Apocalisse di Giovanni. Introduzione, traduzione e commento 9788843065875, 8843065874

Da sempre, per il grande pubblico, l'Apocalisse attribuita a Giovanni è sinonimo di profezia sulla fine del mondo e

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Italian, Greek Pages 272 [269] Year 2012

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Apocalisse di Giovanni. Introduzione, traduzione e commento
 9788843065875, 8843065874

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CLASSICI/ 2.4

La letteratura cristiana antica Serie diretta da Enrico Norelli

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Vangelo di Giuda Introduzione, traduzione e commento di Domenico Devoti

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Prima lettera ai Corinzi Introduzione, traduzione e commento di Luigi W alt

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Apocalisse di Giovanni Introduzione, traduzione e commento di Daniele Tripaldi

Carocci editore

In ricordo di nonna Eliana e nonno Raffaele. Finalmente.

I'

I' edizione, novembre 20I2 ©copyright 20I2 by Carocci editore s.p.a., Roma

Impaginazione: Imagine s.r.L, Trezzo sull'Adda (MI) ISBN 978-88-430-6587-5

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Il testo sfuggente, 9 Apocalisse di Giovanni, 39 Commento, 95 Bibliografia, 235 Indice dei passi citati, 243

Il testo sfuggente

Chi, a leggere le rivelazioni mostrate a Giovanni, non rimarrebbe colpito dagli indicibili misteri che vi si celano, evidenti anche a quanti non comprendono ciò che è scritto? (Origene di Alessandria, I principi, primi anni venti del III secolo d.C.). Personalmente, non mi azzarderei a rigettare l'Apocalisse di Giovanni come non autentica, tanto più che molti fratelli la tengono in grande considerazione. Convinto però che formarsene un giudizio sia impresa superiore alle mie forze intellettuali, mi sono fatto I' idea che I' interpretazione puntuale di ogni singolo passo sia, in un certo senso, nascosta e lasci ancor più stupiti e ammirati. Se anche infatti io non lo capisco, sospetto che debba pure esserci un qualche significato più profondo nelle parole. Senza misurare e valutare sulla base della mia intelligenza, quindi, ma dando maggior peso alla fede, mi sono ritrovato a pensare che si tratti di cose troppo elevate perché io possa afferrarle, e io non rifiuto le cose che non ho colto, piuttosto, ne rimango stupito e ammirato per non averle sapute cogliere (Dionigi di Alessandria, Le promesse, metà del III secolo d.C.).

L'Apocalisse di Giovanni riporta tanti misteri quante parole contiene. Ben poco ho detto, e qualsiasi elogio manca il valore del libro: in ogni singola parola si nascondono significati molteplici (Girolamo, Lettere, fine IV secolo d.C.)*.

Misteri e parole: una premessa dovuta Rubo il titolo a Girolamo e pago dazio alla tradizione, pure mai formalizzata, che prevede un'allusione più o meno diretta a quelle sue brevi, stringenti righe, quasi buon auspicio per ogni nuovo commentario all'Apocalisse. Fatto sta che poche righe, come le sue, e come quelle di Origene e Dionigi, un secolo e mezzo circa prima di lui, hanno saputo imprimersi nell'immaginario collettivo di chi ha letto o interpretato l'ultimo libro delle scritture cristiane. Hanno infatti contribuito decisivamente a far sì che esso fosse percepito come un codice 9

da decrittare, al di là della superficie linguistica letterale: lo si leggesse come tabella puntuale di eventi futuri nella storia del mondo, o come resoconto dettagliato di tutta la storia della Chiesa o di una sua parte, come cifra dello scontro storico fra la città di Dio e la città degli uomini, fra lo Spirito e la carne, oppure come fonte di ispirazione per la fantasia poetica e l'immaginazione visionaria, lo sforzo di comprensione si è concentrato, attraverso i secoli, a decifrare "simboli" e "allegorie", chiarire "misteri", cogliere "allusioni", portare alla luce "oscure profondità"'. Nemmeno l 'esegesi storico-critica moderna vi si è sottratta: analisi linguistiche, retoriche e letterarie, saggi di storia delle tradizioni, studi storici e archeologici, commentari ispirati alle scienze sociali, non da ultimo dense sistemazioni teologiche, si sono succeduti e si succedono ogni anno, con rapidità impressionante, per diradare gli "enigmi" di un testo che ha sfidato la comprensione dei suoi lettori, già una manciata di decenni dopo essere stato scritto (cfr. Ireneo di Lione, Haer. 5,28,2-30,3). Perché quindi l 'ennesimo commentario? Cosa c'è di nuovo? Il codice non è ancora stato decifrato? Molto è stato fatto, ma molto resta da fare e si sta iniziando a fare solo ora. Vorrei continuare su questa traccia metaforica dei misteri, delle ombre e delle profondità, e scoprire finalmente le mie carte'. Ogni testo è il prodotto di un'attività umana di letterarizzazione: pensieri e conoscenze, enunciati e schemi mentali sono travasati su supporto materiale, in una lingua determinata, per creare uno spazio d'incontro simbolico tra autore e destinatari impliciti. In ogni testo prende così corpo il progetto del primo di trasformare la realtà sociale dei secondi. In quanto prodotto di questa attività, un testo è a pieno titolo prodotto culturale che si presta a essere letto a più livelli: il più superficiale è la trascrizione specifica di quel progetto stesso nella forma letteraria che il testo assume; il più profondo, i presupposti culturali impliciti che autore e lettori condividono, all'interno della società di cui fanno parte; in mezzo, i fattori culturali specifici all'ambiente sociale di produzione e lettura del testo. Si tratta allora di scavare nel testo e portare alla luce l'immaginario socioculturale comune che, solo, permette all'autore di esprimersi e ai destinatari di leggere, ascoltare e comprendere. Come faceva già notare a Cicerone suo fratello Quinto (Div. 1,42,1-2): «Le scene di sogni di Ennio, per quanto frutto 10

della fantasia del poeta, non si distaccano tuttavia da come i sogni si presentano nell'esperienza comune (consuetudo)». Questa esigenza si fa tanto più urgente nel caso di testi prodotti in una società, sotto vari aspetti a noi ormai estranea, quale quella mediterranea antica, che lasciava tra le righe molti più non detti, sottintesi e spazi vuoti di quanto non siamo abituati a fare oggi. Intorno agli anni trenta del III secolo d.C., già Origene rimarcava, a margine del Vangelo di Giovanni, che, leggendo e interpretando, bisogna sviluppare la capacità «di integrare nell'interpretazione ciò che si ritiene sia stato omesso, per deduzione diretta da quello che invece si trova scritto» (Com m. ]o. 2,168,4-5). Nel nostro caso, però, a distanza di secoli da chi ha scritto il testo e dai suoi destinatari originari, ma anche dalla società e dalla cultura che lo hanno prodotto, ciò è possibile non tanto e non solo per deduzione logica (cfr. anche Comm.jo., 2,133,1-7), quanto ti-contestualizzando il testo stesso in quello «sfondo culturale sotterraneo e taciuto» (Destro, Pesce) che altri testi in stretta corrispondenza ideologica al contrario illuminano (cfr. ancora implicitamente Origene, Comm. ]o. 2,175-179·18I.I86.188-190) 3• Né, d 'altro canto, ci si potrà limitare a sfogliare opere letterarie, in genere, scritti, canonici e non, di produzione giudaica e cristiana, in specie, ma l 'analisi delle fonti dovrà essere estesa alla letteratura greco-romana coeva, per un verso, a papiri, ostraka e iscrizioni, per l'altro. Risulterà altrimenti incomprensibile come un'opera quale l'Apocalisse di Giovanni, diretta a comunità di seguaci di Gesù, di estrazione ebraica e non, più o meno inserite nel contesto culturale della provincia romana di Asia, dovesse essere letta, nelle intenzioni del suo autore, e come potesse essere letta, e di fatto lo fosse, tra coloro cui era indirizzata. Cosa dunque si troverà davanti il nostro lettore? Né il classico commento puntuale per versetti, né una semplice analisi e spiegazione di simboli "apocalittici", né tantomeno attualizzazioni teologiche o riflessioni pastorali; piuttosto, un tentativo di interrogare il testo in tutta la sua complessità culturale, come sopra rilevato, e di dare ragione dell'ambiente sociale e culturale in cui il progetto di Giovanni ha preso forma. Lì infatti il riordino del mondo socioreligioso dei destinatari, al quale l'Apocalisse ha dato voce, attingeva il suo pieno significato.

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A contatto con il Dio d'Israele: l'esperienza di Giovanni tra estasi e profezia Nessuno attinge a una divinazione ispirata e vera, nel pieno dominio della propria ragione; la può attingere piuttosto quando nel sonno si ritrova la facoltà del pensiero bloccata, oppure quando esce completamente fuori di sé per malattia o invasamento divino. A chi è in possesso delle proprie facoltà mentali invece spetta riflettere su cosa la natura divinatrice e in stato di p ossessione abbia detto e ricordato, nel sonno o nella veglia, ed analizzare razionalmente qualsiasi immagine le sia apparsa, per capire in che senso e a chi indichino qualcosa di male o di bene, futuro, passato o presente che sia; chi è caduto in estasi e permane ancora in questo stato non è nelle condizioni di valutare da sé visioni e voci (Platone, Timeo, prima metà del IV secolo a.C.). Al risuonare di «Amen», mi sono svegliata che ancora masticavo un che di dolce, e ho riferito subito della mia visione a mio fratello, e insieme abbiamo capito che il supplizio era prossimo. Abbiamo abbandonato allora per sempre ogni speranza in questo mondo (Perpetua, Diario, Cartagine, 203 d.C.). Quello che ricordavo erano le immagini, e le parole che le accompagnavano; perché non ho visto mai nulla con i miei occhi che fosse così chiaro e lucido come quello che la mia visione mi aveva mostrato; e nessuna parola che io abbia mai udito con queste orecchie era come le parole che avevo udite. Non avevo bisogno di rammentare quelle cose; si sono sempre rammentate da sole, lungo tutti questi anni. Soltanto col passare degli anni, via via che crescevo, il senso di quelle immagini e di quelle parole diventava più chiaro; e perfìno adesso so che quella volta mi fu mostrato più di quel che son capace di dire (Alce Nero, stregone degli Oglala Sioux, 1931).

Come notato tra gli altri anche da Giacomo Leopardi e poi ribadito da Pier Paolo Pasolini, il mondo mediterraneo antico era frequentemente visitato dagli dèi, che apparivano agli uomini in visioni e sogni, e lasciavano segni su steli e materiali scrittori di vario genere, corpi celesti e fenomeni naturali 4 . Plutarco di Cheronea (46-127 d.C. circa) poteva scrivere: «ai più succede qualcosa di razionalmente insospettabile: se scorgono un bagliore in casa di notte, lo considerano di origine divina e stupiscono ammirati>> (Amat. 762 d-e; cfr. anche At 14,II-12). L'Apocalisse di Giovanni si presenta esplicitamente come resoconto di un'esperienza di contatto con il mondo sovrannaturale, e più 12

precisamente con il Dio delle scritture d'Israele, il suo Unto ora essere celeste e la corte angelica che li attornia e serve (Ap 1,1-2). Nelle intenzioni di Giovanni, quindi, la sua Apocalisse per un verso va letta come tentativo di abbracciare e descrivere una sfera di realtà sottesa alla vita quotidiana, ma normalmente non accessibile: ciò che risulta abbastanza chiaro è che, tenuto conto delle due possibilità di contatto menzionate da Platone e generalmente accettate, Giovanni percepisce e sperimenta questa nuova realtà non per visione in sogno (onar in greco; cfr. Artemidoro di Daldi, Onir. 1,2,41-42), ma per visione da sveglio (hypar), in una condizione che lui stesso chiama «spirito» (Ap 1,10; 4,2; 17,3; 21,10), e che, come avremo modo di vedere, con tutta probabilità segnala uno stato di estasi e una qualche forma di esperienza extracorporea 5• Per l'altro verso, nel momento stesso in cui l'esperienza viene espressa e comunicata, facendosi testo, l'estasi viene interpretata e integrata linguisticamente nell'ordine del quotidiano: trasposta cioè dal mondo sovrannaturale nella vita comune, qui acquista e trasmette significato in quanto messaggio della divinità, in quanto profezia, ovvero comunicazione diretta a una realtà umana, che rinvia a un mondo a questa superiore. La scrittura getta così un ponte tra l'esperienza personale di un contatto con la divinità, la sua interpretazione, e la vita quotidiana dei destinatari, trasformando il mondo in cui questi vivono ogni giorno in un mondo di simboli e segni, pieno delle tracce della divinità (cfr. Ap 1,1; 12,1.3; 15,1) 6 . Nello specifico, la scrittura di Giovanni e le sue immagini, il suo repertorio di temi, stili e frasi, affondano le radici nella letteratura profetica di Israele, dagli inizi fino a quelle sue propaggini più recenti e a lui contemporanee, chiamate per comodità "apocalissi". Influsso forse più silenzioso, o solo meno percepito, ma comunque rilevante, ha esercitato la letteratura di interpretazione dei prodigi (omenistica) e dei sogni (onirocritica), che aveva alle spalle una lunga tradizione nel Vicino Oriente antico e nel mondo greco-romano aveva trovato un ampio bacino di diffusione e consumo. Al tempo di Giovanni, tanto l'omenistica che l 'onirocritica avevano avuto già modo di essere integrate in una visione del mondo ebraica, anche sulla base dell'autorità di passi quali Gl3,1.3-4 (cfr. At 2,16-20): lo attestano ampiamente il libro biblico di Daniele e gli Oracoli sibillini, gli scritti di Filone di Alessandria e Flavio Giuseppe, e i frammenti di prontuari per la decifrazione di presagi astrologici e atmosferici ritrovati a Qumran. 13

Prima di tutto, però, la scrittura deve tenere conto della distanza fisica e geografica fra l'autore e i suoi destinatari ed è chiamata da subito a superare anche questa.

Il rotolo aperto: la profezia come lettera Sai bene che molti sono i generi delle lettere, ma unica e assolutamente indiscutibile la finalità per cui lo scrivere lettere è stato inventato: informare chi è lontano se ci fosse mai qualcosa che è nel nostro o suo interesse che egli sappia (Marco Tu Ilio Cicerone, Lettere ai fomiliari, 53 a.C.).

Nel mondo antico, era spesso d'uso che la produzione di opere letterarie avvenisse su impulso e richiesta di un committente o fosse dedicata a figure di rilievo dell'epoca, che potessero favorirne la fortuna: ad essi l'autore provvedeva a inviare il testo ultimato, eventualmente apponendovi un'intestazione di sapore epistolare o addirittura una missiva indipendente. Per !imitarci agli esempi più noti e più vicini all'epoca di composizione delrApocalisse, possiamo evocare il Sulle virtu delle piante di Tessalo di Tralle (età neroniana?) e la Storia naturale di Plinio il Vecchio (anni settanta del I secolo d.C.), l 'Interpretazione dei sogni di Artemidoro di Daldi (pieno n secolo d.C.) e l'Alessandro, o iljàlso projèta di Luciano di Samosata (intorno al 180 d.C.). Non era nemmeno inusuale che a commissionare e promuovere l'opera fosse l'apparizione di una divinità, come di nuovo Artemidoro attesta (cfr. Onir. 2,44,263L70,162-171 e 4,22,1-39) e un papiro letterario pressoché contemporaneo sostiene (P.Oxy. 1381). È questo evidentemente anche il caso di Giovanni e della sua Apocalisse: subito, a r,II, lo vediamo ricevere da un essere angelico in figura umana l'ordine di scrivere le visioni su un rotolo e inviarlo alle sette comunità; a 10,4.8-ro, lo ritroviamo prima pronto a trascrivere le voci dei sette suoni e fermato, poi, a mangiare un rotolo scritto dissigillato; infine, a 22,18-19, flagelli e Gerusalemme celeste appaiono presentati dall'angelo quasi come porzioni di testo già stese e concluse. I suoi destinatari, coloro a cui e per cui scrive, sono però geograficamente distanti: non sappiamo, in effetti, se Giovanni abbia scritto la sua Apocalisse nello stesso luogo dove aveva ricevuto le visioni, ovvero sull'isola di Patmos, per quanto, a conti fatti, il 14

testo lasci supporre di sì; in ogni caso, appare evidente che Giovanni, dovunque possa aver scritto, non era in nessuna delle sette città che ospitavano le singole comunità cui scriveva. Non sappiamo neanche come il testo abbia potuto colmare fisicamente questa distanza: pochi anni più tardi, Ignazio, vescovo di Antiochia, di passaggio in Asia verso il supplizio a Roma, si servirà di inviati e rappresentanti di diverse comunità per far recapitare le sue lettere ai diretti interessati (cfr. Magn. 15,1; Trall. 13,1; Phld. u,2.; Rom. 10,1); qualche tempo prima, con tutta probabilità, Paolo si era trovato a ricorrere spesso a Timoteo e Tito, suoi assistenti (cfr. I Cor 4,17 e 16,10; 2 Cor 7,6-8; 8,16-17; 12.,18). Possiamo ipotizzare, come è stato fatto, che Giovanni abbia optato per qualcosa di simile, forse per il tramite di altri profeti, ma, appunto, non è nulla più di un'ipotesi. Ciò che tuttavia sappiamo è che Giovanni ha piegato ai propri scopi la forma epistolare, genere molto amato e praticato nell'antichità per la flessibilità della sua struttura e la varietà dei contenuti che poteva abbracciare: dalle notizie sulla salute e sulle proprie condizioni di vita ai rendiconti amministrativi, dalle riflessioni personali alla dedica di un'opera letteraria e poi alla trattazione filosofica più sistematica, dalle comunicazioni ufficiali con un imperatore alle istruzioni divine e ai messaggi profetici. Di fatto, una lettera si riconosceva dai saluti iniziali e finali, tra i cui estremi si dispiegava il corpo dello scritto vero e proprio, non vincolato a convenzioni formali e tematiche troppo rigide. Questo veniva di solito preceduto da un proemio introduttivo e chiuso dagli ultimi rilievi complessivi. La lettera, se scritta su papiro, poteva recare all'esterno eventuali aggiunte di testo, e la cosiddetta inscriptio, ovvero l'indirizzo del destinatario e le istruzioni per il recapito, con a volte anche annotazioni sommarie del contenuto per mano del mittente (o di chi scriveva per lui) oppure di chi la riceveva e magari, poi, archiviava. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma ciò che importa è che sia la struttura stessa dell:Apocalisse a conservare traccia di questa disposizione: per forma e contenuto, quello che è stato chiamato incipit antecedente al titolo (1,1-3) potrebbe essere stato nient'altro che l' inscriptio, originariamente vergata sul retro e solo successivamente copiata prima dell'intestazione vera e propria con i saluti iniziali (1.4-5); segue un proemio (1,5-8), che include una dosso-

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logia, come nella tradizione paolina (r,s-6: cfr. 2 Cor 3,rr; Ejr,3-r4), e un doppio oracolo profetico sui tempi della fine (q-8: cfr. I Cor 4,9; Ef 1,3-14; ma anche 2 Bar. 78,3-7). Nella sua singolarità, il proemio appare prescindere da formule e frasario usuali per una lettera, ma di fatto ne recupera significato e finalità, confermando la convinzione della salvezza condivisa da autore e destinatari e anticipando in poche righe il succo della visione. Il corpo della lettera occupa infine la maggior parte dei ventidue capitoletti in cui è stata divisa l'opera (Ap 2.,I-2.2.,5), incorniciato tra le scene gemelle della caduta ai piedi dell'angelo, la prima al momento della sua apparizione (r,9-2.0), la seconda evidentemente poco prima che questi scompaia (2.2.,6-2.0). Chiudono la lettera i saluti finali di Giovanni (2.2.,2.r). Al corpo del testo ora ci rivolgiamo, per sciogliere alcuni nodi fondamentali per la sua comprensione storica.

L'ultimo sigillo La Sibilla, con bocca furente d 'estasi, dando voce a parole senza sorrisi e abbellimenti e profumi, attraversa mille anni, per il dio che la possiede. Il signore Apollo, cui appartiene l 'oracolo a Delfì, non parla né nasconde, ma indica allusivamente (Eraclito di Efeso, VI-V secolo a.C.). Nel mondo la verità non è venuta nuda, ma in figure ed immagini (VangeII secolo d.C.).

lo di Filippo,

Mentre il Salvatore diceva questo, vidi i sacerdoti ed il popolo correrci incontro, armati di pietre, come se volessero ucciderei. Rimasi sconvolto: saremmo morti. Il Salvatore mi disse: «Pietro, più e più volte ti ho detto che essi sono ciechi senza guida. Se vuoi conoscere la loro cecità, poggia le tue mani e la tua veste sopra gli occhi, e dimmi cos'è che vedi». Lo feci, ma non vidi nulla. Dissi: «Non c'è niente da vedere!». E lui di nuovo: «Riprova!». Timore e gioia mi colsero, perché vidi una luce nuova, più intensa della luce del giorno, dopo di che, discese sul Salvatore. Gli raccontai ciò che avevo visto. E lui ancora: «Stendi in alto le mani e ascolta ciò che i sacerdoti e le folle dicono». Ascoltai i sacerdoti, mentre erano seduti insieme agli scribi, e le masse urlavano con le loro voci. Come udì il mio racconto, mi disse: «Drizza le orecchie che hai sul capo, e ascolta cosa dicono!». Tornai ad ascoltare: «Sei assiso sul trono e ti lodano», dissi (Apocalisse di Pietro, II-III secolo d.C.).

Lo ripetiamo: Giovanni si rappresenta a ingerire un rotolo aperto e dissigillato (Apro), eppure produce un rotolo, un libro chiuso, 16

difficilmente accessibile, che da subito ha creato problemi di interpretazione. Rimandando al Commento la spiegazione di singoli punti oscuri e il chiarimento di specifiche questioni ancora dibattute, possiamo agevolmente ridurre a un pugno i grandi quesiti generali che da sempre hanno tormentato esegeti e cerchie di lettori via via più ampie: come si articola il testo? La trama narrativa dell'opera va letta in progressione, come una storia che scivola costantemente in avanti dal principio alla fine, o non insiste piuttosto e si spezza in variazioni su un unico tema? E poi: quale contenuto di realtà hanno le visioni raccontate e, in particolare, gli sconvolgimenti cosmici che descrivono? Predicono eventi che si realizzeranno in un futuro più o meno prossimo, o rievocano e interpretano momenti chiave nella storia della Chiesa e del mondo? Qual è insomma il loro significato? Affrontiamo questi interrogativi uno alla volta, per proporre uno sguardo complessivo sul testo all'interno del quale collocare il nostro tentativo di interpretazione. LApocalisse di Giovanni si articola in tre sezioni, ciascuna di senso compiuto: la dettatura delle sette missive agli angeli delle sette comunità (2-3); il viaggio celeste e le visioni sull'imminente venuta del regno di Dio (4-u); le visioni sul conflitto cosmico e la sua risoluzione con il giudizio e la nuova creazione (12-22,5). La continuità e la coesione della narrazione sono assicurate dalla ricorsività di personaggi e scene, formule e linguaggio. Le tre sezioni non vanno perciò lette in sequenza temporale o causale, come se l 'azione avanzasse in maniera lineare dall'una all'altra, come se tra l'una e l'altra ci fosse un prima e un poi, o un nesso di causa ed effetto: una e la stessa è di fatto la storia, uno e lo stesso il contenuto, che Giovanni, riprendendo ogni volta il racconto dal principio, sviluppa e accresce, precisa e completa sotto una prospettiva diversa. LApocalisse è un testo pensato per essere recitato e ascoltato, più che letto a tavolino (cfr. Ap 1,3), e in effetti ripetizione e ridondanza sono tecniche per raccontare una storia tipiche di culture in cui la trasmissione orale ha ancora la prevalenza sulla tradizione scritta: l'ascolto ripetuto impedisce di dimenticare, guida e orienta l'orecchio in assenza della continuità lineare di lettura garantita dal testo scritto; la comprensione dei contenuti ne risulta facilitata, corrispondenze e paralleli interni, scene e formule replicate e variate a volontà funzionando ogni volta da passaparola agevolmente me17

morizzabile e da anticipazione studiata di nuovi dettagli che saranno approfonditi a tempo debito 7 • Giovanni non è il primo ad avvalersi del modello narrativo che abbiamo appena descritto: in gradi di complessità variabile, lo ritroviamo tanto nel mondo greco, adottato da Platone per il suo Timeo (cfr. 48a-b e 69a-b), quanto in quello ebraico, attestato in scritti sicuramente più familiari a Giovanni, quali i canonici Deuteronomio, Salmi e Daniele (165 a.C. circa), nel Geremia apocrifo scoperto a Qumran (fìne II secolo a.C.), e nel Libro delle similitudini di Enoch (seconda metà del I secolo a.C.?), successivamente inserito in I Enoch. La composizione «a spicchi d'arancia» (Biguzzi) così rilevata è scandita da quattro settenari, dalle serie, cioè, delle sette lettere, per l'appunto (Ap 2-3), dei sette sigilli (6-S,s), delle sette trombe (8,6-11,19) e delle sette parere (16): sul primo si impernia la prima sezione, sul quarto la terza, sugli altri due la sezione centrale. Questi ultimi tre settenari sono di solito considerati come un gruppo a parte: si opta per differenziare il settenario dei sigilli da quelli delle trombe e delle parere, e individuare l'antecedente immediato di questi nelle tradizioni canoniche e non sulle piaghe d'Egitto, dal libro dell'Esodo alla Sapienza di Salomone (entro la metà del I secolo d.C.) 8• Quello che altrettanto spesso sfugge, anche nelle sue implicazioni esegetiche, è la parentela che i fenomeni scatenati in coincidenza con tutti e tre i settenari mostrano con gli eventi cosmici, nel mondo greco-romano rubricati normalmente come prodigi o segni. Questi erano a tal punto parte integrante dell'immaginario collettivo antico da pervadere anche sogni e visioni, arrivando a fornire materiale di studio a tutti gli esperti di divinazione (cfr. Omero, Od. 20,345-36o; Ger 4,23-28; Cicerone, Div. 1,s9.67-68; Plutarco, Pir. 31 con Artemidoro, Onir. 1,2,59-62; 2,8-9.36; 3,28,s11): la loro interpretazione costituiva di fatto un ramo fondamentale del sapere e della pratica mantica nel suo complesso (Giamblico, Myst. 3,1.1S-16). Qualche riflessione al riguardo non sarà allora fuori luogo, anzi ci darà modo di rispondere ali' interrogativo sul significato delle visioni riportate nell'Apocalisse. Non è un caso, dopotutto, se Giovanni utilizza il termine semeion (''segno") per introdurre l'oggetto di una visione e la visione stessa (cfr. Ap 12,1.3 e 15,1), nonché il verbo semaino ("indicare per segni"), in riferimento al comunicare per visioni da parte della divinità (Ap 1,1).

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Parlare di segni o prodigi nell'antichità significa rimandare a eventi fuori dall'ordinario verificatisi nel mondo umano e naturale, eritenuti, per la loro eccezionalità, opera del dio intesa a manifestare la sua collera e la minaccia incombente sugli uomini, qualora questi non provvedano a placarlo in tempo. La concezione culturale presupposta è duplice: da un lato, il futuro si trova allo stato germinale nel presente e perciò può essere adombrato e significato da un evento straordinario, il segno o prodigio, appunto, che si è appena compiuto; dall'altro, la divinità, che sola conosce il futuro, lo mostra indirettamente e allusivamente per il tramite di quell'evento a chi lo sappia correttamente interpretare (cfr. Cicerone, Div. r,r.r27-128 e 2,I30-135; Flavio Giuseppe, BJ. 6,288-3II; Giamblico, Myst. 3,I.Is-r6). Arriviamo così a un primo punto fermo: gli eventi, catastrofici e non, evocati e rappresentati dall'Apocalisse, si compiono in quei termini solo nelle visioni e non hanno alcun referente reale diretto 9. N ella cultura in cui Giovanni è immerso, terremoti ed eclissi non chiamano nuovi terremoti e nuove eclissi, e vaticinare di una Grecia grondante sangue o sognare di essere colpiti improvvisamente da un fulmine non significa prevedere un'inondazione di plasma su territorio ellenico o la propria morte per folgorazione (cfr. Cicerone, Div. r,68 e Arremidoro, Onir. 2,9,20-84). Come, dunque, i sogni profetici descritti e interpretati da Artemidoro parlano di fatti compiuti per immagini, che vanno decifrate per scoprire cosa realmente accadrà in stato di veglia, allo stesso modo le visioni di Giovanni sono in sé conchiuse e compiute. Le immagini che gli appaiono e scorrono sotto i nostri occhi non rimandano immediatamente e necessariamente a fatti esterni che vi corrisponderanno fino ai minimi dettagli, e che i destinatari debbano perciò attendere tali e quali nella loro vita; anticipano e iniziano piuttosto una realtà altra che dovrà essere riconosciuta al suo compiersi fuori dalla visione. Come principio generale, può valere ancora una volta la constatazione di Origene a proposito delle visioni concesse ai santi e ai profeti della tradizione ebraica: «in un modo, gli eventi futuri sono rivelati a coloro che li contemplano con gli occhi della mente, ma non osservano di persona le profezie nel loro compiersi, in un altro a coloro che ne hanno l'esito sotto gli occhi» (Comm. ]o. 6,28,r-3). E che le cose fossero percepite così anche dali' interno lo conferma l'anonimo visionario, autore di 19

Esdr., quando, in 9,1-6, scrive che, per i tempi dell'Altissimo, l'inizio si manifesta con prodigi (prodigia) e miracoli (virtutes), il compimento con la realtà stessa cui i prodigi rimandano (actus), e i segnali che la contraddistinguono (signa); e il nostro, tra i se-

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gni premonitori, annovererà le stesse rivelazioni che ha ricevuto (14,8).

Nel frattempo, tutto si riduce a saper interrogare e interpretare sogni e visioni, oracoli e segni, in accordo con il proprio presente, che solo può offrire la soluzione su cosa vogliano effettivamente dire, sul loro contenuto di realtà (cfr. Ap 1,20 e 13,18 con le spiegazioni diAm 7,1-9 e 8,1-3; Ger 4,27-28; Cicerone, Div. 1,59.68-69, e le indicazioni di Artemidoro, Onir. 1,9.u; 4, prol. 90-I04.1,I-14.27,1217i s. prol. 19-22). Da questa esigenza nascono i continui appelli che sollecitano le capacità di ascolto e comprensione del lettore/ uditore (Ap 2,7.11.17.28; 3,6.13.22; IJ,9.18; 17,9); di qui si recupera il senso di urgenza delle esortazioni a ravvedersi e dimostrare fedeltà, per stornare le minacce e assicurarsi le promesse (cfr. Ap 2,s.w.I6.25; 3,3.II con 9,20-21; u,13; 13,10; 14,7·12; 16,9.u); di qui risulta anche una unità d'intento e di struttura letteraria: il settenario delle lettere, infatti, non appare più un corpo estraneo isolato, piuttosto i quattro settenari si sovrappongono, nella misura in cui il primo offre la chiave interpretativa degli altri tre, i tre rileggono in profondità il senso del primo attraverso la lente della mente divina, che tutto sa, tutto controlla, tutto enigmaticamente comunica 10 • Quanto detto ci porta subito a una seconda conclusione, che conforta il proposito espresso e motivato già al principio in termini più generali: nell:1pocalisse, inutile affaticarsi, non ci sono predizioni esatte di eventi futuri, più o meno criptate le prime, più o meno lontani i secondi, e ciò per il semplice motivo che Giovanni non ha in mente questo come "profezia". Egli propone piuttosto un discorso sul presente e sul futuro nascosto dietro e dentro il presente, che ne viene a sua volta illuminato, un'analisi del mondo suo e dei suoi destinatari, nei limiti geografici e temporali per lui e per loro concepibili, legittimata dal contatto con la divinità e i suoi emissari. È il presente delle sette comunità, infatti, l'evento finale e decisivo che significa e catalizza l'imminenza del rinnovamento del loro mondo, il momento storico in cui tutto, dalla vita quotidiana alle scritture ebraiche e alle parole di Gesù, converge e produce senso, la soglia di fatti riconoscibili che invera i segni del 20

futuro mostrati a Giovanni, anche se questi non riflettono eventi storici noti degli ultimi decenni del I secolo d.C. 11 Qual è allora quel presente, e quali l'analisi e il progetto di trasformazione della realtà sociale e religiosa delle sette comunità che Giovanni sviluppa alla luce di un futuro ormai incombente?

Storie dal presente Le sette comunità cui l'Apocalisse è indirizzata rappresentano, con tutta probabilità, specifici gruppi di seguaci di Gesù insediati nei principali centri urbani della provincia romana d'Asia, nell'odierna Turchia occidentale. Specifici e singoli gruppi tra i diversi che vi si radunavano: solo a Efeso, tra la metà del I e gli inizi del II secolo d.C., si sono potuti variamente contare discepoli che praticavano il battesimo di Giovanni, l'ekklesia che si riuniva a casa di Aquila e Prisca, seguaci di Apollo, gruppi di origine e tradizione paolina, comunità di origine palestinese e comunità di orientamento giovannista, la cerchia più ristretta che gravitava intorno a Giovanni stesso, gli itineranti e uno dei movimenti profetici a lui avversi, sempre che non coincidano con qualcuno dei precedenti, e infine le élite carismatiche combattute da Ignazio di Antiochia. L'intera zona deve essere stata in effetti area di missione già prima dell'arrivo di Paolo intorno als1 d.C., a partire quindi al più tardi dalla fine degli anni quaranta del I secolo d.C. (cfr. At 18,24-19,10 e I Cor 16,8-9.12.19-20). Anche a ridosso e dopo la partenza dell'apostolo verso il 54-55, le fonti attestano la formazione di ekklesiai in orbita paolina a Laodicea e Smirne (cfr., rispettivamente, I Cor 16,19 e Col 2,1 e 4,13-16 con Policarpo di Smirne, Phil. II,3). Per gli inizi del II secolo d.C., sempre a Smirne e a Filadelfia, le lettere di Ignazio riferiscono della presenza dei profeti e predicatori itineranti con cui il vescovo già si era trovato a scontrarsi ad Antiochia (cf. Smyrn. 2 e 4-6,1 con Phld. r,r; 2-4; 7-8). Per quanto siamo in grado di ricostruire, le basi di partenza di questa diffusione appaiono, di caso in caso, Alessandria d 'Egitto (Apollo), Corinto attraverso la Macedonia e la Troade (Aquila e Prisca; Paolo), Antiochia e la Siria occidentale (gruppi giovannisti; gli avversari di Ignazio), la Palestina, che contribuisce probabilmente anche con un'ondata di profughi nel corso della rivolta 21

giudaica (66-70 d.C.). Le città della provincia fungono, a loro volta, da centri di attrazione e ulteriore irraggiamento, e vengono così a costituire i punti di snodo della rete di circolazione interna ai gruppi. Nel quadro di questo intenso flusso di persone, idee e pratiche, appare quindi possibile che Giovanni, se non proprio fondato, avesse quantomeno conosciuto direttamente le sette comunità a cui scrive, e avesse già intrecciato rapporti profondi con loro, prima di scrivere: la presa che dimostra sulle loro vicende mi sembra estremamente rivelativa in tal senso, qualunque possa essere stata la fonte delle precise informazioni in suo possesso. I tratti universalistici delle rappresentazioni comunitarie di Ap (cfr. 7,1-ro) lasciano presumere che i gruppi cui si rivolge fossero composti tanto di membri di estrazione ebraica quanto di membri di origine non ebraica. Ciò non stupisce in un'area geografica in cui, come abbiamo visto, avevano preso piede la predicazione ellenistica in genere prima, specificatamente paolina e giovannista poi (cfr. Ef 2,rr-18 e Col3,rr con Gv 4,21-24; I Gv 5,21; 3 Gv 7). In tre casi, possiamo anche azzardare ipotesi sulla loro condizione economica: non benestanti, se non poveri, e socialmente poco rilevanti a Smirne e Filadelfia (Ap 2.9; 3,8), benestanti e probabilmente influenti a Laodicea (3,17), senza che però di questi ultimi si possa specificare il relativo status sociale. Per il Ponto e la Bitinia del primo quarto del n secolo d.C., Plinio il Giovane constata suo malgrado che il movimento di Gesù era ben radicato in tutti gli strati sociali (Ep. 10,96,9), confermando, seppur indirettamente, la nostra descrizione. Nei fatti, proprio il contesto urbano greco-romano e le sue pressioni, più o meno scoperte, al conformismo, la convivenza con i gruppi e le pratiche religiose che lo distinguevano e l'integrazione dei membri del gruppo stesso nel suo più ampio tessuto socioeconomico risultano elementi decisivi nella genesi dei problemi che, agli occhi di Giovanni, travagliavano le ekklesiai. Correndo il rischio di un'eccessiva semplificazione, si potrebbe anche dire che il cuore del problema, per il nostro visionario, sia la vita stessa di una città ellenistica sotto l 'Impero, in tutte le sue ramificazioni. Non si tratta qui di chiamare di nuovo in causa teorie fin troppo riduttive su una persecuzione domizianea mirata e universale, che verosimilmente non c'è mai stata. Piuttosto, il quadro storico ci appare ora molto più complesso e sfumato: il clima generale 22

era di un'ostilità diffusa, alimentata da voci e maldicenze, calunnie e accuse nate a volte anche all'interno della comunità giudaica cui ancora i gruppi di seguaci di Gesù si appoggiavano, non senza tensioni (Smirne; Filadelfia; cfr. I Pt 2,12 e 4,14). Sappiamo di un solo morto, Antipa, a Pergamo, ma per molti il carcere in attesa di giudizio e la sofferenza fisica dovevano rappresentare una minaccia estremamente reale (Smirne; cfr. I Pt 3,13-17 e 4,12-16). Altro fattore disgregativo poteva risultare la flessibilità stessa dell'appartenenza ad associazioni religiose, nelle cui forme i gruppi di seguaci di Gesù si concepivano e a cui erano di fatto equiparati: ciò comportava la possibile adesione a più aggregazioni contemporaneamente, con forti movimenti in entrata e soprattutto in uscita, nel caso in cui aspettative e bisogni dei membri non fossero più soddisfatti". È proprio in reazione a simili impulsi che il valore attribuito da Giovanni alla resistenza a ogni tipo di pressione esterna, i suoi appelli alla confessione del nome e all'esclusivismo della pratica religiosa, per tagliare fuori ogni concorrenza (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatiri, Filadelfia), riacquistano tutta la loro concretezza storica: agli occhi delle autorità, appariranno più tardi come cieca e stupida ostinazione a rifiutare il coinvolgimento nei culti tradizionali, abbandonando templi e sacrifici (cfr. Plinio il Giovane, Ep. 10,96,2-6 e 9). Fin qui il quadro che trova un riscontro preciso anche nelle osservazioni di Plinio. Sullo stesso terreno da questi rilevato emerge però un altro fronte della polemica di Giovanni che rimane invisibile agli occhi del governatore romano: movimenti di predicatori itineranti premono sull 'ekklesia, ne vengono respinti, ma ne incrinano la coesione e l'identità stessa di comunità carismatica, forse compromessa anche dalle spinte accentratrici di vescovi e presbiteri (Efeso); si sviluppano e diffondono gruppi profetici che mostrano una forte tendenza all'integrazione nell'ambiente religioso urbano, indulgendo in feste pubbliche, pasti comuni delle associazioni, banchetti privati, e forse spendendosi nelle forme di sessualità socialmente ammesse in tali contesti ("Nicolaiti" a Efeso e Pergamo; "lezabel" e i suoi a Tiatiri; cfr. I Pt 5,1-4; 2 Pt 2,13-14; Gd 4.8.12). Di uno di questi gruppi, sappiamo anche che i suoi aderenti professavano insegnamenti esoterici, probabilmente maturati in esperienze estatiche ("Iezabel" e i suoi); infine, la prosperità economica con la sua 23

rete di diritti e obblighi che rinsaldavano, anziché allentare, i vincoli sociali e religiosi con l'ambiente esterno al gruppo, rischiando di oscurare i confini tra i due e di ridurne eccessivamente la distanza culturale (Laodicea, Sardi?). Insomma, in una parola, orizzonti e problemi di comunità diversificate, da un punto di vista etnico, economico e forse sociale, calate nelle dinamiche della vita urbana dell'Asia romana: per questo pubblico, la sua immaginazione culturale e la sua percezione della realtà politica, sociale, religiosa in cui vive, per le sue esigenze e le sue attese, è pensata l'Apocalisse di Giovanni, testo in greco di un visionario ebreo, seguace di Gesù. Su questo dobbiamo spendere ancora qualche parola.

Storie da un futuro prossimo: per una biografia di Giovanni Un certo Cerinto ha trascritto le sue rivelazioni, sotto le mentite spoglie di un grande apostolo, e ci ha proposto favolette sbalorditive, pretendendo che fossero visioni mostrategli da angeli (Gaio di Roma, fine n secolo d.C.). Io non nego che l 'autore si chiami realmente Giovanni e che lo scritto sia realmente opera di un certo Giovanni: concordo infatti che sia frutto di uomo santo e ispirato da Dio. Non sarei tuttavia disposto a concedere che si tratti del l 'apostolo, il figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo [... ] non gli nego di aver visto rivelazioni e ricevuto conoscenza e profezia, ma osservo che scrive in un greco impreciso, fa uso di espressioni che il greco non conosce e incorre in errori grammaticali (Dionigi di Alessandria, Le promesse, metà del m secolo d.C.). Il redattore del quarto vangelo era sicuramente un colto ebreo ellenista, oltre che uno dei grandi ispiratori del cristianesimo mistico dell'amore. Giovanni di Patmos aveva certamente natura ben diversa e fu ispiratore di ben altri sentimenti [... ]l'Apocalisse di Giovanni infatti è il parto di un cervello mediocre [... ] perché, sia detto una volta per tutte, l'Apocalisse è la rivelazione dell'inestinguibile volontà di potenza del cuore umano; anzi, di più, è la sua santificazione, il suo trionfo (David Herbert Lawrence, Apocalisse). Ora, come non mai, gli era chiaro che l'arte è sempre e senza tregua dominata da un duplice motivo. Un'instancabile meditazione sulla morte, da cui instancabilmente essa crea la vita. La grande, la vera arte è quella che si chiama la Rivelazione di Giovanni e quella che in qualche modo la continua (Boris Pasternak, Il Dottor Zivago ).

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Anche il nostro Giovanni è stato, nel suo piccolo, segno di contraddizione: i giudizi, più o meno celebri, si potrebbero moltiplicare, ma il succo non cambia. Di tutte le immagini che di lui ci sono state trasmesse attraverso i secoli, qual è allora la più fedele? È cioè possibile tracciare un suo profilo storicamente affidabile, con le fonti a nostra disposizione, il testo scritto che ci ha lasciato in primis, ma non solo? La ricostruzione che passo a proporre valga al momento come mera ipotesi che cercherò di motivare, giustificare e approfondire nel Commento 'l. Come annotava già Dionigi di Alessandria, Giovanni di Patmos non va identificato né con l'autore del Vangelo di Giovanni, né con l'omonimo figlio di Zebedeo, uno dei Dodici, tuttavia, come quest'ultimo, nasce verosimilmente in Palestina. Parlava, leggeva e forse scriveva aramaico, probabilmente sua lingua madre, e greco; non ignorava l'ebraico. Tra le sue letture, ovviamente, le scritture di Israele, conosciute in tutta probabilità tanto nell'originale ebraico o aramaico, quanto nel greco della Settanta e forse già di sue revisioni, ma sempre con un occhio alle tradizioni esegetiche che più tardi confluiranno nelle traduzioni aramaiche, o targumim; inoltre, si è da più parti pensato che, sotto questa rubrica, vadano almeno annoverate anche una versione greca di I Enoch, la letteratura sibillina e la Sapienza di Salomone. C'è chi ha proposto che leggesse i nostri Luca e Atti, ma è una tesi tutta da verificare. Rimane innegabile comunque che Giovanni presenti estrema familiarità con vari rami della tradizione sinottica e alluda anche a parole di Gesù non confluite nei vangeli canonici; pur non essendo l'autore del nostro quarto vangelo, mostra poi una profonda affinità ideale con Giovanni e il giovannismo; condivide infine a volte linguaggio e terminologia con Paolo e la sua "scuola", senza dipenderne direttamente. Si discute tuttora accanitamente se sia cresciuto in un contesto urbano o rurale; difficile decidere se abbia ricevuto una formazione in piena regola nella paideia greca. Quel che appare più certo, a quanto lascia trapelare l'Apocalisse, è che, nell'immaginario di Giovanni, la città greco-romana in quanto tale rappresenta il cuore pulsante della contaminazione universale (cfr. Ap I?,I-6; 18,2.-3; 19,2.), ma anche lo sfondo storico ineliminabile dell'attività profetica e carismatica dei gruppi di seguaci di Gesù (cfr. IO,II con 11,313); il che rifletterebbe ulteriormente, da un lato, la sua distanza da 25

e il suo atteggiamento conflittuale verso l'apparato politico, religioso e culturale che lì si dispiegava; dall'altro, la sua acuta consapevolezza che proprio in quell'ambiente si dovessero manifestare i progetti che perseguiva. Che Giovanni fosse o meno membro dell'élite sacerdotale, che fosse entrato o meno in rapporti con ambienti esseni o "apocalittici", come variamente si ipotizza, la sua esperienza successiva all'interno del movimento di Gesù e la sua visione del mondo sembrano radicarsi profondamente nell'humus dei gruppi di profeti e carismatici itineranti diffusamente sparsi per le aree rurali e nei centri urbani della Palestina e della Siria occidentale, con cui sarebbe potuto entrare in contatto nella stessa Antiochia. Giovanni opta per una scelta di vita ai margini delle società palestinese e grecoromana e alla periferia delle loro istituzioni; scelta, questa, che deve aver comportato la rottura con la casa e la famiglia, e la rinuncia a eventuali possedimenti e denaro. Dalla Siria si sarebbe poi mosso verso l 'Asia Minore: alcuni lo avevano preceduto, altri lo seguiranno. Vagando di città in città, ospitato di casa in casa, si trattiene a lungo quantomeno nei centri urbani di cui fa menzione in Ap, abbastanza a lungo da allacciare le durature relazioni che sembrano averlo legato alle ekklesiai cui scriverà. Salpa infine alla volta di Patmos. I motivi di quest'ultimo spostamento non ci sono perfettamente chiari. Patmos non si è rivelata l'isola deserta e disabitata che ci si immaginava: gli archeologi hanno riportato alla luce l'acropoli e guarnigioni fortificate, un torrione, terreni di proprietà di Apollo Didimeo, un ginnasio dedicato a Ermes e un tempio di Artemide. Ci è stato così restituito lo spaccato di una società urbana estremamente attiva e vivace, la cui esistenza era scandita da feste, agoni ginnici, corse con le fiaccole, riti misterici, banchetti (cfr. Manganaro, 196364, pp. 329-46; Saffrey, 1975, pp. 386-407). Si incrina quindi, e non solo a seguito di questi ritrovamenti, il quadro tradizionale e un po' romantico di un Giovanni solitario, colpito dalla persecuzione - peraltro fantasma - di Domiziano ed esiliato su un lembo di terra brullo e aspro, segregato da ogni consorzio umano, magari per lavorare nelle miniere. Piuttosto, se stiamo a quanto egli stesso afferma in Ap 1.9, interpretando correttamente il suo uso linguistico, Giovanni sembra essersi recato sull'isola semplicemente per avere le visioni che confluiranno nella sua Apocalisse, come ci si 26

aspetterebbe da un buon visionario (cfr. 2 Bar. 10,3 e 4 Esdr. 9,2426) e come sappiamo di altre figure carismatiche del primo cristianesimo (cfr. At 9,3-12; 22,10, e Erma, Vis. 3,1,1-s). Nulla dunque al di fuori delle abitudini di un profeta itinerante, che spiegherebbero così come mai Giovanni possa rappresentarsi a scrivere durante le visioni (Ap 10,4): si sarebbe infatti preparato già in precedenza a ricevere e trascrivere una rivelazione promessa e attesa, se non cercata (cfr. 4 Esdr. 14,18-25 e 37-47 con PGMVIII,9o-91 e XIII,9o-9I.2II-213). Cercata e culturalmente indotta - voglio aggiungere- perché molto lascia presumere che l'esperienza di Giovanni abbia avuto per cornice non tanto la grotta isolata e scoscesa della tradizione bizantina, quanto una casa e la prassi liturgica di un'ekklesia riunita, con i suoi canti e le sue preghiere, i suoi inni e i suoi atti di adorazione al cospetto delle manifestazioni dello Spirito. Dopo il soggiorno a Patmos e la sua eventuale partenza, perdiamo completamente le tracce del nostro: la sua figura è ormai consegnata ai contorni nebulosi della leggenda. Ogni tentativo di ricostruzione della scarna biografia raggiungibile di Giovanni non riesce a sottrarsi a un minimo di aleatorietà, per quanto ci si proponga di vagliarlo sulle fonti, come noi abbiamo cercato di fare. Più solido appare invece il terreno su cui misurarsi per tratteggiare il sistema religioso progettato da Giovanni in risposta alle sollecitazioni esterne: di fatto, lo ripetiamo, quel progetto coincide per noi con la sua espressione letteraria, l'Apocalisse stessa ' 4 • Nella sua economia, la certezza dell'incombente venuta del regno di Dio, la legittimità di Gesù di Nazareth come Messia e la missione dell 'ekklesia, indirizzata anche ai non Ebrei, appaiono rivestire un ruolo fondamentale. Alla prima si collega l'insistenza sulla fase di con Ritto e lotta cosmica che anticipa il regno e assume il valore di purificazione e rinnovamento del gruppo e del mondo intero, precludendo ogni ritorno al potere di chi dal regno è sconfitto (cfr. Ap 1,9; 6,2.9-II; 7,14; n,II; 13,7.10; 17,14; 19,7-8; 21,1.27). In tale ottica viene recuperata la contrapposizione escatologica radicale tra due fronti ben delineati, di cui uno destinato all'annichilimento (cfr. 2,16 e 19,II21). Un secondo elemento, altrettanto evidente, è la rappresentazione della fuga come modello di comportamento di fronte a difficoltà irrisolvibili (cfr. 12,6.14; 18,4): fuggire significa vanificare gli attacchi del nemico e renderlo inoffensivo, facendosi invisibile 27

e introvabile, senza perciò esporsi al pericolo di morte fìsica, pure tenuta in conto come unica alternativa (cfr. 12,II; 13,15), ma anche senza venire a compromessi con lui e fìnire condannati a partecipare delle sue colpe e della sua catastrofe (18,1-8) 1s. L'ekklesia di Giovanni è una realtà minoritaria che rimane attaccata alla certezza del proprio dominio fìnale, ma è chiamata ad affrontare l'avversario nella sua impotenza attuale, resistendo passivamente ed eventualmente soccombendo, oppure fuggendo (cfr. Ap 2,9-ro; 3,8): Giovanni fa parte di gruppi marginali perseguitati ali' interno delle sinagoghe dell'Asia Minore, malfamati e odiati dalla società greco-romana circostante, e si assume comunque il compito di annunciare la venuta del regno di Dio, di cui attende il compiersi imminente. L'opposizione si instaura tra questi gruppi detentori della conoscenza e i gruppi dominanti, le autorità politiche e religiose, che non riconoscono questa conoscenza e appaiono determinate a distruggerne i portatori, arrivando anche, nell'ottica di Giovanni, a infìltrare propri agenti tra i loro ranghi - e non senza successo. Come infìltrati infatti Giovanni percepisce quanti, tra gli Ebrei suoi consanguinei e i seguaci di Gesù, Ebrei e non, secondo lui, accondiscendono a e propagano i valori e le pratiche della società circostante. Egli rilegge questo conflitto alla luce del modello biblico dello scontro tra profeti di Dio, da una parte, e re idolatri, corte e falsi profeti alloro soldo dall'altra: in tal modo, cerca di dar voce a una minoranza che, legittimata e confermata da segni celesti, vive nell'urgenza messianica dell'attesa del regno e, al tempo stesso, mira a proporre un discorso pubblico e inclusivo sulla realtà, su come le cose siano veramente dietro ogni apparenza, sul futuro prossimo nascosto nel presente (cfr. Ap 2,22 e 3,9.15-19 con 2,20; 12,9; 13,14; 18,23; 19,20; 20,3.8.ro). Di fatto, questo discorso sembra innervarsi sull'attività profetica e carismatica di individui e gruppi precisi, in primo luogo Giovanni stesso, calata in versanti critici dello spazio e della vita civici (cfr. ro,II-II,13 con 13 e 14,1-5, e le formule di 2,22 e 3,9 con I Cor 14,24-25 e Od. Sal. 11,2). Per legittimare questo progetto, Giovanni convoglia registri culturali differenti, comprensibili e accettabili sia per una componente specifìcatamente ebraica (allusioni alle Scritture, rivelazioni del Dio d'Israele in visioni estatiche tramite angeli, appello alla davidicità di Gesù) che per una componente non ebraica, o non solo e non tanto ebraica (visione di rivelazione, interpretazione di segni e 28

prodigi cosmici, speculazioni "mistiche" sull'alfabeto, numerologia). Ciò conferma il suo radicamento in ambienti giudaici fortemente ellenizzati, e rende ancora più probabile l'ipotesi che il suo progetto includa la compresenza e la compartecipazione di Ebrei e Gentili. Il tutto però, ferme restando una prospettiva giudeocentrica, imperniata su un ideale di purità sacerdotale (cfr. Ap 3.4.18; 7,1-9; II,18; 14,1.4-5; 19,5; 21,22.27) e sulla dimensione carismatica. La riconciliazione così proposta tra Ebrei e non Ebrei si precisa dunque come antiromana, nella misura in cui il suo orizzonte concettuale è costituito dal popolo ebraico e da una terra d'Israele, una Gerusalemme e un Tempio purificati e rinnovati, senza progetto alcuno di integrazione nell'Impero, considerato come organismo politico ed economico contaminato, contaminante e in piena decadenza (cfr. II,1-2.18; 17,1-6.16; 18; 19,2); come anti-istituzionale, nella misura in cui l'ideale comunitario non sembra prevedere cariche e gerarchie interne troppo formalizzate (18,2o). In conclusione, come l'autore di M t, e agli antipodi invece dei progetti di accomodamento e integrazione formulati dai suoi avversari, Giovanni costruisce un sistema religioso basato sull'opposizione tra interno ed esterno, o tra vero Ebreo e falso/non Ebreo, rilevabile in termini di resistenza a o esercizio del potere. A confronto con le autorità giudaiche o romane, con l'ordo imposto e mantenuto dall'Impero attraverso le città e le loro élite, e con chi si adatta ai loro valori, non resta che fuggire o morire, nella ferma convinzione che il regno di Dio ormai prossimo sovvertirà ogni rapporto e assicurerà alla minoranza dei seguaci di Gesù la vittoria finale. I non Ebrei, i Gentili di nascita, vengono "giudaizzati" senza l'imposizione della circoncisione, e la loro adesione è cercata con il ricorso a fonti di verità da loro stessi riconosciute; l'autorità di vescovi, presbiteri o diaconi, forse più propensi a soluzioni compromissorie, viene ignorata. Quella che Giovanni ha formulato, dunque, in reazione alla proposta di visibilità estrema propugnata all'interno dei movimenti da lui osteggiati, è la strategia di marginalità e clandestinità, fuga e radicalismo etico, egualitarismo e carisma profetico, promossa da gruppi che, con l'aggressività dello Spirito che li investe, non cessano di annunciare la fine imminente del sistema di potere politicoreligioso in vigore, e di esortare alla conversione chi è implicato, a tutti i livelli, nella sua gestione e nei suoi meccanismi di consenso ' 6 •

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Quando nasce una "apocalisse" Non è passato molto tempo da quando è stato visto in vita colui che ha ricevuto la rivelazione: eravamo quasi ormai a ridosso della nostra generazione, verso la fine del regno di Domiziano (Ireneo di Lione, 180 d.C. circa).

Il profilo che abbiamo appena tracciato manca ancora di date, di appigli cronologici precisi. Purtroppo, come la maggior parte dei testi protocristiani, l'Apocalisse di Giovanni non offre elementi sicuri per proporre una cronologia assoluta della sua redazione; peraltro, di tutta la vicenda biografica di Giovanni, solo sulla datazione dell'opera possiamo avanzare qualche congettura, dal momento che non ci sono pervenute informazioni affidabili su tempi, luoghi, incontri della sua vita. L'unica notizia che ha una qualche possibilità di preservare il ricordo di fatti storici è quella tramandata da Ireneo, intorno al 180 d.C. circa; anche lreneo però non ci dice nulla di diretto sulla data di composizione, limitandosi a riferire che Giovanni sarebbe vissuto fino all'ultimo periodo del principato di Domiziano, assassinato il 18 settembre del 96 d.C. (cfr. Haer. s,3o,1 e 3, citato da Eusebio, H.E. 3,18,1-3). Più che ragionevolmente, dunque, la ricerca recente ha preferito individuare un arco di tempo, più o meno ampio, all'interno del quale collocare la stesura dell'Apocalisse. Cercheremo di procedere così anche noi, prescindendo dai passi di interpretazione controversa usualmente addotti per giustificare l'una o l'altra proposta, che riserveremo invece a un esame dettagliato in sede di commento (cfr., per tutti, Ap 17 e l'enumerazione delle sette teste della bestia). Giovanni non deve aver scritto la sua lettera prima della metà degli anni sessanta: la formazione delle prime ekklesiai a Smirne e a Laodicea è infatti immediatamente successiva o nel caso di Laodicea, al più presto, contemporanea all'attività di Paolo ad Efeso (SI55 d.C. circa; cfr. Policarpo di Smirne, Phil. 11,3; I Cor 16,19; Col 1,7; 2,1; 4,12-16). Per Smirne, fanno fede anche gli ottantasei anni di sequela vantati dal vescovo Policarpo nel 155-156 d.C. (Mart. Pol. 9,3), che riportano la diffusione del movimento di Gesù nella città al più tardi alla fine degli anni sessanta; nel 6o, poi, Laodicea fu rasa al suolo da un terremoto, dal quale si riprese in breve con le sue sole forze, arrivando a rifiutare gli aiuti da Roma (Tacito, A nn.

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14,27; cfr. Or. sib. 3,471 e 4,107-108). Il nostro sembra poi conoscere, o prevedere, l'occupazione romana e la distruzione di Gerusalemme (cfr. Ap u,2.7-10 e 18,24), il che permette di risalire quantomeno a ridosso della prima rivolta giudaica (66-70 d.C.). Più difficile è stabilire l'estremo basso di questo arco cronologico: cadute le teorie della persecuzione di Domiziano o anche solo dell' intensificazione del culto imperiale sotto il suo principato, appaiono insostenibili datazioni sotto Traiano (98-II7 d.C.) o Adriano (II7-138 d.C.), la prima in contrasto con la notizia di Ireneo, comunque la si voglia interpretare, la seconda inconciliabile sia con questa che con l'autorità e la fama di scrittura ispirata che ormai circondava l'Apocalisse nella prima metà degli anni trenta del II secolo d.C., se non forse già un buon decennio prima (cfr. Giustino, Dial. 81,4 e Papia di Ierapoli,ft. II Kortner). Piuttosto, si potrebbe pensare che il silenzio di Giovanni sul tempio imperiale a Efeso favorisca una data anteriore alla sua edificazione tra l'84 e 1'86 d.C.; vero è tuttavia che Giovanni, se forse allude al tempio consacrato al culto di Roma e Augusto a Pergamo (cfr. Ap 2,13 con Tacito,Ann. 4,37), non menziona nemmeno quello di Smirne, pure eretto una sessantina circa di anni prima (intorno al 26 d.C.: Tacito, Ann. 4,ss-s6). Si torna così al limite fissato da Ireneo, ovvero alla fase finale del principato di Domiziano, arrivando a un arco di tempo complessivo di trent'anni, tra il 66 e il 96 d.C. circa. Tra questi due estremi, ogni data può essere quella giusta: se Giovanni, per rappresentare la bestia che sale dal mare ferita a morte e poi guarita (Ap 13,1-4), si ispira davvero alla leggenda del Nerone redivivo, entrano in gioco una cronologia alta (68-69 d.C.: cfr. Tacito, Hist. 2,8-9; Dione Cassio, Hist. 64.9,3; Or. sib. 4,II9-125), una bassa (88-89 d.C.: Svetonio, Nero 57, e forse anche Tacito, Hist. 1,2,1), o una intermedia (79-80 d.C.: Dione Cassio, Hist. 66,19,3;), come frangenti nevralgici di un'attesa che pervase tutto l'Oriente e, in particolare, la provincia d'Asia (cfr. Tacito, Hist. 2,8,1). Ma ciò è tutt'altro che sicuro. Pur con tutte le incertezze del caso su singole date e dettagli, emerge comunque chiaramente un preciso contesto storico, come fattore unificante: l'ascesa della dinastia Flavia, le sue strategie di legittimazione, consenso e propaganda, la sua politica religiosa in Asia da Vespasiano a Domiziano. 31

La lingua di Giovanni: breve apologia di una traduzione Questo è segno di un letterato, non di un invasato; di uno che scrive con estrema accuratezza e abilità, non di uno fuori di sé (Marco Tullio Cicerone, La divinazione, 4S-43 a.C.). Benché anche il loro linguaggio non sia umano, Carlo lo capisce: non solo, ma la lingua umana in cui esso è percepito da Carlo, è una lingua meravigliosa. Ogni sua parola ha infatti una chiarezza rivelatrice: così che il capire, non è soltanto capire, ma anche la gioiosa cognizione del capire. Si direbbe, insomma, che quei personaggi parlino in versi o in musica. Certo, è effetto del sogno visionario, perché, riportati al di fuori del suo contesto, quei loro discorsi rivelavano la loro natura priva di mistero che la cultura di Carlo poteva fornir loro, e si riducevano a uno scambio di opinioni, a un battibecco ideologico abbastanza corrente. Fu portato in delirio (o nel raptus) nel suo lettino; e chi ebbe la fortuna di sentirlo parlare in quelle ore poté riferire che si trattava di stilemi di livello supremo, quello dell'Ecclesiaste o dell'Apocalisse, o dei presumibili e perduti testi reali di San Francesco: ma non poté, naturalmente, riferirle o ricostruirle (Pier Paolo Pasolini, Petrolio).

Chiudiamo il cerchio: nell'antichità, le divinità si manifestavano in forma e fattezze umane, apparendo in estasi e in sogno agli uomini, o possedendoli. Il loro linguaggio rimaneva però non umano, o meglio non vincolato agli usi quotidiani della comunicazione: ambiguità e sottintesi, metafore ed enigmi, formule fisse e innovazioni linguistiche, arcaismi e sgrammaticature, versi e prosa, ridondanza poetica e secchezza filosofica, giochi di parole e acrostici si alternavano per ingenerare la percezione del contatto con l'altro, non riducibile ai mezzi espressivi normali. La divinità si lasciava riconoscere in quanto tale dalla propria voce e dalla propria lingua, e questa, in un modo o in un altro, si presentava come infrazione e trascendimento del parlare di tutti i giorni, da cui filtravano la purezza e completezza dei suoi pensieri e della verità svelata (cfr. Cicerone, Div. 2,III-II2; IIS-II6; 131-133; Plutarco, Pyth. orac. 404c-e e 407a.e; Clemente Alessandrino, Strom. 1,21,143,1 ed Ecl. s6,2; Corp. herm. 16,2). Di nuovo, il Dio d'Israele non sembra fare eccezione: il greco di Giovanni appare povero di vocabolario e a volte ripetitivo all'ossessione, spesso grammaticalmente scorretto, con concordanze 32

saltate tra preposizioni e casi del sostantivo o tra sostantivo e aggettivo, ed evidenti calchi di strutture linguistiche semitiche. Non è solo questione di bi- o trilinguismo, o di insensibilità alle esigenze del greco da parte di un autore che, quando vuole, sa esprimersi correttamente. E difatti c'è un altro lato della medaglia: parallelismi e antitesi, chiasmi e allitterazioni, anafore e omeoteleuti, accumulo di sinonimi e metafore, enigmi alfabetici e numerici, accalcarsi di immagini surreali che sconfinano nell'onirico, dove, come già annotava Cicerone (Div. 2.,138-141), nulla esiste di troppo grande, straordinario o inimmaginabile che non possa essere visto. lnterrogandosi su forma e stile degli oracoli di Apollo a Delfi, Plutarco, contemporaneo circa di Giovanni, preciserà che le sbavature metriche e terminologiche, e la tradizionale oscurità della Pizia traducevano in atto verbale tanto l'impossibilità di una mediazione linguistica perfetta tra mondo divino e mondo umano (cfr. Pyth. orac. 396c-d e 404b-e), quanto la resistenza del primo alle pressioni politiche del secondo, la sua superiorità, insomma, e incontrollabilità (4o7d-e) ' 7 ; al tempo stesso, la forma poetica dei responsi si piegava a esigenze di memorizzazione in una società basata ancora quasi completamente sulla comunicazione orale (4o7f), mentre la loro ambiguità era chiamata a provocare i consultanti alla riflessione accurata sulle parole udite e sulla loro esatta interpretazione (4o7e). Ritengo che queste considerazioni di un contemporaneo su ragioni e modalità del parlare profetico possano esser fatte valere anche per Giovanni ' 8 : il nostro profeta letterato sta creando una lingua "sacra" che, nel solco della tradizione profetica di Israele, riproduca le movenze e il dettato del parlare potente di Dio, quale riconosciuto e riconoscibile dai suoi destinatari (cfr. Teognide, El. 1,8os8ro e le riflessioni di Giamblico, Myst. 3,17,59-60 e 7,4-5) ' 9 • Con il che, forgia una parola estatica che intenzionalmente rifiuta e sfida la parola ordinaria (cfr. Origene, Cels. 7.9 e Luciano, Alex. 13); contesta il potere imperiale, infrangendo segni e convenzioni linguistiche, la grammatica stessa, della sua costruzione celebrativa della realtà; ne elude l'azione repressiva, rivelando e insieme nascondendo verità divine politicamente esplosive (cfr. Eschilo, Ag. ro35-1330) w. Al contempo, Giovanni tesse la profezia secondo tecniche e moduli tipici dell'oralità, perché si imprima nella memoria dei suoi destinatari, ali' ascolto della voce del lettore (Ap 1,3) 21 : composizione studiata, la sua, fatta di corrispondenze interne, ri33

chiami e ripetizioni, anche in previsione di un ascolto e di una riflessione più approfonditi sul senso di profezie e immagini, cui l'autore stesso più volte provoca (cfr. Ap 13.9-10.18 con quanto suggerito da Artemidoro, Onir. 4,71,10-14, Clemente Alessandrino, Strom. 6,15,129, Giamblico, Vit. pyth. 29,161-162) 22 • Come rendere dunque in italiano una creazione linguistica così ricca e complessa? L'esperimento di traduzione più innovativo rimane la versione radicalmente letterale di Edmondo Lupieri: chi volesse masticare il dettato di Giovanni direttamente trasposto in italiano, naturalmente fìn dove il sistema linguistico di arrivo lo ha permesso, può riferirsi al suo volume. Altra è la via qui seguita: ho cercato di proporre una traduzione fedele al testo, intendendo per fedeltà non la resa filologicamente ineccepibile dell'originale greco, ma piuttosto l'aderenza alle finalità comunicative del testo stesso, che, da un lato, ne prenda coscienza e lo valorizzi come un prodotto culturale storicamente altro da noi, ma, dall'altro, si proponga di riprodurre questa alterità e differenza in un italiano esposto il meno possibile ad alterazioni e fraintendimenti storici e culturali 2 3. Sfrutto ancora l'onda di queste riflessioni per un'ultima, breve postilla sul commento: il lettore attento avrà di certo notato la frequenza con cui paralleli da testi greco-romani sono stati citati in questa introduzione, di contro ai pochi passaggi scritturistici. Non se ne stupisca, o almeno non più di tanto: la lettura dell'Apocalisse va svincolata da un'esclusiva ottica biblicista, tesa a costruire un sistema di interpretazione chiuso in cui articolare una fitta serie di rimandi e riferimenti incrociati tra Antico e Nuovo Testamento, e spiegare così il testo. Il quadro culturale in cui l 'Apocalisse si inserisce necessita di essere ampliato, perché il testo possa dirsi davvero storicamente compreso: lo esigono, tanto più urgentemente, sia la probabile formazione e la vicenda biografica di Giovanni, per quanto possiamo supporre, che l'humus culturale dei seguaci di Gesù cui egli scrive: nella loro complessità, infatti, tagliano tutte trasversalmente e perciò sfuggono a categorie correnti e troppo spesso abusate, quali canonico e apocrifo, Palestina e Diaspora, Giudaismo ed Ellenismo, Ebraismo e Cristianesimo 24 •

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Ringraziamenti Queste pagine sono il frutto di un lavoro di ricerca che dura ininterrottamente ormai da quasi dieci anni. Non poche sono quindi le persone che mi sento in dovere di ringraziare per averle, direttamente o indirettamente, arricchite con impulsi, consigli e, non ultimo, correzioni e critiche: innanzitutto, il prof. Enrico Nordli, che ha accolto senza esitazione il volume nella serie da lui diretta; poi, il prof Lorenzo Perrone, che mi ha proposto l'Apocalisse di Giovanni come tema della tesi di laurea, seguendone l'elaborazione in tutte le sue fasi e richiamando sempre l'esigenza di non isolare l'analisi filologica e letteraria di un testo dall'ambiente sociale in cui questo è stato prodotto; con lui, il prof Mauro Pesce, che mi ha insegnato a farmi domande e a non accontentarmi di risposte superficiali, a scavare dentro il testo e a guardare oltre facili semplificazioni; infine, il prof. Peter Lampe che, sia nei colloqui con me sia nella sua produzione scientifica, ha costantemente insistito sull'importanza del contesto ellenistico-romano, dei ritrovamenti archeologici e dei materiali papiracei ed epigrafici per la ricostruzione delle origini cristiane. A questi voglio aggiungere tutti i miei ex colleghi di dottorato e amici, con cui ho condiviso domande e idee, e specialmente tre di loro: Mara Rescio e Luigi W alt, per aver discusso con me numerosi punti caldi del testo, ed Emiliano Fiori, per la pazienza di aver letto e riletto la traduzione e l'introduzione e per la competenza con cui lo ha fatto, malgrado gli altri, numerosi impegni che lo gravavano. Gli errori, le sviste e le imprecisioni che ne restano sono tutti chiaramente da addebitare a chi scrive. Non posso tralasciare poi la Biblioteca "Giuseppe Dossetti" della Fondazione per le scienze religiose "Giovanni xxm" di Bologna, e in particolare Simone Bella, per l' insostituibile aiuto bibliografico e le altrettanto indispensabili colazioni. Come lui, infine, fuori dai fumi di biblioteche e accademie non posso dimenticare Giulia Lucca per le piadine, le risate e l'amicizia e Martina che è voluta essere un lampo accecante. A sé naturalmente va la mia riconoscenza nei confronti di Maria che si è rivelata critica acuta e spietata di ragionamenti zoppicanti e di ogni mia involutezza di pensiero e di stile: se tutto risulterà anche un minimo più limpido e leggibile di come lo avessi inizialmente concepito, è solo merito suo. 35

Note • Dove non ulteriormente specificato, tutte le traduzioni dei testi antichi citati sia nell'Introduzione che nel Commento sono mie. 1. Per rendersene conto, basta sfogliare un qualsiasi volume dedicato alla storia del!' interpretazione di Ap, da ultimi, ad esempio, Kovacs, Rowland (wo4) e Victoria (2009). 2. Per le riflessioni che seguono, cfr. soprattutto Destro, Pesce (1995, pp. 3-14), ma restano illuminanti anche le pagine di Assmann (wo4, pp. 99-

102). 3· Scrive Lane Fox (wro, p. 8): «[gli storici,] allorché ricostruiscono una vita, una pratica o un gruppo sociale, di cui sono le fonti a gestire l' immagine che stanno creando, debbono anche ipotizzare che cosa si celi sotto la superficie; le assenze significative e le forze latenti. Quando immaginano tali assenze, hanno perciò bisogno di pensare come sarebbe stata la vita al di là delle loro particolari esistenze. "Fossi là, oppure là ...": questi pensieri balenano in menti che hanno viaggiato lontano fra la documentazione di altri tempi e luoghi». E Pier Paolo Pasolini, più pessimisticamente, prima di lui: «La storia ci appassiona tanto (certo più di ogni altra scienza) perché ciò che c'è di più importante in essa ci sfugge irreparabilmente» (Petrolio, appunto 67). 4· Per una rassegna della casistica completa, cfr. Malina (1995, pp. 30-55). 5. Il lettore italiano che fosse interessato ad analisi scientifiche aggiornate di simili esperienze, di fatto non meno frequenti nel mondo moderno che in quello antico, può consultare con profitto Metzinger (wro, pp. 87-132 e 155-71) e Beneduce (wo6) per il primo, e Dodds (wo9, pp. 109-228 e 32978) e Guidorizzi (wro, pp. 94-uo e 143-2.06) per il secondo. 6. Seguo le riflessioni sul rapporto fra linguaggio simbolico, realtà del sogno e vita quotidiana sviluppate da Berger, Luckmann (2007, pp. 62-3). 7· Cfr., in estrema sintesi, Young (wu, pp. 84-5, con ulteriori rimandi bibliografici). 8. È questa, ad esempio, la tesi di Biguzzi (1996). 9· L'autonomia di simboli ed eventi "apocalittici" da antecedenti concreti nel mondo reale è stata accuratamente evidenziata dall'analisi di Frankfurter (1993, pp. 195-238). Importanti anche le riflessioni di Berger (r98o, pp. 1437-9 e 1449-50). ro. A leggerla con occhi da "greco", seguendo la tipologia delle visioni in sogno sviluppata da Artemidoro, l'Apocalisse di Giovanni ricadrebbe così tra le visioni, o oracoli, che predicono pochi, se non un unico evento, attraverso più immagini e sequenze narrative (cfr. Onir. 1,2,41-42 e 1,4,2646 con 4,27,1-9). 11. Riprendo le conclusioni di Frankfurter (1993, pp. 296-8). Analogamente, Berger (1994, pp. 123-32 e 138-45) interpreta visioni e viaggi celesti come forme di percezione e discorso umani che rielaborano la realtà storica nel suo complesso in quanto unità e totalità simbolica.

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12. Cfr. Harland (2003a, pp. 253-4) e Wilken (2007, pp. 53-4 e 61-8o). Cfr. anche Burkert (1989, pp. 67-73) che, a proposito delle associazioni misteriche antiche, scrive: «l 'assenza di demarcazione religiosa e di una consapevole identità di gruppo significa l'assenza di qualsiasi frontiera rigida contro culti concorrenti, come pure l'assenza di qualsiasi concetto di eresia, per non parlare di scomunica. Gli dèi pagani, anche gli dèi dei misteri, non sono gelosi l 'uno dell'altro; essi formano, per così dire, una società aperta>> (ivi, p. 68). 13. I profili più completi rimangono quelli tracciati da Satake (20o8, pp. 33-44), con cui però mi trovo spesso in disaccordo, e da Lupieri (2009, pp. LVII-LXVII), di cui invece seguo numerosi spunti. 14. Ricalco qui di seguito alcune considerazioni sul Vangelo di Matteo svolte da Destro, Pesce (20II). 15. Cfr. Theissen (20o1, pp. 330-3). r6. Come chiarito bene anche da Lupieri (2009, pp. uv-Lv). 17. Queste intuizioni sono state riprese e sviluppate di recente da Flower (2009, pp. 219-21 e 235-9). r8. Rielaboro e approfondisco le analisi di Callahan (1995, in particolare, pp. 459-61 e 464-70) e Maier (2002, pp. 95-II6, con ulteriore bibliografia). 19. Su forme e funzioni delle lingue divine nell'antichità, cfr. Bettini (20o8, pp. r6o-86). 20. Sulla tensione che animava i rapporti rra potere imperiale e mondo della divinazione, a causa del forte potenziale sovversivo di quest'ultima, cfr. Flavio Giuseppe, BJ. 6,300-305·312-315; Tacito, Hist. 1,22; 2,62; 5,!3, e Ann. 2,32 e !2,52; Svetonio, Aug. 3!,1; Tib. 36,!; Nero 36,1 e 40,2-3; Dom. r6,r; Giustino, I Apol. 44,12-13; P.Yale 299,12-15; Diane Cassio, Hist. 79,4,4-5; Ammiano Marcellino, Hist. 19,!2,3-6. 21. Per chiarezza e densità, si impone la ricostruzione offerta da Frankfurter (1993, pp. 31-9 e 79-96) del contesto orale di produzione e fruizione dell'Apocalisse di Elia, ricostruzione che si appoggia peraltro su numerosi confronti con l'Apocalisse di Giovanni. A immaginarla, la scena della lettura di Ap non deve essere stata molto lontana dagli scenari che tanto impressionarono Eusebio di Cesarea e Girolamo, stando a quanto loro stessi riferiscono (cfr., rispettivamente, M art. Pal. 13,7-8 ed Ep. 22,35,3). 22. Il punto è stato ben messo a fuoco da Lupieri (2009, pp. !07-8, 130 e 136-7, che arriva anche a parlare di «piano programmato di rivelazione graduale>>: p. 137). Sulle istanze interpretative dei responsi oracolari antichi, cfr. anche Flower (2009, pp. 234-5). 23. Sulla linea di Berger, Nord (2003, pp. 17-23). In attesa della futura, già annunciata editio maior, a cura di Martin Karrer, il testo greco qui riprodotto si basa su E. Nestle et al., Novum Testamentum Graece, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 2001" 7, pur con tutte le opportune riserve, espresse da Lupieri (2009, pp. XIII-XIV). I rari casi in cui me ne sono discostato, per lezioni o punteggiatura, sono segnalati nel Commento. 24. Seguo a mio modo le linee del progetto di rinnovamento degli studi neotestamentari tracciate da Hengel (2003, pp. 23-7 ).

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Apocalisse di Giovanni

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INSCRIPTIO

(originariamente sul retro del papiro?)

I I Questa è una rivelazione di Gesù, l'Unto di Dio, che Dio gli ha dato per mostrare ai suoi schiavi cosa è stabilito che si compia a breve, e che ha mandato a comunicare al suo schiavo Giovanni dal suo angelo. 2 Giovanni lascia qui testimonianza scritta della parola che Dio ha inviato e Gesù, l'Unto di Dio, confermato, le visioni che ha visto. 3 Felice colui che legge e quanti ascoltano le parole della profezia e seguono ciò che in essa è scritto: prossimo è infatti il tempo che tutto si compia.

INTESTAZIONE E SALUTI

4 Giovanni manda a dire alle sette comunità in Asia: vi concedano il loro favore e pienezza di benedizioni Colui che è, che era e che viene, i sette Spiriti che stanno in piedi di fronte al Suo trono, s e Gesù, l'Unto di Dio, il testimone fedele, il primogenito dei morti e sovrano dei re della terra. PROEMIO

A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati a prezzo del suo sangue, 6 facendo di noi un regno e sacerdoti al Dio e Padre suo, a lui appartengono la gloria e la potenza per tutta l'eternità! Amen! 7 Ecco viene con le nuvole, e lo vedrà ogni occhio e quanti lo hanno trafitto, e in lutto si batteranno il petto per lui tutte le tribù della terra. «Sì, tutto si compirà certamente! 8 Io sono l'Alfa e l'Omega» dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, il Padrone dell'universo. INIZIO DEL CORPO DELLA LETTERA

9 lo, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno di afflizione, regno e resistenza in Gesù, giunsi sull'isola chiamata Patmos per vedere la parola inviata da Dio e testimoniata da Gesù. IO Il giorno del Signore, caddi in estasi e udii una voce grande alle mie spalle, come di tromba 11 che diceva: «Quello che vedi scrivilo su un rotolo e invialo alle sette comunità, a Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatiri, Sardi, Filadelfia e Laodicea».

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Feci allora per voltarmi a vedere la voce che parlava con me, mi voltai e vidi sette lucernieri d 'oro, 13 e in mezzo ai lucernieri come una figura d'uomo, con una veste che gli scendeva fino ai piedi e una cinta d'oro a stringerlo all'altezza del petto. 14 Bianchi erano la sua testa e i suoi capelli, come lana bianca come neve, e i suoi occhi sembravano fiamma di fuoco. 15 I suoi piedi somigliavano a bronzo finissimo, incandescente come se fosse stato arroventato in un forno, e la sua voce era pari al fragore di molte acque. 16 Nella mano destra teneva sette stelle, e dalla sua bocca usciva una spada lunga a due tagli, affilata. Il suo aspetto era come il sole splende in tutta la sua vampa. 17 Al vederlo, crollai ai suoi piedi come morto, ma egli pose la sua mano destra su di me, e mi disse queste parole: «Non avere paura! lo sono il primo e l'ultimo, 18 e il vivente. Sono stato morto ed ecco ora vivo per tutta l 'eternità, e ho in mio possesso le chiavi di Morte e Ade. 19 Scrivi dunque quello che hai visto e cosa significa, e le visioni che stanno per seguire. 20 Il significato nascosto delle sette stelle che hai visto nella mia mano destra, e dei sette lucernieri è questo: le sette stelle sono gli angeli delle sette comunità, i lucernieri sette comunità». 12

PRIMA SEZIONE DEL CORPO DELLA LETTERA: LE LETTERE ALLE SETTE COMUNITÀ 2 1 «All'angelo della comunità a Efeso scrivi: "Così dice colui che tiene le sette stelle nella sua mano destra, colui che cammina in mezzo ai sette lucernieri d'oro: 2 conosco le tue azioni, lo sforzo con cui ti spendi, e la ferma resistenza che dimostri. So che non puoi reggere i malvagi, e hai messo alla prova quanti si pretendevano inviati senza esserlo realmente, e li hai trovati bugiardi; 3 hai fermezza e hai resistito per il mio nome, senza sfiancarti e cedere. 4 Ma ho contro di te che hai abbandonato l'amore dei tuoi inizi. 5 Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e torna a fare ciò che facevi allora! Altrimenti, verrò da te e smuoverò il tuo lucerniere dal suo posto, se non ti ravvedi. 6 Hai questo però, che odi le azioni dei Nicolaiti, che anche io odio. 7 Chi ha orecchio per udire, oda cosa lo Spirito dice alle sette comunità! A chi vince darò da mangiare dell'albero della vita che cresce nel paradiso di Dio".

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8 Kal T0 a:yyéÀct.> T~ç èv 2:f-tupvn ÈKKÀYJcr(aç ypriìjrov· Taòe ÀÉ')'El 6 npwToç Kctt 6 Epoùç Kctl Kctpò(aç, Kctl òwa-w UfLLV ÉKaa-TI{.> Kct-rà -rà gpya VfLWV. 24 'YfLLV ÒÈ À.éyw -roiç Àomoiç -roiç èv E>ua-r~(potç, oo-ot ovK gxouo-tv T~V òtòax~v TctUTYJV, o'inv~ç OUK gyvwa-av Tà ~a9éa TOU LctTctvéi, wç Àéyouo-tv· ov ~aMw ~q,· UfLéiç aMo ~apoç, 25 TIÀ~v ogx~n KpctT~O"ctT~ axptç où &v ~!;w. 26 Kal 6 VllCWV KctL oTYJpWv axpt TÉÀouç Tà 6pya fLOU, òwa-w av-rci) ~1;oua-(av ~'ITL TWV Wvwv, 27 KctL 'ITOlfLGtVEL au-roùç ~V pa~ÒI{.> O"tÒY]p~, wç Tà O"K~VYJ Tà K~pctfLtKà o-unp(~~Tctt, 28 wç Kct)'W ~'(ÀY]cpct 7rctpà TOU 7rct-rp6ç fLOU, KctL Òwa-w ctvTci) TÒV ctO"TÉpct -ròv 1rpw"Lv6v. 29 'O 6xwv oùç ètKoua-a-rw -r( -rò Tiv~tifLct Àéy~t -raiç ~KKÀYJO"Lcttç.

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Kal -rci) ct)ì'ÉÀI{.> -r~ç h Z:apò~a-tv ~l(l(ÀYJa-(aç ypaifov· o 6xwv Tà ÉTITà 'ITV~VfLGtTct TOU e~ou KctL ToÙç ÉTITà ctO"TÉpaç· oiM O"OU Tà epya, on OVOfLGt ex~tç on ~flç, KctL V~Kpòç ~r. 2 flvou ì'PYJ)'Opwv, KctÌ o--r~pto-ov -rà Àomà &EfL~Mov ct7ro9av~Iv. ov yàp EilpY]Ka O"OU Tà epya TIETIÀYJpWfLÉVct èvwmov TOU e~ou fLOU. 3 MVY]fLOV~U~ oÙv 1rwç ~LÀY]cpctç KctÌ ~KOUO"ctç, KctÌ T~p~t, KctÌ fL~TctVOYJO"OV. 'Eàv oÙv fL~ ì'PYJ)'Op~o-nç, ~!;w wç KÀÉTITY]ç, KctÌ ov fL~ yvci)ç 7rOLctV wpav ~!;w ~TIL o-É. 4 'AMà ex~tç òÀ(ya ÒVOfLGtTct ~v Z:apÒ~O"lV & OVK ~fL6Àuvav Tà L[Lana ctVTWV, KctÌ7r~pmctT~o-ouo-tv fL~T ~fLOU ~v À~UKOLç, on a1;to( ~[o-tv. S '0 vtKwv oihwç 7r~pt~aÀ~hat ~v LfLGtTLotç À~uKoiç, KctÌ ov fL~ ~1;aÀ.~('fw -rò oVOfLct au-rou ~K T~ç ~(~Àou T~ç ~w~ç, KctÌ OfLOÀ.oy~a-w -rò oVOfLct au-rou ~vwmov TOU 7rctTp6ç fLOU KctÌ ~vwmov TWV ct)ì'ÉÀwv ctUTOU. 6 '0 EXWV oùç ètKoua-a-rw -r( -rò Tiv~ufLa Àéy~t -raiç ~l(l(ÀYJa-(atç. 7 Kal -rci) ct)ì'ÉÀI{.> -r~ç ~v tÀaÒ~Àcp~(~ ~l(l(ÀY]o-iaç ypaifov· Taò~ ÀÉ)'~l 6 &.ytoç, 6 àÀY]9tv6ç, oexwv T~V KÀ~Iv bau(Ò, 6 ètvo(ywv KctÌ ouÒ~Ìç KÀ~(O"~l, KctÌKÀ~(wv KctÌ ol)Ò~Ìç ctVOl)'~t· 8 oiM O"OU Tà epya, [ÒoÙ ÒÉÒWKct ÈvW7rlOV O"OU 9upav ~V~I{.>)'fLÉVYJV, ~V OUÒ~Ìç ÒVVctTctl KÀ~LO"ctl ctVT~V, on fLlKpàv EX~tç ÒUVGtfLlV, KctÌ ÈT~pY]o-aç fLOU TÒV À.oyov, KctÌ OVK ~pv~a-w -rò ovofLa fLOU. 9 'Iòoù òtòw ~K -r~ç a-uvaywy~ç -rou Z:a-ravéi, -rwv À.~y6nwv éau-roùç 'Iouòa(ouç ~Ivat, Kctl ovK ~ìa-ìv ètMà t~vòonat. 'Iòoù 7r0l~O"W au-roùç lva ~1;ouo-tv KctÌ 7rpOO"lCUV~O"OUO"lV ~vwmov TWV 'ITOÒWV O"OU, KctÌ )'VWO"lV on ~)'W ~)'a'ITYJO"a 0"~. IO "On ÈT~pì']O"ctç TÒV À.6yov U'ITOfLOV~ç fLOU, Kct)'W ()"~ TY]p~o-w ~l( T~ç wpaç TOU 7r~tpcto-fLOU T~ç fL~MOUO"Y]ç epxeo-9at ~'ITÌ T~ç OLKOUfLÉVYJç OÀY]ç 7r~tpao-at TOÙç I

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delle loro azioni; 13 i suoi figli li farò morire di malattia e così tutte e sette le comunità riconosceranno che io sono colui che scruta reni e cuori, e darò a ciascuno di voi secondo le vostre azioni. 14 A voi invece dico, i restanti a Tiatiri, che non seguono questi insegnamenti, e non hanno conosciuto le 'profondità' -di Satana, sì-, come vanno dicendo quelli: non getto su di voi alcun altro peso, 15 solo, tenete stretto ciò che avete, finché non verrò! 16 E chi vince e segue fino alla fine i miei insegnamenti, a lui darò potere sulle genti, 17 e li guiderà al pascolo con un bastone di ferro, al modo che si spezzano i vasi di argilla, 18 così come anch'io ho ricevuto questo stesso potere dal Padre mio, e gli darò la stella del mattino. 19 Chi ha orecchio per udire, oda cosa lo Spirito dice alle sette comunità!". 3 Ali'angelo della comunità a Sardi scrivi: "Così dice colui che tiene in mano i sette Spiriti di Dio e le sette stelle: conosco le tue azioni, so che hai fama di essere vivo, e invece sei morto. 1 Svegliati e infondi forza a chi ti resta ed era già sul punto di morire! Non ho trovato infatti le tue azioni perfette al cospetto del mio Dio. 3 Ricordati, dunque, e segui ciò che hai ricevuto e udito, e ravvediti! Se non sarai sveglio, allora, verrò come un ladro e non saprai a che ora verrò a sorprenderti. 4 Hai tuttavia pochi che non hanno insozzato le loro vesti, e cammineranno con me in vesti bianche, perché ne sono degni. s Chi vince, similmente si avvolgerà di vesti bianche, e non cancellerò il suo nome dal libro della vita, e lo riconoscerò al cospetto del Padre mio e dei suoi angeli. 6 Chi ha orecchio per udire, oda cosa lo Spirito dice alle sette comunità!". 7 All'angelo della comunità a Filadelfia scrivi: "Così dice il santo, il veritiero, colui che è in possesso della chiave di Davide, colui che apre e nessuno chiuderà, che chiude e nessuno apre: 8 conosco le tue azioni - ecco ho posto davanti a te una porta aperta che nessuno può chiudere -, so che hai poche risorse, ma hai seguito la mia parola e non hai rinnegato il mio nome. 9 Ecco io farò venire alcuni di quella accolta di Satana, di quelli che pretendono di essere Giudei e non lo sono, ma mentono, e li farò prostrare ai tuoi piedi, e riconosceranno che ti arno. IO Poiché hai seguito la mia parola che esorta ad attendere e resistere, io ti preserverò dall'ora della prova che sta per abbattersi sulla terra I

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