Apocalypso disco. La rave-o-luzione della post techno
 9788895029696

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| Riccardo Balli

apocaly La rave-o-luzione della post techn

cn

2013, Agenzia X

Copertina e progetto grafico Antonio Boni

Contatti Agenzia X, via Giuseppe Ripamonti 13, 20136 Milano tel. + fax 02/89401966 www.agenziax.it e-mail: [email protected] facebook.com/agenziax twittercom/agenziax Stampa

Digital Team, Fano (PU)

ISBN 978-88-95029-69-6 XBook è un marchio congiunto di Agenzia X e Mim Edizioni srl, distribuito da Mim Edizioni tramite PDE

Hanno lavorato a questo libro...

Marco Philopat — direzione editoriale Pablito El Drito — editor Paoletta “Nevrosi” Mezza — coordinamento editoriale Daniele Ferriero — traduzioni

Riccardo Balli

la rave”o-luzione della post techno

apocalypso

Per Franco Balli

Introduzione Stewart Home

Calypso apoplettico

di

Follia per sette ghettoblaster

eZ

(remix letterario da Philip K. Dick)

Ciò che chiamammo

techno

LA

Dead By Dawn 1995

Sampledelia Il vinile: la Grande opera (remix / misteri delle cattedrali di Fulcanelli)

Il vinile: la Grande opera / parte 2 (remix Le dimore filosofali di Fulcanelli)

Come si cura il gabber Ralph Brown

Christoph Fringeli Marcin Stefanski (Slepcy)

104

Daniel Erlacher

Sansculotte Distribuzione

121

4, 8, 16 o 32 bit? Questo è il dilemma...

133

Micropupazzo

141

Lebensborn

152

mashup

La psy-trance in Italia

intervista all'antropologo Graham St. John

162

Il sincretismo fonomagico di RXSTNZ Records

182

| Paolo Magaudda

Introduzione Stewart Home

Per quafito mi riguarda il rock and roll era bello che finito già all’inizio degli anni ottanta. A Londra, durante la prima metà di quella decade, le sonorità più interessanti che ascoltavo arrivavano per la maggior parte dagli Stati Uniti e si trattava esclusivamente di groove dance: electro e hip hop, all’inizio, principalmente da New York; go go da Washington DC; house da Chicago; techno

da Detroit. Ricordo di essere andato da Bow, nell’East End, per il party del May Day 1985 e uno dei ragazzi che ospitava la festa era appena stato in America dove aveva comprato molti vinili. Tralasciando le casse piene di rare groove recuperate dai vari

magazzini, aveva anche spedito indietro molta musica house. Fu la prima volta che sentii la house di Chicago e mi fece uscire totalmente di testa. Era tutto un BUM BUM in 4/4. Spumeggianti ondate di musica dance provenienti da ogni parte del mondo iniziarono ad abbattersi sulle coste inglesi rinfrescando il panorama sonoro del Regno Unito. Seguendo i flussi, mi ritrovai negli anni novanta a partecipare ad eventi quali Dead By Dawn al 121 Centre a Brixton. Stavo sentendo di nuovo qualcosa di così spaventosamente innovativo da profumare di utopia. Iniziai ad ascoltare i 12” che uscivano per etichette quali Praxis e Ambush e allo stesso tempo scoprivo anche cose quali i live di Nomex. Non sempre conoscevo granché di quanto ascoltavo. Semplicemente andavo a scoprire i suoni e le feste. Tuttavia adesso abbiamo entrambi nelle nostre mani l'eccezionale e groovy Apocalypso disco per spiegarci cos'è capitato al suono underground a partire

dall’inizio di quella massiccia esplosione techno. Certamente sarebbe impossibile rappresentare ogni cosa in un libro — e dunque

avremo bisogno di un volume a seguire, o magari tre — ma in queste pagine c’è abbastanza per darmi una massiccia erezione! Sì, davvero, i break industriali mi fanno ancora eccitare!

Visitare Valencia qualche giorno fa ha rinforzato la mia opinione di lungo corso per la quale le comunità che sfornano le culture musicali che amiamo sono persino più importanti dei suoni che andiamo a scoprire. Molti di quelli incontrati a Valencia hanno parlato con entusiasmo e un po’ di nostalgia di Ruta del Balakao AKA Ruta Destroy. Nel 1990 Valencia era il centro della cultura rave in Spagna. Molti club illegali erano aperti durante il weekend nell’area sud della città. Fare festa per due o tre giorni consecutivi implicava un massiccio uso di droga — e leggende metropolitane dicono ci siano ancora molti corpi, un sacco di soldi e anche droghe, nascosti nel bosco che collega i villaggi dove i rave avevano luogo. Dunque benché le discoteche illegali in posti quali El Saler siano ben conosciuti, c'è un’intera storia collegata che non sembra essere stata degnamente documentata, incluse le accuse agli ufficiali comunali di aver ricevuto tangenti per chiudere un occhio sui club. Questo è parte di un messaggio che ricevetti da un'amico cresciuto vicino a Valencia intorno a quegli anni: “I novanta furono tempi matti in Spagna... Molti tra imiei amici morirono o

finirono in galera... Ma ogni cosa è cominciata negli anni ottanta,

a dirla tutta... Avevo l'abitudine di passare i miei weekend a El Saler e Les Palmeretes e finirli a La Malvarrosa. Mi avvicinavo alla spiaggia solo dopo il tramonto e all'alba... Lo amavo perché in un attimo passavi dal trovarti in un club pieno di persone, un po claustrofobico, e il momento dopo a passeggiare verso il mare...”. La scena di Valencia era molto diversa da Londra o persino Ibiza — benché ovviamente ci fossero legami. A causa della repressione sotto Franco, la Spagna non ha avuto modo di swingare a dovere negli anni sessanta, a differenza di Londra, ed è un cliché

dire che i giovani hanno avuto i loro anni sessanta negli ottanta (benché poi il tutto sia andato avanti fino ai novanta). Immagino sia la ragione per la quale quando guardi cosa dice la tv spagnola

Licantropo o breakcore producer? Zombieflesheater!!!

(Marco Microbi, photophunk.com)

a proposito di Ruta del Bakalao finisce per sembrarmi un quasi incredibile ed effervescente ibrido di mod e punk ma con una colonna sonora diversa, una colonna sonora techno!

Qualcosa di molto simile può essere detto a proposito delle sperimentazioni sonore incredibilmente strane e brillantemente fuori di testa trattate dal libro che tenete in mano. Dunque se questo tomo e la musica che esplora non vi rende tanto eccitati quanto un panda gigante in calore, siete dei vetero senza speranze che non muoverebbero il culo nemmeno se gli spara un cecchino ceceno con un ak47 — figurati cosa può fare un pezzo bomba, una killer track! Ma per quanti di noi che sanno come godere,

Apocalypso disco è il libro che tutti stavamo aspettando! London, aprile 2013

CONT I

cegnie helligeranza

I Se pcoris 2000/2010

MASCARELLA, 24/B DALLE 1930 SONO PREVISTE VARIE SESSIONI

Calypso apoplettico

Il dancefloor è una lente di ingrandimento del sociale che riproduce sonicamente quelle che sono le contaminazioni, ma anche le intolleranze, la violenza e l’ipercineticità dello sprawl post urbano. Intimamente connesso con la politica — intesa in senso allargato come scienza che regola ogni forma di interazione sociale — rappresenta un campo di osservazione privilegiato per

indagare alcune dinamiche post ideologiche e allo stesso tempo una bussola di orientamento nella navigazione psicogeografica della megalopoli. Pochi altri artefatti culturali ci restituiscono una visione così esaustiva e fisica dell’esperienza della vita nei nuclei urbani all’alba del terzo millennio, quanto una traccia di musica dance sperimentale, con i tic percussivi mimetici dei ritmi schizzati lavoro/tempo libero imposti dal general (dj) intellect. Con le nostalgie di synth a 8 bit che fanno eco alla miriade di jingle digitali (dal suono della sveglia delle otto del mattino, alla segnaletica acustica digitale in una fantastica giornata online su smartphone). Con le accelerazioni in 4/4 speedcore audioparallele alle nostre rincorse per prendere l’ultima metro ecc. L’altro giorno ero in bici in una zona periferica di Bologna, un esempio tipico di nucleo urbano europeo con terziario avanzato. Le ritmiche di sorpasso, avanzamento, stop freneti-

co, la successione di clacson, sirene, crash nevrastenici, senso

del pericolo forniti da un'esperienza così comune come una pedalata nel traffico della propria città di nascita sono a livello percettivo esattamente gli stessi che avevo provato la sera 11

prima selezionando il brano The Point of No Return di Base Force One (Praxis 27, 12”), sovrapposti a delle registrazioni di squittii di topi. Ecco, è già entrata in campo l’autofiction che avrà un certo peso in questo testo. Apocalypso è una miscela di saggistica musicale, esperimenti letterari di fiction sonica come remix letterari e riscritture tematizzate all’audio. Interviste con per-

sonaggi chiave, oralità varia e diffusa che Simon Reynolds ha avuto il pregio di sdoganare come nuova forma di critica musicale, e infine qualche elemento narrativo tratto dalle mie esperienze personali. Vorrei chiarire meglio il punto dell’elemento autobiografico inserito in questo lavoro. Da sempre sono piuttosto restio a

esibirlo e in genere non mi interessa leggere di “altri punx”. Mi interessa il mio “essere punk”. Punto e basta. Tuttavia l’incontro con Agenzia X e le sue metodologie di indagine orale sulle controculture (77 pr:7725s l’oralità dei lavori di Marco Philopat), ma anche l’io narrante, “esperienziale”, caratteristico di altri autori del collettivo, è stato elemento es-

senziale per sciogliere questa mia rigidità, rendendomi conscio della potenzialità epistemologica del racconto in prima persona. La mia esperienza di “belligerante sonico” va considerata dunque essenzialmente come indagine sul campo, in un senso nemmeno troppo lontano da quello che la sociologia accademica insegna.

Anche perché ho sempre cercato di accompagnare la mia attività di dj/produttore con quella della scrittura, fosse essa il comunicato stampa di una nuova release, la recensione di un disco, un flame di risposta sul forum della scena c8.com o i 140 caratteri dal mio account su Twitter @dj_Balli. L'ho sempre fatto, cercando il linguaggio mimetico della complessità del suono in cui sono immerso, abusando di tecniche

di scratch linguistico, come i neologismi futuritmacchina, fonomotori, scratchadelia, conceptechnics 1200 ecc. E distillando ni)

audio-idee come fiction sonica, schizofonia, turntablization

(letteralmente “giradischizzazione”, il concetto di mettere tutti i suoni ipotizzabili su vinile al fine di utilizzarli per lo scratch). Infatti la scrittura e il djing hanno molte cose in comune: sono entrambi strumenti di sintetizzazione della realtà esistente da una parte e di forgiatura di mondi nuovi dall’altra. Il suono lo è poi in modo emotivamente unico: cortocircuita la raziorfalità come nessun altro medium espressivo, infatti è molto stimolante far seguire alla scrittura, percorsi sonici con ricadute fisiche dirette come quelli causati dalla musica dance. Apocalypso disco è anche il frutto di questa gara tra djing e scrittura.

Oltre a questo binomio formale, è possibile rintracciarne un altro, essenziale rispetto ai contenuti e al senso dell’intera operazione editoriale: quello tra indagine del dancefloor come attrattore di conflittualità sociale e analisi storica degli innumerevoli stili musicali (fonoparticelle) in cui l'atomo TECHNO si è scisso. Procedendo con la ricerca sul campo in questi ambiti solo apparentemente separati, mi sono reso conto di quanto

questi due nuclei tematici, uno sociologico e l’altro prettamente di critica musicale, fossero in realtà indissolubilmente legati. Il punto di partenza del libro è l’eclettismo sonico, la rottura dei codici di genere nella dance, elementi che vanno di pari passo con il caricamento di significati altri e con la militanza sul dancefloor. La musica dance elettronica, infatti, ha un carattere essen-

zialmente mimetico, nel senso che si distingue all’interno del mare magnum della produzione culturale per una spiccata componente di strutturazione del cervello del fruitore. Un dato genere o sottogenere forma un brainframe nell’ascoltatore, quindi un linguaggio, un modo di vestire, di comportarsi. Insomma l’ascolto di certi suoni elettronici comporta la condivisione di un certo mondo. Attraverso una fonogrammatica astratta fatta di beat, hi-hat 13

e bassi iniettati direttamente nell’ipotalamo avviene una sorta di alien abduction, di rapimento alieno della personalità del singolo, ricondotta agli stilemi imposti da una certa sotto/ controcultura celebrata dall’Uao (Unidentified Audio Object) che stiamo ascoltando. È evidente che sovvertire i macrocodici imposti da questi stili musicali, e conseguenti strutturazioni del cervello (mi riferisco ai già citati comportamenti sociali eterodiretti da un dato genere), ha un significato e una ricaduta sulla realtà sociale

dichiaratamente politici. A partire dagli anni novanta, tra dj Cavalieri dell'Apocalisse, sette squilli di tromba downtempo, bassi soffiate di draghi e vinile come strumento principe di veicolazione della rivoluzione culturale, quell’ibrido transgenere politico che abbiamo battezzato “apocalypso disco” inizia a infiammare l'Europa e non solo. Vedremo come. Vorrei evocarlo attraverso la provocatoria riscrittura dell’incipit di un romanzo minore di P.K. Dick. La fiction in questione

è Clans of the Alphane Moon (Follia per sette clan); presenta uno scenario epistemologicamente assai stimolante per indagare la transizione psicosonora nelle metropoli del nostro continente prima che l’Apocalypso si abbattesse su di essa sconvolgendo i suoi compartimenti stagni. Nel libro in questione, ambientato in un futuro prossimo non identificabile, i malati di mente sono deportati sulla luna alfana dove vivono insediati in sette clan, uno per ogni malattia di mente. Ogni colonia sviluppa un proprio linguaggio, codici comportamentali e leggi a seconda della malattia di mente fondante. Questo setting mi è sembrato estremamente funzionale e fertile a livello conoscitivo anche per l’universo della musica elettronica, perciò ho deciso di provare a cimentarmi in un remix letterario per entrare nel vivo di questo libro. Quindi ho sostituito le patologie del romanzo con i generi principali della 14

musica elettronica: i Para sono dunque diventati i Gabber, i Poli i Minimal e via dicendo. Compiuta questa sostituzione-

remix, sono poi risultati necessari degli adattamenti in chiave descrittiva delle sottoculture introdotte (l’abbigliamento, lo slang, la cadenza del passo ecc.) che risultassero funzionali alla narrazione. Il “teorema” che mi interessa dimostrare attraverso questa operazione è

che ogni stile di musica elettronica crea nel fruitore un dato brainframe, ovvero una data

strutturazione del cervello che ha dati risvolti comportamentali: quindi il gabber è rissoso e ignorante, il goano onirico e

vagamente frikketone... Superata questa sorta di anticamera narrativa all’Apocalpyso disco, capiremo meglio la portata sovversiva della violazione dei generi/compartimenti stagni e

soprattutto le ricadute in termini sociali e comportamentali

di tale violazione.

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Philip K. Dick di Bad Trip

Follia per sette ghettoblaster (remix letterario da Philip K. Dick)

Prima di entrare nella sala del Consiglio supremo della colonia francese dei sette clan, Gabriel Baines, come al solito, si fece

precedere dal suo simulacro. Una sua replica impeccabile, uscita dai corsi più aggiornati di security, portava sulla spalla destra un enorme ghettoblaster che sputava fuori ritmiche funky/disco fever anni settanta. Il simulacro si atteggiava e vestiva in maniera esattamente

identica a lui: indossava pantaloni oversize, scarpe da basket alte non allacciate, felpa extralarge e cappellino da baseball. Come lui era un prodigio nelle quattro arti (djing, aerosol, rap e breakdancing). Nel passato Baines si era allontanato molte volte da Parigi, sede del clan Hip Hop e della sala del Consiglio, ma continuava a sentirsi sicuro, o meglio abbastanza sicuro, solo quando si trovava all’interno delle robuste mura della sua città. Una volta fu costretto a recarsi a Nantes, capitale del modaiolo e frivolo clan House, alla ricerca di alcuni housettari i)

fuggiti da una Brigata di lavoro. Aveva dovuto faticare non poco per riconoscerli: laggiù erano vestiti tutti uguali, leccatini

e imbellettati nei loro indumenti esclusivi, melensi stereotipi del fascistico cliché “melodia su cassa in 4/4”. In ogni caso, quel giorno al Consiglio dei delegati di tutti i clan, gli House avevano un loro oratore e Baines, inviato per

rappresentare gli Hip Hopper, si sarebbe trovato in una stanza con uno di loro. Giudicava ben più irritante il rappresentante dei Gabber: come ogni Hip Hopper, Baines era schifato anche solamente dalla vista di quei crani pelati, incorniciati da cappellini calzati alti sulla testa. Riteneva la loro violenza demente e infantile, e i loro miti di

distruzione e terrore lo infastidivano in quanto completamente eterodiretti e farlocchi. Non si tratta infatti di sana rabbia sociale vissuta sulla pelle o di un naturale sfogo dopo una vita di merda nel ghetto, ma di una moda passeggera, che implica l’atteggiarsi da duro a ogni costo e in ogni situazione.

Provò un senso di ribrezzo, pensando in anticipo al suo incontro con Howard Straw, il loro delegato. In quel momento, il suo simulacro fece ritorno con passo strascicato, cadenzato dall’incedere del funky d’annata vomitato dal ghettoblaster: “Yo capo, zero paranoia, tutto ok. Possiamo procedere easy, gli altri fratelli ci seguiranno...”. “C'è qualcuno nella sala?” chiese Baines. “Nessuno” rispose il simulacro “eccetto un House con il suo

tipico sorriso lezioso stampato in faccia”. Baines, preferendo non correre rischi inutili, socchiuse la porta di quel tanto che gli bastava per dare una rapida occhiata all’interno. L’House, un maschio, se ne stava comodamente stravaccato

in uno dei divanetti antistanti il tavolo delle riunioni, con un sorriso smagliante messo ben in risalto dalla camicia di seta color cachi e da quella solita espressione ebete, che senza dubbio lo 18

qualificava come degno rappresentante dell’edonismo vuoto e indirizzato al mercato tipico del suo clan. Baines entrò nella sala del Consiglio seguito dal suo simulacro e raggiunse una sedia. Si sedette a cavalcioni di traverso su di essa, lo sguardo fisso al muro. Con tono stucchevole, l’House gli rivolse immediatamente la

parola: “Ciao, il mio nome è Jacob Simion e sono il rappresentante del clan degli House. Se non sbaglio il tuo look ti dichiara Hip Hopper, non è vero?”, La domanda cadde nel vuoto e fecero seguito una decina di secondi di silenzio tra i due. La porta si aprì d’improvviso e fece il suo ingresso Annette Golding, la delegata del clan Dub/Ragga: tutto il suo corpo, persino i lunghi dreadlock che le nascondevano il volto, si muoveva in modo estremamente lento e sinuoso, come alla moviola.

“Hailé Selassié, che porta al guinzaglio il Leone di Giuda,

saluta il popolo di Jah! Pensavo di essere in ritardo...” mormorò piano. “Per nulla, sorella” rispose in tono deciso, ma cortese Baines,

come a ribadire una fratellanza — quella tra gli Hip Hopper e i Dubber — esistente sin dalla creazione dei sette clan della colonia francese a opera dei Processi di controllo, dopo l’insediamento della società della Distensione psichica. Annette ribatté subito, per tenere viva la conversazione:

“Penso che quest'anno sarà Louis Manfreti a rappresentare il clan Goa/Trance. Già mi immagino i suoi discorsi manichei e gli scenari mistici che i goani ricevono dalle ere più remote. Forze del bene, draghi, luce, positività... Che dire...” — riprese

la Dubber, dopo essersi sincerata dell’attenzione rivoltale da Baines- “anche il mio clan crede in pace e amore come principi fondanti. Ma lo fa come rivendicazione dei diritti che ci sono negati... proprio non riesco a seguire le visioni celestiali dipinte dal clan Goa/Trance”. 19

“Neanche io. Francamente penso che siano tutte minchiate, sorella” rispose perentorio l’Hip Hopper. Nel frattempo apparve sulla porta il delegato Ambient/Minimal, con l’espressione positiva e fiduciosa che contraddistingue i membri di quel clan. “Salve a tutti, mi chiamo Dino Watters e sono un Minimal. Salve a tutti, mi chiamo Dino Watters e sono un Minimal”.

Si presentò secondo i canoni della strutturazione del suo cervello, derivati dall’ascolto di sonorità essenzialmente basate

sulla ripetizione e la prevedibilità. “Prego... entrate e accomodatevi” lo invitò dolcemente Annette, indicandogli una sedia “Io, invece, provengo dal clan

Dub/Ragga”. “Il clan Dub/Ragga, quello su cui il sole batte tutto l’anno, che terra meravigliosa! Il clan Dub/Ragga quello sui cui il sole batte tutto l’anno, che terra meravigliosa!” rispose Watters, ricambiando la dolcezza mostratagli con un cortese sorriso di simpatia.

“E smettila di ripeterti come un nastro inceppato! Non abbiamo tempo da perdere qui, c'è un'emergenza!” ruggì infastidito Baines. AI che Annette, chinatasi verso di lui, gli bisbigliò nell’orec-

chio: “Abbi pazienza Gabe, abbiamo bisogno dell’unione di tutti i clan... L'hai detto tu stesso che ci troviamo in una situazione di pericolo”. All’Hip Hopper i Minimal proprio non piacevano. Gli parevano trincerati in un ottimismo forzato. Sempre e comunque, in qualsiasi condizione, rasentavano

l’idiozia più completa. Quello che più lo faceva andare in bestia era quel ripetersi ossessivo e continuo nei loro gesti, che sfociava in una prevedibilità totale. Senza dubbio avrebbe potuto rispondere lui al posto del Minimal, visto che imembri di questo clan non facevano altro 20

che sputare fuori luoghi comuni e frasi di circostanza, come quella appena pronunciata in risposta ad Annette. In quel momento, rapida come di consueto, fece il suo ingresso nella sala una donna di mezza età che indossava un lungo mantello grigio. Era Ingrid Hibbler, la Junglist. Mormorando fra sé e sé, roteò agilmente due o tre volte intorno al tavolo, dando continui colpetti # ogni sedia. Ne trovò finalmente una che sembrava soddisfarla e vi si sedette in modo scomposto, ruotando i pollici ad alta velocità come se stesse sferruzzando per farsi un invisibile indumento protettivo. “Mi sono scontrata con Straw, al parcheggio” disse, continuando a contare silenziosamente durante le pause del discorso. “Quel Gabber è un individuo odioso. Ha cercato di investirmi con la sua auto. Ho dovuto...” a questo punto si interruppe. “Ma non bisogna preoccuparsi. Solo che è difficile liberarsi dalla sua influenza velenosa.” Provò un brivido lungo la schiena. Quindi parlò Annette, senza rivolgersi a nessuno in particolare: “Se quest'anno il clan Goa/Trance è rappresentato da Manfreti, probabilmente lo vedremo entrare dalla finestra e non dalla porta”. “Perché è stata convocata questa riunione?” chiese la signorina Hibbler, contando velocemente con gli occhi chiusi e le dita che si muovevano con estrema rapidità. “Uno, due. Uno due”. Annette lanciò uno sguardo attento alle persone sedute attorno al tavolo. “Ho ricevuto una strana notizia. È stato segnalato dagli operatori della Dogana elettronica della Normandia un ingresso non autorizzato. Un’unità carica di registrazioni audio illecite proveniente dalla main-land, la società della Distensione psichica. Si tratta di un ex ricercatore del Dipartimento del ritmo, tal prof. Snorri Sturlason. Questo è quanto ho saputo dalle mie fonti”. Mah - rifletté tra sé e sé Baines — un ex ricercatore del Dipartimento del ritmo che contrabbanda sostanze mixadeliche non »

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autorizzate... Straw, il Gabber, deve esserne a conoscenza, visto

che il suo clan ha sede proprio in Normandia ed è probabile che la prima notizia sia trapelata proprio dai suoi uomini... A meno che non sia il frutto della visione allucinata di qualche goano... “Scommetto che è un trucco!” esplose infine l’Hip Hopper ad alta voce. Tutti nella sala si voltarono a guardarlo. Baines incalzò: “I Gabber hanno sempre cercato di ingannarci in qualche modo, per avere un vantaggio rispetto a tutti noi e poterci colpire meglio alle spalle”. “Ma perché dovrebbero farlo?” domandò la signorina Hibbler. Baines continuò nel ragionamento: “Sapete bene che i Gabber odiano tutto — o meglio credono di odiare tutto — persi come sono nel loro qualunquismo dilagante. È frutto del loro Brainframe, della strutturazione del loro cervello causata dall’ascolto

esclusivo di quel genere musicale. Il comportamento sociale che ne deriva è violento e, superficialmente, senza compromessi. Infatti in realtà il loro estremismo, vuoto e convenzionale,

esprime soltanto un trend di mercato in crescita, individuato dall’Sss (Sound system di stato)”. A quel punto Annette lo stoppò: “D'accordo Baines... Straw e i membri del suo clan sono degli spacconi di ultimo livello, molto, troppo ignoranti. Però perché mai avrebbero dovuto inventarsi un ingresso non autorizzato da parte di un ex ricercatore del Dipartimento del ritmo? Che motivi hai per credere che si tratta di un imbroglio?”. (19

Lo so... e questo mi basta!” rispose Baines ostentando .

.

.

determinazione. “Tutti i Gabber odiano gli altri Sei clan: dobbiamo stare uniti per proteggerci da...” Al che si interruppe. La porta si aprì e Straw entrò nella stanza. Cranio rasato, grande e muscoloso, avanzò sogghignando, 22

avvolto in un giubbotto di materiale sintetico e in pantaloni attillati che gli evidenziavano la massa muscolare. Questa storia dell’ingresso non autorizzato non lo aveva certo intimorito: aveva l’aria arrogante come suo solito. Ora mancava solamente il delegato dei goani che, senz'altro, sarebbe arrivato con almeno un’ora di ritardo. Probabilmente era in giro in trance, sperduto nelle visioni di realtà #rchetipe o immerso nelle forze cosmiche che reggono l’intero universo. Infatti il rappresentante del clan Goa/Trance all'incontro annuale di Parigi, Omar Diamond, stava guardando la scena intorno a lui e vedeva chiaramente i due draghi gemelli, uno rosso e l’altro bianco, che rappresentano la morte e la vita. I due rettili combattevano tra di loro, facevano scuotere

l’intero pianeta e, in alto, sopra il loro capo, il cielo stava ormai per spezzarsi, mentre un sole grigio e morente risplendeva

debolmente su quel mondo desolato. “Fermatevi!” intimò Omar, alzando una mano in direzione

dei due draghi. Poi, sempre in trance, continuò nel suo delirio: “La morte non esiste. Quello che è inteso comunemente come morte è soltanto uno stadio in cui una nuova forma di vita giace addormentata, in attesa di assumere la prossima incarnazione. Il drago della vita non può essere ucciso. Anche se il suo sangue scorrerà rosso sui prati, le sue nuove forme sorgeranno da ogni parte, per ritornare poi a vivere. Il seme sepolto nella terra germoglierà nuovamente”. Quindi riaprì gli occhi, ritornando in sé. “Devo andare al palazzo di Pietra, rifletté. In quel palazzo di sei piani dove mi aspettano il rude Straw, la dinamica signorina Hibbler, Annette Golding, spirito di pace e amore, e Gabriel Baines, impegnato a combattere per i diritti negati alla sua gente. Poi ci sarà quell’altro, sempre elegante e suadente, proveniente dal clan House, e infine Dino Watters, che ripete come sempre le sue prevedibili visioni ottimistiche. 23

Fermatosi alla base del grande palazzo di Pietra, Omar cambiò direzione per andare verso la finestra giusta e grattare il vetro con un’unghia. Qualcuno gli aprì e lui fece il suo ingresso. “Pace e amore fratello. Come mai non è venuto il signor Manfreti?” gli chiese Annette. “Quest'anno non ha potuto” rispose Omar. “Vive in un altro mondo e non fa altro che star seduto: deve essere nutrito con un cannello attraverso il naso”. “Ohhhh” rabbrividì Annette. “Cata... tonia!” “Uccidetelo!” irruppe Straw “e l’avrete fatta finita per sempre con lui. I goani catatonici sono il peggio a cui si possa pensare:

frikketoni rimbambiti, senza alcuna possibilità di rinsavimento”. Snobbando il commento del Gabber, Omar prese posto,

aprendo i lavori: “Che questa assemblea sia benedetta. È ora, amici, è possibile sapere di preciso che cosa è successo?”. Quindi, si rivolse a Straw: “Che notizie ci sono dalla Normandia, sede dei Gabber?”. Straw grugnì: “Un ingresso non autorizzato da parte di

un’unità lavorativa proveniente dalla main-land. Un carico di sostanze mixadeliche eretiche, vietate dalle convenzioni di

separazione ferrea dei generi musicali elettronici che costituiscono le fondamenta della colonia dei sette clan, instaurata dai

Processi di controllo. I miei fedelissimi Gabber, infiltrati all’interno della Resistenza

invisibile, non hanno potuto fare a meno di ricollegarlo all’imminente produzione, la 023, dell’etichetta Fulcanelli Records. Si pensa che sarà un’arma di terrorismo vinilico dalla potenza sconfinata, in grado addirittura di mettere a repentaglio l’esistenza della società della Distensione psichica! Si tratta di un nuovo sound, costituito dalla scissione nucle-

are dei generi musicali precedentemente separati o addirittura opposti all’interno della dance elettronica. Un suono che vuole rompere con i canoni di chi persiste con la formula tradizionale della cassa in 4/4, dell’electro convenzionale e della jungle pura. Vogliono imporre l’impuro, 24

combinando gli elementi di questi generi in qualcosa di nuovo ed eterogeneo. Una schizofonia, con tanto di ritmi direttamente programmati dall’elettricità, intensità ritmatiche riconoscibili come “sincussioni”. Pare addirittura che non ci siano rullanti, ma forme d’onda in stato d’alterazione, non ci siano casse, ma

velocità d’attacco. Il sound della prossima produzione della Resistenza invisibile è corrente alternata trasformata in fiction sonica...” Si fermò deliberatamente per vedere gli altri delegati tremare di paura. “Dobbiamo difenderci!” tuonò l’Hip Hopper. La signorina Hibbler annuì, imitata dalla riluttante Annette.

“Tutto andrà per il meglio, sopprimeremo sul nascere questa eresia sonica! Non preoccupatevi. Tutto andrà per il meglio, sopprimeremo sul nascere questa eresia sonica! Non preoccub) patevi... ° esclamò nella sua caratteristica iterazione ottimistica

il Minimal. “Qui a Parigi” riprese il discorso Baines “appronteremo le prime difese. Straw, contiamo sul sound system della vostra colonia, che è il più potente in termini di voltaggio. Sarà la prima volta che sarà usato per il bene comune”. “Il bene comune!?” lo rimbeccò il Gabber con un sorriso di traverso “Vorrete dire per il vostro bene!”. “Dio mio!” sbuffò Annette. “Possibile che sia sempre così irresponsabile, Straw? Non riesce a capire la gravità della situazione?” Omar Diamond cominciò a pregare, più per se stesso che

per gli altri. “Lasciate che le forze della vita trionfino sul campo di battaglia. Lasciate che il drago bianco metta in fuga il rosso seminatore di morte. Lasciate che il grembo della vostra grande madre protegga questa piccola terra e la preservi da coloro che combattono nel campo del male!” Improvvisamente ricordò la visione che aveva avuto durante il viaggio: era stato un avvertimento dell’arrivo del nemico. 25

L’acqua di un fiume si era mutata in sangue non appena lui l’aveva attraversata. Solo ora ne comprese il significato. Guerra e distruzione dei sette clan e forse dell’intera società della Distensione psichica. Jacob Simion, l’House, mormorò con voce tremolante dalla paura, senza più traccia dell’attitudine gaudente dimostrata fino a pochi minuti prima: “Siamo perduti...” e fece gesto di rintanarsi nel suo camicione di seta color cachi. Tutti lo guardarono di traverso.

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Ciò che chiamammo techno

Una volta ancora l’Europa è divisa nel mezzo: Berlino est e Berlino ovest. Consumando suoni come gelato, le due scene si combattono usando Gameboy come sequencer musicale tascabile e giradischi portachiavi venduti da bangladesi in esilio, itineranti nelle nottate del vecchio continente. Due movimenti che si attaccano a suon di bleep statici: una scena di Gameboy organizza eventi interattivi in media center. Sperimentale = sbattere il cazzo sull’i-Pad e star Iva dondolare sugli alti, medi, bassi con aria da artista totale e “oohbbbhh” tutta l’intellighenzia/pubblico plaude sparandosi certe pose. (E il mega sponsor di turno invece paga per tutta la sarabanda). L'altra scena si incontra nel sottobosco metropolitano attirata da frequenze distorte, breakbeat ultracinetici e rumore rosa.

Costituisce in realtà un progetto politico che utilizza metafore soniche.

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333333333333 333. SIZII 1334) 33 III a)

Come glialchimisti procedono alla trasmutazione della materia, intesa in primo luogo come una rivoluzione-modificazione dell'io, attraverso l'utilizzo di una moltitudine di tecniche e di rituali,

allo stesso modo i nostri eroi trasformano l'aggressività sonica in conflittualità sociale... 333. (dj Balli fa parte della seconda scena) x

Le aule dei corsi estivi di composizione e musica elettronica

del conservatorio di Darmstadt, tappa storica per lo sviluppo delle neo avanguardie musicali fine anni cinquanta inizio anni sessanta, sono sempre più deserte. Sono aride anche di progettualità e di idee innovative, al contrario di come si suppone debbano essere i seminari dedicati all'elaborazione di nuove sonorità. Certamente mancano di “comunicabilità”, perché producono pipponi di cui solo una stretta cerchia di compositori, docenti e addetti ai lavori capisce. La ricerca musicale elettronica abbandona l'Europa, dove molti dei suoi profeti della sperimentazione, troppo spesso tronfi ed egoisti nel loro grandeur, si disperdono in un solipsismo

King Tubby, il re... nel suo reame!

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masturbatorio, e approda in Drommilly Avenue n. 18, Kingston, Giamaica. Qui un burbero nero con lo strano vezzo di indossare la corona, rivoluziona, partendo da basi non musicali, ma di

ingegneria del suono, ogni tecnica fino ad allora esistente di utilizzo di riverberi, delay, echo e approda così a una concezione spaziale del brano musicale assolutamente geniale. Passerà alla storia come King Tubby e le sue innovazioni tecniche costituiranno l’Abc per ogni produttore dell’era che verrà.

Vent'anni dopo la rivoluzione elettronica giamaicana, la ricerca tornerà in Europa, in laboratori izprobabili e assai eterogenei quali la strada, i capannoni sfitti di certi rave illegali, la miriade di micro studi dotati di tecnologie low tech ricavati in abitazioni private, certe radio in Fm e su Internet, e infine, ma

molto raramente in certi club e locali dove la ricerca in ambito elettronico sembra pulsare con maggiore vitalità ed entusiasmo, dipanando nei casi più interessanti relazioni pericolose con altri ambiti quali il sociale e la politica [NOIZE IS POLITICI]. Ma a che sonorità mi sto riferendo, inizierà a chiedersi

qualcuno? Preferisco arrivarci progressivamente ed in senso inverso

rispetto allo schema usa e getta tipico delle riviste musicali di settore, secondo cui si parte dalla definizione del genere di una

data produzione musicale per poi arrivare al contenuto della medesima. In radicale antitesi con questa catena di montaggio/etichettamento, procedo in maniera visionaria a individuare l’oggetto di riferimento attorno a cui questa misteriosa orda elettronica ruota e verso cui tende: il post dancefloor (Pdf).

Uno spazio prima di tutto mentale, che, emancipatosi dai feudali precetti e dai rigidi confini da latifondo tipici delle discoteche/cattedrali medioevali, è da ricercarsi in opposizione a certo solipsismo della musica elettronica, negli interstizi più 29

improbabili dell’architettura sociale postcapitalista. Inoltre un altro importante indizio è inaspettatamente comparso sulla

scena: l'attributo dance. Una digressione storica si impone: la musica dance è essenzialmente funzionale, in un modo in cui nessun’altra musica

può esserlo. Essa deve interagire con l’ascoltatore in maniera tanto diretta quanto un allarme antincendio, causando effetti emozionali + tanto immediati da bypassare la razionalità. Se il ritmo non è replicato da reazioni muscolari e nervose, allora è venuto il momento di cambiare disco. I corpi affollati, e talvolta schiacciati gli uni sugli altri, sul post dancefloor non hanno nessun'altra esigenza fisiologica, se non l’implorare per una frequenza che li faccia vibrare in tutta la loro integralità. In questo senso, la tecnologia è dirottata al fine di causare una reazione specificatamente primitiva, al limite del fisiologico. Non c’è spazio per note a piè di pagina quando i bassi scendono in campo, non c’è tempo per pensare, ma solo per stare a tempo!

Con il crollo dell’ordine del vecchio mondo nella prima guerra mondiale non cambiarono solo l’ordine politico e sociale, ma anche la musica. Mentre la gioventù urbana ballava il charleston, i futuristi asserivano che il rumore delle macchine e il rumore delle città erano musica. Da allora in poi, la grana del suono, sia a livello concettuale

che come espressione del corpo, scansato dalle istituzioni culturali e finalmente espressione dei desideri delle nuove generazioni, si definì nei termini di rumore e battiti ripetitivi. Negli anni che seguirono la seconda guerra mondiale, il

sistema capitalistico e consumistico emergente tentò di recuperare questi movimenti riconfezionandoli per il mercato della musica pop. 30

Tuttavia nuove mutazioni si generarono in modo più veloce, anticipando i detentori del controllo.

Con l’incremento della disponibilità di tecnologia, che rende più facile che mai creare, produrre e distribuire materiale indi-

pendente, nuovi network e nuove dinamiche cominciarono a operare alla fine degli anni settanta e nel corso di tutti gli anni ottanta. Solo Allora l'industria culturale provò uno strano senso di paura — borror vacui — in quanto i principi stessi della sua organizzazione, ovvero il broadcasting o one way transmission, furono cortocircuitati dalle tecnologie che aveva messo sul mercato in maniera tale che non rimase nessun trasmettitore e

nessun ricevente: solo un mixer e capannoni affollati di gente [+ RUMORE].

Ciò che chiamavamo techno è una sottocultura nata dalle piaghe di un inintelligibile panorama urbano, popolato da selvaggi alla ricerca di piaceri proibiti, in una terra desolata che era allo stesso tempo ovunque e da nessuna parte. È qui che il post dancedloor a cui mi riferivo in apertura inizia a entrare in gioco: incontrollabile e incomprensibile per sociologi, poliziotti, genitori e media. Ma in breve, i selvaggi furono colonizzati, cooptati, fatti

oggetto di ricerche accademiche, passati a raggi X o uccisi: perfino la rigidità futurista della techno non fu immune alle strategie del sistema. Nacquero etichette di vendita, si sguinzagliarono per le terre desolate etnologi equipaggiati di dat e videocamera, si impiegarono tecniche da ricerca di mercato per addomesticare la musica e infine furono abbozzate leggi per contenere il fenomeno. Si trattava di rimanipolare tutto all’interno della società dello

spettacolo, di renderlo commestibile per i consumi delle masse.

e I volti dei protagonisti iniziarono a comparire sulla scena

dj-produttori senza talento furono elevati a superstar.

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L’impero dell’audio valium sembrava aver preso il sopravvento. Ma ciò che chiamavamo techno continuò a mutare, e né i

sociologi affiliati alle più prestigiose università, né tantomeno i media, i cosiddetti esecutori del reale, riuscirono a porre fine

al suo percorso. Muovendosi in più direzioni, la techno approdò nello stesso tempo a nuovi spazi, a nuove eruzioni e a nuovi eccessi: negli anni novanta ci fu un nuovo scossone, con l’avvento di nuove

strategie di resistenza occulta e di desideri reinventati. Il futuro iniziò a manifestarsi nel presente, rompendo le regole del passato. Ci fu una nuova fase di scissione nucleare dei generi musicali precedentemente separati, o addirittura opposti, all’interno della musica dance elettronica, con la conseguente messa in discussione dei brainframe a essi collegati. Da una parte si profilò l’insopportabile conservatorismo di chi persisteva con la formula tradizionale della cassa dritta in 4/4, dell’electro convenzionale e della jungle pura,.mentre dall’altra iniziò a imporsi in maniera sempre più delineata l’impuro, che combina gli elementi di questi generi (ma anche elementi provenienti da musica concreta, elettroacustica ecc.) in

qualcosa di nuovo ed eterogeneo, un attacco ai valori impoveriti e pietrificati del passato. Le battute diventano spezzate e ultracinetiche, i bassi gastrici e imponenti, le frequenze si distorcono, il rumore vira dal bianco, al rosa, al marrone.

Ogni track diventa un saggio di sperimentazione transgenere. Proliferano una miriade di microcodici trasversali che determinano nuove strutturazioni schizofoniche nel cervello dell’ascoltatore. Sbeffeggiano in maniera parodistica i tic e gli stilemi della catena di montaggio dell’etichettamento proprio della critica

musicale di settore. 32

Li chiameranno poi breakcore, mashup, hard drum’n’bass, harsh wall noise, armageddon electro, urban nihilism, advanced

hip hop, extratone, 8 bit, unformatted break, experimental

turntablism, urban nihilism, post industrial funk (per citarne

solo alcuni...). Un insieme di paesaggi sonori molto definiti e logisticamente collocati, ma riconducibili a un unico nuovo macro codice,

quello difost techno, che possiamo definire come un progetto politico che utilizza metafore soniche. Come gli alchimisti procedono alla trasmutazione della materia, intesa in primo luogo come una rivoluzione/modificazione

psicologica dell’io attraverso una moltitudine di tecniche e di rituali, allo stesso modo gli assassinii speedcore, le melodie

futurnostalgiche a 8-16-32 bit e icampionamenti/detournment presi dalle fonti più improbabili trasformano l’aggressività sonica in conflittualità sociale e definiscono il post dancefloor i primzis come un attrattore di antagonismo politico. AMEN! (break)!

! L’amen break è un breve solo di batteria all’interno della canzone Arzern,

Brotber (1969) di The Winstons. Dagli anni ottanta in poi questo frammento di ritmica spezzata ha iniziato a essere campionato a 360 gradi da hip hop, breakbeat, hardcore techno, breakcore, jungle, drum’n’bass, digital hardcore

ecc. Possiamo dire che questi sei secondi di musica hanno generato svariate sottoculture musicali. L’amen infatti è diventato un elemento di base all'interno della grammatica del produttore di musica elettronica tanto quanto l’hi-hat, la bass drum, i synth, i bassi ecc.

33

Dead By Dawn

1995

Alla Bbc local news l'avevano pure segnalata tra le headline: “OPERATION

AMAZON,

A CRACKDOWN

ON LONDON

TUBE

Ovviamente me ne ero fottuto e avevo proseguito imperterrito

nel presentarmi alla stazione di Walthamstow ogni giorno dopo le 5:00 pm, per chiedere al popolo dei commuter proveniente dalla City: “You got a spare travel card?”. Infatti i lavoratori del nine to five rientravano a casa a quell'ora, gettando via, appena superati i controlli, la daily travelcard che rimaneva valida fino alla mezzanotte. Confinato come ero all’ultima fermata della Victoria line,

a casa di Steve Strange, con cui condividevo un appartamento in housing benefit, era recuperando quel ticket che iniziava la

mia psicogeografia londinese (ma anche di molti altri, tanto da giustificare appunto un “giro di vite” contro il fenomeno...).

Infatti, pochi giorni dopo l’inizio di questa Operation

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Amazon, alla mia rituale domanda: “Have you got a spare travel card?”, un personaggio davvero insospettabile, con un cappellino da rapper indossato di sbieco, mi invitò a farmi di lato, mostrandomi il distintivo del London Trasport. Mi appioppò un multone che, non pagato, è andato a finire in processo (ma questa è un’altra storia...). Poi mi toccò un’in-

credibile camminata. Davvero non saprei dire quanti chilometri o miglia sgambettai per raggiungere il 121 Centre in Railton Road a Brixton. Percorsi tutta Hackney, poi Finsbury Park e proseguii infinitamente in direzione South London. E sì che io sono un buon camminatore! Di solito non mi lamento se c’è da raggiungere un posto a piedi, ma quel 23 agosto fu una sfacchinata che sarà difficile rimuovere dalla memoria. Dopo diverse ore di marcia arrivai appena in tempo al vegan meal delle 7:00 pm, ora di incontro fissata tra tutti gli organizzatori, dj e bartender del Dead

by Dawn, il party sicuramente più off di tutto il Regno Unito. Christoph Fringeli della Praxis Records, principale organizzatore della serie di eventi, era già là e

Nomex stava scaricando

dal suo furgone delle carcasse funzionanti di monitor, che utilizzava come tappezzeria visiva, secondo i dettami della sua Realist Film Unit. AI solito mancava l'impianto, che si affittava da Dan, del sound system Hekate. 35

Seduto nell’infopoint dell’anarchist centre c’era anche un tizio con una maglietta verde sgargiante dei Kraftwerk. Tra me e me pensavo: “Chi cazzo sarà mai che si mette una t-shirt così mainstream?”. Mi sorrise: “Hi, Im Toby, dj Scud!”. Non mi disse altro quella sera, ma il suo set a metà tra ragga e bordate harsh noise fu a dir poco sensazionale. Anche a quel party, così come ai tre precedenti del 23 luglio, 23 giugno e 23 maggio, l’intera crew Dead By Dawn se ne saltò fuori molesta con la proposta al sottoscritto di prendere in mano le redini della cucina autogestita del 121: “Tu sei italiano, popolo di grande cucina ecc.”. Quella sera c’era a suonare un mio rate, dj Piddu, del Link Project di Bologna, mi toccò accettare. Nonostante l'impegno, ancora una volta dimostrai tutta la mia incapacità ai fornelli. Non sapevo più come sfatare il luogo comune “italiano = buona CUCINAR Mi salvai in corner con l’impegno di fare un bell’espresso “mutante” a fine cena, una tipica veganata “squat style” a base di chips and beans. Intanto i preparativi proseguivano febbrili. L’amplificazione era arrivata e la si stava montando nel basement, una sala

quadrata di non più di dieci metri per dieci, che costituiva la dancehall schizoide del Dead By Dawn. AI solito, la serata sarebbe iniziata alle 9:00 pm con un meeting dell’Invisible College, ovvero un momento di discussione pubblica preassalto noiz-disco-Cambogia. Nel giorno 23 dei mesi precedenti avevano parlato la London Pyscogeographical Association, John Eden sul TOPY, e la terzultima volta c’era stata una Sessione di Reclutamento Astronauti Autonomi.

Quella sera c’era una certa attesa per l'intervento di Stewart Home, il bardo di tutte le avan/retroguardie. Tutti si chiedevano se effettivamente gli piacesse la techno o meno. 36

Ma a proposito del termine techno, al di là del dibattito dell’enigmatico Invisible College con cui ogni Dead By Dawn iniziava, val la pena di sottolineare il travaglio dialettico a cui la crew del party si sottoponeva per definire i generi da segnalare sul volantino. Tutti erano coscienti del fatto che con la techno in senso stretto il suono non aveva più nulla a che spartire: Detroit era lontana non un oceano, ma un universo

intergalattico. Però, per dare una riconoscibilità all’interno delle offerte off della notte londinese, si era deciso di man-

tenere quel termine sul flyer, affiancandolo a speedcore, che invece è un conio del Dead By Dawn. Speedcore per la nostra cricca indicava non solo il genere che poi si sarebbe definito in canoni musicali come cassa in 4/4 ultraveloce,

ma più generalmente un’attitudine pesante e sperimentale al dancefloor. Con questo binomio di termini risolvemmo la maggior parte dei flyer. In altri casi si inserì il termine hard techno, che da italiano

insofferente nei confronti di certi paradigmi stantii da rave illegale osteggiai sempre. Anche se in Inghilterra quel termine aveva un significato assolutamente spoglio da certe “rimastanze” assortite... (Quella che noi chiamavamo hard techno,

in Uk la chiamavano crusty techno o spiral techno.) Solo alla fine, verso il ventitreesimo Dead By Dawn, l’ultimo della serie,

iniziò a comparire quello che i più (Kovert, Aphasic, Torah, Jason VEM, Stevvi, Rachel Zhark, Peter Hodkinson ecc.) stavano effettivamente suonando: hard break o breakcore. Una contaminazione tra le ritmiche nere jungle, d’n’b, ragga dancehall, hip hop imperversanti per Brixton e le bordate di rumore “bianco” che derivavano dalla musica industriale e contemporanea più colta.

“Lo sciopero dell’arte è la forma più alta di arte in una società neoista, in cui il noioso concetto in oggetto è divenuto obsoleto e inutile!” iniziò a tuonare Stewart Home. L’incontro dell’Invisible College ebbe inizio con queste 37

parole, inaugurando ufficialmente il ventunesimo Dead By Dawn party. “Dal 1° gennaio 1990 al 31 dicembre 1993 io e numerosi altri produttori di artefatti culturali abbiamo cessato ogni attività, ritenendo questa sospensione la forma più alta di arte mai prodotta dall’umanità. La morte dell’arte di Hegel è un concetto romantico, datato, ottocentesco. L’antiarte dada è risultata più funzionale al sistema dell’arte di qualsiasi espressione classica e tradizionale. Non si tratta meramente di un boicottaggio delle istituzioni artistiche alla Gustav Metzger e Art Workers Coalition, ma di una rivendicazione dell’inutilità

dell’arte e una richiesta di riconoscimento di diritti sindacali (#72 primis, il reddito garantito) per gli operatori che concordano nella visione testé citata dell’universo estetico. Non è certo una sorpresa che la campagna di Art Strike da me lanciata nel 1986 sia stata pressoché ignorata da musei e gallerie d’arte contemporanee. Art Strike Action Committees si sono però diffusi a Londra, in Irlanda, a Baltimora, ad Albany (NY), a San Francisco, a Montevideo. È comparso anche un

bollettino ufficiale del movimento ‘YAWN” pubblicato da Lloyd Dunn a Iowa City...”.

i

Neil interruppe la mia fruizione dello speech di Stewart Home bisbigliandomi nell’orecchio: “There's some guy at the door, asking for the guest list”. Doveva essere Crash. Lo cercai fuori dall’infocentre del 121. Ad aspettarmi in Railton Road c’era proprio la barba tagliata a metà (nel senso rasata a destra e lasciata a sinistra... che gli valse sul campo il nickname di “half a beard man”) di Crash, il mio amichetto milanese. Davvero non capivo perché ogni volta gli rompevano la minchia con i tre fottuti quid dell’ingresso. Crash comprava un sacco di dischi da Christoph, dava una mano sempre e suonava gratis per la causa del Dead By Dawn. Come facevano questi strapulciosi inglesi a chiedergli l'ingresso? Mal... 38

Stewart Home, Art Strike Bed, 1995

Dopo le solite tiritere di spiegazioni, riuscii a farlo entrare free anche quella volta. Non ci vedevamo da un po’ di giorni e infatti Crash aveva un sacco di cose da raccontarmi. Facevo fatica a seguirlo: era iperpreso da questioni di squatting e ricerca casa. Salimmo al piano superiore del 121, dove era situato il bar e la antiambient room. Quest'ultima era un’idea di Paul Nomex, che

era anche il vj ufficiale del Dead By Dawn. Consisteva in una sorta di presa in giro della funzione della sala chill out nei party convenzionali: invece di un’area in cui decomprimere e rilassarsi dalla frenesia del dancefloor centrale, come nella

scena techno e trance mainstream, noi avevamo introdotto uno spazio in cui le sonorità fossero ancora più urticanti, abrasive e

rigorosamente senza beat. Quindi bordate di power-electronic, rumore bianco, muri di cacofonie provenienti da un nastrone

precedentemente compilato. Il tutto riprodotto da un impianto da salotto, a volumi bassi. Quello era il posto migliore, per non dire l’unico, dove fare

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due chiacchiere, bere e smangiucchiare qualcosa. Dopo venti minuti di deliri a base di cambiamenti casa e problemi logistici contingenti, Crash sfoderò un discorso super interessante. Profeticamente intuì che dall’incontro/scontro tra cultura hip hop e cultura industriale sarebbero venute fuori cose davvero innovative nel prossimo futuro. Gli sembrava di coglierlo distintamente, qui a Londra, megalopoli iperavanzata con la massima presenza afroamericana L in Europa.

L’intuizione era in linea con il significato ultimo del Dead By Dawn: uscire dal cu/ de sac del rumore puro, ormai in stallo da anni, attraverso il funk! Quest'ultimo inteso non tanto come

genere musicale, quanto come brivido che fa scuotere il culo. La parola d’ordine sembrava essere: coniugare il dancefloor con il terrorismo sonoro. Su un’altra cosa convenimmo con Crash: su quanto la birra del Dead By Dawn, un’ale da discount, continuasse a fare davvero schifo, nonostante il party ormai richiamasse una media di centocinquanta persone. Ci scofanammo gli avanzi riscaldati delle polpette alla carota e del resto del vegan meal. Alla ricerca del 7/11 più vicino dove fare incetta di beveraggi, ci dirigemmo giù dalla scalinata. Quello era il posto migliore dove vedere le muraglie cinesi di vecchie tv recuperate da Paul Nomex, che fungevano da tappezzeria video dell’evento. Attraverso una distribuzione del segnale a tutti i tubi catodici, un totale di trentacinque monitor ripetevano ossessivamente la sequenza di un funambolico incidente di uno sciatore. Una roba folle, a base di velocità e adrenalina velocizzata,

poi mandata ossessivamente in moviola a seconda del pulsare del beat dal dancefloor. Le tematiche della Nomex Realist Film Unit erano bizzarrie ipercinetche di ogni tipo: oltre al carambolico spiattellamento sulla neve, ho reminiscenze di partite di ping pong in doppio Corea-Giappone, un vero must! 40

Disseminati in ogni dove c'erano anche fotocopie degli scritti di Technet, un anonimo collettivo di scrittura sperimentale londinese che lavorava alla fusione tra letteratura e musica elettronica. A ogni Dead By Dawn rinvenivamo qualche criptico pamphlet sotto forma di flyer: fiction soniche cartacee organizzate come track, i brani nella musica dance. lo

x

TRACK®: OGNI PARTY E LA FINE DI UN’ERA - qualcosa da

prendere e utilizzare. Senza alcuna ragione apparente, s’alzarono al cielo sia foschie itineranti di rumore sia la musica corporale. Non qui, non lì, eppure si rivelarono di nuovo agli angoli come notazioni in [di] groove sullo scorrere del disco [vinile] /// TRACK: Si trattava di un rumore simile a quello di lupi intenti a ululare al cielo nell'inverno gelato. Te l’assicuro, i pilastri della casa tremarono, le finestre, colpite dal respiro visibile dei loro polmoni, tintinnarono e parvero sul punto di disintegrarsi, come se manciate di sabbia pesante fossero scagliate contro le lastre di vetro. Davanti a questo spettacolo sconvolgente scappammo in preda al panico, i capelli ritti sulle nostre teste; lasciando le nostre mantelle e cappelli indietro. Ci sparpagliammo in tutte le direzioni, sulle strade che da un momento all’altro furono riempite da più d’un centinaio di persone svegliate bruscamente dal loro sonno; la folla si fece strada attraverso la porta e verso il pianterreno, cercando Vorigine di questo spettrale, orrendo, ululato, che s’innalzava come se provenisse dalle labbra dei peccatori dannati per l'eternità nel più estremo degli inferni infuocati...

Stavamo quasi per uscire dal basement quando sentimmo arrivare delle zaffate di bassi gastrici e ritmiche iperspezzate. Era dj Jackal in consolle. Il nome, superminaccioso, deriva da quello del famigerato terrorista rosso di origine sudamericana. Il moniker nascondeva 41

a turno un diverso manipolatore di giradischi proveniente ovviamente da South London. E infatti il suono era jungle pura e hardcore assolutamente nigga. Roba che dimostra che i fratelli (musicalmente) ce l’hanno

più lungo e hanno anche un senso inarrivabile del ritmo, almeno per gli sfigati caucasian come noi. Colorato da scratch di registrazioni di suoni concreti della London Tube, di Canary Wharf e in generale dello sprawl acustico della megalopoli inglese, il mix risultava assolutamente micidiale. In quel momento, in quei cento metri quadri, c’era la terza guerra mondiale. La risposta della cantina era adrenalinica: questa era musica

pensata esclusivamente per far scatenare la gente, per causare reazioni pavloviane. Prendi dei topi, mettili in un gabbia metallica, sigillala ermeticamente e inizia a bombardare di frequenze iperacute lo spazio acustico. Una sensazione fantastica, un misto di nichilismo urbano, di funk postindustriale, che in un

centesimo di secondo dava senso a un secolo di rumore da Russolo in poi. Vedo Crash che improvvisamente si allontana dal dancefloor proprio mentre dj Jackal esegue un beat mixing su tempi che dire dispari è poco. Seguo il mio amico, che è sbiancato in volto. Non è lo speed o chissà quale diavoleria... Crash è piegato in due dal mal di pancia. Il cesso del 121 non è proprio l’Excelsior. Gli faccio largo e lui inizia a rigozzare. Accenno un'ipotesi: “Le fottute polpette di carota, mi sa saran quelle...”. Mi rendo conto che Crash è impegnato in una copiosa sboccata... Claro che non mi risponde. Fermo Neal: “Were the carrots gone bad?”. Lui alza le spalle: “Don’t know, skipping is usually safe... But you never know...”. Il vegan meal, come al solito, era tirato su dal bidone della spazzatura. Era parte degli avanzi gettati via dal Brixton Market che stava proprio di fronte al 121. Io ravanando nel bidone avevo svoltato delle signore 42

cene, ma il dubbio minimo di un’epatite a b c de f g z mi era sempre rimasto. Nel frattempo il povero Crash continuava a vomitare, barricato nel bagno. La gente iniziava ad accalcarsi per utilizzare i cessi. Dopo quindici minuti lo prelevai di peso. Andammo al piano di sopra, l’anti-ambient area. Lui continuava a essere pallido, smorto. Doveva davvero trattarsi di un’intossicazione alimentare, fucking rotten quelle carote.

Era steso sulla panca del bar dell’infocentre, con muri di frequenze vuote a fare da contorno. Una scena che gli sarebbe piaciuta assai, se solo fosse stato più cosciente.

Ipocondriaco non solo riguardo alla mia salute, ma anche a quella degli amici, dopo un’ora decisi di portarlo a casa. Con i night bus sarebbe stato un delirio... Ma ’fanculo al Dead By Dawn, ancora ne mancavano tre di party al 23esimo e ultimo! Lì dentro Crash non ci poteva stare messo com'era. Cambiando due bus, arrivammo a Trafalgar Square. Io lo sorreggevo,

tipo sacco di patate. Da lì era una bazzecola raggiungere ogni angolo di Londra. Il bello è che tali e tanti erano i casini abitativi di Crash che non sapevo nemmeno più dove abitasse. “Boh lo porto da me a Walthamstow” decisi. Per il prossimo night bus toccava aspettare altri venticinque minuti. Poco dopo, per effetto dell’arietta della nottata o non so cosa, Crash iniziò a riprendere colore e, più genericamente, a star meglio. “Madò se sono stato malissimo... Manco avessi fatto una raglia di Bygon!” “Dovevano essere proprio andate a male da un bel po quelle

carotine...” replicai, felice di sentirlo di nuovo in forma. “Oh ma che ci famo qua a Trafalgar? È presto, sono appena le due...” “Ehi viso pallido, lo sai che sono ipocondriaco... Qua sul serio mi sembravi ‘morto per l'alba’. pi db)

43

“Ah ah... Altro che Dead By Dawn! Torniamoci subito, coglione d’un Balli.” In pratica si trattava di rifare gli sbattimenti a rovescio per tornare a Railton Road. All’andata, colto dall'emergenza, avevo regolarmente pagato il biglietto all’autista salendo sul mezzo, sia per me e che per Crash. “C'è uno sgamo anche per non pagare il night bus. Basta salire di soppiatto dalle porte da cui la gente esce.” Saggezza di squatter. , A Trafalgar era anche semplice: c’era sempre gente che scendeva, quindi al terzo night bus riuscimmo effettivamente a intrufolarci senza essere visti dallo specchietto retrovisore. In mezz'oretta eravamo di nuovo a Kennington, dove iniziò

il delirio. Quella era una fermata marginale, in media un bus su cinque apriva le porte posteriori, visto che quasi nessuno doveva scendere. Quando una volta all’ora passava quello stramaledetto coach fortunello, le porte si aprivano per davvero pochi secondi e sgattaiolare senza farsi sgamare era impresa olimpionica. Dopo quasi tre ore mi ero oramai rassegnato: “Facciamo ’sto

biglietto e vaffanculo... Inizia a fare pure freddo!”. “No, niet, null” testardo come al solito Crash.

Ma ecco comparire il 13b. Scende una nera cicciona con delle sporte pazzesche che la rallentano alquanto. Mi arriva una mega spinta... Pam! Ci ritroviamo comodamente seduti sul bus. Il 13b era l’unico mezzo di trasporto notturno che si infilava a Brixton e per questo si fermava ogni minuto. Dopo cento bus stop, alle 4:53 am eravamo di nuovo in Railton Road. Oramai stava per albeggiare. Una cassa ipercinetica ci lasciava intuire l’assassinio speedcore

che si consumava nel basement, a opera non so neanche di chi. L’entrata era murata di gente. 44

Social network al tavolo 5!

Non appena arrivammo nel dancefloor il sound staccò. Di morti entro l’alba ce n’erano effettivamente un bel po’, ma niente di comparabile a certi sfasciumi bianco, rosso, verdi da cui rifuggivo nel belpaese. Ci inserimmo in un discorso su Keith Stevvi, una piattaforma web per la realtà sonora all’incrocio tra musica dance e musica sperimentale. Christoph, insieme ad altri, aveva già avviato Subnet, network

transnazionale di distribuzione di dischi autoprodotti. Mettere i nostri contenuti su web era una logica conseguenza. La discussione infatti fu trasferita nell’anti chill out, di fronte

al pentolone rituale di chips and beans, un must del post Dead By Dawn. Eravamo in una ventina. Sgranocchiavamo patatine e ingol-

lavamo fagioli in salsa dolce (solo in Uk accompagnano i fagioli con questo tipo di condimento!).

Fu lì che nacque c8.com, il forum dedicato alla nostra scena, ancora attivo.

C8 era il numero di codice di portata dei chips and beans a Railton Road. “20 c8 courses, please!” Ahahahah:D

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Sampledelia

La musica elettronica è per eccellenza strumentale. Ha a che fare con l’ascolto del suono puro. Ci riporta a una modalità di fruizione per certi versi simile a quella attivata per la musica sinfonica. Uniche eccezioni all'assenza di voce umana/canto sono da una parte l’mc, dall’altra il campionamento. Ed è proprio su questo secondo elemento che intendo concentrare la mia attenzione: sia in quanto punto fondante del genere musicale in oggetto, sia in quanto rappresentante esemplare della pratica della citazione, che tanti commentatori culturali hanno indicato

come distintiva dell’epoca in cui viviamo. Il campione sonoro, tratto da film o da qualsiasi altra fonte, rappresenta una forma di rapimento alieno — alien abduction. È un qualcosa di proveniente da un altro mondo che, attraverso uno “stralcio culturale” di pochi secondi, è in grado di ricrearsi nella mente dell’ascoltatore. Quattro, cinque, sei, sette secondi — questa la durata di un campionamento — talvolta hanno un effetto incredibile.

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Improvvisamente puoi essere catapultato in un ambiente, puoi percepirlo come fosse un primo piano cinematografico che suggerisce tutto un universo sul campo lungo. Come dice bene il giornalista musicale Mark Sinker, puoi “trovare un mondo in un granello di suono”. Poi c’è tutta una mitologia del riconoscimento del campione, la sampledelia (dal greco antico “manifestarsi”), attraverso il quale si ofea una sorta di livello di comunicazione superiore con il produttore della traccia musicale. Nell’individuare al primo colpo la provenienza di quella manciata di secondi si stabilisce una comunicazione telepatica con il compositore, si condivide un universo che era già in noi, di cui il campionamento offre una visione improvvisa. In una mia vecchia traccia del 2003, Seztar is m2y favourite drug, utilizzo un campionamento in dialetto che recita:

..Oggi ho ritratto

“Al paisa come una bistia” (“Pesa come una bestia”), tratto dal film horror La casa delle finestre che ridono di Pupi Avati. Lo stralcio si riferisce a una scena del film in cui il cadavere annegato di uno dei personaggi, interpretato

quella svergognala menlre crepava...

dall’attore Gianni Cavina,

viene portato a riva gonfio d’acqua. L'utilizzo del dialetto, la location paesana e il film incentrato su una forma

CO NT FS FRAMCESCA MARZIANO

di “terrore rustico” contribuiscono a individuare alcune

RAI FINESTRE®ERIDONO

,

IACASA means PUPI AVATI

COOF dinate dell ‘ep da Cui SONO

MATTELZZI 0 TONE GODO PIZZINAN-VADA GUSONI> DIA

tratte, Straight-Edge Rastafari

son GIAN

MINERVINI ANTONIO A AVATI,AMA fim art

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Manifesto (Sonic Belligeranza 04), che nella fusione di hard drum’n’bass, ragga riddims e liscio, la musica tradizionale delle balere dell’Emila-Romagna, insegue un'estetica folk-(c) or-rorifica già magistralmente avviata dalla pellicola. Poi c’è un’altra dimensione di sampledelia: quella in cui il fruitore non individua immediatamente nella propria banca dati cerebrale la provenienza del sample. Allora scatta tutta una ricerca allo svelamento, che è parte integrante della fruizione del disco stesso, nel senso che “al paisa come una bistia” da me utilizzato fornisce input esteticamente fondamentali per capire dove la traccia intende andare a parare. Nella mia attività di produttore, senza dubbio i campioni cinematografici sono di gran lunga i più numerosi. Sono quelli che preferisco. Ogni “brandello” di pellicola infatti porta con sé, condensato in pochi secondi, un’evocazione del significato ultimo e recondito del film. Utilizzando “Tutto è buono quando è eccessivo”, battuta con cui si apre Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, introduco in un’altra traccia il Sonic Belligeranza 01 cui segue l'ingresso di una cassa speedcore brutale, disumana, iperveloce ed ultraviolenta, assolutamente senza compromessi, proprio

come quel film. Oltre a ciò, andando più in profondità, mi sembra che la sampledelia intesa come il processo di manifestazione del campione apra un continuum tra immagine e suono.

Privando quest’ultimo della sua componente visiva, come accade nel sample di derivazione cinematografica, la musica trasferisce questo aspetto altrove. E come se gli occhi cominciassero ad avere orecchie, come sostiene Michel Chion. O, per essere più precisi, “le orecchie accendono la propria capacità ottica, iniziano a vedere”. Chion è davvero un’autorità incontrastata in fatto di relazioni tra immagine e suoni. 48

Ex allievo di Pierre Schaeffer, celebre compositore di musica concreta, si è poi dato alla teoria tout court, sostenendo, tra

un'infinità di tesi innovative, che ogni senso ha la piena facoltà di tutti gli altri, se orientato nel giusto modo. Per questo ha introdotto l’idea di orecchie dermiche, occhi uditori e altri trasferimenti sinestetici di tal sorta. Oltre a Chion, grande peso su queste riflessioni ha senza dubbio ilgeorico angloafricano Kodwo Eshun, che nelle note biografiche delle sue pubblicazioni si presenta non tanto come critico o commentatore culturale, quanto come ingegnere di concetti, manipolatore di visioni. Eshun scrive di musica elettronica, fantascienza, techno-

cultura, videogiochi, drug culture, arte e cinema postbellici. Sul web si tessono le sue lodi anche come conferenziere, o

per usare il divertente termine riportato, come “lecture gigolò”. Il suo scritto fondamentale è More Brilliant Than The Sun: Adventures In Sonic Fiction (Quartet Books, London 1998).

Un immaginifico excursus che indaga i rapporti tra elettronica e musica nera partendo dalle mutantessiture jazz di Miles Davis, passando per la scratchadelia di Grandmaster Flash,

la “inner” spazializzazione dub di Lee Perry, la sampledelia di The RZA, la technocrazia di Underground Resistance, l’universo mi-

xadelico dei Parliament, per terminare nell’omniverso di Sun Ra.

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Kodwo Eshun, More Brilliant Than the Sun: Adventures in Sonic Fictions

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Da questi e altri afrofuturisti, Kodwo Eshun trae una serie di concetti e fascinazioni, che riassembla in un nuovo sistema

definito sonic fiction. Intersecando suono e fantascienza, esplora i nuovi modelli di percezione che ne emergono e li utilizza per fare critica musicale. Introduce nuovi concetti quali futuritmacchina, turntablization (giradischizzazione?) del mondo, fonoparticelle e Unidentified Audio Objects (Oggetti audio non identificati). Il libro ha la sola pecca di limitare il proptio campo di indagine alla musica mainstream e ad autori consacrati. Ulteriori considerazioni innovative sarebbero potute emergere dall’analisi di certi sottoboschi. Ma concettualmente è potentissimo e, soprattutto nell’intervista “Motion Capture”, è denso di visioni teoriche applicate alla musica elettronica come pochi altri testi in circolazione. Ho incontrato Eshun nel 2005 all’evento “Art Is Not Terrorism” presso Confluences a Parigi, dove eravamo entrambi relatori. Dopo non poche tiritere (che mi hanno sorpreso, considerato l'apprezzamento da lui espresso per il mio intervento) mi ha concesso un'intervista, unico approfondimento sul suo pensiero in lingua italiana. Il testo a suo tempo uscì per il mensile “Music Club”. Se scratchare è pensare con il vinile, allora l'utilizzo del neologismo,

essenziale nella manipolazione di concetti (concept engineering), può essere inteso come uno scratchare con delle idee? Kodwo Eshun: I turntablist hanno tutto un vocabolario di gesti, musica e nomi per i suoni che diventano porte d’accesso a un vero e proprio audio-mondo parallelo abitato dagli scratch, delle forme di vita regnanti nell’impero del microsuono. Gli assoli scratchadelici sono i paralleli sonici delle scene di trasformazione nei film horror/sf. Trasferire il discorso sul piano teorico, come vuoi fare, mi sembra interessante: scratchare un concetto significa renderlo materiale, materializzarlo. 50

Quindi il tuo ricorrere ossessivo a neologismi (mixillogico, conceptechnics, terrowrist, bypercussion ecc.) può essere considerato come un tentativo di scratchare con i concetti?

Nei neologismi si hanno prefissi e suffissi che, come macchine sintattiche, puoi connettere a certe parole. La lingua tedesca è perfetta per questo tipo di sperimentazione verbale e forse questa è la ragione per cui More Brilliant Than The Sun: Adventures In Sonic Biction è stato così apprezzato e alla fine tradotto in Germania. I tedeschi, con i loro paroloni lunghi e teoricamente molto densi, amano il procedimento di “manifattura” di concetti attraverso l’utilizzo di neologismi. I prefissi sono come sospesi in aria, nei libri, nella bocca delle persone, si tratta solo di af-

ferrarli e attaccarli ad altre parole. È necessario però farlo con molta attenzione. Per esempio, conceptechnics è un concetto

molto vasto che si riferisce al processo del pensare attraverso la tecnologia (in questo caso attraverso i Technics 1200). Vedi, un concetto così complesso è compresso... Scratchato? Sì, anche scratchato se vuoi, ma ci tengo ad aggiungere la sfumatura dello “zippato”, della compressione di un file. Il mio libro è molto compresso, l’ho rieditato, dio mio, tredici volte! I

neologismi sono seduttivi e molti dei miei scrittori preferiti, da Joyce in poi, coniano termini nuovi. Il neologismo può essere inteso come generosità di linguaggio, il linguaggio infatti è materia né più né meno di tutte le altre cose, e questa materia può essere forgiata indefinitivamente. Ogni generazione deve reinventare un linguaggio per descrivere la propria realtà e la propria sensibilità estetica. I concetti inventati da un’altra generazione infatti possono non essere più utili. Non possiamo utilizzare itermini creati per la musica classica del diciannovesimo secolo. È nostra responsabilità creare un nuovo linguaggio e trarre piacere mentre lo utilizziamo. Non possiamo neanche descrivere gran parte della nostra musica preferita, nel senso che nel dizionario non ci 51

sono parole per esprimere molte delle emozioni che si provano ascoltandola. In questo senso More Brilliant... intende essere un modo per stare al tempo con quello che stiamo già provando noi e molti altri che avvertono il grosso gap tra ciò che sentiamo e l’incapacità di descriverlo. Questo a maggior ragione per una musica strumentale, in gran parte priva di parole. Il romanzo Triton di Samuel R. Delany immagina una società che enfatizza le differenze: ci sono da trenta a trentacinque sistemi legislativi, da quaranta a quarantacinque sessi di base e una

moltitudine di religioni, partiti politici e così via. Ogni individuo può non solo scegliere una di queste opzioni, ma anche muoversi liberamente tra di esse. Ho trovato delle somiglianze tra questa situazione e quello che capita all’interno della musica dance elettronica contemporanea con l'utilizzo degli eteronimi, ovvero

un singolo artista che utilizza nomi diversi aseconda del progetto musicale. Ti sembra abbia senso il mio discorso? Di solito le persone parlano di pseudonimi, ma mi sembra che siano fuori strada. Lo pseudonimo infatti indica una sorta di pseudo nome, un nome finto, invece gli eteronomi esprimono la moltiplicazione dell’atto della nominazione. Certo la musica elettronica è disseminata di produttori che usano un florilegio di eteronomi. Juan Atkin, per dirne uno, ha utilizzato nel corso della

sua carriera di produttore i seguenti: Model 500, X-Ray, Channel One Frequency, Audiotech e Infiniti. All’inizio del secolo, Fernando Pessoa ha sviluppato nel suo I/ libro dell’inquietudine una teoria dell’eteronimia, da cui ho sviluppato questo concetto di nomi che non si adattano a uno, ma rimangono molteplici (Alberto Caeiro, Ricardo Reis e Alvaro de Campos ecc.). Mi

ha sempre affascinato l’idea di “pandemonio”, secondo il suo etimo latino “molti demoni”.

L’idea chiave è che si tratta di nomi multipli che non si unificano intorno a un'identità unica, ma che al contrario divergono

da essa, che divergono dal sé che li ha generati. 52

La relazione a Triton è quindi in questo senso molto appropriata. Infatti forse il suono sta anticipando un'era in cui potremo scegliere un'identità più di quanto possiamo ora, e in senso molto più profondo della possibilità di scegliere un'identità sessuale (maschile, femminile ecc.) in rete come è

possibile ora. Infatti, in radicale opposizione al cliché della tecnologia come alienante, lé macchine per produrre suoni non ti distanziano dalle emozioni, al contrario, ti fanno sentire più intensamente,

secondo uno spettro più vasto di emozioni che nel ventesimo secolo. Campionamento e rapimento. In Time Out of Joint di P.K. Dick, Ragle Gum, il protagonista del romanzo, annoiandosi con un puzzle su un quotidiano, scopre un altro mondo e un altro tempo che si rivelerà poi cospirare contro di lui. Succede qualcosa di analogo con i campionamenti audio? Il campionamento è come una finestra che si apre sul tempo. La grammatica della sampledelia si gioca su un paesaggio sonoro estremamente frammentato. Quattro, cinque, sei, sette, otto, massimo nove secondi in cui è possibile trovare un universo. Da questo universo si può essere rapiti, proprio

come nel puzzle del quotidiano di Tirze Out of Joint. Il campionamento è potere d’evocazione al cubo, si porta dietro un’atmosfera, un ambiente, un mondo. L’arte sampladelica è basata sul procedimento attraverso cui un campionamento è utilizzato: da un vecchio videoregistratore che legge un vhs su cui si è più volte registrato, si passa al digitale del portatile con un elementare audio editor e poi, per (ri)dargli quel calore analogico, si effetta di nuovo il tutto con plug-in digitali di simulazione analogica. Il campionamento apre un corzinuum tra l’audio e il video, funge da anacronizzatore che derealizza il tempo.

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Trovo molto stimolante anche il tuo spunto su Benjamin e il suo L’opera d’arte nell’età della riproducibilità tecnica. Puoz brevemente sintetizzarlo per il pubblico italiano? Nel mio libro ho sottolineato quanto l'argomento della perdita dell’aura, della perdita dell’unicità dell’oggetto artistico nell’età della riproducibilità tecnica, non sia più valido se parliamo di dubplate, ovvero di copia unica di cui esiste solo un esemplare al mondo. Quella del dubplate è una pratica diffusa dai sound system giamaicani che ha conquistato i dj di tutto il mondo, esaltati dalla possibilità di realizzare version assolutamente personali da sfoderare nel momento più caldo del party come vero e proprio marchio di fabbrica di un certo stile di mixaggio. Con il dubplate dunque l’aura rinasce in piena era di riproducibilità digitale.

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Il vinile: la Grande opera (remix / misteri delle cattedrali di Fulcanelli)

La cassa muore, assai dolcemente.

Le prime luci dell’alba, disperdendo ogni traccia della schizotonia che per tante ore si è protratta inesorabile, spandono un tepore velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel cielo di Hendaye, piccolo nucleo coloniale di frontiera nei Paesi Baschi. Un gioiellino racchiuso tra il verde oceano, il lago Bidassoa, lucente e rapido, e i monti erbosi. La prima impressione, a contatto con quel suolo aspro e

rude, è abbastanza penosa, quasi ostile. Sul mare all’orizzonte, la punta riflessa dei Pirenei, color ocra sotto la luce tagliente, sprofonda nelle acque glauche e abbaglianti del golfo e a stento riesce a rompere l’austerità naturale di quel luogo selvaggio. All’uscita della linea ad alta velocità, un sentiero di campagna costeggia la strada ferrata e conduce alle rovine di quello che nel passato doveva essere stato un edificio di culto. Le mura nude, affiancate da una massiccia torre quadrangolare

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e tronca, si elevano su di un sagrato rialzato di qualche gradino e costellato di alberi dalla folta chioma. Si tratta di un edificio volgare, pesante, rimaneggiato. Vicino al transetto meridionale si nasconde sotto il verde fogliame una croce ciclica, tanto semplice quanto bizzarra. Questo è il sito scelto dalla Resistenza invisibile per il proprio ennesimo rave ermetico, un pastiche di sonorità assolutamente eterogenee, in

aperta violazione dell’assolutismo dei generi vigente e, è il caso di dirlo, costituente.

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La tensione è stata alle stelle durante tutta la nottata: l’ultimo party di dj Scaphandre e i suoi presso l’obelisco di Dammartin nelle regione Champagne-Ardenne si è trasformato in una vera e propria guerriglia urbana contro il servizio di repressione sonica dei Junglist, clan insediato in quella zona. Eretto su di un poggio, nel punto culminante della foresta di Crécy a 134 metri d’altitudine, l’obelisco domina i dintorni con lo svantaggio di essere, attraverso lo spazio vuoto delle strade che tagliano la foresta, visibile da molto lontano. Fattore cruciale per la localizzazione della dimora audiofilosofale da parte dei Junglist che, come di norma, sono intervenuti in massa con gas e armi batteriologiche per sedare l'eresia fonica. Allo stesso tempo però, l'ubicazione dell’obelisco, costruito sulla pianta di un antico esagramma, ha offerto molteplici vie di fuga ai militanti della Fulcanelli Records. Si trova al centro di un incrocio geometricamente regolare, formato dall’intersezione di tre strade che gli danno l’aspetto raggiante d’una stella a sei braccia. Presso la croce ciclica di Hendaye, invece, tutto è andato

liscio, una nottata di elettronica senza compromessi, in cui a suonare è stato il sistema nervoso centrale dei partecipanti,

orchestrato in mix sonori di emozioni digitali e in cui la folla, sintetizzata in un nuovo stadio dall’elettronica, ha agito come 56

uno strumento, un generatore di suoni, a sua volta suonati dalla

musica che ascoltava. Colpire e scomparire nel nulla — la visibilità è una trappola —in pieno stile Resistenza invisibile. Ed è proprio nel momento della fuga che il prof. Snorri Sturlason fa il suo ingresso, insieme alle prime luci dell’alba, presso la dimora audio-filosofale di Hendaye. Si approccia in maniera assai diretta, fermando i primi adepti della Fulcanelli Records che incontra: “Salve, mi chiamo Snorri Sturlason e sono venuto fin qui per incontrare

dj Scaphandre”. Con fare visibilmente scocciato e sospettoso, uno dei due militanti gli risponde smorzando una risata: “Non so nulla di questo incontro con il nostro capo... Certo che esile come sei non sembri proprio un inquisitore sonico

dei Junglist!”. “Sono in contatto con dj Scaphandre da anni, sin da quando al Dipartimento del ritmo svolgevo ricerche sul breakbeat come apparato di cattura del movimento e come motoritmo che genera velocità culturale. Per tutto questo tempo ci siamo tenuti in contatto attraverso messaggi criptati in rete, ma ora, a quanto pare, gli eventi hanno

fatto sì che le nostre strade si incrocino.” “Guarda, non sappiamo di cosa tu stia parlando, te lo ripeto...” prosegue perentorio il militante della Resistenza invisibile. “Io devo vedere Scaphandre, ditemi solo dove posso trovarlo. Potete perquisirmi: non ho altro con me che questa pennetta caricata con dell’audio illegale da riversare su vinile” esclama con fierezza il professore, mostrando la pennetta usb di zaffiro argenteo. “Sia quel che sia, adesso è davvero un brutto momento, mio bel freak. Non vedi che stiamo organizzando il deflusso dal party dell’altra nottata? Dj Scaphandre ha ben altro da fare che pensare alle tue fantasie scratchadeliche!” “Lasciate che venga con voi... Quando il momento sarà propizio, approccerò dj Scaphandre.” 57

“Accomodati sul camion allora, caro mad doctor... Siamo

in partenza”, intima in tono canzonatorio l’altro membro della Fulcanelli Records, rimasto silente fino a quel momento. Finita la frase viene fatto accomodare su un bizzarro furgone autocostruito con un florilegio di pezzi meccanici riciclati - Bmw, Mercedes, Volkswagen, Saab — di seconda mano, per

non dire terza. Affaticato, il prof. Snorri Sturlason, superando l’intralcio del

suo lungo pastrano nero, salta sul mezzo. Immediatamente il mini-tir viene messo in moto e i due terroristi sonici avanzano

verso il posto di guida lasciando solo nel retro Sturlason. “Ehi, ditemi almeno dove stiamo andando?” riesce giusto a biascicare Snorri. “AJ quartier generale della Resistenza invisibile, il Maniero della salamandra di Lisieux” risponde sbrigativamente uno dei due, chiudendo lo sportello che protegge la postazione di guida. Il viaggio dura tre o quattro ore, che Sturlason trascorre dormicchiando. Improvvisamente il camion si ferma. Pochi istanti dopo il portello metallico viene aperto con irruenza. La luce limpida di una giornata estiva si stampa sul volto di Snorri. “Coraggio professore, siamo arrivati!” echeggia sempre stra-

fottente la coppia di seguaci della Fulcanelli Records, tendendo ben quattro braccia a Sturlason. Lievemente intontito, il professore quasi inciampa nella discesa e si ritrova in quel nucleo urbano disabitato della Normandia che è Lisieux. Ovunque dirige lo sguardo, vede case di legno con pignoni in allegato che conferiscono quel carattere medioevale al paesaggio. Ma Snorri Sturlason non ha gran tempo di guardarsi intorno se non vuole perdere i due terroristi sonici, che senza proferire verbo hanno imboccato con decisione Rue aux Fevres e si sono soffermati davanti al numero 9. Buttandosi istintivamente alla rincorsa, Sturlason si ritrova

davanti a un piccolo ma delizioso edificio costruito senza dubbio 58

per volere di un vero adepto nel XVI secolo e decorato da motivi presi in prestito dal simbolismo ermetico e dall’allegoria tradizionale. Arrivato all’ingresso Sturlason è immediatamente colpito dalla bellezza dello stile e dalla delicatezza dell’esecuzione, che fanno della piccola porta del Maniero uno dei più bei prototipi della scultura in legno dell’epoca. Entrando non può fare a meno di notare sul timpano dell’uscio, sul pilastro sinistro dell’intelaiatura e sullo stipite destro, il triplice segno della raffigurazione della Salamandra, geroglifico a cui la dimora è simbolicamente dedicata. Immediatamente capisce anche cos'era quell’insegna enorme sull’abbaino del soffitto dell’edificio, quasi inaccessibile e innalzata verso il cielo, intravista da lontano mentre seguiva il passo frettoloso dei militanti della Resistenza invisibile. Si tratta del rettile araldico che stringe la sommità del tettuccio, tra due draghi — uno aptero (senza ali) e uno crisoptero (dalle ali dorate) — scolpiti parallelamente sul legno della parete esterna. “La salamandra,” riflette Sturlason “l’emblema del fuoco

segreto del vinile, dal greco “agitazione/tumulto” e “cavernosità/eremitaggio””. Ma non è questo il momento di perdersi in elucubrazioni, gli adepti della Fulcanelli Records sono sempre più lontani e se non vuole perderli Snorri deve muoversi. Inizia dunque una rincorsa all'impazzata all’interno del labirintico edificio, seguendo l’incedere imperioso degli anfibi delle sue due guide. Passa attraverso corridoi senza fine, stanze spoglie, scalinate impervie, senza mai incontrare anima viva, solo l’echeggiare ossessivo del toc toc dei passi di chi lo precede. Durante l’inseguimento, la sua attenzione viene ripetutamente attirata da un'infinità di geroglifici e simboli allegorici disseminati nei punti più improbabili: sotto l’arco della porta, una raffigurazione di un uomo a cavallo su di un mucchio di cadaveri umani mangiati da uccelli; sul timpano mutilato della 59

porta, ci sono dei fabbri i cui martelli, alla base dei pilastri, battono su di un’incudine assente; sul beccatello un drago alato dalla coda arrotolata come un ricciolo; sul pilastro mediano del piano terreno, una scimmia intenta a mangiare i frutti di un

giovane melo; al primo piano sul pilastro sinistro della facciata, la scultura di un’enorme testa provvista d’una barba a punta che fa una smorfia, una maschera fiammeggiante munita di corna e corona, il Baphomet; al centro degli archi, su una finestra, una

sorta di Ercole completamente nudo che sostiene con grande sforzo l'enorme massa di un Baphomet solare e ovunque le decorazioni esteriori recanti il motto: Labor imzprobus omnia vincit (Il duro lavoro trionfa su tutto). D'un tratto il toc toc incessante tace di colpo. I suoi duri e rudi Virgili lo aspettano all’ingresso di uno stanzone enorme. Avvicinandosi Snorri prova un forte senso di riverenza. “Come promesso, eccoci arrivati a destinazione. Qui dentro trovi il nostro capo. Sbrigati che ti sta aspettando” esclamano all’unisono i due, scandendo lettera dopo lettera. “Vi ringrazio” risponde sempre più timoroso il professore,

facendo lentamente il suo ingresso nello stanzone poco illuminato e spoglio di ogni arredamento e oggetto, ci sono solo due voluminosi scranni in legno posti al centro. Su uno dei due, se ne sta seduto un uomo, giovane, sulla trentina, capelli rasati, occhi verdi, bei lineamenti.

Deve trattarsi senz’altro del celebre dj Scaphandre. “Ben venuto, Snorri. È per me un immenso piacere incontrarti dopo tutti questi anni di corrispondenza elettronica nei più criptici gruppi di discussione su ingegnerie poliritmiche e ritmolecole.” “Il piacere è tutto mio” risponde Sturlason con fare ceri-

monioso, prendendo posto sullo scranno vuoto al centro della stanza, di fronte al boss della Fulcanelli Records.

“Dunque, i miei infiltrati all’interno della psicopolizia dei 60

sette clan mi hanno informato che, a seguito di una riunione straordinaria del Consiglio supremo dei generi musicali, è stato emesso un mandato di cattura ed eliminazione nei tuoi confronti. Puoi ritenerti un uomo braccato dall’enclave coloniale al completo: Junglist, Dub/Ragga, Ambient/Minimal, House, Gabber, Hip Hop e Goa/Trance. Complimenti professore” afferma cof aperto sarcasmo dj Scaphandre. “Lo immaginavo” risponde con sicurezza il professore esibendo con orgoglio la pennetta usb con l’audio illegale. “E

tutto ciò per questo!”

“Di che cosa si tratta?” chiede istintivamente il leader della Resistenza invisibile. “Sostanze mixadeliche non autorizzate. Il frutto del mio lavoro di ricerca di venti anni presso il Dipartimento del ritmo. Ho già ben ventidue vinili stampati segretamente grazie alle aderenze derivanti dal mio ex ruolo professionale in questi anni. Ora intendo completare la serie mettendo su vinile questo ultimo master.” “Per questo ti sei rivolto a noi?” taglia corto Scaphandre abbozzando un sorriso. “Esattamente! Questo ventitreesimo vinile mi è necessario

per scoccare l’attacco definitivo alla società della Distensione psichica” dice Snorri con fare spiritato, gli occhi fissi, l’espressione determinata. “Gli eventi hanno unito tutte le strade della sovversione del potere precostituito. Anche noi, come etichetta Fulcanelli, stiamo preparando l’uscita della nostra ultima produzione: il Fulcanelli 023, per citarti il numero di catalogo.” Concitato interviene Sturlason: “Potremmo far coincidere i nostri piani? Potrebbe il Fu/carelli 023 essere l'audio da me preparato?”. “Quando ci si trova davanti a prove così tangibili di presenza di meccaniche superiori a dirigere gli eventi, sarebbe 61

pericoloso osteggiarle. Così ha da essere. Fulcanelli 023 sarà prodotto dal professor Snorri Sturlason” decreta, perentorio, dj Scaphandre. “Questa è esattamente la risposta che mi aspettavo. Ti confesso che, anche prima di decidere di contattarvi, ho avuto la

sensazione premonitrice che le nostre strade fossero destinate a incontrarsi” annuisce il professore, rapito da una punta di commozione.

“Sia ben chiaro che dovrai seguire accuratamente insieme a noi ogni fase della preparazione del vinile” dice dj Scaphandre. “Non chiedo altro. Le tecnologie viniliche, vero e proprio tabù all’interno della società della Distensione psichica, sono da sempre un miraggio irraggiungibile per me. Non chiedo altro che essere iniziato alla Grande opera” esclama con fierezza Sturlason. “DELLA GRANDE

OPERA DIRE POCO, FARE MOLTO,

TACERE SEMPRE. Le sue vie sono molteplici e allusive: vie umide e secche, fisse e volatili. La conoscenza del momento

propizio, dei tempi, dei luoghi, della stagione è indispensabile per il successo della produzione segreta del vinile. Dovrai imparare a catturare un raggio di sole, condensarlo sotto la forma sostanziale del fuoco potabile e dell’acqua inceneritrice, nutrire di rumore da una parte e ritmo dall’altra questo fuoco spirituale corporificato e poi stamparne migliaia di copie. Ma permettimi di ricorrere a delle raffigurazioni allegoriche” dice il boss della Fulcanelli Records estraendo una preziosa ceramica della dimensione di una tela, con raffigurati due scudi su campo ornato da tre fiori. “Lo vedi questo fiore di Lys o iris? Questo è il simbolo della prima fase della Grande opera. Il transfer/ calcinazione (fase nera). Poi c’è questo giglio araldico, che rappresenta la seconda fase, lavaggio galvanico/lisciviazione (fase bianca). Infine la rosa canina, ovvero la terza fase, pressaggio/ fissazione del volatile (fase rossa)”.

“Capisco! E le tecnologie necessarie per queste tre fasi dove 62

sono? Forse in questo edificio?” chiede in preda alla curiosità Snorri. “Assolutamente no! Sarebbe imprudente tenerle in un solo luogo. Con un’irruzione improvvisa degli apparati militari dei sette clan rischieremmo di vederci sequestrato tutto il nostro potere. I macchinari esoterici sono disseminati in alcune dimore audio-filosofali all’interno delle colonie francesi. Il transfer si trova nel cafnino ermetico del castello di Terre-Neuve, le vasche

galvaniche presso la fontana di Vertbois a Parigi e infine la pressa nell’athanor-forno filosofico della casa dell’ Absolu a Le Mans.” “Quindi dovremo recarci in ognuno di questi luoghi?” domanda il professore già intuendo la risposta. “Proprio così. Ma prima ti devo parlare degli ingredienti necessari alla realizzazione della Grande opera” afferma dj Scaphandre tirando fuori altre due immagini simboliche: una costituita da uno schizzo su carta, l’altra da una piccola scultura in legno. “In questa allegoria” prosegue indicando lo schizzo su carta raffigurante un leone e una leonessa che si fronteggiano reggendo con le zampe anteriori una maschera umana che impersonifica il sole “trovi indicati gli ingredienti astratti: il leone e la leonessa rispecchiano l’espressione fisica delle due nature, di forma simile, ma dalle proprietà contrarie, che l’arte

deve scegliere all’inizio della pratica. Il leone segnala la natura rumorosa, mentre la leonessa quella ritmica. Dalla loro unione secondo regole segrete, deriva la duplice natura della materia vinilica, sostanza contemporaneamente positiva e negativa che contiene il proprio agente e costituisce la base, il fondamento della Grande opera”. Sturlason continua a seguire con estrema curiosità.

“Istoriato nel legno” continua dj Scaphandre, concentrando l’attenzione sul terzo argomento allusivo “trovi un personaggio che tiene stretto tra le gambe un grifone con zampe provviste di artigli e la coda di leone. Con la mano sinistra l’uomo afferra il mostro vicino alla testa e con la destra accenna il gesto 63

di colpire. Dovresti riconoscere in questa decorazione uno degli emblemi maggiori della scienza, quello che abbraccia la preparazione delle materie prime dell’Opera, i cosiddetti ingredienti solidi.” Snorri annuisce in pieno assenso, sempre concentratissimo.

“Per la produzione del vinile” riprende Scaphandre “ti saranno necessari: lo zaffiro filosofico per la puntina del tornio, la macchina che fa l'incisione nella prima fase transfer, il nichel-argento umido per le creazioni elettrolitiche della seconda fase galvanica e infine la polpa di vinile secca come supporto volatile su cui stampare per il pressaggio terza fase. Questa è la procedura consueta di preparazione del vinile” fa come per concludere in tono ieratico Scaphandre. Quindi, una volta creato l’effetto di suspence voluto, prosegue: “Per il Fulcanelli 023 però utilizzeremo altri due ingredienti solidi speciali che lo renderanno di una potenza unica e irripetibile, il dubplate definitivo. Questi due ingredienti speciali sono: il vetro colorato della cattedrale di Chartres e un altro elemento di cui non posso rivelarti nulla ora... ne verrai a conoscenza al momento dovuto”. “Capisco! Immagino che la Fulcanelli Records possegga ciascuno di questi ingredienti solidi” suppone il professore. “Certamente!” risponde Scaphandre. “Vista la nostra continua attività di pressaggio di dischi siamo in possesso sia dello zaffiro filosofico sia del nichel-argento umidi sia della polpa di vinile secca. Sarà però necessario procurarsi il resto, gli altri due ingredienti speciali”. “E come potremmo fare?” chiede un po’ preoccupato Sturlason. “Con un'azione diretta. Non c’è tempo da perdere, colpiremo questa notte stessa prendendo a sassate le vetrate della cattedrale di Chartres per cercare di rubare quanti più cocci possibile dei celebri vetri rossi e blu” dichiara il leader della Resistenza invisibile. 64

Snorri fa un cenno di assenso, ormai anche lui fa parte della Fulcanelli Records. “Ora però vai a riposare qualche ora, sei in viaggio da almeno un'intera giornata. Ci sarà bisogno anche del tuo contributo questa notte. Ti ho fatto preparare un giaciglio nella camerata qui di fianco. Penseremo noi a svegliarti quando sarà il momento” gli dice Scaphandre. “Graziefinfinite, effettivamente sono esausto” taglia corto il prof. E si dirige verso il letto. Prima di uscire dallo stanzone però gli viene una curiosità: “E l’altro ingrediente solido? In che cosa consiste? Dove lo troveremo?”.

“Lo saprai al momento dovuto, buon riposo!” asserisce glaciale il boss della Fulcanelli Records. AI che Sturlason imbocca l’uscita e in meno di dieci minuti, sfinito com'è, ha già preso sonno. Lo risveglia bruscamente sei

ore dopo un militante della Resistenza invisibile: “Coraggio, è ora di andare. Scaphandre ti sta aspettando sul camion”. In fretta e furia Snorri esce dal torpore del sonno e si precipita sul folle mezzo di riciclo della Fulcanelli Records. All’interno del mini-tir neanche una parola, facce tese e contratte che precedono ogni missione da compiere. Dj Scaphandre se ne sta rannicchiato e concentratissimo in un angolo. Il viaggio dura almeno due ore, fino a quando, di punto in bianco, il camion si ferma. Scendono nel centro di Chartres, nucleo urbano situato

nel clan dei Goa/Trance. Il manipolo degli adepti della Resistenza invisibile conta sette uomini, dj Scaphandre e Sturlason inclusi. Tutti muniti di contenitori elastici carichi di pietre. Senza perdere un attimo, scesi dal mezzo, corrono all’impazzata verso la cattedrale. PAAAAAMMMMM, la prima sassata fa centro, seguita da una pioggia di vetrate che si sbriciolano, il rosso e il blu dei vetri colorano la nottata oscura. Immediatamente scatta un allarme acustico fortissimo e nel giro di pochi secondi la psicopolizia Goa/Trance apre il fuoco su di loro. Preso dal panico, Snorri indietreggia verso il 65

mini-tir. Nella confusione intravede Scaphandre che continua ad avanzare, inarrestabile, per cercare di raccogliere quanti più cocci delle vetrate di Chartres possibile. Un’orgia di proiettili lo avvolge, Sturlason non osa neanche guardare. Arrivato a destinazione, si rituffa nel camion aspettando nell’ansia il ritorno dei compagni. Non passano pochi minuti che questi arrivano e il mezzo riparte all’impazzata, tra il sibilare degli spari. Solo a bordo il professore si rende conto di quanto è successo: dj Scaphandre, leader della Resistenza invisibile, ha perso la vita nell'operazione. Il cadavere è sdraiato sul retro del camion, i pugni contratti e insanguinati che stringono cocci blu e rossi delle vetrate di Chartres. I suoi uomini gli rendono onore. “È morto in battaglia come ha sempre voluto, è morto da eroe!” esclama uno di loro. “Lunga vita a dj Scaphandre” ripetono all’unisono — Sturlason compreso — stringendo il pugno sinistro in alto. Poi procedono a cercare di far mollare la presa dalle mani contratte del cadavere. Dopo numerosi tentativi, ci riescono e, impregnate del sangue di Scaphandre, ben cinque scaglie di vetro diffondono luci rosse e blu all’interno del furgone. “Non appena arrivati a Lisieux al Maniero della salamandra procederemo all’esecuzione del testamento del boss della Fulcanelli Records” dichiara prendendo le redini della situazione uno dei militanti della Resistenza invisibile. “E, se posso permettermi, in cosa consisterà questa esecu-

zione testamentaria?” domanda il professore. “La volontà di Scaphandre è da sempre di fondersi con il suono, di diventare rumore, battute spezzate, frequenze distorte... E in qualità di suono sferrare l’attacco definitivo alla società della Distensione psichica” ribatte l’adepto. Poi abbandonando l’ermeticità dei toni aggiunge: “Il corpo di Scaphandre sarà cremato e le sue ceneri saranno l’ultimo ingrediente necessario alla preparazione del vinile Fulcarelli 023”.

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Il vinile: la Grande opera / parte 2 (remix Le dimore filosofali di Fulcanelli)

Il prof. Sturlason abbandona Lisieux alle prime ore del mattino. Sfinito da una notte movimentata e insonne, conclusasi con

l’interminabile veglia del rituale di cremazione del cadavere di Scaphandre, ne approfitta per recuperare qualche ora di sonno nella cabina di guida del camion della Fulcanelli Records lanciato in direzione Terre-Neuve. Rannicchiato nel suo pastrano nero, avverte sul corpo la pressione del sacchetto di cuoio contenente le schegge delle vetrate di Chartres e le ceneri di dj Scaphandre. Probabilmente una somatizzazione a livello inconscio della responsabilità che grava su di lui. Anche questa volta il viaggio trascorre senza lasciar traccia

alcuna nella sua memoria. I finestrini oscurati del mini-tir e il suo stato di dormiveglia non gli permettono di ricordare molto, se non quattro ore di un ragliare assordante e continuo prodotto dalla vetusta meccanica di motorizzazione del veicolo. Poi improvvisamente l’arrivo. I 67

suoi tre accompagnatori della Resistenza invisibile lo invitano a scendere. Sturlason si trova davanti a un curioso edificio, una

sorta di semplice podere a mezzadria trasformato in un castello, il castello di Terre-Neuve appunto. Imbocca rapido l'ingresso, seguendo in silenzio i tre dj della Fulcanelli Records. Il castello è disseminato di un'incredibile varietà e abbondanza di oggetti d’arte: pannelli dorati in stile Luigi XIV, tende dell’epoca di Enrico IV, tessuti in seta di Fiandra, mobili Luigi XIV, incisioni, terracotte smaltate, bronzi fiorentini e piatti cine-

si. Finalmente la comitiva arriva nel gran salone, dove troneggia, monumentale e sontuoso, il camino ermetico. Sturlason viene

immediatamente colpito dalla disarmonia e dalla freddezza d’un lusso troppo vistoso, spinto all’estremo, tipico delle costruzioni di dimensioni massicce. Non può fare a meno di notare l’eccessiva pesantezza del rivestimento della cappa, che poggia su pilastri sottili, le superfici mal equilibrate tra loro e una generale povertà di forme e d’invenzione, a malapena mascherata sotto lo sforzo degli ornamenti, delle scanalature, degli arabeschi, prodigati con vanitosa ostentazione. Il rivestimento è strutturato come se fosse un cornicione,

carico di svolazzi e di figure simboliche, appoggia su due pilastri di pietra, cilindrici e fissi. Sull’abaco è applicata un’architrave scanalata. Sotto un quarto di ovoli e con tre foglie d’acanto applicate sopra, vi sono quattro cariatidi e un bizzarro pannello decorativo che sfoggia un geroglifico: un cigno, maestosamente posato sull’acqua calma d’uno stagno, con il collo trafitto da una freccia. Il suo ultimo lamento è riferito dall’epigrafe: Propriis pereo pennis, muoio per mezzo delle mie stesse piume. Proprio quella

scultura fornisce una delle materie prime necessarie per fabbri-

care l’arma che servirà a ucciderlo: l’impennaggio della freccia, rendendo sicura la direzione, permette di aggiustare la mira. 68

Poiché sono le penne del cigno a compiere questa funzione, contribuiscono alla sua morte.

“Coraggio diamoci da fare” Sturlason si risveglia dal proprio torpore contemplativo. “Professore, mi allunghi il master” gli dice uno dei tre militanti. Istintivamente Snorri allunga la preziosa pennetta carica di sostanze mixadeliche illegali e la infila dove gli viene indicato: un convertitore a 16 bit digitale-analogico che tramuta il segnale numerico in segnale analogico sinusoidale, facendolo così entrare nella pressa per l’incisione, detta anche tornio. Mentre un dj si occupa di pulire la preziosissima testina di zaffiro, un altro prepara la matrice di alluminio, depositando in modo uniforme una vernice detta compost, stando ben attento a non provocare sulla superficie avvallamenti o dossi in grado di creare problemi in fase di lettura. Quindi si passa alla fase di calcinazione: come un aratro lascia un solco sul campo, così la puntina di zaffiro munita di una pompa da vuoto va ad aspirare il truciolo residuo per non lasciare microdetriti sullo zaffiro stesso. Così i dati audio analogici si depositano sul solco della matrice disponendo stereofonicamente sul fianco interno il canale sinistro e su quello esterno il canale di destra. In meno di mezz'ora, il transfer è effettuato. In fretta e furia, con la matrice calcinata a braccio,

Sturlason e gli attivisti della Fulcanelli Records rimontano sul camion, direzione fontana di Vertbois, a Parigi.

Mentre il mini-tir sfreccia verso la capitale delle sette colonie francesi, situata nel clan Hip Hop, Snorri, ammirato, analizza

millimetro per millimetro la matrice del Fu/canelli 023. Gli riesce difficile realizzare che il frutto di anni e anni di ricerche fonotroniche presso il Dipartimento del ritmo sia racchiuso nei fianchi di quel solco. Ripresosi dall’estasi vinilica, Snorri sostituisce alla guida il conducente del camion e in questo modo, per la prima volta durante tutti quei viaggi black out, ha l'occasione di farsi un'idea del paesaggio circostante. I territori sono aspri e brulli, privi di vegetazione, la flora è 69

del tutto sintetizzata in laboratorio. Certo non si era perso granché fino ad allora... Improvvisamente compaiono i primi nuclei urbani a colorare la monotonia della visione, devono essere giunti a ridosso di Parigi. Attraversano la périphérique ed escono all’uscita Rue Saint-Martin. In meno di un quarto d’ora si ritrovano davanti a una piccola costruzione, addossata a una

torre, composta da una nicchia rettangolare poco profonda, inquadrata da due pilastri dorici dalle bozze vermicolari, che sostengono un cornicione enorme con architrave. Scolpito a grandezza cubitale il serpente OUROBOROS, che divora la sua coda assumendo una forma circolare. È il simbolo dell’infinito, dell'eternità e della perfezione, traduzione

dell’unione del tellurico con il volatile. La fontana di Vertbois, costruita dai benedettini di Saint

Martin Des Champs nel 1633, si staglia in tutto il suo splendore di fronte agli sguardi decisi e determinati della comitiva della Resistenza invisibile. I quattro scendono dal camion trasportando la matrice calcinata, iniziando a eseguire il lavaggio galvanico anche detto lisciviazione. La matrice viene prima sgrassata ed argentata, poi inserita nella fontana di Vertbois, dove per effetto elettrolitico si ricopre di nichel-argento in modo che gli ioni si stacchino e solidifichino sulla matrice ottenendo uno strato d’alkaestsu su cui è impressa l’impronta negativa del disco, ovvero il solco al contrario. Dal negativo, tramite un’ulteriore abluzione galvanica nella fontana, viene realizzato il preziosissimo positivo, lo stamper. Fissando la madre del disco nella penombra del mini-tir,

Sturlason ha un profondo momento di commozione: le sue intricate e aggrovigliate fiction soniche, le sue tessiture mutanti

di fonoparticelle, i suoi soli scratchadelici stanno per trovare

finalmente espressione. È come se potesse avvertire la perturbazione del suono attraverso l’aria farsi sempre più imminente. È con questi pensieri ossessivi che il professore arriva a Le 70

Mans, ultima tappa della Grande opera. La casa dell’Absolu è una costruzione come migliaia di altre nel nord della colonia francese, costituita da una solida muratura rustica che rappresenta un prototipo dell’architettura civile del XV secolo. Ma un aspetto esteriore tanto anonimo e'iinsignificante non può fare a

meno di nascondere interni assai originali: una cripta appena illuminata dalla luce del giorno. All’ingresso una fucina spenta, coperta di polvere, e battiture di ferro: la bicornia, il martello, le cesoie e alcune lingottiere arrugginite. Poi delle ampolle piene di emulsioni opalescenti, di liquidi glauchi e rugginosi che esalano un tanfo d’acido, la cui asprezza prende alla gola e pizzica le narici. Al centro della cripta, l’athanor, o forno filosofico, un

ammasso caotico di strumenti arcaici, una specie di cafarnao di materiali bizzarri, guazzabuglio di faune impressionanti. Sulla cappa di questo stanno allineati dei curiosi vasi oblunghi, che allungano i loro colli ora sottili e cilindrici, ora svasati e larghi. Lungo una cornice di pietra ci sono delle uova filosofiche ialine che contrastano con la cucurbita massiccia e tondeggiante — praegnans cucurbita. Il momento del pressaggio (fase bianca) è giunto! I dj della Resistenza invisibile scaldano l’athanor mentre Sturlason prepara il rebis, l’impasto di polpa di vinile, ceneri di Scaphandre e cocci delle vetrate di Chartres da inserire nel forno acceso. Il resto della procedura è automatico: il rebis viene trasportato all’interno dell’athanor dove sono stati posizionati i due stamper con le facciate A e B del disco. Per.un certo periodo di tempo l’athanor si chiude, il calore e la pressione distribuiscono tutto il vinile fino a farne fuoriuscire una parte dello stampo. Poi il forno filosofico si riapre, il vinile viene

sputato fuori. Vengono tagliate le bave esterne: il Fu/canelli 023 è pronto.

val

Come si cura

il gabber!

Tanta esibizione di rudezza, machismo e tracotante spirito guerrafondaio è in fin dei conti assolutamente in linea con la bonomia e l’affettività dell’orso, che tanto più appare feroce all’esterno, quanto più è nel fondo del suo cuore un tenerone (almeno nei confronti degli altri membri del thunderdome branco). D'altronde perfino l’etimologia del termine gabber (che si pronuncia gabba), dallo slang neerlandese compare, meglio ancora cumpà, guaglione, tradisce questa componente da gigante buono, solo un po’ stupido. E a proposito di stupidità, credo che in fondo l’idiozia fine a se stessa sia essenziale in ogni sottocultura, e che tale idiozia rappresenti un punto di scarto nei confronti della cultura dominante. ! In linea con gli esperimenti di remix letterario e campionamento di conceptechnics suonati live in Apocalypso disco, il seguente capitolo traspone in audio alcune intuizioni da Corze si cura il nazi di Franco Bifo Berardi, Castelvecchi, 1993.

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Tutto quell’insieme di ritualità tipiche dell’interagire di un determinato gruppo di persone che si riuniscono ideologicamente in uno stile hanno un’essenziale componente di stupidità da tribù (pensiamo al pogo del punk, allo stagediving dell’hc, al headbanging del metal), che è allo stesso tempo la sua fantastica cifra rivoluzionaria. La gabber, con l’internazionale danza del gabberino e il fenomeno #pecificamente italiano delle piramidi umane degli hardcore warrior, ha regalato all'umanità alcuni dei tratti

distintivi più eccezionalmente idioti che ogni controcultura possa ricordare. Gli hardcore warrior sono una declinazione stilistica (che ascolta però lo stesso sound a 180 bpm!) diffusasi esclusivamente nel nostro paese contraddistinta dalle creste colorate al posto della testa rasata e da un cyber abbigliamento fatto di collari borchiati, pantacalze fosforescenti, attillate canotte sgargianti e face painting, che è entrata in collisione anche fisica con la cultura madre gabba. La piramide umana è specificamente un loro rito, veniva fatta in chiusura al

Number One a Cortefranca (Brescia) in sala 2,

area che originariamente era dedicata alla musica metal. Con la trasformazione del locale bresciano in direzione techno, il pogo di tanti anni di metallo pesante ha continuato a essere praticato anche dal nuovo pubblico e dal 2000 è culminato in un groviglio umano in cui un hardcore warrior salta su un altro edificando un monolite: chi arriva in cima alla piramide e tocca il soffitto viene incoronato imperatore del reame gabber. La danza gabber, il cui nome è hakken, è caratterizzata da una serie di movimenti veloci e scatti nervosi delle gambe al ritmo della cassa, che può raggiungere anche i 190 bpm.

L'origine è indefinita: probabilmente è uno storpiamento del balletto presente in Out of Space dei Prodigy e deve il suo nome allo slogan hakkàh! coniato da uno dei pionieri del genere, Dark Raver. 73

Piramide delle mie brame chi è il gabber più bello del reame?

In questa danza i passi si susseguono velocissimi a ogni battere di cassa, senza pause, braccia e bacino hanno un ruolo

meno importante e seguono altri elementi musicali. Troppo poco è stato scritto, detto, dibattuto sulla gabber, specialmente nel nostro paese. In Olanda, invece, terra natia di questo fenomeno, andava in onda persino un programma settimanale di nome Hakkuuub!?! sul network olandese Tmf,

la versione ducth di Mtv. Però al di fuori dei Paesi Bassi questa sottocultura è stata snobbata, in quanto priva di contenuti ed eterodiretta. Opinioni assolutamente vere, ma che dal mio punto di vista sono parte integrante e ideologica di questo stile sottoculturale privo di ogni visione che non sia felpa Lonsdale, pantaloni da ginnastica Australian, Nike classics, piercing facciali estremi. Ma intendiamoci: il gabber look è davvero avanti, e non

perché sia bello o brutto, ma in quanto prevede una vera riprogettazione dell’essere umano attraverso abbigliamento sintetico e crapa rasata, che spicca ancora di più a livello di contrasto

sul gentil sesso. 74

Infatti vedere una ragazza sui diciassette anni, abbastanza carina, capelli con frangetta e dietro sparati color platino, felpa con zip della Bsa giallo fosforescente, scaldamuscoli pelosi in lana sopra le caviglie e buffalo viola e bianche ai piedi fare il saluto nazista a ritmo di 200 bpm sul dancefloor è, ritengo, uno

degli spettacoli più stranianti che una sottocultura possa offrire. Ma la politica, almeno quella in senso tradizionale e ideologico, c'entra poco. Il fascismo, se rivendicato (cosa questa da non dare per scontata sempre e in ogni caso, come qualcuno crede quando si parla di techno hardcore) è esibito nelle movenze e nel comportamento allo stesso modo in cui si esibisce il nuovo piercing tra i due globi oculari. Quello che rimane è una sconfinata ignoranza, quella sì drammaticamente politica, frutto di un’alienazione postindustriale che rivela proprio nei momenti di tempo libero i suoi aspetti di totale controllo eterodiretto dal mercato. A fare da padrone è un qualunquismo edonistico radicale e no future, nel senso che c’è il rischio letterale che durante il

Global Hardcore Nation qualcuno ci lasci le penne per le troppe pasticche prese sconsideratamente. La prima ondata di gabber nasce musicalmente dalle ceneri dell’hard-house, nei primi anni novanta, a Rotterdam, nei din-

torni di Den Hag e in parte anche ad Amsterdam, da sonorità ispirate e finalizzate a un elementare edonismo, scandito da cassa in 4/4 a 140 bpm con contrappunti di linee di synth melodici e campioni vocali di soul, il cui unico scopo è trovare la soluzio-

ne più efficace per intrattenere. L’elementarità è sicuramente una delle chiavi di lettura dell’attecchimento del nazismo,

come rileva Wilhelm Reich: “Poiché il nazionalsocialismo è un movimento elementare, non lo si può attaccare con argomenti. Gli argomenti sarebbero efficaci solo se il movimento si fosse sviluppato attraverso gli argomenti. I discorsi nazionalsocialisti si distinguono per l’abilità con cui fanno leva sui sentimenti della 79

massa e per l’abilità con cui evitano il più possibile qualsiasi argomentazione obiettiva”.

Allo stesso modo la gabber dei Neophyte o di Paul Elstak è prodotta in serie per cavalcare l’edonismo di massa più superficiale in quell’Olanda anni ottanta-novanta, mecca del mercato del proibito (prostituzione, droghe libere...) e, ovviamente, in

maniera radicale, evita ogni argomentazione sonica più complessa o sperimentale. Insistendo nella provocazione, il decreto sulla riorganizzazione della proprietà rurale del Terzo Reich del maggio 1933 recita: “Il legame indissolubile fra sangue e terra è la premessa indispensabile per la vita sana di un popolo. La fattoria è eredità inalienabile del ceppo rurale avito”. Sembrano le parole sapierziali del capo di una balotta di hardcore warrior no? “Il legame indissolubile fra sangue e dancefloor è la premessa indispensabile per la vita della gabber nation. La cassa dritta a 180 bpm è eredità inalienabile del ceppo rurale del thunderdome.” E si potrebbe continuare su questa-linea di parallelismo distopico, che però in fin dei conti poco lascia al di là del piacere intellettuale del confronto iperbolico, dell’esagerazione provocatoria fine a se stessa... Proprio come l’esibito

atteggiamento bellico e la xenofobia rivendicata dai gabber, in ultima analisi una questione più di adesione alla moda del branco che altro. Ciò detto, i danni protratti dalla furia gabber rimangono, ma non ha senso inquadrarli in qualcosa di diverso da una generica devianza giovanile foraggiata dall’ignoranza e da un qualunquismo da banlieue eurotechnocentrica. In fin dei conti, alcuni dei produttori seminali del genere, come il già citato Dark Raver, sono neri, per non citare l’inglese Loftgroover. Rimanendo sempre in ambito speedcore, abbiamo un progetto tedesco storico attivo dal 1993 nominato Anc (Anti

Nazi Core) e l'etichetta techno-hardcore Mokum ha stampato 76

sulla busta mix generica delle sue produzioni un logo assai esplicito: UNITED HARDCORE AGAINST RACISM AND FASCISM.

La lista potrebbe continuare, ma credo già basti a sfatare un luogo comune. Certo ci sono anche i neofascisti, quelli che ci credono e militano, ma sono una minoranza e non hanno gran seguito.

Diciamocelo chiaramente: chi conosce l’olandese dj nazionalsocialista (come lui stesso si presenta) Panzerfaust? Chi ha mai sentito suonare in giro i suoi loffissimi anthem Wbite Revolution 2009/Wbhite core 2009, Radical Islam plague of the world o Aryan Techno, in cui la solita cassa bumbum è cadenzata da registrazioni d'epoca di gerarchi nazisti? L’originalità non è proprio il punto forte nemmeno in Ah ab ab de Antifa o nella sua risposta vinilica Urzted Gabber Against Antifa. Musica di una banalità sconcertante, suonata da un coglione

che nessuno conosce. Tornando alla nostra storia, la gabber, nata come suono edonistico radicalmente eterodiretto dal mercato, è andata

poi incontro, in modo specifico nella città di Rotterdam con produttori tipo Sperminator ed Euromasters, a un processo di lumpenproletariatizzazione simile per certi versi all’oi per il punk. Eliminate le linee melodiche di synth e certi vocalismi hardhouse e rimane la cassa frenetica a 190 bpm, che ricorda l’alienazione delle macchine della catena di montaggio. Come ricorda l’australiano Mark Newlands della leggendaria Bloody Fist Records, label essenziale per questa scena di gabba antagonista: “A Newcastle la maggior parte della gente che collabora all’etichetta lavora nelle fonderie o ha parenti dali

che lavorano nell’industria. La nostra musica riflette molto quell’ambiente, che non è un ambiente bello. È un posto abbastanza brutto, la catena di montaggio”. La techno hardcore, condita da rumori urbani, suoni indu-

striali e atmosfere cupe, si ritaglia dunque anche un profilo di suono agitprop, rivoluzionario e diventa colonna sonora del sottoproletariato più deviante d’Europa e d'Australia, essendo la oceanica Bloody Fist una delle label di punta nell’ambito. Ma attenzione: se le accuse di nazionalsocialismo hanno poco senso, lo stesso vale per la pretesa componente militante del sound. Una cresta gabber, per quanto a punte o colorata, non sarà mai paragonabile a un crestone del punk delle origini: le creste gabber sono infatti niente più che un gadget, tanto quanto la camicia Fred Perry. Non hanno connotazione ideologica, sono solo in senso tragicamente qualunquista un arredo, punto e basta.

C'è cresta e cresta...

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Se prima avevo riferito dello straniamento nel vedere una gabberina di 17 anni all’opera con la sua danza hakken, non da meno è vedere un attributo di un’altra sottocultura, come

il crestone degli hardcore warrior, darci sotto muovendosi al passo del ballo thunderdome, velocissimo, senza pause, a ogni

colpo di cassa!!! Questo è puro gabber-svuotamento dei contenuti, all'insegna di un edon&mo in vendita tra il merchandising del mega rave. In questo senso, il contributo di label come Praxis Records, l’hardcore di Tolosa delle sorelle Michelson e, perché no, Sonic

Belligeranza, va secondo me realisticamente considerato più come un virus sperimentale nel mare magnum della techno hardcore che come una via credibile, consolidata e riconosciuta

per una gabber antisistema. Si tratta in ultima analisi di una declinazione minoritaria del genere, per pochi aristocratici cultori di questo terrorismo sonoro fortemente di nicchia. Mi rendo conto di essere sfociato in ambiti musicali, quali lo speedcore, il fleshcore, l’extratone, che hanno sicuramente

origine nella techno hardcore, ma che hanno sviluppato identità, struttura musicale, ideologia, audience ed estetiche assolutamente proprie, come vedremo nell’intervista con il produttore italiano Ralph Brown. Torniamo invece alla gabba e ai suoi nichilisti, intrattabili cultori e portatori di una devianza sociale che non andrebbe ghettizzata o etichettata in definizioni ideologiche, ma discussa criticamente dall’interno e riterritorializzata. Mi spiego meglio: ho suonato a eventi gabber/industriali (i confini di genere in fin dei conti tendono a essere molto labili) dove i miei break ipercinetici e le mie frequenze distorte sono stati accolti entusiasticamente dalle teste rasate tra poghi al fulmicotone e commenti in consolle tipo: “Bella zio falla

fischiareeecee”. Quell’ignoranza pura secondo me ha un potenziale di sovversione altissimo. 79

Si tratta solo di canalizzarla nella maniera adeguata. Se a prendere dei bussi sotto le casse c'è una croce celtica, invece che seguire l’ortodossia Antifa e andargli a spaccare la testa, ritengo più produttivo provare a cercare un contatto.

Il presunto nazismo gabber, infatti, è un disturbo eterodiretto del comportamento, dovuto all’ignoranza da branco e dei brand un condizionamento dell’alienazione postcapitalista di moda. Va trattato come una psicopatologia sul dancefloor, non assalito. Dobbiamo cercare tutte le possibili occasioni di contatto e di tenerezza con coloro che soffrono di questa malattia. Aiutarli a trovare il giusto canale di sfogo dell’energia trasgressiva che covano, guardandoli negli occhi proprio vicino a quel piercing nelle sopracciglia e cercare di sussurrare nello loro orecchie parole intelligenti che risveglino la loro criticità, sopra il bombardamento della cassa del sound system. Potrebbero emergere piacevoli sorprese. Nostro compito è elaborare strategie ritmiche paradossali di musicoterapia volte al dissolvimento di quel senso di sicurezza e spavalderia derivante dal branco, anche per liberare l'immaginario gabber dalla schiavitù nelle prigioni Lonsdale, Australian ecc. Ma ora vorrei mantenere la promessa del titolo di questo capitolo e proporre alcune linee soniche di terapia per sciogliere l’irrigidimento della ritmica in 4/4 imposta dalla BundesGabber. In realtà, non sono sicuro che sia possibile curare questa malattia su scala generale, opponendo allopaticamente alle linee di synth melodiche commerciali delle distorsioni postindustriali e ai sample vocali di derivazione hard-house dei campionamenti tratti da film estremi e così via. L’“audio cura” dunque non potrà che essere secessiva, Ie