Antropologia e cultura romana. Parentela, tempo, immagini dell’anima

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Antropologia e cultura romana. Parentela, tempo, immagini dell’anima

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Studi Superiori NIS LETTERE

Maurizio Bettini

e

Antropologia cultura romana Parentela, tempo, immagini dell'anima

ANTROPOLOGIA E CULTURA ROMANA PARENTELA, TEMPO, IMMAGINI DELL'ANIMA

Maurizio Bettini

7" edizione - settembre 1986 © copyright by La Nuova Italia Scientifica, Roma Finito di stampare nel settembre 1986 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali S.r.l., Urbino

Indice

pag

11

Premessa

13

Parte prima. Ne sis patruus mihi: sul sistema degli atteggiamenti nella famiglia romana arcaica

18

J.

Pater

18 21

1.1.

1 .2.

Una stirpe di imperiosi Simul non lavantur

27

2.

Patruus

27 41 46

2. 1 . 2.2. 2.3.

Ne sis patruus mihi I falsi patrui della palliata Cicerone patruus

50

3.

Avunculus

50 57 62 68

3. 1 . 3.2. 3.3. 3 .4.

Questioni preliminari In grande "familiarità" con l'avunculus Avus/nepos (e il "diminutivo di confidenza") Lo zio materno "difensore" della nipote

77

4.

Matertera

77 82 86 90 95 98

4. 1 . 4.2. 4.3. 4.4. 4.5. 4.6.

Quasi mater altera

Dal mondo silenzioso delle iscrizioni Un rituale di materterae: la festa di Mater Matuta Sororiare/fratrare (un intermezzo) Funzione della matertera e struttura del rito

Si iuris materni cura remordet

113

5.

Amita

1 18

6.

Conclusioni

1 25

Parte seconda. "L'avvenire dietro le spalle": rappre­ sentazioni spaziali del tempo nella lingua e nella cul­ tura romana

1 28

7.

Localizzazione di "anteriorità"/"posteriorità"

1 33

8.

Localizzazione di passato/futuro

1 44

9.

"In cammino": riflessioni di antropologia letteraria

153

IO.

"In cammino": il tempo generazionale e la Herosco­ pia al sesto dell'Eneide

161

11.

Altri volti del tempo: l'avvenire dietro le spalle

1 68

12.

La preminenza culturale del "davanti": analisi lingui­ stiche e antropologiche

1 76

13.

Il tempo "verticale": dallo stemma genealogico al fu­ nerale gentilizio

1 94

14.

Le localizzazioni spaziali del tempo: considerazioni conclusive e "ragioni" antropologiche

203

Parte terza. Il pipistrello, l'ape e la farfalla: simboli naturali e rappresentazioni dell'anima

205

1 5.

L'ape e la farfalla

205 207

1 5. l. 1 5.2.

Sequitur omnia pura

Una similitudine virgiliana

Il feralis papi/io, e la fanciulla con ali di farfalla Bugonia

210 215 220 224 226

1 '5.3. 1 5 .4. 1 5.5. 1 5.6. 1 5.7.

228

16.

L'ape e il pipistrello

228 2 32 234

1 6. 1 . 1 6.2. 1 6. 3 .

La stanchezza dei morti Come pipistrelli in un antro pauroso Brevi osservazioni finali

236

17.

La follia di Aristeo

237 239 24 1 249

1 7. 1 . 1 7.2. 1 7.3. 1 7.4.

La favola di Aristeo La favola "disarmonica" di Orfeo Intertestualità e motivi fiabeschi Dalla favola al mito

Il bue, il cavallo, la vespa e il calabrone Gli stranieri Prime conclusioni (ma, "come funziona" una similitudine?)

256

Indice dei passi studiati

262

Indice dei nomi

268

Indice analitico

Premessa

Stavo già scrivendo una prefazione a questo libro, quando mi è tor­ nato in mente un vecchio pensiero di F. Schlegel : «Una buona prefazio­ ne deve essere insieme la radice e il quadrato del libro» 1• Spaventato, ho deciso di non scriverla più. E di limitarmi ad enunciare in breve gli argomenti che qui vengono trattati. La parte prima studia dunque la famiglia (e la parentela) romana dal punto di vista dei rapporti che una persona si trovava ad avere con il proprio padre e con i suoi quattro zii : rispettivamente, patruus, avuncu­ lus, matertera ed amita. Per concludere che tali rapporti, a differenza di ciò che accade nella nostra cultura, si presentavano profondamente dif­ ferenziati : e rispondevano ad un complicato intreccio di modelli cultura­ li, leggendari, religiosi, linguistici ecc. di cui i testi serbano ampia (ben­ ché trascurata) testimonianza. Nella parte seconda, mi sono invece posto il problema di come la cultura romana "localizzava" il proprio tempo: vale a dire, di "dove" collocava il proprio futuro e il proprio passato ("davanti" il futuro, "die­ tro le spalle" il passato: ma spesso accadeva il contrario - e non era per caso) ; di come e perché avveniva che il "prima" fosse collocato "da­ vanti", oppure "in alto" : mentre "poi" stava "dietro", oppure "in basso"; e così via. Una prospettiva culturale che ci ha condotto, forse con qual­ che sorpresa, a riflettere anche sulla trama del Satyricon e degli altri romanzi di 'viaggio'; sulla sfilata degli eroi al sesto dèll'Eneide - però anche sull'albero genealogico a Roma, sul corteo di imagines che ac­ compagnava il funerale gentilizio ecc. La parte terza è invece dedicata ad alcune simbologie privilegiate tramite cui viene rappresentata l'anima dopo la morte: l'ape, la farfalla e il pipistrello. Lo studio di questi simboli ci ha spinto ad approfondire molte credenze antiche relative al mondo "naturale", soprattutto per ciò che riguarda l'ape: che cosa la uccide e che cosa la fa rivivere (la bugo­ nia), chi sono i suoi "amici" e i suoi "nemici", perché tanto odi gli adul­ teri e gli aromi ecc. Ma ci siamo trovati anche ad affrontare lo studio di alcuni episodi letterari o racconti mitici che con il mondo dell'ape, della 1 Frammenti del "Lyceum", in Frammenti critici e scritti di estetica, a cura di V. Santoli, Firenze 1 937 (=1967), p. 20.

12

ANTROPOLOGIA E CULTURA ROMANA

farfalla o del pipistrello hanno stretta relazione. D'altronde, la nostra conoscenza del mondo antico spesso è fatta proprio di racconti. Nella preparazione e nella stesura di queste pagine, tempo (e diffi­ coltà) ha comportato soprattutto la ricerca delle testimonianze. Perché trattandosi di argomenti un po' fuori dai percorsi abituali della filologia classica, solo raraf!1ente mi sono potuto servire di materiali già struttura­ ti in precedenza. E dunque possibile che il numero degli esempi (o dei controesempi) possa venire accresciuto dal lettore. Più che possibile, di­ rei anzi che è auspicabile. Nonostante le difficoltà, comunque, questo libro è stato scritto volentieri. Se verrà anche letto volentieri, un risulta­ to sarà stato comunque raggiunto. Che sia questo, anzi , «la radice e il quadrato del libro»? Durante questo periodo molte persone mi sono state vicine, e voglio ringraziarle. Suggerimenti preziosi ed aiuto concreto debbo 'Soprattutto a Lucia Beltrami, Gianni Guastella, Francesca Mencacci, Renato Oniga e Licinia Ricottilli. E adesso, "con buona fortuna": come dicevano i greci. Pisa, 9 marzo 1 986

Parte prima Ne sis patruus mihi:

sul sistema degli atteggiamenti nella famiglia romana arcaica

Lo scopo che ci siamo proposti in questo studio potrà risultare, almeno per alcuni, abbastanza insolito: ricostruire il sistema degli atteggiamenti che vigeva nella famiglia romana, soprattutto arcaica. Vale a dire il tipo di relazione (affettiva, di comportamento, talora rituale, istituzionale ecc.) che ego intratteneva, nella fattispecie, con il proprio padre, il proprio zio paterno, il proprio zio materno, la propria zia materna, la propria zia paterna (e, per alcuni aspetti, anche con il proprio nonno) . Questo signi­ fica che abbiamo concentrato la nostra attenzione non sulle relazioni "orizzontali" (fratello/sorella, marito/moglie ecc.) ma su quelle "vertica­ li" ed "oblique", con una decisa preferenza per le generazioni contigue. Ma che cosa intendiamo con "atteggiamenti"? Una definizione molto sommaria potrebbe essere formulata in questi termini: quel particolare schema di comportamento che è assegnato di volta in volta a un indivi­ duo nei confronti delle persone in base a cui il suo ruolo familiare è definito. Per fare un esempio, gli atteggiamenti fra padre e figlio consi­ steranno in quel particolare schema di comportamento che la norma sociale attribuisce a un "padre" nei confronti del "figlio" (l'elemento in base al quale si definisce il suo ruolo "paterno" nel sistema di parente­ la) : e viceversa. Così, nel sistema familiare, un padre si troverà assegna­ to sia un termine appellativo specifico (pater) , sia una precisa funzione giuridica o istituzionale, sia un determinato schema di reciproci atteggia­ menti con il figlio. Se poi gli atteggiamenti padre/figlio vengono integra­ ti, come abbiamo cercato di fare noi, nel gruppo delle rimanenti relazio­ ni di carattere obliquo (con i vari zii) - per metterne in luce analogie, differenze, correlazioni ecc. - quel che si ottiene costituirà già una pri­ ma messa in forma del sistema degli atteggiamenti. Che esistano atteggiamenti diversi fra ego e ciascuno dei suoi diversi zii può forse risultare strano alla nostra sensibilità di oggi. Noi viviamo in una cultura in cui molto difficilmente si potrebbe sostenere che, po­ niamo, con il fratello del padre si tiene un atteggiamento diverso da quello tenuto con il fratello della madre. La nostra esperienza personale ci dice il contrario, o meglio ancora, ci dice che, se differenze di atteg­ giamento esistono, esse sono il risultato di fattori contingenti 1• Ma così 1 Questo non impedisce che anche tali "contingenze" potrebbero poi assumere. ad

16

ANTROPOLOGIA E CULTURA ROMANA

non è, notoriamente, presso molte popolazioni che sono state oggetto di analisi antropologica . E così ci si può già aspettare che non fosse nella cultura romana: basta riflettere sulla terminologia usata in latino per designare gli "zii". L'italiano (così come altre lingue romanze) confonde questi quattro personaggi nella designazione generica di "zio" ("zia") : vale a dire, un solo termine, tramite il meccanismo della differenziazione dei generi, è in grado di indicarli tutti e quattro. Al contrario, il latino usa un termine diverso per ciascuno di essi : patruus (fratello del padre), amita (sorella del padre), avunculus (fratello della madre), matertera (sorella della ma­ dre). Per altro verso, il latino non conosce l'uso (da noi abbondante­ mente praticato) di assimilare alla categoria di "zio" /"zia" anche i mariti e le mogli di queste persone. Il passaggio terminologico che oppone il latino alle lingue romanze (ma anche le germaniche funzionano ormai secondo lo stesso schema) corrisponde, in termini strutturali, a un'affermazione del principio di "bilateralizzazione" nei rapporti familiari : per cui la linea paterna o agnatizia e la linea materna o cognatizia sono poste sullo stesso piano. Gli zii paterni diventano in tutto uguali ai materni (confusione che si realizza, per noi, anche a livello dei "cugini" : che il latino teneva ancora terminologicamente distinti 3). Alla originaria "biforcazione" terminolo­ gica si sostituisce un modello a carattere "lineare" 4, in cui i due rami un tempo differenziati si sono confusi in uno solo; da cui la nota domanda «zio da che parte?» che si suole rivolgere quando si voglia saperne un po' di più (cosa che avviene, per la verità, abbastanza di rado: e questo è già molto indicativo). Da un punto di vista storico, tale processo d i "bilateralizzazione", con conseguente creazione del modello lineare e indifferenziato, sembra essersi compiuto verso la fine dell'impero: e presuppone verosimilmente uno studio approfondito, caratteristiche di tipo sistematico, pur se non esplicitamente per­ cepito. Ma questo è un discorso diverso. 2 Ci riferiamo in primo luogo al noto saggio di Cl. Lévi Strauss, L 'analisi strutturale in linguistica e in antropologia, in Antropologia strutturale, tr. it. Milano 1 966, pp. 45 ss., in cui l'autore elaborò per la prima volta la nozione di «atomo di parentela» (cfr. in[ra, p. 1 22 n. 9): nozione che egli è andato precisando e affinando (rispondendo anche alle varie critiche che via via gli venivano fatte) in Riflessioni sull'atomo di parentela, in Antropolo gia strutturale li, tr. it. Milano 1 978, pp. 1 2 1 ss.; e in Un "atome de parenté" australien, in Le regard éloigné, Paris 1 983, pp. 93 ss. Ancora dello stesso si veda il breve saggio La famiglia, in Razza e storia e altri studi di antropologia, tr. it. Torino 1 967, pp. 1 47 ss.; e il capitolo Le relazioni interindividuali in La vita familiare e sociale degli indiani Nambi­ kwara, tr. it. Milano 1 970, pp. 8 1 ss. Per il problema degli atteggiamenti, cfr. anche la bibliografia citata alle pp. 1 20 ss. 1 Frater (soror) patruelis (patrilaterale parallelo), consobrinus (matrilaterale paralle lo), amitinus (patrilaterale incrociato), avunculi filius (matrilaterale incrociato). L'afferma­ zione generalizzata di consobrinus per tutti e quattro i tipi di cugini è già avanuta nel primo secolo a.C. (sulla terminologia dei cugini pubblicheremo un lavoro specifico nella rivista "Athenaeum": per matruelis, termine incerto e difficilmente classificabile, cfr. p. 78 n. 5 ) . 4 Cfr. le precise osservazioni d i J. Goody, L'évolution de la famille et du mariage en Europe, tr. fr. Paris 1 984, pp. 265 ss.

Parte prima: premessa

17

grandi trasformazioni a carattere sociale, economico, politico e così via 5• Ma, ripeto, questa "bilatera)_izzazione" non si era ancora verificata nella fase di cui ci occupiamo. E dunque lecito attendersi (e l'analisi potrà verificarlo puntualmente) che una cultura la quale designa con nomi diversi i singoli zii e zie preveda anche una differenziazione nei rapporti da intrattenere con ciascuno di essi, e attribuisca a ciascuno una specifica sfera funzionale. Di questo ci occupiamo nelle pagine che seguono, iniziando dal rapporto pater/filius (non sul piano giuridico, estraneo qui ai nostri interessi, ma su quello del comportamento e del costume) : perché siamo convinti che esso sia fondamentale per com­ prendere tutti gli altri. La natura stessa dei documenti che, soli, si offrono da questo punto di vista allo studioso del mondo antico, farà sì che, accanto a dati offerti dalla lingua, dalla religione, dalle testimonianze glossografiche ecc., ci si debba servire spesso della testimonianza letteraria: spingendoci quindi sul terreno della leggenda, soprattutto, e della creazione artistica. Se questo rende ogni volta le cose un po' più difficili dal punto di vista storico-antropologico, offre però il vantaggio di farci rileggere molti testi e molti "racconti" romani sotto una luce diversa, spesso inattesa. E que­ sto ha costituito (almeno per me) un interesse in più.

5 R.T. Anderson, Changing Kinship in Europe, "Kroeber Anthr. Soc.", 28, 1 9bJ, pp. ss. : Goody. l'évolution cii. [Solo di recente, purtroppo, sono riuscito a vedere il volume di J. Hallett, Fathers and Daughters in Roman Society, Princeton 1 984. Non mi è stato perciò possibile utilizzarlo nelle pagine che seguono.)

Pater Dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebi t.

(Aen. 9,

vv.

448 s.)

I.I. Una stirpe di imperiosi

È abbastanza noto (perché ce lo dicono i testi) che le relazioni pa­ dre/figlio nel mondo romano arcaico erano improntate alla severità e all'austerità. Dionigi di Alicarnasso 1 sottolineava esplicitamente la dif­ ferenza (e la superiorità) della costituzione romulea, a questo proposi­ to, rispetto a ciò che era stato fatto nelle costituzioni greche. A Roma il potere del padre sul figlio durava tutta la vita, non per un tempo limitato. E più volte si erano visti uomini già celebri e importanti che il loro padre strappava via dalle tribune, in pieno foro, perché fossero sottomessi a qualche castigo. Lo storico greco notava anzi, giustamen­ te, che a Roma il potere del padre sul figlio era certo superiore a quel­ lo di un padrone sul proprio servo 2: perché se il servo poteva riscat­ tarsi ed essere libero, il figlio venduto schiavo dal padre doveva invece ritornare per ben due volte sotto la potestà paterna anche se si fosse riscattato (e solo dopo la terza vendita e il terzo riscatto poteva dirsi libero). Per ora, comunque, siamo sul piano della severità delle istituzioni, non sappiamo ancora nulla rispetto al piano degli atteggiamenti: benché, date certe premesse istituzionl!li, sia facile presumerli . Ma anche qui le testimonianze non mancano. E lo stesso Dionigi a ricordarci 3 quanto numerosi fossero stati i padri che punirono con la morte figli che si erano addirittura coperti di gloria, ma colpevoli di disubbidienza nei confronti del padre. Valga per tutti l'episodio di Manlio Torquato (e gli exempla di severità patema ricordati da Valerio Massimo) 4• Più ancora ci avviciniamo, però, agli atteggiamenti, ai contenuti comportamentali del rapporto padre/figlio, con un'altra testimonianza dello stesso DioniI

2 1

4

2. 2. 2, 5,

26. I ss. 27 . I ss. 26. 6. 8 , I ss. : cfr.

anche Livio 2, 4 I , IO (processo "privato" subìto da Spurio ad opera dcl padre, e sua condanna a morte), 8, 71• I ss. ecc., cfr. subilo infra, p. 1 9 . Sulla severità paterna a Roma si può vedere anche R. Onnerfors, Va1erpor1rii1s in der r6mischen Poesie, Slockholm 1 974, in parlic. pp. 1 1 ss.: lavoro condotto, ovviamente, in una prospettiva ben diversa da quella antropologica che ci interessa qui. Ma si veda soprattutto A. Peruzzi, Le oril{ini di Roma. Firenze 1 970. pp. 1 50 ss. (sul potere del padre sui figli).

Capitolo primo

19

gi 5 : là dove - commentando i l comportamento del padre degli Orazi dopo la morte dei suoi due figli - sottolineava la frequenza con cui, a Roma, i padri avevano «offerto sacrifici, rivestito corone, celebrato trionfi, subito dopo la morte dei propri figli, qualora la comunità avesse tratto vantaggio da loro». Segno che il codice del comportamento sociale non prevedeva che la perdita di un figlio potesse costituire, per un pa­ dre, un valido motivo per sottrarsi alla solennità o alla letizia di certi eventi comunitari. A questa riflessione di Dionigi avvicineremmo volen­ tieri il fatto di Orazio Pulvillo, cui (mentre compiva la dedicazione di un tempio) fu annunziata la morte di un figlio: per nulla scosso, egli si limitò ad ordinare che portassero fuori il cadavere, senza che la cerimo­ nia venisse interrotta 6. Torniamo, comunque, ancora a Dionigi. A proposito del (già ricorda­ to) processo subito da Spurio Cassio, reo di aver aspirato alla tirannide, lo storico riporta anche la versione secondo cui sarebbe stato proprio il padre di Cassio a denunciarlo, nonché ad eseguire personalmente la sen­ tenza emessa dal senato (8, 79, 1 s.). Versione che egli non si sente autorizzato a rifiutare, dato «il carattere aspro, e inesorabile, che aveva l'ira dei padri nei confronti dei figli colpevoli : specie fra i Romani di quella età». Esplicita conferma, se ce n'era bisogno, del carattere soprat­ tutto arcaico che bisogna attribuire al modello della severità paterna 7• Ma la leggenda, o meglio la catena di leggende, da cui più chiaramen­ te emerge il contenuto di questo schema comportamentale, è certo quella relativa ai Manli. Essa ha il merito di mostrarci non solo qualche esempio di inflessibile severità del padre, ma anche le reazioni, e le convinzioni, del figlio su questo argomento. Di mostrarlo, naturalmente, in quella forma esasperata ed esemplare che corrisponde agli astratti ideali del codice culturale: in un certo senso, nelle forme del mito. L. Manlio Imperioso (il dittatore del 363 a.C.) aveva relegato in cam­ pagna il proprio figlio, T. Manlio, a motivo della sua adulescentiam bru­ tam et hebetem, come dice Seneca (ben. 3, 37, 4) 6. Lì il ragazzo condu­ ceva una vita rozza e campagnola. Livio anzi aggiunge (7, 4 , 5 ) : ubi

summo loco natus dictatorius iuvenis cotidiana miseria disceret vere 'im­ perioso' patre se natum esse. Ma nel luogo del suo esilio il ragazzo ap­ prende che il padre è stato citato in giudizio da M. Pomponio, tribuno della plebe: il quale gli contesta proprio la sua eccessiva durezza e crudel­ tà, anche nei confronti del figlio. Allora il ragazzo prende con sé un

5 3, 2 1 , 1 0; cfr. anèhe Val. Max. 5, I O, I ss. (de parentibus qui obitum liberorum forti animo tulerunt). 6 Liv. 2, 8 , 8 ; cfr. E. Pais, Storia di Roma, Roma 1 927, 3, p . 1 09 . 7 Del resto, gli esempi di indulgenza e di moderazione dei padri verso i figli dati da Val. Max. 5, 7, I ss. e 5, 8, I ss., rimandano tutt [. a un periodo storico molto posteriore. Sull'evoluzione della figura patema a Roma, cfr. Onnerfors, Vaterporlriits cit. ti Cfr. Cic. off. 3, 1 1 2; Liv. 7 , 4, I e 5, 7; Val. Max. 5, 4. 3; 6, 9, I; Sen. ben. 3. 37. 4; Auct. vir. ili. 3, 28. I ; Appian. Samn. 2; Zonar. 7, 24. Cfr. Miinzer. Real-Encyclopiidie der klassischen Altertumswissenschaft ( R.E. J , 1 4, pp. 1 1 79 ss. Su questo tema della rusticana relegatio di un figlio da parte del padre, si rammentino le rinessioni di Cicerone, Sext. Rose.. 42 s.

20

ANTROPOLOGIA E CULTURA ROMANA

cultrum, si reca di notte nella casa di M. Pomponio e, minacciandolo di morte, lo costringe a giurare che ritirerà le sue accuse contro il padre. L'azione è considerata un bell'esempio di pietas ( Liv. 7, 5, 2 e 7, 1 0, 4) che, nonostante una certa brutalità e rozzezza, torna «ad onore» del ragazzo. Soprattutto per questo motivo : che tanta acerbitas patria nihil a pietate avertisset ( Liv. 7, 5, 7 ; cfr. anche Cic. off 3, 1 1 2 ; Val. Max. 5, 4, 3 ) . Dunque il ragazzo compie un atto spericolato, vio l_ento, per difendere l'imperiositas che il padre esercita contro lui stesso. E il figlio il miglior difensore della severità paterna. Ma seguiamo ancora il filo della storia. Il giovane T. Manlio, com'è noto, compì poi il suo celebre atto d'eroismo, strappando al Gallo gigan­ tesco il suo torques dopo averlo ucciso in duello: cosa che gli frutterà il cognomen di Torquatus. E anzi, nel racconto di Livio (7, 10, 4) il dictator trova modo di sottolineare, in questo giovane che gli chiede il permesso per andarsi ad incontrare con il Gallo, la pietas in p a t r e m p a t r i a m q u e. Sottomesso al pater, Torquato è (per lo stesso motivo, vien da pensare) pronto a sacrificarsi per la patria. Passano gli anni, e ora T. Manlio Torquato è console nella guerra contro i Latini (340 a.C. ) : pater a sua volta, il suo giovane figlio milita nell'esercito. Provocato dal capo dei cavalieri di Tuscolo, Gemino Mecio, il ragazzo disobbedisce agli ordini del padre e dell'altro console: che avevano prescritto ne quis extra ordinem in hostem pugnaret. Il ragazzo uccide il nemico ma, riportandone le spoglie (come a suo tempo aveva fatto il padre con le spoglie del Gallo) , non riceverà da T. Manlio un premio, o un cognomen di gloria: il padre lo condanna a morte per aver infranto la disciplina militare 9. Torquato sa bene che fornirà così, di sé, un triste exemplum, ma lo ritiene ugualmente in posterum salubre iuven­ tuti (Liv. 8, 7, 1 7) 1 0. Quando l 'esercito ritornerà a Roma, solo i seniores usciranno incontro al console (i padri che hanno compreso il senso del suo gesto) : perché invece iuventutem et tunc et omni vita deinde aversa­ tam eum exsecratamque ( Liv. 8, 1 2, 1 ). Si comprende, adesso, la logica della pietas di T. Manlio Torquato verso il padre che lo teneva relegato in campagna (un padre horridior, lo definiva Valerio Massimo 5, 4, 3). Difendendo la spietata severità dell' im ­ periosus padre, egli difendeva la possibilità di essere a sua volta imperio­ sus verso suo figlio: in breve, difendeva l'esistenza e il prestigio del pater. In effetti (ancora nel racconto di Livio, 8, 7, 1 9) Torquato si rivolge al figlio proprio in questi termini: ne te quidem, si quid i n t e n o s t r i s a n g u i n i s e s t, recusare censeam, quin disciplinam militarem culpa tua prolapsam poena restituas. L'avere il sangue dei Manli (gli imperiosi) nelle vene, significa tanto essere severi e spietati come padri, quanto essere pronti a subire, da figli, questa me­ desima severità. E anzi, secondo Frontino (strat. 4, 1 , 4 1 ) il figlio - di

9 Cfr. Liv. 8 , 6, 14 e 7, 22; 1 1. 7; 1 2 , I e 4; 30, 1 3; 34, 2; 35, 9 ; cfr. anche 24, 37, 9; Frontin. strat. 4, I, 40; Cic. fin. 2 , 60; Val. Max. 5, 8, 3; Geli. noci. Alt. I, 1 3, 7; ecc. 10 Per l'analogo comportamento di Postumio Tuberto, cfr. Liv. 4, 9, 6; Val. Max. 2, 7 , 6 (sulle imperatorum proprio sanguine manantes secures).

Capitolo primo

21

fronte all'esercito che minacciava una sedizione per salvarlo - chiede lui stesso che si permetta al padre di punirlo. Ripetendo così il gesto compiuto dal padre Torquato quando - ancora filius - aveva costretto Pomponio a lasciar cadere le sue accuse, per permettere al padre di con­ tinuare ad essere imperiosus verso di lui. In questo ciclo di leggende i ruoli e le funzioni si ripetono con trop­ pa regolarità perché il messaggio non sia chiaro. Un imperiosus ha un figlio talmente sottomesso da minacciare di morte chi intende aiutarlo contro l'eccessiva severità del padre. Guerriero coraggioso, vincitore in duello singolare, questo figlio così pius avrà a sua volta un figlio che compirà la sua stessa impresa, trasgredendo però gli ordini paterni : di nuovo scatta la punizione, l'imperiositas 1 1 , e di nuovo il figlio chiede lui stesso ai propri difensori di permettere al padre di essere crudele. Nel giro di tre generazioni l'insistita ripetizione degli atti fonda il model­ lo mitico, esasperato, del rapporto padre/figlio. T. Manlio Torquato, in questa catena, sta come una cerniera: figlio e padre contemporaneamen­ te, egli riassume in sé le due facce della stessa moneta. Cicerone dice che quest'uomo, acerbe severus verso il figlio, si era mostrato invece perindulgens in patrem (off. 3 , 1 1 2). Non c'è contraddizione, natural­ mente: anzi. L'una cosa presuppone l'altra, l'incredibile pietas preludeva all'altrettanto incredibile severità. Debbono essere i figli (dice il modello mitico) i più inflessibili difensori della severità paterna. Questa storia, comunque, ha un e�ilogo. Molti anni dopo un altro T. Manlio Torquato (console del 1 65) 1 si troverà ancora a giudicare del proprio figlio: D. Silano, che era stato accusato di malversazioni in Ma­ cedonia. Stessa tradizionale, manliana, severità. Dopo essersi accertato della veridicità delle accuse, Torquato bandì il figlio dal proprio cospet­ to. Non solo. Il figlio si uccise, per il disonore, ma il padre non interven­ ne neppure alle esequie: mentre esse si svolgevano egli se ne rimase a dare udienza a chi avesse bisogno di lui. Ed è anzi un bel tratto lettera­ rio, in Valerio Massimo (5, 8, 3), mostrarcelo seduto in eo atrio [ ... ] in quo imperiosi illius Torquati severitate cospicua imago posita erat. Cu­ po custode dell'inflessibile tradizione manliana. 1.2. Simul non lavantur

Severità, uomini "tutti di un pezzo", o non pj uttosto indifferenza? Forse la terminologia non è ancora quella esatta. E sempre difficile tra­ durre in parole il contenuto specifico - così sottilmente complesso di una relazione di atteggiamento 1J: lo è tanto di più quando si lavora 11 Sui manliana imperia in generale (oltre Ònnerfors, op. cii. ) cfr. anche le fini osser vazioni di R.G. Nisbet, "Cl. Quart.", 9, 1 959, p. 73 s.: che seguendo un suggerimento di Miinzer (R.E., 1 4 , p. 1 1 93) , trova un'allusione a questo tema in Hor. ep. I, 5, 4, ovvia­ mente di registro ironico. 12 Cfr. Val. Max. 5, 8, 3; Liv. perioch. 54. Cfr. Miinzer, R.E., 1 4 , p. 1 2 1 0 s. 11 Cfr. Lévi Strauss, Riflessioni sull'atomo di parentela, cit.

22 ANTROPOLOGIA E CULTURA ROMANA

su testimonianze consegnateci da storici o letterati (o peggio ancora, testimonianze indirette in testi eterogenei), e non sulla viva voce degli interrogati. Certo parrebbe ragionevole porre tra padre e figlio, accanto alla severità e al timore, anche un certo distacco, quasi una fondamenta­ le mancanza di confidenza che da queste caratteristiche paterne doveva necessariamente discendere. Fortunatamente possediamo, in questo sen­ so, una testimonianza più chiara, di quelle che paiono in qualche modo ricondurci ad uno dei terreni privilegiati dell'antropologia: le cosiddette

«avoidances» 14. È noto quel

che si intende per avoidance: la necessità di "evitarsi" che vige fra detenninate persone, l'obbligo di mantenersi contegnosi o distaccati, il divieto di reciproca confidenza ecc. Una delle avoidances più caratteristiche che ci sono note è quella che, in molte culture, ricor­ re fra suocera e genero 15, e che anzi fu studiata espressamente anche da Freud 16. Ma vediamo la testimonianza che ci interessa. Plutarco, nelle Questioni Romane, 40, ci dice infatti che «non è decente né bello che i figli si spoglino di fronte al padre, o il genero di fronte al suocero. Per questo motivo, nei tempi antichi, non facevano il bagno insieme». Il divieto ci è conservato anche da altre fonti 17, ed è inutile dire che Cato­ ne, cultore ostinato di ogni costume del buon tempo antico, osservava scrupolosamente questa regola: così come evitava anche di pronunziare parole sconvenienti di fronte al figlio 18. Come mostra anche l'abbina­ mento con le frasi sconvenienti, siamo di fronte a una regola di carattere sessuale: il divieto pare strutturalmente simile a quello che, in molte società africane 19, impediva di accennare ad argomenti sessuali di fron­ te al padre o di fronte al suocero. Si tratta di un autentico meccanismo di pudore e di distanziamento, che impediva l'instaurarsi di rapporti ec­ cessivamente confidenziali fra padre e figlio. Altrettanto utile credo che possa risultare un confronto con la società cinese antica, quale è descrit­ ta da Marce! Granet 20.

14

Per questa nozione cfr. ancora Lévi Strauss. ivi: soprattutto A.R. Radcliffe Brown.

Le parentele d1 scherzo. in Struttura e ìmzione nella società pmmt1va. tr. it. Milano 1972. pp. I 05 ss.: cfr. anche pp. 119 ss. (Altre osservazioni sulla parentela d1 scherzo): utili osservazioni in J. Cazeneuve. La soc10logia del rito. tr. it. Milano 1974. pp. 119 ss. Cfr. poi E.C. Parson. Vitance. "L'anthropologie". 19. 1918 1919. pp. 288 ss. (cit. da Cazeneu ve): L. Lévy Bruhl. Soprannaturale e natura nella mentalità pmmt1va. tr. it. Milano 1973. pp. 245 ss. 15 Su questo ci sono pagine famose in J.G. Frazer. Il ramo d"oro. tr. it. Torino 19653• p. 298. Ma cfr. soprattutto H.A. Junod. Moeurs et coutwnes des Bantous. I. Paris 1936. pp. 224 ss. 16 I n Totem e tabil. pp. 21 ss. (cito da S. Freud. Opere. voi. 7. Torino 1975). Cic. de or 2. 224: C){f I. 129: prò Cluent. 141: de rep. 4. 4: Val. Max. 2. I. 7. 11 passo di Plutarco. pmtroppo. non è commentato dal Rose. Si ricordi che (ancora secondo Plutarco. quaest. Rom. 8) suocero e genero non potevano neppure scambiarsi doni. 18 Plut. Cato maior. 20. Di particolare interesse il contesto di riflessioni in cui Cice rone. off. I. 128 s.. inserisce la menzione del nostro divieto. .. 19 Cfr. Radcliffe Brown. Lo zio materno nel Sud Africa. in Struttura e fimzione cit.. . . p. 121. 2o La civiltà cinese antica. tr. it. Torino 1968 (Paris 1968). 17

Capitolo primo

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Anche in Cina fra padri e figli intercorrevano infatti rapporti di severità e di distacco (dice elegantemente Granet che «i loro rapporti non appartenyono al dominio dell'affezione, ma a quello dell'etichetta e dell'onore») 2 E in questo contesto si inseriva anche una interdizione piuttosto singolare: «padre e figlio non possono appendere i loro abiti al medesimo gancio, allo stesso modo che non possono farlo, a causa delle interdizioni sessuali, due persone di sesso differente» 22. Si tratta di una avoidance simile a quella del bagno, ancora di contenuto sessuale, e ugualmente proiettata in un contesto di severità e di distacco fra padre e figlio. Ché anzi la medesima avoidance del bagno ricorreva ugualmente anche in Cina, e ancora fra due persone i cui rapporti erano improntati a un medesimo canone di convenienza e di severità: il marito e la mo­ glie. Anche loro, come il padre e il figlio, non possono appendere le vesti al medesimo gancio ma, di più, «è il peggiore degli scandali se marito e moglie fanno il bagno insieme» 23. Si noti, anzi, che (come ha dimostrato Lévi-Strauss 24) fra il "distacco" padre/figlio e quello mari­ to/moglie esistono relazioni di carattere strutturale: cosa che (oltre ad illuminare meglio il significato di questi due casi cinesi) ci ricondurreb­ be ai rapporti di convenienza e severità che anche a Roma esistevano fra vir ed uxor. Ma teniamoci ai rapporti padre/figlio. Cesare 25 ci dà infatti una notizia interessante, relativa al mondo cel­ tico. Egli segnala presso i Galli il divieto che padri e figli (non ancora in età pubere) si facessero vedere insieme in pubblico: suos liberos, nisi •

cum adoleverunt, ut munus militiae sustinere possint, palam ad se adire non patiuntur, filiumque puerili aetate in publico in conspectu patris adsistere turpe ducunt. Si tratta di una medesima avoidance f ra padre e figlio, del tipo di quella vista a Roma (se pure con contenuti diversi). La cosa singolare è però che in Gallia il divieto pare cessare con il raggiun­ gimento dell'età militare da parte del figlio: e dunque riguarda solo i figli piccoli. Queste osservazioni di Cesare gettano forse qualche luce, per contrasto, su di un'altra testimonianza di Plutarco (e sempre da quel prezioso manuale di antropologia classica che sono appunto le Questioni Romane, 3 3 ) : egli ci dice infatti che in antico a Roma i padri non cena­ 2 vano mai fuori senza i loro figli, quando questi erano ancora bambini 6• La situazione, a Roma, sembra dunque rovesciata rispetto a quella vista per la Gallia (benché sia difficile affermare qualcosa di più preciso) : mentre in Gallia agiva una avoidance padre/figlio durante la fanciullezza (ma questa cessava dopo il raggiungimento dell'età militare per il ragaz­ zo), a Roma sembrerebbero non esserci state avoidances al contrario, -

2 1 lvi, p.

293. 22 Po hu t'ung, ivi, p. 279. 1 2 l vi, p. 303.

2 4 L 'analisi strutturale cii . ; Riflessioni sull'atomo di parentela, cii. 2 5 Beli. Gall. 6, 1 8, J. Su questo passo si veda G. Guastella, I Parentalia come testo

antropologico: l'avunculato nel mondo celtico e nella famiglia di Ausonio, in "Mal. e disc. an. testi cl.", 4, 1 980, pp. 97 ss.; ivi, 7, 1 982, pp. 1 4 1 ss. 26 Il rimando fatto dal Rose, ad /oc. , ad Hor. ep. 2, I, 109, non è pertinente.

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ANTROPOLOGIA E CULTURA ROMANA

rapporti di stretta frequentazione - durante la fanciullezza dei figli, ma queste scattavano dopo, con il raggiungimento dell'età adulta. Che il divieto di bagnarsi insieme avesse valore essenzialmente per l'età post­ puberale dei figli è mostrato (oltre che da Val. Max. 2, I, 7: pater cum [ilio pubere) anche dal fatto che un analogo divieto vigeva, come si è visto, nei confronti del suocero : e questo non avrebbe senso in fase pre­ puberale. Del resto le fonti, come si è visto, sottolineano essenzialmente casi di severità (o di 'indifferenza') paterna nei confronti di figli ormai adulti 27. Anche la biografia di Catone maggiore (se dobbiamo credere a Plu­ tarco, 20) sembra ispirata a un medesimo principio di "bilanciamento" nei rapporti con il figlio. Sappiamo che egli osservò scrupolosamente la regola del «non lavarsi», così come quella di non pronunziare parole sconvenienti in presenza del figlio. Quanto al modello di vita scelto per il ragazzo, esso non era certamente dei più leggeri, se dovette essere alla fine mitigato (nel suo «troppo rigore») a motivo della debole costituzio­ ne del giovane: il quale, peraltro, si mostrò in guerra soldato ugualmen­ te valoroso, e caparbio difensore dei valori etici tradizionali (episodio della perdita della spada, e sua ricerca, durante la battaglia di Pidna) . Ma, contestualmente a ciò, sappiamo anche che «non vi era faccenda importante, tranne che non si trattasse di pubblici uffici, che non avesse trascurato per trovarsi insieme alla madre quando lavava e fasciava» il bambino; che lui stesso volle insegnargli a leggere; che scrisse per lui la storia «a caratteri grandi» ecc. Catone, insomma, sembra essere un pa­ dre particolarmente 'vicino' alla fanciullezza del figlio : ciò non toglie, però, che egli rispetti le avoidances tradizionali della pubertà, e impron­ ti la sua educazione a un modello fatto di «disciplina» e di «rigore». Comunque sia, questa avoidance del bagno ci testimonia esplicita­ mente che a Roma fra padri e figli dovevano esistere rapporti di distac­ co e di scarsa confidenza : in un sol blocco con i fortissimi poteri istitu­ zionali del padre sul figlio, e con la sua abituale e ben nota severità. A proposito di severità, può essere anzi interessante esaminare, a conclu­ sione, un caso tramandatoci dalla commedia. Nell'Asinaria di Plauto, 2 7 È mollo probabile che l'avoidance padre/figlio (giovinetto) nel mondo celtico aves se relazione con una istituzione particolarmente ben radicata in questa cultura, ossia il fosterage dei ragazzi presso lo zio materno o la famiglia della madre (su questo cfr. ancora Guastella, art. cii. , e la bibliografia da lui discussa). Il sistema prevederebbe insomma che in fase di educazione, ossia di stretti rapporti zio materno/nipote, sussistessero avoidances padre/figlio (una situazione analoga ricostruisce per la Cina anlica Grane!, La società ci nese antica. cii .. pp. 278 ss. ) : ma che queste dovessero poi ridursi (o scomparire. non sappiamo) al momento in cui il giovane raggiungeva l'età militare, e dunque lenninava la sua fase di educazione presso la famiglia materna. Come si è visto la situazione. a Roma, pare in certo modo rovesciata rispetto a quella celtica. Non possiamo dire se questo rove sciamento avesse relazione con una corrispondente distribuzione dei rapporti zio mater no/nipote a seconda delle due classi di età. Se così fosse, dovremmo forse presumere che il nipote era 'vicino' al padre (e 'lontano' dallo zio materno) nella fanciullezza, e 'vicino' allo zio materno (cioè 'lontano' dal padre) nell'età post-puberale? Testimonianze non ne abbiamo. Ma più avanti vedremo che ci sono riferiti casi di stretta relazione fra zii materni e nipoli adulti.

Capitolo primo

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Demeneto è un padre indulgente. E anzi, egli ha praticamente invertito il suo ruolo con quello che toccherebbe invece alla madre 28: il/um ma­

ter arte contenteque habet, I patres ut consueverunt: ego mitto omnia haec. Dunque qui la madre è severa, fa da padre. Lui invece no, preferi­

sce essere piuttosto amato che temuto (67, 78). Ora, qui ci viene detto esplicitamente che si va contro una norma, una consuetudine di severità (patres ut consueverunt) : questo è importante per noi, che cerchiamo proprio le norme, le tradizioni di comportamento 29. Ma nel seguito del­ la commedia questo padre indulgente, comprensivo, persino un po' "compagnone" nei confronti di suo figlio, tenterà addirittura di portargli via, a banchetto, la cortigiana che insieme hanno riscattato : e ci vorrà un intervento della moglie (e madre rispettivamente) per svergognarlo e trascinarlo via. Che cosa è accaduto? Evidentemente la sua rinunzia alla severità e alla non-confidenza paterna (il figlio gli dice tutto, lo mette al corrente dei suoi amori ecc. : 74 ss., 80 s.) lo porta correlativamente alla pretesa di qualcosa che il codice comportamentale non prevedeva davve­ ro: la rivalità amorosa col figlio, il trovarsi pari a pari in un arengo che certo è vietato a uomini che stiano in questa relazione di parentela. Co­ gliamo così, dal vivo, il significato, diciamo preventivo, di alcune avoi­ dances come quella del vedersi nudi, o del pronunciare parole sconve­ nienti in presenza dei figli: ammettendo confidenza e liberalità in temi di natura sessuale, si può correre il rischio di trovarsi poi in situazioni imbarazzanti, e tali da scardinare addirittura il sistema. Dice altrove Plauto, in un analogo contesto di scontro amoroso fra padre e figlio (Mere. 985 ss. ): Nam s i istuc ius est, senecta aetate scortari senes, ubi locist res summa nostra puplica? [ ... ) Adulescenles rei agendae isti magis solent operam dare

Se i vecchi si mettono a far l'amore, sottraendo le donne ai figli, è addirittura la res publica che traballa :m. Si può dire insomma che certe situazioni plautine, con un padre che "concede" troppo da un lato, ma "pretende" poi troppo dell'altro, siano come l'illustrazione dei modelli tradizionali di comportamento : fanno un po' vedere quel che può succe­ dere se i "padri" diventano "madri", se scelgono la confidenza e l'indul­ genza invece che la severità. Direi che i modelli comportamentali che abbiamo sopra descritto (severità, scarsa confidenza ecc.), escono particolarmente illuminati da 28 Cfr. 78 ss. la diversità di modelli comportamentali fra pater e mater nei confronti del figlio è ben esplicitata da Seneca prov. 2 , 5 ss. ; cfr. anche Ter. haut. 991. Cfr. infra, pp. 1 1 8 ss. 29 Cfr. del resto Ter. haut. I O I . dove della severità patema si dice vi et via pervolga ta patrum. Jo Di questo mi sono occupato in Verso un'antropologia dell'intreccio. Le strutture semplici trama nelle commedie di Plauto, in "Mat. disc. an. testi class.", 7, 1 982 pp. 39 ss., dove vengono studiati altri casi di conflitto padre/figlio in materia ses suale.

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ANTROPOLOGIA E CULTURA ROMANA

questo contesto, danno come lhumus culturale da cui certe situazioni di commedia scaturivano - o perlomeno (dato che Plauto traduceva) , dan­ no le ragioni della scelta plautina, e del successo che egli riportava tra il pubblico. Sono commedie radicate alla cultuoo romana, anche nelle sue forme tradizionali 3 1 •

11

Ben diverso il caso della nuova pedagogia terenziana, specie in commedie come gli

. ldl'lplwe u lu //autontimoroumenos (cfr. il volume di L. Perelli, Il teatro rivoluzionario di frrm:io. Firenze 1973): queste commedie terenziane illustrano un notevole trapasso cul 1111111,· proprio in ciò che concerne le relazioni padre/figlio. Cfr. infra, pp. 41 ss.

2

Patruus

Questo capitolo potrebbe ben cominciare con un omaggio agli Ada­ gia di Erasmo. Infatti, al proverbio XXXIX della Centuria III (Chilias Il ) 1 si legge: «Ne sis patruus mihi. Sapere patruos». Dopo di che, Era­

smo spiega : «patruorum in nepotes ceu peculiaris genuinaque severi tas, proverbio locum dedit». Seguivano poi, come controprova, alcuni dei passi che anche noi dovremo discutere. Il veniale errore terminologico (nepos in latino non può infatti indicare il fratris filius) 2 non deve farci dimenticare la giusta impostazione del problema. Se c'è a Roma un'e­ spressione proverbiale che dice «non fare il patruus» per dire «non esse­ re severo», è perché lo zio paterno era caratterizzato da una particolare e ·'genuina" severità nei confronti dei figli di suo fratello. Ma in che cosa, specificamente, consisteva questa severità? E perché proprio lo zio paterno doveva esercitare quel ruolo? Avviamoci, dunque, lungo un cammino minuto (come lo sono spesso i cammini della filologia) ma insolito e affascinante. Perché dovremo discendere alle radici di un pro­ verbio. 2. 1. Ne sis patruus mihi

Persia, all'inizio della prima satira, si mostra retoricamente incerto se sia il caso di parlare o no (vv. 8 ss.) : Ac si fas dicere ! Sed fas tunc cum ad canitiem et nostrum istud vivere triste aspexi ac nucibus facimus quaecumque relictis. cum sapimus patruos. Tunc tunc - ignoscite [... )

1 Desiderii Erasmi, Co//ectanea adagiorum veterum. in Opera omnia, Il, Lugduni Ba tavorum 1 703, p. 535. 2 Errore tutt'altro che raro, comunque. Vi incorre per esempio anche il commento di Kiessling-Heinze ad Hor. sat. 2 , 2. 9 6 («der patruus [ . . . ] um das wohl des nepos [ . . . ] am meisten besorgt isl»). Interessante che stia già nei due parisini di Acron (79 7 1 e 7973: Bqi Havthal): iudex durus quia patrui severiores sunt in nepotes. Per l'uso e il significato di nepos cfr. anche infra, pp. 6 3 s.

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ANTROPOLOGIA E CULTURA ROMANA

«Ma sì, ormai si può parlare, specie se guardo alla nostra vecchiaia, a questa vita triste, e a tutto quel che facciamo una volta smessi i giochi dei fanciulli 3: quando prendiamo l'aria di zii paterni [ . . . ] » ) . Dunque, aver l'aria di un patruus è buona metafora per esprimere ciò che sta dalla parte della vecchiaia, della vita grigia: contrario al tempo lieto del­ la fanciullezza e dei suoi giochi. Lo scolio annota: «Eleganter patruos, id est, cum veram severitatem sapimus. Patrui enim severi circa fratrum filios». Dunque il patruus si caratterizza per la sua vera severitas. Si tenga anzi conto che questa metafora il poeta l'applica a se stesso, in apertura delle sue satire. E se essere patrui voleva dire aver l 'animo di Persia, era cosa davvero ben grigia . . . Ma andiamo avanti. Manilio, nei suoi Astronomica (5, 450) de­ scrive la genitura di coloro che nascono allorché Cefeo esce dalla costel­ lazione dell'Acquario. Questa congiunzione non ispira certo l'amore per il gioco e per lo scherzo (non dabit in /usum mores): essa dona anzi un aspetto severo, e un'espressione in cui si rispecchia la gravità della men­ te. I nati sotto questo segno si nutriranno di sollecitudini, avranno sem­ pre in bocca gli esempi degli antichi, loderanno i detti di Catone, la severità del tutore o la rigidezza dello zio paterno (tutorisve supercilium patruive rigorem) 4• Come si vede, il patruus è in buona compagnia. Con lui sta il tutor superciliosus, il laudator temporis acti, l'amante dei severi detti di Catone. Soprattutto, egli sembra opporsi - come in Persia all'allegria del gioco: il /usus gli è estraneo. Ma (sempre restanto nel 'proverbiale') cerchiamo qualche tratto un po' più esplicito della severità che caratterizza il patruus. Si sta svolgen­ do il dibattimento che vede Celio come accusato: e L. Erennio Balbo ha appena finito di parlare. Cicerone si è accorto che i giudici hanno segui­ to con grande interesse le sue parole (pro Cael. 1 1 , 25). E che parole! Dixit enim multa d e luxurie, multa d e libidine, multa d e vitiis iuventutis, multa de moribus et, qui in reliquia vita mitis esset et in hac suavitate humanita­ tis qua prope iam delectantur omnes versari periucunde soleret, fuit in hac causa pertristis quidam patruus, censor, magister [... ).

Il mite L. Erennio s i è dunque prodotto in un'arringa contro il lusso e la débauche cui i giovani alla Celio Rufo si abbandonavano ormai (secondo lui) senza ritegno. Questo lo ha fatto rassomigliare - lui, per il solito così mite e simpatico - a un maestro, a un censore: a uno zio paterno, per di più particolarmente cupo (pertristis). Ecco dunque un po' più esplicitato, grazie alla vita dissoluta di Celio Rufo, il ruolo del patruus: era facile risentire immediatamente la sua voce dietro le parole 1 I fanciulli romani facevano molti giochi con le noci (tant'è che nuces qui vale sem­ plicemente «giochi»): cfr. per esempio Sen. de ira I . 1 4; Mari. 5, 84. I; Suet. Aug. 8 3 ; ecc. 4 Il testo tràdito ha fatto difficoltà ad Housman (M. Manilii, Astronomicon, V, Londi ni 1 930) che spòsta il nostro verso (454) dopo il 457. Per la costellazione di Cefeo (e il suo rapporto con i costumi severi) cfr. il commento di Th. Breitner, M. Mani/ii Astronomi ca, li, Leipzig 1 908, p. 1 67. Per il tutor cfr. infra, nota 39.

Capitolo secondo

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di chi (con il viso accigliato di un censore o di un pedagogo) si accaniva contro i vizi e le mollezze della gioventù 5. Questa via interpretativa è sicuramente buona, perché ci viene confermata da un giovane contem­ poraneo che di vita 'censurabile' se ne intendeva molto: Catullo. Ci si ricorderà certamente del suo Gellio 6, un personaggio che assommava in sé - almeno nella rielaborazione epigrammatica che delle sue abitudini dava Catullo - le peggiori colpe sessuali che si possano escogitare. Amante della madre, della sorella, delle sue cognatae puellae (88-89), pare non s i tirasse indietro neppure di fronte alla fellatio (con Victor: 80). Ne aveva comunque pensata un'altra, che a noi interessa di più : diventare l'amante della moglie del patruus. Così facendo egli aveva ol­ tretutto raggiunto un duplice scopo (74, 1 ss.) : Gellius audierat patruum obiurgare solere si quis delicias diceret aut faceret. Hoc ne ipsi accideret, patrui perdepsuit ipsam uxorem et patruum reddidit Harpocratem.

Il patruus, che non amerebbe certo «mettere in piazza» gli amori del fratris jì/ius con la sua propria moglie, è diventato muto come Arpocra­

te, il dio egiziano del silenzio 7. Così Gellio può continuare senza intop­ pi sulla strada delle sue deliciae. Questo testo è importante soprattutto per il suo attacco. Perché ci dice che lo zio paterno s o I e t (dunque si tratta di una regola, di un costume) rimproverare il nipote allorché egli dica, o peggio faccia, cose lascive. Torniamo per un momento all'avoi dance padre/figlio di cui abbiamo discusso sopra, con il figlio che non può mostrarsi nudo a suo padre, né usare in sua presenza parole sconve­ nienti 8. Come si vede, ci muoviamo su un terreno molto simile: la pre­ senza del patruus blocca qualsiasi irruzione - anche solo verbale della sfera erotica o sessuale. Di più, ci viene detto che il patruus passa direttamente all' obiurgatio, alla reprimenda, di fronte a un giovane che osi anche solo parlare di cose amorose. Dovremo tornare su questo di­

5 Segnaliamo un breve "romanzo mitologico" nato in margine a questa orazione di Cicerone (per pura completezza : dato che poco ha a che fare con lo specifico del nostro tema). Il retore Fortunaziano (rhet. Lai. min. 1 24 , Halm) ci informa che Atratino aveva definito Celio pulchellum lasonem; d'altro canto, Quintiliano ( I , S, 6 1 ) ricorda come pro nunziata da Celio la frase Pelia cincinnatus: che si potrebbe ragionevolmente supporre la ·replica di Celio ad Atratino. Se vi si aggiunge l'espressione ciceroniana Palatinam Medeam riferita a Clodia (par. 1 8) , ecco affiorare una vera e propria "trama giasonica" sotto il tessuto degli avvenimenti. Questa ironia mitica (oltretutto così coerente ed elegante) può risultare suggestiva: ma non è rilevante, dal nostro punto di vista, il fallo che Pelia fosse anche lo zio paterno di Giasone (come nota R.G. Austin nel suo commento alla Pro Cae /io, Oxford 1 933, p. 67). Si tratterà solo di una «coincidenza capricciosa» (come sottolinea lo stesso Austin, op. cii. , cui si può rimandare per tulla la questione). Una coincidenza che, per di più, calzerebbe anche poco con la situazione: visto che dovrebbe essere allora Atratino (il "Pelia"), non L. Erennio, il personaggio qualificato come patruus. 6 Su lui cfr. T.P. Wiseman, Who was Gellius?, in Cinna the Poet, Leicester 1 974, pp. 1 1 9 ss.; F. Della Corte, Per.sonaggi catulliani, Firenze 1 976, pp. 67 ss. 7 Cfr. Plut. I s. 68. 8 Cfr. supra, pp. 21 ss.

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vieto più avanti, quando ci occuperemo dei "falsi patrui" della palliata. Per intanto contentiamoci di aver chiarito meglio due cose: la prima, che il patruus ha come terreno privilegiato la repressione del lusso o del piacere amoroso; la seconda (forse anche più importante), che ci si aspetta da lui questo comportamento, che si tratta di un modello cultu­ rale. Di qui l'epigrammatico escamotage di Gellio - capace di far tace­ re il patruus obiurgator non recedendo dalla sua passione per le deliciae ma anzi, al contrario, esasperandola sfacciatamente. Prima di lasciare Catullo, converrà comunque dedicare due parole anche a un altro patruus. Si tratta stavolta di Gallo (78), uno zio al­ quanto compiacente 9: Gallus habet fratres, quorum est lepidissima coniunx alterius, lepidus filius alterius. Gallus homo est bellus: nam dulces iungit amores cum puero ut bello bella puella cubet. Gallus homo est stultus nec se vide! esse maritum qui pi1truus patrui monstret adulterium.

Dunque Gallo, quest'uomo che sa vivere, aiuta il fratris filius nei suoi amori con la moglie dell'altro fratello. Ma è uno sciocco: egli non capisce che, essendo anche lui nella posizione di patruus, ed avendo anche lui una moglie, non ha nessun interesse a distruggere quello che è il suo stesso ruolo familiare. Non conviene che un patruus insegni al fratris filius come si fa a commettere adulterio ai danni del patruus! Sotteso a questo epigramma sentiamo, di nuovo, quello che " dovrebbe essere" un patruus che rispettasse il modello, ciò che la gente si aspette­ rebbe da lui: che fosse un severo obiurgator del nipote dissoluto, non un uomo bellus che fa da spalla alle dissolutezze del giovane. Anche perché questo ha subito delle conseguenze. Rinnegando il suo ruolo di zio pa­ terno, Gallo rischia la sua stessa rovina. Un po' come nel caso del padre plautino troppo indulgente 1 0 , che finiva poi per trovarsi in uno sgrade­ vole conflitto amoroso con il figlio, questo zio paterno bellus troverà nel 9 Non credo che il fratello di Gallus sia qui identificabile con il patruus di Gellius: né che il lepidus Jilius in questione sia Gellius. O perlomeno, la cosa è indimostrabile. Il Baehrens (Catulli Veronensis liber, Lipsiae 1 876, ad 89, 3 s.) pensava che le due uxores patruorum presupposte in questo epigramma come amanti del giovane (una reale, una possibile) fossero da identificarsi con le cognatae puellae di 89, 3, con cui Gellio ha rap­ porti amorosi. Ma Catullo non chiamerebbe cognatae delle donne che per Gellius sono semplicemente adfines. Allo stesso modo, non credo che possa essere identificato con il Gellius catulliano il figlio di quel L. Gellius che, secondo Valerio Massimo 5, 9, I . fu accusato di avere rapporti illeciti con la noverca (l'ipotesi rimonta almeno a L Schwabe, Ouestionum Catullianarum liber I. Gissae 1 862, pp. 1 1 0 ss., ed è ripresa più o meno da lutti gli interpreti successivi. Cfr. però la discussione storico cronologica di Wiseman, op. cit. ) . Catullo. nei carmi 88, 89 e 9 1 . parla chiaramente di mater. E che non si tratti di un ;ippdla1ivo u1ilizzato per la noverca «ad augendum scelus» (così Baehrens, con fragile L''rnmolv, 492 8), Platone era zio materno di Speusippo ( figlio della sorella di Platone: cfr. Stenzel, R. E. . I I I A, pp. 1 636 ss.), non paterno. Questa incoerenza può essere rivelatoria del modo che Plutarco ha di considerare i legami di atteggiamento fra zio e nipote. Egli non fa differenza fra zio paterno e zio materno, può passare insensibilmente dall'uno all'altro: in pieno accordo, d'altronde, con la terminologia greca, che usa indiscri minatamente 6Eioc; per entrambi. La caduta del sistema di opposizioni terminologiche coincide con l'assenza di opposizioni nei modelli comportamentali. 10 Segnaliamo, per curiosità, una vecchia osservazione del Casaubon (A. Persi Flacci Saturarum libri, Parisiis 1 605, p. 52). D quale, commentando Persio I , 1 2 , notava: «pa­ truus et tutor saepe idem sonant ac gravis censor et obiurgator [ . . . ) ideo Graeci patruum dixerunt 6Eiov: etsi aliter paullo Plutarchus in finem libri ncei qitì.alitì.qi(aç I ... I». Alla fine sensibilità del filologo non era sfuggita l'estrema diversità dei due modelli di «zio paterno" offerti dalla tradizione proverbiale romana e dalle esortazioni plutarchce.

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logico, per parlare subito del testo che con questa pagina di Plutarco presenta le affinità più strette: gli Adelphoe di Terenzio. La vicenda è nota. Demea ha due figli, Ctesifonte ed Eschino. Quest'ultimo è passato in adozione al fratello di Demea, Micione: dunque, è stato adottato dal suo patruus. La commedia, come si sa, è giocata sul confronto fra due modelli educativi differenti : quello rigido, tradizionale, e quello "moder­ no" ed elastico, che confida più nelle risorse interne del giovane che non nella durezza dell'imposizione e preferisce l'indulgenza al rimprovero, l'amicizia alla costrizione. Ma la cosa interessante, dal nostro punto di vista, è che qui il ruolo di tollerante è svolto appunto da un patruus, Micione. È davvero insolito sentire un patruus che dice ( 1 O 1 s . ) : non est f1agi­

tium, mihi crede, adulescentulum I scortari neque potare, non est, ne­ que fores I effringere. Cosa ne è del patruus che aveva il compito di obiurgare il nipote qualora delicias diceret aut faceret? Che anzi, le obiurgationes se le prende lui, il patruus, ogni volta che il fratello va a

fargli le sue rimostranze per il modo in cui sta educando il figlio adotti­ vo (v. 79 s . : credo iam, ut so/et I iurgabit). Si tratta dunque di un testo che presuppone, anche da questo punto di vista, un contesto culturale diverso da quello romano. Qui lo zio paterno è veramente 0Eioç nel senso plutarcheo del termine; più buono e tollerante del padre, capace di fornire al nipote la possibilità di crescere e svilupparsi senza rinuncia­ re agli «errori che sono tipici della giovinezza», per citare ancora Plutar­ co. In tal senso, una seconda "novità" si aggiunge a questa commedia così culturalmente progressiva. Perché non solo essa porta in scena un modello pedagogico più flessibile e tollerante, rispondente alle esigenze di una società che sta mutando gusti e valori culturali, ma lo affida ad­ dirittura ad un patruus. Novità, per così dire, involontaria, questa, per­ ché implicata direttamente dalla trama e dalle qualificazioni dei perso­ naggi. Nondimeno, questo patruus buono e tollerante avrà suscitato sor­ presa ed interesse nel pubblico romano che si trovara di fronte a una distribuzione degli atteggiamenti familiari - anche da questo punto di vista - molto inconsueta. Ma già prima di Terenzio, anche Plauto aveva messo in scena un ben strano patruus. Nessuna intenzione pedagogica, naturalmente, in lui. Non minore però sarà stata la meraviglia del pubblico nel vedere le li­ bertà che Agorastocle, il giovane del Poenulus, si prendeva con il suo patruus Annone. La scena si svolge in Grecia, a Calidone, con personag­ gi Cartaginesi, e la trama presuppone un intrico parentale abbastanza fitto. Dunque, Iaone e Annone erano fratres patrueles (cfr. 1 068 s.). Il primo aveva un figlio, Agorastocle, che gli fu rapito bambino a Cartagi­ ne. Perduto il figlio Iaone si ammala e sei anni dopo muore, lasciando erede di tutto il suo patruelis Annone. Agorastocle, intanto, è stato por­ tato a Calidone e venduto a un vecchio ricco, misogino e senza figli. Veniamo ora ad Annone. Anche a lui sono state rapite due figlie adole­ scenti, Adelfasio e Anterastile. Vendute schiave a un lenone, Lico, questi le conduce a Calidone - dove Agorastocle, naturalmente, si innamora di una delle due (ignorando che si tratta della sua sabrina). Lasciamo da

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ANTROPOLOGIA

E CULTURA ROMANA

parte tutti i vari trucchi e stratagemmi messi in opera per strappare la ragazza al lenone 3 1 e arriviamo subito al momento in cui Annone, che è partito alla ricerca delle proprie figlie, arriva a Calidone. Agorastocle e lui si riconoscono (da questo momento in là il ragazzo si rivolgerà a lui sempre con l'appellativo di patruus) 32• Dopo di che, occorrerà portare in giudizio le due fanciulle perché siano riconosciute libere e strappate al lenone. Il riconoscimento è ritardato ad arte, per dar modo ai perso­ naggi di esibirsi in una divertente schermaglia che non è qui il caso di analizzare. Ma vediamo come si comporta l'adulescens di fronte al suo patruus. Lo vediamo ( 1 1 95 ss.) estasiarsi per la bellezza della fanciulla - con­ trappuntando la sua ammirazione con una serie di invocazioni o patrue (persino mi patruissime!) che francamente non sembrano molto conve­ nienti ai suoi pensieri di deliciae: Ag. O patrue, o patrue mi. Han. Quid est? fratris mei gnate, gnate, quid vis? expedi. Ag. At enim hoc volo agas. Han. At enim ago istuc. Ag. Patrue mi patruissime. An. Quid est? Ag. Est lepida et lauta [ . ] ..

Più avanti ( 1 2 1 4) si rivolgerà alla ragazza con mea voluptas ! , per non parlare del gioco di parole che si svolge ai vv. 1 225 ss. : in ius vos voco, dice Annone (vuole portarle in giudizio per rivendicarne la liber­ tà), e Agorastocle pronto ( 1 226): vin han e ego adprehendam ? Così a 1 2 30, ancora Agorastocle: ego te antestabor, postea hanc amabo atque amplexabor [ . ]. A un certo punto il giovane si abbandona a veri e propri giochi verbali da innamorato, del tipo ( 1 235): dato mihi pro offa savium, pro osse linguam obicito; oppure ( 1 242) da pignus, ni nunc peieres, in savium, uter utri det. Vedere un patruus che lasciava com­ portarsi così, in sua presenza, un fratris filius e per di più nei con­ fronti della sua stessa figlia - doveva risultare piuttosto singolare e di­ vertente agli occhi del pubblico romano. Dov'è finito il patruus che qbiurgat, se il nipote osi anche solo parlare di deliciae in sua presenza? E probabile che anche tale "straniamento" della figura dello zio paterno ..

-

li

Cfr. Bellini. Verso un'antropologia dell'intreccio cit. In realtà, nella terminologia di parentela quale era raccomandata dai giuristi, An none sarebbe per Agorastocle un propius sobrino (e viceversa) : cfr. per esempio Gallus Aelius in Fest. 379, 6, s.v. sobrinus (molti i testi raccolti da J.M. André, Le nom du colla teral au 5° degré, "Rev. Phil. lit. hist. anc.", 42. 1 968, pp. 42 ss. ; da A.C. Bush in "Am. journ. Phil", 93, 1 972, pp. 568 ss .. e "Trans. Am. Phil. Ass.", 103, 1 972, pp. 39 ss .. dove essi sono trattati con osservazioni originali; molto accurato il recente lavoro di R. Rohle, Propior sobrino, propius sobrino in der ròmischen Rechtssprache, "Zeitschr. f. Rechtg." , 98, 1 98 1 , pp. 34 1 ss. Su sobrinus e propius sobrino, specie per quel che riguarda i l passo di Gallus Aelius citato sopra, sto preparando anch'io un lavoro per la rivista "Athe­ naeum"). Evidentemente, in questo passo di Plauto viene operata una identilicazione frater patruelis frater gennanus (per cui Annone è considerato a tutti gli effetti un frater di laone, padre di Agorastocle). Anche questo scivolamento conferma quanto si ipotizzava sopra (nota 23) a proposito dell'equivalenza di atteggiamento fra frater (sororJ patruelis e frater germanus (soror gennanaJ. 32

=

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dovesse costituire una risorsa non secondaria nel rendere efficace e di­ vertente il finale di questa commedia 33• Peccato, a questo punto, non aver praticamente nulla della togata e dell'atellana: quelle rappresentazioni sceniche di argomento interamente romano in cui, forse, avremmo potuto incontrare un "vero" patruus, severo ed obiurgator come la tradizione lo voleva. Così come (lo vedre­ mo più avanti) proprio nella togata vediamo agire il ruolo affettivo e protettivo della zia materna, la matertera : in linea con una generale ten­ denza, in questo tipo di rappresentazioni sceniche, ad interessarsi di ruoli ed intrecci tratti da rapporti di parentela 34. Per la verità, nella produzione di Pomponio ci è tramandata l'esistenza di un'atellana che si intitolava Patruus. E, dato che questo tipo di rappresentazioni amava fondarsi su "caratteri" piuttosto ben spiccati (tipo gli Aleones, lo Heres B Quanto dello sin qui sulla palliata, può aiutarci ad affrontare un piccolo enigma offertoci da Apuleio. Enigma, verosimilmente, destinato a restare tale - ovvero a dissol versi, perché è ugualmente possibile che non esista. Vediamo. Nei Florida, il retore di Madaura ci propone un lungo "giudizio critico" sul commediografo Filemone: benché poe ta castigato e pulito, sono ben rappresentati nei suoi intrecci ( 1 6, 64) et leno periurus et amator fervidus et servulus callidus et amica illudens et uxor inhibens et mater indulgens et p a t r u u s o b i u r g a t o r et sodalis opitulator et miles proeliator, sed et parasi ti edaces et parentes tenaces et meretrices procaces. Apuleio si abbandona qui ad un polykolon da mozzare il fiato: procedimento, come si sa, piullosto consono al suo stile (cfr. M. Bernhard, Der Stil des Apuleius von Madaura, Stullgart 1 927, pp. 74 ss. : che parte dai possibili modelli greci di questi «vier und mehrgliedrigen Ausdricke» apuleiani). Solo, che c'entra qui il patruus obiurgator? Non si traila di un personaggio tipicamente romano? Già Ph. Légrand (Daos, Tableau de la co médie Grecque pendant la période dite nouvelle, Paris 1 9 10, p. 1 8 1 ) si meravigliava al­ quanto di questo inventario apuleiano: facendo notare che di un patruus obiurgator non sembra esserci traccia né in quello che conosciamo di Filemone né in generale nei testi della néa, comprese le commedie latine che da questi sono tradotte (cfr. anche Pasquali, Orazio lirico, ci! . , pp. 88 s., che però era un po' meno scettico di Légrnnd sulla bontà della notizia apulciana). Si aggiunga, anzi, che i due patrui che compaiono nella palliata, come si è visto, sono tull'altro che obiurgatores. Ma allora, come sarà nato questo «zio paterno brontolone» di Apuleio? Non potendo, purtroppo. verificare direttamente sul testo di Filemone, il giudizio deve necessariamente restare sospeso. Non si può naturalmente escludere che Apuleio ab­ bia omologato al patruus della tradizione romana qualche zio brontolone (non si sa se paterno o materno) che poteva aver incontrato in Filemone. Ricordiamo, in questa pro­ spettiva, il fr. 208 di Menandro (Korte) , proveniente dal 0uewQé>ç, in cui si legge: oùx àbd.cpòç, oùx àbEì.qri naeEvoxì.iJon, t 1]0lba I o ùb tweaxEv tò ouvoì.ov, 0Eiov oùo'à­ '

xiJxoEv . I EÙtUXT]µa o'totiv ÒÌ.Lyocnoùç àvayxa(ouç EXELV.

,

Si -potrebbe forse supporre che l'uso del verbo «Udire» a proposito dello «Zio» possa alludere a un suo "parlar troppo", e dunque cogliere in questo frammento un eventuale riferimento all'esistenza del tipo dello «zio brontolone» nella commedia nuova. Ma il fram­ mento è di Menandro, e si tratta solo di supposizioni. Inoltre, qui si parla (com'era preve dibile) di un generico 0ELoç, senza specificare se paterno o materno: e soprattutto, lo «zio» è considerato un seccatore alla stessa stregua di fratello, sorella e zia. Un'ulteriore e più semplice possibilità potrebbe poi esser questa: che Apuleio si sia sbagliato. Nel suo inventario di "tipi" comici potrebbe aver introdollo un "tipo" romano all'interno di una tassonomia greca: magari trascinato dalla sua smania di isocolia e di rime. Ovidio comun que (nella breve schematizzazione dei tipi menandrei che ci dà negli Amores, I , 1 5, 1 7 ss.) parla di fallax servus, d u r u s p a t e r, improba lena [ . ) meretrix blanda. I tipi sono più o meno gli stessi: ma al posto del patruus obiurgator c'è un più naturale durus pater. 14 Su questo cfr. infra, pp. 80 s. ..

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ANTROPOLOGIA E CULTURA ROMANA

petitor, il Parcus ecc.) si può sospettare che il patruus invocato nel titolo

fosse qui il tipo romano del vecchio brontolone e severo. Quel che ci resta di questa atellana è così poco (un solo frammento) che non si può andare al di là di un sospetto. Curioso, però, che il suo contenuto sia costituito da un rimprovero ( 1 08 R 3 ) : mirum facies, fatue, si stud ni­ mium mirabis diu. Bisogna �ensare a un patruus che obiurgat suo nipo­ te, chiamandolo «sciocco»? 5 2.3. Cicerone patruus

Ma che cos'è, davvero, un ruolo di "atteggiamento" parentale? Il pro­ verbio, o il gioco epigrammatico, possono darcene ovviamente solo il. guscio, lo stereotipo. Sotto, però, c'è una persona viva, che sta in un insieme di relazioni familiari e, con i mezzi che la tradizione (ma anche la sua posizione particolare, il suo carattere, o semplicemente il destino ecc.) gli mette fra le mani, si trova a fronteggiare le circostanze della sua vita. Ecco perché è così difficile descrivere una relazione di atteggiamento, e sciocco sarebbe pretendere che tutto funzionasse, ogni volta, come in uno strutturato manualetto di fonologia. Una relazione di atteggiamento po­ trebbe essere approfondita, in un certo senso, all'infinito. Basterebbe possederne una documentazione infinita . . . In un sistema di relazioni di parentela la vita entra a piene mani, aggiungendo, togliendo, combinando a seconda delle circostanze concrete: a seconda di quel che c'è e di quel che non c'è, di quel che capita e di quello che non è capitato. Ciò non toglie che una tendenza, un versus regolato, continui ad esistere: il modello si modifica ma, in generale, tende a conservarsi. Co­ me diceva Ascoli a proposito delle leggi fonetiche elaborate dai neo­ grammatici : che non erano "ineccepibili", questo no, però erano "tena­ ci". Ecco dunque la ragione per cui abbiamo lasciato per ultimo questo esempio. Non tanto per l'eccezionalità del personaggio che è in gioco, quanto per la complessità della storia. Si potrà immaginare cosa sarebbe potuto venir fuori, nei tanti esempi studiati sin qui, se ci fossimo imbat­ tuti non in pochi tratti praticamente fissi (a parte il caso più ampio di Gaio Claudio), ma avessimo avuto a disposizione, per esteso, qualcuna delle innumerevoli "storie" di patrui che - anch'esse - concorsero a formare l'infinita sostanza della storia di Roma. Dunque, l'epistolario di Cicerone ci mette sotto gli occhi un rappor­ to patruus/fratris filius che possiamo seguire, passo passo, dal suo na­ scere alla sua crisi, nutrito di circostanze anche molto specifiche, di ten­ denze del carattere, e così via. Una storia individuale, come si diceva, vera. In cui, però, vediamo alla fine riemergere il ruolo del patruus qua­ le abbiamo imparato sostanzialmente a conoscerlo - come se, nono­ stante tutto, lo zio paterno sapesse che (al di là di stereotipi o casi acci35 Si stud nimium è una corr. del Lachmann per il si studium dei codici di Nonio (lezione conservata da Lindsay). Riporto il testo di Ribbeck solo per comodità, e senza crederci molto.

Capitolo secondo

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dentali) il suo comportamento deve seguire un modello. Che ha dei do­ veri. Ma vediamo. Il giovane Quinto era figlio del fratello M. Tullio e di Pomponia, sorella di Attico. Il ragazzo dunque (nato circa nel 66 a.C.) si trovava ad avere Cicerone come patruus e Attico come avunculus. Sarebbe impossibile riferire qui, punto per punto, tutta la sinuosa biografia di questo giovane romano, dall'infanzia su su sino al travaglio delle scelte politiche 36. Ci accontenteremo perciò di alcuni spunti, più vicini al nostro angolo di osservazione. Certo, i rapidi scorci della sua infanzia ci mostrano un fratris filius che dispone di un patruus straordinariamente affettuoso, quasi tenero. Al fratello Cicerone dirà (ad Quini. 3, 1 , 7) : non enim concedo tibi, plus ut illum ames, quam ipse amo; anzi, non solo lo ama, ma sente addirittura il dovere di amarlo ( 3, 9, 9) : Ciceronem et ut rogas amo et ut meretur et debeo 37• Ma il tempo passa, il fanciullo cresce, e accade qualcosa di molto imprevisto : il ragazzo non fa una buona riuscita. Ha un carattere difficile, contraddittorio: però anche ipocrita, sospetto... Si mostra ben diverso dal suo frater patruelis (il figlio di Cicerone) di cui il padre dice tranquillamente nihil est [ . . ] eo tractabilius (Att. 1 0, 1 1 , 3 ). Pressato dalle circostanze Cicerone, pater e patruus contemporanea­ mente, dovrà dunque interrogarsi sul perché di questo fallimento. E le risposte saranno ben diverse rispetto a quelle che Micione dava allo sconsolato Demea in una circostanza analoga. Scrivendo ad Attico, l a ­ vunculus del ragazzo, egli dirà infatti che è la troppa indulgenza, non la troppa severità, che ha rovinato Quinto. Il ragazzo ha tutti i difetti che sono propri di «questa gioventù» (hac iuventute) educata nell'indulgen­ za (Att. 10, 1 1 , 3). Primo responsabile è il padre, naturalmente, suo fratello Quinto, che si è sempre mostrato debole ed indulgente con il ragazzo (Att. 1 0, 4, 5; 6, 2; 1 1 , 3; ecc.). Ma Cicerone accusa anche se stesso (Att. 1 0, 4, 5 ) : indulgentia videlicet nostra depravatus eo progres­ sus est quo non audeo dicere [ . . . ] . Ma subito fa una distinzione, quasi a tirarsi fuori da quel nostra che lo accomunava troppo agli altri responsa­ bili del fallimento: omne meum obsequium in illum fuit c u m m u 1 t a .

'

s e v e r i t a t e, neque unum eius nec parvum sed multa ( et ) magna delicta c o m p r e s s i. Apprendiamo dunque che Cicerone ha fatto anche il patruus severo, ha svolto il ruolo di comprimere le malefatte del

nipote. E di punirle non saltuariamente, limitandosi alle più leggere, ma molte volte, con regolarità, e quando si trattava di cose serie. Il patruus affettuoso, che sentiva il dovere di amare il fratris filius, che lo amava più del suo stesso padre, di fronte alle cattive tendenze del ragazzo si è dunque assunto l'onere di punire, di comprimere. Sarebbe sbagliato cre­ dere che si tratti di una contraddizione, o di una brusca svolta. Non è affatto necessario che un patruus, solo perché ha come ruolo quello del­ la severità e del giudizio, debba per ciò stesso detestare o non amare il

fratris jilius.

10 Ritratto già ammirevolmente tracciato dal Mi.inzer, R.E. , VIl·A, H Cfr. anche Alt. 2, 2, I ; 4, 7, 3; 4, 9, 2 ecc.

pp.

1 306

ss.

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AllflOPOLOGIA E CULTIRA ROMANA

Ma andiamo avanti. Si capisce ora, in questa luce, cosa significano le parole (anch'esse rivolte ad Attico: 6, 1 , 1 2) a proposito di figlio e nipo­ te che si trovavano con lui a Laodicea: sed alter [ . .. ] f r e n i s egei, alter calcaribus. E poco dopo (6, 2, 2) : magnum illud quidem, verum

tamen multiplex pueri ingenium; in quo ego r e g e n d o habeo ne­ gati satis. Il patruus dunque regit il ragazzo (ricordiamo Caligola che vede in Claudio legato un patruus inviatogli ad puerum regendum) : già

si era preoccupato delle sue tendenze e del suo carattere, e cerca di correggerlo. Cicerone, per la verità, sarebbe anche disposto a continuare in questo suo ruolo di personaggio severo, se non ci fosse il fratello (con la sua eccessiva indulgenza e debolezza) ad impedirglielo. Att. 1 O, 6, 2 :

pater enim nimis indulgens quidquid ego a d s t r i n x i, relaxat; si si ne ilio possem, r e g e r e m [ ... ]. E oltretutto, i tempi non sono certo favorevoli all'opera educativa ( 1 0, 1 1 , 3 ): suas radices habent (scii. i vizi del giovane) quas tamen e v e 1 1 e r e m profecto, si liceret. Sed ea tempora sunt, ut omnia mihi sint patienda.

Dunque, in presenza di un padre debole, troppo indulgente, Cicero­ ne trova modo di confessarci il suo impulso a fare il patruus verso un giovanotto di cattive tendenze: e anzi, di raccontarci che per la verità il patruus l'ha anche fatto, unendo la severità all'obsequium, non trascu­ rando di comprimere sistematicamente le sue colpe, cercando di regere, di adstringere.. . Solo che non è servito a niente. Cicerone e suo fratello sembrerebbero dar qui ragione a uno scolio di Porfirione (ad Hor. car. 3 , 1 2, 2-3) che in questo modo motivava la severità dello zio paterno verso il nipote: videntur enim patrui adulescentibus corripiendis auste­

riores esse quam patres, quibus natura ipsa indulgentiam plerumque extorquet. Nel caso del fratello Quinto, non sappiamo se fu la «natura»

invocata dallo scoliasta, il carattere, il dissidio con la moglie 38, o che altro a far di lui una figura paterna debole e troppo condiscendente: ben lontana, insomma, da quella tradizione di severità patema che caratte­ rizza il periodo arcaico. Certo è che suo fratello, il patruus, finì per trovarsi assai vicino al ruolo tradizionale che conosciamo. È interessante, anzi, vedere come in questo ruolo di severo raddrizzato­ re Cicerone venga in pratica lasciato solo dall'avunculus del ragazzo: Attico. Da 1 0, 6, 2 si capisce che Cicerone gli avrebbe chiesto molto volentieri di prendere lui le redini del giovane, ma poi ci ripensa: vellem

suscepisses iuvenem regendum I . . . J sed ignosco; magnum, inquam, opus est. Attico, anzi, dà piuttosto inviti alla moderazione che non alla durezza.

Nella stessa lettera Cicerone, commentando i "consigli" che l'amico gli ha mandato riguardo al ragazzo, dice: quod dein me mones, et amice et prudenter me mones, sed erunt omnia facilia si ab uno ilio cavero. E quando Cicerone gli chiede come deve comportarsi col nipote ( 1 3 , 38, 2) utrum aperte hominem aspemer et respuam «Tt oxoÀ.tai:ç èmét'tmç» (ormai i loro rapporti si sono ampiamente guastati), Attico gli suggerirà senz'altro la seconda via ( 1 3, 39, 2 ) : sed utar tuo consilio: oxoÀ.tét enim tibi video ;a

Cfr. Miinzer, op. cii.

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piacere. Attico preferisce, insomma, i mezzi "indiretti". Dovremo ricor­

darci di questo atteggiamento più avanti, quando tratteremo del ruolo di maggior moderazione e indulgenza che sembra toccare all avunculus 39• '

l9 Ci si accorge bene, giunti alla fine di questo studio sul patruus, di quantodebole sia la spiegazione che vorrebbe derivare la proverbiale severità dello zio paterno dal semplice fatto che egli aveva più di altri la probabilità di diventare tutor del ragazzo impubes in caso di morte del pater. Come se una relazione di atteggiamento contrastivamente funzionante, come vedremo, all'interno di un vero e proprio sistema affettivo potesse spiegarsi così semplicemente a partire da una funzione presunta. Eppure, questa interpretazione è la più comune (cfr. per esempio A. Otto, Die Sprichworter... der Romer, Leipzig 1 890, p. 268; Plessis Lejai ad Hor. sat. 2, 2, 96; Pasquali, Orazio lirico, cii., p. 89; ecc.). Naturalmente, anche questa potenzialità tutoria del patruus avrà influito sulla caratterizzazione del suo mod el lo comportamentale: accanto, però, alla sua contiguità con il pater, la sua opposizione con l'avunculus, il suo appartenere alla lignée agnatizia ecc. (cfr. infra, pp. 64 s s . ) . Quando poi, come spesso accade, si pretende che i l patruus fosse esplicitamente dato dai giuristi come «il primo» candidato alla tutela del fanciullo impubes, allora questa interpreta­ zione diviene da parziale addirittura fuorviante. Nell'attribuzione del tutor legitimus, infatti, sin dalle dodici tavole (5, 6) si procedeva per prossimità di grado agnatizio: e quindi il primo era regolarmente il fratello dell impubes poi il suo zio paterno ecc. (cfr. Gaius inst. I , 1 56 s.; Iust. inst. I , 1 5; cod. 30, 5 ; ecc. Cfr. M . Kaser, Das Romische Privatrecht, I , Miinchen 1 97 1 2 , p. 88). L'unico testo, a mia conoscenza, che attribuisca al patruus il ruolo di tutor naturale del nipote, è Isidoro, Et. 9, 6, 1 6 (strano, dunque, che i sostenitori di questa tesi non lo citino mai ) : patruus frater patris est, quasi pater alius. Unde et moriente patre pupillum prior patruus suscipit, et quasi filium lege tuetur. Ma si tratta di Isidoro, non dimentichiamolo. A parte la questione giuridica, ugualmente superficiale sarebbe comunque derivare la severità del patruus dalla sua (eventuale) posizione di tutor. Perché prima bisogna chieder­ si: il tutor, a Roma, è una figura di obiurgator? Per Otto, e gli altri studiosi citati, la risposta sembra essere così scontata che essi non si pongono neppure la domanda. Eppure, se si leggono le testimonianze, ci si accorge che le cose non stanno in questo modo. I n Plauto, Aut. 429 s . , Euclione domanda a l cuoco: quid tu malum curas I utrum crudum an coctum edim, nisi t u mihi es tutor? Oppure Vid. 20 ss. (tenendo conto che il testo è secondo i supplementa di Studemund): N i : Te ego audi( vi di) cere I operarium te velie r(us cond)uc(ere) . I Di : Re( ct ) e audivisti. N i : Quid vis operis (fie) ri? I Di : Ou (id t ) u istuc curas? A n mihi tutor additu's? Come s i vede, i n questi due passi plautini non c'è minimamente il !ratto dell ' ob iurgatio o della severità: semplicemente, è paragonato a un tutor chi ha la tendenza a non farsi gli affari suoi. Il tutor è un individuo troppo curioso, non un giudice inflessibile. Così i n Persio 3, 96 l'espressione ne sis mihi tutor è la rispo­ sta secca che il poeta dà a chi si preoccupa troppo dcl suo stato di salute. Lungi dal rimproverare, dall'essere iratus, il tutor diventa fastidioso perché è troppo sollecito del p u p il lo Aveva dunque torto (sia detto per inciso) H. Nettleship, The Satires of A.P.Fl. , Oxford 1 872, p. 67 ad loc. , nel definire questa esclamazione «imitated from Hor. sat. 2, 3, 88: ne sis patruus mihi». Lo stampo formale è simile, ma i contenuti sono diversi: il patruus è un obiurgator, il tutor un solerte impiccione. Il proverbio cui questo ruolo ha dato luogo (perché, come nel caso del patruus, anche qui ci troviamo di fronte alla nascita di un proverbio), presuppone un modello comportamentale e psicologico abbastanza diverso. Questo non impedisce, naturalmente, che tra i due personaggi possano esserci anche dei punti di contatto (come mostrerebbe il già cit. Manil. 5, 454, tutorisve supercilium patrui­ ve rigorem) . Ma nel tutor, come nella tutela, l'accento batte più (anche etimologicamente) sulla «cura» la «protezione» di ciò che ci viene dato per «difenderlo». Così anche negli esempi metaforici di altro campo in cui tutor compare: come Cic. Brut. 96, 330: post Hortensii clarissimi oratoris mortem orbae eloquentiae quasi tutores relicti sumus; Ovid. tri. 3, 1 4, 1 5: hanc (scii. progeniem carminum meorum) tibi commendo: quae quo magis orba parente est I hoc tibi tutori sarcina maior erit. '

.

,

3

Avunculus

3. 1. Questioni preliminari

L'avunculus ci propone un problema intricato e complesso. Forse il più intricato fra quelli che dobbiamo affrontare qui - ma, se lo è, va detto che è anche il più suggestivo. Si tratta di capire il perché di una curiosa definizione dello zio materno («il piccolo nonno») , così come di una singolare metafora cui il sostantivo nepos è andato soggetto («dissi­ patore di ricchezza») : metafora che è parsa motivabile proprio in base alle relazioni "zio matemo"/"nipote". Ma si tratta di capire anche molte altre cose. E comunque, procediamo con ordine. L'opposizione linguistica fra patruus e avunculus è abbastanza chia­ ra: lo zio parallelo (ossia il collaterale che presenta lo stesso sesso del genitore tramite cui la parentela è stabilita: qui il pater) ha un nome rifatto su quello del genitore in questione (pater > patruus) ; lo zio in­ crociato (ovvero il collaterale che presenta sesso diverso rispetto a quel­ lo del genitore tramite cui la parentela è stabilita: qui la mater) ha un nome totalmente differente rispetto a quello del genitore in questione (mater da un lato, avunculus dall'altro). Lo stesso accade per le zie: la zia parallela è matertera ( < mater), la zia incrociala è amita. Qualche fedele delle spiegazioni evolutive potrà anche pensare che ci si trovi di fronte alla modificazione di uno stadio arcaico in cui gli zii paralleli (come avviene in molte culture) erano chiamati direttamente patres e matres, ossia erano padri e madri classificatori. La cosa, dal nostro pun­ to di vista, ha poca importanza. Il fatto notevole è che il sistema romano di classificazione distingueva chiaramente zii paralleli da zii incrociati. D'accordo dunque sul fatto che (per le stesse necessità del sistema) lo zio materno dovesse avere un nome diverso, per intendersi, da quello dello zio paterno, e anche dal nome della mater. Ma perché proprio avunculus, "piccolo nonno"? Trascuriamo le vecchie spiegazioni, di po­ co interesse , e soffermiamoci sulle argomentazioni di E. Benveniste 2• 1 Cfr. B. Delbrtick, Die indogermanischen Verwandtschaftsnamen, "Abhandl. phil. hist. cl. Kon. Sachs. Ges. Wiss.", 1 1 , Leipzig 1 889; A. Meillet, "Mel Soc. Ling." , 9, 1 895, pp. 1 4 1 ss. (su cui cfr. infra, p. 67, nota 67). 2 Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I, tr. it. Torino 1 976, pp. 1 72 ss. Come ha segnalato O. Szcmerényi (Studies in the kinship termino/ogy of the indoeuropean langua ges, nei Textes et memoires, voi. VI degli "Acta Iranica", 7, 1 9 77, pp. I ss.), la spiegazione

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Il grande linguista francese faceva derivare tale designazione dal cosid­ detto «matrimonio dei cugini incrociati» (vedremo subito che l'uso fatto da Benveniste di questa categoria è manchevole e improprio) : più speci­ ficamente, da un uso matrimoniale che prevedeva come coniuge prefe­ renziale la figlia della sorella del padre. Ecco lo schema 3:

Durand I avus

Dupont I

Durand li

Dupont Il avunculus Durand lii ego

Secondo questo schema, Dupont II e Durand Il 4 si sposano entram­ bi con la figlia della sorella del padre: ma da un tipo matrimoniale del genere consegue necessariamente che Durand I, avus paternus, è con­ temporaneamente prozio materno di ego. Ora, Benveniste postula un antico principio di filiazione matrilineare 5, secondo cui, cioè, la filiazio­ ne si sarebbe stabilita non da padre a figlio, ma da zio materno a nipote. Procedendo così si passa (nello schema tracciato da Benveniste) da Du­ rand III (ego) a Dupont II (suo avunculus) a Durand I (a sua volta, avunculus di Dupont Il) : questo personaggio, però, è contemporanea­ mente avunculus magnus di ego, e nonno paterno di ego. Ecco perché, allora, Dupont II può assumere il nome di avunculus: dato che ego ha nel proprio avus anche il suo pro-zio materno, lo zio di Benveniste era già stata sostanzialmente anticipata da G. Thomson, Studies in ancient Greek society, I , London 1 949, p. 79, seppure in modo più sintetico. 3 L'uso delle coloriture, bianca e nera rispettivamente, dei singoli triangolini e cer­ chietti, non mi risulta affatto chiaro: non si capisce perché fratello e sorella (che a Roma porterebbero lo stesso gentilizio ecc.) debbano essere di colori diversi, mentre i coniugi debbano avere coloritura identica. Avverto che nello schema tracciato più avanti le colori ture rispecchiano invece, com'è più giusto, le filiazioni. 4 La scelta di questi cognomi, Durand e Dupont, rispecchia chiaramente quella fatta da Cl. Lévi Strauss nelle Strutture elementari della parentela, tr. it. Milano 1 969, pp. 235 ss., i n u n contesto molto diverso (sistemi di scambio ristretto a 4 classi, di tipo Kariera). 5 Benché il contesto sia un po' troppo rapido (cfr. p. 1 75 : «in questo sistema la parentela si stabilisce tra fratello e figlio della sorella, Ira zio materno e nipote». E più oltre: «la relazione etimologica con avunculus implica e rivela un altro tipo di filiazione»).

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ANTROPOLOGIA E CULTURA ROMANA

materno sarà considerato un "piccolo avus". Naturalmente Benveniste doveva postulare che avus valesse, in latino, solo «nonno paterno» 6 (al­ trimenti la sua ricostruzione si sarebbe indebolita di molto), e anzi si sentiva portato a proporre che avus avesse avuto il senso di pro-zio ma­ terno, prima ancora che di nonno paterno 7• La soluzione proposta pare molto affascinante, in realtà è del tutto priva di fondamento 8. Già Beekes 9 ha notato come l'affermazione di una filiazione matrilineare sia del tutto immotivata e apodittica, in que­ sto contesto. Non so se Benveniste si sentisse autorizzato a proporla, in ambito romano, sulla scia di una nota posizione della storiografia anche francese 1 0• Ma di sicuro non ve n'è traccia nel mondo romano, che anzi, sin dalle XII tavole 1 1 , si mostra rigidamente agnatizio e patrilineo. E insomma, le parole di Canuleio vanno sempre rammentate contro ogni tentazione di introdurre filiazioni matrilinee nella cultura romana arcai­ ca : nempe patrem sequuntur liberi [ . . ] 12• Ugualmente debole ci pare poi l 'affermazione secondo cui avus, in latino, varrebbe propriamente «nonno paterno»: questo non è vero 1 3, e bisogna rassegnarsi ad ammet­ tere che il latino, a questo livello, ha una terminologia non biforcata. Ma c'è da fare un'obiezione ancor più grave. Se la cultura romana avesse conosciuto un matrimonio preferenziale con la figlia della sorella del padre - tanto stabile da fondare addirittura una terminologia - do­ vremmo trovare casi in cui amita, in latino, significa socrus: o viceversa. Questo, invece, non accade mai. .

b p. 1 74 : «Si possono riprendere gli esempi di avus dati nel Thesaurus: nessuno im pone il senso di 'nonno materno' [ ... ]». 7 Benveniste, op. cii. , p. 1 75. 8 Con tulio ciò, i meriti di Benveniste nel suo capitolo sulla parentela (non parliamo dell'intero Vocabolario) restano a mio giudizio grandissimi: e ogni studioso di questi pro blemi dovrebbe sentire il debito che, quasi ad ogni riga, sia ha con la chiarezza dell'opera benvenistiana, e in generale con il suo metodo. 9 Une/e and Nephew, in "Journ. ind. eur. stud.", 4, 1 976, pp. 43 ss. 10 Mi riferisco in particolare al noto volume di A. Piganiol, Essai sur /es origines de Rome, Paris 1 9 1 7 , in pari. pp. 1 4 5 ss. Secondo questo studioso, com'è noto, i plebei romani avrebbero avuto filiazione di tipo "matriarcale" (ma cfr. p. 1 56, dove questo oscu ro ed infausto termine è già esplicitato come «un tipo familiare caratlcrizzato dalla consi derazione pressoché esclusiva della parentela uterina») , mentre il sistema agnatizio sarebbe stato proprio dei patrizi. La tesi sembra comunque risalire almeno a J. Binder, Die Plebs, Leipzig 1 906 ( = Roma 1 965) : che assegnava il passaggio dalla filiazione matrilinea a quel la patrilinea, per la plebe, alla promulgazione delle Xli tavole. 11 Cfr. 5, 4, 5 e 7a. La logica agnatizia della cultura romana emerge del resto da numerose altre testimonianze, e di ordine svariato. Si rammenti per esempio la posizione della donna nel matrimonio cum manu: essa non è più agnata dei suoi agnati, non man tiene più il culto dei propri antenati ma viene a partecipare di quello rivolto agli antenati del marito (ed entrerà poi essa stessa nel gruppo degli dei parentes dei suoi figli), assume la posizione di "figlia" nei confronti di suo marito ecc. (cfr. P.E. Corbetl, The Roman law of marriage, Oxford 1 969, p. 1 08). 12 Liv. 4, 4. 1 1 . n Cfr. per esempio, Paul. dig. 38, 1 O, I O: avus est patris ve/ matris meae pater. Il fallo poi che avus possa indicare più spesso il nonno paterno, così come avi sono frequentemente gli antenati in linea paterna, deriva semplicemente della già vista logica agnatizia intrinseca alla cultura romana: per cui si tende sempre a mettere in primo piano le proprie ascendenze maschili. Con tulio ciò, avus resta termine non biforcalo, e semanticamente indifferenziato.

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Vediamo ora una critica mossa, ancora da Beekes, all'ipotesi di Ben­ veniste; questo ci darà modo di approfondire un po ' meglio il problema. Beekes infatti, toccando il cuore della dimostrazione benvenistiana, non è disposto ad ammettere che nel mondo indoeuropeo sussistano tracce di un matrimonio per cugini incrociati: e più precisamente, tracce di quello postulato da Benveniste, ossia di matrimonio preferenziale con la figlia della sorella del padre. Sin qui nulla di strano. Aggiungiamo anzi che da una lettura delle Strutture elementari di Lévi-Strauss 14 risulta immediatamente che questo tipo di matrimonio è piuttosto raro in qual­ siasi cultura: Lévi-Strauss ne indica anche le ragioni, nella instabilità ed anche nella "ristrettezza" che ne caratterizza la struttura 1 5 . Possiamo insomma già anticipare che Benveniste è andato a scegliersi un tipo di matrimonio un po' troppo raro, sofisticato e problematico per essere dedotto tramite semplici congetture: e, simmetricamente, troppo instabi­ le e "di transizione" per aver potuto fondare addirittura una terminolo­ gia, così come vorrebbe Benveniste. Solo che Beekes, per sua stessa ammissione, trova che il matrimonio con la figlia del fratello della madre sarebbe purtuttavia «much more frequent» di quello con la figlia della sorella del padre 16 (le testimonianze vengono soprattutto da area indiana). Così facendo, però, egli rischia di dare paradossalmente ragione al suo avversario: vediamo di chiarire me­ glio. Il fatto è che Benveniste è stato forse un po' troppo sommario ed impreciso nelle premesse: ha impostato il problema in una prospettiva sfalsata (di modo che anche le discussioni che ha suscitato ne risultano viziate). Ancora da una lettura delle Strutture elementari di Lévi-Strauss, risulta infatti che esistono ben tre tipi elementari di matrimonio dei cugini incrociati: rispettivamente, il matrimonio con la figlia della sorella del padre (Benveniste), quello con la figlia del fratello della madre, quello con la figlia della sorella del padre che è, contemporaneamente, figlia del fratello della madre. Questi tre tipi di matrimonio corrispondono di fatto a tre diversi modelli dello scambio matrimoniale. In particolare, il secondo corrisponde al cosiddetto "scambio generalizzato" (ossia un ciclo lungo, ad anello, di più gruppi sociali che cedono donne l'uno all'altro secondo un orientamento progressivo definito), il terzo al cosiddetto "scambio ristret­ to" (due gruppi A e B, che si scambiano donne escludendo altri gruppi) ; il primo invece (quello di Benveniste), opera una sorta di mediazione fra i due, pretendendo di introdurre lo scambio ristretto nell'ambito dello scam­ bio generalizzato (e quindi creando un sistema più complicato ed instabi­ le). Non abbiamo qui ·10 spazio, né la necessità, di esemplificare grafica­ mente queste diverse situazioni. Limitiamoci però a mostrare quel che accade nel tipo dello scambio ristretto, ossia nel matrimonio con la figlia della sorella del padre che è anche, contemporaneamente, figlia del fratello della madre. Prendiamo in pratica due gruppi, B (i "neri") ed A (i "bian­ chi"), che si scambiano le sorelle: 14 15

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Che però non trovo nella bibliografia di Beekes. Cfr. pp. 567 ss. Beekes, art. cii. , p. 46.

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ANTROPOLOGIA E ClJLTlJRA ROMANA A

Ego

È facile vedere che anche in un sistema di questo tipo, un sistema in cui i fratelli si scambiano le sorelle, a è contemporaneamente avo pater­ no di ego e suo prozio materno. Proprio come voleva Benveniste: ma senza esser più costretti a postulare un tipo di matrimonio che, come si diceva, è piuttosto raro ed instabile. A questo punto, però, dopo aver sostituito allo schema di Benveniste un altro schema equivalente ma so­ stanzialmente migliorato, bisognerà riesaminare anche le obiezioni di Beekes : perché alcune di esse non colgono più nel segno. Vediamo. Bee­ kes obiettava a Benveniste che in area indoeuropea non paiono esserci tracce di matrimonio con la figlia della sorella del padre, ma ne esisto­ no, se mai, di matrimonio con la figlia del fratello della madre. Ma ora, in questo schema "modificato", ci si sposa proprio con la figlia del fra­ tello della madre (che è anche, contemporaneamente, figlia della sorella del padre) : in altre parole, le obiezioni di Beekes rischiano di trasfor­ marsi addirittura in una prova a favore dello schema (modificato) di Benveniste! Sono tutte paradossali conseguenze di quel mancato appro­ fondimento strutturale (con relativo "calcolo" delle implicazioni) di cui si è già detto sopra. Comunque sia, questa proposta benvenistiana anche se "raddrizzata" nella sua logica interna, e resa più conforme alla frequenza delle regole matrimoniali ricavate dagli antropologi - conti­ nua purtuttavia a non reggersi bene in piedi. Restano infatti valide le obiezioni sulla filiazione di tipo matrilineare, che bisogna continuare in qualche modo a presupporre, e sul significato di avus, che non vuol dire esclusivamente «avo paterno», come Benveni­ ste voleva : men che mai si può essere d'accordo su congetture come quella che vorrebbe fare di avus, ancor prima del termine che designava il «nonno paterno», quello che indicava il «prozio materno». Natural­ mente, anche secondo questo modello dovremmo aspettarci di trovare amita con il valore di socrus, con l'aggiunta, stavolta, di avunculus nel significato di socer (cosa che men che mai si verifica). Bisognerà perciò

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rassegnarsi a trovare un'altra spiegazione: ed è quello che tenteremo di fare subito qui sotto. Ma prima di concludere sul capitolo benvenistiano, sarebbe forse utile cercare anche di capire meglio perché mai egli sia andato a cacciarsi in una ricostruzione così stravagante (e tale, come si è visto, da causare confusione anche nei suoi critici). Tutto deve derivare, crediamo, da una infelice interpretazione di un capitolo di Granet 1 7, che del resto è anche esplicitamente richiamato in nota. A Granet risale il principio della identificazione fra nonno paterno e prozio materno, postu­ lata come necessaria per comprendere l'organizzazione della parentela nella società cinese antica : così come ancora in Granet ritroviamo l'idea di un'antica struttura matrilinea dietro quella agnatizia u i, che abbiamo visto tra i cardini della dimostrazione di Benveniste. Solo che Granet postulava uno schema del tutto analogo a quello tracciato da noi qui dietro 19, benché lo facesse con .espedienti grafici molto sommari e tali, forse, da poter risultare oscuri. E possibile dunque che Benveniste abbia recepito solo parzialmente l'idea di Granet 20, e per conto suo abbia poi costruito un sistema solo apparentemente identico a quello cinese (cui egli esplicitamente si richiama) : ma in realtà tutto diverso, e oltretutto tale da causare un monte di difficoltà nella sua applicazione 2 1 • Abbandonato Benveniste (e, speriamo, dopo aver anche compreso le ragioni della sua ricostruzione) ;ossiamo venire alle altre spiegazioni. Quella avanzata da Lounsbury 2 , e ripresa più tardi da P. Friedrich 23 e da Gates 2 4 , ossia il ricorso a una classificazione di tipo Omaha per 17

La civiltà cinese antica, cit.

18 Cfr. ivi, p. 1 37. 1 9 Cfr. ivi, p. 380.

0 2 Com'è noto, M. Granet ritornò poi sulle strutture della parentela in Cina in un lavoro successivo, Catégories matrimoniales et relations de proximité dans la Chine ancienne, Paris 1 939 , "severo", non ha attestazioni linguistiche arcaiche, ma pure rivela una struttura antropolo gica di estrema arcaicità (il patruus severo, così come il pater, entrambi contrapposti al­ l'indulgenza dell'avunculus). Cfr. supra, pp. 27 ss. Porfirione, ad Hor. epod. I , 4, dice comunque: nepotem autem v e I e r e s ut prodigum {. .. ] dixerunt. 47 En tomo a nepos, in "Emerita", 1 1 . 1 943, pp. 60 ss. 48 Tale è apparsa per esempio a Beekes, art. cii. (supra, n. 9), p. 5 1 , che si mostra purtuttavia molto cauto nel considerarla. 4 9 Sulla quantità di nepos "scialacquatore" non ci sono dubbi: cfr. per esempio Prop. 4, 8, 23.

50 Pariente, che invocava appunto questa analogia con nepos "nipote" per motivare il presunto spostamento fonetico, si toglieva d'impaccio affermamfo che «saria absurdo pre tender reducirlo [questo spostamento fonetico] a los métodos de explicaci6n corrientes en gramatica». Tutto questo articolo aveva, per la verità, un tono sostenuto e francamente antipatico: così quando la spiegazione di nepos data da Emout e Meillet nel Dictionnaire veniva giudicata «completamente pueril» (p. 68) ecc. Poco di nuovo l'autore aggiunse in Mas sobre nepos, "Emerita", 2 1 , 1 953, pp. 18 ss. Si noti anzi che Pariente, nella formula­ zione della sua ipotesi, era stato preceduto almeno da Fr. Miiller, Altitalisches Worterbuch, Gi:ittingen 1 926, s.v. nepos. 5 1 Vocabolario cit., pp. 1 78 ss. 52 Lo zio materno cit.

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però una difficoltà 53. Perché la ricostruzione postulata da Benveniste possa funzionare, è assolutamente necessario che nepos abbia avuto sin dall'inizio il senso di sororis filius: invece non comincia ad averlo che nella tarda latinità 54• Prima, infatti, nepos significa solo «nipote del nonno», non «nipote dello zio». Siamo dunque obbligati, ancora una volta, a rinunciare all'ipotesi di Benveniste per restare nell'ambito di una C011flusione apparentemente più banale: se nepos «nipote del nonno» ha preso il senso di «dissipatore», vuol dire che fra nonno (paterno e ma­ terno, non sappiamo) 5 e nipote esistevano necessariamente rapporti di indulgenza e di familiarità. In altre parole, la metafora implica che il nipote dovesse maneggiare con una certa qual disinvoltura e noncuranza i beni del nonno, tanto da dar l'impressione che il nonno lo viziasse. Spiega Porfirione ad Hor. epod. 1 , 34: nepotem autem veteres ut prodi­

gum ac luxuriosum dicebant, quia re vera solutiores delicatioresque vi­ tae soleant esse qui s u b a v o n u t r i a n t u r . Il nonno "vizia" i

nipoti, gli concede ciò che il padre mai concederebbe: dunque trasforma i propri nepotes in personaggi prodighi e soluti di qui la metafora che ci interessa. Questa conclusione, piuttosto semplice, ha per noi una notevole im­ portanza. Abbiamo infatti in mano l'altra parte del ragionamento che andavamo svolgendo : sappiamo ora che anche fra nonno e nipote dove­ vano intercorrere rapporti di familiarità e di indulgenza. In altre parole, se prima potevamo affermare (sulla base di Seneca, di Cicerone, della leggenda ecc.) che fra zio materno e nipote esistevano rapporti di fami­ liarità e di confidenza, dopo aver analizzato questa metafora sappiamo che rapporti analoghi dovevano intercorrere anche fra nonno e nipote: e dunque si giustifica in pieno, ora, la designazione dello zio materno co­ me «piccolo nonno». La cosa apparirà ancor più chiara se proiettata sull'intelaiatura complessiva delle relazioni di atteggiamento. Alla prima generazione ascendente ego trovava nei suoi parenti maschi due esem­ plari di severità e di riservatezza: pater e patruus 5b. Doveva venire per­ ciò naturale spostare lo zio materno (il terzo parente maschio alla prima generazione ma con cui si avevano invece rapporti di familiarità e confi­ denza) alla generazione superiore, là dove si trovava I' avus, con cui si avevano analoghi rapporti di indulgenza. Ecco allora che lo zio materno, sotto la pressione del sistema degli atteggiamenti, veniva linguisticamen­ te spostato fra gli avi: proprio come nelle società studiate da Radcliffe­ Brown 57, dove uno stesso termine designa nonno e zio materno per motivi di sistema degli atteggiamenti. Che con la seconda generazione ascendente si avçssero rapporti di indulgenza e di affetto non è per nulla sorprendente. E un costume che -

53 Già rilevata da Beekes, ari. cii. ; da Szemerényi. art. cii. 54 Hier ep. 1 4 , 2. } e 60, 9, I ; Oros. 7, 28, 1 1 . 55 Il latino, com'è noto, non "biforca" la terminologia fra materni e patemi a livello di avuslavia e neposlneptis. 56 Cfr. supra, pp. 18 ss. e 27 ss. 5 7 Cfr. supra, p. 56 e n. 28. .•

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rientra abbastanza anche nelle nostre società, ma soprattutto è comune in quelle società che procedono per generazioni alternate, ossia stabilen­ do un ritmo ternario (e non binario) nelle successioni generazionali. An­ cora M. Granet ne ha fornito esempi interessanti per ciò che riguarda la Cina antica 58, ove al meccanismo delle generazioni alternate faceva ri­ scontro una notevole familiarità fra nonno e nipote da un lato, e rappor­ ti di severità e freddezza fra padre e figlio dall'altro. E proprio Benveni­ ste, in un contributo sulla nozione di "aviolité" nella parentela romana, ha mostrato come anche a Roma la successione degli antenati fosse do­ minata proprio da un ritmo ternario, che contava i gradi "forti" da non­ no a nipote: mentre i gradi contigui, da padre a figlio, erano considerati "deboli" 59. Vorremmo avviare alla fine questo discorso (forse già troppo lungo) rivolgendoci ancora una volta al patrimonio leggendario romano. Per i rapporti fra nonno e nipote si potrebbero naturalmente rammentare Nu­ mitore da un lato e i figli di sua figlia dall'altro, Romolo e Remo. Ma la leggenda non ci informa poi mollo sul tema specifico. Più interessante ci pare un altro spunto, che avrà se non altro il merito di farci riflettere meglio sulle regioni culturali di un testo di eccezionale ricchezza: l'Enei­ de. Tutti i lettori virgiliani ricordano la figura di Evandro, un padre vec­ chio, sfortunato, e di grande nobiltà. Inutile rammentare la scena del suo addio al figlio giovinetto 60, una scena piena di tenerezza e di com­ mozione, così come Io strazio del suo cuore di fronte al cadavere di Pallante 6 1 • Quanta differenza dai padri romani descritti da Dionigi, in­ sensibili di fronte alla morte dei propri figli! Tenerezza virgiliana, segno di una natura poetica e di una cultura nuova? Certo, è certo così. Però c'è qualcosa che colpisce nella leggenda virgiliana; qualcosa che potrebbe anche far pensare che il poeta non inventasse completamente, ma incanalasse piuttosto nell'alveo di un diverso ruolo paterno dei senti­ menti che, originariamente, scorrevano in un altro letto. Evandro è _vec­ chio 62 : è molto diverso per esempio da Mezenzio ( anche lui padre di uno sventurato eroe giovinetto), molto diverso da Enea, che ha un figlio, in fondo, non troppo più giovane. Mezenzio ed Enea sono infatti guer­ rieri nel pieno del loro vigore, terribili, i più forti, Evandro: invece, da tanto tempo ormai è lontano dal fragore delle battaglie, dagli uomini in armi. Che anzi, ai suoi sentimenti d'amore per il figlio (l'unica cosa che ancora gli resta) fanno da contorno non altri padri, ma madri. Sono rapidi tocchi, quasi un muto coro di comparse: vota metu duplicant matres (8, 556), stani pavidae in muris matres oculisque sequuntur (8, 592 : la partenza). E quando il cadavere di Pallante farà ritorno a casa, questo coro eromperà in pianto, introducendo con lugubre preludio il �8

La civiltà cinese antica, cii., p. 27 1 s. Termes de parenté dans les langues indo européennes, in "L'Homme", 5, 1 965, pp. 5 ss. Per i legami fra nonno e nipote si ricordi Ausonio, protr. ad Aus. nep 18: pappos aviasque trementes I anteferunt patribus seri, nova cura. nepotes. t>o Aen. 8, 554 ss. t>I Aen. 1 1 , 1 48 ss. &i Aen. 8, 560; 1 1 , 1 65 ecc. �q

.•

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lamento del vecchio padre ( 1 1 , 1 46 s.) : quae postquam matres succede­ re tectis/viderunt, maestam incendunt clamoribus urbem. Dunque Evan­

dro è un padre molto vecchio, con un figlio molto giovane: un padre tenero, cui fanno da riscontro e da compagne le trepide madri degli Arcadi. Sarà dunque un caso che, in Dionigi 63, Evandro sia detto µT)'tQOJtO'tWQ, nonno materno di Pallante, e non padre? Certo la solleci­ tudine di un nonno sarebbe in qualche modo più appropriata per il vec­ chio Evandro virgiliano. O meglio, non più appropriata: appropriata è pure la veste patema che Virgilio (secondo le regole di una sensibilità diversa) ha dato a dei sentimenti che però, nel modello leggendario, appartenevano forse a un vecchio µTJ'tQOJtatwg.

Siamo così giunti alla conclusione del nostro discorso. Ormai la rete degli a tteggiamenti ( con le conseguenze linguistiche che sappiamo) do­ vrebbe risultare chiara. Così come in altre società, anche a Roma un avunculus indulgente si contrapponeva ad un padre severo (di questa sollecitudine avunculare sembrano restare tracce consistenti anche dopo, fuori dalla leggenda). Quanto al sostantivo avunculus «piccolo nonno», tale designazione si motiva proprio in base al fatto che anche con il nonno, così come con lo zio materno, si dovevano avere rapporti di familiarità e di indulgenza (nepos «nipote del nonno» > «dissipatore di beni» ) : e quindi lo zio materno, unico maschio della generazione conti­ gua con cui si avevano rapporti di familiarità (a differenza di pater e patruus) veniva linguisticamente spostato nella generazione del «nonno». Già, ma come è realizzato questo spostamento linguistico? Con quali strumenti morfologici? Ci accorgiamo di aver approfondito il termine avunculus solo per ciò che riguarda il radicale (ovvero il suo rapporto con avus) : ma anche il suffisso merita una breve e conclusiva attenzione. Si tratta, evidentemente, di una forma diminutiva (lo rotava già Paolo-Festa, 1 3 L), che trasforma il «nonno» in «piccolo nonno». E noto, però, il carattere genericamente "affettivo" (per usare la vecchia categoria di Hofmann: mal sostituibile, tutto sommato) 64 che è tipico di queste formazioni : "affettivi­ tà" che può manifestarsi in contesti di carattere confidenziale ( come li chiamava ancora Hofmann) 65, piacevole, scherzoso (o anche sottilmente ironico : surgit pulchellus puer, dice Cicerone di Clodio, Att. 1 , 1 6 , 10), e così via. Dunque, già il fatto che il nome dello zio materno si faccia per diminutivo (caso unico in tutta la terminologia di parentela) lascia intrave­ dere la luce confidenziale, affettiva, che doveva circondare questo personag­ gio. Il "registro linguistico" in cui lo zio materno si muove, è quello stesso di certi passaggi scherzosi o affettuosi della commedia· plautina: o di sin troppo 61 I , 32, I . Fra le fonti anonime è citato qui, esplicitamente, Polibio.

J.B. Hofmann, La lingua d'uso latina, a cura di L. Ricottilli, Bologna 1 985 2 . Sulla nozione di «lingua affettiva» in Hofmann, i suoi limiti e rischi, le sue ascendenze ecc., si vedano le precise osservazioni di L. Ricottilli, Hofmann e il concetto di lingua d'uso, in Hofmann, op. cii. , pp. 26 ss. 65 Hofmann, op. cii. , pp. 296 ss. Sul problema del diminutivo latino (tra i più ampi e dibattuti: né è il caso di discuterne qui) cfr. le ampie note integrative della Ricottilli, pp. 297, 299, 300, 380 s. 64

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noti canni catulliani. Pensiamo, per contrasto, al patruus: ben difficil­ mente lo si sarebbe potuto designare al diminutivo. Ma possiamo spingerci anche un po' più in là con l'analisi. Il diminuti­ vo "normale" di avus (quello che ci aspetteremmo) sarebbe infatti •avo­ lus 66• La terminazione -unculus presupporrebbe infatti un tema •avon­ che non ci è mai attestato 67• Dovremo dunque pensare che anche avuncu­ lus appartenga al novero di quei diminutivi "irregolari" dove la terminazio­ ne -unculus non è più il risultato di un tema in -on- + -culus, ma funziona come suffisso autonomo: e dunque può essere inserita su temi differenti (generalmente in -o o in -a, comunque). Vediamoli. Cicerone (Pis. 66) 68 ci attesta furunculus «ladruncolo», da fur: qui, naturalmente, può aver agito l'analogia con il regolare latrunculus. Ab­ bastanza intricato è poi il problema costituito da lembunculus, «piccolo lembus», «barchetta», spesso anche nella forma lenunculus 69. Quanto a lucunculus, un tipo di dolce, esso sembra firesentarsi in variante combi­ natoria con lucuntulus (cfr. lucuns -untis) 0• Vengono però, chiarissimi, casi come ranunculus «ranocchietto» (da rana: Cic., div. 1 , 1 5; in senso traslato, a proposito dei clientes, fam. 7, 1 8) ; come domuncula (Vitr. 6, 7, 4 ; Val. Max. 4, 4, 8, 1 6) «edicola», «piccola casa» (da domus) 7 t ; aprunculus «cinghialetto» (da aper) attestato epigraficamente per desi­ gnare un signum militare 72: ob natale Aprunculorum. Da notare che Ennio, var. 38 Vahl.2, ha la "regolare" forma diminutiva apriculus (apri­ culus piscis: cfr. anche Apul. apol. 34). Due di questi diminutivi, poi, vengono da Petronio: statuncula («statuine») sta a 50, 6, formazione che ha anche attestazioni epigrafiche 7 3 ; a 66, 2 troviamo invece s a n 66

M. Leumann, Lateinische Laut- und Formenlehre, Milnchen 1 977 2, p. 307. 67 Diversamente A. Meillet, "Mél. soc. ling.", 9, 1 895, p. 1 4 t s., che in avunculus

cercava il suffisso -tero- «marquant opposition» (come in mater tera): e dunque postulava un •awontro- mutato poi in •awontlo (> avunculus) «sous l'influence du suffixe de dimi; nutifs que le latin s'est créé». Ma, a parte ogni altra considerazione, difficilmente si sareb be potuto impiegare uno stesso suffisso ·tero- marcante "alterità" per la zia parallela (la matertera) e per lo zio incrociato (l'avunculus) entrambi dal lato materno. Non so anzi se abbia relazione con l'ipotesi di Meillet il fallo che, all'inizio del suo lavoro, egli definiva erroneamente la matertera «soeur du père». Che avunculus sia un normale diminutivo di avus è comunque ipotesi comunemente accellata: cfr. Benveniste, Vocabolario cii., p. 1 59 ; Szemerényi, Studies in the kinship terminology cii., p. 5 3 s.; ecc. (da notare anzi che in Emout, Meillet, Dictionnaire étymologique cit., p. 9 1 , avunculus viene spiegato come «di­ minutif familier»: la prima edizione è del 1 932, evidentemente Meillet aveva abbandonato o dimenticato la sua vecchia nota di quasi quarant'anni prima). 68 Cfr. anche Festo 492 L (a proposito di tagax) ; Th. 1. L., 6, 1 650. 69 Lembunculus: Gloss. Ansil. 5 1 , 300; ecc. ; lenunculus: Caes. beli. civ. 2, 47, 3 ; Sali. hist. fr . I , 2 5 ; ecc. Cfr. Emout, Meillet, s.v. lenunculus. '0 Th. l. L. 7, 1 7 50. 71 Secondo J.B. Hofmann, "lnd. Forsch.", 38, p. 1 77 , nota I , sul modello di ambula tiuncula. Anche nella forma domucula: Th. 1. L. 5, 1 949, 7 . 72 Cfr. "Rev. Arch.", 1 5, 1 9 1 0, p. 3 2 5 s. L'espressione ob natale Apnmculorum ri­ corre nei nn. I , 2, 6 (le prime due datate risp. al t 75 e 1 9 1 d.C.). Si allude evidentemente al natalicium delle insegne, costume ben noto per il natalis aquilae. 73 CIL 8, 2601 e 1 8233. Su statunculum (che ha anche allestazioni glossografiche) cfr. W. Heraeus, Die Sprache des Petronius und die Glossen, in Kleine Schriften, Heidel­ berg 1 937, p. l 37 s.

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ANTROPOLOGIA E CULTIJRA ROMANA

gunculus «sanguinaccio» 74. Plinio nat. hist. 28, 209, ci testimonia la forma sanguiculus. In domuncu/a, in ranunculus, ancor più in furunculus, possiamo certo

cogliere una sfumatura affettiva e schen.osa. Più indicative, però, per la loro distribuzione, sono le altre forme che abbiamo visto. Aprunculus sembra infatti appartenere al linguaggio militare: è attestazione unica, da fonte epigrafica - la lingua letteraria ci testimonia la forma "regolare" apriculus. Le altre due vengono entrambe dalla Cena Trimalchionis: sangunculus è hapax, con doublet "regolare" sanguiculus; statunculum ha paralleli solo epigrafici (o glossografici). Sembrerebbe, insomma, che il diminutivo irre­ golare in -unculus godesse di una certa fortuna in strati linguistici tenden­ zialmente "bassi", tanto da essere amato dai liberti petroniani o dai soldati. Un discorso che potrebbe valere anche per avunculus, da considerarsi allora diminutivo a carattere marcatamente spicciolo e colloquiale.

Comunque sia, su!Jivello "st ilistico" cui la parola avunculus appartene­ va abbiamo anche una testi monianza esplicita, dataci da una glossa del Servio Danielino ad Aen. 3, 34 3 (et pater Aeneas et avunculus excitat

Hector) : Quidam "avunculus " humiliter in heroico carmine dictwn acci­ piunt. Evidentemente c'erano alcuni �uristi" che ritenevano avunculus una parola un po' troppo umile, abiecta 7 , per poter stare nella lingua dell epos E per questo criticavano il poeta. Avunculus, dunque, non era un termine di parentela a funzione "neutra", come potevano esserlo patruus o consobri­ nus. Il carattere diminutivo (forse anche particolarmente "basso", come si è '

.

visto) era ancora fortemente sentito: accanto alla denotazione dello «zio materno», restava viva la vis schen.osa del «piccolo nonno». Quasi inutile, a questo punto, aggiungere l'ovvio corollario: un ter­ mine di parentela va considerato dal punto di vista di chi lo impiega e dunque il sororis filius che utilizzava una formazione del genere per designare il matris frater doveva avere con lui rapporti di grande fami­ liarità. I racconti leggendari, o i comportamenti quotidiani, si corrispon­ dono bene con i dati della storia linguistica. J.4. Lo zio materno "difensore" della nipote

Ci siamo occupati sin qui dei rapporti che intercorrevano fra zio materno e nipote maschio. Adesso, prima di chiudere definitivamente l'anello del discorso, soffermiamoci sulla relazione fra zio materno e ni7� Sangunculus sta anche negli Acta fra/rum Arvalium ( 240 d.C.: Dessau, /nscr. la/. sei. 111-2, CLXVI ss. ) : cfr. W. Heraeus, Zu Pelronius und die neuen Arvalaklen·Fragmen­ len, in Kleine Schriflen, cit., pp. 227 ss. Il Traguriensis della Cena ha saucunculum: l'e

mendazione è di Heraeus. 7 5 Cfr. Cic. ora/. 1 92 : humilem e/ abiec/am oralionem; Quintil. I O, I , 9, e/ humilibus interim e/ vulgaribus es/ opus; 1 1 , I , 6, humile e/ quolidianum sermonis genus; ecc. Si ricordi anche il passo dell' ar:s oraziana (227 ss.) in cui si raccomanda di evitare che un deus o uno heros non m igrel in obscuras humili sermone labemas. Sulle fortune letterarie del sermo humilis presso gli autori cristiani rammento l'omonimo saggio di E. Auerbach. in Id., lingua lelleraria e pubblico nella larda antichità Ialina e nel Medioevo, tr. it. Milano 1 960, pp. 33 ss.

Capitolo terzo

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pote femmina. Ci sono, infatti, due leggende romane (e delle più note) che meritano attenzione anche da questo punto di vista. In primo luogo quella di Virginia, la fanciulla insidiata dal decemviro Appio Claudio. La storia è nota. Di come Appio si innamorò della bel­ lissima virgo (nobile o plebea, secondo le fonti) e avesse subornato un suo cliente perché la rivendicasse come schiava. Di come Virginio, il padre, vistosi perduto, avesse preferito ucciderla piuttosto che abbando­ narla allo stuprum. Ora, in Livio e nel libro undicesimo di Dionigi (a differenza delle altre fonti, assai più concise) 76 accanto al padre Virgi­ nio compare Icilio, il fidanzato, e Numitorio, lo zio materno 7 7 . Dionigi - al solito, più diffuso - ce lo mostra impegnato in un lungo discorso a difesa della ragazza : e anzi, in qualità di "zio" ( 30, 1) lo sentiamo reclamare la custodia in attesa del giudizio (Virginio è ancora con l'eser­ cito). Virginia, dice, «si è rifugiata presso di lui, orfana di madre da gran tempo, priva anche del padre, in quella circostanza [ ... ]» (30, 3 ) . Poi, una volta che Virginio h a compiuto il tragico gesto, sono proprio lo zio Numitorio e il fidanzato Icilio che ( raccolti attorno al corpo con altri parenti ed amici) «chiamano il popolo alla libertà» ( 38, 2). In Livio ( 3 , 48, 7) l a scena è ancora più patetica: Jcilius Numitoriusque exsangue

corpus sublatum ostentant populo: scelus Appi, puellae infelicem for­ mam, necessitatem patris deplorant.

Dunque, incontriamo uno zio materno che cerca di difendere la ni­ pote dallo stuprum e, dopo la sua tragica morte, si adopera perché il popolo tragga vendetta dal tiranno. La sua presenza, comunque, potreb­ be essere anche poco significativa, casuale. Benché, nei personaggi di un mito o di una leggenda i tratti ,culturali tendano difficilmente ad essere casuali. Solo che l'intervento dello zio materno in un contesto del gene­ re (violenza sulla nipote, vendetta) tende ad iterarsi, e dunque a diventa­ re significativo. Si sa che la leggenda di Lucrezia ha, con �uella di Virginia, più di un punto di contatto. La cosa salta agli occhi 11, e del resto lo sottoli­ neano già le fonti antiche 79. Anche qui un tiranno che esercita violenza 76 Liv. 3, 44 ss.; Dion. Hai. 1 1 . 28 ss.; Cic. de rep. 2. 6 3 ; de fin. 2, 66 e 5, 64 ; Diod. 1 2 , 24; Pompon. dig. I , 2. 2, 24; ecc. Cfr. Gundel, R . E. , 1 6, pp. 1 530 ss. ; Miinzer, R.E. , 3, p. 2700. 7 7 In Livio Numitorio è una volta avus di Virginia (3, 45, 4), una volta avunculus ( 3 , 5 4 . 1 1 ) . Nella nota di Weissenborn e Miiller a d 45, 4 si cerca di interpretare questo fatto come se si fosse trattato dell'avunculus magnus della fanciulla (ma i testi portati a riscon tro non provano questa interpretazione: inoltre, un avunculus magnus potrà essere tran­ quillamente designato come avunculus cfr. per esempio Suet. Aug. 8 e I O - ma nori come avus. Questo significherebbe infalli trasformare la collateralità in ascendenza). E probabile che si tratti semplicemente di un lapsus. In Dion. 1 1 . 28. 7, Numitorio è dello 6 neòç µTjtQòç 8ELoç; a 30, I . Numitorio stesso parla di Numitoria, madre di Virginia, come t'Ì)v ÒOEÀ«p'Ì)v t'Ì)v Éaut0li. 7H Cfr. per esempio Miinzer, R. E. . 2, pp. 2700 ss.; 6, pp. 45 ss. E. Pais, Ancient l.egends of Roman History, London 1 906, pp. 1 85 ss. 79 Livio 3, 44. I ; l'associazione fra i due episodi sta anche in Cic. de fin. 2, 66; Sii . I L 1 3. 82 1 ss.; Val. Max. 6 . I, I. Su Lucrezia si vedano in generale anche le os �crvazioni di Pomeroy, The Relationship of the married Woman to her Blood relatives 111 Rome, cii.

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su una donna libera, la tragica morte dell'eroina, la vendetta dei con­ giunti che - sollevando il popolo - provocano la caduta della tirannia. L'intelaiatura è la stessa, in tutto e per tutto. Solo che la realizzazione concreta delle singole funzioni si trasforma molto. Stavolta il violentato­ re è Sesto, figlio di re, non tiranno lui stesso; la donna non è una virgo, ma una matrona, per di più moglie di un cugino del violentatore 80; il mezzo per impadronirsi di lei non consiste in una finzione giuridica (co­ sa che rende la leggenda di Virginia paradossalmente simile a una com­ media palliata: se pure con un altro finale) 8 1 ma nello sfruttare abil­ mente prima il legame di parentela - Sesto riesce ad introdursi presso Lucrezia proprio in quanto sanguine iunctus 82 -, poi addirittura nel ritorcere contro la matrona il suo sentimento del pudore e della buona fama: se Lucrezia non accetterà, Sesto la ucciderà, e accanto a lei farà trovare il corpo senza vita di uno schiavo. Poi dirà di averli sorpresi in adulterio... Lo stupro, infine, qui è consumato, là solo minacciato. In­ somma si tratta di due storie sostanzialmente identiche ma, anche, so• stanzialmente diverse. Soffermiamoci ora sui vendicatori, e suscitatori dell'ira popolare. Co­ me nella leggenda di Virginia, essi sono tre 83: rispettivamente un padre (Virginio - Lucrezio Tricipitino) ; un fidanzato ( lcilio) - marito (Colla­ tino ) ; infine uno zio materno (Numitorio) , che però non sembra aver corrispondenza nell'altra leggenda. Fra Bruto e Lucrezia non paiono es­ serci legami diretti (anche se Bruto, cugino di Sesto per parte di madre, è in qualche modo imparentato anche con Collatino) 84. Eppure, in Li­ vio ( 1 , 59, 9) è proprio Bruto (non il padre, o il marito: conclamai vir paterque) che estrae il coltello dal corpo di Lucrezia e giura su quel sangue di cacciare i tiranni. Una scena ripresa anche da Ovidio nei Fasti (2, 837 ss.). E anzi, è proprio lui che (come Numitorio con Icilio) va mostrando ai romani il corpo della vittima sventurata (Zon 7, 1 1 ) : i:�v yuvai:xa noÀ.À.oi:ç nov i:oii òl]µou unÉÒEtì;E [ . J . C'è però una variante della leggenda che ci mostra la situazione dei rapporti intorno a Lucre­ zia in una luce diversa. Essa sta in Servio ad Aen. 8, 646. Perché qui, fra i propinqui convocati da Lucrezia 85 si parla di marito Co/latino, patre Tricipitino, Bruto a v u n e u I o. Le analogie con lo schema di Vir­ ginia si fanno dunque più strette: il terzo vendicatore è anche qui uno «zio materno». .

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80 Diod. I O, 20, I , definisce Collatino «cugino del re»: nella terminologia romana, i due sarebbero in relazione di propius sobrino (cfr. supra, p. 44 n. 32). Cfr. anche Dion. Hai. 4, 64. 4. Per i problemi genealogici della famiglia Tarquinia, cfr. L. Bessone, La gente tarquinia. "Riv. Fil. lstr. Class.", I I O, 1 982, pp. 394 ss. 81 Cfr. il mio lavoro Verso un'antropologia dell'intreccio, cit. (in particolare per tra me come Curculio, Poenulus ecc.). 82 Ov. fas. 2, 788; Dion. 4, 64, 4. 8 3 Sull'importanza del numero tre come strumento compositivo, specie nel folclore, cfr. i ra. p. 1 50 n. 29. 8 Cfr. ancora Bessone, op. cii. In Dion. 4, 70, 3 Bruto si esclude esplicitamente dal novero dei parenti di Lucrezia: xal :n:avtrç u µ E i ç ot Tfl yuvmxi :n:gom]x0vtEç. 8� L'appello ai propinqui ritorna (come c'era da attendersi, naturalmente) nelle fonti: cfr. Dion. 4, 66, 2 e 3 ; Diod. I O, 20, I ; Val. Max. 6, I, I .

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Ora, questa notizia serviana è inserita i n un insieme di scarti e di differenze (rispetto a Livio e Dioni�i) sufficientemente ampio per non aver l'aria di un caso o di un errore 6. In Servio, infatti, lo stupratore è Arrunte, non Sesto. Inoltre, egli si introduce presso Lucrezia non protet­ to dal legame di parentela ma servendosi di una falsa lettera di Collati­ no. Ancora, lo stupratore conduce direttamente con sé, nel cubiculum, lo schiavo che gli occorrerà per macchiare l'onore postumo della matro­ na, che stavolta, anzi, è specificato come Aethiops, non come semplice schiavo. Dunque, si tratta di una diversa redazione della leggenda, in cui, fra gli altri scarti, c'è da annoverare anche il ruolo di avunculus svolto da Bruto. Naturalmente, a questo punto potremmo chiederci : abbiamo a che fare con un tratto "antico", conservato da Servio e cancellato dalle altre fonti, o con un tratto posteriore ed "aggiunto" in questa variante (maga­ ri sulla falsariga del racconto di Virginia)? La domanda è certo legitti­ ma, ma la sua risposta non deve essere sopravvalutata, come se fosse l'unica veramente "importante" : anche perché la domanda non è affatto l'unica da porsi, né la più importante. Nell'analisi del racconto leggenda­ rio, il criterio di anteriorità/posteriorità non deve essere considerato il principale, e raramente è il migliore da usarsi. Il modello offerto dalla critica del testo e dalla sua ricostruzione stemmatica - con un originale, o un archetipo, che tende progressiva­ mente a corrompersi, così che lo stadio "più genuino" del testo si identi­ fica automaticamente con il "più antico" - è rovinoso per lo studio delle varianti leggendarie 87• Ogni variante ha la sua struttura (il che vuol dire la sua dignità) e va studiata come tale nel sistema in cui orga­ nizza i singoli tratti. Per cui dobbiamo riformulare la domanda che ci siamo posti sopra, e in questi termini : ammettiamo pure che si tratti di un particolare "posteriore" e "aggiunto" - ma perché chi lo ha fatto si è sentito di farlo? Evidentemente, trovava che uno zio materno - come difensore/vendicatore della nipote - "andava bene" : anzi, trovava giu­ sto attribuire proprio allo zio materno - non al marito, non al padre il ruolo principale nella rivolta e nella vendetta. Il racconto insomma (inteso nel suo sistema di presupposizioni antropologico-culturali) 88 con 86 A proposito della variante serviana (ripresa anche in Myth. Val. I , 74 voi. I, p. Bode) il Miinzer (R.E. , 1 3, p. 1 9 62) parla di «ganz splite und geschmacklose Erweite· rungen». Del tutto inutili le osservazioni sulla variante serviana svolte da Ch. Appleton, Trois épisodes de l'histoire ancienne de Rome: /es Sabines, Lucrèce e Virginie, "Rev. hist. droit franç. et étr.", 3, 1 924, pp. 239 ss. (che non nota la caratteristica di avunculus rivestita da Bruto per sottolineare invece quella di «negro» che ha lo schiavo Aethiops). 87 C i riferiamo in particolare all'esplicito tentativo di J . Bédier, Les fabliaux, Paris 1895, pp. 1 86 ss., in cui veniva utilizzato come criterio (per stabilire i rapporti di "paren· tela" e di derivazione fra le diverse realizzazioni di una fiaba) addirittura quello dell '«error coniunctivus»; anche se poi gli "archetipi" ricostruiti da Bédier restavano quasi sempre sospesi fra l'ordine logico e l'ordine cronologico, senza cioè che si potesse stabilire se una certa variante veniva "prima" di un'altra perché era venuta storicamente prima o perché la struttura della seconda "presupponeva" quella della prima: un tipo di vicolo cieco secondo me inevitabile se si affrontano le cose da questo punto di vista. 88 Rimando ancora al mio Verso un 'antropologia dell'intreccio, cii ., in cui ho cercato =

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un Bruto avunculus "teneva". Questo deve interessarci. Qualcuno ha ritenuto che il racconto di Virginia avesse, nel vendicatore-avunculus. un tratto da sottolineare; che l'essere avunculus costituisse una buona motivazione 119 per far assumere a un personaggio il ruolo principale nel­ la rivolta : questo già basterebbe, a noi, per giudicare importante la va­ riante serviana. Chiarito questo punto, debbo anche precisare che (per quanto mi riguarda) sarei propenso a ritenere tale caratterizzazione avunculare più un tratto "cancellato" dalle altre fonti che non una "aggiunta" sulla fal­ sariga di Virginia. In primo luogo perché, come si è visto, i due racconti sono tanto identici nell'armatura quanto diversi, però, nelle realizzazioni particolari. E questo rende le cose un po' più difficili. In secondo luogo, perché la logica stessa del racconto lascerebbe prevedere, in un certo senso, che Bruto avesse con Lucrezia un legame particolare: e anzi, l'at­ tesa del lettore (sempre sul piano delle motivazioni) resta un po' insod­ disfatta nel non veder giustificata tanta centralità nella vendetta e nel seguito della storia se non da una vaga posizione di "amicizia" o "prossi­ mità". Ma, più ancora di queste generiche esigenze di motivazione, c'è per la verità anche un passo di Livio la cui lettera rimane alquanto oscu­ ra, e che invece diventerebbe più chiara se si presupponesse il ruolo avunculare di Bruto. E qui ci muoveremmo su un terreno, se così si può dire, alquanto più solido. Al momento in cui Bruto strappa dal corpo di Lucrezia il pugnale insanguinato, grida ( 1 , 59, t ) : per hunc [ . . . ] castissimum ante regiam iniuriam sanguinem iuro [ . . . ] me L. Tarquinium Superbum ecc. Questo giuramento «per il sangue» di Lucrezia ha fatto difficoltà ad Ogilvie 90, il quale ha acutamente notato come esso sia «unparalleled in Latin», e suoni alquanto inconsueto. Secondo lui, si tratterebbe di un falso arcai­ smo che (insieme ad altri elementi linguisticamente "sospetti") tradireb­ be il carattere di «imagipative reconstruction» che caratterizza questo segmento della vicenda. E lo stesso Ogilvie, però, con la sua eccellente conoscenza della lingua, a ricordare l'uso di far giuramenti (oltre che sugli dei inferi e superi) in generale su ciò che si tiene «On the higest honour». Ogilvie fa l'esempio degli ossa patris (Hor. car. 2, 8, 1 0 ; Prop. 2, 20, 5 ; ecc.), ma si potrebbero aggiungere anche gli oculi (Plaut. Men. 1 060; Ov. am. 2, 1 6, 43; ecc.), il caput (Ov. ep. , 3, 1 1 0, 1 3 ; ecc.), la dextera (Aen. 9, 298; ecc.) e così via. Insomma, non troverei affatto strano che uno zio giurasse per il "sangue" della nipote morta e violen­ tata : è il "sangue" che li unisce, ed è questo stesso "sangue" che, unen-

di mostrare i rapporti di reciproca presupposizione che intercorrono fra intreccio narrativo da un lato e sistema culturale dall'altro (fornendo un'esemplificazione concreta basata sul­ le trame plautine). 89 Cfr. supra, p. 37, n. 24. 90 A Commentary on Livy 1 5, cit., p. 226. Sul giuramento cfr. E. von Lasaulx, Der Eid bei den Romern, in Studien des c/assischen Alterthums, Regensburg 1 854, pp. 208 ss. (sul giuramento di Bruto: p. 2 1 3) . In Dionigi, 4, 70, 5, Bruto giura «SU Ares e tutti gli altri dei», non sul sangue di Lucrezia. -

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doli, spinge ed obbliga, in un certo senso, lo zio alla vendetta. Come si sarà notato, gli ossa, gli oculi, il caput, la dextera corrispondono tutti a una parte del corpo umano fortemente simbolizzata, che come tale spe­ cifica ed "indirizza" il giuramento in una particolare sfera culturale: co­ sa che si può dire, ben a ragione, anche per il sanguis. Specie se il giuramento è pronunziato da un consanguineo. Anzi, che questo giuramento «per il sangue» sia ben motivato, in Livio, e per nulla fuor di luogo, lo farebbe pensare anche l'espressione secondo cui viene formulato. Non si giura solo per il sangue di Lucrezia, ma per hunc [ ... ] castissimum a n t e r e g i a m i n i u r i a m san­ guinem. Il sangue di Lucrezia, dunque, era "castissimo" sino al momen­ to in cui Tarquinio non l'ha costretta ad unirsi a lui. La matrona (pur avendo subito violenza contro sua voglia e pur essendosi nobilmente uccisa), ha perduto la purezza del suo "sangue". In questo, la variante ovidiana è più lineare e nobilmente celebrativa ([as. 2. 84 1 ) : Bruto dice semplicemente Per tibi ego hunc iuro fortem castumiue cruorem [ .. . ]. Il giuramento è fatto sul cruor, il sangue "fuoruscito" 1 ovverosia sul sangue che Lucrezia ha versato col suo nobile gesto. Questo sangue è "casto" e "forte", simbolo concreto e visibile della sua virtù. Livio, inve­ ce, parla di sanguis, non di cruor, e per di più sottolinea che esso, dopo la regia iniuria, ha perduto la sua straordinaria castità. Ora, non può essere considerato casuale il fatto che, nella colpa dell'adulterio femmi­ nile, sia proprio il "sangue" che viene ad essere contaminato. Così I'A­ treo di Seneca, dopo aver scoperto che suo fratello Tieste gli ha sedotto la moglie, commenterà amaramente ( Thy. 34 1 ) : dubius sanguis est. La purezza del sangue vacilla, una donna che si unisce a due uomini rende «incerto» ciò che dovrebbe essere limpido e di natura semplice. Così ' Plinio narra che presso gli Psilli, i favolosi incantatori e "padroni" dei serpenti, si saggiava la virtù delle spose proprio esponendo i figli al con­ tatto con i rettili (nat. hi�t. 7, 1 4) : non profugientibus adulterino san­ guine natos serpentibus. E il sangue che con l'adulterio viene appunto "adulterato". Sappiamo del resto che la vedova, a Roma, non poteva rimaritarsi prima di dieci mesi per evitare la turbatio sanguinis, come dice Ulpiano (D ig. 1 , 2, 1 1 ) . Dieci mesi erano infatti il limite massimo per la gravi­ danza. Dopo quella data, la donna non rischiava più di sovrapporre in sé le due unioni : il rischio che veniva espresso appunto con l'espressio­ ne turbatio sanguinis 92. Lucrezia, insomma, unendosi (seppure costret-

9 1 Sull'opposizione sanguislcruor sta lavorando in particolare F. Mencacci (in vista di un volume collettivo dal titolo Il sangue e /'identità nella cultura romana in collab. con G. Guaste Ila e M. Bellini, già in avanzato stato di elaborazione: rimando a quella . sede una discussione più approfondita su questo argomento). Si noti che Ovidio non avrebbe potuto impiegare, almeno in questo giro sintattico, la parola sanguinem: eretico non utilizzabile (e non elidibile, come si sa) nell'esametro. Su castus e la nozione di castità L. Beltrami, Castus e incestus: problemi linguistico antropologici, di prossima pubblicazione in "Mal. disc. an. testi class." ( 1 987). 92 Su adulterium, turbatio sanguinis ecc., rimando anche a Bellini, Lettura divinato ria di un incesto cii . , pp. 1 4 5 ss.

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ta) con Sesto, ha «turbato il sangue». Per questo, sia detto per inciso, essa è praticamente costretta ad uccidersi. Dopo aver contaminato il sangue, per lei non ci sarebbe più posto nella casa di Collatino. Tale "contaminazione del sangue" Bruto la sottolinea abbastanza duramente, in Livio. E direi che questa brusca franchezza potrebbe esser molto me­ glio giustificata nell'animo di uno zio materno: un consanguineo che vede il suo stesso sangue contaminato ed umiliato dall'offesa recata alla nipote. Comunque sia di tutto ciò (è chiaro che non si può andare al di là di ipotesi, seppure culturalmente e testualmente fondate) teniamoci fenni alla notizia. In Servio, Bruto è zio materno di Lucrezia, e dunque nella leggenda abbiamo due casi di avunculus che si erge a difensore/vendica­ tore della nipote violentata o minacciata di stuprum. Con questa figura, si completa il terzetto dei vendicatori. Che, si noti, cohispondono nelle loro qualificazioni parentali - esattamente ai tre gruppi sociali in base ai quali l'identità e lo statuto della donna si definisce: il padre (i parenti agnatizi), lo zio materno (i parenti cognatizi), il fidanzato/marito (gli adfines). I tre gruppi che per suo tramite si congiungono - conso­ ciando in lei il proprio "sangue" - si raccolgono immediatamente attor­ no alla donna per difenderla e vendicarla. Ma restiamo ali' avunculus. Alla luce di queste due leggende, e del ruolo di difensore/vendicatore che lo zio materno vi esercita, dobbiamo infatti rileggere una glossa di Paolo-Festa ( 1 3 L) che intende spiegare perché I 'avunculus sia detto appunto tale: avunculus, matris meae frater, traxit appellationem ab eo, quod aeque ter­ tius a me, ut avus, est, sed non eiusdem iuris: ideoque vocabuli facta deminutio est. Sive avunculus appellatur, quod avi locum optineat et proximitate tueatur sororis filiam.

La glossa, molto simile alla successiva relativa all'amita 93, contiene una prima interpretazione di tipo diciamo posizionale: in cui il rapporto (di deminutio vocabuli) avus > avunculus è motivato in base all'identi­ tà di grado che intercorre fra ego ed avuslavunculus rispettivamente. La seconda, invece, vuole interpretare la derivazione in base a un'analogia di funzioni fra avus e avunculus: l'avunculus può fare "certe cose" che fa anche l'avus, è per questo che si designa in relazione all'avus (model­ lo esplicativo applicato talvolta anche dai moderni) 94• Ma, ci chiedia­ mo: perché fra le tante cose che un avunculus può fare in luogo dell'a ­ vus, viene scelta proprio il «proteggere la figlia della sorella»? Non c'è alcuna ragione (pseudo)etimologica che possa suggerire questo ruolo dell' avunculus. Viceversa, tutto ciò corrisponde molto bene, come ab­ biamo visto, a quello che ci dice la leggenda. Bisogna dedurne allora che il costume romano conosceva una funzione di "tutela", di "protezione" o 9;

Su cui cfr. infra, pp. 1 1 5 s. per esempio Leumann, Lateinische Laut und Formen/ehre, cit., p. 307 («klei ner avus als Sohn des avus»); per Szemerényi cfr. supra, p. 56. 94 Cfr.

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"difesa" esercitata dallo zio materno nei confronti della nipote. La illu­ strano Bruto e Numitorio, mentre Paolo-Festa ce la enuncia esplicita­ mente. Lo zio materno «protegge la figlia della sorella». Giunti a questo punto, non possiamo però esimerci dal rammentare che questo ruolo dell'avunculus ("tutore", "protettore" della nipote) cor­ risponde in realtà a un modello antropologico ben noto comune a molte culture. Per cui, la situazione romana sembra costituire solo un capitolo del vastissimo " romanzo tipologico" che lega lo zio materno alla propria nipote. Ricordiamo solo la leggenda Gyljiaki dello zio materno che libera

la nipote dall'orso che l'aveva rapita e violentata, nel contesto di un sistema di scambio matrimoniale che affida allo zio materno una funzio­ ne molto importante nelle nozze della nipote 95• Ancora, presso i Lus­ hai, l'uso del termine pu che indica «nonno, zio materno, ed ogni altro parente dal lato della moglie o della madre» 96 e insieme la «persona specificamente scelta come protettore o guardiano» 97• Ancora, l'affer­ mazione del Genji monogatari, il romanzo giapponese scritto nell'undi­ cesimo secolo, secondo cui «anche una fanciulla di sangue reale sarebbe senza avvenire se non avesse degli zii materni per sostenerla, e verso i quali possa rivolgersi» 98• Fuori dall'Asia, in America, presso i Cherentes lo zio materno della fidanzata ha le seguenti funzioni : organizza ed attua l'abdu­ zione del fidanzato come preliminare del matrimonio; raccoglie sua nipote in caso di divorzio e la protegge contro il marito; obbliga il cognato a sposarla in caso di morte del marito; in solidarietà con il marito vendica la nipote violenta­ ta 'l'l; ccc. In altri tennini è, assieme al marito della nipote, e se è necessario contro di lui, il protettore di quest'ultima 10. Non possiamo che limitarci ad accumulare qualche spunto compara­ tivo: per lasciare ad altri (se lo riterranno opportuno) il compito di in­ 101 terpretare i l contenuto di questo legame i n u n a prospettiva antropo­ logica generale che non può essere la nostra, e per la quale non posse­ diamo la necessaria competenza. Riesaminando, però, mentalmente gli esempi della storia arcaica romana studiati sin qui , resta ed emerge chia-

95 Cfr. Lévi-Strauss, Strutture cit., p. 408 s.

96 Questo tipo di tenninologia (in cui parenti della moglie e parenti della madre coin­ cidono) implicherà verosimilmente un sistema del tipo a scambio generalizzato: in cui cioè si prende moglie nello stesso gruppo in cui l'ha presa il padre. 97 Lévi-Strauss, Strutture cit., p. 409. 98 The tale of Genji, tr. da E.G. Seidensticker, Tokyo t 978, 11, p. 886 (cit. da LéviStrauss, Lectures croisées, in Le regard éloigné, Paris t 983, p. t t 4 ) . 99 Corsivo nostro 1 00 Uvi-Strauss, Antropologia strutturale, tr. it. Milano t 966, cit., p. t 44. 1 0 1 Come è noto, Lévi-Strauss (Strutture c it., pp. 408 ss.) ha riconosciuto il carattere di protettore o dominatore esercitato dallo zio materno nei confronti della nipote, assieme al suo diritto spesso preferenziale sul «prezzo della fidanzata», come tratto strutturalmente connesso ai sistemi semplici di scambio generalizzatD (disco�o da lui svolto, ovviamente, solo per quel che riguarda i casi Gyljiaki, Lushai ecc.).

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ramente un fatto: protettore tenero e sollecito del figlio della sorella,

all'avunculus viene contemporaneamente attribuita la funzione di "di­

fensore" della nipote nel contesto che si mostra necessariamente più ri­ schioso ed infido per una donna: quello del matrimonio, e delle relazio­ ni sessuali. Vedremo più avanti 1 02, analizzando in generale il tema della " tentazione matrilinea" a Roma, come anche questo ruolo dell'avuncu lus si inserisca nella più vasta dialettica fra "prenditori" e "datori" ( fra "paterni" e "materni") e ne costituisca verosimilmente una delle manife­ stazioni più suggestive. Limitiamoci ora, conclusivamente, a sottolineare l'estremo interesse che (dal punto di vista del ruolo avunculare) presenta proprio il ciclo di leggende che si annoda intorno alla cacciata dei re e ai primi consoli di Roma. Collatino - troppo tenero protettore dei figli di sua sorella aveva precedentemente trovato in Bruto un avunculus che, in solidarietà con lui, si era mostrato pronto a vendicare la figlia della sorella. Bruto, per parte sua, sororis filius perseguitato dallo zio materno, Tarquinio, si troverà infine costretto ad uccidere ("dà padre") i propri figli sviati pro­ prio dall'eccezionale rapporto di familiarità che li legava ai loro avunculi Vitelli. ­

ioz

Cfr. infra.

pp.

98

ss. : p.

183

n.

19.

4 Matertera

4. 1 . Quasi mater altera

Che la zia materna costituisca una figura affettiva di un certo peso per il nipote, appare in sé una cosa piuttosto probabile: è naturale che il piccolo senta nella sorella della madre una figura affettivamente simile a quella della propria madre. Su questo ci sono del resto testimonianze etnografiche interessanti. Presso gli Arapesh della Nuova Guinea 1 il bambino riceve un'educa�ione fortemente improntata all'affettività ed alla fiducia nel mondo. E per questo che, sin da piccolo, si cerca di familiarizzarlo con tutti coloro che lo circondano, in primo luogo con i suoi parenti. Ed ecco come la madre gli presenta la propria sorella: «questa è la tua al!ra mamma ... altra mamma, altra mamma. Guarda la tua altra mamma. E buona, ti porta da mangiare. Sorride, è buona» 2• In questo «altra mamma» pare proprio di sentire il senso che per i Lati11_i aveva la parola matertera (quasi mater altera, dice Paolo, 1 2 1 L) 3. E anche abbastanza comprensibile che la zia materna possa aiutare talvol­ ta la propria sorella nello svolgimento dei suoi compiti materni. I Bagga­ ra del Sudan giustificano anzi con questa specifica attitudine delle zie materne la pratica del matrimonio all'interno del lignaggio: «le donne dicono che un figlio è curato meglio quando la madre vive a casa sua con le sue sorelle, e che queste possono aiutarla se lei è malata» 4• Ma restiamo a Roma. Per ciò che riguarda gli atteggiamenti della matertera nei confronti del nipote disponiamo fortunatamente di una buona serie di testimonianze. Questa figura di donna sembra aver rive­ stito un ruolo particolarmente marcato nell'ambito della società romana : s i tratta anzi d i una dimensione affettiva la cui durata strutturale pare sia stata particolarmente "lunga", come vedremo subito. L'importanza 1 Traggo questo esempio dal noto libro di M. Mead Sesso e temperamento in tre società primitive, tr. it. Milano 1 967. 2 lvi, p. 72. 1 Per la formazione del sostantivo matertera cfr. Benveniste, Noins d'agent et noms d'action en lndo-éuropéen, Paris 1 948, p. 1 1 8 (ipotesi però parzialmente modificata in Il vocabolario cii., 1, p. 1 77 ) . Utili risultano ancora gli esempi raccolti da Meillet in "Mél. Soc. ling.", 9, 1 895, p. 1 4 1 s.: non del tutto pertinenti mi paiono invece i raffronti portali dal Leumann nella seconda edizione della sua grammatica (Miinchen 1 97 7 ) , p. 3 1 8. 4 L. Mair, Il matrimonio: un 'analisi antropologica, tr. il. Bologna 1 976, p. 39.

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della matertera risulta del resto evidente già dal fatto che questa figura ha un posto di rilievo anche nel mito. Si può dire che tale ruolo venga codificato culturalmente nel momento stesso in cui si definiscono gli eventi relativi alla mitica fondazione della comunità: la prima matertera di Roma è infatti la regina Amata. Come si sa, la moglie di Latino è sorella di Venilia, madre di Tur­ no 5; in altre parole, ella è matertera di Turno. Dunque, sarà probabil5 Verg. Aen. I O, 29; Serv. Aen. 6, 90; 7, 366; 2, 29. Nell 'Origo gentis Romanae ( I 3 , 5), Turno è definito consobrinus (di Lavinia, sembrerebbe) ; mentre più avanti, a I 3, 8 (riportando la testimonianza di "Pisone": frammento non accolto, ovviamente, nel Peter) Turno è definito matruelis di Amata. Si tralla di un termine raro, e di difficile delimitazio ne (V. Bulhart, in Th. I. L. 8, 490, 5 7 ss. lo dà senza esitazione come equivalente ad avun culi filius: ma avverto che di questo non esiste alcuna prova). Matruelis ricorre in Marcia­ no (liber XIV institutionum: cii. da Dig. 48, 9, I ) che riporta la /ex Pompeia de parrici diis: si tratta di un contesto abbastanza oscuro e quasi certamente lacunoso (cfr. almeno Th. Mommsen. Romisches Stra!rechi, Leipzig 1 899, pp. 644 ss.), da cui però, per il modo in cui i gradi si succedono, si potrebbe più facilmente arguire che si tratta del «figlio della matertera»: e, forse, vi porta anche l'apposizione di frater. Questa, del resto, pare essere la spiegazione data dalle glosse: Ugutio Pisanus (cito dal Novum glossarium mediae latinita tis, Hafniae 1 959 1 969, p. 270) spiegava: matrueles dicuntur filii ve/ filiae materterae; adj. : ad materteram pertinens. Nel Gloss. Lat. Gal/. Sang. (cii. da Du Cange s.v. matrue lis) il termine è spiegato o come pertinens ad materteram, o come relativo alla «marratre» («/ilz ou fil/es de marratre») : questo spostamento semantico (dalla matertera alla «matri­ gna») potrebbe anzi costituire un'interessante traccia di sororato. Se dunque matruelis indica il figlio della matertera, bisogna concludere che, secondo "Pisone", Turno era «figlio della matertera» di Amata, ovvero consobrinus non di Lavinia, ma di Amata stessa. "Piso­ ne", insomma, avrebbe fatto salire Turno di una generazione (sulla terminologia dei cugini dovremo comunque ritornare). Da questo punto di vista, diventa anzi interessante notare che anche secondo Dionigi ( I , 64, 2) Turno, che qui porta il nome di Tirreno, è àvE1jlt6ç, cioè "cugino" di Amata: per cui, se il frammento di Pisone non fosse riportato da un testo infido come l'Origo, si sarebbe tentati di credere che Dionigi seguisse qui proprio Pisone facendo di Turno non un "nipote" ma un "cugino" della regina (è noto che Dionigi ha avuto una certa predilezione per questo annalista, e proprio in questioni genealogiche: cfr. infra, p. I I 3 n. 3, per i due figli di Tarquinio Prisco che Dionigi, seguendo Pisone contro il resto della tradizione, trasforma in figli di un figlio del Prisco, premorto al padre). Ag­ giungo che nei manoscritti di Dionigi (testimonianza congiunta del Chisianus e dell'Urbi nas) il nome di Amata compare nella forma 'AµLi:aç (gen .): Jacobi lascia il testo com'è, attribuendo la correzione 'AµélTaç al Cobet (Obs. crit. et pal. ad Dion. Hai. ,Ani. Rom. , Leiden 1 877, p. J J : ma essa è probabilmente anteriore; ' AµatT]ç Stephanus). E facile che si tratti di un banale errore, sul tipo di quello che in 4, 45, 4 7, 48, ha sistematicamente trasformato Tumus Herdonius in Tueboç 'EQlwvwç: ohretullo, il nome della regina compare solo in questo passo. Ma anche se avessimo a che fare con una variante rispetta­ bile, sarebbe sempre una variante grafica di un nome proprio (come gli autori greci che parlano di cose latine ce ne testimoniano a centinaia), senza che questo possa autorizzarci di certo a pensare che secondo Dionigi Amata fosse «zia patema» (cioè amita) di Turno. Quale significalo potrebbe mai avere, infalli, una frase come l:Lvà Tf]ç J\ay(vou yuvm xòç àµ(yaç àvE1pL6v? Non possiamo dunque solloscrivere la tesi di Thomas (nel suo pre­ gevole lavoro Mariages endogamiques à Rome, cii., p. 363 e nota 40), che appunto con questo argomento trasforma Amata in «tante paternelle» di Turno (per la verità, la propo­ sta l'aveva già fatta Klausen, Aenas und die Penaten, Il, Hamburg und Gotha 1 840, p. 8 7 5 nota I 70 I ) . Infine, occorre ricordare che Zonara ( 7. I ) definisce Turno «parente di Latino» (l:ljl J\m(v� itQoai]xoVl:oç). Non si tratterà però di una variante in cui il legame di Turno con la famiglia reale di Laurento passava per il re anziché per la regina (come suggerisce Ehlers, R.E. , s.v. Tumus), ma di un modo generico per designare la stessa cosa delle altre fonti. Anche in Virgilio, del resto, Amata si rivolge a Latino con queste parole ( 7, 365 s.): quid cura antiqua tuorum I et c o n s a n g u i n e o toties data dextera

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mente nel particolare legame istituzionale e affettivo che la lega al giovane re dei Rutuli il senso di quell'amore eccezionale (ben noto ai lettori dell' Enei­ de) che ella gli porta. La singolarità del suo comportamento traspare dalle parole stesse del poeta, allorché descrive l'impeto con cui Amata affrettava le nozze fra Turno e la propria figlia Lavinia (7, 57): adiungi generum miro properabat amore. Il fatto è che il sentimento di Amata per Turno non è un generico affetto verso il futuro genero (o il legame che, ai nostri occhi, unisce una zia al proprio nipote): esso si configura come un vero e proprio amore materno. Con le stesse parole che una madre rivolgerebbe al proprio figlio, Amata esorta Turno a non recarsi in combattimento, ove ella rischierebbe di perdere in lui il sostegno della propria vita ( 1 2 , 54 ss. ) : e Turno, preso egli stesso dal registro affettivo di quelle frasi, non potrà che rispondere apostro­ fandola proprio con o mater! (v. 74) . Non diversamente Ino, nel racconto ovidiano (fas. 6, 4 73 ss.), trovandosi con il sororis filius di fronte alle Baccanti scatenate, griderà agli dei : miserae succurrite m a t r i! ( 5 1 7) . La matertera "si sente" in qualche modo mater del nipote: come tale il nipote, per parte sua, può apostrofarla. Ma seguiamo ancora il comportamento di Amata. Come di fronte alla morte di un figlio, Amata vorrà pagare con la propria vita la colpa che crede di aver commesso verso Turno causando (con la sua caparbietà) la guerra fra Latini e Troiani, e la conseguente morte di lui. Fra i due personaggi esiste dunque una relazione che è quasi meglio descrivibile in termini di madre vs. figlio che in quelli di zia vs. nipote. Nell'intendere l'Eneide bisognerebbe forse dare maggior peso a questa articolazione familiare ed affettiva profonda, che sottende e sospinge insieme tutto l'evolversi narrativo della parte "iliadica" del poema 6• In ogni caso, il seguito delle testimonianze confermerà ulterior­ mente, credo, questa quasi sovrapponibilità mater-matertera che emerge dal mito di Amata. Più impersonale - solo perché ignoriamo i nomi delle due sorelle -

Turno? (cfr. anche 1 2 , 40). E Latino, per parte sua, si riferisce a Turno ( 1 2, 29) dicendosi c o g n a t o sanguine victus. Si tratta di espressioni linguistiche generiche ed "allargate", che presuppongono probabilmente una parentela del tipo che noi definiremmo acquisita. La stessa estensione terminologica sta alla base di espressioni come questa �i Paolo-Festo ( I O L): adfines in agris vicini. sive c o n s a n g u i n i t a t e coniuncti. E ovvio che, a rigor di termini, gli adjines non sono «congiunti da consanguineità»: solo che come appunto Turno per Latino essi vengono assimilati a dei cognati veri e propri. Questa estensione terminologica presuppone evidentemente modelli culturali e di comportamento in cui tale assimilazione era praticata. Come ad esempio la festa della Cara cognatio (una festa di commemorazione dei defunti che si svolgeva il 22 febbraio, il giorno dopo i Fera /ia ) : in essa intervenivano i cognati (come dice Ovidio fas. 2, 6 1 7 ss. ), si rivolgevano offerte ai dis generis, si «contavano i gradus del genus» ecc. Era insomma una festa di carattere parentale, che coinvolgeva gli appartenenti a uno stesso "gruppo" legato da vin­ coli di necessitudo. Ma la stessa festa è descritta da Valerio Massimo in questi termini (2, 1, 8): convivium [ ... ] cui praeter cognatos e t a d f i n e s nemo interponebatur. 6 Sul personaggio di Amata cfr. anche infra, pp. 1 03 ss. R.O.M. Lyne, La voce 'priva ta ' di Virgilio nell'Eneide, "Mus. Pat.", 2, 1 984, pp. 5 ss., ha invece visto «qualcosa di erotico, di sessuale» nell'affetto di Amata per Turno: cfr. le osservazioni di A. Traina "Riv. fil . istr. class.", 1 1 2, 1 984, p. 249 nota 2.

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ma altrettanto affettivamente solida, la figura della matertera compare anche in un altro mito di Roma, quello dello scontro fra Orazi e Curia­ zi. Secondo il racconto di Dionigi (3, 1 5, 2) la madre degli Orazi era infatti sorella di quella dei Curiazi. Ecco, nelle parole di Tullo, la descri­ zione del vincolo che li unisce: Ti yàQ 'OQm:icov µJii:TJQ 'tWV fiµETÉQcov àOEì.q:riJ Ti'jç KoQta'tl(l}V µT]'tQ6ç fon 'tWV 'Aì.f3avwv, xaì. 't É0 Q a :n: 't a L 'tà µELQUXLO ÉV 'tOi:ç à µ cp o 't É Q (I} V 't w V y \) V a L­ x w v x 6 ì. :n: o t ç ào:n:atovm( 't' àì..ì..fiì..ouç xaì. cptì.ofotv oùx. �'t'tOV Ti w'Ùç Éav'twv àOEÌ.cpoliç. Più avanti, Orazi e Curiazi son definiti àvE-q1w'Ùç xaì. a " v 't Q 6 cp o " ç . Sullo sfondo di questa tragica vi­ cenda (il sangue versato sarà fraterno) si delineano così le figure delle due madri-sorelle, nel cui x6ì..:n:oç i fanciulli erano stati nutriti, con piena indifferenza se essi fossero figli dell'una o dell'altra. Dovremo ricordar­ ci, più avanti, di questa funzione di nutrix (in senso lato) propria della matertera nei confronti dei nipoti. Certo è che nell'immagine delle due donne, che tengono ÉV x6À.J1:mç ciascuna i figli dell'altra, troviamo la stessa espressione simbolica della relazione zia vs. nipote quale la vedre­ mo realizzarsi ritualmente nel gesto delle materterae ai Matralia. Ma usciamo dal mito, per entrare nella sua prosecuzione più logica: la letteratura. Anche un lettore disattento non può non accorgersi quanto la fabula che sottende di volta in volta le singole commedie antiche debba la sua dinamica ai meccanismi di parentela ed affinità. Figli dispersi e ritrova­ ti, nipoti ignorati, padri severi ecc., costituiscono come il meccanismo generatore, di volta in volta. dei singoli testi. Naturalmente, diverso è il caso della palliata (il cui intreccio è esemplato su uno o più modelli greci) , d a quello della togata, l a commedia di ambien,te romano e domestico, così come l'abito indossato dai suoi personaggi. E naturalmente a questa, in particolare, che uno studio come il nostro deve rifarsi, fidando sul fatto che l'esiguità dei frammenti rimasti è come compensata dall'autenticità roma­ na dei suoi argomenti. Ebbene, fra questi dovevano figurare, e direi in misura determinante, proprio i problemi che scaturivano dalle relazioni di parentela. Può fame fede un semplice ragionamento fondato sui soli titoli delle palliatae e delle togatae che ci sono rimasti : su 1 59 titoli (circa) di palliatae solo 5 alludono esplicitamente ad un rapporto di parentela o a qualcosa del genere (dunque, circa un 3 % ) ; mentre su 7 1 titoli di togatae sono 1 1 che si riferiscono espressamente a questo tipo di relazioni (dun­ que, un buon 17 % circa). Se gli autori indulgevano, sin dal titolo, ad argomenti del genere, dobbiamo pensare che il pubblico (e dunque la cultura Romana) amasse veder riprese in rappresentazione teatrale quel complesso di relazioni umane che scaturivano dalle figure dei c,ugini (Con­ sobrini, Afranio), delle cognate (Fratriae, Afranio ancora) ecc. E dunque in questo contesto di attenzione ai nodi che scaturiscono dalle relazioni di parentela ed affinità che vanno collocate le ben due togatae dal titolo Materterae: una di Afranio e l'altra di Atta 7. Della prima possediamo anche un frammento (207 ss. R3): 7 Non s i s a s e i I titolo fosse propriamente Materterae, a l plurale, o Matertera a l singo lare: cfr. l'apparato del Ribbeck ad /oc.

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postquam se videt inibi esse, gnatam parvulam sororibus commendai

Si tratta evidentemente 8 d i una madre in punto d i morte, che affida la sua piccola proprio alle materterae: data la decisione della madre, e conoscendo un po' i meccanismi della commedia, è facile supporre (al­ meno al momento di questo antefatto) 9 l'assenza di un padre per la piccola (il solito &owwç che poi finirà per ravvedersi, e riconoscere la bambina abbandonata molti anni prima?). Questa circostanza ci sarà di aiuto per mettere esattamente a fuoco JI contesto di parte del materiale epigrafico che analizzeremo più sotto. E da presumere che le materterae avessero poi un ruolo determinante nel seguito della commedia, tanto da giustificare il titolo che essa porta. Quel che ci interessa notare, infine, è che la funzione delle materterae consiste proprio nel fungere da madri in una situazione di assenza della madre vera e propria, prendendosi cura di una bambina assai piccola. Tale particolare relazione affettiva (consistente quasi in un ruolo di nutrix nei confronti del nipotino) che intercorre fra questi e la matertera appare, del resto, assieme a quello altrettanto istituzionale fra nepos e avia 1 0, anche da alcuni versi di Per­ sia. Il passo ha per argomento le preghiere sconsiderate (2, 3 1 ss. ) : Ecce avia aut metuens divum matertera cunis exemit puerum frontemque atque uda tabella infami digito et lustralibus ante salivis expiat, urentis oculos inhibere perita. Tunc manibus quatit et spem macram supplice voto nunc Licini in campos, nunc Crassi mittit in aedis: «Hunc optent generum rex et regina, puellae hunc rapiant, quidquid calcaverit hic rosa fiat». Ast ego nutrici non mando vota [ . ] ..

Il testo (interessante anche per le testimonianze folcloriche che il poeta ci dà sulle canzoncine augurali che aviae e materterae rivolgevano ai loro nipoti) porta in primo piano proprio la figura della zia materna. Il suo ruolo sfuma qui (è il poeta stesso che ce lo dice) in quello di nutrix: sia per la sollecitudine materna con cui si rivolge a un figlio non suo, sia perché è proprio di questo personaggio optare per il piccolo, vezzeggiandolo, le più rosee felicità 1 La matertera che nel mito degli Orazi e dei Curiazi esercitava realmente il ruolo di nutrix nei confronti dei piccoli nipoti, mostra dunque di avere in comune con questo perso•

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Cfr. il brevissimo abbozzo di ricostruzione della trama che sta in Ribbeck ad /oc. Che si tratti di un antefalto (posto come prologo. o narrato più avanti per bocca di un personaggio) pare cosa certa: è chiaro che la commedia doveva avere. come suo perso naggio principale. quella bambina divenuta adulta. Cfr. comunque Ribbeck ad /oc. IO Cfr. dia/ de or. 28; anche Ausonio raccontava del resto di essere staio educalo sollo l'egida dell'avio materna (par. 5, 9 s.: haec me praereptum cunis et ab ubere matris I blanda sub austeris imbuit imperiis). 1 1 Hor. ep. I , 4, 8; Sen. ep. 60, I . 9

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naggio anche connotazioni di carattere affettivo e derivato, sino a sfocia­ re in una sovrapponibilità funzionale quasi completa. Rileggiamo anzi, in questa prospettiva, un episodio tratto dal roman­ zo apuleiano, e precisamente dalla favola di Amore e Psiche (met. 5, 1 4). L e cattive sorelle scoprono che Psiche sta per diventare madre:

quantum, putas, boni nobis in ista geris perula! Ouantis gaudiis totam domum nostram hilarabis! o nos beatas, q u a s i n fa n t i s a u­ r e i n u t r i m e n t a laetabunt! Qui si parentum, ut oportet, pul­ chritudini responderit, prorsus c u p i d o nascetur! Come si vede, le due materterae si attribuiscono senza colpo ferire il

ruolo di «nutrici» nei confronti del piccolo: sarà a loro che toccheranno i nutrimenta del nascituro, e la relativa gioia. Di più, nelle parole delle zie il bambino è un aureus in[ans, un Cupido (Psiche non ha rivelato loro il nome del suo sposo: e dunque non sanno che il bambino è "real­ mente" un figlio di Amore). Ripensiamo alla canzoncina della materte­ ra/nutrix in Persia: le corrispondenze sono molto precise. L'aureus in­ fans corrisponde bene al fanciullo che fa nascere rose dove cammina, il piccolo Cupido è identico al bambino che, un giorno, le puellae si con­ tenderanno ... In breve, è nel linguaggio stesso delle future materterae apuleiane che affiora il loro "sentirsi" nutrici del piccolo: prima ancora di affermare, esplicitamente, che toccheranno a loro i nutrimenta del bambino, esse già lo vezzeggiano secondo i moduli della nutrix sulla culla. Che poi, come si sa, le cattive sorelle stiano solo fingendo, costi­ tuisce solo una riprova del fatto che il loro comportamento corrisponde al modello auspicato. Chi finge ha bisogno di essere "più vero" che può; una matertera malevola deve cercar di nascondere i propri cattivi senti­ menti sotto la scorza della miglior conformità a quel che ci si aspetta da una matertera come si conviene. 4.2. Dal mondo silenzioso delle iscrizioni

Gli esempi raccolti sin qui mostrano abbastanza chiaramente, credo, quale dovesse essere il rapporto di atteggiamento fra zia materna e nipo­ te. Ma cerchiamo altre testimonianze, concedendoci un excursus crono­ logico e spaziale. Abbiamo infatti cercato, tramite uno spoglio del Cor­ pus lnscriptionum Latinarum, di interpretare talune singole rela?'.ioni zia materna vs. nipote quali appaiono nei testi più significativi. E chiaro che, in una prospettiva del genere, il senso specifico delle varie relazioni verrà dato (in misura discriminante) dalla presenza e dall'assenza dei singoli personaggi che compongono la famiglia : così come dalle designa­ zioni linguistiche (termini di parentela e nomi propri) usate nel sistema che si è venuto a creare. Non mancano naturalmente epigrafi generiche, in cui l'affetto che ha legato un nipote alla sua matertera (e questa al figlio della propria sorel­ la) risulta esclusivamente dall'atto della dedica. E così, per esempio, in un'iscrizione di Vefletri (Not. Scavi 1 926, VI, voi. Il, 426 ) : Titedia Api­ cula invisa nulli mater Colpi et matertera Themidis; oppure in CIL VI

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2783 1 :

Turaniae Verae matri Turaniae Ouartae materterae et Corneliae Optatinae consobrinae reverentissimae 1 2• Si tratta generalmente di casi in

cui un nipote, accanto ad altri membri della propria famiglia, ha voluto rammentarsi anche della propria matertera : oppure si è preoccupato solo di lei. Diverso è invece il caso contrario, allorché la matertera compare quale dedicante per il nipote defunto 1 3 . Qui la trama sociologica pare infittirsi, perché generalmente questa situazione coincide con l'assenza di uno o di entrambi i genitori : quasi che la matertera venisse a colmare lo spazio lasciato vuoto da uno o da entrambi i personaggi principali. Ma vediamo due casi che si segnalano per assenza della figura materna. CIL XII 5866 (Vienna ) : Perseus pater et Primigenia matertera Perseo }ilio dulcissimo. Si noti che Primigenia, matertera di Perseus jr., si affianca a Perseus padre nella posizione solitamente occupata dalla mater: e che Perseus jr. è classificato direttamente come jilius nei confronti di entrambi. Non saprei dire se quest'ultima caratteristica debba essere attribuita all'im­ paccio linguistico (difficile sarebbe stato dire Perseo [ilio "et sororis filio" dulcissimo) o a un imprecisabile romanzo di affetti familiari : forse ad entrambe le cause. Si veda anche IX 899 ( Luceria) : L. Vitorio Fortunato

vixit a. Xlii mens. Villi Vitoria Briseis matertera et P. Tamullius Eros tata et sibi fec(erunt). Anche qui, accanto al pater (se tata indica questa relazio­ ne) 14 non compare la mater ma la matertera. Colpisce l'analogia funziona­ le secondo cui la matertera (in due casi situati a migliaia di chilometri di distanza) si colloca accanto al padre del piccolo. Non escluderei che situazioni di questo genere presupponessero l'intervento di un istituto come il sororato. Vediamo ora i casi inversi, quelli che si caratterizzano cioè per l'assen­ za della figura paterna. I II 2738 (Colonia Claudia Aequum, Dalmatia) :

Cornelia Feroci/la et Coelia Oclatia Coeliae Marcellae def(unctae) ann. XXXV mater et matertera filiae infelicissime et obsequentissime posue­ runt. Anche qui la defunta è classificata come filia rispetto a mater e matertera (così come in X I I 5866 il defunto era filius per pater e materte­ ra) : ciò che sottolinea ulteriormente la relazione di contiguità che sussiste fra mater e matertera. Ancor più singolare pare il fatto che la defunta (se si deve dar retta all'ordine sintattico) abbia il gentilizio della matertera, e non della mater. Lo stemma pare infatti potersi ricostruire come segue: Cornelia Ferocilla

Coelia

Oclatia

Coelia Marcella 12 III 85 5 1 , 1 2962; VI 1 22 5 1 , 1 4243, 1 1 854; VIII 1 934, 29 1 6, 3434; IX 348 3 ; XII 392 5 ; ecc. 11 III 855 1 ; X 7640; ecc. 14 Cfr. le osservazioni S.G. Harrod, Latin Terms of Endearment and of Family Rela tionship, Princeton 1 903, p. 53, nota 44 : è molto difficile stabilire esattamente il valore di tata nelle iscrizioni, visto che può oscillare fra quello di «padre», «nonno» o semplice «nurse altendant». «Padre» è comunque quello più diffuso.

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Il fatto che le due sorelle abbiano gentilizio differente si può interpretare ipotizzando che l'una sia nata prima del matrimonio da cui è nata l'altra 1 5• Non è del tutto chiaro, però, quel legame di stretta comunanza che l'identità di gentilizio pare stabilire - ricordiamo, in assenza di un padre fra filia e matertera. Sempre dalla medesima località ci proviene un'altra iscrizione del tutto simile alla precedente (lii 2737 ) : Cornelia Ferocilla. Corneliae Ferocillae obsequentissimae jiliae mater et matertera deposuerunt. Anche questa situazione si caratterizza da un lato per l'assenza di una figura maschile, dall'altro per la presenza della matertera accanto alla mater: si noti, ancora una volta, come la defunta riceva la qualifica di filia rispetto ad entrambe le sorelle. E anzi, nell'ipotesi che questa Cornelia Ferocilla sia la stessa dell'iscrizione precedente (o comunque appartenga alla stessa f ami­ glia) ci troveremmo di fronte a una sorta di lignée di materterae: in cui per due volte, consecutivamente, una mater e una matertera si associano per testimoniare il loro affetto a una filia (nel senso di filia e sororis filia, contemporaneamente) nell'ambito di uno stesso gruppo familiare. Cosa che potrebbe lasciar supporre una sorta di "tradizione". Consideriamo ora casi più complessi, cioè iscrizioni in cui la mater­ tera in assenza tanto della figura materna che di quella paterna esaurisce in sé l'intero sistema delle relazioni. Varrà qui la pena di ri­ chiamare la situazione descritta nelle Materterae di Afranio, in cui alla morte della madre (e in chiara assenza di un padre) erano le zie materne che si prendevano cura della parva gnata avuta dalla sorella. I l 4352 (Tarraco) : Clodiae Q. fil. Rufinae Furia Helice avia et Rufina matertera pientissimae. Lo stemma si può ricostruire così (ipotizzando che Furia Helice sia avia materna ) : -

-

Furia

I

[materj

Cloclia

Helice

Rufina

I

Rufina

È singolare che la nipote porti un cognomen, Rufina, che l'avvicina alla matertera. Un caso del tutto analogo è costituito da VI 259 1 3 : Sa­

turnino vixit annis liii mens. Xl d. X Pomponia Saturnina matertera fecit sibi suisq(ue) posterisq(ue) eorum. Il legame onomastico fra il pic­ colo e la propria matertera pare anche qui evidente. Questi due ultimi

casi invitano anzi a riflettere sul fenomeno riscontrato in III 2738, in cui la defunta pare avere il gentilizio della matertera, Coelia. Un caso inte­ ressante è costituito infine da VI 1 1 086 : O. Aemilio Maximo fecit Aemi­

lia Restituta matertera vixit annis IL diebus XXXXI horis V. Aemilia Cupita. v(ixit) a (nnis) XIV d(iebus) XL fecit Aemilia Restituta mater.

1 5 CTr. gli esempi raccolti in Thylander, Études sur /'épigraphie Latine, Lund 1 952, pp. 85 ss. ( 9 1 s.).

Capitolo quarto

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Qui abbiamo la stessa persona contemporaneamente nei due ruoli di mater e di matertera. Lo stemma sarà il seguente:

I

[Aemilia x, matetj

Q. Aemilus

Maximus

Aemilia Restituta

Aemilia Cupita

Aemilia Restituta ha svolto entrambi i suoi doveri (si noti che il ni­ pote è morto quasi a cinquant'anni ! ) . I gentilizi sono sempre quelli ma­ terni, sia per la figlia che per il nipote. Le testimonianze addotte sin qui mostrano qualcosa di più di un generico legame affettivo fra zia e nipote. Appare infatti significativa la comparsa della matertera a fianco di pater o mater in casi in cui uno dei due coniugi sia assente (e allora il defunto è talvolta classificato diretta­ mente come filius o filia), oppure da sola, se entrambi i personaggi prin­ cipali sono fuori scena. Se queste considerazioni sono giuste, pare rie­ mergere da queste scheletriche dizioni una valenza funzionale costante del personaggio matertera, quale ci era già stato testimoniato da altri testi: la fida sostituta. Come le ignote materterae di Afranio, così Pom­ ponia Saturnina, Coelia Oclatia, Aemilia Restituta ecc. ebbero forse il compito di allevare e sostenere fanciulli cui la sorte aveva negato uno o entrambi i genitori. Quell'antica istituzione affettiva, formatasi agli albo­ ri della famiglia romana, trovò negli accidenti cui il nucleo familiare andava necessariamente soggetto l'alimento storico per la sua sopravvi­ venza funzionale. Ci troviamo dunque di fronte a un modello antropologico ben indivi­ duato, e particolarmente saldo. Saldo perché fondato su presupposti og­ gettivi, vorremmo dire: emergenti immediatamente dalle necessità sociali e affettive del gruppo familiare. Non potrebbe infatti spiegarsi su altra base la persistenza di una relazione privilegiata che va ininterrottamente dal mito di Amata alla famiglia in cui visse un personaggio Gallo-Roma­ no al declino dell'impero: Ausonio. Ci riferiamo ovviamente ai Parenta­ lia, un testo prezioso sotto questo rispetto: capita di rado infatti che un poeta senta il bisogno di esplicitare (in una serie di medaglioni epigram­ matici) tutto il sistema di relazioni affettive che lo ha legato ai membri della propria famiglia. Non è qui il luogo di analizzare compiutamente questo complesso intreccio di affetti e di istituzioni: che è comunque degno di analisi che superino l'ottica edificante e un po' parrocchiale con cui certi studiosi vi si sono rivolti 1 6 • Limitiamoci dunque alla descrizione che il poeta fa del proprio raplb Ci pare abbastanza emblematico il lavoro di C. Favez, "Mus. Helv.", 3, 1 946, pp. 1 1 8, ss. Ma cfr. adesso Guastella, I Parentalia come testo antropologico 'cit.; Id., Non sanguine sed vice, "Mat. disc. an. testi class.", 7, 1 982, 1 4 1 ss.

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porto affettivo con le sue due materterae. Ecco le parole che egli dedica alla prima, Aemilia Hilaria (6, 1 ss. ) : Tuque gradu generis matertera, sed vice matris affectu nati commemoranda pio [ .. J Haec, quia uti mater monitis et amore fovebas supremis reddo filius exequiis .

Dunque Aemilia Hilaria lo ha sostenuto con il suo amore e i suoi consigli: come una madre. Ed ecco anche la seconda matertera, Aemilia Dryadia ( 25, 1 ss. ) : Te quoque Dryadiam materteram [ .] germana genitus, prope filius ore pio venerar [ ... ] Discebas in me, matertera, .

.

mater uti fieres

Si noti ancora il ricorrere della parola filius. E soprattutto il singola­ re "apprendistato" della donna, la quale sembra aver svolto presso il piccolo Ausonio la solita funzione di seconda madre e di nutrix in senso generale. 4.3. Un rituale di materterae: la festa di Mater Matuta La relazione materteralsororis filius che ci ha occupato sin qui, ci conduce adesso su un terreno nuovo, e forse inatteso: quello storico-re­ ligioso. Siamo convinti infatti che proprio la figura della zia materna (nelle sue valenze affettive, sociali ecc.) stia alla base di un rito fra i più affascinanti della tradizione romana: ; Matralia, la festa che le donne romane dedicavano a Mater Matuta l'undici di giugno. Sappiamo infatti che, durante questa festa, le donne pregavano non per i figli propri, ma per quelli delle loro sorelle. Ne consegue che esse si rivolgevano alla dea non in qualità di matres, ma in qualità di materterae. Ma vediamo i termini del problema (con la premessa che non di tutte le questioni atti­ nenti al rito potremo occuparci qui) 1 7 • Chi era Mater Matuta 1 8? 17 Me ne sono già occupato in Su alcuni modelli antropologici della Roma più arcai ca, I e I l , "Mat. disc. an. testi cl.", 1 e 2, 1 978 e 1 979 (soprattutto 2, pp. 9 ss.). Di quello studio riproduco qui liberamente alcune parli. Si troveranno là le discussioni più propria­ mente linguistiche sul significalo di Matuta (il suo rapporto con manus. maturus ecc.), che qui non avrebbero avuto ovviamenle spazio. Ed anche un tentativo di interpretazione della «cacciata della schiava» che si faceva durante i Matralia (tentalivo che oggi, se do­ vessi riproporlo, vorrei come minimo riscrivere e ampliare). 1 8 Le due opere più specifiche e importanti dedicate a questo riluale sono tuttora cos1itui1e da M. Halbestadt, Mater Matuta, Frankf. St. z. Rei. und Kuh. d. Antike, 8,

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t . Si tratta di una divinità onorata a Roma sin da antica data, il cui tempio risaliva (secondo le fonti) 19 direttamente all'opera di Servio Tul­ lio; un altro "devoto" della dea fu, come si sa, M. Furio Camilla 20. 2. Essa era particolarmente onorata a Satricum, a sud di Roma. Gli scavi fatti sul luogo ove sorgeva il suo celebre tempio hanno permesso di ricostruire, grosso modo, due fasi diverse 2 1 : l'una risalente (all'in­ circa) al VI-V, l'altra (all'incirca) al IV-III. Di particolare interesse si presenta anzi il contenuto di una delle tre favissae riscoperte, che si fa risalire (probabilmente) al IV secolo. Essa raccoglie da un lato riprodu­ zioni di teste ed altre membra del corpo umano (oggetti ritrovati anche in un'altra cavità votiva nei pressi del tempio, risalente questa ad epo­ ca ancor più antica) ; dall'altro figure femminili sedenti, con un lattante in grembo o al seno. In altre parole, alle tipiche raffigurazioni della "madre" si accompagnano qui oggetti votivi (teste, membra del corpo ecc.) che sono tipici delle divinità che hanno relazione con la salute del corpo umano 22. 3. La Mater Matuta è identificata da Lucrezio con una divinità del­ l'aurora, 5, 656 s . : Tempore item certo roseam Matuta per oras aetheris auroram differt et lumina pandit

(si rammenti del resto l'aggettivo matutfnus). 4. L'epiteto Matuta ricorre anche a proposito di luno (onorata come luno Matuta in un tempio fatto costruire a Roma nel t 94 dal console G. Cornelio Cetego) 2 3 e di Pales (dedica di M. Atilio Regolo nel 1 67 ) 24• Ancora, S. Agostino (Civ. dei 4, 8) ci informa che ai frumentis [ . . . ] maturescentibus presiedeva una dea Matuta. Frankfurt a. M. 1 934; e dalla parte dedicata a questa divinità da G. Radke, Die Gotter Altitaliens, Miinster 1 965, pp. 206 ss. Per ciò che riguarda i rapporti con Fortuna, J. Champeaux, L e culte de la Fortune à Rome et dans le monde Romain, Roma 1 982, pp. 308 ss. 19 Ov. fas. 6, 480; Liv. 5, 1 9 . 20 Liv. 5, 1 9, 6 e 23, 7; Plut. Cam. 5. Su questa relazione "privilegiata" fra Ca millo e Mater Matuta ha scritto molto G. Dumézil, Mythe et Epopée, 3, Paris 1 973, pp. 9 3 ss. (e cfr. Id. Mater Matuta, in Déesses Latines et mythes védiques, Bruxelles 1 956, pp. 9 ss.). 21 Cfr. la messa a punto di Halberstadt, op. cii., pp. 49 ss. ; Radke, op. cii. , p. 207. Nuove ricerche svolte recentemente a Satricum hanno riportato alla luce una iscrizione arcaica di notevole valore storico e linguistico, iscrizione resa pubblica dal dott. Stibbe (cfr. gli Interventi sulla comunicazione di questo studioso fatti da C. de Simone e M. Pallottino, "Quaderni del centro di studio per l'archeologia etrusco italica", I , 1 978, pp. 95 ss.). Vd. soprattutto A. Peruzzi, On the,Satricum lnscription, in "Par. pass.", 33, 1 978, pp. 346 ss.; J.A. De Waele, I templi della Mater Matuta a Satricum, "Med. N ed. Inst. Rom." 8, 1 98 1 . pp. I ss. ; discussione e bibliografia in A. Prosdocimi, Sull'iscrizione di Satricum, "Giom. It. Fil." n.s. 1 5, 1 984, pp. 1 83 ss. 22 Halberstadt, op. cii. , p. 5 1 . 21 Liv. 34, 53, 3 (ma il testo ha fatto diflìcoltà: cfr. 32, 30, IO e il commento di Weissenbom e Miiller ad /oc. ). 24 Schol. Ve11i. geo11i. 3 , I. Cfr. Radke, op. cii. , p. 206.

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5. Dai poeti e dagli scrittori Mater Matuta viene spesso identificata con lno-Leucothea 2 5, la sorella di Semele che fu nutrice e madrina di Dionisio (e, forse, la Eileithya-Leucothea onorata a Pirgi è da identificar­ si con Mater Matuta) 26 • 6. A Roma, essa era festeggiata l'undici di giugno, nella ricorrenza dei Matralia. Con questa festa, si può dire che tocchiamo un po' il cuo­ re del problema. Il rito aveva infatti caratteristiche singolari, tali che hanno da tempo travagliato filologi e storici delle religioni. Ecco le due più significative:

a) le donne che intervenivano al rito pregavano e manifestavano affetto (abbracciandoli) non per .i figli propri, ma per quelli delle loro sorelle 2 7; b) nel tempio veniva fatta entrare una schiava, che poi, percossa, era scacciata via 28• Vediamo ora l'interpretazione più recente ed organica quella propo­ sta da G. Radke 29. Per lui, il significato proprio dell'espressione Mater Matuta è all'incirca questo: la «mater che ha fatto del bene». Ci trove­ remmo infatti alle prese con la radice "'ma- che indica la «bontà», stavol­ ta sotto forma di *ma-tus, aggettivo - omologo a ma-nus: cfr. l'alter­ nanza ple-nus/plé-tus - che dovrebbe significare anch'esso «buono». Da "matus sarebbe stato tratto un verbo, "'matuo, cioè «far del bene», che al participio avrebbe dato appunto matu-tus (cfr. statutus ecc.). So­ lo che qui il participio passato non avrebbe l'usuale valore passivo, ma attivo: dunque matuta «colei che ha fatto del bene». In tal senso la Mater Matuta si riconnetterebbe con la «Heilgottin» del primo strato di =

2 5 Cic. Tusc. I, 28: nat. deor. 3, 48; Ov. fas. 6, 476 ss.; Hyg. fab. 2 e 224; ecc. Cfr. Halberstadt. op. cit .. partic. pp. 65 ss. ; Radke. op. cii .. p. 207. 26 Halberstadt. op. cit. ; Radke. op. cii. 27 Plut. Cam. 5. 2; q. R. 1 7 ; fra/. am. 2 1 (mor. 492 d). Ci troviamo di fronte, qui, a un'incertezza causataci dal linguaggio delle nostre fonti. Plutarco parla sempre di figli twv àbd.qiwv: che potrebbe essere, ovviamente, anche figli «di fratelli». Quanto ad Ovidio (fas. 6, 559 ss.) egli parla genericamente di una alterius prolem in opposizione ai figli propri - per cui le madri adorano la dea. Teoricamente, quindi, le donne dei Matra/ia avrebbero potuto pregare la dea anche per i figli dei propri fratelli (non esclude questa possibilità Dumézil. Mythe et Epopée. cit.. p. 327 nota I ) oltre che sorelle: insomma. avrebbero potuto fungere tanto da materterae (sorelle di madri), quanto da amitae (sorelle di padri). Questa seconda possibilità, però. ci pare assolutamente da respingere. Frazer < The Fasti of Ovid. 4. London 1 929, p. 280, nota 2) ha sottolineato giustamente che il parallelo costante, come si è visto fra Mater Ma tuta e lno Leucothea restringe necessariamente il campo ai soli figli di sorelle: la divinità greca, inf alli, in quanto sorella di Semele, è appunto matertera di Dionisio (Ov. fas. 6, 523; quid petis hinc [ ... ) matertera Bacchi?). Del resto la sollecitudine per i figli della sorella rientra perfenamente nel quadro funzionale della matertera che abbiamo dato sin qui. Mentre quanto vedremo più sotto (pp. 1 1 3 ss.) a proposito di una certa "povertà" di rapporti fra amita e nipote, rende ancor più improbabile che fosse questo il tipo di relazione zia/nipote previsto dai Matralia. 28 Plut. Cam. 5, 2; q.R . 1 6; Ov. fas. 6, 479 ss. Segnalo che su tutto ciò (per quel che concerne, in particolare. le varie posizioni degli studiosi precedenti) si può vedere anche l'ampia Appendice che Dumézil. Mythe et Epopée. cit., p. 305 ss. ha dedicato a Mater Matuta e ai diversi problemi sollevati da questa divinità. E cfr. Bellini. Su alcuni modelli untrof.o/ogici, 2, cit.. pp. 36 ss. 9 Op. cit. , p. 208.

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Satricum (affermazione peraltro singolare, dato che le offerte votive tipi­ che di divinità salutifera stanno anche nel secondo strato, come si è visto) : luno Matuta e Pales Matuta si chiamerebbero così solo perché, in un certo senso, hanno "fatto la grazia" a chi le aveva invocate, conce­ dendo che essi vincessero in guerra. Quanto alla dea madre del secondo strato di Satricum, essa sarebbe solo una «Sonderform», per di più oscu­ rata da reinterpretazioni grecizzanti. Di questa interpretazione, specie da un punto di vista linguistico, ci sarebbero in verità alcuni punti da discutere (come per esempio il fatto che essa debba necessariamente presupporre un participio passato con valore attivo) Jo. A noi basta comunque rilevare che manus/manis vale «mansue­ to», «domestico», «civilizzato» ecc. , non «buono» tout-court J 1 • E quindi l'interpretazione di Radke, che si fonda tutta su manus «buono», non si regge più : potrebbe essere, la Matuta, la «madre che rende mansueti»? Ci si sarà chiesti, poi, che posto occupi in questa ricostruzione il rito dei Matralia (cioè la preghiera per i figli delle sorelle). Esso non ve ne ha nessuno. Per quanto possa apparire strano, almeno a prima vista, studiare una divinità e tacere contemporaneamente sul contesto rituale in cui il suo culto si realizzava, Radke è stato indotto a ciò da una (infelice) ipotesi di H.J. Rose n , che egli ha fatto sua. Vediamo in cosa consiste. Lo studioso anglosassone ricavava da Festa (380 L) che in latino esiste un verbo soro­ riare, indicante il «crescere delle mammelle» nelle fanciulle pubescenti. Immaginava allora una preghiera del tipo: Mater M aiuta, te praecor quae­ soque uti volens propitia sies pueris sororiis nel senso di «pueri che si svi­ luppano, che crescono ecc.», e non di «figliuoli delle sorelle». Le nostre fonti avrebbero insomma frainteso l'aggettivo sororius che (secondo Rose) si sarebbe trovato nella formula : e da tale equivoco sarebbe nata la notizia sulla preghiera e l'abbraccio rivolto ai «figli delle sorelle». Quest'ipotesi rocambolesca è con ogni evidenza inverosimile: ci si fonda solo su di una preghiera inventata. Purtroppo ha invece trovato credito presso i migliori lavori sulla religione romana. Essa non ricorre infatti solo nel libro di Radke, ma anche nella Geschichte del Latte n. Dunque, sono semplicemen­ te le circostanze che ci costringono a dedicare ad essa più tempo di quanto non meriterebbe. In compenso avremo però modo di approfondire un problema antropologico che (seppure abbastanza marginale rispetto alla linea di questo lavoro) contiene in sé numerosi e notevoli motivi di interesse. =

-

10 Radke si richiama qui a quanto egli stesso ha scritto nella Einleitung che apre il suo volume. p. 1 7 . dove raccoglie vari casi di participio passato in lo con valore attivo: cenatus, consideratus. desperatus, iuratus, obstinatus, patratus, potus, pransus. Va considerato però che si tratta di casi riferibili, tutti, a un'azione che resta sul soggetto, ad indicarne uno stato (il soggetto è nella condizione di chi ha pranzato, di chi è disperato ecc.): non così, invece, in miituta. che indica per forza una transitività. Pur ammettendo che l'interpretazione di questa forma. quale la dà Radke, fosse quella giusta, resta il fatto che la dea avrebbe «fatto del bene», necessariamente. a qualcun altro, diverso da lei. 11 Cfr. Bettini, Su alcuni modelli antropologici, I. cit. 32 "Mnem.", n.s. 53, 1 925, pp. 407 ss. e pp. 4 1 3 ss. ; "Cl. Quart.", 28, 1 934, p. 1 56 s. H K. Latte, Romische Religiongeschichte, Miinchen 1 960, p. 97. Contro l'ipotesi di Rose si era già pronunciato Dumézil, Mythe et Epopée, cit., pp. 309 ss. Essa è ancora accettata da M. Torelli. Lavinio e Roma, Roma 1 984, pp. 1 2 5 ss.

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4.4. Sororiarelfratrare (un intermezzo)

Festa ( 380 L) ci riporta questa notizia: Sororiae mammae dicuntur puellarµm, cum primum tumescunt, ut fra­ terculare puerorum. Plautus in Frivolaria d. . . « papillae privolui dicere, soopus est verbi ?.

Nella riduzione di Paolo la glossa compare in questa forma ( 3 8 1 L) : Sororiare mammae dicuntur puellarum, cum primum tumescunt, ut frater­ culare puerorum: Plautus (fr. 85 L) «Tunc papillae primum sororiabant; illud volui/tl dicere, fraterculabant» 34•

Dunque nella Frivolaria plautina qualcuno parlava di papillae che cominciavano appena a fraterculare (o sororiare) : cioè si sviluppavano. Ma perché si usano tali espressioni per indicare questa crescita? L'interpretazione più naturale di queste espressioni parrebbe subito questa: che fraterculare e soriorare siano usati qui per designare il lega­ me di analogia che intercorre fra due cose (due organi del corpo uma­ no) che vengon su rassomigliandosi «come fratelli» (o «come sorel­ le») 3 5 . Al contrario Rose, che intendeva servirsi di sororiare come verbo indicante semplicemente lo «sviluppo» (escludendo cioè il suo contenuto relazionale), era costretto a staccare sororiare da soror. Consultatosi col linguista Whatmough 36, ricorse così ad una radice *suer-, identica a quella del tedesco schwellen e dell'in ese swell. Tale ipotesi è ripresa e perfezionata da Radke (s.v. Sororia) 7 all'incirca in questi termini : in sororia bisognerebbe vedere una reduplicazione della radice *sue/- (ap­ punto «schwellen») secondo un processo del tipo *sue(/)-sul-ia> *so-sol­ ia> *so-rol-ia>sororia : cioè (credo di capire) con caduta di -/- davanti -s-,



34 Come si sarà notato, i due verbi non si susseguono nello stesso ordine in Paolo e in Festo: sororiabant [ . . . ] fraterculabant in Paolo, fraterculabant [ ... ) sororiabant in Festo (per quel so[ che si può ancora leggere). Il metro, senari giambici, non può aiutarci, per­ ché da questo punto di vista s6r6ritibiint e frtitercultibtint sono intercambiabili. A me pa­ re più probabile che sia stato Paolo ad incorrere in una svista: e che perciò abbia ragio ne il Lindsay, nella sua edizione di Plauto (Fragm. 82 ss.), a seguire l'ordine di Festo. Il Leo, al contrario, seguiva quello di Paolo, ma bisogna considerare che usava l'edizione di Festo del Thewrewk, e questo studioso aveva letto meno del Lindsay in ciò che resta di Festo (cioè, non leggeva quel famigerato so[). La cosa, comunque, non ha rilevanza per la nostra analisi. O meglio, l'avrebbe se ci trovassimo di fronte ad uno di quei giochi plautini in cui un termine scherzoso e coniato sul momento (ovverosia linguisticamente "falso") viene sostituito poi da quello proprio ed autentico correggendo il lapsus (cfr. in­ fra il caso di rud. 422, e quel che si dirà). In questo caso la posizione relativa divente­ rebbe automaticamente importante: qual è il primo, cioè la neoformazione (il termine "falso"), e qual è il secondo, quello "buono"? Fortunatamente, come meglio vedremo in seguito, sia fraterculabant che sororiabant sono termini autentici, e non v'è alcun rischio di neoformazioni. Di conseguenza il problema viene a riguardare solo il senso della bat tuta (e lo scorcio di trama che essa lascia intravedere) : ovvero, un problema che riguar da gli editori di Plauto, non noi. 35 Cfr. Emout, Meillet, Dictionnaire étymologique cit., s.v. frater e soror. 36 Cfr. in "Mnem.", cii. 37 Op. cit. , p. 290 s.

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rotacismo di -s- intervocalico e «Femassimilation» d i -r-. . . -1- i n -r-. . . -r-. La ricostruzione è ingegnosa, ma molto artificiale. Specie se si considera che tale radice •suel- non è attestata altrove in latino. Ma, a parte ciò, essa è in profondo contrasto con le tendenze fonetiche proprie di questa lingua. Ammettiamo infatti che il presunto raddoppiamento di •suel- si pre­ sentasse (come vuole Radke) nella forma •suel-sul- : la -l- mediana da­ vanti -s- non sarebbe dovuta cadere, ma se mai assimilare a sé la -s- che seguiva. Cfr. il caso di •vel-se>velle, •col-sum>collum: in generale, la sibilante sorda in latino si assimila ad una -r- o ad una -l- precedenti, probabilmente con un passaggio a sonora 38. In altre parole, si sarebbe se mai avuto un •sollolius, e non •sosolius. Col che cade la possibilità della rotacizzazione di -s- intervocalica (che non è più -s-, tantomeno intervocalica), e della conseguente «Femassimilation» della -l- che segui­ va. Anche su questa assimilazione (che comunque, ripetiamo, non avrebbe mai potuto disporre del contesto fonetico voluto da Radke) ci sarebbe peraltro da ridire. Una sequenza del tipo V r V l V- appare infatti decisamente stabile in latino: si pensi a f e r a l i s, e o r­ p o r a l i s, e u r u l i s ecc. Di più, tale sequenza è tanto poco instabi­ le da costituire essa stessa il risultato di dissimilazioni, del tipo Parilia