e in tutta chiarezza, nonostante le manchino ancora termini che  



























































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sono successivi. Se si cerca di determinare con la maggior semplicità e sobrietà storica possibili ciò che è realmente caratteristico dell’annuncio di Gesù, si ottengono due momenti : 1) innanzitutto e soprattutto la predicazione del Regno di Dio, e non come momento secondario, ma come senso fondamentale della cosa ; 2) la reazione contro il farisaismo, caratteristica del vangelo di Gesù, e, in connessione con ciò, il suo ideale di devozione come intenzione e disposizione filiale fondata sul perdono delle colpe. Con questi due momenti è posto, in linea di principio, tutto ciò che successivamente si dispiega nel « carattere di redenzione » del cristianesimo, nelle sue dottrine più specifiche della grazia, dell’elezione, dello spirito e del rinnovamento mediante lo spirito. E queste cose sono state vissute e possedute, in forma implicita, anche e proprio da quella prima cerchia. Chiariamo meglio. Parlare di « religione di redenzione » è in realtà un pleonasmo, per lo meno se si considerano le forme superiori e più evolute di religione. Ognuna di queste, infatti, svincolatasi e resasi autonoma dalle relazioni, per lei eteronome, con l’eudemonia mondana pubblica o privata, sviluppa in sé un ideale di beatitudine peculiare e debordante che si può designare con l’espressione generale di « salvezza ». Ad una « salvezza » di questa forma tende, in misura sempre crescente e in modo sempre più consapevole, lo sviluppo religioso in India, a cominciare dall’idea di deificazione che risuona nel teopantismo delle Upanis≥ad fino alla beatitudine (solo apparentemente negativa) del nirvān≥a buddhista. Ad una « salvezza » tendono anche le « religioni di redenzione » propriamente dette, che all’inizio della nostra èra penetrano nell’ecumene dall’Egitto, dalla Siria e dall’Asia Minore. Per uno sguardo affinato dalla comparazione è evidente, inoltre, che anche nella religione persiana agisce il medesimo impulso religioso ad una « salvezza », nella veste e nella figura di un’escatologia che prende la forma della brama di moks≥a 1 e nirvān≥a. Anche l’Islam è una brama e un’esperienza vissuta di « salvezza » ; e non soltanto « in speranza », ossia in riferimento al piacere del paradiso : l’aspetto più importante dell’Islam infatti è l’Islam stesso, la sottomissione ad Allah, la quale è non soltanto offerta della volontà, ma anche desiderio e ricerca dell’accordo con Allah ; una tonalità emotiva che come tale è già una « salvezza », che può esser posseduta e goduta come una sorta di ebbrezza e che, intensificandosi, può diventare una mistica ubriacatura di beatitudine. Ma è del tutto evidente che questo stesso tratto, che è il tratto fondamentale di tutte le religioni superiori in genere, si esprime nel modo più intenso, e in un tipo qualitativamente superiore, nel cristianesimo, nel suo credere, bramare, ricevere in eredità il Regno di Dio. Con ciò è indifferente se il punto di partenza di questo pensiero in Israele sia stato di tipo puramente politico, se solo gradualmente si sia svincolato dal terreno della realtà per elevarsi infine all’elemento debordante, o se i motivi generatori siano stati sin dal principio propriamente religiosi. Molto spesso la materia che l’impulso religioso afferra, all’inizio è di tipo terreno-mondano. Il non dar requie dell’impulso, lo spinger sempre oltre, lo svincolarsi e il sollevarsi sono le sue espressioni più caratteristiche e ne chiariscono l’essenza interna, la quale non è altro che autentica spinta verso la redenzione, pre-sentimento e anticipazione di un bene « totalmente altro », presentito e debordante ; quest’ultimo, in quanto « salvezza », è paragonabile ai beni cui si tende in altre religioni, ma rispetto ad essi è superiore : tanto superiore, quanto qualitativamen 

























































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  Liberazione.





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capitolo ventiduesimo

te superiore è il Signore, che in questo « Regno » viene trovato e posseduto, a Brahma, Vis≥n≥u, Ormudz, Allah, o all’assoluto nella forma del nirvān≥a, kaivalya, 2 tao, o a quel che si voglia ancora menzionare. Il vangelo è completamente orientato alla redenzione, che sarà attuata un giorno da Dio, ma di cui esso fa già ora esperienza : promessa del Regno di Dio, nel primo senso ; vissuto immediato e già presente dell’esser figli di Dio, nel secondo, che il vangelo ha infuso nell’anima della sua comunità quale più immediato possesso di questa. Che la comunità fosse consapevole di questa salvezza come di qualcosa di qualitativamente e completamente nuovo, inaudito e debordante, si rispecchia nel logion per cui la Legge e i Profeti arrivano fino a Giovanni, ma ora viene il Regno con potenza ; per cui, cioè, anche Giovanni viene annoverato tra « Legge e Profeti ». A voler descrivere questa novità nel modo più conciso e secondo il suo carattere più autentico, bisognerebbe inventare le parole di Rm 8, 15, se già non ci fossero :  















Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi, per cui dovete ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli per mezzo del quale gridiamo : « Abbà, Padre buono ! ».  



   

Qui Paolo ha compreso la pointe e il centro, ha afferrato in modo precisissimo la rottura con l’antico, la nuova religione, il principio e l’essenza di questa. E questo « principio ed essenza » è stato quello di quei primi pescatori sul lago di Galilea ed è lo stesso attraverso l’intera storia del cristianesimo. Con questo è data la nuova posizione rispetto a peccato e colpa, legge e libertà ; con questo sono date, secondo il principio, « giustificazione », « rinascita », « rinnovamento », effusione dello spirito, nuova creazione e libertà beata dei figli di Dio. Queste o simili espressioni, dottrine, corpi dottrinali e relative speculazioni profonde dovevano comparire non appena la parola parlò a quello « spirito » che le corrispondeva. Da questo punto di partenza possiamo per lo meno concepire la possibilità dell’innesto di correnti « dualistiche », « gnostiche ».* Così la prima e immediata opera di Cristo, come possiamo comprendere ancor oggi con luminosa chiarezza, è l’azione e il dono della salvezza in speranza e possesso, il risveglio della fede nel suo Dio e nel Regno di Dio. Come può destarsi anche in noi, che siamo lontani rispetto all’opera e alla vita di Cristo, la « divinazione », l’intuizione religiosa, come possiamo giungere anche noi al vissuto del « manifestarsi del sacro » in lui ? Evidentemente non per via dimostrativa, con una dimostrazione secondo una regola o per concetti. Non siamo in grado di indicare alcun criterio concettuale della forma : « Se compaiono i momenti x + y, allora è presente una rivelazione », e proprio per questo parliamo di « divinazione », di un « cogliere intuitivo ». Possiamo giungervi, invece, per via puramente contemplativa, mediante un aprirsi e un abbandonarsi dell’animo alla pura impressione dell’oggetto : in modo tale che il contenuto e il dono dell’annuncio e dell’opera istitutiva di Gesù corrispondano all’immagine della sua persona e della sua vita, e che il tutto, nel contesto della lunga e mirabile preparazione nella storia della religione di Israele e Giuda, appaia insieme al gioco delle molteplici linee di sviluppo che, convergenti e divergenti, corrono tuttavia verso di lui, con il momento della « pienezza del tempo », con gli stimoli e le costrizioni esercitati dall’ambiente per contrasto e per parallelo ; in modo tale da prestare attenzione alla insolita base e trama dell’irrazionale stesso, che è avvertibile qui come non mai, al levarsi e recedere del suo effetto, all’emergere sempre più chiaramente del suo contenuto spirituale dal quale dipende la salvezza del mondo, all’enigmatico crescere delle potenze che gli resistono,  



























































2

  Liberazione.



il sacro

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al problema di Giobbe, mille volte più acuto, del dolore e della disfatta non soltanto di un uomo personalmente giusto, ma anche di ciò che è importante, di ciò che è più importante per l’interesse supremo dell’uomo e dell’umanità, a questa greve nube di mistica irrazionale che alla fine cala sul Golgotha. In chi è capace di immergersi nella contemplazione, di aprirsi all’impressione di un animo dischiuso, deve sorgere il « riconoscimento » del sacro, l’« intuizione dell’eterno nel temporale » nel puro sentimento, secondo criteri interni la cui regola è ineffabile. Se vi è qualcosa di eterno e di sacro nella mescolanza e compenetrazione dei momenti del razionale e dell’irrazionale, del teologico e dell’indefinibile, così come abbiamo tentato di coglierlo e di descriverlo, allora è qui che interviene nella sua manifestazione più potente ed evidente. In un certo senso, noi posteri siamo in una posizione migliore, e non peggiore, per coglierlo nel suo manifestarsi. Il fatto di coglierlo come « presentimento del governo divino del mondo » dipende da due momenti : da una parte, dalla visione d’insieme dell’intero contesto di questa meravigliosa storia dello spirito di Israele, del suo profetismo e della sua religione, e dalla visione della comparsa di Cristo in questo contesto ; d’altra parte, dalla totalità dell’intera opera e condotta di vita di Cristo stesso. In entrambi i casi per noi, più distanti e con un più acuto sguardo storico, è possibile una visione totale e d’insieme assai più completa di quella dell’epoca. A chi si immerge contemplativamente in quel grande contesto che chiamiamo l’« antica alleanza fino a Cristo » deve destarsi in modo quasi irrestistibile il presentimento che qui qualcosa di eterno preme imperiosamente per giungere a manifestazione e insieme a perfezione. E chi in questa connessione contempla il compimento e la conclusione, questa grande situazione, questa figura possente, questa personalità che senza tentennamenti si fonda su Dio, questa infallibilità e questa sicurezza che viene da misteriose profondità, questa certezza nella convinzione e nell’agire, la beatitudine e la spiritualità di questo contenuto, questa lotta, questa fedeltà e dedizione, questo dolore e infine questa morte vittoriosa, costui deve giudicare : questo è divino, questo è il sacro. Se c’è un Dio e se volesse rivelarsi, dovrebbe farlo proprio così. Costui deve giudicare così : non per costrizione logica o secondo una premessa concettualmente chiara, ma in un giudizio immediato di puro riconoscimento non derivabile da premesse, secondo una premessa inesplicitabile, che deriva da un sentimento puro e irriducibile della verità. Ma questo è appunto il tipo di divinazione autentica in quanto intuizione religiosa. Da una simile intuizione scaturiscono anche per noi necessariamente, e indipendentemente dall’esegesi o dall’autorità della comunità originaria, una serie di altre intuizioni sulla persona, l’opera e la parola di Cristo, che la dottrina della fede deve ulteriormente dispiegare : l’intuizione della « storia della salvezza » in genere e quella della sua preparazione profetica e del suo compimento. L’intuizione della « messianità » di Gesù in quanto colui nel quale diviene atto puro ogni disposizione della religiosità di Profeti e Salmi, ogni tendenza, attesa e anticipazione dell’« antica alleanza », colui che è il culmine e il grado più alto e perfetto di tutto lo sviluppo precedente, il significato e la meta dell’evoluzione di questo ceppo e di questo popolo, la quale, nel generarlo, compie il suo proprio ciclo d’esistenza e assolve il suo compito storico. L’intuizione dell’immagine e della presentazione di Dio in lui, visto che nelle sue lotte e vittorie, nella sua ricerca e nel suo amore di salvatore viene presentito un carakthvr di Colui che l’ha inviato e stabilito. L’intuizione della sua « figliolanza », in quanto è l’eletto e ha  









































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capitolo ventiduesimo

ricevuto la vocazione e la pienezza dei poteri della divinità ; e, per intensificazione, in quanto colui che solo a partire da Dio è comprensibile e possibile, e che in pari tempo ripete e presenta nel modo umano l’essenza divina. L’intuizione della « istituzione dell’alleanza », dell’adoptio e della conciliazione mediante lui, della validità dell’opera della sua vita quale sacrificio e offerta a Dio ; offerta che ha e ottiene il Suo compiacimento. E, non ultima, l’intuizione del mediatore che « copre » ed « espia ». La superiore conoscenza del vangelo di Cristo, infatti, non riduce, ma aumenta l’abisso tra creatura e creatore, tra profanum e sanctum, tra peccato e santità (Heiligkeit) : per un moto spontaneo del sentimento corrispondente, qui, come sempre, ciò in cui il sacro stesso si rivela viene contemporaneamente afferrato come mezzo e via per avvicinarsi ad esso. E questa spinta potrebbe suscitarsi spontaneamente e cercare la sua espressione anche nel caso in cui egli non fosse stato preparato e portato, come in Giudea e nell’antichità, da tradizioni della mistica del culto sacrificale. È un impulso religioso naturale e una necessità dello stesso vissuto numinoso. Non è da biasimare il fatto che tali intuizioni in generale compaiano nella dottrina della fede cristiana e abbiano una posizione centrale – non potrebbe essere altrimenti –, ma che si disconosca il loro carattere di libere intuizioni per divinazione, che le si dogmatizzi, le si teorizzi e le si deduca da necessità dogmatiche, che si disconosca ciò che sono, e cioè libere esteriorizzazioni e tentativi di espressione del sentimento, e che si conferisca ad esse un rilievo tale che le ponga indebitamente al centro dell’interesse religioso, in quella posizione che solo una cosa può lecitamente occupare : il vissuto stesso di Dio. Dove però ha avuto luogo un’autentica divinazione del « sacro nel suo manifestarsi », là acquistano significato anche quei momenti che si possono definire « segni concomitanti » : non veri e propri fondamenti portanti della divinazione, ma conferme di questa, come quei momenti della superiore vita e forza spirituale nell’immagine di Gesù, che hanno delle analogie nella storia dello spirito e delle religioni, che si mostrano nel dono della vocazione dei grandi profeti di Israele come intuizione visionaria e presentimento mantico, e che manifestamente tornano nella vita di Cristo come « doni dello Spirito » intensificati. Queste cose non sono « miracoli », perché in quanto facoltà dello spirito sono « naturali » in sommo grado, proprio come lo è la stessa nostra volontà che comanda i nostri corpi. Ma si presentano evidentemente solo là dove lo spirito si dà in superiore figura e vitalità, e dobbiamo attenderceli soprattutto dove esso è unito nel modo più stretto e intimo al suo fondamento eterno, dove riposa completamente in esso e per questo motivo diviene libero per la sua azione più alta. Per questo il loro esserci e comparire può essere un « segno concomitante » di quest’ultima circostanza e quindi del risultato di una pura divinazione. a È chiaro anche, infine, che proprio la passione e la morte di Cristo devono diventare oggetto di intuizione e di valutazione da parte di un sentimento particolarmente intenso. Se la sua missione nel mondo e la sua propria condotta di vita vengono in generale considerati specchio e autorivelazione della volontà di un amore eterno, allora dovrà essere considerato così soprattutto quest’atto supremo di fedeltà e amore. La croce diviene il puro e semplice speculum aeterni patris. E non solo del « Pater », non solo del supremo momento razionale del sacro, ma del sacro in genere. Cristo, infatti, è ricapitolazione e conclusione dello sviluppo precedente, soprattutto per il fatto che il più  















































a

  Cfr. più nel dettaglio R. Otto, LWJ4, pp. 33 e ss.



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mistico dei problemi – quello dell’antica alleanza, che dal Deutero-Isaia e da Geremia procede attraverso Giobbe e i Salmi – si ripete in modo classico nella vita, passione e morte di Gesù, elevandosi qui all’assoluto : il mistero della sofferenza del giusto innocente. Gb 38 è una profezia del Golgotha, e sul Golgotha viene ripetuta e superata la soluzione del « problema » già data a Giobbe. Come abbiamo visto, tale soluzione risiedeva totalmente nell’irrazionale, e tuttavia era una soluzione. Già in Giobbe la sofferenza del giusto riceveva il senso di essere il classico caso particolare della rivelazione di un aldilà misterioso nella realtà, prossimità e afferrabilità più immediate. La croce di Cristo, questo monogramma del mistero eterno, ne è il « compimento ». È nell’intreccio tra i momenti razionali del suo significato con quelli irrazionali, in questa mescolanza del manifesto con ciò che non è manifesto ed è carico di presentimento, del sommo amore con la tremenda ojrghv del numen nella croce di Cristo, che il sentimento cristiano ha compiuto l’applicazione più viva della « categoria del sacro », producendo, con ciò, l’intuizione religiosa più profonda che si sia potuta trovare nell’ambito della storia della religione. A questo punto, se si vogliono comparare e determinare le religioni l’una rispetto all’altra, bisogna chiedersi quale di loro sia la più perfetta. Non è il suo contributo alla cultura, non la relazione ai « limiti della ragione » e « dell’umanità », che si crede di poter costruire preliminarmente e a prescindere da essa, nulla di ciò che le è esterno può essere, in ultima analisi, l’unità di misura del valore di una religione in quanto religione ; unità di misura che può esser fornita solo da ciò che le è più proprio e intimo, l’idea stessa del sacro, e dal modo più o meno perfetto in cui una singola religione data le rende giustizia. Su valore e validità di tali intuizioni religione di puro sentimento non si può naturalmente discutere con persone che non si lascino coinvolgere in un sentimento religioso. Un’argomentazione generale o dimostrazioni morali qui non giovano a nulla, anzi, per un motivo facile da capire, non sono nemmeno possibili. D’altra parte non sono valide nemmeno critiche o confutazioni che provengono da quel versante. Le loro armi sono troppo corte e non possono colpire il bersaglio, perché l’assalitore è sempre fuori dall’arena. Tali intuizioni, che non sono altro che effetti autonomi dell’impressione della storia evangelica e del suo protagonista secondo la categoria del sacro, sono indipendenti dalle oscillazioni casuali dei risultati esegetici e dal tormento di legittimazioni storiche. Esse sono possibili anche senza ciò, per divinazione propria.  























Capitolo ventitreesimo A PRIORI RELIGIOSO E STORIA

L

a differenza tra il sacro come categoria a priori dello spirito razionale e il sacro nel suo manifestarsi ci conduce finalmente alla differenza che ci è familiare, e che è del tutto identica, tra rivelazione interiore ed esterna, generale e particolare : ci conduce al rapporto tra ragione e storia, ammesso che qui si voglia accettare l’uso linguistico corrente, secondo cui si riassume con « ratio » ogni conoscenza che viene all’animo da principi endogeni, e la si contrappone a quelle conoscenze che si riferiscono a fatti storici e su questi si fondano. 1 Ogni religione che voglia essere qualcosa di più di una mera fede nella tradizione e nell’autorità, che anzi miri al convincimento, ad una persuasione personale e interiore, ossia ad una conoscenza in proprio e interiore della sua verità – come fa, tra tutte le religioni, soprattutto il cristianesimo – deve presupporre nell’animo principi secondo i quali essa possa essere autonomamente riconosciuta come vera. La testimonianza sulla base di tali principi è il « testimonium spiritus sancti internum », del quale si è parlato. (*Se infatti non fosse tale, per riconoscere il testimonium come vero sarebbe necessario un altro testimonium spiritus sancti e così via, all’infinito.) Questi principi, che nessuna esperienza e nessuna « storia » possono offrire, debbono essere a priori. Certo, suona edificante dire che « nella storia » lo stilo dello Spirito Santo li scrive nel cuore, ma ha poco senso. Donde sa, chi dice così, che è stato lo stilo dello Spirito Santo a scrivere e non quello di uno spirito impostore o della « fantasia della psicologia dei popoli » ? Costui pretende di rintracciare nel solco di questo stilo la grafia dello Spirito distinguendola da altre grafie, dunque di avere un’idea a priori di ciò che lo Spirito è. La storia, inoltre, che qui deve essere storia dello spirito, presuppone qualcosa di cui essa possa essere storia : un qualcosa qualificato, con una propria potenza ; qualcosa che può divenire e il senso del cui divenire è soprattutto quello di diventare ciò per cui era predisposto e per cui aveva una destinazione. Una quercia può divenire, può essere un analogo della storia, un mucchio di pietre no. Certo, si possono raccontare anche processi casuali di addizione e sottrazione, di dislocazione o raggruppamento di momenti soltanto aggregati, ma non si tratta di un racconto di storia nel senso più profondo del termine. Si ha storia in un popolo, nella misura in cui questo compare con disposizioni e destinazioni, talenti e tendenze ; nella misura in cui è già qualcosa per poter divenire qualcosa. La biografia di un uomo che di partenza non ha alcuna disposizione propria, che è soltanto il punto di intersezione di catene di causalità casuali ed esteriori, è un impresa tormentosa e impropria. La biografia è una descrizione reale di una vita reale solo dove nel gioco reciproco di stimolo e vissuto, da una parte, e disposizione dall’altra, nasce qualcosa di peculiare che non è né risultato di un « mero dispiegarsi », né la somma di mere tracce e impressioni che vengono scritte su una tabula rasa dal succedersi di momenti esteriori. Chi vuole una storia dello spirito deve volere uno  































1

  Nell’edizione Beck, il passo da « ammesso » fino al punto è cassato.  





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capitolo ventitreesimo

spirito qualificato ; chi mira ad una storia della religione mira alla storia di uno spirito qualificato per la religione. La religione diviene nella storia, prima di tutto in quanto nello sviluppo storico dello spirito umano, nel gioco reciproco di stimolo e disposizione, quest’ultima diviene atto, configurato e determinato da quel gioco reciproco ; in secondo luogo in quanto, in forza della « disposizione » stessa, determinate parti della storia vengono conosciute per presentimento come « manifestazione del sacro », la cui appercezione influisce sulla qualità e sulla quantità del primo momento ; in terzo luogo, infine, in quanto sul fondamento del primo e del secondo momento si produce una comunità con il sacro nella conoscenza, nell’animo e nella volontà. Così la religione è senz’altro un prodotto della storia, poiché, da un lato, solo la storia sviluppa la disposizione per la conoscenza del sacro, e poiché, d’altro lato, essa è, in alcune sue parti, manifestazione del sacro. Non vi è una religione « naturale » in contrapposizione ad una storica ; ancor meno vi è una religione innata. a Le conoscenze a priori non sono quelle che ciascuno ha (in tal caso sarebbero « innate »), ma quelle che ogni essere razionale può avere. Le conoscenze a priori superiori sono quelle che ciascuno può avere, ma, conformemente a quanto attesta l’esperienza, non da se stesso, bensì « destate » da altri meglio dotati. Già in relazione ad esse la « disposizione » generale è soltanto una facoltà della ricettività e un principio di giudizio, ma non di produzione propria e autonoma delle conoscenze in questione. Quest’ultima ha luogo solo nei « dotati ». Questa « dote » è però un livello superiore, un potenziamento della disposizione generale, che non si distingue da quest’ultima soltanto per grado, ma anche per qualità. Lo si può vedere chiaramente nell’ambito dell’arte. Ciò che nella moltitudine è soltanto ricettività, capacità di riesperire e di valutare mediante un gusto formato, ritorna al livello dell’artista come invenzione, creazione e composizione, come produzione spontanea e geniale. E questo livello e questa potenza superiori di una disposizione, poniamo, musicale, che là è soltanto capacità di un vissuto musicale e qui è capacità di produzione e manifestazione musicali, non è evidentemente soltanto una distinzione di grado. Parallelamente accade nell’ambito del sentimento religioso, della produzione religiosa e della rivelazione. Nella massa, anche qui, la « disposizione » è presente soltanto come ricettività, ossia come eccitabilità alla religione e ad una valutazione e ad un riconoscimento propri e liberi. La disposizione generale è lo « spirito » soltanto nella forma del « testimonium spiritus internum », e anche questo solo ubi ipsi visum fuit. 2 Il livello e la potenza superiore però, inderivabile dal livello primo della mera ricettività, non è qui quello dell’artista, ma del profeta, ossia di chi possiede lo spirito come facoltà della « voce interiore » e della divinazione, e che quindi, in virtù di queste, lo possiede come capacità di produzione religiosa. Sopra questo livello del profeta, però, se ne può pensare e ci se ne può aspettare un terzo, ancora superiore, a sua volta inderivabile dal secondo : il livello di colui che, da una parte, ha lo spirito in pienezza e che, d’altra parte, diviene egli stesso, in persona ed opera, oggetto della divinazione del sacro che appare. Costui è più che un profeta. È il Figlio.  























































a

  Sulla differenza di innato e a priori cfr. KFR, p. 42 [qui p. 98].

2

  Parafrasi dello « ubi vult spirat » di Gv 3, 8. Cfr. AHG, p. 91.  





APPENDICE esempio di un componimento numinoso Dalla Bhagavadgītā, Cap. 11 Nella Bhagavadgītā Kr≥s ≥n≥a, incarnazione di Vis≥n≥u, Vis≥n≥u stesso in figura umana, istruisce Arjuna sui misteri più profondi della sua religione. Quindi Arjuna chiede di guardare Dio stesso nella sua propria figura. La sua preghiera viene esaudita. E ora, nel capitolo 11, accade la grandiosa e spaventosa teofania che tenta, con i mezzi umani e naturali dello spaventoso e del maestoso-sublime, di dare un sentimento dell’inavvicinabilità del divino, di fronte a cui la cretura trema e si strugge. Arjuna sta sul suo carro da guerra, ed è sul punto di entrare nella sanguinosa battaglia contro i nemici di suo fratello Yudhis≥t ≥hira, contro i figli di Dhr≥tarās≥t ≥ra. Kr≥sn≥ ≥a è il suo auriga. A lui formula Arjuna la sua preghiera :  

Mostramiti tu stesso, l’incorruttibile.

Gli risponde Kr≥sn≥ ≥a-Vis≥n≥u :  

8. L’occhio del tuo corpo è troppo debole per guardarmi, o Arjuna. Ti do un occhio celeste. Guarda, dunque, la mia potenza sovrana.

9-14. E avendo parlato così, subito si rivelò Hari, il signore della grande potenza miracolosa, il figlio di Pr≥thā, nella figura della sua maestà somma, con molte bocche ed occhi, assai meraviglioso a vedersi, con molti gioielli e armi celesti, con corone e vesti celesti, reso solenne con profumo celeste, lo sguardo rivolto ovunque : un dio, mirabile e senza misura. E lo splendore era grandioso, come se nel cielo splendessero mille soli tutti insieme. Allora Arjuna fu pieno di stupore. I suoi capelli si drizzarono. Giunse le mani, chinò il capo di fronte al dio e disse :  



17. 20 21 22

Vedo che porti la corona, lo scettro e il disco, Un mare di splendore che riluce da ogni parte Come raggio di sole in vampa smisurata Tutt’intorno. A fatica sopporto la vista. Terra e cielo si tendono, tutti gli spazi Tu riempi di te, tutte le vastità ricolmi. Contemplando te, figura orribile e meravigliosa, pieni di timore stanno i tre mondi, o Potente. Umili si avvicinano le schiere divine Altri stanno impauriti con mani giunte Salute (Heil) invocano per te i santi (die Heiligen) e i saggi E cantano inni, per lodarti in modo grandioso. Quel che vive in cielo, in terra, nelle nubi e nei venti, nell’aria e nelle acque, spiriti e dèi, demoni, mani, santi (Heilige), esseri meravigliosi, ti guardano e stanno immobili per lo stupore.

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appendice 23 24 25 26 27 28 29 30 31

In forma gigantesca, numerosi occhi, bocche, innumerevoli braccia, gambe, piedi, corpi, con denti orribili, immobile il mondo ti guarda e rabbrividisce, o Signore. E anche io rabbrividisco. Tu sei là, dritto verso il cielo, Sfavillante nello splendore dei tuoi colori, la bocca spalancata, gli occhi roteanti ! – L’orrore mi coglie, il coraggio si inabissa, sono sconvolto o Vis≥n≥u. Le bocche si levano con denti orribili, simili alle fiamme che una volta divorarono l’universo. Dove fuggire ! Non trovo luogo. Pietà, Signore degli dèi, tu, protettore dell’universo. Divorano i figli di Dhr≥tarās≥tr≥ a. Insieme alle schiere dei loro re, Bhīs≥ma, Dron≥a, Karn≥a tra i nemici, E tra i nostri anche i primi eroi Con rapido tratto ! Come stridono i denti ! Quanto crudelmente si muovono le bocche ! Già si mostrano quelli che hanno le teste stritolate, che pendono incastrate tra dente e dente. Come le correnti di flutto impetuoso Vengono trascinate all’oceano Così gli eroi scorrono dal mondo degli uomini Nella bocca lambita tutt’intorno dal fuoco. Come falene verso la fiamma calda della luce Si precipitano con impeto e là periscono, così alla tua bocca si precipita la moltitudine degli uomini, per perirvi. Tu lecchi e lecchi con le tue bocche di fuoco Da ogni parte, e li divori. Il tuo spaventoso splendore dardeggia per ogni dove E riempie l’universo con il tuo calore, Vis≥n≥u. O spiegami chi sei, figura spaventosa, del tutto incomprensibile è per me il Tuo comportamento. Ti prego o principe degli dèi ! Pietà. Desidero comprendere Te, primo tra tutti.  











Vis≥n≥u si trasforma di nuovo nella sua figura amichevole. Non esaudisce la preghiera di Arjuna di comprendere l’incomprensibile. Non è concesso all’uomo, dice Lutero, « svolazzare alla Maestà somma ». Egli deve attenersi alla parola di quanto la grazia gli concede. E di questa viene fatto partecipe anche Arjuna. Con le parole che sono state definite dagli interpreti come la somma e l’insieme di tutta la Gītā, il grandioso capitolo si conclude :  





Chi fa ciò che fa solo per me, chi me solo ha come meta e mi è fedele, libero dalla dipendenza dal mondo, libero dall’ostilità Quegli giunge a me, o Pān≥da≥ va !  

APPENDICE SECONDA raffronto con l’edizione del 1936 * [p. 201] A Theodor Häring 1 Il brivido è la parte migliore dell’umanità. E per quanto il mondo gli faccia pagar caro il sentimento commosso, nel profondo egli sente l’immane. 2

* [p. 202] Sommario Capitolo primo, Razionale e irrazionale Capitolo secondo, Il numinoso Capitolo terzo, Il « sentimento di creaturalità » come riflesso del sentimento dell’oggetto numinoso sul sentimento di sé (Momenti del numinoso i) Capitolo quarto, « Mysterium tremendum » (Momenti del numinoso ii) Capitolo quindo, Inni numinosi (Momenti del numinoso iii ) Capitolo sesto, Il fascinans (Momenti del numinoso iv) Capitolo settimo, Immane (Momenti del numinoso v) Capitolo ottavo, Analogie Capitolo nono, Il sanctum come valore numinoso. L’augustum (Momenti del numinoso vi) Capitolo decimo, Cosa significa irrazionale ? Capitolo undicesimo, Mezzi di espressione del numinoso Capitolo dodicesimo, Il numinoso nell’Antico Testamento Capitolo tredicesimo, Il numinoso nel Nuovo Testamento Capitolo quattordici, Il numinoso in Lutero Capitolo quindicesimo, Sviluppi Capitolo sedicesimo, Il sacro come categoria a priori. Prima parte Capitolo diciassettesimo, La sua comparsa nella storia Capitolo diciottesimo, I momenti del « grezzo » Capitolo diciannovesimo, Il sacro come categoria a priori. Seconda parte Capitolo ventesimo, Il sacro nel suo manifestarsi Capitolo ventunesimo, La divinazione nel cristianesimo originario Capitolo ventiduesimo, La divinazione nel cristianesimo attuale Capitolo ventitreesimo, A priori religioso e storia  













* [capitolo quarto, p. 210] Questo ha il suo primo impulso nel sentimento per lo « spaesante » (uncanny). L’intero sviluppo storico della religione ha preso le mosse da questo « timore » e dalla sua forma « grezza », da questo sentimento di « spaesamento » che è esploso ad un certo momento nel suo primo impulso ed è emerso poi nell’animo dell’umanità primitiva come qualcosa di nuovo e di estraneo. Con l’esplosione di questo sentimento è cominciata una nuova epoca per il genere  







1





  Theodor Häring (1848-1928), teologo ritschliano di cui Otto era stato allievo a Gottinga.   J. W. Goethe, Faust, ii, 1, vv. 6272-6274.

2





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appendice seconda

umano. In esso si radicano « demoni » e « dèi », e quant’altro « l’appercezione mitologica » o la « fantasia » ha prodotto quali reificazioni del medesimo. E se non lo si riconosce come fattore e impulso fondamentale dell’intero decorso storico della religione, peculiare dal punto di vista qualitativo e non derivabile da altro, tutte le spiegazioni della nascita della religione, quelle animistiche, quelle magiche e quelle di psicologia dei popoli, si trovano dal principio su una strada sbagliata e portano lontano dal problema vero e proprio. a La religione non è nata da una paura naturale, né da una presunta e generale « angoscia del mondo ».  



















* [capitolo quarto, p. 211] [Nota :] Che anche Schleiermacher con il suo « sentimento di dipendenza » intendesse in fondo questo « timore », lo si ricava da alcune affermazioni sparse. Così, nella seconda edizione delle Reden, curata da Pünjer, 3 a p. 84 si legge : « Concedo di buon grado che quel sacro timore reverenziale è il primo elemento della religione » ; e qui egli osserva, in pieno accordo con le nostre argomentazioni, il carattere completamente diverso di questa paura « sacra » rispetto ad ogni paura naturale. Schleiermacher è completamente immerso nel « sentimento numinoso » quando scrive : « Quelle meravigliose, terribili, misteriose commozioni » « che in modo troppo categorico definiamo superstizione, poiché al fondo di essa vi è evidentemente un brivido devoto di cui noi stessi non ci vergogniamo » (p. 90). Qui sono raccolti quasi tutti i nostri stessi termini per il sentimento numinoso. E qui « il primo elemento » nella religione non è certo una specie del sentimento di sé, ma è il sentimento di un oggetto reale al di fuori del sé. Contemporaneamente Schleiermacher riconosce il sentimento numinoso di nuovo nelle sue « grezze » commozioni, « che in modo troppo categorico definiamo superstizione ». Tutti questi momenti non hanno però evidentemente nulla a che fare con un « sentimento di dipendenza » nel senso di un « esser puramente e semplicemente posti », ossia nel senso dell’esser causato.  























































* [capitolo quarto, p. 213] Si consideri la seguente affermazione di un mistico cristiano : « L’uomo sprofonda e si scioglie nel suo proprio nulla e nella sua piccolezza. Quanto più chiara e pura risplende a lui la grandezza di Dio, tanto più egli diviene consapevole della sua piccolezza » ; b o le parole del mistico islamico Bajesid Bostami : « [...] Allora il Signore, l’Altissimo, mi svelò i suoi misteri e mi rivelò tutta la sua gloria. E allora, poiché io Lo guardavo (non più con i miei, ma) con i Suoi occhi, vidi che la mia luce, paragonata alla Sua, non era altro che oscurità e tenebra. E altrettanto la mia grandezza e la mia gloria non erano nulla di fronte alla Sua. E quando esaminai con l’occhio della veridicità le opere della devozione e della sottomissione che avevo fatto al Suo servizio, allora riconobbi che tutte provenivano da Lui stesso e non da me ». c  













a   Cfr. il mio saggio Mythos und Religion in Wundts Völker-psychologie, « Theologische Rundschau », 1910, Heft 1 e ss., ristampato e ampliato in GÜ, capitolo II [cfr. Il sensun numinis come origine storica della religione, infra, pp. 339-366], e il saggio in « Deutsche Literaturzeitung », 38, 1910 [Mythos und Religion nach Wilhelm Wundt, coll. 2373-2382]. Nelle ricerche più recenti, in particolare di Marett e Söderblom, trovo una gradita conferma delle affermazioni di allora. Certo, né l’uno né l’altro sottolineano con la piena nettezza che è qui necessaria il carattere del tutto specifico del « timore », qualitativamente diverso da tutti i sentimenti « naturali » : ma, in particolare a Marett, manca solo un soffio, come attestano le ricerche definite a buon diritto pioneristiche in R. R. Marett, The Threshold of Religion, London 1909 e in N. Söderblom, Das Werden des Gottesglaubens, Leipzig 1916 (su quest’ultimo cfr. la mia discussione in « Theologische Literaturzeitung », Gennaio 1925). b   C. Greith, Die deutsche Mystik in Prediger-Orden, [Freiburg 1861], pp. 144 e s. c   [Farid ad din ’Attar,] Tetzkereh-i-Evlia : le Memorial des Saints, tradotto da P[avet] De Courteille, Paris 1889, p. 132.  





















3

  F. W. Schleiermacher, Über die Religion, a cura di B. Pünjer, Braunschweig, Schwetschke, 18792.



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Oppure si considerino le argomentazioni di Meister Eckhart su povertà e umiltà. Quando l’uomo si fa povero e umile, Dio diventa tutto in tutto : Egli diviene l’essere e l’ente assoluti. Dalla majestas e dalla umiltà ricava il concetto « mistico » di Dio : non dal plotinismo o dal panteismo, dunque, ma dall’esperienza vissuta di Abramo. Si potrebbe chiamare questa mistica, che scaturisce dall’esaltazione della majestas e del sentimento di creaturalità, « mistica della majestas ». Quanto all’origine è senz’altro diversa dalla mistica della « contemplazione dell’unità » : per quanto intimamente possa esserle connessa non deriva da quella, ma è chiaramente una tensione portata all’estremo del momento irrazionale presente nel sensus numinis, di cui qui discutiamo, e solo come tale risulta comprensibile. In Meister Eckhart la mistica della majestas forma una trama che il sentimento avverte con chiarezza : essa si collega intimamente alle sue speculazioni sull’essere e alla sua « contemplazione dell’unità » e le compenetra, ma ha un motivo del tutto proprio che non si trova affatto, per esempio, in Plotino e che è espresso dallo stesso Eckhart quando dice : « Abbiate cura che Dio cresca in voi », o in accordo ancor più chiaro con Abramo : « Quando hai rinunciato a te stesso, allora vedi che io sono e tu no » (A. Spamer, Texte aus der deutschen Mystik, [Jena 1912], p. 32) ; o ancora : « Attenzione ! Io e ogni creatura siamo nulla, Tu solo sei e Tu sei tutte le cose » (p. 132). Questa è mistica ; una mistica che però evidentemente non deriva dalla sua metafisica dell’essere, ma anzi può mettere quest’ultima al proprio servizio. È esattamente ciò che accade nelle parole del mistico Tersteegen (Der Weg der Wahrheit, cit. da Tim Klein, Gerhard Tersteegen, München 1925, p. 73) :« Signore Dio, essere necessario e infinito, essere sommo, unico essere e più che essere ! Tu solo puoi dire con forza : Io sono ; e questo Io sono è così illimitato e indubitabilmente vero che non si può trovare un giuramento che ponga maggiormente fuor di dubbio la verità di quando questa parola esce dalla Tua bocca : Io sono, Io vivo. Sì, amen ! Tu sei. Il mio spirito si inchina e ciò che in me vi è di più intimo mi rende questa confessione : che Tu sei. Però che cosa sono io ? E che cos’è tutto ? Davvero sono io ? E davvero è tutto ? Che cos’è questo io ? Che cos’è questo tutto ? Noi siamo solo perché Tu sei e perché Tu vuoi che noi siamo. Poveri esserucoli che in paragone con Te e di fronte al Tuo essere debbono esser chiamati figura (schemi), ombra e non essere. Il mio essere e quello di tutte le cose sparisce quasi di fronte al Tuo essere, molto più che una candelina che al chiaro splendore del sole non si vede e che viene superata di tal misura da una luce più grande che quasi non è più ». Quanto accade in Abramo, Eckhart e Tersteegen si può verificare ancor oggi, e con i tratti di un vissuto chiaramente mistico. Nella presentazione di un libro sul Sudafrica d trovo riferito quanto segue : « The author repeats some significant words, uttered by one of those tall powerful strong-willed silent Boers whom she had never heard speaking of anything more profound than his sheep and cattle and the habits of tiger-leopards upon which he was an authority. After driving for about two hours across a great African plain in the hot sun, he said slowly in the Taal : “There is something I have long wanted to ask you. You are learned. When you are alone in the veld like this and the sun shines so on the bushes, does it ever seem to you that something speaks ? It is not anything you hear with ear, but it is as though you grew so small, so small, and the other so great. Then the little things in the world seem all nothing ». e 4  























































































d

  « The Inquirer », 14 luglio 1923 a proposito di O. Shreiner, Thoughts on South Africa, London 1923.   Sull’errore consistente nel trattare la mistica come un fenomeno unitario cfr. Wöm, pp. 95 e ss. Per un’analisi più dettagliata della mistica della majestas in Eckhart cfr. ivi, pp. 256 e ss.  



e

4   « L’autrice riporta alcune significative parole pronunciate da uno di quei Boeri silenziosi, alti, robusti, risoluti, da cui non aveva mai sentito discorsi più profondi di quelli relativi a pecore, bestiame e abitudini dei leopardi-tigre, su cui questi era un’autorità. Dopo averla guidata per circa due ore attraverso una grande pianura africana, sotto il sole rovente, egli disse lentamente in Taal : “C’è qualcosa che voglio chiederti da tempo. Tu sei istruita. Quando sei sola in una prateria come questa e il sole splende in questo modo sui cespugli, ti è mai sembrato che qualcosa parli ? Non è qualcosa che puoi udire con le orecchie, ma è come se tu diventassi piccolo piccolo e il resto così grande... Allora le piccole cose nel mondo sembrano tutte nulla” ».  







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* [capitolo quinto, p. 215] Il mysterium meno il momento del tremendum possiamo designarlo più precisamente come il mirum o mirabile. Questo mirum, in sé, non è ancora un admirandum (lo diventa solo mediante i momenti del fascinans e dell’augustum che definiremo in seguito). Non gli corrisponde ancora l’« ammirare », ma solo il « meravigliarsi » (sich wundern). Quest’ultimo termine deriva però da miracolo (Wunder) – cosa che abbiamo quasi dimenticato – e nel suo senso primario significa : esser colpito nell’animo da una meraviglia, da una cosa degna di esser mirata, da un mirum. Nel suo senso proprio « meravigliarsi » è dunque uno stato d’animo che risiede esclusivamente nell’ambito del sentimento numinoso e solo in forma impallidita e generica diventa uno stupirsi. f  













** [capitolo quinto, p. 215] Si veda anche obstupefacere. Ancora più preciso è il greco thámbos e thambeîsthai. Il suono thamb dipinge in modo eccellente lo stato d’animo di questo sbalordimento. Il passo di Mc 10, 32 – kaì ethamboûnto, hoi dè akolouthoûntes efobôunto 5 – restituisce in modo molto fine la differenza dello « stupendum » e del « tremendum ». D’altra parte, proprio a proposito del thámbos vale quanto è stato detto (cfr. supra, *) a proposito della facile e rapida mescolanza dei due momenti, per cui thámbos è un termine classico per il nobile brivido del numinoso in generale. Così Mc 16, 5, che Lutero traduce molto correttamente : « E ne furono terrificati (Und sie entsetzten sich) ». L’elemento figurativo della radice thamb torna nell’ebraico tāmahh. Anche questo significa « esser sgomenti », anche questo trapassa nell’« esser terrificati » e anche questo si stempera in un semplice « meravigliarsi ». g Mysterium, mystes, mistica derivano probabilmente da una radice che si conserva ancora nel sanscrito mus≥. Mus≥ significa « agire di nascosto, in segreto, in modo occulto » (e può perciò mantenere il senso di ingannare e rubare).  





























* [capitolo quinto, p. 217] Quel che è vero dello strano « nihil » dei nostri mistici occidentali, vale nell’identico modo del « śūnya » e del « śūnyatā », del vuoto e della vuotezza dei mistici buddhisti. A chi non ha un’interiore sensibilità per la lingua dei misteri e per gli ideogrammi o per i segni determinativi della mistica, questa aspirazione dei devoti buddhisti al « vuoto » o allo « svuotamento » dovrà apparire – proprio come l’aspirazione dei nostri mistici al nulla e all’annichilimento – come una specie di follia, e la buddhità stessa come un « nichilismo » psicotico. Ma tanto il « nulla » quanto il « vuoto » sono in verità ideogrammi numinosi del « totalmente altro ». Il « śūnyam » è il mirum assoluto (e insieme intensificato nel « paradosso » e nell’« antinomico » di cui parleremo). A chi manchi di questa consapevolezza gli scritti sui prajñāpāramitā, che intendono celebrare il śūnyam, devono apparire pura pazzia. E deve restargli del tutto inconcepibile che abbiano potuto esercitare un tale fascino su milioni di persone. Questo momento del numinoso che abbiamo definito « mysterium » subisce un’evoluzione, in quasi tutte le direzioni dello sviluppo storico religioso, che consiste in un’intensificazio 



















































f   Esattamente il medesimo cambiamento di significato si riscontra nella parola sanscrita āścarya di cui parleremo in seguito ; anche qui un concetto che appartiene originariamente alla sfera numinosa viene secolarizzato. « Sprofonda » nella sfera profana. Questo accade in diversi modi. Cfr., per es., quanto si dice in GÜ, p. 187, sui termini deva e asura che all’inizio erano puramente numinosi. g   Una parola figurativa tanto quanto thamb e di significato simile è il tedesco « baff »-sein [restare a bocca aperta] o l’olandese « verbazen ». Entrambi indicano un completo stupor.  









5



  « Ed essi erano stupiti ; coloro che venivano dietro erano pieni di timore ».  







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ne sempre più forte e in un potenziamento sempre più aspro del suo carattere di mirum. Possiamo indicare tre gradi : a) il livello di ciò che è soltanto straniante, b) il paradosso, c) l’antinomico. a) In quanto « totalmente altro » il mirum è innanzitutto ciò che non può essere afferrato né còlto, l’akatalepton come dice Crisostomo, ciò che si sottrae al nostro « concepire » in quanto « trascende le nostre categorie ». b) Esso, però, non si limita a trascenderle, ma sembra che talvolta si ponga in contrapposizione a queste, che le superi e le confonda. Allora non è soltanto inafferrabile, ma diventa paradossale. Non è soltanto oltre ogni ragione, ma sembra andare « contro la ragione ». c) Di qui la forma più acuta che chiamiamo l’antinomico e che è qualcosa di più del solo paradosso. Qui, infatti, sembra che emergano affermazioni le quali non soltanto sono contro la ragione, contro le sue unità di misura e la sua legalità, ma si sdoppiano in se stesse e affermano del loro oggetto opposita, contrapposizioni incomponibili e insolubili. Qui il mirum appare alla volontà razionale di comprendere nella forma più aspra dell’irrazionalità : non soltanto impossibile da afferrare per le nostre categorie, non soltanto impossibile da cogliere a causa della sua dissimilitas, non soltanto capace di confondere, abbagliare, angosciare la ragione mettendola in uno stato di necessità, ma contrapposto in se stesso, in contrapposizione e contraddizione con sé. Secondo la nostra teoria tali momenti devono trovarsi in modo particolare nella « teologia mistica », se è vero che questa è caratterizzata da un’« intensificazione di ciò che nell’idea di Dio è irrazionale ». E, come in genere si riconosce, è proprio così. È la mistica che essenzialmente e in prima linea ha una theologia del mirum, del « totalmente altro ». Per questo essa diviene di frequente, come in Meister Eckhart, una teologia dell’inaudito, dei nova et rara come egli dice, o, come nella mistica del Mahāyāna, una scienza del paradosso e delle antinomie e, in generale, un attacco alla logica naturale. Essa spinge alla logica della coincidentia oppositorum (e, dove degenera, essa gioca con tale logica, come Silesius, trastullandosi in sconcertanti arguzie). Ma anche con ciò la « mistica » non è qualcosa di assolutamente opposto alla religione comune. I veri rapporti qui diventano subito chiari se si esaminano i momenti menzionati e il loro evidente scaturire dal momento religioso generale del « totalmente altro » numinoso (senza cui non vi è autentico sentimento religioso) proprio in quegli individui che si è soliti contrapporre ad ogni mistica : Giobbe e Lutero. I momenti del « totalmente altro », come il paradosso e l’antinomia, costituiscono ciò che noi chiameremo più avanti la serie di pensieri « giobica », che non caratterizza nessuno meglio di Lutero. Ma di questo parleremo ancora.  

















































* [capitolo sesto, p. 224] Forse il termine che più gli si approssima è « immane ». Si potrebbe restituire in modo abbastanza esatto la tonalità emotiva del verso citato se lo si traducesse : « Molto vi è di immane. Ma nulla / È più immane dell’uomo » ; se cioè si tenesse conto del senso primo e fondamentale del termine « immane » (ungeheur) che per lo più ci viene dal sentimento. Oggi di solito intendiamo con « immane » solo qualcosa di molto grande per dimensione o per costituzione. Questa però è, per dir così, un’interpretazione razionalistica o comunque una razionalizzazione a posteriori. « Ungeheur » infatti è propriamente e in primo luogo ciò che ci risulta « nicht geheuer » (sinistro), lo spaesante, cioè qualcosa di numinoso. Ed è proprio questo carattere davvero spaesante dell’uomo che intende Sofocle in quel passo. Se il sentimento riesce a cogliere il termine in questo suo senso fondamentale, esso potrebbe essere un’espressione abbastanza adeguata per il numinoso secondo il momento del mysterium, del tremendum, della majestas, dell’augustum e dell’energicum (vi risuona anche il fascinans). Si può seguire bene l’evoluzione dei vari significati del termine in Goethe. Anche per lui esso designa innanzitutto qualcosa di molto grande, di così grande da travalicare i limiti della nostra capacità di apprensione dello spazio, per esempio la smisurata volta celeste di notte in quel passo dei Wanderjahren in cui Guglielmo, nella casa di Macario, è introdotto dall’astronomo  



























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nell’osservatorio. Qui Goethe osserva con finezza e correttamente : « L’immane (in questo senso) smette di essere sublime. Sopravanza la nostra capacità di apprensione ». h Ma altrove egli usa il termine « ungeheuer » ancora con tutte le sfumature del suo senso originario, ossia come ciò che sgomenta in quanto immane-spaesante : « Così una casa o una città in cui è accaduto un fatto ungeheuer resta spaventosa per chiunque vi metta piede. Là la luce del giorno non splende tanto chiara, e le stelle sembrano perdere il loro fulgore ». i L’immane in forma attenuata è per lui il non coglibile, nel quale però freme ancora un brivido lieve : « Ed egli credeva di capire sempre di più che è meglio distogliere il pensiero dall’immane e dal non coglibile ». l Così l’immane diviene per lui facilmente il nostro « stupendum » o « mirum », ciò che è del tutto inatteso, ciò che è altro ed estraniante : « Infelice ! A mala pena riesco a riprendermi ! / Quando qualcosa di così inatteso mi si fa incontro, / Quando il nostro sguardo vede qualcosa di immane, / Lo spirito si ferma un attimo, incerto : / Non abbiamo nulla cui poterlo paragonare ». 6 In queste parole di Antonio, nel Tasso, l’immane, naturalmente, non è qualcosa di grande, visto che qui non vi è nulla di simile, né, propriamente, qualcosa che sgomenta ; è invece ciò che ingenera in noi thámbos : « Non vi è nulla cui possiamo paragonarlo ». Il nostro popolo definisce in modo molto efficace il sentimento corrispondente come un « sich verjagen ».7 Il termine viene dalla radice « jäh, jach », che indica il presentarsi improvviso di qualcosa di affatto inatteso e enigmatico, che obstupefacit l’animo e lo porta al thámbos. Infine, un nome completamente appropriato per il nostro numinoso, secondo tutti i suoi aspetti, è il termine immane nelle meravigliose parole di Faust : « Il brivido è la parte migliore dell’umanità. / E per quanto il mondo gli faccia pagar caro il sentimento / Commosso, nel profondo egli sente l’immane ». 8  































































* [capitolo settimo, p. 228] In un ambito diverso si trova un altro esempio di tale compenetrazione di momenti razionali e momenti del tutto irrazionali nella nostra vita di sentimento, che si approssima ancor più del precedente al sentimento complesso del sacro, in quanto in esso è un momento ultrarazionale che forma la trama : si tratta della tonalità emotiva che suscita in noi una canzone messa in musica. Il testo della canzone esprime sentimenti « naturali », come la nostalgia, la fiducia nel momento del pericolo, la speranza di un bene o la gioia di possederne uno : tutti momenti concreti delle naturali vicende umane, che possono essere descritti in concetti. La pura musica come tale non lo fa. Suscita nell’animo gioia e beatitudine, crepuscolare torpore, tumulto e tempesta, senza che l’uomo possa dire o spiegare in concetti che cosa propriamente sia ciò che in lui si agita. E quando diciamo che essa rende tristi o allegri, che eccita o frena, utilizziamo soltanto dei segni determinativi tratti da altri ambiti della nostra vita psichica scelti per simiglianza ; ma è comunque impossibile dire perché o come essa agisca. La musica suscita un vissuto e delle vibrazioni di una specie del tutto particolare, che è appunto quella musicale. Tuttavia il loro movimento ascendente e discendente e le loro varietà hanno (anche se solo in parte !) certe corrispondenze e affinità, fugaci ma avvertibili, con moti e stati dell’animo abituali ed extra-musicali, e possono quindi portare questi ultimi a risuonare e a fondersi con i primi. Quando lo fanno si « schematizzano » o si razionalizzano mediante questi ultimi e nasce  















h   Wanderjahre, Libro i, Cap. 10. Cfr. anche Dichtung und Wahrheit, 2, 9 : l’immane della facciata della cattedrale di Münster. i   Wahlverwandtschaften, 2, 15. l   Cfr. la descrizione della sua evoluzione religiosa in gioventù in Dichtung und Wahrheit, 4, 20.  

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  J. W. Goethe, Torquato Tasso, vv. 3289 e ss.   Cadere preda di uno spavento improvviso e intenso.   J. W. Goethe, Faust, ii, i, vv. 6272-6274.

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una tonalità emotiva complessa, in cui i sentimenti umani universali costituiscono l’ordito, quelli musicali-irrazionali la trama. La canzone è dunque musica razionalizzata. La « musica a programma », però, è razionalismo musicale, perché interpreta e utilizza l’idea musicale come se questa non avesse per contenuto dei mysteria, ma accadimenti familiari del cuore umano. Essa tenta di raccontare i destini umani in figure sonore e ciò facendo supera la legalità specifica dell’elemento musicale, confonde la simiglianza e l’identità e impiega come mezzo e forma ciò che in sé è fine e contenuto. L’errore qui è lo stesso di quando non ci si limita a schematizzare l’« augustum » m del numinoso con il bene morale, ma si risolve quello in questo ; o quando si identifica il « sacro » con la « volontà perfettamente buona ». Certo, già il « dramma musicale », in quanto tentativo di un collegamento permanente del musicale con il drammatico, è contrario allo spirito irrazionale della musica e alla legalità propria di entrambi. Infatti la schematizzazione dell’elemento irrazionale della musica mediante l’esperienza vissuta umana riesce solo in modo parziale e lacunoso, appunto perché in sé la musica non ha affatto come suo vero e proprio contenuto il cuore dell’uomo, né è un secondo modo di esprimersi accanto a quello consueto, ma è qualcosa di « totalmente altro » che si incontra parzialmente con quello per simiglianza, ma non può esser portato a coincidenza con quello in connessioni dettagliate e permanenti. Per la parte in cui si incontrano però nasce, per mescolanza, l’incantesimo della parola messa in musica. E il fatto che gli attribuiamo carattere di incantesimo rimanda già alla trama di un non concettuale, di un irrazionale. Ci si guardi però dal confondere l’irrazionale della musica con quello del numinoso, come fa Schopenhauer. Sono due cose a sé. Se e fino a che punto l’uno possa essere un mezzo per esprimere l’altro, avremo ancora modo di dire in seguito.  

























* [capitolo ottavo, p. 230] E poiché un tale augustum è un momento essenziale del numinoso, la religione è nel suo intimo ed essenzialmente – anche a prescindere da ogni schematizzazione morale – obligatio, obbligatorietà per la coscienza e esser in obbligo della medesima ; è obbedienza e culto non per mera costrizione dell’ultrapotente, ma per un convinto chinarsi di fronte al valore più sacro.  

* [capitolo ottavo, p. 231] Tali cose, che in realtà sono i misteri più profondi della stessa religione, per i razionalisti e i moralisti non sono altro che fossili mitologici e chi se ne occupa e tenta di interpretarle, pur non avendo alcuna sensibilità per l’afflatio numinis presente nelle idee bibliche, non può far altro che mettere al loro posto surrogati fittizi. n

* [capitolo ottavo, p. 233] Capitolo decimo. Che significa irrazionale ? 1. A questo punto riconsideriamo l’intera indagine sin qui svolta. Abbiamo cercato, come indica il sottotitolo del nostro libro, l’irrazionale nell’idea del divino. Oggi questo termine è diventato quasi il nome di uno sport : si cerca « l’irrazionale » negli ambiti più disparati. Per lo più ci si risparmia la fatica di indicare che cosa si intenda esattamente con questa parola e non è raro che gli si attribuiscano i significati più diversi o che la si usi in un senso così vago e generale da lasciar intendere le cose più disparate : ciò che è puramente fattuale di contro alla legge ; l’empirico di contro alla ratio ; il contingente di contro al necessario ; il cieco fatto di contro a ciò che è deducibile ; lo psicologico di contro al trascendentale ; ciò che è conosciuto a posteriori di contro a ciò che è determinabile a priori ; potenza, volontà e arbitrio di contro a  





















m

  Di ciò diremo in seguito.   Come accade nella sedicente « teologia dialettica ».

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ragione, conoscenza e determinazione sulla base di un valore impulso, istinto e oscure forze del subconscio di contro a discernimento, riflessione e progetti razionali ; e poi profondità mistiche e moti nell’anima e nell’umanità, ispirazione, presentimento, chiaroveggenza, profezia e infine anche forze « occulte », o, molto in generale, impulsi inquieti e fermenti generali del nostro tempo, il brancolare verso l’inaudito e il non visto nella poesia e nell’arte figurativa. L’« irrazionale » può essere tutto questo e qualcosa di più, e viene esaltato o riprovato, secondo i casi, come irrazionalismo moderno. Oggi chi utilizza questo termine ha il dovere di dire che cosa intende ; cosa che noi abbiamo fatto nel capitolo introduttivo. Per « irrazionale » non intendiamo ciò che è indistinto, ottuso, ciò che non è ancora assoggettato alla ratio e che nella vita dei propri impulsi o nell’ingranaggio del corso del mondo recalcitra di fronte alla razionalizzazione. Ci rifacciamo all’uso linguistico per cui, per esempio, di fronte ad un evento singolare, che per la sua profondità si sottrae ad un’interpretazione razionale, si dice : « qui c’è qualcosa di irrazionale ». Per « razionale » nell’idea del divino intendiamo ciò che di quest’idea arriva a poter essere chiaramente còlto dalla nostra facoltà concettuale, all’ambito dei concetti familiari e definibili. E affermiamo che intorno a questo ambito di chiarezza concettuale vi è una sfera misteriosa e oscura che si sottrae al pensiero concettuale, ma non al sentimento, e che pertanto definiamo « irrazionale ». 2. Possiamo spiegarlo anche in questo modo : il nostro animo può essere ricolmo di una profonda gioia senza che in quel momento abbiamo chiaro quale sia il fondamento del sentimento di gioia o quale sia l’oggetto cui si riferisce. (La gioia, infatti, è sempre riferita ad un oggetto, è sempre gioia per qualcosa.) Il fondamento o l’oggetto della gioia ci è momentaneamente oscuro. Se però indirizziamo a questo la nostra attenzione e aguzziamo la riflessione, allora ci si fa chiaro. Possiamo definire precisamente quell’oggetto della gioia che prima era oscuro e coglierlo con una visione chiara : ora possiamo dire che cosa è e come è ciò che ci riempie di gioia. Non riterremo un oggetto simile irrazionale, sebbene fosse dato in modo momentaneamente oscuro e fosse dato al sentimento e non ad una chiara comprensione concettuale. Totalmente altro è ciò che accade con la beatitudine dovuta al fascinans del numinoso. Qui, anche con un’estrema tensione dell’attenzione, non si riesce a portare dall’oscurità del sentimento all’ambito della comprensione concettuale il che-cosa e il come dell’oggetto che suscita la beatitudine. Resta nell’indissolubile oscurità di un’esperienza puramente conforme al sentimento e non concettuale, che solo con la notazione di ideogrammi indicativi può essere non già spiegata, ma indicata per accenni. Questo è ciò che per noi significa : è irrazionale. Lo stesso vale per tutti i momenti del numinoso che abbiamo trovato e vale, nel modo più evidente, per il momento del mirum, che, in quanto « totalmente altro », si sottrae ad ogni dicibilità. Altrettanto vale per il « timore ». Nel caso di una comune paura posso indicare in concetti, posso dire che cos’è ciò di cui ho paura : per esempio un danno o la rovina. Anche nel caso di un sentimento di reverenza morale posso dire che cosa lo istilla : per esempio l’eroicità o la forza di carattere. Ma che cosa sia che nel « timore » temo o che celebro come augustum, questo non lo dice nessun concetto d’essenza. È « irrazionale », tanto irrazionale quanto la « bellezza » di una composizione che allo stesso modo si sottrae ad ogni analisi razionale e ad ogni concettualizzazione. 3. In pari tempo l’irrazionale, inteso in questo senso, ci pone un compito determinato : quello di non accontentarci semplicemente di individuarlo e di spalancare le porte all’estro e alle chiacchiere degli esaltati, ma di stabilire i suoi momenti nel modo più saldo possibile e con una notazione ideogrammatica che quanto più possibile si approssimi a questi, in modo tale da fissare con « segni » stabili ciò che fluttua nell’incerto apparire del mero sentimento. Si può così giungere ad un’indagine chiara e universalmente valida e si può costruire una « teoria sana », che abbia una solida compagine e che tenda ad una validità oggettiva nonostante lavori con simboli di concetti invece che con concetti adeguati. Non si tratta di razionalizzare l’irrazionale, cosa per altro impossibile, ma di afferrarlo e di fissarlo nei suoi momenti, per opporsi in questo modo all’« irrazionalismo » dei discorsi arbitrari ed esaltati mediante teorie solide e « sane ». In questo modo renderemo giustizia all’esortazione di Goethe : « È molto diverso se dalla chiarezza mi protendo verso l’oscurità o se dall’oscurità muovo verso la chiarezza : se, quando la chiarezza non mi aggrada più, mi adopero per avvolgermi in una certa penombra o se, nella convinzione  



















































































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che il chiaro riposa su un fondamento profondo e difficilmente indagabile, mi propongo di portare alla superficie quel che è possibile di questo fondamento difficile da esprimere ». o 9 4. Per un tale uso di irrazionale di contro a « ratio », in quanto facoltà concettuale dell’intelletto, possiamo richiamarci ad un uomo che non è sospettabile di « fanatismo », Claus Harms, e alle Tesi del 1817. 10 Ciò che noi definiamo « razionale », Harms lo definisce « ragione » ; quel che noi definiamo « irrazionale », egli lo chiama « mistico ». Nelle Tesi 36 e 37 dice così : « 36. Chi è capace di impadronirsi, con la sua ragione, della prima parola della religione, ossia “sacro”, mi mandi a chiamare ! 37. Conosco un termine religioso di cui per metà è padrona la ragione e per metà no : p “festa” (Feier). Per “far festa” la ragione intende : “non lavorare”, etc. Ma se il termine viene cambiato in “solennità” (Feierlichkeit), allora esso viene rapito alla ragione, è per lei troppo mirabile e troppo alto. Lo stesso per : “consacrare”, “benedire”. La lingua è così piena e la vita è così ricca di cose che sono tanto lontane dalla ragione quanto dai sensi corporei. q L’ambito comune a queste cose è il “mistico”. La religione è una parte di questo ambito : terra incognita per la ragione ».  











































* [capitolo undicesimo, p. 241] Diciamo, inoltre, di qualche edificio o di un inno, di una formula, di una serie di gesti o di suoni, e in modo del tutto particolare anche di certi prodotti dell’arte decorativa o ornamentale, di certi simboli, emblemi, fregi a cirro o lineari, che fanno un effetto « quasi magico » ; e col sentimento distinguiamo in modo abbastanza certo l’elemento magico anche nelle condizioni e situazioni più disparate. Straordinariamente profonda e ricca di questi effetti « magici » è l’arte della Cina, del Giappone e del Tibet, determinata dal taoismo e dal buddhismo, e anche l’inesperto sente qui rapidamente e facilmente questa trama. La denominazione di « magico » qui è corretta anche dal punto di vista storico, perché questa forma d’espressione trae effettivamente origine da rappresentazioni, segni, ausili e pratiche propriamente « magiche ». Ma l’effetto stesso è completamente indipendente dalla conoscenza di questi contesti storici ; si verifica anche quando non se ne sa nulla : anzi, in questo caso si verifica a volte nel modo più potente e impetuoso. Non v’è dubbio che l’arte qui ha il modo di produrre, senza riflessione, un’impressione del tutto specifica, ossia quella del « magico » ; ma questo non è altro che una forma trattenuta e attenuata del numinoso, una forma che innanzitutto è grezza e che poi nella grande arte viene nobilitata e trasfigurata. E allora non è più lecito parlare di « magico », perché è il numinoso stesso che ci si fa incontro nella sua violenza irrazionale e con la sua capacità di trascinare e rapire in violenti ritmi e vibrazioni. Questo numinoso-magico può esser sentito in modo particolare nelle figure di Buddha, straordinariamente espressive, dell’arte cinese antica, che agisce sull’osservatore anche « senza concetto », senza cioè che questi sappia qualcosa della dottrina e della speculazione del buddhismo Mahayana. Il numinoso si congiunge qui con il sublime e con la superiore spiritualità che parla dai tratti di questi Buddha, che sono quelli del più profondo raccoglimento e della più piena superiorità rispetto al mondo ; ma contemporaneamente illumina di sé questi schemi e li rende schermi di un « totalmente altro ». Giustamente Siren afferma del grande Buddha della grotta di Lung Men, dell’epoca della dinastia Tang : « Anyone who approaches this figure will realise, that it has  













































o   Cfr. il fine studio di E. Wolf, Irrationales und Rationales in Goethes Lebensgefühl, « Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte », vol. 4, n. 3[, 1926, pp. 491-507]. Wolf utilizza i due termini quasi esattamente nel nostro senso. p   Schematizzazione dell’irrazionale mediante il razionale. q   È appunto il nostro « irrazionale ».  





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  J. W. Goethe, Zur Morphologie, Aphoristisches, Weimarer Ausgabe, ii, 6, 1891, p. 354.   Claus Harms (1778-1855) pubblicò le sue Thesen nel 1817, in occasione del terzo centenario delle Tesi di Lutero, attaccando l’idolatria rappresentata dal razionalismo teologico. Ne seguì il cosiddetto Thesenstreit (1817-1819). 10

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a religious significance, without knowing anything about its motif. It matters little whether we call it a prophet or a god because it is permeated by a spiritual will which communicates itself to the beholder. The religious element of such a figure is immanent : it is “a presence” or an atmosphere rather than a formulated idea. It cannot be described in words, because it lies beyond intellectual definition ». r 11 Quanto appena detto non vale per nessuna arte più che per la grande pittura sacra e paesaggistica cinese nell’epoca classica delle dinastie Tang e Sung. Di questa Otto Fischer afferma : « Queste opere sono tra le più profonde e sublimi che l’arte umana abbia mai creato. Chi vi si immerge avverte dietro queste acque, queste nebbie e queste montagne il respiro misterioso dell’antichissimo Tao, il pulsare dell’essere intimo. In questi quadri più di un mistero profondo è nascosto-manifesto. In essi vi è il sapere del “nulla”, il sapere del “vuoto”, il sapere del Tao del cielo e della terra che è anche il Tao del cuore umano. Per questo, nonostante il loro movimento eterno appaiono così lontane e profondamente quiete, come se respirassero nascoste nel fondo del mare ». s A noi occidentali apparirà come arte più numinosa quella gotica, innanzitutto per la sua sublimità. Ma questo non basta. È merito di Worringer aver mostrato nella sua opera, Probleme der Gotik, 12 che la particolare impressione che suscita il gotico non poggia soltanto sulla sua sublimità, ma sull’aver ereditato l’impronta di antichissime forme magiche la cui filiazione storica egli cerca di ricostruire. Per questo, secondo lui, l’effetto del gotico è principalmente magico. Con ciò, indipendentemente dalla correttezza della sua ricostruzione storica, è certamente sulla traccia giusta. Il gotico possiede la capacità di dare un’impressione dell’incanto che è più di quella del sublime ; d’altra parte la torre della cattedrale di Ulm non è più in nessun modo « magica », è numinosa. E quale sia la differenza del numinoso da ciò che è meramente magico, si fa sentire nel sentimento proprio nella bella illustrazione di questo capolavoro che fa Worringer. In ogni caso il termine « magico » può anche restare come denominazione dello stile e dei mezzi d’espressione attraverso cui qui si realizza l’effetto del numinoso, perché trattandosi di cose così grandi ciascuno lo prenderà in un senso sufficientemente profondo.  



















** [capitolo undicesimo, p. 241] Oltre al silenzio e all’oscurità l’arte orientale conosce ancora un terzo mezzo per suscitare un forte effetto numinoso : il vuoto e lo spazio vuoto. t Quest’ultimo è, per dir così, il sublime in senso orizzontale. Il deserto smisurato, la steppa uniforme e sconfinata sono sublimi e suscitano anche in noi, per associazione di sentimenti, risonanze del numinoso. L’architettura cinese, quale arte della disposizione e del raggruppamento degli edifici, impiega questo momento in modo saggio e profondamente efficace. Essa non ottiene l’effetto di solennità con alte volte o verticali imponenti, ma non c’è nulla di più solenne della silenziosa ampiezza  

r

  O. Siren, Chinese sculpture, London 1925, vol. i, p. xx.   O. Fischer, Chinesische Landschaft, « Das Kunstblatt », gennaio 1920 ; cfr. anche l’ampia opera dello stesso autore, Chinesische Landschaftsmalerei, [München] 1921. t   Naturalmente questo momento è noto anche in occidente. Anche i nostri poeti dicono : « Sono solo in un largo campo/ È così silenzioso e solenne ». [Otto cita liberamente due versi dello Schäfers Sonntaglied (1805) di Ludwig Uhland (1787-1862) : « Ich bin allein auf weitem Flur/ Noch eine Morgenglocke nur/ Nun Stille nah und fern/ [...]/ Der Himmel nah und fern/ er ist so klar und feierlich »] s



















11   « Chiunque si avvicini a questa figura capisce che ha un significato religioso, senza sapere nulla dell’idea a monte. Importa poco se lo definiamo un profeta o un dio, perché è permeato da una volontà spirituale che si trasmette a chi lo osserva. L’elemento religioso di una tale figura è immanente : è una “presenza” o un’atmosfera piuttosto che un’idea formulata. Non può esser descritto in parole perché è al di là di una definizione intellettuale ». 12   W. Worringer, Formprobleme der Gotik, Piper, München 19123.  





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degli spazi, delle corti e degli atri. Ne sono l’esempio più efficace le tombe imperiali dei Ming a Nanchino e Pechino che includono nella loro disposizione l’ampiezza vuota di un intero paesaggio. Ancor più interessante è il vuoto nella pittura cinese. Qui c’è un’arte di dipingere quasi il vuoto, di farlo sentire e di variare in modo molteplice questo tema particolare. Non soltanto ci sono quadri su cui non vi è « quasi niente » ; non soltanto è proprio dello stile suscitare l’effetto più forte col minor numero di tratti e di mezzi, ma in molti quadri, particolarmente in quelli che derivano dalla contemplazione, si ha l’impressione che il vuoto stesso sia l’oggetto dipinto, e che sia l’oggetto principale. Per capirlo basta che ci ricordiamo di ciò che si è detto sopra sul « nulla » e sul « vuoto » dei mistici, e sull’incanto degli « inni negativi ». Come l’oscurità e il tacere, così questo vuoto è una negazione, che però rimuove ogni « qui e ora » perché il « totalmente altro » divenga atto. u  

























* [capitolo tredicesimo, p. 249] Il cristianesimo nascente sorse come « setta escatologica » (che presto divenne « pneumatica ») con il motto : « il Regno è vicino ». Oggi, che si muova dall’esegesi « ortodossa » o « liberale », si hanno per lo più rappresentazioni false – o non se ne ha nessuna – della mescolanza tra il profondo e interiore brivido di fronte alla fine del mondo, al Giudizio e all’avvento del mondo ultraterreno, da una parte, e il beato tremore dell’attesa natalizia, dall’altra ; della mescolanza tra il tremendum e il fascinans di questo mistero.  























** [capitolo tredicesimo, p. 249] A noi oggi suona come un appellativo dolce e spesso quasi familiare, come « il buon Dio ». Ma così fraintendiamo il senso biblico tanto del sostantivo quanto del predicato. Questo « Padre » è innanzitutto il Re sacro e sublime di questo Regno, che si avvicina come un’oscura minaccia dalle profondità del « cielo » con tutta l’emāt Jahweh.  











* [capitolo tredicesimo, p. 251] Queste due denominazioni non sono tautologie. La prima avvicina, la seconda allontana. Allontana in direzione non soltanto di un’infinita altezza, ma anche dell’ambito del « totalmente altro » rispetto a tutto ciò che è di quaggiù.  



** [capitolo tredicesimo, p. 251] Anche la lotta di Gesù nella notte del Getsemani va vista alla luce e sullo sfondo di questo numinoso con il suo mysterium e il suo tremendum, se ci si vuole immedesimare in quell’esperienza e comprendere di che si tratta. Cos’è che provoca questo tremore e spavento fin nel fondo dell’anima, questo esser rattristato a morte, questo sudore che cola a terra come stille di sangue ? È la consueta paura della morte ? In chi ha guardato la morte negli occhi da settimane e che ha celebrato con i suoi discepoli ciò che aveva il senso trasparente di un banchetto funebre ? No, qui c’è qualcosa di più che la paura della morte. Qui è il rabbrividire della creatura di fronte al mysterium tremendum, di fronte all’enigma del completo orrore. Vengono alla mente quali eloquenti paralleli e vaticini le antiche leggende di Jahweh che « aggredisce » Mosè, suo servo, nella notte e di Giacobbe che lotta con Dio fino al mattino. « Egli ha lottato con Dio e ha vinto », 13 con il Dio dell’« ira » e della « collera », con il numen che è però è « mio Padre ». In verità, anche chi crede di non ritrovare altrove il « Santo (der Heilige) di Israele » nel Dio del vangelo, qui non può non scoprirlo, se è in grado di vedere.  





























u   Cfr. anche le fini analisi [pubblicate nel frattempo] di Wilhelm sul « non essere » e il « vuoto » in Lao Tse : R. Wilhelm, Laotse. Vom Sinn und Leben, Jena, Diederichs, 1911, p. xx.  

13

  Cfr. Gn 32, 29.









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* [capitolo tredicesimo, p. 255] Lo stesso vale anche dell’affermazione di Giovanni cui solitamente amano richiamarsi i razionalisti : « Dio è spirito » (Gv 4, 24). Per queste parole Hegel ritenne il cristianesimo la religione somma perché veramente « spirituale », la religione nella quale Dio viene conosciuto e annunciato come « spirito », ossia, per Hegel, come la stessa ragione assoluta. Ma quando Giovanni parla di « spirito » non pensa alla « ragione assoluta », ma al pneûma, ossia a ciò che è completamente contrapposto a « mondo » e « carne », all’assoluta essenza celeste e meravigliosa, a ciò che è completamente enigmatico e misterioso, che è oltre ogni intelletto e ragione dell’uomo « naturale ». Pensa allo spirito che « soffia dove vuole. Tu ne senti il sussurro, ma non sai di dove viene, né dove va » 14 e che perciò non è legato a Garizim o Sion e può essere adorato solo da coloro che sono essi stessi « in spirito e verità ». Proprio questa affermazione, apparentemente del tutto razionale, rimanda nel modo più forte a ciò che nell’idea biblica di Dio è irrazionale. v  









































* [capitolo quattordicesimo, p. 260] Questo non è soltanto il Dio della « volontà » e del « contingente » come in Duns Scoto. Qui riaffiorano sentimenti primordiali che fanno pensare più al figlio di contadini e alla religione del suo ceto, che all’allievo dei theologi moderni. Di nuovo si ridesta l’antichissimo « spaesante ».  











** [capitolo quattordicesimo, p. 260] [Nota :] Cfr. R. Otto, AHG, pp. 85 e ss. : « E la fede in Dio non è semplice [...] di un sentimento fondamentale verso ciò che è oltreumano ed eterno, che può essere definito solo mediante sé ». 15 All’epoca scrissi questo libro da principiante ancora completamente sotto l’influenza di Ritschl, come è facilmente riconoscibile dalla posizione sulla mistica. Ma mi erano chiare le trame irrazionali-numinose in Lutero e in ogni autentico concetto di Dio. Di qui, col tempo, avrei sviluppato un’altra valutazione della mistica e avrei guadagnato la consapevolezza del fatto che nelle affermazioni di p. 86 è contenuto il problema dello Spirito : « Per questo è necessaria un’altra cosa : ogni “parola” [...] e in quieta oscillazione di un sentimento fluttuante, equilibrato ».  















* [capitolo diciassettesimo, p. 277] 9. Possiamo definire gli esempi da 1. a 8. come « pre-religione », ma non nel senso che spiegherebbero la religione e la sua possibilità : essi stessi sono piuttosto possibili e spiegabili soltanto  





v   Sul carattere numinoso, sul senso vero e proprio della contrapposizione biblica di « spirito » e « carne », che è diverso dalle valutazioni e svalutazioni morali, e sulla fuorviante moralizzazione di queste intuizioni puramente religiose, che si fa sentire di nuovo anche nell’odierna teologia alla moda che identifica la carne, il peccato e il peccato originale con l’amore di sé o con altri difetti morali, cfr. più nel dettaglio SU, cap. II. Sull’amalgama del tutto fuorviante tra l’idea religiosa di predestinazione e le teorie razionali, empirico-psicologiche, relative alla volontà, che va da Agostino attraverso l’intera scolastica, e che viene attuato anche da Lutero nel suo scritto più « zelante », De servo arbitrio, a tutto svantaggio della sua stessa idea religiosa, cfr. SU, cap. iii, paragrafo 3 : Luthers « Religionsphilosophie ».  

















14

  Gv 3, 8.   Conviene riportare per intero il passo di AHG, p. 85, che Otto taglia in modo poco perspicuo : « E la fede in Dio non è semplice [fiducia dell’uomo nei confronti di chi lo aiuta, magari intensificata al massimo, ma resta fiducia dell’uomo verso il suo Dio, della creatura verso il suo creatore. È la determinatezza formale di un sentimento del tutto specifico,] di un sentimento fondamentale verso ciò che è oltreumano ed eterno, che può essere definito solo mediante sé ». 15







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a partire da un elemento religioso fondamentale, ossia a partire dai primi moti del sentimento del numinoso. Quest’ultimo è un elemento psichico originario che richiede di esser compreso nella sua pura specificità e che non può essere « spiegato » a partire da altri elementi. Come tutti gli altri elementi psichici originari emerge a suo tempo nell’evoluzione della vita dello spirito umano e, a quel punto, semplicemente c’è. Senza dubbio può emergere solo se sono soddisfatte certe condizioni quali : sviluppo del corpo, capacità di eccitabilità e spontaneità, altre facoltà psichiche, vita di sentimento in generale, capacità di vissuti e di ricevere impressioni dall’esterno e dall’interno ; tutte queste sono però condizioni e non cause o elementi. E riconoscere questo fatto non significa svicolare nel fantastico o nel soprannaturale : significa soltanto affermare del sensus numinis ciò che vale di ogni altro elemento originario dello psichico. Piacere o dolore, amore o odio, tutte le facoltà della percezione sensibile, come la ricettività alla luce e al suono, il sentimento dello spazio e del tempo, e tutte le capacità dell’anima e le facoltà conoscitive superiori si presentano evolutivamente – senza dubbio secondo leggi e a determinate condizioni – ciascuna a suo tempo, ma di per sé ciascuna è qualcosa di nuovo e di inderivabile e può essere « spiegata » solo se noi assumiamo a fondamento dell’evoluzione un elemento spirituale ricco di potenzialità che in quelle, nella misura in cui sono date le condizioni dell’evoluzione organica e cerebrale, mette in evidenza la sua propria essenza in modo sempre più ricco. Lo stesso vale per il sentimento del numinoso. 10. Il caso più puro di eccitazione spontanea del sentimento del numinoso ci sembra essere quello menzionato in 7. Esso è significativo in modo tanto particolare per l’evoluzione della religione, perché qui il sentimento religioso sin dal principio non si lascia deviare (secondo lo stimolo dell’associazione di sentimenti) verso oggetti di natura che erroneamente prende per numinosi, ma resta puro sentimento senza oggettivazione rappresentativa, come il « terror panico », oppure simbolizza il suo oscuro punto di riferimento in specifiche produzioni fantastiche. Proprio questo caso è in certa misura ancora accessibile alla nostra immedesimazione e penetrazione ; come pure il passaggio dal mero sentimento al suo dispiegamento e alla produzione di specifiche forme di rappresentazione. A chiunque possieda un sentimento vivo è certo capitato una volta, in qualche momento o in qualche luogo, di avere la precisa sensazione dello « spaesante ». Chi è capace di una penetrazione psicologica più precisa noterà in questo stato d’animo i seguenti punti : innanzitutto il suo carattere inderivabile e specifico ; in secondo luogo la circostanza assai peculiare per cui le cause occasionali esterne di questo stato d’animo sono spesso molto esigue ; anzi spesso sono tali che si riesce a mala pena a renderne conto poiché non vi è proporzione alcuna con l’intensità dell’impressione, tanto che molte volte non si può parlare affatto di « impressione », ma al più di impulso e occasione : a tal punto il vissuto di sentimento sopravanza per forza e potere di avvincere tutto ciò che di impressionante possiedono le diverse circostanze temporali o spaziali. Un simile tremore e un simile orrore erompono piuttosto da quelle profondità dell’anima cui quelle circostanze non arrivano affatto. Anche la potenza dell’eruzione sopravanza tanto il mero impulso esterno, che l’erompere è quasi – se non del tutto – spontaneo. Ma con ciò si è già detto, in terzo luogo, che debbono esser suscitati contenuti rappresentativi peculiari ed autonomi, sebbene di specie completamente oscura e seminale, che costituiscono il vero e proprio fondamento del moto d’animo del rabbrividire. Se infatti questi non sono precedentemente dati in qualche modo, non può aver luogo alcun moto dell’animo. Quarto, il suddetto stato d’animo può restare un puro « sentimento » e come tale trascorrere, senza dispiegare i suoi contenuti di pensiero oscuri. Se, senza dispiegarsi, si esprime in parole, queste ultime saranno allora esclamazioni come : « Che spaesamento ! » o « Quant’è terribile questo luogo ! ». Ma può anche dispiegarsi. Una prima espressione di tale dispiegamento, seppur ancora meramente negativa, si ha quando si dice : « Qui c’è qualcosa che non va ». Un passaggio ad un’espressione positiva si ha già quando si dice in inglese : « This place is haunted ». Qui la base ideale oscura emerge già più distintamente e comincia a chiarirsi come una rappresentazione, ancora vaghissima e fluida, di qualcosa che è al di là, di una essenza o realtà operante e di carattere numinoso che si  















































   



   









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configura poi in un’ulteriore evoluzione come numen loci, come « spirito », come un demone, un El o un Baal o in qualche altra forma più concreta. In Gn 28, 17 Giacobbe dice : « Quanto fa rabbrividire questo luogo ! / Questa è proprio la casa di Elohim ». Sotto il profilo psicologico-religioso questo versetto è altamente istruttivo in quanto è un chiaro esempio di quanto appena detto. La prima proposizione del versetto restituisce evidentemente l’impressione dell’animo in quella sua immediatezza che non è ancora stata attraversata dalla riflessione, ancora senza alcun autodispiegamento o autochiarificazione del sentimento. Non contiene altro che il tremore numinoso originario, il quale, in quanto sentimento del tutto inesplicito, è stato senza dubbio sufficiente per demarcare « luoghi sacri » e per renderli posti degni di una timorosa venerazione e di culti che cominciano a svilupparsi anche senza che si proceda necessariamente a trasporre questa impressione del tremendo nella rappresentazione di un numen concreto che là dimora ; senza che il numen riceva un nomen o che il nomen sia qualcosa di più che un mero pronomen. La seconda proposizione di Giacobbe, però, già non significa più soltanto il vissuto originario stesso, ma il suo dispiegamento concreto e riflesso e la sua interpretazione. Anche l’espressione tedesca : « Es spukt hier » 16 è istruttiva. Propriamente essa non ha ancora un vero e proprio soggetto, o per lo meno non dice ancora nulla sullo « Es » che « spukt ». Di per sé qui non vi sono ancora le rappresentazioni concrete di « fantasmi », « spiriti », spiriti dei morti o anime, tipiche della nostra mitologia popolare. La frase è piuttosto solo una pura espressione del sentimento stesso dello spaesante, che comincia soltanto, con un primo accenno, a generare una rappresentazione di un qualcosa di numinoso in generale, di un’entità dell’aldilà. È un peccato che non abbiamo un vocabolo più nobile e generale per « spuken », che ci svia subito nell’ambito delle propaggini impure e « superstiziose » del sentimento numinoso. x Ma anche così possiamo ancora sentire la parentela dei sentimenti di « Spuk » con quei vissuti numinosi elementari attraverso cui furono scoperti dall’esperienza di veggenti luoghi « tremendi », « sacri », posseduti dal numen, punto di partenza del culto locale, luoghi di nascita dell’El che vi viene venerato. Abbiamo l’eco di questi vissuti originari in Gn 28, 17 e in Es 3. I luoghi che qui Mosè e Giacobbe delimitano sono autentici « haunted places », luoghi in cui « es spukt », in cui « qualcosa non va ». Solo che il sentimento dello « Spuken » non ha il senso impoverito e indebolito del nostro odierno sentimento dei fantasmi, ma porta ancora in sé l’intero patrimonio delle potenzialità e delle possibilità di sviluppo dell’autentico sentimento numinoso originario. Qui si tratta di uno « Spuk » nobile e raffinato. Il brivido sottile che ci può cogliere nel silenzio e nella semioscurità dei nostri santuari ha indubbiamente ancor oggi una lontana parentela non soltanto con ciò che Schiller dice nel verso : « Nella pineta di Poseidone/ si addentra con brivido devoto », 17 ma anche con veri e propri sentimenti di « Spuk » ; e il leggero rabbrividire che può accompagnare questi stati ha una lontana parentela con la « pelle d’oca », la cui essenza abbiamo considerato sopra. Quando l’animismo si sforza di derivare violentemente lo spirito, il demone e il dio dall’« anima », indirizza lo sguardo su un punto sbagliato. Se dicesse che si tratta di « cose dello Spuk » sarebbe almeno sulla pista giusta. In parte ciò è ancora provato da singoli termini antiquati che una volta si riferivano al brivido  







































































































x   In realtà abbiamo un termine un po’ artificioso : « Es geistet hier » o « Wie es doch um diese Stätte geistert ». Questo « geistern » è una presenza numinosa senza essere il più basso « Spuk ». E in caso di necessità potremmo arrischiarci a tradurre Ab 2, 20 : « Jahweh geistet in seinem heiligen Tempel. Es sei stille von ihm alle Welt » [Jahweh aleggia nel suo santo tempio. Taccia davanti a lui il mondo intero]. L’inglese « to haunt » è più nobile del tedesco « spuken ». Si potrebbe dire : « Jahweh haunts his holy temple » senza essere blasfemi. Questo « geisten » è spesso l’ebraico : « shākan ». E ci portiamo al sentimento in modo molto più pieno e autentico il passo di Sal 28, 8 : « Il luogo dove abita la tua gloria » se lo traduciamo con « Il luogo infestato dalla tua maestà ». Propriamente la « shekînāh » è il « Geistern » di Jahweh nel tempio di Gerusalemme.  



















































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  Alla lettera : « qui qualcosa infesta », nel senso di : « Qui ci sono i fantasmi ».   J. C. F. Schiller, Die Kraniche des Ibykus, 1797.

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originario dello « Spuk nobile » e che successivamente si abbassarono a designare le forme infime del « timore » o si elevarono ad indicare quelle somme. Un termine di questo genere è l’enigmatico « asura » in Sanscrito. Successivamente è divenuto un’espressione tecnica nella lingua indiana per indicare l’elemento del demonico, dello spettrale, di ciò che è relativo allo Spuk nel suo grado più basso. Ma nei tempi più antichi era una qualifica del più sublime di tutti gli dèi del R≥≥gveda, dell’alto e spaesante Varun≥a. In persiano « Ahura-mazdā » diviene il nome dell’unica ed eterna divinità. y Lo stesso per il termine « adbhuta ». A-dbhuta significa arreton, l’indicibile, l’inesprimibile. In primo luogo è esattamente il nostro mysterium stupendum. Inoltre : « Si fa l’esperienza di un adbhuta quando si è in una casa vuota » dice un’antica definizione. È dunque il nostro vissuto dell’« orribile » che sorprende anche noi in una casa deserta e vuota. Ma adbhuta è anche il nome per una meraviglia completamente oltremondana e del suo fascinans, del Brahman eterno e della sua stessa salvezza, di « ciò che oltrepassa tutte le parole ». z Ciò che vale per asura e adbhuta vale anche per il greco theós. La radice è forse la stessa di ge-twas, che si trova ancora nel medio tedesco e che significa Spuk e spettro. Anche qui sembra che un termine arcaico, che significava originariamente lo spaesante-numinoso (lo « Spuk nobile »), sia, da una parte, assurto a denominazione di Dio ; e sia, d’altra parte, decaduto a mero « spettrale ». Anche nell’ebraico l’evoluzione è forse stata questa : lo « spirito », lo spettro di Samuele che la negromante di Endor evoca per Saul, viene chiamato esattamente come la divinità : Elohim (1 Sam 28, 13).  



















































* [capitolo diciottesimo, p. 280] Lo stato del « grezzo » viene superato quando il numen si « rivela », ossia si manifesta all’animo e al sentimento, in modo sempre più pieno e potente. A ciò appartiene anche il riempimento con momenti razionali, menzionato in f ), attraverso cui si presenta contemporaneamente nell’ambito del concepibile. Ma con ciò conserva sul versante numinoso tutti i suddetti momenti di irrazionale « inconcepibilità » e quanto più si « rivela », tanto più li rafforza. « Rivelarsi » infatti non significa affatto passare nell’ambito di una concepibilità a misura dell’intelletto. Qualcosa può esser noto o familiare al sentimento secondo la sua più profonda essenza, può colmare di felicità o sconvolgere, senza che l’intelletto ne abbia alcun concetto ; lo si può « comprendere » intimamente e profondamente senza « concepirlo » con l’intelletto : per esempio la musica. Quel che nella musica è concepibile concettualmente non è affatto la musica stessa. Il conoscere e il comprendere concettuale non sono la stessa cosa, anzi spesso si trovano l’uno rispetto all’altro in contrapposizione ed esclusione reciproca. Così la misteriosa oscurità del numen, irriducibile a concetti, non significa affatto la sua inconoscibilità o irriconoscibilità. Il Deus absconditus et incomprehensibilis per Lutero non era in realtà un deus ignotus. Con tutti i timori e tremori del suo animo avvilito lo « conosceva » anche troppo bene. Altrettanto bene Paolo « conosce » la « pace » che nella sua completa inafferrabilità è « sopra ogni ragione », 18 altrimenti non la esalterebbe.  















































y   Tali cambiamenti di significato non hanno avuto luogo solo nella remota antichità, ma si sono verificati nella nostra lingua in modo del tutto analogo ancora recentemente. Ancora nel xviii secolo « schauderhaft » significa il numinoso-misterioso, anche nel senso del timore reverenziale. Aveva lo stesso significato del nostro attuale « schauervoll ». Solo più tardi decade a designazione per l’empio e il riprovevole, per il numinoso-negativo, e subito si appiattisce, diviene banale, perde il senso e la risonanza numinosi e oggi designa meno qualcosa di fronte a cui si trema, che qualcosa che irrita : « è un tempo schauderhaft ». Si tratta di un tipico esempio di « depotenziamento ». Sulla questione cfr. Das Gefühl des Überweltlichen, cap. ix : Steigende und sinkende numina.  











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  Fil 4, 7.









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« Non si può concepire Dio, ma lo si può sentire », afferma Lutero ; aa e altrettanto dice Plotino : « Come possiamo parlare di lui se (in qualche modo) non lo cogliamo ? Ora, se si sottrae alla nostra conoscenza (concettuale), non è necessario che ci si sottragga in generale. Lo cogliamo tanto da parlare di lui (in modo ideogrammatico), ma non possiamo nominarlo (adeguatamente). Nulla però ci impedisce di possederlo, anche se non possiamo esprimerlo, come coloro che sono in preda ad entusiasmo o rapimento, i quali sanno di portare in sé qualcosa di più alto senza però “sapere” (in concetti) cosa sia. Da ciò che li ha sollecitati e li ha spinti a parlare essi ricavano un’impressione (di sentimento) di sollecito. Simile è anche il nostro rapporto all’Uno. Quando ci eleviamo ad esso con l’aiuto del puro spirito, lo sentiamo, ecc. ». bb Un antico detto indiano dice : « na aham manye suveda iti / no na veda iti veda ca. Non intendo dire : “Lo conosco bene” / Ma nemmeno intendo dire : “Non Lo conosco affatto” ». cc L’« irrazionale », dunque, non è affatto qualcosa di « ignoto » o « sconosciuto ». Se lo fosse non ci riguarderebbe affatto ; non potremmo dire che è un « irrazionale ». È « inconcepibile », « inafferrabile », « non coglibile » per l’intelletto. Ma è esperibile per il « sentimento ».  

























































* [capitolo diciannovesimo, p. 282] [Nota :] Da questo punto di vista ciò che vi è di più istruttivo in Lutero sono i passi in cui la « fede » viene descritta come una peculiare facoltà di conoscenza per l’apprensione della verità divina e quelli in cui essa come tale viene contrapposta, come del resto lo « spirito », alle capacità « naturali » dell’intelletto. Qui la fede equivale alla synteresis dei mistici e al « maestro interiore » di Agostino che certo sono, l’una e l’altro, « al di sopra della ragione », ma sono anche un a priori in noi stessi.  





















* [capitolo ventunesimo, p. 294] in particolare il passo di Mc 10, 32 : « kai en proagon autous ho Iesous kai ethambounto. Oi dè akolouthountes ephobounto », che restituisce in modo tanto semplice quanto intenso l’impressione di numinoso che proveniva immediatamente da quest’uomo. Nessuna arte della descrizione psichica avrebbe potutto essere più toccante di queste parole magistralmente pregnanti. Ciò che fu detto in seguito (Gv 20, 28) ci apparirà forse come espressione di un tempo che mirava troppo lontano e troppo in alto, già molto distante dalla semplicità della prima esperienza vissuta. Preferiremo Mc 10, 32 proprio perché qui il sentimento ancora disdegna ogni formula. Ma qui si può trovare un’autentica radice delle ipertensioni successive.  





* [capitolo ventiduesimo, p. 300] Un uomo come Marcione non è soltanto un estremista paolino : è anche un estremista gesuano.  

* [capitolo ventitreesimo, p. 305] E quest’ultimo è immediato :  

z   Cfr. R. Otto, Dīpikā, [cit.,] p. 46. Adbhuta (e āścarya) sarebbe un’esatta traduzione sanscrita del nostro « numinoso » se non avesse assunto da tempo, come il nostro « miracoloso », una quantità di accezioni profane che ne appiattiscono il senso. A questo proposito cfr. la fine ricerca di M. Lindenau, Beiträge zur altindischen Rasa-Lehre, Leipzig 1913, sul sentimento dell’adbhuta in Bhārata Muni nella sua distinzione da quello del terrificante, dell’eroico, dello spaventoso e del disgustoso. aa   Tischreden, Wei[marer Ausgabe] 6, p. 6530. bb   Plotin, Enneaden, [a cura di O.] Kiefer, Jena 1905, volume 1, p. 54 [Enn. V 3, 14]. cc   Kena Upanis≥ad, 10.  







saggi

LA RINASCITA DEL SENSUS NUMINIS IN SCHLEIERMACHER 1 In memoria di Wilhelm Herrmann

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el corso della sua lunga storia alla religione è successo spesso di essere « riscoperta ». Anche ad essa è capitato come agli altri patrimoni e alle altre sfere della vita spirituale umana, la filosofia o la creazione artistica, il gusto, il sentire estetico e altro ancora. Per ciascuno di essi vi furono epoche di inizi creativi e di grande fioritura, cui seguirono epoche di decadenza, di irrigidimento, di intirizzimento e desolazione, di proliferazione di componenti estranei, fin quasi alla scomparsa e alla decadenza completa. Allora si resero necessarie ed ebbero luogo le « renaissances », le rinascite e riscoperte di ciò che era stato perduto, in parte o del tutto : più o meno grandi, durature o a loro volta transitorie. Ma dove ebbero luogo, furono legate all’opera di personalità creative, che resero di nuovo fluide le masse irrigidite. Inoltre queste renaissances – per lo meno le più significative – non furono semplici riscoperte, ma elevarono ciò che veniva riscoperto ad un livello nuovo e superiore, crearono nuovi e superiori punti di partenza. Così anche nell’ambito della religione e della nostra religione in particolare, il cristianesimo. Già il suo inizio, il vangelo stesso, è stato in certo senso una « riscoperta », una superiore riconfigurazione e una liberazione dell’antica religione dei profeti e dei salmi dalle macerie dell’ordinamento e dell’istituzione farisaica, dalle fantasticherie e dal fanatismo apocalittici, dalla variegata proliferazione e dalla contaminazione di un’essenza estranea e di ingredienti impuri. Una « riscoperta » è stata l’azione e la predicazione di Paolo di contro alla copertura e alla restrizione giudaizzanti del vangelo. Una riscoperta è stato ciò che Agostino e San Francesco hanno operato per il cristianesimo. Una riscoperta in grande stile è stata la Riforma di Lutero ; una in stile minore il pietismo e la sua reazione all’ortodossia scolastica, che con la sua visione unilaterale violentava la religione. Quest’ultima riscoperta precedette di circa cent’anni quella che qui ci interessa e che è stata compiuta da Schleiermacher, il Padre della Chiesa del protestantesimo moderno ; una riscoperta sotto i cui effetti ancor oggi ci troviamo. Stavolta a danneggiare e corrompere la religione non erano più i vecchi nemici classici della devozione : il farisaismo o il monachesimo, l’istituzione ecclesiastica e la giustizia che viene dalle opere o la fossilizzazione nelle formule di scuola. Sembrava che fossero comparsi nemici del tutto nuovi. Si chiamavano « intellettualismo » e « moralismo » (anche questi, in fondo, solo « nemici vecchi con un volto nuovo »), ossia l’unilaterale dirigersi dell’epoca e dello spirito del diciottesimo secolo verso ciò che è conforme all’intelletto, da una parte, e verso l’agire morale, dall’altra. Da entrambi i nemici, che siamo soliti riassumere con il termine « razionalismo », la religione era messa in pericolo. Essi non erano afferrabili e dunque  







































1   Edizione originale : Der neue Auf bruch des sensus numinis bei Schleiermacher, in SU, cap. x, pp. 123-139. Una prima versione del saggio fu pubblicata in « Die christliche Welt », 17, 1903, pp. 506-512 con il titolo Wie Schleiermacher die Religion wiederentdeckte.  





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attaccabili dall’esterno come la setta dei farisei o il monachesimo, come l’istituzione della Chiesa medievale e delle indulgenze, o come i grossi volumi dei sistemi scolastici : « erano nell’aria » più che nelle istituzioni, nelle pratiche e nelle organizzazioni. Ma appunto perciò erano tanto più pericolosi. Da un secolo si erano impadroniti del tempo e dello spirito del tempo e davano all’uno e all’altro un’impronta, i cui tratti erano, a modo loro, l’ombra delle grandi virtù di un’epoca che era stata tanto significativa per la libertà dello spirito : l’epoca dell’« illuminismo », una delle più significative nell’intera storia dello spirito in generale. Da quest’epoca il nostro popolo, in modo particolare, è stato educato come « popolo di pensatori ». Da quest’epoca è nata la filosofia classica tedesca ; e, proprio immediatamente prima della generazione di Schleiermacher, ne è sbocciato il fiore e il frutto più maturo : Kant e la sua filosofia critica. Nelle due opere principali di Kant vennero a compimento, appunto, quelle sue due direzioni fondamentali, che avevano guadagnato la massima profondità : nella Kritik der reinen Vernunft, la direzione intellettualistica, e nella Kritik der praktischen Vernunft, la direzione pratico-morale. L’epoca è stata grande e ciò che ha prodotto è stato immane e imperituro, fino ai nostri giorni. Ma immane era anche l’unilateralità in cui essa era presa, e grande era il pericolo con cui minacciava l’intera vita interiore, in particolare quella religiosa. Oggi, di solito, si vede l’unilateralità del razionalismo e il suo pericolo per la religione nel fatto che esso, in modo presunto o reale, nega « il miracolo ». Si presume che sia razionialista chi rifiuta che « ci siano miracoli » (o piuttosto che ci siano stati) e viceversa. Questa è una concezione molto rigida, e per giunta falsa nella maggior parte dei casi singoli. Al contrario : il miracolo nel senso dogmatico-tradizionale, ossia come accadimento « straordinario » e come rottura di un ordine naturale altrimenti chiaro, comprensibile e saldamente regolato, un tale « miracolo » richiede come contraltare una concezione « razionalistica » del mondo. Solo se generalmente nel mondo tutto procede in modo ordinario, illuminato, razionale e matematico, possono in generale esser riportati e osservati dei « miracoli » in questo senso. In un mondo e in una natura che, appunto, non fossero matematici e illuminati nel loro fondamento e a cui appartenessero già come momenti l’incommensurabile e l’irrazionale, il misterioso e l’enigmatico stesso, in un tale mondo e in una tale natura molto difficilmente si avrebbero « miracoli », perché questi ultimi si distinguerebbero dagli accadimenti generali soltanto per grado e mai per principio, e dunque non potrebbero mai farsi notare come sicuramente « miracoli », ossia come facta extraordinaria. Così il razionalismo risiedeva, come edificio sottostante, già nell’ortodossia, e vi erano razionalisti così tra i sostenitori, come tra i negatori dei miracoli. In realtà il merito di Schleiermacher, quando ha salvato la religione dal razionalismo, non è stato quello di aver nuovamente rafforzato il vecchio concetto di miracolo, che egli rifiutava : si è trattato di cose completamente diverse e molto più profonde. 2. Si è trattato, cioè, di quanto segue. Dell’illuminismo e della sua filosofia, pur con tutta la loro grandezza, è stata propria una concezione e una valutazione dell’essere umano enormemente unilaterale. L’uomo è stato valutato dall’illuminismo come l’essere « pensante in modo razionale » e « agente in modo morale », come l’essere della ragione « teoretica » e « pratica ». Questa corrente non ha avuto occhi per tutta quell’immane ricchezza dell’essere umano che non rientra in queste due capacità, per i tesori inesprimibili e per le profondità dell’animo e del sentimento, del sentire immediato e del vissuto interiore, per tutto ciò in cui si rivela la nostra essenza più profonda e la nobiltà della natura umana. Questo illuminismo ha avuto spazio per la formazione e la cura del pensiero e per una prosaica attività pratica, ma non per la cultura e la cura dell’animo.  









































































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In Kant questa unilateralità e questa povertà sono state, per dir così, compensate dalla grandezza e dalla profondità, dalla sublimità, dal rigore e dal volo elevato del suo intellettualismo e del suo moralismo. Ma così non era negli illuministi di stile minore. L’intellettualismo divenne qui una prosaica e brulla ragionevolezza. Non riconoscere o non lasciare in questo mondo alcun mistero e mysterium, nulla di indicibile e meraviglioso, nessuna profondità nascosta e nessun enigma gravido di timore reverenziale ! Far luce in ogni angolo con la fiaccola dell’illuminismo, rendere tutto chiaro e limpido come l’acqua, sigillare accuratamente tutte le sorgenti del profondo, laddove non si riesca a ricoprirle, razionalizzare e risolvere con spiegazioni « pragmatiche » tutti gli enigmi della storia, del presente e del tempo passato : sempre di più, qui, divenne questo il tratto distintivo. D’altra parte, l’impulso moralistico dell’epoca – lontano dall’altezza dell’« imperativo categorico » kantiano – creò soltanto una prosaica moralizzazione pratica, sommamente ragionevole e tendente al filisteismo, nel senso della morale utilitaristica ed edonistica dell’epoca. Con tutto ciò non si voleva affatto essere « senza Dio ». L’illuminismo era fiero di aver superato l’« ateismo ». Nessun’epoca si è affaticata quanto questa in dimostrazioni « dell’esistenza di Dio » e dell’« immortalità dell’anima », né è stata altrettanto convinta di esserne effettivamente in possesso. Nonostante ciò, alla religione fu succhiato via, in fondo, il suo contenuto più proprio. Si era dimostrato Dio, ma poi non si sapeva bene cosa farsene. Non se ne aveva alcuna esperienza vissuta nell’animo. Si avevano i grandi oggetti della religione come concetti, ma non come possesso reale, vivente. Come dice Schleiermacher, per un verso la « religione » era realmente divenuta metafisica, ossia una speculazione dotta, teologica o filosofica, sulle cose ultime e somme, che venivano chiamate Dio, anima, mondo e simili. Per altro verso era stata trasformata completamente in morale, in comandamenti e regole dell’agire etico-pratico. Il suo spirito intimo, però, che, come ogni devoto sente, è qualcosa di totalmente altro dalla « conoscenza delle cose somme » o dall’osservanza di comandamenti, era sfumato, veniva tacciato di « misticismo », « esaltazione », « fanatismo ». Così, sotto l’intellettualismo e il moralismo, la religione andava perduta. 3. La riscoperta prese le mosse da un circolo di uomini dai quali tutto ci si sarebbe attesi tranne che devozione. Se a Dio, in generale, piacciono i « santi (Heiligen) bizzarri », allora costoro gli piacquero in modo particolare. Il circolo in cui visse il nuovo araldo della religione, Schleiermacher, e con cui egli era in rapporti intimi, era quello dei giovani « romantici », i fondatori della scuola romantica che allora cominciarono a far parlare di sé il mondo : quel circolo che negli anni 1797, 1798, 1799 si ritrovava a Berlino e a Jena ; animi in fermento, geniali, sempre in tumulto e abbastanza scapestrati, per lo sconcerto e la giusta collera della società perbene. Qui si ritrovavano Friedrich Schlegel e August Wilhelm Schlegel, Novalis, Tieck, Hölderlin, Schelling, i loro amici e spiritualmente affini. Vicino al circolo era Fichte, che proprio allora era stato rimosso da Jena a causa del suo presunto ateismo ; e – cosa che fu particolarmente incresciosa per le generazioni successive – ad esso appartenevano anche donne, per di più ebree, alcune delle quali notoriamente ricche di spirito e belle : innanzitutto la nobile e bellissima Henriette Herz, la moglie dell’allievo prediletto di Kant, il medico Marcus Herz ; quindi la profonda e sensibile Dorothea Veit poi Schlegel, e Rahel Levin ; 2 di origine cristiana  



































































2

  Rahel Levin coniugata Varnhagen (1771-1833), scrittrice ebrea tedesca.

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era la arguta gottinghese Caroline, nata Michaelis, vedova Böhmer, separata Schlegel e infine riconiugata Schelling. Il circolo era bizzarro a sufficienza. E tuttavia il suo clima fu più favorevole alla riscoperta della religione che non quello dell’altro circolo della società berlinese, che si ritrovava nel rispettabile « club del lunedì » 3 intorno a persone come Nicolai, 4 Moritz, 5 Engel, 6 Süßmilch 7 e alla « Allgemeine deutsche Bibliothek » : 8 un circolo certo assai più normale e ragionevole dell’altro, ma in pari tempo anche più intirizzito e assimilato al prosaico e piatto spirito dell’epoca ; privo di comprensione per il desiderio, che stava sorgendo nuovamente, di un’esistenza più piena, di una vita sgorgante dall’immediato, di un coglimento più profondo e intimo del mondo e della vita. Tutto questo si agitava tra i romantici. Certo, tutto questo non era ancora affatto « religione ». Ma dissodava il terreno, divenuto fin troppo duro, in modo tale che potesse germogliare di nuovo anche qualcosa di più profondo del « romanticismo », e affinava di nuovo l’udito, così che potessero essere nuovamente percepite anche voci che erano andate perdute. Certo, né i giovani romantici, né le ebree ricche di spirito, né l’intero geniale circolo sarebbero riusciti da soli a far rinascere la religione, neanche se lo avessero voluto. Per far ciò non basta la mera resistenza alla desertificazione razionalistica dell’animo, né bastano semplicemente le nature poetiche o una sensibilità estetica. La religione non si sviluppa da fantasie geniali, né viene escogitata a tavolino o distillata dal calamaio. È un vissuto di specie propria, si radica nella più grande e più profonda esperienza di vita e per esser portata a rifiorire e per esser annunciata non ha bisogno di ingegni poetici o letterari, ma religiosi. Così, anche il significato di tutto quel circolo romantico relativamente alle cose della religione era semplicemente quello di esser uno strumento di stimolo e di promozione per l’unico là in mezzo che realmente sapeva, per esperienza diretta, cosa significhi esser devoto ; per colui che li sopravanzava tutti per profondità d’animo, per maturità e capacità personale, per chiarezza e limpidità nella comprensione delle virtù e degli errori del suo tempo : Schleiermacher. Egli aveva conosciuto la devozione nel mondo ristretto, ma profondo, della confraternita degli Herrnhuter. 9 Nei conflitti aspri e difficili della sua giovinezza andarono distrutti la scorza e l’involucro troppo angusti della sua prima fede. Andarono distrutti anche i concetti troppo scolastici e quadrati della vecchia dogmatica di scuola e della teologia razionalista del suo tempo. Ma, in un’anima profonda e fedele, il più fine, autentico ed eterno contenuto della sua fede era stato conservato, e quando giunse il suo momento egli scrisse le Reden über die Religion an die Gebildeten unter ihren Verächtern a [Discorsi sulla religione a quegli  























a

  Edite da me, nella loro forma originaria, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 19062.

3   Il Montagsklub fu fondato nel 1749 da Johann Georg Schultheß e Johann Georg Sulzer; raccoglieva le più influenti personalità di Berlino : ne fecero parte, tra gli altri, Lessing e Mendelssohn. 4   Friedrich Christoph Nicolai (1733-1811), esponente dell’illuminismo tedesco protestante, editore e titolare di un’importante libreria di Berlino, fondò l’influente rivista « Allgemeine deutsche Bibliothek », che recensiva le più recenti e importanti pubblicazioni in lingua tedesca. 5   Karl Philipp Moritz (1756-1793), scrittore e saggista noto soprattutto per i suoi resoconti di viaggio e per il romanzo autobiografico Anton Reiser. Ein psychologischer Roman (Berlin 1785-1790). 6   Johann Jakob Engel (1741-1802), pensatore, drammaturgo e teorico della letteratura, fu precettore di Federico Guglielmo III. 7   Johann Peter Süßmilch (1707-1767), studioso di statistica e pastore a Berlino, fu precursore della demografia come disciplina scientifica con il lavoro Die göttliche Ordnung in den Veränderungen des menschlichen Geschlechts (Berlin 1741). 8   Cfr. supra, nota 4. 9   Cfr. supra, KFR, p. 75.  





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intellettuali che la disprezzano], non per difendere una volta di più concetti già difesi mille volte, ma per ridestare il suo tempo a ciò che per esso, in mezzo a tutti i suoi concetti sottili e corretti, era quasi sparito : alla religione stessa in quanto patrimonio e vissuto specifico, reale, grande nell’animo. Le Reden apparvero nel 1799. In verità non sono la sua ultima parola sull’essenza e sul valore della religione, ma la prima. Schleiermacher ha poi messo al servizio di questa questione ancora un’intera, lunga vita ; e non è una questione che possa esser portata a termine da un uomo nel lavoro di una vita. A ciò si aggiunge che il suo libro non è, né vuole essere atemporale, ugualmente valido e comprensibile per ogni tempo. In esso, tutta la posizione della questione e le risposte sono condizionate dalla situazione spirituale di allora, la quale, nella sua peculiare complicatezza, non è eterna, né ritorna mai esattamente nello stesso modo. Nonostante questo il libro resta significativo ancor oggi. E ancor oggi ha i suoi amatori ed estimatori, del tutto a prescindere dal fatto che, con molte trasformazioni, il movimento che allora contribuì a suscitare ha ancor oggi le sue ripercussioni. È un’apologia di specie particolarissima, totalmente diversa da qualsiasi altra sia mai stata scritta. Non vuole produrre nuove ricerche sul fatto che vi siano Dio, l’anima, l’immortalità e simili. Apparentemente è del tutto indifferente a questi concetti. Certo, talvolta presenta espressioni che a quel tempo e alle nostre orecchie suonano abbastanza dure e romanticamente presuntuose. Vuole porre soltanto una domanda fondamentale : che cos’è propriamente la devozione stessa ? 4. Cos’è dunque la devozione e in cosa consiste il suo valore secondo Schleiermacher ? Se tentiamo di trasportare quel che Schleiermacher risponde dal suo modo di esprimersi, talvolta astratto e ormai inconsueto per il nostro orecchio, al nostro, egli dice pressappoco così : l’uomo e l’umanità sono collocati in questo mondo che ci circonda e nel suo molteplice, variopinto, ricco, profondo essere ed accadere, che ci tiene, ci preme e ci sostiene da ogni lato, e che viene penetrato dalla conoscenza umana e molteplicemente influenzato dall’operare e dall’agire dell’uomo e dell’umanità. Schleiermacher chiama « universo » questo mondo e la molteplicità delle relazioni e delle connessioni nelle quali siamo e viviamo. Con questo termine, da lui molto utilizzato, egli non intende ciò che esso designa usualmente, ossia la struttura del mondo e in particolare del cielo e delle stelle, ma il grande tutto dell’essere e dell’accadere, della natura e della storia : questo tutto dell’essere e del divenire, nel quale noi stessi siamo, per un verso, elementi e parti, per altro verso signori e agenti. Il nostro rapporto a tale universo, prosegue, è molteplice. In primo luogo è teoretico. Possiamo penetrare l’universo pensando, chiarirlo indagando, possiamo comprenderlo secondo causa ed effetto, secondo leggi e connessioni. Questo rapporto si attua nella scienza ; e, nella misura in cui cerchiamo le leggi somme e i principi supremi dell’universo, si attua nella scienza della metafisica. In secondo luogo ci rapportiamo all’universo « praticamente ». Possiamo influire su di esso, dar forma al suo corso nel nostro lavoro etico e culturale, individuale e sociale ; possiamo modificare il suo aspetto, dare ad esso delle mete e realizzarle. Così esso è oggetto del nostro agire, della nostra volontà ; e poiché le normali regole del nostro agire e volore non sono altro che la morale (in senso ampio), allora il nostro secondo rapporto all’universo viene indicato e rappresentato dalla morale. Fino a quel momento l’epoca di Schleiermacher ha conosciuto, posseduto e prati 



























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cato entrambi ; ma ha trascurato il fatto che il rapporto dell’uomo all’universo non si esaurisce in questi, che in essi non è ancora detto il momento migliore e più profondo. Vi è ancora un terzo rapporto al mondo : non è un sapere del mondo, né un agire sul mondo, ma è un avere esperienza vissuta, in un animo che si è offerto all’intuizione e al sentimento, di questo grande e profondo mondo e del suo essere ed accadere, della sua meravigliosa essenza e del suo contenuto eterno. Questo terzo rapporto non è scienza o metafisica, né morale o volere e agire : esso è – dice Schleiermacher – religione, è l’immediato coglimento dell’universo, del suo tutto e di ogni sua singola parte, del suo fondamento e della sua essenza, del suo valore e contenuto eterni, del suo sfondo e sottofondo in un silenzioso e profondissimo vissuto dell’animo. Per spiegare l’idea di Schleiermacher ci sia consentita una similitudine. Un uomo entra in un’alta e antica chiesa gotica. Se è di natura riflessiva, può assumere un « comportamento teoretico » verso di essa. Può calcolare grandezza e ampiezza, può riflettere sui principi di costruzione, sui rapporti interni all’edificio, sulle peculiarità di stile, può calcolare il volume, contando, riflettendo, facendo stime di misure, in breve : rapportandosi ad essa « teoreticamente ». Se ha anche uno sguardo pratico, può scoprire in essa delle falle, può trovare il modo per restaurarla, per renderla utile per scopi pratici, per modificarla e darle una nuova forma, e può eventualmente metter mano egli stesso a tutto ciò. Può rapportarsi ad essa « praticamente ». Ma può fare ancora una terza cosa : può lasciar da parte il suo comportamento teoretico e pratico e mettersi tranquillamente in un angolo, aprire il suo intimo e « vivere » la chiesa immergendosi nell’intuizione : può viverla, cioè, proprio in e su questa costruzione, forse pericolante, forse incompiuta, forse coglibile solo in parte, la cui essenza ideale, che forse nella realizzazione esteriore è più nascosta che espressa, si lascia però in essa intuire dall’animo, così come la sua totalità e unità, la sua bellezza e sublimità, la sua simbologia e tutti i suoi effetti e le sue impressioni indicibili, che sfuggono all’individuo meramente teoretico e a quello pratico e si rivelano solo all’animo ; che tuttavia sono sommamente reali e nei quali soltanto si aprono l’autentica intenzione interiore e l’essenza di questa costruzione. Se il nostro visitatore non ha questo terzo « rapporto alla chiesa, può esser grande in quanto individuo teoretico e può esser un maestro in quanto individuo pratico, ma nel fondo della sua essenza è un perfetto idiota ». Così capita a voi – grida Schleiermacher al razionalista e a chi disprezza la religione – in quella grande cattedrale che si chiama universo. Voi potete soltanto calcolare, andare in cerca di cause ed effetti, classificare e far sistemi, o riflettere su ciò che, in quanto individui pratici, volete fare del mondo e dell’esistenza. Imparate ancora una terza cosa e diverrete quel che tanto vorreste essere : uomini maturi, completi, autentici. Imparate il raccoglimento devoto e con ciò il vissuto interiore e la commozione, il cogliere per presentimento, l’intuizione e il sentimento di ciò che misteriosamente si agita in questo universo, nella natura, nella storia e nella vita, che si annuncia in modo divino. Per Schleiermacher la religione, essendo da lui così descritta, contiene soprattutto due momenti. a) Egli dice : nella conoscenza e nell’agire l’universo è sempre soltanto un vostro oggetto, è sempre qualcosa che volete penetrare o sottomettere con la conoscenza o con la volontà. Un’impresa vana e nulla, nemmeno superbia, ma vana hybris, se non è in pari tempo accompagnata dalla profonda umiltà interiore nei confronti di questo stesso universo, di questa totalità dell’essere e dell’accadere, che, come genera tutte le cose dal suo grembo, così ha generato e ha posto anche voi, e costantemente vi  





































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porta e vi spinge con vincoli eterni e secondo le sue leggi eterne e sacre. Questo sentimento del « silenzioso dissolversi » 10 nell’universo, questo umile intuire e rendersi conto della propria dipendenza dal grande e misterioso tutto è per lui la prima cosa e, per dir così, il livello elementare nella devozione. b) L’intelletto non può far altro che aggiungere causa a causa, calcolare, classificare. Non può cogliere l’interno delle cose. Gli capita come all’uomo nella cattedrale. Finché calcolava e teoretizzava, lo circondava un edificio di pietre. Solo una volta divenuto devoto, gli si schiuse l’intenzione interna della cosa, gli si schiuse la « chiesa ». Così noi nel mondo. Nessun intelletto ne coglie l’interno. Solo all’animo che si è offerto all’intuizione e che devotamente si apre, si spalanca il suo interno. Per lui il mondo smette improvvisamente di esser questo mondo profano e quotidiano. Per lui si rendono coglibili e avvertibili nell’intuizione idee eterne, la ragione somma, il piano misterioso e la legge divina ed eterna nel mondo e nell’accadere. Il mondo gli diviene quasi trasparente : il contenuto eterno risplende attraverso quello temporale, l’infinito nel finito, e in questo essere spazio-temporale ci tocca quel che né lo spazio, né il tempo contengono. E tutto questo non così, da lasciarsi mettere in una formula prosaica e razionale o da lasciarsi penetrare quale natura e legge dell’infinito che si rivela nel finito : ma così da annunciarsi all’animo nel vissuto più autentico quale la più vivente delle realtà, da colmarlo di una duratura devozione e dedizione, e da destare e muovere ogni vita dell’animo e tutti i suoi sentimenti profondi. « Intuizione e sentimento dell’universo », dice Schleiermacher. « Vissuto del suo fondamento e del suo contenuto eterno ed infinito » : si potrebbe chiamarlo più chiaramente in una parola « senso d’eternità ». Vedere tutte le cose sub specie aeterni in una luce eterna ; avere un senso per il mistero per metà nascosto e per metà rivelato del mondo, dell’esistenza e della nostra propria vita ; sentire il mondo e tutte le cose e la propria essenza come espressione di una posizione somma e di un’idea eterna, ma, con ciò, vedere mondo, vita ed essere umano in una luce mai vista prima, comprenderli in una profondità che nessun profano raggiunge : questo era innanzitutto il senso e l’invito di questi discorsi sulla « religione ». 5. Schleiermacher riassume questa sua concezione di « religione » nella formula definitoria : « intuizione e sentimento dell’universo ». È davvero questo « religione » ? È l’« essenza della religione » ? È la formula mediante cui la religione in generale può esser definita ? a) No, in realtà no. Non lo è, già per il fatto che non si è in grado di dare una definizione di « religione in generale », come hanno dimostrato a sufficienza mille tentativi naufragati. Questo è proprio il senso delle significative argomentazioni che Schleiermacher stesso offre nel suo quinto discorso. Egli ingaggia qui una battaglia contro la presunta « religione naturale », che il razionalismo credeva di aver scovato. Si pretendeva di aver fissato e determinato univocamente l’« essenza della religione » in alcuni, pochi, concetti, astratti da quelle forme di religione che si conoscevano, in qualche misura, all’epoca ; e di averla riconosciuta dietro le sue forme « soltanto storiche » quali mere maschere, travestimenti e travisamenti. Qui Schleiermacher conduce la sua battaglia per ciò che chiama il principium individuationis della religione. La religione, dice qui, non è affatto reale in una tale unità astratta. Essa si individua nelle grandi strutture e  



































































10

  Über die Religion, cit., p. 34.











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nelle configurazioni date storicamente, che come tali non sono riducibili l’una all’altra, né ad una religione in generale. Egli avrebbe dovuto conseguentemente proseguire : strutture e configurazioni « dalle quali non si lascia astrarre o indurre concettualmente un’essenza universale di “religione in generale” ». Infatti esse sono, certo, connesse da certi tratti comuni, tratti di una determinazione numinosa del loro oggetto di riferimento trascendente ; ma gli stessi tratti universali non danno ancora un « concetto d’essenza » appropriato alla definizione. Ciò che nel loro apparire è affine, e il principio di questa affinità, è coglibile in un sentimento ; ed è un sentimento che ci porta a separare quest’ambito, « la religione », da arte, scienza, economia, cultura etica, quando noi stessi annoveriamo con sicurezza in un ambito atteggiamenti tanto diversi dello spirito come il Mahāyāna e l’Islam ; o quando nella descrizione ordiniamo connessioni di sviluppo o di grado, da quello grezzo fino a quello maturo, e attribuiamo questo lavoro alla « storia della religione » o alla « comparazione tra religioni » quale ambito di ricerca unitario. Ma l’apprensione per definizione o in una formula breve fallisce. W. Herrmann lo esprime col suo modo, incomparabilmente efficace :  





























Schleiermacher presenta la religione, quale egli la conosce [...], nel modo in cui egli partecipa di essa ; la sua idea di religione è l’espressione della sua propria religione. 11  

b) Ma, appunto, della sua « religione ». È realmente « religione » quella che qui emerge nuovamente di contro all’irrigidimento razionalistico, in primo luogo nel secondo discorso, così che possiamo dire con una nostra formulazione : è di nuovo il sensus numinis che innanzitutto ritrova se stesso dopo un lungo inaridimento. Schleiermacher si esprime anche in forma romantica ; e – cosa a cui si dovrebbe prestare più attenzione – innanzitutto in chiara dipendenza da quella mistica « visione di unità » che era caratteristica dell’atteggiamento di Herder (ho mostrato questo più dettagliatamente in WÖM, p. 234). Di qui deriva, in particolare, l’attribuzione di valore, da parte di Schleiermacher, all’« unità » e alla « totalità », di fronte alle quali il singolo « silenziosamente si dissolve ». Nel medesimo luogo ho spiegato che questa era una concezione mistica (divenuta, certo, atipica, ma ancora chiaramente riconoscibile) ; una concezione della « via esteriore » che Schleiermacher ha assunto in prima battuta, ma che come tale non corrisponde del tutto al suo vissuto più proprio, quale diviene riconoscibile già nel suo periodo pre-romantico e che sempre più si perde nella sua teologia. Già qui, ciò che Schleiermacher accentua sono non soltanto le gioie dei « sentimenti di espansione » ; ciò che è caratteristico è appunto la protesta, che egli solleva, in nome della religione, contro la « hybris insolente » :  













































L’uomo ha rapito il sentimento della sua infinità e della sua simiglianza con Dio se non diviene cosciente anche della sua limitatezza, del silenzioso dissolversi della sua intera esistenza nello smisurato. 12

Già questo non è altro che il risuonare, in forma romantica, del sensus numinis in quanto umiltà, che lo spinge sempre più a dimenticare l’« universo » e a determinare l’essenza della religione mediante il « sentimento di dipendenza assoluta ». Qui il « totalmente altro » nella sua maestà vive di nuovo nell’aspra protesta contro il sentimento di divinità dei giovani fichtiani. Per questo, quando egli passa dalle « intuizioni » ai « sentimenti »,  













11

  W. Herrmann, Dogmatik, Gotha 1925, p. 13.   Über die Religion, cit., pp. 33-34.

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nomina per primi : timore reverenziale e umiltà. Questi discorsi offrono come primo momento fondamentale non definizioni esaurienti o utilizzabili scientificamente dell’essenza de « la religione », ma un nuovo, potente ribollire dell’autentico sensus numinis di contro all’inaridimento razionalistico e alla « hybris » fichtiana. Lo « Herrnhuter di ordine superiore » 13 dice a suo modo ciò che il primo Herrnhuter, Zinzendorf, aveva già detto :  















Un uomo timorato di Dio è (quello che) si inchina, da creatura, alla maestà di Dio.

Schleiermacher dice però anche : « universo ». Egli non intende soltanto questa compagine palpabile, estesa in spazio e tempo, ma anche – se lo designiamo con le espressioni primitive del nostro primo volume 14 per il vissuto numinoso antico – qualcosa che « sta dietro », che in modo potente e vivente « agisce » in e dietro e al di sopra di esso. Egli intende il savitar 15 che in questo tutto ha il suo rūpam. 16 Come dice, di nuovo, Herrmann in modo raffinato :  















L’essenza che (secondo Schleiermacher) fa del mondo una unità non può esser esibita nel mondo stesso. Se tuttavia siamo in grado di vedere in tutto l’espressione dell’unica essenza in esso nascosta, allora abbiamo nell’unità del reale, fondata in questo modo, qualcosa di oltremondano. 17

Con il suo « sentimento dell’universo » Schleiermacher intende in effetti il « sentimento dell’oltremondano ». E dobbiamo procedere ancora oltre. Se restiamo ai nostri « termini mitici », allora il rūpam, di cui abbiamo parlato nel primo volume a p. 81, è qui quello nel « secondo senso ». 18 È il mostrarsi, il rivelarsi. E qui risiede ora il gesto più significativo di Schleiermacher. Ad un’epoca che ne aveva perduto il concetto, egli apre di nuovo, a modo suo, una via per comprendere la rivelazione, quella vera, ossia qualcosa che nessun intelletto escogita, che nessuna dimostrazione costruisce, ma che si dà e che si manifesta per chi ne ha un vissuto. È proprio con ciò che questo libretto ha agito in modo così forte su un’epoca razionalizzata. Con ciò, per esempio, divenne per Claus Harms « impulso di un movimento eterno ». Herrmann dice, spiegando Schleiermacher :  





















Devoto è dunque quell’uomo che in tutti gli eventi che lo toccano interiormente sente un’unica potenza vivente che parla alla sua anima, 19

e, riallacciandosi a Schleiermacher, offre come sua propria definizione di religione : b  

b   di cui vale la stessa cosa che Herrmann aveva detto della religione di Schleiermacher, che anche questa non è determinazione de « la religione », ma della religione di Herrmann.  



13   Brief an Georg Reimer, 30.4.1802, Aus Schleiermachers Leben. In Briefen, Nachdruck Berlin/NewYork 1974, p. 295. 14   Otto si riferisce a GÜ, che considera come il primo volume di appendici a DH, il secondo essendo appunto SU, dal quale il presente saggio è tratto. 15   Si tratta di una divinità che compare nel R≥gveda e che Otto analizza nel saggio Steigende und sinkende Numina, GÜ, pp. 58-115, in particolare pp. 97 e ss. 16   Cfr. GÜ, p. 80 : « Nel R≥gveda il termine rūpa è divenuto ormai da tempo un termine tecnico. Significa per un verso la “figura” di un essere a differenza delle sue semplici attività o espressioni. Per esempio si vede la “velocità”, il movimento del vento, ma non si vede il suo rūpa, cioè il vento stesso. Oppure rūpa è una configurazione, che un essere può assumere, in modo tale che la sua autentica figura si nasconde dietro queste configurazioni ». 17   W. Herrmann, Dogmatik, cit., p. 14. 18   Cfr. supra la nota 15. 19   W. Herrmann, Dogmatik, cit., p. 14.  





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Il concetto generale di religione, che appare evidente ad ogni devoto, suona così : per ogni devoto la religione è la capacità di vedere negli eventi le azioni di un dio. 20  

Per questo Schleiermacher interviene di nuovo in favore del « miracolo » ; non per ricadere nel vecchio « soprannaturalismo », ma per mostrare alla teologia moderna una nuova via verso questo concetto irrinunciabile per la religione, dicendo :  











La relazione immediata di un fenomeno all’infinito : questo esclude che (per questo fenomeno) vi sia una (relazione) altrettanto immediata al finito e alla natura ? (Per nulla, infatti) ogni circostanza, anche la più naturale, è un miracolo, in quanto si presta al fatto che la sua visione dominante sia quella religiosa (ossia, per lui, che essa possa esser compresa come « un segno », cioè come l’annuncio di un senso oltremondano). 21  







Herrmann lo interpreta, di nuovo, correttamente :  

Schleiermacher dice che la religione afferma una realtà tale da esser salutata come un miracolo da chiunque la veda ; una realtà di cui costui può avere esperienza vissuta, ma che non può dimostrare a nessun altro. 22  

Infine la cosa più importante di tutte : con questo squarcio nuovo su antichissime idee della religione, nel quinto dei suoi discorsi gli si apre la porta per una nuova valutazione delle concezioni fondamentali, andate perdute, non della « religione in generale », non della devozione e del raccoglimento quali mere tonalità emotive marginali di un più profondo sentimento del mondo e della vita : gli si apre la porta della configurazione concreta della religione nel cristianesimo. Il cristianesimo, per Schleiermacher, non è quel « teismo purificato » per cui lo aveva preso il razionalismo, ma è l’esperienza del peccato e della perdizione, il bisogno di redenzione e la potenza redentrice dall’alto. 6. Dovremo qui contestare metodologicamente la via di Schleiermacher, tanto dal punto di vista della scienza della religione, quanto dal punto di vista teologico. Nessuno trova prima un’« essenza » universale della religione, che poi ripartisce e suddivide secondo un principium individuationis a priori. In verità ciascuno parte da ciò che egli conosce e riconosce come religione, per poi trovare, in una visione allargata, qualcosa di analogo, per compararlo e distinguerlo, per trovare tratti di collegamento, e per arrivare, per quanto possibile, a tipi che magari per uno tendono ad un’« essenza fondamentale della religione » ultima e unitaria, per un altro divergono in tipi concorrenti, per un terzo possono forse persino apparire, nonostante la concordanza in certi tratti significativi, come « atteggiamenti dell’animo fondamentalmente diversi » nel loro nucleo. In verità Schleiermacher stesso ha percorso questa via, o meglio vi è stato condotto. Quando la sua anima si rimise da una paralisi e da una grave malattia interiore nella calma quiete di Schlobitten, egli non trovò l’« essenza della religione », ma gli divennero di nuovo vivi gli antichi motivi della specifica eredità della devozione cristiana. Lo Herrnhuter, liberato dal dogma, viveva nuovamente in lui e guadagnava una figura sempre più solida. In un percorso segreto egli imparò di nuovo cosa fosse il numen vivente rispetto al « concetto di Dio », teisticamente corretto, ma morto, cosa fosse l’esperienza  



























20



  W. Herrmann, Dogmatik, cit., p. 5.   Über die Religion, cit., p. 74.   W. Herrmann, Dogmatik, cit., p. 13.

21

22



la rinascita del sensus numinis in schleiermacher

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di contro agli artifici delle dimostrazioni razionalistiche, cosa fosse la resa, l’umiltà, il pentimento, il sentimento di dipendenza e la devozione a fronte dei fichtiani slanci verso l’alto ; cosa fosse il bisogno di redenzione a fronte dell’autoperfezionamento moralistico. E solo a partire da qui si cimentò nella comparazione di altre religioni. Ma di un tale percorso faceva parte, appunto, anche il fatto che in questo ritrovamento fosse aiutato dalla lotta dello spirito del giovane « romanticismo » contro i lacciuoli razionalistici in generale, dalla sua comprensione per l’individuale e l’indeducibile, per la datità storica, per i fondamenti e per le basi storiche della nostra esistenza spirituale, e per la profondità, l’enigma e il miracolo dell’esistenza in generale.  





IL SENSUS NUMINIS COME ORIGINE STORICA DELLA RELIGIONE. UN CONFRONTO CON MYTHUS UND RELIGION DI WUNDT 1 (su das heilige , cap. xvii)

I

n Das Heilige si rimanda spesso a Wundt e al suo tentativo di derivare la religione dall’animismo. È il tentativo più significativo che sia stato fatto in questo senso. La seguente esposizione deve, per un verso, ripercorrerlo e, per altro verso, mostrare che fallisce, e non può non fallire, perché misconosce l’elemento fondamentale della religione, il sentimento numinoso, e con ciò anche il significato autonomo della categoria del sacro. Non ci interessa tanto la determinazione wundtiana dell’essenza della religione matura – è troppo inadeguata –, ma quella delle sue presunte origini nel mito e dell’origine di questo nella cosidetta « appercezione animante ». La Völkerpsychologie [Psicologia dei popoli] di Wundt, il cui imponente secondo volume su Mythus und Religion [Mito e religione], 2 è quello di cui qui ci occupiamo, è l’opera di uno spirito la cui visione è ampia in modo quasi inconcepibile, panoramica, penetrante, capace di dominare e collegare quanto vi è di più disparato. Allo stesso modo, sempre nuova ammirazione suscitano anche la ricchezza del tutto, lo studio dell’elemento singolo, l’immensità del materiale elaborato, la sicura configurazione del medesimo sotto punti di vista capaci di guidare e chiarificare, l’analisi psicologica e l’elaborazione dei fondamenti portanti e delle leggi dominanti, la risoluzione di grovigli storici, il disegno delle grandi e piccole linee di sviluppo. La Völkerpsychologie è la sua monumentale opera completa che intende offrire una Untersuchung der Entwicklungsgesetze von Sprache, Mythus und Sitte [Indagine delle leggi di sviluppo di linguaggio, mito e costume]. Nel seguito tenteremo di riportarne metodo e risultati relativi all’origine « psicologico-popolare » della religione, nonché di prendere posizione in merito. Poiché, secondo la definizione di Wundt, l’indagine sulle religioni evolute e configurate in modo specifico non cade nell’ambito della « psicologia dei popoli », il contenuto principale di questi volumi è costituito da ciò che si usa definire stadio preliminare (pre-religione) o fenomenologia delle forme iniziali della religione ; non però come una mera raccolta del dato storico, ma come analisi psicologica della specificità, della nascita, del trasformarsi e del crescere della religione.  













A. Il mito come problema della psicologia dei popoli Il divenire di mito e religione viene còlto nella più stretta connessione e in ampia analogia con quello di linguaggio, arte e costume ; in pari tempo si afferma che sia quelli  

1

  Edizione originale : Der Sensus Numinis als geschichtlicher Ursprung der Religion. Eine Auseinandersetzung mit Wilhelm Wundts „Mythus und Religion“, in GÜ, pp. 11-57. Il saggio è una rielaborazione di Mythus und Religion in Wundts Völkerpsychologie, « Theologische Rundschau », 13, 1910, pp. 251-275 e 293-305. 2   Leipzig 1905 (i parte), 1906 (ii parte), 1909 (iii parte).  





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sia questi sono una produzione non del singolo, ma generale e comunitaria. Per questo un’indagine in merito non è oggetto della psicologia individuale, ma della « psicologia dei popoli ». E quest’ultima cos’è ? Rispetto all’unilaterale individualismo dell’illuminismo, il romanticismo aveva riconosciuto la specificità della « creazione comunitaria » e del suo valore per tutti gli ambiti della vita spirituale umana. Già De Wette, nel suo romanzo didascalico Theodor, espone questa conoscenza come una rivelazione e nella Dogmatik, ma ancor più in Über die Religion, ihr Wesen, ihre Erscheinungsformen und ihren Einfluß auf das Leben [Sulla religione, la sua essenza, le sue forme fenomeniche e il suo influsso sulla vita], ne fa una significativa applicazione all’ambito della scienza della religione. a Schleiermacher assume il « creare universale » nella sua etica ; 3 per Hegel diviene il punto di vista determinante della sua filosofia etica, della filosofia della religione e della filosofia della storia (dottrina dello « spirito oggettivo »). In realtà Wundt non si ricollega a questi predecessori ancora costruttivi, ma a Bastian, 4 Steinthal, 5 Lazarus, 6 all’« etnologia » moderna e alla sua ricerca, in continua crescita, sugli inizi della vita dello spirito umano, della vita sociale, politica religiosa e culturale, poiché egli intende anche determinare più precisamente l’essenza della psicologia dei popoli, fissarne più esattamente la natura di scienza psicologica e delimitarla rispetto a rami confinanti della ricerca. La psicologia dei popoli è per lui una « parte della psicologia », che è distinta da storia, etnologia, storia della letteratura e della poesia, e che si trova in un parallelo esatto con la psicologia individuale. Quest’ultima si limita alla ricerca dei fatti dell’esperienza immediata, quali sono offerti dalla coscienza soggettiva, ma rinuncia ad un’analisi dei fenomeni che derivano dall’azione reciproca spirituale di una pluralità di singoli. La psicologia dei popoli, invece, ricerca quei processi che si trovano a fondamento dello sviluppo universale delle comunità umane e della nascita di produzioni spirituali comunitarie di valori universalmente validi ( = universalmente riconosciuti ?). Così essa deve abbracciare lo sviluppo di linguaggio, arte, mito, religione e costume : il resto dovrebbe esserne escluso. La psicologia dei popoli include quei livelli del produrre spirituale in cui è la comunità a creare, senza che l’emergere dei singoli rivesta in ciò alcun ruolo. Laddove, invece, quest’ultimo intervenga, allora termina il dominio della psicologia dei popoli e comincia quello della storia. Per questo la storia della letteratura, l’arte e la scienza non appartengono al suo ambito. Propriamente psicologia dei popoli sarebbe un nome inadeguato, perché il popolo è soltanto una tra le molte forme di comunità. Tuttavia, secondo Wundt, è la forma più importante e quindi può determinare il nome.  































a

  Su De Wette cfr. KFR, p. 129 (qui p. 153).

3

  Cfr. F. D. Schleiermacher, Grundriß der philosophischen Ethik, Berlin 1841.   Adolf Bastian (1826-1905), considerato tra i padri fondatori dell’etnologia, pubblicò nei tre volumi di Der Mensch in der Geschichte, Leipzig 1860, i risultati delle osservazioni etnografiche raccolte nel corso di viaggi svolti in qualità di medico di bordo di una nave. 5   Heymann Steinthal (1823-1899), allievo di W. von Humboldt, si occupò di filologia e linguistica in chiave psicologico-evolutiva. Fondò, insieme a Moritz Lazarus, la Zeitschrift für Völkerpsychologie und Sprachwissenschaft. Tra le opere principali : Der Ursprung der Sprache im Zusammenhang mit den letzen Fragen alles Wissens (Berlin 1851) ; Grammatik, Logik, Psychologie (Berlin 1855) ; Abriss der Sprachwissenschaft (Berlin 1881). 6   Moritz Lazarus (1824-1903), fautore di un approccio psicologico ed empirico allo studio delle popolazioni, è co-fondatore, con Steinthal, della Zeitschrift für Völkerpsychologie und Sprachwissenschaft. L’opera principale è Das Leben der Seele, Berlin 1856. 4







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1. La denominazione di « produzione comunitaria » deve significare due cose : primo, che ad essa ha contribuito un numero indeterminato di membri di una comunità, in modo tale da escludere il risalire ad individui determinati ; secondo, che le produzioni comunitarie, nonostante ogni molteplicità e distinzione, lasciano riconoscere nei singoli casi certe leggi di sviluppo universali. Ed è poi nell’individuazione di queste leggi che la psicologia dei popoli vede il suo compito ultimo e più importante. Che questi confini siano fluidi è lo stesso Wundt ad affermarlo. Forse lo sono ancor più di quanto egli stesso conceda. Anche nella produzione della « appercezione mitologica comunitaria » non agiscono tutti, non tutti contemporaneamente in comunità, e non tutti allo stesso grado. Tale produzione dovrebbe essere, già nella sua espressione più semplice, fantasia ; la quale, però, è suscettibile di una diversità di gradi : e già qui, al livello più basso, ci saranno stati individui « dotati » o predisposti alla cosa, che come singoli eccellevano sulla generalità e gliela trasmettevano. Ma questo vale in grado crescente per le prestazioni più complicate della fantasia. Anche la singola, rozza favola presuppone un’invenzione e non si fa « da sé ». Ci vuole dunque un inventore. E anche il conservarla, il saperla ri-raccontare, l’interesse crescente alla cosa, la ricettività e l’eccitabilità della fantasia a collegare gli elementi simili o a produrne di nuovi, il graduale affinamento e le forme superiori : tutto questo è già una questione di talento, come lo è, ai livelli superiori, la stessa poesia. Non tutti sono narratori di favole, narratori in generale o direttori del coro : lo sono solo i singoli, e sono, in tutte le epoche, merce rara e ricercata. 3. Ci sembra poi dubbio che sia realmente possibile anche una psicologia di ciò che è generale accanto a quella consueta, se il termine « psicologia » deve mantenere nei due casi il medesimo senso, poiché neanche lo spirito del popolo, per lo meno per la scienza, è un’entità reale, che c’è a prescindere dalle prestazioni delle anime individuali. a) Nei prodotti di fantasia che Wundt ha in mente accade semplicemente che le rappresentazioni e i sentimenti, che nascono nelle anime individuali, che vengono condivisi con i contemporanei e tramandati, e che attivano collegamenti, divengono stimoli che suscitano nuove rappresentazioni e nuovi sentimenti, provocano intensificazioni, ecc. In tutto ciò, però, si tratta sempre e solo di capacità e fatti che risiedono all’interno della psiche individuale e che non potrebbero esprimersi se non ci fosse lo stimolo della comunità, della comunicazione e della trasmissione : ma questo lo condividono, per esempio, con tutti i sentimenti e gli impulsi altruistici, che pure possono esprimersi soltanto sotto il presupposto della comunità e che però nessuno collocherà per questo motivo in una psicologia specifica. b) Inoltre, in una psicologia può comparire come oggetto sempre e soltanto lo psichico stesso, i modi e le leggi delle sue prestazioni, ma non contemporaneamente anche ciò che esso produce singolarmente secondo tali leggi e modi. Quindi in una psicologia dei popoli, se il nome dovesse valere in senso rigoroso, dovrebbe comparire la capacità dell’« appercezione mitologica », la capacità di comunicarla, riceverla e rielaborarla : ma il contenuto delle appercezioni, il prodotto stesso della fantasia e ciò che da esse si ottiene poi in miti, saghe, riti, ecc., non dovrebbe trovarvisi, e dovremmo privarci di tutte quelle ricerche sui tipi di credenza nelle anime, sulle classi delle favole e dei miti, che  







































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rendono così ricca l’opera di Wundt. Fantasticare e credere sono qualcosa di psicologico, ma non lo sono il fantasticato o il creduto stessi. b c) Infine, se si fosse dovuto parlare delle prestazioni di una creazione e produzione comunitarie, allora il compito più importante sarebbe stato senz’altro quello di indagare mediante cosa tutte le ulteriori creazioni e intensificazioni divengono possibili : le forme, i motivi, i canali, i metodi del tramandare i materiali della fantasia mitica. Cosa spinge alla comunicazione dei prodotti di questa fantasia ? Che cosa fa sì che le rappresentazioni mitiche persistano, e non soltanto persistano, ma acquisiscano quell’immane potenza che hanno sul pensiero di millenni ? E, in particolare, come si attua la loro custodia e sopravvivenza nella serie delle generazioni successive ? Queste cose sono ancora molto oscure e sorprendentemente poco indagate e considerate ; ma soltanto se le conosciamo sapremo cos’è, in generale, questa « comunità » di cui tentiamo di fare la psicologia. d) Rispetto a questa comunità, ancor più che quella tra contemporanei per lo sviluppo del mito è importante la comunità attraverso la serie temporale. E quest’ultima come si produce in realtà ? Attraverso un contatto lasco e occasionale tra giovani e anziani non scaturisce alcuna connessione tale che in essa siano possibili le forze creatrici di Wundt che conosceremo in seguito, ossia l’« eterogonia dei fini », la « trasformazione dei motivi » e la « sintesi creatrice ». Ciò può aver luogo soltanto se si sviluppano forme solide di tradizione : catene, portatori e metodi di tradizione ; esattamente nello stesso modo in cui già il semplice raccontare favole si sviluppa soltanto se si depositano, come polveri sfuse, una tecnica, una routine, una cerchia di quelli che sanno farlo e presso i quali i materiali si raccolgono. Anche da questo punto di vista i miti non sono senz’altro cosa che riguardi il generale, e anche quello che in realtà essi dovrebbero significare lo comprenderemo soltanto se conosciamo la cerchia, la catena di tradizione mediante cui attraversano la storia. Già qui vi sono sapienti e discenti, vi è una formale iniziazione al materiale di conoscenza mitico e vi sono, legati a ciò, una primitiva speculazione, rapporti tra maestri e allievi, e nomi e serie di nomi di maestri e di autorità. e) Ma non è ancora a tutto questo che si indirizza la nostra obiezione fondamentale, ma al punto di partenza e all’opinione di Wundt, per cui sembra che tutto dipenda soprattutto dal chiarire le rappresentazioni di anime, di esseri spirituali, su su fino a quelle di dèi, invece di prendere le mosse da certi tipi elementari di vissuto, che sono osservabili ancor oggi. Questo vale già per quei vissuti che, come tali, non appartengono necessariamente al tipo « mistico », per esempio i vissuti di alienazione. Che alcune persone distinguano un « secondo Io » dal loro Io abituale non deriva dal fatto che prima è nata, con una lunga evoluzione, la rappresentazione di un’« anima » che si può separare dal corpo (e che è più vera dell’Io ordinario e quotidiano), ma è esattamente il contrario : dai vissuti di alienazione deriva successivamente una simile interpretazione. Il terrore che prende negli spazi aperti, nella calura di mezzogiorno in vaste steppe o nel fremito della notte, non presuppone, di nuovo, una precedente « rappresentazione »  

















































b   Se si vuole lasciare che la « psicologia dei popoli » sia ciò che indica la prima parte della sua definizione (« Ricerca di quei processi che sono alla base [...] dello sviluppo universale delle comunità umane »), ci si sarebbe allora dovuti attendere una forte venatura sociologica, che viene però esclusa ; un’analisi cioè dei sentimenti e degli impulsi di comunità che conducono alla creazione della comunità. (Come l’istinto del gregge, il cameratismo, l’impulso del sangue, quello sessuale, le sue intensificazioni e i suoi raffinamenti, l’impulso all’assistenza, quindi la simpatia e l’empatia della creazione di rappresentazioni simpatetiche e parallele.)  









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di uno spirito o di un demone, ma può erompere in modo del tutto spontaneo e successivamente rivestirsi di quella rappresentazione ; o può affermarsi e ripetersi anche senza una qualche concretizzazione del presunto fondamento del terrore medesimo, e tuttavia appartenere alla « storia della religione » molto di più delle rappresentazioni « animistiche », che puramente come tali non hanno alcun bisogno di avere un carattere « mitico ». Il vissuto dell’unità dei mistici indiani non presuppone concrete formazioni concettuali e tanto meno la « rappresentazione di anime » dell’animismo o dell’animatismo. Tutte le formazioni di rappresentazioni sono precedute da e risalgono a tipi di vissuto che probabilmente sono molto più elementari e primitivi, e forse anche molto più antichi, di tutte le rappresentazioni di anime o spiriti, o di mana e orenda. Non è la psicologia dei popoli che ci aiuta a comprenderle, ma, al contrario, solo lo studio psicologico di predisposizioni dell’animo altamente individuali di persone dotate in modo del tutto individuale, che non hanno proprio nulla a che vedere con l’« appercezione mitologica » di Wundt, ma che sono caratterizzate nel modo più deciso possibile da emozioni numinose.  





















B. La fantasia come fonte del mito Nel volume secondo, Wundt passa all’arte, al mito e alla religione. Ora, per lui la sorgente ultima di ogni creazione artistica, come anche di ogni formazione di miti, di tutti i sentimenti e le rappresentazioni religiose, è la fantasia. Nel mito la fantasia connetterebbe i vissuti della realtà. (Ma essa non fa altro che connetterli ? e la peculiarità della fantasia mitica non consiste piuttosto nel fatto che essa li trasforma in modo peculiare e introduce in essi la trama del tutto nuova del « miracoloso » ?) Nella religione essa creerebbe, in ultima analisi, dal contenuto di questi vissuti le loro rappresentazioni (immaginarie o valide ?) sul fondamento e sul fine della realtà e dell’esistenza umana. 1. È per questo che segue, innanzitutto, una grande ricerca sull’essenza e sulla prestazione della fantasia in generale. Con grossa enfasi viene qui sottolineato che « nessuna fantasia del mondo » potrebbe « produrre qualcosa di assolutamente nuovo, [...] ma sempre soltanto ripetere secondo un ordine modificato ciò che una volta è stato vissuto ». 7 Nell’ambito dell’arte, come in quello del mito e dell’incipiente religione, la fantasia diverrebbe attiva soprattutto in due modi : a) mediante empatia (registrazione conforme a sentimento) o appercezione vivificante, attraverso cui l’uomo proietta il proprio sé nell’oggetto, in modo tale che si sente una medesima cosa con questo ; in modo tale, dunque, che egli non solo rende l’oggetto qualcosa di altro animandolo, ma diviene anche in se stesso quell’oggetto. Questo principio dominerebbe la vita psichica in tutte le sue configurazioni e trasformazioni : animerebbe le creazioni dell’arte, emergerebbe anche nello sviluppo del mito. Troverebbe non minore conferma nelle religioni stesse, che portano ad espressione le loro idee in simboli ricchi di fantasia, i quali sorgono con l’aiuto di mito e poesia. In tutti questi ambiti, il principio dell’appercezione vivificante, « anche ammesso che non coincida con la capacità creatrice dello spirito », sarebbe tuttavia così intimamente cresciuto insieme a questa che i due non potrebbero essere separati. 8 b) Il secondo principio sarebbe quello della potenza dell’illusione, che intensifica il  



























7

  W. Wundt, Mythus und Religion, i, Leipzig 1905, p. 9.   L’intero punto a) è una parafrasi quasi letterale di ivi, pp. 62-63.

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sentimento. In quanto la fantasia, nell’intuizione di un oggetto, aggiungerebbe ai fattori oggettivi i suoi fattori soggettivi (vedendo questi in quello), essa intensificherebbe (illusoriamente) il valore di sentimento dell’oggetto, e l’uno crescerebbe insieme all’altro. Questo principio si presenterebbe a tutti i livelli : nella potenza dell’illusione normale o di quella patologica, così come nella fantasia creatrice dell’artista o in quella ricettiva di chi sprofondi nel godimento estetico di oggetti di natura o d’arte. Si rivelerebbe, infine, nel modo più potente là, dove quei sentimenti illusori racchiudono in sé la somma beatitudine, così come il più spaventoso tormento di cui il cuore umano sia capace : nel mito e nella religione. 2. In questi ragionamenti sorprende soprattutto l’ultima cosa in b), per cui sarebbe propriamente compito della psicologia dei popoli osservare la « falsa dialettica » dello spirito umano e sciogliere l’illusione, secondo cui nell’estetica e nello sviluppo religioso tale dialettica pone nelle cose in fondo soltanto se « stessi », per poi godere esteticamente, temere miticamente e infine persino adorare religiosamente questo riflesso di sé e dunque propriamente sempre e soltanto se stessi. Il livello sommo di sviluppo, la stessa religione, sarebbe in pari tempo il culmine di questa « illusione religiosa ». Non si può assumere che questa sia l’opinione di Wundt. Nella sua metafisica, nella sua dottrina delle idee, in cui egli si avvicina in modo tanto sorprendente e significativo al filosofema del precedente idealismo tedesco, c le « idee trascendenti della religione » valgono per lui come « indimostrabili », ma senz’altro con pretesa di validità oggettiva. Vi è qui una discrepanza che, ci sembra, dipende strettamente dal suo principio della « sintesi creatrice e dell’eterogonia dei fini » (vedi sotto) e che porta con sé, in modo fastidioso, un’oscillazione insicura tra il punto di vista del « come se » e quello di una seria validità oggettiva. 3. Ma anche il punto di partenza in a) ci sembra attaccabile e dogmatico. Che « la fonte ultima » sia « l’attività della fantasia » è detto in modo puramente dogmatico, senza che prima sia stata condotta un’induzione in proposito. Questa proposizione, inoltre, contraddice quanto esposto circa l’essenza della fantasia stessa. Poiché quest’ultima non dovrebbe essere creatrice, ma dovrebbe sempre elaborare soltanto qualcosa di dato, allora non può affatto, in generale, essere l’autentica fonte, ma presuppone delle fonti da cui assume il suo materiale. d Qui sarebbe stato necessario un importantissimo lavoro di analisi psicologica sui complessi di rappresentazioni mitiche e religiose, per mostrare su queste le reali fonti, per distinguerle e per mostrare la loro azione combinata ; e questo lavoro, in quanto accesso ad un’indagine sull’essenza dell’arte, del mito  









































c   Wundt riprende fin nei termini le espressioni della dottrina delle idee kantiana, e in lui tali termini non sfociano nell’« illusione dialettica ». Da questo punto di vista, Wundt incontra Fries, in particolare nella validità delle idee senza « dimostrazione ». Cfr. W. Wundt, Ethik, Vorwort, Absatz 4 : « Alcuni lettori saranno sorpresi... ». d   Quanto spesso ciò accada, lo mostra l’esempio di Wundt (per altro già utilizzato da Fries) della fantasia spaziale. Grazie alla nostra fantasia possiamo intuire la proiezione di una piramide su un piano, sia come una figura piana, sia anche, se vogliamo, in modo plastico ; e questo, di nuovo, possiamo farlo ancora, arbitrariamente, in due modi : possiamo cioè intuirla facendo emergere un angolo dalla superficie in direzione nostra, oppure facendolo sporgere all’indietro, dentro la superficie. Qui, con una nostra azione, introduciamo nell’intuizione oggettiva, che mostra soltanto un’immagine bidimensionale, qualcosa, ossia la dimensione della profondità ; e lo facciamo grazie alla nostra fantasia. Ma questo agire arbitrario della fantasia non è affatto la fonte della rappresentazione della dimensione di profondità. La fantasia, anche qui, non potrebbe nulla se in generale non avessimo già la facoltà di un’intuizione tridimensionale dello spazio. Questa è la fonte.  



















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e della religione, ci sembra più importante della caratterizzazione dell’attività stessa della fantasia. Ora, la proposizione : « mediante cui l’uomo proietta il proprio sé nell’oggetto » tenta evidentemente di correggere, a cose fatte, l’errore. Secondo tale proposizione la « fonte » dovrebbe essere doppia : innanzitutto la realtà esterna data, e in secondo luogo il « sé » che viene empatito all’interno di questa. Ma che cosa metto di me stesso nella rosa che conosco come « bella » ? e perché lo faccio ? Che cosa mette di se stesso il Batak nell’intuizione di un vulcano fumante, quando ne fugge con timore e orrore, e contemporaneamente lo venera come « sombaon » 9 ? Certamente egli lo interpreta – non in concetti chiari, ma in un sentimento confuso – in qualche modo in analogia con se stesso, per esempio come vivente ; ma non è facendo soltanto questo che lo teme, ma introducendo interpretativamente in esso qualcosa che oltrepassa ogni analogia con il suo « sé » e con ogni altra cosa nota. Non si tratta di empatire il sé, ma di sentire in esso qualcosa che è indicibilmente più del sé (un anyad eva). Inoltre, la reale empatia del sé non si limita agli ambiti che attribuiamo alla fantasia. Se riconosciamo certi corpi che si muovono intorno a noi come animati e come persone, secondo Wundt lo facciamo attraverso lo stesso mezzo dell’empatia. Secondo lui, uno spirito o una coscienza al di fuori di noi non ci sono mai dati direttamente e in intuizione immediata : ci arrivo – ritiene – sempre soltanto cogliendo corpi umani e processi corporei in analogia con me e con la mia interiorità psichica. Dovremmo chiamare anche questa attività « fantasia » ? Allora la fantasia sarebbe qui quasi un organo di conoscenza ! Ma non è mera « fantasia » che intorno a me vi siano persone : è la verità. Perché dovrebbe essere altrimenti per l’« appercezione mitica » ? Dovrebbero esser dati i criteri secondo cui è possibile decidere quando, dove e in che misura io posso a buon diritto « empatire ». Altrimenti non è possibile delimitare l’ambito di ciò che è meramente conforme a fantasia, né indicare dove io abbia a che fare con un « rappresentare meramente mitico » e dove con una fondata interpretazione e con una conoscenza per analogia o, magari, anche con una conoscenza secondo fondamenti interni a priori. e  

































































C. La fantasia creatrice di miti La « fantasia creatrice di miti » dovrebbe essere per la creazione del mito in particolare, ciò che in generale la fantasia è per l’arte e per il mito insieme. Tale fantasia non sarebbe diversa da quella estetica (o da ogni altra) per essenza, ma soltanto per grado. 1. La sua essenza sarebbe l’appercezione vivificante e personificante, mediante la quale gli oggetti appaiono come esseri animati, personali (animatismo). Essa si attuerebbe sul fondamento dell’« appercezione trascendentale », quella proprietà fondamentale di ogni soggetto cosciente, che consisterebbe nell’unità dei suoi stati. Questa verrebbe trasposta nell’oggetto e con ciò l’oggetto verrebbe animato. Questo processo non si  







e   Il che avrebbe un riferimento immediato, per esempio, al giudizio estetico. Questo si presenta, in chiunque lo compia in modo naturale, con la pretesa non già di introdurre nella cosa un valore mediante la fantasia, ma di riconoscerne uno che tale cosa possiede in modo altrettanto oggettivo delle sue qualità intuitivo-sensibili. La rosa è bella anche se nessuno la guarda ; e bisognerebbe addurre motivi del perché dovremmo diffidare di questo giudizio e imputarlo all’osservazione soggettiva.  

9   Sull’adorazione degli spiriti detti « sombaon » da parte dei Batak, popolazione dell’isola di Sumatra, cfr. J. Warneck, Die Religion der Batak. Ein Paradigma für die animistischen Religionen des indischens Archipels, Göttingen 1909.  



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realizzerebbe sul fondamento di un bisogno di causalità, come una primitiva teoria di certi processi esterni, ma in modo immediato. Mediante ulteriori associazioni di tali semplicissime interpretazioni ed empatie si otterrebbe, in misura sempre crescente, l’intricata struttura del mito. Così nascerebbe, per esempio, la credenza nelle anime, innanzitutto nella forma dell’assunzione dell’« anima-respiro », in quanto il respiro degli uomini stesso verrebbe immediatamente appercepito come « animato ». Il respiro che abbandona il morente sarebbe visto come nuvoletta bianca e questa verrebbe « animata ». f Secondo leggi della somiglianza, a questa appercezione dell’anima-respiro g si associerebbe immediatamente la rappresentazione, simile, del vento, delle nuvole. In quanto le nuvole stesse, a loro volta, sarebbero appercepite come animate, si associerebbe a queste anche la rappresentazione di un uccello in volo. L’immagine dell’uccello si associerebbe poi a quella di una nave che si allontana in fretta. Così nascerebbero i miti della civetta come uccello dei morti, della nave delle anime e, infine, i molteplici collegamenti con i miti del sole che la credenza nelle anime attiva. 2. Dobbiamo obiettare innanzitutto : animare e personificare non sono in sé nulla di « mitologico ». Quando un bambino rimprovera la sedia che ha urtato, quando un « primitivo » picchia una pietra che gli è caduta sul piede, questo non è ancora mitologia. Ed è certissimo che di qui soltanto non derivano mai « miti », né in generale prodotti di fantasia coerenti e duraturi. Piuttosto l’ambito della rappresentazione specificamente mitica ha in più, rispetto all’« empatia » estetica e ad ogni altra empatia, qualcosa di totalmente specifico : senza questo non si realizzerebbe nulla di ciò che possiamo annoverare nell’ambito particolare del mitico, ossia il destarsi di sentimenti del tutto determinati, che in esso vengono suscitati e che devono essere chiaramente distinti da altri sentimenti. La confusione tra un oggetto animato e uno inanimato non ha in sé nulla di « mitico », se ad essa non si collegano i sentimenti peculiari dell’« orrore ». Dove compaiono questi ultimi, spesso può esserci anche l’assunzione di un esser animato. Ma tale assunzione può senz’altro anche mancare e non ha nulla a che fare con il mitico. Io ritengo il mio prossimo o un animale esseri animati : ma questo non mi riporta ad una sfera « mitica ». Allo stesso modo, l’idea che posso produrre degli effetti mediante un’azione rappresentativa analogica non apparterrebbe alla mitologia, ma semplicemente alla rubrica degli errori umani in generale, se non fosse appunto « magia », cioè se ad essa non si connettesse l’idea di una potenza di tipo del tutto specifico, la cui proprietà non può esser descritta concettualmente, ma che può esser distinta da altri tipi di operare e caratterizzata di per sé mediante i sentimenti peculiari del « soprannaturale », i quali hanno un’evidente affinità con quelli dell’« orrore ». La comprensione della religione, e anche della pre-religione, deve cominciare con l’analisi dei sentimenti. Questa esigenza di Schleiermacher si mantiene anche nel tentativo di chiarire gli inizi storici e il divenire della religione, e si impone sempre di nuovo in modo irresistibile. Rispetto ai sentimenti, l’« appercezione personificante » è del tutto secondaria.  





























































D. Le formazioni mitiche La seconda parte del volume secondo 10 ci introduce nel mondo fantastico e variopinto degli stadi mitici preliminari ad un’autentica religione : nel mondo della credenza nelle  

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  Forse i nostri avi morivano preferibilmente in tempo di gelo ?   A causa della nuvoletta.  

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  W. Wundt, Mythus und Religion, ii, Leipzig 1906.

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anime e della primitiva credenza negli spiriti, con i loro fenomeni concomitanti – l’incipiente credenza nella magia e il feticismo, la venerazione di animali e il culto degli antenati, il tabù, la purificazione sacrale e l’idea dell’espiazione –, con l’origine del sacrificio e dell’ascesi e con il mondo delle rappresentazioni dei demoni, che si innalza al di sopra di tutto ciò. Merita la più grande gratitudine il tentativo di mettere dei segnavia in questo intrico cresciuto selvaggiamente, di trovare e congiungere ciò che è affine tra migliaia di occultamenti, di sciogliere ciò che è intricato nei suoi componenti semplici, di trovare ciò che è tipico e chiarire con questo ciò che non è chiaro. E questo accade in un modo tanto ampio quanto raffinato, che è in realtà più la prestazione di una sensibilità fine e geniale e di un talento di scopritore che non il risultato di un particolare « metodo psicologico-popolare ». Il tutto non vuole essere storia o raccolta di materiale, ma « psicologia dei fenomeni » esplicativa. Uno dei meriti principali dell’opera è però, anche qui, il fatto di esser così riccamente satura di materiale, da diventare senz’altro anche storia dell’evoluzione : anche per quest’ultima, infatti, non conta l’accumulo di quantità di materiale, ma un’esposizione completa e correttamente ordinata di ciò che è tipico, insieme al tentativo di una comprensione interna, di una spiegazione dei fenomeni. 1. Il punto di partenza primo e semplice dell’intero processo mitico, come si è detto, dovrebbe essere il sorgere delle rappresentazioni dell’anima, che avverrebbe in due modi : innanzitutto come rappresentazione dell’« anima del corpo ». a) Quest’ultima inerirebbe innanzitutto al corpo come ad un tutto in generale. L’idea originaria sarebbe qui quella di un’anima che, anche dopo la morte, sopravvive in modo latente nel corpo. Il morto sarebbe colto dall’appercezione mitologica come « animato » : esso sarebbe, cioè, ancora in grado di provare, seppur in misura minore, dei sentimenti, sarebbe in grado di ascoltare, di vedere, di avere dei bisogni. Di qui sorgono immediatamente le forme più disparate di cura dei morti, che innanzitutto si riferiscono al cadavere e che solo in questo modo risultano spiegate nei loro sforzi per la conservazione e la sistemazione della salma. b) Di qui si dipartono le rappresentazioni per cui la vita, la capacità corporea e psichica, inerirebbe a specifiche parti del corpo (« anime degli organi », « sede dell’anima »). Dalla pratica di appropriarsi dell’« anima » stessa mediante questi portatori e di operare con essa nascerebbero la primitiva medicina popolare e magica, l’applicazione di sangue e saliva, la primitiva caccia alle reliquie, l’antropofagia. c) Questa « anima del corpo » ci sembra un concetto introdotto in modo arbitrario. È evidente che le rappresentazioni mitiche qui menzionate non sono di natura animistica, ma manistica ; inoltre tanto l’animismo quanto il manismo eludono il problema principale. Il primitivo non guarda ad un’anima del corpo, ma all’uomo stesso e alle sue capacità ; in particolare al morto nella sua specificità, che è per lui misteriosa e terrificante : è a questo che indirizza i suoi rituali. E il fatto che egli arrivi a questo presuppone già, a sua volta, un sentimento peculiare e grezzo del misterioso, che viene trascurato da animisti e manisti. Egli si appropria del morto o di parti di esso, le mangia o le fa proprie in qualche modo, non così come mangia o si appropria dei suoi molluschi, pesci o erbe, ma con tutti i sentimenti concomitanti del magico-orribile, dello spaesantesoprannaturale. La mistica non è nata gradualmente da un’azione intesa originariamente solo come medicina o come appropriazione naturale, ma per il fatto che sulla forza vitale e sulle ossa dei morti si fissava un « timore », il quale implica in pari tempo quel momento del « potente » che abbiamo illustrato nell’opera principale. Per questo  



















































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hanno avuto inizio tutte queste manipolazioni. Ma che cos’è questo timore stesso, questo sentimento dello spaesante-soprannaturale e insieme demonico-potente ? Inoltre, come accade che tale timore si fissi proprio su queste cose strane e si avviluppi in queste rappresentazioni, che ne sia stimolato sempre di nuovo e venga spinto da esse alle attività più sorprendenti e disparate ? Qui vi sono gli autentici problemi la cui chiave abbiamo indicato nel punto 2 del capitolo xvii di Das Heilige. 2. Del tutto diversa dall’anima del corpo sarebbe allora innanzitutto la « psiche », un’essenza che sta di contro al corpo ed è diversa da questo. Essa nascerebbe come « anima-alito » mediante appercezione animante del respiro che nel morto abbandona il corpo, e come « anima-ombra » – ombra (Schatten) = immagine-copia confusa (schattenhaft) della persona – prevalentemente attraverso i fenomeni e le visioni nel sogno. Dalla connessione tra le due nascerebbe la rappresentazione degli « spiriti ». a) Innanzitutto l’anima-alito : essa condurrebbe, mediante ogni sorta di associazioni, all’idea dell’incorporazione dell’anima e della trasmigrazione nei discendenti ; d’altra parte condurrebbe, a motivo della paura, all’esorcismo, al cacciarla via, al renderla innocua, al chiuderla nel cadavere, ma anche alla trasfusione dell’anima tra viventi (parallelo : patto di sangue). Il verme che vien fuori strisciando dal corpo in decomposizione sarebbe còlto come trasformazione dell’anima del corpo. Per simiglianza con esso, il serpente e il pesce, e poi il topo, il ratto, il rospo, la lucertola, la donnola diverrebbero associativamente « animali dell’anima » : l’anima-alito, della stessa specie dell’aria, si associerebbe dei volatili. In questo modo il mondo animale rientrerebbe nell’ambito mitico e renderebbe possibile il successivo culto degli animali. Nella sepoltura o nella cremazione si vorrebbe innanzitutto evitare l’essenza temuta. Di qui, per « trasformazione di motivi », sorgerebbe l’idea di una liberazione e redenzione della psiche e la cremazione diverrebbe un dovere sacro ( !) : il che eleverebbe, al contempo, la rappresentazione della psiche in modo eterogonico. Con la rappresentazione dell’anima sarebbe dato così il primo inizio per tutte le rappresentazioni degli esseri incorporei del mito, mediante cui diverrebbero possibili anche le successive rappresentazioni di dèi. Per inversione, l’animale diverrebbe poi il portatore dell’anima (concepimento degli eroi da esseri animali divini e portatori d’anima, per rendere in forma rappresentativa la loro purezza e divinità). Così questa rappresentazione si arricchirebbe fino alle figure somme e più profonde della leggenda. In questa elevazione delle rappresentazioni agirebbe però, al di là della mera associazione, il principio dell’eterogonia epigenetica :  









































Quel che sotto il punto di vista dello sviluppo psicologico appare come una catena continua di associazioni mitologiche e di appercezioni, si pone, se cogliamo la serie dei motivi, come una esemplificazione progressiva di quel principio di eterogonia dei fini, che anche in questo ambito porta ad espressione la natura creatrice dello sviluppo spirituale. h 11

b) Poi l’anima-ombra. L’immagine del sogno e poi le apparizioni, gli stati tossici, le visioni in stato estatico producono la loro rappresentazione come un riflesso aereo e leggero del corpo. Quest’ultima rimuoverebbe gradualmente le rappresentazioni tanto dell’anima del corpo, quanto dell’anima-alito, e quindi anche la rappresentazione dell’anima tra le immagini degli animali dell’anima. Essa diverrebbe ora sempre più h

  Dunque la fantasia è effettivamente « creatrice », visto che è proprio lei che produce l’eterogonia.  

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  W. Wundt, Mythus und Religion, ii, p. 80.



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la contro-immagine esatta del vivente e delle sue manifestazioni, e con ciò diverrebbe una personalità individuale, cosa a cui contribuirebbe soprattutto la visione in sogno di coloro che sono appena morti. Essa smetterebbe di essere un fantasma indeterminato. Anche i vivi appaiono in sogno, persino il proprio io appare a se stesso. i Così nascerebbero le rappresentazioni fantastiche di doppi spettrali (Doppelgänger), i viaggi e le visioni astrali delle anime, la reduplicazione della vista l e le forme di possessione estatica m e di profezia, in cui il soggetto crede di sentire l’ingresso di un altro in sé, che parla e agisce da sé, e contemporaneamnte crede di vederlo nelle visioni in sogno o in stato di veglia. Le forme inferiori a queste sarebbero i culti orgiastici : n un movimento che riproduce azioni rappresentate e ritmicamente ripetute, che – per lo più in connessione con mezzi eccitanti – induce lo stato allucinatorio, e i cui tecnici sono « guaritori » e « sciamani ». o La visione e l’estasi, per parte loro, intervengono in modo significativo nello sviluppo dell’idea di anima, poiché nella visione scompaiono le sensazioni tattili e comuni di cui nel sogno si ha ancora esperienza. p Il visionario si sentirebbe libero da peso e corporeità, e così nell’idea di anima si completerebbe la liberazione dal vincolo corporeo : ora l’« anima spirituale » prende il predominio e non è più lontano il tempo in cui si dichiara il corpo come carcere molesto che grava l’anima e la tiene prigioniera. In pari tempo sorgerebbe la distinzione di alcune classi di uomini privilegiati, la quale non dipende da una posizione superiore nella comunità : quella del veggente, che possiede il dono di trattare con gli spiriti, q e quella del mago, in cui alla facoltà di vedere e di prevedere il futuro si associa quella ancora più importante di determinarlo. Su un piano superiore, poi, vi è il taumaturgo, che esercita magie con l’aiuto diretto della divinità. Mediante il rapimento nella lontananza, che accompagna la visione, quest’ultima diventerebbe anche una fonte importante delle rappresentazioni relative alla vita dopo la morte. 3. Anche questa anima-ombra suscita critiche. Essa dovrebbe esser nata dall’immagine onirica. Ma allora non ha più nulla a che fare con la « appercezione animante ». E anche nell’immagine onirica sicuramente non appare un’« anima », ma l’uomo o l’animale stesso ; i quali non appaiono, né a noi, né al selvaggio, come « ombre », come esseri svolazzanti e informi, ma in modo molto concreto. Come ci si rappresenta qui il selvaggio ? Non distingue, forse, tra sogni e veglia tanto bene quanto noi, e non dice, proprio come noi, in innumerevoli casi : « l’ho soltanto sognato » ? Da bambini si prendono anche i riflessi e il cielo nello stagno per qualcosa di reale. Ma già da bambini poi lo si capisce e non lo si fa più. Anzi, laddove le immagini oniriche vengono prese sul serio, è sempre già presupposta una rappresentazione di stati e forme d’esistenza « totalmente altri », e il mondo onirico diviene « mitologico » solo se e perché è parte di un « altro mondo ».  



















































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  Ma che cosa ha a che fare questo fatto elementare con l’« appercezione animante » !   Ma questa si basa su una disposizione specifica, non su fantasie di anime. m   Ma questo fenomeno psicopatico è connesso con disposizioni alla schizofrenia, che non sono fantasticate, ma fattuali. n   Come si spiega l’elemento « orgiastico » della cosa ? o   Sono completamente trascurati i fenomeni del « medium » e delle capacità medianiche, che poggiano su disposizioni fattuali dell’anima e che oggi non sono più contestabili. p   Ma come si spiegano i sentimenti, del tutto caratteristici, di allargamento e di infinità dello yogin ? Hanno un contenuto positivo del tutto determinato, che non si spiega per mera anestesia. q   Il « veggente » come tale non tratta con gli spiriti, ma vede ciò che è lontano, segreto, interno, futuro, passato. La sua capacità di visione poggia su una disposizione della sua natura, che è un fatto e non un prodotto di fantasia, e la sua figura è la persona numinosa, circonfusa da tutti i sentimenti di rispetto numinoso, anche laddove le rappresentazioni della sfera numinosa siano ancora molto poco sviluppate.  





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Anche qui, di nuovo, non è certo l’« idea di anima » come tale il punto veramente interessante, che rende quest’ultima significativa sotto il profilo storico-religioso, ma il peculiare sentimento di estraneità, di natura del tutto specifica, che ovunque l’accompagna : non soltanto il sentimento dell’inusuale e del terrificante in generale, ma quello del tutto specifico per cui non abbiamo altro nome che « soprannaturale » ; quel sentimento che possiamo e dobbiamo cercare ed osservare nella nostra propria interiorità. r Solo dove questo è presente divengono possibili storie di spiriti, di spettri e simili, nella cui sfera si trovano innanzitutto tutte le apparizioni oniriche : solo così esse divengono interessanti, possono fissarsi, configurarsi in tipi e quindi divenire saldo patrimonio della tradizione. Senza, non nascerebbero affatto. E se nascessero, svanirebbero così come sono venute. Dal sentimento e dalla sua qualità specifica dipende molto di più che da tutte le rappresentazioni fantastiche che esso produce o fissa. In realtà per « psiche » anche il primitivo, esattamente come noi, non intende innanzitutto un’« anima » come qualcosa di diverso dall’uomo, ma intende, in modo del tutto ingenuo, proprio questo stesso uomo, soltanto visto dall’interno. E questo intendere non è un’espressione della « fantasia », ma del semplice sentimento di sé, che coglie qualcosa di corretto. Ora, l’uomo si coglie con i suoi sensi esterni in questa forma corporea e con i suoi sensi interni in un altro modo ; cosa questa, che indubbiamente fa anche già al livello più grezzo. Egli sa cos’è il dolore, il piacere, il sentimento, il pensiero, il ricordo, l’appetito, la volontà ; a tutto ciò dà nomi propri e distingue lo « psichico » proprio come noi, anche se non lo mette consapevolmente in contrasto con il corporeo. Questo è il presupposto fondamentale per lo stesso Wundt ! Se l’appercezione mitica deve consistere appunto nel fatto che il primitivo proietta nelle cose esterne « sé » stesso, la sua propria interiorità, ossia la vita, la volontà e persino la sua « appercezione trascendentale », allora deve pur saperne qualcosa ! E il problema interessante qui non è, di nuovo, come nascano le varie rappresentazioni di « ombra », di « schema » e simili, che vi si riallacciano, ma indagare come questo sentimento di se stesso, secondo il suo versante interno, spinga gradualmente all’idea che, appunto, questa interiorità siamo « noi », e lo siamo in misura maggiore di quanto lo sia la nostra corporeità ; secondo, come si sviluppi l’opinione per cui se il corpo si disgrega, siamo appunto « noi » che in qualche modo perduriamo ; terzo, perché proprio intorno a questa interiorità – già nella sua connessione con il corpo e in misura maggiore dopo la separazione da questo – si avvolga un’aura di magia, di spettralità, di « soprannaturalità ». Per vedere queste cose, però, abbiamo bisogno di mezzi diversi da quelli della « psicologia dei popoli ». E se non abbiamo il mezzo di comprendere tutto questo mediante un vissuto proprio, allora la raccolta di fatti etnologici non ci serve a niente, perché questi sono muti se non possiamo portarli alla parola con la nostra immedesimazione. A chi volesse gettare questa chiave, rimarrebbe soltanto un tirare ad indovinare seguendo il proprio arbitrio o un’interpretazione forzata. 4. Ancora una parola sulla nascita delle « rappresentazioni mitiche » inferiori. Nei confronti tanto degli animisti quanto dei manisti e dei loro richiami alla fantasia, si deve anche qui parlare in favore di un realismo che non può esser indebolito dalla spocchia verso l’« occultismo ». Invece di richiamarsi a rappresentazioni collettive, difficilmente controllabili, di un’« epoca che pensava in modo magico », bisognerà considerare con  





















































































r   Sono qui, e non nelle rappresentazioni animistiche, i presupposti per le esperienze di anima e spirito quali esseri miracolosi, che dobbiano ancora illustrare in modo particolare nel punto 10 di questo saggio.

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ogni serietà fenomeni che proprio ora, nella nostra epoca che pensa in modo del tutto non magico, cominciano ad esser presi sul serio e sottoposti ad un esame scientifico. Il fantasticare di anime o di una potenza non ci porta sulla via di certi fatti psichici come il dono mantico, la « seconda vista », la chiaroveggenza o la visione astrale, la trasmissione del pensiero, la capacità di guarigione per « suggestione » (di nuovo un comodo motto e una parola d’ordine per un problema irrisolto), il sogno premonitore o quello di guarigione, i movimenti del tavolino o della planchette nelle « sedute » spiritiche, il presentimento o i sentimenti e le azioni a distanza, la visione, l’estasi, l’alienazione, lo sdoppiamento della coscienza e gli effetti del subconscio o dell’inconscio. La « magia » del rabdomante non è il risultato di una fantasia animistica o manistica, ma è divenuto un fatto ammesso. Se le suddette cose non fossero altro che curiosi talenti per produrre « immaginazioni » in sé e in altri, allora queste non sarebbero, appunto, immaginazioni, ma talenti, sarebbero predisposizioni psichiche del tutto reali, che offre la natura e che non vengono attribuite alla credenza nell’anima o nel mana. Che esse suscitino e possano attirarsi un sentimento numinoso, lo si capisce facilmente ; per questo, non perché sono prodotti di una fantasia creatrice di miti, hanno un ruolo nella storia della religione. Ma come tale la rappresentazione di una vita dopo la morte, quale Wundt la sviluppa, sarebbe del tutto indifferente dal punto di vista tanto mitologico, quanto religioso. Qui la contrapposizione propriamente religiosa, come anche già quella mitica, non è innanzitutto tra al di qua e al di là della morte, ma tra al di qua e al di là di una linea di demarcazione di un modo di essere « totalmente altro », tra essere usuale e essere meraviglioso, tra oscurità e luce, tra bāsār e ruach, tra amr≥ita e satya, tra phthora e aphtarsia, tra il cattivo essere dell’asat e il vero essere del sat, tra la « condizione di morte » del modo d’essere usuale e un modo di essere superiore che è la « vita » : sono tutte identiche contrapposizioni di qualità, che sono poste in profondità nel sentimento numinoso e danno vita ai concetti speculativi di essere mutevole e immutabile, di sambhūti e asambhava, di genesis e ontos on, di apeiron e peras, finitum e infinitum, natura ed essere soprannaturale, relativo e assoluto. Prendiamo ora l’antica parola indiana :  





































asato mā sad gamaya tamaso mā jyotir gamaya mr≥ityor mā amr≥itam gamaya Dal non vero portami al vero, Dall’oscurità portami alla luce, Dallo stato di morte portami all’amr≥ita.

Questa parola originaria di un’antica preghiera mistica non brama l’ora della morte per poi condurre una « vita dopo la morte », ma intende un cambiamento qualitativo nell’essere stesso. Non pensa innanzitutto e necessariamente all’attraversamento del punto finale della vita empirica, ma ad un cambiamento tra due modi di essere. Si potrebbe proseguire questa antica parola indiana con i termini : da bāsār portami a ruach. Questo passaggio ad un modo di essere superiore – simbolizzato, già al livello magiconuminoso, dalle immagini di una rinascita o di una seconda nascita in un’esistenza superiore – interviene senza dubbio già al di qua della morte. Che poi la morte stessa divenga significativa per la definitiva deposizione di impedimenti, che essa stessa divenga il definitivo passaggio « alla vita », è un’intuizione del tutto specifica e nuova che si trova  









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proprio in contrapposizione a qualsivoglia desiderio « naturale » di un « prolungamento della vita ». In effetti compare qui una completa « trasformazione di motivo », ma con questo termine fin troppo comodo si nasconde, non si risolve il problema stesso. È assai dubbio, come è noto, che i profeti di Israele possedessero già l’idea dell’« immortalità dell’anima », e probabilmente bisogna negarlo. Che però la « vita » – nella ruach – fosse già il loro ideale lo dovrà mostrare un saggio nel volume II. 12 Wundt prosegue. 5. L’anima sarebbe sempre innanzitutto quella di un individuo determinato. Se questa relazione individuale si perde, allora ne deriverà lo « spirito » e il regno di spiriti intederminati e non distinguibili tra loro. Se lo spirito viene colto in relazione all’uomo e alla sua condizione (e perché poi ?) – una relazione che può essere di amicizia o di inimicizia (quest’ultima sarebbe probabilmente la più antica e all’inizio la sola) –, allora si ottiene il demone, al quale danno forma sogni di volti grotteschi e incubi. Alla credenza nelle anime e a quella negli spiriti si connetterebbe l’incipiente culto, con i rispettivi livelli di sviluppo nei due casi ; i quali però non sarebbero già livelli della religione e del culto religioso stesso, infatti  



























che l’anima venga fuori dal corpo del morto strisciando come un verme, che essa svolazzi come un uccello o che vada girando da qualche parte come un’ombra, queste ed altre rappresentazioni hanno tanto poco in comune con ciò che oggi chiamiamo religione, quanto poco le varie usanze mediante cui il primitivo scaccia con forza dalla sua vicinanza gli spiriti dei morti sono legate, se non per il legame lasco dei sentimenti universalmente umani della paura e della speranza, al culto delle religioni culturali. 13

6. I livelli del punto 5. sono : 1. L’animismo primitivo, che serba la rappresentazione dell’anima solo nella forma originaria dell’anima del corpo e dell’anima-ombra e che nel culto mira essenzialmente soltanto alla difesa da danneggiamenti da parte delle anime dei trapassati o ad opera di incantesimi dei vivi. Esso includerebbe la credenza nella magia, perché vi sarebbero delle capacità psichiche che vengono attribuite al mago. 2. L’animalismo. Qui, nella credenza nell’anima, vengono in primo piano gli animali in quanto omogenei o superiori all’uomo. Il loro rancore o la loro protezione potrebbero essere portatori di felicità o sventura. Di qui si svilupperebbe il culto di determinati animali, che vengono venerati come spiriti protettori, in quanto, in un’organizzazione sociale che nel frattempo è divenuta superiore, determinate associazioni di una tribù o di un popolo considerano particolari animali come spiriti dei loro antenati (totem). Da questo culto di antenati animali emergerebbe poi un culto di antenati umani, il culto dei mani, l’autentico culto degli antenati, che trapasserebbe nel culto degli eroi. 3. Ma con l’incremento degli scambi, della vita e della molteplicità di occupazioni, la rappresentazione dello spirito protettore, che nel culto dei mani è strettamente connessa alla coscienza di tribù, si rivolgerebbe anche ad altri ambiti della vita. Si formano così le rappresentazioni di spiriti protettori che, legati a determinati luoghi, si relazionano alla comunità delle città e al paesaggio benedicendo o maledicendo, e che poi si estendono all’agricoltura, all’artigianato e agli affari : demoni, dunque, che gradualmente perdono il collegamento con le originarie rappresentazioni dell’anima, esseri spirituali che non hanno più alcuna rela 



12   Otto si riferisce a SU, che considera il secondo volume di appendici a DH, e in particolare al saggio Profetische Gotteserfahrung, SU, cap. vi, pp. 61-78. 13   W. Wundt, Mythus und Religion, ii, p. 137.

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zione con anime individuali, le cui proprietà sono però pensate senz’altro come concordanti con quelle di queste ultime, e che possono essere demoni protettori o vendicatori. Il demone, infatti, dopo lo svincolamento dall’anima individuale, porterebbe ancora in sé i tratti psicologici essenziali dell’« anima ». Avrebbe un ruolo nei miti di natura, in qualità di demone dell’acqua, del vento, della vegetazione e del luogo. Su questo bisogna osservare quanto segue. Wundt unifica qui, in uno schema fin troppo semplice, figure dell’appercezione numinosa che hanno radici molto diverse. Per gli eccitatori della fantasia numinosa, che vogliamo trattare nel terzo capitolo, 14 per i fenomeni di natura stranianti e « spettrali », che possono essere i punti di partenza di sviluppi significativi che non hanno nulla a che fare con il culto dell’anima, non vi è qui alcun posto. Non scaturisce dall’animismo l’idea di una potenza vitale nella vegetazione sentita come numinosa, che nella semina dovrebbe esser intensificata mediante influsso magico e partecipazione simpatetica alla sua vita e alla sua resurrezione. Così come non ne scaturiscono le corrispondenti rappresentazioni relative alla vita e alla forza del sole e di altri grandi processi naturali, che si cerca di conservare e di assicurare di nuovo ogni anno nei culti e negli incantesimi solari, ecc. ; o la curiosa idea del « carisma di clan », come Weber ha battezzato questa rappresentazione, ossia l’idea di una potenza del tutto specifica, integralmente e sin dal principio misterioso-numinosa, di quella « vita » che si presenta e si rinnova con la sua forza particolare sempre nel contesto di un « clan », di un genus, che si tratti di animali, piante o uomini. Da questa si ricava la cosiddetta « ipostatizzazione dei generi », che talvolta è stata chiamata « l’idea platonica tra i selvaggi » (Gomperz) : di qui deriva, del tutto indipendentemente dal culto dell’anima, degli antentati e dei mani, l’idea de « il bue », « il cavallo », « il coyote », « il corvo », « il falco » e anche « il manu », « lo yama », potenze ipostatizzate della cavallinità, della buità, della falchità, della manità nel senso di una « vita » sentita come unitaria e numinosa nelle unità di tribù e di genere di bue, cavallo, ariano. In quanto anche qui si temporalizza originariamente (di questo parleremo dopo) un « momento di principio », si ottiene l’idea di archi-bue, archi-cavallo, archi-corvo, archi-manu, l’idea di un capostipite o di un archi-capostipite di questi diversi višas, clan, genera, la cui potenza di vita sopravvive nella serie delle generazioni e deve esser coltivata e conservata mediante riti numinosi ; un capostipite che sopravvive egli stesso attraverso le generazioni del clan che si susseguono*. Solo su questa linea si ottiene quel culto dei mani, che può realmente elevarsi a culto degli dèi, e non per « eterogonia », ma per il fatto che un qualcosa, concepito sin dall’inizio come un grandioso principio numinoso di potenza, si eleva per ampliamento di funzioni. Solo così è stato possibile che il falco Horus divenisse il potente dio dell’Alto Egitto, che « toro » sia, ancora nella nostra Bibbia, un nome di Dio, che « il cavallo » si elevasse a principio mistico supremo del mondo, al satya stesso, e che corvi, volpi, lupi della prateria (coyote) divenissero potenti numina portatori di cultura. Gomperz, nel suo Griechische Denker [Leipzig 1896-1902] si spinge troppo oltre quando riduce la visione delle idee di Platone al peculiare pensiero generalizzante che si mostra in queste intuizioni primitive. Ma ciò che è giusto nella sua affermazione è che in Platone, certo ad un livello superiore, vive un momento simile a quello che era già stato presente ad un livello molto più basso. (Bisognerebbe insistere soprattutto sul carattere chiaramente numinoso anche dell’« idea » platonica.)  

























































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  Cfr. Religionskundliche und theologische Aussagen, in GÜ, pp. 58-63.



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Rispetto a Wundt bisognerebbe sottolineare che anche nell’intuizione di un dadhikrā, l’« archi-cavallo » di cui parleremo a p. 89, 15 non si tratta di una produzione che si ottiene « da sé », per mero accumulo di associazioni, ma di una concezione che presuppone già a quel livello, in modo primitivo, quella di Platone. I vipra, che potevano « vedere » un dadhikrā, non erano tipi nella media. Erano kavi, così come lo era Platone. Formazioni che divengono realmente potenti e gravide di conseguenze da un punto di vista « storico-religioso » non sono mai prodotti di un’anonima « psicologia dei popoli ». Sono intuizioni, invenzioni che non presuppongono nulla di meno e una non minore capacità spirituale delle invenzioni di oggi. Il dono dell’invenzione non è un prodotto della « storia », ma è il fondamento della possibilità di questa. C’era l’« uomo », quale essere che scopre e inventa, quale umano dono dell’invenzione. Le invenzioni di utensili e l’uso del fuoco, mediante cui si mise in modo l’intero « processo culturale » della più antica umanità, non erano, quanto a capacità spirituale, minori, ma appunto maggiori dell’invenzione dell’automobile e della teoria della relatività. Ma queste invenzioni sono contemporaneamente scoperte : allo stesso modo resta aperta la domanda se le intuizioni numinose furono soltanto « invenzioni » (di una poderosa capacità di fantasia !) o in queste vi furono anche scoperte. 7. Le magie sarebbero effetti delle anime all’interno o all’esterno del corpo al quale appartengono : effetti di anime del corpo, di anime organiche o di anime-ombra che vagano senza limiti. Così, l’idea dello sguardo malvagio sarebbe soltanto una riproduzione dell’idea per cui nello sguardo l’anima uscirebbe all’esterno ; idea alla quale si riallaccia immediatamente l’altra, per cui tale anima o la volontà di colui al quale appartiene possono produrre effetti esterni. Un simile effetto si indirizza però, a sua volta, all’anima di colui che viene danneggiato. Il miracolo sarebbe allora uno sviluppo superiore della magia, qualcosa che è a disposizione soltanto degli dèi e di uomini particolarmente dotati. s Dalla credenza nell’anima e nella magia si otterrebbe innanzitutto il feticismo, contraddistinto da tre tratti caratteristici : a) l’idea per cui in certi oggetti risiedono esseri del tipo dell’anima con potere magico ; b) l’idea per cui questi possono avere intenzioni benevole o malevole e possono agire di conseguenza ; c) il culto che li dispone ad un’atteggiamento benevolo o che implora la vendetta contro il nemico. 8. Con il fatto che qui si forma un culto comune, tale cioè che non viene più praticato nei confronti di un oggetto pensato come sede dell’anima di un determinato singolo, si profilano superiori sviluppi : innanzitutto verso una credenza in spiriti e demoni, che sarebbe, a sua volta, lo stadio preliminare di formazioni mitologiche di ordine superiore, ossia di rappresentazioni di dèi. Accadrebbe qui la stessa cosa che ovunque accade nell’ambito dello psichico e del suo sviluppo : il precedente porterebbe già le condizioni necessarie del successivo e tuttavia quest’ultimo sarebbe qualcosa di nuovo, che, sen 





















































s   Wundt tratta anche la magia per rappresentazione (Repräsentation) e crede che per questo gli sia necessario il suo animismo. La cosa notevole in tutte queste azioni è però senz’altro che colui che compie tale magia « proietta col pensiero » ingenuamente, e senza riflessione sul modo in cui ciò sia possibile, il destinatario della magia nell’oggetto magico, ve lo relega innanzitutto con la rappresentazione, per poi tormentarlo ; un fatto che al livello superiore ritorna nel feticismo, nel totemismo e nel culto degli dèi. Abbiamo qualcosa di analogo già nel comportamento del bambino, che proietta col pensiero la « zia » o il « nonno » nella sua bambola o nel suo giocattolo di legno e poi lo tratta come ciò che vi ha proiettato : e questo con un’identificazione semplice e immediata, senza che gli sia necessaria alcuna rappresentazione di un’« anima ».  

















15

  Cfr. Steigende und sinkende Numina, in GÜ, pp. 64-116.



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za esser vissuto, non potrebbe mai esser previsto. Idee di Dio innate o una religione innata vi sarebbero tanto poco, quanto poco vi è uno stato originario o un culto che non sia da acquisire. Anche le idee religiose sarebbero qualcosa che è da acquisire, così come debbono essere acquisite le più semplici rappresentazioni di distanze, grandezze e relazioni tra i fenomeni : non mediante una riflessione arbitraria, che potrebbe eventualmente portare anche ad altri risultati, ma sotto la costrizione di una legalità psicologica, alla quale sarebbero sottoposti tanto i prodotti della fantasia mitologica, quanto i più semplici affetti e percezioni sensibili. Al nuovo che viene creato in questo modo apparterrebbe in seguito anche la religione. La quale non sarebbe innata, né sarebbe un’acquisizione che appartiene alle forme originarie dello sviluppo mitologico. Per contro tutte queste forme conterrebbero in loro germogli di essa, e li conterrebbe soprattutto l’animismo primitivo. 9. La determinazione wundtiana del demone tradisce la sua provenienza dalla classificazione e dalla sistematizzazione della teologia e della dogmatica ellenistiche (così come la sua intera costruzione è chiaramente dipendente dalla mitologia specificamente greca e dall’epica). Questa essenza del « demone » accuratamente definita non concorda con le rappresentazioni libere e del tutto fluttuanti che vanno sotto questo nome e sotto quelli che gli corrispondono. « Numen » sarebbe una parola senz’altro più felice, proprio perché in realtà non si può dire ciò che è. E la radice dei « numina » non risiede nella credenza nell’anima. Il numen che balugina nell’orrore misterioso delle caverne e delle grotte, che in tutto il mondo e per l’intera umanità sono luoghi di origine e eccitatori del « timore », il numen del deserto e dei luoghi terrificanti, delle montagne e degli abissi, degli « haunted places », 16 dei fenomeni meravigliosi e sorprendenti della natura, viene ora forzatamente riferito alle rappresentazioni di anime o ad una qualche rappresentazione che in generale è chiara. Ma la credenza nelle anime non ci serve nemmeno a spiegare l’idea della magia. Secondo Wundt la causalità magica avrebbe la sua essenza nel fatto che è causalità di anime. Ma questo cosa spiega della peculiarità di tali rappresentazioni ? Non è il fatto che certi effetti vengano riferiti ad anime che costituisce l’elemento specifico, ma che vi si connetta il sentimento del « soprannaturale », con la caratteristica di quel peculiare « timore » che si deve conoscere da se stessi per riconoscerlo nei fatti dell’etnologia. 10. Con la rappresentazione di demoni e con il culto loro dedicato si arriverebbe già quasi al limite della religione e della rappresentazione degli dèi. Quest’ultima sorgerebbe per eterogonia da quella dei demoni, dalla quale sarebbe distinta in virtù di tre tratti caratteristici. Il dio sarebbe un essere individualizzato con certe proprietà spirituali costanti e configurate in modo specifico. Mediante queste, appunto, sarebbe rappresentato come una personalità simile all’uomo e contemporaneamente sovrumana, la quale sarebbe in pari tempo l’ideale umano irraggiungibile. (Come accade un simile miracolo senza pari !) Egli si troverebbe, in terzo luogo, in un mondo irraggiungibile dell’aldilà. Sebbene i concetti di Dio e religione non coincidano immediatamente, il loro reale t



































t   Wundt aveva però spiegato che « nessuna fantasia del mondo potrebbe produrre qualcosa di assolutamente nuovo, ma sempre soltanto ripetere ciò che una volta è stato vissuto in disposizioni modificate ». Qui, però, la fantasia o diviene realmente creatrice o è soltanto un momento ausiliare indifferente per un « vissuto » i cui contenuti non possono mai essere previsti. Ma allora è il « vissuto » e non la fantasia che fonda la religione. Che dovrebbe significare allora tutto l’animismo !  











16

  Cfr. DH, supra, pp. 321-322.



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dispiegamento ha luogo soltanto al livello di tali rappresentazioni degli dèi. E la domanda importante sarebbe : come vien fuori il dio dal demone ? Accadrebbe attraverso il mito, in particolare attraverso la saga degli eroi, sotto il cui influsso le figure confuse del mondo dei demoni si innalzerebbero alle chiare ( !) essenze degli dèi. Dai materiali grezzi dei semplici racconti di miti deriverebbe, per autoincremento eterogonico, il mondo della saga e della leggenda. Gli eroi, u da primitivi portatori di salvezza e cultura, diverrebbero figure ideali della saga, l’eroe che combatte, salva, vince, che si dà pena, soffre e muore per i suoi. I suoi tratti si trasferirebbero alle figure demoniche informi dei culti precedenti : ora si eleverebbe il chiaro ( ? Durga !) mondo degli dèi e il culto di questi, con cui contemporaneamente vengono suscitati i germogli della stessa religione, che ora comincerebbe a innalzarsi e a svincolarsi dal mondo del mito. Su questo osserviamo : « dèi » sono formazioni in sé così variamente diverse, con una struttura e un senso così diversi, che non si può quasi osare ammettere una classe d’essenza unitaria. Traduciamo con « dèi » termini molto diversi di diverse lingue e ci illudiamo di un’unità del concetto che non sussiste. Se Zeus è un « dio », allora è dubbio se possa chiamarsi dio una figura come il Dioniso tracio. Se entrambi sono dèi, allora l’antichissimo brahman quasi certamente non lo è. Ma nel tipo degli dèi che soprattutto ha in mente Wundt, e qualche volta anche altri che indagano « l’origine della fede in Dio », le evoluzioni – proprio nelle figure prominenti – hanno avuto luogo in modo molto diverso da quello che Wundt costruisce. Dimostrarlo richiederebbe una grande ricerca a sé. Vogliamo tentare di mostrare come questa evoluzione abbia reamente avuto luogo su un esempio, quello dell’antico « dio » prevedico e antico-ariano Varuna. Poiché questo interromperebbe qui in modo eccessivo la connessione, gli dedichiamo un capitolo specifico 17. Nel capitolo Profetische Gotteserfahrung del nostro secondo volume intraprenderemo un tentativo simile rispetto alla figura di Dio della profezia israelitica. 18 11. Una vera e propria religione nascerebbe in seguito alla rappresentazione degli dèi come « sentimento dell’appartenenza ad un mondo soprasensibile », che fino a quel momento non poteva aver luogo. Gli dèi diverrebbero per l’uomo esseri da cui egli si attende e ottiene aiuto. (Curioso !) Per intensificazione eterogonica, di nuovo, la salvezza attesa diverrebbe infine oltremondana. (Tutto per eterogonia !) Contemporaneamente le rappresentazioni stesse degli dèi comincerebbero a divenire sempre più simboli dell’idea del divino, che oltrepassa tutti i limiti della rappresentazione : del divino come potenza oltremondana. v Questo processo condurrebbe alla fede in un mondo soprasensibile ideale (l’intero « processo » comincerebbe con un momento soprasensibile, altrimenti non si sarebbe mai messo in moto), nel quale sarebbe incluso anche il tendere umano e nel quale l’uomo immagina realizzato l’ideale del suo tendere ; dove il culto si spiritualizzerebbe in un’azione puramente simbolica, finché l’animo non si ritrarrebbe completamente in se stesso, non avendo più bisogno neppure di quella. Nelle  

















































u   Sarebbe stato utile indagare esattamente l’evoluzione di questi portatori di cultura sulla base di fonti antiche. Tenteremo di farlo in seguito sull’esempio di Apām napāt e in particolare su dadhikrā. « Il cavallo » dadhikrā diviene « dio », anzi diviene il sommo satya stesso, senza racconti e senza saga degli eroi. v   Come l’idea del brahman, quella del r≥ita o del tao, nessuna delle quali, certamente, è derivata da rappresentazioni di dèi.  



17



  Cfr. König Varuna. Das Werden eines Gottes, GÜ, cap. vi, pp. 125-202.   Cfr. supra, nota 12.

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idee filosofiche del fondamento ultimo e dello scopo dell’essere si esprimerebbe allora esclusivamente l’essenza ideale della religione, finalmente libera da mito e simbolo. E queste idee, nelle quali essa avrebbe la sua essenza, sarebbero tanto gli ultimi frutti dell’evoluzione religiosa, quanto i suoi germogli nascosti. w L’idea del soprasensibile, che si afferma lentamente, x insieme a quella dell’assoluto e della nostra appartenenza al mondo soprasensibile, che è inclusa in quella, sarebbe una radice della religione, quella metafisica, con la quale l’altra, quella morale, verrebbe gradualmente ad incontrarsi e unificarsi in uno sviluppo graduale. y E. Critica complessiva 1. La costruzione di Wundt non può non suscitare la nostra ammirazione per la compiutezza del tutto, che viene raggiunta mediante l’impiego del suo principio dell’eterogonia il quale spinge in linea diretta, di idea in idea, dall’idea di anima a quella di divinità assoluta. Ma è proprio contro questo principio che dobbiamo innanzitutto volgerci, perché ci sembra si trovi in una curiosa contrapposizione con le considerazioni conclusive per cui l’« idea » non viene prodotta solo alla fine in modo eterogonico, ma viene pensata come « germoglio ». Ci sembra inoltre che questa eterogonia non offra un’evoluzione, ma, per come si presenta, una addizione di momenti sempre nuovi ai singoli punti di svolta del decorso storico, mediante una sempre nuova generatio aequivoca ; ci sembra dunque che faccia lo stesso errore del darwinismo, che presenta una teoria dell’evoluzione, ma in realtà non evolve, ma aggiunge, e invece di un’evoluzione forma solo aggregati. Essa offre soltanto una formula per i punti di partenza su cui deve ogni volta innestarsi ogni momento psichico particolarmente nuovo, ma non la sorgente da cui questo proviene. L’eterogonia porta Wundt in contraddizione con se stesso. Quanto alla religione, infatti, Wundt non sostiene l’illusionismo : per lui la religione è una convinzione valida, con pretesa di verità. Ma il suo principio, ci sembra, toglie ogni verità nella formazione della rappresentazione religiosa. Donde, infatti, la verità delle forme somme di questa produzione eterogonica, se quelle inferiori e intermedie certamente non hanno alcuna verità ? ; e donde un criterio per stabilire a quali gradi di questo decorso entra la verità in una formazione che fino a quel momento era stata soltanto mitologica ? L’eterogonia toglie ogni verità al conoscere in generale. Se infatti è un principio che è in generale valido per tutto lo psichico, allora non lo è soltanto per la formazione delle rappresentazioni religiose, ma per la formazione di tutte le rappresentazioni, anche di quelle scientifiche. Con il che questa dottrina toglie anche se stessa : anche questa dottrina dell’eterogonia dei fini e della trasformazione dei motivi, infatti, è soltanto un prodotto dell’eterogonia relativo a quel punto del decorso della cosa in cui siamo proprio ora, ma non è una conoscenza. Wundt dice talvolta che ciò che è stato prodotto quanto a rappresentazioni (dalla fantasia mitica) agisce come uno « stimolo » che porta a qualcosa di nuovo. Questa espressione indica una direzione completamente diversa da quella della sua dottrina dell’eterogonia. Lo stimolo come tale non produce nulla e non si trasforma da sé in  























w

  Dove risiederebbero i germogli nascosti e cosa dovrebbe fare allora l’eterogonia ?   Dunque già c’era ? y   Ma perché poi ? È un fatto che deriva dall’« animismo » o dall’appercezione animante o non è piuttosto, come il sentimento numinoso stesso, un fenomeno originario completamente autonomo e indeducibile ?  

x











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qualcosa di nuovo e di superiore. Presuppone qualcosa che possa essere stimolato, qualcosa che esso sollecita e nel quale risveglia qualcosa. Di ciò abbiamo già parlato nell’opera maggiore a p. 226. Dicevamo là che il sentimento dell’esser vincolato da costumi e statuizioni non può rifondersi da se stesso nel sentimento nuovo e del tutto specifico dell’obbligazione morale propria del sentimento del dovere ; né quest’ultimo può prodursi da sé eterogonicamente. Può però agire come stimolo su una latente disposizione alla conoscenza e sollecitarla a sentire, trovare, nutrire l’idea del valore morale autonomo, dell’obbligazione e del dovere categorico. Allo stesso modo, come abbiamo visto, altri sentimenti possono sollecitare, per analogia, il destarsi del sentimento numinoso. E le datità di natura o anche i prodotti della fantasia, cui si erano indirizzati i rispettivi momenti del sentimento numinoso, possono divenire, a loro volta, stimoli perché questo si ecciti in modo più profondo, ricco e puro ; perché si svincoli da collegamenti precedenti e falsi, e li allontani da sé in quanto « superstizione ». Così, per esempio, il vissuto numinoso di unità degli antichi Indiani non è, con ogni certezza, sorto eterogonicamente da rappresentazioni di demoni e dèi, né da un mero « sentimento numinoso in generale », ma da modi di vissuto del tutto specifici. Allo stesso modo questi sarebbero stati difficilmente possibili, se non fosse stata presente una atmosfera, già evoluta, di un sentire numinoso di tipo primitivo, che è servita a suscitare questo particolare modo di vissuto numinoso, spontaneo e totalmente nuovo. Qualcosa di simile ha in mente, evidentemente, anche Wundt quando, muovendosi senza le pastoie della sua costruzione epigenetico-psicologistica, afferma :  













L’essenza della religione che si esprime in tali idee traspariva già da quei simboli ideali, e queste idee sono tanto gli ultimi frutti, quanto i germogli nascosti dell’evoluzione 19.

O quando parla di una Radice della religione, ossia il sentimento del soprasensibile e dell’idea dell’assoluto o dell’infinito che agisce (oscuramente) in questo ; radice dalla cui connessione con la seconda, quella etica, deriva la religione superiore. 20  

O quando osserva, in modo molto fine, che I sentimenti della dipendenza dalle potenze del destino e del mondo, che si trovano al di sopra dell’uomo, si condensano in immagini visibili della fantasia. 21

Se tali sentimenti fanno quest’ultima cosa, allora non sono di per sé produzioni dell’attività della fantasia, ma le precedono come fondamento della loro possibilità. E queste produzioni rappresentative non sono sorte affatto dall’« appercezione animante ». 2. Wundt distingue in modo netto la sfera della religione dal mondo del mito, che è inferiore : troppo netto, ci sembra, da un certo punto di vista ; non abbastanza netto, da un altro. a) Troppo netto, perché concentrando l’attenzione sull’evoluzione di ciò che è rappresentativo, facendo del « livello » della rappresentazione, facendo per esempio dell’evoluzione delle rappresentazioni concrete di « dèi », distinte da anima, spirito e mondo, un criterio del valore dell’evoluzione, omette un fatto importante che, nella  













19

  Cfr. W. Wundt, Mythus und Religion, iii, Leipzig 1909, p. 746.   Cfr. ivi, pp. 751-752.   Cfr. ivi, p. 737.

20 21



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moderna ricerca sulle forme del « primitivo », viene alla luce in modo sempre più chiaro e che, dopo l’eccellente libro di Marett The Threshold of Religion [London 1909], non può più essere trascurato. Un autentico sentimento religioso, con vera « devozione » e dedizione, può esser presente anche dove la « rappresentazione » dell’oggetto numinoso è ben lungi dal raggiungere il livello delle figure di dèi descritte da Wundt. Per esempio, la rappresentazione del kami nel Giappone shintoista, con culto delle alture e venerazione di numina locali molto indeterminati che difficilmente potrebbero essere gli « spiriti » dello schema di Wundt, può avere in sé l’autenticità e la forza della vera devozione, che più di un « culto degli dèi » potrebbe invidiarle. Lo stesso vale per il culto dei grandi oggetti di natura, che, secondo Wundt, apparterrebbe al livello della più primitiva « appercezione animante » ; o per il culto del feticcio, che dovrebbe essere inquadrato nel mero « culto degli spiriti ». Anche nel bizzarro ambito della magia agisce qualcosa del genere : si mostra nella contrapposizione, che risale alle epoche più antiche, tra magia legittima e illegittima. Quest’ultima non è illegittima perché infligge un danno – questo può farlo anche la legittima – ma perché il potere numinoso viene esercitato da profani. In essa vi è qualcosa di blasfemo : per questo è empia. Questo sentimento dell’empietà presuppone necessariamente un sentimento già altamente evoluto per il sacrum, ma non necessariamente una rappresentazione evoluta di dèi. b) Non abbastanza netto, per altro verso : molto di ciò che vi è in questa sfera non soltanto non appartiene alla storia della religione, ma anzi dovrebbe appartenere ad una storia dell’anti-religione quale deformazione, svuotamento, sviamento, persino « rinnegamento ». Il momento del « rinnegamento » e del capovolgimento è certamente tanto antico, nella storia della religione, quanto quello dell’ascesa e del raffinamento : è « superstizione ». Questa è una categoria religiosa di svalutazione, che è stata erroneamente secolarizzata. Essa abbraccia non soltanto l’ambito dei livelli di rappresentazione inferiori, nel frattempo superati dall’evoluzione successiva, ma anche quello delle rappresentazioni divenute prive di potenza e per questo spinte ai margini. La marmaglia dei piccoli e malvagi spauracchi, che anche per chi crede negli dèi o in Dio possono infestare certi luoghi « spaesanti », sono tanto poco il punto di partenza per l’idea di un reale « numen loci », quanto poco « lo spettro » lo è di ciò che prende poi la forma del reale culto numinoso delle anime, dei morti o dei mani. Essi portano in sé ancora il momento dello « spaesante », ma in forma depotenziata. Dicevamo, nell’opera maggiore, che la teoria animistica dell’animazione non sarebbe in grado di spiegare lo spettro, perché non si capirebbe in alcun modo come da una « nuvoletta di fiato pensata come animata » potrebbe sorgere, per mera animazione, qualcosa di spaesante. Qui dobbiamo anche aggiungere che la semplice paura degli spettri non è comparabile con la profondità di quell’orrore che risiede nell’autentico e primitivo « timore » dei morti, o con l’autentico brivido di fronte ad un numen loci. La paura dei fantasmi è un prodotto divenuto sterile, una derivazione, per perdita di potenza, del primo orrore demonico di fronte allo spaesante. Fantasmi o anche figure come il Rübezahl 22 sono spettrali ma non « raccapriccianti », come dice Zinzendorf. Sono comprensibili come prodotti di scarto dell’esplicarsi del tremore demonico, il quale, elevandosi per altra linea a formazioni superiori, si è svuotato, lasciandosi indietro propaggini degenerate in mera paura degli spettri. Da questi prodotti di scarto non deriva mai, per eterogonia, qualcosa di  













































































22   Spirito o genio dei Monti dei Giganti (massiccio montuoso dei Sudeti), protagonista di saghe e leggende : cfr. J. K. A. Musäus, Legenden vom Rübezahl, 1783.  

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superiore : dallo spirito dei boschi non deriva mai un reale numen, e dai fantasmi non derivano mai i veri dii manes. I critici odierni della teoria darwinista della discendenza obiettano a quest’ultima che l’ascesa verso l’uomo non è passata per una connessione genetica tra i nostri generi animali, ma che, viceversa, le specie animali sono tendenze laterali dell’albero genealogico umano che terminano in un vicolo cieco, poiché in essi la potenza di evoluzione si impoverisce fino ad estinguersi : e termina con un risultato che è soltanto un rudimento e che, sebbene evoluto in modo più ricco di quanto non fossero le origini forse del tutto primitive dell’albero genealogico umano, tuttavia è più povero, perché è divenuto sterile e privo di potenza. Si potrebbe comparare con ciò la serie dei prodotti della « fantasia animante » wundtiana, le sue anime, i suoi spiriti e i suoi demoni. Questo vale anche per i suoi « dèi ». È evidente che, con i suoi dèi « luminosi », ben individualizzati, creati dal mito degli eroi, egli pensa agli dèi olimpi : figure e produzioni dell’epos più che dell’autentica « fantasia mitica », che sono stati creati da poeti, ma certo non visti da veggenti. Anch’essi sono esempi tipici di prodotti laterali o accessori dell’evoluzione, attraverso cui non è passata la linea verso ciò che è superiore, né poteva farlo, e che dovevano necessariamente divenire superstitio, come del resto è accaduto. 3. Si vede facilmente che Wundt, nel porre il proprio obiettivo, è orientato in modo unilaterale e si prefigge senz’altro la spiegazione del divenire della fede in Dio, e questo nella figura del teismo personale occidentale (che poi egli stesso spiritualizza anche filosoficamente). Questo risultato dovrebbe ricavarsi, secondo salde leggi di un’evoluzione che è inevitabile e che può solo esser così, da innumerevoli trasformazioni eterogoniche a partire dagli inizi della « credenza nelle anime ». Mostrare come anche questo Dio non derivi eterogonicamente da « dèi », che sarebbero trasformazioni di spiriti attraverso il mito degli eroi, sarebbe una ricerca a sé, ma ciò che qui ci interessa è che milioni di seguaci delle religioni superiori dell’oriente non comprenderebbero affatto questo obiettivo, se li si interrogasse sul divenire e sul senso della stessa religione ; che essi riconoscerebbero questo punto finale al massimo come un punto di passaggio, o forse neanche questo ; che la fonte della loro idea di salvezza non avrebbe mai potuto schiudersi all’interno dell’ambito wundtiano. Intendiamo la religione del Vedānta e ancor più quella del Buddhismo, in modo particolare nella sua forma Mahāyāna, in cui la cosa più importante non è che questa religione rifiuti il teismo, ma che rifiuti in generale qualsiasi concetto per il trascendente-numinoso, e che però avanzi la pretesa di esser messa alla prova sulla sua esperienza completamente aconcettuale del trascendente (della quale il capitolo 9 darà un saggio 23). 4. Con il termine « esperienza » tocchiamo il punto più dolente delle costruzioni wundtiane e di tutte quelle ad esse simili. L’elemento più caratteristico per ogni reale religione è che essa pretende di venire da una sua propria fonte di esperienza. Tale fonte si chiama da noi rivelazione, con la quale vi sono analogie precise nelle religioni orientali superiori, sotto nomi diversi. Lo storico profano della religione non ha, come tale, né il dovere, né il diritto di consentire alla pretesa di validità di tali presunte esperienze ; ma sarebbe tuttavia suo compito indagare il tipo peculiare di tali presunte esperienze come fenomeno originario di questo ambito. Quindi può anche assumere i « vissuti di rivelazione » come illusori, ma allora, in quanto eventi psichici di genere  











































23

  Cfr. Das Numinos-Irrationale im Buddhismus, in GÜ, pp. 241-260.

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completamente a sé, deve conoscerli e studiarli in modo molto più approfondito di quanto faccia Wundt, li deve escludere da ogni « psicologia dei popoli » e deve indagare questo che è il più intimo ambito della psicologia umana che ci sia. Se crede, anche qui, di poter rimanere ancora ad un’esperienza vissuta « fantastica », allora deve, come abbiamo detto, ammettere una specie di fantasia che in effetti sarebbe creatrice, poiché le sue produzioni non risiederebbero in alcun modo nella serie delle trasformazioni fantastiche di oggetti naturali animati in modo illusorio. Questo elemento negativo, rispetto a tali esperienze, è comprovabile. La pretesa positiva di validità non lo è ; né può esserlo, altrimenti la rivelazione non sarebbe rivelazione. 5. Finché lo storico delle religioni non si lascia coinvolgere in questo momento di una pretesa esperienza, che risiede come fenomeno originario universale in tutte le religioni superiori, è quasi inutile lasciarsi coinvolgere nelle sue teorie sull’origine della « religione stessa » dal mito superiore : anche nel caso in cui volessimo rivolgere la nostra attenzione, secondo il sottotitolo di questo capitolo, alla questione degli inizi. Da questo punto di vista, in aggiunta a quanto già detto e osservato nell’opera maggiore diciamo brevemente soltanto quanto segue. Wundt pretende di essere un animista. All’animismo si contrappone la teoria dell’originarietà delle rappresentazioni della « potenza », come è vero per mana e orenda, e probabilmente anche per gli inizi dell’idea di brahman. Questa teoria afferma che, indipendentemente da ogni rappresentazione di anime, è stata concepita, in forma molto diffusa, l’idea peculiare di una « potenza » impersonale che si rivelerebbe agendo molteplicemente negli uomini e negli animali, nelle piante e nelle pietre, nei corpi terreni e celesti ; una potenza della quale si cercherebbe di appropriarsi e che, a differenza di tutte le forze consuete, avrebbe un carattere magico. Essa può poi esser raccolta e conservata da peculiari portatori di potenza, ed esercitata in modo utile o dannoso mediante parole e azioni efficaci. La dottrina manistica, nel suo campo, è indubbiamente giusta, ed è dal principio unilaterale da parte di Wundt, che egli non renda giustizia a questi inizi totalmente autonomi. Ciò che egli chiama « forze psichiche », e forse già le sue « anime del corpo » e « anime degli organi » non hanno probabilmente nulla a che vedere con l’anima, a prescindere dal fatto che l’espressione « forza psichica » non significa nulla. In pari tempo dobbiamo però anche qui ripetere la nostra obiezione, e cioè che anche i manisti non spiegano la cosa principale : questa potenza, infatti, è appunto « potenza », potenza mirabile, potremmo dire « soprannaturale » ; appartiene alla sfera di ciò che chiamiamo mirum o totalmente altro. È una potenza appercepita in modo numinoso. A questo punto è facile, anche qui, proseguire e dire con tono di ovvietà : la rappresentazione del mana « si eleva » quando essa, come nella rappresentazione del brahman, « evolve » in una potenza unitaria che, compenetrando il mondo intero, diviene il principio stesso del mondo ; quando non soltanto si anela al possesso di tale potenza per fini di un benessere naturale relativo all’aldiqua, ma quando l’esser riempito da essa diviene un « fine di salvezza » ; e quando il riuscirci e l’esser uniti ad essa mediante la morte – come nell’idea del brahman – diviene la meta agognata. Questo comodo modo di esprimersi, « divenire, ascendere gradualmente, elevarsi », copre il fatto che abbiamo a che fare con enigmi che progressivamente crescono. Come « diviene » da una « potenza » magica, che dipende da un canto magico o cultuale o dal mantra del mago, che aleggia in oggetti come il sole o si eccita nell’uomo con l’ebbrezza, come « diviene » a partire da tutto ciò l’unico eterno brahman, e come l’esperienza estasiata di esso e l’idea che lo si  























































































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raggiunga mediante la morte ! Qui non si tratta di spiegazioni di « psicologia dei popoli », e il motto troppo comodo di « eterogonia » diviene qui una stregoneria di idee. Si tratta realmente di « vissuti », come dice lo stesso Wundt là dove segue la propria intuizione più profonda. Si tratta di grandissime intuizioni di tipo visionario, che non sono immaginate, né ovvie, né tantomeno « necessarie dal punto di vista della psicologia dei popoli ». Si tratta, come si dice in India, di darśana, di « visioni », per mezzo di r≥ishi, ossia veggenti, le quali hanno pieno carattere di vissuto e contemporaneamente contenuti completamente nuovi e, a loro volta, indeducibili. La rappresentazione mitica primitiva è qui divenuta una semplice leva per aiutare un vissuto completamente nuovo e superiore a venire alla luce.  





















Nessuna fantasia del mondo può produrre qualcosa di assolutamente nuovo (che sarebbe qualcosa di qualitativamente nuovo), ma sempre soltanto ripetere secondo un ordine modificato ciò che una volta è stato vissuto, 24

dice Wundt. Se egli avesse prestato attenzione al carattere non derivabile da altro del sentimento religioso, che è di tipo del tutto specifico, avrebbe dovuto negare questa proposizione, o avrebbe dovuto ammettere la possibilità che si tratti di una sfera specifica del vissuto. Probabilmente attraverso la messa in « ordine », ossia raggruppando, ri-raggruppando e connettendo arbitrariamente qualcosa che comunque è dato, la fantasia può realizzare tutte quelle « rappresentazioni » che Wundt ha in mente. Anima, spirito, dèi sono forse « invisibili », « liberamente mobili », « molto potenti » : tali concetti possono sorgere in effetti mediante specifica messa in ordine e riordino di qualcosa di universalmente dato ad opera della fantasia. Anche i concetti della speculazione superiore, come infinito, oltremondano, soprannaturale, eterno (in quanto sovratemporale), onnipotenza, onniscienza si lasciano « formare » in questo modo, in quanto « ordinano insieme » tutto e sapere, tutto e potenza, posizione e negazione, limite e trasgressione di limiti. In tutti questi concetti non si mostra nulla di qualitativamente nuovo. Ma nessuna composizione di datità altre mi consente di arrivare a qualcosa che sarebbe in grado di suscitare in me l’emozione del sentimento numinoso, la quale è qualitativamente del tutto a sé e nuova, a partire dal « timore », dal sentimento grezzo-elementare dello « spaesante », su fino al sacrosanctum. O qui la fantasia smette improvvisamente di essere una facoltà che semplicemente riordina e diviene essa stessa « creatrice », oppure qui emerge un particolare « vissuto » che le offre nuovi materiali per i suoi « ordinamenti ». 6. Conclusione. Riassumiamo e diciamo : per le origini di quelle formazioni superiori che chiamiamo « religioni » nel senso più profondo del termine, la psicologia dei popoli non ci dice nulla. Per le sfere del « mito » che precedono la religione, invece, per l’intera sua atmosfera come per i suoi inizi, veniamo ovunque rimandati ad un sentimento peculiare, quello del « timore religioso », che in modo baluginante e oscuro implica il germoglio della rappresentazione ontologica del « soprannaturale », che può essere suscitato in molti modi e si può accompagnare in modo grottesco e abbastanza bizzarro alle più disparate impressioni e rappresentazioni. Ma solo quelle rappresentazioni alle quali si accompagna entrano in una connessione di sviluppo. Per « sentimento » intendiamo qui, come fa anche la nostra stessa lingua, un germoglio di rappresentazione non sviluppato, ancora oscuro, connesso con uno stato d’animo emotivo, determinato in modo peculiare, che gli corrisponde. Spesso non può esser risolto in concetti chiari. Si indirizza a  



































































24

  W. Wundt, Mythus und Religion, i, p. 9.





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immagini e rappresentazioni che debbono in qualche modo essergli analoghe, per lo più senza che si possa indicare in cosa propriamente consista l’analogia e fino a che punto si estenda. Qui è in effetti il regno della fantasia e dei suoi mezzi di espressione analogici e simbolici. E da ciò che nel mezzo d’espressione è sempre inadeguato deriva anche ciò che urge e che non si acquieta mai nella formazione di rappresentazioni. « Timore » è questo sentimento al livello più basso. Ma questo, già in quanto primo, elementare orrore di fronte all’« infinito », è già un timore di tipo del tutto specifico, tipicamente diverso dalla « paura » nel senso usuale : all’inizio è più un « cieco sgomento », tale cioè che in esso resta del tutto oscuro di fronte a cosa e cosa propriamente si tema, che non paura nel senso usuale. Da sempre l’uomo « teme » – in un modo completamente indicibile – un certo qualcosa, innanzitutto del tutto inespresso, più della morte e del declino, più di tutto ciò che « può uccidere soltanto il corpo ». 25 Non « timor fecit deos », 26 ma quel « timore » – suscitato in modo mirabile e per noi, da più punti di vista, comprensibile solo a fatica – divenne stimolo a oggettivare in modo analogico e conforme a fantasia quel contenuto rappresentativo oscuro e solo sentito che lo accompagna, in rappresentazioni e simboli che appunto perciò sono di carattere oscillante, fluido, resistente ad ogni fissazione concettuale, e che, a partire da sé, preme in avanti. Ma a questo timore si accompagnano ben presto, in modo altrettanto inderivabile e altrettanto conforme a vissuto, gli ulteriori momenti del sentimento numinoso, che abbiamo sviluppato nell’opera maggiore e che qui non ripetiamo. Così la religione non comincia, certo, già completa, ma comincia comunque con se stessa, essendo dal principio vissuto del misterioso in quanto sensus numinis, impulso e spinta verso il mysterium ; un vissuto che dalle profondità della vita stessa del sentimento erompe, su stimolo e occasioni esterne, come « sentimento del totalmente altro ». Una volta destato diviene uno degli impulsi più potenti del genere umano, che spinge quest’ultimo in una storia particolare e confusa, ma lo spinge in avanti verso intuizioni e vissuti nuovi e spontanei, che come tali non possono più essere spiegati a partire da un universale « sentimento del soprasensibile » ; tanto meno possono esser prodotti magicamente da questo in modo « eterogonico », ma lo presuppongono come atmosfera nella quale divengono possibili : un impulso di violenza demonica, che non viene spiegato da retroeffetti dei prodotti di fantasia auto-creati e da valori immaginati, ma che muove dalle sfere di un rappresentare originariamente specifico, sebbene del tutto oscuro, di un presentimento che va per tentativi, e di un interesse grandioso. Solo di qui si capisce la sua potenza, altrimenti incomprensibile, su generazioni e popoli. Senza porre questo impulso, e senza il vissuto che gli è soggetto, non è possibile scrivere una storia della religione : sarebbe come una geometria senza spazio. Sarebbe come se si provasse a scrivere una storia della musica negando un autonomo sentimento musicale e una disposizione specificamente musicale, con lo sforzo continuo di interpretare le espressioni di questa come una specie di allenamento o di esercizio ginnico.  





















































Nota sul rapporto tra animismo e manismo L’animista Wundt non nega l’assunzione di una particolare « potenza » che si è soliti chiamare « potenza magica » ; e i manisti, da parte loro, non negano la formazione di  



25

  Mt 10, 28.   Stazio, Thebais, iii, 661.

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« rappresentazioni dell’anima ». La disputa riguarda piuttosto quale delle due assunzioni sia stata la prima. Ad entrambe le teorie è comune il fatto di porre rappresentazioni « magiche » come stadio preliminare di quelle « religiose ». Sul rapporto tra le due teorie e sulla loro comune derivazione delle rappresentazioni religiose da quelle magiche diciamo qui brevemente ancora una parola. La spiegazione wundtiana della potenza magica come « capacità dell’anima » non spiega nulla, come già dicevamo, poiché il punto non è che i possessori di questa potenza sono anime, ma che sono in possesso di capacità che, psichiche o fisiche che siano, sono ciò che designiamo, con espressione moderna, capacità soprannaturali**. Tali capacità non le hanno le « anime », ma esseri di tipo del tutto peculiare, capaci di magie e miracoli. Ora, si può impiegare il concetto di anima, intensificarlo o fare con esso qualcos’altro, ma questo momento del « totalmente altro » di una potenza capace di miracoli non può esser in alcun modo estratto da semplici anime. Contro Wundt il manismo obietta, a ragione, che l’idea di potenza magica si presenta del tutto indipendentemente dalla rappresentazione di particolari soggetti psichici ; sostiene che prima della rappresentazione di animae capaci di magia sarebbe sorta quella di potenza magica, che, come tale, non sarebbe pensata come di specie psichica, ma come una « specie di fluido », e che si nasconderebbe nelle cose che non necessariamente sono o hanno un’anima. Il suo errore è però innanzitutto lo stesso dell’animismo, perché questa « potenza » dell’orenda, del mana, del manitu, dell’ojas dei Veda, l’arete degli antichi elleni, non sono, a loro volta, potenze « naturali », ma qualcosa di « totalmente altro ». In pari tempo, tale « potenza » è senz’altro da contrapporre all’« anima » quale concreto soggetto personale, ma non allo psichico. Se la si coglie in immagini razionali, si può pensare questa potenza tanto in immagini fisiche, quanto – e questo i manisti continuano spesso a trascurarlo – in immagini psichiche. Anche la concezione fondamentale di « potenza » che è alla base di entrambe le serie di immagini può esser senz’altro còlta, e a partire da essa diviene immediatamente evidente come potrebbero, anzi come dovrebbero esser impiegate, per esprimerla, tanto immagini psichiche quanto fisiche : in ciò risiede la loro reciproca analogia. Non si tratta né di un’appercezione fondamentale fisico-materialistica, né di una psichico-immaterialistica : si tratta di un’appercezione numinosa. Ciò che viene còlto come « la potenza » – e questo è l’aspetto principale – viene, per dir così, còlto come qualcosa di tremendum. Essa rende i suoi oggetti tabù. Si rispetta il tabù perché l’oggetto è terrificante e il contatto con esso sarebbe pernicioso. Questo pernicioso-terrificante, che costituisce l’inavvicinabilità della cosa, viene ora espresso esattamente nello stesso senso e anche, senza dubbio, esattamente allo stesso tempo, in due modi di rappresentazioni che sono espressi soprattutto da due antichi termini vedici : da un lato come tapas o tejas, cioè calore fiammeggiante, bruciante, distruttore ; d’altra parte come manyu, ossia ira, thymos, ira fiammeggiante, bruciante, distruttrice. L’energicum di un qualcosa appercepito in modo numinoso può dunque esser caratterizzato tanto da un momento fisico (calore), quanto da un momento psichico (ira). Pretendere di chiedersi se i « primitivi » hanno pensato in modo originariamente materialistico o psichistico sarebbe qui completamente sviante. Il loro rappresentare, da questo punto di vista, trascorre sempre dall’uno all’altro. Quelle che per noi sono « forze » fisiche, per loro sono contemporaneamente tensioni interiori nelle cose, amore, odio, collera, ira (noi rimproveriamo alla fisica antica proprio le sue ingenuità « animistiche »). D’altra parte, quel che noi chiamiamo stati psichici, forze  













































































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del sentimento e della volontà, è per loro anche qualcosa di « fisico », che è identico alla materia, al cuore, ai reni, al diaframma, al respiro, eventualmente al grasso e al sangue. Il calore del fuoco può esser la sua ira e l’ira può esser calore. Così manyu e tapas sono entrambi, in effetti, anche « forze ». All’indiano manyu corrisponde esattamente il greco thymos. Anche quest’ultimo è l’ardente e « fumante » eccitazione interna, la cui massima intensità è nell’ira ; essa è, come tale, un’energia e come il senso di manyu trapassa in dakscha, ossia in energia psichica in generale, forza della volontà e dell’azione, altrettanto quello di thymos. Ma il medesimo termine thymos è quasi una denominazione per orenda e mana, per arete e dynamis, per la stessa potenza « magica ». Etimologicamente thymos è identico a fumus, fumo. Il calore psichico e quello fisico, che nel manyu e tapas compaiono separatamente, sono qui colti ancora insieme appunto mediante lo stesso etymon. Cfr. R≥≥gveda 10, 83, 3 ; 10, 84, 2 e passim. Di queste forze si può parlare in modo completamente impersonale. Il che significa che si potrebbe pensarle come attive, senza con ciò pensare ad un soggetto personale della forza, e che si potrebbero pensare allo stesso modo anche stati e forze psichiche. Non vi era alcuna difficoltà per i « primitivi » a parlare di un’ira che non era ira di qualcuno. z « Ira » può divenire così il grande principio creatore originario e può esser espressamente un « principio-forza ». L’elemento impersonale della potenza, sottolineato dai manisti, può dunque comparire proprio in momenti psichici. E dove sono pensati soggetti della potenza che operano miracoli, questa potenza può essere pensata esattamente indifferentemente come « fisica » o « psichica ». Mediante il suo calore l’« immane » numinoso (l’eterno Uno) crea la molteplicità del mondo nella quale si occulta ; il fuoco, quale potenza di vita segreta, abita nelle acque miracolose. Ma, di nuovo, l’ente originario, il sat, che in prima battuta non è affatto pensato come spirito o tanto meno come spirito personale, viene mosso dal suo desiderio per la molteplicità. Gli dèi creano ora con la loro ira (manyu), ora con il loro calore (tapas, tejas, div-). Per questo si chiamano deva, gli ardenti : essi ardono d’ira e di calore insieme. E dagli occhi del « mago », che è posseduto dal numen o ricolmo di « potenza » numinosa, sgorgano contemporaneamente ira e calore ardenti, quando cerca di esprimere nel suo comportamento ciò che lo riempie. La sua « potenza » non è quella della consueta collera o del calore naturale del sangue, ma è una « potenza » che noi, con un’espressione misera, dobbiamo chiamare « potenza spaesante », definendo in questo modo un prodotto grezzo dell’appercezione numinosa. Così gli animisti, come i manisti, portano su una falsa pista e la loro rivalità porta all’errore. Entrambi si irrigidiscono nel tentativo di individuare quale « concetto » il « primitivo » si sia formato per primo, se quello di forza o quello di anima. Se un antico detto dice arbores habent numen, allora questo numen all’inizio è realmente un mero nomen, al quale manca ogni definizione. Non significa ancora che in quest’albero si nasconda il dryas (il druma-nārāyana, l’uomoalbero) concepito concettualmente. Tantomeno indica che il numen sia una « forza ». In ogni caso significa che per quell’albero, nel quale si nascondeva il numen, si aveva un inaudito rispetto, ci si proteggeva accuratamente da esso e contemporaneamente gli si attribuivano ogni sorta di cose : « capacità » di guarire con le sue foglie ; ma anche capacità di parlare, in forza del suo numen, di dare segni, di fare predizioni e profezie (arbores  























































































z   Secondo la più recente psicologia c’è anche un « rappresentare » o un piacere o dolore che vaga privo di io nel libero spazio dell’anima !  





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locutae sunt). Per il numen che aveva, o meglio da cui era avuto, si impiegavano tanto la categoria di « forza » quanto quella di « anima ». Riassumiamo :  









a) Voler derivare la potenza numinosa dalla potenza magica significa mettere le cose sottosopra, perché, prima che il mago possa appropriarsene e manipolarla, tale potenza è « appercepita numinosamente » già da tempo nelle piante e negli animali, nei processi e nelle cose naturali, nell’orrore per le ossa dei morti e anche indipendentemente da tutto questo. Mago è soltanto colui che sa impadronirsene, in modo competente o incompetente, come taumaturgo o come mago malvagio ; e che ripete in sé e nel suo comportamento le caratteristiche della « potenza » o dell’« essere di potenza », imitandole.  













b) La differenza tra forza psichica e materiale è una osservazione modernista. Il primitivo appercepisce lo psichico anche materialmente, e appercepisce il materiale anche psichicamente. Che si possa « lavar via » da sé il numinoso-negativo, per esempio il « peccato », non è una prova contraria, perché ci si può anche attirare qualcosa di psichico, il coraggio, la forza, la saggezza di un altro, mediante procedure materiali, per esempio mangiandolo, e si possono allontanare o attirare cose materiali con mezzi « psichici », per esempio col « pensiero efficace ».  















c) Se vi sia stata prima la « potenza » impersonale o il portatore personale della potenza è irrilevante : i puri principi di « potenza » possono essere di per sé « persona », come Manyu ; d’altra parte soggetti di potenza concretamente pensati come personali possono sciogliersi in « potenze » pure. Ciò da cui tutto dipende negli inizi « della religione » è che entrambi, sia la « potenza », sia i « portatori di potenza », sono per i primitivi, esattamente allo stesso modo, oggetti del timore religioso ; entrambi compaiono in molteplici suddivisioni ; entrambi possono elevarsi dalla rappresentazione che suddivide a grandi principi del mondo unitari : la potenza al brahman, « potenza » del mondo impersonale, pensata in modo unitario ; i portatori di potenza a Išvara, il « dio » del mondo personale, pensato in modo unitario. Nessuno dei due è nato da una psicologia o da una fisiologia primitiva : sono nati entrambi da concezioni numinose originarie.  

















































* Nota alla p. 353 : Questa idea del capostipite è mantenuta, con l’intero suo senso originario, nella nostra dottrina del « vecchio Adamo », che, in quanto principio unitario del genus homo, vive in ogni membro di questo genus e pecca, e che in pari tempo viene temporalizzato, nel senso del tempo originario, insieme al suo peccato originale e viene posto, in quanto capostipite, all’inizio della serie. ** Nota alla p. 364 : Le psychai possono occasionalmente possedere dynameis soprannaturali, ma non le possiedono sempre e da se stesse. Da questo punto di vista si distinguono, e si temono e venerano, quelle psychai che dimostrano in qualche modo di possedere uJperbavllousavn tina kai; qeivan duvnamin (Pfister), che dimostrano di avere thymos, menos, manyu, dakscha, śakti, śri, mana, orenda, manitu.  







MISTICA ORIENTALE E MISTICA OCCIDENTALE 1 «

E

ast is east, and west is west, never they well meet » 2 – così ha detto un poeta inglese, Rudyard Kipling. È vero ? Davvero l’universo concettuale orientale e quello occidentale sono grandezze tanto diverse e incommensurabili che non possono incontrarsi, né, quindi, comprendersi nel loro fondamento più profondo ? Per porre tali questioni e rispondervi, nessun ambito della vita spirituale umana è tanto appropriato quanto quello della mistica e della speculazione mistica. Poiché si leva dal più profondo dello spirito umano, è soprattutto in essa che deve mostrarsi l’elemento proprio e incommensurabile di una particolare specie dello spirito. E se in generale vi sono reciproche incompatibilità e differenze che separano in modo fondamentale, allora è in quest’ambito che debbono mostrarsi con la massima forza. Anche gli stessi orientali hanno affermato abbastanza spesso che un occidentale non potrà mai penetrare l’intimo del modo di pensare mistico-indiano o i misteri della mistica cinese dhyāna 3 di un Bodhidharma 4 o di uno Hui-Neng ; 5 così come un orientale non potrà mai rivivere in modo genuino e profondo i motivi della grande speculazione occidentale : a cominciare dal primo geniale metafisico tedesco, Meister Eckhart, fino a Kant e Fichte. All’affermazione di Rudyard Kipling si oppone quella totalmente diversa per cui la mistica sarebbe in ogni tempo e in ogni luogo la stessa. Atemporale e astorica essa sarebbe sempre uguale a se stessa. Qui sparirebbero oriente, occidente e altre differenze. Che il fiore della mistica sbocci in India o in Cina, in Persia o sul Reno e in Erfurt, il suo frutto sarebbe sempre lo stesso identico. E che le sue formule si rivestano dei dolci versi persiani di Jalâl ad-Dîn Rûmî o del leggiadro medio-alto tedesco di Meister Eckhart, del dotto sanscrito dell’indiano Śan˘kara o dei laconici enigmi della scuola Zen cino-giapponese, comunque esse possono sempre essere scambiate l’una con l’altra. È la stessa identica cosa che qui parla, solo che – casualmente – lo fa in dialetti diversi : « East is west, and west is east ». Vogliamo qui comparare, in breve, la mistica occidentale e quella orientale. In ciò debbono guidarci i due suddetti punti di vista. Anticipiamo e premettiamo subito il nostro risultato : sosteniamo che nella mistica agiscono potenti motivi originari dell’anima umana, che come tali sono del tutto indifferenti alle distinzioni di clima, di regione o di razza ; e che nella loro concordanza mostrano una interna parentela delle specie di spirito e di vissuto umani, che è davvero sorprendente. Ma vogliamo poi riconoscere che è falsa l’affermazione per cui la mistica sarebbe appunto sempre mistica, sempre e ovunque la stessa identica grandezza ; e che in essa vi sono piuttosto varietà di impronte pari a quelle che si riscontrano in ogni altro ambito, quello della religione in genere o dell’etica o dell’arte. E, terzo, diciamo : queste suddette varietà come tali non sono, a loro volta, condizionate da razza o regione.  

























1

  Edizione originale : Östliche und westliche Mystik, « Logos », 13, 1924, pp. 1-30.   Il verso esatto è : « East is east, and west is west / Never the twain shall meet », ed è tratto dalla poesia The Ballad of East and West, 1889. 3   Meditazione. 4   Bodhidharma (vi secolo d. C.), monaco indiano, è ritenuto il fondatore del buddismo Zen in Cina. 5   Hui-Neng (680-713) è il sesto grande patriarca del buddismo Zen. 2













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Per questa comparazione di Est e Ovest scegliamo qui due uomini, che sono stati i più grandi rappresentanti ed esponenti di quanto si deve soprattutto e innanzitutto intendere per mistica orientale ed occidentale, e che già abbastanza spesso sono stati posti l’uno accanto all’altro : per l’oriente indiano il grande Ācārya Śan˘kara ; per l’occidente tedesco il grande Meister Eckhart. Con un po’ di abilità si potrebbero raccogliere e stilizzare le loro dottrine fondamentali in modo tale che le formule dell’uno appaiano come una traduzione dal sanscrito in latino o in medio-alto tedesco e viceversa. E sicuramente questo non è un caso. Formule e nomi, infatti, non sono di per sé nulla di casuale, ma procedono necessariamente dalla cosa stessa e la esprimono. E nella loro simiglianza o uguaglianza si rispecchia simiglianza o uguaglianza della cosa stessa, alla quale essi debbono dare espressione. Del resto, la corrispondenza tra questi due « maestri » – perché anche ācārya significa « maestro » – è vasta e notevole anche da altri punti di vista. Nessuno dei due è un fenomeno casuale del proprio tempo. Così come, in generale, i rispettivi « tempi » hanno tra loro notevoli corrispondenze, questi due uomini si corrispondono nella posizione che rispettivamente hanno nel e riguardo al loro tempo. Dei movimenti e delle grandi tendenze universali presenti in questo e nel loro ambiente entrambi sono, allo stesso modo, espressione e ricapitolazione. Entrambi si radicano, allo stesso modo, in un’antichissima eredità di epoche passate e di grandi tradizioni, che essi riconfigurano e sviluppano in modo nuovo. Entrambi sono contemporaneamente teologi e filosofi, e lavorano con tutti gli strumenti del pensiero teologico e filosofico del loro tempo. Entrambi sono uomini di astratta, elevata e perciò sottile speculazione. Entrambi sono mistico e scolastico in una persona sola, e tentano di restituire il contenuto della loro mistica con gli strumenti della loro formazione scolastica. E – cosa degna di nota – entrambi presentano la loro dottrina nella forma di commentari alle antiche scritture sacre della loro comunità religiosa : Śan˘kara lo fa commentando le antiche Upanis≥ad e in particolare la sacra Bhagavadgītā ; Eckhart interpretando i libri della Sacra Scrittura. Entrambi conducono la loro interpretazione nello stesso modo : costringono gli antichi testi al servizio della loro dottrina. Entrambi riassumono poi la loro dottrina in una grande opera speculativa : Śan˘kara nel suo Bhās≥ya ai Brahmasūtra, Eckhart nel suo opus tripartitum. Come già accennato, i due sono anche « contemporanei » : certo, Śan˘kara vive e prospera intorno all’800 ; Eckhart vive tra il 1250 e il 1327. Ma « contemporanei » in senso più profondo non sono solo quelli che casualmente vengono al mondo nello stesso decennio, ma coloro che rispetto al loro ambiente si trovano nei punti corrispondenti di uno sviluppo parallelo (in questo senso, per esempio, anche i giapponesi Honen 6 e Shinran 7 sono non soltanto affini spiritualmente a Lutero, ma proprio suoi contemporanei). Ma, in effetti, ancor più sorprendente di queste corrispondenze esteriori è la simiglianza del loro atteggiamento mistico, della speculazione che ne scaturisce e dei motivi che guidano tale speculazione. Vogliamo trattare di queste cose e riconoscere nelle affinità, che sono indiscutibilmente e profondamente presenti nella loro simiglianza, l’anima dell’orientale e quella dell’occidentale.  



































1. Dottrina della salvezza o metafisica ?  

1. Śan˘kara è il classico maestro e rappresentante dell’« advaita » nella sua forma più acuta e rigorosa. Advaita significa « non-dualità » o mancanza di dualità. Lo si traduce con  



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  Honen (1133-1212), monaco buddista giapponese, fondatore della « setta » o « scuola » della « terra pura ».   Shinran (1173-1262), discepolo di Honen.

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mistica orientale e mistica occidentale

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« monismo » (ma sarebbe più esatto « non-dualismo »). E questa dottrina monistica si lascia riassumere nel motto : « Veramente essente è solo il sat, l’ente stesso : l’eterno brahman. Immutabile, senza modificazione e cambiamento, senza parti e molteplicità ». « Ekam eva, advitīyam ». Questo significa : a) tutta la molteplicità delle cose c’è solo per mezzo di « māyā ». Māyā si traduce con « apparenza ». Il sat stesso, però, è « solo uno » : « ekam eva ». E questo significa : b) anche in se stesso brahman, l’ente stesso, è assolutamente e invariabilmente « soltanto uno », ossia senza parti, senza pluralità in generale, dunque senza la pluralità delle diverse determinazioni e dunque, necessariamente, senza determinazioni in generale : nirgun≥a, aviśis≥t≥a. Dunque « advitīya », mancante di dualità all’esterno e all’interno. Questo eternamente-uno, però, secondo la sua essenza unitaria, è tutto e solo ātman, ossia spirito da cima a fondo, o caitanya, ossia pura coscienza, o jñāna, ossia, da cima a fondo, pura conoscenza. In pari tempo, però, poiché è senza alcuna pluralità, questo spirito, o questa coscienza, o questa conoscenza, è al di là delle « tre contrapposizioni » di conoscente, conosciuto e atto di conoscenza. (Nel nostro linguaggio : non è tanto inconscio quanto piuttosto ultraconscio, non tanto privo di coscienza, quanto piuttosto identità tra chi è cosciente e ciò di cui si è coscienti.) Come tale è contemporaneamente « ananta », infinito, e al di fuori di spazio e tempo. La nostra anima, l’« ātman interiore », non è altro che questo stesso brahman uno, unico, eterno, immutabile, privo di determinazioni. Mediante l’enigmatica potenza della māyā sorge in essa la « avidyā », il non-sapere (meglio : il falso sapere). Mediante questa, viene ingannevolmente « configurata » per l’unico ente la pluralità del mondo. Così l’anima guarda l’ente, che però è uno solo, come mondo, come molteplice, come pluralità di cose singole ; e guarda se stessa come anima singola, impigliata nel « samsāra », nel corso di questo mondo mutevole, nella catena della nascita e della rinascita. Se le giunge il « samyagdarśana », la conoscenza vera e completa, allora l’illusione della pluralità e della diversità sparisce. Essa si conosce e si sa come lo stesso brahman eterno. Il sapere così riassunto è il vero sapere. Qualsiasi altra cosa l’uomo possa pensare, nella rappresentazione popolare o in forma scientifica, nella mitologia o nella teologia, è mithyā, è vano, è un inganno che si trova assai al di sotto del livello di chi sa, e che è apparenza inconsistente. Si potrebbe ora facilmente trattare Eckhart nello stesso modo in cui qui è stato trattato Śan˘kara. E si potrebbero raccogliere dai suoi scritti affermazioni dello stesso tenore, o quasi, di quelle precedenti. Formule analoghe potrebbero essere tratte immediatamente dai suoi scritti o potrebbero essere formate a partire dal fatto che « sono implicite nella consequenzialità del suo pensiero ». Da queste si potrebbe produrre una « metafisica » quasi dello stesso tenore : e si avrebbe completamente ragione sulla concordanza, meno sulla « metafisica ». Anzi, proprio in questo vi sarebbe la prima concordanza con Śan˘kara : nel senso più profondo, infatti, nemmeno lui, è un « metafisico », ma qualcos’altro. 2. Śan˘kara viene presentato senz’altro come il più grande « filosofo » dell’India. E si è soliti trattare anche Meister Eckhart come creatore di un sistema originale nella storia della filosofia. Tuttavia i due convergono in modo molto profondo nel fatto di non essere tanto filosofi, quanto piuttosto teologi. Senz’altro sono metafisici, ma non nel senso della metafisica di un Aristotele o delle scuole filosofiche. Il loro interesse portante non è quello « scientifico », rivolto a una spiegazione teoretica del mondo, ai fonda 

















































































































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menti « metafisici » e alla scienza del mondo : « We do not explain the world. We explain it away », 8 mi diceva un discepolo di Śan˘kara. E coglieva nel segno. Né per l’uno, né per l’altro si tratta di una conoscenza che muove dall’impulso al sapere in direzione di una spiegazione teoretica del mondo, ma di una conoscenza che muove dal « desiderio di salvezza ». Certamente cercano entrambi la conoscenza dell’essere, che è, in entrambi, una delle loro formule supreme : ma conoscenza d’essere in quanto conoscenza di un essere salvifico. Questo vuol dire che i due non perseguono un interesse scientifico per i fondamenti ultimi, per l’assoluto e per il suo rapporto al mondo – anche se vi sono alcune sporadiche affermazioni sull’« anima » e sulla sua condizione metafisica – , ma vengono guidati dall’interesse per una idea che è totalmente al di fuori di ogni speculazione scientifica e metafisica ; un’idea che, commisurata a tale speculazione o a qualche altro concetto razionale e scientifico, non può non apparire puramente fantastica e del tutto « irrazionale » : è l’idea della « salvezza » e del modo in cui quest’ultima può essere ottenuta. a Questo fatto, però, in modo del tutto concordante in Śan˘kara e in Eckhart, conferisce ai loro termini e principi « metafisici » un senso che, senza questo fatto medesimo, non avrebbero avuto. In verità è questo soltanto che li rende entrambi mistici e che conferisce a tutti i loro concetti una coloritura mistica. L’« essere » di cui essi parlano deve essere salvezza. Che sia uno, senza un secondo, che sia indiviso, senza apposizione e predicati, senza modo e maniera (come dice Eckhart esattamente allo stesso modo di Śan˘kara), tutto ciò non è un mero fatto metafisico, è in pari tempo un fatto di salvezza. Che l’anima sia eternamente una con l’eternamente-uno non è un fatto interessante sotto il profilo scientifico, ma è ciò da cui dipende la sua salvezza. E tutte le assicurazioni e le dimostrazioni della completa indivisione, della completa semplicità, dell’identità senza residui, le dimostrazioni e i proclami contro la pluralità, la separatezza, la dispersione e la molteplicità – per quanto si atteggino a ontologia razionale – sono per entrambi sensati, in ultima analisi, perché, appunto, sono salvifici. « Dove vi è distinzione, anche per un attimo, là vi è pericolo, là vi è grande indigenza ». Tuttavia, muovendo dal terreno della nostra odierna ontologia, è quasi impossibile comprendere come gli uomini potessero avere interesse, e un interesse ardente, per queste rigide affermazioni di un essere uno e inseparato, per il « sanmātra », per il puro essere, che non è altro che essere, per l’« esse purum et simplex », per l’essere « senza modo », il « neti neti », non così né così, per il sorgere e tramontare in questo « essere puro » che per noi sarebbe la cosa più vuota di tutte. A noi questo « puramente essente », e il permanere in esso, apparirebbe necessariamente come uno stato di noia sconfinata, di completa assenza di senso e valore. Che però questi due uomini avessero questo interesse, e che da questo soltanto entrambi siano stati mossi, questa circostanza ci dovrebbe dare l’occasione di guardare meglio, per riconoscere facilmente come in verità le cose stiano per entrambi in modo analogo. L’essere, di cui entrambi parlano, apparve loro come ciò che è veramente di valore, come l’unica cosa che lo è totalmente, come ciò con cui, in pari tempo, ogni valore è  



































































a   E ciò è stato facilitato, se non offerto, a Śan˘kara e Eckhart quasi dalla stessa circostanza : il termine sanscrito sat (ente) ha, già in quanto termine di linguaggio ordinario, il senso collaterale di reale, vero, giusto, buono ; e il termine latino « esse » in Eckhart è, secondo l’antica dottrina di scuola, « convertibile con verum e bonum ».  











8

  « Noi non spieghiamo il mondo, ce ne sbarazziamo ».  



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dato. E solo per questo diviene oggetto di interesse. Per entrambi l’essere diventa ciò che è veramente di valore in quanto entra in un determinato contrasto al quale oggi non pensiamo subito ; il che accade in modo graduale, ossia in due gradi o livelli che i maestri non distiguono, o non distinguono consapevolmente, e che però possono esser distinti chiaramente, e cioè : a) L’essere ha il suo valore – in una forma concettualmente chiara, « razionale » – in quanto viene contrapposto al « divenire » e al modificarsi nel divenire. Noi oggi non siamo soliti operare questa contrapposizione. Quando parliamo di « essere » pensiamo per lo più semplicemente all’« esistere ». E questo, per noi, non ha di solito come contrapposto il « divenire ». Anche il « diveniente », infatti, anche una cosa compresa nel divenire « esiste », appunto come diveniente. E un processo evolutivo, per esempio di crescita, « comunque c’è », ossia esiste, appunto, come processo. Per noi l’« essere », in quanto esistere, non ha un opposto reale, ma ha per opposto soltanto la semplice negazione di se stesso. Del tutto diverso l’essere nel senso degli Eleati o di Platone, così come in quello di Eckhart e di Śan˘kara. Qui il « divenire » è opposto all’« essere » : e lo è in quanto strana via di mezzo tra essere e non essere, tra sat e asat, in quanto qualcosa che (come Śan˘kara dice della avidyā) non essendo determinabile mediante sat o asat è « anirvacanīyam ». Insieme al divenire, anche il modificarsi è, di contro all’essere, l’anitya, il non permanere, la fluidità e la caducità. Per converso, l’essere si trova di contro ad ogni modificazione, cambiamento, trapasso, e per questo è allo stesso tempo il « satya », il « vero », ciò che solo e realmente è reale, ciò a confronto del quale ogni divenire sprofonda da sé (e, in realtà, anche senza la dottrina della māyā) nella totale o parziale apparenza. In quanto reale e non caduco, però, l’« ente » è allora contemporaneamente ciò che è « perfetto » e compiuto. E tutto questo, evidentemente, in una misura tanto superiore quanto più è l’« essere » stesso puro e semplice, « sad eva », « esse purum et simplex », senza mescolanza e accidente, senza upādhi o accidens, senza gun≥a o qualitas. Se, ora, si assumono queste affermazioni sull’« essere » in questa sua prima contrapposizione per sé, esse sono tutte anche affermazioni ontologiche nel senso più rigoroso ; ma sono anche e subito tutte, in misura somma, « cariche di valore ». Contengono e dicono una « salvezza » per colui che è impigliato nell’infinito volgere del divenire e dell’« errare », che è esiliato nella molteplicità, nel divenire e ri-divenire, e che diviene libero da tutto questo se raggiunge, o è, l’« ente » o l’« essere » stesso. Senza questo « carattere di valore » la teoria di questi due uomini sarebbe una (più che mirabile) ontologia : ma i due non avrebbero scritto nemmeno una riga. A ciò si aggiunge ancora qualcosa che si trova in Eckhart in tutta chiarezza, ma, quanto al senso, anche in Śan˘kara : ciò che è puramente essente, che non è altro se non l’essere, è appunto, in quanto tale, anche completa pienezza d’essenza, incommensurabile ricchezza dell’essere e del contenuto d’essere. In Eckhart questo pensiero si ottiene « razionalmente », mediante la « logica » che egli segue. « Essere » è il concetto più universale sotto il quale tutti gli altri sono sussunti, nella cui sfera tutti sono contenuti. Ora, per noi oggi il concetto più universale è quello più ampio quanto alla sfera, ma anche il più povero quanto al contenuto. Non è questa l’opinione di Eckhart e della sua logica. Per lui il concetto sovraordinato contiene in sé anche quelli inferiori, in modo tale che racchiude, secondo la possibilità, ogni loro contenuto essenziale. « Colore », per esempio, non sarebbe per lui più vuoto o più povero, quanto a contenuto essenziale, di blu, rosso, verde, ma incomparabilmente più ricco di ogni singolo concetto di colore, perché ha in sé la possibilità di tutti i colori reali, anzi non solo di questi, ma di tutti i  



































































































































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colori possibili in generale. Così per Eckhart l’« essere » non è, come per noi, il più vuoto di tutti, ma l’incommensurabilmente ricco, è « dives in se ». E chi diviene « essente » entra nella ricchezza di ogni pienezza d’essenza in generale. Anche in Śan˘kara e nella logica indiana la situazione è questa, ma non riveste alcun ruolo per la speculazione teologica. Per questo in lui restano chiaramente validi gli antichi detti delle Upanis≥ad, per cui il brahman è « sarvam idam, yatkimca jagatyām ». b Anche per il « sat » di Śan˘kara vale il paragone che spesso è applicato a buon diritto all’« esse » della mistica occidentale, per cui sarebbe quasi l’acqua madre 9 che, essendo in sé assolutamente semplice ed omogenea (ekarasa), ed essendo « solo una », tuttavia contiene in sé fusa e sospesa l’intera pienezza di tutti i contenuti dell’essere. Non si può applicare in modo più pertinente questo paragone, se non a quella grandiosa posizione fondamentale di Śan˘kara nel sesto Prapāthaka 10 della Chāndogya-upanis≥ad, che ha proprio l’intento di mostrare come l’unico sat sia la matrice di ogni pienezza d’essenza in genere. E la sua « similitudine del miele » c ha esattamente il senso dell’acqua madre omogenea. Da questo Prapāthaka derivano proprio i due « grandi detti » : 11 « Sad eva idam āsīt agre, ekam eva, advitīyam » 12 e « Sa ātmā. Tat tvam asi ». 13 Anche per la mistica di Śan˘kara sono caratteristici quei sentimenti di espansione o di allargamento attraverso cui il mistico crede, se raggiunge l’« essere stesso », di raggiungere la pienezza infinita dell’essere. b) Ora, se è stato ancora possibile definire le valutazioni precedenti « razionali », o in certa misura tali, è però subito evidente che nei due maestri si raggiunge un livello superiore di valutazione, che introduce un valore completamente irrazionale o, come diciamo noi, « numinoso ». A partire da questo grado superiore di valore, l’intera speculazione sull’essere, sia in Eckhart sia in Śan˘kara, non appare più come la cosa principale, ma come qualcosa che è utilizzato a servizio di un’idea diversa e in realtà superiore. Alla luce di questa, allora, l’« essere » stesso si colora in modo peculiare. Esce dalla sfera razionale, alla quale in prima battuta indubbiamente appartiene. Diviene quasi un ideogramma di qualcosa di « totalmente altro ». Il « totalmente altro » dell’essere, in Eckhart, è chiaramente e immediatamente visibile, nella misura in cui in lui coincide con l’essere autentico ; il vero essere si presenta in contrapposizione a ciò che altrimenti si intende per essere, ossia l’essere « empirico », come anche possiamo dire. E in lui questo gradino superiore e la sua essenza irrazionale divengono ancor più evidenti quando egli, dopo aver fatto, abbastanza a lungo, dell’esse quasi la definizione essenziale della divinità, dichiara infine che Dio è al di sopra dell’essere e anzi è piuttosto un « nulla ». In Śan˘kara questo momento irrazionale si mostra nel fatto che il sat di cui parla deve essere appunto il brahman, un’entità assolutamente meravigliosa, del tutto sopra-razionale, uno yaks≥a, una cosa assolutamente miracolosa, che si sottrae ad ogni pensabilità. In entrambi i maestri è chiaro che il concetto dell’« essere » puro (anche nonostante i significati valoriali menzionati) è appunto il massimo che il concetto o la ratio possono  



















































































b

  Tutto ciò che è nel mondo, qualsiasi cosa sia.   Cfr. il commentario di Śan˘kara a Chāndogya 6, 9. Putroppo non ancora disponibile in tedesco.

c

9   Il termine Mutterlauge appartiene al lessico tecnico della chimica : l’« acqua madre » è il liquido che residua dopo la parziale cristallizzazione del soluto presente in una soluzione. 10   Capitolo, lezione. 11   Otto traduce letteralmente il sanscrito mahā-vākya (grande-frase). Tali frasi vengono dette « grandi » non per il loro contenuto, bensì perché contengono più di un verbo, ovvero più di un’informazione. 12   « Esso solo era all’inizio, unico, senza un secondo ». 13   « Questo è l’ ātman. Tu sei questo ».  

















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offrire per avvicinarsi alla cosa cosa somma ; un massimo che però resta al di sotto della cima e che, in ultima analisi, si rivela essere un mero « schema » razionale di qualcosa che in fondo è assolutamente debordante, ossia di un numinoso. « Sa ātmā. Tat tvam asi ». « Brahmāsmi » : 14 tutto questo è chiaramente qualcosa di più e di « totalmente altro » rispetto all’affermazione razionale : io sono divenuto puro essere, sono l’essere stesso. Ed è esattamente la stessa cosa quando Eckhart parla dello homo nobilis, dell’uomo « divinizzato ». Qui vi è qualcosa di più dell’uomo pervenuto al vero esse. Qui qualsiasi concetto è semplicemente inadeguato. E nelle relative spiegazioni, le mere definizioni dell’essere si allontanano anche in Eckhart a miglia di distanza. Egli le può dimenticare del tutto. Allora non è più nell’« essere » : è puramente e totalmente nel « miracolo » (come lo chiama), ossia è completamente nell’ambito di una posizione e valutazione puramente numinoso-irrazionale. E quando impiega ancora l’esse e la « collatio esse » anche a questo livello, l’« esse » è in effetti divenuto esso stesso qualcosa di puramente miracoloso, completamente incomprensibile e puramente fantastico per l’« ontologo » e il « metafisico », ma ben familiare per il teologo. Così è anche nell’originaria concezione del brahman. Eckhart dice « miracolo », la tradizione delle Upanis≥ad dice āścarya 15 e yaks≥a ; e, in ultima analisi, il brahman resta questo anche in Śan˘kara. Per quanto si sforzi di catturarlo nei concetti della sua speculazione come sanmātra, cit, caitanya, jñāna, egli deve però lasciarlo come ciò che è ; ossia come ciò  



























































di fronte a cui le parole si rivoltano, e che nessun intelletto raggiunge. 16

In ogni caso, riassumendo a) e b) come il sad eva o esse purum et simplex e come ciò che in verità è al di sopra di sat ed esse, come ancora-razionale e come totalmente sopra-razionale : le due cose sono brahman in Śan˘kara e Dio e divinità in Eckhart, qualcosa che è salvifico in modo debordante ed è la salvezza stessa. E solo per questo Śan˘kara pratica la sua brahmajijñāsā e Eckhart la sua metafisica dell’essere e ultra-essere. Solo per questo essi speculano, producono dottrine e tentano di annientare dottrine contrarie.  

Infatti – dice Śan˘kara – se si volessero assumere sconsideratamente [le dottrine estranee], si potrebbe danneggiare la propria beatitudine, e incappare nella dannazione. Per questo deve essere raccomandata l’attuazione della ricerca sul brahman come mezzo per la beatitudine. d

2. La via della conoscenza 1. I due maestri sono maestri di salvezza : questa è la loro concordanza più profonda. Ma la via per la salvezza è la conoscenza : e questa è la seconda concordanza di questi maestri, uno dell’oriente, l’altro dell’occidente. Più che per ogni altra cosa, più che per i contenuti della loro speculazione, più che per la meta della salvezza – l’unità con il divino stesso –, questi due « mistici » sono tra loro simili, e la loro « mistica » è caratterizzata in modo concordante, per il loro metodo per raggiungere la salvezza, o meglio per possederla. Il metodo è lo stesso e consiste  











d   Cfr. il commento di Śan˘kara ai Brahmasūtras nella traduzione di Deußen, p. 10 (Leipzig 1887). Sulla dottrina di Śan˘kara e della sua scuola cfr. SR. Rāmānuja è il grande avversario di Śan˘kara ; ma nel suo opporsi, egli stesso offre innanzitutto una esposizione magistralmente chiara e corretta della dottrina da confutare, quella di Śan˘kara e della sua scuola.  

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  « Io sono il brahman ».   Cfr. DH, supra, p. 312.   Taittiriya Upanis≥ad 2, 4.

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nel fatto di non averne propriamente alcuno ! Ogni altro « metodo mistico », tutto ciò che è artificiale auto-allenamento a « vissuti mistici », ciò che è « guida dell’anima », addestramento, esercizio, tecnica del divenire spirituali, artificiale intensificazione del sé, è profondamente al di sotto e lontano dalla loro via. Questa non è una « mistica » negli altri sensi del termine. O meglio : è un tipo di mistica che, nel suo atteggiamento, è più lontana da altri tipi di mistica che non da parecchie forme di devozione non mistica. Senz’altro Śan˘kara, conformemente alla tradizione vetero-indiana, riconosce lo « Yoga dalle otto membra ». Ma non è uno yogin e il samyagdarśana non viene ottenuto mediante Yoga. Allo stesso modo Eckhart riconosce, all’occasione, l’antica methodus mystica, la via purgativa, illuminativa, unitiva. Ma il suo proprio modo non ha nulla a che fare con quella, che anzi contraddice il suo pensiero fondamentale, perché le « opere » della via purgativa, secondo il suo assunto, possono in generale esser compiute solo se l’eterno è trovato e raggiunto. Prima esse sono morte, non operano nulla e conducono alla creatura, non a Dio. (È simile il rapporto tra opere e « fede » in Lutero.) Allo stesso modo entrambi sono lontanissimi dall’illuminatismo, da contemplazioni e visioni mistico-occulte, dalla magia o para-magia degli stati extra-ordinari, da attacchi ed estasi di natura fisica, da stati di eccitazione o ipereccitazione nervosa, da visioni ed esseri visionari. Entrambi sono, inoltre, in egual misura contrapposti a ciò che nella rispettiva epoca si presentava come concorrente : noi lo chiamiamo « mistica volontaristica », ma è un’espressione assai equivoca perché qui, propriamente, si intende la voluntas non come volontà, ma come sentimento eccitato ; e per mistica si intende ebbrezza di sentimento di un amore soave che si intensifica fino all’amore sponsale. Questo racchiude in sé la ricerca e la tensione verso « sensazioni », commozioni e dolci consolazioni mediante l’erompere e lo scemare di deliziosi stati di dolcezze totalmente o parzialmente sensuali, la tensione verso la delizia del misterioso rapporto nella « stanza nuziale », l’attribuire valore, in generale, ai propri « sentimenti » e ai propri stati d’animo. Nell’epoca e nell’ambiente di Śan˘kara, il corrispettivo esatto era la nascente « bhakti » emozionale, il bhaktimārga al posto del jñānamārga. Bhakti e bhaktimārga potevano anche essere soltanto i nomi per la « via » di un semplice amore di Dio e di un rapporto personale con Dio. Così, per esempio, è inteso in Rāmānuja che in questo somiglia a Lutero. Ma per lo più era, appunto, anche una « mistica volontaristica » : una vita del sentimento determinata in modo fortemente sensuale e spesso sessuale, che, in particolare nell’erotica di Kr≥sn≥ ≥a, aveva i suoi paralleli sospetti con la mistica sponsale occidentale. È proprio di questa mistica bhakti, così come di quella « volontaristica », il raggiungere l’« unificazione » con il Sommo, che è pensato in analogia con i propri bisogni, nel debordare del sentimento mediante il confluire in soavi stati d’amore erotici. A questa mistica l’atteggiamento di Śan˘kara si contrappone in modo freddo e chiaro, avveduto e netto : nei suoi scritti, almeno, non troviamo nulla di questo genere ; e la via che prescrive è, come quella di Eckhart, completamente contrapposta all’altra. La via di entrambi è la « conoscenza », il « sapere », jñāna, vidyā, samyagdarśana : quindi non un sapere che, quale mero presentimento inesprimibile o quale mero sentimento, permane nello stato di ciò che è mistico e pieno di presentimenti. Nessuno è più lontano dalle presunte dichiarazioni fondamentali « della » mistica : « Il sentimento è tutto ; il  

































































































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nome non è che suono e fumo ». È invece un sapere che deve essere tradotto in una dottrina tangibile con tutti i mezzi della dimostrazione, dell’esposizione e di un’acuta dialettica. Ne deriva uno spettacolo quasi incredibile : questi due annunciatori di qualcosa che è in ultima analisi assolutamente irrazionale, non coglibile né comprensibile, che si rifiuta ad ogni concetto, « di fronte a cui le parole si rivoltano », divengono formalmente acutissimi « razionalisti » nel loro lavoro dottrinale, scolastici rigorosi, e si creano il loro solido linguaggio tecnico e la loro dogmatica. Tanto più che con ciò Śan˘kara, o meglio la sua scuola, catturano l’inesprimibile a tal punto, costringono tanto saldamente l’irrazionale in formule, elaborano un linguaggio di scuola tanto rigido e solido, che il « sentimento » si perde troppo, che lo schermo del mistero sommo quasi sparisce e, al posto del profondo linguaggio misterico della tradizione Upanis≥ad, compare un sistema cavillosamente dialettico, con un tipo di pensiero che lavora con capziosità e che sconcerta con sofisticherie una teoria della conoscenza ed una logica sana ; un pensiero che diviene un controsenso, se non proprio una follia, con metodo. « La divinità è tacere », « questo ātman è silenzio », dicono Eckhart e Śan˘kara. Ma entrambi parlano molto, ci spingono in ciò che è più inesprimibile, ne annunciano i rapporti più intimi e cercano di comunicare ai loro allievi, nel modo più determinato possibile, ciò che essi stessi ritengono di possedere come una conoscenza chiarita in modo scolastico. In nessun altro luogo la « dottrina » ha un ruolo maggiore di quello che ha in questi due mistici. Insieme essi sono rappresentanti di un tipo particolare di mistica, che si distingue da altre « mistiche » : la mistica dottrinale è diversa da quella soltanto lirica o che parla per simboli, o dalla mistica cultuale o da quella completamente silenziosa. 2. Tuttavia, nessuna parola della dottrina, nessuna conoscenza che viene dalla dottrina è ancora quella che conta, ossia la conoscenza propria dell’oggetto stesso al quale ogni dottrina può soltanto condurre. Proprio in Śan˘kara, che sarebbe il primo ad accettare questo principio, sembra che le cose stiano altrimenti. Infatti la conoscenza della salvezza, secondo lui, deve essere tale solo sul fondamento di un’autorità e per accettazione di una dottrina. Ogni conoscenza del brahman e dell’unità con il brahman deve poggiare esclusivamente sull’autorità della Śruti, della scrittura, in particolare sul suo « grande principio » : Tat tvam asi = « questo (ossia il brahman) sei tu ». Egli vuole essere senz’altro e interamente « teologo della scrittura », teologo d’autorità, in quanto vuole ricorrere alle proprie fondazioni e dimostrazioni solo nella misura in cui esse sono d’aiuto nel confutare gli attacchi dell’avversario. Ma questa sua affermazione, nella sua autentica tendenza, mira principalmente a rigettare come impotenti nel trovare il brahman ogni « anumāna » umano, ogni tentativo del raziocinio, della ricerca « naturale », della riflessione e del ragionamento, del dimostrare e dedurre, del « tarka ». E questa affermazione, per cui nessuna riflessione « scientifica » naturale, nessuna deduzione o dimostrazione, in breve : nessuna capacità dell’« intelletto » può raggiungere la conoscenza somma, egli la condivide totalmente con Eckhart. In Eckhart questa convinzione si esprime in una « dottrina delle facoltà ». Eckhart distingue una facoltà propria per l’intelligibile, l’« intellectus », che non è ciò che noi usiamo chiamare intelletto, che anzi si trova al di sopra di ogni « capacità » dell’anima, anche al di sopra della « ratio », della facoltà dell’« intelletto » discorsivo, che forma concetti, deduce e dimostra : essa funziona in modo completamente diverso dalla semplice ratio. (Questa ratio in quanto  

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  J. W. Goethe, Faust, i, v. 3457.









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intelletto discorsivo corrisponde abbastanza esattamente al tarka.) Egli collega questa dottrina con quella tradizionale dell’intellectus passivus e dell’intellectus agens, al cui posto compare Dio stesso o la sua parola eterna, che « forma » l’intellectus passivus e gli dà così la conoscenza. E questa dottrina confluisce nella sua dottrina mistica della nascita di Dio stesso nel fondo dell’anima. In una forma più libera, però, egli insegna che Dio viene conosciuto non con deduzioni o dimostrazioni della ratio, ma in quanto l’anima, svincolata da tutti i concetti, rientra in se stessa e nel suo fondo ; e in se stessa, in quanto specchio della divinità, luogo in cui Dio stesso entra ed esce, luogo che anzi è divino ed è Dio, ottiene la conoscenza. Queste ultime dottrine hanno, a loro volta, i loro esatti paralleli nella mistica dell’India, persino nelle sue formule : « ātmani ātmānam ātmanā » ! « Nell’ātman conosco l’ātman soltanto mediante l’ātman ». « Solo mediante l’ātman » ; il che significa : non mediante la capacità degli indriya (sensi) o del manas (senso comune) o del buddhi (attività intellettuale-razionale), ma senza tutti questi organi e mediazioni, immediatamente, per mezzo dello stesso ātman. « L’ātman », ossia : l’ātman-brahman. « Nell’ātman », ossia : nella profondità del proprio ātman. Dice inoltre Śan˘kara – e anche questo è un parallelo – che brahman-ātman non è capace, né ha bisogno di una dimostrazione. È « svasiddha ». Si attesta da sé. Di per sé non coglibile, infatti, è il fondamento della possibilità di ogni coglimento, di ogni pensiero, di ogni conoscenza. Anche chi lo nega, in quanto pensa, riflette e afferma, lo presuppone. Soprattutto, però, per lui vale che la conoscenza a partire dalla scrittura è in generale soltanto provvisoria. L’autentica conoscenza è ciò che egli chiama « intuizione » in proprio, il darśana. Quest’ultima è tanto poco un avere visioni, quanto lo è in Eckhart il conoscere. È piuttosto il « divenir consapevoli del proprio essere brahman », è un « intuitus », un sorgere dell’intuizione, un compimento intuitivo di ciò che la « scrittura » ha insegnato. Questo « divenir consapevoli » non può essere « operato », né ottenuto raziocinando. Non è un’« opera ». Si verifica oppure no, indipendentemente dalla nostra volontà. Deve esser visto. Si accende con la parola dei Veda e con la considerazione approfondita (pratyaya) di questa. Ma è intuizione in proprio. Sorge come un « aperçu » (Goethe). Allora ogni parola dei Veda diviene superflua ; e studio e considerazione si interrompono.  











































































Solo per colui nel quale questa consapevolezza non interviene, per dir così, d’un colpo (con l’apprensione del grande detto : Tat tvam asi), solo per costui il ripetuto pratyaya della parola dei Veda è la cosa giusta (Brahmasūtra, 690).  

In Eckhart è la stessa cosa : e non si potrebbe descrivere in modo più esatto il tipo di « conoscenza » che anch’egli intende ; solo che in lui questa visione ha, per dir così, qualcosa di molto più quieto. Non irrompe, non esplode in un atto particolare, non si rende nota e ci se ne accorge appena. È piuttosto una funzione permanente e globale, un elemento universale finemente distribuito nella vita dell’animo. Per questo in Eckhart non si trova da nessuna parte una teoria in proposito tanto esatta come in questo passo di Śan˘kara. In entrambi il contenuto di questo intuitus, i suoi gradi o lati, potrebbe essere senz’altro separato dalle loro speculazioni condizionate dall’epoca e astruse per il nostro sentimento ; e potrebbe essere espresso nel modo nostro. In Eckhart è facilissimo. Qui il vero contenuto è chiaramente estraibile per chi sia in una qualche misura capace di empatia. Ma quel che si trova in lui concorda col brahmadarśanam di Śan˘kara ; solo che in quest’ultimo, il quale non è un predicatore come Eckhart e non ha il dono magico di far fiorire nell’anima del lettore ciò che vuole e intende mediante la creativa potenza  











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del linguaggio, non riesce ad avvicinarsi al sentimento nello stesso modo. E bisogna prima rompere il guscio secco della sua speculazione e riscoprire i tratti viventi, fusi nel suo « brahman », dell’antica mistica indiana quale vive nelle Upanis≥ad e nei Purān≥a, per riconoscere anche qui più precisamente qualcosa di simile. 3. Un simile intuitus mysticus, dicevamo, è in modo concordante a fondamento della dottrina di Śan˘kara e di quella di Eckhart, ed è l’autentica scaturigine delle loro curiose affermazioni e del loro pathos elevato. Certo, entrambi velano questo fatto nella loro dialettica : e anche questo è una specie di parallelo tra i due. Śan˘kara, o meglio la sua scuola, si sforza in ogni modo di ottenere le proposizioni della dottrina anche dialetticamente. Si tenta di dimostrare che la coscienza coglie sempre solo l’essere, non l’esser-così ; che l’esser altro e la modificazione, anche dal punto di vista logico, non è concepibile ; che il jñāna è sempre unitario e identico a sé, non-divenuto e imperituro. E, come gli allievi degli Eleati, difendono la loro dottrina dell’uno, indiviso, indeterminato, gravando l’avversario delle aporie della percezione e del pensiero. e D’altra parte, Eckhart difende a tal punto la sua dottrina con la dialettica scolastica, utilizza a tal punto i momenti platonici della sua tradizione per stabilire « scientificamente » l’ipsum esse e per raggiungere, partendo da qui, già molte delle sue affermazioni mistiche rationaliter, che si arriva facilmente anche in lui a vedere gli alberi, ma non la foresta. Ma la sua mistica non è il risultato di una scolastica che casualmente ha una coloritura maggiormente platonica, che per giunta fraintende Platone. Al contrario : in lui il fondamento è un peculiare mysticus intuitus, che naturalmente pescava nel suo ambiente e utilizzava come mezzi dialettici concetti e ragionamenti platonici, logica e realismo platonici, dottrina della conoscenza e dottrina dell’essere, i quali però divengono abbastanza spesso per la cosa stessa velamenti, schermature e gusci che rapidamente esplodono. Senza questi ausilii assai dubbi forse il suo scopo si sarebbe forgiato in modo più puro e chiaro un proprio linguaggio simbolico. Ma egli se lo è forgiato. Tale linguaggio, con la sua capacità figurativa e la sua impetuosa plasticità, incrocia costantemente i termini degli scolastici. Ed è completamente sbagliato vedere in esso soltanto l’ornamento o la forma d’espressione poetica dei suoi termini « scientifici ». Tutto al contrario : questi sono razionalizzazioni e trasposizioni artificiosamente dottrinali di qualcosa di proprio e di sorgivo che è assai più vivo e totalmente indipendente da loro. Proprio quel linguaggio parla nel modo più immediato e viene compreso in sé. Tutta la sua speculazione « scientifica » è soltanto un’« idea smagrita in concetto ». 4. Notevolissimo è il rapporto di parallelismo tra i due rispetto alla doppia specie di questo intuitus nel collegamento e nella mescolanza dei suoi momenti duplici. Su questo, diciamo ancora qualcosa di più preciso. La diversità di « tipi di mistica » ci si farà particolarmente chiara. In pari tempo ci sarà possibile stabilire in misura ancora maggiore il tipo particolare di concordanza tra Śan˘kara ed Eckhart, che in loro consiste nel fatto che è concordante la specie della connessione tra due tipi fondamentali. L’intuitus mysticus è tanto poco sempre lo stesso o qualcosa di in sé unitario, quanto poco lo è la mistica. È diversissimo quanto a specie e contenuto. a) Un primo tipo si connette con la massima mistica : « La via misteriosa va verso l’interno ». 18 Allontanamento da ogni esteriorità, ritorno alla propria anima, alla sua profondità, sapere di una profondità misteriosa e della possibilità di entrare e tornare  







































e

  Cfr. su questo in particolare SR, pp. 34-41 e l’acuta confutazione di Rāmānuja, pp. 42-65.

18

  Novalis, Blüthenstaub, 1798.

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in sé ; la mistica come sprofondamento è propria di questo tipo a) : sprofondamento in sé per raggiungere nell’interno di sé l’intuitus, per trovare qui l’infinito, o Dio, o il brahman : « ātmani ātmānam ātmanā ». Qui non si guarda al mondo. Qui si guarda solo dentro di sé. Per l’intuizione finale non è necessario un mondo : qui vale solo « Dio e l’anima ». E questo intuitus andrebbe avanti anche se non ci fosse alcun mondo : anzi, molto più facilmente. f b) Contrapposto a questo è innanzitutto un intuitus di specie totalmente altra : l’ekatādarśana, l’intuizione dell’unità di contro alla molteplicità. In prima battuta essa non sa nulla dell’interiorità. Guarda al mondo delle cose. E nel guardare ad esse, dalla profondità di una disposizione mistica che noi, secondo quanto la valutiamo, possiamo assumere come curiosa fantasia o come sguardo profondo su stati di cose eterni, si sviluppa una « intuizione » o una « conoscenza » di specie sommamente propria. Dobbiamo chiamarla « intuizione dell’unità », perché unità è la sua parola d’ordine, mediante la quale soltanto essa si manifesta. Ma non possiamo ritenere di avere, con questa parola, una spiegazione sufficiente della cosa stessa. L’elemento meramente formale, infatti, per cui qualcosa viene intuito nell’unità o come unità, non dice in realtà quasi nulla ; soprattutto non dice nulla sul perché questo essere nell’unità sia tanto interessante, tanto appassionante da togliere il fiato, tanto carico di valore, tanto solenne, tanto apportatore di redenzione e beatitudine. Questo momento d’unità è solo, per dir così, il pennello di un sommergibile che si trova sott’acqua e che resta visibile solo dalla superficie. È l’unico momento che si lascia, in certa misura, cogliere e prendere in considerazione. E anche questo in modo solo molto imperfetto. Cos’è, infatti, questa « unità » ? Certo non è tale da esser determinabile o identificabile con una qualche forma logica dell’unità. g Ora, questa intuizione d’unità è graduata. Con ciò non intendiamo che la gradazione consista necessariamente in livelli di sviluppo esterni l’uno all’altro e successivi nella storia dell’esperienza mistica o nel vissuto del singolo mistico. Intendiamo piuttosto una gradazione che sembra risiedere in modo essenziale nell’essenza della cosa stessa. Ossia : α) Le cose e l’accadere, in quanto lo sguardo « contemplante » li coglie, non sono più qualcosa di molteplice, separato, diviso, ma sono, in modo indicibile, un tutto, una cosa unica. In modo indicibile. Se infatti si aggiunge che formano un « tutto organico » o « una vita del tutto » o simili, queste sono interpretazioni razionalistiche della cosa, tratte dall’uso del linguaggio scientifico : al massimo sono analoghe, ma non adeguate. Inoltre ogni diversità sparisce : le cose, cioè, non sono più distinte come l’una e l’altra. Anzi, questo è quello e quello è questo. Qui è là e là è qua. Questo non significa innanzitutto che tutte le cose in generale spariscono quanto alla loro pienezza e ricchezza  

























































f   Questo intuitus spinge verso la « conoscenza di sé », verso lo studio dell’anima e la psicologia, si connette speculativamente con la teoria della conoscenza o trapassa in questo e quello. Se le sue idee si smagriscono diventano concetti come « conoscenza innata », « conoscenza a priori », o anche « coscienza in generale ». E nella storia della filosofia si può seguire bene il processo graduale di questo smagrimento dell’idea e della sua consunzione in « scienza ». g   Anche questo intuitus mistico ha i suoi corrispettivi « scientifici ». In questa direzione vanno i concetti « scientifici » di totalità, di universo, di sistema del cosmo, che viene pensato in modo vitalistico come un « sistema di sostanze in azione reciproca » in corrispondenza con l’organismo, in modo meccanicistico-matematico come sistema di masse e di energia ; in questa direzione va anche il concetto di legalità scientifica. E forse i « concetti fondamentali della filosofia della natura » sono stati davvero, come si è sostenuto, tratti « dallo spirito della mistica » come disjecta membra, come membra deflogistizzate e disanimate di intuizioni originariamente mistiche.  









































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d’essenza, ma che ciascuna e tutte sono una sola e medesima cosa. Si ottiene qui la peculiare « logica » della mistica che sospende due leggi fondamentali della logica naturale : il principio di contraddizione e quello del terzo escluso. In pari tempo, però, interviene ciò che si chiama la visione « sub specie aeterni », ossia non soltanto la negazione della forma usuale dell’esser insieme delle cose nello spazio e nel tempo, ma un ordine positivo del loro essere insieme, di specie superiore, ma indicibile. E con ciò si connette, in concomitanza col « divenir uno » delle cose – e soltanto questa è la cosa più essenziale – quel che si deve chiamare una trasfigurazione delle medesime. Esse divengono quasi trasparenti, risplendono, h divengono visioni. Come dice Eckhart, vengono viste – il che connette allo stesso tempo l’ultimo momento menzionato con quello sub specie aeterni – « in ratione ydeali », ossia nella loro idea eterna. Ora, come ha luogo l’identificazione di tutte le cose con tutte, così anche quella di chi intuisce con l’intuito : un’identificazione che è chiaramente diversa e diversamente si realizza rispetto a quella della prima via, la via verso l’interno. Qui infatti non si parla di « anima » e del suo « divenir uno » con l’Altissimo. Né si riflette sull’« anima » del contemplante, ma semplicemente su lui stesso. È lui, infatti, ciò che ciascuna cosa è. E ciascuna cosa è ciò che è lui. L’intuitus mysticus può fermarsi a questo grado. L’accadimento dell’esperienza mistica può essere descritto e indicato semplicemente con questo, senza procedere oltre. L’espressione indiana per tale grado è allora semplicemente : « non guardare più nient’altro ». β) Procediamo oltre. « Il molteplice » viene contemplato « come uno », dicevamo all’inizio. Viene quindi intuita un’unità. Ossia : questo uno ora non è la mera connessione del molteplice, ma un peculiare correlato di questo. L’« uno » diviene « Uno ». Non è più una predicazione del molteplice. Quell’affermazione diviene dunque l’equazione : « molteplice = Uno ». Il molteplice è l’Uno e l’Uno è il molteplice. E le due proposizioni continuano a non essere equivalenti. L’Uno viene in primo piano. L’unità non è risultato del molteplice, né il rapporto è tale che l’unità e la molteplicità siano reciprocamente l’una l’esito dell’altra. È sull’Uno, invece, che ora cade l’accento. L’Uno viene in primo piano rispetto al molteplice, e precisamente nei seguenti tre gradi intermedi : « Il molteplice viene intuito come Uno » ; « il molteplice viene intuito nell’uno (e solo così contemplato correttamente ») ; « l’Uno viene intuito nel molteplice ». L’Uno stesso diviene ora oggetto dell’intuizione in quanto ciò che è sovraordinato e preordinato al molteplice. Esso è il molteplice, non come il molteplice è l’Uno, ma come il principio del molteplice che è al fondo di quest’ultimo, che porta il molteplice, che « è » il molteplice in quanto lo essenzia (weset), lo essera (seint), lo essa (istet). Già qui l’Uno attira distintamente lo sguardo su di sé, attira a sé il valore del molteplice, sommessamente diviene ciò che è autenticamente di valore nel e dietro il molteplice. γ) Così ciò che aveva cominciato come forma del molteplice si fa avanti come l’autentico che è al di sopra del molteplice. Solo un piccolo passo oltre, e si fa avanti persino in contrapposizione al molteplice. Il molteplice, identico ad esso, entra con esso in tensione, svanisce. Svanisce o sprofondando nell’indivisibilmente Uno, come in Eckhart, o divenendo il velo oscurante dell’Uno, il miraggio della māyā in avidyā. Con ciò il senso dei termini « unità » e « Uno » si trasforma. « Unità » e « esser uno » avevano un significato innanzitutto nel senso della sintesi (misteriosa) del molteplice, che nessuna delle nostre categorie razionali di sintesi possibile poteva rendere, e che tuttavia  















































































h















  « Così vedo in tutte l’eterno ornamento », canta Linceo [J. W. Goethe, Faust, ii, 5, v. 11297.].  









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era sintesi. Ma da questa unità sintetica, da unum, nel senso dell’unitario, diviene ora una unità in quanto Uno e Unici-tà (Allein-heit). Il che significa : da unitario diviene unico, da tutto-uno tutt’uno, eka. In pari tempo, in Śan˘kara il rapporto dell’originaria immanenza, ossia dell’immanenza dell’unità nelle e alle cose, dunque l’immanenza delle cose nell’Uno, si ribalta nella completa trascendenza. Il regno del molteplice è ora il completo e malvagio opposto del regno dell’Uno ; è mithyā e bhrama (errore). In Eckhart, in conformità con l’elemento specifico della sua speculazione, l’immanenza più viva dell’Uno, che « si comunica », resta comunque tale, ma allo stesso tempo al di sopra di questo si inarca l’Uno in trascendenza quasi assoluta nel « silente deserto della divinità », nel quale mai venne la distinzione secondo la molteplicità. Il grado β) resta connesso al γ). Possiamo chiamare le due vie descritte in a) e b) : « via dell’intuizione interna » e « via dell’intuizione d’unità ». Esse producono due tipi senz’altro distinguibili di mistica, che possono essere pensati come separati e persino in concorrenza l’uno con l’altro. In Eckhart tanto quanto in Śan˘kara (o, meglio, nella direzione mistica che Śan˘kara e la sua scuola riassumono e compiono) entrambe le vie sono confluite : in Śan˘kara perché nella tradizione indiana erano da lungo tempo confluite ; in Ekchart per un motivo simile. Nello stesso tempo, però, Eckhart è ancor meno di Śan˘kara solo il rappresentante di una tradizione. Tutto ciò che è tràdito viene generato di nuovo in modo originale. Anche la fusione dei due tipi di mistica, e in particolare l’ardente compenetrazione reciproca di entrambi è in lui sgorgata dal proprio cuore più che da modelli precedenti.  

























3. Fronti comuni 3. 1 Il fronte comune contro la mistica degli illuminati Né la mistica di Eckhart, né quella di Śan˘kara, già lo dicevamo, hanno qualcosa a che spartire con la « mistica » come illuminatismo, con fantasie da visionari, con esseri occulti o con la smania di miracoli. Per quanto il suo oggetto sia completamente irrazionale, per quanto il suo mondo sia totalmente contrapposto a tutto ciò che è « razionale », per quanto essa si fondi e culmini nel totalmente irrazionale, per quanto il « conoscere » di Eckhart e il darśana di Śan˘kara siano completamente diversi da intelletto, riflessione, elaborazione propria mediante operazioni logiche della nostra facoltà di pensiero razionale, diversi da ratio e tarka, tuttavia hanno in sé qualcosa di razionale, hanno luminosità, chiarezza, e si trovano nella maggiore contrapposizione possibile ad ogni « misticismo ». Di più : l’illuminato è l’uomo dei miracoli, che riceve rivelazioni private, lumi celesti mediante il miracolo soprannaturalistico di visioni magicamente sovrannaturali. Egli si apre il suo proprio squarcio privato nel velo che è davanti al soprasensibile e in singoli lampi di luce gli arriva l’apocalittica, l’oracolo, il comando. Qui si è completamente immersi nella contrapposizione tra soprannaturale e intranaturale. Questa contrapposizione è di tipo fisico e forze, stati, esperienze vengono qui classificati secondo la contrapposizione di physis e hyperphysis. L’intuitus mysticus, però, è al di là di questa contrapposizione : è mistero, non prodigio ; è « profondità », « fondo dell’anima », « divino », ma non è nulla di magico. Conosce la distinzione di naturale e soprannaturale, che però non è propriamente ontologica, ma è una distinzione di senso e di valore. Un tale intuitus non è nulla di « soprannaturale », non è un donum superadditum, ma è « l’essenziale ». È miracolo, ma non prodigio ; per questo viene sempre scambiato dal soprannaturalista con la « semplice ragione ». Già Eckhart deve prendere le distanze dall’idea per cui egli insegnerebbe la « semplice ragione ».  



















































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Se l’« idea » del mysticus intuitus trapassa nel profano « concetto », allora da questo intuitus non deriva la « semplice ragione », ma la « ragione pura », che si contrappone alla percezione sensibile e alla ragione in quanto facoltà dell’intelletto soltanto riproduttiva. Anche in questa forma, in questa « idea smagrita » dell’intuitus mysticus – perché questo è la « ragione pura » – resta, sebbene assai impallidito, un ultimo elemento solenne, sublime, qualcosa dell’originario carattere di « miracolo ». La ratio pura resta qualcosa di « creativo », come ben si dice, una « facoltà dei principi », una facoltà delle idee, una facoltà di trascendere la percezione sensibile in idee. Essa è però, in pari tempo, la facoltà di produrre una conoscenza universale e necessaria. E proprio questo è caratteristico della mistica di Eckhart e della differenza, che è davvero la più profonda possibile, rispetto ad ogni mistica da illuminati. L’illuminato racconta le sue visioni in sogni che ha solo lui. E i suoi fedeli le assumono sulla base della sua autorità. Ma Eckhart non racconta mai cosa egli cerca, cosa egli conosce. Per lui il soggetto della conoscenza non è questo o quello, non chi ha talento o è particolarmente « teoforo », non un qualche individuo oracolare o dotato per il raptus : è « l’anima ». L’anima : a prescindere dal portatore contingente ; l’anima in quanto penetra nel suo fondamento, nella sua profondità, in quanto diviene « essenziale » e non lascia che la dispersione nella creatura o nelle facoltà ostacoli quella conoscenza che è profondamente nascosta in lei stessa, che in lei deve scaturire in modo universale e necessario se nel raccoglimento medita su se stessa. Altrettanto poco ha a che fare con la mistica per illuminati il samyagdarśana di Śan˘kara. Brahman e brahmanjñāna è eterno, è l’universalmente siddha e svasiddha, è presente nell’ātman stesso come conoscenza, risiede nascosto sotto ogni avidyā come insuperabile, soltanto oscurabile, indimostrabile perché autodimostrato, non bisognoso di alcuna dimostrazione perché ad ogni dimostrazione dona il fondamento della possibilità. Queste proposizioni si avvicinano alla conoscenza di Eckhart e alla dottrina di Agostino della aeterna veritas in anima, che, di per sé immediatamente certa, è fondamento di ogni certezza in generale.  





















































3. 2 Il fronte comune contro la mistica naturale Chi afferma l’unità e l’omogeneità di ogni mistica dovrebbe però esser sorpreso almeno da una contrapposizione che si impone da sé facilmente e in modo stringente anche ad un osservatore superficiale : quella tra mistica spirituale e mistica naturale. Certo, alcuni momenti formali sono concordanti, e per questo le si chiama entrambe « mistica » : la spinta all’unità, il sentimento di identificazione, la scomparsa dell’« altro », la scomparsa della contrapposizione di particolare e universale, l’intera « logica » mistica in contrapposizione a quella razionale. Tuttavia in esse si nasconde una tonalità emotiva completamente diversa. Si ascoltino i versi scroscianti di Jalâl ad-Dîn (nella superba traduzione di Rückert 19) :  

















Sono il pulviscolo nel sole, sono il globo solare. Al pulviscolo dico : fermati. Al sole : sorgi. Sono il lume del mattino. Sono il respiro della sera. Sono lo stormire del bosco, le onde del mare. Sono l’albero, il timone, il timoniere, la nave.  



19   Friedrich Rückert (1788-1866), poeta e orientalista, nel 1819 tradusse una raccolta di 42 ghazal (forma poetica della tradizione lirica persiana) di Jalâl ad-Dîn Rûmî.

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Sono la scogliera di corallo su cui naufraga. Sono l’albero della vita, e il pappagallo che vi si è posato. Il silenzio, il pensiero, la lingua e il suono. Sono il soffio del flauto, sono lo spirito dell’uomo. Sono la scintilla nella pietra, il luccichio d’oro nel metallo, la candela e la falena che le vola intorno, la rosa e l’usignolo che se ne inebria. Sono la catena degli esseri e l’anello dei mondi, la scala della creazione, l’ascesa e la caduta. Sono quel che è e non è. Sono – tu lo sai, Jalâl ad-Dîn, dunque dillo – sono l’anima nel tutto.

Questo è il sentimento mistico naturale del nostro stadio α nel suo passaggio a β. Tutti gli elementi formali là indicati tornano qui : e però quanto è individualmente determinata qui la tonalità emotiva e il contenuto d’esperienza ! Non un soffio di questa tonalità si trova in Śan˘kara. Anche Eckhart non ne sa nulla. E questo è tanto più degno di nota, soprattutto in Eckhart, quanto più per lui Dio ha in sé proprio la pienezza di ogni essentia di tutte le cose. È quel che tutte le cose copiano, rispecchiano ; quello a cui tutte « prendono parte ». In ciò sarebbe davvero data la migliore base teoretica per questo sentimento mistico naturale di Jalâl. Ma la mistica di Eckhart, come quella di Śan˘kara, è appunto mistica spirituale e non naturale. Quest’ultima è ciò che si esprime in Jalâl : la vita nell’uno-tutto della natura, in modo tale che ogni peculiarità, ogni particolarità delle cose di natura viene insieme sentita in se stessi : si danza con il pulviscolo e si splende con il sole, ci si illumina con l’aurora, si mormora con i flutti, si profuma insieme alla rosa e ci si inebria con l’usignolo ; si è e si vive in sé ogni essere, ogni forza, ogni delizia, ogni piacere, ogni pena in tutte le cose, nell’indivisione. La sconfinata differenza rispetto alla mistica di Eckhart è che in quella di Jalâl l’uno-divino viene pensato e vissuto a partire dall’essenza e dalla delizia della natura ; mentre in Eckhart è esattamente al contrario : le cose e l’essentia delle cose vengono pensate a partire dal senso del divino, che è completamente contrapposto alla natura, e a partire dal valore del divino, che è valore di spirito e non di natura. Quella di Jalâl è mistica romantica, i presuppone un sentimento della natura altamente sviluppato, quale non è né in Eckhart, né in Śan˘kara ; essa è, fin nelle forme supreme di astrazione, un naturalismo sublimato e per questo trapassa tanto facilmente nella concupiscenza della mistica erotica. Śan˘kara ed Eckhart, però, scelgono l’infinito dello « spirito », della « conoscenza » : Eckhart, in particolare, lo riempiva con valori che sono anche al di sopra di questi. Quel che c’è in Jalâl si è soliti chiamarlo, con James, sentimento di « espansione », di « allargamento ». Tali sentimenti sono noti, in effetti, anche alla mistica indiana : il divenir sarva, l’esser-tutto e il conoscersi come tutto. E certamente si addice anche ad Eckhart che nell’intuitus l’anima si allarghi « all’universo ». Ma questo allargamento all’universo passa, per dir così, da sopra, passa per brahman-ātman e per Dio e per l’unità con Dio. E i suoi contenuti sono perciò tipicamente diversi rispetto a quelli della mistica di natura. Lo stesso vale della formula : « mistica significa avere l’infinito nel finito » o della deno 



















































i   San Francesco, nel suo Cantico delle creature, mostra maggiore affinità alla tonalità emotiva del cantico di Jalâl che non il mistico Eckhart.

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minazione « mistica dell’infinità ». Come il concetto « infinito », in generale, se non viene chiarificato rigorosamente dal punto di vista terminologico, è soltanto un’espressione comoda per lasciare non chiarito il problema stesso, così la mistica dell’infinità, in sé, non è nulla, o al massimo è quel momento dell’« allargamento ». Sul contenuto dell’esperienza, però, non esprime nulla, e « infinito » può essere la forma dei contenuti più disparati. Come la religione è qualcosa di molteplicemente diverso in sé, come c’è una « religione di natura » e una « religione dello spirito » e parecchie altre differenze di tipo, così c’è una « mistica di natura », una « mistica dello spirito » e parecchie altre differenze tra tipi di misitca. E queste differenze si mostrano in Oriente e in Occidente, ma non si ripartiscono tra Oriente e Occidente. In Śan˘kara ed Eckhart ci si fa chiaro come nello spirito dell’Oriente e in quello dell’Occidente siano sorti tipi di mistica, e connessioni tra tipi, uguali o molto simili. Essi rivelano parentele spirituali dell’anima umana che vanno al di là della razza, del clima e della regione. In loro si fa chiaro che :  

































East is east, and west is west. Still they meet, have met and will meet.

Appendice Sul primo grado della seconda via (cfr. il punto 2.) Abbiamo detto che questo grado dell’intuizione dell’Uno non è necessariamente una posizione a sé stante, che l’anima mistica dovrebbe attraversare prima di spingersi a quello superiore. Ma certo esso può anche presentarsi in modo specifico e restare di per sé ; in tal caso, il suo motto è questo : « non vedere a nient’altro, non intuire differenza, ma intuire non-dualità ». Si riconoscerà subito questo grado come meramente preliminare, non appena intervenga quello superiore : intuire l’uno. Ma questa ulteriore esplicazione dell’intuitus può, per dir così, restare dietro l’orizzonte e l’atto dell’anima può fermarsi sostanzialmente al primo grado. In ogni caso è già in sé un momento caratteristico della posizione spirituale mistica. Ed è interessante raccogliere testimonianze in cui l’esperienza è determinata unilateralmente, o comunque prevalentemente, da questo. Il che accade chiaramente nel capitolo 2, 16 del Vis≥n≥upurān≥a, che traduciamo di seguito :  











1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Ma dopo mille anni Ribhu giunse alla città di Nidāgha, per donare a costui la conoscenza. Lo scorse all’esterno della città, proprio mentre vi stava entrando il Re con un grande seguito, che restava fuori e si teneva lontano dalla ressa del popolo, la gola seccata dal digiuno, mentre tornava dalla foresta con legna da ardere ed erba. Avendolo visto, Ribhu andò da lui e lo salutò e disse : « Perché, o Brahmano, te ne stai qui solo ? » Nidāgha disse : « Guarda la ressa del popolo intorno al Re, che vuole entrare nella bella città. Per questo me ne sto qui ». Ribhu disse : « Chi di costoro è il Re ? E chi sono gli altri ? Dimmelo, perché mi sembri informato ». Nidāgha disse : « Quello che cavalca sull’elefante focoso che svetta come la cima di un monte, quello è il Re. Gli altri sono il suo popolo ».  



   























384 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24.

saggi Ribhu disse : « Mi indichi questi due, il Re e l’elefante, insieme, senza che siano distinti da un contrassegno. Indicami anche il contrassegno. Vorrei sapere chi è l’elefante e chi il Re ». Nidāgha disse : « L’elefante è quello che sta sotto. Il Re è quello che si trova sopra di lui. E chi non conosce il rapporto tra chi porta e chi è portato ! ». Ribhu disse : « Insegnamelo, perché lo conosca anch’io. Che cos’è ciò che viene designato con la parola “sotto” ? E cosa significa “sopra” ? ». In un baleno Nidāgha gettò il Guru a terra e si sedette sopra di lui : « Ascolta, dunque. Voglio dirtelo : Io, quello che tu stai interrogando, sono sopra, come il Re. E tu sei sotto, come l’elefante. Per tua istruzione ti do questo esempio ». Ribhu disse : « Se tu, dunque, sei nella posizione del Re e io in quella dell’elefante, allora dimmi ancora questo : Chi di noi due è tu, chi è io ? ». Allora Nidāgha gli afferrò subito i piedi : « In verità tu sei Ribhu, il mio Maestro. Perché nessun altro spirito è tanto consacrato con la consacrazione della non-dualità quanto quello del mio Maestro. In questo riconosco che tu Ribhu, mio Guru, sei venuto ». « Sì, per donarti l’insegnamento e a motivo della disponibilità che in passato mi hai dimostrato, io, di nome Ribhu, sono venuto da te. Quello che ti ho appena insegnato brevemente – il nocciolo della verità somma – è la completa non-dualità (advaita) ». E dopo aver così parlato a Nidāgha, il Guru Ribhu se ne andò di nuovo. Ma Nidāgha, ammaestrato da questo chiaro insegnamento, si volse totalmente alla nondualità. Da allora in poi vide tutti gli esseri non-diversi da se stesso. E così vide il brahman. E perciò ottenne la liberazione suprema. Così anche tu, uomo di legge, comportati nello stesso modo verso te stesso, verso il nemico e l’amico, nella conoscenza dell’ātman che attraverso tutti si estende. Perché come il cielo viene visto con le differenze di bianco e blu, sebbene sia uno, così anche l’ātman, sebbene uno, viene visto per illusione nella separatezza. Tutto ciò che sempre è qui è l’Uno, Acyuta. Non vi è nient’altro che sia da diverso da lui. Egli è me, egli è anche te, egli è tutto questo che è ātman. Abbandona l’illusione della molteplicità. Così ammaestrato da lui, il Re ottenne la visione della realtà suprema, e abbandonò la molteplicità.  









   







   















   











In questo esempio, la gradazione dei momenti e dei livelli dell’intuitus è straordinariamente chiara e quasi programmatica. Nidāgha non coglie qui subito « l’Uno stesso », come ātman o come brahman o come il Vāsudeva eternamente uno. La visione comincia invece con il fatto che la diversità, separatezza e molteplicità per lui sono sparite ed egli vede in modo non separato. Questo è quello e quello è questo, e tutto è uno. Perciò le domande che si fingono ingenue dei versi 6-11. Dove la diversità della percezione sensibile e spaziale si vuole affermare, là essa si frantuma in io e tu (verso 14). Io è tu e tu è io. E con questa intuizione tramonta anche la diversità delle cose dal sé imposta dai sensi (verso 20 a) e la diversità in generale. Egli intuisce l’advaitam in generale : fin qui porta il verso 20 a. E solo ora il verso 20b prosegue : tathā brahma = « e così anche il brahman », che ora si fa avanti come l’Uno stesso dietro la non-diversità. Si paragonino a questi i ragionamenti che si trovano anche in Eckhart. Se si aguzza molto la vista, si osserverà anche qui in prima battuta la tenue luce, per dir così, di  











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quel fuoco fatuo che consiste nel « non guardare ad altro, alla dualità, al diverso » : una luce che subito diviene quella superiore e che però, anche senza quest’ultima, già illumina.  





Finché l’anima coglie qualcosa di distinto, essa non è ancora come deve essere. Finché ancora qualcosa guarda fuori o guarda dentro, ancora l’unità non è presente. Maria Maddalena cercava Nostro Signore nel sepolcro ; cercava un morto e trovò due angeli vivi. E ne era scontenta ! Allora gli angeli dissero : di che ti angusti ? Come se volessero chiedere : Cerchi soltanto un morto e trovi due vivi ? (Non è molto meglio ?) Allora avrebbe potuto ribattere : Questo è appunto il mio lamento e la mia angustia, che trovo due e cercavo solo uno. Finché il creato si rende noto all’anima in modo distinto, essa sente pena. Tutto ciò che è creato o che può esser tale è un nulla. Ma ogni esser creato, ogni poter esser creato è estraneo a quello (ossia per la cosa stessa contemplata nella sua ratio ydealis). È qualcosa di unitario, riferito a sé, che non riceve nulla dall’esterno (ossia da una causa efficiens o afficiens presente oltre a quella 20 in separatezza). l  















Si cerchi ora di riprodurre il sentimento del fatto che questo è chiaramente un passaggio ad un grado superiore dell’intuitus mysticus, e si veda in pari tempo quanto inavvertitamente il primo grado scivola in quello superiore, quando Eckhart in un altro passo dice :  

Ma finché l’anima intuisce una figura (nāmarūpe, mūrti), fosse pure un angelo, finché intuisce se stessa come qualcosa di figurato, vi è in essa un’imperfezione. Intuisca pure Dio (come qualcosa che le si trova personalmente di fronte) come qualcosa di figurato, come Trinità : vi è in lei un’imperfezione. Se però tutto ciò che è figurato è svincolato dall’anima, ed essa intuisce ancora l’eternamente-uno, allora la pura essenza dell’anima sente l’essenza pura, non figurata, dell’unità divina : che è già più un’oltre-essenza. O miracolo dei miracoli, che patire nobile è questo, ché l’essenza dell’anima non soffre illusione o ombra di distinzione, neanche solo nel pensiero e nel nome. E si affida all’Uno soltanto, senza alcuna molteplicità e distinzione. Nel quale ogni determinatezza e proprietà va perduta (proprietà è sempre propri-tà, separazione e particolarizzazione) ed è uno. Questo Uno ci rende beati (Büttner, II, p. 83.).  



E altrettanto inavvertitamente in Eckhart si può anche riportare il grado superiore, l’intuizione dell’eternamente-uno, a quello inferiore, al semplice intuire senza distinzione. Alla fine del paragrafo Purān≥a, l’uno brahman viene dichiarato l’eterno uno Acyuta, ossia Vāsudeva. Questo significa : nel mistero di questo uno fondamentale viene contemporaneamente assunto il regno dell’autentico valore di Dio, corrispondentemente alla tendenza dell’intero Vis≥n≥upurān≥a. Quest’ultimo insegna infatti l’advaita che il brahman desidera contemporaneamente colmare con il valore di sentimento del teismo e della bhakti personale, come anche Eckhart. E in entrambi ciò non è « inconseguente ». Cosa significa, infatti, « inconseguente » in questa sfera ? Per quanto riguarda la specie dell’intuitus è istruttivo il modo in cui esso si accende in Nidāgha. Il Maestro non gli espone una dottrina dell’ātman o del brahman, non gli spiega una teoria sull’unitotalità, non gliela impone con le aporie logiche del molteplice. Quest’ultima cosa è sempre e soltanto un affare posteriore, che interviene nel punto in  











l   Meister Eckhart, Schriften und Predigten, tradotto dal medio-alto tedesco da H. Büttner, 19122, i, pp. 143-144. 20

  Sc. : la cosa stessa.  

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cui la prima capacità dell’intuitus stesso è già svanita. Ma il suo procedimento ha una notevole somiglianza con il metodo del kôan nella scuola Dhyāna, di cui ho parlato altrove. m Attraverso una domanda sconcertante che improvvisamente blocca l’allievo, il quale fino a quel momento sapeva rispondere in modo eccellente, il suo intuitus viene, per dir così, portato all’esplosione. Ora nell’allievo è presente l’intuitus in persona. E ora, in lui, esso si dispiega fino all’intuizione della non-diversità, dell’unità, dell’Uno, del brahman, del Vāsudeva, che essenzia (weset) tutto in unità. Questo gradino, in cui l’accento cade in prima battuta sulla stessa non-dualità o, come diciamo, sull’identità di tutto con tutto, si mostra spesso anche nelle Upanis≥ad. E talvolta si ha quasi l’impressione che vi siano state correnti filosofiche in cui la cosa principale era questa intuizione mistica dell’identità, la quale all’occasione poteva anche fare a meno dell’intuizione di ātman e brahman o utilizzava questi due in un senso che non andava oltre il primo gradino. Questo vale per lo meno di certe parti del Māndūkyakārikā, che stranamente ricordano le speculazioni del Lankāvatārasūtra del buddhismo mahāyāna e il vissuto della scuola Dhyāna (cfr. 4, 91 in Deußen, p. 603) :  

Tutti gli esseri sono originariamente illimitati e uguali allo spazio. E tra loro in nessuna parte vi è molteplicità, in nessun senso. Essi sono tutti anche originariamente quieti, pieni di beatitudine, tutti uguali a sé e indivisibili, eterna, pura identità. Tuttavia questa purezza non è più quando molteplicemente si frammentano ; sprofondati nella molteplicità, scissi, per questo si dicono miseri. Ma chi diviene certo dell’eterna identità (non-dualità), costui sa qualcosa di grande in questo mondo. Ma il mondo non lo capisce. Avendo conosciuto secondo le nostre capacità l’identità oscura, straordinariamente profonda, pura, luogo dell’unità, noi la onoriamo.  

Qui non si parla più di brahman e ātman. La conoscenza dell’« identità », evidentemente senza il passaggio per brahman, sembra esser già del tutto quel vissuto pieno che in pari tempo intuisce completamente « trasfigurate » le cose identiche e ugali a se stesse, in quanto originariamente risvegliate e originariamente beate ; vissuto che già di per sé è beatitudine. Per Eckhart si vedano ancora passi come i seguenti :  











Quando, dicono i Maestri, si conoscono le creature solo in sé, allora questo è soltanto un « conoscere della sera » (è oscuro e senza chiarezza e verità). Allora le si vede in ogni specie di immagini differenti. Ma se si conoscono le creature in Dio, questo è allora un « conoscere del mattino » (nella luce trasfigurante del sole che sorge). E qui si intuisce la creatura senza differenza di sorta (questo è quello), spogliata di ogni immagine (tratta dall’« evidenza »), spogliata di ogni uguaglianza (che ancora poggia sulla separatezza), nell’Uno, che è Dio stesso (Büttner II, p. 111).  











Oppure :  

Per questo vi dico un altro pensiero ancora, che è ancora più puro e più spirituale : nel Regno dei cieli tutto è in tutto e tutto è uno e tutto è nostro (Lehmann, p. 19221).  

Oppure :  

m

  Cfr. ANB, p. 119.

21

  W. Lehmann, Meister Eckhart, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1919.

mistica orientale e mistica occidentale

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Tutto ciò che si ha qui esteriormente nella molteplicità, nell’interno è uno (Lehm., p. 234). Qui tutte foglioline d’erba, legna e pietra, tutte le cose sono uno. Questa è la cosa più profonda di tutte. E di ciò mi sono follemente innamorato (Lehmann, p. 235).

E subito il passaggio al « gradino superiore » :  





Dio porta tutte le cose nascoste in se stesso. Ma non questa e quella distintamente separata, ma come uno nell’unità. E quando si trova l’Uno in cui tutto è uno, allora si aderisce all’unità (Lehmann, pp. 235-236).

Oppure :  

Quando l’anima viene nella luce del soprasensibile, non sa nulla delle contrapposizioni (Lehmann, p. 218).

Oppure :  

Come tutti gli angeli nella purezza originaria (sub ratione ydeali) sono tutti uno, altrettanto anche tutte le cavallette sono uno nella purezza originaria. Sì, tutte le cose sono uno (Lehmann, p. 230).

Oppure :  

In questa vita (della conoscenza superiore) tutte le cose sono uno e tutte le cose sono insieme, tutte le cose sono tutto in tutto, e nel tutto uno (Lehmann, p. 191).

Ed Eckhart riconosce questo intuitus mysticus in altri mistici. Così, di San Benedetto racconta (Büttner, ii, p. 163) :  

Di lui mi viene riportato che gli era stata partecipata una « trasfigurazione » in cui vide l’intero mondo di fronte a sé come raccolto tutto insieme in una sfera.  



Quest’ultima è una forma di intuizione plastica dell’advaita, che compare, in chi è visivamente predisposto, al posto dell’intuitus più spirituale, che di per sé è esclusivamente « intuizione intellettuale ». Questa si trova anche in Santa Teresa. Il corrispettivo in India è l’intuizione del visva-rūpa, che è anche un mascheramento fantastico dell’intuizione dell’unità e dell’Uno.  



CHE COS’È IL PECCATO ?  

(su das heilige , cap. x) 1

L

e nostre ricerche sul sacro come compimento del valore numinoso non esauriscono ancora l’autentica e più profonda comprensione del « peccato », quale si presenta nella concezione cristiana e quale è stato ritrovato nella sua purezza e profondità da Lutero, ma la preparano.  



1. Il peccato deve essere determinato innanzitutto come disvalore di contro al valore del sacro. Può esser compreso non a partire da se stesso, ma solo se è compreso il valore positivo di cui esso è la negazione e l’opposto. Con ciò si è detto innanzitutto quanto segue : a) Il peccato, quale azione singola, intenzione, atteggiamento duraturo dell’animo, determinatezza di un singolo o di molti, o forse del genere umano in generale, è una perversione, il contrario di qualcosa che dovrebbe assolutamente essere, la violazione di un valore oggettivamente e incondizionatamente valido e dell’esigenza che da questo si ricava, che su di esso si fonda e che comanda e proibisce in modo assoluto. Come tale, dunque, il peccato è una trasgressione assolutamente riprovevole. b) Questa trasgressione, per natura e nel suo senso primo, non è la semplice trasgressione etica ; e ciò che è stato violato, innanzitutto e per sua natura, non è un valore etico, ma un valore « totalmente altro » e incomparabilmente superiore a tutto ciò che è soltanto etico. Vale a dire : se definiamo « cattivo » il non-valore o disvalore etico, allora il peccato, per definizione e per sua natura, non è ciò che è cattivo, ma qualcosa di indipendente da questo, che può esserci anche se non è presente qualcosa di cattivo. c) Con il crescere della conoscenza dei valori oggettivi, il peccaminoso viene riconosciuto, in misura crescente, come qualcosa di cattivo e il cattivo come peccaminoso. Il che non significa che i due concetti si identifichino, cosa impossibile, ma che le loro sfere si sovrappongono sempre di più. Senza però arrivare a completa coincidenza : la sfera del peccato ricopre completamente quella del cattivo, ma la sopravanza sempre. Anche al livello più alto di sviluppo e maturità, tutto ciò che è cattivo è soltanto una parte del peccato, anche se molto ampia, ed è contemporaneamente l’ambito principale della sua manifestazione esteriore. d) In pari tempo ciò che è cattivo viene riconosciuto come una conseguenza e un effetto del peccato. La redenzione dalla potenza e dalla colpa del peccato è contemporaneamente redenzione dalla potenza e dalla colpa di ciò che è cattivo. Detto all’inverso : la redenzione, compresa religiosamente, offre anche l’affrancamento della coscienza eticamente colpevole, la liberazione di capacità etiche dell’animo e della volontà che erano vincolate.  

















2. L’eticamente buono ha due radici principali, da cui deriva, e così anche il cattivo che ne è la perversione. a) L’eticamente buono è, da una parte, il « giusto », ossia l’ideale del rapporto degli  

1

  Edizione originale : Was ist Sünde, in SU, cap. i, pp. 1-11.  



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uomini tra loro secondo le idee del diritto e secondo quelle ancora superiori dell’amore reciproco. Ciò che gli è contrapposto è « ingiusto », ed è cattivo in quanto ingiusto. b) D’altra parte il buono, a prescindere dal rapporto degli uomini tra loro, è l’ideale nei confronti dell’uomo stesso, l’esigenza della « spiritualizzazione » della nostra propria essenza, il perfezionamento e la liberazione della medesima dalla mera datità di natura e dal gioco degli impulsi e degli istinti pulsionali verso l’ambito dell’« umano », che si compie nella formazione della persona e del carattere. Ciò che gli si oppone è volgarità, abbrutimento, volontà di attaccamento al subumano che è in noi, che porta poi all’imbestiamento. È la violazione di quell’elemento « spirituale » in noi stessi, che dovrebbe svilupparsi. Il che è altrettanto cattivo, ed è l’altro lato del cattivo. Possiamo definirlo indisciplinatezza. Si avevano in mente entrambi, l’ingiusto e l’indisciplinatezza, quando nel passato veniva indicata come fondamento del peccato la « concupiscentia », la brama (Begierlichkeit). Con ciò si intendeva innanzitutto quanto menzionato in b) : l’interesse pulsionale in noi, quale si estrinseca negli istinti « carnali » come dati di natura, in particolare gli appetiti sessuali. Ma si intendeva anche quanto menzionato in a) : l’appetito in quanto voler avere, egoismo, che significa perseguimento dei propri interessi a spese del prossimo e dei suoi interessi. In quest’ultimo senso si potrebbe senz’altro definire la radice del peccato anche come « superbia », come disprezzo dell’altro, innalzamento del sé al di sopra degli altri, « presunzione », che in quanto forma più forte dell’impulso dell’io è un egoismo a spese degli altri. Ma ci si sbagliava nella definizione, quando in tal modo si faceva della concupiscentia la radice del peccato, in mancanza di una distinzione tra « peccato » e « cattivo ». Quel che infatti si intende con una tale superbia è innanzitutto il cattivo e non il peccato. Questo errore è espresso in modo chiarissimo da Tommaso nella Summa, II, 1, q. 71, 6, dove dichiara : « Sostengo che il peccato non è nient’altro che una cattiva azione umana », e quando più avanti, q. 77, cerca la causa del peccato nell’appetito sensibile e il principio di tutti i peccati nell’amore di sé.  

















































3. Bisogna, invece, innanzitutto distinguere completamente, sotto il profilo concettuale, il peccato dal cattivo, e la coscienza della cattiveria dall’autentica coscienza di peccato. Questo vale in ogni caso a partire dalla loro comparsa nello sviluppo storico. Il peccato risiede in prima battuta in un ambito completamente diverso da quello di tutto ciò che è cattivo. Il peccato, e l’impurità religiosa che ne consegue, non ha affatto bisogno di violare il benché minimo valore etico, ed è tuttavia un fardello spaventoso per l’anima. Può consistere esclusivamente in una mancanza rituale e cultuale ; ma non è necessario che all’inizio consista in un agire solo esteriore : può consistere, in generale, in semplici stati d’animo di un’indifferenza negligente, di spregio o di disprezzo, in una mancanza occasionale o duratura dell’atteggiamento d’animo dovuto. L’ideale di religiosa « purezza » nelle azioni, parole e pensieri è antichissimo. Il sentimento del peccato non scaturisce solo come coscienza della trasgressione di un comandamento degli dèi. Può esser presente, e temuto, in tutta la sua gravità anche dove la rappresentazione degli dèi non si è ancora formata chiaramente ed è ancora oscillante tra la rappresentazione di una « potenza » e quella di una persona. E anche dove il simbolo della « volontà » degli dèi si è formato, tale trasgressione è, secondo la sua essenza più profonda, una violazione, colposa o consapevole, non di una mera « volontà » casuale, ma di un oggetto di valore numinoso, quale che sia : si tratta, in questo senso, di una lesione del peculiare valore oggettivo dell’augustum, in una qualche forma.  





















che cos ’ è il peccato?

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4. I rappresentanti del pre-animismo, i manisti, hanno sostenuto, forse a ragione, che le idee di pāpa, aghas, enas (così si chiamano le radici dell’idea di peccato in sanscrito) erano presenti da tempo, e possono esser presenti, prima e senza che le idee personali di « dèi » e di volontà di dèi, di ordinamenti e comandamenti divini, si fossero formate. Le prime idee di peccato sarebbero state allora « di carattere esclusivamente magico ». Così come la misteriosa « potenza » di cui si ha timore e di cui, d’altra parte, si tenta anche di appropriarsi per manipolazioni magiche, sarebbe una specie di « fluido », allo stesso modo sarebbe tale anche il « peccato », che nasce da un contatto illecito con questa « potenza » : qualcosa che viene pensato in senso materiale, che potrebbe essere evitato per mezzo di una manipolazione magica, di abluzioni, combustioni, detersioni ed altre manovre di « purificazione ». Ma quello che così i manisti hanno trascurato, e che è della massima importanza per la « storia della religione », è che questa « potenza » non può affatto esser compresa solo come, appunto, una « potenza » ; che le manipolazioni e i riti praticati in riferimento ad essa non sono affatto solo una specie di cura medica contro una « sostanza contagiosa ». Marett e Söderblom hanno sottolineato questo errore fondamentale e ricerche più precise sui « selvaggi » che ancora praticano qualcosa di simile lo confermano. Confermano, cioè, che nel rapporto nei confronti di questa « potenza » : a) non c’è soltanto una paura ordinaria, ma un aver paura di tipo del tutto specifico, che abbiamo indicato nel nostro simbolo del « timore » numinoso ; b) che in questo « timore » non c’è affatto soltanto timore di fronte a qualcosa di ultrapotente, spaventoso, pericoloso, minaccioso, ma che in esso è espressa in pari tempo una specie di « timore reverenziale », ossia, con la nostra espressione, una specie di ossequio. Anche la « potenza » non è soltanto qualcosa di pericoloso e i riti non sono soltanto pratiche astute per sottrarsi al pericolo. Per il « selvaggio », invece, il rito è già, e nel modo più deciso, una cosa « sacra », che egli osserva con profondo rispetto e nei confronti del quale nutre, a modo suo, « devozione ». Solo dove questo momento di riconoscimento di un valore svanisce, la cosa diviene comune « magia », la quale poi viene sentita dall’autentico sentimento numinoso come « peccato », ossia come « sacrilegio ». Questo valore specifico dell’oggetto numinoso, sia esso rappresentato come una potenza, come un fluido, come un contagio, come qualcosa che può esser pulito o lavato via, o come un dio e come l’ira e la volontà irata di un dio, o sia che in generale non si formi alcuna « rappresentazione » afferrabile, come sicuramente è sempre accaduto all’inizio e sempre accadrà di nuovo, questo valore specifico non è certo un valore « etico », ma è un valore oggettivo e come tale viene sentito e rispettato. Esso evidentemente non « vincola » l’animo per mezzo della semplice minaccia di una qualche avversità, ma lo fa nello stesso senso in cui parliamo di valori vincolanti : obbliga. Fonda un imperativo categorico. Non soltanto ammonisce « meglio che tu non lo faccia, o sarà peggio per te », ma dice già senz’altro : « questo non deve e non può accadere ». Assumiamo per un momento che innanzitutto si sia formata soltanto l’idea di qualcosa di terrificante e spaventoso (rappresentato sotto l’immagine di un fuoco distruttore o di un’« ira » nascosti nelle cose, o di una sostanza portatrice di una malattia contagiosa e perniciosa), non vi è però dubbio che ad un certo momento, sotto lo stimolo e sotto la copertura di queste rappresentazioni, è nata ed è emersa un’idea completamente nuova, che non si ottiene per composizione di motivi di paura : l’idea, appunto, di qualcosa che impone tabù, che comanda e proibisce, nonché l’idea del « sacrilegio » che risiede nella  





































































































































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violazione del tabù. Che anche un tale sacrilegio possa esser bruciato via con lo zolfo, lavato con urina di mucca o scacciato nel deserto con un capro espiatorio, non cambia nulla al fatto che qui veniva sentito un « sacrilegio » : e che qualcosa come un sacrilegio possa esser sentito è qualcosa di irriducibilmente nuovo. Certo, la coscienza del sacrilegio porta con sé e in sé la preoccupazione per conseguenze cattive, ma di per sé non è questa preoccupazione. È l’errore di una psicologia antica e primitiva quello di passar sopra a queste irriducibilità con il comodo termine « evolversi ». Ma dove un sacrilegio può esser sentito, là non si è più nella sfera del pensiero meramente magico ; e anche ammesso che all’inizio vi sia stato solo questo, bisognerebbe dire che in ogni caso la storia della religione comincia solo là dove dalle nebbie di una rappresentazione della potenza « meramente magica », da una parte si eleva quel momento di « ossequio » – come qualcosa di completamente irriducibile, di puramente nuovo e che pone un inizio assolutamente nuovo – e dall’altra si desta nell’animo il sentimento di un possibile « sacrilegio ». Quell’assunzione non è però in alcun modo documentabile storicamente ed è in se stessa assurda. Si fa come se fosse « più facile » che l’« umanità originaria » abbia appunto « pensato in modo magico », che non nutrito sentimenti di rispetto numinoso. Si manovra con la parola d’ordine « magico » con tanta scioltezza di lingua che alla fine viene messo da parte l’aspetto del tutto sorprendente della produzione di fantasia di cui qui si parla. Questa concezione di una misteriosa « potenza » è però, senza alcun dubbio, una delle più singolari, peculiari, da parecchi punti di vista quasi geniali produzioni di fantasia, la quale non deriva affatto da « associazioni », così come non ne derivano la scoperta dell’uso della selce come utensile e del fuoco come strumento. Quando la psiche umana è stata capace di scoperte così particolari, senza dubbio era stata già da tempo in grado di scoprire il sentimento del valore e del disvalore numinoso. Una volta riconosciuto e ammesso il carattere « obbligante » dell’idea di tabù, si tenta di trovare per questo una « spiegazione » diversa. L’idea dell’obbligatorietà « scaturì », si dice, innanzitutto all’interno dei rapporti sociali di tribù, di clan, di popolo. Di qui è stata trasferita alla sfera della « potenza ». Bisogna, per contro, innanzitutto obiettare quanto già abbiamo detto della « produzione dell’oro » in Das Heilige, a p. 226. Dalla coercizione da parte della tribù o dell’uso, dagli impulsi istintuali all’ordine o dall’utilità sociale non « scaturisce » l’idea completamente diversa dell’« obbligatorietà ». Argomentare così significa mettere le cose sottosopra. È storicamente evidente che il sentimento dell’appartenenza, il costume e l’ordine del clan e della tribù ricevono il loro potere « obbligante » solo dal fatto che anch’essi sono stati appercepiti in modo numinoso. Divengono riti, ordinamento sacrale, rientrano nella sfera del tabù e in questo modo ottengono quel potere sugli animi, attraverso cui la loro violazione diviene « sacrilegio ». Una considerazione puramente storica, alla quale siamo portati in ultima analisi anche dal punto di vista speculativo, mostrerebbe piuttosto che l’idea di obbligatorietà sociale-morale è in realtà in sé un prodotto di fissione, un’idea specifica scissa dall’obbligatorietà numinosa : un’idea che ora, in quanto mera « morale razionale », è solo un frammento di una valutazione molto più profonda e come tale è sempre a rischio di trascolorare in pragmatismo ed eudemonismo, poiché è un frammento strappato dalla sua radice vitale.  

























































































5. Il riconoscimento del valore numinoso mediante il sentimento numinoso del « timore » si « schematizza » però immediatamente : nel sentimento puramente numinoso entrano subito i suoi schemi razionali, come timore reverenziale, deferenza, fiducia,  









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gratitudine, ossequio, ecc. E l’insieme raccolto di questi momenti irrazionali e razionali offre ciò che possiamo chiamare « devozione » religiosa. Quest’ultima è di per sé l’esercizio ideale del culto e l’atteggiamento di lode, in azioni e sentimenti, nei confronti di un oggetto trascendente. A partire da questa si potrebbe ben determinare, in effetti, l’essenza del « peccato » che le si oppone come « superbia », ossia come l’opposto negligente e colpevole della devozione. Ora bisogna aver chiaro che qui la superbia si trova in una sfera diversa da quella menzionata in precedenza, che si riferiva a persone, non al numen e all’augustum. a Il peccato, come illustrato prima, ha in sé, oltre ai suoi elementi fondamentali numinosi, anche quelli già razionali, che certo, almeno per il momento, non sono necessariamente quelli che chiameremmo violazione di un’esigenza « morale ». I sentimenti numinosi della devozione possono esser compenetrati nel modo più intenso con quelli di una venerazione, fiducia e amore razionali, e tuttavia con ciò l’oggetto della medesima non è ancora, come tale, un « ordine morale del mondo » o un legislatore morale, o anche soltanto una volontà morale. Il servizio nei confronti di questo oggetto, tanto quello dell’animo, quanto il rito e il culto, potrebbe teoricamente essere del tutto libero dagli ideali morali dell’« umanità », del diritto o dell’amore del prossimo. Detto col linguaggio in uso nel nostro catechismo : potrebbero già darsi qui i tre comandamenti della prima tavola, ma potrebbe essere ancora del tutto messa da parte la seconda. L’essere trascendente potrebbe essere già un « Dio geloso », che veglia sul suo onore, potrebbe esigere un servizio nel senso di un sommo timore, nel senso della fiducia o dell’amore, ma potrebbe esser pensato come in sé neutrale nei confronti di tutte le esigenze di una cultura spirituale individuale o comunitaria, nei confronti del diritto, dei costumi, dell’amore per gli uomini e per il prossimo ; potrebbe essere indifferente nei confronti e al di là del bene e del male, e potrebbe contemporaneamente infiammarsi contro il « peccato ».  



































6. Se Dio fosse soltanto questo, allora dal punto di vista cristiano potremmo dichiararlo un idolo. E a ragione. Infatti, diciamo anche questo : per essenza i concetti di cattivo e di peccato sono intrecciati e appartengono l’uno all’altro ; sono cioè l’uno il reciproco dell’altro mediante mutua sussunzione delle rispettive categorie, ossia in reciproca compenetrazione dei due ambiti di contenuto. Innanzitutto : a) il peccato viene sussunto sotto il cattivo. Con una crescente conoscenza morale viene conosciuto e riconosciuto che il peccato è anche cattivo, che l’anósion è anche adíkaion o, con espressioni bibliche, che la hamartía è anche anomía. 1 Gv 3, 4 : he hamartía estìn de anomía : questa affermazione non è una definizione di peccato, ma è un giudizio sintetico come indica la proposizione precedente : pâs ho poiôn tèn  











a

  Il modo migliore di chiarirlo è questo. La devozione in senso proprio è un ideale soltanto in quanto atteggiamento religioso dell’animo. Nei confronti di persone (o anche di esseri sovrumani, che però non fossero contemporaneamente di carattere numinoso con il valore particolare dell’augustum) sarebbero senz’altro possibili e ideali timore reverenziale, paura, amore, gratitudine, ecc. Ma, appunto, non devozione. Nella dottrina delle virtù puramente morali questa non può trovar posto. Essere devoto nei confronti di persone, infatti, sarebbe di per sé un peccato, perché sarebbe in fondo una forma raffinata di idolatria. Lo stesso varrebbe di quella superbia. Non si può esser superbus nel senso del medesimo concetto, e con una mera differenza di grado, nei confronti di persone e nei confronti di Dio. Il peccato è dunque « superbia », non superbia.  



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hamartían, kai tèn anomían poieî. Questa proposizione pone chiaramente innanzitutto i concetti di entrambi come particolari, poi predica l’uno dell’altro. b L’omissione della dovuta fiducia, rispetto, timore reverenziale, gratitudine, lode, del dovuto atteggiamento d’animo in generale è in ogni caso cattiva : in rapporto al divino è assolutamente cattiva ed è la cosa peggiore tra tutte le cose cattive, l’assolutamente cattivo, perché tutti questi momenti sono dovuti a Lui in modo assoluto e senza alcuna comparazione. Ma allo stesso modo : b) il cattivo e la trasgressione della legge divengono peccato. L’anomía è anche integralmente e senz’altro hamartía. L’azione immorale diviene colpa religiosa. La sua trasgressione soltanto morale della norma aumenta straordinariamente, si innalza fino alla trasgressione della norma religiosa. Sentiamo universalmente questo innalzamento, e quindi l’ingresso in un ambito di valutazione straordinariamente nuovo, non appena i concetti di ciò che è contrario innanzitutto alla morale acquistano per noi quella nuova e straordinaria coloritura e quel suono più profondo e inquietante, quando non parliamo più di trasgressione della legge, ma di sacrilegio, non più soltanto di cattivo, ma di empietà, non più soltanto di vizio, ma di perdizione, non più di semplice crimine, ma di maledizione. Questo si mostra nel modo più chiaro nell’espressione quasi del tutto logora, ma intesa originariamente in senso puramente religioso : inaudito (heillos). « Salvezza » (Heil) è in questo contesto il valore puramente religioso (ed è contemporaneamente un valore oggettivo, poiché qui non significa « salvezza per me » o per qualcun’altro, non significa salvezza come valore soggettivo, ma l’ideale e ciò che in se stesso deve essere ; inaudito non è qui ciò che è privato di felicità o di beatitudine, 2 ma ciò che lede il valore oggettivo, assolutamente incomparabile, del sacrosantum). Un tale innalzamento del cattivo al peccato non si realizza semplicemente per il fatto che i comandamenti morali trasgrediti vengono riconosciuti come dati dagli dèi o da Dio ; il peccato, cioè, non deve esser semplicemente definito come trasgressione di un comandamento in quanto questo è pensato come derivante dalla volontà di un dio, ma in quanto qui viene riconosciuta una lesione del valore dell’augustum stesso, ossia una lesione dell’« onore divino ». L’« onore di Dio » è il valore dell’augustum divino stesso e in vista di se stesso. I valori oggettivi, con la loro esigenza incondizionata, non si ottengono soltanto mediante statuizione di una volontà, ma sgorgano già dal valore originario del divino, di cui sono degli sviluppi. Chi pecca lede la stessa maestà divina, non soltanto una volontà divina : costui commette sacrilegio. Ma il sacrilegio è una lesione del sacro stesso. Il cattivo diviene sacrilegio in quanto diventa peccato. Questa situazione si riflette nella confessione del figliuol prodigo : « Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te ». 3 La colpa etica, ossia l’omissione del dovere filiale, agisce contemporaneamente « contro il cielo », lede il sacro stesso, non è soltanto cattiva, ma inaudita. Non vi è dunque qualcosa di cattivo che non sia contemporaneamente peccato, e se parliamo di peccati, dal punto di vista del contenuto questi sono in effetti  





































b   Una tale determinazione, che a noi oggi appare forse banale, non era superflua in un’epoca in cui l’essenza religiosa non era ancora intrecciata con quella morale in modo universale e con un’ovvietà da catechismo. 2   Cioè appunto heil-los, senza salvezza, nel senso che si otterrebbe facendo risuonare singolarmente i due elementi che compongono l’aggettivo. 3   Lc 15, 22.

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per la maggior parte mancanze dell’ambito morale : dell’ambito dell’« indisciplinatezza » o di quello dell’« ingiusto », dell’indifferenza tra le persone. Ma è falso ritenere che il peccato sia soltanto questo, e che il servizio nei confronti dell’« onore di Dio » possa esser compiuto mediante atti o intenzioni che si trovino in questo ambito morale. Piuttosto, il peccato resta anche qui in prima linea ciò che di per sé si trova esclusivamente nell’ambito della relazione religiosa stessa : l’omettere, l’ostacolare o il trascurare le funzioni puramente religiose, il timore reverenziale – sempre pervaso di numinoso – , del raccoglimento devoto, della fede, del temere, dell’amore stesso, le quali possono e debbono esserci tutte in se stesse e in vista di se stesse, anche a prescindere da un qualche riferimento « morale » : in quanto « vita nascosta con Cristo in Dio », 4 dipendenza immediata e apertura a Dio e all’efficacia della sua parola e del suo spirito. Mediante questi momenti Lutero definisce il peccato in modo diverso dalla definizione morale di Tommaso, che diceva : « Sostengo che il peccato non è nient’altro che una cattiva azione umana ». Lutero riporta di nuovo il concetto di peccato dall’appiattimento moralistico alla sua terra d’origine, alla sfera della valutazione e svalutazione religiose, seguendo qui le tracce di Eckhart. Il peccato è di nuovo mancanza e perversione delle funzioni religiose fondamentali dell’animo e della volontà nei confronti del sacro stesso :  

































Et est summa infidelitas, dubitatio, desperatio, quotidianus contemptus Dei, odium, ignorantia, blasphemia Dei, ingratitudo, abusus nominis Dei, negligentia, fastidium, contemptus verbi Dei. Quae summa peccata sunt contra primam tabulam. Deinde etiam illa carnalia contra secundam tabulam. 5

Un tale peccato è senz’altro anche « cattivo » nel senso della nostra prima sussunzione, ma non ha come contenuto la « cattiveria », ma in prima battuta l’esser contro Dio, e come tale è al livello supremo ciò che nella forma rozza era già al livello più basso e nel suo primo senso : una trasgressione della norma che ha un contenuto puramente sui generis e del tutto autonomo e irriducibile. Con un’enorme spirale l’interpretazione di « peccato » è tornata al punto di partenza, che è, appunto, su un livello enormemente superiore.  













4

  Col 3, 3.   M. Luther, Commentarium in epistolam S. Pauli ad Galatas (1535), Weimarer Ausgabe, 40, ii, p. 88.

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VALORE, DIGNITÀ E DIRITTO 1 Introduzione

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cc ingendomi a determinare più esattamente il contenuto delle idee di « legge morale » e « volontà di Dio » e il loro rapporto, idee che così tanto rifuggono l’una dall’altra e così tanto si cercano, che si incalzano reciprocamente e che però sono l’una rimessa all’altra ; e sperando che mi resteranno ancora tempo e forza per portare a termine queste ricerche, mi imbatto innanzitutto in un concetto che sembra inseparabile da entrambe e che, utilizzato oggi in modo molto generale e alla stregua di una parola d’ordine, non può tuttavia essere senz’altro assunto come tale, per l’« etica » o per la dottrina della « volontà divina », dal dizionario e dal vocabolario concettuale del nostro tempo, ma necessita di una verifica e di un più sicuro conio. Questo concetto si chiama « valore ». La legge morale avrà senz’altro qualcosa a che fare con « buono/malvagio » e la volontà di Dio con « sacro ». Ed entrambi, buono/malvagio e sacro, sono « predicati di valore ». E di « valore » si dovrà trattare tanto nell’etica quanto nella teologia. Ma che cos’è il « valore » ? Oggi nell’« etica », nella « scienza della cultura », nella « scienza dello spirito », nella « sociologia », talvolta anche nella biologia, nella logica e nella teoria della conoscenza, nessun concetto gode di una stima di valore più alta del concetto stesso di stima di valore. Storicamente questo non può risalire ad altri che a Kant. Certo, la sua etica « formalistica » viene combattuta proprio in nome di un’« etica dei valori ». Ma i ragionamenti propri di Kant nella Grundlegung der Metaphysik der Sitten [Fondazione della metafisica dei costumi, 1785] sottostanno senz’altro appunto all’idea di valore. La « volontà buona » ha qui un valore « incondizionato », « assoluto ». Il valore incondizionato viene distinto da quello che ha soltanto valore relativo. Inoltre, non è solo e non è tanto alla volontà buona che viene attribuito un valore incondizionato, ma già all’essere razionale, alla persona stessa, « perché la natura la distingue già come fine in se stessa ». 2 Già Kant distingue tra fini soggettivi e fini oggettivi, ossia cose la cui esistenza è un fine in se stesso ; e che qualcosa « possa essere fine oggettivo » ha per lui il suo fondamento nell’idea del « valore » assoluto o oggettivo : « [...] perché altrimenti non si potrebbe mai parlare di valore assoluto » (BA 66). a In pari tempo in Kant è già come nella dottrina dei valori al giorno d’oggi : l’espressione « valore » viene ripresa dalla tradizione con i gravami della molteplicità di interpretazioni possibili e della mancanza di una determinazione univoca. La volontà buona ha un « valore » incondizionato perché e in quanto obbedisce al dovere di un obbligo (Pflicht), secondo il canone dell’imperativo categorico formale. Qui il valore è qualcosa che dipende dall’adempimento dell’imperativo e in generale, e di necessità, può solo seguire quest’ultimo. Nel famoso passo, però, che nella mia edizione ho chia 













































































































a   Citato secondo la paginazione del testo originario, che anche io utilizzo nella mia edizione della Grundlegung di Kant [I. Kant, Grundlegung der Metaphysik der Sitten. Mit Leitfaden und Erklärungen neu herausgegeben von Rudolf Otto, Gotha 1930]. 1   Edizione originale : Wert, Würde und Recht, AE, pp. 53-106. Il saggio fu pubblicato per la prima volta sulla « Zeitschrift für Theologie und Kirche », 12, 1, 1931, pp. 1-67. 2   Grundlegung, BA 66 ; cfr. la nota a) subito sotto.  







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mato « punto di rottura » (BA 64), si dice al contrario : « Posto però che si dia qualcosa la cui esistenza in se stessa ha un valore assoluto [...], allora in ciò e solo in ciò risiederebbe il fondamento di un possibile imperativo categorico ». Qui si « dà » innanzitutto il valore, e solo il valore è il fondamento della possibilità di un imperativo ; quest’ultimo è ciò che dipende dal valore, ciò che è possibile soltanto mediante il valore e che in ogni caso lo segue. Contemporaneamente, qui il contenuto di ciò che è valutato, ossia l’« umanità » o la « dignità della persona », se paragonato al bene « formale » della volontà buona, è tanto evidentemente e inconfutabilmente un valore « materiale », che Kant stesso è il creatore della dottrina dei valori materiali oggettivi, che sono valori in sé. Non Lotze, ma l’allievo di Kant Jakob Friedrich Fries deve allora essere designato, subito dopo Kant stesso, come l’iniziatore della « dottrina dei valori » : lo è nel terzo volume della sua Neue Kritik der Vernunft [Nuova critica della ragione] del 1806. 3 Egli vuole configurare e fondare criticamente l’etica come « dottrina del valore » e come « legislazione sul valore ». Critica la tavola kantiana delle categorie pratiche e, costruendone egli stesso una nuova, intraprende il tentativo, fatto poi tanto spesso fino ai nostri giorni, di costruire anche una « tavola dei valori » : il tentativo, cioè, di fornire a questa dottrina quella salda posizione che finora non ha (e che per essenza non può mai avere) e di farlo con metodo e con l’idea che anche qui sarebbe stato d’aiuto « il filo conduttore trascendentale », che garantiva a Kant la completezza della tavola delle categorie. Biasima il fatto che Kant, nella sua tavola delle categorie, presuppone l’idea di libertà come concetto da suddividere, perché avrebbe dovuto essere piuttosto quello di valore ; e costruisce di conseguenza la sua tavola e quindi la sua etica. Certo, poi è Lotze, ma anche qui in dipendenza da Fries, che ha fatto in modo che la « dottrina dei valori » penetrasse largamente tra noi. Che nel lavoro etico non possiamo più fare a meno del nome e del concetto di valore non è cosa di cui si possa dubitare. Ma nemmeno si può dubitare del fatto che mediante una « suddivisione del concetto di valore » non possiamo trovare a priori la « tavola delle categorie pratiche » ; o del fatto che a questa appartengono senza dubbio concetti che non sono valori, né valutazioni, e che possono essere riportati sotto questo nome al più in un senso tanto vago, che il nome è più sviante che d’aiuto. Preferire in generale, preferire una cosa corretta ad una falsa, preferire con accentuazione del piacere o in modo « puro-intellettuale », trovar utile, trovar adatto allo scopo, rifiutare, rigettare, condannare, maledire, sopportare, provare piacere, amare, riconoscere, stimare, rispettare, tenere in considerazione, avere in grande stima, ammirare, venerare, temere, rifuggire, aver timore reverenziale, essere disgustati, inorridire, impaurirsi, disprezzare, arrabbiarsi, indignarsi, irritarsi, andare in collera, vergognarsi, rimproverarsi qualcosa, accusarsi, rimpiangere, trovare inaudito o folle, ecc. : tutto questo si può riportare, in un senso molto generale, ad un « valutare » positivo o negativo. Ma è forse questo un gran guadagno per la comprensione di questi singoli concetti ? Se si vuole si può scrivere una raccolta biografica di tutte le persone che sono passate per il Lehrter Banhof. 4 difficilmente questo punto di vista sarebbe appropriato per un principio sistematico. I suddetti atti hanno un’unità interna solo perché passano per la stazione di un « valutare » universale ? Il « valutare », anche solo nel senso letterale, è lo stesso se valuto un capitale come « valore economico » e la morte per la patria come « un dovere » ? E rispetto alla comprensione del secondo caso, il termine non svia forse più di quanto aiuti ?  





































































































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  In realtà 1807 ; cfr. KFR, supra, p. 74.   È la stazione principale di Berlino.

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I valori non sono forse in qualche modo « valori per qualcuno » ? Non sono qualcosa che rispetto a costui si trova in un rapporto di piacere o di conformità al fine, qualcosa che quindi è « per lui » ? Ma non chiamiamo « valore » e « di valore » con molta più convinzione non ciò che è per qualcuno, ma proprio ciò per cui qualcuno è ? Qualcosa non è forse un valore per me perché e in quanto lo desidero, mi piace, lo stimo, perché mi riempie di piacere, perché istintivamente la mia tendenza mira ad esso, perché il mio interesse vi si indirizza – sia che questo sgorghi da una disposizione della specie generalmente umana, sia che sia proprio al mio temperamento particolare, individualmente mio ? E i modi di comportamento qui menzionati sono il « valutare » ? Oppure il valore precede il valutare e pretende un riconoscimento del valore, individuale o generale ? Un interesse istintivo mira alla sazietà e al nutrimento. Valuto davvero la sazietà mediante l’atto del mio tendere, e in seguito alla soddisfazione di questo tendere valutante si ottiene poi il piacere che abbiamo nel saziarci, o è proprio questo provare piacere il valutare ? Ma quale che sia il modo in cui per me è un valore l’esser sazio, intendo in generale questo quando parlo del valore della sazietà o del nutrimento, è a questo che in generale penso anche solo lontanamente ? Non intendo in effetti propriamente qualcosa di totalmente diverso, ossia la teleologia puramente obiettiva che sussiste tra la sazietà e la possibilità dell’esistenza di quanto è ogni volta da saziare : la quale teleologia sussiste anche se questo esistente non sa nulla di quella sazietà e in questo senso non la cerca ? Una certa cosa « vale » (gilt) come dotata di valore (wertvoll) solo per alcuni singoli, un’altra per una cerchia più ampia, un’altra ancora per tutti gli uomini senzienti, anzi forse per tutti gli esseri senzienti. Il valore in quest’ultimo senso è allora quello « universalmente valido » ? Ma allora il valore di una buona digestione sarebbe un valore universalmente valido, mentre quello della veridicità no. « Naturalmente questo è falso. “Valere come dotato di valore” non significa : “esser ritenuto da qualcuno dotato di valore” ». Questa risposta è evidentemente falsa : senza dubbio valere come dotato di valore non significa nient’altro. Ciò che è significativo è piuttosto che nel caso dei « valori superiori » questo in effetti non ci basta, e che qui per valere e valere universale intendiamo un valere simile a quello di una proposizione corretta o di una verità. Si può ordinare qualcosa di così diverso in una tavola o scala ? Non ci allontaniamo con ciò del tutto dalla base elementare del senso del termine « valore » ? Si può anche capire che la verità sia definita un valore, ma un « valore » può essere o avere qualcosa come una verità o « correttezza » ? Può un valore valere ? E, se sì, allora un « valore che vale » non è solo per questo già qualcosa di totalmente altro da un valore ? Come arriviamo alle nostre valutazioni ? Come otteniamo i concetti di valore ? Li facciamo o li scopriamo ? Li inventiamo o li troviamo ? « Molte delle nostre valutazioni ce le portiamo dalla nostra condizione pre-umana. Già l’animale valuta mediante piacere e dispiacere, e così anche noi. E questa è anche la ricercata unità. A cominciare dai valori inferiori, infatti, fino a quelli dell’estetico, del culturale, del sociale, del morale, osserviamo nel valutare esperienze concordanti di piacere, gioia, diletto, che in pari tempo divengono motivi del nostro desiderare e volere. I valori inferiori li portiamo con noi. Le “valutazioni superiori” crescono con la storia ». Ma non viene così a cadere il concetto di valutazione in generale ? Valutare è in ogni  





































































































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caso un giudicare. Si può chiamare giudicare il piacere o non è piuttosto uno « stato » della nostra psiche che è legato a certi stimoli secondo certe leggi psico-fisiche ? Inoltre, se evidentemente non ce la caviamo con il termine « piacere » e invece di questo siamo costretti in certi casi a scegliere le ulteriori espressioni « gioia » o « diletto », già questa circostanza non prova che qui ci sono delle diversità di senso nel contenuto ? E che significa « crescere con la storia » ? Significa che impariamo il valutare con la storia ? Ma possiamo impararlo con la storia ? Storia significa innanzitutto una specie di racconto dell’accaduto. Ma non raccontiamo tutto ciò che è accaduto come « storia » ; e non tutto ciò che è accaduto è materia adeguata per la storia. Scegliamo la materia da raccontare secondo « valori ». Dunque non impariamo i valori dalla storia, ma formiamo la storia in generale solo secondo valori. Oppure la storia è ciò che accade e l’accaduto. Ma, di nuovo, non tutto ciò che è accaduto è storia : una specie animale, con tutti i suoi accadimenti, è tuttavia priva di storia, perché ripete costantemente se stessa. Solo modificazioni, e modificazioni sotto certi profili « di valore », fanno dell’accadere storia. Ora, quelle modificazioni sono il fondamento esplicativo dei valori ? Se un’orda vagante di cacciatori spinta da mancanza di nutrimento diviene stanziale e passa all’agricoltura, « cresce » il grado sociale di valore superiore della vita davvero « civile » nella cultura di villaggio e di città. Questa si è prodotta perché questa forma di vita modificata è apparsa più utile. Ma non ha creato il « concetto di valore » dell’utile, ma ne è stata creata. È diverso per gli altri concetti di valore ? In ogni caso è necessaria una fissazione e una chiarificazione esatta del significato di « valore », se si vuole utilizzare questo vocabolo in riflessioni etiche. Il fine supremo di quanto segue non è una mera chiarificazione di senso del « valore » : si deve piuttosto tentare di « estrarre » le categorie sottostanti e indispensabili del giudizio etico. In ciò utilizzeremo il nome e il concetto di « valore », che intendiamo sistemare per i nostri fini. Non partiamo però dalla domanda « che cos’è un valore ? », ma da una « domanda fondamentale » che come tale si pone di per sé, che ci costringe anche ad interrogarci sul valore e sul valutare, ma che inoltre ci costringe a renderci conto del fatto che nel contesto di tale domanda fondamentale dobbiamo parlare di momenti decisivi, che sono così tanto dotati di valore, che è meglio che non siano più definiti « valore » ; a renderci conto del fatto, infine, che vi sono dati che come origine di esigenze etiche sono forse i più importanti e che non sono né valori, né di valore.  































































































1) La domanda fondamentale 1. « Sapere che cos’è bene e male » : questo fu il primo grande interesse che, destato dal serpente, mosse i nostri primi genitori. Nessuna delle altre creature, non la luce nuova, né il nuovo giorno, non i lumi del cielo, né l’abbondanza della terra, non gli alberi del paradiso, né gli animali, più astuti, più forti e più vecchi di lui : solo Adamo poteva e può porre questa domanda ; Adamo, l’uomo. E solo perché poteva e può porre questa domanda egli è « l’uomo » : qualcosa di più e di diverso dalle altre creature. È la domanda del suo destino, quella mediante cui perse la sua « innocenza », l’innocenza del semplice essere di natura che non sa nulla di « bene e male » : la domanda che gli porta inquietudine, dolori, lotte che nessun’altra creatura al di fuori di lui conosce o deve sopportare ; la domanda che gli costa il paradiso, ma che egli deve porre perché è uomo, ossia perché può porla. Porla, da un lato, è di suo interesse. Che un essere possa avere interesse ad indagare  



























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cose tanto singolari e tutt’altro che facili come il bene e il male è un fatto che non può essere spiegato da nessuno « sviluppo » ; nella catena degli esseri di natura è un novum completo, è un miracolo. E con l’irrompere e l’erompere di una comprensione, di un presentimento e di un incipiente interesse per il bene e il male il precedente processo della creazione non semplicemente prosegue : è nuova creazione, un nuovo inizio, l’opera di un nuovo giorno, il « sesto », quello di Elohim, la potenza creatrice ; l’opera che non si riallaccia mediante alcuna « evoluzione » alle opere dei precedenti giorni della creazione. Un tale interesse per il bene e il male si suscita e può essere suscitato in tutto ciò che chiamiamo umanità ; e non è in base a caratteristiche zoologiche che distinguiamo « Adamo » da tutto ciò che c’è intorno a lui e sotto di lui, ma è soprattutto in base alla caratteristica per cui questo interesse può suscitarsi. Ma che l’uomo abbia un interesse per questa questione è ancora l’aspetto meno importante della cosa. La cosa principale non è che qualcuno per interesse se la ponga : la questione si pone e si impone anche senza, anche contro ogni interesse. E considerarla solo dal punto di vista dell’« interesse » dell’uomo sarebbe ancora una considerazione troppo « antropologica ». Un uomo può aver vivacchiato a lungo nell’ingenuità e nella spensieratezza della quotidianità, senza interrogarsi molto sul bene e sul male. Poi un giorno, in un’irruzione improvvisa, forse in seguito ad una mancanza grave, gli si aprono gli occhi. Egli non si interroga, ma si sente interrogato : è « buono » quello che hai fatto ? Non ti curi del « bene » e del « male » ? Quel che fino ad allora non ha visto o ha trascurato gli compare dinnanzi in improvvisa chiarezza, gli si mostra, e non come un oggetto del suo « interesse », ma come qualcosa che « c’è » anche se non si interroga a tal proposito o non se ne interessa. Egli si accorge : « ci sono » bene e male, prima del e indipendentemente dal tuo domandare e cercare. Il che esige di esser considerato come criterio del suo agire. E poiché il bene e il male « ci sono », allora si pone per l’uomo la domanda su cosa siano e su cosa, nelle sue azioni, vi corrisponda. La domanda su questo è posta non tanto da un interesse che aveva, quanto piuttosto come un compito che viene dato alla sua attenzione, riflessione, coscienza. Questo compito disturba forse tutti i suoi interessi. Forse egli tenta di sottrarsi ad esso, tuttavia può cogliere – forse con terrore – la domanda come posta. Forse egli segue anche l’appello del compito e, in quanto lo fa, si desta anche il suo « interesse » di rifletterci con dedizione e zelo. Si pone allora anche lui quella domanda, che però come tale gli si era posta e che posta resta per sempre. Definiamo questa domanda la domanda etica principale. Attribuiamo la chiarificazione metodologica di questa a quella scienza che chiamiamo « morale », « etica », dottrina dell’etico, dottrina dei costumi, forse anche « dottrina dei valori ». Vogliamo qui tentare di impadronirci dei suoi concetti fondamentali, delle sue categorie, ed esaminare se e fino a che punto esse siano e possano essere definite « valori » e « forme di valore ». Di proposito non partiamo dalla discussione del concetto di « etica », « morale », ecc. In primo luogo non ci chiediamo e non dobbiamo chiederci cosa mai siano queste, ma dobbiamo meditare quella domanda fondamentale che ci si pone. Con ciò troveremo che essa attira a sé una cerchia sempre più ampia di altre domande ad essa connesse. E con « etica » vogliamo designare innanzitutto appunto questo : « discussione della domanda principale sul bene e sul male e delle domande ad essa necessariamente connesse » ; rimanendo, con ciò, in attesa di denominazioni ancora più precise che eventualmente saranno trovate nel corso della ricerca.  

















































































































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2. Cos’è bene e male : è subito chiaro che questa questione può esser posta in un doppio senso. 5 a) Quando domando così, domando innanzitutto : cosa si intende col fatto che definisco qualcosa, un’azione, un progetto, un uomo o quel che sia, buono o malvagio ? Qual è il senso del predicato stesso buono/malvagio, a prescindere dagli oggetti ai quali lo attribuisco o ascrivo ? b) D’altra parte, quando domando : « chi o cosa è buono » voglio sapere a quali oggetti conviene quel predicato, o quali oggetti a buon diritto possono essere sussunti sotto questo concetto. « Che cosa mai nel mondo può esser definito un bene e cosa no ? ». Per rispondere alla domanda in questo secondo senso, devo innanzitutto aver compreso la domanda nel primo senso e avervi risposto : devo sapere che cosa intendo con « buono stesso ». Da questo punto di vista, per il predicato « buono » le cose non stanno diversamente che per gli altri predicati che, nei miei giudizi, riconosco o non riconosco alle cose. Se domando : che cos’è blu ?, anche qui intendo innanzitutto la domanda sul « blu stesso ». Rendo chiaro, a me o ad un altro, che per « blu » si intende un colore, presento un esempio di oggetto blu, indico la sua collocazione nello spettro dei colori, posiziono il suo rapporto agli altri colori, descrivo i suoi eventuali e peculiari effetti sulla tonalità emotiva e sull’animo di chi lo guarda e faccio quant’altro possa essere adeguato per cogliere saldamente nello sguardo la rappresentazione « blu », per distinguerla con sicurezza da altre rappresentazioni e per riconoscerla con certezza in ogni caso singolo. Se ho fatto questo, allora sono in condizione di indicare e di definire « cosa è blu » nel secondo senso della domanda : ossia di distinguere, scegliere e addurre oggetti che sono blu. « Che cos’è blu » : il colore in posizione X nello spettro dei colori. « Quali cose sono blu » : il cielo, il nontiscordardimé, i tuoi occhi, il fiordaliso, ecc. Un bene o un male è un oggetto che cade sotto il concetto buono/malvagio, non è questo concetto stesso. Per converso « buono » non è mai, di per sé, un « bene » ; « malvagio » non è mai, di per sé, un « male ». Quel che innanzitutto ci riguarda è la domanda nel primo senso. La quale, però, non ci interesserebbe se la risposta ad essa non ci rendesse possibile la risposta alla domanda nel secondo senso. Solo se c’è anche qualcosa che è un bene e qualcosa che è un male la domanda su buono e malvagio è interessante. In questo modo si precisa già qui il concetto di etica che cerchiamo. La mera domanda : che cos’è buono e malvagio è di per sé solo una domanda preliminare. Per la nostra vita morale, infatti, tutto dipende evidentemente dal secondo senso della domanda. Ossia : nel nostro essere, fare, agire, volere, sentire, che cos’è in generale ciò a cui attribuiamo i predicati buono o malvagio. Non ci riguarda solo : che cos’è buono (nel senso del concetto di buono stesso), ma : « quale cosa è un bene, quale è un male ».  





























































































3. Ci volgiamo innanzitutto alla prima domanda : « Che cos’è il buono stesso ? Quale  





5   In italiano non è possibile restituire integralmente il gioco di Otto tra uso aggettivale e uso sostantivato dell’opposizione gut/böse. Da questo punto in poi, tuttavia, Otto tecnicizza l’espressione, utilizzata sin qui in modo generico, e distingue esplicitamente tra il predicato (buono e malvagio) e l’oggetto (un bene o un male). Abbiamo reso l’aggettivo böse con « malvagio » per sottolineare che Otto gli attribuisce un’accezione esclusivamente morale, riservando, per differenza, un uso meno stretto a schlecht, che viene introdotto poco più avanti e che abbiamo tradotto con « cattivo ».  







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contenuto ha il concetto di “buono” ? ». Quando vogliamo venire incontro alla difficoltà di qualcuno che è « cieco al blu », che non può percepire intuitivamente il blu e magari non sa distinguerlo dal verde, non ci serve a nulla indicare un oggetto d’intuizione di colore blu. Possiamo però almeno dargliene una qualche idea se gli diciamo : « in ogni caso blu è un colore ». Cosa sia un colore in generale, come si distingua dai suoni e dagli odori, come sia specifico di esso il fatto di rivestire un oggetto esteso nello spazio, di apparire alla luce e sparire nell’oscurità di un nero generale : questo lo sa anche chi è cieco al blu. Egli possiede un concetto più generale a cui è subordinato anche il blu e, seppure non arriva ad un’intuizione in proprio di cosa sia lo specifico del colore blu, tuttavia, una volta che viene istruito da un altro, sa qualcosa dell’essenza generale del blu, per esempio che anche il blu può rivestire la superficie di una cosa che gli appare, che può sparire nel buio ed essere visibile alla luce. Nel caso di « buono » e « malvagio » siamo in una situazione altrettanto favorevole ? C’è anche qui un concetto generale che li abbraccia, che indica il che-cosa della cosa, che si può avere anche se non si avesse una rappresentazione particolare del suo caso speciale, il buono, e attraverso cui si potrebbe almeno ottenere una conoscenza della sua essenza più generale ? Sembra di sì. Se infatti chiamiamo qualcosa buono o malvagio, compiamo un atto della nostra capacità di giudizio, in quanto capacità di valutazione, o della nostra vis aestimativa. « Valutiamo », come si usa dire, il qualcosa in questione, ossia gli riconosciamo o gli contestiamo « un valore ». Buono/malvagio è dunque senz’altro un caso particolare di « valore ». E se qualcuno è « cieco al bene », ma non « cieco al valore », allora gli si potrebbe dare una prima idea del concetto generale, che anche per lui è possibile, di « valore in genere ». Ma c’è una difficoltà. Chi è cieco al blu poteva utilizzare l’affermazione « blu è un colore » perché « colore » nel nostro uso linguistico è un termine connesso con uno e un solo concetto solidamente determinato. Questo non è il caso di « valore », come ci insegna immediatamente una più precisa riflessione sull’uso linguistico del tedesco, che in ciò corrisponde a quello di altre lingue. La situazione qui è esattamente come quella relativa al senso del termine « buono », che è a tal punto plurivoco, in tedesco come in altre lingue, che è necessaria una precisa messa in ordine dell’uso linguistico, che connettiamo immediatamente a quella relativa al valore. È assai sorpendente – e il motivo di ciò lo vedremo in seguito – che il suddetto inconveniente abbia luogo molto meno per l’opposto di « buono », ossia per « malvagio » : il termine « malvagio » è assai più univoco di « buono ». Se definiamo però l’opposto di buono « cattivo » (schlecht), invece di « malvagio » (böse), 6 allora la situazione si capovolge di nuovo : « cattivo » è altrettanto plurivoco di buono e partecipa immediatamente di tutte le sue plurivocità. Per questo nel §2 rifletteremo sull’uso linguistico innanzitutto nella forma della contrapposizione buono/cattivo.  



































































































4. Prima di far questo, mettiamo rapidamente ordine in una confusione dell’uso linguistico di « valore », che non ha nulla a che fare con quella precedente, ma che ha avuto anch’essa come conseguenza inconvenienti e bizzarrie nelle ricerche etiche. Si dice : « In quell’incendio sono andati distrutti enormi valori » ; « la guerra ha distrutto enormi valori ». Questo uso linguistico – molto frequente – è impreciso. Non distingue, infatti,  











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  Cfr. supra, nota 5.





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tra « valore » e « ciò che ha valore, ciò che è di valore, valoroso ». La differenza corrisponde alla nostra differenza precedente tra il buono e un bene. Se l’incendio ha distrutto preziosi dipinti, ricordi cari, monumenti storici, gran quantità di « carta valore », non ha distrutto « valori », ma oggetti che sono portatori di valore. Il valore di un oggetto che ne è portatore non è l’oggetto stesso. Se si definisce quest’ultimo « un valore », si parla impropriamente. Se questa differenza è vista chiaramente, allora per brevità si può senza problemi parlare di « valori », laddove propriamente si intendono oggetti « portatori di valore », che sono di valore e hanno valore ; e talvolta faremo anche noi così. In ogni caso, però, una chiara « dottrina del valore » è possibile soltanto con una chiara consapevolezza di questo fatto. La ricerca di « valore » e di « classi di valore », di affinità e contrapposizioni tra « valori » è diversa da quella relativa a classi, somiglianze o differenze degli oggetti stessi che « hanno valore ». Oggetti, che possiamo nominare e classificare con sicurezza, possono portare dei « valori » per i quali, forse, la nostra lingua ha formato soltanto un nome confuso, o magari nessuno. Uno e uno stesso oggetto può avere contemporaneamente in sé « valori » molto diversi. E il tipo di valore, l’intensità di valore, la molteplicità del valore e concetti simili devono essere discussi esclusivamente nella dottrina dei valori stessi, non in quella di ciò che è « di valore ».  





























































5. Si definisce l’etica come « dottrina dei valori ». Senza dubbio l’etica include una dottrina dei valori, ma questa non può fornire la definizione di quella. Se miglioriamo la definizione e diciamo « una dottrina dei valori e di ciò che ha valore » ? Qui la mera addizione e coordinazione di due dottrine non è soddisfacente e non lascia emergere chiaramente la meta autentica dell’etica. Quel che infatti vogliamo conoscere, in ultima analisi, per la nostra vita etica, è ciò che ha valore : e se qualcosa di simile non fosse mai e da nessuna parte reale o per lo meno possibile, allora una dottrina dei valori ci descriverebbe soltanto un paese dei sogni per il quale non sentiremmo alcun interesse e che non sarebbe nostro compito indagare. Ma è ancor più importante quanto segue. Denominare tanto semplicemente buono/malvagio come « valori » comporta, dicevamo, una difficoltà. Anzi, le difficoltà sono due e la seconda è peggiore della prima. Già il nostro semplice sentimento linguistico ci dice che in senso stretto « malvagio » e « buono » (in quanto contrapposto a malvagio) sono applicabili soltanto agli uomini, alle loro azioni, alla loro volontà, alle loro intenzioni, al loro carattere. E cioè : « un uomo agisce in modo malvagio, quando fa quel che non deve fare ; in modo buono quando fa quel che deve fare ». Solo quando abbiamo compreso cosa significhi questo « tu devi » e « tu non devi » comprendiamo cosa significhi buono/malvagio. La risposta alla domanda etica principale è dunque preceduta da un’altra domanda : « Chi o che cosa può dirci : tu devi, tu non devi ? ». In che modo e da dove si ottengono esigenze valide di tipo tale che il loro adempimento contraddistingue la volontà e il volente come buono e il non adempimento, in quanto « mancanza », lo « degrada », lo rende malvagio ? Qui, in effetti, secondo il nostro sentimento linguistico attuale la risposta è facile : in ogni caso, è malvagia un’azione mediante cui viene distrutto, ostacolato, danneggiato, qualcosa che è « di valore ». Buona è l’azione mediante cui qualcosa « di valore » viene custodito, promosso o prodotto. Se questa risposta dovesse rivelarsi corretta, allora è chiaro dal principio che qui « valore » e « di valore » sarebbero utilizzati in un senso molto diverso da quello per cui si definiscono valori malvagio/buono. Questi ultimi sono predicati per un riferimento della volontà a « valori ». Non è sviante se si definiscono anche questi  

















































































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« valori » ? E se proprio buono/malvagio hanno la pretesa linguistica di essere chiamati « valori », ciò rispetto a cui la relazione buono/malvagio ha luogo può esser definito un valore senza che intervenga una equiparazione di oggetti che nell’intimo sono fondamentalmente diversi ? L’intenzione morale, che adempie a un’esigenza morale, è qualcosa che non è in alcun modo sullo stesso piano di ciò che è « di valore » e dalla quale l’esigenza procede. Il valore della volontà buona, il valore d’intenzione che Kant esamina nelle parole introduttive della sua Grundlegung, si distingue da altri « valori » non soltanto per il fatto che è un valore più di altri : è proprio su un piano diverso. Questa è la verità imperitura del ragionamento kantiano, che qui non viene ancora ad espressione in modo abbastanza netto. Se definiamo la volontà buona un « valore », ci sentiamo poi quasi impediti ad estendere questo termine anche ad altro. Se lo facciamo, teniamo in ogni caso fermo in mente che la volontà che si rapporta a « valori » ha un valore che non si distingue soltanto come l’assoluto dal relativo, ma come ciò che è qualitativamente altro e che deve esser contraddistinto da un « predicato di valore » che faccia emergere questo in modo chiaro. Scegliamo per questo il termine « dignità ». Solo in un secondo momento la volontà con la dignità, la persona stessa di volontà buona – in quanto ideale per la nostra autoformazione – si colloca sullo stesso piano dei « valori ». Per questo osiamo distinguere « dignità » da « valore », riconoscendo che, da una parte, la dignità e il suo contrario, ciò che è contro la dignità, presuppongono « valori » e sono dunque dipendenti nella loro possibilità dall’esistenza di valori oggettivi ; e che tuttavia, in pari tempo, « dignità » non designa soltanto un « valore di mezzo », ossia la mera capacità di una volontà di osservare e produrre valori, ma qualcosa che ha, certo, un’analogia con tali valori, e può dunque esser definita, per parte sua, « valore » in un senso più ampio, ma che appunto è insieme qualitativamente distinta dai « meri valori » e assolutamente superiore. I valori li « valutiamo », ma la dignità la « rispettiamo ». E il rispetto non si distingue dalla « mera valutazione » per il grado, ma per un quale. Per vederci chiaro abbiamo bisogno di una riflessione sul senso del termine « valore » e in generale sulla sua plurivocità ; riflessione che colleghiamo ad un esame di buono/ cattivo.  

























































































2) Buono e cattivo Buono e cattivo sono nomi che spesso utilizziamo in un senso del tutto specifico, ossia in senso « morale ». Ciò che intendiamo per « morale » deve ancora farcisi chiaro, ma chiunque legga questo scritto in qualche modo sa già da sé e conosce quel « senso specifico » di buono e cattivo, che definiamo morale. Contemporaneamente costui vedrà facilmente, con una piccola riflessione, che egli e noi tutti utilizziamo molto spesso il termine « buono », anche dove il suo senso « morale » certamente non è presente ; e altrettanto « cattivo ». Chiariamoci questo punto.  

























1. Noi diciamo : « questa pietanza ha un sapore buono, oppure cattivo ». Quando diciamo così, esercitiamo un atto della nostra vis aestimativa, « valutiamo » la pietanza. E possiamo chiamare « valore », in un senso molto elementare, quel che in tal modo le attribuiamo : valore che essa ha per noi. Possiamo raccogliere « valori » siffatti in una classe specifica, all’interno della quale forse ci sono ancora sottoclassi. Il nostro linguaggio offre anche un nome determinato per questa classe di valori, che precisa in modo più esatto l’inesatto « buono » : quel che ha un sapore o un odore buono è « piacevole per  



























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noi ». E « piacevole » è il nome adeguato per questa classe di valori. Una cosa può esser piacevole sempre e soltanto se lo è per qualcuno. Il valore del piacevole presuppone in ogni caso un soggetto senziente e « valutante », in mancanza di cui perde ogni senso. Non vi è qualcosa di « oggettivamente » piacevole, qualcosa di piacevole che non abbia un rapporto ad un soggetto. Per questo possiamo definire la classe del piacevole un valore « solo soggettivo ». Questo non significa che esso sia il valore del soggetto (senziente) – un tale valore, se ci fosse, lo definiremmo meglio « valore di soggetto » – ma che esso è presente sempre e soltanto per un soggetto (senziente). Esser piacevole per qualcuno non è altro che esser in grado di mettere qualcuno in quello stato che chiamiamo piacere. Se esaminiamo la situazione più esattamente, vediamo facilmente che, in senso rigoroso, ciò a cui qui do valore, in realtà, non è la cosa che suscita piacere, ma il piacere, questo mio specifico stato interno. Una volta che sia stato suscitato, è su questo che si concentrerà, di lì in avanti, il mio interesse. Vorrei permanere in esso, vorrei rinnovarlo. Le ciliegie come tali mi interessano soltanto perché ho avuto l’esperienza del fatto che il loro sapore mi dà piacere. Altrimenti mi sarebbero totalmente indifferenti, sarebbero per me « prive di valore ». Il piacere non è però, di per sé, un interesse per le ciliegie : queste ultime, e la loro acquisizione, divengono oggetto del mio interesse sul fondamento dell’esperienza di una connessione tra il consumarle e il piacere. Vedremo in seguito che il piacere interviene là dove viene soddisfatto un « interesse positivo ». Questo però non vale del piacere che abbiamo qui nominato e che precede il ridestamento dell’interesse, tanto di quello in sé, quanto dell’interesse per l’oggetto che lo provoca. Questi ultimi due possiamo distinguerli come interesse diretto e interesse indiretto. Con ciò arriviamo, già qui, ad una differenziazione tra valore diretto e valore indiretto. Ha valore – così diciamo qui – ciò che si presta a che un interesse vi si leghi. Nel caso specifico ha evidentemente un valore diretto per me lo stato stesso di piacere : è a questo che il mio interesse si lega direttamente. Ciò non esclude, anzi implica che quindi il mio interesse si leghi anche a pietanze, a ciliegie, ad altre cose che danno piacere. Questo è anzi quanto in effetti accade : con interesse mi sforzo di acquisire, di raccogliere, di avere a disposizione ciò da cui mi aspetto piacere. Queste cose possono essere per me « di molto valore » ; possono essere per me « grandi valori », come le mie sostanze e le scorte accumulate. La loro acquisizione già di per sé, anche prescindendo dal loro uso, mi darà piacere ; e la loro perdita mi farà soffrire : è un interesse « indiretto » e il valore per me delle summenzionate cose è « indiretto ». Osserviamo ancora questo : la cosa piacevole è quella che dà piacere. Ma non è di per sé piacere. Dunque, in senso rigoroso, non posso definire piacere qualcosa di piacevole. Inoltre : sul fondamento dell’esperienza del piacere si desta per me un interesse ad ottenere piacere ; questo interesse può divenire per me « motivo » della ricerca di piacere. Dunque l’interesse non è di per sé piacere, perché se così fosse non cercherei il piacere solo in un secondo momento. Tanto meno il « piacere » è un « motivo » della mia volontà. Posso pormelo come « fine » perché e in quanto ho per esso un interesse. Ma il motivo della volontà è l’interesse e posso avere interesse anche per cose diverse dal piacere. L’attrattiva di una cosa, la sua capacità di dare piacere, nonché il piacere stesso possono avere i gradi più diversi. Hanno anche in sé la possibilità di diverse sottoclassi ? Sembra di sì. Tuttavia distinguiamo – e, come sembra innanzitutto, come elementi specifici nell’ambito delle medesime classi superiori – ciò che attrae, che attira, che è amabile,  

















































































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che rallegra, che entusiasma, che rende beati ; e, quanto al nostro stato, distinguiamo il mero piacere dall’essere a proprio agio, dalla gioia, dalla delizia, dalla beatitudine. Distinguiamo anche un piacere grossolano, rozzo, volgare, un piacere sensibile, psichico, spirituale, intellettuale, e un piacere nobile, il compiacimento, il gustare raffinato, il dolore, la sofferenza, la pena, l’angustia, ecc. Abbastanza spesso tali « sentimenti » sono stati tutti inclusi, in effetti, nell’unica e medesima classe del piacere con il suo contrario. Vedremo che questo è sbagliato e che tra i suddetti concetti non sussiste né il rapporto che vi è tra gradi di intensità di un unico e medesimo fenomeno chiamato piacere, né quello di sottoclassi di quest’ultimo. L’aver piacere può diventare oggetto del mio interesse e, quindi, del mio appetito, del mio tendere volontario, della mia mira, del mio progetto. Ciò che può diventar tale lo definiamo un possibile « fine ». Posso quindi « pormi per fine » qualcosa. Quel che mi pongo direttamente per fine nel singolo caso può in certe circostanze essere soltanto un « fine intermedio », che voglio non per se stesso, ma per i suoi effetti, ai quali miro in ultima analisi o definitivamente ; effetti che non voglio più come fine intermedio, ma come « fine ultimo », che è quello che realmente intendo nell’aspirare al fine intermedio voluto direttamente ; è quello che voglio indirettamente, certo, ma che appunto perciò propriamente voglio. La dottrina edonistica sostiene che ciò che alla fine vogliamo propriamente e indirettamente in tutte le nostre posizioni di fini sarebbe il nostro piacere ; che dunque l’unico fine ultimo e quindi, in pari tempo, l’unico a cui l’uomo sarebbe e possa essere interessato, è il suo piacere. Che questo sia falso, che al contrario l’uomo possa porsi per fine innumerevoli altre cose che non il proprio piacere, che nella maggior parte dei casi il piacere è in generale possibile soltanto se un uomo era in prima battuta interessato a qualcosa di diverso dal proprio piacere, e che in molti casi il piacere non si realizza proprio quando nello sforzo un interesse mira di sottecchi ad esso, lo vedremo in seguito. Ma è indubbio che il « proprio piacere » può anche essere, in effetti, il fine ultimo proprio dell’uomo e che ci si possa sforzare e ci si sforzi in vista di questo.  































2. Dal piacevole si distingue l’« idoneo », dal valore del piacere quello dell’essere idoneo di un oggetto. È, di nuovo, una « valutazione » quando definiamo qualcosa « idoneo ». Ma quant’è intimamente diverso ciò che qui intendiamo per « valutare » ! Già qui ci si fa chiaro ciò che ci si confermerà in seguito in modo ancor più profondo, e cioè che il « valore » è certo un contrassegno generale che ritorna in modo concordante in certi oggetti, ma non – come p.e. « colore » – un vero e proprio concetto di specie che indica il quid di un oggetto. Un canarino, un cinese e una zucca hanno tutti e tre un contrassegno comune : sono tutti e tre gialli. Ma questo mi aiuta poco quando mi interrogo sulla « quidditas », quando voglio sapere « cosa » siano di per sé un cinese o una zucca. Così i fini intermedi e quelli ultimi, i « valori » indiretti e quelli diretti, hanno certo in comune il contrassegno che un interesse si fissa su di essi, ma quanto è diverso il « senso » di ciascuno ! Altrettanto diverso è il senso del piacevole da quello dell’idoneo. Diciamo : questo è un buon martello, questo è uno strumento valido (wertvoll). Questo « buono » o « valido » include anche una relazione a qualcos’altro, ma la relazione diretta qui non è quella « per qualcuno », ma quella « per qualcosa ». Il martello non « mi » è « buono » e in prima battuta non è neanche buono « per me », ma per martellare. Quindi è « buono » « per me » quando mi trovo nella necessità di martellare. E non perché mi dà  



















































































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piacere, ma perché è idoneo, in quanto « mezzo », al mio fine. Per questo il mio interesse si fissa su di esso. Qualcosa di buono nel senso del « valore di mezzo » può anche divenire « piacevole », se mi pongo per fine l’ottenimento del piacere e per questo fine cerco e utilizzo cose di cui so che possiedono un « valore di piacere ». Ma può divenire altrettanto « spiacevole », o né piacevole, né spiacevole se perseguo altri fini. Il valore dell’esser idoneo non può ancora esserci per un essere che è meramente senziente e capace di piacere, ma soltanto per uno che vuole in modo attivo, che si pone dei fini. Di nuovo : che differenza essenziale ! È lecito definire in generale ciò che suscita un interesse soltanto per il primo con lo stesso termine di quello che lo suscita nel secondo ? « Valutazione » in quanto riconoscimento dell’essere idoneo di un mezzo è la stessa forma di senso della valutazione in quanto apprezzamento di una causa di piacere ? Allo stesso tempo anche « buono » in quanto « idoneo » è del tutto diverso, naturalmente, dai « valori morali ». Anche quando voglio uccidere qualcuno ho bisogno di una « buona » arma del delitto o di un « buon » veleno. Qualcosa, che in generale è « conforme al fine », può avere il « valore » di mezzo per quanto i fini siano nobili o ignobili. Gli antichi distinguevano i bona fruitionis e i bona usus, i beni di godimento e quelli d’uso. Del fatto che applicassero per entrambi il termine bonum si risente ancora nel nostro uso linguistico di buono e « beni », con le oscurità che pertengono al concetto di bonum come a quello di agathon e che ritornano nella nostra dottrina dei « beni » e dei « valori ». Il mettere insieme i beni di godimento e quelli d’uso livella il senso, indubbiamente già più ricco, degli ultimi. Inoltre il poter esser goduto e il poter esser usato costituiscono qui, insieme, « il buono » in generale : poiché quei due momenti possono presentarsi anche in scienza, arte, religione, patria, anima e Dio, questi ultimi finiscono per ritrovarsi insieme a « beni » ai quali non li lega, evidentemente, alcun « concetto d’essenza », ma, di nuovo, soltanto un contrassegno generale ; e rischiano che, quali meri beni, sia sottratto loro quel senso più profondo per cui sono più che beni. Si occulta la circostanza, importante per l’etica, per cui le summenzionate cose sono, prima di ogni « esser beni », esigenziali, cose che non richiedono in primo luogo il nostro uso o godimento, e che non sono riferite a fini che ci poniamo, né a fini che dovremmo porci. La virtù è connessa all’essere idoneo e all’idoneità. Per Aristotele le « virtù » sono evidentemente ancora idoneità ; e, in effetti, anche ciò che noi chiamiamo virtù è in pari tempo idoneità della persona a certi suoi fini. È però merito di Kant l’aver definitivamente chiarito la completa distinzione che è qui presente ; merito che si può descrivere appunto con il fatto di « aver distinto la virtù dalla mera idoneità ». L’idoneità era il valore di mezzo, ossia il suo esere adeguato ai nostri fini. Mezzi per i nostri fini sono soprattutto le nostre proprie capacità, tanto quelle del nostro corpo quanto quelle della nostra anima. Infatti, proprio come diciamo « un buon martello », diciamo anche « una buona idea », una « buona testa », quando non intendiamo altro che la loro adeguatezza ai fini che per mezzo loro debbono essere attuati. Se non intendiamo altro che questo, potremmo dire esattamente nello stesso senso : « una volontà buona ». La volontà è il mezzo più essenziale per i nostri fini e tutto dipende dalla sua idoneità, p.e. dal fatto che sia forte o perseverante. Ma, da Kant in poi, nessuno dirà più così. Sentiamo che l’espressione volontà buona è « sprecata » per esprimere la mera idoneità, fosse pure l’idoneità per quei particolari fini che chiamiamo morali. La « volontà buona » non è « buona » perché è « un bene » (un bene d’uso), sebbene sia anche un bene.  









































































































































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3. Possiamo definire la piacevolezza un « valore di piacere », in quanto il piacevole dà piacere. (Tale valore di piacere, allora, è diverso dal valore del piacere stesso.) Per il dare piacere possiamo dire : « serve » (dient) al nostro piacere. Ma vogliamo riservare l’espressione « utilità » (Dienlichkeit) per qualcosa che è allo stesso tempo « di valore » per noi, ma che non è direttamente connesso ad uno stato di piacere, ma a qualcosa di diverso. Il che corrisponde anche all’uso linguistico. Quando dico, infatti : questo mi è utile, intendo qualcosa di totalmente diverso da « questo mi dà piacere ». Se riflettiamo sul nostro sentimento linguistico notiamo facilmente che qui, a livello del sentimento, facciamo una distinzione significativa. In realtà violentiamo il nostro sentimento linguistico se annoveriamo già il piacevole sotto ciò che è « di valore ». Nessun uomo dirà seriamente : queste ciliegie, questo bicchiere di birra sono per me « di valore ». Realmente di valore è solo ciò che realmente « serve », e non al nostro piacere, ma a qualcosa che, a sua volta, viene definito « di valore » in un senso completamente diverso dal mero piacere. L’utile è evidentemente affine all’idoneo. L’idoneo mi serve in quanto serve ai miei fini. Tuttavia vi è anche qui una distinzione, come si può vedere già in ciò che è utile in modo del tutto elementare. Di un farmaco diciamo : mi fa bene ; di un consumo d’alcol eccessivo : mi fa male. Il farmaco non è però idoneo tanto ai miei fini, quanto piuttosto direttamente a me stesso, cioè alla mia salute e quindi alla mia propria esistenza. Certamente pongo anche la mia esistenza come un mio fine, così che l’utile diviene un mezzo per i miei fini. Ma per me è utile non soltanto per il mio porre fini, ma per il mio « benessere », per la mia eudaimonia (che, lo vedremo, non è nulla di « eudemonistico ») ; e se per leggerezza o per stoltezza trascuro il mio « benessere » a vantaggio dell’umore o del piacere, mi può essere assai utile qualcosa che eviterei di scegliere come « mezzo » : magari una dose di legnate come si deve ; la quale è « come si deve » (gehörig) perché « ci vuole » (sich gehört). E ci vuole, ossia è opportuna, perché qui è in gioco qualcosa di « importante ». L’utile è ciò che è riferito a qualcosa di « importante » per l’uomo e per questo diventa esso stesso, indirettamente, importante. Niente può essere importante in se stesso, ma solo per qualcuno ; non però soltanto in seguito ad una sua « valutazione » : è importante già prima e indipendentemente da tale valutazione. Egli valuta solo ciò che è importante per lui, in quanto diviene anche « importante secondo lui ». Ma molte cose, che sono sommamente importanti « per noi », purtroppo non lo sono affatto « secondo noi » e non le prendiamo per tali. Se vogliamo chiamare ciò, come si usa fare, un « valore », certo non lo facciamo perché fissiamo su di esso un interesse. Spesso questo non ha luogo, e se ha luogo non è ciò che dà all’importante il suo autentico quid. È importante, invece, quanto costituisce, promuove e assicura quel che in seguito conosceremo come « senso della vita ». In realtà « ci vorrebbe » che chiunque avesse interesse e zelo per questo : ma non perché si hanno interesse o zelo – e, anzi, anche se non li si ha – ci sono cose e contenuti spirituali che sono « sommamente importanti » pur non essendo piacevoli o idonei per i fini posti. A queste cose d’importanza superiore appartiene, p.e., ciò che noi, con espressione davvero infelice, chiamiamo i « beni » di cultura spirituali. Certo, anche questi sono « beni », ma è più significativo che siano cose d’importanza : importanti per il senso spirituale stesso della vita. Se li definiamo « valori », allora è vero che anche questi sono ancora valori « relativi », nella misura in cui sono riferiti, in quanto « utili », all’autentico « eu » della vita, al senso della vita. In quanto tali, però, non dovremmo già più definirli « valori soggettivi », come i  

























































































































































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valori di piacere, ma oggettivi. Può esser piacevole, infatti, soltanto ciò che è tale « per qualcuno » che lo sente così : senza questa esperienza soggettiva niente è piacevole. Ma ciò che è importante « per qualcuno » resta ciò che è anche se costui non lo riconosce e non « gli dà valore ». Certo, nei confronti dell’espressione « valore oggettivo » bisogna forse procedere ancora oltre. Si afferma talvolta che parlare di « valore oggettivo » è per principio un non senso e una violenza ad ogni uso linguistico. Al contrario, bisognerà chiedersi seriamente se non sia proprio il parlare di un « valore per me » qualcosa di secondario, e se, secondo il senso più determinato e più significativo del termine, non sia lecito chiamare « valore » non tanto ciò che ci è per me, quanto piuttosto ciò per cui io ci sono.  





























4. Tra i « concetti di valore », quello di « perfezione » ha da sempre rivestito un grande ruolo. Nella « perfezione » si è scorto spesso l’ideale dell’uomo stesso e se ne è fatto il concetto cardine dell’etica. In effetti, si vede facilmente che in certe circostanze « diamo valore » alla « perfezione », in tutti i significati che questo termine mutevole può avere. È in pari tempo chiaro che la perfezione è in sé un concetto formale vuoto, che può presentarsi con i contenuti più diversi e può essere, secondo il contenuto, neutrale rispetto al valore o persino del tutto contrario ad esso. Apprezzo un martello perfetto più di uno imperfetto, perché ha un valore di mezzo superiore. O, quando raccolgo piante per il mio erbario o fossili per la mia collezione, scarto un pezzo « peggiore » rispetto ad uno « migliore », che è tale perché è più perfetto. Qui, perfetto è quel pezzo che ha le caratteristiche essenziali e necessarie del suo tipo, e le presenta anche con la maggiore purezza e chiarezza possibili in modo tale che serve ai fini della collezione e ai miei fini. In vista di questi ultimi definisco questo pezzo « buono » e l’altro « cattivo ». Oppure apprezzo la perfezione come elevazione del contenuto oggettivo di valore nell’arte e nella scienza, o infine la apprezzo in rapporto all’ideale, per esempio quello di una « volontà buona » o del « carattere morale » ; e di qui sarà per noi un compito particolare cercare in cosa consista la « perfezione » della « dignità », che stimiamo sopra ogni altro « valore » e che naturalmente tanto più stimiamo quanto più è perfetta. Purtroppo, talvolta si può essere anche dei « perfetti mostri ». Quando attribuiamo qui perfezione non facciamo un complimento, né attribuiamo un « valore », ma il disvalore estremo.  

































































5. Volgiamoci, infine, a quel significato dell’esser-valore dal quale, mi sembra, è sorta quell’opinione ostinata e spesso presentata come un assioma, per cui in generale ci sarebbero e potrebbero esserci soltanto « valori soggettivi » : « A questo o quello io tengo (ist mir wert 7) ». In ciò l’elemento paradossale della cosa è che proprio qui ciò a cui « io » tengo non ha affatto bisogno di esser per me un valore, né nel senso del piacevole, né in quello dell’idoneo, né nel senso dell’utile, né in quello del « valore oggettivo », e tanto meno nel senso della dignità. Diciamo : a quest’uomo io tengo o mi è caro, e questo può esser volto nella forma : gli voglio bene (ich bin ihm gut). Quest’ultima cosa non può naturalmente significare che sono per lui « un bene » nel senso del piacevole o dell’utile, né che sono per lui un « valore » in un qualche senso ; significa piuttosto che sono ben disposto nei suoi confronti, che mi piace, che lo amo. Tanto meno, però, « ci tengo » significa che l’altro venga stimato da me per la sua piacevolezza, impiegabilità, utilizzabilità, utilità, o per  































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  Letteralmente : « mi è di valore ».  







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uno qualsiasi dei caratteri morali ; ma significa innanzitutto semplicemente il fatto che è oggetto della mia « inclinazione ». Inclinazione, amore non è però valore d’amore e non mira ad un « valore » nell’altro, ma semplicemente all’altro stesso. Una madre ama il suo neonato non perché gli è piacevole, ma perché lo ama, e per questo le è piacevole lui e il prendersi cura del bambino. La confusione dell’amore con il piacere, ossia con il piacere dell’altro, è un equivoco molto grossolano. L’amore dà l’aver piacere dell’altro, ma, in certe circostanze, ancor più dà l’averne dolore, quando questi non ricambia o quando è ingrato. Non « amo » perché e in quanto l’altro è per me un bonum usus o fruitionis, e non so cos’è l’amore se sono capace di scambiarlo con questo. L’amore è, come avremo ancora occasione di vedere, una specie di interesse, ma in nessun modo è piacere. Che esso in sé non miri a valori « superiori », magari morali, nell’altro lo si concede forse più rapidamente. Il Samaritano misericordioso, che il Vangelo ci mette di fronte agli occhi come modello dell’amore per il prossimo, non sa se colui che è stato vittima dei ladri è un eroe di virtù o magari l’opposto ; non se lo chiede, ma segue il moto del suo cuore. Né l’altro è per lui un « valore » in qualsivoglia altro senso. L’amore divino, l’amore del Redentore, l’amore salvifico punta al peccatore e a colui che è completamente privo di valore. Ma anche le forme semplici di inclinazione, nella figura dell’amore elementare per i familiari, del cameratismo e dell’amicizia, in quanto sono inclinazioni, non mirano innanzitutto ed esclusivamente a « valori » nell’altro. Mediante « valori », che un altro possiede, « costui mi piace », e il piacermi dell’altro, il mio diletto dell’altro ha un’analogia con l’inclinazione, può mescolarsi con questa, occasionalmente può anche suscitarla, può raffinarla : per questi motivi viene scambiata mille volte con l’inclinazione. Ma già il « diletto dell’altro », come il diletto in generale, è qualcosa di diverso dal « piacere » ed è, in ogni caso, qualcosa di diverso dalla stessa inclinazione. Dove quest’ultima è presente, là sorge anche il diletto, talvolta in forma bizzarra : se una madre ama il suo bambino, quest’ultimo sicuramente le piace, anche se è un mostriciattolo, e anche se le procura affanno e tribolazione. La sorgente dell’erronea dottrina edonistica è che scambia l’interesse con il piacere e che, per di più, non è in grado di distinguere tra to love and to like, tra amare e gradire. Ma su questo si basa anche l’incapacità di Kant di riconoscere che alla perfezione della volontà buona appartiene in effetti qualcosa di più che l’obbedienza al dovere : le appartiene cioè anche quell’« inclinazione » che egli disprezza. In pari tempo si mostrano qui di nuovo le difficoltà di un’etica che riprende « valore » da un uso linguistico poco raffinato e lo utilizza come un termine fin troppo comodo e apparentemente pronto all’uso. Del valore stesso dell’amore, della sua « bellezza », della sua nobiltà dovremo trattare ancora e dovremo tornare su ciò che qui si è solo accennato. Innanzitutto qui [diciamo] solo questo, che l’amore non è di per sé già amore del valore, e che se « tenere a te » significa « volerti bene », allora questo bene, secondo il suo concetto, non significa qui « sono un bene per te » ; e che, se tengo a qualcuno, non è perché costui è per me un valore, ma è per me un valore perché tengo a lui.  











































































3) Valori esigenziali Ci sono fini, nel senso rigoroso del termine, soltanto per una coscienza e per una volontà. Possiamo quindi parlare propriamente di fini nella natura soltanto se ad essa, o ad una potenza che li pone, attribuiamo l’una e l’altra. Ma anche in mancanza di coscienza e volontà vi sono « tele » e teleologie, per lo meno nella natura organica : per esempio  





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la figura tipo di un essere organico, che viene costruito per mezzo delle sue capacità entelechiali e che, in quanto « meta », telos, indica a queste ultime la strada. Definiamo questi tele in senso traslato anche fini e parliamo di un riferimento conforme al fine delle parti di un organismo al tutto e del tutto alle parti. « Comprendiamo il senso » di una parte nell’organismo, soltanto se e in quanto abbiamo riconosciuto questa sua « conformità al fine ». I fini, lo abbiamo già visto, possono essere fini ultimi, ai quali si rapportano, come mezzi, i semplici fini intermedi. Quindi una stessa cosa può essere fine ultimo sotto un certo profilo e, sotto un altro, fine intermedio per qualcos’altro che si voglia ottenere. Come fini intermedi ci poniamo ciò da cui ci attendiamo piacere. Avere piacere è qui un fine ultimo perché è per noi un « valore in sé ». Ora chiediamoci innanzitutto : ci sono, a parte il piacere, anche altri valori in sé, ossia cose che sono e possono essere poste come fine ultimo di per se stesse ? Inoltre : il valore in sé del piacere è naturalmente sempre « un valore per noi ». C’è forse qualcosa in cui anche questo « per noi » debba mancare e che allora dovrebbe esser definito un « valore in sé » in un senso totalmente diverso : ossia non soltanto perché ha un valore da se stesso per noi, ma perché è « un valore in e per se stesso » ; anche senza la relazione a qualcuno che valuti ? E infine : l’uso linguistico ci consente di utilizzare il vocabolo « valore » per questa cosa rara ? Il che è importante per noi non soltanto per parlare in modo comunemente comprensibile, ma perché con questo avremmo la garanzia che non almanacchiamo, ma parliamo di cose che, come dice Kant, sono presenti da tempo « nella comune conoscenza della ragione morale » 8 e devono solo esser chiarite in modo più preciso. Volgiamoci ora innanzitutto alla prima domanda.  























































1. Ci sono altri valori in sé oltre al piacere, il che significa qui : ci sono altri oggetti nei confronti dei quali abbiamo un interesse diretto ? A questa domanda si è risposto spesso negativamente. Se però si considera la situazione più esattamente, si può ancor prima chiedere : il piacere è, in generale, un valore in sé ? Non è forse – almeno in molti casi, forse nella maggior parte – soltanto una condizione concomitante che si ottiene quando si mira ad un « fine ultimo » diverso dal piacere ? Questo è evidentemente il caso nelle forme inferiori di interesse, p.e. negli istinti degli organismi inferiori. Il baco da seta viene mosso dall’impulso di fare il suo bozzolo. Se questo viene distrutto, il baco prova forse « dispiacere ». Non viene però mosso dall’impulso di evitare il dispiacere, ma da un istinto autonomo e diretto di compiere certe operazioni per lui del tutto incomprensibili. È « regolato » o « predisposto » così ; il che qui significa che è orientato a questo. Ha una tensione : se questa viene soddisfatta ha piacere ; se non viene soddisfatta ha dispiacere. Ma nemmeno nell’ultimo caso l’evitare il dispiacere è il motivo di cominciare una nuova opera : il motivo è quella tensione impiantata dell’istinto. Nella vita dell’animo umano c’è un certo interesse che condividiamo con le capre e che chiamiamo « curiosità ». Il soddisfacimento di questo interesse procura piacere, come ogni soddisfacimento di interessi. Ma, anche qui, l’interesse si indirizza in modo diretto ad avere un’esperienza di qualcosa di nuovo, non al piacere. Un collezionista di francobolli ricava piacere quando trova francobolli. Ma lo ricava solo e soltanto nella misura in cui innanzitutto  





































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  I. Kant, Grundlegung der Metaphysik der Sitten, BA 1.

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ha un interesse, che in certe circostanze è molto forte, al possesso di francobolli. Egli non pensa al « piacere », ma, appunto, ai « francobolli ». Una madre ha interesse al benessere del suo bambino : quando il bambino sta bene, sta bene anche lei. Ma questo solo e soltanto nella misura in cui era preliminarmente interessata a qualcosa di completamente diverso dal piacere, ossia alla salute del bambino. In tutti questi casi, e in migliaia di altri, il piacere si ottiene come effetto : occasionalmente può, non deve, esser preso in considerazione come fine concomitante. Ci sono casi in cui il piacere come effetto viene diminuito se l’interesse principale era « strabico » invece di esser innanzitutto un puro « interesse per la cosa ». Può succedere anche qualcos’altro. L’interesse per i francobolli, p.e., può diventare sempre più vivo e appassionato col crescere della collezione, mentre contemporaneamente il « piacere » diventa più tranquillo, fievole, sfumato. Un ragazzo che comincia la collezione contemplerà il suo patrimonio di sette francobolli con un entusiasmo sempre nuovo, e ne godrà : una volta che ne ha un migliaio, il suo piacere della cosa sarà sostanzialmente minore, meno intenso ; mentre con una maggiore conoscenza l’interesse comincerà forse soltanto ora a soddisfarlo in modo più profondo. Diciamo dunque che non c’è soltanto l’interesse per il piacere, ma c’è anche il puro interesse per la cosa. Anche il soddisfacimento di un interesse per la cosa procura piacere, ma l’intensità del piacere non è funzione dell’interesse per la cosa e l’interesse in sé non è interesse per il piacere. Vi sono dunque tanto valori in sé, quanto fini ultimi che non sono piacere. Allo stesso tempo è chiaro, però, che anche questi valori di cosa, come i valori di piacere, sono tali soltanto in quanto sono per qualcuno. Non avrebbe alcun senso chiamarli « valori in sé ». Chiediamoci ora : ha senso parlare di « valori in sé » ? E se dovesse esserci qualcosa di simile, qualcosa che viene indicato da queste o simili espressioni, il nostro uso linguistico ci consente di dire « di valore » o « valore » ? E se dovesse esserci, allora sarebbe anche evidente che i « valori in sé » sono qualcosa di totalmente diverso dai « valori soggettivi », qualcosa che nonostante il termine « valore », che suona nello stesso modo, appartiene tuttavia ad una classe essenziale del tutto diversa.  





























































2. Volgiamoci dunque alla nostra seconda domanda : qui deve essere innanzitutto sollevato lo scrupolo che ci è già venuto in precedenza. Molte dottrine dei valori, in generale, non definiscono rigorosamente « valore », ma lo raccolgono in modo largamente inavvertito dall’uso linguistico ; così che diventa una specie di camaleonte che mostra ora questo ora quel colore, e ciò che è in sé disparatissimo si raccoglie in una « tavola dei valori ». (Noi stessi abbiamo indicato come momento comune di alcuni dei concetti coperti dal vocabolo « valore » l’esser connesso con l’interesse ; ma lo abbiamo fatto esplicitamente non nel senso di una definizione di « valore » in genere, perché già una spiegazione terminologica unitaria non ci sembra in generale possibile : abbiamo piuttosto il compito di cogliere in modo specifico il senso di volta in volta molto diverso del termine.) Dove vengono date definizioni troviamo grandi discordanze : il valore sarebbe ciò che attribuiamo ad una cosa mediante atti di valutazione (dove si presuppone che « valutare » sia compreso in modo universalmente univoco). Il valore sarebbe ciò che viene di volta in volta preferito. Il valore sarebbe ciò che determina la nostra preferenza. Il valore avrebbe soprattutto un riferimento al « sentimento », dove però per sentimento si intende piacere/dispiacere ; e non è chiaro se sentiamo un piacere perché la cosa ha un valore o se, al contrario, la cosa è un va 



































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lore perché, secondo l’esperienza, al suo godimento o possesso si riallaccia un piacere. Oppure : il valore non sarebbe riferito al sentimento, ma alla volontà, ossia sarebbe il nome per ciò a cui la volontà tende in forza della sua propria direzione, e il sentimento sarebbe soltanto l’indicatore di una realizzazione della volontà. b Il nostro scrupolo, però, non riguarda questo, ma la banalizzazione del senso di « valutare » e « dar valore », contro la quale parla già il nostro stesso senso linguistico. Poco importa se qualcosa ha valore perché gli diamo valore o se gli diamo valore perché ha valore : quando e in quale caso « diamo valore » qualcosa ? Davvero « do valore » quando per un capriccio del gusto preferisco le ciliegie nere alle rosse ? Davvero una persona dà valore, quando « apprezza » la sua bottiglia di acquavite ? « Do valore » quando apprezzo, scelgo, preferisco qualcosa, quando cerco con interesse, bramo o esperisco con piacere ciò che soddisfa il mio mero capriccio o la mia mera curiosità ? Certo, anche secondo il nostro uso linguistico qualcuno può « attribuire valore » a stivali dai tacchi alti ; d’altra parte, l’uso linguistico differenzia da tempo tra le diverse forme del preferire e del valutare in modo molto determinato : si può « gradire » una bottiglia di birra, ma non la scienza, l’arte o la religione. Se si ascoltano in modo più raffinato queste differenze, si nota che mirano a qualcosa che risiede « nell’oggetto » stesso, che riguarda l’oggetto stesso, che ha in sé un tratto di oggettività. Di un impiegato abile possiamo dire : « costui è per me di molto valore ». In certi casi ci vediamo però costretti a lasciar cadere il « per me » e a dire semplicemente « quello è un uomo di grande valore ». Qui senz’altro non vogliamo dire che è di valore per me, e nemmeno per altri : forse vogliamo dire che è di valore per mete e compiti universali significativi. Ma in certi casi già non intendiamo più un tale « per » : ci sono davvero uomini che portano in sé un profondo « valore » e lo portano semplicemente in se stessi mediante ciò che sono, non soltanto mediante ciò che significano per altri o per qualcos’altro. Soprattutto, però, bisogna far riferimento ad un uso linguistico che finora non abbiamo menzionato e che non è soltanto moderno, ma che era presente da tempo anche nelle lingue antiche e su cui certamente si è modellato l’uso della nostra lingua : mi sembra che sia quel senso di valore da cui ogni « assiologia » ha preso originariamente l’espressione. E se la « dottrina dei valori » partisse da questo, invece che dal valore del piacere o dell’utile – come spesso nascostamente fa, anche se non vuole ammetterlo – allora la domanda sui « valori oggettivi », anche se non vi si rispondesse ancora in modo positivo, sarebbe comunque posta al livello giusto. Diciamo : « Vale la pena ». Spesso non è necessario che questo significhi altro che : « merita » (lohnt sich), che cioè dà come ricompensa un piacere o un valore di piacere o di utilità, o anche che è qualcosa di « utile » per noi stessi nel senso della nostra formazione e cultura spirituale. Ma anche già in quell’espressione risuona un senso che viene chiaramente alla luce quando diciamo : « Il lavoratore si merita il suo salario (ist seines Lohnes wert) ». In ogni caso questo non significa che il lavoratore è di valore (wert) per me o per qualcuno, o che sia piacevole, utilizzabile, utile a qualcosa, ma che ha una pretesa fondata nei confronti di qualcosa, che può esigere con fondamento, che può avanzare esigenze valide. « Assiologia » viene da axion, che traduciamo con dignum e con « di valore » : ma axion  



















































































































b









  Quest’ultima cosa coincide quasi con quanto esposto criticamente in 1., se al posto della volontà si mette l’interesse. Nella maggior parte dei casi, il piacere è appunto soltanto l’effetto concomitante di un interesse realizzato, che, come tale, mirerebbe innanzitutto a qualcosa di diverso dal piacere. Indubbiamente, però, in innumerevoli casi miriamo anche direttamente e senz’altro al piacere.

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in prima battuta non significa che colui o ciò che è axion sia un « valore per qualcuno », ma che avanza pretese valide nei confronti di qualcuno ; e se davvero vogliamo praticare una « assiologia » nelle nostre etiche, abbiamo dei buoni motivi per farlo già linguisticamente : siamo giustificati e costretti dal più antico uso linguistico a prendere le mosse non dal fatto che « ci tengo » (mir wert sein) o che « sia di valore per me », ma dal fatto che « si meriti una cosa » ; a prendere cioè le mosse da ciò che è fondamento della validità di una pretesa. La Bibbia dice : « Tu sei degno di gloria, onore e potenza ». 9 Questo include anche il fatto che ciò che qui è inteso diverrà oggetto del mio interesse, che diventerà qualcosa « a cui tengo » in quanto oggetto del mio amore, che diventerà per me « un bene » e forse il summum bonum : nessuno di questi è però il senso fondamentale, ma il fatto che ha una pretesa massimamente valida ad un’obbedienza deferente e riconoscente. La riluttanza dei « formalisti » nei confronti dell’etica dei valori dipende essenzialmente dal fatto che in quest’ultima essi avvertono la mancanza di quella peculiare serietà e di quel coraggio che sono propri al formalismo. E, in effetti, non vi è in ciò qualcosa di giusto ? E non ne deriva che nell’etica dei valori i « valori » sono pensati sempre troppo a partire dal timion invece che dall’axion, e che l’etica è più una timiologia che un’assiologia o, detto altrimenti, che i « valori » sono intesi ancora sempre troppo come « beni » invece che come « normativi » ? Nell’esempio del lavoratore che merita il salario il fondamento della validità non è – cosa su cui avremo ancora modo di riflettere – un « valore » : pagare il salario non è dovuto perché il lavoratore è un « uomo di valore » e nemmeno perché è utile, ma perché ne ha « diritto » : e questo diritto costituisce il fondamento della validità della sua pretesa. Del « diritto » come fondamento della validità di pretese tratteremo in seguito. Ora, però, vi sono in effetti anche altri fondamenti della validità di esigenze, i quali sono diversi dal diritto ; vi sono cioè anche altri fondamenti di esigenze « obbliganti » o « vincolanti ». E per questi nemmeno io ho trovato altro nome, nonostante tutta l’equivocità del vocabolo, che « valore » interno o oggettivo ; il quale in effetti è un « valore » nel senso della nostra seconda domanda : un valore che è tale esclusivamente in e da se stesso, anche senza relazione ad un « valutante ». « Valori » o « beni » come un lavoro regolare, la formazione, la scienza, l’arte, la religione, sono « utili » in quanto sono salutari e favoriscono il fatto che io divenga – come dice Meister Eckhart – « essenziale », che cioè pervenga alla mia essenza « superiore » o spirituale. Ma cos’è questa mia essenzialità, questa essenza spirituale in me ? Può certo essere, a sua volta, « utile », a me come ad altri, ma prima di ciò vale il fatto che deve esistere o divenire reale in vista di se stessa. E qual è il fondamento di questo dovere ? Non possiamo definirlo altrimenti che così : perché è un « valore » ; e stavolta non un valore per qualcos’altro, ma in se stesso. Non dipende da alcun « valutare », e resta ciò che è anche se nessuno lo valutasse. Lo stesso vale, d’altra parte, anche dei summenzionati « valori » come l’operare attivo, la formazione, ecc. Essi sono entrambe le cose : sono tanto valori utili, quanto d’altra parte, essendo ideali, sono « valori esigenziali », e sono quindi valori in se stessi. La scienza, p.e., è certo utile al ricercatore, ma d’altra parte il ricercatore si dedica « al servizio della scienza ». Essa non è affatto soltanto un « bene » per lui o « per l’umanità », ma pone come ideale, al ricercatore in particolare e all’« umanità » in generale, l’esigenza  











































































































































































9

  Ap 4, 11.







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di essere e di essere accresciuta. Questo stato di cose viene visto e riconosciuto come sussistente oggettivamente non dal filisteo, ma da « chi se ne intende », ossia da colui che comprende ciò che la scienza è secondo il suo senso. Essa è un axion, un valore, non soltanto perché è per il ricercatore, ma soprattutto perché anche il ricercatore è e deve esser « per lei ». E l’autorizzazione linguistica a definirla così, la ricaviamo dal senso del termine stesso axion. Possiamo chiarire ciò con un « semplice » esempio, che scegliamo di proposito proprio perché è « molto lontano » : parla però una lingua chiarissima, se solo si presuppone che siamo di sentimenti abbastanza raffinati per accorgercene e che esprimiamo in modo semplicemente onesto, senza opinioni preconcette o teorie utilitaristiche del valore, ciò che intuiamo immediatamente in quanto uomini con un sentimento del valore formato. Il poeta racconta del fiorellino che ha trovato nel bosco : « splendente come le stelle, bello come gli occhi ». 10 Egli vuole coglierlo e quello gli dice : « Devo esser colto per poi appassire ? » Il poeta percepisce un ammonimento grazioso e un’esigenza delicata, quella di limitare il suo libero piacimento nei confronti di questo oggetto. E riconosce la validità di questa esigenza, alla quale obbedisce. Se non avesse obbedito, sarebbe stato per lui evidente, e oggettivamente valido per la sua conoscenza di sé, che avrebbe preferito un « disvalore interno oggettivo », per la cui « classe » già la conoscenza del valore propria della « ragione comune » ha un concetto colto in modo del tutto determinato e un nome specifico : egli avrebbe commesso una « brutalità », il suo agire sarebbe stato « brutale ». Questo « disvalore » sarebbe stato, come quello di « malvagio », un disvalore « personale ». Egli lo avrebbe preferito perché si sarebbe sottratto ad un’« esigenza valida » di tipo specifico, da lui percepita e compresa. Ora, che cosa ha fondato l’esigenza nella sua validità ? La delicata bellezza di quest’oggetto di natura. Questa cosa « meritava » che il piacimento nei suoi confronti fosse limitato. Ma in questo caso lo meritava perché – non possiamo dire altrimenti – portava in se stessa « un valore » che non soltanto « piaceva », ma le dava la pretesa all’inviolabilità. Certo, essa aveva anche un « valore di piacere » per la persona in questione : questi se la porta a casa per deliziarsene gli occhi. Ma non è questo che è qui in questione, perché il poeta non risparmia il fiorellino per rallegrarsene più a lungo, ma « si vergogna » di non soddisfare pretese tanto delicate e percepite da lui come valide. Il senso è qui il « valore esigenziale », che il fiorellino ha anche se nessuno vuole deliziarsene, che gli conferisce inviolabilità, attraverso cui avanza pretese fondate alla volontà e all’azione. Il poeta, risparmiandolo e prendendosene cura, non ne « gode », ma « ne ha riguardo » : ha riguardo nei confronti di qualcosa che può esigere tale riguardo fondatamente. Egli non ha riguardo nei confronti dell’interesse di altre persone che forse potrebbero godere del fiorellino nel bosco, nel caso in cui ci passassero : ma ha riguardo, in tutta serietà, del fiorellino stesso. Il « valore » che esso ha, lo ha per l’esistenza di certi suoi momenti, per i suoi colori e le sue forme, e per un’« unità » dei medesimi che non è definibile. Grazie a quest’ultima ha appunto ancora qualcosa che è ciò che qui chiamiamo « valore proprio » interno. Non è una « proprietà » esistente, ma è senza dubbio un predicato oggettivo. Questo valore acquista una « relazione » con noi, da una parte quando lo riconosciamo meravigliandoci, e d’altra parte, e in modo totalmente diverso, per il fatto che di fronte ad  





























































































































10

  J. W. Goethe, Gefunden, 1815.





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esso ci sentiamo vincolati a limitare il nostro libero piacimento ; e ci vergogneremmo se omettessimo di farlo. In questo modo diventa anche un valore relativo. Ma resta, e resta in se stesso ciò che è, anche se non entra in una tale relazione. Tutti gli altri anemoni nel bosco, che il poeta non ha visto, né risparmiato, e che forse nessuno ha visto, avevano in sé la medesima particolarità che qui chiamiamo valore. Così come l’azione di un serio superamento di sé è, quanto all’esistenza, un processo psichico, ma possiede in pari tempo, in virtù della sua « correttezza » conforme alla norma, qualcosa che non è nulla di psichico, ossia l’esser buona, e lo possiede anche se l’azione è accaduta in solitudine e senza nessun osservatore ; e così come questo suo esser buona non è affatto soltanto una correttezza conforme alla norma, ma poggia su ciò che semplicemente esiste e che è corretto come qualcosa che proviene da un’altra sfera di oggettività, proprio come l’aureola su San Pietro, la stessa cosa accade qui, per quanto diverso sia il « valore interno » di qualcosa che è soltanto bello dal « valore personale » di un’azione buona.  















3. Tale valore, in questo caso, è quello della « bellezza », in particolare della bellezza di natura. E già qui sottolineiamo quanto sarebbe sbagliato cercare il « valore » del bello semplicemente nel fatto che può procurare piacere. Il « bello » non è per nulla una sottoclasse del « piacevole » : non lo è già solo per il fatto che può esigere, e che la sua violazione procura un disvalore del tutto concreto, chiaramente riconoscibile e ben noto alla conoscenza dei valori (quello della brutalità), cosa che nessun « piacevole » è in grado di fare. Oltre al bello di natura c’è il bello d’arte, e accanto a questa classe di valori « estetici » oggettivi c’è la classe molto più significativa dei valori « vitali » e « spirituali » ; e oltre a questa ve ne sono altre superiori. Tutti questi valori, se si presentano ad un osservatore sensibile e di sentimenti raffinati, possono divenire per costui anche fondamento di diletto, di gioia ecc. Non sono però soltanto tivmia, ma appunto anche a[xia : alcuni sono evidentemente più una cosa, altri più l’altra. Non è però solo per questo che possiamo chiamarli « valori », ma soprattutto perché sono fondamento di una pretesa giustificata al riconoscimento, alla volontà e all’azione, alla cura e ad un prendersi cura che li mette in forma figurativamente, al mantenimento, laddove sono già presenti, alla produzione, dove sono producibili. La loro pretesa comincia con quella prima, semplice esigenza che limitassimo il nostro piacimento in rapporto alla loro inviolabilità. Ma, secondo la specie e la situazione, essa viene avanzata in modo più elevato e pone compiti positivi di formazione, messa in forma e produzione e pone all’uomo mete concrete del tendere e dell’agire. Tra questi « valori oggettivi » vi sono anche gli ideali di formazione e autoformazione spirituale, anche la stessa personalità etica matura, in quanto può essere oggetto e risultato dell’educazione e dell’autoformazione.  













































4. Alla nostra lingua manca un termine comune per ciò che qui abbiamo chiamato valore oggettivo interno. Il vecchio agathón e, ancor più, il bonum contenevano anche questo significato. I bona non erano soltanto « beni », erano – se ci è lecito formare da « buono » questa forma del neutro plurale – « buoni », nel senso di cose « oggettivamente di valore ». Forse questo è già il senso di « buono » in quell’antica parola della Sacra Scrittura : « Vide tutto ciò che aveva fatto e vide che era cosa molto buona ». 11 Questo, in effetti, non significa forse che ciò che fu creato da Dio, riflettendo il Suo  









11

  Gn 1, 31.

















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valore originario, era « di valore » o « aveva valore » ? E che era tale non nel senso di un « bene » – perché per chi, poi, dovrebbe essere un bene « tutto » ? –, ma come qualcosa che porta un valore in se stesso ? Meister Eckhart ritiene di sì. Per lui i trascendentali esse e bonum sono « convertibili » : l’essere, e quindi ogni ente, è anche buono e la scala dell’ente è contemporaneamente una gradazione di « buoni », ossia di un contenuto di valore oggettivo sempre maggiore. Per lui, quindi, il malum non « è » ; e ciò che a noi appare tale è per lui soltanto negazione di un bonum o è un grado inferiore del bonum, il quale perde di intensità e contenuto di bonitas quanto più si avvicina verso il basso al nihil, al non-ente. Qui si intende inanzitutto soltanto il mero « valore oggettivo » e per lo più ancora non riflesso sul moralmente buono/malvagio. Dove quest’ultimo viene incluso nella sfera di quel bonum, là questa dottrina diventa rovinosa per la morale. Ma solo nella sfera del « mero » valore oggettivo quella dottrina ha forse il suo buon senso : forse siamo soltanto divenuti più « ciechi al valore » di quanto lo fosse Eckhart. Per il nostro sentimento del valore la scala dei valori d’esistenza comincia in effetti soltanto con l’entrata in gioco della vita, la cui esigenza nei nostri confronti possiamo ascoltare chiaramente ; c mentre cogliamo i valori della bellezza anche già negli ambiti di ciò che è inferiore al vivente. Se ci fosse posta la domanda che pone Aristotele – « se ora tutto fosse soltanto un naso camuso », o se in generale soltanto qualcosa fosse, non sarebbe « meglio » che se in generale nulla fosse ? –, dovremmo forse rispondere anche noi di sì. Ci torneremo in occasione della questione del « valore cosmico ». A tal proposito, con l’espressione « è bene così » si intende molto spesso un valore oggettivo, e poiché tutti i « beni » eticamente rilevanti sono contemporaneamente anche esigenziali, sono dunque valori oggettivi e dunque « buoni », allora il termine « beni » deve estendersi di necessità anche ai « valori esigenziali », sebbene, quando si parla di « beni », di solito non si pensi in prima battuta a qualcosa di esigenziale, obbligatorio, vincolante.  



























































































5. La sfera di questi « valori oggettivi » – dicevamo – non comincia soltanto con la vita, vita cosciente, anima, spirito razionale, e con i suoi prodotti e creazioni. Il bello di natura, per esempio, già negli oggetti inconsci, inanimati, può essere sentito come « valore esigenziale », che viene anche conosciuto e riconosciuto come tale da un sentimento di valore più raffinato, quando questo si sia ridestato. Il danneggiamento o la distruzione, intenzionale o senza scopo, di un bel paesaggio o di una bella opera della natura in generale vengono riconosciuti, con un chiaro erompere del sentimento, come una « brutalità ». Definiamo « brutale » un comportamento in cui la comprensione del valore in generale manca : lo definiamo due volte brutale quando un tale sentimento di valore è presente, ma non si obbedisce alla sua esigenza. D’altra parte, non soltanto la bellezza di un essere vivente costituisce il suo « valore », ma l’esser vivente, la vita stessa contraddistingue un essere come più « dotato di valore » rispetto ad un non vivente. Chi in un’escursione calpesta « senza sentimento » una fila di formiche che camminano si comporta, appunto, in modo brutale : non perché distrugge un’opera della natura particolarmente bella, ma perché disprezza la pretesa di limitazione del suo piacimento che il vivente avanza, già solo per il fatto di esser tale. Questa pretesa si rafforza quanto più la « vita » è sviluppata in modo ricco, molteplice  



































c   Anche noi potremmo senz’altro dire : « La vita è buona », senza essere fraintesi nel senso del valore morale, o del valore del piacere o dell’utile.  





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e organizzato. Nei confronti delle forme inferiori del vivente può decrescere fino al più flebile ammonimento, che alla fine non è quasi più avvertibile. Può essere accompagnata con un pesante o pesantissimo rimprovero nei confronti delle sue forme più elevate e ricche. La sua forza è dipendente dalla « pienezza di valore » vitale dell’oggetto di volta in volta in questione. (Il momento di pienezza di valore crescente e decrescente può esser intuito e sentito in modo particolare proprio nella « vita ».) Il valore della « vita » può essere in pari tempo connesso, o sovrapposto o elevato, con molteplici altri « valori oggettivi » e in pari tempo la « vita » o l’esser vivente ha « valore di mezzo » per numerosi altri valori. Ma il divieto « neminem laede » riguarda in prima battuta proprio la vita e i suoi impedimenti. E, per il fatto che essa pone già solo da se stessa questo comando alla coscienza, si riconosce che già di per sé, ancora senza i predicati di « valore » specifici come bello, buono, nobile, conforme al fine ecc., appartiene alla classe « valori oggettivi ».  



































6. Dall’esser presente di tali valori oggettivi, da una parte, e dalla possibilità della loro realizzabilità, d’altra parte, scaturiscono innumerevoli « compiti », comandi e divieti. Dal rispetto o dal disprezzo di questi derivano azioni e atteggiamenti dell’animo che secondo il caso sono buoni o malvagi, o che possono portare un valore o un disvalore personale, e cioè « morale », affine a questi due. Abbiamo voluto definire anche questi ultimi come « valori o disvalori oggettivi ». Ma dobbiamo distinguerli dai « meri valori » mediante il contrassegno specifico di « morali ». E qui ci si fa chiaro ciò che intendiamo con questo contrassegno. Vita, vita cosciente, anima, spirito, beni o « buoni » della cultura non sono mai già di per sé valori « morali ». L’uomo, in quanto si rapporta positivamente o negativamente ad essi, osservandoli o producendoli, limitando la sua volontà o ponendole un fine positivo, ottiene un valore o un disvalore che quelli non possono avere. Il quale valore si distingue dai primi non per il grado : è qualcosa di qualitativamente diverso, che in quell’altra sfera non è in generale possibile. È ciò che Kant ha in mente quando esalta la completa unicità della « volontà buona ». A differenza di ogni « mero valore oggettivo » definiamo quest’ultima, come si è già detto in precedenza, « dignità ». Nessun « mero valore oggettivo » ha una tale dignità, nemmeno la « personalità morale » in quanto è oggetto, ossia meta del tendere dell’educazione e dell’autoformazione : come tale anche essa è soltanto un « bene morale ». Solo lo stesso soggetto che tende può possedere una tale « dignità ». E, possedendola, non soltanto eccelle al di sopra di tutti i « valori oggettivi », ma in generale è una realtà completamente diversa e non comparabile con tutti gli altri valori. Introducendo il termine « dignità » ci riallacciamo a Kant, ma con un uso linguistico un po’ diverso dal suo. Secondo Kant « l’uomo » ha dignità a differenza di tutte le mere « cose », che hanno soltanto un « prezzo ». Per parte nostra sosteniamo che tra prezzo e dignità vi è ancora l’idea del « valore oggettivo », e che talvolta anche quel che Kant chiama « cosa » può averlo. D’altra parte, per Kant l’uomo non ha dignità soltanto in quanto è un uomo « di volontà buona », ma in quanto diviene « un legislatore » per l’altro già in forza della sua umanità, poiché già come tale ha il diritto di limitare la volontà di un altro e il suo piacimento, secondo la regola della terza forma dell’imperativo categorico (per cui nessuno deve considerarlo solo come mezzo, ma sempre anche come fine). 12  





















































































12







  I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, BA 66-67.





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Secondo Kant, ogni persona ha questa dignità nei riguardi di ogni altra persona, e la ha uguale a quella di ogni altra. Noi, invece, impieghiamo « dignità » come un predicato esclusivamente « morale » – cosa che la kantiana dignità della persona ancora non è – per distinguere in modo assoluto il « valore » della volontà buona da ogni valutare ; e non soltanto come l’assoluto dal meramente relativo, come fa Kant, ma come diverso secondo la qualità e il genere. (Nondimeno in seguito manterremo la definizione kantiana « uguaglianza della dignità della persone », il cui contenuto sarà del più grande significato anche per noi, poiché non riesce a venirci in mente un altro termine e perché questo contrassegno è divenuto da tempo classico.) Per assicurare questa distinzione essenziale e non livellare la « dignità » su un « mero valore oggettivo », ci serviremo della circostanza favorevole per cui il nostro uso linguistico impiega due termini : etica e morale. Già il nostro senso della lingua ci porta ad assumere « morale » come più limitato e come un ambito particolare all’interno dell’etica. Stabiliamo « morale » per la dottrina della « dignità ». I « valori », di cui è l’etica che deve parlare, non sono di per sé « valori morali » – lo è solo la dignità e ciò che le appartiene – ma sono « valori esigenziali ».  



















































7. È con ciò chiaro che la morale è il cerchio più stretto all’interno dell’etica. Ma sarebbe sbagliato ritenere che la dottrina dei « valori » abbia un interesse soltanto in quanto essi sono condizione di una « dignità » possibile. Questa sarebbe una teleologia dell’etica verso la morale del tutto scorretta, che renderebbe i valori oggettivi valori di mero mezzo per la possibilità dell’agire e dell’essere morali. Ma in verità le cose non stanno così. Anche del tutto a prescindere dal fatto che nel caso X io acquisisca dignità o indegnità, X deve accadere o non accadere, in vista di sé, non della mia « dignità » ; e cioè secondo che in questo modo sia garantito o offeso un « valore oggettivo interno ». Come ci si farà chiaro in seguito, la dignità di un’azione è proprio quel che viene mancato se nell’azione si è pensato ad essa come fine e si è abusato dell’oggetto come mezzo per la « bontà della mia volontà », invece di compierla in obbedienza pura, e non strabica, all’esigenza del suo valore. Si fa chiaro, con ciò, che alla nostra « domanda principale » circa bene e male ne è sovraordinata logicamente un’altra. Prima, infatti, che ci si possa interrogare su « dignità » o indegnità bisogna logicamente che ci si interroghi su ciò che in generale deve essere o accadere, o non accadere. Solo se qualcosa di simile c’è, può anche esserci un « valore morale » come dignità o indegnità. Questa domanda circa quel che « oggettivamente si esige » resterebbe come questione urgente anche se – per impossibile – non ci fosse alcun « valore morale ». Ma qualcosa che si esige oggettivamente c’è innanzitutto perché « ci sono valori oggettivi interni ».  













































4) Disvalori esigenziali – Il diritto 1. Quel che si esige oggettivamente emerge sul fondamento di un valore interno. Ma – e con ciò si mostra per lo più l’unilateralità di ogni dottrina dei meri valori – « c’è » esigenza anche laddove nessun « valore » è presente. Un uomo può avere delle « pretese valide » nei miei confronti senza essere un « uomo di valore », a prescindere dal fatto che sia tale e anche a prescindere dal fatto che sia un essere di valore già solo in quanto uomo. La maggior parte dei doveri che abbiamo nei confronti dei nostri simili, e dunque l’ambito più ampio dei compiti morali in generale non deriva da alcun valore. A questo allude  















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il nostro esempio del lavoratore che merita (ist wert) il salario. Certo, lo abbiamo utilizzato già prima, ma finora ci è servito soltanto per fissare un senso nuovo e proprio dell’aggettivo « di valore » (wert). Per mezzo di esso abbiamo illustrato innanzitutto il concetto del meritare come « esigenza valida » in generale e abbiamo cercato una giustificazione nell’uso linguistico per la costruzione dell’espressione « valore esigenziale ». Il lavoratore, però, non fonda la sua pretesa su un « valore interno », ma semplicemente su una prestazione che ha compiuto per me. Può esigere il salario non soltanto in vista di un « valore » che avrebbe acquisito mediante una tale prestazione, ma per un diritto che in tal modo ha acquisito. Non è che penso : quest’uomo, mediante questa prestazione, è diventato un uomo di valore e per questo pretende il salario. Ma il fatto della sua prestazione costituisce un momento completamente nuovo e totalmente diverso : un « diritto ». E questo è il fondamento di un’esigenza valida, ossia « giustificata ». Come quella che proviene dai valori oggettivi, essa include il « tu devi ».  



































2. Il « diritto », e la forza della sua esigenza, non scaturisce da un positiva posizione del diritto. La proposizione « il lavoratore merita il suo salario » non è una « statuizione », ma una « legge morale » che, come oggi il mondo apprende con spavento, può diventare unità di misura per la posizione del diritto, per misurare se questa contiene un « diritto giusto ». Come tale non dice : il lavoratore può citarti per il pagamento del salario e può costringerti a pagare. Precede ogni posizione del diritto ; non include una possibilità di esigere giuridicamente, ma un fondamento di validità, che di per sé non è né un valore morale, né un valore oggettivo in generale. Include un « assioma morale », quello per cui la prestazione accettata obbliga l’accettante. Questo assioma, come ogni altro assioma, non è derivabile, nemmeno da « idee di valore ». Rispetto all’« assioma del valore », per cui i « valori obbligano », è un assioma autonomo. Fare un torto a qualcuno, rispettare i diritti di qualcuno sono concetti che chiunque comprende, anche se non sa nulla di giurisprudenza, di statuizione del diritto e di ordinamento giuridico. Abele aveva nei confronti di Caino « il diritto » di esigere che questi lo lasciasse inviolato, e tutti gli Abele lo hanno ancor oggi, anche là dove non sussiste tra loro alcuna statuizione del diritto. È possibile che la conoscenza per cui uno ha certe esigenze elementari « giustificate » nei confronti degli altri, sia sorta solo nel corso di un lungo « accadere » e assai lontano dallo « stato originario » dell’umanità : anche qui non vi è modificazione nell’accadere che possa creare questa idea o rendere efficace l’intuizione della sua validità, o anche soltanto insegnare agli uomini cosa significhi. L’uno può tuttavia avanzare una pretesa valida nei confronti dell’altro, e può anche comprenderla, solo dove e quando l’uno si distingue con consapevolezza dall’altro. E se è vero che l’« individualismo » è stato solo un grado tardo dello svilupppo sociale e che gli inizi erano piuttosto di tipo collettivo, con sentimenti collettivi dominanti e senza alcun sentimento dell’io (o comunque sviluppato debolmente), allora è chiaro che i « diritti » dell’uno nei confronti dell’altri vengono compresi e fatti valere soltanto in una condizione sociale « modificata ». La questione è se sia quest’ultima che risveglia il sentimento dei diritti, o se non sia piuttosto proprio un sentimento crescente del diritto che scuote e modifica la condizione sociale del collettivismo elementare. E anche nel primo caso essa può ben « risvegliare » il nuovo sentimento con le sue pretese, ma non può certo crearlo. Il sentimento del diritto si desta nel corso dell’accadere e forse sotto lo stimolo di quest’ultimo, ma non viene dalla storia. Se definiamo i « diritti » che non poggiano su statuizione diritti di natura, allora il diritto  













































































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che qui è in questione è senz’altro tale, solo che non si fonda sulla natura hominis e non è fondato « antropologicamente », ma in natura rei. In effetti risiede molto semplicemente nella natura della cosa stessa che la prestazione obblighi. Forse si potrebbe obiettare che la prestazione del lavoratore poggia su un silenzioso accordo, dunque su un « contratto » : « Se tu mi fai X, io ti faccio Y ». Ma allora l’obbligazione al rispetto del contratto sarebbe per B appunto il « diritto di natura » di A. E basta cambiare l’esempio per il nostro assioma, per vedere che il « contratto » non è costitutivo di questo. Mettiamo il caso che A salvi B da un pericolo con gran dispendio di energie o magari a proprio rischio. Per il momento escludiamo il caso, che si trova ancora sotto punti di vista particolari, in cui egli sia mosso da un amore che liberamente si dona o da nobiltà d’animo. Invece A ha agito così perché vuole e si aspetta che altri debbano aiutare lui se si trova nella stessa situazione. Non v’è dubbio che è solo in forza della sua prestazione che egli ottiene nei confronti di B, se questi accetta il suo servizio, un diritto ad una contro-prestazione. Se poi B attua questa controprestazione non contraccambia alcun « valore » di chi aiuta, nemmeno il valore presente di un adempimento del dovere. Questo non lo riguarda affatto : egli soddisfa la naturale pretesa di diritto dell’altro, e senza contratto. I « valori morali » supremi della personalità morale nascono appunto in questa sfera, la sfera di ciò che si « esige », in quanto poggia su « diritti » e in particolare sui « diritti naturali ». L’esposizione di questi, insieme e oltre alla « dottrina dei valori », è un grande ambito di quella scienza, della cui definizione continuiamo ad essere in cerca. Ora la chiamiamo : dottrina del valore, del diritto e della dignità.  

















































3. Il diritto al salario da parte del lavoratore, alla contro-prestazione da parte di chi ha esercitato una prestazione, è già un incremento di giustificazione, di cui dovremo parlare in modo specifico. Innanzitutto dovremo considerare i diritti elementari che gli uomini hanno gli uni nei confronti degli altri. Nella sua Grundlegung Kant li ha formulati in modo classico : non nella prima formula dell’imperativo categorico, dalla quale questo « diritto » potrebbe essere ricavato solo in modo surrettizio, né dalla seconda, quella del valore del rispetto oggettivo e assoluto dell’umanità, perché questa indicava la linea della dottrina materiale del valore ; ma dalle ulteriori formulazioni, che parlano della legislazione reciproca degli uomini tra loro nel senso che per il semplice fatto che accanto alla mia volontà ce ne sono altre, e che la mia non ha alcun « privilegio » solo perché è la mia, sorge una prima pretesa che io debba limitare la mia volontà ad una « compatibilità » con altre volontà (secondo una regola che deve ancora essere individuata e che deve essere applicabile nello stesso modo per ciascuno). Ho mostrato altrove d che Kant, con questi ragionamenti così sobri e con questi contenuti apparentemente così scarni, assottiglia notevolmente il « pensiero », in sé molto più ricco, del « valore » dell’« umanità » (che deve essere rispettata in ciascuno come fine ultimo). Questi ragionamenti, in generale, cadono evidentemente fuori dall’ambito di un « valore oggettivo e assoluto », nel quale egli tenta di iscriverli : le volontà non si limitano reciprocamente perché sono di valore o perché sono volontà indirizzate a valori particolari, ma, come dice anche Kant, lo fanno realmente, e con la più rigorosa esigenza, semplicemente già per il fatto che accanto alla volontà X ci sono una volontà Y e Z ; perché già solo in quanto volontà, ognuno ha lo stesso diritto di ogni altro. Ciò è chiamato da Kant « uguaglianza della dignità della persona », che sembra una idea assai povera (meglio sarebbe : uguaglianza  







































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  I. Kant, Grundlegung der Metaphysik der Sitten, cit., p. xxi.



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del diritto della persona). Ma tanto sembra povera, quanto è significativa e produttiva. E per quanto sembri « astratta » è proprio con questa che Kant dimostra di non fare elucubrazioni, ma di sviluppare in effetti soltanto ciò che è già dato nella « comune conoscenza della ragione morale ». Egli stesso sarebbe stato sorpreso se avesse potuto conoscere dalle fonti fino a che punto, in realtà, gli dia ragione la saggezza dei tempi antichi e quella dei tempi nuovi, la saggezza non soltanto dell’occidente, ma anche quella dell’India e della Cina. Se distruggo senza uno scopo un valore vitale, per esempio un maestoso albero in rigogliosa pienezza di vita, agisco in modo « brutale » perché violo un valore. È sensibilmente diverso se agisco in modo non soltanto brutale, ma anche crudele, per esempio torturando un animale : il disvalore morale della mia azione non si produce qui perché distruggo un valore, ma semplicemente per il fatto che provoco dolore in un essere senziente, che questo abbia o non abbia altri valori ; la crudeltà infatti è il contrario dell’amore e l’amore non si rivolge a « valori ». Inoltre, un’azione contro un altro, che definisco in senso rigoroso un « torto » o un’« ingiustizia », si distingue, a sua volta, sensibilmente da una che è soltanto crudele. Può, in certe circostanze, anche essere crudele e in ogni caso di solito procura all’altro un dispiacere, ma non è in questo l’essenza del torto. Il dispiacere suscitato per il danno provocato dall’azione ingiusta può essere minimo o magari nullo, ma chi la subisce può lamentarsi del carattere dell’azione come di un’ingiustizia e può eventualmente essere più « dispiaciuto » di questo che del danno magari minimo che quell’azione gli provoca. Il torto non consiste nel fatto che dall’azione all’altro viene un danno, ma nel fatto che il « suo diritto » viene disprezzato. Ma questo disprezzo non è anch’esso un « valutare », ossia un valutare negativo ? Disprezzare ha un doppio senso, e il secondo non ha nulla a che vedere con il « valutare ». Disprezzo può voler dire disdegno. Ma il ladro che mi ruba le ciliegie non mi disdegna, ma disprezza il diritto che ho, nei confronti suoi e di altri, alle « mie » ciliegie. Disprezzare è allora « non tenere in considerazione ». Questo, in certi casi, può includere anche il « disdegno », ma di per sé non lo è.  

























































4. Il diritto originario più elementare, quale è stato espresso in formulazioni che in tutto il mondo, nelle epoche più diverse e nelle culture spirituali più disparate sono sorprendentemente uguali, e quale si trova, come è documentabile, senza formulazione specifica nel « sentimento del diritto » anche dei più primitivi tra i « primitivi », sebbene ancora non chiaramente, né con la maturità della conoscenza, è ciò che provvisoriamente indichiamo come diritto al « riguardo in generale », per esempio secondo la regola popolare : non fare ad un altro quello che non vuoi si faccia a te. Non è ancora una pretesa a positive prestazioni di uno per un altro, ma è innanzitutto soltanto l’esigenza di una limitazione del piacimento di chi persegue i propri interessi in relazione al fatto che anche altri perseguono i loro ; esigenza che, di nuovo, è già presente in formulazioni di uso comunissimo come per esempio : non sei solo al mondo, oppure : se lo facessero tutti... Questo diritto originario – che in seguito dovremo trattare in modo più approfondito – non è un principio costitutivo dal quale io possa derivare la « morale positiva » uniforme in tutto il mondo e in tutte le epoche, ma è un canone critico o catartico per azioni e modi di rapportarsi dei soggetti tra loro. Il dovuto « riguardo » è davvero un’azione lodevole, o persino un’intenzione lode 



























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vole, una virtù e dunque un valore personale. Allo stesso modo è davvero lodevole l’amore puro (che non sa niente di prestazioni « dovute » e agisce « libero dalla legge ») ed è un valore personale altrettanto elevato. Ma le due cose non hanno questo valore per il fatto che mirano ad un valore. Il loro valore non sorge « alle spalle di valori », 13 per usare l’espressione di Scheler. Nel caso dell’amore è evidente. Ma è la stessa cosa nel caso del riguardo obbligatorio nei confronti dell’altro, perché esso non si indirizza ad un valore, ma ad un diritto. Il divieto : non devi uccidere, si ottiene anche già come esigenza di un valore. La vita è « in sé di valore » e lo è doppiamente nelle sue forme superiori e supreme come, per esempio, quella della vita umana : ostacolare qualcosa che è tanto « di valore » quanto la vita umana, danneggiarlo o violentarlo è certamente malvagio. Ma la vera e propria forza del comando « non uccidere » non si ricava dal « valore » della vita del mio simile, ma si ricava semplicemente, e in modo completo, dal fatto che egli è « con »-uomo, 14 che è uomo con e accanto a me e allo stesso titolo, e che violo il diritto che ha nei miei confronti. Uccidere non è soltanto una brutalità o una crudeltà, ma è un torto.  



































5. Le esigenze di un « riguardo » a molteplici livelli nei confronti degli altri intervengono « storicamente » innanzitutto come esigenze che il « prossimo » ha nei confronti dei prossimi, ossia all’interno di gruppi e cerchie di uomini come tribù, famiglia, popolo, all’interno dei quali i membri si riconoscono come « vicini », come appartenenti alla cerchia. Tali esigenze appartengono qui al « costume » e si presentano nella forma di abitudini sociali sulla cui origine, finalità o motivazione il singolo per solito non riflette. « Non si fa » o « ci si comporta così ». Ma nessuna forza dell’abitudine spiega l’idea del tutto specifica e non derivabile da quella : « Non devi ». Di questo ho già trattato in altra sede, cui rimando (DH, p. 227). Sarà anche del tutto corretto che molti comandi relativi al riguardo elementare si trasferiscano solo gradualmente dalla « cerchia dei prossimi » a cerchie più ampie e infine all’uomo in generale, a prescindere dall’appartenenza alla propria cerchia. L’elevata dottrina della parabola evangelica del Samaritano misericordioso, per cui da un certo punto di vista persino Ebrei e Samaritani (la pointe della parabola è in questo « persino ») si trovano nel rapporto dell’esser prossimo l’uno dell’altro, non è certo conosciuta o riconosciuta fin dagli inizi. Ma è altrettanto sicuro che certe esigenze semplicissime relative al riguardo anche nei confronti del peregrinus sono state con ogni certezza riconosciute in tutto il mondo, talvolta anche tra « selvaggi ». Da nessuna parte lo straniero è semplicemente fuorilegge, e dove viene trattato come tale ci sono generalmente giudizi e condanne « conformi alla coscienza ». Il « diritto di ospitalità » non è un’eccezione : lo è il disprezzarlo ; il che accade generalmente solo in tribù represse o sistematicamente sfruttate, che sono abituate a vedere senz’altro nell’ospite il nemico. Qui l’impulso non è dato da un allargamento casuale, e quindi in realtà non spiegabile, dei diritti che gli appartenenti ad una tribù sono abituati a riconoscere, ma da una crescente conoscenza di uno stato di cose esigenziale, che si esprime in un sentimento del diritto che va approfondendosi. Tale sentimento del diritto e del torto dell’uno nei confronti dell’altro  

























































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  Cfr. M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Gesammelte Werke, ii, a cura di Maria Scheler, Bern, Francke, 1954, p. 49. 14   Otto scinde il sostantivo « Mitmensch », che significa : il « prossimo » o il « simile », facendo risuonare separatamente i componenti, appunto : « con » e « uomo ».  























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è capace, fino ad un certo punto, di uno sviluppo riflessivo : tenteremo di offrirlo in seguito.  

6. Le esigenze sociali elementari, come per esempio « non uccidere », non sorgono, questo diciamo, dai valori che l’uno rispetta nei confronti dell’altro, ma dai diritti che l’uno possiede personalmente e privatamente nei confronti dell’altro. Questo deve essere qui sottolineato con ogni decisione rispetto alla « dottrina dei valori ». Bisogna quindi riflettere se in effetti, da un punto di vista superiore, questa idea del diritto non sia invece subordinata alla o inclusa nell’idea del valore. Quel che qui viene in questione è quanto segue. La pretesa del diritto sin qui illustrata è tale che ognuno può avanzarla personalmente nei confronti di ogni altro. È la sua pretesa del tutto personale, privata. Se riflettiamo precisamente su ciò che la nostra capacità di giudizio morale realmente intende circa il rapporto degli uomini tra loro, sentiamo in quanto si è detto una mancanza. Questo è senz’altro capitato a più d’uno che abbia letto i ragionamenti di Kant, per altro così convincenti, sulla « legge » che ognuno impone ad ogni altro, e che si sia spinto alla sua profonda idea del « regno dei fini ». Con questo, Kant ha in mente un « ideale » che in modo del tutto evidente per lui ha un proprio senso di valore. Dove vengono riconosciuti i diritti privati di ognuno nei confronti di ogni altro, là si ottiene automaticamente quell’ordine universale che Kant chiama regno dei fini, e cioè, invece del caos, un cosmo ben ordinato di una comunità di esseri volenti. Ma si ottiene, per dir così, come un’appendice, come un’ovvietà analitica, su cui non c’è da dire molto. È e resta una mera tautologia dell’idea precedente delle legislazioni reciproche. A maggior ragione nei passi finali della terza sezione, dove il « regno dei fini » viene descritto con una coloritura quasi mistica, Kant mostra di intendere qualcosa di più. Questa comunità delle volontà tra loro, ordinata secondo la « uguaglianza della dignità delle persone », è qui evidentemente anche per lui qualcosa che è « in sé di valore » e di valore incomparabile, un summum bonum, che è più che la mera summa di tutti i bona. Si sente che la derivazione « di diritto privato » non rende giustizia al significato di questo « regno spirituale ». Ha in sé il suo senso e il suo valore. Al di là della mera somma dei singoli, in quanto loro unità e in quanto tutto, esso è un fine ultimo in se stesso, al quale i singoli, sebbene siano fini ultimi in sé, si subordinano. E su questo Kant ha ragione : la nostra propria intuizione lo conferma. Il comando « non uccidere » ha chiaramente un senso completamente diverso dal seguente : questo uomo, e ogni uomo, ha una pretesa personale nei tuoi confronti, quella che tu rispetti la sua volontà di vita limitando il tuo piacimento. Il primo vale in un senso superiore rispetto a quest’ultimo, che è di « diritto privato ». Si fa qui sentire ciò che definiamo « pretesa superiore », una pretesa che va al di là dei diritti dell’uno nei confronti dell’altro. A prescindere dal « torto », che il singolo subisce nell’uccisione, una simile azione ha il senso – così dobbiamo dire – di un « crimine », che intacca l’idea e la legge di valore di un cosmo spirituale in genere e viola la consistenza stessa di quest’ultimo. Forse possiamo chiarircelo in questo modo. Diciamo : se c’è in generale qualcosa nel mondo che possiede in modo lampante un valore oggettivo interno, questo è lo spirito personale, innanzitutto e in prima battuta in quanto volontà consapevole, capace di agire secondo l’idea del fine. Ora, un incremento infinito di questo valore è dato dal fatto che un tale spirito è presente non in mera singolarità o nell’isolatezza priva di rela 

































































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zione, ma come una pluralità e molteplicità di soggetti che sono l’uno accanto all’altro in una molteplicità, altrettanto infinita, di azioni e che si trovano in possibile relazione l’uno rispetto all’altro. Solo « dal calice di questo regno degli spiriti ti trabocca l’infinità », 15 dice l’allievo di Kant, Schiller, che ha compreso l’intenzione del suo maestro. Solo dal fatto che lo spirito è presente nella pluralità e molteplicità dell’uno accanto all’altro e dell’uno con l’altro, si ottiene il « valore » della « vita dello spirito » nelle sue infinite possibilità, buoni, beni e ricchezze. In quanto « regno », però, ossia in quanto unità sintetica e totalità della vita spirituale, la molteplicità delle persone sussiste solo nella « compatibilità di tutte le volontà con tutte » (cosa che non esclude e anzi implica una distinzione qualitativa e una pretesa particolare qualificata). Questa compatibilità viene richiesta già dalla mera idea del diritto di ognuno nei confronti di ogni altro. Ma si inserisce teleologicamente in un’« idea di valore superiore ». Essa riceve un senso superiore, quello di essere la legge fondamentale di un cosmo spirituale in quanto sua legge vitale. Quando uccido, non violo soltanto il diritto privato di una persona, ma ledo anche la legge di valore eterna di questo cosmo superiore. Violo anche quest’ultimo, quando violo il diritto alla vita di un uomo ; e solo così il comando riceve la piena gravità del suo contenuto. « Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te » 16 – dice il figlio della parabola evangelica, che fa ritorno a casa pentito. L’azione con cui ha trasgredito la pretesa, personale e privata, alla pietà che un padre avanza nei confronti del figlio è per lui in pari tempo un attacco « contro il cielo ». La « pretesa superiore » che in questo caso mette in ombra la pretesa dell’uomo nei confronti dell’uomo è certo essenzialmente superiore a quella di cui abbiamo parlato qui, ma l’esempio ci può mostrare come una « pretesa superiore » sussuma la mera sfera del diritto dell’uno nei confronti degli altri.  









































7. L’idea kantiana del regno dei fini può includere propriamente, secondo le sue premesse, soltanto una sintesi delle volontà, nel senso del riguardo quale limitazione del proprio piacimento. Chiamavamo questo la « compatibilità delle volontà tra loro ». È evidente, però, che la sua idea del regno dei fini è orientata a qualcosa di molto più ricco. Al di sopra della mera limitazione reciproca delle volontà nel loro esser l’una accanto all’altra emerge l’elemento autenticamente positivo dell’idea di un « regno » dei fini, in un modo duplice : quale vivente esser l’una per l’altra delle volontà, ossia quale reciproco e positivo interessarsi degli interessi dell’altro, e, oltre a ciò, quale associazione delle volontà, nell’essere l’una con l’altra, in fini comuni o collettivi. Si ottengono così tre livelli, che definiamo come segue : una accanto all’altra, una per l’altra, una con l’altra delle volontà collegate. E solo negli ultimi due vengono a compimento quegli accenni della dottrina kantiana del regno dei fini, verso cui essa stessa è già marcatamente orientata. Questa conoscenza ci guida ad una riflessione importante su ciò che definisco « teleologia di idee parziali, precedenti e preparatorie rispetto alla totalità dell’idea, che viene alla coscienza solo successivamente ». Una tale teleologia sussiste e dà allo « sviluppo » un aspetto completamente diverso da quello che gli offre l’evoluzionismo naturalistico  

















15



  Cfr. J. C. F. Schiller, Freundschaft, 1782. Otto cita liberamente i due versi di Schiller, accogliendo, tra l’altro, la sostituzione operata da Hegel nella celebre chiusa della Fenomenologia dello spirito, per cui l’espressione schilleriana « regno delle anime » (Seelenreich) diventa « regno degli spiriti » (Geisterreich). 16   Lc 15, 22.  







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o da quello che sostiene W. Wundt nella sua dottrina dell’« eterogonia dei fini » nella Völkerpsychologie [Psicologia dei popoli]. Mi sono confrontato con il pensiero di Wundt nel saggio del 1905 sulla psicologia dei popoli nella « Zeitschrift für Theologie und Kirche » (ripreso in ANB, parte seconda : SU, p[p]. 213[-251]). 17 Rispetto allo sviluppo delle idee religiose ho sostenuto, in modo ancora più preciso, nel 1915 nel mio scritto su Das Heilige :  











È come se un grosso pesce cominciasse a rendersi visibile da sé sulla superficie dell’acqua innanzitutto solo per parti. La comprensione essenziale di questi fenomeni può essere ottenuta soltanto in modo tale che li si riconosca come parti di un tutto, che (il tutto) deve prima esser compreso, perché se ne possano comprendere le parti. 18

Mi sembra che nella « filosofia della totalità », che oggi prende piede in modo vigoroso, sia presente lo stesso pensiero, applicato in prima battuta alla biologia e alla psicologia. Ma vale altrettanto per l’« ideologia ». Ciò che precede riceve il suo senso pieno o superiore in ciò che si presenta e viene alla coscienza successivamente, il singolo solo in connessione con altro, e ciò che innanzitutto si presenta per sé si svela successivamente come parte organica di un tutto superiore, nel quale soltanto è comprensibile in modo corretto. Così quel che compare in modo provvisorio e isolato può esser già accompagnato dal pre-sentimento (Vorgefühl) di un ideale più ampio, sebbene non ancora rappresentato distintamente. Lo stesso vale per le esigenze di coscienza dell’elementare riguardo umano, che compaiono presto e in modo universale. Possono attivarsi e venire al riconoscimento in modo conforme alla coscienza, senza che si debba pensare ad un ideale superiore. Hanno un senso anche già in se stesse. Ma ottengono il loro senso superiore e più pieno soltanto come parti organiche in un’idea superiore, quella della comunità quale vivente essere l’una per e con l’altra delle volontà possibili. Il mero e regolato essere una accanto all’altra diviene ora evidentemente base necessaria di una costruzione morale superiore, e solo così ottiene il suo senso pieno. Tuttavia il suo primo senso non va semplicemente perduto in quello superiore. Chi infatti disprezza l’esigenza elementare della « compatibilità delle volontà », non agisce in prima linea contro l’idea della « comunità », ma contro il diritto totalmente personale dell’altro stesso ; e agisce già solo per questo in modo malvagio. Mediante la « pretesa superiore », esigenze che valgono già per la pretesa inferiore del diritto, ma che qui sarebbero sottoposte ad un occasionale superamento, possiedono un’obbligatorietà che non può esser data dalla semplice idea del diritto reciproco. Questo vale, p.e., dell’obbligatorietà della veridicità nelle affermazioni. Secondo il « diritto originario » si ricava che si ha una pretesa alla verità delle affermazioni dell’altro. Ma questa pretesa « privata » non è sufficiente a fondare adeguatamente il comando « non mentire », che intende qualcosa di molto più profondo. Per una coscienza più raffinata esso, con il suo senso e con la sua obbligatorietà, va molto al di là di questa fondazione meramente « giuridica ». Lo si può chiarire così : dove si tratta soltanto dei diritti dell’uno nei confronti dell’altro, là interviene anche inevitabilmente il momento dell’autoprivazione dei diritti, quando una parte non è disposta a rispettare i diritti  







































17   I riferimenti alla prima edizione del saggio su Wundt sono evidentemente inesatti : cfr. supra, p. 339 ; così come inesatto è il riferimento al 1915 per DH, che è invece del 1917. 18   Cfr. DH, cap. xviii, p. 279. Da notare che la citazione non è letterale.  



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dell’altra parte. Quando io stesso disprezzo i diritti dell’altro, non merito che l’altro rispetti i miei, nella misura in cui io disprezzo i suoi. Un ladro, p.e., perde indiscutibilmente il suo diritto alla verità delle affermazioni di colui il cui diritto ha intenzione di danneggiare. Il nemico in guerra, che disprezza il mio diritto, perde il suo diritto al fatto che io rispetti il suo. Se ne potrebbe derivare un’autorizzazione, per certi casi estremi, alla « menzogna necessaria ». Tuttavia proprio qui sorgono per la coscienza morale più raffinata i conflitti più gravi. Non ci si accontenterà della riflessione precedente e, di fronte al ladro, ci si tradirà arrossendo per la vergogna o tentennando. Sarebbe del tutto insensato sostenere che anche il ladro ha un diritto personale alla verità delle affermazioni. E, tuttavia, per chi è sensibile anche mentire al ladro resterà una spina nella coscienza. La menzogna non lede soltanto i diritti del « prossimo », ma anche un ordine di valore « superiore » in generale. Il caso si complica se l’affermazione vera non danneggia soltanto me stesso, ma magari anche altre persone o valori. In questi casi può essere sentito quasi come un dovere dire una falsità. Abbiamo il caso, senza dubbio possibile, della « concorrenza di doveri », che nessuna etica può mitigare e alla cui gravità nessuna casistica può sottrarre la singola coscienza morale. Il carattere terribile della guerra è molto meno nei « danni materiali » o nelle perdite di vita e salute, che non nel fatto che rende inevitabile il conflitto dei doveri.  



















8. I doveri sorgono non soltanto – dicevamo – come pretese del valore, ma anche come pretese del diritto. A rischio di diventare troppo sottili, dobbiamo fare un altro passo avanti e dire : ci sono doveri, e proprio quelli di particolare gravità, che non derivano né dal valore, né dal diritto. Per la pretesa che è al fondo di essi non abbiamo altro nome se non quello di « pretesa ideale » o di « diritto superiore ». Questo sussiste, p.e., rispetto alla gratitudine. Quando A paga a B ciò che gli deve, non merita gratitudine né una contro-prestazione ; tantomeno se fa a B qualcosa che comunque è un dovere nei suoi confronti. Certo A ha una pretesa maggiore al fatto che B adempia ai suoi eventuali doveri nei confronti di A, se A stesso è stato puntuale e coscienzioso nell’adempimento dei suoi doveri. Questa sarebbe semplicemente una pretesa del diritto « intensificata ». Le cose stanno in modo del tutto diverso con l’autentico rapporto di gratitudine. Un amore benefico e che si sacrifica suscita in chi lo riceve, se questi è sensibile, il sentimento nobile della gratitudine, il quale si esprime – per impiegare un’espressione kantiana – in una gratitudine « pratica », ossia in un volonteroso operare in favore del benefattore, in particolare nel caso in cui questi venga a trovarsi nella condizione di aver bisogno di aiuto. La gratitudine come sentimento non la si può « esigere », poiché avere un sentimento è indipendente dalla nostra volontà. Si può esigere, però, la « gratitudine pratica » di un agire che aiuta a sua volta, e anche chi è povero di sentimenti e non sa rispondere con il calore del cuore, può rispondere con opere di gratitudine. Costui non soltanto può, ma deve (e questo dovere talvolta può riconoscerlo, e metterlo in pratica, in modo più sicuro l’« insensibile » che non il sentimentale, che è certo capace di sentimenti intensi e caldi, ma debole di volontà o fiacco al dovere). In questa situazione le opere di gratitudine sono un’esigenza rigorosamente oggettiva. Ma non può esigerle personalmente il benefattore stesso, se ha agito per amore. L’amore, infatti, dona, non fa conto sul risarcimento, né può farlo. Se l’amante facesse conto sulla contro 































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prestazione, distruggerebbe il suo precedente atto d’amore. Egli può senz’altro esser profondamente ferito e addolorato dal fatto che non ha trovato il contraccambio di un amore grato. Ma non può esigerlo e non può dire all’altro : che mascalzone ! Il mascalzone, però, quando in seguito si rende conto della sua mancanza, può struggersi, e lo farà, in un grave tormento di coscienza – tanto più se è troppo tardi, nella consapevolezza di aver trascurato un dovere eccezionalmente grave (già qui siamo quasi costretti a dire sacro). e Quanto più l’amore era non adulterato, quanto meno pensava alla prestazione di gratitudine, quanto più si donava in modo intimamente puro, quanto meno può avanzare « pretese », tanto più gli « spetta » una gratitudine attiva. Questo però è uno stato di cose di corrispondenza, ideale e oggettivo, che non si fonda su alcuna pretesa di diritto dell’amante e che anzi da questa verrebbe immediatamente annientato. A buon diritto diciamo : una buona azione si guadagna gratitudine. Ma non diremmo con lo stesso diritto : il benefattore guadagna gratitudine. Sono un « benefattore » se « guadagno » qualcosa ?  

























9. Questa conoscenza ci rende possibile la discussione del secondo dovere fondamentale e originario nei rapporti umani, che è indubbiamente tale, ossia il dovere di aiuto in caso di bisogno. Indubbiamente un tale dovere c’è e riguarda in modo del tutto personale il bisognoso. Ma non possiamo dire senz’altro e assolutamente che questo dovere scaturisca semplicemente e totalmente da una pretesa di diritto privato del bisognoso. Se lo si volesse interpretare in questo modo, si distruggerebbe l’intimità del dovere d’aiuto. a) Che io non uccida il mio prossimo, che lo lasci « in pace » nel perseguimento dei suoi interessi (eccettuato il caso, ancora da discutere, in cui me ne dia « autorizzazione »), che in generale abbia riguardo nei suoi confronti nel senso di quel primo diritto originario, tutto questo è, da parte sua, un « diritto » robusto e personale, sul quale può insistere e, in certi casi, diventare sgarbato. Chi ha bisogno di aiuto, però, non insiste sul suo « diritto » nei miei confronti – se volesse farlo, io avrei diritto a respingerlo in modo insolente, finché non diventa più modesto – ma chiede il mio aiuto. Tuttavia, in certi casi, sono quanto mai « dimentico del dovere » se non lo aiuto. Il sacerdote e il levita, che passavano accanto all’uomo aggredito dai ladri, non sono stati soltanto « persone insensibili », ma sono stati, in senso rigoroso, dimentichi del dovere : non hanno considerato un « dovere umano elementare relativo a chi ha bisogno d’aiuto ». Un uomo in stato di necessità attira la compassione, un sentimento di umanità, la misericordia, un senso di generosità o comunque si vogliano chiamare queste forme che precedono o accompagnano l’amore ; e in nature più profonde attira l’amore stesso per l’uomo, caldo e di cuore : tutti costoro fanno ciò che fanno non in vista di un « tu devi », perché l’amore è « libero dalla legge » e ad esso non è data alcuna legge, per il fatto stesso che non può essergliene data sensatamente alcuna. Ma del tutto a prescindere da ogni mio amore e inclinazione, rispetto al bisognoso sussiste un comando chiaro e rigoroso, che per parte sua non chiede se amo o mi piace, ma comanda : qui tu devi aiutare. Dove è presente anche l’amore, non si avverte altro. Ma dove l’amore è fiacco,  











































e   Anche per lo studioso di etica, che in quanto tale non ha alcun diritto all’espressione « sacro », questo predicato si impone, soprattutto nei doveri di pietà che sono essenzialmente doveri di gratitudine. E Nietzsche dimostra anche qui che la sua « transvalutazione di tutti i valori » è una finta manovra, in quanto egli vede in questo antichissimo valore umano della gratitudine la nobiltà più raffinata anche del suo superuomo : una conoscenza per la quale non c’è bisogno di alcun superuomo, né di una nuova tavola dei valori.  









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dove i sentimenti vengono meno, là la voce del comando risuona sempre di nuovo costante ; e proprio nel tacere dei sentimenti e delle inclinazioni risuona più chiaramente, percepibile in modo forse più fastidioso, ma non meno pressante. Sotto il profilo del contenuto il comando dell’aiuto si distingue di molto anche da quello che deriva dal primo diritto originario. Quest’ultimo potrebbe offrire soltanto limitazioni della mia volontà ; quello però assegna alla volontà prestazioni positive. Il fenomeno esterno di un adempimento del dovere quale omissione conforme al dovere può talvolta apparire come una prestazione positiva, e in certi casi una prestazione può apparire come una mera omissione : il passaggio da un ambito all’altro è continuo e la distinzione relativa a quale ambito sia appartenuto un certo adempimento del dovere è spesso non chiara. Ma ciò non cambia nulla quanto alla distinzione concettuale tra prestazione e mera omissione. Una secante trapassa per rotazione continua in una tangente ; e per la nostra facoltà visiva è spesso indecidibile se sia già presente una tangente o ancora una secante, i cui due punti di intersezione sono soltanto arrivati troppo vicini per i nostri occhi : tuttavia, dal punto di vista concettuale una tangente è diversa da una secante. Salvare un altro, per quanto poco sforzo mi costi, è in ogni caso qualcosa di diverso dalla mera limitazione del mio piacimento : è una prestazione positiva, per quanto forse minimale. Qui ci sono sicuramente anche – e con ciò limitiamo significativamente le nostre precedenti affermazioni – prestazioni minimali di aiuto, positive al minimo grado, che, in certe condizioni, un bisognoso può persino pretendere come un suo « diritto » e che in sé non si « guadagnano » alcuna gratitudine. Questi diritti del bisognoso si hanno quando, da un lato, il bisogno riguarda l’esistenza, e quando, d’altro lato, la prestazione è tale da non esser legata al « sacrificio » dell’altra parte. Chi sta per annegare non può pretendere dall’altro, in forma di un suo « diritto umano », che questi metta a rischio la sua propria vita per lui ; ma può indiscutibilmente pretendere che l’altro gli lanci un salvagente che gli si trova accanto e che può raggiungere senza sforzo ; o che questi compia un’azione per lui che non significa un sacrificio per sé. Quando una tale azione di salvataggio dell’altro, che non implica sacrificio, viene omessa, chi omette agisce in maniera sommamente contraria al dovere, nel senso di una prestazione di dovere che può l’altro può esigere personalmente. Nel caso singolo può esser difficile determinare quando un’azione diventa per me un « incomodo » e quando un « sacrificio », ma qui le idee direttrici come tali sono completamente chiare e la coscienza le riconosce. b) Diciamo però di più : il dovere di aiuto non si limita a ciò che il bisognoso può esigere. In una prestazione di dono l’amore, la generosità andranno da sé molto oltre ciò che può esigere un comando d’aiuto diretto ; ma anche lo stesso dovere va oltre la mera prestazione che non implica sforzo, né sacrificio. Può senz’altro essere un dovere anche « non badare a spese », ossia offrire un sacrificio, magari pesante, in denaro, tempo, incomodo per chi è in stato di bisogno. Anche qui si possono trovare se non criteri aritmetici, quanto meno idee regolative, come avremo modo di considerare. Queste prestazioni che non sono semplicemente prive di sforzo e sacrificio, e che non riguardano immediatamente l’interesse all’esistenza dell’altro, il bisognoso in effetti non può esigerle come qualcosa che gli è personalmente dovuto, come nel caso precedente, ma può chiederle. Personalmente i sacrifici gli sono donati, non dovuti. Tuttavia possono essere giudicati e approvati dalla coscienza – fino ad un certo livello e in certi casi – come dovuti ; dovuti, cioè, rispetto ad una pretesa più alta, e dunque giudicati come rigoro 

















































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samente conformi al dovere. L’amore offre liberamente sacrifici, ma ci sono anche doveri di sacrificio, quando questo, per grandezza e gravità, non può essere misurato, né deve esserlo, sul sacrificio che l’amore offrirebbe nello stesso caso. Il comando di tale sacrificio non sorge né dal dovere, né dal diritto personale di chi si trova nel bisogno : è una pretesa « ideale ».  





10. La pretesa ideale di gratitudine, come quella di sacrificio, ha anch’essa la sua relazione teleologica a quell’idea del valore di una comunità spirituale superiore, che sopra abbiamo sviluppato rispetto al dovere del riguardo. Sarebbe però sbagliato voler derivare quella da questa idea di valore in generale. La gratitudine non deve esserci affinché sussista « il regno dei fini », o il mondo unitario di volontà, persone, spiriti in connessione tra loro : la gratitudine dovrebbe esserci innanzitutto semplicemente di per sé. Ma non perché è un valore. « Dove si è avuta l’esperienza dell’amore, là dovrebbe esserci gratitudine » : questo non è derivato da premesse, ma « è così » e viene intuito in modo assiomatico da chiunque abbia compreso la « dimostrazione d’amore » e la « gratitudine » ; così come chiunque abbia compreso intuitivamente cosa sono una « retta » e « due punti », intuirà in modo assiomatico che la retta è la distanza più breve tra due punti. È esattamente lo stesso per la « pretesa ideale » di un sacrificio conforme al dovere.  





































11. Quanto debba essere grande tale sacrificio nel singolo caso lo decide il singolo nel singolo caso secondo la sua misura. Ma, appunto, secondo la sua misura e non alla cieca o arbitrariamente. Egli misura ciò che si conviene ; e misurare significa rapportare ad un’unità di misura. Se questa sia determinabile concettualmente o possa essere colta soltanto col sentimento, sarà una domanda successiva. Egli si decide « meglio che può » o « con la massima consapevolezza e con la migliore coscienza » : questa e tutte le espressioni simili escludono però decisioni a caso e implicano una misurazione autonoma. Ma anche quest’ultima è sempre ricerca di una misura oggettiva, che come tale è indipendente dal mio « decidere », anche se il fissarla resta qualcosa di incerto ed impreciso. Senza questo momento, il discorso di « decidere nella situazione » è un discorso vuoto.  



















12. La pretesa che in 6. abbiamo definito « superiore » risaliva ad un superiore valore. Ciò che abbiamo chiamato pretesa « ideale » (in 9.) non è qualcosa di « privato », ma è un « diritto superiore ». In entrambi i casi restiamo nell’ambito del valore e del diritto. Alle spalle, però, di valore e diritto si ottiene il « valore » del valore e della volontà che riconosce un diritto. È più di un valore : è dignità. Con diritto, valore e dignità abbiamo le prime tra le categorie che cerchiamo. La nostra ricerca in proposito deve essere ancora ultimata con due considerazioni integrative.  





















5) Esigenza e fondamento dell’esigenza – Comando e legge a) L’imperativo categorico e la sua possibilità 1. Che qualcosa abbia un valore significa – così è stato sostenuto da Scheler – che debba essere o esser fatto. Vale a dire che l’aver valore di per sé non sarebbe altro che l’esser oggetto di esigenza. Noi affermiamo al contrario che l’aver valore non è affatto questo

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– qualcosa può aver valore e può non esser in generale esigibile, può anzi esser completamente al di fuori di tutto l’esigibile – ma è il fondamento della validità dell’esigenza. Le cose stanno allo stesso modo con il « diritto ». Con il fatto che i soggetti volenti sono l’uno accanto all’altro e in relazione l’uno all’altro si ha non soltanto il fatto psicologico che uno pone effettivamente all’altro pretese di riguardo, ma si ha un momento del tutto specifico, evidente per la coscienza, ossia lo stato di cose per cui nessuno, solo in quanto volente, ha nei confronti dell’altro volente un privilegio nel perseguimento del suo piacimento. Ognuno ha un « diritto » al riguardo nei confronti di ognuno. E questo diritto è il fondamento per il « dovere » dell’altro nei suoi confronti. Definiamo queste esigenze, seguendo Kant, imperativi categorici.  











2. Con ciò abbiamo anche la prima risposta alla domanda kantiana circa la « possibilità di un imperativo categorico ». Questa domanda significa per lui diverse cose, come ho mostrato altrove : f ma in prima battuta indica la questione della validità dell’imperativo. La validità degli imperativi meramente ipotetici per lui non è un problema : sono soltanto « regole dell’abilità » e appare di per sé evidente che quando voglio un fine, devo volere i mezzi adeguati ad esso. Questi valgono « condizionatamente », perché sottostanno alle condizioni di un « se » e di un « perché ». Solo se il malato vuole tornare sano, vale per lui l’imperativo « prendi questa medicina », perché essa ha la capacità di guarirlo. L’imperativo categorico, però, comanda « incondizionatamente », ossia senza questi « se » e « perché ». « Neminem laede » non vale per me se miro a qualcosa, ma devo appunto mirare a questo ; e non perché è un mezzo per un altro fine, ma immediatamente. Questo « perché », dunque, è escluso per l’imperativo categorico, ma Kant lo cerca da un altro punto di vista, interrogandosi sulla possibilità dell’imperativo categorico nel senso della sua stessa fondazione. È proprio perché l’altro « se » e l’altro « perché » qui mancano completamente che questa domanda diviene per lui tanto pressante. Come è possibile che un imperativo obblighi una volontà, laddove ogni « se » e « perché » in quel senso vengono meno ? Dove risiede il fondamento della sua obbligatorietà, ossia della sua validità ? Questa diviene per lui la domanda più importante della sua critica della ragione pratica. Kant trova una risposta angosciante. Alla fine della sua Grundlegung dichiara che questo enigma è troppo grande per il nostro intelletto, che questa domanda deve rimanere senza risposta e che è sufficiente che, pur non intuendo la possibilità dell’imperativo, intuiamo però il fondamento dell’impossibilità di intuire quella possibilità. Rispetto all’imperativo categorico, quale Kant lo formula in prima battuta, bisognerebbe dargli ragione : che dobbiamo agire in modo tale da poter volere che la massima del nostro agire divenga una legge universale della natura, è in effetti privo di ogni evidenza ed è impossibile intuire la validità di un simile imperativo. Ma in quello che ho definito « punto di rottura » Kant aveva dato una risposta totalmente diversa, che è del tutto chiara e immediatamente evidente ; e che è senz’altro in grado di risolvere il problema della validità dell’imperativo categorico :  















































































Posto però che vi sia qualcosa, la cui esistenza in se stessa ha un valore assoluto, che come fine in sé potrebbe essere fondamento di determinate leggi, allora in ciò e soltanto in ciò risiederebbe il fondamento di un possibile imperativo categorico. 19 f

  I. Kant, Grundlegung, p. 154.

19

  I. Kant, Grundlegung, BA 64.

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Questa è, in una formulazione classica, una nuova fondazione, del tutto intuitiva, della validità e della possibilità degli imperativi categorici. I quali non sono oscuri enigmi, non li seguiamo ciecamente. Al contrario, ciò che ha un valore oggettivo ha come tale in sé un momento di inviolabilità, la quale pronuncia il suo « non mi toccare » come un imperativo e obbliga la volontà di chi è capace di comprendere quel valore. È esattamente lo stesso per il rapporto tra dovere e diritto.  



3. Con ciò ci dichiariamo per l’« intellettualismo » nella morale e per la « ragione » pratica di Kant. Non come se la ragione ponesse o inventasse gli imperativi stessi : essa li trova. E non come se un mero intuire potesse determinare di per sé e in modo meccanico la volontà, ma nel senso che l’atto fondamentale nel decidersi morale è un atto intelligente : vedo che devo e perché devo.  











4. Possiamo chiamare questo primo senso della domanda circa la validità dell’imperativo, senso logico. Oltre a questo essa ne ha uno ontologico. Nel suddetto scritto Kant ha anche questo secondo senso in mente. Un imperativo è ontologicamente non « possibile » per una pietra, che infatti non ha volontà. Un imperativo morale non è possibile per un essere non razionale, che non lo comprende. Ma non sarebbe possibile nemmeno per un essere che fosse mosso soltanto da interessi di piacere o fosse irrimediabilmente avviluppato in questi. È possibile soltanto nei confronti di un essere che è capace di una decisione « libera ». Il dovere morale appartiene alla « libertà ». Ciò che questa include in sé dovrà ancora essere ricercato. Ma già qui va detto che in un certo senso al « tu devi » appartiene il concetto di libertà. Questa conoscenza è importante. È il primo impulso ad ulteriori domande : se e fino a che punto già la semplice convinzione morale includa in sé, in modo più o meno chiaro, peculiari convinzioni ontologico-metafisiche (forse religioso-metafisiche).  

















5. Il dovere come divieto e comando – a) La forma prima e più elementare in cui le esigenze si presentano è quella delle summenzionate esigenze di una limitazione del mio libero piacimento nei confronti di un valore o di un diritto che è presente e compare nel mio ambito di influenza. Quel che qui si esige è una omissione, quella di una lesione o violazione del portatore di valore, o di un’offesa al suo diritto. Si può definire questo l’imperativo della « salvaguardia ». Chi salvaguarda si pone qui « per fine » il valore solo nella misura in cui, mediante autolimitazione del suo piacimento, ne « rispetta » e afferma l’esistenza. Chiamiamo tali imperativi proibitivi. Essi rivestono un ruolo grande e preponderante in tutte le legislazioni elementari : il che ha un fondamento comprensibile. Si confronti la « seconda tavola » dei nostri « dieci comandamenti ». Come formula generale di tali proibitivi si può utilizzare la terza formulazione dell’imperativo categorico di Kant, se si opera una modifica che in realtà gli sarebbe stata necessaria secondo le sue premesse : « Agisci in modo tale da poter rispettare un valore oggettivo mai soltanto come mezzo, ma sempre anche come fine ». g Un esempio di osservanza di questa regola è il nostro poeta col suo fiorellino. Egli lo coglie per rallegrarsene. Lo tratta come mezzo per un suo fine. Ma non soltanto come mezzo, perché egli lo « salvaguarda » e lo pianta di nuovo. Lo « rispetta » e lo riconosce anche come valore in sé.  































g

  Grundlegung, p. 120 nota 1.





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Questa regola dovrà però essere essenzialmente limitata dall’idea, che può essere ulteriormente sviluppata, della possibilità e dell’esigenza di un « sacrificio del valore ». In certe circostanze un valore deve essere sacrificato in favore di un valore superiore ; deve cioè essere impiegato come mezzo. Ma la tendenza di quella regola fondamentale si mantiene anche qui : nel « solo in vista di un valore superiore » resta conservato il « rispetto » anche nei confronti del valore inferiore. Al di sopra del proibitivo della salvaguardia si elevano gli imperativi che esigono qualcosa di positivo. Essi sono doppi : possono essere imperativi del servizio e imperativi dell’effettuazione. Li si può chiamare entrambi imperativi di una prestazione positiva. Un bell’oggetto di natura, un significativo monumento della storia, una vita, un costumato ordinamento della società, nella misura in cui già ci sono in quanto « oggetti di valore », richiedono oltre alla nostra salvaguardia anche la nostra cura. Una spiritualizzazione della nostra propria vita, la produzione di cultura, della pace tra le classi e i popoli, in quanto queste cose devono sorgere o essere accresciute, esigono lo sforzo della nostra volontà per l’effettuazione. Qui come là si tratta non della mera limitazione del nostro piacimento in generale, ma di una positiva posizione di un fine per il tendere e l’agire. E la seconda non può essere ricondotta alla prima. Cosa dobbiamo omettere ? e : cosa dobbiamo fare ? sono due domande indipendenti.  



























6. Chiamiamo dovere l’omissione o la prestazione che di volta in volta si esigono. In questo senso vi sono innumerevoli « doveri » e classi di doveri. D’altra parte utilizziamo il termine anche in modo predicativo : p.e. mantenere una promessa è dovere. Quindi il termine significa soltanto l’esser oggetto di esigenza. In quest’ultimo senso non vi sono classi, ma gradi di doveri. Qualcosa può « esser dovere » o lo si può esigere in modo più o meno rigoroso. Possiamo esprimere questo anche distinguendo « imperativi » e « coortativi » ; il che è utile nel senso di un « rigorismo » etico, perché necessariamente il carattere del dovere più rigoroso ne risente, se si estende uniformemente il rigore del dovere all’intero ambito di ciò che in generale è oggetto possibile di un’esigenza.  























7. Nelson distingue l’imperativo del dovere dall’ottativo dell’« ideale », cioè dell’ideale dell’autoformazione sotto il momento di valore di una « bellezza » spirituale. Il dovere varrebbe soltanto nell’ambito della relazione agli altri ; rispetto a se stesso non vi sarebbe per il soggetto alcun imperativo, ma soltanto ottativi. 20 Questa distinzione è insostenibile. Nell’ambito della cultura del sé spirituale vi sono compiti che non sono in nulla inferiori, quanto a rigore, alle esigenze più rigorose dell’altro nei miei confronti. D’altra parte vi sono obblighi leggeri e leggerissimi nei confronti degli altri, la cui omissione non definiremmo mai « malvagia ». La trascuratezza di sé è assai più « malvagia » che la rottura di una promessa al cui mantenimento l’altro abbia scarso interesse. Vi è piuttosto in entrambi gli ambiti una gradazione del rigore dei doveri, vi è il passaggio dall’imperativo al semplice coortativo. Nella sfera della « pretesa di diritto » dovremo ancora riflettere specificamente su questo. Nella sfera della pretesa di valore si ricava da sé da quanto già visto. Qui l’esigenza e il dovere sorgono dal valore. Questo però può essere superiore, inferiore o minimo e prossimo a sparire. A ciò corrisponde immediatamente anche il grado del rigore della pretesa. Anche un filo d’erba, in quanto vivente, avanza  





















20   L. Nelson, System der philosophischen Ethik und Pädagogik, Göttingen/Hamburg 19492, pp. 40 e ss., pp. 194 e ss. [S. Boozer].

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la pretesa di essere rispettato, ma non definiremo più questa pretesa imperativo : al massimo un ultimo coortativo, che risuona sommessamente. Contraddiremmo il nostro stesso sentimento morale se ne parlassimo come di un « dovere », mentre possiamo senz’altro parlare del dovere della pietà, che incombe ad un’amministrazione comunale relativamente alla custodia dei suoi significativi monumenti storici ; e certtamente possiamo parlare del dovere di ognuno nei confronti di se stesso di superare in sé brutalità, ottusità, schiavitù degli impulsi e degli istinti.  







b) Comando e legge 1. 1. I comandi (Gebote) si chiamano anche « leggi pratiche ». Così parliamo della « legge mosaica ». Ma curiosamente non diciamo : « le dieci leggi », ma « i dieci comandamenti (Gebote) ». Forse è più che una semplice casualità storica. Già il semplice senso della lingua resiste a parlare qui di « leggi ». In effetti una legge non è un comando e un comando non è una legge. La famosa legge della polizia : « Questa via non è una via. Chi lo fa paga una multa di un tallero » 21 non comanda e non proibisce nulla : connette necessariamente ad una certa azione una conseguenza, ossia una multa. Da questo si ricava un imperativo nel senso di Kant, e in particolare un imperativo « ipotetico » : « Se non vuoi perdere un tallero, allora evita questa via ». Questo si ricava da quella « legge », ma non è quella legge stessa. Là dove preferibilmente applichiamo il concetto di legge, ossia nella scienza della natura, questo senso di legge è il più chiaro. Agli oggetti di natura non può essere comandato nulla per il fatto stesso che non sono in grado di ricevere e di comprendere un comando. La legge di natura : tutti i pianeti si muovono su orbite ellittiche, non proibisce nulla ai pianeti, ma formula il loro comportamento come necessario. Le leggi esprimono o la necessità del tipo della successione tra due accadimenti, che poi possono essere indicati come causa ed effetto ; per esempio : quando i corpi vengono riscaldati si estendono. Oppure indicano la necessità della connessione di un predicato sintetico con un soggetto, per esempio : tutti i corpi sono pesanti ; o le leggi del cerchio, come : gli angoli al centro sono il doppio dei rispettivi angoli alla circonferenza. In quest’ultimo senso ci sono, in effetti, anche « leggi » nella sfera pratica, per esempio : la vita ha un valore oggettivo ; oppure : la scienza ha un valore oggettivo ; l’umanità ha un valore superiore rispetto alla mera animalità ; ogni volontà ha diritti nei confronti di ogni altra ; la volontà che obbedisce al dovere ha dignità. Neanche queste leggi sono comandi, ma questi derivano da quelle. Si dovrebbe quindi propriamente parlare di « dazione di comandi » invece che di dazione di legge. 22 E bisognerebbe aggiungere : questi comandi non vengono dati, ma si ricavano. Si ricavano da una legge pratica.  













































































1. 2. La legge naturale di causalità contiene una determinazione : determina un accadimento Y come conseguenza necessaria di un accadimento X. Allo stesso modo, nella  

21   Il divieto menzionato da Otto circolava come motto di spirito per la patente autocontraddizione contenuta nell’affermazione « Questa via non è una via ». Ovviamente qui il termine « Weg » è inteso in due sensi diversi nelle due occorrenze, per cui la traduzione più corretta, che però elimina il Witz, sarebbe : « Per questa via non si passa ». 22   Otto ricava il termine (inesistente in tedesco) Gebotsgebung facendo il calco di Gesetzgebung, letteralmente « dazione di legge », che nell’uso corrente significa « legislazione ». Nel seguito tradurremo Gesetzgebung (e Gesetzgeber) come « dazione di leggi » (e datore di leggi) o « legislazione » (e legislatore) secondo che sia più opportuno far risuonare il significato corrente o i due elementi del termine composto.  





























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logica il fondamento determina la conseguenza logica ; o, nella matematica, l’essenza conforme alla definizione di una realtà matematica determina, in quanto fondamento, i teoremi che se ne ricavano. La legge di valore determina in questo modo l’imperativo. Ma l’imperativo non determina la volontà. Non nel senso logico, perché l’imperativo non è una « proposizione » da cui segua logicamente qualcosa, ma è una realtà totalmente diversa dalle proposizioni, ossia è un appello alla volontà. Ancor meno la decisione di volontà è una « proposizione » o una « conseguenza ». Altrettanto poco il comando determina la volontà in senso causale. Ne parleremo meglio in seguito, ma già qui va detto : chi in generale è capace soltanto dell’intuizione della specificità del « dovere » (Sollen), lo riconosce chiaramente differente da ogni « esser necessario » (Müssen). Questa differenza è essenziale ed è evidente, e la sua apprensione è possibile già prima di ogni riflessione sulla « libertà » o « non libertà della volontà ». Dove è data una causa, là è necessario sia dato l’effectus ; dove è dato il fondamento logico, là è necessario si ricavi la conseguenza ; dove una linea infinita è in rapporto ad un punto in modo tale che tutti i punti di questa abbiano la stessa distanza da quel punto, là è necessario che si ricavino tutte le proposizioni della teoria del cerchio. Tutto è qui « atteso », ma non lo si « esige ». Un « dovere » è qui completamente privo di senso, perché qui vale un « esser necessario ». Per essenza un « dovere » è qualcosa di assolutamente diverso da un « esser necessario ». Ora, però, l’« esser necessario » non è altro che un « esser determinato ». Il dovere è dunque essenzialmente diverso dall’esser determinato ed esclude da sé ogni determinazione. È quindi equivoco Kant quando definisce il dovere come « necessità pratica ». Necessario (notwendig) è la traduzione di necessarium e significa che, se sono date le premesse, allora accadrà, o si ricava, o ha luogo X, esclusivamente questo X e nient’altro : in questo senso c’è una concordanza formale con « necessario ». Ma l’imperativo « devi fare X » non è l’informazione che questo X accadrà, o che ha luogo o che è « necessario », ma tutto al contrario : presuppone come « problematico » l’aver luogo di X, altrimenti non sarebbe un dovere. Nell’uso linguistico kantiano : l’affermazione « la pietra che non è sorretta cadrà » è un giudizio apodittico che contiene in sé il momento della necessità ; in un imperativo, però, il giudizio resta « problematico » rispetto all’accadimento di X e si lascia esprimere solo in forma di domanda : accadrà X ? Presuppone la possibilità dell’accadimento, e dell’accadimento di X ad opera mia, ma esclude necessariamente da sé ogni necessità. La summenzionata concordanza formale di quel che si « esige » con quel che è « necessario » non basta per definire anche il primo come necessario in senso traslato. Abbiamo qui di nuovo il caso di due cose che hanno alcuni tratti generali uguali e però possono appartenere, dal punto di vista della classificazione, a rubriche d’essenza totalmente diverse. Questa ricerca dell’esclusivo fenomeno del « dovere » e il fatto che nella coscienza percepiamo effettivamente e senza alcun dubbio un dovere per noi valido – e non la ricerca psicologica sull’esser determinata o indeterminata della volontà – deve costituire il punto di partenza per tutto ciò che in seguito potrà esser detto su libertà, responsabilità, sentimento della colpa.  























































































































2. Dicevamo che da leggi del valore si ricavano imperativi categorici. Forse, invece, si potrebbe argomentare così : « Dal valore della vita si ricava l’imperativo neminem laede,  



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nel senso che il laedere sarebbe malvagio. Se non vuoi che il tuo agire sia malvagio, allora è necessario che tu ometta il laedere. Solo che “non agire in modo malvagio” è un imperativo categorico, neminem laede è un imperativo ipotetico ». Una simile obiezione è però già refutata. Il laedere è vietato in modo immediato e categorico. È questo divieto di trasgredire che rende il mio agire malvagio. Se un divieto valido era già presente ed è stato disprezzato, ne è scaturita la malvagità della mia azione. E ciò che si esige da me, in modo immediato e per se stesso, dunque in modo categorico, è senz’altro la non violazione della vita stessa, non il mio agire in modo non malvagio.  

3. I comandi etici non vengono « dati », ma si « ricavano », come per esempio le leggi di valore ; si ricavano, cioè, da una connessione necessaria di un « valore oggettivo » con un X. Ma questo « esser dati » significa semplicemente : « è presente » e non ha nulla a che fare con il « dare » che intendiamo quando parliamo di « dazione » o di « datore di leggi ». Potrebbero forse esser « dati » anche in quest’ultimo senso ? Un governo dispotico può « dare » leggi, legando certi modi di azione a conseguenze che il suddito si augurerà o temerà, secondo i casi. (Poiché questo regolerà il comportamento del suddito nel senso auspicato, rendendolo subordinato ad una regola, una tale « legislazione », come dice Kant, ha una « analogia » con la legge di natura quale espressione dell’ordine e successione regolata di processi naturali.) Leggi dello stato, della polizia, della società, quali ordinamenti di un comportamento universale, possono essere « date ». Ha senso parlare di una « dazione di leggi » anche in rapporto alle leggi del valore ? Se confrontiamo le leggi di natura con quelle (statutarie) della società, ci appare che la differenza consiste essenzialmente nel fatto che queste ultime sono « date » e mutevoli, superabili da una nuova legislazione ed ampliabili ; le leggi di natura escludono tutto ciò. Ma questa è in effetti un’apparenza. Anche se assumiamo la più rigida « necessità di natura » e la chiusura della connessione della legge di causalità, ne consegue soltanto che all’interno di questa natura con queste sue leggi ogni accadimento è determinato di necessità in questo e quel modo, è inevitabile e insuperabile. Non consegue, però, che questa natura stessa e le sue leggi non potrebbero essere altre, che non potrebbero cambiare o essere cambiate. Le stesse leggi di natura sono « contingenti ». Potrebbero anche essere diverse da ciò che sono. Che la forza di gravitazione abbia la costante g, che i corpi cadano con un’accelerazione e proprio secondo quella legge di accelerazione che è valida per la nostra natura, questo non ha alcuna « necessità interna ». Potrebbe esser diversamente e potrebbe essere così per la volontà di un « legislatore ». La stessa necessità di natura, ossia che la natura offra successioni regolate dell’accadere e che casualmente offra proprio queste e non altre successioni, parlerebbe più in favore che contro la convizione teistica di un datore di leggi di natura. Anche le leggi matematiche, se i « non euclidei » avessero ragione e le leggi della « nostra » geometria fossero soltanto contingenti, ammetterebbero o forse persino postulerebbero un « datore » di leggi. Allo stesso modo si è anche tentato di sostenere che anche le leggi morali sarebbero soltanto contingenti, per equilibrare, in questa maniera, l’« autonomia » delle leggi morali e la « teonomia » ; o per superare quella in favore di questa. In questa maniera si è tentato un equilibrio tra « legge di natura » e « volontà di Dio ». Se una simile via sia percorribile, se sia indispensabile per la validità delle leggi morali, se realmente serva all’idea della volontà di Dio, se non sia forse più rovinosa che vantaggiosa per quest’ultima, sono domande cui, partendo da qui, gettiamo innanzitutto solo uno sguardo preliminare.  



















































































































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4. Qui però ci siamo interrogati innanzitutto solo sulle categorie fondamentali della stessa « legge morale », e in questo modo abbiamo trovato anche la risposta alla domanda circa il fondamento della stessa. La legge morale, in quanto è l’insieme delle esigenze categoriche, secondo il nostro uso linguistico non è in generale una « legge », ma un « comando ». Questo non viene dato, ma si ricava. Si ricava in modo fondato dal valore e dal diritto. E dall’adempimento di questo si ricava la dignità della volontà buona.  











AUTONOMIA DEI VALORI E TEONOMIA 1

N

icolai Hartmann conclude la sua ottima Ethik (Berlin 1926, ora 1935 in seconda edizione non modificata) con una serie di antitesi tra etica autonoma e religione, che rappresentano quanto di più acuto e impietoso sia stato detto sull’oggetto assai dibattuto : « autonomia morale o legislazione divina ». Egli stesso vede la contrapposizione principale nell’« antinomia della libertà », in quanto l’ethos esigerebbe decisamente la libertà, mentre la religione la annienterebbe. Mi sembra che su questa affermazione vi sia da discutere. In ogni caso, mi pare non soltanto che il problema precedente – autonomia dei valori o volontà di Dio – sia passibile di trattazione autonoma, ma anche che sia innanzitutto bisognoso di una trattazione. Ciò che colpisce è che Hartmann, per quanto netta sia la sua opposizione ad un oltrepassamento religioso della sola etica, continua ancora a parlare di « antinomia tra etica e religione ». Se si ritiene che le convinzioni religiose siano semplicemente false, allora non resta più alcuna « antinomia » da menzionare o da discutere, né ci si fa coinvolgere – come Hartmann fa con estrema finezza – nei dettagli della posizione religiosa, ma si lascia che questa svanisca nel suo nulla. E nonostante il suo netto antagonismo rispetto a – presunte o reali – tesi religiose, Hartmann parla spesso come se ritenesse ancora possibile una sua « filosofia della religione », e le attribuisce compiti che questa, e non l’etica speculativa, dovrebbe assolvere. Si resta desiderosi di conoscere qui l’opinione dell’autore nella sua interezza e di venire a sapere se con i verdetti dell’Ethik sia stata detta l’ultima parola o se, nonostante i categorici tracciamenti di confine, ci sia ancora in qualche modo, o da qualche parte, un « oltre ». I suoi attacchi e le sue limitazioni dei presunti soprusi della « religione » (che viene intesa essenzialmente secondo il tipo della redenzione cristiana e viene còlta senz’altro come una predestinazionistica mancanza di libertà della volontà umana) si spingono molto lontano. Potrò far riferimento solo ad alcuni di questi. Ho indicato altrove i generali travisamenti dell’idea religiosa fondamentale per cui l’uomo è incapace di « conquistare » da sé « la salvezza » (e, con ciò, la confusione dell’idea originaria e specificamente religiosa con questioni della psicologia). 2 Lutero, e con lui molti altri, sostengono in effetti l’efficacia esclusiva della grazia per la salvezza e l’esclusione del « sinergismo » religioso, in modo tale da indagare la questione psicologica della libertà o non libertà della volontà, della sua determinatezza o indeterminatezza, per poi insegnare quella « non libertà della volontà » che Hartmann prende di mira. Qui si possono trovare risposte definitive soltanto se innanzitutto si riconosce almeno questo : che « la salvezza » viene solo da Dio non perché la nostra volontà è troppo inferma, ma perché la « salvezza » stessa, per essenza, è fuori dalla sfera dei nostri sforzi di volontà. Questo meriterebbe una discussione a parte. A ciò si aggiunge che Hartmann, in modo  























































1   Edizione originale : Autonomie der Werte und Theonomie, in AE, cap. 6, pp. 215-226. Il saggio fu pubblicato per la prima volta da Theodor Siegfried due anni dopo la morte di Otto, col titolo Freiheit und Notwendigkeit (Tübingen 1940). Il curatore ritenne opportuno sostituire il titolo originale del manoscritto di Otto (Autonomie der Werte und Theonomie) con uno a suo avviso più pertinente rispetto al contenuto effettivo del testo (cfr. Th. Siegfried, Nachwort, in R. Otto, Freiheit und Notwendigkeit, cit., p. 20). Le note tra parentesi quadre sono di Siegfried. 2   [Cfr. il trattato Die christliche Idee der Verlorenheit, in SU, pp. 25 e ss.].  

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troppo poco approfondito e troppo unilaterale, ritiene ovvio il punto di vista predestinazionista. È però per lo meno altrettanto possibile, dal punto di vista religioso, l’idea che Dio crei esseri liberi, con la possibilità della salvezza come della dannazione e con la responsabilità per ogni loro eventuale fallo. Nonostante ogni netta contrapposizione, alla fin fine anche i predestinazionisti più radicali e unilaterali non vorranno negare al peccato il carattere della colpa, ossia della responsabilità propria. In realtà la situazione è questa : che qui vi è in effetti una vera e propria « antinomia », di cui Hartmann fa un uso tanto abbondante, la quale però non comincia soltanto nel rapporto tra l’atteggiamento religioso e quello etico, ma evidentemente già all’interno della stessa sfera religiosa. I predicatori quaresimali predestinazionisti, indirizzandosi con ogni forza alla decisione, alla conversione, al cambiamento della volontà, ponendo dinnanzi agli occhi colpa e responsabilità, sono indeterministi in praxi, sebbene deterministi in theoria. In ogni caso, il determinismo non è cristiano se non è altro che la tonalità emotiva del kismet 3 islamico. Il determinismo cristiano non è fatalismo. In verità, qui è lo stesso atteggiamento religioso autentico che è antinomico. Da nessun’altra parte si di più presuppone la responsabilità, e la responsabilità propria, né vi si tende di più, che nel richiamo cristiano al penitenza e alla conversione : mea culpa, mea maxima culpa ! Dove questa cognizione non si manifesta forte e vitale, allora certamente non è presente un autentico atteggiamento religioso. Ma la culpa, il sentimento della colpa, non è possibile in mancanza di ciò in cui Hartmann vede il criterio del sentimento della libertà, ossia in mancanza della convinzione chiara, del tutto determinata e sempre di nuovo capace di ristabilirsi di contro ad ogni cavillazione : « Avresti dovuto e potuto altrimenti ». D’altra parte, il vissuto religioso della grazia spinge, in quanto tale, sulla linea predestinazionista. Ma sarebbe deleterio per la purezza dello stesso sentimento religioso se il prezzo per la grazia fosse l’oscuramento della fatticità di un’autentica responsabilità individuale e dell’esperienza della colpa. Queste due linee convergono piuttosto in un’autentica antinomia. Dell’antinomico in generale lo stesso Hartmann dice : « Anche quando si rivelano autentiche antinomie, e sono dunque insolubili, esse non dimostrano nulla contro l’esistenza di ciò che è separato in modo antinomico, ma solo l’incapacità del pensiero di comprendere la coesistenza » (p. 737). Ci sarebbe molto da obiettare a proposito delle antinomie che secondo Hartmann (ibid.) sussistono tra religione ed etica. La prima sarebbe quella relativa alla direzione pratica nel suo complesso, ossia quella tra la tendenza all’aldiquà e la tendenza all’aldilà : la religione sarebbe tutta rivolta all’aldilà e un suo sviluppo conseguente porterebbe alla negazione di ogni valore proprio all’aldiquà. Una simile affermazione ignora dal principio, a vantaggio di una religiosità ascetica e in fuga dal mondo, la tesi fondamentale del cristianesimo per cui Dio è il creatore, e il mondo è opera sua ed è un’opera buona ; e per cui l’aldiquà è orientato all’aldilà in quanto è il luogo della prova nel servizio prestato al compito che Dio pone realmente nell’aldiquà. L’amore per il prossimo, messo in pratica dal samaritano misericordioso, è stato un atto autenticamente relativo all’aldiquà, come tale inteso da Cristo e come tale posto ad esempio. Ma l’amore per il prossimo nella pienezza del suo essere al di qua, ossia praticato in pura umanità, non esclude che proprio così in esso, e in generale nell’intero ethos dell’« aldiquà », si esegua e si faccia la « volontà di Dio », ossia qualcosa che contemporaneamente implica un mira 





























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  Fato.





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re più in alto. Alla richiesta « santa » (heilig), che viene dall’alto, di penitenza e conversione corrisponde certo come momento primo e fondante un profondo e fondamentale affrancarsi da ogni « aldiquà », un dedicarsi ad una meta di tipo relativo esclusivamente all’« aldilà », coglibile solo nel sentimento. Ma [questo accade]4 là dove è superato almeno il tipo monastico-ascetico in quel modo per cui, dopo lo scioglimento dal vincolo mondano e dopo il superamento del mondo quale idolo, il mondo si apre allo sguardo religioso come prodotto di valore della mano di Dio, nel quale e sul quale Egli stesso presta servizio e agisce. D’altra parte, circa la tesi di Hartmann sull’essere « al di qua » di ogni etica (« per l’agire etico ogni trascendenza è un’ingannevole apparenza ») va sollevato un interrogativo : che succede ad un soggetto che – restando, nella tensione etica, nell’aldiquà – arriva alla convinzione che tutto, anche il più profondo valore dell’aldiquà, ha la determinazione del passaggio e della prova ? Un simile soggetto riconoscerà che il suo giudizio su ogni trascendenza come apparenza ingannevole era esso stesso un’apparenza ingannevole e mediterà quelle connessioni tra il tendere etico dell’aldiquà e la meta dell’aldilà, di cui tutte le religioni superiori offrono testimonianza. Hartmann ritiene che l’antinomia più grave e importante sia costituita dai momenti « redenzione, grazia, perdono », dei quali l’etica non sa e non deve sapere niente. In realtà il centro è qui il « perdono » e il desiderio di perdono, con cui si intende quella « possibilità di assoluzione » da peccato e colpa, che per Hartmann è fatale. Mi pare che qui venga alla luce un errore particolarmente degno di nota dell’intera costruzione di Hartmann. Non soltanto nella religione, ma nel profondo dell’etica, in ogni etica profonda e là dove l’etica è la più profonda possibile, ritorna questa « possibilità di assoluzione », questo desiderio assoluzione e cioè di perdono-absolutio, cancellazione, remissione e condono del debito, liberazione della coscienza dal peso della colpa : ritorna cioè là dove, nell’etica, si tratta delle relazioni più profondamente etiche, quelle tra persona e persona, o delle pretese fatte valere da parte di una persona nei confronti di un’altra, in misura graduata e diversa secondo l’intimità della comunità di cui le persone sono membri ; ma ritorna, in senso generale, anche in quella comunità in cui i legami sono più esteriori e deboli, ossia nella relazione tra persone in genere. Dovunque sia accaduto un torto o sia stato commesso un atto di ingratitudine non basta un esteriore risarcimento dei danni : per liberarsi e tornare pura la coscienza – e senz’altro anche la coscienza « imparziale » – richiede e implora il perdono di cuore da parte dell’altro. Ciò appartiene in modo immediato e autentico ai più caratteristici sentimenti del sé come il pentimento e il pudore ; e dove manca non si è ancora nell’orbita di un’autentica moralità personale. Un « valore » può essere offeso, ma non può perdonare. Un’etica, che sia unilateralmente un’« etica dei valori », non può aver posto per il perdono, né per le idee ancor più elevate e intense della purificazione. Così in Hartmann. In lui anche i comportamenti personali, alla fin fine, sono oggetto di esigenza in quanto sono valori. Non si può però fare un « torto » ad un valore, ma solo ad una persona ; e questo torto non consiste nel fatto che un valore viene offeso – il che pure accade, ma è una cosa a parte – , ma nel fatto che quest’uomo qui è stato personalmente calpestato nel suo diritto ; il che non viene « purificato » 5 con un restauro del valore, ma soltanto col pentimento, con la per 





































































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  Qui, come in seguito, le integrazioni tra parentesi quadre nel testo sono di Siegfried.   [Cfr. anche il saggio Das Schuldgefühl].

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sonale disponibilità alla confessione del torto, con la sottomissione al giudizio di accusa e condanna da parte di chi è stato chiamato in causa, e con il suo perdono. In modo troppo veloce, rapido e un po’ schematico si costruisce qui una « antinomia », mentre nell’ethos sacrale (sakral) si tratta di quell’intuizione nuova e superiore, che il profano non può avere : che cioè ogni trasgressione, che secondo la materia è contro un valore o una persona, è sempre contemporaneamente un peccato contro Dio, la Persona somma. Le persone possono perdonarsi reciprocamente, possono condonarsi un debito, possono ricostituire la comunità turbata da una rottura : se siano o meno obbligati a farlo è una questione a sé. Forse no : forse, soprattutto tra gli uomini, lo scusare è sempre soltanto un atto di libera donazione. Per chi ha trasgredito, però, un comportamento pentito, con l’annesso desiderio di esser scusati, è un’esigenza quanto mai profonda. A me pare che della torre di « antinomie » accatastate da Hartmann quella davvero reale, e ben nota da sempre, da sempre irrisolta e, secondo la mia opinione, anche irresolubile in linea di principio per il pensiero umano, sia la terza (pp. 378 e sgg.). È la vecchia antinomia tra l’autonomia del bene in sé e da se stesso e la teonomia, ossia l’esser poste di tutte le « leggi » da di Dio ; è l’antinomia tra « legge morale e volontà di Dio », tra etica autonoma e etica autoritativa, quali che siano i vecchi nomi che qui si vogliono scegliere : « La tesi per cui i valori etici sono autonomi e non traggono valore in rapporto ad altro, ma puramente da se stessi e in rapporto a sé, è (come è stato mostrato) una base necessaria per ogni etica degna di questo nome ; [... la tesi] per cui dietro non vi è né un’autorità, né la sentenza di un potere, né una volontà, perché altrimenti la loro evidenza non potrebbe essere assoluta e apriorica, ma è qualcosa in loro stessi che rivela la sua natura irriducibile nel sentimento del valore » (p. 739). La difficoltà sta nel fatto che la validità di tutte le esigenze di fronte alla coscienza non può esser posta da un volontà, ma è sempre già data in modo necessario, conforme alla legge e insuperabile nella stessa natura rerum. Certo, questo è un lato della difficoltà. Che si può dire su questa questione ? Con il fatto della validità da sé dei valori oggettivi Dio stesso è messo fuori gioco ? Innanzitutto quanto segue : i nostri teorici dei valori sono eccellenti fenomenologi e rispettano quelli che Goethe chiamava fenomeni originari (Urphänomene). A questi appartiene però anche il sentimento del sacro, che dai teorici dei valori deve essere considerato senza dubbio come sentimento di valore e che, almeno come accadimento conforme al vissuto, non può essere messo in dubbio. Ma possiamo dire di più : se i teorici dei valori, con notevole imparzialità rispetto ai pregiudizi naturalistici, si aprono tanto seriamente alla testimonianza spesso così delicata e sommessa dei nostri sentimenti del valore, che sono spesso così oscuri e che per di più si trovano in una tensione tanto forte, se non in un’antinomia, verso la loro propria teoria, allora essi dovranno prendere sul serio vissuti di valore così antichi e universali come quelli del sacro. Cosa è dato con essi ? a) In ogni caso un ampliamento del campo dei valori esigenziali che va molto oltre l’ambito meramente etico. b) In pari tempo, e senza alcun dubbio, una profondità e una urgenza dell’esigere che va molto oltre quella di un semplice valore etico dell’« aldiquà ». c) Ma anche un orientarsi di ogni occupazione della vita rivolta ai restanti valori al di sopra e al di là di sé. Certo, qui nel sentimento non è ancora data la fondazione universale di tutti i valori in genere nel valore e nel portatore di valore trascendente, ma ci si va molto vicini : quel che è dato infatti è che tutti i possibili compiti si mettono a servizio e si subordinano ai valori sommi, ossia esplicitamente rivolti all’aldilà.  















































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Come ho tentato di mostrare altrove, nelle mere « etiche » il sentimento per il sacro e, con ciò, la possibilità del sentimento per il peccato sono propriamente illegittimi. Il fatto che però tali sentimenti penetrino da sé anche in queste etiche prova soltanto la loro inevitabilità per un più profondo sentimento della verità. Hartmann fa spesso uso del « peccato », anche dove avrebbe dovuto parlare di fallo, di errore o di trasgressione. Per la testimonianza interiore (per la nostra coscienza religiosa) certe specie e classi di valutazione sono in prima battuta più accessibili del peccato, finché poi, in una coscienza divenuta più sottile, gradualmente il carattere di peccato si estende a tutte le trasgressioni etiche : con ciò, chiaramente, l’intero ambito di valore si sottopone al valore religioso del sacro o del suo contrario, del peccaminoso, e rende qui riconoscibile una chiara « teleologia ». Il sentimento del peccato (non le angosce del mondo o le necessità esistenziali) è ciò cui si riallaccia il cristianesimo con la sua predicazione. Il sentimento del peccato e il sentimento del sacro, che quello oscuramente implica e presuppone (altrimenti non sarebbe possibile), è l’« a priori religioso », specialmente in riferimento al cristianesimo. Dove l’annuncio cristiano sopraggiunge esplicitamente, là viene alla luce il Dio Redentore, santo (heilig), che giudica il peccato e che cerca e salva i peccatori. Dove questo è accaduto, là, in tutta chiarezza, non è più data soltanto una teleologia di tutti i valori orientata al sacro, ma è dato il sacro, fundus, fondamento della possibilità, fonte originaria di ogni valore possibile e reale, in questo mondo e in quello ultraterreno. E questo non semplicemente in conformità ad una dottrina recitata, ma effettivamente, in conformità al vissuto di un raccoglimento devoto autentico e profondo. Di nuovo : questo fatto dovrebbe esser preso sul serio almeno fenomenologicamente. Può anche essere difficile dal punto di vista teorico lasciare che valori fondati autonomamente in natura rerum dei loro portatori, si fondino oltre a ciò in Dio : in ogni caso il fenomenologo dovrebbe tener conto del fatto che ciò non viene soltanto asserito, ma viene attestato dal vissuto del raccoglimento devoto ; e dovrebbe guardarsi dall’accordare troppo in fretta un privilegio al vissuto di una classe, ossia al tipo del suo proprio e ristretto vissuto di valore. Che il comandamento poggi su un valore proprio e autonomo significa che la « bontà » propria e l’evidenza di ciò che si esige appartiene qui allo stesso vissuto ingenuo, come mostra la parola di Amos : « Ti è stato detto, uomo, ciò che è buono e ciò che il Signore esige da te ». 7 È caratteristico anche e proprio del vissuto del valore religioso che esso non inibisce la facoltà della valutazione oggettiva che chiamiamo « coscienza », ma si connette intimamente al rispetto della volontà di Dio, tanto che il profeta li coglie come sinonimi. Il comandamento di Dio non è un ordine e tantomeno l’ordine di un despota che richiede un’obbedienza cieca. La volontà di Dio, per il cristiano, non è cieca o, più esattamente, il cristiano non è cieco rispetto alla volontà di Dio, ma capace di cogliere ciò che è evidente, e i comandamenti della volontà di Dio sono essi stessi evidenti quanto alla loro validità : non vengono ricevuti e osservati come verdetti di un essere minaccioso e onnipotente o che adesca con le promesse : se vengono osservati correttamente, questo accade con un assenso interiore e di cuore alla validità del comandamento udito, che si tratti di una delle proposizioni dei dieci comandamenti o del comandamento 6









































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  [Cfr. i primi quattro saggi in SU].   Il passo è in realtà di Michea (6, 8).



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dell’amore dato da Cristo o, come pure è possibile, di un appello che risuona nella mia situazione e in conformità ad essa, senza una regola generale, che solo per questo caso specifico e proprio in questa situazione riguarda ed esorta qualcuno. L’intuizione concomitante è un cogliere conforme al sentimento, è un assenso interiore non con i mezzi dell’intelletto, quanto appunto con quelli del sentimento : è l’intuizione del fatto che Dio qui non esige come un tiranno e non ottiene a forza riconoscimento per mezzo di una potenza superiore e della paura di essa ; è il sentimento profondissimo del fatto che da Dio si può esigere che quanto esige sia quel che è incontrovertibilmente giusto. In pari tempo appartengono pienamente e rigorosamente al fenomeno di questo vissuto due cose : da una parte, che Dio non è vincolato, come l’umana volontà buona, da una legge che è esterna e superiore a Lui ; dall’altra, che la sua volontà in un tale volere non è « contingente » (ma anzi anche qui la « libertà » è al di là delle idee di necessitas e contingentia). Lo stesso per il pentimento religioso e per il pudore. Questi erompono in modo forte e caratteristico quando un comandamento divino è stato disatteso, ma non sono affatto la dolorosa coscienza di aver trasgredito la mera volontà di un despota e di aspettarsi ora la punizione : essi sono la conoscenza del profondo valore intrinseco di ciò che era esigito e che, essendo stato offeso, copre il peccatore di un caratteristico disvalore. La volontà di Dio non era semplicemente ciò che è voluto da un essere potente, ma era in sé buona e santa (heilig) ; e l’essersi opposti ad essa non è stato pericoloso « per l’esistenza », ma è stato un reale peccato, un disvalore reale ed oggettivo che opprime il colpevole e risveglia pentimento e pudore. D’altra parte vi sono valori in sé realmente autonomi, che, a partire da sé, ex natura rerum, si impongono alla nostra coscienza. Calpestare l’onore altrui, lasciarsi andare all’indisciplinatezza, preferire la menzogna alla verità, è di per sé buono o cattivo ; e ciò che è cattivo non deve essere, e non lo deve semplicemente di per sé. (Questo vale corrispettivamente per i « diritti » che noi distinguiamo dai meri valori.) Ci sono degli dèi accanto a Dio ? Oppure Dio, con la sua creazione, ha fatto sì che la menzogna sia cattiva e la verità buona e non l’inverso ? Ciò che oggi e per il nostro sguardo è dato in rerum natura dipende dalla sua volontà di creatore ? Avrebbe Dio potuto anche creare in modo tale che l’amore sia cattivo e l’odio buono ? Ciò che al nostro sguardo umano e limitato appare vincolatamente come legalità essenziale insuperabile per legge potrebbe essere a parte Dei « contingente », così che la conformità a questa legge essenziale che ora ci si fa incontro varrebbe solo a parte intellectus nostri e sarebbe una ordinatio di Dio contingentemente libero, non vincolato da niente e da niente determinato ? E non sarà proprio questo che la grandezza di Dio esige ? E per di più non è proprio questo che le forme più recenti della riflessione scientifica promuovono e rendono possibile ? Se persino i principi della matematica cominciano a divenir dubbi nella loro assoluta necessità interna, se il principio di causalità non sta più saldo e se persino i principi supremi della logica forse non sono altro che « abitudini di pensiero », è forse ancor più insicura l’assolutezza di forme tanto problematiche come i « valori oggettivi » ; e fondarle su una volontà divina onnipotente e sull’ordinatio di questa è assai più auspicabile e plausibile che non fondarle sulle accidentalità biologiche o sulla teoria dell’evoluzione. D’altra parte sembra che Dio divenga interamente Dio se è Colui che agisce in modo completamente contingente e che soltanto per questo è completamente libero. Come ho tentato di mostrare altrove, 8 l’agire contingente c’è realmente e non sol 





















































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  [Cfr. Das Gefühl der Verantwortlichkeit, p. 128 e ss.].





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tanto tra gli dèi, ma già tra gli uomini. Ma chiamare in causa questo per rendere possibile quella libertà etica che si mostra nel nostro agire responsabile è sbagliato, perché l’agire contingente è del tutto, e fin nel fondamento, privo di valore. E come, da una volontà che di per sé è priva di valore, debba poter essere creato un mondo con dei valori, con la validità dei valori e con qualsivoglia validità in genere, [è impensabile] : da una simile volontà, ammesso che possa nascere qualcosa, può nascere soltanto ciò che è, a sua volta, interamente privo di senso e di valore. La contingenza, però, è esclusa soprattutto da quel giudizio religioso fondamentale che precede in modo assoluto tutte le altre affermazioni di Dio : « dovete essere santi (heilig), perché io sono santo ». 9 Sacro, secondo la sua essenza, è innanzitutto una denominazione della sfera assiologica che designa ciò che nel valore o « ultravalore » è il sommo per eccellenza e insieme l’assolutamente singolare ; il sacro viene còlto come valore dal nostro vissuto di valore con piena precisione e ho tentato di tratteggiare altrove 10 i momenti caratteristici della singolare sottomissione rispetto al portatore di valore correlato (ammesso che in questa sfera sia lecito distinguere tra valore e portatore di valore e che qui non siano piuttosto identici). Con ciò, però, abbiamo già trovato che il portatore di valore del sacro, dietro una corona di termini razionali, resta completamente irrazionale secondo la profondità della sua essenza e rispetto alla sua relazione al mondo, il quale ne è completamente condizionato. Se qualcuno non lo riconosce significa che non ha mai posseduto un autentico sentimento del sacro o che non è in grado di darne conto a se stesso. Questa irrazionalità appartiene semplicemente alla sua essenza e quindi categorizzazioni come contingenza o necessità devono essere escluse dal principio. Dove però si tenta di pensare in questa direzione, è piuttosto la necessità che, muovendo dal principio cristiano originario, si offre come provvisorio modo di pensare, perché una volontà santa (heilig) in tutta certezza non può volere partendo dalla vuota oscurità di una completa indeterminatezza e dal puro arbitrio : essa poggia piuttosto su un’essenza, e su un’essenza che è santa (heilig), e la santità dell’essenza ordina a priori la volontà in quanto non contingente, ma determinata sin dal principio come volontà di valore. Invece dell’immagine di una volontà che erompe e sceglie in modo puramente arbitrario, immagine che è in effetti piuttosto quella di un despota capriccioso, compare qui quella di una smisurata profondità di valore, che riposa in sé e che a partire da sé si schiude e si mette in movimento, e che diviene creatrice muovendo tanto dall’impulso di una volontà d’amore donatrice, quanto da quello di una configurazione di senso e di valore in una creatura ; non solo creatrice, ma anche redentrice rispetto ad una creatura che si separa dalla meta. Creando, essa effettua un mondo intriso di « valori » che sono irradiazioni e riflessi del valore originario ed eterno, e che nella loro autonomia non sono null’altro che riflessi della teonomia, ossia dell’autonomia originaria del valore che chi crea portava in se stesso e che fa rilucere nella sua creazione. Come l’essentia delle cose (idealiter) è da Dio e, in infinite rifrazioni e gradazioni, copia l’essenza divina originaria nello spazio ristretto della creaturalità mondana, così inerisce a quest’opera di Dio anche il riflesso del valore divino : anche questo in infinite rifrazioni e gradazioni, con molteplicità di distacchi e differenze dal valore intatto ; e così l’autonomia della creatura è immersa nella teonomia.  























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  Lv 19, 2.   [Al tema è dedicata l’opera principale di Otto, DH].

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Se si vogliono utilizzare distinzioni umane e psichiche, la creatura corrisponde all’essenza del creatore in quanto sua expressio ; la quale essenza è però in pari tempo volontà, perché [dà testimonianza di sé]11 non mediante emanatio nel senso naturale, ma dimostrando una volontà di rivelazione che, in quanto volontà di grazia nei confronti dei suoi « figli », vuole far risplendere nella stessa immagine creaturale « la sua gloria ». Il valore di Dio risplende nell’immagine, sul fondamento dell’irradiazione, ma anche del fatto che Dio vuole così ; e il valore irradiato esige in modo autonomo, ma in lui l’unico valore originario di Dio e contemporaneamente Dio vuole che così accada. Si rende un cattivo servizio a Dio con le contingenze e gli scossoni della legalità del mondo. Per far posto a Dio, Clarke sosteneva, a suo tempo, l’« incompletezza del mondo », per cui le cause immanenti di questo non erano sufficienti a salvaguardarne la costruzione. Un mondo che potesse farcela da solo sembrava non aver più bisogno di Dio e non aver più posto per lui. A buon diritto Leibniz, nel replicare a Clarke, distingueva tra agire di Dio e legge naturale, e lasciava a questa la parte maggiore nella faccenda. La situazione è simile quando si crede di dover scuotere l’autonomia dei valori immanenti al mondo per far posto alla teonomia. In quel primo caso vale il paradosso per cui un mondo che viene dalle mani del creatore dovrebbe assomigliargli il meno possibile. Quanto più è completo e autosufficiente nel suo funzionamento, tanto più degno di Dio. Come dice il Marchese di Posa : « [...] umilmente si cela nelle sue leggi eterne. Lo spirito libero le vede e dice : “Il mondo basta a se stesso” e nessuna lode devota lo ha mai magnificato di più dell’imprecazione di costui ». 12 Non possiamo dir nulla sul rapporto tra il mondo e la divinità creatrice quale sua condizione ; nel mondo veniamo rimandati a leggi e, di recente, a regole della probabilità, e non possiamo fare di Dio un correlato di queste, né stabilire come governi il mondo nonostante tutte le leggi, con o senza lacune. Tuttavia il sentimento devoto – nel modo, di nuovo, dell’esperienza vissuta – sottopone il mondo ad un Dio che lo crea e lo governa. Siamo rimandati dai nostri sentimenti del valore ai valori nel mondo e siamo vincolati dalla nostra coscienza responsabile ad obbedire alle richieste dei valori. Attraverso queste udiamo la richiesta di Dio, che noi crediamo di avvertire sia come richiesta del valore che come richiesta della volontà. Neanche in questo caso risolviamo l’enigma che sussiste tra ciò che è al di qua e ciò che è al di là. Ma, nell’immediatezza di un vissuto ingenuo, qui non sentiamo neanche un enigma, ma riteniamo di vedere delle ovvietà quando riconosciamo chiaramente il linguaggio dei valori del mondo nella coscienza e cogliamo in ciò la richiesta di Dio « insegnata dallo Spirito ». Ci aiutiamo con lo schizzo di un’immagine come la precedente : l’immagine di un autoirradiamento del valore divino originario nella creatura, la cui teonomia « appare » in e su quest’ultima. Sappiamo che anche questa è un’immagine ; un’immagine che però non è vuota per il nostro sentimento della verità, ma indica una direzione in cui, seppure su un punto all’infinito, potrebbe esserci la soluzione. Questa direzione è indicata anche dalle immagini e dalle dottrine che da tempo ci sono familiari, sia che ci si richiami consapevolemente al nostro punto, sia che non vi si presti attenzione. Non chiariscono il problema completamente, ma lasciano presentire qualcosa della sua eventuale soluzione. Si è già sottolineato spesso che il rapporto di Dio alla sua opera è simile a quello  



































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  Integrazione di Th. Siegfried.   [Citato a memoria. Cfr. Don Carlos, Atto iii, 10. Entrata del Marchese : « »].

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autonomia dei valori e teonomia

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dell’artista : non dal punto di vista per cui costui la porta prima nello spirito, da cui quella sgorga, e dunque si relaziona ad essa diversamente dalla mera « causa » al suo effetto ; ma dal punto di vista per cui l’opera d’arte, in quanto sgorgata dall’artista, è della stessa specie ed essenza, e restituisce queste in sé portandone l’impronta. Di nuovo risplende l’ingegno, la profondità, il valore e la nobiltà dell’animo che crea, e i « valori » sono il riflesso dei valori dell’artista. Ancor più in profondità porta la dottrina speculativa della creazione in quanto compiuta dal Logos eterno, che era in Dio ed era Dio, e che in pari tempo è principio che dà al mondo e alle sue cose essere, senso e valore. Il Logos, secondo Agostino, è il pensiero, che è sorto eternamente in Dio e che in lui riposa, con il quale Dio pensa se stesso e conosce secondo la ricchezza e la pienezza della sua essenza. È la sua controfigura. Proprio questo auto-pensarsi di Dio diviene principio del mondo e del suo contenuto di senso e di essenza, in quanto il Logos diventa principio di creazione del mondo. Sebbene solo in una distanza infinita, e senza esaurire la pienezza, tuttavia ciò che nel mondo e sul mondo è possibile quanto a senso, essenza e valore, lo è a partire dalla profondità della vita del senso e del valore della divinità stessa. Tutte le essentiae mondane sono analoga di uno dei momenti dell’essere di Dio e il valore di ciascuna di esse, che poggia su quelle, è una scintilla che scocca dalla gloria del valore di Dio stesso : così si può riproporre, con un’espressione nuova, la dottrina antica. Allora però i valori, che, esortandoci e attraendoci, ci si fanno incontro nel mondo, non stanno di fronte al senso e al valore eterni di Dio come qualcosa di separato, che entra con essi in concorrenza, ma ne sono quasi i prolungamenti nel mondo. « Quasi » : non ci è lecito aspettarci di spingerci oltre un quasi, un’immagine o una similitudine. Ma in ogni caso queste sono sufficienti per stimolare qualcosa che nel nostro oscuro sentimento ci è dato in modo sufficientemente certo, e per portare qualcosa in più alla luce della superficie. Beninteso, anche qui la « volontà » di Dio è innanzitutto solo un’espressione umana per il momento esigenziale che è proprio del valore eterno e del suo rispecchiamento nella creatura. Ma nella misura in cui Dio, in quanto creatore, vuole tale compenetrazione dell’ente con « la sua gloria », ossia con il riflesso della propria gloria, nella misura in cui ha in ciò il suo proprio progetto di mondo e richiama, in caso contrario, all’obbedienza, l’esigenza del valore e quella della volontà si riuniscono in una cosa sola.  



























Indice dei nomi

A

bacuc 241n Abramo 174, 208, 213, 253, 311 Agostino d’Ippona 140n, 146, 216n, 320n, 324, 327, 381, 447 Aguti, Andrea 10n, 54 Alberto Magno 263n Alles, Gregory D. 9n, 53, 54 Almond, Philip C. 9n, 14n, 27n, 32n, 33n, 54 Amos 267, 282, 443 Andrew, Maurice E. 56 Anquetil du Perron, Abraham 174, 174n Anselmo d’Aosta 231n Apelt, Ernst Friedrich 20n, 52, 78, 79, 109, 146, 148n Aristotele 102n, 257, 271n, 369, 408, 418 Arndt, Johann 263, 263n Arnold, Gottfried 263, 263n Averroè 105

B

aader, Benedikt Franz Xaver von 124 Bach, Johann Sebastian 242 Bacone (Francis Bacon) 88, 105 Baetke, Walter 38n, 54, 60 Bajesid Bostami 310 Ballard, Steven 54 Bancalari, Stefano 24n, 54 Barnes, L. Philip 54 Barrett-Brown, A. 54 Bartel, Adolf 218n, 221n Barth, Carola 54 Barth, Hans-Martin 54 Barton, Stephen C. 55 Basso, Lelio 54 Bastian, Adolf 340, 340n, Bastow, David 54 Baumgarten, O. 54 Bayer, Oswald 59 Bayle, Pierre 76, 76n Benedetto da Norcia 387 Benveniste, Émile 27n Benz, Ernst 9n, 19n, 37n, 38n, 53, 54, 57, 58, 60 Bergmann, Heinrich 54 Bergson, Henri 58, 265n Berkeley, George 87 Besant, Annie 265, 265n Bhārata Muni 324 Blavatsky, Helena Petrovna 365n

Böcklin, Arnold 146n Bodhidharma 367, 367n Boeke, Rudolf 9n, 54 Bogatzki, Carl Heinrich von 154n Böhme, Jakob 223n, 264, 265, 265n, 330, Boozer, Jack S. 9n, 39, 40, 40n, 51, 54, 434n Bornhausen, Karl 55 Bouillard, Henri 55 Bousset, Wilhelm 13n, 47, 55, 61 Bouterweck, Friedrich 74n Bracey, Bertha L. 53 Braeunlich, Hans 55 Bramhall, John 88n Brito, Emilio 55 Brunner, Emil 55 Brunner, Peter 55 Bruno, Giordano 105 Brunotte, Heinz 58 Buddha 138n, 197, 198, 238, 317 Bugenhagen, Johannes 259n Bultmann, Rudolf 11, 35n, 55, 58, 59 Buonaiuti, Ernesto 12, 12n, 13, 13n, 53, 55, 59, 61 Büttner, Hermann 385, 385n, 386, 387

C

alvino ( Jean Cauvin) 22n Caputo, Annalisa 55 Caterina da Genova 223n Clarke, Samuel 44, 87, 446 Claussen, Willy 55 Colombo, Cristoforo 91 Colpe, Carsten 55 Confucio 244 Crisostomo, Giovanni 313 Croce, Benedetto 55 Crowder, Colin 55

Darwin, Charles 99n, 265n

Davide 179 Davidson, Robert F. 55 Dawson, Lorne 55 De Vitiis, Pietro 55 Delekat, Friedrich 55 Denifle, Heinrich Seuse 228n, 235n, 264n, 271 Descartes, René (Cartesio) 21, 83 Dibelius, Martin 55 Dicker, Ernest Barrat 53 Dienst, Karl 55

450

indice dei nomi

Galilei, Galileo 23, 25, 89, 98, Geiselmann, Josef Rupert 56 Geldsetzer, Lutz 74 Gellert, Christian Fürchtegott 217, 217n, 218 Gentile Giovanni 45, 73n, 269n Geremia 151, 197, 303 Gerhard, Johann 265, 265n Gesù Cristo 19, 19n, 153, 156, 158, 161-163, 165, 167, 168, 174, 175, 177, 178, 183, 184, 187-189, 193, ckermann, Johann Peter 289-291 197, 233, 238, 243, 249, 250, 262n, 293-295, 297, Eckhart (Meister) 38, 39, 264, 265, 311, 311n, 313, 298-303, 319, 395, 440 367-387, 395, 415, 418 Geulincx, Arnold 87, 253, 253n Eichhorn, Albert 14n Geyser, Joseph 56 Eisenhuth, Heinz Erich 55 Ghia, Francesco 61 Elia 151 Giacobbe 179, 319, 322 Eliade, Mircea 54, 58 Gibbons, Alan 56 Elsenhans, Theodor 79 Gibellini, Rosino 59 Empereur, James L. 55 Giobbe 168, 246, 248, 260, 261, 289-291, 301, 303 Engel, Eduard 11n Giovanni (Battista) 250, 300 Engel, Johann Jakob 330, 330n Giovanni (Evangelista) 163, 175, 251n, 254, 255, 320 Erasmo da Rotterdam 214, 259 Glasenapp, Helmuth von 56 Eschenmayer, Adam Carl August von 27, 27n Glockner, Hermann 56 Eschilo 224n Gloel, Johannes 47 Eyth, Max 248n Goethe, Johann Wolfgang 51, 86, 86n, 87, 133, Ezechiele 151, 246 133n, 143, 143n, 145, 148n, 159n, 203n, 238n, 254n, 265n, 288-291, 309, 313, 314, 316, 317, 375n, alkenhahn, Willy 54 376, 379n, 416n, 442 Farid ad din ’Attar 310n Gomperz, Theodor 353 Feigel, Friedrich Karl 55 Gooch, Todd A. 13n, 14n, 35n, 56 Fichte, Johann Gottlieb 71, 74, 75, 78, 124, 156, Götze, Johann Melchior 180 214, 329, 367 Gouillard, Jean 53 Filone 174 Graf, Louis G. 56 Filoramo, Giovanni 27 Gregor, Christian 86n Filson, Floyd V. 53 Greisch, Jean 36n, 56 Fischer, Otto 318, 318n Greith, Carl Johann 310n Forell, Birger 49, 56 Greschat, Hans-Jiirgen 56 Foster, Frank Hugh 53 Groenewegen, H. 56 Francesco d’Assisi 327, 382n Grützmacher, Richard H. 56 Frank, Franz Reinhold von 47 Gunkel, Hermann 61 Frank, G. 154n amann, Johann Georg 86, 182n, 192 Frick, Heinrich 56 Fries, Jakob Friedrich 13n, 19, 20-25, 33, 39, 51, 53, Häring, Bernhard 56 66, 69-79, 81, 83, 85-86, 88-89, 92-93, 97, 99- Häring, Theodor 47, 56, 309, 309n 100, 102-103, 109-110, 113, 115n, 118n, 120-121, Harms, Claus 157, 157n, 317, 317n, 335 123-124, 127-128, 134, 136, 138, 144-146, 149-155, Harnack, Adolf 14n, 57 158-159, 163-167, 172-176, 179-180, 184, 187-190, Hartmann, Nicolai 39, 42, 43, 51, 57, 439-447 Harvey, John W. 53, 57 192, 194n, 196, 286, 87, 344n, 398 Haubold, Wilhelm 57 Fritzsche, Otto Fridolin 258n Hauck, Albert 154n Fürst, Eugen 56 Hauer, Jakob Wilhelm 57 adamer, Hans-Georg 20n Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 27, 27n, 71, 77, Gaede, Erich 56 123n, 124, 144, 265, 320, 340, 426n Dilthey, Wilhelm 20, 20n Dionigi Areopagita 257 Dole, Andrew 55 Drehsen, Volker 60 Du Bois-Reymond, Emil 117 Dubey, Shri Prakash 55 Duhm, Bernhard 174, 174n Duns Scoto, Giovanni 258, 259, 320

E

F

H

G

indice dei nomi Heidegger, Martin 11, 55, 60 Heiler, Friedrich 56, 57, 59 Heim, Karl 57 Hellpach, Willy 57 Henke, Ernst Ludwig Theodor 77n Herder, Johann Gottfried 20n, 28n, 56, 85-87, 163, 163n, 171-174, 334 Herrmann, Wilhelm 14n, 26, 48, 188, 194n, 327, 334-336 Herz, Henriette 329 Herz, Marcus 329 Hessen, Johannes 49, 54, 57 Hirschmann, J. B. 57 Hobbes, Thomas 77, 84, 87, 88, 88n, 105 Hölderlin, Friedrich 329 Holm, Sören 37n, 57 Holtzmann, Heinrich 154n Honen 368, 368n Howard, Wilbert Francis 57 Hui-Neng 367, 367n Humboldt, Wilhelm von 340 Hume, David 21, 71, 90, Husserl, Edmund 93, 93n

I

dinopulos, Thomas 57, 58 Isaia 27, 177, 197, 218, 229, 231, 235, 237, 242, 245, 303 Ishida, Hidemi 57

Jacobi, Friedrich Heinrich 71, 74-75, 79, 85, 155,

182n Jacobi, Johann Georg 182n James, William 55, 58, 77n, 208n, 214n, 222, 231n, 382 Jemolo, Arturo Carlo 12n Jülischer, Adolf 57 Jundt, André 53, 57

K

451

Klein, Tim 311 Klopstock, Friedrich Gottlieb 20n Kluge, Friedrich 20n Köberle, Adolf 57 König, Gert 74 Kotzebue, August von 155n Kraatz, Martin 57 Kümmel, Werner Georg 57 Küssner, Karl 57

Lanczkowski, Günter 38n, 58

Land, Jan Pieter Nicolaas 253n Lang, Andrew 277 Lange, Ernst 217, 218, 221n Lao Tse 319n Laplace, Pierre-Simon de 117 Lattanzio 214n, 258, 265 Lattke, Michael 58 Lavater, Johann Caspar 86, 154n, 192 Lazarus, Moritz 340, 340n Leeuw, Gerardus van der 38n, 58 Lehmann, Walter 58, 386-387 Leibniz, Gottfried Wilhelm 21, 44, 71, 76-77, 83, 86-88, 98n, 105, 110n, 117, 117n, 251, 270n, 446 Lemaître, Auguste-Antoine 58 Lessing, Gotthold Efraim 21, 83-84, 173, 180, 330n Leverrier, Urbain Jean Joseph 116n Levin Varnhagen, Rahel 329, 329n Linde, Gesche 61 Lindemann, Ferdinand 110n Lindemann, Lisbeth 110n Linden, Albert van der 289n Lindenau, Max 324n Linderholm, Emanuel 53 Link, W. 58 Locke, John 21, 84-85, 87 Loesche, G. 58 Löhr, Gebhard 58 Lombardo-Radice, Giuseppe 45, 73n, 269n Loofs, Friedrich 14n Lotze, Rudolf Hermann 398 Lüdemann, Gerd 14n, 58 Ludwig, Th. 58 Lunn, Brian 53 Lutero (Martin Luther) 10, 13-23, 32, 34n, 42, 44, 84-88, 124, 137, 140, 155, 160, 165, 178, 202, 210, 214, 238, 257-265, 282, 308-309, 312-313, 317, 320, 323-324, 327, 368, 374, 389, 395, 439

amper, Dietmar 57 Kant, Immanuel 20n, 21, 23, 24, 24n, 27n, 31, 35n, 45, 47, 53, 68-76, 79, 84-95, 97, 97n, 99-103, 105, 109, 109n, 119-122, 127, 132, 136, 137, 140, 147, 149n, 153, 156, 157, 160, 164-167, 179, 189, 192, 196, 205, 225, 237, 269, 269-271, 287, 288, 328, 329, 367, 397-398, 405, 408, 411-412, 419420, 422-423, 425-426, 432-433, 436-437 Kattenbusch, Ferdinand 57, 154n Kepler, Johannes (Keplero) 98 Kiefer, Otto 324n Kiesewetter, Johann Gottfried Carl Christian alebranche, Nicolas 87 73 Maometto 198, 238 Kipling, Rudyard 367

M

452

indice dei nomi

Marcione 324 Marett, Robert Ranulf 310n, 359, 391 Martinetti, Pietro 58 Marty, Martin E. 58 Masefield, Peter 54 Masius, Hermann 148n Mathieu, Vittorio 45, 73n, 269n Mayer, E. W. 58 Melanchthon, Philipp (Melantone) 124 Meland, Bernard E. 58 Mendelssohn, Felix 242 Mendelssohn, Moses 330 Menditti, Concetta 58 Mensching, Gustav 38n, 58 Merkur, Dan 58 Michaelis (Böhmer), Caroline 330 Michaels, Axel 54 Michea 443n Minney, Robert 58 Moore, John M. 56, 58 Moritz, Karl Philipp 330, 330n Mosè 174, 243, 245, 319, 322 Mozart, Wolfgang Amadeus 147 Mulert, Hermann 58 Müller, Friedrich Karl 58 Musäus, Johann Karl August 359n

Pavet de Courteille, Abel 310n Payne, Richenda C. 53 Peerman, Dean G. 58 Penzo, Giorgio 59 Pfennigsdorf, Emil 59 Pfister, Friedrich 366n Pfleiderer, Georg 27n, 59 Pietro (apostolo) 229, 232, 294-295, 417 Platone 102, 102n, 115, 131, 145, 177, 193, 257-258, 281, 353-354, 371, 377 Plotino 257, 311, 324 Pöhlmann, Horst Georg 124n Poincaré, Henri 110n Poland, Lynn 59 Pordage, John 265n Posselt, H. 59 Prades, José A. 59 Prenter, Regin 59 Pünjer, Bernhard 310, 310n Pyra, Jakob Immanuel 28n

Raffaello 237

Rāmānuja 45, 48, 53, 373n, 373, 377n, Raphael, Melissa 59 Ratschow, Carl Heinz 59 Raueiser, Stefan 59 Rava, Marcella 59 apoleone Bonaparte 290 Razzotti, Bernardo 59 Nelson, Leonard 19, 20, 48, 74n, 78n, 79, 434n Récéjac, Edouard 214n Newton, Isaac 23, 25, 87, 89, 98 Reeder, John P. 59 Niccoli, Mario 12n Reimer, Georg 335n Nicolai, Friedrich Christoph 330, 330n Reischle, Max 14n, 59 Nietzsche, Friedrich 27n, 429n Reißinger, Th. 53 Novalis (Georg Friedrich Reupke, Katharine 47 Philipp von Hardenberg) 329, 377n Reymond, B. 59 Nuovo, Victor 84n Rilke, Rainer Maria 216n Nygren, Anders 58, 59 Ritschl, Albrecht 14, 14n, 47, 179, 212, 231, 254, Nygren, Gotthard 58 320 Röhr, Heinz 59 mero 117, 239 Rollmann, Hans 59 Österreich, T. K. 59 Rousseau, Jean-Jacques 21, 75, 84-86, 165 Otto, Wilhelm 47 Rückert, Friedrich 381, 381n Outka, Gene 59 Rûmî, Jalâl ad-Dîn 367, 381n aolo di Tarso 123n, 175, 177, 222, 232, 246, 250- Ryba, Thomas 35n, 59 254, 262-263, 297, 300, 323, 327 and, Karl Ludwig 155n Papmehl-Rüttenauer, Isabella 28n Sarma, Sibnath 59 Paracelso 265 Schaeder, Hans-Heinrich 59 Parker, Theodor 231n Scheler, Max 27-28, 39-42, 59, 424, 424n, 431 Paton, Herbert James 35n, 59 Schell, H. 60 Paton, William 59 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph 71, 74n, Paus, Ansgar 20n, 25n, 28n, 37n, 59

N

O P

S

indice dei nomi 75, 78-79, 116-117, 123-124, 153, 157-160, 163, 167, 329-330 Schiller, Johann Cristoph Friedrich 71, 74, 86, 127, 165, 167, 265n, 288n, 290, 322, 322n, 426, 426n, Schilling, Werner 60 Schinzer, Reinhard 9n, 19n, 60 Schlamm, Leon 60 Schlegel, August Wilhelm von 329 Schlegel, Friedrich von 157, 329 Schleiermacher, Friedrich Daniel Ernst 329 Schlosser, Johann Georg 151, 149n Schmid, Heinrich Johann Theodor 52, 78, 78n Schmidt, P. Wilhelm 60, 277n Schmidt-Japing, Johann Wilhelm 60 Schnack, Ingeborg 54, 57 Schneider, Jörg 60 Scholz, Heinrich 27n, 59, 60 Schopenhauer, Arthur 91, 214, 315 Schröder, Martin 14n, 58 Schröter, August Wilhelm Ferdinand 123n Schröter, F. 60 Schultheß, Johann Georg 330n Schultz, Hermann 14n, 47 Schulz, Walther 60 Schuster, Hermann 60 Schütte, Hans-Walter 9n, 13n, 18n, 35n, 60 Schwartz, Detlef 60 Seeberg, Rudolf 47, 60 Seifert, Paul 60 Sequeri, Pierangelo 60 Seuse, Heinrich 228, 235n, 264, 271, 271n Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper 105 Shinran 368, 368n Shreiner, Olive 311n Siegfried, Theodor 51, 60, 439n, 441n, 446n Silesius ( Johann Scheffler) 313 Siren, Oswald 317, 318n Smart, Ninian 54, 60 Smend, Rudolf 47, 174, 174n Socrate 77n, 281-283 Söderblom, Nathan 28-29, 48, 244, 310n, 391 Sofocle 224, 313n Sommer, Johann Wilhelm Ernst 60 Spamer, Adolf 311 Spener, Philipp Jacob 263, 263n Spinoza, Baruch 21, 83-84, 87-88, 91, 118, 251 Splett, Jörg 60 Stähelin, Rudolf 154 Stazio, Publio Papinio 363n Steinthal, Heymann 340, 340n

453

Strauss, Leo 60 Streetman, Robert F. 61 Sulze, Emil 61 Sulzer, Johann Georg 330n Süßmilch, Johann Peter 330, 330n

T

agliapietra, Andrea 61 Taube, Arnold 61 Tauler, Johannes 262 Tersteegen, Gerhard 154n, 211, 211n, 219, 241, 241n, 311 Teresa d’Avila 218n, 387 Terrin, Aldo Natale 10n, 61 Tertulliano 185 Thimme, Karl 47 Tholuck, Friedrich August Gottreu 66, 153, 161n, 191-194 Thomson, Arthur J. 53 Tieck, Ludwig 329 Tillich, Paul 11, 11n, 61 Tommaso d’Aquino 105, 390, 395 Tribuljak, Tomislav 10n, 61 Troeltsch, Ernst 10n, 11, 13, 21n, 32, 37n, 47, 48, 54, 55, 56, 61 Turner, Harold Walter 61 Tymieniecka, Anna Teresa 59 Tyrrell, George 265

Ugo di San Vittore 229n Uhland, Ludwig 318n

Vannini, Marco 38n, 53

Vattimo, Gianni 20n Veit, Dorothea 329 Vela, Fernando 53 Voltaire (François-Marie Arouet) 21, 84

W

eber, Edmund 61 Weber, H. E. 61 Weber, Max 353 Weber, Otto 58 Wellhausen, Julius 153, 174, 174n, 297 Wette de, Wilhelm Martin Leberecht 13n, 66, 69, 71, 74n, 77-78, 150, 150n, 153-199, 286-287, 340, 340n Wiebe, Donald 54 Wiegand, Adelbert 154n Wilhelm, Richard 319n Wobbermin, Georg 27n, 48, 59, 61, 208n Wolf, Eugen 317n Woolf, Bertram L. 53

454

indice dei nomi

Worringer, Wilhelm 318, 318n inzendorf, Nikolaus Ludwig von 75n, 154n, Wulf, Christoph 57 335, 359 Wundt Wilhelm 7, 29-30, 32, 52, 56, 210, 274, Zscharnack, Leopold 61 310n, 339-366, 427, 427n Zwingli, Huldrych 252 Yonan, Edward 57, 58

Z

co m p osto in ca r atte re da n te monotype dalla fa b rizio se rr a e dito re, pisa · roma. sta m pato e ril e gato nella t i p o g r a fia di ag na n o, ag nano pisano (pisa).

* Febbraio 2010 (c z 2 · f g 1 3 )

Biblioteca dell’«Archivio di filosofia» Fondata da Marco M. Olivetti 1. Stefano Semplici, Socrate e Gesù. Hegel dall’ideale della grecità al problema dell’Uomo-Dio, 1987, pp. 160. 2. Francesco Paolo Ciglia, Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Levinas, 1988, pp. 236. 3. Irene Kajon, Ebraismo e sistema di filosofia in Hermann Cohen, 1989, pp. 192. 4. La recezione italiana di Heidegger, a cura di M. M. Olivetti, 1989, pp. viii-604. 5. L’argomento ontologico, a cura di M. M. Olivetti, 1990, pp. 766. 6. Stefano Semplici, Dalla teodicea al male radicale. Kant e la dottrina illuminista della «giustizia di Dio», 1990, pp. 320. 7. Alberto Iacovacci, Idealismo e Nichilismo. La «lettera» di Jacobi a Fichte, 1992, pp. 176. 8. Religione, Parola, Scrittura, a cura di M. M. Olivetti, 1992, pp. 560. 9. La storia della filosofia ebraica, a cura di I. Kajon, 1993, pp. xvi­-548. 10. Pierluigi Valenza, Reinhold e Hegel. Ragione storica e inizio asso­ luto della filosofia, 1994, pp. 312. 11. Filosofia della rivelazione, a cura di M. M. Olivetti, 1994, pp. 994. 12. Trascendenza Trascendentale Esperienza, a cura di G. Derossi, M. M. Olivetti, A. Poma, G. Riconda, 1995, pp. 600. 13. Irene Kajon, Profezia e filosofia nel Kuzari e nella Stella della redenzione. L’influenza di Yehudah Ha-Lewi su Franz Rosenzweig, 1996, pp. 152. 14. Philosophie de la religion entre éthique et ontologie, a cura di M. M. Olivetti, 1996, pp. 832.

15. Enrico Castelli, Diari, a cura di E. Castelli Gattinara Jr., vol. i (1923-1945), 1997, pp. xxx-650, ill. f.t. 8. 16. Vol. ii (1945-1948), 1997, pp. viii-716. 17. Vol. iii (1949-1955), 1997, pp. viii-764. 18. Vol. iv (1956-1976), 1997, pp. viii-784. 19. Incarnation, a cura di M. M. Olivetti, 1999, pp. 748. 20. Francesco Paolo Ciglia, Scrutando la «Stella». Cinque studi su Rosenzweig, 1999, pp. 192. 21. Pierluigi Valenza, Logica e filosofia pratica nello Hegel di Jena, 1999, pp. 428. 22. Stefano Bancalari, L’altro e l’esserci. Il problema del Mitsein nel pensiero di Heidegger, 1999, pp. 256. 23. Martin Heidegger, Colloquio sulla dialettica, a cura di Mauro Vespa, 1999, pp. 80. 24. Friedrich Heinrich Jacobi, Woldemar, a cura di Serenella Iovino, 2000, pp. 340. 25. Mauro Vespa, Heidegger e Hegel, 2000, pp 260. 26. Intersubjectivité et théologie philosophique, a cura di M. M. Olivetti, 2001, pp. 828. 27. Richard Swinburne, Esiste un Dio? 2001, pp. 132. 28. Stefano Semplici, Il soggetto dell’ironia, 2002, pp. 256. 29. Théologie négative, a cura di M. M. Olivetti, 2002, pp. 884. 30. Bernhard Casper, Evento e preghiera, a cura di S. Bancalari, 2003, pp. 172. 31. Pierluigi Valenza, Oltre la soggettività finita. Morale, religione e linguaggio nella filosofia classica tedesca, 2003, pp. 200. 32. Man and God in Hermann Cohen’s Philosophy, ed. by G. Gigliotti, I. Kajon, A. Poma, 2003, pp. 312 + 4 ill. f.t.

33. Stefano Bancalari, Intersoggettività e mondo della vita. Husserl e il problema della fenomenologia, 2003, pp. 196. 34. Le don et la dette, textes réunis par Marco M. Olivetti, 2004, pp. 610. 35. K. L. Reinhold. Am Vorhof des Idealismus, hrsg. von Pierluigi Valenza, 2005, pp. 380. 36. Le Tiers, a cura di Marco M. Olivetti, 2006, pp. 596. 37. Emanuela Pistilli, Tra dogmatismo e scetticismo. Fonti e genesi della filosofia di F. H. Jacobi, 2007, pp. 232. 38. R  udolf Otto, Opere, a cura di Stefano Bancalari, 2010, pp. 464.

Archivio di FilosoFIa la rivista dal 1945 si pubblica in numeri monografici La crisi dei valori, 1945, pp. 176. L’esistenzialismo, 1946, pp. 240. Il problema dell’immortalità, 1946, pp. 184. Leibniz, 1947, pp. 108. Umanesimo e machiavellismo, 1949, pp. 208. Esistenzialismo cristiano, 1949, pp. 160. Filosofia e linguaggio, 1950, pp. 132. Il Solipsismo. Alterità e comunicazione, 1950, pp. 148. Testi umanistici inediti sul «De Anima», 1951, pp. 228. Fenomenologia e sociologia, 1951, pp. 144. Il compito della metafisica, 1952, pp. 130. Filosofia e psicopatologia, 1952, pp. 190. Filosofia dell’arte, 1953, pp. 246. Kierkegaard e Nietzsche, 1953, pp. 282. Testi umanistici su la retorica, 1953, pp. 160. La filosofia della storia della filosofia, 1954, pp. 276. Apocalisse e Insecuritas, 1954, pp. 186. Testi umanistici sull’ermetismo, 1955, pp. 164. Studi di filosofia della religione, 1955, pp. 240. Semantica, 1955, pp. 436. Metafisica ed esperienza religiosa, 1956, pp. 300. Filosofia e simbolismo, 1956, pp. 310, tav. fuori testo i. Il compito della fenomenologia, 1957, pp. 278. La filosofia dell’arte sacra, 1957, pp. 212. Il tempo, 1958, pp. 252. Umanesimo e simbolismo, 1958, pp. 320, tavv. fuori testo xxxii. Tempo e eternità, 1959, pp. 200. La diaristica filosofica, 1959, pp. 256. Husserliana. Tempo e intenzionalità, 1960, pp. 204. Umanesimo e esoterismo, 1960, pp. 448, tavv. fuori testo xxiii. Il problema della demitizzazione, 1961, pp. 336. Filosofia della alienazione e analisi esistenziale, 1961, pp. 250. Demitizzazione e immagine, 1962, pp. 352. Pascal e Nietzsche, 1962, pp. 218. Ermeneutica e tradizione, 1963, pp. 450. Umanesimo e ermeneutica, 1963, pp. 164.

Tecnica e casistica, 1964, pp. 373. Cusano e Galileo, 1964, pp. 128. Demitizzazione e morale, 1965, pp. 440. Surrealismo e simbolismo, 1965, pp. 156. Logica e analisi, 1966, pp. 104. Mito e fede, 1966, pp. 586. Filosofia e informazione, 1967, pp. 152. Il mito della pena, 1967, pp. 484. Il problema della domanda, 1968, pp. 176. L’ermeneutica della libertà religiosa, 1968, pp. 646. Campanella e Vico, 1969, pp. 204. L’analisi del linguaggio teologico. Il nome di Dio, 1969, pp. 552. Il senso comune, 1970, pp. 188. L’infallibilità. L’aspetto filosofico e teologico, 1970, pp. 628. Ermeneutica e escatologia, 1971, pp. 294. Rivelazione e storia, 1971, pp. 260. Significato e previsione, 1971, pp. 204. La testimonianza, 1972, pp. 536. Informazione e testimonianza, 1972, pp. 158. Il simbolismo del tempo. Studi di filosofia dell’arte, 1973, pp. 188, ill. f.t. 76. Demitizzazione e ideologia, 1973, pp. 596. La filosofia della storia della filosofia. I suoi nuovi aspetti, 1974, pp. 348. Il sacro. Studi e ricerche, 1974, pp. 494. Prospettive sul sacro, 1975, pp. 236. Temporalità e alienazione, 1975, pp. 496. Schelling, 1976, pp. 186. Ermeneutica della secolarizzazione, 1976, pp. 504. Prospettive sulla secolarizzazione, 1977, pp. 148. L’ermeneutica della filosofia della religione, 1977, pp. 486. Lo spinozismo ieri e oggi, 1978, pp. 410. Religione e politica, 1978, pp. 414. Indici degli Atti dei convegni romani sulla demitizzazione e l’ermeneutica (1961-1977), 1979, pp. 296. Il pubblico e il privato, 1979, pp. 280. Esistenza Mito Ermeneutica, 1980 (2 voll.), pp. 448, 506. Filosofia e religione di fronte alla morte, 1981, pp. 564. Nuovi studi di filosofia della religione, 1982, pp. 352. Indici 1931-1981, 1982, pp. 210. Neoplatonismo e religione, 1983, pp. 480. Schleiermacher, 1984, pp. 652. Ebraismo Ellenismo Cristianesimo, 1985 (2 voll.), pp. 392, 484. Intersoggettività Socialità Religione, 1986, pp. 812.

Etica e pragmatica, 1987, pp. 508. Teodicea oggi?, 1988, pp. 724. La recezione italiana di Heidegger, 1989, pp. xii-672. L’argomento ontologico, 1990, pp. 796. Studi di filosofia tedesca, 1991, pp. 424. Religione, Parola, Scrittura, 1992, pp. 600. La storia della filosofia ebraica, 1993, pp. xvi-548. Filosofia della rivelazione, 1994, pp. 994. Trascendenza Trascendentale Esperienza, 1995, pp. 600. Filosofia della religione tra etica e ontologia, 1996, pp. 896. Enrico Castelli. Diari: 1997, Vol. I (1923-1945), pp. xxx-650, ill. f.t. 8. Vol. II (1945-1948), pp. viii-716. 1998, Vol. III (1949-1955), pp. viii-764. Vol. IV (1956-1976), pp. viii-784. Incarnazione, 1999, pp. 768. Heideggeriana, 2000, pp. 352. Intersoggettività e teologia filosofica, 2001, pp. 828. Teologia negativa, 2002, pp. 884. Unità della coscienza e unicità di Dio in Hermann Cohen, 2003, pp. 512+4 ill. f.t. Il dono e il debito, 2004, pp. 610. K. L. Reinhold. Alle soglie dell’idealismo, 2005, pp. 380. Le Tiers, 2006, pp. 596.

F A BRIZ I O S E RRA E D I TO RE Pisa · Roma www.libraweb.net

Fabrizio Serra

Regole editoriali, tipografiche & redazionali Seconda edizione Prefazione di Martino Mardersteig · Postfazione di Alessandro Olschki Con un’appendice di Jan Tschichold Dalla ‘Prefazione’ di Martino Mardersteig

O

[…] ggi abbiamo uno strumento […], il presente manuale intitolato, giustamente, ‘Regole’. Varie sono le ragioni per raccomandare quest’opera agli editori, agli autori, agli appassionati di libri e ai cultori delle cose ben fatte e soprattutto a qualsiasi scuola grafica. La prima è quella di mettere un po’ di ordine nei mille criteri che l’autore, il curatore, lo studioso applicano nella compilazione dei loro lavori. Si tratta di semplificare e uniformare alcune norme redazionali a beneficio di tutti i lettori. In secondo luogo, mi sembra che Fabrizio Serra sia riuscito a cogliere gli insegnamenti provenienti da oltre 500 anni di pratica e li abbia inseriti in norme assolutamente valide. Non possiamo pensare che nel nome della proclamata ‘libertà’ ognuno possa comporre e strutturare un libro come meglio crede, a meno che non si tratti di libro d’artista, ma qui non si discute di questo tema. Certe norme, affermate e consolidatesi nel corso dei secoli (soprattutto sulla leggibilità), devono essere rispettate anche oggi: è assurdo sostenere il contrario. […] Fabrizio Serra riesce a fondere la tradizione con la tecnologia moderna, la qualità di ieri con i mezzi disponibili oggi. […]

*

Dalla ‘Postfazione’ di Alessandro Olschki

Q

[…] ueste succinte considerazioni sono soltanto una minuscola sintesi del grande impegno che Fabrizio Serra ha profuso nelle pagine di questo manuale che ripercorre minuziosamente le tappe che conducono il testo proposto dall’autore al traguardo della nascita del libro; una guida puntualissima dalla quale trarranno beneficio non solo gli scrittori ma anche i tipografi specialmente in questi anni di transizione che, per il rivoluzionario avvento dell’informatica, hanno sconvolto la figura classica del ‘proto’ e il tradizionale intervento del compositore.

Non credo siano molte le case editrici che curano una propria identità redazionale mettendo a disposizione degli autori delle norme di stile da seguire per ottenere una necessaria uniformità nell’ambito del proprio catalogo. Si tratta di una questione di immagine e anche di professionalità. Non è raro, purtroppo, specialmente nelle pubblicazioni a più mani (atti di convegni, pubblicazioni in onore, etc.) trovare nello stesso volume testi di differente impostazione redazionale: specialmente nelle citazioni bibliografiche delle note ma anche nella suddivisione e nell’impostazione di eventuali paragrafi: la considero una sciatteria editoriale anche se, talvolta, non è facilmente superabile. […]

2009, cm 17 × 24, 220 pp., € 34,00 isbn: 978-88-6227-144-8

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