Antonio Gramsci. L'uomo filosofo. Appunti per una biografia intellettuale 8898692641, 9788898692644

Nella figura di Antonio Gramsci convivono esigenze e prospettive differenti, ma l'insieme della sua produzione teor

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Antonio Gramsci. L'uomo filosofo. Appunti per una biografia intellettuale
 8898692641, 9788898692644

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Politica e società

Aipsa Edizioni

Antonio Gramsci L’uomo filosofo Appunti per una biografia intellettuale

Gianni Fresu

Così la lotta politica diventa una serie di fatti personali tra chi la sa lunga, avendo il diavolo nell’ampolla, e chi è preso in giro dai propri dirigenti e non vuole convincersene per la sua inguaribile buaggine. (A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, p. 1597)

A Sergio Manes

Nota introduttiva

Il lavoro che segue è il frutto di una lunga e articolata gestazione, la sintesi dei miei studi e delle mie precedenti pubblicazioni sulla figura di Antonio Gramsci. La prima monografia da me realizzata risale al 2005, Il diavolo nell’ampolla: Antonio Gramsci, gli intellettuali e il partito, pubblicata dalla casa editrice La città del sole con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici. Insieme all’editore Sergio Manes discutemmo di una ipotetica nuova edizione del volume nella primavera del 2011, ma la semplice rilettura, inizialmente finalizzata a correggere diversi refusi, migliorare la forma e approfondire meglio alcuni concetti presto si trasformò in una esigenza diversa. Dopo tanti anni, s’impose la necessità di un progetto nuovo in grado di offrire una visione d’insieme più ampia, organica e completa tanto del processo di formazione intellettuale quanto delle principali categorie analitiche elaborate dal pensatore sardo. Nonostante i propositi, quel libro rimase solo un’idea, io stesso rivolsi le mie attenzioni successive alla pubblicazione di una monografia su Eugenio Curiel e nel 2014 mi trasferii a vivere e lavorare in Brasile, dedicandomi ad altre pubblicazioni in lingua portoghese. Nel 2017, inaspettata, sopraggiunse la triste notizia della prematura scomparsa di Sergio. Tuttavia, il desiderio di pubblicare un lavoro più sistematico su Gramsci non venne meno, alimentato dalle esperienze inedite della mia nuova vita in una realtà diversa come il Brasile, segnata da tante contraddizioni, ma anche ricca di fermenti culturali e politici vitali, nella quale l’interesse attorno all’opera gramsciana trova una diffusione assolutamente unica nel panorama internazionale. La mai interrotta collaborazione con il “GramsciLab”, in particolare la realizzazione di due cicli di seminari per gli studenti dell’Università di Cagliari, rafforzarono quell’esigenza, portandomi finalmente a rielaborare note e riflessioni raccolte nel tempo. Ringrazio l’Aipsa, ossia, Annamaria Baldussi, Patrizia Manduchi e Giuseppe Mocci che, con la loro professionalità editoriale e scientifica, rendono possibile la realizzazione di un obiettivo a lungo inseguito, aiutandomi a onorare l’impegno assunto con il mio grande amico Sergio al quale questo volume è dedicato.

INDICE Nota introduttiva di Gianni Fresu. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Saggio introduttivo di Stefano G. Azzarà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 Prefazione di Marcos Del Roio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 PRIMA PARTE

il giovane rivoluzionario. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

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Le premesse di un discorso ininterrotto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 Dialettica versus positivismo: la formazione filosofica del giovane Gramsci . . 40 Autoeducazione e autonomia dei “produttori”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55 Lenin e l’attualità della rivoluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67 L’Ordine Nuovo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83 Genesi e sconfitta della rivoluzione italiana. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 Il problema del partito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 Riflusso rivoluzionario e offensiva reazionaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113

SECONDA PARTE Il dirigente politico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Il Partito nuovo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129 Il Comintern e “il caso italiano”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144 Verso una nuova maggioranza. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174 Gramsci alla guida del Partito. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188 La maturazione teorica tra il 1925 e il 1926. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197 Il Congresso di Lione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 204

TERZA PARTE il teorico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219 1. Dalle contraddizioni della Sardegna alla questione meridionale. . . . . . . . . . 221 2. I Quaderni: l’avvio tormentato di un lavoro “disinteressato” . . . . . . . . . . . . 247 3. Relazioni egemoniche, rapporti produttivi e subalterni. . . . . . . . . . . . . . . . . 253 4. Il trasformismo permanente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 264 5. Premesse storiche e limiti congeniti della nostra biografia nazionale. . . . . . 279 6. «Il vecchio muore e il nuovo non può nascere». . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 295 7. La doppia revisione del marxismo e i punti di contatto con Lukács . . . . . . . 308 8. Traducibilità ed egemonia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 330 9. L’uomo filosofo e il gorilla ammaestrato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 346 10. Michels, gli intellettuali e il problema dell’organizzazione. . . . . . . . . . . . . . . 362 11. Lo sconvolgimento dei vecchi schemi dell’arte politica. . . . . . . . . . . . . . . . . 378 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 391 Bibliografia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 395

Antonio Gramsci: il marxismo di fronte alla modernità Stefano G. Azzarà, Università di Urbino

Nell’Italia ancora pesantemente egemonizzata dal conservatorismo cattolico e dalle posizioni reazionarie del Sillabo – e nella quale sembrava inattaccabile il dominio non meno reazionario che il blocco tra le vecchie classi dirigenti aristocratiche, la borghesia del Nord e gli agrari meridionali esercitava sulla società e l’apparato statale –, l’incontro con le idee di Hegel, rielaborate da Croce e Gentile anche sulla scorta dei fratelli Spaventa, aveva costituito per il giovane Gramsci un vero e proprio ingresso nella modernità. Un primo approccio al tema della libertà moderna, si può dire, e della sua pratica tutta mondana: la presa di coscienza della capacità degli uomini di fare la storia e dunque anche della possibilità di un superamento dell’antico regime sul piano politico e sociale. Il confronto con due autori che erano sì di orientamento liberale ma si collocavano comunque all’avanguardia della cultura europea doveva rivelarsi in questo senso assai fecondo, soprattutto a fronte delle pesanti zavorre positivistiche che spesso minavano alle fondamenta l’elaborazione politica del Partito Socialista inceppandone l’azione tra le masse (pensiamo soprattutto agli stereotipi naturalistici con cui veniva affrontata la questione meridionale). Proprio l’accortezza politica desunta dalla lezione hegeliana, oltre che una concezione universalistica della cultura legata all’idea di spirito assoluto, aveva consentito del resto in quegli anni a Croce di sfuggire a ogni tentazione di metafisicizzazione della Prima guerra mondiale, quella «inutile strage» – persino i cattolici si erano dimostrati in questo senso più avanzati di tanti altri settori politici! – che negli stessi anni veniva invece trasfigurata in termini di scontro di civiltà o di religioni da gran parte degli intellettuali europei (pensiamo all’impegno di agitazione e propaganda esercitato anche da personalità eminenti come Weber e Husserl in Germania o da Bergson e Boutroux in Francia). Questo realismo, tuttavia, non aveva impedito al grande filosofo di associarsi alla causa dell’imperialismo italiano e di salutare nella catastrofe europea un’occasione benefica che, contribuendo a superare le divisioni

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zionali prodotte dal socialismo e dalla lotta di classe e proiettando all’esterno il conflitto sociale, avrebbe favorito la rigenerazione del paese portando a conclusione il Risorgimento. Né gli aveva impedito di ribadire anche in questa circostanza il ruolo perennemente subalterno delle classi lavoratrici, configurate come carne da macello da sacrificare in nome della nuova potenza della nazione e del suo diritto ad ottenere un “posto al sole” al pari degli altri più importanti paesi europei. Allo stesso modo, l’ispirazione hegeliana – drasticamente ridimensionata, tra l’altro, a partire dalla teoria della distinzione nell’ambito della dinamica dello spirito – non gli impedirà, al momento della crisi del liberalismo italiano e dell’avvento del fascismo, di prendere le distanze dallo stesso liberalismo “democratico”, gravato a suo avviso dalla deleteria influenza delle idee astratte del 1789 e dei suoi ingenui principi universalistici, e di simpatizzare almeno per un tratto per la dittatura, intesa come garanzia della stabilità sociale e del diritto di proprietà e (ancora una volta) come argine nei confronti del socialismo. Netta sarà a quel punto la rottura di Gramsci con il neoidealismo italiano. Se l’attivismo di Gentile verrà rifiutato come una forma di fichtismo che retrocede al di qua della categoria hegeliana di contraddizione oggettiva, un ultrasoggettivismo vuoto e pronto a sussumere e idealizzare sotto il concetto di atto puro ogni forma di prassi (in primo luogo quella della mobilitazione totale e della guerra), nemmeno il liberalismo di Croce aveva infatti assimilato fino in fondo quel concetto universale di uomo senza il quale non era possibile pensare la comune dignità umana delle classi subalterne ma anche dei popoli coloniali. Il liberalismo, in questa prospettiva, aveva anzi in qualche modo tradito quella stessa cultura della quale pretendeva di essere erede. Ed era semmai il marxismo, a quel punto, a presentarsi per Gramsci (ma anche per Togliatti) come il prosecutore di quei momenti migliori della tradizione occidentale – in primo luogo la Rivoluzione francese ma ancor prima la modernità in quanto tale nella sua natura sostanziale di progresso – alla cui altezza i liberali non erano stati in grado di mantenersi. È in quel momento che per Gramsci l’idea di comunismo comincia a identificarsi con l’idea di universalità. Ed è a partire dalla resa dei conti con il nucleo più profondo del liberalismo che il marxismo comincia a intrecciarsi per lui con il proposito di portare a compimento quei molteplici processi di emancipazione che la borghesia aveva inaugurato ma che il liberalismo ha lasciato a metà strada.

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Quale marxismo, però? È noto che la II Internazionale aveva giudicato la rivoluzione d’Ottobre dal punto di vista di un marxismo dogmatico e presunto “ortodosso” e l’aveva condannata come una forzatura volontaristica avvenuta in un paese ancora largamente feudale e arretrato. In Russia sembravano mancare del tutto le condizioni di maturità per il passaggio al socialismo, un assetto sociale che presupponeva invece il compiuto dispiegamento della società borghese-capitalistica e un immenso sviluppo delle forze produttive. Nel definire il 1917 come una «rivoluzione contro Il capitale» e nel riconoscerne la piena legittimità politica, Gramsci prenderà invece le distanze da ogni lettura evoluzionistica e meccanicistica del processo rivoluzionario, denunciando l’economicismo e il materialismo volgare dei dirigenti socialisti ma facendo valere in parte l’esperienza di Lenin anche contro lo stesso Marx. Anche nel lascito marxiano, infatti, è spesso presente una teoria semplificata della rivoluzione che guarda principalmente o esclusivamente all’accumularsi delle contraddizioni in ambito economico nei paesi industrializzati europei. In altri momenti, invece, Marx si è mostrato molto più attento alla natura complessa del processo rivoluzionario e lo ha presentato come un intreccio di lunga durata tra l’economia e componenti di tipo politico, come la guerra o l’oppressione nazionale. Tra le condizioni economiche oggettive e le condizioni soggettive e politiche della rivoluzione, in questo senso, non sempre e necessariamente esiste una sincronia assoluta. E la componente politica può perciò rendere realistico l’innesco di un processo rivoluzionario di lunga durata anche in paesi più arretrati come la Germania o persino in colonie come l’Irlanda, a partire da specifiche peculiarità nazionali che comprendono anche le tradizioni storiche e culturali di un determinato popolo. Come – per quanto possa sembrare paradossale – la persistenza di un forte sentimento religioso che si identifica con la causa dell’autodeterminazione. Siamo al secondo incontro decisivo nella formazione di Gramsci. È proprio a questa visione più complessa del marxismo, infatti, che il leninismo dà attualità nel momento in cui scopre la centralità della situazione concreta e dunque il carattere peculiare del processo rivoluzionario. Un processo che si presenta sempre come una negazione determinata, legata cioè alle particolari condizioni storiche di un paese e ai rapporti di forza in esso vigenti, e che non può che essere legato alla specificità di ciascuna questione nazionale (laddove il trotzkismo, con la sua teoria della rivoluzione permanente e della necessità di esportare il socialismo per garantire la salvezza dello stesso

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Ottobre, finiva con il ricadere su posizioni economicistiche, mensceviche e ancora eurocentriche). Se una rigorosa comprensione delle condizioni oggettive si imponeva ai dirigenti rivoluzionari in Russia, tanto più secondo Gramsci essa si imponeva però ai comunisti nei paesi d’Occidente, dove la rivoluzione, sebbene potesse contare su una maturità economica più accentuata e sullo sviluppo di un proletariato industriale, doveva necessariamente fare i conti con una società civile molto più articolata e un blocco dominante molto più forte e ideologicamente attrattivo. La rivoluzione si configurava perciò nell’Europa industriale avanzata non come una guerra di movimento volta ad attaccare frontalmente le roccaforti del potere ma come una lunga e faticosa guerra di posizione che, di trincea in trincea, di casamatta in casamatta, avrebbe dovuto avvolgere pian piano la società in una fitta rete di contropoteri. Soprattutto, attraverso il lavoro dei propri intellettuali organici, la rivoluzione avrebbe dovuto espugnare dall’interno l’ordine borghese attraverso una sottile operazione egemonica e culturale, elevando progressivamente la coscienza delle classi lavoratrici ma conquistando anche a poco a poco il consenso della stessa borghesia nazionale. È per questo che il partito della classe operaia, in Occidente ancor più che in Russia, oltre a dotarsi di un’organizzazione capillare ed efficace, avrebbe dovuto presentarsi come una classe dirigente nazionale e adeguare la propria prassi alla situazione specifica di ciascun paese, senza contare su un modello di rivoluzione passepartout. Come sarebbe in effetti avvenuto nel corso della guerra di liberazione dal nazifascismo, cioè, esso avrebbe dovuto farsi carico dell’interesse generale della nazione e della sua autodeterminazione nel momento stesso in cui si poneva l’obiettivo di trasformarne gli assetti politico-sociali: la questione sociale coincideva a questo punto con la questione nazionale nella stessa misura in cui la questione nazionale coincideva con la questione sociale. Ma il marxismo di Gramsci sarebbe arrivato ben presto a distinguersi da quello dei suoi contemporanei anche per altri aspetti essenziali. Già Marx ed Engels, ad esempio, avevano avanzato in alcuni momenti l’idea di un’imminente e inevitabile crisi del capitalismo e di una conseguente decadenza della borghesia, sia sul piano politico che su quello ideologico. Secondo questa tesi, terminata la sua fase rivoluzionaria, dopo il 1848 la borghesia europea era divenuta del tutto incapace non solo di portare avanti il processo di democratizzazione e di mantenersi alla testa del progresso storico ma anche di

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agire in maniera efficace sul terreno politico, perché per contrastare l’ormai maturo soggetto antagonista proletario si era arroccata su posizioni univocamente conservatrici perdendo ogni potenza creativa. Anche in questo caso siamo chiaramente in presenza di una concezione meccanicistica e economicistica della storia e di una versione assai limitata della teoria della rivoluzione. Nel marxismo della II Internazionale, essa si legherà a una lettura esasperata della tesi marxiana della caduta del saggio di profitto e diventerà in maniera quasi consequenziale l’annuncio messianico dell’inevitabile superamento del sistema capitalistico e dell’imminente rivoluzione socialista, di fronte ad una borghesia ormai sostanzialmente morta e priva di soluzioni politiche innovative. Se questa visione del conflitto tra borghesia e proletariato sarà ancora largamente presente nell’ottimismo rivoluzionario dei primi anni della III Internazionale, nulla di tutto questo, invece, possiamo leggere in Gramsci. Il quale non solo, come abbiamo visto, si è formato in un corpo a corpo costante con il pensiero filosofico più raffinato della propria epoca ma è stato costretto dalla situazione storica a confrontarsi con la sconfitta dei tentativi di rivoluzione in Occidente e ha dovuto fare esperienza sulla propria pelle della riscossa delle classi dominanti attraverso il fascismo e della vittoria di fase del capitalismo. E ben aveva appreso, dunque, quanto viva e vitale – oltre che pericolosa – potesse ancora essere la borghesia e quanto complicata e lontana fosse la prospettiva della transizione sociale. Proprio in questo contesto va collocata la celebre teoria della rivoluzione passiva, attraverso la quale Gramsci ha riconosciuto la forza ancora intatta e la persistente vitalità della borghesia europea. Una classe che bisogna certamente combattere ma dalla quale – pensiamo alle tesi di Americanismo e fordismo – è pur sempre necessario che le classi lavoratrici continuino a imparare, visto che essa non solo riesce ancora a riaffermarsi come classe dominante attraverso una capillare influenza egemonica ma riesce anche a modernizzare le società capitalistiche. Misuriamo qui l’originalità e la genialità di Gramsci. Nell’Europa di quegli anni, l’esperienza tragica della guerra mondiale aveva messo in evidenza tutto l’orrore che è inevitabilmente connesso alla società borghese giunta alla sua fase imperialistica; e l’avvento del fascismo e del nazionalsocialismo e in seguito l’ancor più grave disastro della Seconda guerra mondiale rafforzeranno ancor di più questa convinzione. Ecco che nel marxismo del XX secolo viene improvvisamente a saltare il delicato equilibrio marxiano

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tra critica e riconoscimento della modernità. Ecco che la storia del mondo moderno, che Marx ed Engels avevano descritto nel Manifesto con accenti di ammirazione per le propensioni progressive della borghesia, comincia ad essere vista sempre più come la preparazione diretta di questa catena di tragedie. E sempre maggiore spazio troveranno nel movimento socialista quelle posizioni ambigue e antimoderne che Marx aveva già criticato in Bakunin e nella tradizione anarchica. Tutto il passato della civiltà è ora per questa impostazione una morta negatività, un unico accumulo di orrori e sopraffazioni del quale nulla c’è da salvare né da ereditare. La stessa storia culturale dell’Europa viene letta «come un delirio e una follia», qualcosa di «“irrazionale” e “mostruoso”», secondo ciò che si configura – sono parole celebri – come un «trattato storico di teratologia». È una negazione astratta e indeterminata della modernità, come si può vedere, della quale si pretende ora un superamento totale e palingenetico: ne deriva il diffondersi di posizioni che distorceranno sempre più il marxismo in chiave messianica e interpreteranno la rivoluzione socialista come un vero e proprio azzeramento della storia, al fine di condurre l’umanità fuori da questa catastrofe. Piuttosto che compreso criticamente, il mondo moderno deve essere anzitutto condannato in toto e poi redento, attraverso la violenza purificatrice rivoluzionaria e l’edificazione di un mondo radicalmente nuovo e diverso, che instauri magicamente sulla terra il regno comunista della felicità e dell’abbondanza. E proprio a questa lettura populista della storia e a questa concezione religiosa e utopistica del marxismo è legata la pretesa, egemone anzitutto nel cosiddetto marxismo occidentale, di leggere il comunismo stesso come un Nuovo Inizio, come la plenitudo temporum che trasfigura integralmente il volto del reale: è la pretesa di una totale sovversione della società borghese che si propone di eliminare nella società senza classi lo Stato e il mercato, i confini e le tradizioni nazionali, le religioni e ogni forma giuridica. Tutto al contrario, in tanto può essere netta da parte di Gramsci la contestazione di questa visione caricaturale della storia e del ruolo della borghesia, in quanto rimane fermo nel suo approccio il riconoscimento, seppur critico, della modernità come epoca dell’emancipazione e della libertà individuale. Porsi il problema dell’eredità dei punti alti di questa storia significa perciò rinunciare a priori a ogni infantile utopismo e recuperare la concretezza della prospettiva filosofica e storico-politica hegeliana intendendo il comunismo non come l’annientamento ma come il reale compimento della modernità.

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Significa dunque, in primo luogo, riconoscere il ruolo dello Stato come forma dell’universalità: una forma che non è ancora sostanza ma che non è nemmeno il nulla e che dunque immette già nella società borghese quegli elementi di regolazione di cui anche il proletariato ha dovuto e saputo avvalersi nel corso della propria lotta (dalle leggi che riducono l’orario di lavoro sino a quelle che sanciscono il progressivo allargamento del suffragio). Bisogna allora certamente svelare in maniera impietosa il ruolo dell’apparato repressivo statale, il quale in situazioni di crisi può arrivare a irreggimentare la società civile in forme onnipervasive, trascinandola nella mobilitazione totale sino a sfociare nella dittatura e nella guerra. Non va però dimenticato che, assieme alla funzione di controllo delle classi subalterne in nome del dominio borghese, lo Stato – al contrario di quanti nel movimento marxista contrappongono libertas maior e libertas minor, diritti economici e sociali e diritti formali – non è solo una macchina di dominazione sociale ma svolge anche un’essenziale funzione di garanzia reciproca per coloro che sono ammessi alla cittadinanza. E che può farlo proprio a partire da quel principio di limitazione del potere che è il frutto migliore del pensiero liberale e che il socialismo deve saper fare proprio. Ecco che il socialismo, lungi dal presentarsi come l’utopia armonica di un mondo privo di conflitti e contraddizioni, si rivela per Gramsci come un complesso processo di transizione che si dispiega su tempi lunghi e che approda infine – come più volte ha ricordato Domenico Losurdo – alla «società regolata»: a una società costruita su basi razionali nella quale il legame solidale tra gli uomini è garantito da una serie di regole e procedure che non rinnegano ma semmai universalizzano le conquiste della modernità, della sua cultura e della sua filosofia. Una società che non pretende di superare in un colpo solo la moneta, il valore di scambio e ogni forma di divisione del lavoro ma che, attraverso la sperimentazione pragmatica di forme economico-sociali inevitabilmente ibride e “impure” (come la coeva NEP leniniana) approda alla costruzione di un mercato socialista equo ed efficiente. Di una società, infine, che non pretende di cancellare i confini, le identità nazionali, le tradizioni anche religiose dei popoli in nome della repubblica mondiale dei soviet o dell’ateismo di Stato ma sa tener conto delle differenze particolari e sa valorizzarle in chiave cooperativa. Prevenendo al contempo ogni egemonismo e ogni forma di sciovinismo sociale attraverso quell’universale concreto che è l’internazionalismo rettamente inteso.

Prefazione

Analizzando la parabola degli intellettuali italiani Gramsci individua l’origine della loro natura cosmopolita nella sopravvivenza di una visione e cultura risalente ai tempi dell’Impero Romano, conservatasi sino al medioevo grazie all’universalismo della Chiesa. Machiavelli viaggiò in Francia e in Polonia, non rimanendo schiacciato dalla dimensione corporativo-municipale, e colse alcune contraddizioni centrali fino ad anticipare diversi temi cari a Gramsci, come quelli sull’intellettuale nazional-popolare. Contemporaneo di Machiavelli fu Leonardo da Vinci, forse l’espressione più completa della universalità del genere umano, sebbene il genio toscano avesse abbandonato l’Italia per la Francia solo nei suoi ultimi anni di vita. Ciò che entrambi elaborarono e progettarono non si realizzò: l’Italia non si unificò con il protagonismo del popolo e degli intellettuali, né il concetto di universalità umana dell’uomo universale italiano si concretizzò. La sconfitta di questi fermenti fu pagata a caro prezzo, e la penisola si trovò soggiogata per secoli dalla dittatura terroristica della controriforma cattolica e dal dominio straniero. Il cosiddetto Risorgimento fu ben lontano dal determinare il superamento di questo mancato sviluppo. La Chiesa arretrò, ma non fu sconfitta, l’ideologia della classe dominante si ricompose intorno a una nuova religione laica, il liberalismo; l’Italia continuò a rimanere divisa, trovando nella colonizzazione del Sud da parte del Nord una esplosiva questione nazionale. Il giacobinismo francese non trovò traduzione in Italia, sebbene Machiavelli sia stato il primo precursore della prospettiva politica fondata sulla necessità di organizzare e dare una direzione nazionale alla “volontà popolare”. Uno dei risultati di questo doppio fallimento furono i massicci flussi migratori di lavoratori italiani verso gli USA, l’Argentina, il Brasile. Il vecchio cosmopolitismo degli intellettuali assunse un nuovo significato sociale, divenendo quello delle masse lavoratrici! Come per Sisifo, la missione continuò sfidando l’ingegno e la volontà, ma dove trovare le armi teoriche capaci di dare inizio a una nuova battaglia? Era

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necessario “tradurre” l’intuizione di Machiavelli nel contesto nuovo del XX secolo, affrontando tutte le contraddizioni del Risorgimento, non solo per completare quanto non fu realizzato, ma per fondare una nuova “civiltà”. Le armi necessarie a un così impegnativo compito erano nelle mani dell’erede della filosofia classica tedesca: il proletariato. L’opera di Hegel e quella di Marx rappresentavano il suo equipaggiamento più formidabile. La filosofia e la complessità teorica erano imprescindibili affinché la contraddizione tra senso comune e scienza potesse essere sanata, dando vita a una nuova filosofia della praxis che evitasse il ripetersi della stessa frattura che caratterizzò il mancato rapporto di organicità tra Rinascimento e Riforma nel XVI secolo. Gramsci, sin dalla sua giovinezza, ricercò nella dialettica la chiave interpretativa necessaria alla comprensione della realtà, per interpretare e concretamente trasformare il mondo. Al di là di Machiavelli, trovò nella cultura italiana alcuni punti di riferimento teorici importanti nella definizione del suo percorso intellettuale. In Vico, De Sanctis, Croce, Antonio Gramsci trovò gli elementi essenziali di ciò che diventerà la sua filosofia, attorno alla costruzione dell’uomo filosofo, con un bagaglio culturale impreziosito dal pensiero di figure come Machiavelli e Leonardo. Il libro di Gianni Fresu muove dalla centralità della dialettica come strumento di lotta contro il determinismo e l’intrusione positivista nel marxismo e nel partito socialista in cui Gramsci decise di militare. Il dibattito di fine secolo, successivo alla morte di Engels (1895), segnato dal confronto serrato tra la proposta revisionista di Bernstein e la difesa dell’ortodossia agli scritti di Marx, consolidò il “marxismo” al suono della dialettica. Tuttavia, la lettura che si fece dei suoi lavori (quelli conosciuti al tempo) finì con l’essere mediata (e dunque travisata) dalle principali concezioni dell’alta cultura borghese del tempo, il neokantismo (da Bernstein a Bauer) e il positivismo di Karl Kautsky. In Italia, il dibattito sulla “crisi del marxismo” coinvolse il neoidealismo italiano, che cercava un riscatto dalla filosofia classica tedesca, ma richiamò pure le riflessioni di Georges Sorel e Antonio Labriola. La traiettoria filosofica di Gramsci passò attraverso un intenso dibattito culturale, fino a raggiungere il definitivo superamento dialettico di tutte le sue iniziali influenze giovanili. Nei Quaderni Croce divenne il principale avversario, mentre Labriola assunse il ruolo di riferimento più importante per lo sviluppo del comunismo critico. Il positivismo, tuttavia, rimase un suo bersaglio privilegiato,

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do ora nella concezione di Bucharin – il più importante teorico della Nuova Politica Economica sovietica – una nuova manifestazione antidialettica del determinismo contro cui Gramsci rivolse le sue critiche più incisive. La guerra e la Rivoluzione russa crearono nuove condizioni per il suo impegno militante: nel 1917 iniziò la sua attività di dirigente politico, ma in Gramsci politica e cultura sono concepiti organicamente, come elementi forti e dialetticamente intrecciati all’interno di una visione del mondo unitaria. Ispirato dall’Ottobre russo, dalle esperienze dei consigli operai, dal progressivo studio dell’opera di Lenin, Gramsci approfondì le sue riflessioni sui temi dell’autonomia, dell’autoeducazione e dell’autogoverno dei lavoratori. Una teoria dell’azione politica e culturale che doveva essere verificata e inverata attraverso lo sviluppo magmatico della lotta di classe a Torino in quegli anni. L’elaborazione del settimanale L’Ordine Nuovo, unitamente all’esperienza dei Consigli di fabbrica, furono un laboratorio ricchissimo per gettare le basi di una radicale riorganizzazione della produzione a partire dalla democrazia dei produttori e dalla elevazione culturale delle grandi masse. La sconfitta del movimento popolare per la democrazia consiliare obbligò Gramsci a dedicarsi con maggior attenzione ai problemi del partito e alla questione nazionale con le sue connessioni internazionali. Si trattò di una battaglia lunga e complessa, all’interno della quale Gramsci prese coscienza di quanto fosse limitata regionalmente la forza del gruppo comunista torinese, del ruolo propulsivo svolto da Bordiga nella realizzazione della costruzione del nuovo partito, dei limiti di comprensione della situazione italiana da parte dell’Internazionale comunista. Il tutto in un quadro segnato dall’offensiva reazionaria e dall’emersione del fenomeno fascista, da subito interpretato come un movimento di combattimento e difesa dell’ordine tradizionale lanciato contro il movimento operaio e contadino. Gramsci riuscì a cambiare gli indirizzi del PCd’I, assumendone la direzione, dopo aver sottratto il gruppo torinese all’influenza di Bordiga e grazie all’appoggio di altri settori del partito solo dopo un lungo lavoro politico. L’appoggio diretto dell’Internazionale comunista fu decisivo, così come la disarticolazione della direzione di Bordiga, resa possibile anche dall’offensiva repressiva scatenata dal regime fascista contro il suo partito. Gianni Fresu ricostruisce questo intricato labirinto politico con precisione, ma, cosa ancora più importante, rintraccia in esso la progressiva maturazione teorica di Gramsci sul partito e sulla rivoluzione socialista in Italia.

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La “traduzione” di Lenin è evidente: Gramsci contestualizza il grande tema della questione agraria alle condizioni dell’Italia nella prospettiva della costruzione di un nuovo blocco sociale operaio-contadino, contrapposto al “blocco storico” conservatore, e di un partito capace di educare le masse popolari alimentando la loro funzione dirigente attraverso le lotte e l’esperienza pratica. Secondo Gramsci, l’alleanza politica tra operai e contadini necessitava di un corrispondente rapporto di organicità sul piano culturale, dunque di un’alleanza tra comunisti e intellettuali interessati a trovare una soluzione progressiva della questione meridionale e a rappresentare gli interessi delle masse contadine. La maturazione intellettuale di Gramsci avvenne nel vivo della militanza e direzione politica nel Comintern e nel partito italiano. Questo processo di crescita fu bruscamente arrestato dalla carcerazione nel novembre del 1926. Ma si trattò di una interruzione temporanea, perché, sebbene privato della libertà e della stessa carta per scrivere, il suo cervello rimase attivo e impegnato nella comprensione del movimento del reale. Quando ottenne l’autorizzazione all’accesso di penna e carta, Gramsci iniziò la redazione dei Quaderni del carcere, nelle cui pagine, come ben dimostrato da Gianni Fresu, si rivela nella sua interezza la profondità della sua dimensione teorica. Fresu affronta i Quaderni spiegando la concatenazione dei temi trattati nel carcere e la loro continuità con alcune delle questioni indicate all’inizio di questa prefazione, interpretando in maniera corretta e coerente il lascito gramsciano. La questione meridionale, argomento sul quale Gramsci stava lavorando al momento dell’arresto, è analizzata ampiamente nei Quaderni dove le relazioni squilibrate tra Nord e Sud, ma pure quelle tra Occidente e Oriente, sono spiegate con profondità e più direzioni analitiche. A partire da queste contraddizioni egli sviluppa i problemi dei subalterni e della subalternità, arrivando a trattare il tema degli intellettuali e quello della “rivoluzione passiva” come chiave interpretativa del Risorgimento. Gramsci scrive i Quaderni essendo un prigioniero del Fascismo, e questo dato basta a dimostrare l’enorme sconfitta subita dal movimento nazionale e internazionale nel quale egli militava. Il fallimento era avvenuto già nel 1921, tuttavia, il Comintern e il PCd’I s’attardavano su una lettura autoindulgente della fase e delle prospettive future, considerando la situazione ancora

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zionaria. Contrariamente a ogni ottimismo facilone, nei Quaderni, Gramsci chiarì pienamente la portata storica della sconfitta subita dal movimento rivoluzionario. Il suo programma di studio era finalizzato a comprendere le ragioni di una simile catastrofe, le sue riflessioni chiarirono le cupe prospettive verso cui si indirizzava l’umanità e, allo stesso tempo, quali sfide era opportuno vincere per rilanciare il tema della rivoluzione in Occidente. Era necessario comprendere il Fascismo, le sue tendenze e le sue contraddizioni, il suo significato storico come una particolare forma di rivoluzione passiva. Il capitalismo viveva una condizione di profonda crisi, ma non era una “crisi finale”, al contrario l’americanismo fordismo mostrava un cammino sontuoso di espansione capitalistica, con la creazione di una nuova classe operaia, di un nuovo processo produttivo e di divisione del lavoro plasmato sulle nuove esigenze di razionalizzazione tecnica e sociale. La crisi del 1929 fu un fortissimo scuotimento dei suoi fondamentali, senza dubbio, ma, ciò nonostante, al collasso seguì un lungo periodo di espansione favorito, ovviamente, dalle esigenze di ricostruzione imposte al mondo dalla devastazione di quella guerra di cui Gramsci ebbe modo di intuire le premesse e la inevitabilità. Affrontare senza remore i limiti di questo mondo sarebbe essenziale, così come Gramsci analizzò criticamente i suoi avversari: le incrostazioni positiviste del marxismo e il liberalismo crociano. L’economicismo, il determinismo, soffocarono l’eredità di Marx, occorreva riscattarla dal meccanicismo attraverso la valorizzazione della dialettica. L’azione politica di chi si richiamava a Marx dipendeva strettamente da quest’azione di chiarificazione intellettuale, ma anche dal lavoro teso a comprendere e riconoscere le contraddizioni e gli effetti paralizzanti del senso comune, come punto di partenza del progresso intellettuale delle masse popolari. Le possibilità di sviluppo di un “moderno principe” erano intimamente connesse alla capacità di autoeducazione del mondo del lavoro e dei gruppi subalterni, liberati dai condizionamenti provenienti dalla cultura dominante. In questo processo Gramsci individua i punti di riferimento di una nuova egemonia popolare alternativa a quella borghese: la filosofia della praxis sarebbe in tal senso una forma autonoma di apprendimento e conoscenza del mondo, interessata a riunificare teoria e pratica in modo da poter affermare che tutti gli uomini sono filosofi.

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Questo intrigante libro di Gianni Fresu, che chi legge si prepara ad assaporare, tratta di tutti i temi abbozzati sinteticamente in questa prefazione. Alla fine, il lettore avrà sicuramente una maggior chiarezza della traiettoria intellettuale di Gramsci, sebbene nemmeno a questo lavoro è possibile chiedere l’impossibile, ossia affrontare tutti i problemi di elevata complessità teorica lasciatici in eredità dall’Uomo filosofo della Sardegna.

Marcos Del Roio Professore di Scienza politica alla Universidade Estadual Paulista (SP/Brasil) Presidente dell’International Gramsci Society Brasil

PRIMA PARTE Il giovane rivoluzionario s

1. Le premesse di un discorso ininterrotto Antonio Gramsci nasce in un contesto di profonda crisi del giovane Stato italiano, con livelli di particolare gravità proprio in Sardegna, già storicamente provata da secoli di dominio coloniale, affetta da una miseria cronica e da un sottosviluppo strutturale che non lasciavano scampo1. Nel 1891 l’Italia si trovava impegnata da alcuni anni nella guerra doganale con la Francia, ingaggiata da Crispi per difendere la nascente industria e le grandi produzioni agrarie nazionali, ma con gravissime conseguenze per il Sud Italia. Come da lui chiarito sin dalle prime note del Quaderno 1, il sistema gerarchizzato di privilegi definitosi dopo il Risorgimento aveva reso strutturale l’arretratezza economico-sociale meridionale, aumentando a dismisura lo sfruttamento e drenando da essa ingenti quote di risparmio reinvestite al Nord. Nel Mezzogiorno esisteva una certa produzione agricola di pregio che trovava nella Francia il suo mercato privilegiato. La politica protezionista e la denuncia del trattato commerciale con la Francia finirono per colpire proprio queste produzioni qualificate; ciò significò il restringimento delle esportazioni italiane di circa il 40%, con punte del 70% in Sardegna e in alcune zone del Sud. I dazi doganali sui prodotti industriali e quelli sulle grandi produzioni agrarie favorirono maggiormente il Nord e gli interessi dei grandi latifondisti meridionali, ma finirono, nello stesso tempo, per affossare i ceti più dinamici dell’agricoltura e dell’allevamento, gli unici che investivano quote di capitale nelle produzioni al Sud. Tuttavia, come ebbe modo di scrivere Gramsci nei Quaderni, nella prospettiva storica questo sistema di

1.

Antonio Gramsci nasce ad Ales (Oristano), un piccolo paese dell’interno in Sardegna, il 22 gennaio 1891. Figlio di Giuseppina Marcias e Francesco Gramsci, è il quarto di sette figli. La famiglia si trasferirà tre anni dopo a Sorgono, quindi a Ghilarza, paese di origine della madre, dove Gramsci trascorse l’infanzia e l’adolescenza.

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compromesso si rivelò inefficace perché si risolse in un ostacolo allo sviluppo tanto dell’economia industriale, quanto di quella agraria, determinando, in diverse fasi, livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato sulle masse. I termini di questa contraddizione trovarono in Sardegna modo di esprimersi in tutta la loro drammatica crudezza nei decenni successivi all’Unità d’Italia2. Le tre leggi che uniformarono il regime fiscale e il catasto delle proprietà rurali, quindi la legge del 1864, come già rilevato nella prima inchiesta Depretis, contribuirono enormemente a creare non solo uno stato confusionario ma anche a definire degli oneri tributari del tutto spropositati rispetto alla condizione esistente e alle potenzialità effettive. In particolare, la legge del 1864, che per far fronte al disavanzo del bilancio statale aumentò di colpo l’imposta fondiaria, venne calibrata senza nessuna conoscenza della realtà nella quale andava ad essere applicata, dando un colpo mortale ai propositi di rinnovamento economico-sociale nelle campagne: V’era sul suolo di Sardegna un debito ipotecario che nel 1870 era di lire 76,664,027; lo che vorrebbe dire che sopra ogni ettaro di terra vi era la gravanza di lire 3161, più del quadruplo del valore della terra. Sono trascorsi nove anni, e tutto fa ritenere che codesto debito oggi sia anche maggiore, e il male non solo sia più grave ma minacci la cancrena. (…) tutti possono e debbono essere convinti che la proprietà è seriamente in uno stato patologico, e che ben altri provvedimenti che la correzione del catasto e la diminuzione della imposta per rialzarla, si richiedano3.

Un segnale inequivocabile della depressione economica si aveva dall’estensione dei terreni (circa 80.000 ettari) passati al demanio per debiti d’imposta insoluti. Il metodo di riscossione imposto, oltre che esoso, si rivelò del tutto inaccessibile ai contribuenti sardi per la sua strutturazione. I contadini sardi infatti non producevano abbastanza per pagare le imposte in inverno con le rate bimestrali e per farlo finivano nelle mani dell’usura. Oltre a questo, gli istituti a cui venivano appaltate le riscossioni insolute applicavano tassi

2. 3.

Le considerazioni inserite in questa parte sulla storia della Sardegna contemporanea sono il risultato di un mio studio contenuto in una monografia alla quale rimando per maggiori approfondimenti: G. Fresu, La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento, Cuec, Cagliari, 2011. F. Salaris, Atti della Giunta per la Inchiesta Agraria, in Le inchieste parlamentari sulla Sardegna dell’Ottocento. Edes, Sassari, 1984, p. 172.

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di interesse fino al 50% annuo per le rate scadute, unitamente ad una serie di spese accessorie che erano in grado di gettare rapidamente sul lastrico un piccolo o medio proprietario4. Successivamente, tra il 1870-80, l’economia parve riprendersi grazie alle esportazioni verso il mercato francese di bestiame bovino, olio, vino, sughero e pellami; tuttavia, tra il 1881 e il 1882 la Sardegna fu travolta da una serie di sciagure senza fine: prima una straordinaria siccità invernale protrattasi anche nelle stagioni successive che distrusse i raccolti di cereali, poi cicloni ed inondazioni, la peronospora, la filossera, epidemie pestilenziali che decimarono gli allevamenti, il fallimento degli Istituti di credito e infine l’improvviso chiudersi del mercato francese a causa della sciagurata politica protezionista adottata dai governi italiani. Come ben documentato dalla relazione al Ministero dell’Agricoltura del 1879 di Antonio Zanelli, la Sardegna negli anni precedenti aveva incrementato esponenzialmente le sue esportazioni di bestiame in Francia, spingendo gli allevatori a contrarre prestiti per aumentare il numero dei capi di bestiame e le estensioni dei pascoli, presi in affitto per far fronte alle richieste francesi. La guerra doganale travolse dunque l’intero settore, oltre a dare una mazzata anche all’esportazione di vini, cereali, olio, pelli e carbone vegetale, che vedevano proprio nella Francia un mercato privilegiato. Come se non bastasse, nel giugno 1887 si giunse al fallimento del Credito Agricolo Industriale Sardo, da cui dipendeva l’intero sistema di finanziamento alle imprese agricole in Sardegna, provocando a catena il fallimento di numerose imprese agropastorali, il crollo di esportazioni e attività produttive, il volatilizzarsi dei risparmi racimolati con fatica dai piccoli proprietari fondiari, l’esplodere incontrollato dei fenomeni di usura. Ciò provocò l’ulteriore immiserimento e l’abbandono delle campagne sarde dove l’unica alternativa era la pastorizia, azzoppata però dal costituirsi tra il 1885 e il 1900 delle prime industrie casearie che imponevano un prezzo del latte talmente basso da impedire qualsiasi ipotesi di sviluppo. L’altra alternativa alla fame erano le miniere, ma anche qui le condizioni di vita e di lavoro erano disastrose e a fronte di un costante aumento dello

4.

A. Zanelli, A. Condizioni della Pastorizia in Sardegna, Relazione al Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio (Direttore dello stabilimento in zootecnia di Reggio Emilia). Ristampata per cura del Comizio agrario di Cagliari, Tipografia Editrice dell’Avvenire di Sardegna. 1880.

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sfruttamento si registrava la diminuzione dei salari, enormemente più bassi rispetto al resto d’Italia. Un disastro su cui Gramsci ebbe modo di soffermarsi in un articolo del 1918: Anni terribili, che in Sardegna, per esempio, hanno lasciato lo stesso ricordo dell’anno ’12 (1812, n.d.A), quando si moriva di fame per le vie e uno starello di grano veniva clandestinamente scambiato col campo seminativo corrispondente. L’inchiesta dell’on. Pais sulla Sardegna è un documento che rimarrà indelebile marchio d’infamia per la politica di Crispi e dei ceti economici che la sostennero. L’isola di Sardegna fu letteralmente rasa al suolo come per un’invasione barbarica; caddero le foreste – che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche – per trovare merce facile che ridesse credito, e piovvero invece gli spogliatoi di cadaveri, che corruppero i costumi politici e la vita morale5.

Della crisi economica, politica e morale che contraddistingue la Sardegna dopo l’Unità è stato in genere colto prevalentemente il lato criminale. La questione sarda era percepita come problema di ordine pubblico e il banditismo considerato la causa del sottosviluppo, non l’effetto. Questo ordine di ragionamenti trovò un sostegno pseudo-scientifico con lo sviluppo dell’antropologia criminale e della sociologia positivista, per le quali le cause della criminalità andavano ricercate in una sorta di tara congenita, biologico-razziale, del popolo sardo. L’Isola era considerata dallo Stato una grande prigione a cielo aperto e anche i funzionari statali infedeli, corrotti o coinvolti in scandali di varia natura venivano qui trasferiti a esercitare le loro funzioni. Presso le masse popolari, anche tra i ceti medi, lo Stato godeva di un bassissimo prestigio e dell’autorità si percepivano solo la rapacità fiscale e la brutalità repressiva. Anni segnati dall’eccidio di Buggerru6, da cui non a caso originò il primo sciopero generale della storia d’Italia, e dai moti insurrezionali del 1906 partiti proprio da Cagliari7. 5. 6. 7.

A. Gramsci, “Uomini, idee, giornali e quattrini”, Avanti!, 23 gennaio 1918, in G. Melis, (a cura di), Gramsci e la questione sarda, Edizioni della Torre, Cagliari, 1977, p. 88. A Buggerru, centro minerario della Sardegna sud-occidentale, il 4 settembre del 1904 i carabinieri caricarono una manifestazione per l’aumento salariale dei minatori, di fronte alla direzione aziendale: restarono sul terreno tre morti e decine di feriti. Questi temi hanno trovato una trattazione approfondita e ben documentata nell’opera di Girolamo Sotgiu, a nostro modesto parere tra i più importanti storici sardi dell’età contemporanea. In particolare, rimandiamo ad alcune sue monografie: Lotte sociali e politiche nella Sardegna contemporanea, Edes, Cagliari, 1974; Movimento operaio e autonomismo, De Donato Editore, Bari, 1975; Storia della Sardegna sabauda, (1720-1847), Laterza, Bari, 1984; Storia della Sardegna dopo l’Unità, Laterza, Bari, 1986.

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Tutto ciò risulta importante tanto sul piano della biografia umana, quanto su quello della formazione intellettuale di Gramsci. La sua produzione, infatti, non è il grande piano “steso a tavolino” da un intellettuale brillante, si tratta semmai di un lavoro che nasce a “tamburo battente” nel vivo di lotte sociali, a partire dall’esperienza diretta di una condizione di miseria ed emarginazione sociale8. Come è stato scritto a più riprese, tra Gramsci e i gruppi subalterni si sviluppa un rapporto simpatetico e organico, non una mera relazione di rappresentanza intellettuale, e ciò in buona parte è dovuto al retroterra sociale e culturale, alla conoscenza personale delle ingiustizie cui erano condannate le masse dei senza voce della sua terra. È lo stesso Togliatti a confermare questo legame diretto tra impostazione politico-teorica e partecipazione umana alle sorti dei più umili, già nel primo articolo da lui scritto dopo l’arresto di Gramsci e pubblicato su Lo Stato operaio nel maggiogiugno del 1927: D’altra parte legami di ragione, passione, e di sentimento profondo di lui, – venuto alla grande città industriale dalle campagne della Sardegna, dove l’ingiustizia di un ordine sociale e l’attesa di un ordine nuovo si esprimono nella miseria e nell’istinto di ribellione e di solidarietà di una popolazione oppressa di contadini e di pastori – l’uomo destinato a comprendere e comunicare appieno con gli oppressi della civiltà capitalistica, coi portatori della volontà di lotta e di rivolta da cui il moderno sarà rinnovato con gli operai9.

Un rapporto simpatetico dunque, confermato dalle testimonianze dirette di quanti ebbero a frequentarlo e lavorarci. Tra queste, quelle di diversi operai torinesi protagonisti del biennio rosso in buona parte convergenti su un aspetto della sua personalità: se tanti dirigenti del movimento sapevano parlare, Gramsci aveva una qualità rara, «sapeva ascoltare». Nelle sue frequenti visite agli operai in occupazione l’intellettuale sardo s’intratteneva spesso a discutere, interessandosi di ogni aspetto della loro esistenza: lo sforzo psicofisico della produzione, la realtà geografica e sociale della loro provenienza,

8.

9.

«Chi conosca il pensiero e l’azione di Gramsci comprenderà quanto sia giusto affermare che la radice di questo pensiero e di quest’azione non sono da rintracciare soltanto nelle fabbriche di Torino, ma anche in Sardegna, nelle condizioni fatte all’isola dal capitalismo italiano». P. Togliatti, “Ho conosciuto Gramsci sotto il portico dell’Università di Torino”, in I comunisti nella storia d’Italia, Edizioni del calendario, Roma, 1967, p. 81. P. Togliatti, Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 4.

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le implicazioni psicologiche del loro lavoro, il rapporto tra questo e la vita privata familiare. È ancora Togliatti del 1927 a confermarcelo: Comunicare con gli operai. «Parlare» con gli operai. Tra i dirigenti più noti del nostro Partito (…) ve ne sono alcuni che sanno parlare a una folla. Ma parlare con gli operai, individualmente, semplicemente, e non come maestri e «capi», ma come compagni e, sto per dire, come allievi, non solo per ritrovare nel contatto con la coscienza e con la volontà dell’operaio i motivi più profondi e umani della nostra fede, non solo per mettere alla prova in questo contatto le capacità e volontà nostre, ma per collaborare con l’operaio nel trovare la via ch’è aperta alla sua classe, per saggiare l’esattezza di un indirizzo, di un orientamento, di una parola d’ordine – questo ben pochi tra di noi, questo forse soltanto Gramsci, di noi, lo sa fare10.

Gramsci arriva a Cagliari nel 1908, dopo gli anni nello «scalcinato» ginnasio di Santu Lussurgiu e un’infanzia a Ghilarza resa difficile dai problemi di salute e da una condizione economica pesantissima, conseguente alla carcerazione del padre11. Cagliari era allora in tutti sensi la capitale della regione, percorsa dai fermenti sociali, dalle prime manifestazioni di una politica di massa, da una certa vivacità culturale testimoniata dall’esistenza di ben tre quotidiani e diversi periodici di approfondimento e polemica politica. A Cagliari12, dove il fratello maggiore Gennaro diviene segretario della sezione socialista e tesoriere della Camera del Lavoro, Gramsci si avvicina al socialismo ma non disdegna i temi della rivendicazione sardista. Negli anni liceali Gramsci si fa promotore con i suoi compagni del circolo I martiri del libero pensiero Giordano Bruno, dove assume anche il suo primo incarico politico come tesoriere, entra in contatto con le riviste più importanti del dibattito intellettuale nazionale (l’Unità, Il Marzocco, La Lupa, La

10. Ibid. 11. Nel 1897 Francesco Gramsci, impiegato nell’ufficio del registro di Ghilarza è coinvolto in un durissimo scontro scoppiato tra le diverse componenti liberali che controllavano i collegi elettorali. Nella lotta tra l’affermato parlamentare Francesco Cocco Ortu e il giovane Enrico Carboni Boi, l’affermazione di quest’ultimo, a cui aveva fornito il suo sostegno Francesco Gramsci, portò ad una durissima reazione della fazione perdente. Per questa ragione nel 1897 fu oggetto di un’inchiesta e quindi arrestato con l’accusa di peculato, concussione e falsità in atti d’ufficio. Nel 1905 venne condannato a cinque anni di carcere. 12. Nel capoluogo sardo Gramsci divide prima una camera in affitto in via Principe Amedeo 24, poi si trasferisce in un’umida stanzetta nel Corso Vittorio Emanuele 149, e frequenta il Liceo Classico Dettori. Potendo contare su una disponibilità economica che a stento gli consentiva di sopravvivere, solo raramente poteva permettersi un qualche tipo di evasione che comunque non andava mai oltre un caffè da Tramer in Piazza Martiri, o un pasto frugale con il fratello nella trattoria di Piazza del Carmine.

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Voce) e la stampa socialista, compie le sue prime investigazioni filosofiche che lo portano dall’idealismo di Benedetto Croce al materialismo storico di Marx13. Cagliari fornisce a Gramsci anche l’opportunità di cimentarsi con il giornalismo realizzando le prime corrispondenze per L’Unione Sarda14. Probabilmente rispetto agli avvenimenti epocali che segnano la sua biografia quelli cagliaritani possono essere considerati episodi secondari, eppure in questi anni Gramsci forma il suo carattere, inizia a forgiare le sue attitudini intellettuali e la sua propensione alla militanza politica. Sebbene in una lettera a Tania del 12 ottobre 1931, trattando della sua sardità, Gramsci affermi di appartenere alla cultura italiana e di non sentirsi affatto «dilaniato tra due mondi»15, l’importanza della formazione sarda di Gramsci non può essere relegata a semplice fattore accidentale, definitivamente e organicamente superato a seguito della “sprovincializzazione” vissuta da un giovane sfuggito alla condizione di insularità della sua terra16. Tenendo bene a mente questa premessa e la sua importanza, l’incontro con Torino17, da lui definita “la Pietrogrado della rivoluzione italiana”, rappresenta una svolta radicale nella vita di Antonio Gramsci, che a partire da questo momento ha modo di inserirsi in un orizzonte culturale e politico incomparabilmente più ampio. L’importanza di questo mutamento esistenziale è confermata anche da un raro passaggio autobiografico dei Quaderni del

13. G. Francioni, F. Giasi, L. Paulesu (a cura di), Gramsci. I quaderni del carcere e le riviste ritrovate (Catalogo della mostra, Cesena, Biblioteca Malatestiana, 17 gennaio-31 marzo 2019), MetaMorfosi, Roma, 2019. 14. L’Unione Sarda, principale quotidiano dell’isola, pubblica il primo articolo di Gramsci nel 1910. 15. «Io stesso non ho nessuna razza: mio padre è di origine albanese recente (la famiglia scappò dall’Epiro dopo o durante le guerre del 1821 e si italianizzò rapidamente); mia nonna era una Gonzalez e discendeva da qualche famiglia italo-spagnola dell’Italia meridionale (come ne rimasero tante dopo la cessazione del dominio spagnolo); mia madre è sarda per il padre e per la madre e la Sardegna fu unita al Piemonte solo nel 1847 dopo essere stata un feudo personale e un patrimonio dei principi piemontesi, che la ebbero in cambio della Sicilia che era troppo lontana e meno difendibile. Tuttavia la mia cultura è italiana e questo è il mio mondo: non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi, sebbene ciò sia stato scritto dal Giornale d’Italia del marzo 1920 dove in un articolo a due colonne si spiegava la mia attività politica a Torino, tra l’altro, con l’essere io sardo e non piemontese o siciliano». A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino, 1975, pp. 506-507. 16. Al di là del grande e insuperato lavoro di Giuseppe Fiori (Vita di Antonio Gramsci, Roma-Bari, Laterza, 1989), condotto con una metodologia a metà strada tra la ricostruzione accurata dello storico e l’inchiesta minuziosa del giornalista, che poté avvalersi di una infinità di testimonianze dirette uniche, un importante tentativo di approfondimento, non meramente formale, capace di mostrare l’effettiva importanza degli anni sardi di Gramsci, si trova nell’importante biografia di Angelo D’Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, Milano, 2017. 17. Nel 1911, dopo la licenza liceale, Gramsci vince una borsa di studio, destinata ai ragazzi bisognosi del regno, che gli consente, seppur tra mille difficoltà economiche, di iscriversi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Torino.

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carcere nel quale, facendo riferimento ai Ricordi politici e civili di Guicciardini, Gramsci tratta del genere letterario delle memorie. I «Ricordi» sono tali in quanto riassumono non tanto avvenimenti autobiografici in senso stretto, (…) quanto esperienze civili e morali (…) strettamente connesse alla propria vita e ai suoi avvenimenti, considerati nel loro valore universale o nazionale. Per molti rispetti, una tal forma di scrittura può essere più utile che le autobiografie in senso stretto se essa si riferisce a processi vitali che sono caratterizzati dal continuo tentativo di superare un modo di vivere arretrato come quello che era proprio di un sardo nel principio del secolo per appropriarsi di un modo di vivere e di pensare non più regionale e da «villaggio», ma nazionale, e tanto più nazionale (anzi nazionale appunto perciò) in quanto cercava di inserirsi in modi di vivere e di pensare europei (…). Se è vero che una delle necessità più forti della cultura italiana era quella di sprovincializzarsi anche nei centri urbani più avanzati e moderni, tanto più evidente potrebbe apparire il processo in quanto sperimentato da un «triplice o quadruplice provinciale» come certo era un giovane sardo del principio del secolo18.

In quegli anni l’antica capitale del regno costituisce la dimensione più alta dello sviluppo fordista in Italia, oltre che la sede dove più forte e cosciente è il livello dello scontro di classe19. Questo passaggio è essenziale da un punto di vista formativo: il giovane Gramsci – nel cui codice genetico politico-sociale era ben presente l’endemico spirito di ribellione di pastori e contadini della sua terra – a Torino entra in contatto con la forza organizzativa del movimento operaio. Da ciò anzitutto scaturisce una concezione molto articolata del conflitto di classe e dell’idea stessa di rivoluzione, per la quale era indispensabile portare a sintesi organicamente le istanze delle masse operaie del Nord e quelle disorganiche delle sterminate masse rurali del Mezzogiorno. Senza tenere conto di questo retroterra la piena comprensione di Gramsci, tanto delle lotte di cui è protagonista quanto della sua produzione teorica, diviene assai difficile. Entrando nel vivo del discorso, a nostro avviso, l’insieme del lascito gramsciano si sviluppa in un quadro di profonda continuità. Ciò non significa che

18. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, p. 1776. 19. Particolarmente illuminanti si rivelano le pagine di Leonardo Rapone dedicate alla descrizione del percorso di formazione di Gramsci: “Dal garzonato universitario ai Consigli di fabbrica”, contenuta nel suo fondamentale volume Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo, Carocci, Roma, 2011.

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egli rimanga sempre identico a sé stesso, al contrario, su molte questioni il suo ragionamento si sviluppa, diviene più complesso, intraprende nuove direzioni, muta alcuni giudizi iniziali. Il Gramsci dei Quaderni non può essere sovrapposto pedissequamente al giovane direttore de L’Ordine Nuovo, o al dirigente comunista, perché la sua elaborazione non si è sviluppata in una condizione di fissità intellettuale priva di evoluzioni. Tuttavia, la presunta frattura ideologica tra un prima e un dopo, in ragione della quale si tende a contrapporre un “Gramsci politico” a un Gramsci “uomo di cultura”, è frutto di una forzatura dettata da esigenze essenzialmente politiche. L’esistenza dell’intellettuale sardo è segnata dal dramma della Prima guerra mondiale, il primo conflitto di massa nel quale sono applicate su larga scala le grandi scoperte scientifiche dei decenni precedenti e vengono mandati letteralmente al massacro milioni di contadini e operai. Nella sua intera produzione teorica questa relazione dualistica, che esemplifica alla perfezione l’utilizzo strumentale dei «semplici» da parte delle classi dirigenti, travalica il contesto bellico delle trincee, trovando la sua piena espressione nelle relazioni fondamentali della moderna società capitalistica. In contrapposizione a questa idea di gerarchia sociale, ritenuta naturale e in quanto tale immutabile, Gramsci afferma costantemente la necessità di superare la frattura storicamente determinata tra funzioni intellettuali e manuali, in ragione della quale si rende necessaria l’esistenza di un sacerdozio o di una casta separata di specialisti della politica e del sapere. Non è la specifica attività professionale (materiale o spirituale) a determinare l’essenza della natura umana, per Gramsci «ogni uomo è un filosofo». In questa espressione dei Quaderni troviamo condensata la sua idea di “emancipazione umana”, dunque la necessità storica di una profonda «riforma intellettuale e morale»: il sovvertimento delle relazioni tradizionali tra dirigenti e diretti e la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Tra queste fasi c’è una continuità logica e politica che porta l’elaborazione dei Quaderni del carcere a essere la coronazione e non, come alcuni sostengono, la cesura traumatica tra l’elaborazione “pre” e “post” 1926. Ci riallacciamo qui al dibattito sviluppatosi all’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica di Antonio Gramsci, laddove, nel tempo, si è affermata una tendenza incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni precedenti e successive al 1926. Tale tendenza, sovente mossa più da esigenze politiche che da una reale necessità scientifica, si è rivelata priva

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di rigore filologico e concettuale mostrando nel breve volgere di pochi anni tutta la sua caducità. Come scrisse Garin, «Gramsci non intendeva fare opera di ricercatore erudito: la sua concezione del pensatore e dello storico lo impegnava in una situazione concreta, a scelte reali»20. Gramsci, scrive Garin, «era un politico e non un filosofo, dunque non si preoccupò di raccogliere in candidi mazzolini temi incontaminati perché a tutti estranei, ma combatté sul terreno reale, nella situazione reale»21. In Gramsci la lettura analitica si intreccia strettamente alla battaglia politica e la distinzione sulle due fasi può essere riscontrata al massimo nelle esigenze immediatamente politiche della prima e nella maggiore libertà analitica, appunto für ewig, delle riflessioni carcerarie; tuttavia, tra le due la continuità concettuale è evidente e documentabile. Uno dei dati più presenti nelle riletture degli ultimi decenni può essere rintracciato nello sforzo teso a epurare l’opera di Gramsci da qualsiasi legame con l’eredità teorica e politica di Lenin, magari attribuendogli riflessioni, considerazioni e valutazioni politiche proprie di un periodo successivo. Soprattutto in Italia esiste oramai una categoria di studiosi specializzati in indagini sulla presunta conversione politica, quando non anche religiosa, di Antonio Gramsci. Ciò ha spinto alcuni di loro a ricercare tra lettere, documenti e addirittura in presunti Quaderni mancanti le prove di un ripudio di cui però non si sono mai trovati i riscontri22. Tra le pagine dei Quaderni del carcere e negli abusatissimi concetti di “egemonia” e “guerra di posizione”, sono state ricercate le prove di questa frattura per giustificare tramite essa la discontinuità, se non proprio l’incompatibilità

20. E. Garin, Con Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1997, p. 48. 21. Ibid. 22. È il caso del libro di Franco Lo Piparo, L’enigma del quaderno (Donzelli, 2013), che a sostegno della sua tesi sulla misteriosa sparizione di un Quaderno del carcere emette un trittico di sentenze inappellabili, e soprattutto senza prove, su ragioni e responsabili della scomparsa: manca un quaderno; l’ha fatto sparire Togliatti; in esso Gramsci ripudia il comunismo e il suo Partito. Paradossalmente anche l’assenza dei documenti necessari a fondare le tesi dell’autore è utilizzata come prova della sua sentenza. La struttura logica del ragionamento è la stessa: se questi documenti non si trovano sono stati distrutti, dunque c’era qualcosa da nascondere, il responsabile è Palmiro. A dominare tutte le valutazioni sulle “stranezze” in questa incredibile spy story gramsciana ci sarebbe la malafede del gruppo dirigente comunista e soprattutto di Togliatti, regista di tutti i depistaggi orditi con la complicità di moglie, cognata e amico strettissimo (Piero Sraffa) del povero Gramsci, tutti agenti del Kgb assoldati da Stalin per sorvegliarlo. Anche ammettendo l’assenza di un quaderno, per quale ragione Gramsci avrebbe dovuto concentrare in esso tutte le sue critiche al comunismo – ipotesi contraddittoria rispetto alla struttura dell’opera e al metodo di lavoro da lui usato – mentre nel resto dei Quaderni nulla di tutto questo è rintracciabile.

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assoluta, con il “demone del Novecento”. Eppure, nei Quaderni non mancano i riferimenti al Lenin “teorico dell’egemonia”, né note nelle quali Gramsci lo definisce il principale innovatore e prosecutore del materialismo storico dopo Marx. Contrariamente alle interpretazioni a favore della discontinuità, nei Quaderni la relazione tra il filosofo di Treviri e Lenin è descritta come la sintesi di un processo di evoluzione intellettuale che si esprime nel passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione. La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura sul terreno delle ideologie deve essere considerata un’affermazione di carattere gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’approccio teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto filosofico23.

Ancora più esplicite e illuminanti, da questo punto di vista, sono le note che vanno sotto il nome di “Posizione del problema”, sempre nel Quaderno sette: Marx è un creatore di Weltanschauung ma quale è la posizione di Ilici? È puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo – scienza e azione –. Il passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione. La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. [...] Per Ilici questo è realmente avvenuto in un territorio determinato. Ho accennato altrove alla importanza filosofica del concetto e del fatto di egemonia, dovuto a Ilici. L’egemonia realizzata significa la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica. [...] Fare un parallelo tra Marx e Ilici è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che sono omogenee ed eterogenee nello stesso tempo24.

Nel passaggio successivo Gramsci compie un curioso parallelo fra il rapporto tra Marx e Lenin e quello tra Cristo e san Paolo, smentendo persino certe

23. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., pp. 1249-1250. 24. Ivi, p. 881.

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interpretazioni sulla sua totale distanza da una categoria sorta dopo la morte di Lenin e ancora oggi elemento di controversia, il marxismo-leninismo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo-Weltanschauung, S. Paolo-organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessari nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, e non teorico)25.

Una delle ragioni di questa operazione va forse ricercata nel clima culturale e politico creatosi con la cosiddetta “fine della spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre e soprattutto con il crollo del socialismo reale; tuttavia, a prescindere dal nostro giudizio personale, le categorie della filosofia e della scienza politica del passato non possono essere piegate in ossequio alle esigenze contingenti. L’eredità della Rivoluzione d’Ottobre rappresenta il vero spartiacque interpretativo attorno al pensiero politico di Gramsci, tra chi ribadisce la sua adesione (mai rinnegata) a quel processo e quanti intendono ridimensionare il valore della sua centralità, limitandola a una fase della sua esistenza. Attorno a questo nodo fondamentale si dipanano molte delle sfumature interpretative relative al lascito gramsciano, di cui però non intendiamo assolutamente fare una rassegna in queste pagine26. A partire dal nostro personale punto di vista, ci limiteremo a esporre il processo della formazione intellettuale di Gramsci cercando di fornire un quadro concettuale e analitico il più possibile utile a comprendere il suo pensiero. 2. Dialettica versus positivismo: la formazione filosofica del giovane Gramsci. Nelle diverse fasi della sua attività analitica e politica, Gramsci ha sempre individuato nell’impostazione filosoficamente angusta dei teorici della Seconda Internazionale l’origine di buona parte delle deficienze proprie del

25. Ivi, p. 882. 26. Per chi intendesse avventurarsi in questo terreno suggeriamo anzitutto la fondamentale lettura del volume di Guido Liguori, Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche 1922-2012, Editori Riuniti-University press, Roma, 2012.

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socialismo italiano. L’adesione al partito della classe operaia italiana non rappresentò mai un’assunzione piena e organica del suo orizzonte ideologico e tantomeno culturale, esattamente perché Gramsci non pervenne al socialismo digiuno di dibattiti intellettuali: per averne una conferma basta dare un’occhiata al genere di riviste cui era abbonato o ai giornali da lui letti negli anni sardi. Da questo punto di vista non concordiamo con il giudizio secondo cui, nella sua prima fase torinese, Gramsci risentirebbe «oltre che dell’influenza di Croce e dell’idealismo italiano, anche del retaggio teorico del partito nel quale milita, legato ancora a miti, lessico e visione del mondo derivati dal positivismo evoluzionistico»27. Il successivo approccio a Lenin da parte di Antonio Gramsci va inquadrato anzitutto in un clima culturale nuovo e in una fase di svolta storica per il movimento operaio manifestatasi nel giovane intellettuale sardo proprio con il rigetto della cultura determinista e positivista, che avevano profondamente pervaso il socialismo italiano. Allo stesso modo, a questo rifiuto è riconducibile il forte influsso su Gramsci della filosofia idealista italiana, in particolare quella di Benedetto Croce, e quindi di Hegel. Ben rappresentativo di questi apporti è un articolo come “Il Sillabo e Hegel”, scritto su Il Grido del Popolo il 15 gennaio 1916 come recensione al libro di Mario Missiroli Il Papa e la guerra, rispetto al quale estremamente utili si rivelano le riflessioni di Domenico Losurdo: Croce e Gentile sono da Gramsci messi in rapporto con l’Italia scaturita dal Risorgimento: ad osteggiarli sono gli ambienti clericaleggianti, che nella Sardegna (e nell’Italia) del tempo costituiscono una forza decisiva della conservazione con la paura che essi stimolano nei confronti d’ogni mutamento sociale, bollato in anticipo come un pauroso salto nel buio. Questi ambienti vedono in Hegel la loro bestia nera e, assieme alla sua filosofia, intendono respingere il moderno. Senonché nella lotta tra il sillabo e Hegel, è Hegel che ha vinto. È la vittoria non semplicemente di un filosofo bensì di uno sviluppo storico e di un mondo storico reale che nel sistema del pensatore tedesco ha trovato la sua espressione teorica. (...) È soprattutto la vittoria della coscienza storica che nella situazione data rifiuta di vedere e subire una natura immodificabile28.

Quando, tra Ottocento e Novecento, il marxismo si affermò nel movimento operaio, esso fu veicolato da intellettuali in gran parte dei casi giunti

27. M. Filippini, Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione nella società, Carocci, Roma, 2015, p. 39. 28. D. Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al comunismo critico, Gamberetti editrice, Roma, 1997, p. 19.

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a Marx attraverso Darwin e lo studio positivistico delle scienze sociali. La diffusione del marxismo nel movimento operaio tedesco trovò due veicoli straordinari nel settimanale Sozialdemocrat, pubblicato a Zurigo sotto la supervisione di Whilelm Liebknecht, e nella Neue Zeit, nata nel settembre del 1882 a Salisburgo attorno a Kautsky, Liebknecht, Bebel e Dietz. La Neue Zeit si affermò come la prima rivista teorica di un partito operaio e divenne il principale organo di approfondimento del marxismo nella Seconda Internazionale29; sull’opera di diffusione del marxismo da parte di questa rivista influì enormemente l’impostazione culturale dei suoi fondatori, nella quale il rapporto stesso con il marxismo risultava mediato dalle suggestioni positiviste, dalla fiducia illimitata nella scienza e nel progresso, dal primato assoluto attribuito alle scienze sociali. La storia di questa rivista, dei suoi dibattiti, delle sue svolte, è nei fatti la storia del marxismo della Seconda Internazionale, di cui Ernesto Ragionieri ha fornito una sintetica quanto efficace definizione: Per marxismo della II Internazionale si intende in genere, una interpretazione ed elaborazione del marxismo che rivendica un carattere scientifico alla sua concezione della storia in quanto ne indica lo sviluppo in una necessaria successione di sistemi di produzione economica, secondo un processo evolutivo che soltanto al limite contempla la possibilità di rotture rivoluzionarie emergenti dallo sviluppo delle condizioni oggettive30.

Per Gramsci il marxismo è stato un momento fondamentale della cultura moderna capace di fecondare alcune correnti assai importanti al di fuori del proprio campo. Ciò nonostante, i “marxisti ufficiali” di fine Ottocento trascurarono questo fenomeno, perché il tramite tra il marxismo e la cultura moderna era rappresentato dalla filosofia idealista. Nelle sue note Gramsci ritornò più volte sulla doppia revisione subita dal marxismo tra Ottocento e Novecento: da un lato alcuni suoi elementi furono assorbiti da certe correnti idealistiche (Croce, Sorel, Bergson); dall’altra i cosiddetti “marxisti ufficiali”, preoccupati di trovare una filosofia che contenesse il marxismo, la trovarono nelle derivazioni moderne del materialismo filosofico volgare o anche nel neokantismo. I 29. E. Ragionieri Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani 1875-1895, Feltrinelli Editore, Milano, 1961; E. Ragionieri Il marxismo e l’Internazionale, Editori Riuniti, Roma, 1968. 30. E. Ragionieri, Alle origini del marxismo della Seconda Internazionale, Editori Riuniti, Roma, 1968, p. 47.

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“marxisti ufficiali” hanno cercato al di fuori del materialismo storico una concezione filosofica unitaria proprio perché la loro concezione si basava sull’idea dell’assoluta storicità del marxismo, come prodotto storico dell’azione combinata della Rivoluzione francese e della rivoluzione industriale, mentre ne ignoravano completamente la matrice filosofica tedesca. In un tale contesto, all’interno del panorama marxista italiano, Labriola era per Gramsci il solo ad essersi distinto nel porre il marxismo come filosofia indipendente e originale, tentando di “costruire scientificamente” la filosofia della praxis. L’adozione di questa definizione caratteristica di Labriola nei Quaderni, ritenuta da Gramsci più esaustiva della stessa formula materialismo storico, si spiega non solo con la sua capacità di chiarire meglio la relazione unitaria tra teoria e pratica: essa è espressione organica di una concezione del marxismo come visione autonoma e (filosoficamente) autosufficiente del mondo. Come opportunamente chiarito nell’importante libro di Marcello Musté, dedicato proprio al percorso intellettuale della filosofia della praxis da Labriola a Gramsci, non si tratta solo di una sfumatura teorica. Ci troviamo di fronte a un autentico spartiacque nel modo di intendere il marxismo che ha conferito una fisionomia assolutamente originale al materialismo storico italiano: L’espressione “filosofia della praxis” venne adoperata da Antonio Labriola nel terzo saggio marxista, sul finire della quarta lettera a George Sorel, e definita come il “midollo” del materialismo storico. Per quanto se ne siano cercati gli antecedenti tra gli scrittori della sinistra hegeliana (August von Cieszkowski, Moses Hess), non vi è dubbio che Labriola conferì a tale formula un accento peculiare, sia per la rivendicazione del marxismo come teoria indipendente, contro ogni “combinazione” con il positivismo o con il neokantismo, sia per la mediazione, che fin dall’inizio operò, con la tradizione filosofica nazionale. Questi due caratteri – il marxismo come filosofia, il rapporto con il pensiero italiano – rimarranno decisivi in tutta la vicenda politica successiva, almeno fino a Gramsci. La praxis, inizialmente enucleata da Labriola come principio di una concezione nuova, capace di sfuggire, al tempo stesso, le aporie del materialismo e dell’idealismo – diverrà l’indice di una lunga storia intellettuale, attraverso cui la cultura italiana svolgerà, in forma caratteristica, il suo rapporto con l’opera di Marx31.

Secondo l’intellettuale sardo, Labriola rappresentava quanto di più elevato avesse prodotto la tradizione filosofica marxista in Italia. Non casual-

31. M. Mustè, Marxismo e filosofia della praxis. Da Labriola a Gramsci, Viella, Roma, 2018, p. 19.

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mente, nei Quaderni 3 e 11, egli polemizzò duramente con Trockij, che ebbe l’ardire di definire “dilettantesco” l’approccio del filosofo di Cassino al marxismo. Proprio in queste note dedicate a Labriola, in polemica con il giudizio negativo del rivoluzionario russo, Gramsci sentì la necessità di affrontare il problema della doppia revisione subita dal marxismo: quella del materialismo volgare, incapace di impostare il problema della cultura filosofica di Marx; quella dalla corrente neokantiana, impegnata a integrare ed emendare il materialismo storico con qualsiasi altra filosofia. Nella fase romantica della lotta, secondo Gramsci, la poca fortuna di Labriola sulla stampa socialdemocratica era una conseguenza dell’eccessiva sopravvalutazione dei problemi tattici e della poca propensione ad affrontare i nodi teorici. Una contraddizione destinata a essere superata con l’emergere dei problemi nuovi connessi alla costruzione dello Stato socialista, un contesto inedito nel quale Labriola doveva essere rimesso in circolazione in modo da rendere predominante la sua impostazione del problema filosofico tra le linee di tendenza del marxismo32. Con lo sviluppo cosciente e consapevole delle forze produttive, le posizioni più meccaniche e primitive del marxismo dovevano essere necessariamente superate. In questo sforzo di maturazione del movimento socialista, egli attribuiva proprio alla visione filosofica di Labriola una funzione centrale, per questo sollevò la necessità di uno studio oggettivo e sistematico della sua opera, in grado di chiarire il suo percorso di formazione ed elaborazione teorica. Come chiarito efficacemente da Marco Vanzulli, la poca fortuna di Labriola era dovuta alla sua estraneità alle due principali correnti marxiste del tempo, quella ortodossa di Kautsky e quella revisionista di Bernstein. Oltre a ciò, l’eredità teorica di Labriola trovò in Croce un curatore “ambiguo”, «che giunge a neutralizzare l’opera labroliana del cui legato si pretende amministratore»33. Tuttavia, a prescindere dal seguito ottenuto, l’opera di Labriola assume un ruolo imprescindibile tanto per gli sviluppi del materialismo storico italiano, quanto per i tentativi di “revisione” da parte di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. La vetusta questione della fortuna di Labriola dev’essere dunque affrontata dalla duplice prospettiva delle sue caratteristiche teoriche interne e dalla sua posizione nella

32. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 309. 33. M. Vanzulli, Il marxismo e l’idealismo. Studi su Labriola, Croce, Gentile e Gramsci, Aracne, Roma, 2013, p. 23.

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lotta teorica intra ed extra-marxista. Perché se Labriola rimase isolato, e il suo pensiero non ebbe seguito, non è perché non fu letto. Labriola fu davvero colui che introdusse il materialismo storico in Italia. I revisionisti anti-marxisti, Croce e Gentile, come s’è detto, partono, per criticare Marx, dalla concezione del materialismo storico di Labriola, senza peraltro riuscire ad impadronirsi ed a compiere sia pure criticamente, il taglio dato all’esposizione critica del marxismo nei Saggi. La loro è un’operazione revisionistica al tempo stesso su Marx e su Labriola, su Marx attraverso il fraintendimento che impongono a Labriola, e su Labriola attraverso la reductio a unum (Marx solo storico, Marx solo filosofo, Marx solo metafisico ecc.) cui sottopongono Marx34.

La conferma di questa centralità, a dispetto del successo filosofico, viene dal fatto che Antonio Labriola fu praticamente l’unico punto di riferimento nel panorama del marxismo italiano per i giovani de L’Ordine Nuovo e particolarmente per Gramsci. Al di là della stessa severa critica al positivismo e al determinismo economico, le affinità tra i due intellettuali sono molteplici. Comune era il punto di partenza idealista, superato grazie alla scoperta del marxismo, così come il medesimo interesse per gli studi di glottologia e linguistica comparata35. Comune era l’avversione verso il dilettantismo di Achille Loria, da entrambi considerato figura rappresentativa dell’arretratezza intellettuale allora prevalente. Entrambi sottolinearono più volte quanto il successo delle opere di Loria tra i socialisti, nonostante la natura antisocialista della sua critica a Marx, fosse indicativo della debolezza teorica del socialismo italiano guidato da Filippo Turati36. Secondo Labriola i limiti teorici del socialismo italiano erano la premessa logica di tutte le degenerazioni

34. Ivi, pp. 24-25. 35. «In gioventù ho assistito al rifiorire napoletano dell’hegelismo. Per molto tempo restai indeciso fra glottologia e filosofia. Quando venni a Roma come professore ero un socialista non cosciente e un avversario dichiarato dell’individualismo unicamente per motivi astratti. Studiai poi diritto pubblico e, fra il 1879 e il 1880, mi ero già quasi completamente convertito alla concezione socialista, ma più per la concezione generale della storia che per impulso interno di una fattiva convinzione personale. Un avvicinamento lento e continuo ai problemi reali della vita, il disgusto per la corruzione politica, il contatto con gli operai hanno poi poco a poco trasformato il socialista scientifico in abstracto in vero socialista». A. Labriola, Lettera a F. Engels del 3 aprile 1890 contenuta nel volume A. Labriola, Scritti filosofici e politici, Vol. I, Einaudi, Torino, 1973, p. 256. 36. «Nelle sue tremila pagine che avrà finora pubblicate, [Loria] ha sempre combattuto il socialismo, e un trecento volte almeno ha chiamato Marx sofista, mistificatore etc. Loria non è un uomo politico, non ha alcuna popolarità, non parla al gran pubblico, non ha alcuna influenza: e come professore ha una sola qualità notevole, la nessuna voglia di fare lezione. I suoi scritti sono poco letti, perché illeggibili, e l’uomo non è punto stimato: anzi! Questa claque gliel’hanno fatta – e in malafede – i frati ignorantelli del socialismo, e lui si è adattato, perché, diceva a me «i grandi uomini (sic), p. e. Bismarck, badano alle loro idee e non ai seguaci» e ciò rispondendo alla mia domanda «con che faccia tollerare che i socialisti vi chiamino socialista, se non siete?», A. Labriola, Lettera a F. Engels, 11 agosto 1894, Ivi, p. 401.

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politiciste del PSI – il cui orizzonte si limitava al binomio positivismo-evoluzionismo parlamentare – dunque della incapacità a interpretare la realtà e, pertanto, a trasformarla. Un altro punto di forza di Labriola per i giovani de L’Ordine Nuovo fu la sua costante polemica contro l’affermazione turatiana circa l’assoluta superiorità del sistema rappresentativo parlamentare, dunque l’impossibilità a superare le istituzioni liberal-democratiche per via rivoluzionaria. Il gradualismo di Turati non contemplava minimamente la natura strutturale del conflitto capitale-lavoro, per questo ogni sua invocazione umanitaria in favore di una maggiore giustizia sociale finiva per assumere, secondo Labriola, un significato non solo astratto, ma inibitore. Esattamente in ragione di questa contraddizione, Labriola invocò costantemente la completa autonomia del marxismo da qualsiasi influenza ideologica liberale e borghese. Questa esigenza di autosufficienza si sarebbe dovuta esprimere anche sul piano delle categorie e persino del lessico utilizzato. In tal senso, per esempio, in una lettera a Engels del 1894 sulla nuova edizione dell’Antidüring Labriola si riferì all’utilizzo retorico e deteriore assunto dal termine “dialettica” nel movimento socialdemocratico, consigliando addirittura la sua sostituzione con l’espressione “metodo genetico”. Al di là della sua correttezza o meno, questo suggerimento segnalava la necessità di marcare con ancora più forza la distanza tra il materialismo storico e le sue interpretazioni meccaniche elaborate dai discepoli socialisti di Darwin e Spencer. Se il metodo dialettico esprimeva il processo del pensiero come atto in movimento, la concezione genetica avrebbe potuto abbracciare con senso più compiuto il contenuto reale e materiale delle cose: il primo indicherebbe solo l’aspetto formale, mentre la seconda non avrebbe pregiudicato la natura empirica di ogni formazione, mostrando ancora di più la povertà del positivismo e la volgarizzazione determinista del materialismo storico37. Ritornando sulla questione in un’altra lettera del 1894, Labriola individuò ne Il Capitale un caso esemplare per spiegare tutto ciò: «In fatto di metodo del pensiero non c’è nulla di tanto perfetto. Non una forma sola, ma tutte le forme. La genesi concreta (accumulazione inglese); la genesi astratta (analisi della merce etc.); la contraddizione, che spinge ad uscire dall’ambito

37. A. Labriola, Lettera a F. Engels, 13 giugno 1894, Ivi, p. 393.

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di un concetto o fatto (denaro-merce-denaro)»38. Il problema restava nella necessità di perfezionare le definizioni e le categorie utilizzate per spiegare questo processo, quindi nello smascherare la deviazione metafisica presente nelle traduzioni popolari realizzate da intellettuali come Kautsky. Secondo Labriola, «la logica comparativa del linguaggio non è solo una disciplina indispensabile, ma è la chiave per trovare le cause, ossia, le ragioni di ogni deviazione metafisica nel pensiero»39. A partire da questo ricco dibattito, nei Quaderni, Gramsci ha ammesso la difficoltà nel comprendere le ragioni per le quali il marxismo è risultato assimilabile, per alcuni suoi aspetti non trascurabili, tanto all’idealismo quanto al materialismo volgare, perché un simile lavoro di indagine avrebbe dovuto non solo chiarire quali elementi fossero stati assorbiti “esplicitamente” dall’idealismo e da altre correnti di pensiero, ma anche svelare gli assorbimenti “impliciti” e non confessati. Il marxismo, infatti, è stato un momento della cultura, un’atmosfera diffusa che in quanto tale ha modificato, spesso inconsapevolmente, i vecchi modi di pensare. Costruire una storia della cultura moderna dopo Marx ed Engels, richiedeva uno studio rigoroso degli insegnamenti pratici lasciati in dote dal marxismo a partiti e correnti di pensiero ad esso avverse. La ragione per la quale gli “ortodossi” della Seconda Internazionale hanno operato una combinazione della filosofia della praxis con altre filosofie e concezioni, andava ricercata nella necessità di combattere tra le masse popolari i residui del mondo precapitalistico, derivanti in particolare dalla concezione religiosa. Il marxismo aveva contemporaneamente il compito di combattere “le ideologie più elevate delle classi colte”, e di far uscire le masse da una cultura ancora medievale ponendole in condizione di produrre un proprio gruppo di intellettuali organici indipendenti dalla cultura delle classi dominanti. Proprio questo secondo compito di carattere pedagogico ha finito per assorbire gran parte delle energie “quantitative” e “qualitative” del movimento: Per «ragioni didattiche», la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po’ superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte, mentre la nuova

38. Ivi, p. 402. 39. Ibid.

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filosofia era nata per superare la più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica tedesca, e per suscitare un gruppo di intellettuali propri del nuovo gruppo sociale di cui era la concezione del mondo40.

Antonio Labriola era per Gramsci il solo filosofo italiano ad avere piena coscienza di queste contraddizioni; egli, infatti, arrivò al socialismo attraverso un lungo e meditato percorso di avvicinamento filosofico e politico, che lo distingueva fortemente dai teorici della Neue Zeit, con i quali si trovò in più riprese a polemizzare, avanzando l’esigenza di un diverso approccio al marxismo, da lui definito “comunismo critico”. Ci serviamo ancora del pregevole lavoro di Marcello Mustè per chiarire l’originalità di questo approccio: La critica del darwinismo aveva condotto Labriola a enucleare il punto veramente essenziale della storicità umana, che significava, nelle categorie da lui adoperate, la relazione fra progresso e divenire o, ancora (nei termini caratteristici della riflessione spaventiana), tra pensiero ed essere. Il distacco dalla natura animale accadeva dove l’uomo, reagendo ai propri bisogni, elaborava la materia attraverso il lavoro, non ripetendo l’ordine della natura, ma prevaricandolo e confondendovi la propria forma: il divenire naturale si trascendeva qui nel progresso, come aspetto essenziale della storia umana41.

Nelle sue dispute contro il «dilettantismo di tanti neofiti della causa socialista», Labriola si contrappose alle combinazioni spurie tra il marxismo e le costruzioni forzatamente unitarie e sistemiche, proprie del positivismo e dell’evoluzionismo applicato alle teorie sociali. Uno dei prodotti storici più nefasti della cultura del tempo era per Labriola il verbalismo, vale a dire un culto smodato delle parole che porta a corrodere il senso reale e vivo delle “cose effettuali”, a occultarle, a trasformarle in termini, parole e modi di dire astratti e convenzionali: Il verbalismo tende sempre a chiudersi in definizioni puramente formali; porta le menti nell’errore, che sia cosa facile il ridurre in termini e in espressioni semplici e palpabili l’intricato e immane complesso della natura e della storia; e induce nella credenza che sia cosa agevole il vedersi sott’occhi il multiforme e complicato e complicatissimo intreccio delle cause e degli effetti, come in ispettacolo da tea-

40. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1858. 41. M. Musté, Marxismo e filosofia della praxis. Da Labriola a Gramsci, op. cit., p. 47.

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trino; o a dirla in modo più spiccio, esso oblitera il senso dei problemi perché non vede che denominazioni42.

Quando il verbalismo si unisce alle supposizioni teoretiche di una falsa contrapposizione tra materia e spirito, immediatamente pretende di spiegare tutto quel che riguarda l’uomo facendo affidamento al solo calcolo degli interessi materiali fino a contrapporre questi agli interessi ideali e a ridurre meccanicamente i secondi ai primi. La causa di questo modo d’intendere il materialismo storico era riconducibile all’impreparazione e all’improvvisazione di tanti intellettuali scopertisi propugnatori del marxismo, i quali hanno cercato di spiegare agli altri ciò che essi stessi non avevano ancora compreso pienamente, estendendo alla storia le leggi e i modelli concettuali che avevano trovato proficua attuazione nello studio e nella spiegazione del mondo naturale e animale. Ma la storia dell’uomo riguarda i processi attraverso i quali questo soggetto può creare e perfezionare i suoi strumenti di lavoro e che tramite quegli stessi strumenti modifica l’ambiente in cui è inserito fino a crearne uno nuovo e artificiale che a sua volta reagisce e produce molteplici effetti sopra di lui; la storia, secondo l’uso della parola, vale a dire quella parte del processo umano che si esprime nella tradizione e nella memoria, inizia quando la creazione di questo terreno artificiale si è già prodotta, quando l’economia è già in funzione. La scienza storica ha per suo oggetto fondamentale proprio la conoscenza di questo terreno artificiale, delle sue forme originarie, delle sue trasformazioni, e solo l’abuso dell’analogia e la fretta di arrivare a delle conclusioni poteva portare a dire che tutto questo non è se non parte e prolungamento della natura. Dunque, secondo Labriola, mancavano tutte le ragioni per ricondurre questo processo evolutivo riguardante l’uomo e il suo ambiente, appunto la storia, alla pura e semplice lotta per l’esistenza, non c’era ragione per confondere il darwinismo con il materialismo storico, né di rievocare e servirsi di una qualunque forma, «mitica, mistica o metaforica», di fatalismo. Pertanto, negare ogni ruolo alla volontà e pretendere di sostituire al volontarismo l’automatismo era profondamente in contraddizione con il pensiero di Marx. La tendenza a trasformare in pedanteria e “novella scolastica” qualunque trovato del pensiero rese possibile

42. A. Labriola, La concezione materialistica della storia, Editori Laterza, Bari, 1965, p. 62.

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ogni sproposito, facendo sì che «la fantasia degli inesperti d’ogni arte e ricerca storica e lo zelo dei fanatici, trovasse stimoli ed occasioni persino nel materialismo storico a foggiare una nuova ideologia e a trarre da esso una nuova filosofia della storia sistematica, cioè schematica, ossia a tendenze e a disegno»43. Per Labriola invece il materialismo storico non è, e non pretende di essere, la visione intellettuale di un grande piano o disegno, ma è un metodo di ricerca e concezione. Sebbene contraddittorie e poco efficaci sul piano teorico, le diverse critiche dei tanti detrattori di Marx ebbero ripercussioni devastanti tra le fila del movimento socialista, esercitando carsicamente la propria egemonia soprattutto tra i giovani intellettuali postisi al servizio della classe operaia nell’ultimo trentennio del XIX secolo: Molti dei focosi rinnovatori del mondo di quel tempo lì, si misero sulla via di proclamarsi seguaci della teoria marxista pigliando proprio per moneta contante il marxismo più o meno inventato dagli avversari» ed è così che questi «mescolando cose vecchie a cose nuove arrivarono a credere, che la teoria del sopravvalore, come si presenta solitamente semplicizzata in semplici esposizioni, contenesse hic et nunc il canone pratico, la forza impulsiva, anzi la morale e la giuridica legittimità di tutte le rivendicazioni proletarie44.

Tra gli anni ’70 e ’80 si formò un neoutopismo – mosso da un’idea malsana di “filosofia universale”, nella quale il socialismo doveva essere ben inserito come la parte nella visione del tutto – letteralmente, il brodo di cultura nel quale trovarono il giusto microclima tutti gli spropositi del determinismo socialista. In una lettera a Turati45, Labriola descrisse il suo percorso filosofico, dichiarandosi indisponibile a farsi ribattezzare da Darwin e Spencer, perché, se anche poteva dirsi socialista da non più di dieci anni, aveva comunque già ampiamente fatto i conti con il positivismo e il neokantismo negli anni del suo garzonato accademico. Egli non pretendeva di ricevere dal marxismo l’ABC del sapere e non cercò se non quel che esso conteneva, vale a dire, la sua critica dell’economia politica, i lineamenti del materialismo storico, la politica del proletariato enunciata. Come scrisse Luigi Dal Pane, uno dei suoi più impor-

43. Ivi, p. 80. 44. Ivi, p. 200. 45. In questa lettera Labriola risponde polemicamente ad un articolo di Antonio De Bella, pubblicato su Critica sociale il 1° giugno del 1897 che lo chiamava in causa.

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tanti studiosi, Labriola vide nel materialismo storico «il punto di partenza di impensati svolgimenti», perché nelle opere di Marx ed Engels il materialismo era un filo conduttore, una linea di tendenza, non la concatenazione dogmatica di principi espressi in forma precisa e, soprattutto, definitiva: Di fatto il Marx e l’Engels non pensarono a compiere un lavoro sistematico di organizzazione della nuova dottrina e, nei vari momenti della loro vita, secondo le circostanze che li spronavano, fermarono la mente ora sopra uno, ora sopra l’altro aspetto della vita umana storica, senza un ordine logico prestabilito e rigoroso. Avvenne così che segnarono qualche grande schema, alcune linee maestre, veramente utili ed importanti per chi abbia la capacità di farle rivivere, di poco rilievo invece per chi le enuncia in una forma astratta46.

Il marxismo dunque non poteva ridursi a una formula dottrinaria, data dalla distinzione netta e dalla successione matematica tra categorie economiche e ideologiche, essendo una «concezione organica della storia» come unità e totalità della vita sociale nella quale anche l’economia, anziché estendersi astrattamente a tutto il resto, è concepita storicamente47. Labriola, allievo del grande filosofo Bertrando Spaventa, si formò nella Napoli protagonista della seconda fioritura dell’hegelismo48, si avvicinò a Marx avendo già nel suo bagaglio filosofico una profonda conoscenza della dialettica49. Per Labriola in ciò andava ricercata la distinzione tra la sua concezione della filosofia della prassi e quella dei tanti intellettuali marxisti-positivisti della nuova generazione, responsabili, a suo dire, di confondere «la linea di sviluppo che è propria del materialismo storico, (...) con quella malattia celebrale che da anni già ha invaso i cervelli di quei molti italiani che parlano ora di una madonna evoluzione, e l’adorano»50. Ecco un punto essenziale individuato da Labriola sul quale Gramsci ritorna più volte: l’incontro tra positivismo e marxismo, dunque la volgarizzazione deterministica di questo, ha tra le varie cause la totale ignoranza della dialettica hegeliana tra quanti si posero a propugnare il marxismo.

46. L. Dal Pane, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Einaudi, Torino, 1975, p. 340. 47. A. Labriola, In memoria del Manifesto dei comunisti, Newton Compton, Roma, 1973. 48. In proposito si rimanda al libro di D. Losurdo, Dai Fratelli Spaventa a Gramsci. Per una storia politica della fortuna di Hegel in Italia, La Città del Sole, Napoli, 2006. 49. A. Labriola, Opere, (a cura di) L. Dal Pane, vol. I, II, III, Feltrinelli, Milano, 1959, 1961, 1962. 50. A. Labriola, La concezione materialistica della storia, op. cit., p. 240.

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Questa lettura trova un’autorevole conferma nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale del 1873, dove Karl Marx – pur richiamandosi alla critica condotta trent’anni prima al lato mistificatore della dialettica hegeliana – sentiva il bisogno di prendere le distanze dai «molesti, presuntuosi e mediocri epigoni» che al tempo si permettevano di trattare Hegel come «un cane morto». In questo poscritto, oltre ad ammettere di avere «civettato qua e là» col modo di esprimersi peculiare a Hegel, nella parte relativa alla teoria del valore, Marx si professava apertamente scolaro del “grande pensatore”. La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico. Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente. Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso51.

Ma lo scritto più importante da questo punto di vista è sicuramente il Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca del 1888, nel quale Engels sentì il bisogno di ripartire dagli elementi essenziali della dialettica hegeliana per riaffermarne il primato rispetto alle concezioni del materialismo più rozzo e meccanico. Engels si prese la briga di ritornare sul progetto che nel 1845 lui e Marx si erano proposti di realizzare: fare i conti con la loro stessa formazione filosofica, riaffrontare la concezione ideologica della filosofia tedesca. Significativamente, Engels fece iniziare la pubblicazione del suo saggio su Feuerbach sulla Neue Zeit proprio mentre venivano pubblicate le ultime puntate del saggio di Kautsky su La miseria della filosofia, nel quale questa concezione era ampiamente e sistematicamente esposta. Nel Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia tedesca, Engels si richiamò a Hegel, e al carattere rivoluzionario della sua dialettica, riconoscendo nel movimento operaio in Germania l’erede della filosofia classica tedesca. Questo richia-

51. K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1994.

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mo sulla formazione filosofica del socialismo scientifico costituì secondo vari studiosi – primo fra tutti Ernesto Ragionieri – una risposta di Engels alle concezioni delle nuove leve che si accostavano al marxismo52. Così, se nel Ludwig Feuerbach il tributo e il costante richiamo alla filosofia di Hegel assumeva un significato polemico nei confronti della nuova vulgata socialista, la critica alle imperdonabili semplificazioni di questa era ancora più esplicita in una lettera di Engels del 27 ottobre 1890: Quel che manca a tutti questi signori è la dialettica. Essi vedono sempre e solamente qui la causa, là l’effetto. Non arrivano a vedere che questa è una vuota astrazione, che nel mondo reale simili contrapposizioni metafisiche polari esistono soltanto nei momenti di crisi, ma che l’intero grande corso delle cose si svolge nella forma dell’azione e reazione reciproca, anche se di forze molto ineguali, tra cui il movimento economico è di gran lunga il più forte, il più originario, il più decisivo; essi non arrivano a capire che niente è assoluto e tutto è relativo. Per essi Hegel non è esistito53.

Tuttavia, la chiarificazione più interessante in proposito è contenuta in uno scambio di vedute tra Engels e Marx in due lettere scritte tra l’8 e il 9 maggio del 1870. Nella prima lettera Engels si lamentò con Marx perché Wilhelm Liebknecht, in qualità di editore, decise di aggiungere in glossa marginale alla sua pubblicazione La guerra dei contadini una precisazione (non richiesta e soprattutto non condivisa) su Hegel. Questo commento fece andare su tutte le furie Engels, il quale, dopo aver definito Liebknecht «un animale» e la glossa un’autentica «stupidaggine» così si espresse: Costui commenta ad vocem Hegel: al largo pubblico noto come scopritore (!) e elogiatore (!!) dell’idea dello Stato (!!!) regio-prussiana (…) questo somaro che per anni s’è tormentato sulla ridicola antitesi fra diritto e potere senza capacitarsi, come un soldato di fanteria montato su un cavallo bizzarro e chiuso in un galoppatoio,

52. In merito Ernesto Ragionieri così si esprime. «Non è d’altra parte un caso che proprio al termine di questo scritto su Feuerbach, Engels rivendicasse nella famosa formula il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca, questo rapporto di eredità ideale che la scienza ufficiale respingeva o lasciava cadere. Il nesso proletariato-filosofia classica tedesca, che attraversa tutta l’attività di Marx ed Engels e così frequentemente ricorre nei loro scritti, trova qui una formulazione che ne costituisce un significativo punto d’arrivo in quanto ne precisa e attualizza uno dei termini nel movimento operaio tedesco, cioè nella classe operaia tedesca sindacalmente e politicamente organizzata, invitando con questo richiamo il Partito socialdemocratico a porsi anche teoricamente all’altezza di questa grande eredità storica». Il marxismo e l’Internazionale, op. cit., p. 147. 53. F. Engels, Sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma, 1949, p. 84.

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quest’ignorante ha la sfrontatezza di voler liquidare un tipo come Hegel con la parola prussiano e di dar a intendere al pubblico che l’abbia detto io. Ne ho abbastanza ora se W[ilhelm] non pubblica la mia dichiarazione, mi rivolgerò ai suoi superiori, al comitato, e se anche costoro cercheranno di manovrare, proibirò l’ulteriore pubblicazione. Meglio non pubblicato affatto che essere in tal modo proclamato asino da W[ilhelm]»54.

Non meno dura, nello stesso carteggio, è la risposta di Marx del 10 maggio: Ieri ho ricevuto l’accluso foglietto di Wilhelm. Incorreggibile artigiano zoticone tedesco-meridionale. (…) gli avevo detto che, se su Hegel non era in grado di far altro se non ripetere le vecchie porcherie di Rotteck e Welckler, se ne stesse piuttosto zitto. Questo egli lo chiama trattare Hegel un po’ meno cerimoniosamente ecc. e, se lui scrive scemenze sotto i saggi di Engels, Engels allora può ben (!) dire cose più particolareggiate (!!). Costui è davvero troppo stupido55.

A sua volta, Marx, rispondendo alla lettera di Engels liquida l’intera vicenda definendo Liebknecht «incorreggibile artigiano zoticone tedescomeridionale». Al di là del caso specifico, questo modo di intendere il materialismo storico era per Engels, come per Marx, frutto di un fraintendimento grossolano, e ciò trova la sua conferma più chiara nella lettera scritta a Bloch il 20 settembre del 1890. Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base ma i diversi momenti della soprastruttura (...) esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca in tutti questi fattori, ed è attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali (...) se non fosse così l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la semplice equazione di primo grado56.

54. Carteggio Marx-Engels, Editori Riuniti, Roma, 1972, vol. VI, p. 77. 55. Ivi, p. 78. 56. F. Engels, Sul materialismo storico, op. cit., p. 75.

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Questa intensa dialettica, nella quale si inserisce con effetti dirompenti una figura come Lenin57, è un retroterra fondamentale alle future polemiche di Gramsci, perché tutte le tendenze deterministe del materialismo storico trovarono poi cittadinanza nella parte generale del programma di Erfurt del 1891 – scritto proprio da Kautsky – non solo votato dalla socialdemocrazia tedesca, ma presto divenuto punto di riferimento teorico per tutti gli altri partiti socialisti, compreso quello italiano. Antonio Labriola costituiva un caso a parte nel panorama del socialismo italiano sia per la sua formazione filosofica, sia per essersi trovato in una posizione di rilievo, al centro del dibattito più avanzato in seno alla Seconda Internazionale. Per tutte queste ragioni, Labriola è considerato da Gramsci un costante punto di riferimento, quasi l’antidoto ai principali limiti filosofici del socialismo tra Ottocento e Novecento. 3. Autoeducazione e autonomia dei “produttori” Il giovane Gramsci, avido lettore di riviste filosofiche e politiche già negli anni cagliaritani, trova nel materialismo storico inteso come visione unitaria del mondo e concezione dialettica della storia il terreno concreto della sua maturazione intellettuale. Oltre al già citato “Il Sillabo e Hegel”, è un esempio in tal senso l’articolo “Socialismo e cultura”58, pubblicato su Il Grido del Popolo, nel quale la distanza dalle matrici culturali predominanti nel socialismo italiano si lega strettamente alla denuncia del rapporto dualistico tra dirigenti e diretti che lo caratterizzava. Il socialismo riformista considerava la cultura come un qualcosa di troppo complicato per i “semplici”, il coinvolgimento delle masse popolari non aveva nulla di empatico, doveva essere graduale e avvenire attraverso una popolarizzazione (banalizzazione) di concetti e principi ridotti a dimensione scolastica e meccanica, nella convinzione che fosse necessario dispensare loro il sapere in piccole dosi. Quello massimalista, a sua volta, si limitava a respingerla, perché considerata irrimediabilmente borghese e contraria all’interesse

57. G. Fresu, Lenin leitor de Marx. Determinismo e dialética na história do movimento operário, Anita Garibaldi editora, São Paulo, 2016. 58. A. Gramsci, “Socialismo e cultura”, Il Grido del Popolo, corsivo 29 gennaio 1916, in Scritti Giovanili 19141918, Einaudi, Torino, 1958, p. 23..

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del rivoluzionario del proletariato. Contro questa impostazione, il giovane Gramsci polemizzò duramente, denunciando un’idea esteriore ed enciclopedica di cultura, funzionale alla creazione di intellettuali pedanti e presuntuosi che utilizzano il loro sapere per distinguersi dal popolo, non per mettersi al suo servizio. La critica alla cultura enciclopedica, alla erudizione edificata su castelli di citazioni e nozioni deteriori non è certo una novità, si trova anche nella filosofia dell’educazione di un liberale come John Locke e in quella di un democratico radicale come Rousseau. Tuttavia, in Gramsci, questa postura della cultura è criticata in quanto paradigmatica dell’assenza di connessioni organiche tra intellettuali e masse. Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. Serve a creare quel certo intellettualismo bolso e incolore, così bene fustigato a sangue da Romain Rolland, che ha partorito tutta una caterva di presuntuosi e di vaneggiatori, più deleteri per la vita sociale di quanto siano i microbi della tubercolosi o della sifilide per la bellezza e la sanità fisica dei corpi. Lo studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di più di quanto gli altri valgano nella loro. Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce59.

La critica verso un’idea di cultura intesa come riserva e monopolio delle caste sacerdotali degli intellettuali si univa dunque alla polemica contro il positivismo socialista, che applicava le categorie delle scienze naturali alla storia dell’uomo. A prescindere dalla forte influenza idealista, ancora ben 59. Ibid.

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presente, già in questo articolo troviamo alcuni concetti e temi poi caratteristici, in seguito sviluppati da Gramsci. La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. L’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l’umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per sé stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni60.

Per il giovane Gramsci, la Rivoluzione francese non poteva essere interpretata in senso naturalistico, come risultato del fatale andare delle cose, era semmai il risultato di un paziente lavoro di penetrazione culturale e costruzione di coscienze collettive. Nel dicembre del 1916, sull’edizione piemontese de l’Avanti, Gramsci pubblicò l’articolo “Uomini o macchine” assai interessante per almeno tre ragioni: 1) sottolinea la mancanza di una idea di riforma scolastica nel programma del partito del proletariato italiano; 2) descrive la natura di classe della struttura scolastica italiana e la selezione sociale da essa generata; 3) localizza nella divisione tra scuola delle classi dominanti e scuole professionali per le masse popolari uno strumento al servizio di quella divisione e specia-

60. Ivi, p. 24.

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lizzazione del lavoro che rende invalicabile la barriera tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. L’orizzonte socialista si limitava per Gramsci a una vuota propaganda in favore di una fantomatica cultura popolare, impastata di paternalismo e petizioni di principio, ma priva di sostanza. Di fatto la scuola restava una istituzione borghese, ma il PSI si dimostrava incapace a proporre il nuovo in luogo del vecchio così come in generale difettava di una prospettiva strategica organica e coerente. La scuola media e superiore, che è di Stato, e cioè è pagata con le entrate generali, e quindi anche con le tasse dirette pagate dal proletariato, non può essere frequentata che dai giovani figli della borghesia, che godono dell’indipendenza economica necessaria per la tranquillità degli studi. Un proletario, anche se intelligente, anche se in possesso di tutti i numeri necessari per diventare un uomo di cultura, è costretto a sciupare le sue qualità in attività diversa, o a diventare un refrattario, un autodidatta, cioè (fatte le dovute eccezioni) un mezzo uomo, un uomo che non può dare tutto ciò che avrebbe potuto, se si fosse completato ed irrobustito nella disciplina della scuola. La cultura è un privilegio. La scuola è un privilegio. E non vogliamo che tale essa sia. Tutti i giovani dovrebbero essere uguali dinanzi alla cultura61.

Il tema dirigenti-diretti, come conseguenza della divisione artificiale (non naturale) tra lavoro intellettuale e manuale, trova in queste righe un approfondimento anticipatore della futura elaborazione gramsciana dei Quaderni. Il proletariato, che è escluso dalle scuole di cultura media e superiore per le attuali condizioni della società che determinano una certa specializzazione degli uomini, innaturale, perché non basata sulle diverse capacità, e quindi distruttrice ed inquinatrice della produzione, deve riversarsi nelle scuole collaterali: tecniche e professionali. Quelle tecniche, istituite con criteri democratici dal ministro Casati [legge Casati 1859 - Gabrio Casati 1798-1873, ministro della pubblica istruzione nel periodo 1867-1888, ndr], hanno subìto per le necessità antidemocratiche del bilancio statale, una trasformazione che le ha in gran parte snaturate. Sono ormai in gran parte diventate superfetazioni delle scuole classiche, e uno sfogatoio innocente della impiegomania piccolo-borghese62.

61. Ivi, p. 58. 62. Ibid.

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La biforcazione, imposta sin dall’infanzia, tra una scuola di cultura classica e una di avviamento professionale era il sigillo affermatosi storicamente nelle relazioni produttive al cui servizio veniva posta anche l’istituzione che per natura dovrebbe favorire l’emancipazione dell’uomo dai condizionamenti di una dimensione incompleta. Nella visione di Gramsci, come in Marx, lo sviluppo integrale, onnilaterale dell’uomo poteva avvenire solo ricongiungendo questa frattura storicamente determinata; in tal senso la scuola avrebbe dovuto unire il sapere teorico con la conoscenza tecnica, liberandolo dai condizionamenti sociali e dello stato di necessità. Senza questo lavoro di trasformazione molecolare dell’umanità, il dominio dell’uomo sull’uomo e la divisione tra governanti e governati non sarebbe mai stata eliminata. Al proletariato è necessaria una scuola disinteressata. Una scuola in cui sia data al fanciullo la possibilità di formarsi, di diventare uomo, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere. Una scuola umanistica, insomma, come la intendevano gli antichi e i più recenti uomini del Rinascimento. Una scuola che non ipotechi l’avvenire del fanciullo e costringa la sua volontà, la sua intelligenza, la sua coscienza in formazione a muoversi entro un binario a stazione prefissata. Una scuola di libertà e di libera iniziativa e non una scuola di schiavitù e di meccanicità. Anche i figli dei proletari devono avere dinanzi a sé tutte le possibilità, tutti i campi liberi per poter realizzare la propria individualità nel modo migliore, e perciò nel modo più produttivo per loro e per la collettività. La scuola professionale non deve diventare una incubatrice di piccoli mostri aridamente istruiti per un mestiere, senza idee generali, senza cultura generale, senza anima, ma solo dall’occhio infallibile e dalla mano ferma. Anche attraverso la cultura professionale può farsi scaturire, dal fanciullo, l’uomo. Purché essa sia cultura educativa e non solo informativa, o non solo pratica manuale. Il consigliere Sincero, che è un industriale, è troppo gretto borghese quando protesta contro la filosofia. Certo, per gli industriali grettamente borghesi, può essere più utile avere degli operaimacchine invece che degli operai-uomini. Ma i sacrifici cui tutta la collettività si assoggetta volontariamente per migliorarsi e per far scaturire dal suo seno i migliori e i più perfetti uomini che la innalzino ancor più, devono riversarsi beneficamente su tutta la collettività e non solo su una categoria o una classe. È un problema di diritto e di forza. E il proletariato deve stare all’erta, per non subire un’altra sopraffazione dopo le tante che già subisce63.

63. Ivi, p. 59.

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Come chiarito sino a ora, la sottolineatura dialettica (in chiave antipositivista) del marxismo costituisce un dato costante dei diversi momenti dell’elaborazione gramsciana. Nel numero unico de La Città Futura, interamente scritto da Gramsci nel febbraio del 1917, ritenuto da gran parte degli studiosi il punto d’arrivo della sua formazione giovanile, egli salutò il dissolvimento del mito socialista della fede cieca in tutto ciò che è accompagnato dall’attributo “scientifico”. Una visione antidialettica e superstiziosa, nella quale il ruolo attivo e cosciente non era minimamente contemplato, tanto da far apparire la funzione dell’uomo passiva e subalterna rispetto alle leggi dell’economia. La società ideale, il socialismo, era così immaginata a partire da un positivismo filosofico mistico, «aridamente meccanico» e ben poco scientifico. Questa débâcle della scienza nel socialismo, o per meglio dire del suo mito, aveva per Gramsci il significato di un profondo rinnovamento grazie al quale i soggetti sociali protagonisti delle rivoluzioni riassumevano coscienza del proprio ruolo non più schiacciato dal peso di leggi naturali infrangibili. «Alla legge naturale, al fatale andare delle cose degli pseudo-scienziati è stata sostituita: la volontà tenace dell’uomo»64. In polemica con queste posizioni, Claudio Treves accusò Gramsci e i giovani de L’Ordine Nuovo di volontarismo e incultura. Nell’articolo “La critica critica” del 1918, Gramsci rispose che la nuova generazione, leggendo e studiando le opere pubblicate in tutta l’Europa dopo l’età doro del positivismo, aveva preso definitivamente coscienza della sterilizzazione operata dai socialisti deterministi sull’opera di Marx, senza per questo ottenere né conquiste culturali, né avanzamenti politico-sociali. Treves, al posto dell’uomo individuale realmente esistente, collocava il determinismo riducendo il pensiero di Marx a schema esteriore, a una legge naturale che si sviluppa al di fuori e a prescindere della volontà degli uomini, una postura che rendeva il marxismo la dottrina dell’inerzia del proletariato. Treves non eliminò del tutto il volontarismo, solo lo trasformò in volontà del piccolo compromesso ministeriale, delle piccole conquiste, «dell’uovo oggi meglio che la gallina domani, anche se l’uovo è un uovo di pidocchio»65.

64. A. Gramsci, “La Città futura”, 11 febbraio 1917, in Scritti giovanili, op. cit., p. 85. 65. A. Gramsci, “La critica critica”, Il Grido del Popolo, 12 gennaio 1918. Ivi, p. 155.

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In questo modo i socialisti positivisti hanno fatto abbandonare al partito l’opera di proselitismo tra le masse, inculcando in esse il senso di impotenza di fronte alle grandi leggi storiche e naturali dell’evoluzione economica. Contro questa impostazione Gramsci riaffermò la stessa centralità creatrice dell’uomo nel processo storico al centro delle riflessioni de L’Ideologia tedesca, opera al tempo non conosciuta. In essa Marx e Engels parlano dello sviluppo della società e del divenire storico come risultato di una interazione permanente tra l’uomo e la realtà circostante, in ragione della quale il primo atto storico degli individui, attraverso il quale si distinsero dagli animali, non era il pensiero, ma la produzione dei propri mezzi di sussistenza. La produzione è la dinamica e l’origine creatrice di nuove necessità e capacità da cui si genera la socialità, essendo la prima azione storica e premessa di tutte le altre attività. L’uomo non produce solo beni, ma idee e rappresentazioni della realtà. Contro ogni riduzione determinista del divenire, Gramsci rivendicò alla «nuova generazione» la volontà di ritornare alla genuina dottrina di Marx, «per la quale l’uomo e la realtà, lo strumento di lavoro e la volontà, non sono dissaldati, ma si identificano nell’atto storico», e per la quale «i canoni del materialismo storico valgono solo post factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato e non debbano diventare ipoteca sul presente e sul futuro»66. Le deformazioni operate sull’opera di Marx da parte del marxismo ufficiale avevano la grave responsabilità di mortificarne la vitalità, trasformando il senso più profondo del materialismo storico in «parabole» scandite da imperativi categorici e indiscutibili, al di fuori da qualsiasi categoria di spazio e tempo. Per Gramsci, Marx non era né un messia né un profeta, bensì uno storico; pertanto il marxismo andava epurato da tutte le successive incrostazioni metafisiche e ricollocato nella sua giusta dimensione, in modo da coglierne coerentemente il valore generale e trarne un metodo scientifico di valutazione storica: Prima di Marx la storia era solo dominio delle idee. L’uomo era considerato come spirito, come coscienza pura. Due conseguenze erronee derivavano da questa concezione: le idee messe in valore erano spesso arbitrarie, fittizie. I fatti cui si dava importanza erano aneddotica, non storia. Con Marx la storia continua ad essere

66. Ibid.

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dominio delle idee, dello spirito, dell’attività cosciente degli individui singoli o associati. Ma le idee, lo spirito, si sustanziano, perdono la loro arbitrarietà, non sono più fittizie astrazioni religiose o sociologiche. La sostanza loro è nell’economia, nell’attività pratica, nei sistemi e nei rapporti di produzione e di scambio. (...) è inutile l’avverbio marxisticamente, e anzi esso può dare luogo ad equivoci e ad inondazioni fatue e parolaie. Marxisti, marxisticamente... aggettivo e avverbio logori come monete passate per troppe mani67.

Con queste premesse, la rivoluzione dell’ottobre 1917 e il ruolo del suo principale protagonista, s’impongono nell’animo del giovane Gramsci spazzando via le ossificazioni dogmatiche del determinismo e la pretesa linearità storica, tradotta dalle scienze naturali, in ragione della quale si sarebbe passati dal modo sociale di produzione feudale a quello capitalistico e, solo dopo questo, al socialismo, come nell’evoluzione della specie si passa dalla scimmia all’uomo, per contraddizioni tutte interne alle leggi dell’economia, non per l’intervento attivo e consapevole delle grandi masse popolari. In tal senso il celebre articolo “La rivoluzione contro il Capitale” del dicembre 1917, coglie con sorprendente lucidità il dato saliente del primo “assalto al cielo” del Novecento. Questo articolo, spesso definito ingenuo, idealista, rappresentativo di un Gramsci ancora “troppo acerbo”, costituisce per molti versi un manifesto della concezione gramsciana sulla rivoluzione: [i bolscevichi] non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealista italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche. E questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l’uomo, la società degli uomini, degli uomini che si accostano fra loro, si intendono tra di loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la matrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva (…)68.

Il percorso intellettuale del giovane Antonio Gramsci, mosso da un marxismo nettamente antipositivista, si è dunque nutrito dell’apporto della filo67. A. Gramsci, “Il nostro Marx”, Il Grido del Popolo, 4 maggio 1918. Ivi, p. 220. 68. Ivi, p. 150.

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sofia idealista e della concezione leninista dell’intervento rivoluzionario. A queste due matrici bisogna aggiungere la critica soreliana al decadimento e alla corruzione del marxismo, ridotto dalla socialdemocrazia a mera formula rituale con la quale, secondo il filosofo francese, si copriva con una terminologia rivoluzionaria una pratica politica distante dalle masse e a esclusivo vantaggio di gruppi dirigenti e intellettuali borghesi. In Gramsci il problema del rapporto tra intellettuali e masse all’interno del movimento operaio è affrontato alla luce di una critica netta e senza reticenze alle modalità deteriori di direzione politica nel socialismo. Egli individua nella natura strumentale di questo rapporto le ragioni di una radicale riorganizzazione politico-sociale, pertanto, l’autosufficienza della classe operaia era un’esigenza non più rinviabile per le prospettive della rivoluzione socialista. Il Partito socialista italiano si è costituito all’inizio per il confluire caotico di individui usciti dalle più diverse scaturigini sociali: ha tardato a diventare interprete della volontà classista del proletariato. È stato palestra di individualità bizzarre, di spiriti irrequieti; nell’assenza delle libertà politiche ed economiche che pungolano l’azione e rinnovano continuamente i ceti dirigenti, il Partito socialista è stato il fornitore di individui nuovi alla borghesia pigra e sonnolenta. I giornalisti più quotati, gli uomini politici più capaci e attivi della classe borghese, sono disertori del movimento socialista; il Partito socialista è stato la passerella delle fortune politiche italiane, è stato il crivello più efficace dello individualismo giacobino69.

In riflessioni come questa è evidente l’influenza su Gramsci di Georges Sorel, protagonista di critiche spietate alle tendenze decompositive delle organizzazioni marxiste. Secondo il filosofo francese, il comparire dei partiti politici rivoluzionari determina uno scenario completamente nuovo e imprevisto per il movimento storico della lotta sociale, nel quale non ci troviamo più di fronte alle classi subalterne mobilitate dagli istinti e dalla necessità, ma a dirigenti istruiti che ragionano degli interessi di partito negli stessi termini con cui gli imprenditori si rapportano ai profitti. Anzitutto questi partiti sono mossi opportunisticamente dai vantaggi offerti dall’esercizio del potere statale; oltre a ciò, nella grande maggioranza dei

69. “Dopo il Congresso”, Il grido del Popolo, 14 settembre 1918, in A. Gramsci, Scritti giovanili, op. cit., p. 313.

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casi, i suoi dirigenti provengono proprio da quelle stesse classi dominanti che la rivoluzione intende colpire: il fatto è [scrive Sorel] che questi uomini, non avendo trovato all’interno della loro classe i mezzi per impadronirsi del potere, hanno dovuto reclutare un esercito fedele tra quelle classi i cui interessi sono in opposizione con quelli della propria famiglia70.

L’irrompere all’interno del movimento rivoluzionario dei partiti politici ebbe l’effetto di allontanarlo dalla “semplicità primitiva”. Prima la volontà poggiava sulla forza del numero, dunque sulla convinzione di poter instaurare maggioritariamente un nuovo ordine coerente con le proprie esigenze. Tuttavia, quando le masse accettarono di farsi dirigere da uomini portatori di interessi diversi, l’istinto di rivolta divenne la base dello “Stato popolare” (l’organizzazione politica del movimento operaio) formato da borghesi desiderosi di continuare la vita borghese, sebbene nella condizione nuova di capi del proletariato. Il possesso dello Stato è per Sorel l’oggetto vero delle brame degli intellettuali borghesi divenuti dirigenti del movimento rivoluzionario, per cui i partiti politici socialisti divengono ben presto delle complicate “macchine elettorali” incapaci di resistere alla forza d’attrazione del potere, fino a esserne assorbite del tutto. In Sorel sono presenti due temi centrali per Gramsci: 1) l’utilizzo strumentale delle masse popolari da parte degli intellettuali borghesi come trampolino di lancio per la realizzazione delle proprie aspirazioni sociali; 2) il progressivo riassorbimento dei dirigenti del movimento operaio da parte dello Stato borghese: Aumentando costantemente il numero dei suoi impiegati, questo Stato lavora per costituire un gruppo di intellettuali con interessi distinti da quelli del proletariato dei produttori; in tal modo esso rafforza la difesa della struttura borghese contro la rivoluzione proletaria. L’esperienza ci mostra che tale borghesia di commessi, per debole che sia la sua cultura, è non meno attaccatissima alle idee borghesi; vediamo addirittura, da un largo numero di esempi, che se qualche propagandista della rivoluzione riesce a penetrare negli ambienti governativi, esso diventa con la più grande facilità un ottimo borghese71.

70. G. Sorel, La decomposizione del marxismo, in Scritti politici, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1968, p. 747. 71. Ivi, p. 749.

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Sorel, rifacendosi anche a un altro teorico del sindacalismo rivoluzionario come Fernand Pelloutier, indicò la soluzione a questo problema nell’autogoverno completo dei produttori, anzitutto nell’esercizio delle proprie istituzioni, come le Bourses du travail72, all’interno delle quali la classe operaia doveva istruirsi ed armarsi per la rivoluzione, superando definitivamente ogni suggestione sulla riformabilità del capitalismo. I partiti politici rivoluzionari invece, diretti da intellettuali borghesi, mossi da esigenze elettorali alla politica del compromesso, finivano per corrompere gli istinti del proletariato depotenziandone il vigore rivoluzionario. Sorel si richiamò a Pelloutier per affermare la necessità di organizzazioni di produttori che sbrigano da sé i propri affari, senza bisogno di «ricorrere ai lumi dei rappresentanti borghesi», trovando nello sciopero generale la misura della propria autosufficienza e indipendenza dalle classi colte e con essa l’avvento del mondo futuro. Leonardo Paggi, nel suo Le strategie del potere in Gramsci, ha analizzato con cura il peso delle influenze soreliane, ma, al tempo stesso, ha sottolineato come la risposta di Gramsci a questo problema non si esprime nella negazione del partito politico rivoluzionario in quanto tale, semmai è indirizzata «verso una più stretta correlazione tra socialismo e cultura, nel tentativo di sottolineare il ruolo che l’autoeducazione della classe operaia può svolgere nella selezione di un personale dirigente capace di sbarrare la strada alla dittatura degli intellettuali»73. Al contrario di quanto sostenuto da Sorel, per il giovane Gramsci, il marxismo poteva e doveva costituire una modalità nuova di partecipazione delle classi subalterne alla vita politica, come strumento di liberazione di nuove energie umane, individuali e collettive, all’interno del quale era in sostanza possibile risolvere la divisione storicamente determinata tra dirigenti e diretti, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. La contrapposizione alla “dittatura degli intellettuali”, inteso come personale politico dirigente di un partito, trova dunque nell’autoeducazione della classe operaia la sua risposta più conseguente, e questo doveva avvenire anzitutto negli organismi associativi della classe operaia, come i Consigli di fabbrica, e nell’assunzione non mediata della direzione tanto produtti-

72. Corrispondenti alle nostre Camere del Lavoro. 73. L. Paggi, Le strategie del potere in Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1984, p. 308.

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va quanto politica. “Autoeducazione” e assunzione di un ruolo dirigente in prima persona come mezzo per rendere le masse autosufficienti rispetto a gruppi dirigenti e apparati burocratici a essa sovrappostisi in maniera non organica. Gramsci pose l’accento sull’esigenza di «gettare le basi del processo rivoluzionario nell’intimità della vita produttiva» ed evitare con ciò che esso si riducesse a niente altro che «uno sterile appello alla volontà, un mito nebuloso, una Morgana fallace»74. Se parte del marxismo del tempo concepiva la rivoluzione come un atto taumaturgico, essa invece doveva essere interpretata come un processo dialettico di sviluppo storico di cui la creazione dei Consigli costituiva il punto di partenza. Promuovere il sorgere e il moltiplicarsi di consigli operai e contadini, determinare il collegamento e la sistemazione organica fino all’unità nazionale da raggiungersi in un congresso generale, sviluppare una intensa propaganda per conquistarne la maggioranza, è il compito attuale dei comunisti. L’urgere di questa nuova fioritura di poteri che sale irresistibilmente dalle grandi masse lavoratrici, determinerà l’urto violento delle due classi e l’affermarsi della dittatura proletaria75.

Secondo Carlos Nelson Coutinho, già nella elaborazione giovanile di Gramsci possiamo cogliere un diverso modo di concepire non solo la democrazia rappresentativa, ma il socialismo, che lo differenzierebbe tanto dal “comunismo storico”, quanto dal significato meramente formale di democrazia proprio del liberalismo classico: La rivalutazione gramsciana della democrazia non si riduce ancora né al pensiero liberale né alle formulazioni più datate del “comunismo storico”, ma rimanda piuttosto ai classici della filosofia politica, in particolare Rousseau e Hegel. Non credo di sbagliare se affermo che Gramsci – insistendo sul ruolo del consenso nello Stato allargato – abbia reintrodotto nell’ambito del pensiero marxista elementi della problematica del contrattualismo, non nella sua versione liberale (o lockiana), ma nella versione democratico-radicale proposta da Rousseau76.

74. A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, 1987, p. 207. 75. C.N. Coutinho, Il pensiero politico di Gramsci, Unicopli, Milano, 2006, p. 146. 76. Ivi, p. 152.

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4. Lenin e l’attualità della rivoluzione Come accennato in apertura, l’incontro con Torino ha un’importanza capitale nella biografia umana e intellettuale di Gramsci, perché questa città rappresentava per lui l’avanguardia materiale e spirituale delle forze sociali progressive a livello nazionale, grazie alla sua classe operaia. Affascinato dalla nuova realtà, fu lui stesso a sottolineare la formidabile dinamicità della “Pietrogrado d’Italia”. Quando la capitale fu spostata da Torino, prima a Firenze e quindi a Roma, la città piemontese fornì al nuovo Stato unitario tutto il suo personale tecnico e amministrativo perdendo gran parte della sua piccola e media borghesia intellettuale. Questo mutamento di ruolo però, anziché portare al suo ridimensionamento, produsse una radicale trasformazione e uno sviluppo nuovo, perché da città nella quale predominavano la piccola industria e il commercio, Torino, in breve, divenne la capitale della grande industria attirando a sé il fiore della classe operaia italiana. In essa predominava la produzione metallurgica e in particolare quella automobilistica; solo nel settore siderurgico lavoravano cinquantamila operai e diecimila tecnici e impiegati. Le sue maestranze, formate in gran parte da operai qualificati, non avevano però, secondo Gramsci, la mentalità piccolo-borghese degli operai qualificati di altri Paesi come l’Inghilterra. In esse la componente più forte era quella degli operai metallurgici le cui vertenze divenivano spesso di natura generale, estendendosi alle altre categorie e assumendo carattere politico, anche quando partivano da rivendicazioni puramente sindacali. Qui, dopo la breve esperienza giovanile con L’Unione Sarda, Gramsci intraprende a livello professionale la sua attività pubblicistica collaborando, a partire dal 1915, alla redazione torinese de L’Avanti! e quindi al Grido del popolo, di cui diviene uno dei più importanti e apprezzati redattori, distinguendosi in particolare nella rubrica Sotto la Mole: È un tipo di giornalismo nuovo, in cui tematica culturale e approfondimento ideologico si intrecciano, armonizzandosi, con la propaganda e l’educazione popolare. La battuta polemica pungente e appropriata converge con la maturazione teorica77.

77. E. Garin, Con Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1997, p. 7.

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Non fu solo un tentativo professionale o uno strumento di azione militante, già negli anni della gioventù sarda il giornalismo fu per Gramsci una grande passione totalizzante; ora, in una realtà tanto diversa da quella della sua terra, il mestiere di giornalista diveniva un mezzo di affermazione esistenziale, grazie al quale la sua personalità e le sue capacità intellettuali ebbero modo di emergere e imporsi nel panorama del socialismo torinese. Nella sua prefazione a una recente antologia degli scritti sul giornalismo, Luciano Canfora ha sottolineato il valore della dichiarazione rilasciata da Gramsci durante l’interrogatorio del 9 febbraio 1927 successivo al suo arresto. Come è noto, dinnanzi al giudice istruttore Enrico Macis, Gramsci respinse le accuse di cospirazione affermando la totale controllabilità pubblica della sua attività in quanto deputato e soprattutto giornalista. Ma, secondo Canfora non si trattava solo di una mossa difensiva, era semmai la rivendicazione di un mestiere: «quello del giornalismo, che Gramsci ha assunto come suo lavoro una volta lasciatosi alle spalle il mondo universitario, dove, pure, la stima del linguista Matteo Bartoli gli apriva una significativa alternativa di vita»78. Ciò si spiega nuovamente con la sua concezione unitaria della filosofia della praxis, nella quale l’analisi ontologica (“essere”) e l’ambizione deontologica (“dover essere”) si saldano organicamente in coerenza con una propria (nuova) visione integrale del mondo. Pure il giornalismo, secondo Gramsci, era una trincea fondamentale, sul terreno della lotta egemonica, nella disputa tra il marxismo e le altre filosofie. L’ideologia liberale, in tutte le sue diverse articolazioni (filosofia, diritto, storia, economia), a differenza del materialismo storico, poteva disporre non solo di una tradizione consolidata, affinatasi nei secoli, e di mezzi (università, scuole, giornali, case editrici, organizzazioni culturali) incomparabilmente maggiori, ma anche di un personale intellettuale preparato, espressione organica e non episodica di interessi concreti. Gramsci attribuiva non solo alla scienza storica, ma anche al giornalismo una funzione essenziale nella costruzione di una coscienza critica dei gruppi subalterni, sia per smascherare le forme latenti, larvate e palesi di direzione da parte delle altre classi, sia per costruire una propria visione organica e

78. Antonio Gramsci, Il giornalismo, il giornalista, (a cura di) G. Corradi, Tessere, Firenze, 2017, p. XIII.

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coerente del mondo. In tal senso, nel Quaderno 6, Gramsci trattò della necessità di formare giornalisti «tecnicamente preparati a comprendere la vita organica di una grande città, impostando in questo quadro (senza pedanteria, ma anche non superficialmente e senza “brillanti improvvisazioni”) ogni singolo problema mano mano che diventa di attualità»79. Per l’intellettuale sardo, il giornalista, non solo il caporedattore ma pure il capocronista, doveva avere la preparazione tecnica necessaria a esercitare anche altre funzioni di direzione politica (sindaco, prefetto, membro di un consiglio provinciale); in tal senso «le funzioni di un giornale dovrebbero essere equiparate a corrispondenti funzioni dirigenti della vita amministrativa»80. Gramsci parla del “capocronaca di tipo organico” come di una figura di grande spessore intellettuale, capace di porre a sintesi gli aspetti più generali e costanti nella vita di una città, sfrondandoli dagli elementi episodici dell’attualità, che pure devono sempre essere al centro dell’attività giornalistica. Il tema dell’organicità nella professione giornalistica è nuovamente oggetto del Quaderno 14, dove questa attività è presentata come «esposizione di un gruppo che vuole, attraverso diverse attività pubblicistiche, diffondere una concezione integrale del mondo»81. In forma sistematica tutto ciò emergeva nelle pubblicazioni periodiche annuali, gli Almanacchi, dove quel gruppo dava pubblicità periodica alla propria visione del mondo, conferendole forma omogenea e coerente con il livello di organicità assunto dalla concezione generale delle cose82. Il “giornalismo integrale” doveva esser in grado non solo di «soddisfare tutti i bisogni del suo pubblico, ma di creare questi bisogni e quindi creare, in un certo senso, il pubblico stesso»83. Sebbene non firmasse gran parte dei suoi articoli e utilizzasse pseudonimi o al massimo le proprie iniziali, la fama di Gramsci negli ambienti socialisti e più in generale in quelli intellettuali iniziò da subito a diffondersi. Alfonso

79. 80. 81. 82.

A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 778. Ibid. Ivi, p. 1719. In questa ottica il problema fondamentale riguardava anzitutto la dimensione ideologica, ossia se il giornale o periodico soddisfa o meno i bisogni politico-intellettuali del suo pubblico. Tuttavia, anche il modo di presentare la pubblicazione, la sua fattura editoriale richiedevano la stessa cura del contenuto ideologico e intellettuale, perché esiste un rapporto inscindibile tra questi due elementi. «Un buon principio (ma non sempre) è quello di dare all’esterno di una pubblicazione una caratteristica che di per sé si faccia notare e ricordare: è una pubblicità gratuita, per così dire. Non sempre, perché dipende dalla psicologia del particolare pubblico che si vuole conquistare», Ivi, p. 1742. 83. Ivi, p. 1725.

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Leonetti, in seguito figura di spicco del gruppo ordinovista, in alcune memorie scrisse dell’incontro con Gramsci come un momento di svolta che lo indusse a rivedere tutta la sua formazione politica e teorica, ricordando le interminabili discussioni redazionali, sotto i portici o nelle passeggiate in collina, dell’approccio caratteriale di Gramsci84, del suo rigore intellettuale, del rispetto con il quale si presentò al primo incontro, nella redazione in corso Siccardi a Torino, in una calda mattina dell’estate 1918: Di lui sapevo solo quanto Giuseppe Scalarini – il noto caricaturista dell’Avanti! – e Alessandro Schiavi mi avevano detto durante il mio passaggio a Milano e cioè che a Torino avrei trovato un poderoso giovane scrittore socialista di nome Gramsci al quale essi mi raccomandavano di rivolgermi e di affidarmi per la mia iniziazione al movimento operaio torinese85.

Giuseppe Fiori, nella sua famosa biografia, così descrisse questo debutto nel firmamento del giornalismo: «era nato uno scrittore nuovo, assolutamente diverso da quelli con i quali i lettori dei giornali socialisti avevano fin lì familiarizzato»86. Nella sua rubrica Gramsci scrive articoli con un’intonazione decisamente più colta rispetto alla media della pubblicistica socialista: Erano pezzi satirici, piccoli gioielli che facevano del giovane scrittore sardo un pamphlétaire esemplare, unico in un Paese dove il pamphlet è un genere quasi sconosciuto (...) in tutti gli scritti di Gramsci, dai brevi saggi teorici alle cronache teatrali, veniva in evidenza uno stile nuovo: il trapasso dall’enfasi arringatoria dei Rabezzana e dei Barberis al gusto per il ragionamento; la lingua sorvegliata, alle volte di purezza classica così lontana da quella scamiciata dei vecchi87.

Il Grido del Popolo rappresentò una prima importante risposta alle esigenze di approfondimento teorico e di azione rivoluzionaria suscitata dagli sconvolgimenti del 1917 nella nuova generazione socialista. Nel penultimo

84. «Gramsci non aveva slanci esteriori, ciò non gli impediva di sentire profondamente l’amicizia e di simpatizzare con gli altri. Tanto Gramsci era indulgente e paziente con un operaio quanto era severo, violento e privo di ogni pazienza con un intellettuale». A. Leonetti, Gramsci, i Consigli di fabbrica e il Congresso di Livorno, in I comunisti raccontano, Teti Editore, Milano, 1975, p. 14. 85. Ibid. 86. G. Fiori, Vita di Antonio Gramsci, op. cit., pp. 118-119. 87. Ibid.

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numero del 19 ottobre 191888, Gramsci poteva perciò congedarsi dai suoi lettori con un bilancio di tutto rispetto e con la soddisfazione di un lavoro profondo che aveva lasciato il segno contribuendo all’elevazione politica e culturale dei socialisti torinesi: Il Grido ha cercato di diventare, da settimanale di cronaca locale e di propaganda evangelica, una piccola rassegna di cultura socialista, sviluppata, secondo le dottrine e la tattica del socialismo rivoluzionario (...) Il Grido ha cercato di avere un indirizzo preciso, ideale, e certo vi è riuscito se i giornali avversari lo prendono ad esempio di frenetico (!) bolscevismo89.

Con la fine del conflitto quei fermenti suscitati dalla rivoluzione del 1917 si fecero magmatici e tumultuosi. Il rientro dal fronte di energie e forze popolari oramai consce di poter assolvere un ruolo decisivo nelle sorti della nazione non fece che caricare ulteriormente il presente di attese e speranze verso un futuro, oramai prossimo, nel quale tutto doveva cambiare. In un contesto di questo tipo, il primo maggio 1919, L’Ordine Nuovo, Rassegna settimanale di cultura socialista, iniziò le sue pubblicazioni. La sua nascita è senz’altro legata alla forza dirompente degli eventi, all’urgenza dell’ora, alla necessità di gettarsi nell’azione nel periodo più alto dell’espansione rivoluzionaria del XX secolo. Ma se la situazione forzosa aveva giocato un ruolo decisivo nell’indurre il gruppo redazionale (composto da Ottavio Pastore, Palmiro Togliatti, Alfonso Leonetti, Leo Galetto e appunto Antonio Gramsci) all’azione, la frenesia militante dei tempi aveva anche contribuito a una accelerazione avvenuta senza l’esistenza, all’interno del gruppo redazionale, di un’effettiva omogeneità politico-culturale. Come ricorderà lo stesso Gramsci, in un editoriale sul quale avremo modo di ritornare, l’unico sentimento che univa il gruppo redazionale nella sua prima fase di vita «era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare, ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell’ardente vita di quei mesi dopo l’armistizio, quando pareva imminente il cataclisma della società italiana»90.

88. Quando la sezione socialista torinese, proprietaria del settimanale, ne decide la chiusura per dedicare tutti gli sforzi finanziari, organizzativi ed intellettuali all’edizione torinese de l’Avanti!, Il Grido del Popolo termina le sue pubblicazioni. 89. A. Gramsci, “Il Grido del Popolo” (19 ottobre 1918), in Scritti Giovanili, op. cit., p. 325. 90. A. Gramsci, “Il programma de L’Ordine Nuovo 1920”, in L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 619.

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Negli anni de L’Ordine Nuovo, Torino era la punta più avanzata dell’espansione industriale in Italia, e viveva in maniera traumatica l’aumento esponenziale della sua popolazione operaia; era la prima città d’Italia a sperimentare i processi produttivi tayloristi, con tutto quel che ciò comportava sul piano dell’organizzazione del lavoro, dei ritmi produttivi, delle stesse relazioni sociali. A Torino più che in ogni altra città d’Italia, la classe operaia aveva conseguito con le sue lotte una forte soggettività politica tanto da riuscire a imporre già nel 1913 il contratto collettivo di lavoro. Tutto ciò, oltre a fare della classe operaia torinese, e in particolare quella della Fiat, un qualcosa di assolutamente originale nel panorama nazionale, consentiva, come scrisse Franco De Felice, «una verifica su basi di massa delle vecchie verità marxiane sulla socializzazione della produzione e massificazione come altra faccia dello sviluppo del capitale e sulla classe operaia come soggetto sociale definito capace di riorganizzare la produzione e la società sulla base del lavoro»91. È questa la realtà nella quale Gramsci sviluppa l’idea dello stretto rapporto tra produzione e rivoluzione come antitesi alle deleghe passive agli organismi burocratici, ponendo in connessione l’esperienza consiliare con lo sviluppo del conflitto di classe in Europa92. Questa necessità si esprime nella volontà di rendere i Consigli di fabbrica una prima forma di autogoverno della classe operaia, preludio della futura società socialista, tale da affermare, prima ancora della rottura rivoluzionaria, la sua unità e autonomia. L’autogestione produttiva diventa in questo modo funzionale a un obbiettivo strategico: far acquisire al proletariato una psicologia da classe dominante. Nella visione tanto del Gramsci ordinovista quanto di quello dei Quaderni, operai e masse popolari possono liberarsi dalla propria subalternità solo assumendo piena coscienza della legittimità, oltre che necessità storica, del proprio Stato. Come vedremo, Gramsci pensa al soggetto rivoluzionario come blocco sociale, all’interno del quale, a partire dal suo ruolo nella produzione, la classe operaia deve porsi il compito di dirigere gli “strati subalterni” e i gruppi sociali intermedi ondeggianti che nelle fasi più topiche della radicalizzazione possono contribuire a disorganizzare l’intera impalcatura statale borghese.

91. F. De Felice, Introduzione al Quaderno 22, in Americanismo e fordismo, Einaudi, Torino, 1978, p. VIII. 92. G. Fresu, Il diavolo nell’ampolla. Antonio Gramsci, gli intellettuali e il partito, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, La Città del Sole, Napoli, 2005, pp. 43-54.

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In quegli anni il movimento operaio mancava totalmente di una guida politica e di una strategia capace di andare oltre la psicologia parassitaria della «inevitabilità della rivoluzione». Secondo Gramsci, il PSI non si distingueva dagli altri partiti e, al di là dei degli infuocati proclami rivoluzionari, limitava la sua attività al diritto di tribuna istituzionale, senza avviare un serio lavoro teso alla conquista della maggioranza degli sfruttati. Il Partito socialista, incapace di sviluppare una politica verso gli strati intermedi delle città e delle campagne, non fece alcun tipo di proposta per assorbire la questione contadina nel suo programma rivoluzionario. In tutto ciò andavano ricercate le ragioni dell’isolamento della classe operaia nel corso del «biennio rosso», nonostante lo stato di perenne mobilitazione pre-insurrezionale dei braccianti agricoli. Le battaglie e le prime riflessioni di Gramsci sul rapporto tra gruppi dirigenti e masse scaturiscono proprio da questa drammatica contraddizione tra la forte consapevolezza di vivere un periodo storico rivoluzionario e l’altrettanta forte coscienza sull’inadeguatezza strutturale del partito politico della classe operaia italiana. Franco de Felice ha posto in evidenza come Gramsci individuasse una delle coordinate essenziali dell’assetto sociale capitalistico nella distinzione tra società civile e società politica, e in quella tra borghese e cittadino. Per sovvertire quest’ordine – incardinato nella preminenza del momento politico – era necessario «recuperare come punto di partenza il rapporto di produzione, che in una società capitalistica identifica la divisione in classe e la contraddizione fondamentale della società borghese»93, facendo della produzione la fonte del potere e della sovranità, perché l’economia non è solo produzione di beni, ma anche di rapporti sociali. In altri termini, secondo Gramsci, il proletariato per divenire classe dominante doveva far coincidere funzione economica e politica, ossia l’azione economica avrebbe dovuto sancire, almeno quanto quella politica, l’effettiva autonomia dei lavoratori. L’autodeterminazione economico-sociale rappresentava la precondizione affinché la sua azione politica assumesse «valore storico reale». Il Consiglio di fabbrica era, pertanto, la sede all’interno della quale la classe operaia avrebbe dovuto esercitare la sua direzione economica in funzione della più complessiva direzione politica. In tal senso la prospetti-

93. Ivi, p. XIII.

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va del Soviet politico doveva scaturire dall’organica costruzione dei Consigli di fabbrica: Il Consiglio di fabbrica e il sistema dei Consigli di fabbrica saggia e rivela in prima istanza le nuove posizioni che nel campo della produzione occupa la classe operaia; dà alla classe operaia consapevolezza del suo valore attuale, della sua reale funzione, della sua responsabilità, del suo avvenire. La classe operaia trae le conseguenze dalla somma di esperienze positive che i singoli individui compiono personalmente, acquista la psicologia e il carattere di classe dominante, e si organizza come tale, cioè crea il Soviet politico, instaura la sua dittatura94.

L’elaborazione di Gramsci in questi anni è tributaria di diverse esperienze e teorie sulla democrazia consiliare, ma trova in Lenin e nella rivoluzione sovietica il suo punto di ispirazione principale. Fare del Consiglio di fabbrica il primo nucleo della futura società sovietica avrebbe allontanato il movimento operaio dall’astrattismo ideologico, dalla vuota fraseologia radicale e dall’inerzia indotta dalla psicologia passiva incentrata sull’inevitabilità della rivoluzione trasformata in atto di fede. Gramsci non lesinò critiche feroci all’assoluta indeterminatezza dei discorsi di intellettuali e dirigenti socialisti sulla struttura economica italiana e sul concetto di rivoluzione in generale, nei quali le esigenze retoriche del persuadere sembravano prevalere sulle reali intenzioni di comprensione della realtà. In quest’accusa verso il verbalismo massimalista è contenuta la condanna di un intero gruppo dirigente che, dalla sua costituzione in poi, non si era mai preoccupato di compiere uno studio approfondito della specifica formazione economico-sociale italiana: I riformisti e gli opportunisti si guardano bene da ogni determinazione concreta. Essi, che si pretendono i depositari della sapienza politica e dell’ampolla col diavolo dentro, non hanno mai studiato i problemi reali della classe operaia e del divenire socialista, hanno perduto ogni contatto fisico e spirituale con le masse proletarie e con la realtà storica (…) hanno sempre ritenuto più igienico il gioco dello scopone o l’intrigo parlamentare che lo studio sistematico e profondo della realtà italiana95.

94. A. Gramsci, “Lo strumento di lavoro”, L’Ordine Nuovo (14 febbraio 1920), in L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 413. 95. A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 414.

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Secondo Gramsci, in quasi quarant’anni di vita, il PSI non era stato in grado di produrre nemmeno un libro serio sullo sviluppo dei rapporti sociali di produzione in Italia. Tutto ciò aveva disarmato la classe operaia, rendendola facile preda di una inerte fraseologia rivoluzionaria priva di basi analitiche, costrutto e prospettive. Nonostante i limiti della direzione politica e di quella sindacale, secondo Gramsci la classe operaia seppe raggiungere nella produzione un alto grado di autonomia, creò i suoi istituti rappresentativi, prese coscienza di sé e della possibilità del proprio autogoverno. La classe operaia, grazie ai Consigli, «e senza il contributo degli intellettuali piccolo-borghesi»96, era riuscita a comprendere nell’intimo il funzionamento dell’intero apparato di produzione e scambio, rendendo patrimonio collettivo dell’intera classe le esperienze reali dei suoi singoli componenti. Partendo dall’unità elementare della sua squadra di reparto, aveva preso coscienza della sua posizione nel campo economico, si era auto-educata in senso socialista. Questo fiorire vitale di soggettività seppe imporsi sulla pesante eredità bellica, che lasciò il Paese lacerato, impoverito e dominato dalle contraddizioni sociali. Un effetto collaterale della più grande guerra della storia fu l’aver scatenato la partecipazione di gruppi sociali fino ad allora passivi, creando un quadro totalmente nuovo dominato dalla cosiddetta “politica di massa”. La Prima guerra mondiale aveva suscitato delle immense forze sociali gettando sul proscenio internazionale masse sterminate, utilizzate come “carne da cannone” nella più grande guerra imperialista fino ad allora mai vista. La guerra dà all’Italia, unita da nemmeno mezzo secolo, una terribile scossa. Essa è costata 680.000 morti, mezzo milione di mutilati e di invalidi, più di un milione di feriti. (…) In nessun Paese la smobilitazione pone dei problemi così gravi. Gli sbocchi tradizionali dell’emigrazione, attraverso i quali si erano incanalati, nel 1913, circa 900.000 lavoratori e soprattutto contadini senza terra, si chiudono sempre di più. Ove piazzare coloro che tornano dal fronte e per quanto tempo le industrie di guerra potranno mantenere il milione di operai che vi lavorano? Come trasformare l’industria di guerra in industria di pace? Come aprirsi, in mezzo al disordine generale, alle convulsioni persistenti ed agli appetiti risorgenti, un cammino verso il mercato mondiale, sconvolto, impoverito, e guatato da concorrenti implacabili, meglio preparati e meglio organizzati?97

96. Ibid. 97. A. Tasca, Nascita e avvento del Fascismo, Laterza, Bari, 1972, p. 17.

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La crisi economica e morale del dopoguerra fu particolarmente grave in Italia, segnata da una stagnazione che coincise con il ritorno dei soldati dal fronte e le difficoltà a riconvertire l’economia di guerra in produzione civile. Dalla guerra alcune limitate categorie sociali avevano tratto benefici e accumulato profitti, mentre per la stragrande maggioranza della popolazione ci fu un netto peggioramento delle condizioni di vita. L’inflazione, la disoccupazione di massa, l’aumento dello sfruttamento e la contrazione del potere d’acquisto dei salari raggiunsero punti acutissimi di intensità. La guerra era costata al Paese un prezzo enorme in termini di vite e di costi sociali, senza nemmeno il pieno raggiungimento degli obiettivi strategici contrattati con il patto di Londra, o almeno di quel che il governo aveva propagandisticamente annunciato per favorire la mobilitazione generale. La Prima guerra mondiale provocò nella società europea una profonda crisi economica, politica e culturale. La guerra era stata invocata come progresso e igiene dell’umanità ma dopo la sbornia di retorica patriottica e militare quel che restava era un quadro sociale profondamente disgregato segnato da alcuni fattori destinati a deflagrare tra loro: l’inefficacia e l’instabilità del sistema liberale, l’impoverimento e il ridimensionamento dei ceti medi, l’irrompere sulla scena delle grandi masse popolari mobilitate durante il conflitto. Gli storici hanno poi parlato di crisi morale e d’identità di una borghesia resa inquieta dalla crescita del movimento operaio e contadino e timorosa per l’esempio della rivoluzione dell’ottobre ’17. Un contesto drammatico e insieme esaltante, dove “il vecchio mondo” sembrava destinato a morire da un momento all’altro, che segnò profondamente Gramsci nelle scelte di vita, consacrata alla militanza politica, e nel percorso teorico, sempre problematicamente rivolto all’insieme di queste contraddizioni. L’Italia costituiva un punto nevralgico della crisi di civiltà europea, e non è un caso se qui si formarono le condizioni per la nascita e l’avvento del Fascismo. Secondo Gramsci, la Grande guerra rappresentò una cesura profonda nei rapporti sociali dell’Europa. Contadini, operai e lavoratori, strappati dalle loro realtà particolari, si trovarono gettati nel proscenio del conflitto, in una dimensione generale nella quale la loro condizione di sfruttamento e oppressione civile si riconnetteva in maniera non più dissimulata a un ordine economico e politico dal quale si sentivano irrimediabilmente esclusi. Per la difesa di quell’ordine era stato chiesto loro di combattere e morire, ma ora, a conflitto terminato, quelle stesse masse irrompevano

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mente nella vita sociale e politica, indisponibili a tornare alla passività del passato. Su questo cambiamento in termini di coscienza e consapevolezza ebbe un ruolo determinante l’esempio della Rivoluzione d’ottobre, nell’immaginario collettivo di milioni di persone una verifica della concreta possibilità di rovesciare lo stato di cose esistenti, tale da rendere l’aspirazione al socialismo non più soltanto un ideale utopico. Come incanalare quelle immense forze sociali in una forma d’integrazione politica talmente forte e alta da costituire l’ossatura del futuro Stato socialista? «Come saldare il presente all’avvenire, soddisfacendo le urgenti necessità del presente e utilmente lavorando per creare e anticipare l’avvenire?»98. Attorno a questi rovelli teorico pratici si sviluppano tanto la riflessione quanto l’impegno politico di Gramsci tra il 1918 e il ’22. Per lui quella connessione era già presente e risiedeva negli istituti di vita sociale dei lavoratori, bisognava dargli forma organica e articolata fino a creare nei fatti una democrazia operaia contrapposta allo Stato borghese, in grado di sostituirlo in tutte le sue funzioni. Tali istituti rappresentavano dunque lo strumento attraverso il quale le masse avrebbero assunto la titolarità e la direzione effettiva del processo rivoluzionario temprandosi e autoeducandosi a questo ruolo. Il proletariato non poteva semplicemente impossessarsi della macchina statale borghese e, come se nulla fosse, cambiarle il segno. Il lavoro di assunzione delle funzioni nella direzione amministrativa, economica e politica dello Stato richiedeva una preparazione ed un’autodisciplina per la quale la borghesia ha avuto bisogno di secoli di affinamento; tuttavia, il proletariato non aveva a disposizione tutto questo tempo, perché era necessario sfruttare le opportunità offerte dalla crisi delle vecchie classi dirigenti in modo da non rendere vana la radicalizzazione delle masse popolari contro il vecchio ordine. Questo è forse il problema posto da Lenin alla strategia rivoluzionaria e colto da Gramsci con più forza e profondità, l’idea di far precedere la costruzione dello Stato socialista valorizzando l’articolazione degli istituti consiliari e associativi delle classi subalterne. In Stato e rivoluzione Lenin ha sottolineato l’ambivalenza dei sistemi democratici e la loro tendenza a generare non solo il conflitto tra capitale e

98. A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 87.

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lavoro, ma la contraddizione tra la dimensione formale dell’uguaglianza, recintata nella dimensione negativa della libertà (intangibilità della sfera individuale da parte dello Stato), e lo svuotamento della sovranità popolare a vantaggio del “garantismo individualistico-proprietario” per mezzo del rapporto di rappresentanza. Ciò induce un’involuzione, non lo sviluppo, della sfera democratica e il decadimento burocratico dello Stato politico. Secondo Lenin l’inversione dell’uomo in cosa, e del fine in mezzo, non si realizza soltanto nel rapporto di produzione della ricchezza, ma anche nel rapporto politico che ne deriva. La costruzione di rapporti sociali diversi da quelli borghesi deve partire dal rovesciamento del rapporto tra l’uomo e l’oggetto da lui prodotto, sia nelle relazioni sociali ed economiche sia in quelle politiche. La lotta per Lenin deve svilupparsi su entrambi i versanti, senza dogmatismi né scorciatoie: E comunque vietare che lo si cominci da tutti e due i lati contemporaneamente, erigendo il dogma della iniziativa violenta e quello della dittatura del proletariato come una forma di Stato (monopartitismo) anziché come un tipo di società (eliminazione del capitalismo e della borghesia come classe) può significare (ha significato storicamente) che non lo si incominci mai né dall’uno né dall’altro. Così è stato in Occidente dove riformismo e estremismo continuano a contendersi la verità99.

Il problema dello Stato, scrive Lenin nella prefazione a Stato e rivoluzione, assume, specie in una fase di inasprimento dei conflitti imperialistici, una centralità non solo teorica, ma politica. Soprattutto per andare oltre gli schemi evolutivi della socialdemocrazia internazionale che, in una fase di sviluppo relativamente pacifico, aveva finito per subire la direzione degli interessi borghesi anche sul piano politico-istituzionale, tanto da affermare la non superabilità delle forme rappresentative degli istituti parlamentari borghesi. Citando L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Lenin riprende l’idea dello Stato come prodotto dei rapporti sociali fondati sulla proprietà privata e generato dalla necessità di difenderli dal conflitto di classe. Al di là delle rappresentazioni idealiste, che descrivono lo Stato come la realtà dell’Idea morale, gli ideologi della borghesia definirono lo Stato una entità al di sopra delle parti con la funzione conciliatoria tra interessi

99. V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, Newton Compton, Roma, 1975, p. 35.

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contrapposti e in lotta (il particolare con l’universale). Ma lo Stato non è un organo terzo, è un lato della barricata del conflitto, l’organo del dominio di classe, “il comitato di affari della borghesia”. La repubblica democratica, scrive Lenin, è il miglior involucro politico possibile per il capitalismo perché garantisce una stabilità, saldezza e continuità al suo dominio, non minacciata dal cambio di personale e partiti alla guida dei suoi governi, nemmeno con l’utilizzo del suffragio universale. Uno dei temi centrali di questo lavoro rimane la polemica con i socialdemocratici circa il superamento dello Stato borghese, da loro presentato come un processo graduale di estinzione che si determina nei fatti per effetto delle riforme sociali che pongono fine alla sua esigenza storica. In questo modo, secondo Lenin, viene omesso e abbandonato il momento della rottura rivoluzionaria, la sua soppressione radicale e immediata tramite la socializzazione dei mezzi di produzione e la distruzione delle sue vecchie basi sociali. Ma questo non significa che, in regime capitalista, si debba essere contro o indifferenti verso la forma della repubblica democratica; semplicemente non ci si deve fare illusioni circa i margini di mutamento sociale all’interno di questa forma istituzionale: Noi siamo per la repubblica democratica, in quanto essa è, in regime capitalista, la forma migliore di Stato per il proletariato, ma non abbiamo diritto di dimenticare che la sorte riservata al popolo, anche nella più democratica delle repubbliche borghesi, è la schiavitù salariata100.

Dunque, la transizione al socialismo secondo Lenin può avvenire solo quando il proletariato si organizza come classe dominante concentrando nello Stato, sotto la sua direzione, tutti gli strumenti di produzione, ma questo processo necessita di essere avviato assai prima. Egli riteneva una illusione piccolo-borghese la pacifica sottomissione della minoranza (le classi dominanti) alla maggioranza del popolo. Richiamandosi a Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Lenin ripercorre il processo di perfezionamento dei poteri (parlamentare, esecutivo, giudiziario-repressivo) dello Stato borghese attraverso le diverse rivoluzioni che lo hanno riguardato. Alla base del potere statale centralizzato troviamo istituzioni da lui definite parassitarie: la burocrazia e l’esercito. Attraverso queste due articolazioni, la grande borghesia riesce 100. Ivi, p. 56.

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a dirigere anche la piccola e media borghesia (urbana e rurale) garantendo loro impieghi nell’apparato statale e uno status sociale che li distingue dal resto del popolo facendoli aderire al proprio blocco sociale, questione più volte ripresa da Gramsci. Parlando dei “Paesi più progrediti”, e del consolidamento della macchina statale nell’epoca dell’imperialismo, Lenin sottolinea il rafforzamento degli strumenti repressivi contro la lotta di classe ma, allo stesso tempo, già inizia a fare i conti con altre forme più complesse di direzione al di là del mero dominio, poi oggetto di studio delle note carcerarie di Gramsci: Da un lato, l’elaborazione di un “potere parlamentare”, tanto nei paesi repubblicani (Francia, America, Svizzera), quanto in quelli monarchici (Inghilterra, Germania fino a un certo punto, Italia, paesi scandinavi ecc.); dall’altro lato, la lotta per il potere dei diversi partiti borghesi e piccolo-borghesi che si dividono e si ridistribuiscono il “bottino” degli impieghi statali, mentre immutate restano le basi del regime borghese; finalmente un processo di perfezionamento e di consolidamento del “potere esecutivo”, del suo apparato burocratico e militare101.

La questione dello Stato e le forme della transizione al socialismo, problema centrale negli anni ordinovisti di Gramsci, sono il centro della concezione di Lenin sulla rivoluzione qui esposta. L’evento storico della Comune di Parigi pose a Marx e Engels la necessità di emendare il Manifesto del partito comunista con una frase che emblematicamente campeggia nella prefazione dell’edizione tedesca del 1872: «La Comune specialmente ha fornito la prova che la classe operaia non può impossessarsi puramente della macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini»102. Lenin interpreta questa frase come necessità di superare lo Stato borghese, non semplicemente di impossessarsene per via graduale e pacifica; in altre parole, Marx pone la necessità di distruggere la macchina burocratica e militare dello Stato come «condizione previa di ogni rivoluzione popolare». Già l’idea di una rivoluzione ampia e inclusiva, capace di estendersi al di là della classe operaia alle altre classi popolari in un blocco sociale più ampio, sarebbe la smentita del rigido e scolastico meccanicismo teorico della II Internazionale e dei partiti

101. Ivi, p. 68. 102. Ivi, p. 73.

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socialdemocratici che vedono solo l’alternativa secca tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria. In tal senso la Rivoluzione russa del 1905, al di là dei suoi risultati deludenti, non fu né una rivoluzione borghese, né una rivoluzione proletaria, ma una “rivoluzione popolare” perché intimamente segnata dal sollevamento insurrezionale degli strati sociali inferiori. Così, spiegando l’affermazione di Marx, Lenin esplicita il suo pensiero rispetto al concetto di rivoluzione popolare, indicando una prospettiva di alleanza di classe poi fondamentale per la definizione del concetto di “blocco sociale” in Gramsci: Nell’Europa del 1871, il proletariato non formava la maggioranza del popolo in nessuna parte del continente. Una rivoluzione poteva essere “popolare”, mettere in movimento la maggioranza effettiva soltanto a condizione di abbracciare il proletariato e i contadini. Queste due classi costituivano allora il “popolo”. Queste due classi sono unite dal fatto che la macchina burocratica e militare dello Stato le opprime, le schiaccia, le sfrutta. Spezzare questa macchina, demolirla, ecco il vero interesse del “popolo”, della maggioranza del popolo, degli operai e della maggioranza dei contadini, ecco la “condizione previa” della libera alleanza dei contadini poveri con i proletari. Senza questa alleanza non è possibile una democrazia salda, non è possibile una trasformazione socialista103.

Marx dunque non parlò di “rivoluzione popolare” per un lapsus, ma, molto più realisticamente, lo fece perché prese atto dei rapporti di forza nel Continente del 1871, constatando il comune interesse di operai e contadini a superare la macchina statale borghese. L’adattamento socialdemocratico alle istituzioni tradizionali della società borghese, fino alla affermazione sulla loro insostituibilità, aveva di fatto lasciato agli anarchici il monopolio della critica alla relazione di rappresentanza propria del parlamentarismo classico. Al contrario, scrive Lenin, Marx evitò tanto la vuota fraseologia rivoluzionaria quanto le derive parlamentariste. Egli ruppe con gli anarchici, «per la loro incapacità a utilizzare anche la stalla del parlamentarismo borghese, specie quando è manifesto che la situazione non è rivoluzionaria; ma seppe in pari tempo dare una critica veramente rivoluzionaria al parlamentarismo»104.

103. V.I Lenin, Stato e rivoluzione, op. cit., p. 74. 104. Ivi, p. 81.

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Inevitabilmente connesso ai problemi della transizione socialista, la questione della direzione tecnico-amministrativa, altro punto di particolare interesse per Gramsci, diviene essenziale. Secondo Lenin, se non è possibile eliminare improvvisamente e completamente la burocrazia, è però necessario sostituire la vecchia macchina amministrativa con la nuova come punto di partenza di una nuova organizzazione dello Stato, edificata sulla centralità delle masse lavoratrici. La sostituzione, nell’amministrazione statale come nelle aziende, dei vecchi funzionari borghesi con il “controllo operaio” è la via indicata da Lenin per produrre una radicale riorganizzazione in senso socialista della società. Lenin era convinto che, una volta abbattuto il capitalismo, i lavoratori avrebbero potuto assumere tutte quelle funzioni tecniche fino ad allora svolte da funzionai e quadri della borghesia. Probabilmente questo resta l’aspetto più utopistico del pensiero di Lenin, che, dopo il 1917, si scontrerà con una realtà ben più complessa, nella quale sarà costretto a fare i conti con l’impreparazione del proletariato russo ad assumere una tale funzione e con i problemi di disorganizzazione e paralisi tecnico-produttiva della Russia in una fase delicatissima del post-rivoluzione. Questo obiettivo si rivelerà uno dei più difficili da attuare e, quando si troverà costretto a rinunciare alla formula del “controllo operaio”, richiamando alla guida della macchina amministrativa e nelle imprese i vecchi tecnici, ciò sarà uno degli elementi di maggior delusione e rammarico negli ultimi anni di vita di Lenin, sempre più problematicamente rivolti al rischio di burocratizzazione del giovane Stato sovietico. Ciò detto, nemmeno in Stato e rivoluzione Lenin vagheggia una condizione ideale di immediata palingenesi rivoluzionaria della macchina amministrativa: Noi non siamo degli utopisti. Non “sogniamo” di fare a meno, dall’oggi al domani, di ogni amministrazione, di ogni subordinazione; questi sono sogni anarchici, fondati sulla incomprensione dei compiti della dittatura del proletariato, sogni che nulla hanno in comune con il marxismo e che di fatto servono unicamente a rinviare la rivoluzione socialista sino al giorno in cui gli uomini saranno cambiati. No, noi vogliamo la rivoluzione socialista con gli uomini quali sono oggi, e che non potranno fare a meno né di subordinazione, né di controllo, né di sorveglianti, né di contabili105.

105. Ivi, p. 84.

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La prospettiva dell’autoeducazione dei produttori, che già in regime capitalistico si preparano a divenire classe dirigente anzitutto negli istituti associativi della classe operaia, così come nelle altre articolazioni del lavoro dipendente, rappresenta, pertanto, una risposta al problema storico vissuto dal giovane Stato socialista nei suoi primi anni di vita, che rischiò di portarlo alla morte prima ancora di aver tentato di realizzare una qualsiasi transizione dal vecchio al nuovo. 5. L’Ordine Nuovo Con questa aspirazione di fondo, nel maggio 1919, iniziava le sue pubblicazioni L’Ordine Nuovo, il cui sottotitolo era Rassegna di cultura socialista, «per indicare che la rivista si rivolgeva ai proletari, agli operai, agli intellettuali con un fine preciso: armare la classe operaia di coscienza e di volontà per la creazione della società socialista»106. Il settimanale nasceva proprio alla vigilia del biennio rosso, “gli anni belli”, come l’intellettuale sardo li definì; tuttavia, al suo debutto, L’Ordine Nuovo sembrava destinato a vita brevissima perché paralizzato da due opposte linee politiche ed editoriali, quella di Gramsci e quella di Angelo Tasca. Lo scontro tra le due impostazioni divampò senza possibilità di ricomposizione dopo il Congresso della Camera del lavoro di Torino nel quale Tasca intervenne auspicando il riassorbimento dell’esperienza consiliare sotto il controllo del sindacato, una posizione bollata da Gramsci come “reazionaria” che aprì una durissima polemica destinata a protrarsi a lungo negli anni. L’editoriale del 27 giugno 1919, “Democrazia operaia”, scritto da Gramsci con la collaborazione di Palmiro Togliatti, segna la prima clamorosa rottura con Angelo Tasca e apre una svolta nella vita del periodico. In proposito, in una lettera Gramsci ne parlò definendolo un vero e proprio colpo di Stato redazionale: Ordimmo io e Togliatti un colpo di stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel numero 7 della rassegna; qualche sera prima di scrivere l’articolo avevo sviluppato al compagno Terracini la linea dell’articolo e Terracini aveva espresso il suo pieno consenso come teoria e come pratica (…)

106. A. Leonetti, Gramsci, i Consigli di fabbrica e il congresso di Livorno, in I comunisti raccontano, op. cit., p. 15.

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il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l’idea dell’“Ordine Nuovo”; esso era posto come il problema fondamentale della rivoluzione proletaria107.

Angelo Tasca – culturalmente e politicamente formatosi all’interno del sindacato – non accettò la svolta consiliare; a differenza di Gramsci, non condivideva l’idea di democrazia operaia basata sull’autogoverno delle commissioni interne e propendeva invece per una soluzione che riconducesse lo sviluppo delle lotte del movimento operaio sotto la direzione delle Camere del Lavoro e del Partito socialista. La svolta all’interno del gruppo redazionale è conseguente a una maturazione politica fortemente influenzata dai processi rivoluzionari russi e tedeschi. Il tema della democrazia consiliare era strettamente connesso all’esigenza di trovare, concretamente, un’istituzione operaia paragonabile al Soviet su cui investire tutte le energie del gruppo ordinovista. Per Leonetti con quella svolta nasceva una nuova rivista la cui attività, sebbene frutto di un’elaborazione collettiva e di un dialogo permanente tra la redazione e gli operai in mobilitazione, era fortemente segnata dalla direzione di Gramsci. L’evoluzione del settimanale torinese e il decollo del movimento consiliare avvennero simultaneamente, e non fu certo un caso: E così nasce e prende corpo il movimento dei Consigli di fabbrica; così Torino, la città dell’automobile, diventa la città dei commissari di reparto, la città che vengono a visitare i giornalisti di tutto il mondo, e che tutti chiamano la «Mecca del comunismo italiano», la «Pietrogrado d’Italia». Non mancò anche chi disse: «la città di Gramsci»108.

Per Gramsci il Soviet non era soltanto un istituto russo ma una nuova forma istituzionale a carattere universale nella quale si realizzava l’autogoverno delle masse, e la commissione interna delle fabbriche torinesi era la sua traduzione italiana. Da questa conclusione scaturiva un imperativo per L’Ordine Nuovo: studiare la commissione interna e la fabbrica, non solo quale luogo della produzione materiale, ma in quanto «organismo politico, come territorio

107. A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 622. 108. A. Leonetti, Gramsci, i Consigli di fabbrica e il congresso di Livorno, in I comunisti raccontano, op. cit., p. 16.

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nazionale, dell’autogoverno operaio». L’indeterminatezza iniziale nella linea editoriale del periodico e soprattutto nella definizione dei fini da perseguire, ne fece per un certo periodo un fin troppo prevedibile organo di predicazione socialista impegnato a ruminare i classici del marxismo, senza misurarsi con le situazioni storiche concrete. Il limitarsi a salmodiare “la paccottiglia del pensiero operaio”, dedicandosi all’esegesi delle parabole lasciate in eredità dai padri del pensiero socialista, rispondeva ad un’idea logora e “frustra” di cultura operaia. Anziché limitarsi a ricordare la Comune di Parigi, L’Ordine Nuovo doveva essere in grado di “fare come i bolscevichi”, che utilizzarono i rilievi di Marx sulla Comune non per “ricordare”, ma per comprendere la realtà immediata fino a trovare nel Soviet la moderna traduzione dell’esperienza storica della Comune: Cosa fu L’Ordine Nuovo nei primi numeri? Fu un’antologia, nient’altro che un’antologia; fu una rassegna come sarebbe potuta sorgere a Napoli, a Caltanissetta, a Brindisi; fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu L’Ordine Nuovo nei suoi primi numeri, un disorganismo, il prodotto di un mediocre intellettualismo, che zampelloni cercava un approdo ideale e una via per l’azione109.

Per Antonio Gramsci il Consiglio di fabbrica era un istituto di carattere pubblico, una forma di associazione storica paragonabile allo Stato borghese, del quale l’operaio entra a far parte in quanto produttore – in conseguenza della sua funzione nella società e nella divisione del lavoro – così come il cittadino entra a far parte dello Stato. Al contrario il partito e il sindacato sono istituti «privatistici» nei quali i lavoratori entrano volontariamente firmando un contratto che può essere rescisso in qualsiasi momento. Tasca, secondo Gramsci, non aveva compreso la distinzione tra il partito o il sindacato, che si sviluppano “aritmeticamente”, e il Consiglio di fabbrica che invece si sviluppa “morfologicamente”. Il sistema dei Consigli interviene sui processi di produzione e scambio capitalistici saggiando sul terreno concreto della direzione operaia della produzione le possibilità di realizzare rapporti sociali di tipo nuovo. Il partito e i sindacati non possono secondo Gramsci assorbire l’intera gamma di esistenza della classe lavoratrice né possono

109. A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 621.

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identificarsi con lo Stato, anche nella società sovietica essi continuano a sussistere indipendentemente dallo Stato come organi di propulsione, stimolo e armonizzazione. La vita sociale della classe operaia doveva andare oltre la sola forma associativa del partito e del sindacato e articolarsi in istituti e attività che fossero espressione di un’organizzazione istituzionale autonoma. Con la nuova linea, L’Ordine Nuovo puntò sull’organizzazione della democrazia operaia, tramite lo sviluppo del sistema consiliare, ritenendo un errore la pretesa di ricondurre l’intero sistema di articolazione sociale della classe operaia all’interno di organismi con altri ruoli e funzioni come la Camera del Lavoro o il partito. Noi concepiamo il consiglio di fabbrica come un istituto assolutamente originale, che scaturisce dalla situazione creata alla classe operaia nell’attuale periodo storico dalla struttura capitalistica, come un istituto che non può essere confuso col sindacato, che non può essere coordinato e subordinato al sindacato, ma il quale invece, col suo nascere e il suo svilupparsi, determina mutamenti radicali nella struttura e nella forma del sindacato110.

In queste riflessioni Gramsci colse un nodo rivelatosi poi storicamente centrale in relazione ai limiti nella edificazione delle nuove società socialiste. Nella sua prima fase di vita, l’idea di democrazia sovietica si articolava su più livelli, organismi come Soviet, partito, sindacati e Stato esercitavano ruoli e funzioni diverse. Tuttavia, questo sistema (nel suo sviluppo) avrebbe dovuto strutturarsi ulteriormente e non semplificarsi; l’evoluzione culturale e la modernizzazione economica di una società producono inevitabilmente un sistema di bisogni individuali e collettivi sempre più complesso, dunque anche le forme democratiche di partecipazione popolare devono necessariamente divenire più ricche e articolate. Come sappiamo, invece, una delle ragioni del fallimento della società sovietica sta proprio nel fatto che, ad un dato momento, essa ha vissuto un processo di cristallizzazione e semplificazione – una oggettiva involuzione politica – mentre dall’altra parte la sua società tendeva a divenire più complessa ed esigente. In altre parole, l’identificazione del partito con lo Stato, l’impoverimento del sistema dei Soviet e la stessa riduzione del ruolo dell’organizzazione sindacale andavano

110. Ivi, p. 540.

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in direzione contraria rispetto alla crescita economica, sociale e culturale dell’Unione Sovietica, divenendo in ultima analisi una camicia di forza, non un sistema di partecipazione capace di svilupparsi “morfologicamente”. Il problema della burocratizzazione e del formarsi di una nuova nomenclatura tecnocratica nella società sovietica, drammaticamente al centro delle preoccupazioni nell’ultima fase di vita di Lenin, sta tutto in questa dinamica involutiva. La distinzione di ruolo tra Consiglio, partito, sindacato, era pertanto un nodo centrale non solo per lo sviluppo della lotta di classe nella società capitalistica, ma anche rispetto alle questioni della transizione: Le commissioni interne sono organi di democrazia operaia che occorre liberare delle limitazioni imposte dagli imprenditori, ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e disciplina. Sviluppate e arricchite, dovranno essere domani gli organi del potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e amministrazione111.

Per Gramsci la rivoluzione proletaria doveva essere un processo storico, non l’atto arbitrario di una organizzazione o di un sistema di organizzazioni rivoluzionarie; proprio per questa sua natura processuale, non poteva semplicemente identificarsi con lo sviluppo delle organizzazioni rivoluzionarie di tipo volontario come il partito politico o il sindacato. Nella distinzione tra momento produttivo e politico, e soprattutto nell’attribuire al primo una funzione predominante per il processo rivoluzionario, è evidente l’influenza soreliana: Le organizzazioni rivoluzionarie sono nate nel campo della democrazia borghese, come affermazione e sviluppo della libertà e della democrazia in generale, in un campo in cui sussistono i rapporti di cittadino a cittadino: il processo rivoluzionario si attua nel campo della produzione, nella fabbrica, dove i rapporti sono di oppressore a oppresso, di sfruttatore a sfruttato, dove non esiste libertà per l’operaio, dove non esiste democrazia; il processo rivoluzionario si attua dove l’operaio è nulla e dove vuol diventare tutto, dove il potere del proprietario è illimitato, è potere di vita e di morte sull’operaio, sulla donna dell’operaio, sui figli dell’operaio112.

111. Ivi, p. 88. 112. Ivi, p. 532.

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Nella fabbrica l’operaio diviene un “determinato strumento di produzione”, essenziale per il processo produttivo e di lavoro, è un ingranaggio della macchina-divisione del lavoro, senza il quale la produzione e l’accumulazione capitalistica stessa non può esistere. Se l’operaio acquisisce coscienza di questo suo ruolo determinato, e lo pone a base di un’istituzione rappresentativa di tipo statale, getta le basi di un assetto statale radicalmente nuovo che sorge e risiede permanentemente nella produzione. Acquisendo coscienza della sua unità organica e costruendo il suo istituto rappresentativo di tipo statale, la classe operaia compie l’espropriazione del primo e più importante fattore della produzione capitalistica: la classe operaia stessa. Il partito politico e il sindacato, nei loro rapporti con il Consiglio di fabbrica, dovevano averne consapevolezza: Essi non devono porsi come tutori o superstrutture già costituite di questa nuova istituzione, in cui prende forma storica controllabile il processo storico della rivoluzione, essi devono porsi come agenti consapevoli della sua liberazione dalle forze di compressione che si riassumono nello Stato borghese, devono proporsi di organizzare le condizioni esterne generali (politiche) in cui il processo della rivoluzione abbia la sua massima celerità, in cui le forze produttive liberate trovino la massima espansione113.

Per Antonio Gramsci, storicamente, il principio associativo e solidaristico fa uscire il lavoratore dalla condizione individualistica di soggetto esposto ai rischi di una libera concorrenza nella quale le condizioni di partenza della lotta non sono uguali, ma determinate dalla proprietà privata dei mezzi di produzione da parte di una minoranza sociale che di volta in volta impone le sue regole al gioco. Attraverso i principi associativi e solidaristici la psicologia e i costumi dei lavoratori mutano radicalmente, in conformità a essi sorgono gli istituti e le organizzazioni proletarie; tuttavia, la nascita e lo sviluppo di queste non rispondono alle leggi proprie delle classi subalterne. Esse assumono una determinata forma non per leggi interne alla classe, ma sotto la pressione della concorrenza capitalistica, di un quadro nel quale le leggi della storia sono dettate dalla classe che detiene la proprietà dei mezzi di produzione e l’organizzazione dello Stato.

113. Ivi, p. 537.

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Le associazioni operaie, partito e sindacati, sono il frutto della concentrazione capitalistica e della conseguente concentrazione delle masse lavoratrici, sono la risposta che i lavoratori danno a una condizione di partenza disuguale nel rapporto tra capitale e lavoro, nel quale anche il lavoratore opera sul piano della libera concorrenza in quanto individuo-cittadino. In tal senso, quando sorgono le sue istituzioni, il movimento operaio è solamente una funzione della libera concorrenza capitalistica. L’errore del pansindacalismo consiste per Gramsci proprio nel considerare fatto permanente ed esclusivo dell’associazionismo proletario il sindacato di categoria, cioè un’idea associativa determinata da “leggi esterne alla classe operaia”. A sua volta, il PSI al suo sorgere è riuscito a dare consapevolezza e forma organizzata al movimento di rivendicazione dei diritti dei lavoratori, dandogli una prospettiva coerente con lo sviluppo storico della società umana; tuttavia, ha anche commesso un grave errore. Assumendo le funzioni di rappresentanza all’interno delle istituzioni parlamentari borghesi, e dando a questa funzione una priorità quasi esclusiva, ha progressivamente smarrito il proprio ruolo di antitesi e critica, lasciandosi assorbire da una realtà che avrebbe dovuto dominare. Secondo Gramsci i socialisti finirono per accettare passivamente la realtà storica imposta dalla classe capitalistica, fino a ritenerla perpetua e fondamentalmente perfetta, frutto di «leggi naturali». Per essi lo Stato democratico parlamentare poteva essere qui e là ritoccato, ma mantenuto nella sua forma essenziale: «Un esempio di questa psicologia angustamente vanitosa è dato dal giudizio minossico di Filippo Turati, secondo il quale il parlamento sta al Soviet come la città all’orda barbarica»114. Da questa concezione del divenire storico, dominata dalla tendenza incessante al compromesso e dalla «tattica cretinamente parlamentarista», nasce la pretesa di arrivare al socialismo semplicemente impossessandosi delle istituzioni dello Stato e mutando il verso della sua attività. Ma come abbiamo chiarito, servendoci dello scritto di Lenin Stato e rivoluzione, per Gramsci la formula della “conquista dello Stato” poteva essere intesa solo come creazione di un nuovo apparato istituzionale, generato non dalle leggi della libera concorrenza, come lo Stato democratico parlamentare,

114. Ivi, p. 368.

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ma dalle esperienze associative della classe operaia. La rivoluzione proletaria doveva assumere forma processuale, molecolare e organica, determinarsi nella costituzione stessa delle esperienze associative della classe operaia sul luogo della produzione, non poteva essere concepita come un atto taumaturgico la cui instaurazione coincide con la dittatura delle sezioni del PSI. Nell’elaborazione di questo periodo troviamo, pertanto, anche le prime riflessioni sul partito come strumento pedagogico nel quale la frattura tra dirigenti e diretti sia superata per mezzo di una differente impostazione delle relazioni tra le sue parti costitutive. In tal senso era necessario superare la forma piramidale classica di organizzazione politica, nella quale la linea è elaborata per intuizione intellettuale dei dirigenti poi tradotta in imperativi categorici che la base deve assumere con fiducia e articolare militarmente. Un esempio in tal senso è l’articolo Il Partito e la rivoluzione del 27 dicembre 1919 nel quale Gramsci comincia a parlare dell’esigenza di un’organizzazione che non solo rappresenti, ma sia diretta dai lavoratori. Un’idea di organizzazione orizzontale caratterizzata dalla diffusione delle sue funzioni di elaborazione e direzione nella quale l’attività sia il frutto dell’azione simultanea di tutti i suoi elementi, non il risultato di una catena di comando simile all’esercito. Egli utilizza qui la metafora assai efficace della barriera corallina: Il Partito, come formazione compatta e militante di un’idea, influenza questo intimo lavorio di nuove strutture, questa operosità di milioni e milioni di infusori sociali che preparano i rossi banchi coralliferi che un giorno non lontano, affiorando, spezzeranno gli impeti della burrasca oceanica, ricondurranno la pace nelle onde, fisseranno nuovamente un equilibrio nelle correnti e nei climi; ma questo influsso è organico, è nel circolare delle idee, è nel mantenersi intatto l’apparecchio di governo spirituale, è nel fatto che i milioni e milioni di lavoratori fondando le nuove gerarchie, istituendo gli ordini nuovi (…)115.

Il partito avrebbe dovuto aderire plasticamente e organicamente allo strumento produttivo, la rivoluzione necessitava di essere concepita come il riconoscimento storico della naturalità di questa formazione. Questo si115. A. Gramsci, “Il Partito e la rivoluzione”, L’Ordine Nuovo, 27 dicembre 1919, in Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1969, p. 293.

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gnifica che il partito non può plasmare il processo rivoluzionario in termini burocratici come risultato delle decisioni dei suoi dirigenti: Guai se una concezione settaria dell’ufficio del Partito nella rivoluzione si pretende materializzare questa gerarchia, si pretende fissare in forme meccaniche di potere immediato l’apparecchio di governo delle masse in movimento, si pretende di costringere il processo rivoluzionario nelle forme del Partito; si riuscirà a deviare una parte degli uomini, si riuscirà a «dominare» la storia; ma il processo reale rivoluzionario sfuggirà al controllo e all’influsso del Partito, divenuto inconsapevolmente strumento di conservazione116.

Influenzare, forgiare, rafforzare la coscienza dei lavoratori, stimolare la loro attività, fino a sottrarre alla borghesia la sua storica capacità di direzione con la quale riesce a incatenare gli sfruttati facendogli accettare le sue relazioni di dominio. Un lavoro intenso e capillare sviluppato non solo dal partito, ma da tutte le organizzazioni del proletariato (consigli, commissioni, sindacato) trasformando le fabbriche nella sede dell’autogoverno dei lavoratori, senza più ricorrere alle funzioni delegate della rappresentanza esercitate dagli intellettuali. Il nuovo ordine, per essere tale, doveva aderire organicamente allo «strumento produttivo», e la rivoluzione andava intesa come il riconoscimento storico della «naturalezza» di questa formazione. Il Partito socialista «non è e non può essere concepito come la forma di questo processo, forma malleabile e plasmabile ad arbitrio dei dirigenti»117. Nell’articolo “Il Partito comunista” Gramsci sviluppò alcune riflessioni sulla relazione tra attività manuale e autonomia intellettuale degli operai nella fabbrica, anticipatrici di temi poi centrali nelle note su Americanismo e fordismo. In questo pezzo del 1920 Gramsci sottolineò come l’attività di lotta e organizzazione degli operai sia il risultato di un processo di resistenza alle funzioni puramente strumentali della loro attività e di autonomizzazione intellettuale. Il risultato del processo di divisione-specializzazione del lavoro rappresenta la negazione dell’umanità, perché trasforma il lavoratore in un robot, condannato a ripetere, con una monotonia capace di distruggere la

116. Ibid. 117. A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 369.

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vita interiore e la vita umana, gli stessi gesti professionali senza sapere il come e il perché delle sue attività pratiche. L’autodeterminazione sociale e politica del movimento operaio è un autentico miracolo, una riaffermazione della soggettività contro ogni riduzione brutale della complessità umana a protesi della macchina. È la vittoria del lavoratore nella sua lotta per l’autonomia spirituale, che lo spinge a studiare, apprendere e migliorarsi intellettualmente per emanciparsi materialmente, una lotta che ogni giorno deve prevalere sulla stanchezza, l’alienazione e la ripetitività delle sue funzioni produttive. Il partito politico rivoluzionario, attraverso il quale l’operaio diviene dirigente e soggetto creatore di una nuova visione del mondo, è la sintesi di questo processo dialettico di emancipazione umana. L’operaio nella fabbrica ha mansioni meramente esecutive. Egli non segue il processo generale del lavoro e della produzione; non è un punto che si muove per creare una linea; è uno spillo conficcato in un luogo determinato e la linea risulta dal susseguirsi degli spilli che una volontà estranea ha disposto per i suoi fini. L’operaio tende a portare questo suo modo di essere in tutti gli ambienti della sua vita; si acconcia facilmente, da per tutto, all’ufficio di esecutore materiale, di “massa” guidata da una volontà estranea alla sua; è pigro intellettualmente, non sa e non vuole prevedere oltre l’immediato, perciò manca di ogni criterio nella scelta dei suoi capi e si lascia illudere facilmente dalle promesse; vuol credere di poter ottenere senza un grande sforzo da parte sua e senza dover pensare troppo. Il Partito comunista è lo strumento e la forma storica del processo di intima liberazione per cui l’operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà; nella formazione del Partito comunista è dato cogliere il germe della libertà che avrà il suo sviluppo e la sua piena espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato le condizioni materiali necessarie. (…) entrando a far parte del Partito comunista, dove collabora «volontariamente» alla attività del mondo, dove pensa, prevede, ha una responsabilità, dove è un organizzatore oltre che organizzato, dove sente di costituire un’avanguardia che corre avanti trascinando con sé tutta la massa popolare118.

Il partito ha per Gramsci una funzione storica fondamentale: sottrarre il terreno del dominio politico e sociale della borghesia da sotto i piedi delle sue certezze democratico-parlamentari. Il suo compito è favorire il continuo sorgere e svilupparsi di queste energie vitali, la rivoluzione non può identi118. A. Gramsci, “Il Partito comunista”, 4 settembre-9 ottobre 1920, L’Ordine Nuovo, op. cit., pp. 362-363.

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ficarsi con il partito, non può risolversi nella costrizione meccanica e gerarchica di questo processo nelle forme del partito. Se anche riuscisse a dirigere una gran parte delle masse e a “dominare la storia”, il processo reale della rivoluzione sfuggirebbe dal controllo del partito, trasformando l’organizzazione in strumento di conservazione. 6. Genesi e sconfitta della rivoluzione italiana Il movimento consiliare, nonostante il suo enorme sviluppo, si scontrò con la doppia diffidenza di partito e sindacato; in un simile contesto L’Ordine Nuovo doveva favorire l’autonomia delle Commissioni interne, renderle effettivi organi di autogoverno operaio, per sottrarle a una pratica burocratica in virtù della quale era il sindacato a nominare i commissari e dunque a definire la linea. La profonda riorganizzazione del sistema dei Consigli avrebbe dovuto portare all’elezione dei commissari da parte di tutti gli operai, a prescindere dal loro essere parte o no del sindacato, e alla trasformazione delle Commissioni in organi di rappresentanza operaia per unità produttiva, strutturata sulla base della squadra di reparto, o l’officina119. Bisognava far superare alla Commissione la condizione di organo di rappresentanza generica delle maestranze, predisponendola a un ruolo nuovo: assumere il controllo della produzione. Il sistema consiliare avrebbe in questo modo trasformato il concetto di rappresentanza, non più strutturato in base a principi territoriali, valorizzando l’unità di produzione. Ma questa necessità vitale di rinnovamento degli istituti del movimento operaio, in un contesto tumultuoso come il dopoguerra, si scontrava con le consuetudini del partito, incapace di concepire un’attività che fosse in grado di andare oltre le ordinarie incombenze istituzionali, e del sindacato, rimasto alla funzione storica di intermediazione economica tra capitale e lavoro e indisponibile, pertanto, a cedere sfere di sovranità. La rappresentazione più chiara di questo contrasto ebbe modo di manifestarsi platealmente nel XVI Congresso nazionale del PSI a Bologna, l’apoteosi del massimalismo italiano nel periodo della sua maggior espansione. Nei documenti, nella discussione e nelle deliberazioni assunte, ogni 119. La proposta di riforma del sistema consiliare prevedeva l’elezione democratica dei commissari, che avrebbero composto il Consiglio di fabbrica, il quale avrebbe poi a sua volta espresso la Commissione interna.

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discorso assumeva un’intonazione radicale e ottimista, annunciava oramai prossima l’ora della presa del potere, senza però fornire alcun concreto piano d’azione né predisporre una modalità d’intervento capace di andare oltre la semplice retorica, puramente teorica, della preparazione rivoluzionaria e la tradizionale pratica parlamentare. Giuseppe Fiori ci ha lasciato un’istantanea esemplare di cosa era divenuto il PSI massimalista, lacerato da una contraddizione sempre più evidente tra il lirismo eroico delle petizioni di principio rivoluzionarie e la prosa di una politica priva di slanci e potenzialità trasformatrici: Era un partito in crisi, devitalizzato, anziché agguerrito, dalla sua recente crescita, troppo brusca: 300 mila iscritti contro i 50 mila dell’anteguerra; 2 milioni di aderenti alla CGL contro il mezzo milione del ’14; addirittura triplicato il gruppo parlamentare, da 50 a 150 deputati. Un’espansione che suscitava euforia e insieme problemi nuovi di inquadramento; con queste due conseguenze: una diffusa fede rivoluzionaria basata sulla presunzione che la marcia del proletariato sarebbe continuata sino a sboccare fatalmente nella vittoria finale più che sulla consapevolezza e la predisposizione dei mezzi indispensabili per questa vittoria; e l’assunzione di cariche direttive assolutamente inadeguate alle loro capacità da parte di demagoghi impreparati dottrinariamente e privi di esperienza120.

Al Congresso di Bologna le posizioni de L’Ordine Nuovo non trovarono cittadinanza, anzi, le varie anime del PSI, divise su tutto, trovavano un punto di accordo proprio nella critica radicale all’esperienza consiliare. Si andava dall’accusa di corporativismo economicista, mossa da Bordiga, a quella di anarcosindacalismo spontaneista, comune al giudizio di massimalisti, dirigenti sindacali riformisti, tutti risolutamente contrari al voto atomistico dei “disorganizzati”. Intanto Bordiga, per primo, già nel maggio del 1919 avanzò con forza ed esplicitamente il tema della scissione dei comunisti dal PSI. Il 13 luglio presentò al Consiglio Nazionale del PSI il Programma della frazione comunista, quindi, il 10 novembre inviò una lettera alla III Internazionale nella quale prospettava concretamente l’idea della scissione comunista sotto la sua guida. Secondo Bordiga l’esito naturale del movimento consiliare era contro-

120. G. Fiori, Vita di Antonio Gramsci, op. cit., p. 148.

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rivoluzionario, inscritto nelle tradizioni del riformismo e del corporativismo dei sindacati di categoria. Per Bordiga i comunisti avevano un solo compito: costituirsi in partito politico e prepararsi, sul piano ideologico al momento della rivoluzione. In questo senso, per gli astensionisti, i Consigli operai dovevano sorgere solo nel momento dell’insurrezione politica o comunque nel momento della massima crisi della borghesia, viceversa, questi si sarebbero trasformati rapidamente in organismi dominati dalla tattica delle conquiste parziali e da una pratica riformista, distogliendo i comunisti dai loro veri compiti rivoluzionari. Anche nel vivo del biennio rosso, Bordiga non diede mai credito agli sviluppi del movimento consiliare, mostrando una costante e quasi morbosa diffidenza verso l’autogoverno operaio. Bordiga oltre quella fase di radicalizzazione dello scontro sociale, intravedeva una nuova lunga stagione di collaborazione di classe, senza comprendere che all’orizzonte si profilava non il trionfo del riformismo socialdemocratico ma la reazione più nera. Un errore di valutazione commesso nel 1921 pure dallo stesso Gramsci, sebbene per poco tempo. Secondo Gramsci lo Stato socialista doveva oggettivarsi attraverso una ricca articolazione di istituti e forme partecipative delle masse; per Bordiga, invece, le forme associative della classe operaia andavano intese come semplici organi di decentramento del partito, cinghie di trasmissione, sottoposte in tutto e per tutto al controllo e alla direzione del partito. All’interno del panorama socialista in Italia il gruppo de L’Ordine Nuovo era il solo ad aver recepito e “tradotto in lingua italiana”, il significato del movimento consiliare tedesco, dell’esperienza dei Soviet in Russia, del movimento dei delegati d’officina in Inghilterra (gli Shop-Stewards Commities), cioè ad essersi rapportato creativamente alle esperienze più nuove e di avanguardia del movimento operaio europeo. Non è quindi un caso il continuo richiamarsi a Lenin e a Rosa Luxemburg di questi anni, dunque la volontà di collocare l’esperienza del movimento dei Consigli di Torino in linea di continuità con le esperienze dei Soviet e con quella consiliare tedesca. L’interesse nei confronti del dibattito teorico e delle concrete esperienze di lotta sviluppatesi a livello internazionale era del resto confermato dallo spazio dedicato da L’Ordine Nuovo al movimento internazionale dei Consigli, con la pubblicazione della rassegna internazionale più ricca di contributi al tempo. Venivano puntualmente pubblicate le relazioni più significative

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dell’Internazionale Comunista, gli interventi di Lukács, quelli di Daniel de Leon, Zinove’v, Bela Kun, Trockij, John Reed, solo per citarne alcuni. Il vero limite nell’impostazione del gruppo de L’Ordine Nuovo, come gli stessi protagonisti hanno più volte confermato in seguito, risiedeva nella scarsissima propensione ad avviare una battaglia non solo di idee dentro il partito, nella convinzione che, da solo, il lavoro tra le masse potesse cambiare i rapporti di forza nel movimento socialista italiano. Lo stesso Gramsci, con la ripresa delle pubblicazioni de L’Ordine Nuovo nel marzo del 1924, ebbe modo di ricordare come il problema di formare il partito indipendente della classe operaia rivoluzionaria fosse contemporaneo alla necessità di lavorare nel movimento di massa in sviluppo. Negli anni 1919-20, “L’Ordine Nuovo” vedeva i due problemi strettamente legati tra loro: indirizzando le masse verso la rivoluzione, portando alla rottura coi riformisti e con gli opportunisti nei consigli di fabbrica e nei sindacati professionali, vivificando la vita del Partito socialista con le discussioni dei problemi più propriamente proletari, nelle quali pertanto i semplici operai avevano il sopravvento sugli avvocati e sui demagoghi del riformismo, “L’Ordine Nuovo” tendeva a suscitare anche il nuovo partito della rivoluzione come un bisogno impellente della situazione in corso. (...) Occorre anche confessare che qualche volta ci mancò il coraggio delle supreme risoluzioni. Attaccati da ogni parte come arrivisti e carrieristi, non sapevamo sdegnare la meschinità delle accuse: eravamo troppo giovani e conservavamo troppa ingenuità politica e troppa fierezza formale. Così non osammo fin dal 1919 creare una frazione che avesse ramificazioni in tutto il Paese; così nel 1920 non osammo organizzare un centro urbano e regionale dei consigli di fabbrica che si rivolgesse, come organizzazione della totalità dei lavoratori piemontesi, alla classe operaia e contadina italiana al di sopra e, occorrendo, contro le direttive della CGL e del Partito socialista121.

Analoghi erano stati del resto i toni contenuti in una lettera scritta ad Alfonso Leonetti due mesi prima, nella quale Gramsci annunciava l’intenzione di fare pubblica ammenda per gli errori commessi: Nel 1919-20 noi abbiamo commesso errori gravissimi che in fondo adesso scontiamo. Non abbiamo, per paura di essere chiamati arrivisti e carrieristi, costituito una frazione e cercato di organizzarla in tutta l’Italia. Non abbiamo voluto dare ai consi-

121. A. Gramsci, “Cronache de L’Ordine Nuovo”, in La Costruzione del Partito Comunista 1923-1926, Einaudi, Torino, 1958, p. 161.

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gli di fabbrica di Torino un centro direttivo autonomo e che avrebbe potuto esercitare un’immensa influenza in tutto il Paese, per paura della scissione nei sindacati e di essere troppo prematuramente espulsi dal Partito socialista. Dovremmo, o almeno io dovrò, pubblicamente dire di aver commesso questi errori che indubbiamente hanno avuto non lievi ripercussioni. In verità se dopo la scissione di aprile avessimo assunto la posizione che io pure pensavo necessaria, forse saremmo arrivati in una situazione diversa alla occupazione delle fabbriche e avremmo rimandato questo avvenimento ad una stagione più propizia122.

Ancora per tutto il 1919, l’attenzione del periodico era totalmente rivolta alla costruzione del movimento operaio torinese e al lavoro tra le masse e le questioni relative al partito erano poste in secondo piano. In quello stesso anno, lo scenario politico-sociale era contraddistinto da una crescente tensione. L’estate fu segnata dalle agitazioni contro il “carovita” con manifestazioni e scioperi in tutto il territorio nazionale (316 ore a maggio, 276 a giugno), sfociate in assalti e saccheggi agli esercizi di generi alimentari. Per chiarire il carattere non meramente economico delle agitazioni basta ricordare che il sindacato, il 20 e il 21 giugno, proclamò uno sciopero generale solidale verso i processi rivoluzionari in Russia e Ungheria. Ancora tumulti segnarono tutto l’autunno, generando la reazione degli ambienti più conservatori, fino alla proclamazione di un nuovo sciopero generale il 2 e 3 dicembre come risposta all’aggressione dei nazionalisti contro i deputati socialisti. Tuttavia, per quanto riguarda Torino, lo scontro non raggiunse ancora un’intensità particolarmente acuta. Il vero mutamento si produsse nel corso dei primi mesi del 1920, quando il gruppo torinese avviò il lavoro politico verso le elezioni delle commissioni interne per spiegare tra gli operai le ragioni pratiche e ideali della battaglia consiliare, mostrandone sia la funzionalità immediata, cioè la possibilità di condurre direttamente il confronto con il padronato, sia quelle di prospettiva, che avrebbero fatto del sistema dei Consigli la base di un più ampio sistema di governo della classe operaia. Già nel mese di marzo a Torino si erano tenute tutte le elezioni delle Commissioni interne secondo la piattaforma ordinovista. E così, in un clima di generale mobilitazione della classe operaia, nei cotonifici Mazzonis di Sestri Ponente partirono le prime occupazioni degli sta-

122. A. Gramsci, Lettera ad Alfonso Leonetti, 28 gennaio 1924, in P. Togliatti (a cura di), La formazione del gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano nel 1923-1924, Editori Riuniti, Roma, 1962 p. 181.

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bilimenti, che rapidamente si diffusero alle altre fabbriche, intrecciandosi poi alle lotte e alle occupazioni delle terre da parte dei braccianti agricoli. Il gruppo de L’Ordine Nuovo, essendo ben conscio dell’ostilità della direzione sindacale e del PSI, avvertì subito il rischio di isolamento, con il movimento chiuso in un angolo dall’offensiva restauratrice condotta da governo e industriali. L’unico modo per evitare una situazione simile sarebbe stato aprire prospettive politiche generali a quel movimento, unendo le rivendicazioni di tutte le realtà in lotta su un piano politico: per questa ragione il periodico avanzò l’idea di un congresso nazionale dei Consigli. La situazione precipitò quando i rappresentanti della Lega industriale, Agnelli, Olivetti e De Benedetti, annunciarono al Prefetto l’intenzione di attuare la serrata generale degli stabilimenti e far presidiare le fabbriche dall’esercito. Dai propositi ai fatti la serrata partì il 29 marzo in un clima che rapidamente aumentò il livello dello scontro tra lavoratori e imprenditori. Già al Congresso costitutivo della Confindustria, il 20 marzo, il segretario generale delle organizzazioni imprenditoriali affermò la necessità di far cessare immediatamente nelle fabbriche la coesistenza di due poteri. Come noto, il pretesto per la serrata venne trovato nello sciopero contro l’entrata in vigore dell’ora legale: A Torino, la Commissione interna dell’officina Industrie Metallurgiche – di proprietà della Fiat – riporta le lancette dell’orologio sull’ora solare. Non si tratta di un puntiglio. È un’affermazione del potere operaio in fabbrica, e insieme una protesta contro tutto ciò che ricorda la guerra123.

Lo scontro rapidamente dilagò dalle fabbriche torinesi al resto del Paese coinvolgendo ferrovieri, portuali, braccianti agricoli. Una mobilitazione durata un intero mese: da una parte la Confindustria sostenuta dal governo e dall’esercito, dall’altra un movimento ben presto abbandonato al suo destino da PSI e sindacato. Il 13 aprile iniziò un durissimo sciopero generale destinato a perpetuarsi fino al 24 aprile e a concludersi con la firma di un concordato che sanciva il ridimensionamento del sistema dei commissari di reparto, una riduzione dei poteri delle Commissioni interne e dunque la sconfitta. Fu definita «la Caporetto del movimento». 123. C. Pillon, I comunisti nella storia d’Italia, Edizioni del Calendario, Roma, 1967, p. 89.

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Di fronte al generale isolamento del movimento, Gramsci si rese conto di quanto fosse stato ingenuo non organizzare una frazione politica sulla piattaforma del gruppo torinese, in grado di dare battaglia nella Direzione del PSI. Esattamente a partire da questo momento si produce un mutamento nell’ordine di priorità in Gramsci e la riflessione sul partito assume una centralità assoluta nella sua elaborazione e attività politica. Per Gramsci quel movimento rappresentava un avvenimento grandioso per la storia della classe operaia di tutto il mondo, poiché si era sviluppato da una posizione di forza, non per la fame o la disoccupazione. I lavoratori avevano rivendicato la direzione della produzione conducendo una battaglia in breve dilagata ben oltre i confini delle fabbriche interessate, fino a coinvolgere quattro milioni di persone tra lavoratori industriali e agricoli, tecnici e impiegati. Questa lotta si era affermata nonostante una duplice pressione ostile: da un lato, gli industriali e lo Stato avevano adottato tutti i mezzi coercitivi a loro disposizione per porre in soggezione e soffocare quel movimento; dall’altra, la direzione del Partito socialista e del sindacato ne avevano ostacolato in tutti modi lo sviluppo e le possibilità di radicamento in altre parti d’Italia e nel resto delle classi subalterne. Secondo la linea espressa da L’Ordine Nuovo, l’organizzazione dei Consigli di fabbrica doveva avvenire su base rappresentativa per ogni industria; ognuna di queste doveva suddividersi in reparti e questi in squadre di mestiere, al cui interno, i mandati per gli operai eletti dovevano essere imperativi e condizionati. L’assemblea di questi delegati formava il Consiglio, all’interno del quale veniva eletto un comitato esecutivo; i rappresentanti dei diversi esecutivi avrebbero quindi realizzato il comitato urbano. Questo sistema di autogoverno, nelle intenzioni di Gramsci, doveva articolarsi a livello orizzontale e verticale fino a comprendere al suo interno le masse contadine e l’insieme delle classi sfruttate, costituendo così nei fatti la struttura portante istituzionale della rivoluzione in Italia, così come lo furono i Soviet in quella russa. Il lavoro teso alla trasformazione delle istituzioni di associazione e rappresentanza operaia, per sottrarli alla tutela degli apparati burocratici sindacali e rendere realmente i candidati delle commissioni interne espressione sociale e politica della vita di fabbrica, fece breccia tra i metallurgici tanto da scalzare in breve tempo la centrale sindacale riformista dalla direzione della Camera del Lavoro di Torino.

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Nel mese di settembre del 1919 alla Fiat-Brevetti si costituì il primo Consiglio di fabbrica, seguito a ruota dall’elezione del Consiglio della FiatCentro, fino ad arrivare nel giro di poco tempo a ben trenta stabilimenti con cinquantamila operai metallurgici rappresentati. Tuttavia, come già accennato, nonostante il crescente interesse del movimento operaio torinese per le posizioni ordinoviste, e nonostante l’importanza del movimento consiliare, queste erano nel Partito totalmente isolate e minoritarie: Il movimento incontrò la resistenza accanita dei funzionari sindacali, della direzione del Partito socialista e dell’Avanti!. La polemica di questa gente si basava sulla differenza fra il concetto di Consiglio di fabbrica e quello di Soviet. Le loro conclusioni ebbero un carattere puramente teorico, astratto, burocratico. Dietro le loro frasi altisonanti si celava il desiderio di evitare la partecipazione diretta delle masse alla lotta rivoluzionaria, di conservare la tutela delle organizzazioni sindacali sulle masse. I componenti della direzione del Partito si rifiutarono sempre di prendere l’iniziativa di una azione rivoluzionaria, prima che non fosse attuato un piano di azione coordinato, ma non facevano mai nulla per preparare ed elaborare questo piano124.

7. Il problema del partito Il biennio 1919-1920 è contraddistinto dal cozzare di enormi contraddizioni interne e internazionali, dalla crisi economica e dalla svalutazione monetaria. L’inflazione, la disoccupazione di massa, l’aumento dello sfruttamento lavorativo e la contrazione del potere d’acquisto dei salari raggiunsero punti acutissimi di intensità. Di fronte al montare sempre più evidente di tensioni sociali che i vecchi ceti del notabilato liberale non riuscivano più a governare con le consumate tecniche del controllo sociale giolittiano, si diffuse in categorie sempre più ampie di lavoratori la convinzione di trovarsi di fronte a un momento storico cruciale che avrebbe condotto fatalmente o alla rivoluzione socialista o alla reazione più conservatrice e violenta. Gramsci ebbe piena consapevolezza di ciò e già nel 1920 scriveva che la controffensiva delle classi dominanti, oltre a spazzare via l’organizzazione della lotta politica dei lavoratori, avrebbe mirato ad assorbire all’interno 124. A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 609.

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dello Stato borghese le istituzioni di associazione economica e sociale delle classi sfruttate: La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese125.

L’intellettuale sardo fu tra i primi a individuare questo pericolo e, quando per i più il Fascismo costituiva ancora il fenomeno folcloristico di un manipolo di sbandati, ne intuì le potenzialità, pur non aderendo, neanche negli scritti giovanili, all’idea di un indifferenziato fronte borghese dietro al Fascismo. Gli fu chiaro sin da subito che, nel disastro economico, sociale e morale prodotto dalla guerra, i rischi maggiori di sovversivismo reazionario sarebbero venuti anzitutto dai ceti medi e, semmai, dal possibile saldarsi tra gli interessi di questi con quelli di un grande capitale arricchitosi eppure in profonda crisi sul piano politico-sociale. Il contesto di crisi economica e delirio ideologico nazionalista che precede e segue la guerra mondiale costituisce l’ambiente perfetto per il formarsi delle condizioni sociali, politiche e culturali necessarie alla nascita del Fascismo126. Dopo le elezioni del novembre 1919, segnate dal grande successo del Partito socialista (capace di conquistare ben 158 seggi) la radicalizzazione del conflitto aveva portato gli scioperi a straripare in tutto il Paese con ritmo sempre più incalzante e travolgente, coinvolgendo categorie di lavoratori estremamente diverse: dai contadini ai postelegrafonici, dai ferrovieri agli operai industriali. Le lotte si sviluppavano in gran parte dei casi spontaneamente, senza che alla base ci fosse una piattaforma di lotta unificante o forme di coordinamento di esse. In alcuni casi partivano da vertenze di carattere

125. Ivi, p. 510. 126. G. Fresu, A. Accardo, Oltre la parentesi, fascismo e storia d’Italia nell’interpretazione gramsciana, Carocci, Roma, 2009, pp. 75-86.

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economico, come l’adeguamento salariale al costo della vita, in altri da uno stato di esasperazione per le condizioni dello sfruttamento, pensiamo al già citato “sciopero delle lancette” scoppiato nell’aprile del 1920 a Torino e dovuto al rifiuto degli operai di adeguarsi alla introduzione dell’ora legale. Tuttavia, nel suo sviluppo, il conflitto tendeva ad assumere sempre più un significato politico, era il caso dello sciopero dei ferrovieri, finalizzato al blocco dei treni su cui erano trasportate armi e munizioni destinate alle “armate bianche” nella guerra contro la Russia sovietica, e pure al boicottaggio dei vagoni adibiti allo spostamento delle truppe verso i centri nei quali divampava il conflitto sociale127. Un altro esempio in tal senso fu la rivolta di Ancona, dove i soldati si erano rifiutati di imbarcarsi per l’Albania insorgendo insieme alla popolazione (in particolare con le famiglie degli operai dei cantieri navali) di interi quartieri contro la repressione. A partire dai primi di febbraio, scioperi, occupazioni e manifestazioni travolsero l’intero Paese, dal settore tessile nel Nord all’industria estrattiva dello zolfo in Sicilia, dall’intero comparto della metallurgia (la Dalmine, l’Ansaldo, l’Ilva) a quello del legname. All’agitazione del mondo industriale si accompagnò quella del settore agricolo in Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte, quindi l’occupazione dei latifondi nel Mezzogiorno. Ma la battaglia più caratteristica del “biennio rosso” fu quella per il riconoscimento dei Consigli e delle Commissioni interne, che tra l’agosto e il settembre del 1920 portò all’occupazione armata delle fabbriche contro lo strumento repressivo della “serrata”. Come accennato, tra il marzo e l’agosto del 1920, le forze padronali si organizzarono, dando vita alla Confederazione Generale dell’Industria e alla Confederazione Generale dell’Agricoltura. Dopo uno sbandamento iniziale, gli industriali scelsero la linea della contrapposizione frontale verso le rivendicazioni del mondo del lavoro, avviando una strategia offensiva tesa a ristabilire il primato dell’ordine imprenditoriale nei luoghi della produzione. La vittoria ottenuta nel mese di aprile sugli scioperanti è il primo risultato concreto di questa azione. La nuova determinazione degli imprenditori e la combattività crescente dei produttori 127. Da aprile i ferrovieri bloccarono, in Emilia e Toscana, la circolazione dei treni rifiutandosi di trasportare le truppe di soldati e carabinieri mobilitati nella repressione, quindi nel mese di maggio a Brescia venne bloccato un treno con cannoni, mitragliatrici e munizioni diretto in Polonia per sostenere il fronte antisovietico. La stessa cosa accadde con analoghi convogli ferroviari a Trieste, mentre a Genova i portuali si rifiutarono di svolgere le loro attività di supporto alle operazioni di sbarco di una nave battente bandiera zarista.

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resero l’estate del 1920 una incubatrice, come un barile nel quale andava accumulandosi polvere pronta a esplodere. La detonazione avvenne nel mese di settembre, in seguito al netto rifiuto opposto dal padronato alle rivendicazioni salariali avanzate dalla FIOM. Il movimento dei Consigli nel settembre 1920 dilagò, fino a essere assunto come modello di gestione diretta della fabbrica da diverse realtà del mondo operaio: il Consiglio di fabbrica è divenuto, per gli operai padroni delle officine, un’esperienza reale e una naturale espressione della loro forma di gestione. Di giorno in giorno, e non solo negli strumenti metallurgici, bensì, presto, in molti altri che vengono occupati dalle maestranze sull’onda rivoluzionaria, i Consigli di fabbrica sorgono, si strutturano, funzionano, dirigono la produzione, la disciplina, la vigilanza armata128.

Il lungo e paziente lavoro tra gli operai torinesi per il riconoscimento dei Consigli, se non aveva mutato i rapporti di forza in seno al PSI, almeno aveva reso il Consiglio una realtà, un valore determinante nelle lotte della classe operaia. Anche L’Avanti!, che fino ad un anno prima aveva definito la piattaforma ordinovista utopistica e letteraria, dovette prenderne atto e riconoscere la dirompenza e la portata rivoluzionaria di un movimento capace di portare avanti la produzione nella totale assenza di tecnici, impiegati e con la limitata disponibilità di approvvigionamenti e materie prime. Tuttavia, l’isolamento del movimento ne ostacolò lo sviluppo fino a farlo rientrare nell’ordinario alveo contrattualistico dal quale era scaturito e si giunse così all’accordo sottoscritto il 27 e 28 settembre da Sindacato e industriali. Se il concordato portò notevoli miglioramenti salariali e normativi, ciò non di meno rappresentò una gravissima sconfitta per il movimento operaio, determinando una profonda lacerazione che insieme alla credibilità del PSI demolì anche le speranze residue di quella stagione rivoluzionaria. La sconfitta dischiuse definitivamente le strade per la nascita di un nuovo partito: L’occupazione delle fabbriche metallurgiche è all’origine della scissione di Livorno non meno dei ventuno punti dell’Internazionale comunista: accelera e radicalizza

128. P. Spriano, L’Ordine Nuovo e i Consigli di fabbrica, op. cit., p. 120.

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il processo già apertosi a Mosca, in una situazione che denota il riflusso dell’ondata rossa e segna l’inizio di una lunga fase di arretramento e di ritirata del movimento operaio italiano, anzi di sconfitta129.

La firma del concordato aprì la strada alla reazione più cieca di una borghesia impaurita e insieme imbaldanzita per lo scampato pericolo. L’avvento del regime fascista ha il suo presupposto fondamentale nel fallimento della stagione del biennio rosso, nella disillusione ingenerata tra le masse operaie e contadine. Su questo esito tragico ha sicuramente giocato un ruolo l’atteggiamento irresponsabile della dirigenza massimalista, capace solo di sobillare le masse con le parole d’ordine dell’insurrezione e della rivoluzione proletaria senza operare in alcun modo per rendere concreta quella prospettiva. Come ha scritto lo stesso Angelo Tasca: La direzione del Partito ha perduto dei mesi interi a predicare la rivoluzione; non ha previsto niente né niente ha preparato (…) la classe operaia italiana per parte sua si è creduta alle soglie del potere, è uscita dalle vecchie strettoie e vede invece il solito orizzonte, un solo istante spalancatosi, richiudersi di nuovo davanti a lei130.

Il PSI, dopo la sbornia di retorica rivoluzionaria del Congresso di Bologna, era rimasto nei fatti un partito parlamentare, incapace a sviluppare alcuna attività al di là del diritto di tribuna assegnatogli dagli steccati della democrazia parlamentare. È da quest’insieme di fattori che Gramsci, con l’articolo “Primo: rinnovare il Partito”, scritto nel gennaio del 1920, iniziò ad affrontare con priorità assoluta le questioni relative al Partito socialista. L’organizzazione, nel suo sviluppo, era riuscita nel compito storico di attirare su di sé e sul suo programma l’attenzione dei lavoratori italiani, suscitandone la presa di coscienza e la mobilitazione, ma al contempo si era dimostrata inidonea a realizzare la parte essenziale del suo compito storico. Il mancato progresso ne determinò, in ultima analisi, la letargia, l’inerzia politica, portandolo a perdere contatto con le grandi masse in movimento, dissolvendosi da un lato nella fraseologia rivoluzionaria e dall’altra nel nullismo dell’opportunismo. «Il Partito che era

129. P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, vol. I, Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino, 1967, p. 78. 130. A. Tasca, Nascita e avvento del Fascismo, op. cit., p. 172.

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diventato la più grande energia storica della nazione italiana, è caduto in una crisi di infantilismo politico, è oggi la più grande delle debolezze sociali della nazione italiana»131. Il PSI doveva rinnovarsi per non essere stritolato dagli avvenimenti e per non vanificare le possibilità rivoluzionarie, ma quel rinnovamento doveva passare attraverso la direzione dell’organizzazione, non più mediata, da parte dei lavoratori. Ancora una volta il rapporto dualistico tra dirigenti e diretti era posto come la causa principale della degenerazione del partito; pertanto, bisognava far coincidere il rinnovamento del PSI con l’organizzarsi delle masse in classe dirigente: Le masse organizzate devono diventare padrone dei loro organismi di lotta, devono organizzarsi in classe dirigente prima di tutto nei loro istituti, devono fondersi col Partito socialista. Gli operai comunisti, i rivoluzionari consapevoli delle tremende responsabilità del periodo attuale, devono essi rinnovare il Partito, dargli una figura precisa e una direzione precisa; devono impedire che gli opportunisti piccolo borghesi lo riducano al livello dei tanti partiti del Paese di Pulcinella132.

Nel quadro di questo dibattito Gramsci scrisse, nel maggio del 1920, la mozione “Per un rinnovamento del Partito socialista”, poi approvata dalla sezione torinese del PSI. Questa mozione, sottoposta all’attenzione del II Congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi a Pietrogrado nel luglio, venne poi approvata come pienamente rispondente ai suoi principi, sia per le critiche alla direzione del PSI, sia per la proposta politica avanzata, tanto da essere richiamata esplicitamente nelle tesi congressuali di Lenin al 17° punto: Per quanto riguarda il PSI, il II Congresso della III Internazionale ritiene sostanzialmente giusta la critica del Partito e le proposte pratiche, pubblicate come proposte al Consiglio nazionale del PSI, a nome della sezione torinese del Partito stesso, nella rivista L’Ordine Nuovo dell’8 maggio 1920, le quali corrispondono pienamente a tutti i principi fondamentali della II Internazionale133.

131. A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 394. 132. Ivi, p. 398. 133. V.I. Lenin, “Tesi sui compiti fondamentali del II Congresso dell’IC”, in Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1967, vol. XXV, p. 324.

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Anche in questa fase, le riflessioni di Gramsci sul partito s’intrecciano a quelle sugli istituti associativi del movimento operaio, con l’intento di favorirne l’articolazione e un rapporto organico tra le due realtà; lo sviluppo del movimento consiliare si era infatti imbattuto non solo con i limiti di direzione politica del Partito socialista ma anche, e soprattutto, con una pretesa di gestione burocratica e militaresca del movimento da parte del sindacato (la cui centrale era in mano ai riformisti), impegnato in un’opera di contrasto all’emersione di nuove forme associative dei lavoratori al di fuori del proprio controllo e indirizzo. Insieme alla questione partito, l’altro nodo che andava affrontato e risolto era senz’altro quello sindacale. Storicamente, il sindacato è per Gramsci la forma che la merce-lavoro assume in regime capitalistico, in modo da riequilibrare il rapporto tra capitale e lavoro a vantaggio della parte più debole. Esso sorge grazie alla concentrazione e all’organizzazione delle forze dei lavoratori. Le tendenze di sviluppo del sindacato tendono a irreggimentare masse sempre più ampie di lavoratori all’interno dell’organizzazione e a concentrare il potere, la forza e la disciplina del movimento dei lavoratori nella direzione centrale del sindacato. Proprio grazie al concentrarsi della forza in un ufficio centrale, che assume nella direzione una stabilità e una disciplina sottratta ai capricci e alla volubilità della spontaneità delle masse tumultuose, il sindacato è in grado di assumersi impegni e contrattare legalmente con il padronato per strappare risultati migliorativi delle condizioni di vita e lavoro delle masse che rappresenta. L’affermarsi di questa “legalità industriale” e della forza contrattuale del mondo del lavoro è stata un grande successo storico, ha posto fine a quella condizione atomistica e disgregata di isolamento nella quale si trovavano precedentemente i lavoratori, dando inizio ad una stagione straordinaria di loro crescita ed emancipazione. Tuttavia, la “legalità industriale” non era per Gramsci l’ultima e definitiva conquista della classe operaia, ma solo una forma di compromesso necessaria fino a quando i rapporti di forza restavano a essa sfavorevoli. Se infatti il sindacato tende a rafforzare, universalizzare e perpetuare la “legalità industriale”, il Consiglio di fabbrica, sorto nella condizione servile e tiranneggiata del lavoro, universalizza le forme di ribellione allo sfruttamento rendendo la classe operaia fonte del potere industriale, tende cioè ad annientare la condizione di “legalità industriale”. Così, se il sindacato cerca di governare il conflitto di classe per strappare dei risultati

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favorevoli, il Consiglio, per via della sua spontaneità rivoluzionaria, tende a scatenare e sviluppare in ogni momento quel conflitto. I rapporti tra queste due istituzioni del movimento operaio devono essere tali da armonizzare le spinte delle due tendenze opposte: il sindacato deve evitare che ogni capriccio velleitario del Consiglio possa determinare un arretramento delle condizioni dei lavoratori, il Consiglio, a sua volta, deve accettare e far propria la disciplina del sindacato, ma allo stesso tempo, con il suo carattere rivoluzionario, lo deve stimolare e incalzare costantemente per farlo uscire dalla sua tendenza naturale a burocratizzarsi nel tecnicismo del funzionariato sindacale. Proprio la necessità di questo rapporto equilibrato portò Gramsci, in contrasto con Angelo Tasca, a rifiutare una relazione di mera “dipendenza gerarchica” tra i due istituti: Se la concezione che fa del Consiglio un mero strumento di lotta sindacale si materializza in una disciplina burocratica e in una facoltà di controllo diretto del sindacato sul Consiglio, il Consiglio si isterilisce come espansione rivoluzionaria (…). Poiché il Consiglio nasce dalla posizione che la classe operaia è venuta acquistando nel campo della produzione industriale, il tentativo di subordinarlo gerarchicamente al sindacato determinerebbe prima o poi il cozzo tra le due istituzioni. La forza del Consiglio consiste nel fatto che esso aderisce alla coscienza della massa operaia, è la stessa coscienza della massa operaia che vuole emanciparsi autonomamente, che vuole affermare la sua libertà di iniziativa nella creazione della storia134.

Nel corso del 1920 gli eventi incalzano il dibattito teorico, accelerando e polverizzando i normali tempi di elaborazione e discussione politica, determinando convergenze improvvise e polemiche furibonde. La crisi del movimento socialista in tutte le sue componenti – partito, sindacato e frazioni varie – si esprime nella sempre più forte atomizzazione, nell’incomunicabilità che porta ognuna di queste a seguire autonomamente la propria strada. Il rapporto problematico tra la III Internazionale e il PSI diviene, giorno dopo giorno, una questione sempre più esplosiva135; a sua volta, il tema del rinnovamento tende sempre più a trasformarsi in una discussione sull’oppor-

134. A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 549. 135. Per un approfondimento mirato rimando al volume: Lenin (curato da F. Platone e P. Spriano), Sul movimento operaio italiano, Editori riuniti, Roma, 1970.

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tunità o meno di fondare un partito comunista autonomo in Italia. Gramsci ancora non ha in mente la scissione, tuttavia, sviluppa delle riflessioni sugli elementi costitutivi dell’agire comunista e di ciò che si deve intendere per partito comunista, in cui sono presenti elementi forti di distinzione dalla componente astensionista di Bordiga, che invece già lavorava per la scissione comunista all’interno del PSI. Intervenendo in questo dibattito Gramsci prese le distanze dalle “discussioni dottrinarie e accademiche” sui problemi della costruzione di un partito “veramente comunista”, e con ancora più forza prende le distanze dalle “aberranti” semplificazioni dell’astensionismo elettorale definite “allucinazioni particolaristiche”136. Per Gramsci, il compito dei comunisti non era perdersi in discussioni oziose, ma lavorare alle condizioni di massa per lo sviluppo organico della rivoluzione. Un partito comunista deve essere un partito d’azione, lavorare in mezzo alle masse, deve sorgere dialetticamente dall’aspirazione di “iniziativa storica” di “autonomia industriale” delle masse, e non dall’intuizione intellettuale di dottrinari e politicanti che pensano bene e si esprimono bene in materia di comunismo. Queste riflessioni sono una chiara presa di distanza da un modo di intendere il partito comunista come un organismo separato dalle masse – che fa dei suoi dirigenti e intellettuali i depositari sacerdotali della purezza rivoluzionaria comunista – e costituiscono un’importante anticipazione dei temi forti sul partito che contraddistingueranno l’elaborazione di Gramsci nelle Tesi di Lione. Il partito sarebbe dovuto sorgere dalle classi oppresse e restare costantemente in contatto con esse, strutturarsi attraverso un rapporto organico con l’autonomia del produttore nel campo industriale, che assume nel Consiglio di fabbrica una sua forma peculiare. Per i comunisti la rivoluzione non è uno schema astratto dato dalla rimasticatura monotona delle certezze del materialismo storico, ma un processo dialettico in cui il potere politico rende possibile il potere industriale e il potere industriale rende possibile il potere politico. Per questo i comunisti non dovevano restare prigionieri delle discussioni di un pensiero astratto, ma vivere nella realtà e comprenderla per come è, vivere nella lotta per renderla stimolo, per dare organizzazione e

136. Secondo Gramsci il Partito comunista non può astenersi dal partecipare alle elezioni per gli istituti rappresentativi della democrazia borghese, perché esso deve organizzare tutte le classi oppresse attorno alla classe operaia e divenire il Partito di governo “in senso democratico” di queste classi.

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forma positiva al grado di autonomia spirituale e spirito d’iniziativa che lo stesso sviluppo industriale ha determinato nelle masse: È necessario promuovere la costituzione organica di un partito comunista, che non sia una accolita di dottrinari o di piccoli Macchiavelli, ma un partito d’azione comunista rivoluzionaria, (…) che perciò sia il partito delle masse che vogliono liberarsi coi propri mezzi, autonomamente, dalla schiavitù politica e industriale attraverso l’organizzazione dell’economia sociale e non di un partito che si serva delle masse per tentare imitazioni eroiche dei giacobini francesi137.

In queste riflessioni si saldano già tre aspetti fondamentali dell’elaborazione politica di Antonio Gramsci: 1) la questione del rapporto dualistico tra dirigenti e diretti nel movimento operaio; 2) la centralità e l’autonomia dei produttori, vale a dire l’idea di un partito che sorga dalle loro concrete esperienze associative e di lotta nella produzione 3) il rifiuto di una concezione meccanica e determinista del materialismo storico e della rivoluzione. Per Gramsci, il PSI non riusciva a stare “a cavallo della storia”, a governare e coordinare l’iniziativa di massa dei suoi stessi aderenti. Il suo mancato pronunciamento rispetto all’agitazione per la revisione del contratto collettivo dei metallurgici, nell’estate del 1920 ne era una conferma. L’esperienza dei Consigli e dell’occupazione delle fabbriche aveva infatti rappresentato in primo luogo un mutamento profondo nel metodo di lotta del movimento operaio, perché fino ad allora, quando gli operai conducevano una vertenza per migliorare la loro situazione economica o condizione di lavoro, questi si limitavano ad adottare lo strumento dello sciopero in virtù di una “fiducia” espressa verso “capi lontani”. Occupando la fabbrica, e dirigendo per conto proprio la produzione, i lavoratori hanno assunto una figura e un valore diversi: «i capi sindacali non possono più dirigere, i capi sindacali spariscono nell’immensità del quadro, la massa deve risolvere da sé, con i propri mezzi, con i propri uomini, i problemi della fabbrica»138. È questo profondo mutamento nel metodo di lotta e nella psicologia stessa delle masse a rendere per Gramsci i vecchi modi di intendere il partito e il sindacato, sorpassati e inadeguati rispetto alla nuova consapevolezza

137. A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 573. 138. Ivi, p. 669.

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delle masse. I sindacati e i partiti socialisti, nati nel quadro della Seconda Internazionale, avevano cioè svolto una funzione fondamentale nella fase primordiale della storia del movimento operaio, quando le masse ancora non avevano voce. La Prima guerra mondiale, la Rivoluzione d’ottobre e le concrete esperienze di lotta del proletariato occidentale avevano suscitato nelle masse uno spirito d’iniziativa inedito e una insopprimibile aspirazione a essere protagoniste della propria emancipazione. L’insieme di quegli eventi aveva scatenato una vitalità e una ricchezza nelle forme di vita e partecipazione delle classi subalterne che non poteva più essere contenuta e compressa negli schemi classici del sindacalismo tradizionale e in quella idea di partito socialista. Le masse non volevano più essere semplice “carne da cannone”, materia inerte nelle mani di gruppi sociali che ne modellano a piacimento il destino: questa era per Antonio Gramsci la lezione più grande che veniva dall’esperienza dei Consigli di fabbrica, da questa lezione doveva partire qualsiasi proposito di rinnovamento delle organizzazioni dei lavoratori. La fabbrica in regime capitalistico era un piccolo Stato dominato da un suo signore dispotico all’interno del quale all’operaio era riservata una funzione meramente strumentale senza alcuna possibilità d’arbitrio, l’occupazione delle fabbriche aveva spezzato questo potere dispotico rendendo la fabbrica uno Stato illegale, una repubblica proletaria. Il primo problema che si poneva a questo Stato era la difesa militare, e già esso si presentava in termini assolutamente originali, perché nello Stato borghese l’esercito si struttura su tre ordini sociali nei quali le masse popolari costituiscono la massa militare, la grande borghesia e l’aristocrazia l’ufficialità superiore, la piccola borghesia i comandi subalterni. In quest’esercito si ha cioè la stessa forma di gerarchia della fabbrica che in un caso come nell’altro relega le classi subalterne ad una condizione passiva di massa di manovra. Nella repubblica-fabbrica l’esercito è costituito invece da una sola classe, al tempo stesso corpo di massa e direzione di quell’esercito, all’interno del quale le forme di gerarchizzazione della fabbrica e dell’esercito borghesi vengono meno. Le stesse modalità gerarchiche della fabbrica e dell’esercito borghesi presiedono all’organizzazione politica e istituzionale della società borghese: in un caso come nell’altro il sorgere di un nuovo potere su base industriale e amministrativa spezza le modalità di gerarchizzazione sociale tra dirigenti e diretti in tutte le sue forme.

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I partiti politici nati dalle rivoluzioni borghesi si sono decomposti fino a diventare mere consorterie personali e il Partito socialista, appiattendosi sul terreno dell’attività parlamentare e riproducendo al suo interno le stesse modalità di distinzione tra dirigenti e diretti, ha partecipato anch’esso a questo processo decompositivo139. Il partito comunista per Gramsci sarebbe dovuto sorgere dalle ceneri dei partiti socialisti, dal ripudio di questa decomposizione in tutte le sue forme ed espressioni. All’interno del PSI esisteva per Gramsci già potenzialmente un partito comunista, mancava solo l’organizzazione esplicita, di esso facevano parte tutti quei gruppi di “comunisti consapevoli” che nelle sezioni, nelle fabbriche, nei villaggi hanno lavorato contro la decomposizione socialista e la completa disfatta per le classi subalterne. Ora per Gramsci il compito di tutti i comunisti in vista del Congresso Nazionale, inizialmente previsto a Firenze, era costituirsi in frazione organizzata e centralizzata. Tuttavia, ancora nel mese di settembre del 1920, cioè a quattro mesi dal Congresso di Livorno, Gramsci, a differenza di Bordiga, ancora non parlava esplicitamente di scissione, l’obiettivo continuava a essere la trasformazione del PSI in partito comunista e lo scioglimento di tutte le ambiguità rispetto alla piattaforma di adesione alla III Internazionale. Tuttavia, appena un mese dopo si costituì a Milano la frazione comunista e nel mese di novembre si giunse all’unificazione delle diverse componenti comuniste del Partito socialista, compresa quella bordighista che nella riunione di Milano del 1° ottobre 1920 rinunciò alla pregiudiziale astensionista, adeguandosi alle direttive della III Internazionale. L’accordo tra le tre componenti fondatrici del PCd’I – bordighisti, ordinovisti e massimalisti di sinistra – basato sul cambiamento del nome del Partito, sull’espulsione dei riformisti e sulla totale accettazione della piattaforma di adesione all’Internazionale comunista, portò alla costituzione del Co-

139. «In verità il Partito Socialista Italiano, per le origini storiche delle varie correnti che lo costituirono, (...) per l’autonomia illimitata concessa al gruppo parlamentare, è rivoluzionario solo per le affermazioni generali del suo programma. Esso è un conglomerato di partiti politici; si muove e non può non muoversi pigramente e tardamente; è esposto continuamente a diventare il facile Paese di conquista di avventurieri, di carrieristi, di ambiziosi senza serietà e capacità politica; per la sua eterogeneità, per gli attriti innumerevoli dei suoi ingranaggi, logorati o sabotati dalle serve-padrone, non è mai in grado di assumersi il peso e la responsabilità delle iniziative e delle azioni rivoluzionarie che gli avvenimenti incalzanti incessantemente gli impongono. Ciò spiega il paradosso storico per cui in Italia sono le masse che spingono e educano il Partito della classe operaia e non è il Partito che guida e educa le masse». Ivi, p. 659.

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mitato provvisorio della frazione comunista del PSI composta da Bordiga, Repossi, Fortichiari, Gramsci, Terracini, Bombacci e Misiano, quindi alla elezione di un esecutivo costituito da Bordiga, Fortichiari e dal massimalista di sinistra Bombacci. In realtà, il dato di partenza della progressiva unificazione della sinistra nel PSI, sino alla nascita del PCd’I, è la riunione tenutasi tre anni prima, esattamente il 18 novembre del 1917, pochi giorni dopo la presa del Palazzo d’Inverno. Una riunione clandestina tenutasi a Firenze tra venti delegati socialisti dell’area massimalista, organizzata proprio per discutere di quanto accaduto in Russia e sulle prospettive rivoluzionarie in Italia. A questa riunione parteciparono non solo i massimi dirigenti massimalisti, come Serrati e Lazzari, ma anche due giovani rivoluzionari: uno proveniente da Torino di appena ventisei anni; l’altro da Napoli di ventotto anni. Erano Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga. Proprio secondo la ricostruzione di quest’ultimo, la differenziazione dai massimalisti dell’area comunista e il suo progressivo organizzarsi su di una base strategica diversa, ha origine in questa riunione dove sia Gramsci sia Bordiga mostrarono l’impaziente necessità di mettere a frutto l’esperienza rivoluzionaria russa, mentre la maggioranza massimalista ripropose la tradizionale impostazione dell’attesa rivoluzionaria, riaffermando la tattica del non aderire né sabotare la guerra. In questa frazione, sia alla Conferenza di Milano sia in quella di Imola del 30 novembre e del 1° dicembre 1920, così come nella prima fase di vita del PCd’I, il gruppo di Gramsci aveva ancora un ruolo subalterno e non organizzato, dominato anche da una certa confusione interna (soprattutto in relazione ai rapporti con Angelo Tasca), mentre la componente del Soviet di Napoli, grazie soprattutto alle doti organizzative di Amadeo Bordiga, ne costituiva l’elemento preponderante. È lo stesso Gramsci a ricordarlo in una lettera scritta a Palmiro Togliatti il 18 maggio 1923: Noi, vecchio gruppo torinese, abbiamo fatto molti errori in questo campo. Abbiamo evitato di portare fino alle estreme conseguenze i dissidi ideali e pratici che erano sorti con Angelo [Tasca], non abbiamo chiarito la situazione e oggi ci troviamo a questo punto: che una piccola banda di compagni sfrutta per suo conto la tradizione e le forze da noi suscitate e Torino è diventata un documento contro di noi. Nel campo generale, per la repulsione che abbiamo sentito nel 1919-20 a creare una frazione, siamo restati isolati, semplici individui o quasi, mentre nell’altro gruppo,

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quello astensionista, la tradizione di frazione e di lavoro comune ha lasciato tracce profonde che ancora oggi hanno riflessi ideali e pratici molto considerevoli nella vita del Partito140.

8. Riflusso rivoluzionario e offensiva reazionaria La biografia politica di Gramsci tra il 1917 e il 1926 è segnata dal drammatico fallimento dei tentativi rivoluzionari in Occidente e dall’aprirsi di una fase di riflusso che facilitò la radicale svolta reazionaria. La principale domanda che Gramsci si pone nei Quaderni è una: perché, nonostante una profonda crisi economica e di egemonia delle classi dirigenti, in un contesto oggettivamente rivoluzionario, in Italia e in Europa non fu possibile ripetere la vittoriosa esperienza dei bolscevichi russi? Come accennato, all’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica di Antonio Gramsci, nel tempo, si è affermata una tendenza incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni precedenti e successive al 1926. Proprio il Fascismo è uno degli ambiti concettuali nei quali la tesi sulla cesura pre e post carceraria dimostra la sua debolezza, segnalando al contrario una profonda continuità e organicità analitica, dispiegatasi sin dall’immediato dopoguerra, in merito al rapporto tra “crisi organica” e “sovversivismo delle classi dirigenti”. Proprio la categoria del “sovversivismo reazionario”, impiegata con continuità da Gramsci, costituisce uno di quegli esempi che ci spiegano le ragioni del successo internazionale di Gramsci, venendo utilizzata, per esempio, in America Latina per spiegare la tendenza ciclica ai colpi di Stato e l’origine storica di una serie infinita di sanguinosissime dittature in quel continente. Secondo Gramsci le classi dirigenti italiane, in ragione dei loro limiti congeniti, e per le forme del processo di unificazione nazionale e di costruzione del nuovo Stato, di fronte alle loro fasi di crisi di egemonia tendono a cercare una scorciatoia eversiva e autoritaria. Più precisamente, nelle fasi di crisi storica quelle classi dirigenti sono disposte a sovvertire le stesse istituzioni liberali da loro create per garantirsi la conservazione dei vecchi equilibri passivi. In poco più di sessanta anni di vita del giovane Stato ciò accadde per ben cinque volte: con Crispi; durante “la crisi di fine seco-

140. A. Gramsci, “Lettera a Palmiro Togliatti” (18 maggio 1923), in La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, op. cit., p. 63.

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lo”; nella soluzione extraparlamentare con cui si giunse all’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale contro il parere della Camera dei deputati; con l’avvento al potere di Mussolini dopo la “marcia su Roma” e quindi con l’instaurazione delle leggi fascistissime dopo la “crisi Matteotti”. Le riflessioni sul Fascismo di Antonio Gramsci sfuggono alle troppo rigide classificazioni filosofico-politiche e storiografiche141. Nell’interpretazione gramsciana c’è sicuramente come punto di partenza il materialismo storico, e dunque l’individuazione di una trama generale che ha come fattore primario gli elementi economico-sociali; tuttavia, anche i fattori cosiddetti soggettivi, compresa la crisi morale della borghesia, hanno un ruolo determinante e centrale. Anche Gramsci interpreta il Fascismo come reazione a una fase di profondi rivolgimenti sociali legati alla Prima guerra mondiale e soprattutto alla Rivoluzione d’ottobre, tuttavia egli non giunge a considerare la borghesia e il suo modo di produzione come un unico blocco omogeneo. Egli legge all’interno del blocco sociale dominante differenziazioni e contraddizioni che si palesano proprio in rapporto alla nascita e all’avvento del Fascismo. Analizza il tentativo di centralizzazione degli interessi borghesi dietro al Fascismo, ma lo considera un fenomeno nato socialmente tra la piccola e media borghesia urbana, per precise ragioni storiche, e sviluppatosi grazie agli apporti degli agrari e quelli, non sempre lineari e armonici, del grande capitale industriale. Insomma, Gramsci non si è mai accontentato della lettura del Fascismo come semplice reazione antiproletaria, pur avendo sempre ribadito anche l’essenzialità di questo fattore. Infine, l’intellettuale sardo ha interpretato storicisticamente il Fascismo in rapporto alla debolezza delle classi dirigenti italiane e ai limiti nel processo di unificazione politica e modernizzazione economica nella storia d’Italia, ma non lo ha mai inteso un esito inevitabile di quel processo, lo ha semplicemente ritenuto storicamente determinato, hegelianamente potremmo dire, come fenomeno razionale in quanto reale e viceversa, all’opposto di Croce che paradossalmente, da filosofo idealista, si è accontentato dell’idea irrazionale, e dunque irreale, del Fascismo come malattia improvvisa all’interno di un corpo sano.

141. G. Fresu, “Antonio Gramsci, fascismo e classi dirigenti nella Storia d’Italia”, in NAE, n. 21, VI, Cuec, Cagliari, 2008, pp. 29-35.

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Sul piano ideologico, scrive Gramsci, il Fascismo si dimostra debitore nei confronti del nazionalismo di Corradini142 anzitutto per quanto concerne il concetto di lotta tra “nazioni proletarie” e “nazioni capitalistiche”, che avrebbe dovuto portare le “nazioni giovani” a sostituire le “nazioni decrepite” nella guida dell’umanità. Un concetto mutuato, in forma trasfigurata dalla teoria del conflitto di classe di Marx, e traslato sul proscenio della politica internazionale in chiave nazionalista. Nel vivo della Prima guerra mondiale, all’ancora venticinquenne Gramsci (“Lotta di classe e guerra”, Avanti! ed. piemontese, 19 agosto 1916) non sfugge la pericolosità di tale operazione – premessa indispensabile della categoria di “spazio vitale” – che esprime la lotta politica attraverso la guerra, la conquista dei mercati, il «subordinamento economico e militare di tutte le nazioni a una sola, a quella che attraverso il sacrifizio del sangue e del suo benessere immediato, ha dimostrato di essere l’eletta, la degna»143. Sul piano culturale il Fascismo è debitore dell’irrazionalismo e del futurismo di Marinetti, di cui condivide lo stesso nichilismo “sedicente innovatore” dietro cui, in realtà, si celerebbe un’idea confusamente reazionaria della società. Il manifesto politico di Filippo Tommaso Martinetti era per Gramsci niente altro che un insipido programma liberale. Nel Futurismo Gramsci vedeva le convulsioni di una borghesia camuffata e disorientata, ma la distanza tra questa forma dissimulata di liberalismo e la statura politica di una figura come Cavour rimaneva siderale: I nipotini di Cavour hanno dimenticato gli insegnamenti e le dottrine del loro antenato. Il programma liberale sembra così straordinariamente pazzesco che i futuristi lo fanno proprio, persuasi di essere originalissimi e ultra-avveniristici. È lo scherno più atroce delle classi dirigenti. Cavour non riesce a trovare in Italia altri discepoli e assertori che F.T. Marinetti e la sua banda di scimmie urlatrici144.

Sul versante della dottrina economica il corporativismo fascista aveva trovato i suoi precursori tra economisti nazionalisti come Filippo Carli145, 142. E. Corradini (1865-1931) è stato il fondatore nel 1910 dell’Associazione Nazionalista Italiana, confluita nel PNF di Mussolini nel 1923. 143. A. Gramsci, Scritti giovanili, op. cit., p. 41. 144. Ivi, p. 49. 145. F. Carli (1876-1939), studioso di sociologia e di storia economica, è stato uno dei principali teorici del corporativismo nel nazionalismo prima e nel Fascismo poi.

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per i quali attraverso la programmazione delle corporazioni sarebbe stato possibile superare conflitto sociale e faziosità politiche, in nome dei superiori interessi nazionali. Ma la derubricazione del conflitto avrebbe richiesto inevitabilmente l’irreggimentazione coatta della classe lavoratrice, la sua definitiva rinuncia alla lotta economica e soprattutto politica. Carli aveva parlato della necessità di ottenere la collaborazione del proletariato con la borghesia, di educarlo a una cultura intensiva per condurlo ad avere coscienza dei fini sociali di produzione e di “vita nazionale”. Mascherato dietro alle espressioni “collaborazione sociale” ed “educazione nazionale” prendeva corpo invece il vero fine del rivoluzionarismo nazionalista: «il consolidamento e la perpetuazione dei privilegi di un ceto economico: gli industriali odierni, e di un ceto politico, quello costituito dalle loro proprie persone di sedicenti innovatori»146. L’infatuazione di Carli, come di diversi esponenti del mondo liberale italiano per il sistema economico tedesco, l’esaltazione del capitalismo di Stato unito ad un’aggressiva politica di conquista, erano la riprova dell’arretratezza della borghesia italiana. Anche in Germania la borghesia stava subendo fatalmente la sua evoluzione liberale, stava distruggendo le sue corporazioni: la guerra è stata il massimo tentativo di conservazione di un sistema antieconomico di produzione, il tentativo di integrare il deficit sociale con il bottino di guerra147.

A Gramsci le “convulsioni nazionali” della borghesia italiana apparivano il risultato di una debolezza economica e delle particolari forme di unificazione nazionale. Un tema, sviluppato poi sistematicamente nei Quaderni, già affrontato nel gennaio 1918 nell’articolo Funzione sociale del Partito nazionalista. Alla debolezza economica e sociale corrispondeva l’arretratezza politico-istituzionale, che l’intellettuale sardo non esita a chiamare “regime dei pascià”. In Italia non esisteva un’articolazione politica liberale organizzata uniformemente sul terreno nazionale, corrispondente alle classi dirigenti, non esisteva una borghesia nazionale con interessi comuni diffusi. Esisteva-

146. A. Gramsci, Scritti giovanili, op. cit., p. 51. 147. Ivi, p. 54.

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no piuttosto «consorterie, cricche, clientele locali che esplicano un’attività conservatrice non nell’interesse generale borghese, ma di interessi particolari di clientele locali affaristiche»148. Nonostante i limiti, tuttavia, il regime della borghesia italiana aveva rappresentato il raggiungimento di una forma tecnicamente più avanzata nei sistemi di produzione e scambio, un progresso dell’intera società. Ma ora, a causa delle contraddizioni esplose con la guerra, quella stessa borghesia si poneva come elemento disgregatore della vita nazionale, capace di sabotare e distruggere lo stesso apparato economico da essa costruito. La fascinazione di una parte della borghesia italiana per il nazionalismo retorico ed estremista di D’Annunzio era per Gramsci un segnale evidente di sbandamento ideologico. Il movimento guidato dal poeta abruzzese pretese infatti di contrapporre all’autorità e alla disciplina legale del governo centrale l’organizzazione armata irregolare del governo di Fiume. Erano le prime avvisaglie di quel sovversivismo reazionario dietro cui Gramsci già intravedeva la guerra civile. La guerra civile è stata scatenata proprio dalla classe borghese che tanto la depreca, a parole. Perché guerra civile significa appunto urto dei due poteri che si disputano a mano armata il governo dello Stato, urto che si verifica, non in campo aperto tra due eserciti ben distinti, schierati regolarmente, ma nel seno stesso della società, come scontro di gruppi raccogliticci, come molteplicità caotica di conflitti armati in cui non è possibile, alla grande massa di cittadini, orizzontarsi, in cui la sicurezza individuale e dei beni sparisce e le succede il terrore, il disordine, l’«anarchia»149.

Non dovettero passare molti mesi perché i segni premonitori di questa guerra civile diventassero concreti. Il 2 e 3 dicembre del 1919 si diffusero spontaneamente scioperi e sommosse di operai, per protestare contro l’aggressione subita dai deputati socialisti ad opera di nazionalisti e monarchici. Tutto ciò era per Gramsci un episodio importante di lotta tra le classi, ma non di una lotta tra capitalisti e proletariato, bensì tra questi ultimi e la piccola-media borghesia. Con la guerra, la piccola borghesia si era trovata improvvisamente ad avere un ruolo di rilievo nella catena del comando

148. A. Gramsci, “L’unità nazionale” (4 ottobre 1919), in L’Ordine Nuovo 1919-1920, op. cit., p. 56. 149. Ivi, p. 67.

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assumendo un ruolo centrale nella riorganizzazione bellica della vita civile, militare ed economica nazionale. Senza che avessero una preparazione culturale e spirituale, decine e decine di migliaia di individui furono fatti affluire dal fondo dei villaggi e delle borgate meridionali, dai retrobottega degli esercizi paterni, dai banchi invano scaldati nelle scuole medie e superiori, dalle redazioni dei giornali di ricatto, dalle rigatterie dei sobborghi cittadini, da tutti i ghetti dove marcisce e si decompone la poltroneria, la vigliaccheria, la boria dei frantumi e dei detriti sociali depositati da secoli di servilismo e di dominio degli stranieri; e fu loro dato uno stipendio da indispensabili e da insostituibili, e fu loro affidato il governo delle masse di uomini, nelle fabbriche, nelle città, nelle caserme, nelle trincee del fronte150.

La smobilitazione, la retorica della “vittoria mutilata”, la crisi economica, la duplice pressione da parte del capitale e del lavoro, dunque il fenomeno della proletarizzazione dei ceti medi, sarebbero stati alla base delle inquietudini della piccola e media borghesia nel corso del dopoguerra. In ciò risiederebbe l’origine del “sovversivismo reazionario” che ha trovato nel nazionalismo, in D’Annunzio e infine nel Fascismo di Mussolini la ragione della propria rivoluzione sociale. Salvatorelli lo chiarì perfettamente all’indomani della marcia su Roma: la piccola borghesia, storicamente, ha sempre aspirato ad una propria rivoluzione autonoma e radicale, tuttavia, non essendo una vera e propria classe sociale, bensì un agglomerato che vive a margine del processo produttivo fondamentale alla civiltà capitalistica, il suo orizzonte non riesce ad andare mai oltre la rivolta e la demagogia151. La ragione di questa situazione era riconducibile al dominio esercitato dal capitale industriale nella composizione dei gruppi dirigenti al potere e nel determinarne le scelte fondamentali di politica economica. La necessità di tutelare gli interessi dell’industrialismo andava a detrimento degli interessi più generali del paese e di quelli della piccola borghesia in particolare. La guerra non aveva fatto altro che esasperare tutte le caratteristiche negative del blocco storico liberale e già Gramsci delineava all’orizzonte un cambio del personale amministrativo alla guida del paese, pur senza un mutamento 150. “Gli avvenimenti del 2-3 dicembre” (6-13 dicembre 1919). Ivi, p. 351. 151. L. Salvatorelli, G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Einaudi, Torino, 1964.

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dei rapporti sociali. Nello specifico egli vedeva nel Partito popolare, non ancora nel movimento fascista, il primo partito della piccola borghesia; tuttavia, al di là di questo grave errore di valutazione, è interessante notare come già fosse delineato il processo di “decomposizione” del sistema liberale a partire dallo sfilarsi di questa classe. I partiti storici della borghesia italiana sono stati distrutti da questa egemonia soffocante e distruttiva che politicamente ha preso nome da Giovanni Giolitti ed è stata esercitata con la violenza più svergognata. La guerra e le conseguenze della guerra hanno rivelato e hanno sviluppato forze nuove che tendono ad una sistemazione nuova delle basi economiche e politiche. Tutta la struttura intima dello Stato italiano ha subito e continua a subire un intenso processo di trasformazione organica, i cui risultati normali non sono ancora prevedibili con esattezza, cambierà il personale amministrativo, il potere di Stato cadrà completamente in altre mani da quelle tradizionali, da quelle… giolittiane152.

Negli altri Paesi capitalistici, come l’Inghilterra, era stato ricercato un equilibrio tra capitale industriale e capitale fondiario, attraverso l’ordinamento dello Stato democratico, e così, facendo leva sugli interessi delle masse operaie, si era arrivati ad introdurre il libero scambio e ad abolire il protezionismo doganale sui cereali. In Italia, al contrario, lo Stato in quanto tale venne creato dal capitale industriale, protagonista e destinatario di tutte le scelte politico-economiche fondamentali, comprese quelle doganali. La politica di incentivazione industriale si era pertanto sviluppata a danno del resto della società e contro gli interessi della nazione153. Nei Quaderni questo tema fu ripreso e ampliato diffusamente. Gramsci, in particolare, individuava in Francesco Crispi l’autore principale della svolta industrialista e protezionista. Il governo dei moderati dal ’61 al ’76 aveva solo timidamente creato le condizioni esterne di uno sviluppo economico – sistemazione dell’apparato statale, strade, ferrovie, telegrafi – e sanato le finanze oberate dai debiti del Risorgimento; il governo della Sinistra cercò di rimediare all’odio suscitato nel popolo dal fiscalismo della Destra, ma non riuscì ad altro che a questo, ad essere una valvola di sicurezza; era la

152. A. Gramsci, “Il potere in Italia” 11 febbraio 1920, L’Ordine Nuovo 1919-20, op. cit., p. 410. 153. G. Fresu, Nas trincheiras do Ocidente. Lições sobre fascismo e antifascismo, UEPG editora, Ponta Grossa, Paraná, Brasil, 2017, pp. 115, 136.

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politica della destra con uomini e frasi di sinistra. Crispi invece dette un reale colpo in avanti alla società italiana, fu il vero uomo della nuova borghesia154.

Crispi si era legato strettamente ai grandi latifondisti meridionali, in quanto classe più unitaria, e al contempo aveva operato per il rafforzamento nel paese dell’industrialismo. Il sigillo di questo compromesso fu la politica del protezionismo doganale e la denuncia dei trattati commerciali con la Francia. Quanto ai programmi, Crispi era per Gramsci un “moderato puro” e al contempo un passionale, ossessivamente condizionato dalla questione dell’unità politicoterritoriale del paese, cui aveva subordinato anche le esigenze dell’espansione coloniale. Se le sterminate masse dei contadini senza terra meridionali aspiravano alla terra, Crispi seppe attrarre queste speranze dirottandole però nel miraggio delle colonie. In tal senso l’imperialismo di Crispi era anch’esso “retorico-passionale” e senza alcuna base economico-finanziaria (in ciò anzitutto fu il vero antesignano di Benito Mussolini). Se la caratteristica dell’imperialismo era l’esportazione di capitali e la ricerca di mano d’opera a basso costo per ottenere nuove forme di remunerazione dei capitali stessi, l’Italia non aveva capitali da esportare, anzi doveva ricorrere a quelli stranieri per lo sviluppo nel proprio territorio, e piuttosto che cercare mano d’opera a basso costo da sfruttare mirava ad esportare la propria mano d’opera nelle colonie. Mancava una base [reale] all’imperialismo italiano, e alla base reale fu sostituita la passionalità: imperialismo-castello in aria, avversato dagli stessi capitalisti che avrebbero più volentieri visto impiegare in Italia le somme ingenti spese in Africa. Ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per il miraggio della terra155.

Tra il 1920 e il ’21 Gramsci interpretava il Fascismo come sintomo di una crisi internazionale data dall’incapacità del capitalismo a dominare le forze produttive156. La piccola borghesia si poneva come l’interprete principale di

154. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 45. 155. Ivi, p. 46. 156. «Cos’è il Fascismo, osservato su scala internazionale? È il tentativo di risolvere i problemi di produzione e di scambio con le mitragliatrici e le revolverate. Le forze produttive sono state rovinate dalla guerra imperialista. (…) si è creata un’unità e simultaneità di crisi nazionali che rende appunto asprissima e irremovibile la crisi generale. Ma esiste uno strato della popolazione in tutti i paesi – la piccola e media borghesia – che ritiene di poter risolvere questi problemi con le mitragliatrici e le revolverate, e questo strato alimenta il Fascismo, dà gli effettivi al Fascismo». A. Gramsci, “Italia e Spagna (11 marzo 1921), Socialismo e Fascismo, Einaudi, Torino, 1978, p. 105.

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questo nuovo copione, dopo essere stata il megafono dell’ideologia astratta e “ampollosa” della guerra. La guerra si era rivelata solo un aspetto di un ben più grande processo di spartizione del mondo per sfere egemoniche che, nonostante tutto, aveva finito per stritolare anche quella stessa classe sociale. Il Fascismo costituiva una nuova opportunità di uscire dall’angolo attraverso il suo armamento e l’introduzione dei “metodi militari dell’assalto e del colpo di sorpresa” nella lotta di classe. Un significativo esempio di analisi della base sociale del Fascismo è contenuto nell’articolo “Il popolo delle scimmie”, pubblicato su L’Ordine Nuovo, il 2 gennaio 1921: Il Fascismo è stato l’ultima rappresentazione offerta dalla piccola borghesia urbana nel teatro della vita politica italiana. La miserevole fine dell’avventura fiumana è l’ultima scena della rappresentazione. Essa può assumersi come l’episodio più importante del processo di intima dissoluzione di questa classe della popolazione157.

Gramsci descrive in questo articolo la parabola della piccola borghesia italiana dall’avvento della “sinistra” al potere sino alla nascita del movimento fascista. Con lo sviluppo, la concentrazione e la centralizzazione del capitalismo finanziario la piccola borghesia aveva perso la sua funzione produttiva divenendo “pura classe politica”, specializzandosi nel “cretinismo parlamentare”. È questo un fenomeno che assunse fisionomie diverse trovando espressione nei governi della “Sinistra storica”, il giolittismo, il riformismo socialista. A questa degenerazione della piccola borghesia corrisponde la degenerazione del Parlamento che diviene «bottega di chiacchiere e scandali, diviene un mezzo al parassitismo», un Parlamento corrotto fino al midollo che perde progressivamente prestigio presso le masse popolari. La sfiducia verso l’istituzione parlamentare aveva portato le stesse masse popolari a individuare nell’azione diretta dell’opposizione sociale l’unico strumento di controllo e pressione, l’unico modo per far valere la propria sovranità contro gli arbitrii del potere. In tal senso Gramsci interpreta la settimana rossa del giugno 1914. Attraverso l’interventismo, l’avventurismo di D’Annunzio e il Fascismo, la piccola borghesia «scimmieggia la classe operaia e scende in piazza».

157. A. Gramsci, Socialismo e Fascismo, Einaudi, Torino, 1978, p. 9.

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Questa nuova tattica si attua nei modi e nelle forme consentiti ad una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti: lo svolgimento dei fatti che hanno preso il nome di radiose giornate di maggio, con tutti i loro riflessi giornalistici, oratori, teatrali, piazzaioli durante la guerra, è come la proiezione nella realtà di una novella della jungla del Kipling: la novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo ecc., ecc. Era avvenuto questo: la piccola borghesia, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta la forma della sua prestazione d’opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza158.

La decadenza del Parlamento fu massima nel corso della guerra, quando la piccola borghesia cercò di consolidare la sua nuova posizione barricadera attraverso un miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista e sindacalismo rivoluzionario. Nella sua carica antiparlamentare la piccola borghesia cercò di organizzarsi attorno a padroni più ricchi, trovando un punto di sostegno tra gli agrari e gli industriali. Così, anche se l’avventura fiumana si poneva come il “motivo sentimentale” di questa intensa iniziativa, il centro vero dell’organizzazione risiedeva nella difesa della proprietà industriale e agraria, contro le rivendicazioni delle classi subalterne e la loro crescente dirompenza. A sua volta la classe proprietaria aveva commesso l’errore di credere che si potesse difendere meglio dagli assalti del movimento operaio e contadino abbandonando gli istituti del suo Stato e seguendo “i capi isterici della piccola borghesia”. L’origine del movimento fascista andava ricercata nei diversi gruppi di ex interventisti, arditi, semplici sbandati e gruppi antibolscevichi dietro cui si erano raccolte le categorie sociali maggiormente colpite dalla crisi strutturale che aveva investito il Paese. Tra essi il 23 marzo 1919 fu fondato a Milano il primo Fascio di combattimento, che andò strutturandosi gradatamente in movimento, fino ad assorbire le diverse formazioni della Destra nazionalista sorte in quegli anni. Dietro lo squadrismo, Gramsci vedeva una regia ben precisa e insieme una recrudescenza atomizzata, priva di disciplina, mossa da una violenza cieca e gratuita che era frutto della scomposizione e assenza di coesione

158. Ivi, p. 10.

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morale nello Stato come nella società. Il Fascismo era lo specchio emblematico di tutto questo. La carica antipolitica del Fascismo aveva finito per scatenare «forze elementari irrefrenabili nel sistema borghese di governo economico e politico». Il Fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo, con la sua promessa di impunità, a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odî, dei desideri. Il Fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e bene amministrato159.

Gramsci individuava al fondo della società italiana tratti feroci e barbarici che chiarivano ampiamente anche l’asprezza del suo conflitto di classe: questo era il Paese con il primato degli omicidi ed eccidi, «dove le madri educano i figlioletti a colpo di zoccolo sulla testa»160, dove meno sono presenti forme di rispetto e protezione per le giovani generazioni, un Paese dove in alcune regioni veniva messa la museruola ai vendemmiatori affinché non mangiassero l’uva durante la raccolta. Per Gramsci la crudeltà e l’assenza di simpatia erano caratteri peculiari del popolo italiano, «che passa dal sentimento fanciullesco alla ferocia più brutale e sanguinaria, dall’ira passionale alla fredda contemplazione del male altrui». Rispetto a questa condizione la nascita dello Stato italiano aveva difettato mostrandosi gracile e incerto, anche a causa della debolezza e della deliquescenza delle sue stesse classi dirigenti. L’intima debolezza della borghesia italiana aveva costretto le sue classi dirigenti a continui compromessi per mantenersi al potere; in Italia non ci fu, come nel resto d’Europa, una lotta tra imprenditori industriali e latifondisti agrari, ma al contrario un compromesso deteriore il cui costo venne pagato da tutto il Paese e in particolare dal Mezzogiorno, costretto al sottosviluppo e a una condizione da regime coloniale. Anche la mancata definizione di veri e propri partiti politici delle classi dirigenti, che si ponessero realmente in

159. A. Gramsci, Socialismo e Fascismo, op. cit., p. 150. 160. Ibid.

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alternativa secondo una prospettiva liberale o conservatrice, era una conseguenza di questa dinamica sociale. Da ciò l’indistinta natura melmosa delle consorterie liberali e le consolidate pratiche trasformiste. L’unico collante reale del Paese era un apparato burocratico guidato però da gruppi privi di una qualsiasi base oggettiva nella società. Come chiariremo nei due successivi capitoli, secondo Gramsci, la fragile unità politico-territoriale del Paese era inoltre minacciata da tre questioni pressanti: l’atteggiamento eversivo assunto dal Vaticano e dalla Chiesa; la questione meridionale; l’emergere di un proletariato dai connotati via via sempre più rivoluzionari. La prima questione aveva portato ad una incomunicabilità tra cattolici e nuovo Stato almeno sino a quando la Chiesa non individuò un nemico ritenuto più pericoloso, il socialismo; la seconda era originata dalla condizione di miseria e sfruttamento delle masse meridionali sottoposte a un dominio sociale e politico che manteneva immutata la sua natura feudale, masse soggette ad un ribellismo endemico senza coordinamento e prospettive politiche; la terza era la minaccia più significativa per lo stato di cose esistenti, nonostante la persistente inefficacia politica e organizzativa delle prospettive, prima anarchiche e poi socialiste, assunte dal movimento operaio italiano a cavallo tra i due secoli. L’emergere di questa nuova realtà politico-sociale venne affrontata dal nuovo Stato, almeno fino al 1900, con modalità del tutto analoghe a quelle poi assunte dal Fascismo, vale a dire con gli stati d’assedio, la corte marziale, la sospensione delle libertà individuali e collettive proprie di uno Stato liberale. Ma la sistematica e violenta repressione delle agitazioni popolari si rivelò del tutto inefficace a frenarne l’impeto, oltre a comportare un rischio per l’intero sistema istituzionale, più volte sull’orlo di una paurosa involuzione autoritaria. Dopo l’apice dello scontro – raggiunto con la strage di Milano (6-8 maggio 1898) e l’omicidio di Umberto I (29 luglio 1900) – il nuovo secolo si aprì con la realizzazione di una nuova linea di governo rappresentata da Giovanni Giolitti, che cercò di inserire stabilmente i partiti popolari, epurati da qualsiasi pulsione eversiva, negli equilibri di governo. Il periodo che seguì, la cosiddetta età giolittiana, è contraddistinto da un notevole sviluppo economico e da una forte modernizzazione del Paese che tuttavia lascia fuori l’intero Mezzogiorno. Dunque, una modernizzazione incapace di superare alcune delle contraddizioni fondamentali del Paese. Peraltro, la nuova linea di inclusione nelle aree del governo, che riguardò soltanto fasce

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limitate del movimento socialista settentrionale (quello riformista) e poi del mondo cattolico, non avvenne in maniera organica e politicamente chiara, bensì attraverso un ramificato sistema di corruzione politica, la pratica consolidata del trasformismo e l’utilizzo della violenza nel Sud. Ma neanche questo sistema di governo riuscì a imbrigliare lo svilupparsi dello scontro sociale nel Paese.

SECONDA PARTE Il dirigente politico s

1. Il Partito nuovo Nella storia del Novecento, le vicende del Partito comunista italiano hanno dato luogo a ricerche e approfondimenti monografici tanto estesi da trovare un corrispettivo solo nel grande interesse verso il Fascismo, sicuramente l’argomento storico-politico italiano più sottoposto ad indagine scientifica. Eppure, come sottolineato da Franco Livorsi, in questo colossale lavoro di ricostruzione storica ci sono alcune “zone d’ombra” tra le quali spicca senz’altro la mancata o insufficiente storicizzazione della corrente di Amadeo Bordiga, principale artefice e protagonista della nascita del PCd’I. La tendenza a considerare Gramsci il fondatore del Partito nuovo è il risultato di una rappresentazione dei fatti strumentale, funzionale alle esigenze di lotta politica interne a quell’organizzazione nella fase successiva alla sua carcerazione. Tuttavia, cambiato il quadro storico e svanite le necessità dialettiche che ne avevano determinato l’affermazione, una simile visione dei fatti è sopravvissuta allo stesso PCI, così ancora oggi è diffusa l’idea di un “Gramsci padre fondatore del Partito”. In realtà, senza la realistica valutazione del ruolo di Bordiga al momento della nascita e nei primi anni di vita della nuova organizzazione, dunque senza conoscere gli aspetti essenziali della sua concezione politica, risulta difficile anche comprendere appieno tanto il processo di formazione intellettuale, quanto le categorie analitiche elaborate dall’intellettuale sardo in uno dei periodi di maggior ricchezza della sua produzione teorica, quello del Gramsci dirigente politico di primo piano nel Comintern e nel PCd’I. Volendo individuare due punti di riferimento essenziali della concezione ideologica di Amadeo Bordiga, potremmo trovarli nell’interazione costante tra “determinismo economico” e “fede rivoluzionaria”1. Pur non avendo 1.

G. Fresu, Il diavolo nell’ampolla. Antonio Gramsci, gli intellettuali e il partito, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, La Città del Sole, Napoli, pp. 93-120.

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nulla a che fare con le matrici culturali del vecchio positivismo socialista, Bordiga condivideva con esse una concezione dell’intervento soggettivo fortemente vincolato dalle leggi ferree dei processi di trasformazione economica. La conferma più emblematica di quest’impostazione l’abbiamo nelle posizioni espresse da Bordiga a partire dagli anni Cinquanta del Novecento (la cosiddetta formula dell’attendismo) che portò le superstiti frazioni bordighiste a ritirarsi dalla politica attiva in attesa della grande crisi finale del capitalismo, la quale, nelle previsioni di Bordiga, sarebbe dovuta esplodere nel 1975. Secondo Ernesto Ragionieri, senza dubbio uno dei massimi studiosi italiani di storia del movimento operaio, «la fortuna del bordighismo può essere ricostruita solo contestualmente alla crisi della società italiana, della quale esso stesso è una espressione. La sua incapacità a dare una spiegazione a quanto stava avvenendo in Italia e al tempo stesso un’ottica che tendeva a vedere attraverso il prisma italiano i problemi della rivoluzione mondiale, la rigidità del pensiero e delle formule di azione ne facevano l’indice di una condizione di passività che ne spiega insieme il successo e il rapido tramonto»2. Per quanto riguarda invece la centralità della “fede rivoluzionaria” nella concezione “purista” del partito di quadri, temprati e incorruttibili alle contaminazioni riformiste, essa non è solo riconducibile al temperamento intransigente di Bordiga, ma anche, e soprattutto, al contesto profondamente degenerato del socialismo napoletano nel quale egli si forma3. Il PSI di Napoli, al quale Bordiga aderisce all’età di ventuno anni, nel 1910, costituiva una realtà del tutto particolare nella quale erano presenti le posizioni più eterogenee: dai riformisti agli anarco-sindacalisti, dagli “intransigenti” ai massoni. In questo guazzabuglio, segnato da scontri furibondi e principi di scissione, Bordiga venne maturando il suo rifiuto verso le degenerazioni elettoralistiche e qualsiasi tattica incentrata su una politica positiva e ampia delle alleanze. 2. 3.

E. Ragionieri, Palmiro Togliatti, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 69. Su quest’opinione concordano gran parte degli studiosi che si sono occupati di Amadeo Bordiga, tra cui anche Paolo Spriano: «Sin da allora quando propugnava la necessità di creare un movimento di argine vivamente antiborghese si riconosceva in lui quell’ossessione di purezza, quell’accento così marcatamente giacobino-robesperriano, è stato felicemente definito – che non rispondeva soltanto al temperamento dell’uomo ma era una naturale reazione all’ambiente del socialismo napoletano, propenso al trasformismo bloccardo, alla corruzione clientelare, in cui il neofita entusiasta si era imbattuto e scontrato». P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, op. cit., p. 12.

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L’avversione spontanea all’affarismo clientelare, in cui era sprofondata la politica sempre più trasformista del Partito a Napoli, trovò uno sbocco naturale nella svolta a sinistra determinatasi nel Congresso di Reggio Emilia del 1912, seguita al costituirsi a livello nazionale della frazione “intransigente”. Al Congresso di Reggio Emilia si arrivò all’espulsione del gruppo ultrariformista guidato da Bonomi e Bissolati – di cui facevano parte altri illustri esponenti del socialismo come Cabrini, Podrecca e Ferri – dichiaratosi favorevole alla convergenza con il “blocco giolittiano” tanto da sostenere le ragioni dell’aggressione coloniale alla Libia. L’espulsione fu decretata tra i tripudi di giubilo dei delegati “intransigenti” e accompagnata da un’infiammata e violenta requisitoria antimilitarista di Benito Mussolini, divenuto in quel Congresso direttore de l’Avanti!. Bordiga, delegato della Federazione giovanile socialista, proprio a partire da quel momento divenne uno stretto collaboratore del quotidiano del PSI e del suo direttore, su posizioni antiparlamentariste e contrarie a ogni collaborazione con i riformisti sia sul piano politico, sia su quello sindacale4. Franco Livorsi nei suoi studi ha messo in luce come negli approfondimenti teorici di Bordiga in questo periodo – una concezione basata sul rifiuto verso ogni commistione tra materialismo marxista e idealismo filosofico – il marxismo fosse presentato come una semplice “antifilosofia”, incentrata sul primato assoluto della pratica rispetto alle idee. Al suo interno erano rinvenibili influenze riconducibili a un certo “utilitarismo rousseauiano”, ma anche alle teorizzazioni del 1899 di Giovanni Gentile su La filosofia di Marx. In questa posizione rozza, icastica e suggestiva, l’anticulturismo sembra diventare anticultura. Il proletariato qui è becchino ma non erede della civiltà borghese. C’è un atteggiamento (…) inconcepibile in Gramsci o Togliatti5.

Nella radicalizzazione delle posizioni della gioventù socialista, Bordiga assunse un ruolo importante e già nel settembre 1911 pronunciò un discorso infuocato contro le pretese di espansione militare dell’Italia. La dichiarazione di guerra alla Turchia del 25 settembre 1911 determinò un’immediata

4. 5.

Per Bordiga infatti, il corporativismo e l’egoismo sindacale erano germi responsabili della degenerazione socialista, perniciosi quanto l’arrivismo parlamentare. F. Livorsi, Amadeo Bordiga. Il pensiero e l’azione politica 1912-1970, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 35.

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e spontanea reazione popolare di ostilità, all’interno del PSI però solo la sinistra condusse una battaglia senza quartiere all’intrapresa militare e, al suo interno, Bordiga si distinse da subito per i suoi toni accesi nell’affermare l’incompatibilità assoluta tra socialismo e patriottismo. Particolarmente importante è poi la battaglia di Bordiga e dei suoi più stretti collaboratori contro il voltafaccia interventista di Mussolini nel 1914. Bordiga fu probabilmente il più efficace nello smascherare lo “sparafucilismo” di Mussolini e nel ridicolizzarne le posizioni, fino a colpire con efficacia l’unico ambito del PSI nel quale Mussolini con le sue posizioni aveva un seguito, cioè la Federazione giovanile socialista. Era stato infatti Bordiga a condurre l’attacco decisivo contro il Segretario Generale della federazione giovanile, il filo-mussoliniano Lido Cajanni, determinandone l’espulsione. Bordiga ha scritto memorabili articoli contro la guerra, contrapponendosi alle distinzioni ambigue tra guerra offensiva e difensiva e tra le forze imperialistiche coinvolte nel conflitto. Bordiga percepì con anticipo e fino in fondo i pericoli insiti nei “distinguo” di Mussolini e pur essendo a lui legato da un lungo rapporto di collaborazione, stima e amicizia, per primo gli mosse guerra. Secondo Andreina De Clementi, il percorso di formazione politica di Bordiga tra il 1913 e il 1919 finisce per coincidere con un processo di progressiva presa di coscienza della estraneità del PSI agli aspetti essenziali della teoria marxista a fronte di una realtà che galoppava sempre più velocemente verso una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni. Questa presa di coscienza, tuttavia, è secondo la De Clementi non il frutto di un processo di definizione intellettuale, ma della molteplice iniziativa politica compiuta da Bordiga: L’apporto di Bordiga alla storia e all’esperienza del movimento operaio non va tanto ricercato a livello teorico quanto, invece, nell’uso politico di alcuni moduli fondamentali della dottrina marxiana, nella sua capacità di servirsene come strumento di misurazione non solo della realtà storica ma anche dei criteri interpretativi, e delle relative soluzioni, adottati dalle organizzazioni operaie in fasi diverse6.

Pur essendo collocato nella dimensione nazionale ed internazionale dell’attualità della rivoluzione, anche l’astensionismo elettorale, secondo

6.

A. De Clementi, Amadeo Bordiga, Einaudi, Torino, 1971, pp. 24-25.

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Franco Livorsi, ha una matrice peculiare di origine napoletana; è cioè una reazione al fallimento dei blocchi elettorali per le elezioni amministrative di Napoli che segnarono per Bordiga livelli inaccettabili di degenerazione del PSI. A questa matrice si aggiunge poi l’influsso dell’antiparlamentarismo mussoliniano e massimalista, che in Bordiga diviene convinzione sull’incompatibilità tra democrazia e socialismo, tanto da negare una funzione anche solo tattica alla partecipazione dei socialisti alle istituzioni borghesi7. Questa impostazione di fondo rimase immutata anche nel contesto tumultuoso della scissione di Livorno e nei primi anni di vita del Partito nuovo. Non è questa la sede per colmare il vuoto o le “zone d’ombra” di cui parlava Livorsi, né possiamo dedicarci a un focus troppo approfondito sull’insieme di tali questioni, tuttavia, al di là dei posizionamenti e delle battaglie che animarono la fase precedente e immediatamente successiva la scissione, gli interventi e gli articoli redatti in questa fase dal primo segretario del Partito comunista d’Italia risultano assai utili per comprendere la concezione politica di questa nuova organizzazione e, dunque, la dialettica nella quale si inserisce l’intervento critico di Antonio Gramsci. Tra questi “Mosca e la questione italiana”, un articolo scritto cinque mesi dopo il Congresso di Livorno, nel quale Bordiga replicava alle accuse dei riformisti contro i comunisti, rei di aver realizzato artificialmente la scissione sotto eterodirezione russa. Si tratta di un documento essenziale per comprendere la genesi storica del PCd’I secondo la visuale del suo principale fondatore, nel quale Bordiga retrodatava la necessità storica della scissione a una fase ben precedente la Rivoluzione Russa. Il PSI aveva già vissuto dei processi di scissione a Reggio Emilia e Ancona, ma senza superare mai definitivamente i problemi di convivenza tra due concezioni del socialismo tanto diverse da risultare antitetiche. Gli eventi determinatisi con i moti della “settimana rossa” del 1914 confermarono le sue contraddizioni interne, un’organizzazione con vocazione rivolu-

7.

La posizione astensionista di Bordiga non è però sempre stata assoluta: nelle elezioni del 1913 Bordiga si pronunciò contro le tendenze astensioniste degli anarchici. La svolta di sinistra del PSI, presentatosi da solo alle elezioni sulla base di posizioni che Bordiga definì “sinceramente rivoluzionarie”, e più in generale la convinzione che le critiche più dure alle degenerazioni riformiste e parlamentari del Partito non dovessero avere punti di contatto con l’anarchismo e il sindacalismo, portarono questi a scrivere un articolo contro quello che lui stesso bollò come il pericolo astensionista e i tentativi di boicottaggio anti-elezionista portati avanti contro il PSI.

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zionaria, ma, nei fatti, inerte e innocua nonostante i milioni di lavoratori da esso inquadrati. Le ragioni della scissione, già insormontabili allora, questa era la tesi di Bordiga, avevano dunque poco a che fare con Mosca e molto con i problemi del PSI. Pure negli anni tormentati della guerra l’unità neutralista dei socialisti fu per Bordiga solo apparente, perché la destra del PSI mantenne una posizione ostile verso qualsiasi opposizione attiva alla guerra, combattendo furiosamente contro le ipotesi allora ventilate di sciopero generale. La rotta di Caporetto, tra il 24 ottobre e il 9 novembre del 1917, con la “guerra irredentista” divenuta improvvisamente difensiva, ebbero l’effetto di ammorbidire ulteriormente la direzione socialista, timorosa di apparire forza antinazionale, ciò scavò un ulteriormente abisso tra l’anima rivoluzionaria e quella riformista del Partito socialista. Come è noto, la posizione del socialismo italiano era tra le più sfumate, mentre le altre organizzazioni socialiste si fecero assorbire nel vortice di guerra, tanto da spingere Lenin a parlare di “socialsciovinismo”. L’“assunzione di responsabilità di fronte alla nazione” e un malinteso patriottismo, incapace di vedere gli interessi materiali al fondo del conflitto, erano alla base della capitolazione della Seconda Internazionale dei lavoratori alla vigilia della Prima guerra mondiale. Il concetto di Patria (intesa in termini socialmente neutri) soverchiò quello di socialismo e l’idea indistinta di Popolo prese il posto di quella di classe, così i partiti socialisti europei non solo votarono in Parlamento i crediti di guerra (esortando “i proletari di tutti i Paesi” a spararsi tra loro anziché unirsi), ma arrivarono ad assumere ruoli ministeriali nei governi bellici. A fronte di questo disastro internazionale, l’opzione “né aderire, né sabotare” servì a mantenere unito il PSI fino alla fine del conflitto, nel tentativo di salvare almeno l’opposizione parlamentare alla guerra; tuttavia, le ragioni della scissione erano già mature. Si badi, mi preme tanto poco di posare a precorritore degli eventi che aggiungo subito che la coscienza della scissione non era in me solo, ma in tutti. Se potessi riportare le note critiche dell’Avanti! dimostrerei come esse fossero tutte intonate a quel concetto: tolleriamo i destri, ma a guerra finita taglieremo i ponti. In questo atteggiamento Serrati aveva seco noi ma non la maggioranza della direzione né del Partito. Egli era però convinto che la scissione sarebbe avvenuta, e lo ha riconosciuto posteriormente con noi. Ma non basta. Lo stesso Turati presentiva questo evento immancabile, ed al congresso di guerra del 1918 (…) chiudeva il suo

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discorso dicendo: occorre conservare fino alla fine della guerra l’unità del Partito. Tutti sentivano che un abisso si apriva tra noi8.

Gli equivoci del Congresso di Bologna del 1919, e soprattutto il trionfo elettorale socialista prolungarono artificialmente una unità posticcia resa ancora più ambigua dalla direzione massimalista di Serrati, intenzionato a far convivere nel PSI tutto e il suo esatto contrario, condannandolo all’inerzia in una fase storica segnata dalla radicalizzazione delle masse popolari e da una profonda crisi delle vecchie istituzioni liberali. Il più grande inganno di quel Congresso fu l’illusione di una nuova direzione rivoluzionaria e comunista, capace di imprimere una profonda svolta politica in grado di marginalizzare se non proprio annullare l’opposizione dei riformisti. Ma secondo Bordiga i massimalisti non avevano nulla di rivoluzionario, al contrario la loro linea era il frutto di una profonda inconsistenza teorica (tanto tattica, quanto strategica) alla base di equivoci grossolani ed errori politici madornali. Così i proclami in favore della Rivoluzione russa, della III Internazionale e del sistema sovietico si basavano su slanci retorici privi di qualsiasi effetto concreto sulle scelte del Partito. Al Congresso di Bologna si arrivò a “deliberare la rivoluzione” per la domenica successiva e a votare la costituzione dei Soviet in Italia senza sapere esattamente cosa essi fossero: Il Partito mancava di un briciolo di preparazione. Che cosa ne sapeva la maggioranza di Bologna delle posizioni di principio e di tattica dell’Internazionale comunista? Meno che niente. I più non distinguevano il concetto di conquista del potere da quello di espropriazione capitalistica, non avevano idee sul problema dell’azione sindacale né su alcun’altra questione. L’imminenza della lotta elettorale ottenebrò tutto il resto, e soffocò uno sviluppo originale del dissidio maturantesi fatalmente sotto la superficie e che nella tattica da tenere in pratica durante la guerra si era delineato. Quindi fu possibile la formazione di quel blocco serratiano che non aveva omogeneità alcuna e che una migliore diffusione di coscienza comunista, insieme alle dolorose esperienze nel campo dell’azione, doveva spezzare9.

L’errore della minoranza comunista fu, pertanto, credere che il PSI fosse nella sua stragrande maggioranza rivoluzionario, un equivoco alimentato da un

8. 9.

A. Bordiga, Scritti scelti, op. cit., p. 119. Ibid.

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contesto oggettivamente rivoluzionario e dalla convinzione di un imminente crollo del vecchio ordine agonizzante. L’esplodere del conflitto sociale e la crescente partecipazione popolare nelle lotte indussero la sinistra a confondere la realtà con le speranze, credendo ingenuamente che lo sviluppo del movimento rivoluzionario avrebbe spostato su posizioni più avanzate e radicali anche i riformisti, garantendo a quel Partito un ruolo di primissimo piano. Il precipitare degli eventi e l’esigenza immediata dell’azione sovrastarono le necessità di chiarificazione, le contraddizioni esplose nel conflitto furono accantonate e le cose andarono per proprio conto senza avere ben chiara l’idea di quanto sarebbe accaduto10. All’indomani della scissione, nel gruppo dirigente comunista, l’elemento preponderante era costituito dall’area di Bordiga, gli stessi massimalisti avevano una certa rappresentanza, mentre il gruppo de L’Ordine Nuovo risultava disperso e sottorappresentato. Così nel Comitato Centrale erano presenti ben otto comunisti astensionisti: Bordiga, Fortichiari, Grieco, Parodi, Polano, Repossi, Sessa e Tarsia; cinque massimalisti, Bombacci, Belloni, Gennari, Marabini e Misiano; e soltanto due rappresentanti del gruppo torinese, Terracini e Gramsci (verso il quale tra l’altro ci furono varie resistenze per l’accusa che gli veniva mossa di essere stato in gioventù un’interventista). Ancora più blindato risultava poi l’Esecutivo, nel quale erano presenti, oltre al Segretario Amadeo Bordiga, tre esponenti della rivista Soviet (Fortichiari, Grieco e Repossi), più il solo Terracini. Bordiga fu il primo a costituire una forte e radicata frazione comunista nel PSI, conquistandosi sul campo, con l’inflessibile intransigenza verso i vertici socialisti, l’ammirazione e il rispetto di numerosi quadri della sinistra rivoluzionaria. Era l’indiscusso protagonista della scissione e della fondazione del PCd’I, un capo dotato di grandi capacità organizzative e di direzione politica, ma soprattutto di carisma. Il rivoluzionario napoletano aveva in sostanza quella malizia politica di cui era ancora privo il gruppo ordinovista e, nel momento decisivo della svolta, riuscì a conquistare il consenso di tutte le componenti comuniste.

10. La tesi che, nell’immediato dopoguerra, la forza degli eventi avesse sovrastato le necessità di chiarificazione politica, trova conferma anche in varie riflessioni di Gramsci; valga tra tutte l’editoriale del 14 agosto 1920 “Il programma de L’Ordine Nuovo”, nel quale viene messa in luce la nascita confusa del gruppo redazionale “ordinovista” dovuta proprio alla smania di fare e gettarsi nell’azione in un periodo ritenuto rivoluzionario.

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In una fase traumatica come la scissione, Bordiga era il capo di cui l’organizzazione aveva bisogno, il solo ritenuto capace di guidarla rettamente anche nelle situazioni più difficili, la sua preponderanza carismatica e capacità organizzativa resero naturale la costruzione del nuovo gruppo dirigente (dall’Esecutivo alle Federazioni) attorno a lui e con quadri organicamente legati alle sue posizioni. Una composizione tanto sbilanciata dei gruppi dirigenti non portò, tuttavia, a una dialettica aspra, a posizioni critiche, né, tantomeno, alla creazione di frazioni organizzate interne da parte del gruppo ordinovista. Questo atteggiamento, secondo Palmiro Togliatti, era la conseguenza di uno spirito nuovo, comune tanto ai semplici aderenti quanto ai quadri del Partito11. Dopo la fondazione, le dinamiche interne del Partito erano ispirate ai principi della disciplina e dell’unità, poiché l’opportunismo e l’incapacità del PSI ad assumere un ruolo rivoluzionario erano imputati proprio alla sua struttura per correnti. Qualsiasi differenziazione doveva pertanto considerarsi superata. Un simile atteggiamento sarebbe potuto apparire frutto di una reiterata ingenuità del gruppo torinese, ma in realtà, secondo Togliatti, esso rifletteva una spinta ideale dettata dalla fiducia nel collettivo e dalla volontà di imprimere un carattere nuovo al Partito, non riproducendo in esso le frammentazioni e le lacerazioni del vecchio Partito socialista. Solo nel 1922, con il pieno dispiegarsi del riflusso reazionario e il palesarsi dei limiti di settarismo dell’organizzazione, la costituzione di un nuovo gruppo dirigente in seno al PCd’I si pose come una necessità politica non rinviabile, pena la disgregazione o comunque la inoffensività del Partito nato a Livorno12. La mancata risoluzione delle contraddizioni interne al PCd’I lo portò, già nei suoi primi due anni di vita, a enormi scompensi e a una contraddizione difficilmente sostenibile tra le potenzialità e la capacità effettiva di incidere nei processi reali, attraverso un’azione quotidiana in grado di congiungere i contenuti immediati con il fine ultimo. Sotto la direzione di Amadeo Bordiga, l’inerzia e l’attendismo messianico, tipici del massimalismo e dell’impostazione secondinternazionalista, contro

11. P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, op. cit., p. 17. 12. Alla fine del 1922, il Partito comunista si trova ad essere praticamente decapitato dalle retate poliziesche, e la sua direzione politica si dimostra inadeguata e non più rispondente al mutare del contesto nazionale e di quello internazionale.

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cui si era lottato e di cui ci si era voluti liberare con la scissione di Livorno, ottennero un’inaspettata quanto perentoria vittoria postuma, fino a sterilizzare i fermenti sprigionatisi nel gennaio 1922. Secondo Togliatti gli aspetti più negativi e dannosi della direzione di Bordiga erano tutti riconducibili alla sua concezione del Partito: Egli non partiva, per risolvere questi problemi, dalla classe operaia, di cui il Partito comunista è una parte, dall’esame delle situazioni reali in cui essa si trova e si muove e dalla determinazione, quindi, degli obbiettivi concreti che a ogni situazione corrispondono. Partiva da principi astratti, derivati con un processo intellettualistico e che dovevano essere buoni in tutti i tempi e in tutte le situazioni. Posto il fine ultimo della conquista del potere, scompariva la varietà delle posizioni intermedie e del loro nesso dialettico, era negato il valore del movimento politico democratico e dell’avanzata sul terreno della democrazia, le contrapposizioni di classe si traducevano in contrapposizioni rigide, schematiche, gli avversari diventavano tutti eguali né era più possibile alcuna conquista di alleati, la forma e la parola prevalevano sulla sostanza, la coerenza diventava testardaggine, l’azione del Partito non poteva più avere alcun respiro, riducendosi a pura esercitazione propagandistica e polemica13.

Un’impostazione profondamente lontana dalle esperienze e dalle concezioni del gruppo torinese; tuttavia, Togliatti, Terracini e gran parte degli altri ordinovisti finirono per capitolare di fronte a Bordiga «facendosi conquistare dalla sua logica matematica»; lo stesso Gramsci fino ad un certo momento limitò le sue critiche a discussioni private e informali, senza palesare mai pubblicamente il suo dissenso negli organismi di direzione politica del Partito14. Indicativa di questa situazione è una lettera di Togliatti a Gramsci del 1924, nella quale questi si soffermava retrospettivamente su quel periodo, accusando l’intellettuale sardo di eccessivo tatticismo: Non ti nascondo la mia opinione che tu, molte delle cose che dici ora avresti dovuto dirle, e non in conversazioni private e di cui si aveva sentore indiretto, ma davanti al Partito, molto tempo prima. Nella centrale costituita a Livorno tu rappresentavi

13. P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, op. cit., p. 20. 14. Nel 1923, quando anzitutto sul tema della fusione con il PSI si determinò una crisi tra la linea del segretario del PCd’I e l’Internazionale comunista – nel giugno l’Esecutivo allargato impose un nuovo Comitato esecutivo del Partito italiano, di fatto commissariandolo – Togliatti intensificò i rapporti con Bordiga «sino a fare della sua presenza negli organismi dirigenti una condizione assolutamente pregiudiziale», E. Ragionieri, Palmiro Togliatti, op. cit., p. 107.

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il gruppo che seguiva una direttiva diversa da quella di Bordiga, gruppo al quale spetta del resto il merito di aver portato al Partito le sole vaste e reali aderenze di massa che esso abbia avuto. Io ad esempio ho incominciato a conoscere e a poter giudicare il modo come il Partito era diretto e organizzato solo dopo il Congresso di Roma e nemmeno allora in modo completo15.

Secondo Togliatti nel PCd’I, sotto la direzione di Bordiga, i principi direttivi erano ispirati a una “disciplina esteriore” generata da un rapporto puramente gerarchico tra il vertice e l’insieme del Partito, e più in generale tra questo e le masse, in esso il ruolo di militanti e quadri doveva essere solo di puntuali esecutori delle direttive provenienti dall’Esecutivo. Nella concezione di Bordiga l’autonomia d’azione concessa a quadri intermedi e a strutture di base del partito era da evitare per non incorrere negli errori, ma soprattutto per non essere preda dell’opportunismo. Solo eseguendo gli ordini di un vertice cosciente e preparato ciò non sarebbe accaduto: La visione del partito era quella di un’organizzazione di tipo militare, anziché politico; ma di un’organizzazione militare di vecchio stampo, priva di anima, fondata sulla pura obbedienza e quindi sulla quasi sovrumana capacità di un capo o di un ridotto gruppo dirigente di far fronte a tutto, di provvedere ad ogni evenienza con le disposizioni opportune, di dare, nel momento buono, tutte le direttive e tutti gli ordini necessari. A che valeva far delle scuole, dove non si approfondisse soltanto la conoscenza delle dottrine marxiste, ma attraverso lo studio di situazioni ed esperienze reali, della geografia, della storia, della struttura economica del Paese, si aiutassero i compagni ad acquistare essi stessi capacità di giudizio autonomo per la concreta determinazione dei compiti politici e di organizzazione?16

Il modo di intendere e dirigere l’organizzazione rivoluzionaria, poi sottoposta a severa critica da parte di Gramsci, trova una compiuta teorizzazione già nei primi mesi del 1921 con due articoli (“Partito e classe” del 15 aprile, e “Partito e azione di classe” del 31 maggio, entrambi pubblicati su Rassegna comunista), estremamente importanti per comprendere l’indirizzo e la fisionomia che, sin dall’inizio, Bordiga intendeva dare al nuovo Partito. Già nel primo sono presenti tutti gli aspetti fondamentali della concezione di Bordiga sul partito,

15. Lettera di Togliatti a Gramsci del 23 febbraio 1924, in La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, op. cit., p. 213. 16. Ivi, p. 21.

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il suo rapporto con le masse, l’idea avanguardista dell’organizzazione. Nella concezione di Bordiga, profondamente diversa da quella di Gramsci, il partito comunista non avrebbe dovuto comprendere al suo interno tutta la classe, nemmeno la maggioranza, ma solo la sua parte più cosciente. Nella sua visione senza partito non esiste la classe, nel senso che non si potrebbe nemmeno parlare di classe in assenza di una sua minoranza tendente ad organizzarsi in partito. Per definire una classe sociale non bastano le condizioni economiche e sociali, né le posizioni di un determinato gruppo rispetto ai rapporti di produzione, perché il marxismo non analizzerebbe le classi come entità statiche, alla maniera dei naturalisti, al contrario, considera l’umanità in maniera dinamica e dialettica nel suo continuo divenire storico, ricercando nei singoli aspetti di questo divenire la definizione di classe. Per fissare una classe e la sua azione in rapporto ad un dato contesto storico non è sufficiente conoscere il numero esatto di individui che la compongono, bisogna sottoporre a indagine tutto quel periodo storico e poi, al suo interno, si deve rintracciare un movimento sociale e politico espressione degli interessi comuni di quanti condividono la stessa posizione rispetto al modo di produzione. Per Bordiga, questo metodo porrebbe l’analisi al di sopra delle “scialbe” deduzioni statistiche. Quando si definisce un movimento che persegue un fine in rapporto agli interessi di un determinato gruppo sociale, allora si può parlare di classe nel vero senso della parola. Il partito di classe vive sulla base di due elementi, la dottrina e il metodo, essendo al tempo stesso scuola di pensiero politico e organizzazione di lotta in virtù di un rapporto stretto tra coscienza e volontà. Ma il processo di acquisizione di coscienza e volontà riguarda ristretti gruppi che individuano un fine legato agli interessi generali della classe e trascinano in quella direzione le masse più ampie. Questo gruppo ristretto per Bordiga non è altro che il partito di classe e quando esso raggiunge un certo grado di sviluppo si può parlare di classe in azione: Comprendendo una parte della classe, è pure solo il partito che dà unità di azione e di movimento, perché raggruppa quegli elementi che, superando i limiti di categoria e località, sentono e rappresentano la classe. Questo rende più chiaro il senso della verità fondamentale: il partito è solo una parte della classe17.

17. A. Bordiga, Scritti scelti, op. cit., p. 126.

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La restante massa di individui, privi ancora di coscienza e volontà, è per Bordiga mossa da spiriti egoistici, interessi di categoria, appartenenza al campanile o alla nazione. Per orientarla su obiettivi generali – corrispondenti al movimento storico – occorre un organismo in grado di precederla e inquadrarla unificandola. Tale organismo è il partito, nucleo vitale della classe, che senza l’aggregato sociale non avrebbe carattere organico; appunto, non potrebbe essere definita classe. La classe presuppone il partito – perché per essere e muoversi nella storia la classe deve avere una dottrina critica della storia e una finalità da raggiungere in essa. La vera e l’unica concezione rivoluzionaria dell’azione di classe sta nella delega della direzione di essa al partito18.

Le categorie e i concetti presenti in “Partito e classe” trovano un ulteriore approfondimento nel pezzo successivo, “Partito e azione di classe”. Per governo di classe, in relazione al tema della transizione al socialismo, si può intendere solo “governo di partito”; allo stesso modo, l’azione rivoluzionaria è soltanto l’azione del partito. Se il partito deve essere una frazione della classe, il problema più importante riguarda l’estensione dell’organizzazione e i rapporti d’inquadramento delle masse al suo interno. Un primo errore “volontarista”, di “opportunismo antimarxista”, sarebbe per Bordiga il voler stabilire a priori il valore numerico di tale frazione, al di sopra o al di sotto di un dato rapporto, tra questa e l’insieme della massa. Pur condannando in linea di principio le impostazioni teoriche favorevoli al partito piccolo e puro e affermando la necessità di dirigere strati sempre più larghi di masse, la soluzione posta al problema è, in definitiva, intrisa del determinismo più classico. Per Bordiga è da bollare come “volontarista” la pretesa di mutare la consistenza numerica dell’organizzazione19, perché la sua estensione sarebbe oggettivamente determinata, in ogni frangente storico, dalle specifiche condizioni di sviluppo delle forze produttive e dello scontro rivoluzionario. Infatti, a suo dire, quando lo sviluppo di queste è ancora non maturo e la prospettiva rivoluzionaria lontana, il partito di classe deve essere formato da piccoli

18. Ibid. 19. Ossia la pretesa di costruire un Partito di massa.

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gruppi di “precursori”, capaci di intendere anticipatamente le prospettive dello sviluppo storico. Allo stesso modo, le masse in grado di comprendere e seguire questo partito sono necessariamente limitate. Solo quando i rapporti di produzione borghesi entrano pienamente in contraddizione, e si acuisce lo scontro rivoluzionario, il partito ingrossa le sue fila e ha un maggior seguito in mezzo al proletariato: Se l’epoca attuale è, nella sicura convinzione di tutti i comunisti, epoca rivoluzionaria, ne segue che in tutti i paesi dovremmo avere partiti numerosi e largamente influenti presso vasti strati del proletariato. Ma ove questo non sia ancora realizzato, pur essendovi inconfutabili prove dell’acutezza della crisi e dell’imminenza del suo precipitare, le cause di questa deficienza sono così complesse che sarebbe enormemente leggero concludere che se il partito è troppo piccolo e poco influente, occorra artificialmente dilatarlo aggregandogli altri partiti e pezzi di partiti, nelle cui file siano gli elementi che sono collegati alle masse20.

Quando le condizioni non sono obiettivamente rivoluzionarie, «portare il partito verso la massa» significa snaturarne i caratteri, fino a fargli smarrire la consapevolezza di essere un’avanguardia in grado di influire sulle masse e di guidarle: Una volta basati solidamente i partiti comunisti su quelli che sono i risultati di dottrina e di esperienza storica circa i caratteri precisi del processo rivoluzionario, (…) si deve ritenere definita la loro fisionomia organizzativa, e si deve intendere che la loro facoltà di attrarre e potenziare le masse sarà in ragione della loro fedeltà ad una serrata disciplina di programma e di organizzazione interna. Essendo il Partito comunista dotato di una coscienza teorica (…), esso ha garanzia, anche se le masse se ne allontanano in parte in certe fasi della sua vita, di averle intorno a sé quando si poseranno quei problemi rivoluzionari che non ammettono altra soluzione da quella tracciata nei suoi programmi. Quando le esigenze dell’azione mostreranno che occorre un apparato dirigente centralizzato e disciplinato, il Partito comunista, che avrà ispirato a tali criteri la sua costituzione, verrà a porsi alla testa delle masse in movimento21.

Questi criteri dunque non consistono nella capacità di intervento e azione del Partito nella società e presso le masse, ma soltanto nella rigida disciplina

20. A. Bordiga, “Partito e azione di classe”, Rassegna comunista, anno I, n. 4, 31 maggio 1921. 21. Ibid.

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interna, nella fedeltà alle basi teoriche del suo programma, nell’intransigenza assoluta anche verso i partiti affini, nel “saper dire prima” come si presenta il processo finale della lotta tra le classi. Solo se il Partito opera saldamente sulla base di questi criteri, al momento della crisi rivoluzionaria acuta, esso è in grado di polarizzare intorno a sé gli elementi ancora esitanti. Se invece le prospettive rivoluzionarie non sono immediate, il Partito non deve correre il rischio di distrarsi dal tessere la trama della preparazione radicale, ripiegando su problemi contingenti o imprimendo svolte tattiche al suo orientamento, ossia, piegare la strategia per adeguarla alla realtà. Questa rigidità nell’intendere il rapporto tra intervento soggettivo e contesto oggettivo, così come il modo di concepire in termini tanto semplificati la “coscienza anticipata degli intellettuali” ha molti più punti di contatto con le prime concezioni sul partito e la rivoluzione di Kautsky di quanti non ne abbia con quelle di Lenin. Così come Kautsky affermava che il compito dei marxisti non è di organizzare la rivoluzione, ma di organizzarsi per la rivoluzione, non fare la rivoluzione ma usarla, allo stesso modo, per Bordiga «non si creano né i partiti né le rivoluzioni. Si dirigono i partiti e le rivoluzioni, nella unificazione delle utili esperienze rivoluzionarie internazionali, allo scopo di assicurare i migliori coefficienti di vittoria del proletariato nella battaglia che è l’immancabile sbocco dell’epoca storica che viviamo»22. L’esplosione delle contraddizioni interne al Partito italiano fu favorita dal nuovo quadro tattico dell’Internazionale comunista, denominato dalla formula del “fronte unico”, quando le difficoltà del giovane Stato sovietico, la sconfitta delle rivoluzioni in Europa, l’aprirsi di una fase di riflusso per il movimento e l’offensiva reazionaria del nascente Fascismo spinsero Lenin a imprimere un profondo cambiamento di linea, per uscire dalla crisi, indicando modalità inedite di articolazione organizzativa, azione politica e conquista egemonica delle società occidentali. Un passaggio ben chiarito da Paolo Spriano nella sua introduzione alla raccolta di scritti di Lenin sul movimento operaio italiano, pubblicato da Editori Riuniti a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta: Gli anni 1921-22 confermano la gravità della crisi di direzione del movimento operaio. In esso paiono sommarsi, a rendere definitiva la sconfitta, le vecchie e le

22. Ibid.

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nuove malattie: all’inazione del massimalismo, alle vere e proprie capitolazioni del riformismo (…) si aggiunge una condotta estremamente settaria in cui si isola il PCd’I. Ciò che colpisce, in quest’ultimo, è il tipo di propaganda, di polemica, di azione interamente dominata – nel 1921-22 – dall’ossessione di una prospettiva «riformistico-nittiana», in cui esso teme si risolva la politica italiana. Il prevalere della direzione bordighista, dei suoi metodi di lavoro, della sua rigidità di formule «intransigenti», porta con sé la sottovalutazione pressoché totale del fenomeno fascista, il rifiuto di cercare una piattaforma comune di resistenza operaia e popolare contro lo squadrismo dilagante23.

Tale sottovalutazione, come noto, spinse Lenin a commentare polemicamente gli errori dei comunisti italiani, affermando che il Fascismo avrebbe impartito loro una sonora lezione, mostrando la poca istruzione e la inadeguata preparazione politica del loro gruppo dirigente. In realtà, Lenin in precedenza aveva già sottoposto a severa critica le posizioni di Bordiga sostenendo in contrapposizione la linea del gruppo de L’Ordine Nuovo. Inoltre, contro le posizioni astensioniste del dirigente napoletano e il “sinistrismo esasperato” di una parte del movimento Internazionale, nel 1920 Lenin scrisse il famoso Estremismo malattia infantile del comunismo. Approfondire questa durissima dialettica, che contrappose il primo gruppo dirigente PCd’I all’Esecutivo del Comintern, può forse appesantire il nostro discorso; tuttavia, chiarirne la natura è fondamentale per comprendere la maturazione politica dell’intellettuale sardo, per almeno due ordini di ragioni: 1) perché il palesarsi della critica al Partito italiano spinse Gramsci a rompere gli indugi e a differenziarsi pubblicamente dalla linea di Bordiga; 2) perché la svolta del “fronte unico” rappresenta per Gramsci un passaggio teorico (non solo tattico) fondamentale, costituendo la premessa delle sue riflessioni future sul concetto di “egemonia”. 2. Il Comintern e il “caso italiano” All’inizio del 1921 lo Stato sovietico si trovava in una situazione molto complicata, nella quale alle distruzioni della Prima guerra mondiale si sommavano quelle della guerra civile. In questo contesto, al X Congresso

23. V.I. Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 42.

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del Partito comunista russo, Lenin lanciò per la prima volta la necessità di imprimere al Paese una profonda svolta di politica economica. La realtà aveva drammaticamente dimostrato quanto non fosse sufficiente impossessarsi della macchina statale per imprimere un diverso orientamento sociale e avviare una transizione. Buona parte delle prospettive ipotizzate prima della rivoluzione, anzitutto quella del “controllo operaio” si erano scontrate con una realtà assai più complessa delle previsioni politiche di Lenin. Alle difficoltà interne si sommavano quelle internazionali, con l’avviarsi di una fase di riflusso rivoluzionario e di offensiva reazionaria dopo il fallimento dei diversi tentativi insurrezionali in Occidente. Tutto ciò impose una profonda revisione di linea in una prospettiva nella quale le soluzioni adottate per i due livelli, interno e internazionale, si univano strettamente. Così, all’assemblea dei segretari delle cellule del Partito di Mosca (9 aprile 1921), Lenin affermò che la Nuova Politica Economica (NEP) era una esigenza non rinviabile né evitabile per uscire dalla miseria assoluta e superare i limiti del “comunismo di guerra”, una fase imposta dallo stato di necessità e non da una scelta teorica. I termini di questa profonda svolta sono esposti da Lenin nel saggio intitolato “Sull’imposta in natura” del maggio 1921, nel quale nuovamente vengono esposte le contraddizioni nella transizione dal capitalismo al socialismo in una società nella quale ancora convivevano l’economia patriarcale, la piccola produzione mercantile, il capitalismo privato, il capitalismo di Stato e il socialismo. Lenin presentò la NEP come una nuova tappa della lotta di classe e il governo adottò misure urgenti che ebbero un effetto dirompente nel comunismo internazionale: 1) abolizione delle requisizioni forzate e sostituzione con l’imposta in natura; 2) reintroduzione, con alcune limitazioni, della libertà di commercio; 3) autorizzazione alla esistenza di imprese private; 4) restituzione di molte imprese con meno di 10 addetti ai vecchi proprietari; 5) un nuovo regime di incentivi salariali corrispondenti alle attività svolte; 6) autorizzazione per i cittadini sovietici ad avere imprese commerciali, creare contratti, possedere proprietà, scegliere le professioni; 7) approvazione (30 ottobre 1922) del codice agrario che consentiva ai contadini di servirsi delle leggi di mercato, concedendo il diritto di proprietà su tutto ciò che consentiva un miglioramento delle colture, ovviamente senza il diritto di vendere o ipotecare le terre perché demanio statale; 8) soppressione della gratuità

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dei servizi pubblici, eliminazione della remunerazione egualitaria e del lavoro obbligatorio. Unitamente a tutto ciò venne avviato il programma per l’elettrificazione del Paese, un’operazione fondamentale per la transizione secondo Lenin, resa celebre dalla sua famosa formula “comunismo=potere sovietico+elettrificazione”24. Al X Congresso Lenin esortò i quadri all’autocritica e ad abbandonare qualsiasi forma di astratto utopismo. Il “comunismo di guerra”, ossia la gestione della drammatica emergenza vissuta dallo Stato sovietico, non poteva essere considerato e ancor meno presentato come l’oggettivazione storica della società comunista, salvo non volerne fare una “caricatura”. Nei mesi successivi, il rivoluzionario tentò di rendere immediatamente operative le misure adottate, non risparmiando durissime critiche verso quanti si attardavano in una visione romantica e libresca della transizione socialista. A suo dire il rischio più grande veniva dall’infantilismo di sinistra e dalla pretesa di risolvere ogni contraddizione con un atto di volontà, un concetto sintetizzato lapidariamente in una sua frase qui pronunciata, poi divenuta celebre: «non c’è niente di più dannoso e di più funesto per il comunismo della millanteria comunista: ce la faremo da soli»25. La disgregazione dell’economia rurale, caratteristica del comunismo di guerra, era alla base di uno dei problemi più importanti individuati da Lenin nelle sue annotazioni critiche sullo Stato sovietico, il burocratismo: La radice economica del nostro burocratismo è il frazionamento, la dispersione del piccolo produttore, la sua miseria, la sua incultura, l’insufficienza delle strade, l’ignoranza, la mancanza di scambi fra l’agricoltura e l’industria, l’assenza di legami e contatti fra di esse. Ciò è in grandissima parte un risultato della guerra civile. (…) Bisogna sempre riconoscere senza paura il male per combatterlo con maggior fermezza, per ricominciare ancora e ancora da capo: saremo costretti ancora molte volte, in tutti i campi della nostra edificazione, a ricominciare da capo, correggendo ciò che è imperfetto, scegliendo vie diverse per affrontare il compito. Si è visto che la ricostruzione della grande industria doveva essere rinviata, che la chiusura degli scambi fra l’industria e l’agricoltura non poteva continuare; bisognava dunque ripartire dalla piccola industria, bisognava portare aiuto alla causa da questo lato, puntellare questo muro dell’edificio semirovinato dalla guerra e dal blocco. In tutti

24. J. Elleinstein, Storia dell’URSS, Editori Riuniti, Roma, 1976, Vol. I (1917-1936), p. 166. 25. V.I. Lenin, Opere complete, vol. XLV, p. 83.

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i modi e ad ogni costo bisogna sviluppare lo scambio senza avere paura del capitalismo, perché i limiti che gli abbiamo posto (espropriazione dei grandi proprietari fondiari e della borghesia in economia, potere operaio e contadino in politica) sono abbastanza angusti, abbastanza “moderati”. Questa è l’idea fondamentale dell’imposta in natura26.

L’imposta in natura era dunque una misura essenziale per correggere gli errori, evitando i disastri della miseria e della carestia, e per riattivare la piccola industria che non necessitava di grandi investimenti in macchinari né di grandi riserve di materie prime e combustibile, fornendo subito un aiuto vitale all’economia contadina. Tutto questo, nelle intenzioni di Lenin, avrebbe inevitabilmente riattivato a livello locale la libertà di commercio della piccola borghesia, condizioni considerate un male necessario in una situazione tanto disastrosa. Per questo Lenin esortava lo stato maggiore del Partito bolscevico a concentrare i propri sforzi nel favorire lo sviluppo dell’economia nella direzione del capitalismo di Stato, anziché sprecarli nel tentativo di impedire il risorgere di relazioni sociali borghesi. In tal senso, l’imposta in natura rappresentava il passaggio dalla condizione straordinaria del comunismo di guerra a quella ordinaria del regolare scambio socialista dei prodotti tra città e campagna, necessario a combattere la dispersione del piccolo produttore e il burocratismo, anche a costo di andare a lezione di modernizzazione dalla borghesia: I comunisti non devono temere di “mettersi alla scuola” degli specialisti borghesi, compresi i commercianti, i cooperatori capitalistici e i capitalisti. Imparare da essi in una forma diversa, ma in sostanza nello stesso modo in cui abbiamo studiato dagli specialisti militari. I risultati di questo studio dovranno essere misurati col metro dell’esperienza pratica: far meglio di quanto hanno fatto accanto a te gli specialisti borghesi; riuscire a ottenere in un modo o nell’altro il miglioramento dell’agricoltura, il miglioramento dell’industria, lo sviluppo dello scambio fra l’agricoltura e l’industria. Non lesinare quando si tratta di pagare “per lo studio”. Non c’è da rimpiangere se si paga caro, purché giovi. Aiutare in tutti i modi le masse dei lavoratori, avvicinarsi a loro, scegliere tra di essi centinaia e migliaia di quadri senza Partito per il lavoro economico27.

26. V.I. Lenin, Opere complete, vol. XXXII, pp. 331-332. 27. Ivi, p. 344.

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Lenin considerava essenziale la NEP anche in relazione alla nuova situazione politica internazionale; non casualmente questa svolta e quella del “fronte unico” furono i temi essenziali di discussione tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale comunista. Come è noto, secondo Lenin nella Russia del 1917 erano presenti tutte le condizioni soggettive per la rivoluzione socialista mentre del tutto insufficiente era lo sviluppo delle sue forze produttive; in Germania, al contrario, erano presenti condizioni oggettive ottimali, ma grosse difficoltà nel versante dell’iniziativa rivoluzionaria. La convinzione (poi rivelatasi errata) di Lenin era che l’avvio del processo rivoluzionario russo si sarebbe rapidamente propagato da “Pietrogrado a Berlino” – e poi da qui al resto d’Europa – unendo nel complesso tutte le condizioni atte a una compiuta rivoluzione socialista. Con la fine del primo conflitto mondiale, queste condizioni sembravano sempre più prossime a realizzarsi, grazie non solo alle prospettive rivoluzionarie tedesche ma anche alla nascita della Repubblica ungherese dei Consigli operai e contadini. Sebbene poi quest’ultima esperienza fosse stata stroncata già nel corso del 1919 dall’intervento delle forze controrivoluzionarie sotto il comando dell’Ammiraglio Horthy, le speranze nella rivoluzione mondiale sembravano comunque materializzarsi nell’estate del 1920 grazie all’avanzata dell’Armata rossa fin sotto la città di Varsavia, al divampare in Italia del “biennio rosso” e soprattutto in ragione dei sommovimenti sempre più acuti della vicina Germania28. Come è noto, tra l’autunno del 1920 e il marzo del 1921, tutte queste prospettive si chiusero con delle sconfitte cocenti per il movimento rivoluzionario internazionale, unitamente alle crescenti difficoltà della Russia Sovietica, vincitrice nella guerra civile contro le “armate bianche”, ma in una situazione economica e sociale prossima al collasso resa ancora più drammatica dal divampare della carestia nelle campagne. In un simile contesto, contraddistinto da immense difficoltà, si apre, tra il giugno e il luglio del 1921, il III Congresso dell’Internazionale comunista, a ragione considerato un passaggio di svolta tattica centrale nella storia del movimento comunista mondiale29. 28. Per ulteriori approfondimenti, Miloš Hájek, “La discussione sul fronte unico e la rivoluzione mancata in Germania”, in Storia del marxismo, vol. III, Il marxismo nell’età della III Internazionale, Einaudi, Torino, 1980, pp. 442-463. 29. G. Fresu, Lenin leitor de Marx, Fundação “M. Grabois”, Anita Garibaldi Editora, São Paulo, Brasil, pp. 153-170.

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All’interno di questo Congresso le ragioni della svolta trovarono articolazione in tre relazioni fondamentali: le Tesi sulla situazione mondiale e sui compiti del Comintern, presentate da Trockij; il Rapporto sulla tattica di Lenin; le Tesi sulla tattica presentate da Karl Radek. Nella sua relazione Trockij poneva in evidenza quanto il nuovo scenario fosse contraddistinto da segnali fortemente contraddittori e di non facile decifrazione; infatti, durante l’anno intercorso tra il II e il III Congresso del Comintern, tutta una serie di insurrezioni e battaglie della classe operaia si era conclusa con una “sconfitta parziale”: l’avanzata dell’Armata Rossa su Varsavia nell’agosto del 1920; il movimento del proletariato italiano nel settembre 1920; l’insurrezione dei lavoratori tedeschi nel marzo 1921. Nel complesso la fase delle insurrezioni scoppiate spontaneamente con la fine della guerra sembrava essersi chiusa e la borghesia, dopo essersi riorganizzata e aver acquisito una certa fiducia, era passata all’offensiva contro i lavoratori di tutti Paesi, sia sul fronte politico sia su quello economico. Tutto questo poneva per Trockij una serie di interrogativi su quanto si potesse considerare stabile il nuovo equilibrio raggiunto dalla borghesia e quanto duratura la sua restaurazione capitalistica. Nel 1919 si era aperta una nuova stagione di sviluppo organico del capitalismo capace di assorbire la mano d’opera smobilitata e di dare uno slancio alla fiducia della borghesia verso la possibilità di riassorbire le tensioni sociali emerse. Tuttavia, questa ripresa economica non segnava l’avvio della ricostruzione economica post-bellica, semmai un prolungamento artificiale delle illusioni di prosperità create dalla guerra. La natura di questa presunta ripresa era perciò fittizia, secondo Trockij: i governi borghesi, che agivano di concerto con le banche ed i monopoli industriali, a costo di un’ulteriore disorganizzazione organica del sistema economico (…), riuscirono a differire lo scoppio della crisi politica provocata dalla smobilitazione ed il primo regolamento di conti post-bellico. Avendo ottenuto un notevole periodo di tregua, la borghesia immaginò che il pericolo di una crisi fosse stato allontanato definitivamente. Divenne ottimista. Pareva che le necessità di ricostruzione avrebbero aperto un’epoca duratura di prosperità industriale e commerciale e soprattutto di speculazione fortunata. L’anno 1920 spezzò queste speranze30.

30. L. Trockij, “Le tesi sulla situazione mondiale e sui compiti del Comintern adottate dal III Congresso”, in Storia dell’Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, Feltrinelli, Milano, 1975, Tomo I, 1919-1922, p. 250.

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La crisi del 1920 non rientrava nella ordinarietà dei cicli economici, ma era piuttosto una reazione contro la natura artificiale di quella prosperità del tempo di guerra, scontratasi con il crollo negli ultimi sette anni della produzione europea. La ripresa era dunque effimera perché, in una tendenza generale alla sottoproduzione, era il frutto di un’economia drogata dalla speculazione finanziaria. La natura instabile del nuovo equilibrio andava rintracciata nei colossali scompensi di produzione, commercio e credito dell’intero mercato mondiale; in un simile contesto la Germania si trovava di fronte ad un indebitamento pubblico insostenibile che, insieme alla svalutazione monetaria e all’aumento dei prezzi, avevano portato la sua classe lavoratrice a un netto peggioramento delle condizioni di vita e lavoro. L’Inghilterra era uscita vincitrice dal conflitto, mantenendo tutti i suoi possedimenti e conquistandone di nuovi, tuttavia era oramai manifesta la contraddizione tra il suo predominio nel mondo e il suo declino economico che l’avrebbe portata o a uno scontro con la nuova potenza in ascesa, gli USA, o a diventare una potenza di second’ordine. Dal canto loro gli Stati Uniti con il conflitto si erano invece trasformati da Paese debitore a Paese creditore del mondo intero assorbendo la metà dell’intera riserva aurea mondiale, e trasformandosi soprattutto da Paese esportatore di prodotti agricoli e materie prime in Paese esportatore prevalentemente di prodotti industriali. Questo aveva portato il dollaro a sostituire la sterlina quale valuta predominante nelle transazioni internazionali ma, nonostante ciò, anche gli USA vivevano degli scompensi assai forti, dovuti in gran parte alla disastrosa situazione dell’Europa incapace di assorbire l’enorme crescita produttiva americana, ma anche alle effimere bolle speculative, poi responsabili della crisi del ’29. L’Europa, indebitata sino al collo, era in preda a un declino produttivo di cui non si intuivano i possibili esiti, necessitava di prodotti americani ma trovava un ostacolo insormontabile nella svalutazione delle sue monete principali; il mercato mondiale era totalmente disorganizzato, contraddistinto dal fronteggiarsi tra il dumping europeo e il protezionismo statunitense, dallo scatenarsi di improvvise quanto devastanti tempeste speculative nel sistema borsistico, che portavano la produzione capitalistica a perdere tutti i suoi normali punti di riferimento. A questo andava aggiunto il fenomeno della proletarizzazione della piccola e media borghesia europea e l’acuirsi delle tensioni sociali. Così, se da un lato la distruzione delle forze produttive aveva portato l’Europa ad arretrare di decenni nella sua disponibilità di risorse materiali, dall’altro, il livello dello scontro di classe si era accresciuto in maniera esponenziale.

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In una simile situazione la ricostruzione dell’apparato produttivo distrutto dalla guerra e una ripresa effettiva dello sviluppo economico richiedevano enormi quantità di capitali per la cui disponibilità si domandava al proletariato europeo di lavorare più duramente e per un salario inferiore. Da questo stato di cose derivavano due opposte tendenze: le lotte dei lavoratori per migliorare le proprie condizioni di vita e lavoro, in contrasto con le effettive possibilità del capitalismo; l’offensiva reazionaria delle classi dominanti per piegare la resistenza del mondo del lavoro. In ultima analisi la questione di restaurare il capitalismo sulle basi testé definite può essere sintetizzata in questo modo: nella situazione incomparabilmente più difficile di oggi la classe operaia è disposta a fare i sacrifici necessari per ripristinare delle condizioni di stabilità per il suo asservimento, più dure e crudeli di quelle esistenti prima della guerra? (…) Il capitalismo può essere restaurato soltanto con uno sfruttamento infinitamente maggiore, con la perdita di milioni di vite, con l’abbassamento al minimo del livello di vita di milioni di persone, con una perpetua incertezza, e ciò produce continui scioperi e rivolte31.

È chiaro come per Trockij in una fase come questa – nella quale il capitalismo era riuscito a ristabilire un equilibrio provvisorio e precario, all’interno di una situazione che però restava rivoluzionaria – assumessero una funzione determinante anche le lotte difensive del proletariato, la capacità dei comunisti di dirigerle e dar loro carattere organico. Nella sua relazione Lenin partì dalla situazione interna alla Russia nel 1921, dall’ostilità nei suoi confronti delle potenze occidentali, ma anche dal fallimento di tutti i tentativi d’intervento militare intrapresi contro di essa. Nei primi quattro anni di vita della Russia socialista si era assistito alla fase della lotta aperta (guerreggiata) della borghesia internazionale contro di essa, che aveva finito per porla al centro delle questioni di politica internazionale. Ora la situazione della Russia nello scenario mondiale era contraddistinta da una nuova fase di equilibrio instabile e relativo, perché sia nei Paesi capitalistici che in quelli soggetti a dominio coloniale, si andava accumulando tanto di quel materiale infiammabile che insurrezioni, conflitti e rivoluzioni sarebbero potuti scoppiare improvvisamente e inaspettatamente in qualsiasi

31. Ivi, pp. 256-257.

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momento. Compito dei comunisti in questa fase era saper sfruttare la tregua e adattare la propria tattica alla nuova situazione. La situazione nuova poneva per Lenin una necessità inderogabile di natura egemonica alla quale poi farà esplicitamente riferimento Gramsci nelle famose note del Quaderno 7 sul passaggio dalla “guerra manovrata alla guerra di posizione”: «preparare a fondo la rivoluzione e fare uno studio approfondito del suo sviluppo concreto nei paesi capitalistici più avanzati (…) approfittare di questa breve tregua per adattare la nostra tattica a questa linea a zigzag della storia»32. La questione centrale nella fase inedita era nuovamente la conquista della maggioranza: «Quanto più organizzato è il proletariato di un Paese capitalisticamente sviluppato, tanto maggiore serietà la storia esige da noi nella preparazione della rivoluzione, tanto più a fondo dobbiamo conquistare la maggioranza della classe operaia»33. In un contesto simile per Lenin assumeva una centralità assoluta la questione coloniale, verso la quale la gran parte dei partiti aderenti alla Seconda Internazionale avevano assunto un atteggiamento sentimentale e meramente moralistico di simpatia per i popoli coloniali e semicoloniali oppressi, ma di sostanziale indifferenza verso il movimento anticoloniale, considerato privo di importanza ai fini della lotta generale per il socialismo. I comunisti invece dovevano prendere atto che dall’inizio del XX secolo centinaia di milioni di individui agivano come “fattori rivoluzionari autonomi attivi”. Nelle future battaglie per la rivoluzione mondiale, le lotte anticoloniali – inizialmente tendenti alla liberazione nazionale, ma inevitabilmente destinate a scontrarsi con l’imperialismo – avrebbero assunto una funzione rivoluzionaria ben più importante di quanto ci si potesse attendere. Proprio questa consapevolezza portò l’Internazionale Comunista ad investire risorse ed energie nelle lotte anticoloniali, un sostegno politico, economico e organizzativo fondamentale per la mobilitazione dei popoli assoggettati al dominio dall’Occidente e per il loro processo storico di emancipazione. Secondo Domenico Losurdo la Rivoluzione russa, tra i suoi tanti significati, ha rappresentato un punto di non ritorno nella storia mondiale proprio per il suo contenuto e impegno anticoloniale, e in ciò si collocherebbe il discrimine

32. V.I. Lenin, Opere complete, cit., vol. XXXII, pp. 456-457. 33. Ibid.

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tra marxismo orientale e marxismo occidentale dopo Marx34. Dalla Seconda Internazionale a Toni Negri, Michael Hardt e Žižek, passando per i tanti intellettuali “critici” amati a sinistra (Adorno, Arendt, Foucault, Marcuse, solo per citarne alcuni), l’incomprensione, la sottovalutazione o il paternalismo verso la questione coloniale ha prodotto letture contraddittorie che spiegherebbero buona parte della subalternità ideologica, inconcludenza e marginalità della sinistra nei Paesi a capitalismo avanzato. La totale incapacità ad affrontare il dramma delle nuove guerre coloniali, dunque l’inabilità a essere (senza ambiguità) centro attivo e propulsore di un movimento antimperialista è la cartina di tornasole dei limiti del marxismo occidentale contemporaneo e delle diverse sue gemmazioni post-ideologiche tanto in voga oggi. Anticipando le categorie di Gramsci35, Lenin, parlando della NEP, descrisse un mondo diviso in due sfere: l’Occidente capitalista e sviluppato e l’Oriente coloniale, sfruttato e dominato dal primo36. In continuità con una elaborazione che trovò in Imperialismo fase suprema del capitalismo la sua sintesi più efficace, Lenin sottolineò ripetutamente in quegli anni la relazione strettissima e indissolubile tra la lotta per l’emancipazione dal dominio coloniale dei Paesi “orientali” e la sopravvivenza dello Stato socialista, collocando sullo stesso fronte e nella stessa sfera contro-egemonica le due realtà, in un contesto dominato dal fallimento delle rivoluzioni in Occidente: Il sistema delle relazioni internazionali ha preso oggi una forma che uno degli Stati europei – la Germania – è asservito agli Stati vincitori. (…) Nello stesso tempo, una serie di Paesi, Oriente, India, Cina, ecc., a causa appunto dell’ultima guerra imperialista, sono stati definitivamente gettati fuori dai loro binari. Il loro sviluppo

34. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Bari-Roma, 2016. 35. Gramsci definisce i concetti di Oriente e Occidente frutto di una convenzione storico-culturale, un fatto storico prodotto dallo sviluppo della civiltà, ma per quanto si tratti di una costruzione, non sarebbe semplicemente un artificio puramente arbitrario e razionalistico. In assenza dell’uomo non avrebbe senso pensare in termini di Est e Ovest, o di Nord e Sud, perché questi sono rapporti reali difficilmente intellegibili senza l’uomo, lo sviluppo della sua civiltà e soprattutto le relazioni egemoniche tra dominanti e dominati: «È evidente che Est e Ovest sono costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche, perché fuori dalla storia reale ogni punto della terra è Est e Ovest allo stesso tempo. Ciò si può vedere più chiaramente dal fatto che questi termini si sono cristallizzati non dal punto di vista di un ipotetico e malinconico uomo in generale ma dal punto di vista delle classi colte europee che attraverso la loro egemonia mondiale li hanno fatti accettare dovunque. (…) Così attraverso il contenuto storico che si è andato agglutinando al termine geografico, le espressioni Oriente e Occidente hanno finito con l’indicare determinati rapporti tra complessi di civiltà diverse». A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pp. 1419-1420. 36. V.I. Lenin, Opere Complete, op. cit., Vol. XXXIII, p. 455.

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si è adeguato definitivamente allo sviluppo capitalistico europeo. È incominciato in essi un fermento simile a quello che si ha in Europa. È ormai chiaro per il mondo intero che essi sono stati trascinati su una via di sviluppo che non potrà non portare a una crisi del capitalismo mondiale nel suo insieme. Ci troviamo così, nel momento attuale, davanti alla domanda: saremo noi in grado di resistere con la nostra piccola e piccolissima produzione contadina, nelle nostre condizioni disastrose, fino a che i paesi capitalistici dell’Europa occidentale non avranno compiuto il loro sviluppo verso il socialismo? Ed essi tuttavia non lo compiono come ci attendevamo. Essi lo compiono non attraverso una maturazione uniforme del socialismo, ma attraverso lo sfruttamento di alcuni Stati da parte di altri, attraverso lo sfruttamento del primo Stato vinto nella guerra imperialistica, unito allo sfruttamento di tutto l’Oriente. L’Oriente d’altra parte, è entrato definitivamente nel movimento rivoluzionario appunto in seguito a questa prima guerra imperialistica, ed è stato trascinato definitivamente nel turbine generale della rivoluzione mondiale. (…) L’esito della lotta dipende, in ultima analisi dal fatto che la Russia, l’India, la Cina ecc., costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione. Ed è appunto questa maggioranza che negli ultimi anni, con una rapidità mai vista, è entrata in lotta per la propria liberazione (…)37.

Le dinamiche internazionali avrebbero costretto queste due sfere a una nuova grande guerra imperialista, con l’obiettivo di dominare ancora di più i popoli coloniali e distruggere lo Stato sovietico. In Russia secondo Lenin erano avvenuti dei mutamenti importanti nel versante delle vecchie classi dominanti spodestate, con il costituirsi di un fronte politico della borghesia russa in esilio capace di mobilitare i quotidiani e partiti dei grandi proprietari terrieri e della piccola borghesia, grazie ai finanziamenti della borghesia straniera necessari a mantenere in vita tutti i mezzi e gli strumenti di lotta contro la rivoluzione sovietica. Se al momento della presa della rivoluzione del ’17 la borghesia era disorganizzata e non sviluppata politicamente, tanto da non esercitare alcuna egemonia reale sulla società, ora, a distanza di quattro anni, era riuscita a raggiungere il livello di consapevolezza e sviluppo politico della borghesia occidentale. La borghesia russa aveva cioè subìto una terribile sconfitta, ma secondo Lenin aveva compreso la lezione della storia e si era riorganizzata in modo conseguente; tutto questo complicava enormemente il processo di

37. Ivi, pp. 456-457.

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transizione al socialismo, per la persistenza di una dura lotta di classe anche dopo la presa del potere da parte del proletariato. Nel porre la necessità di un diverso atteggiamento del proletariato russo verso grande borghesia e vecchia proprietà fondiaria da una parte, e piccola borghesia dall’altra, Lenin delineò il nuovo quadro tattico dei comunisti russi alla base della NEP. Se rispetto alla prima infatti non era possibile altro rapporto al di fuori della lotta di classe più netta e aperta, verso la seconda si imponeva un tipo di relazione di altra natura dopo gli anni del “comunismo di guerra”. Nei Paesi occidentali la piccola proprietà costituiva un gruppo sociale oscillante tra il 30 e il 50% della popolazione complessiva; in Russia le masse contadine erano invece la stragrande maggioranza della popolazione, dunque verso questa classe il rapporto doveva basarsi su una alleanza molto stretta in grado di sostituire l’egemonia esercitata su di essa dalla grande borghesia con quella del proletariato. «Abbiamo concluso un’alleanza con i contadini che difendiamo in questo modo: il proletariato libera i contadini dallo sfruttamento della borghesia, dalla sua direzione e influenza e li conquista alla sua causa per vincere assieme gli sfruttatori»38. Nella rivoluzione e attraverso la riforma agraria, i bolscevichi avevano saputo esercitare questa direzione e influenza, e la fedeltà delle masse contadine durante la guerra civile ne era una conferma. Nella nuova situazione, data da una capacità organizzativa inedita della borghesia russa, la semplice alleanza militare non sarebbe stata più sufficiente, era necessario passare all’alleanza economica. Sette anni di guerra ininterrotta, lo stato d’eccezione e una politica necessitata dalla guerra civile, avevano determinato delle privazioni per le masse contadine oramai intollerabili, che andavano profondamente modificate. Nella primavera del 1921 si determinò infatti una paralisi dell’intera economia russa, accompagnata dai cattivi raccolti, dalla mancanza di foraggio, dalla scarsità di combustibile. Dovevamo mostrare immediatamente alle grandi masse contadine di essere pronti, senza allontanarci affatto dal cammino rivoluzionario, a mutare la nostra politica in

38. V.I. Lenin, Opere Complete, cit., vol. XXXII, p. 460.

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modo che i contadini potessero dire: i bolscevichi vogliono migliorare subito e ad ogni costo la nostra intollerabile situazione (…) abbiamo cambiato la nostra politica economica obbedendo esclusivamente alle circostanze pratiche e alle necessità che derivano dalla situazione39.

La disastrosa situazione produttiva imponeva dunque un mutamento nella politica economica, tanto mai necessaria, quanto più i rapporti di alleanza tra proletariato e classe contadina rischiavano di essere compromessi, mettendo a repentaglio la conservazione del potere statale sovietico e la funzione dirigente del proletariato. Era necessario passare da una pura “alleanza militare” – come quella che aveva consentito la vittoria sulle armate bianche – a una “alleanza economica”. In un Paese come la Russia, con un livello di arretratezza tecnico-produttiva così forte, e soprattutto nel quale le masse contadine costituivano la maggioranza della popolazione, solo la costruzione di un simile blocco sociale avrebbe reso possibile il consolidamento dello Stato sovietico. Nel quadro profondamente mutato del III Congresso, si determinò il durissimo scontro tra Lenin e il gruppo dirigente del PCd’I. “La questione italiana” era meno clamorosa rispetto al conflitto determinatosi tra Esecutivo della III Internazionale e una parte dei comunisti tedeschi, tuttavia la sua soluzione assumeva un’importanza strategica per l’affermazione della nuova linea. Umberto Terracini, in rappresentanza del Partito italiano, appoggiò la “teoria dell’offensiva”, considerando sbagliato anteporre il lavoro teso alla conquista della maggioranza delle masse popolari a una efficace azione rivoluzionaria, affermando un rapporto di propedeuticità vincolante tra i due termini dell’agire politico. Secondo questa teoria, infatti, l’offensiva di piccoli gruppi rivoluzionari avrebbe comunque trascinato le forze necessarie al successo. Con questa posizione, fedele applicazione delle tesi di Bordiga, il PCd’I si collocava nell’ambito dell’opposizione di sinistra all’Esecutivo dell’Internazionale, sostenuta in particolare dai comunisti tedeschi. La replica di Lenin a Terracini fu durissima: Compagni, con grande rammarico debbo limitarmi a un’autodifesa. Dico con mio grande rammarico, perché, dopo aver ascoltato il discorso del compagno Terracini e

39. Ivi, p. 463.

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dopo aver visto gli emendamenti delle tre delegazioni, desideravo vivamente passare all’offensiva: a vero dire, contro le opinioni sostenute da Terracini e da queste tre delegazioni, un’azione offensiva è necessaria. Se il congresso non condurrà un’energica offensiva contro simili errori, contro simili sciocchezze “di sinistra”, tutto il movimento sarà condannato alla rovina40.

Per Lenin il PCd’I commetteva diversi errori frutto di un’analisi superficiale e schematica e di una impostazione generale dominata da un “avventurismo incosciente”, che riduceva tutta l’azione dei comunisti alla lotta contro centristi e riformisti41, riproponendola però in un contesto decisamente inopportuno. Terracini, a sostegno della sua teoria, utilizzò proprio l’esempio della Rivoluzione russa, dove i bolscevichi prevalsero, malgrado il Partito bolscevico fosse piccolo e non si fosse curato di conquistare la maggioranza. Al contrario di quanto sostenuto da Terracini, affermò Lenin, in Russia si vinse perché la rivoluzione fu preparata per tempo nel corso della guerra, quando i bolscevichi si preoccuparono di conquistare non solo la maggioranza della classe operaia ma di tutti gli sfruttati, in primo luogo le masse contadine, tramite la parola d’ordine della pace ad ogni costo e l’assunzione del programma agrario dei socialisti rivoluzionari: Abbiamo vinto in Russia, non soltanto perché avevamo con noi la maggioranza incontestabile della classe operaia, ma anche perché la metà dell’esercito, subito dopo la presa del potere, fu con noi, e i nove decimi dei contadini, nello spazio di poche settimane passarono dalla nostra parte; abbiamo vinto perché non abbiamo preso il nostro programma agrario, ma quello dei socialisti rivoluzionari e lo abbiamo attuato praticamente42.

Le difficoltà internazionali, la complessità dei processi rivoluzionari in Occidente, spinsero l’Esecutivo dell’IC al III e al IV Congresso a lanciare la parola d’ordine della conquista della maggioranza delle classi subalterne e dell’unità della classe operaia tramite la tattica del “fronte unico”, essenziale, come vedremo, per la definizione della categoria dell’egemonia in Gramsci. 40. Ivi, p. 424. 41. «Noi in Russia, abbiamo già una esperienza politica sufficiente nella lotta contro i centristi, ma questa non basta se non si lavora per conquistare la maggioranza degli sfruttati», fu la replica di Lenin. 42. Ibid.

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Nella sua replica a Terracini, Lenin si soffermò a lungo sul concetto di massa, sul suo mutare insieme al contesto e al carattere della lotta: All’inizio della guerra alcune migliaia di operai effettivamente rivoluzionari sono sufficienti per poter parlare di massa. Se il Partito riesce ad attrarre nella lotta non solo i suoi iscritti, se riesce a scuotere anche i senza Partito, questo è già il principio della conquista delle masse (…). Quando la rivoluzione è già preparata in misura sufficiente, il concetto di massa è un altro: alcune migliaia di operai non costituiscono già più una massa43.

Secondo il rivoluzionario russo, la vocazione minoritaria implicita nell’intervento di Terracini tradiva una certa “paura delle masse”. Preparare a fondo la rivoluzione, “conquistare le grandi masse”, “avere la simpatia delle masse”, era necessario se si aveva l’aspirazione non solo di iniziare una rivoluzione ma soprattutto di vincerla e conservare il potere: Sfiora forse, il compagno Terracini, sia pure con la parola, la questione dei prodotti alimentari? Eppure, gli operai esigono che il vettovagliamento sia assicurato, quantunque possano sopportare molto e soffrire la fame, come abbiamo visto sino a un certo punto in Russia. Dobbiamo perciò attrarre. Dobbiamo perciò attrarre a noi non solo la maggioranza della classe operaia, ma anche la maggioranza della popolazione lavoratrice e sfruttata della campagna44.

Le Tesi sulla tattica presentate da Radek, contestate duramente dall’ala sinistra dei tedeschi e da Bordiga, prendevano atto del riflusso generale dell’ondata rivoluzionaria. La presa del potere nei Paesi occidentali si allontanava e ciò imponeva la predisposizione di una nuova tattica, più adatta alle mutate condizioni. Il capitalismo era riuscito a riconquistare posizioni perdute ottenendo una tregua, e per Radek, in quella fase, il Comintern doveva puntare non tanto a preparare la guerra civile quanto a un lavoro di organizzazione, radicamento e agitazione. Il diverso grado di acutezza delle contraddizioni capitalistiche, la diversa articolazione sociale e capacità organizzativa della borghesia nei vari Paesi, unitamente ai limiti ancora forti nelle organizzazioni proletarie, non avevano portato, con la fine della guerra, alla

43. V.I. Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 232. 44. Ivi, p. 233.

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vittoria immediata della rivoluzione mondiale. Nell’epoca dell’imperialismo il processo della rivoluzione sociale non andava inteso come una linea retta, ma come una lunga serie di guerre civili negli Stati capitalistici, di guerre tra le grandi potenze da un lato e i popoli coloniali dall’altro. Il processo rivoluzionario nel resto d’Europa si rivelava in sostanza, per Radek, ben più lungo di quanto era stato preventivato nel passato. Si apriva dunque una fase difficile nella quale bisognava fare i conti anche con le probabilità sconfitte per il movimento comunista europeo. Radek e tutto l’Esecutivo dell’Internazionale lanciarono dunque la parola d’ordine della conquista delle grandi masse lavoratrici, per fare dei partiti comunisti europei, non più soltanto piccoli gruppi di avanguardia, ma “grandi eserciti del proletariato mondiale”. La svolta colpiva al cuore tutta l’impostazione politica e organizzativa data da Bordiga al Partito. Nelle Tesi sulla tattica, infatti, il problema più grosso verso il quale era chiamata a intervenire l’Internazionale era ottenere un’influenza predominante sulla maggioranza della classe operaia e più in generale delle classi sfruttate: Fin dal giorno in cui è stata fondata, l’Internazionale comunista ha dichiarato con chiarezza e senza ambiguità di avere per scopo non la formazione di piccole sette comuniste, che si limitino a cercare di imporre la propria influenza alle masse operaie con la propaganda e l’agitazione, ma la partecipazione alla lotta delle masse operaie, la direzione di questa lotta secondo lo spirito del comunismo, e la creazione nel corso di questa lotta di partiti comunisti di massa45.

Nei confronti del PCd’I furono sottolineate le ragioni della lotta contro riformisti e centristi – ritenuti responsabili della sconfitta nella stagione di lotte del 1919-20 – e la giustezza della scissione di Livorno. Tuttavia, il Comintern riteneva ora prioritario lo sforzo per rendere il partito una forza di massa «capace di collegarsi alle masse nei sindacati, negli scioperi, nella battaglia contro il movimento controrivoluzionario fascista, di saldare e trasformare le azioni spontanee dei lavoratori in lotte accuratamente preparate»46. 45. K. Radek, “Tesi sulla tattica del III Congresso del Comintern”, in Storia dell’Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, op. cit., p. 262. 46. Ivi, p. 264.

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Per Radek, la connessione organica tra masse e partito doveva avvenire in primo luogo sul piano sindacale, ma questo compito non doveva consistere in una meccanica ed esteriore subordinazione del sindacato al partito, in una rinuncia all’autonomia richiesta dalla sua attività. Il compito del partito comunista doveva essere, semmai, fare in modo che i suoi dirigenti sindacali svolgessero anche nell’azione sindacale un indirizzo conforme agli interessi generali del proletariato nella sua lotta per la presa del potere. Il partito comunista doveva ricavare i propri obiettivi dalle lotte concrete del proletariato, combattendo tanto l’opportunismo quanto il settarismo e la fraseologia rivoluzionaria, che impedivano una chiara percezione dei reali rapporti di forza fino ad ignorare le difficoltà della lotta. Il partito comunista doveva porsi alla testa di tutte le lotte e le rivendicazioni parziali dei lavoratori per estenderle e radicalizzarle fino a farle evolvere in lotte generali della classe operaia. Ogni parola d’ordine nata dalle concrete necessità delle classi subalterne doveva confluire nella lotta per il controllo della produzione, articolarsi con i Consigli di fabbrica e le istituzioni dirette della classe operaia. In questi passaggi sono contenute delle precise critiche al modo di concepire il rapporto tra partito e masse caratteristico di Bordiga e del neonato PCd’I: Ogni obiezione all’avanzamento di tali rivendicazioni parziali, ogni accusa di riformismo a questo proposito, è prodotta dalla stessa incapacità di comprendere le condizioni indispensabili dell’azione rivoluzionaria che si è espressa nell’ostilità di alcuni gruppi comunisti per la partecipazione nei sindacati, o per l’utilizzazione del parlamento47.

La politica varata al III Congresso provocò contraddizioni sempre più grandi tra la linea dell’Internazionale e quella seguita dal PCd’I; tuttavia, la direzione di quest’ultimo si guardò bene dal rendere noti tra i suoi militanti i termini della dialettica. L’esistenza di questi contrasti era ignorata non solo dal corpo militante, ma persino da una parte significativa dei quadri intermedi. Ne fa menzione in alcune sue memorie il comunista lombardo Carlo Venegnani, delegato italiano al V Congresso dell’Internazionale comunista nel giugno del 1924. Venegnani ricorda di aver appreso solo in quella sede dell’esistenza, all’interno del Partito italiano, di tre aree (sinistra, centro e

47. Ivi, p. 269.

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destra) in lotta tra loro. «Avevo militato nel Partito fin dalla fondazione, con la convinzione che esso fosse un blocco monolitico con un dirigente indiscusso: Amadeo Bordiga. (…) Solo a Mosca ero venuto a conoscenza dei cambiamenti profondi, che pochi mesi prima erano avvenuti nel nostro Partito»48. Il consenso esercitato da Bordiga era comunque condizionato dal rappresentare la linea dell’Internazionale, verso la quale, al tempo, i militanti comunisti provavano uno spirito di appartenenza persino più forte di quello nutrito verso il proprio Partito49. Una nuova occasione di scontro si presentò al II Congresso del Partito Comunista d’Italia nel marzo del 1922 a Roma. Nelle Tesi congressuali fu ribadita l’impostazione classica di Bordiga, tutta incentrata sulla lotta spregiudicata ai socialisti – “la sinistra borghese” – e venne proposta un’analisi incredibilmente superficiale della situazione italiana. Per dare un’idea della loro astrattezza, in queste Tesi veniva esclusa la possibilità di un colpo di Stato fascista e più in generale era quasi del tutto omessa la pericolosità del movimento di Mussolini. Secondo le Tesi, in un periodo di crisi come il biennio 1921-22, il rischio maggiore per un’organizzazione rivoluzionaria non era la reazione, bensì la degenerazione riformista del Partito, lo smarrimento del carattere unitario delle sue iniziative verso le finalità massime della rivoluzione, lo scadimento tattico orientato alla conquista di risultati contingenti, le riforme in regime borghese, il tradimento di dottrina e programma. Questo riferimento al problema della “revisione deformatrice” in un periodo di riflusso rivoluzionario costituiva un dato tutt’altro che inedito nel pensiero di Bordiga, era anzi la sua ossessione più caratteristica; tuttavia, dopo le recenti deliberazioni sulla tattica adottate dalla III Internazionale assumeva un significato nuovo di radicale dissenso politico. Qualche anno dopo, in un articolo del 1925, Bordiga ebbe modo di ritornare retrospettivamente sui dissensi con l’Internazionale tra il 1921 e il principio del ’22, rivendicando con forza la scelta al tempo compiuta di opposizione alla svolta tattica.

48. I comunisti raccontano, op. cit., p. 85. 49. Il III Congresso del Comintern è importante per il PCd’I anche perché in esso vennero affrontati, in sessioni di lavoro a parte, i nodi relativi ai rapporti con i massimalisti serratiani che formalmente continuavano ad aderire all’Internazionale comunista. Su tutto ciò non ho modo di soffermarmi per ragioni di priorità rispetto ai temi da trattare e, per ulteriori approfondimenti, rimando alla raccolta di documenti da me utilizzata sull’argomento: La Questione italiana al Terzo Congresso della Internazionale Comunista, Libreria Editrice del Partito Comunista d’Italia, Roma, 1921.

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Quando fummo in presenza della formula del governo operaio affermammo nettamente che non si trattava più solo di una soluzione tattica inopportuna e di poco rendimento ma di una vera e propria contraddizione col nostro, marxista e leninista, corpo di dottrina; e precisamente con la concezione del processo di liberazione del proletariato, in ciò si veniva ad inserire la possibilità illusoria di soluzioni sia pure parzialmente pacifiche e democratiche50.

Proprio rispetto a queste Tesi Gramsci palesò per la prima volta pubblicamente il suo dissenso verso la linea di Bordiga, anzitutto nel Congresso di Torino, quindi nella Commissione Politica del Congresso di Roma, dove intervenne per far eliminare le considerazioni sul Fascismo. È lo stesso Gramsci in una lettera del 1924 a ricordarlo: Nel 1921-22 il Partito aveva questa concezione ufficiale: che fosse impossibile l’avvento di una dittatura fascista o militare; a gran stento io riuscii a far togliere dalle tesi che questa concezione avesse a diventar scritta, facendo modificare fondamentalmente le tesi 51 e 52 sulla tattica51.

Tuttavia, i tempi non erano ancora maturi e Gramsci decise di non affondare i colpi non aprendo lo scontro nell’assemblea plenaria e più in generale nel dibattito che accompagnò il Congresso. Prima dell’assise, le Tesi furono esaminate dal Comitato Esecutivo dell’IC, più precisamente da Trockij e Radek, ottenendo una severa critica e persino una proposta formale di rigetto. Il Partito italiano era in generale accusato di “infantile radicalismo settario”, mentre nello specifico fu rilevato il totale contrasto delle Tesi con quanto deliberato dal III Congresso dell’IC. Per il Comitato Esecutivo, il PCd’I, se non voleva rompere la disciplina dell’Internazionale e quindi trovarsi al di fuori di essa, doveva cambiare atteggiamento nei confronti della tattica del “fronte unico” e verso l’obbiettivo della conquista della maggioranza del proletariato italiano. Questo intervento dell’IC portò a un compromesso: le Tesi, pur votate, finirono per assumere una mera funzione consultiva in preparazione al IV Congresso dell’IC, tuttavia i dissensi restarono tutti, tanto che Kolarov, l’inviato

50. A. Bordiga, “Il pericolo opportunista e l’Internazionale”, L’Unità, 30 settembre 1925. 51. A. Gramsci, “Lettera a Togliatti e Terracini del 9 febbraio 1924”, in La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano, op. cit., p. 199.

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dell’Internazionale, li ribadì clamorosamente dalla tribuna del Congresso in ben due interventi, criticando apertamente la superficialità delle Tesi. La sconfessione dell’Internazionale, nel pieno dei lavori congressuali, lasciò disorientati molti dei delegati; se ne convinse Togliatti, tanto da ritenere che se si fosse avanzata una piattaforma alternativa allineata al Comintern questa avrebbe persino vinto. Tuttavia, Gramsci, timoroso di una lacerazione del gruppo dirigente del Partito, convinto ancora dell’indispensabile funzione di Bordiga alla direzione del Partito, e soprattutto desideroso di non confondersi con la destra di Tasca, “una minoranza eterogenea estranea alla scissione di Livorno”52, preferì votare le Tesi, ricomponendo, come ai tempi del I Congresso, l’alleanza con Bordiga: A Roma abbiamo accettato le tesi di Amadeo perché esse erano presentate come una opinione per il Quarto Congresso e non come un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione, dato l’ufficio grandissimo che egli aveva avuto nell’organizzazione del partito: non ci pentiamo di ciò; politicamente sarebbe stato impossibile dirigere il partito senza l’attiva partecipazione al lavoro centrale di Amadeo e del suo gruppo53.

Al Congresso Gramsci venne designato a rappresentare il PCd’I nell’Esecutivo dell’IC a Mosca. Secondo Giuseppe Fiori questo risultato fu possibile per il convergere di due fattori: le riserve di Gramsci sulla consistenza delle Tesi, che gli procurarono il favore dell’Internazionale; la volontà di Bordiga di non averlo nemico. A queste potremmo aggiungere la preoccupazione di non averlo concorrente come dirigente di primo piano del PCd’I. Nel maggio 1922, dopo quindici anni, Gramsci lasciò Torino e la direzione de L’Ordine Nuovo per intraprendere una nuova esperienza destinata a formarlo politicamente. A Mosca, dove resterà fino al dicembre 1923, l’intellettuale sardo ha vissuto una terza svolta esistenziale, dopo Cagliari e Torino, con importantissimi risvolti nella sfera degli affetti e delle scelte di vita. Alla vigilia del IV Congresso dell’Internazionale, Bordiga pubblicò (sul numero del settembre ottobre 1922 di Rassegna comunista) un articolo, “I rappor-

52. A. Gramsci, “Lettera a Togliatti e Scoccimarro del 5 Aprile 1924”, in La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano, op. cit., p. 272. 53. Ibid.

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ti delle forze sociali e politiche in Italia”, ben rappresentativo della distanza raggiunta tra le sue posizioni, quelle dell’Internazionale e quelle di Gramsci, rispetto al ruolo dei comunisti nel pieno divampare della reazione fascista. Dopo aver analizzato sul piano generale le condizioni dello sviluppo capitalistico e della rivoluzione democratico-borghese, Bordiga affermò l’assoluta modernità del processo liberale in Italia. A suo dire, la genesi storica dello Stato italiano incarnava appieno i tratti tipici dei regimi democratico-borghesi. Il prevalere della borghesia industriale e commerciale sui rapporti sociali di produzione feudale si innestò in una struttura economica capitalistica solo in via embrionale. Secondo Bordiga il Risorgimento italiano, pur contraddistinto da un forte processo di modernizzazione economica, si rivelò nel complesso assai arretrato rispetto agli altri Paesi a capitalismo avanzato. Nonostante questo, il processo di democratizzazione politica era solo parzialmente in ritardo rispetto a Inghilterra, Francia e America, e anche la rivoluzione borghese italiana finiva per coincidere fedelmente con l’affermarsi in gran parte dell’Europa del regime democratico liberale. Se in Italia, nell’Ottocento, lo sviluppo industriale era molto arretrato, tuttavia, il capitalismo commerciale e manifatturiero era ben più antico. Per il leader della sinistra comunista, tutti i temi politico-ideologici del Risorgimento in Italia combaciavano perfettamente con quelli della rivoluzione liberale, basati in entrambi i casi sulla rivendicazione dell’indipendenza nazionale e la lotta contro i privilegi del vecchio regime, vale a dire, sull’affermarsi della costituzione parlamentare, delle libertà di culto, di stampa e di associazione. Così i governi che guidarono la nascita del nuovo Stato – sia la destra storica che la sinistra – erano a tutti gli effetti liberali, mentre i partiti legati al vecchio regime (“assolutisti, temporalisti, borbonici, austriacanti e reazionari in genere”) sparirono dalla nuova scena istituzionale. La tesi sul carattere incompleto della rivoluzione democratico-borghese in Italia era per Bordiga superficiale. Ritenere gli equilibri governativi dello Stato unitario incardinati sulla dicotomia tra una classe dirigente borghese al Nord ed una latifondista feudale al Sud, era, a suo dire, un errore: in primo luogo perché gran parte degli eletti nei collegi del Sud appartenevano alla “sinistra” – mentre la borghesia industriale del nord apparteneva alla destra classica – in secondo luogo perché nel mezzogiorno il potere feudale non sarebbe stato abbastanza sviluppato da opporre una resistenza all’affermarsi della rivoluzione borghese. Il ceto sociale preponderante al Sud era per

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diga la media proprietà e questa si conciliò senza sforzo alcuno nel nuovo sistema politico istituzionale, facendosi plasmare dal nuovo potere di governo e parlamentare che si servì largamente delle forme clientelari e criminose proprie dell’amministrazione meridionali. Sul piano degli assetti costituzionali, lo Stato italiano aveva tutte le caratteristiche di modernità borghese più tipiche e non era assolutamente in contraddizione con questa neanche la più dura e sistematica repressione poliziesca attuata verso le classi subalterne, specie a cavallo tra i due secoli, perché la democrazia in realtà non sarebbe altro che un perfetto strumento di classe per la difesa degli interessi della classe dominante, con ogni mezzo, compreso l’uso della forza più cruda e reazionaria: Stato della classe borghese, il regime italiano agisce storicamente come il difensore degli interessi borghesi. In altri paesi questi sono più precisi e potenti, ma in Italia le speciali condizioni hanno a parer nostro fornito un esperimento più completo delle funzioni di classe dello stato della borghesia, fino agli ultimi eventi del dopoguerra che, a nostro modesto avviso, e come ora vedremo, non sono un ritorno al passato ma un esempio in anticipo delle forme che prenderà la lotta politica nelle più inoltrate fasi della evoluzione del mondo capitalista54.

Per Bordiga, la forma più moderna del regime borghese non si esprimeva nel maggior grado di libertà e democrazia delle sue istituzioni, anzi, per certi versi, il vero volto della modernità avrebbe trovato la sua più caratteristica manifestazione nella brutale e manifesta natura reazionaria dei metodi di governo. Per “modello democratico” secondo Bordiga non si doveva intendere il “metodo liberale”, l’universo ideale della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma l’evoluzione dei sistemi di dominio propri del monopolismo imperialistico, tipico della fase precedente la Prima guerra mondiale. All’interno di questo quadro, la socialdemocrazia non solo appariva funzionale, ma faceva parte organicamente dello schema di governo borghese basato sul compromesso sociale e la repressione. Il modello più esemplare della politica “democratica di sinistra” era per Bordiga il giolittismo, che da un lato procedeva a tessere la tela del compromesso sociale con i vertici

54. A. Bordiga, Scritti scelti, op. cit., p. 157.

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politici e sindacali del proletariato, mentre dall’altra non aveva rinunciato a reprimere nel sangue i tentativi di ribellione delle classi subalterne: Il doppio gioco della politica socialdemocratica era precedentemente emerso anche da questo contrasto. Come lo stesso ministero Giolitti poteva elargire le leggi riformiste e la mitraglia dei carabinieri, così esso elaborò nel campo politico la grande riforma del suffragio, mentre scatenava la guerra di Libia, fatto questo di autentico imperialismo dal punto di vista della politica dello stato italiano (…) e nel campo internazionale preludio della grande orgia di sangue dell’imperialismo, scatenatasi attraverso la caduta della Turchia nelle guerre balcaniche55.

Considerare tale contraddizione il sintomo di un’arretratezza nello sviluppo democratico, significava confidare nella politica democratica come razionale processo orientato alla pacifica convivenza tra le classi e tra i popoli, a livello interno ed internazionale. In realtà i due aspetti della politica dei governi democratici erano inseparabili; non a caso la Prima guerra mondiale ebbe la sua incubatrice in contesti di democrazia politica avanzata e riformismo sociale, caratteristici di tutte le potenze imperialistiche coinvolte. La distanza tra le posizioni del Segretario del Partito comunista d’Italia e Gramsci trova, tuttavia, il punto massimo nelle considerazioni relative al rapporto tra democrazia e Fascismo. Secondo Bordiga tra Fascismo e democrazia vi era assenza di contraddizioni e distinzioni reali, anzi, il Fascismo appariva come una prospettiva di stampo socialdemocratico per quanto espressa con forme e “cerimoniali nuovi”. I comunisti dovevano pertanto disinteressarsi del problema democratico, non optare per l’una o l’altra forma di governo borghese, e chiudere risolutamente a qualsiasi ipotesi di collaborazione con le altre forze democratiche ed anche socialdemocratiche in opposizione al Fascismo: Nel Fascismo e nella generale controffensiva borghese odierna non vediamo un mutamento di rotta della politica dello Stato italiano, ma la continuazione naturale del metodo applicato prima e dopo la guerra dalla democrazia. Non crederemo all’antitesi tra democrazia e Fascismo più di quello che abbiamo creduto alla antitesi tra la democrazia e il militarismo. Non faremo miglior credito, in questa seconda situazione, al naturale manutengolo della democrazia: il riformismo socialdemocratico56.

55. Ivi, p. 159. 56. Ivi, p. 162.

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Nel novembre del 1922 si aprì il IV Congresso dell’Internazionale Comunista, dove lo scontro tra il Partito italiano e l’Esecutivo del Comintern raggiunse il suo punto più alto. Questo Congresso, anche per l’intrecciarsi di diversi altri fattori, creò le condizioni per la costituzione di un nuovo gruppo dirigente nel PCd’I all’interno del quale Gramsci era l’indiscusso leader. Il IV Congresso si tenne in un contesto internazionale sempre più difficile: solo poche settimane prima i fascisti erano arrivati al potere in Italia e l’ombra lunga della reazione sembrava prossima a estendersi su tutta l’Europa. Proprio il cambiamento del quadro mondiale, secondo Lenin, imponeva ai diversi partiti comunisti la necessità di sapersi rapportare tatticamente nella maniera giusta alle nuove situazioni, preparandosi anche a una “ritirata strategica” per evitare di essere risospinti indietro ed annullati per diversi anni. Dobbiamo non soltanto sapere come agire quando passiamo direttamente all’offensiva e quando vinciamo. In un periodo rivoluzionario, ciò non è poi tanto difficile e neanche tanto importante, o, per lo meno, non è la cosa più decisiva. In un periodo di rivoluzione vi sono sempre dei momenti nei quali l’avversario perde la testa, e se noi l’attacchiamo in uno di questi momenti possiamo vincere con facilità. Ma ciò non significa ancora nulla, perché il nostro avversario, se ha un sufficiente dominio di sé, può in precedenza raccogliere le forze, ecc. E allora può facilmente provocarci ed attaccare, e poi respingerci indietro molti anni. Per questa ragione ritengo che l’idea di prepararci ad una ritirata abbia una grande importanza, e non solo da un punto di vista teorico. Anche da un punto di vista pratico, tutti i partiti che nel prossimo avvenire si prepareranno a passare all’offensiva diretta contro il capitalismo, devono pensare sin d’ora anche al modo di assicurarsi una ritirata57.

Come già spiegato, il “fronte unico” e la NEP erano due aspetti della stessa politica e anche la prospettiva del “capitalismo di Stato” rappresentava una possibile linea di ritirata necessaria, secondo Lenin, per mantenere la posizione in una fase avversa. Uno dei significati politici più importanti dell’alleanza economica varata con la NEP era il tentativo di superare l’utilizzo dei mezzi coercitivi dello Stato per imporre alle masse contadine il socialismo. Dopo la fine della fase contraddistinta dal “comunismo di guerra”, attraverso la NEP, si tentò di percorrere una strada diversa, in modo da condurre la maggioranza dei contadini al convincimento volontario circa la superiorità

57. Ivi, p. 387.

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della produzione cooperativa o della grande azienda di Stato rispetto alla piccola proprietà. L’obbiettivo era condurre i contadini volontariamente e senza metodi amministrativi al socialismo. Per come si era concluso il Congresso di Roma, e per i nodi irrisolti nei rapporti tra l’Esecutivo dell’IC e quello del Partito Comunista d’Italia sul “fronte unico”, uno scontro tra i due livelli appariva inevitabile. Le Tesi sulla tattica costituivano una mediazione tra le posizioni favorevoli al “fronte unico dall’alto” e quelle favorevoli solo al “fronte unico dal basso”: la prima rappresentava la linea di Karl Radek e della destra tedesca; la seconda quella di Zinov’ev stesso e della sinistra tedesca. L’analisi della situazione internazionale rendeva la scelta del “fronte unico” e la parola d’ordine del III Congresso (“verso le masse”) ancora più urgente, dunque il Comintern esigeva un rapido allineamento di tutti i partiti aderenti, seppur con le variazioni proprie di ciascun Paese. Il significato della tattica del “fronte unico” era assumere la direzione delle lotte quotidiane delle larghe masse lavoratrici in difesa dei loro interessi più vitali, anche a costo di scendere a patti con la socialdemocrazia, ma senza che questo fosse inteso come fusione organizzativa dei partiti operai, né che si traducesse in semplici alleanze elettorali di vertice per meri scopi parlamentari: La tattica del fronte unico è l’offerta di una lotta congiunta dei comunisti con tutti i lavoratori appartenenti ad altri partiti e gruppi, e con i lavoratori senza Partito, in difesa degli interessi fondamentali della classe operaia contro la borghesia58.

I comunisti non avrebbero dovuto limitare la propria attività all’agitazione e alla propaganda, ma dare corso ad una grande opera di radicamento sui luoghi di lavoro, nelle fabbriche, nei Consigli, nelle commissioni di sorveglianza composte da lavoratori. Il “fronte unico” doveva perciò sorgere dal basso, dalle condizioni più intime della vita associativa delle masse, tuttavia, questa spinta non doveva portare i comunisti a precludersi la possibilità di accordi di vertice con gli altri partiti operai. Il passo successivo alla tattica del “fronte unico” doveva essere quindi la parola d’ordine del “governo operaio”, che assumeva la massima importanza nei

58. G. Zinove’v, “Le tesi sulla tattica al IV Congresso del Comintern”, in Storia dell’Internazionale attraverso i documenti, op. cit., p. 449.

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Paesi segnati dall’instabilità politica della borghesia, dove si poneva il problema immediato della formazione di un governo rappresentativo degli interessi di classe del proletariato. Se in questi Paesi le socialdemocrazie andavano in soccorso alle istituzioni liberali attraverso la realizzazione di accordi con le forze borghesi, i comunisti dovevano invece porre la questione del governo di unità dei lavoratori attraverso la coalizione dei governi operai sul piano politico ed economico. Il controllo della macchina statale da parte del governo operaio doveva congiungersi alla direzione della produzione da parte dei lavoratori. Gli obiettivi prioritari del governo operaio devono essere quelli di armare il proletariato e disarmare la borghesia e le organizzazioni controrivoluzionarie, d’introdurre il controllo della produzione, di trasferire la parte maggiore del carico fiscale sui ricchi e di spezzare la resistenza della borghesia controrivoluzionaria59.

Due rischi erano però in agguato: lo scatenamento di una reazione cieca e violenta da parte della borghesia – di cui il Fascismo era un esempio – e il rischio di venire risucchiati da dinamiche politiche estranee alle concezioni dei comunisti. Per queste ragioni la prima condizione per la realizzazione del governo operaio doveva essere la garanzia della più completa autonomia del partito comunista, la conservazione, senza limiti, della propria identità e libertà d’agitazione. Un altro punto fondamentale di forte distanza tra le Tesi del IV Congresso e la concezione del partito di Amadeo Bordiga era relativo alla necessità di radicare il Partito nei luoghi di lavoro attraverso la creazione delle cellule comuniste. Un partito comunista di massa, seriamente e solidamente organizzato, non poteva considerarsi tale senza questo radicamento e un movimento non era autenticamente proletario se non si dimostrava in grado di creare un sistema dei Consigli di fabbrica. Su questo punto si determinò la distanza massima con il gruppo dirigente di Bordiga, mentre si realizzò invece una profonda convergenza con l’impostazione classica degli ordinovisti e di Gramsci in particolar modo. Subito dopo la relazione introduttiva del presidente dell’Internazionale Zinov’ev, il primo intervento fu proprio quello di Bordiga, che attaccò duramente la tattica del “fronte unico”, ma soprattutto contestò la formula del 59. Ivi, p. 450.

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“governo operaio”, prospettata da Zinov’ev per almeno tre casi: Germania, Cecoslovacchia e Inghilterra. Per Bordiga questa “formula ambigua” avrebbe illuso e disarmato la classe operaia, distogliendola dall’unica strada percorribile per la conquista del potere, quella violenta della rivoluzione armata. Non esistevano alternative o gradazioni intermedie tra dittatura del proletariato e dittatura della borghesia, di conseguenza sarebbe stato fuorviante e dannoso prospettare una fase di transizione in regime borghese, nella quale il Partito comunista avrebbe dovuto assumere una funzione di governo per di più in coalizione con i socialdemocratici. Dopo Bordiga intervenne Antonio Graziadei, nel PCd’I collocato a destra, favorevole all’immediata fusione con il PSI, che attaccò frontalmente il Segretario del PCd’I su tutta la linea e concentrandosi in particolare sull’atteggiamento settario assunto dalla maggioranza verso i socialisti e sulla questione del “governo operaio”. Per la prima volta, nell’assise dell’Internazionale, un dirigente del PCd’I contestava alla luce del sole la direzione politica del suo Partito. Tuttavia, in questo Congresso, chi realmente assunse la direzione della minoranza di destra fu Angelo Tasca, maggiormente attrezzato sul piano politico di Graziadei e dotato di più capacità di movimento. Come già visto, Gramsci in questa fase temeva maggiormente la destra del Partito, nella cui eterogenea composizione rientrava a suo dire di tutto. Sebbene la sinistra fosse ben lontana dalle posizioni del vecchio gruppo torinese, tuttavia, con Bordiga si era comunque percorso un tratto di strada assai significativo. Gramsci non riteneva ancora possibile una battaglia centrista sui due fronti, contro Bordiga e contro Tasca, senza lacerare gravemente il Partito e favorire di fatto la destra. Lo scontro vero avvenne in una commissione appositamente creata, per affrontare il nodo dei rapporti con i socialisti e l’ipotesi della fusione. In proposito così ha scritto Spriano: In essa, con Zinov’ev presidente e Radek, sono presenti Trockij, Ràkosi, segretario, e molti altri in rappresentanza di vari partiti comunisti, tra cui Klara Zetkin e il bulgaro Kabakčiev. La maggioranza del PCI vi compare come imputata; la minoranza (per essa sono presenti Graziadei, Tasca, Bombacci, Presutti e Vota) come testimone d’accusa»60.

60. P. Spriano, Storia del Partito Comunista, op. cit., p. 249.

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Gramsci si trovò combattuto sul da farsi, tentennante, incerto sia per i potenziali effetti dello strappo, sia per le pressioni effettuate dall’Internazionale per porsi alla testa dell’opposizione a Bordiga e diventare il nuovo capo del Partito in Italia. Sullo stato d’animo e sulle indecisioni di Gramsci influirono anche le sue pessime condizioni di salute, che lo costrinsero al ricovero, alla vigilia del IV Congresso, nel sanatorio di Sieriebriani Bor alla periferia di Mosca, dove ebbe modo di conoscere le sorelle Schucht e in particolare Julca. Nulla rende più chiaro il senso del travaglio vissuto da Gramsci delle sue stesse parole, contenute in una lettera indirizzata a Scoccimarro e Togliatti, nella quale accenna alle pressioni che ebbe, prima dall’inviato dell’IC Chiarini61 nel 1921, poi da parte di Rakosi, «il pinguino», verso il quale sicuramente non nutriva molta stima: Dovrei dire circa la questione che Palmi [Togliatti] affaccia sul mio atteggiamento passato. Dirò solo che anch’io ho conosciuto al Congresso di Roma le questioni più gravi del partito e le altre le avevo conosciute in una forma che rendeva impossibile ogni giudizio. Ancora: nel 1921 fui inviato a Roma da Chiarini, che senza spiegarmi molto di che si trattasse, mi invitò a entrare nell’Esecutivo per controbilanciare l’influenza di Amadeo e per prenderne il posto. Risposi che non volevo prestarmi a intrighi di tal natura, che se si voleva una diversa direzione si ponesse la questione politica. Chiarini che non aveva mai preso atteggiamento, a Roma faceva il bordighiano, mentre a Mosca inviava rapporti contro il partito, non insistette e non mi spiegò più diffusamente di che si trattasse (...). Al IV Congresso io ero da pochi giorni rientrato dal sanatorio (...) dal punto di vista generale persisteva l’esaurimento e l’impossibilità al lavoro per le amnesie e le insonnie. Il Pinguino [Rakosi], con la delicatezza diplomatica che lo contraddistingue, mi prese d’assalto per offrirmi nuovamente di diventare il capo del partito eliminando Amadeo, che sarebbe stato addirittura escluso dal comintern se continuava nella sua linea. Io dissi che avrei fatto il possibile per aiutare l’Esecutivo dell’Internazionale a risolvere la questione italiana, ma non credevo che si potesse in nessun modo (tanto meno con la mia persona) sostituire Amadeo senza un preventivo lavoro di orientamento del partito (...). Io camminavo sui carboni ardenti e non era questo il lavoro più confacente alla mia condizione di debolezza cronica. Mi accorsi come la maggioranza della delegazione non avesse alcuna direttiva propria (...). Se il Pinguino invece che un fesso, fosse stato provvisto di un grammo di intelligenza politica, il Partito avrebbe fatto una figura delle più meschine, perché la maggioranza, almeno nella delega-

61. Chiarini, il cui vero nome era Cain Haller, era il rappresentante dell’Internazionale Comunista in Italia, tra il 1920 e il 1921.

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zione congressuale, si sarebbe dimostrata un fantasma senza consistenza. (...) Che cosa sarebbe avvenuto se io non avessi «anguilleggiato», come purtroppo ho dovuto fare? Che la maggioranza della delegazione sarebbe stata con me, (...) e si sarebbe avuta la crisi del partito a distanza senza un accordo preventivo con voi: Urbani [Terracini], Bruno [Bruno Fortichiari], Luigino [Luigi Repossi], Ruggero [Grieco], Amadeo [Bordiga] si sarebbero dimessi; il CC, non abituato a lavorare, si sarebbe squagliato e la minoranza, ancor meno preparata di quanto sia stata in seguito, avrebbe preso in mano... un pugno di mosche. Forse io sono stato troppo pessimista? Può darsi, date le condizioni in cui mi trovavo. Non mi pare però62.

In un primo momento, il 13 e 14 novembre, Gramsci si schierò con Bordiga, la maggioranza della delegazione restò unita sulle sue posizioni antifusioniste e il conflitto tra PCd’I e Internazionale parve pertanto inevitabile. La situazione restò immutata fino al 24 di novembre, quando una lettera del CC del Partito comunista russo, firmata tra gli altri da Lenin, Trockij, Zinove’v e Bucharin, di fatto impose l’apertura di una trattativa in modo da pervenire alla fusione con i massimalisti di Serrati, pena l’uscita dall’Internazionale. A questo punto la delegazione italiana finì per capitolare con l’eccezione di Bordiga, inamovibile nella sua avversità, convinto che non sarebbero bastate le ragioni della disciplina per fargli cambiare idea e pronto a proseguire la battaglia in altre sedi. La frattura della maggioranza nata a Livorno iniziò a prodursi in questo momento, quando Scoccimarro e Gramsci decisero di prendere l’iniziativa e discutere le condizioni della fusione, anche per evitare il prevalere della minoranza di destra e dei massimalisti di Serrati nella direzione del Partito. Con loro si schierò la maggioranza della delegazione italiana, mentre Bordiga rimase irremovibilmente contrario a qualsiasi trattativa, fermo nella sua opposizione, tanto da rifiutare la proposta, avanzata da Zinov’ev, di far parte della commissione interpartitica incaricata di condurre l’operazione. Per dare un’accelerata l’Internazionale decise di inviare Gramsci in Italia. Inizialmente l’Esecutivo, sembra con il consenso di Serrati, aveva deciso di attribuire proprio a Gramsci il ruolo condirettore nella redazione dell’Avanti! e gli stessi poteri sulla linea del giornale del capo massimalista. Il fallimento

62. A. Gramsci, “Lettera a Scoccimarro e Togliatti del 1° marzo 1924”, in La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista, op. cit., pp. 218-230.

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dell’operazione fu addebitato a Serrati e alla sua consueta indecisione63; il leader massimalista affermò infatti di aver votato la deliberazione per errore, a causa di una cattiva traduzione: Ieri sera è successo un fatto inaudito. Serrati ha dichiarato che egli aveva compreso che io sarei diventato condirettore dell’«Avanti!» dopo il congresso di fusione, non immediatamente, e ha sostenuto che il voler mantenere una tale deliberazione avrebbe significato perdere la maggioranza del Partito socialista, perdere «l’Avanti!» ecc. ecc. Le notizie che Serrati ha ricevuto dall’Italia sullo stato d’animo del suo Partito devono essere ben gravi se lo hanno indotto a sostenere una parte così ridicola come quella di affermare che, per il cattivo francese del compagno Bucharin, egli aveva approvato deliberazioni così delicate e importanti senza aver capito ciò che esse significavano effettivamente!64

Al di là della proverbiale titubanza di Serrati, tuttavia, non si addiviene alla fusione sia per l’affermarsi di una maggioranza antifusionista nel Congresso del PSI (tenutosi a Milano nell’aprile 1923), sia per la forte resistenza a quest’ipotesi da parte dei comunisti. Per opporsi alla fusione concordata tra Serrati e l’Internazionale, Pietro Nenni e altri dirigenti socialisti di Milano costituirono il Comitato di difesa socialista occupando il gennaio 1923 la redazione del giornale l’Avanti! per assumerne, con un atto di forza, la direzione editoriale. Lo stesso accadde nel gruppo parlamentare, dove il deputato fusionista Francesco Buffoni venne prima messo in minoranza e poi rimosso dalla direzione del Partito, dove rappresentava appunto il gruppo dei deputati. Si parlò di “un vero e proprio colpo di Stato”65. Tuttavia, il colpo più duro al processo di fusione venne dall’arresto il 2 marzo 1923, il giorno dopo il rientro da Mosca dello stesso Serrati, proprio alla vigilia del congresso socialista convocato in aprile. Questo scontro, senza precedenti nell’esperienza del giovane Partito, produsse un tale travaglio da indurre l’intero Esecutivo alle dimissioni attraverso un’amara lettera di Ruggiero Grieco. Il tutto avvenne nel pieno infuriare della violenta repressione del regime fascista, con l’incarcerazione di numerosi dirigenti e militanti, tra i quali gli stessi Bordiga

63. Nel tempo, la proverbiale indecisione caratteriale di Serrati gli valse diversi soprannomi sbeffeggiativi adoperati da Gramsci nei suoi corsivi polemici, tra cui il più ricorrente era “Stenterello”. 64. A. Gramsci, “Lettera a Julca, Mosca 10 gennaio 1923”, in Vita attraverso le lettere, op. cit., p. 27. 65. I comunisti nella storia d’Italia, op. cit., vol. I, p. 192.

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(arrestato nel febbraio 1923) e Grieco, la devastazione e chiusura di tutta la stampa socialista, comunista e dell’opposizione, l’instaurazione di un clima politico sempre più difficile e rischioso. Il periodo successivo, fino alla Conferenza di Como del maggio 1924 e all’assunzione da parte di Gramsci della Segreteria Generale del Partito, è efficacemente definito da Spriano una “fase di interregno”, un periodo di riposizionamento complessivo del Partito in Italia, di dinamiche contrastanti e incerte all’interno della vecchia maggioranza, per via del forte ascendente ancora esercitato da Bordiga. L’oramai ex capo del Partito era sempre più deciso ad aprire uno scontro frontale con il Comintern, anche a costo di separarsi definitivamente da esso66. 3. Verso una nuova maggioranza Nel corso della primavera del 1923 si arrivò allo scontro. La linea di Amadeo Bordiga non ammetteva arretramenti, la vecchia maggioranza avrebbe dovuto appellarsi direttamente all’insieme del PCd’I e al proletariato per rivendicare la propria posizione in contrapposizione aperta con l’Esecutivo dell’Internazionale comunista. Bordiga aspirava a ricompattare la vecchia maggioranza e costituire un’opposizione di sinistra in seno al Comintern. Questi propositi presero poi forma nel cosiddetto Manifesto di Bordiga, scritto in carcere nell’estate del 1923, come atto di denuncia della profonda crisi apertasi tra la direzione del PCd’I e quella della IC. Gramsci, ancora a Mosca, venne a sapere dei propositi di Bordiga grazie a una lettera di Togliatti scritta il primo maggio del 1923. Togliatti, ancora fortemente legato a Bordiga, pur non condividendo pienamente le argomentazioni del Manifesto – perché spaventato dalla prospettiva di una rottura con l’Internazionale – subì indubbiamente il fascino della “logica matematica di Bordiga”, tanto da confessare la sua indecisione sul da farsi. Egli [Bordiga] vuole che il gruppo politico che fino ad allora ha avuto la direzione nel PCI, si rivolga al proletariato con un manifesto. (...) Il merito di quanto propone Amadeo è di essere conforme ad una logica rigorosa fino all’eccesso e non ti nascondo che perciò la sua proposta è tale da esercitare una grande attrattiva sopra i compagni

66. G. Fresu, Il diavolo nell’ampolla, op. cit., pp. 120-152.

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più intelligenti, tanto più se vi aggiungi il peso dell’ascendente personale. In pratica, date le condizioni attuali, fare quanto dice Amadeo vorrà dire mettersi in lotta aperta con l’Internazionale comunista, mettersi fuori di essa, trovarsi quindi privi di un potente apparato materiale e morale, ridotti ad un piccolissimo gruppo tenuto insieme da legami quasi solo personali, ed essere in breve tempo condannati, se non ad andare tutti dispersi, certamente a perdere ogni influenza reale e pratica immediata nello sviluppo della lotta politica in Italia. Questi danni immediati pratici sono compensati dal valore di una affermazione di principio assoluta e intransigente quale Amadeo vorrebbe fare? Ti confesso di essere tuttora un poco perplesso nel dare una risposta67.

Per Togliatti rompere con l’Internazionale significava finire dispersi, ma abbandonare la linea assunta a Livorno avrebbe probabilmente prodotto lo stesso risultato: «Avverrà che poco per volta andremo comunque dispersi, o in una organizzazione che non sarà quella che il momento richiede, o fuori di essa. Sarà perduto il frutto di tre anni di lavoro, di critica, di organizzazione e di lotta»68. A questa affermazione seguiva una domanda retorica nella quale era evidente l’influenza di Bordiga sul futuro capo dei comunisti italiani e la sua iniziale indecisione: «Se noi prevediamo di dovere sparire a questo modo, non è forse meglio aderire a quanto dice Amadeo, cioè affermare almeno fino all’ultimo la propria personalità e la volontà politica che dal primo momento ci ha animati?»69. Ragionieri ha sottolineato quanto il periodo di maggior adesione alle tesi bordighiane di Togliatti coincida con la fase più complicata e se vogliamo negativa nella storia del Partito, messo in un angolo dall’avvento al potere del Fascismo e sempre più in contraddizione con la linea assunta dall’Internazionale. Dunque, è il ragionamento dello storico, l’adesione di Togliatti alle posizioni di Bordiga «non può essere considerata soltanto la conseguenza della personale influenza del capo, con il quale egli rimase per molti mesi in un prolungato contatto diretto, ma anche la forma più immediata di reazione ad una situazione per la quale non si vedevano vie di uscita»70. La tendenziale indecisione di Togliatti, in questi anni, sarebbe pertanto la conseguenza dello stato di accerchiamento vissuto dal Partito e dalla paura di rompere

67. P. Togliatti, “Lettera ad Antonio Gramsci del 1° maggio 1923”, in La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista, op. cit., pp. 54-55. 68. Ivi, p. 58. 69. Ibid. 70. E. Ragionieri, Palmiro Togliatti, op. cit., p. 79.

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in quella fase con l’unico suo punto di riferimento stabile. Del resto, anche Gramsci, per le stesse ragioni fino al IV congresso si trovò costretto, come abbiamo già visto, ad “anguilleggiare”71, evitando di aprire un contenzioso pubblico con il segretario del PCd’I. Bordiga era considerato ancora, e lo sarà almeno fino al Congresso di Lione, il principale protagonista della scissione di Livorno e il sostanziale artefice della fondazione del Partito, per cui la sua autorevolezza appariva ancora inarrivabile. Tuttavia, anche su pressione del Comintern, Gramsci arrivò alla consapevolezza di quanto non fosse più rinviabile mettere sotto accusa la linea del Segretario decidendo di muovergli guerra. Così la risposta di Gramsci a Togliatti, del 18 maggio, già conteneva in sé tutti i temi della battaglia contro Bordiga e la prefigurazione di una nuova maggioranza nel Partito. La rottura con il “capo” era oramai inevitabile perché le differenze con lui non si riducevano alla posizione sul “fronte unico” o ai rapporti con i socialisti, ma riguardavano l’agire politico dei comunisti italiani. Gramsci, rivolgendosi ai vecchi compagni del gruppo torinese, avanzò senza mezzi termini la necessità di un nuovo gruppo dirigente lontano tanto dal settarismo di Bordiga, quanto dal massimalismo confuso della destra di Tasca. Egli era consapevole di quanto il vecchio gruppo torinese fosse nel nuovo Partito totalmente disperso; tuttavia non vedeva altre strade praticabili: Ho avuto, durante il IV Congresso, alcune conversazioni con Amadeo che mi inducono a credere necessaria una discussione aperta e definitiva fra noi a proposito di talune questioni che oggi sembrano, o possono sembrare, bisticci intellettuali, ma io ritengo tali da diventare in uno sviluppo rivoluzionario della situazione italiana, ragione di crisi e di decomposizione interna. La questione fondamentale oggi è questa: bisogna creare nell’interno del Partito un nucleo, che non sia una frazione, di compagni che abbiano il massimo di omogeneità ideologica e quindi riescano ad imprimere all’azione pratica il massimo di unicità direttiva72.

Intanto, nel giugno del 1923, sul “problema italiano”, intervenne il Comitato Esecutivo del Comintern con la creazione di una commissione ad hoc.

71. A. Gramsci, “Lettera a Scoccimarro e Togliatti del 1° marzo 1924”, in La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista, op. cit., pp. 218-230. 72. A. Gramsci, “Lettera a Palmiro Togliatti del 18 maggio 1923”, in La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista, op. cit., p. 64.

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L’Internazionale mise sotto accusa l’intera maggioranza del PCd’I, compreso Gramsci, accusato da Zinov’ev di doppiezza, e decise di scavalcare il Partito imponendo un nuovo gruppo dirigente allineato per convinzione e non per disciplina73. Venne proposto un nuovo Esecutivo: tre esponenti della vecchia maggioranza, Fortichiari, Scoccimarro e Togliatti, più due della minoranza, Tasca e Vota. Nonostante in questo “processo” apparisse «coimputato della vecchia maggioranza»74, proprio a partire dai lavori di questa commissione, Gramsci assunse un ruolo di primo piano, acquisendo sicurezza fino a emanciparsi definitivamente da Bordiga per diventare l’uomo dell’Internazionale, l’elemento catalizzatore del nuovo corso del Partito. Subito dopo la fine dei lavori della commissione, la vecchia maggioranza si riunì decidendo di trasformarsi in frazione, a capo della quale venne indicato Amadeo Bordiga. Alla riunione erano presenti Terracini, Fortichiari, Leonetti, Ravera e Togliatti. Fortichiari aveva già dichiarato di rifiutare l’incarico nel nuovo Comitato Esecutivo del Partito. Terracini propose l’accettazione formale dei deliberati dell’Internazionale, ma al contempo si mostrò favorevole a un lavoro di frazione per salvaguardare i rapporti di forza a favore della vecchia maggioranza. L’intervento di Togliatti fu improntato a una ancora maggiora chiusura e rigidità: Palmiro vuole che non si faccia una questione di tecnica di organizzazione ma una questione politica. Ritiene che, se non si precisa con una serie di atti aperti, la posizione politica del gruppo di maggioranza, l’accettazione è impossibile anche se accompagnata da un accordo di gruppo nel senso accennato da Umberto [Terracini]. Una accettazione di quelle condizioni ci porrebbe allo stesso livello della minoranza cioè sarebbe l’inizio della trasformazione del nostro gruppo politico in una côterie

73. Nella risoluzione del Terzo Plenum del CEIC sulla questione italiana veniva scritto: «In certa misura il fallimento [della fusione con il PSI] è dovuto anche alla tattica scorretta seguita dalla maggioranza del CC del PCI. Ipnotizzata dalla precedente lotta contro il gruppo di Serrati, e risentendo di un estremo dogmatismo, la maggioranza del CC ha completamente mancato di prendere in considerazione il fatto che nel movimento sindacale la situazione era radicalmente cambiata… Non soltanto essa non si è adoperata per la fusione con il PSI, ma ha addirittura vanificato l’esecuzione delle direttive rilasciate dal quarto congresso mondiale. L’Esecutivo allargato decide: 1. l’Internazionale esige dal CC del PCI non soltanto un riconoscimento formale, ma anche l’esecuzione pratica di questa decisione. 2. Il PCI deve usare la tattica del fronte unico adattandola alle condizioni italiane, deve cioè avanzare proposte ai dirigenti del PSI in una forma coerente con le decisioni dell’IC. 3. La composizione dell’Esecutivo del PCI deve essere tale da garantire l’Esecuzione di queste misure». Storia dell’Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali. Tomo secondo 1923/1928, op. cit., p. 60. 74. P. Spriano, Storia del PCI, op. cit., p. 285.

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personale, di cui le masse ignorerebbero o non comprenderebbero la esistenza e le posizioni e che sarebbe condannata presto o tardi ad andare dispersa. (...) Noi abbiamo commesso l’errore di non prendere prima una posizione di polemica aperta con l’Internazionale di fronte a tutto il Partito e alle masse operaie. Nessun espediente organizzativo [organizzarsi in frazione] è capace di metterci di fronte al Partito e alle masse, in una posizione corretta, se non si viene ad una simile polemica aperta75.

La reazione di Bordiga dal carcere di Regina Coeli alle decisioni dell’Internazionale fu, come sempre, intransigente. Rifiutò la carica di membro del Presidium dell’Internazionale propostagli da Zinov’ev, si dimise dal CC del Partito, invitò Scoccimarro, Togliatti e Fortichiari a fare altrettanto e li sollecitò a condurre fino alle estreme conseguenze lo scontro contro la “deriva degenerativa” dell’Internazionale. L’unico a seguire fino in fondo Bordiga fu Fortichiari. Togliatti scrisse il 16 luglio una lettera indirizzata a Gramsci e a Scoccimarro, nella quale ripropose molte delle argomentazioni di Bordiga confermando la sua indecisione: Quanto al merito delle deliberazioni prese dal Comitato Esecutivo Allargato [dell’Internazionale] desidero che voi sappiate che io non ho ancora deciso se accetterò di far parte del nuovo organismo dirigente del Partito oppure No. Per ora sono più propenso al rifiuto che alla accettazione, anche a costo di incorrere in una mancanza disciplinare76.

Ben diversa la posizione espressa da Gramsci, Scoccimarro e Montagnana, che ritenevano prioritario non lasciare campo libero a Tasca, rifiutando l’incarico nell’Esecutivo, anche se con motivazioni differenti: Montagnana fu il primo a rimarcare e rivendicare le differenze profonde tra le tradizioni del gruppo ordinovista e quelle astensioniste; Scoccimarro confidava ancora di poter, magari in un secondo momento, ricomporre la vecchia maggioranza di Livorno e Roma; Gramsci era il più risoluto nel voler rompere con Bordiga e con la sua cultura politica, mentre ancora l’Internazionale cercava di recuperare l’ex capo del comunismo italiano al lavoro con un incarico di prestigio e la vecchia maggioranza del PCd’I ne subiva tuttora fortemente 75. Tratto dal verbale della riunione di frazione del 12 luglio 1923, in La formazione del gruppo dirigente del PCI, op. cit., p. 89. 76. P. Togliatti, “Lettera a Scoccimarro e Gramsci del 16 luglio 1923”, in La formazione del gruppo dirigente del PCI, op. cit., pp. 91-97.

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l’influenza. In questa fase Gramsci, a differenza di tutti i suoi vecchi compagni, raggiunse un punto di non ritorno nel rapporto con Bordiga. La replica di Gramsci a Togliatti ebbe così dei toni particolarmente duri: La tua lettera mi ha profondamente impressionato e addolorato: ora capisco meglio come si sia potuta creare la situazione paradossale che ci delizia, di una minoranza che non esiste obbiettivamente, che è stata creata dai nostri errori e dalla nostra passività e che avrà, se il tuo punto di vista si attua, la direzione del Partito, e di una maggioranza che non si sa esattamente cosa sia, se abbia un programma, se sia degna di stare al suo posto nel momento terribile che il proletariato italiano attraversa. Scusa le parole dure: ma ti confesso riuscirmi assolutamente incomprensibile che dei rivoluzionari che siano convinti del loro programma, abbandonino il loro posto, che oggi, data la situazione generale, è una barricata da difendere e non solo dai nemici che stanno di fronte77.

Quando nell’agosto Terracini partì per Mosca, per diventare il nuovo rappresentante italiano nel Presidium dell’IC, il nucleo operativo del Partito scampato agli arresti chiese formalmente l’avvicinamento di Gramsci per metterlo a capo del lavoro di ricostruzione dell’organizzazione. Come è noto Gramsci non poteva ancora rientrare in Italia, perché pendeva su lui un mandato di cattura; venne pertanto inviato dal Comitato esecutivo del Comintern a Vienna per dirigere l’Ufficio di collegamento tra il PCd’I e gli altri partiti comunisti. Vi rimase per sei mesi, a partire dal 3 dicembre 1923, svolgendo nuovamente il suo lavoro giornalistico, curare e redigere la riedizione de L’Ordine Nuovo, intessendo una fitta trama di contatti finalizzati al ridimensionamento di Bordiga. Come vedremo in seguito, la terza edizione de L’Ordine Nuovo, curata da Gramsci in ogni suo aspetto, si rivelerà decisiva per la costituzione, nella primavera del 1924, del gruppo di centro, destinato a gestire la transizione verso il Congresso di Lione. La linea di Bordiga era oramai incompatibile con quella del Comintern, rispetto alla quale l’Esecutivo si preparava a dare battaglia. Per contrastarla con maggior efficacia, la direzione dell’Internazionale nel settembre del ’23 approvò la proposta di creare un “quotidiano operaio” in grado di dare corpo all’obbiettivo strategico dell’unità delle classi subalterne italiane, le masse

77. Il passaggio di questa lettera di Gramsci a Togliatti dell’agosto 1923 fu pubblicato da Rinascita nel 1966, ed è riportato nel Primo volume della Storia del PCI di Spriano, dal quale è tratto, a p. 290.

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operaie del Nord e quelle rurali del Mezzogiorno. Proprio per questa ragione, in una lettera all’esecutivo del PCd’I del 12 settembre 1923 Gramsci propose come titolo l’Unità: Io propongo come titolo «l’Unità» puro e semplice, che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’Esecutivo allargato sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non solo come un problema di rapporto di classe, ma anche specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale78.

In questa lettera Gramsci propose non solo il nome, ma anche funzione e linea editoriale del quotidiano. Dato il contesto, segnato dall’avvento del Fascismo al potere, era necessario un giornale in grado di resistere legalmente il più a lungo possibile. Nell’intento di Gramsci non doveva trattarsi di un organo di Partito, ma garantire a esso una “tribuna legale”, cioè il raggiungimento, continuo e sistematico, delle più larghe masse: Non solo quindi il giornale non dovrà avere alcuna indicazione di Partito, ma esso dovrà essere redatto in modo che la sua dipendenza di fatto dal nostro Partito non appaia troppo chiaramente. Dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma e alla tattica della lotta di classe, che pubblicherà gli atti e le discussioni del nostro Partito, come farà possibilmente anche per gli atti e le discussioni degli anarchici, dei repubblicani, dei sindacalisti e dirà il suo giudizio con un tono disinteressato, come se avesse una posizione superiore alla lotta e si ponesse da un punto di vista «scientifico»79.

A cavallo tra il 1923 e il 1924, si riacutizzò intanto il contrasto tra Gramsci e i vecchi compagni del gruppo torinese per l’uscita del Manifesto di Bordiga, già annunciato nella primavera e ora sottoposto all’adesione di tutta la vecchia maggioranza. Il manifesto, oggetto di due redazioni successive proprio per ottenere il consenso di Gramsci, venne sottoscritto da Togliatti, Terracini e Scoccimarro.

78. A. Gramsci, “Lettera all’Esecutivo del PCd’I, 12 settembre 1923”, in G. Fiori, Antonio Gramsci, vita attraverso le lettere, Einaudi, 1994, p. 46. 79. Ivi, p. 45.

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Nel Manifesto il dissenso del Partito italiano verso il Comintern era ancora più frontale e netto. Oltre alla svolta tattica, si contestava una più profonda revisione strategica ritenuta in contraddizione con il programma e le norme organizzative fondamentali dei partiti comunisti, un tradimento teorico tanto grave da mettere in discussione la costituzione e la natura stessa del Partito in Italia. Il dissenso con il Comintern si era palesato al III Congresso, anche se (tuttavia), rispetto alla linea politica italiana, la frattura aveva tardato a esplicitarsi. Quando però il significato delle parole d’ordine “fronte unico” e “governo operaio” era venuto chiarendosi, fino a prospettare addirittura l’ipotesi della fusione con gli odiati socialisti massimalisti, Bordiga decise di aprire il fronte dello scontro con l’Internazionale anche in Italia. Il movimento comunista internazionale si trovava di fronte a un quadro di profonda crisi, dominato dal “pericolo opportunista”, e questo lo legittimava ad avanzare una piattaforma critica di opposizione alla linea del Comintern chiamando a raccolta i quadri italiani. Per Bordiga non c’erano più margini di discussione, la vecchia maggioranza del Partito italiano avrebbe dovuto rifiutare qualsiasi incarico nell’Internazionale denunciando la “revisione di destra” introdotta dalla svolta del “fronte unico”. Gramsci, oramai pienamente convinto della necessità di un nuovo corso nel Partito, si rifiutò di firmare il Manifesto dichiarandosi pronto a condurre anche da solo la sua battaglia contro Bordiga e quanti lo avessero sostenuto. Il 25 dicembre 1923 Scoccimarro scrisse a Gramsci per presentargli il manifesto, prospettandogli la possibilità di ricostituire attorno a quella battaglia la vecchia maggioranza. Nelle lettere successive, Togliatti e Terracini la necessità di sottoscrivere il Manifesto. Togliatti, in particolare, pur criticando la natura “storica” e “sterile” del manifesto, perché totalmente ripiegato sulle questioni passate, riteneva comunque il documento una base di chiarificazione indispensabile per la ripresa del lavoro. Terracini, che aveva tentato una mediazione proponendo una modifica del Manifesto, non nascose tutto il suo risentimento per la totale indisponibilità di Gramsci. La decisione di Masci [Gramsci] di non firmare il manifesto comune viene a colpire alla base l’azione che avevamo decisa ed iniziata col faticoso raggiungimento di un accordo con Amadeo. Infatti la ragione essenziale che ci aveva mossi era quella di conservare i legami che hanno finora accomunati i compagni della maggioranza,

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perché avevamo stimato bisogno pregiudiziale ad ogni altra cosa la conservazione dell’unità. Le eccezioni che Masci aveva fievolmente avanzate fin dall’epoca dell’EA non vertevano sulla necessità del documento comune, ma sebbene sulla sostanza. Egli accettava cioè il criterio della conservazione dell’unità nostra, seppure riservandosi di dare ad essa un cemento particolare. Dobbiamo constatare che egli ha atteso ad intervenire attivamente nella questione proprio all’ultimo momento, dopo che da oltre due mesi questo era a sua conoscenza, dopo che, parlando anche personalmente con me, egli non aveva neppure lontanamente affacciato la possibilità di un tale estremo suo comportamento80.

Preso atto del fallito tentativo di mediazione, Terracini propose a Togliatti e Scoccimarro di procedere autonomamente da Gramsci, sottoscrivendo comunque il documento proposto da Bordiga. «Non dobbiamo infatti nasconderci che Negri, palmi ed io ecc., abbiamo in questo caso come in tutta la vita passata del Partito, costituito il ponte fra Amadeo e Masci; se manca una riva chiedo io a che serva il ponte»81. Gramsci replicò con due lettere: la prima del 5 gennaio, indirizzata a Scoccimarro, la seconda, scritta, il 13 dello stesso mese, a Terracini. Nella prima lettera, forse la più importante tra quelle di questo periodo, spiegò in maniera dettagliata per quali ragioni non avrebbe mai firmato quel Manifesto, e perché ritenesse oramai impossibile ogni compromesso con Bordiga. Le critiche al documento erano di forma e sostanza: per il Manifesto la storia si concludeva con il III Congresso, come se il IV Congresso non fosse esistito, come se l’Esecutivo Allargato dell’IC non si fosse riunito, come se non fosse stato insediato un nuovo Esecutivo nel Partito. Una simile posizione avrebbe potuto apparire plausibile se espressa da un singolo compagno, ma risultava totalmente priva di logica se promossa da una frazione che aveva amministrato e amministrava il Partito proprio a partire dal III Congresso. Rispetto alla forma Gramsci contestò l’indisciplina totale del gruppo dirigente italiano, reo, in ogni occasione formale, di fare pubblica professione di adesione ai principi del centralismo democratico salvo poi disattendere e contestare nel lavoro concreto tutti i deliberati dell’Internazionale. Gramsci ricordò ai compagni l’esistenza dell’articolo dello Statuto del Comintern, approva-

80. “Lettera di Umberto Terracini a Gramsci e Scoccimarro del 2 gennaio 1924”, in La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano, op. cit., pp. 144-147. 81. Ibid.

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to e sostenuto da tutti, che imponeva l’applicazione rigorosa dei deliberati dell’Esecutivo da parte dei partiti aderenti: alla stregua della concezione di Partito che deriva dal manifesto la esclusione [dal Comintern] dovrebbe essere tassativa. Se una nostra federazione facesse solo la metà di ciò che la maggioranza del Partito vuol fare verso il Comintern, il suo scioglimento sarebbe immediato. Non voglio firmando il manifesto apparire un completo pagliaccio82.

Gramsci contestò il Manifesto anche nella sostanza prendendone nettamente le distanze utilizzando argomentazioni che anticipano i temi caratteristici della successiva lotta contro la sinistra di Bordiga: Ho un’altra concezione del partito, della sua funzione, dei rapporti che devono stabilirsi fra esso e le masse senza partito, fra esso e la popolazione in generale. Non credo assolutamente che la tattica che si è sviluppata attraverso gli Esecutivi allargati e il IV Congresso sia sbagliata. Né per l’impostazione generale né per dettagli rilevanti. Così credo sia anche per te e Palmi e non posso comprendere perciò come voi, a cuore così leggero, vi imbarchiate in una galera così pericolosa. Mi pare che voi vi troviate nello stesso stato d’animo in cui io mi sono trovato nel periodo del Congresso di Roma. Forse perché nel frattempo sono stato lontano dal lavoro interno di partito, questo stato d’animo è svanito; in realtà esso è svanito anche per altre ragioni. E una delle più importanti è questa: non si può assolutamente fare dei compromessi con Amadeo. Egli è una personalità troppo vigorosa ed ha una così profonda persuasione di essere nel vero, che pensare di irretirlo con un compromesso è assurdo. Egli continuerà a lottare e ad ogni occasione ripresenterà sempre intatte le sue tesi83.

La lotta sui due fronti era oramai un’esigenza fondamentale, non rinviabile, e nuovamente Gramsci si dichiarò disposto a condurla anche in solitudine. Per persuadere meglio i suoi vecchi compagni e far capire quanto la sua

82. Nella Lettera a Scoccimarro del 5 gennaio 1924, per avvalorare le sua tesi sull’inopportunità della rottura con il Comintern e del lasciare a Tasca il titolo di rappresentante dell’Internazionale, Gramsci mosse al Partito l’accusa di essere ben poca cosa nella considerazione dei militanti per la sua pochezza effettiva, mentre ben diversa era nell’immaginario di questi la forza e il prestigio dell’Internazionale: «In realtà io mi sono persuaso che la forza maggiore che tiene insieme la compagine del Partito è il prestigio e l’idealità dell’Internazionale, non già il legame che l’azione specifica del Partito sia riuscita a suscitare e abbiamo creato una minoranza proprio su questo terreno. E lasciato che sia la minoranza a fregiarsi della qualifica di vera rappresentante dell’Internazionale in Italia». In La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano, op. cit., p. 151. 83. Ivi, p. 150.

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posizione non fosse pregiudiziale, ma solo dettata dalle esigenze oggettive, ricordò un episodio del passato, quando, nel 1920, si era staccato da Terracini e Togliatti per avvicinarsi alle posizioni degli astensionisti mentre i due raggiunsero l’accordo con Tasca. Oggi sembra che avvenga il contrario. Ma in realtà la situazione non è molto diversa e come allora nell’interno del partito socialista bisognava appoggiarsi agli astensionisti, se si voleva creare il nucleo fondamentale del futuro partito, così oggi bisogna lottare contro gli estremisti se si vuole che il partito si sviluppi e che finisca di essere niente altro che una frazione esterna del partito socialista. Infatti i due estremismi, quello di destra e quello di sinistra, avendo incapsulato il partito nell’unica e sola discussione dei rapporti col partito socialista, lo hanno ridotto a un ruolo secondario84.

Emerge chiaramente come Gramsci avesse fatto proprio il tema leninista della battaglia sui due fronti (contro l’opportunismo e contro il settarismo), condotta dal dirigente bolscevico nel corso della sua intera esistenza. Proprio nel vivo di questa durissima polemica, nella notte tra il 21 e il 22 gennaio del 1924, giunse la notizia della morte di Lenin, mentre ormai era ampiamente in corso la lotta senza esclusioni di colpi per la sua successione. Tra le lettere di questo periodo di Gramsci ad Alfonso Leonetti quella del 28 gennaio risulta particolarmente importante. Leonetti, molto legato ad Antonio Gramsci non solo politicamente, ma anche umanamente, gli scrisse otto giorni prima riconoscendosi pienamente nelle sue posizioni. Anche per Leonetti il Manifesto esprimeva posizioni errate e inaccettabili; egli avanzò la proposta di costruire un nuovo gruppo legato all’esperienza ordinovista, in grado di rappresentare la linea dell’Internazionale e di combattere tanto le posizioni di destra di Tasca, quanto il settarismo di Bordiga. Tuttavia, secondo Gramsci, insistere troppo sulla tradizione torinese avrebbe semplicemente rinfocolato vecchie polemiche di tipo personalistico, portando al nuovo gruppo più problemi che consensi, e del resto anche le posizioni di alcuni personaggi come Togliatti o Terracini rispetto al Manifesto rendevano comunque non praticabile un’ipotesi di quel tipo: Togliatti non sa decidersi com’era un po’ sempre nelle sue abitudini; la personalità vigorosa di Amadeo lo ha fortemente colpito e lo trattiene a mezza via in

84. Ibid.

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una indecisione che cerca giustificazioni in cavilli puramente giuridici. Umberto credo sia fondamentalmente anche più estremista di Amadeo, perché ne ha sorbito la concezione, ma non ne possiede la forza intellettuale, il senso pratico e la capacità organizzativa. In che cosa dunque potrebbe rivivere il nostro gruppo? Sembrerebbe nient’altro che una cricca raccoltasi intorno alla mia persona per ragioni burocratiche85.

Il problema vero attorno al quale bisognava sviluppare la battaglia era l’idea di partito, la sua funzione, il suo rapporto con le masse. Temi costantemente presenti nella biografia politica di Antonio Gramsci, secondo un modulo sviluppatosi nel tempo in un continuo divenire: Le stesse idee fondamentali che hanno caratterizzato l’attività dell’ON sono oggi o sarebbero anacronistiche. Apparentemente, almeno oggi, le questioni assumono la forma di problemi di organizzazione e soprattutto di organizzazione di partito. Apparentemente, dico, perché di fatto il problema è sempre lo stesso: quello dei rapporti fra il centro dirigente e la massa del Partito e fra il partito e le classi della popolazione lavoratrice86.

Nel fitto carteggio di questo periodo, va sicuramente presa in considerazione la lettera del 9 febbraio indirizzata a Togliatti e Terracini nella quale Gramsci chiarisce tutti i punti della sua posizione, esponendola per la prima volta in maniera organica e articolata. Dal punto di vista politico, questa lettera assume un’importanza capitale nell’opera di convincimento intrapresa da Gramsci verso Terracini e Togliatti. L’accettazione del Manifesto avrebbe significato la fuoriuscita dal Comintern poiché, negli intenti di Bordiga, esso era l’inizio di una battaglia frontale all’Internazionale finalizzata alla revisione tattica sviluppata a partire dal III Congresso di cui, al contrario, andavano rivendicati integralmente gli assunti. Contrariamente a quanto affermato nel Manifesto, per Gramsci, quella linea non rappresentava affatto la tradizione dell’organizzazione, ma era espressione della tradizione e della concezione di un suo solo gruppo, quello di Bordiga. Il PCd’I era nato a Livorno non in conformità a una concezione comune che poi ha continuato a persistere, ma in base ad un

85. A. Gramsci, “Lettera ad Alfonso Leonetti del 28 gennaio 1924”, in La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano, op. cit., p. 183. 86. Ibid.

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dato contingente: l’esigenza della lotta ai riformisti e l’accettazione dei ventuno punti stabiliti dal II Congresso dell’IC. Bordiga, trovandosi alla testa del Partito, specie con le Tesi di Roma, aveva cercato di far diventare predominante la sua concezione. Rispetto a questo tentativo, Gramsci aveva rivendicato la sua opposizione, manifestata sin dal Congresso federale di Torino. In tutte le occasioni nelle quali il PCd’I avrebbe dovuto sviluppare un’intensa attività tra le masse, con un serio lavoro di agitazione e propaganda, in tutte le occasioni nelle quali l’organizzazione avrebbe dovuto orientare le masse, l’organizzazione aveva dimostrato tutta la sua incapacità e lontananza da esse, era il lapidario giudizio di Gramsci: Ogni avvenimento, ogni ricorrenza di carattere locale o nazionale o mondiale avrebbe dovuto servire per agitare le masse attraverso le cellule comuniste, facendo votare mozioni, diffondendo manifestini (…). Il partito comunista è stato perfino contrario alla formazione delle cellule di fabbrica. Ogni partecipazione delle masse all’attività e alla vita interna del partito che non fosse quella delle grandi occasioni e in seguito ad un ordine formale dal centro, era vista come un pericolo per l’unità e per l’accentramento. Non si è concepito il partito come il risultato di un processo dialettico in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come un qualche cosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse raggiungeranno quando la situazione sia propizia e la cresta dell’onda rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quando il centro del partito ritenga di dover iniziare una offensiva e si abbassi alla massa per stimolarla e portarla all’azione87.

Per Gramsci, Bordiga conduceva con molta sagacia e coerenza una battaglia per la conquista non solo del centro del PCd’I, ma anche della direzione dell’Internazionale, considerando la sua tattica errata perché riflesso della situazione russa, nata cioè nell’ambito di un modo di produzione arretrato e primitivo. Con la vittoria di una rivoluzione in Occidente, era la convinzione del leader della sinistra, i rapporti di forza sarebbero mutati ponendo fine al primato del Partito russo. Secondo Bordiga, in Russia solo con un estremo sforzo di volontà si poteva ottenere un’attività rivoluzio-

87. A. Gramsci, “Lettera a Terracini e Togliatti del 9 febbraio 1924”, in La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano, op. cit., p. 195.

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naria vittoriosa in assenza di rapporti di produzione e sociali sviluppati in senso capitalistico, mentre in Occidente la rivoluzione si sarebbe affermata semplicemente accompagnandola e salvaguardando la purezza ideologica del Partito, perché nei Paesi occidentali il «meccanismo storico funziona secondo tutti i crismi marxistici» ed esistono le condizioni oggettive che rendono inutile o superflua quella tattica. Al di là del dissenso, la risposta di Gramsci è di particolare rilievo perché contiene alcune già gli elementi essenziali delle sue future elaborazioni sulla differenza di contesto tra Oriente e Occidente, società civile ed egemonia. La concezione politica dei comunisti russi si è formata su un terreno internazionale e non su quello nazionale; (…) nell’Europa centrale ed occidentale lo sviluppo del capitalismo ha determinato non solo la formazione di larghi strati popolari, ma anche e perciò creato lo strato superiore, l’aristocrazia operaia con i suoi annessi di burocrazia sindacale e di gruppi socialdemocratici. La determinazione, che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all’assalto rivoluzionario, nell’Europa centrale ed occidentale si complica per tutte queste superstrutture politiche, create dal più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e più prudente l’azione della massa e domanda quindi al partito rivoluzionario una strategia e una tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il marzo ed il novembre del 1917. Ma che Amadeo abbia questa concezione e cerchi di farla trionfare non solo su scala nazionale, ma anche su scala internazionale, è una cosa (...) ma che noi, che non siamo persuasi dalla storicità di questa concezione, continuiamo politicamente ad affiancarla e a darle quindi tutto il suo valore internazionale è un’altra cosa. Amadeo si pone dal punto di vista di una minoranza internazionale. Noi dobbiamo porci dal punto di vista di una maggioranza nazionale88.

A conclusione di questa intensa dialettica, tra febbraio e marzo, Gramsci riuscì a vincere la sua battaglia, riportando i vecchi compagni sulle sue posizioni. Sull’esito positivo del processo influì l’uscita della nuova serie de L’Ordine Nuovo, avviata il primo marzo del ’24. Nel progetto editoriale egli coinvolse l’insieme del gruppo dirigente del PCd’I, compresi Tasca e Bordiga, ma soprattutto rinsaldò quei legami essenziali alla costituzione di una nuova maggioranza. Intanto nelle elezioni politiche del 6 di aprile,

88. Ivi, p. 197.

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Gramsci venne eletto deputato in un collegio veneto così, grazie all’immunità parlamentare, riuscì finalmente a lasciare Vienna e a rientrare in Italia il 12 maggio. 4. Gramsci alla guida del Partito Il Comitato centrale del 18 di aprile è la prima riunione nella quale l’area del “nuovo corso” si presentò unita ottenendo la maggioranza. Il dibattito fu assai limitato, eccezion fatta per un efficace intervento di Angelo Tasca, durissimo sulla gestione del Partito dal 1921 al ’24 e risoluto nell’accusare il nuovo gruppo capeggiato da Gramsci di insincerità, doppiezza e trasformismo. Per Tasca la conversione dei centristi non era convinta e nascondeva semplicemente l’intenzione di incorporare una parte della sinistra su posizioni più ortodosse, in modo da condurre meglio la lotta contro la destra, l’unica componente, a suo dire, lealmente e coscientemente allineata con l’Internazionale. In questa riunione furono presentate tre mozioni distinte rappresentative delle tre aree in via di configurazione nel Partito. La mozione della maggioranza era strutturata in sette punti con diversi limiti d’impostazione, tendeva in maniera omissiva a giustificare il passato, si mostrava possibilista verso l’ipotesi di coinvolgere nuovamente la sinistra, mentre opponeva una barriera invalicabile verso la minoranza di destra. Si trattava chiaramente di una manovra finalizzata a erodere il consenso di Bordiga; non a caso, nel primo punto, era rivendicata la continuità del gruppo dirigente formatosi a Livorno e nel complesso ancora si indugiava a condurre una seria polemica con la sinistra. Tutto questo contraddiceva il (rivendicato) processo di revisione avviato al IV Congresso dell’Internazionale e il pieno recepimento della sua linea. Pur senza muovere critiche nel merito, era affermata la funzione di mero indirizzo e valore consultivo delle Tesi di Roma sulla tattica, votate per evitare una spaccatura traumatica nella direzione e nel corpo del PCd’I. La diversa valutazione su queste Tesi era forse la sola, sostanziale, divergenza con la sinistra. Per queste ragioni la mozione di maggioranza guidata da Gramsci risultava nel complesso contraddittoria e priva di una forza propulsiva, non portava luce sugli errori e le responsabilità del passato e contemporaneamente non chiariva a sufficienza quali avrebbero dovuto essere le linee portanti della nuova proposta politica. Risentiva ancora fortemente dei legami di una

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parte del nuovo gruppo dirigente con Bordiga e Gramsci non intervenne più di tanto a mutarne l’indirizzo, pur non condividendone alcuni assunti89. La mozione della sinistra, scritta personalmente da Bordiga, appariva dotata di maggior logica e oltre a rivendicare con forza tutta la linea da Livorno all’agosto 1922, riaffermava pienamente i principi formulati nelle Tesi sulla tattica del Congresso di Roma, respingendo in pieno le posizioni affermatesi al IV Congresso dell’IC. Questo documento chiariva in modo definitivo i reali intenti di Bordiga, interessato a costituire un’opposizione di sinistra all’interno dell’Internazionale. Solo nel caso in cui questa linea avesse prevalso negli organismi dirigenti del Comintern, gli esponenti della sinistra si dicevano disponibili ad accettare incarichi di responsabilità in esso e nel Partito. Dopo la riunione di aprile, nel maggio del 1924, si tenne la Conferenza nazionale di Como – in sostanza un Comitato centrale allargato ai segretari di federazione e al rappresentante della federazione giovanile con carattere consultivo sulla linea politica del Partito – in vista del Congresso nazionale programmato dopo lo svolgimento del V Congresso dell’IC. La conferenza si svolse tra le vallette circostanti il centro lombardo in piena clandestinità; i delegati, lo racconta lo stesso Gramsci a Julca Schucht in una lettera del 21 luglio, finsero di essere impiegati di un’azienda milanese: «Tutto il giorno discussioni sulle tendenze, sulla tattica e durante il pasto alla casa di rifugio piena di gitanti, discorsi fascisti, inni a Mussolini, commedia generale per non destare sospetti e non essere disturbati nelle riunioni tenute in bellissime vallette bianche di narcisi»90. Alla Conferenza parteciparono 67 delegati: 11 del CC, 46 delle federazioni, 5 dei comitati interregionali, 4 rappresentanti del personale tecnico, più il responsabile della Federazione giovanile. L’incontro fu preceduto dalla pubblicazione su Lo Stato Operaio dei tre schemi di Tesi delineatisi nel Comitato centrale di aprile; tuttavia, se in quell’occasione il gruppo di centro era riuscito ad ottenere la maggioran-

89. Proprio queste ambiguità portano la minoranza a chiedere un supplemento di discussione e di analisi sulla direzione politica del Partito tra il 1921 e il 1924, in modo da poter individuare le responsabilità dell’“artificiale” contrasto con l’Internazionale e più in generale dello stato di disagio e disarmo dell’organizzazione. Per il documento presentato da Tasca, infatti, la responsabilità era interamente attribuibile a chi aveva diretto il Partito dal 1921 e non si potevano dunque fare sconti neanche a quella parte della maggioranza ora critica verso le Tesi di Roma, ma che, di fatto, aveva condotto e conduceva il Partito in base ad esse. 90. A. Gramsci, “Lettera a Julca Schucht, 21 luglio 1924”, in A. Gramsci, vita attraverso le lettere, op. cit., p. 84.

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za, in questa circostanza si trovò a essere minoritario, raccogliendo anche meno voti della minoranza di destra. Su questo risultato influirono due fattori concomitanti: il nuovo gruppo dirigente non era ancora riuscito a dare articolazione alla nuova linea nei territori; i segretari di federazione erano tutti quadri formatisi secondo i principi politico-organizzativi di Bordiga, che continuavano a vedere in questi la guida effettiva del Partito. Il documento della maggioranza presentato a Como era strutturato su 57 punti nei quali veniva rivendicata la svolta del “fronte unico” e la necessaria disciplina dovuta a un partito unico mondiale, non una federazione di partiti autonomi. La tattica del “fronte unico” non era una revisione rispetto al processo fondativo di partiti comunisti autonomi dalle compagini socialiste. La parola d’ordine del “governo operaio” non significava l’abbandono della via rivoluzionaria e l’adozione di quella parlamentare e governativa in regime borghese. Il “governo operaio” era solo una possibilità le cui ragioni tattiche andavano ricercate nella difficile situazione mondiale dei comunisti, determinatasi a seguito del fallimento delle rivoluzioni nei Paesi occidentali. Rispetto al Partito italiano si riaffermava in pieno il valore della scissione di Livorno, nonostante i limiti – in un contesto forzoso oggettivamente difficile – palesati nel funzionamento dell’organizzazione: il profondo fossato tra gruppi dirigenti del Partito e l’insieme delle masse, la concezione militaresca e settaria del Partito. La mancanza quindi di un diffuso spirito critico anche negli elementi più qualificati del Partito, il prevalente carattere militare dato alla nostra organizzazione interna, a scapito spesso della sua capacità di operare come strumento di lavoro tra le masse, e da ultimo il preteso settarismo di cui si è fatto rimprovero, e che non fu altro che una esasperata reazione alle abitudini di leggerezza e di corruzione prevalse nel costume politico del PSI e degli organismi proletari italiani91.

Nel documento erano formalizzate politicamente le critiche, espresse da Gramsci nella corrispondenza con i suoi compagni, alle Tesi di Roma: «avevano la tendenza a concepire lo sviluppo del partito indipendentemente dallo sviluppo delle situazioni reali e degli spostamenti che, sotto l’impulso di esse, 91. “Schema di Tesi sulla tattica e sulla situazione interna del PCI, presentato dalla maggioranza alla Conferenza nazionale di Como”, in Da Gramsci a Berlinguer, la via italiana al socialismo attraverso i Congressi del PCI, op. cit., p. 177.

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vengono compiuti dalla massa lavoratrice»92. In ciò andavano ricercate le cause del distacco sempre più evidente tra partito e massa popolare. Un’idea di partito da rimuovere, se si intendeva procedere alla conquista della maggioranza delle masse degli sfruttati secondo le indicazioni del III e IV Congresso del Comintern. Come nella riunione del Comitato centrale, la minoranza guidata da Tasca mise sotto accusa l’intero gruppo dirigente del PCd’I sin dalla sua costituzione. La scissione di Livorno aveva prodotto scarse ripercussioni tra le masse lavoratrici poiché il solo punto d’intesa alla sua base, tra le due principali componenti dirigenti del Partito, fu la “coscienza generica” della necessità di separarsi dai riformisti per fondare “un vero partito rivoluzionario”. Nessuno dei profondi elementi di differenza tra i due gruppi era mai stato affrontato, così il PCd’I si era trovato a nascere solo sulla meccanica accettazione dei 21 punti di adesione all’Internazionale, senza però un minimo chiarimento rispetto alle esperienze del 1919-20 e alla tattica da seguire. La scissione avvenne troppo a sinistra, lasciando all’interno del vecchio PSI un considerevole numero di “proletari sinceramente terzinternazionalisti”, impedendo al Partito comunista di divenire la guida effettiva delle classi subalterne in Italia. Successivamente, il gruppo dirigente aveva seguito una linea di sistematica indisciplina verso i deliberati dell’Internazionale rispetto ai rapporti con il PSI e la “conquista della maggioranza degli sfruttati”. Ciò nonostante, per ben due anni, questo gruppo dirigente aveva taciuto al corpo militante il dissenso con l’Internazionale, tanto da evitare la pubblicazione sulla stampa di Partito l’intervento polemico di Lenin al III Congresso e da impedire agli oratori del Partito di fare riferimento nei loro interventi alla tattica del “fronte unico”. Nuovamente, per Tasca, Gramsci e il gruppo di “centro” erano coimputati di Bordiga. L’idea di partito delle Tesi di Roma, l’organizzazione intesa come avanguardia esterna alla classe, non aveva niente a che fare con le indicazioni di Lenin e dell’Internazionale: Se si concepisce il partito come un organo della classe operaia (della sua parte più avanzata) e non come una parte della classe v’è tra i due elementi una differenza di natura, laddove invece abbiamo perfetta identità. L’organicità del partito è quella della parte di classe operaia che lo costituisce (in quanto tale); nella formulazione

92. Ibid.

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citata abbiamo l’organo, la parte più avanzata della classe proletaria e il rimanente proletariato: il processo resta così interrotto in modo insanabile, e nessuna ricostruzione potrà ridare la continuità naturale ed organica tra partito e massa che è inerente al concetto che noi abbiamo affermato93.

Per il documento della minoranza la conseguenza pratica di una tale concezione era contenuta nelle stesse Tesi di Roma – «non si può esigere che in una data epoca o alla vigilia di intraprendere azioni generali, il Partito debba aver realizzato le condizioni di inquadrare sotto la sua direzione o addirittura nelle proprie file la maggioranza del proletariato»94 – in esse l’indicazione data dal Comintern di creare grandi Partiti di massa non era solo disattesa ma completamente rovesciata. La relazione di Bordiga a Como ripresentava l’impostazione delle Tesi di Roma e quanto affermato nella riunione e del CC di aprile, rivendicando la correttezza della linea del Partito da Livorno all’Esecutivo allargato, e senza portare ulteriori nuovi argomenti a quelli tradizionalmente sostenuti dalla sinistra. Appena un mese dopo la Conferenza di Como, (17 giugno-8 luglio 1924), si tenne il V Congresso dell’Internazionale comunista, un passaggio di notevole importanza perché il nuovo gruppo dirigente capeggiato da Gramsci, oltre a ottenere il riconoscimento ufficiale del Comintern, registrò pure la convergenza di Tasca. Paradossalmente, proprio il Congresso contraddistinto dal più deciso spostamento a sinistra dell’Internazionale, su posizioni per molteplici aspetti simili a quelle della sinistra del PCd’I, portò all’esclusione definitiva dei bordighisti dagli organismi dirigenti del Partito, e all’inizio di una battaglia sempre più serrata contro il frazionismo da parte dell’Internazionale e del Partito italiano. Al Congresso95, il primo senza la guida di Lenin, si determinò un rovesciamento di fronti rispetto alla questione tedesca, attorno alla quale ruo-

93. “Schema di tesi della minoranza alla Conferenza nazionale di Como”, in Da Gramsci a Berlinguer, la via italiana al socialismo attraverso i Congressi del PCI, op. cit., p. 199. 94. Ibid. 95. Gramsci, nonostante tenesse particolarmente partecipare al Congresso, anche per rincontrare dopo sei mesi la sua compagna Julca in stato di gravidanza, fu bloccato a Roma dall’esplodere della crisi Matteotti senza poter raggiungere Mosca.

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tavano i temi tattici dei comunisti occidentali. Il rovesciamento di fronti aveva riportato in auge la sinistra del KPD e posto sul banco degli imputati Karl Radek, contestato in particolar modo da Zinov’ev, il principale protagonista di questa svolta. In un contesto sempre più segnato dagli scontri sempre più duri per la successione a Lenin, questi sembrava assumere un ruolo di maggior rilievo e prestigio rispetto agli altri dirigenti della vecchia guardia. Secondo quanto affermato da Zinov’ev, nelle nuove Tesi sulla tattica dell’Internazionale, la politica mondiale della borghesia stava attraversando una fase “democratico-pacifista”, destinata a portare i partiti della Seconda Internazionale alla guida dei governi di molti Paesi occidentali, e tutto ciò avrebbe inevitabilmente generato tra le masse popolari molteplici “illusioni” circa la possibilità di riformare il capitalismo. Tuttavia, non era l’avvio di una reale democratizzazione delle società occidentali questa nuova fase per Zinov’ev era solamente il mascheramento di un dominio destinato a manifestarsi in modo sempre più spietato e reazionario a livello internazionale. La conferma veniva dagli esempi concreti. Così, la vittoria delle forze democratiche in Francia e Inghilterra, nazioni guidate da socialisti e laburisti – non aveva frenato in alcun modo la corsa agli armamenti, il saccheggio e lo sfruttamento più feroce dei popoli coloniali e semicoloniali, né aveva influito sulle contraddizioni inter-imperialistiche, semmai sempre più acute. Proprio su questo versante l’antagonismo crescente tra Usa e Giappone lasciava trasparire chiaramente un nuovo possibile sbocco di guerra imperialistica planetaria. In questo quadro per Zinov’ev la socialdemocrazia era la punta più avanzata del mascheramento, perché da un lato confondeva le masse parlando di sciopero generale contro la guerra, e dall’altra continuava ad appoggiare gli imperialisti di casa propria contribuendo a isolare l’Unione Sovietica, fino a sostenere i preparativi di invasione militare della Russia. Due tendenze nella politica mondiale della borghesia si contendevano il primato: quella più reazionaria e autoritaria, desiderosa di trovare uno scontro aperto e senza mediazioni con le forze rivoluzionarie; quella democratico-riformista, interessata a migliorare i rapporti di forza a suo vantaggio grazie alla corruzione delle masse operaie ottenuta con la “politica delle piccole concessioni”. La borghesia non era più in grado di governare con i suoi metodi tradizionali, pertanto si serviva alternativamente del Fascismo e della socialdemocrazia.

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In entrambi i casi, per il dirigente bolscevico, lo scopo era lo stesso: mascherare la natura capitalistica del proprio dominio: Già da diversi anni la socialdemocrazia attraversa un processo di metamorfosi; da ala destra del movimento sindacale essa tende a trasformarsi in ala sinistra dello schieramento borghese, talvolta addirittura in ala del Fascismo. Ecco perché è scorretto, sotto il profilo storico, parlare di vittoria del Fascismo sulla socialdemocrazia. Nella misura in cui gli strati dirigenti sono interessati, Fascismo e socialdemocrazia non sono che la mano destra e sinistra del capitalismo moderno (…)96.

Queste affermazioni aprirono la strada a una delle formulazioni più nefaste elaborate nella storia del comunismo per le sorti del movimento operaio mondiale e non solo, il “socialfascismo”, per la quale, in linea generale, non è possibile riscontrare gradazioni di diversità tra partiti democratici, socialdemocratici e partiti fascisti, tra forme autoritarie e forme democratiche di dominio borghese. Amadeo Bordiga può essere considerato un precursore della teoria del socialfascismo e non solo non cambiò mai posizione, nemmeno dopo il disastro del 1933, ma, in seguito, arrivò ad affermare che il peggior frutto del Fascismo era stato proprio l’antifascismo. Nonostante fossero in completa contraddizione con la linea precedente, le Tesi formalmente riaffermarono gli assunti del III e del IV Congresso: la conquista della maggioranza degli sfruttati attraverso la creazione delle cellule di fabbrica, delle frazioni comuniste nei sindacati, di movimenti strutturati sul sistema dei comitati di fabbrica, la valorizzazione strategica della questione contadina e nazionale. Se le Tesi sulla tattica presentate del IV Congresso erano una mediazione tra le due opposte interpretazioni (sinistra e destra) del “fronte unico” e del governo operaio, al V ogni mediazione saltò, con una netta prevalenza delle posizioni sostenute dalla sinistra. Karl Radek fu persino accusato di opportunismo, reo di aver completamente distorto il significato e le prospettive della tattica decise dal Comintern. Secondo Zinov’ev l’idea del “fronte unico” e del governo operaio e contadino non andava interpretata come «una meschina alleanza politica, una coalizione organica di tutti i partiti dei la-

96. Storia dell’Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, tomo II, 1923-1928, op. cit., p. 168.

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voratori, un’alleanza politica dei comunisti con la socialdemocrazia»97, al contrario essa indicava il compito di una lotta senza tregua per “smascherare la socialdemocrazia” di fronte ai lavoratori e limitarne l’influenza. È fin troppo evidente la contraddizione di queste Tesi con quanto approvato nei precedenti due congressi e soprattutto con quanto sostenuto da Lenin nei suoi interventi. Per le Tesi del III e IV Congresso, approvate e sottoscritte da Lenin, il compito di costruire i partiti di massa e realizzare il “fronte unico”, nelle realtà maggiormente aperte a più soluzioni di alleanza, non doveva limitarsi a un mero lavoro di agitazione e propaganda e alla sola idea del “fronte unico da basso”, mentre per le Tesi del V, «la tattica del fronte unico è soltanto un metodo di agitazione e di mobilitazione rivoluzionaria delle masse in un determinato periodo»98. Nel IV Congresso, la parola d’ordine del governo operaio e contadino aveva generato soluzioni intermedie di collaborazione dei comunisti con le forze socialdemocratiche ed anche democratiche. Completamente diverse erano invece le soluzioni offerte al V Congresso: Gli elementi opportunisti in seno al Comintern hanno cercato di distorcere anche questa parola d’ordine interpretandola nel senso di governo all’interno del quadro democratico-borghese e di alleanza politica con la socialdemocrazia. Il Quinto Congresso mondiale del Comintern respinge solennemente quest’interpretazione. Per il Comintern, la parola d’ordine del governo operaio e contadino è la parola d’ordine della dittatura del proletariato (…) altro non è e non può essere se non un metodo d’agitazione e di mobilitazione delle masse per il rovesciamento rivoluzionario della borghesia (…) che può essere realizzato soltanto da un’insurrezione armata del proletariato con il sostegno della parte migliore dei contadini, soltanto dai lavoratori in una guerra civile. (…) Per i comunisti, la parola d’ordine del governo operaio e contadino non può mai essere la tattica delle intese e delle coalizioni parlamentari con la socialdemocrazia. Al contrario: l’attività dei comunisti in parlamento deve essere diretta a smascherare il ruolo controrivoluzionario della socialdemocrazia ed a chiarire alle masse lavoratrici la natura traditrice e il carattere di mistificazione dei cosiddetti laburisti, i quali devono la loro esistenza alla borghesia e sono in effetti governi liberali, borghesi99.

97. Ivi, p. 172. 98. Ibid. 99. Ivi, pp.173-174.

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Zinov’ev non osò sconfessare i deliberati del III e IV Congresso, dietro ai quali c’era l’autorità di Lenin, ma condannò senza riserve le posizioni di Karl Radek riabilitando, invece, le posizioni della sinistra tedesca guidata da Ruth Fisher, contro cui Lenin e Radek condussero una durissima battaglia politica. Una profonda revisione rispetto alla linea precedente, di cui però venne affermata la totale continuità nelle nuove posizioni. Trovarsi in contraddizione con Lenin sarebbe stato troppo rischioso anche per l’astro nascente del Partito russo, Zinov’ev. La pratica della revisione nel rispetto formale della continuità si ripeterà più volte nella storia della III Internazionale, dando luogo a un filone di esegesi politica e alla formazione di intellettuali specializzati la cui funzione principale era praticamente molto simile per certi versi a quella esercitata dagli ‘ulama’ nel diritto positivo islamico: essere garanti, nel passaggio dal principio alla sua applicazione, del rispetto di alcune regole formali fino a legittimare un risultato, anche in contraddizione con il principio da cui si era partiti, e istituzionalizzare alcune procedure destinate a legalizzare l’eventuale discordanza fra teoria e prassi100. Tuttavia, da posizioni opposte, Bordiga e Radek ebbero gioco facile nel mostrare i limiti di questa presunta continuità: il primo rilevò con soddisfazione il mutamento di linea intervenuto, chiedendo ora una severa autocritica da parte del Comintern per i deliberati del III e IV Congresso; il secondo, partendo da una posizione speculare, ripropose con coerenza e logica le Tesi del III e IV Congresso evidenziando la profonda difformità delle nuove Tesi presentate da Zinov’ev. Senza entrare nel dettaglio di un dibattito comunque ricco di spunti interessanti sul piano storico e teorico, il dato politico di maggior rilievo di questo Congresso è il deciso spostamento a sinistra dell’Internazionale, proprio quando la nuova maggioranza del PCd’I cercava di allineare la propria organizzazione alle Tesi del III e IV Congresso. A latere dei lavori venne stabilita una nuova composizione degli organismi dirigenti del Partito italiano, Comitato centrale ed Esecutivo, di cui diventano maggioranza il gruppo di centro e quello di Tasca, nel frattempo pubblicamente allontanatosi dagli esponenti più impresentabili della destra massimalista come Bombacci, futuro fascista, e Graziadei, il revisionista della teoria del valore di Marx.

100. A. Scarcia Amoretti, Il mondo musulmano, Carocci, Roma, 1998, p. 29.

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La sinistra invece, mantenendo la sua netta indisponibilità ad assumere qualsiasi responsabilità negli organismi dirigenti, rimase per la prima volta assente anche dal CC. Nel corso del Congresso Zinov’ev e l’Esecutivo dell’Internazionale cercarono vanamente un dialogo con Bordiga, offrendogli anche la vicepresidenza dell’Internazionale. La fase successiva, fino al Congresso di Lione, è caratterizzata dal consolidarsi della nuova maggioranza attorno a Gramsci, il nuovo Segretario generale del Partito, e dall’intensificarsi dell’attività frazionista e di opposizione da parte di Amadeo Bordiga. 5. La maturazione teorica tra il 1925 e il 1926 Gramsci ha esercitato la sua attività parlamentare proprio nel momento più drammatico di trapasso dal sistema liberale al regime fascista, apertosi con il caso Matteotti e concluso dal sigillo autoritario delle leggi fascistissime, prologo all’arresto dell’intellettuale sardo. La crisi politica legata all’assassinio di Giacomo Matteotti aveva creato attorno al Fascismo una reazione di componenti significative delle classi dirigenti del Paese, sia nei settori del mondo economico e bancario, dai quali era pervenuta la proposta di un governo di ricostruzione nazionale, sia in componenti significative di piccola e media borghesia, principale base sociale del Fascismo. A fronte della crisi, i partiti dell’opposizione costituzionale, su cui si ridestava un certo interesse da parte dell’opinione pubblica101, erano contraddistinti da un’azione “equivoca e insufficiente”102. Queste forze coltivavano la convinzione di poter sconfiggere il Fascismo sul terreno dell’azione parlamentare, ma il governo di Mussolini, nonostante i tentativi di trovare una copertura costituzionale alle sue milizie, era anzitutto una dittatura armata e i partiti aventiniani sottovalutarono dolosamente questo aspetto. Tra i contributi più significativi e rappresentativi della maturazione teorica di Gramsci c’è sicuramente il suo unico intervento in Parlamento, pro-

101. Del clima nuovo nel Paese, di fronte a un regime apparentemente agonizzante, dà conto Gramsci in una lettera a Julka del 26 novembre 1924: «Siamo diventati molto forti: riusciamo a fare comizi pubblici dinnanzi alle officine alla presenza di 4000 operai che acclamavano al Partito e all’Internazionale. I fascisti non incutono più tanta paura; (…) La borghesia è disgregata: non sa più darsi un governo di fiducia: deve aggrapparsi al Fascismo disperatamente; le opposizioni si illanguidiscono e in realtà lavorano solo per ottenere da Mussolini un maggiore rispetto delle forme legali». G. Fiori (a cura di) A. Gramsci. Vita attraverso le lettere, op. cit., pp. 99-100. 102. A. Gramsci, La costruzione del Partito comunista, 1923-1926, Einaudi, Torino, 1978, p. 27.

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nunciato alla Camera dei Deputati il 16 maggio 1925, contro il disegno di legge Mussolini-Rocco su Origini e scopi della Legge sulle associazioni segrete103. Sull’attenzione dei fascisti verso l’intervento di Gramsci ci sono molteplici testimonianze e anche il resoconto scherzoso contenuto nella lettera a Julka del 25 maggio: Su questa legge ho fatto il mio debutto in Parlamento. I fascisti mi hanno fatto un trattamento di favore, quindi, dal punto di vista rivoluzionario, ho incominciato con un insuccesso. Poiché ho la voce bassa, si sono riuniti intorno a me per ascoltarmi e mi hanno lasciato dire quello che volevo, interrompendomi continuamente solo per deviare il filo del discorso, ma senza volontà di sabotaggio. Io mi divertivo nell’ascoltare ciò che essi dicevano, ma non seppi trattenermi dal rispondere e ciò fece il loro gioco, perché mi stancai e non riuscii più a seguire l’impostazione che avevo pensato di dare al mio discorso104.

Nella biografia intellettuale di Gramsci, questo intervento assume un’importanza del tutto particolare per tre ordini di ragioni: perché è una cerniera fondamentale di collegamento tra l’elaborazione pre e post carcerazione sul tema Fascismo/classi dirigenti; perché anticipa molti temi della svolta analitica del Congresso di Lione; infine, perché chiarisce in via definitiva la distanza, non più comprimibile, tra l’impostazione teorico-politica di Gramsci e quella di Bordiga. Nel suo intervento, ripetutamente interrotto dalle intemperanze dei deputati fascisti105, Gramsci esplicitò anzitutto un punto di fondo: il vero obiettivo della legge non era la massoneria, con cui il Fascismo avrebbe trovato un compromesso, ma l’opposizione antifascista. Più in generale, il disegno di legge sulle associazioni segrete rappresentava un chiavistello per sopprimere la libertà associativa, dichiarava la necessità di colpire la massoneria, ma in realtà intendeva manomettere le residue libertà democratiche. Questo disegno di legge rappresentava il primo tentativo organico del Fascismo di affermare la propria “rivoluzione” e di fronte a un simile proposito

103. G. Fresu, Antonio Gramsci, fascismo e classi dirigenti nella Storia d’Italia, contenuto nel numero 21, anno VI, della rivista trimestrale di cultura NAE, Cuec, Cagliari, pp. 33-34. 104. G. Fiori (a cura di) A. Gramsci. Vita attraverso le lettere, op. cit., p. 109. 105. All’obiezione del deputato fascista Rossoni che aveva interrotto il suo intervento affermando che la legge non era contro le organizzazioni, Gramsci lapidario e sarcastico replicò: «Onorevole Rossoni, ella stesso è un comma della legge contro le organizzazioni».

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Gramsci rivendicava ai comunisti106 il merito di aver preso sempre molto sul serio il pericolo fascista, anche quando le altre forze lo sottovalutavano parlando di semplice “psicosi di guerra” e lo giudicavano fenomeno superficiale e transitorio. Già nel novembre 1920 Gramsci ricordava di aver previsto l’andata al potere del movimento di Mussolini, se la classe operaia non si fosse contrapposta in armi alla sua ascesa. La massoneria appariva a Gramsci l’unico vero partito della borghesia italiana dal Risorgimento alla “marcia su Roma”. All’indomani dell’unificazione, la massoneria era stato il principale strumento attraverso il quale questa classe aveva difeso la creazione di uno Stato unitario e liberale dalle minacce dai suoi principali nemici: il Vaticano e il suo braccio armato, i gesuiti con l’organo Civiltà cattolica, dietro cui si concentravano le «vecchie classi semifeudali di tendenza borbonica nel Sud e austriacanti nel Lombardo Veneto». Il Vaticano non aveva mai nascosto l’obiettivo di sabotare lo Stato unitario, ricorrendo all’astensione parlamentare e ostacolando con ogni mezzo la creazione di un ordinamento liberale capace di mettere in discussione o distruggere il vecchio ordine. I gesuiti, già dal 1871, si impegnarono nella creazione di una “armata di riserva rurale» per sbarrare la strada al proletariato urbano, tanto sul terreno rivoluzionario quanto sul piano delle conquiste democratiche. La massoneria era l’organizzazione e insieme l’ideologia ufficiale della borghesia italiana; pertanto, dichiararsi contrari alla sua tradizione significava essere contro la storia politica della borghesia italiana, contro il liberalismo e lo stesso Risorgimento. Quelle stesse classi rurali, rappresentate prima dal Vaticano, ora erano inquadrate prevalentemente nel Fascismo, subentrato ai gesuiti nella loro funzione storica: porre le classi progressive sotto il controllo delle classi più arretrate. Con la crisi indotta dalla guerra la borghesia industriale, incapace di controllare tanto il proletariato urbano, quanto le masse contadine sempre più irrequiete, aveva trovato la sua unica risposta nella parola d’ordine del Fascismo. Questa crisi, che non era un fenomeno puramente italiano, bensì europeo e mondiale, in Italia assumeva una propria fisionomia riconducibile a tre fattori: l’assenza di materie prime, quindi la forte limitazione a uno sviluppo industriale ra-

106. In realtà Gramsci si riferiva più a se stesso, perché Bordiga e il suo Partito non solo sottovalutarono il pericolo fascista, ma lo interpretarono inizialmente in termini di assoluta continuità con la democrazia liberale.

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dicato nel Paese potenzialmente in grado di svilupparsi e assorbire la mano d’opera eccedente; l’assenza di possedimenti coloniali capaci di generare i sovrapprofitti necessari a un’aristocrazia operaia permanentemente alleata alla borghesia; la questione meridionale intesa come questione contadina strettamente legata all’emigrazione di massa. L’imperialismo, precisava Gramsci, si contraddistingue per esportare capitali, l’Italia invece esportava solo mano d’opera, impiegata per la remunerazione dei capitali stranieri, impoverendo il Paese della sua parte più attiva e produttiva. In questo modo «l’Italia è solo stata un mezzo dell’espansione del capitale finanziario non italiano»107. I partiti liberali della borghesia italiana e la massoneria avevano seguito due direttrici corrispondenti a blocchi sociali ben definiti: 1) il giolittismo mirava a un’alleanza con i socialisti per creare un blocco borghesia industriale-aristocrazia operaia e soggiogare tanto le masse contadine del mezzogiorno quanto il proletariato industriale. Ciò si materializza al Nord con la collaborazione parlamentare, la politica dei lavori pubblici, delle cooperative; al Sud con la corruzione dei ceti intellettuali e il dominio della massa tramite i «mazzieri»; 2) Il Corriere della Sera, invece, sosteneva uomini politici meridionali come Salandra, Orlando, Nitti e Amendola, ed era favorevole a un’alleanza tra gli industriali del Nord e la democrazia rurale meridionale sul terreno del libero scambio. Entrambe le soluzioni, seppur affette da distorsioni e contraddizioni interne, tendevano ad allargare la base dello Stato italiano e consolidare le conquiste risorgimentali. Il Fascismo affermava di voler conquistare lo Stato, in realtà proprio quella legge in discussione suggeriva un fine ben più meschino: sostituirsi alla massoneria, sola forza organizzata ed efficiente della borghesia italiana, nell’occupazione dell’apparato amministrativo-istituzionale. Così, quando Mussolini lo interruppe rivendicando il diritto per ogni rivoluzione di sostituire la classe al comando, Gramsci lapidario si limitò a replicare, «è rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. Il Fascismo non si basa su nessuna classe che non fosse già al potere…»108. Il Fascismo aveva assunto con la massoneria la stessa tattica adottata per tutti gli altri partiti della borghesia, ma senza essere riuscito a ottener-

107. A. Gramsci, Opere, La costruzione del Partito comunista, op. cit., p. 78. 108. Ibid.

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ne il completo assorbimento all’interno della propria organizzazione. Aveva cercato anzitutto di infiltrare i propri nuclei, poi aveva utilizzato i metodi terroristici dello squadrismo per piegarne la resistenza, ora interveniva con l’azione legislativa per indurre definitivamente a obbedienza le personalità influenti delle burocrazie statali e dell’alta banca. Con la massoneria il Fascismo avrebbe cercato il compromesso, ma come si fa in genere con un nemico forte: «prima gli si rompono le gambe, poi si fa il compromesso in condizioni di superiorità»109. La massoneria avrebbe aderito al Fascismo costituendone una tendenza. Tuttavia, il Fascismo rappresentava una soluzione non solo regressiva ma anche affetta da una debolezza intrinseca data dall’aver concentrato tutto il suo potere sull’uso della forza. La borghesia italiana quando ha fatto l’unità era una minoranza della popolazione, ma siccome rappresentava gli interessi della maggioranza anche se questa non la seguiva, così ha potuto mantenersi al potere. Voi avete vinto con le armi, ma non avete nessun programma, non rappresentate niente di nuovo e di progressivo110.

Il Fascismo per Gramsci non sarebbe stato capace di risolvere le contraddizioni fondamentali della società italiana, prima tra tutte la questione meridionale, anzi le avrebbe ulteriormente acuite aggiungendo altre polveri a quelle già accumulate dallo sviluppo della società capitalistica. La legge contro la massoneria era propriamente il tentativo di aggirare le contraddizioni fondamentali del modo sociale di produzione italiano cercando un puntello ulteriore al mantenimento del potere attraverso lo Stato di polizia e la repressione sistematica di tutte le libertà. In questo intervento anticipò alcuni dei temi più efficaci delle Tesi di Lione, avanzando l’esigenza di un’analisi meno schematica e grossolana delle classi dirigenti italiane. Per Gramsci era inconcepibile affermare l’assenza di differenze tra un regime democratico e uno fascista, ma lo era altrettanto ritenere che dietro al Fascismo ci fosse un blocco monolitico delle classi dirigenti italiane. Esistevano invece delle grandi contraddizioni che occorreva disvelare se si aveva l’ambizione di favorirne la deflagrazione. Dopo l’ondata di indignazione per l’omicidio Matteotti, e la rivendicazione della responsabilità morale e politica di quell’omicidio da parte di

109. Ibid. 110. Ivi, p. 82.

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Mussolini, l’opposizione aventiniana palesò inefficacia ed inerzia politica. Il gruppo parlamentare comunista espose la sua posizione al Comitato delle opposizioni con una lettera poi pubblicata da l’Unità. Nella situazione politica determinata dalla crisi del Fascismo per l’omicidio Matteotti, l’attività parlamentare non era ritenuta sufficiente, se non come riflesso di un forte movimento di opposizione sociale al Fascismo capace di coinvolgere le grandi masse lavoratrici. Oltre a questo, il gruppo comunista guidato da Gramsci proponeva al “Comitato delle opposizioni” di costituirsi in Assemblea parlamentare antifascista, separata e in contrasto con il Parlamento fascista, eletto a suon di violenze, brogli e prevaricazioni. Nelle intenzioni del gruppo comunista “l’Antiparlamento” avrebbe dovuto allargare e trasformare la portata del delitto Matteotti dal campo giudiziario sul terreno politico e chiamare in causa le grandi masse lavoratrici sia nella rivendicazione di migliori condizioni di vita e lavoro, sia nella resistenza fisica contro le violenze fasciste; quindi lanciare un appello a ex combattenti ed esercito con le parole d’ordine dello sciopero fiscale e la costituzione di comitati di operai e contadini per il rovesciamento del regime fascista. In risposta ai reiterati rifiuti dei gruppi parlamentari delle opposizioni, il gruppo comunista ribadì la sua proposta per un Parlamento antifascista. Isolarsi dalle masse, cercando sponda tra le forze fiancheggiatrici del Fascismo, non avrebbe portato che al rafforzamento del Fascismo e alla completa sconfitta delle opposizioni. Il regime fascista si apprestava a varare il sistema delle leggi fascistissime con le quali avrebbe definitivamente soppresso gli istituti parlamentari, le libertà individuali e collettive, edificando lo Stato totalitario. Nell’articolo Elementi della situazione (l’Unità, 24 novembre 1925)111, Gramsci scrisse che la prevedibile e prevista decomposizione del Comitato costituzionale delle opposizioni aveva dato al Fascismo un nuovo impulso vigoroso. Scampato il pericolo, il regime si orientava ora in due direzioni: in primo luogo, puntando alla unificazione organica, sotto la sua direzione, di tutte le forze della borghesia, in modo tale da concentrare dietro un’unica centrale politica tutti i gruppi conservatori e reazionari. Ciò avvenne attraverso l’assorbimento molecolare dei gruppi fiancheggiatori, o conducendo con sempre maggior asprezza una lotta verso tutti i vecchi gruppi dirigenti

111. Ivi, p. 85.

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non ancora piegatisi. La legge contro la massoneria rispondeva esattamente a questa finalità. Sempre allo scopo di divenire l’unica centrale di direzione della borghesia, sul versante economico, il Fascismo attuava una serie di provvedimenti (ripristino dei dazi doganali, unificazione del sistema bancario, modifiche del codice di commercio) tesi a garantire la supremazia dell’oligarchia industriale-agraria, cui vennero affidate le chiavi dell’intera economia nazionale. La seconda direttrice fondamentale della politica fascista era invece rivolta verso il mondo del lavoro per comprimerne la soggettività politica e sociale. In sostanza si volle colpire ogni ipotesi di organizzazione autonoma dei lavoratori, limitarne la partecipazione alla vita politica e inibirne l’ambizione a condizionarne le scelte fondamentali. A tal fine si spiegavano la politica sindacale del Fascismo (con la legge fascista sul sindacato); la legge sulle associazioni già approvata dal Senato; la riforma dell’ordinamento amministrativo con l’istituzione del Podestà per i comuni di campagna e la designazione da parte delle corporazioni, degli organi consultivi, previa esclusione da essi di tutti coloro che fossero stati considerati “sovversivi”. La struttura istituzionale assunta dal regime fascista trovava un punto essenziale nella irreggimentazione di tutti gli organi economico-sociali del mondo del lavoro. La rete del sindacalismo fascista non sorgeva in ragione di un piano predisposto dal regime, ma sarebbe stata per Gramsci la conseguenza di un fallimento all’indomani della marcia su Roma: il mancato accordo con i tradizionali sindacati dei lavoratori. Prima che si giungesse al monopolio dei sindacati fascisti, per un certo periodo Mussolini confidò in una collaborazione con la CGdL e s’incontrò più volte con i dirigenti socialisti. In particolare, vi fu un incontro con D’Aragona e Buozzi nel quale il capo del Fascismo chiese al sindacato di assumere la guida del Ministero dell’Economia nazionale e di accettare la fusione con le corporazioni fasciste. Questa prospettiva fallì, non tanto per l’opposizione dei sindacalisti, quanto per l’indisponibilità da parte della grande borghesia. La collaborazione con i riformisti sfumò, nonostante una certa disponibilità reciproca, perché, per effetto della fuoriuscita dei lavoratori della piccola e media borghesia dalla CGdL a seguito delle incursioni squadristiche dei fascisti, l’organizzazione si trovò sempre più egemonizzata dai comunisti. L’adesione dei riformisti al sindacato fascista avrebbe fatto dunque cadere la CGdL in mano alle componenti più radicali del movimento operaio. Il

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limento di questo tentativo portò poi ai provvedimenti legislativi che, tra il 1924 e il 1926, soppressero insieme alle libertà individuali e collettive anche quelle sindacali, con il consolidamento del corporativismo e la creazione del sindacato unico. La legge del 2 giugno 1926, in particolare, attribuiva al sindacato fascista il diritto esclusivo a stipulare contratti di lavoro, approvata con l’accordo dei capi riformisti della CGdL. Alla fine dell’anno i dirigenti del sindacato sciolsero l’organizzazione – con un documento firmato da Ludovico D’Aragona, Rinaldo Rigola, Giovanni Battista Maglione, Ettore Rena ed Emilio Colombino – dichiarando di riconoscersi nella politica sindacale del Fascismo. Una capitolazione, percepita come un tradimento, non riconosciuta da una parte significativa del sindacato, riorganizzatosi in forma clandestina nel congresso del febbraio 1927. 6. Il Congresso di Lione Il PCd’I, Sezione italiana della III Internazionale, nasce a Livorno il 21 gennaio del 1921. A sottolineare con più decisione la sua radice nazionale, a seguito dello scioglimento dell’Internazionale comunista, assume poi il nome di Partito comunista italiano il 15 maggio del 1943. Tuttavia, la scelta di una più netta contestualizzazione nazionale dell’organizzazione nasce ben prima del 1943, con la prima profonda svolta impressa alla sua direzione politica tra il 1925 e il ’26. Le Tesi del Congresso Lione del ’26 sono state definite l’asse fondamentale della sterzata operata nella storia dei comunisti in Italia, sia in rapporto alla concezione del Partito, sia per l’analisi della società. In entrambi i casi si giunge al superamento completo delle Tesi elaborate da Bordiga per il Congresso di Roma, dopo il profondo mutamento nella direzione politica del Partito sotto la guida di Antonio Gramsci112. Come è noto, a partire dalla fine degli anni Trenta e soprattutto nella lotta di liberazione nazionale il Partito comunista diviene un soggetto politico capace di attrarre studenti, operai, artisti, letterati, docenti universitari. Da piccolo partito di quadri, presente, e limitatamente, solo in determinate regioni del Paese, diviene la principale organizzazione politica della Resistenza

112. G. Fresu, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo, Odradek, Roma, 2013, p. 103.

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e, dopo la guerra, il primo partito della sinistra italiana, oltre che il più grande partito comunista del campo occidentale. Sembra quasi impossibile una simile trasformazione, tenuto conto della marginalità e della cultura minoritaria di questa organizzazione al momento della sua nascita e negli anni di affermazione del Fascismo. Una prima spiegazione andrebbe ricercata forse nella tenacia con cui, anche negli anni più duri della repressione fascista, il PCd’I si sforzò di mantenere in Italia una sua struttura operativa clandestina, anziché limitarsi a trasferire all’estero tutta la sua organizzazione. Nonostante le ondate repressive che di volta in volta decapitarono la sua rete, esso mantenne sempre un’articolazione clandestina grazie all’afflusso di nuovi aderenti, specie giovani. Tra il 1926 e il ’43, sui 4.671 condannati dal Tribunale speciale fascista, 4.030 erano membri del Partito comunista, mentre dei 28.671 anni di carcere comminati, quasi 24.000 riguardarono suoi dirigenti e militanti113. Tuttavia, sebbene importante, la presenza ostinata dei comunisti nel Paese, non spiegherebbe da sola un fenomeno di crescita tanto esponenziale. Su esso ha probabilmente influito anche l’evoluzione della sua linea, capace di abbandonare gli approcci settari e minoritari delle sue origini fino ad aderire con maggiore plasticità alle condizioni nazionali, divenendo un partito di massa per molti versi erede della tradizione organizzativa e sociale del vecchio socialismo. Prima, durante e dopo il Congresso di Lione si confrontarono e scontrarono due idee radicalmente opposte del partito, sinteticamente così riassumibili: 1) il partito inteso come parte della classe, vale a dire, un’organizzazione con ambizioni di massa, articolata in cellule di fabbrica e impegnata nella formazione permanente di tutti i suoi quadri; 2) il partito inteso come organo esterno alla classe, ossia, un’organizzazione ristretta di dirigenti rivoluzionari, temprati e incorruttibili, in grado di leggere nel quadro economico e sociale le contraddizioni fondamentali da cui far scaturire, al momento opportuno, le cause della detonazione rivoluzionaria. Nel primo caso abbiamo l’idea di un partito con l’ambizione di aderire organicamente alla struttura produttiva – alla cui base sta una concezione mo-

113. A. Colombi, Nelle mani del nemico, Editori Riuniti, Roma, 1971.

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lecolare e processuale della rivoluzione, metodologicamente avversa a ogni messianismo – e intende articolare plasticamente la sua attività nell’azione quotidiana dei lavoratori, le cosiddette lotte economiche. Nel secondo, un’elaborazione che ritiene la lotta per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro, e quella politica per la conquista quotidiana di posizioni di forza nella società, veicoli di mentalità corporativa e di corruzione della purezza rivoluzionaria. Per tale impostazione la connessione tra partito e masse doveva avvenire solo nel momento topico del conflitto di classe. Il periodo dall’estate del 1925 al Congresso del gennaio 1926 è cruciale per l’evoluzione del pensiero di Gramsci in relazione al partito, al suo rapporto con le masse e alla funzione svolta in esso dagli intellettuali; un periodo nel quale giungono a completa maturazione le esperienze di direzione e orientamento politico compiute a partire dal 1923. Una fase nella quale la sua analisi si sviluppa fino a indagare il ruolo svolto nella società italiana dagli intellettuali, quale tessuto connettivo degli assetti sociali dominanti. Già in queste analisi è presente quella ridefinizione del concetto di Stato anticipatrice della categoria egemonica. Le riflessioni di Gramsci in questa fase sono la base essenziale della teoria sugli intellettuali sviluppata poi all’interno della Questione meridionale e delle riflessioni del carcere. Al contempo, essa è il punto d’arrivo di quella precedente e, nel complesso, affonda potentemente le sue radici nell’esperienza “ordinovista”. La piattaforma congressuale della sinistra, pubblicata su l’Unità del 7 luglio 1925, ribadiva su tre assi fondamentali le posizioni già più volte espresse dal suo leader Amadeo Bordiga: 1) il partito andava inteso come organo della classe che sintetizza e unifica le spinte individuali, in modo da andare oltre il particolarismo di categoria e raccogliere gli elementi provenienti dai proletari delle diverse categorie, dai contadini, dai disertori delle classi borghesi; 2) veniva respinta la “bolscevizzazione” – avanzata al V Congresso e riproposta dal “gruppo di centro” guidato da Gramsci – vale a dire, la ripartizione organizzativa del partito in cellule su base di fabbrica; 3) era stigmatizzata la lotta alle frazioni avviata dal Comintern. Tale impostazione trovò espressione compiuta nel progetto di Tesi per il Congresso. Secondo Bordiga, era impossibile mutare la sostanza delle situazioni oggettive, riconducibili al quadro più generale dei rapporti sociali di produzione, attraverso una determinata forma organizzativa. Un’organizzazione immediata di tutti i lavoratori in quanto economicamente tali sarebbe

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risultata costantemente dominata dagli impulsi delle diverse categorie professionali a soddisfare i propri interessi economici particolari determinati dallo sfruttamento capitalistico. Da ciò la profonda diffidenza, manifestata già ai tempi della stagione consiliare, verso l’impegno dell’organizzazione nelle vertenze dei lavoratori, nel sindacato. Nello stesso numero del 7 luglio de l’Unità, Gramsci si incaricò di stendere una replica estremamente importante. In essa, già si può cogliere appieno la continuità con l’elaborazione degli anni de L’Ordine Nuovo, sul tema dell’autonomia dei produttori, e trova un primo abbozzo l’idea di “intellettuale organico”, l’affermazione secondo cui ogni lavoratore, entrando nel Partito comunista, ne diviene un dirigente e dunque un intellettuale. La sinistra concepiva il partito come sintesi di elementi individuali e non come un movimento di massa e di classe, e in ciò andava rintracciata la radice della teoria del partito di Bordiga: In questa concezione c’è una tinta di forte pessimismo verso la capacità degli operai come tali, solo gli intellettuali possono essere uomini politici. Gli operai sono operai e non possono che rimanere tali fino a quando il capitalismo li opprime: sotto l’oppressione capitalistica l’operaio non può svilupparsi completamente, non può uscire dallo spirito angusto di categoria. Che cos’è allora il partito? È solo il ristretto gruppo dei suoi dirigenti che riflettono e sintetizzano gli interessi e le aspirazioni generiche della massa, anche nel partito. La dottrina leninista afferma e dimostra che questa concezione è falsa ed è estremamente pericolosa; essa ha, tra l’altro, portato al fenomeno del mandarinismo sindacale. (…) Gli operai entrano nel partito comunista non soltanto come operai (metallurgici, falegnami, edili, ecc.), ma entrano come operai comunisti, come uomini politici cioè, come teorici del socialismo, quindi, e non solo come ribelli in generale; e col partito, attraverso le discussioni, attraverso le letture e le scuole di partito, si sviluppano continuamente, diventano dirigenti. Solo nel sindacato l’operaio entra nella sua qualità di operaio e non di uomo politico che segue una determinata teoria114.

Secondo Gramsci, la concezione del partito esposta da Bordiga era ancorata a una fase storica oramai superata; ancora nel 1848 si sarebbe potuto affermare che «il partito è l’organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppo provocate dalla lotta di classe»115, tuttavia, l’impetuoso sviluppo

114. A. Gramsci, “Il Partito si rafforza combattendo le deviazioni antileniniste”, l’Unità, 5 luglio 1925. 115. Ibid.

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delle forze produttive e i processi storici dei primi due decenni del XX secolo avevano profondamente trasformato la fisionomia e il ruolo del proletariato, che già assolveva una funzione dirigente nella società sul piano politico e sindacale. Sempre in questo periodo Gramsci scrisse un’introduzione al primo corso della scuola interna del PCd’I riprendendo i temi giovanili dell’autoeducazione e dell’indipendenza dei produttori nella prospettiva pedagogica del partito di massa del mondo del lavoro. La formazione di quadri e militanti era essenziale per rendere l’operaio comunista un dirigente integrale, capace di dominare tanto i temi politici ed economici quanto quelli culturali ed ideologici senza dover ricorrere ai lumi di una casta specializzata di intellettuali. L’attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia il marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari. Servì da prezzemolo a tutte le salse più indigeste che i più imprudenti avventurieri della penna abbiano voluto mettere in vendita. È stato marxista in tal modo Enrico Ferri, Guglielmo Ferrero, Achille Loria, Paolo Orano, Benito Mussolini116.

In questa introduzione Gramsci contestò esplicitamente, la concezione del partito così come esposta nelle Tesi sulla tattica del Congresso di Roma: [in esse] La centralizzazione e l’unità erano concepite in modo troppo meccanico: il Comitato centrale, anzi il Comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il partito perderebbe i suoi caratteri politici e distintivi e diventerebbe, nel migliore dei casi, un esercito (e un esercito di tipo borghese), perderebbe cioè la sua forza d’attrazione, si staccherebbe dalle masse. Perché il partito viva e sia a contatto con le masse occorre che ogni membro del partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. (...) La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria117.

Il compito di costituire le cellule di fabbrica era per Gramsci un’occasione di autoeducazione della classe operaia; le cellule, da semplice strumento

116. A. Gramsci, “Introduzione al primo corso della scuola interna di Partito”, in La costruzione del Partito Comunista, 1923-1926, Einaudi, Torino, 1971, pp. 50-51. 117. Ivi, pp. 56-57.

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organizzativo, si trasformano in organo principe nella formazione degli “intellettuali organici” della classe operaia, possono contribuire a determinarne l’autonomia rispetto all’apporto esterno borghese: La cellula trasforma ogni membro del partito in un militante attivo assegnando ad ognuno un lavoro pratico e sistematico. Attraverso questo lavoro si crea una nuova classe di dirigenti proletari, legati alla fabbrica, controllati dai compagni di lavoro, in modo cioè da non potersi trasformare in funzionari e mandarini, fenomeno che si verifica in larga parte in tutti i partiti che hanno conservato la vecchia struttura dei partiti socialisti118.

Nella sua relazione alla riunione della Commissione politica per il Congresso, Gramsci provò a riassumere i punti di dissenso tra “la centrale del Partito” e “l’estrema sinistra” in tre livelli di rapporti: tra gruppo dirigente del Partito e l’insieme degli iscritti; tra gruppo dirigente e classe operaia; tra classe operaia e resto delle classi subalterne: La nostra posizione deriva da ciò che noi riteniamo si debba porre nel massimo rilievo il fatto che il partito è unito alla classe non solo da legami ideologici ma anche da legami di carattere fisico. (…) Secondo la estrema sinistra il processo di formazione del partito è un processo sintetico; per noi è un processo di carattere storico e politico, legato strettamente a tutto lo sviluppo della società capitalistica. La diversa concezione porta a determinare in un modo diverso la funzione e i compiti del partito. Tutto il lavoro che il partito deve compiere per elevare il livello politico delle masse, per convincerle e portarle sul terreno della lotta di classe rivoluzionaria viene, in conseguenza della errata concezione della estrema sinistra, svalutato e ostacolato, per via del distacco iniziale che si è creato tra il partito e la classe operaia119.

La questione teorica dell’organizzazione per cellule poneva in rilievo la necessità di “legami fisici” tra partito e classe nel suo complesso, mentre, nell’affermare la necessità di una “tutela” direttiva da parte del gruppo dirigente “specializzato”, Bordiga poneva quale problema assoluto il rischio di corporativismo tra gli operai. Ciò, per Gramsci, lasciava trasparire una concezione paternalistica che svalutava fortemente la capacità di direzione

118. Ibid. 119. Ivi, p. 482.

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della classe operaia, fino a ridurla a soggetto minorenne incapace di autodeterminazione politica. Già nel corso del dibattito precongressuale, e in misura ancora maggiore al Congresso di Lione, Gramsci poneva la teoria sul partito della sinistra in continuità con tutta la storia degli intellettuali in Italia, con la filosofia crociana e le tradizioni elitarie ed oligarchiche della filosofia politica idealista e liberale. Un concetto poi ripreso nei Quaderni, dove Gramsci mise sullo stesso piano l’atteggiamento intellettualistico da “intellettuale puro” di Bordiga con quello di Croce: Ciò che importa al Croce è che gli intellettuali non si abbassino al livello della massa, ma capiscano che altro è l’ideologia, strumento pratico per governare, e altro la filosofia e la religione che non deve essere prostituita nella coscienza degli stessi sacerdoti. Gli intellettuali devono essere governanti e non governati, costruttori di ideologie per governare gli altri e non ciarlatani che si lasciano avvelenare e mordere dalle proprie vipere. (...) La posizione di «puro intellettuale» diventa un vero e proprio «giacobinismo» deteriore e in tal senso, mutate le stature intellettuali, Amadeo può essere avvicinato al Croce120.

Trattando il tema del rapporto tra la classe operaia e il resto degli sfruttati, e rendendolo pilastro delle tesi congressuali, Gramsci colse appieno il valore strategico attribuito da Lenin alla questione contadina e alla politica delle alleanze121. Preparare a fondo la rivoluzione, “conquistare le grandi masse”, “avere la simpatia delle masse”, era per Lenin necessario se si aveva l’aspirazione non solo di iniziare una rivoluzione ma soprattutto di vincerla e conservare il potere: «attrarre a noi non solo la maggioranza della classe operaia, ma anche la maggioranza della popolazione lavoratrice e sfruttata della campagna»122. Un tema centrale, in un paese come l’Italia dove il proletariato era una minoranza senza carattere nazionale. Più precisamente, Gramsci cercò di contestualizzare all’Italia il grande tema dibattuto tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale comunista. Come ampiamente spiegato, in quelle sedi, preso atto delle difficoltà internazionali e della complessità dei processi rivoluzionari in Occidente, Lenin e l’Esecutivo del

120. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1213. 121. V.I. Lenin, Opere Complete, vol. XXXII. op. cit., p. 457 122. V.I. Lenin, Sul movimento operaio italiano, op. cit., p. 233.

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Comintern lanciarono la parola d’ordine della conquista della maggioranza delle classi subalterne e dell’unità della classe operaia tramite la tattica del “fronte unico”, essenziale per la definizione della categoria dell’egemonia in Gramsci. Già nel Congresso di Lione si pongono tre ordini di problemi che finiranno per costituire la spina dorsale del famoso saggio del 1926 sulla peculiare condizione del Sud negli equilibri nazionali italiani: la questione meridionale intesa come questione contadina; il tema del partito politico della classe contadina e la funzione reazionaria svolta dal Vaticano. L’atteggiamento verso il Fascismo delle Tesi di Roma, e più in generale l’impostazione teorica di Bordiga, la sua tendenza a svalutare le differenze tra quadro democratico e reazionario, erano per Gramsci esempi lampanti di un modo errato di concepire la tattica. Come già accennato in apertura, le Tesi di Lione segnano una completa svolta anche sul piano dell’analisi relativa alla società italiana, anticipando molteplici aspetti dell’elaborazione carceraria di Gramsci e le valutazioni più mature del gruppo dirigente del PCI affermatesi nella metà degli anni Trenta. Nel periodo di crisi successivo al delitto Matteotti non sarebbe stato sufficiente condurre una campagna di critica ideologica al regime e alle opposizioni, limitarsi a una propaganda capace solo di trattare allo stesso modo i due soggetti; era necessario incalzare le opposizioni ponendole sul terreno del rovesciamento del Fascismo, come premessa preliminare a qualsiasi altra azione di comunisti. Le Tesi opposero un netto rifiuto verso qualsiasi semplicistica equiparazione tra quadro democratico e Fascismo, invece sostenuta da Bordiga e affermatasi nel Comintern tra il 1928 e il ’30. Parole così chiare, in proposito, le ritroveremo solo a partire dal VII Congresso dell’Internazionale comunista del 1935: È assurdo affermare che non esiste differenza tra una situazione democratica e una situazione reazionaria, e che, in una situazione democratica sia più disagevole il lavoro per la conquista delle masse. La verità è che oggi in una situazione reazionaria si lotta per organizzare il partito, mentre in una situazione democratica si lotterebbe per organizzare la insurrezione123.

123. A. Gramsci, La costruzione del Partito comunista, op. cit., p. 487.

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Quando il Fascismo stava sorgendo e sviluppandosi, secondo Gramsci, il PCd’I si era limitato a considerarlo un «organo di combattimento della borghesia» e non anche un movimento sociale. Questo non mise pertanto il PCd’I nelle condizioni di arginarne l’avanzata e di opporsi alla sua ascesa al potere con un’azione politica appropriata; anzi lo spinse a lavorare contro gli “arditi del popolo”, un movimento di massa dal basso che il PCd’I avrebbe dovuto contribuire a sviluppare e dirigere. Anche l’obiettivo della sconfitta del Fascismo andava posto in relazione al problema dell’egemonia della classe operaia verso le masse contadine: La situazione italiana è caratterizzata dal fatto che la borghesia è organicamente più debole che in altri Paesi e si mantiene al potere solo in quanto riesce a controllare e dominare i contadini. Il proletariato deve lottare per strappare i contadini alla influenza della borghesia e porli sotto la sua guida politica. Questo è il punto centrale dei problemi politici che il Partito dovrà risolvere nel prossimo avvenire124.

Secondo le Tesi, l’elemento predominante della società italiana era una particolare forma di capitalismo nel quale convivevano un industrialismo ancora debole e incapace di assorbire la maggioranza della popolazione e un’agricoltura, ancora base economica del paese, segnata dalla netta prevalenza di ceti poveri (bracciantato agricolo), molto prossimi alle condizioni del proletariato e perciò potenzialmente sensibili alla sua influenza. Tra le due classi dominanti – industriali e agrari – si poneva quale elemento di raccordo una media e piccola borghesia urbana abbastanza estesa. La debolezza del modo di produzione in Italia – privo di materie prime – spingeva gli industriali a varie forme di compromesso economico con i grandi latifondisti agrari, basate su «una solidarietà d’interessi tra ceti di privilegiati a detrimento delle esigenze produttive generali». Anche il processo risorgimentale fu espressione di questa debolezza, perché la costruzione dello Stato nazionale si realizzò grazie allo sfruttamento di particolari fattori di politica internazionale e il suo consolidamento rese necessario quel compromesso sociale che ha reso inoperante in Italia la lotta economica tra industriali e agrari e la rotazione di gruppi dirigenti, tipici di altri Paesi capitalistici. Questo compromesso a tutela di uno sfruttamento parassitario delle classi domi-

124. Ivi, p. 487.

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nanti ha determinato una polarizzazione tra l’accumulo di immense ricchezze in ristretti gruppi sociali e la povertà estrema del resto della popolazione, ha comportato il deficit del bilancio, l’arresto dello sviluppo economico in intere aree del Paese, ha ostacolato una modernizzazione del sistema economico nazionale armonica e calibrata con le caratteristiche della nazione. Anche i rovesci nella prima parte della guerra mondiale e lo stesso avvento del Fascismo sono analizzati nelle Tesi alla luce di questa debolezza originaria dell’Italia, anticipando un canone interpretativo centrale nelle riflessioni sul Risorgimento dei Quaderni. Il compromesso tra industriali e agrari attribuiva alle masse lavoratrici del Mezzogiorno la stessa posizione delle popolazioni coloniali; per esse il Nord industrializzato era come la metropoli capitalistica per la colonia; le classi dirigenti del Sud (grandi proprietari e media borghesia) svolgevano la stessa funzione delle categorie sociali delle colonie alleate con i coloni per mantenere la massa del popolo soggetta al proprio sfruttamento. Tuttavia, nella prospettiva storica, questo sistema di compromesso si rivelò inefficace perché si risolveva in un ostacolo allo sviluppo dell’economia industriale e di quella agraria. Ciò ha determinato in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato sulle masse. Il periodo di maggior debolezza dello Stato italiano si era determinato per Gramsci nel decennio 1870-1890, soprattutto per l’azione svolta dal Vaticano quale catalizzatore del blocco reazionario antistatale costituito dai residui di aristocrazia, dagli agrari, dalle popolazioni rurali dirette dai proprietari terrieri e dalle parrocchie. Il Vaticano aveva manifestato di voler operare su due fronti: da un lato esplicitamente contro lo Stato borghese unitario e liberale; dall’altra tentando di costituire, attraverso i contadini, una sorta di esercito di riserva per sbarrare la strada all’avanzamento del movimento operaio socialista. L’equilibrio instabile del nuovo Stato, tema presente nelle Tesi, è anche una delle questioni fondamentali di indagine dei Quaderni del carcere. Basti pensare alle note in cui Gramsci si sofferma sulla formula retorica (escogitata dai clericali) che tendeva a contrapporre un’Italia reale, composta dalla maggioranza cattolica avversa al nuovo Stato unitario, a un’Italia legale costituita da una minoranza di esaltati patrioti votati alla causa nazionale e all’idea liberale. Per quanto la formula fosse comparsa in un contesto politico editoriale da “insulso libello da sacrestia”, essa era per Gramsci assai efficace

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dal punto di vista polemico perché indicava bene la separazione esistente tra il nuovo Stato e la società civile. Ovviamente, la società civile non poteva certo essere tutta compresa nel fronte clericale, poiché appariva largamente disomogenea e informe. E proprio per la sua natura disgregata, lo Stato non ebbe difficoltà a dominarla superando le contraddizioni e i conflitti che esplodevano in maniera episodica e localistica, al di fuori di ogni coordinamento sul piano nazionale e tendente a un fine determinato. Dunque, al di là di una situazione oggettiva di separatezza tra Stato e società, lo stesso clericalismo non poteva considerarsi espressione reale della società civile, sulla quale mostrava difficoltà a esercitare una reale direzione efficace. La Chiesa, in realtà, temeva quelle stesse masse popolari che pure controllava perché intravvedeva la possibilità di una loro sollevazione. Anche la formula del non expedit era per Gramsci il segno di questa paura e incapacità politica: l’atteggiamento di boicottaggio del nuovo Stato che esso prefigurava risultava alla fine oggettivamente sovversivo. Questo spiega perché, con la crisi di fine secolo e i fatti del 1898, la reazione dello Stato si fosse abbattuta sia verso i primi vagiti di organizzazione socialista, sia verso quella clericale. L’abbandono della politica espressa dalla formula “né elettori, né eletti” da parte del Vaticano, che avrebbe portato prima al Patto Gentiloni e poi alla nascita del Partito popolare, ebbe origine dalla constatazione di quel fallimento. Una vera scissione tra paese reale e paese legale si ha per Gramsci nei fatti che lacerano il paese dall’inizio della crisi Matteotti fino al varo delle leggi fascistissime, quando la scissione tra paese reale e paese legale viene superata attraverso la soppressione dei partiti politici, delle libertà individuali e collettive, e l’inquadramento militare della società civile in un’unica organizzazione politica che faceva coincidere Stato e partito. Il periodo che va dal 1890 al 1900 è il primo nel quale la borghesia si pone concretamente il problema di organizzare la propria dittatura. È una fase contrassegnata da una serie di interventi politici e legislativi della svolta protezionista – a favore della grande produzione industriale (in particolare l’industria meccanica) e dell’agricoltura latifondista (grano, riso, mais) – che porta alla denuncia dei trattati commerciali con la Francia e all’ingresso dell’Italia nell’orbita della Triplice Alleanza a guida tedesca. In questa fase si salda ulteriormente l’asse tra industriali e proprietari terrieri strappando i ceti rurali al controllo del Vaticano in chiave antiunitaria.

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Al saldarsi del blocco industriali-agrari corrispondono però i progressi delle organizzazioni operaie e la ribellione delle masse contadine. Nella definizione del Fascismo le Tesi raggiungono il loro livello più elevato di analisi e concettualizzazione, introducendo un nuovo modello interpretativo del fenomeno, destinato a fare scuola in sede storiografica e non solo all’interno del campo marxista. Il Fascismo rientrava pienamente nel quadro tradizionale delle classi dirigenti italiane, assumendo la forma della reazione armata con il preciso scopo di scompaginare le fila delle organizzazioni delle classi subalterne e quindi garantire la supremazia dei ceti dominanti. Per questa ragione esso al suo comparire fu favorito e protetto indistintamente da tutti i vecchi gruppi dirigenti, tra di essi, furono soprattutto gli agrari a finanziare e lanciare le squadre fasciste contro il movimento dei contadini. La base sociale del Fascismo però è composta dalla piccola borghesia urbana e dalla nuova borghesia agraria. Il Fascismo trova una unità ideologica e organizzativa nelle formazioni paramilitari che ereditano la tradizione dell’arditismo e la applicano alla guerriglia contro le organizzazioni dei lavoratori. Per le Tesi, il Fascismo attua il suo piano di conquista dello Stato con una «mentalità di capitalismo nascente» in grado di fornire alla piccola borghesia un’omogeneità ideologica non conformista in contrapposizione ai vecchi gruppi dirigenti e al socialismo. Nella sostanza il Fascismo modifica il programma della conservazione e di reazione che ha sempre dominato la politica italiana soltanto per un diverso modo di concepire il processo di unificazione delle forze reazionarie. Alla tattica degli accordi e dei compromessi esso sostituisce il proposito di realizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco rivoluzionario, il che permette al Fascismo di raccogliere le adesioni della parte più decisamente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari125.

Tuttavia, il metodo fascista di difesa dell’ordine, della proprietà e dello Stato non riesce a realizzare, immediatamente e totalmente, questo livello

125. A. Gramsci, La costruzione del Partito comunista, op. cit., p. 495.

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di centralizzazione della borghesia con la presa del potere. Anzi la traduzione politica ed economica dei suoi propositi produce varie forme di resistenza all’interno delle stesse classi dirigenti. I due tradizionali orientamenti della borghesia liberale italiana, quello riconducibile al giolittismo e quello riconducibile al Corriere della Sera, non vengono subito assorbiti o piegati dalla presa del potere di Mussolini. In tal senso si spiega la lotta contro i gruppi superstiti della borghesia liberale e contro la massoneria, vale a dire contro il suo principale centro di attrazione e organizzazione in sostegno dello Stato. Sul piano economico il Fascismo agisce a totale vantaggio delle grandi oligarchie industriali ed agrarie disattendendo le aspirazioni della sua stessa base sociale, la piccola borghesia, che dall’avvento del Fascismo sperava di trarre un avanzamento nelle condizioni sociali ed economiche. Ciò avviene sul piano delle politiche commerciali, con l’inasprimento del protezionismo doganale, su quello finanziario, con la centralizzazione del sistema del credito a beneficio della grande industria, così come sul versante della produzione, con un aumento delle ore di lavoro e la diminuzione delle retribuzioni. Ma il vero punto di approdo del Fascismo si ha nella politica estera e nelle aspirazioni imperialistiche, rispetto alle quali le Tesi avanzano un’idea che si concretizzerà quattordici anni dopo. Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell’azione politica ed economica del Fascismo è la tendenza di esso all’imperialismo. Questa tendenza è l’espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l’espansione italiana ma nella quale in realtà l’Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialistici che si contendono il dominio de mondo126.

L’indicazione lanciata dai Congressi dell’Internazionale, costruire dei partiti di massa radicati nei luoghi di lavoro attraverso le cellule di fabbrica (la cosiddetta “bolscevizzazione”), è raccolta e sviluppata dal vecchio gruppo ordinovista attraverso la rielaborazione dei temi forti emersi nel “biennio

126. Ivi, p. 497.

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rosso”, dall’esperienza del movimento consiliare, alla quale del resto le Tesi fanno esplicito riferimento: La pratica del movimento di fabbrica (1919-20) ha dimostrato che solo una organizzazione aderente al luogo e al sistema della produzione permette di stabilire un contatto tra gli strati superiori e inferiori della massa lavoratrice e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad ogni fenomeno di aristocrazia operaia. La organizzazione per cellule porta alla formazione nel partito di uno strato assai vasto di elementi organizzativi (segretari di cellula, membri dei comitati di cellula, ecc.), i quali sono parte della massa e rimangono in essa pure esercitando funzioni direttive, a differenza dei segretari delle sezioni territoriali i quali erano di necessità elementi staccati dalla massa lavoratrice127.

In questa definizione trova piena e compiuta collocazione il tema del rapporto tra dirigenti e diretti, tra intellettuali e masse, secondo i termini classici dell’elaborazione gramsciana. Per Gramsci, nello scontro interno al PCd’I, la distinzione tra i due diversi modi di intendere la rivoluzione era netta: da una parte le masse sono considerate massa di manovra, strumenti della rivoluzione; dall’altra le si intende soggetto protagonista e cosciente di essa. Nei Quaderni questo argomento è ampiamente svolto proprio a partire dalle considerazioni sul partito politico, lo strumento attraverso il quale il rapporto di rappresentanza dovrebbe superare la sua condizione di delega passiva caratteristica della società borghese. Per Gramsci il rapporto governanti-governati è conseguente alla divisione del lavoro, alla distinzione tra funzioni intellettuali e manuali: “ogni uomo è un filosofo”, è l’organizzazione tecnica a farne un diretto e non un dirigente, pertanto se lo scopo principale di un partito consiste nel formare dirigenti, il suo dato di partenza deve risiedere nel non ritenere naturale e immodificabile quella distinzione. Il problema dell’assenza di un rapporto organico di rappresentanza in politica non riguardava dunque solo i partiti di élite della tradizione liberale, dove la funzione di direzione era esercitata unilateralmente da uomini di cultura, ma anche i cosiddetti partiti del movimento operaio. Se le masse in un partito non hanno altra funzione al di là della fedeltà militare verso i gruppi dirigenti, il rapporto dualistico è esattamente lo stesso.

127. Ivi, p. 505.

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Le Tesi di Lione rappresentano uno spartiacque essenziale per Gramsci, un momento di svolta nel quale l’elaborazione teorica e l’impegno politico diretto assumono carattere unitario e organico. Il Congresso del 1926 è un momento di passaggio fondamentale per la sua formazione intellettuale, nel quale emerge la continuità tra le battaglie precedenti e le future riflessioni carcerarie. Le Tesi di Lione rappresentano la consacrazione del “nuovo corso” nel PCI e in esso del gruppo dirigente guidato da Gramsci, nato attorno a L’Ordine Nuovo nei tumultuosi anni del dopoguerra; in esse si ha la saldatura della nuova prospettiva con il percorso politico intellettuale del vecchio gruppo torinese. La svolta di Lione costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico assunto dal PCI tanto nella Resistenza, quanto nella fase successiva alla Liberazione; è l’antefatto più pregnante del profondo mutamento nell’iniziativa dei comunisti tra il VII Congresso e la “svolta di Salerno” del 1944.

TERZA PARTE Il teorico s

1. Dalle contraddizioni della Sardegna alla questione meridionale La questione meridionale è sistematicamente presente in tutta l’elaborazione politica e nell’analisi della società italiana di Gramsci, snodo problematico attorno al quale si riassumono le contraddizioni del processo di unificazione nazionale e le modalità distorte di sviluppo economico e sociale del Paese. Approfondendo tutto ciò, attraverso un’elaborazione durata anni, Gramsci giunge a definire alcune delle sue categorie più importanti e studiate a livello internazionale, come egemonia, intellettuali e gruppi subalterni, ritenute oggi essenziali per decifrare le relazioni internazionali di dominio coloniale. Come accennato in apertura, sulla centralità di questo problema l’elaborazione di Gramsci risulta profondamente segnata dalla conoscenza diretta delle forme di modernizzazione distorta e assoggettamento coloniale subito dalla sua terra, la Sardegna. L’Ottocento è un secolo emblematico per la storia d’Italia, non solo per i processi politici che preparano e conducono in porto un evento tanto complesso e difficile a realizzarsi come l’Unità, ma anche perché in esso si determinano significative tensioni dialettiche connesse alla modernizzazione (economico-sociale, politico-istituzionale, culturale), destinate ad avere importanti riflessi anche sulla storia del Novecento, in primo luogo sulla storia della Sardegna. Nel corso dell’Ottocento si registrano processi riformatori che, a prescindere dai giudizi di merito e dai risultati ottenuti, costituiscono un epocale momento di svolta proprio in termini di modernizzazione1. Il problema della costituzione di un capitale originario e di una conseguente borghesia con connotati moderni, il mutamento dei regimi fondiari e delle modalità di produzione e accumulazione nelle campagne, la 1.

Gli approfondimenti su questo argomento derivano dal mio G. Fresu, La prima bardana, modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento, CUEC, Cagliari, 2011, pp. 115-125.

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questione degli assetti istituzionali dell’Isola in rapporto ai più complessivi mutamenti nella penisola, sono tutti temi di assoluto rilievo storico che in passato hanno trovato molteplici momenti di approfondimento monografico in ambito economico, giuridico e storico2. In Sardegna la tradizionale dialettica città-campagna assume una sua connotazione peculiare come dialettica incrociata tra borghesia urbana e comunità dedite alle attività pastorali e, allo stesso tempo, tra agricoltura stanziale e allevamento errante. Tutti i problemi economici, culturali e politici connessi alle riforme sulla proprietà perfetta e l’eversione del vecchio regime feudale, così come le fasi più acute di malessere sociale sfociate nelle ondate di banditismo, sono connesse strettamente a questa dialettica. Una conferma autorevole viene dai numerosi materiali istruttori e analitici delle diverse inchieste parlamentari realizzate sulla Sardegna, a partire da quella importantissima presieduta da Agostino Depretis tra il 1868 e il 18713, e dai documenti del Regno di Sardegna risalenti agli anni delle riforme nel regime fondiario custoditi presso gli Archivi di Stato di Torino e Cagliari. Dai tentativi di riforma sul terreno istituzionale, economico e sociale e dalle loro ripercussioni sociali – in primo luogo i provvedimenti che realizzano la fusione perfetta entro la cornice costituzionale dello Statuto Albertino – è possibile ricavare uno spaccato di storia delle classi dirigenti e dei subalterni in Sardegna. Negli stessi anni in cui assume connotati di massa il fenomeno del brigantaggio meridionale raggiunge punte estreme di intensità il banditismo sociale in Sardegna. La peculiarità, e se vogliamo l’elemento di maggior interesse scientifico, è che in Sardegna abbiamo un’anticipazione di alcuni tratti essenziali nelle forme di egemonia e dominio dei governi sabaudi che finiranno per contraddistinguere anche la successiva presa di possesso delle regioni meridionali dopo l’Unità. La concezione amministrativa e moderna dello Stato piemontese, pervasa da una fiducia illuministica e fisiocratica verso le

2.

3.

Tra i tanti, ci permettiamo di segnalare i fondamentali lavori di Italo Birocchi: “Considerazioni sulla privatizzazione della terra in Sardegna dopo le leggi abolitive del feudalesimo”, in Archivio Sardo del movimento operaio, contadino e autonomistico, nn. 11/13, 1980; Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna. Provvedimenti normativi, orientamenti di governo e ruolo delle forze sociali dal 1839 al 1851, Giuffrè, Milano, 1982; “La questione autonomistica dalla fusione perfetta al primo dopoguerra”, in La Sardegna, Einaudi, Torino, 1998; “Il Regnum Sardiniae dalla cessione ai Savoia alla fusione perfetta”, in Storia dei Sardi e della Sardegna, L’Età contemporanea. Dal governo Piemontese agli anni Sessanta del nostro secolo, Jaka Book, Milano, 1990. F. Manconi (a cura di), Le inchieste parlamentari sulla Sardegna dell’Ottocento. L’Inchiesta Depretis, Edizioni della Torre, Cagliari, 1984.

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possibilità di transizione normativa alla modernità, rivelò, nell’urto con la realtà sarda una certa rigidità politica, cosa che impedì, anche in età liberale, di comprendere nel profondo le cause reali del suo malessere. Tutto rientrava nell’alveo della prova di forza militare e degli interventi legislativi tesi a cancellare l’anomalia della civiltà pastorale sarda con un regime fondiario che ne impedisse la sopravvivenza. «I piemontesi obbedivano ad un disegno di colonizzazione più puntuale e rigoroso di quello spagnolo, un disegno che richiedeva un controllo sicuro dell’intero territorio isolano»4. Lo stato di anarchia latente, segnato da oltre 400 omicidi l’anno su una popolazione numericamente modesta, appariva del tutto intollerabile all’insieme delle classi dirigenti piemontesi, così si affermò da subito l’illusoria pretesa di conquistare militarmente le zone del malessere e normalizzarle definitivamente. Una strategia perseguita, con sistematica applicazione, a partire dalle durissime spedizioni repressive tra il 1735 e il ’38. Il banditismo sardo moderno, con le caratteristiche note e costanti fino a tempi relativamente recenti, esplode per l’urto tra questa pretesa e la resistenza a essa contraria. La storia della Sardegna contemporanea verifica un paradigma storico di notevole importanza: il banditismo sociale raggiunge picchi massimi di estensione proprio in rapporto all’avvento degli Stati moderni, e ai processi di transizione dei modi di produzione, in situazioni, però, segnate da contraddizioni politiche e dalla debolezza dei nuovi assetti sociali in via di affermazione5. Per Antonio Gramsci quella agraria restava la questione centrale nei processi politici tra Settecento e Ottocento, la cui mancata soluzione in senso progressivo ha dato un segno ben preciso anche alla storia del Risorgimento italiano: Ogni formazione di volontà collettiva nazionale-popolare è impossibile se le grandi masse dei contadini non irrompono simultaneamente nella vita politica. (…) Tutta la storia dal 1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collettiva di questo genere, per mantenere il potere «economico-corporativo» in un sistema internazionale di equilibrio passivo6.

4. 5. 6.

M. Brigaglia, Sardegna perché banditi, Carte Segrete, Milano, 1971, p. 60. Eric J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Einaudi, Torino, 2002, p. 107. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1560.

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Anche il processo di fusione e assorbimento della Sardegna al Piemonte avvenne su un “equilibrio passivo”, destinato a pesare negativamente in termini di potere contrattuale e capacità di incidere sugli equilibri nazionali da parte delle classi dirigenti sarde; tuttavia, con esso si ha il consolidamento di un blocco politico sociale conservatore destinato a durare molto a lungo. A prescindere dalle valutazioni di merito, questo resta il principale dato politico7. Come ha ben sintetizzato Birocchi, forse lo studioso che con maggior rigore e serietà scientifica ha affrontato questi temi, «il trionfo della proprietà in Sardegna coincise con l’affermarsi di una borghesia non solo priva di quegli orizzonti universalistici che altrove l’avevano portata alla testa del movimento riformatore, ma legata a mentalità clientelari e a pratiche suggerite da interessi estremamente ristretti».8 La Sardegna, negli ultimi trent’anni del secolo, dunque anche negli anni dell’infanzia di Gramsci, si trovò investita da una serie di segnali contraddittori: aspetti nuovi di modernizzazione economica e sociale che convivevano con una condizione di profonda arretratezza e con il diffuso stato di miseria della stragrande maggioranza della sua popolazione. Le riforme non portarono ai mutamenti sperati in termini di modernizzazione della produzione agricola, degli stili di vita, dei rapporti sociali, a causa di molteplici fattori come l’esasperato frazionamento delle proprietà, l’eccessivo peso delle imposte fondiarie, l’assenza di capitali da investire, l’insufficienza del credito. La Sardegna comunque, con le sue contraddizioni irrisolte, si avviava a una trasformazione capitalistica dei suoi rapporti sociali e a inserirsi in un più ampio circuito del mercato nazionale ed europeo, e ciò avvenne anche attraverso l’espulsione dalla terra di fasce sempre più ampie di popolazioni dedite alle attività rurali, in gran parte piccoli proprietari. Ciò avveniva senza che la dominazione piemontese prima e l’Unità d’Italia poi avessero risolto le sue contraddizioni o intaccato minimamente l’arretratezza strutturale della sua economia. I termini di questo sviluppo diseguale e la debolezza intrinseca con cui la Sardegna visse la sua transizione alla modernità erano destinati a perdurare anche nel nuovo secolo. Paradossalmente, uno dei segnali più forti di unità

7. 8.

G. Fresu, La prima bardana…, cit., pp. 96-109. I. Birocchi, Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna. Provvedimenti normativi, orientamenti di governo e ruolo delle forze sociali dal 1839 al 1851, Giuffrè, Milano, 1982, pp. 446-447.

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con il quale la Sardegna è riconosciuta parte integrante della realtà nazionale non viene dalla storia delle classi dirigenti, ma da quella delle sue masse di sfruttati: la proclamazione del primo sciopero generale nazionale nella storia d’Italia, originato nel 1904 dall’eccidio di Buggerru. Ancora nel 1919, in un articolo intitolato I dolori della Sardegna, Antonio Gramsci si esprimeva in questi termini: Perché deve essere proibito all’Avanti! ricordare che a Torino hanno la sede i consigli di amministrazione delle ferrovie sarde e di qualche società mineraria sarda? (…) Perché non si può ricordare che i minatori sardi sono pagati con salari da fame, mentre gli azionisti torinesi impugnano i loro portafogli con dividendi cristallizzati con il sangue dei minatori sardi, che spesso si riducono a mangiare le radici per non morire di fame? Perché deve essere proibito ricordare che due terzi degli abitanti della Sardegna vanno scalzi d’inverno e d’estate, perché il prezzo delle pelli è portato alle altezze proibitive dai dazi dei protettori che arricchiscono gli industriali torinesi del cuoio, uno dei quali è presidente della Camera di Commercio di Torino? Perché è proibito ricordare che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini, dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea, in quanto lo Stato «spende» per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale?9

Nel suo studio su Rapporti di produzione e cultura subalterna in una formazione economico-sociale concreta come la Sardegna rurale, l’antropologo Giulio Angioni ha analizzato le differenziazioni profonde tra gli strati subalterni e i corrispondenti livelli di coscienza sociale, in ragione delle diverse forme di appropriazione della ricchezza. Tali stratificazioni sociali, con le conseguenti differenziazioni di “ideologie disorganizzate o di brandelli rattoppati di ideologie”, subiscono forme non lineari di sfruttamento e dominio secondo modalità che in molteplici casi possono essere assimilabili alle realtà “precapitalistiche o acapitalistiche”: In zone di dislivello come le cosiddette «zone interne» della Sardegna, per esempio, le comunità agricole e pastorali possono essere oggetto di sfruttamento e sottoposte a un regime repressivo tale che qualcuno ha voluto assimilare queste situazioni a un processo di rapina di tipo coloniale o semicoloniale, mentre si può in altri casi

9.

A. Gramsci, I dolori della Sardegna, ed. piemontese de L’Avanti!, 16 aprile 1919, In Scritti 1915-1925, Moizzi Editore, Milano, 1976, p. 177.

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parlare di facile assorbimento e di «funzionalizzazione» delle peculiarità locali, e delle eventuali resistenze, da parte del «sistema»10.

Per Angioni alla nozione di sottosviluppo e arretratezza va sovrapposta quella di dipendenza e subordinazione, che assume un particolare rilievo in una regione periferica dell’area europea come la Sardegna, rimasta fino a tempi relativamente recenti al di fuori dei processi di industrializzazione. L’arretratezza economica e lo scarso sviluppo delle forze produttive hanno sicuramente influito sulla configurazione “primordiale e gelatinosa” della società civile, sulla limitata espansione di quell’insieme d’iniziative private che per Gramsci formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti. Secondo Angioni, la trasformazione del regime fondiario nel corso dell’Ottocento, in modi «più funzionali allo sviluppo delle regioni continentali del Regno», costituisce un “caso precoce di colonialismo interno” che sotto diversi aspetti anticipa le caratteristiche dello sviluppo diseguale tipico della questione meridionale dopo l’Unità: Con una certa verosimiglianza si può affermare che la Sardegna è stata in qualche modo una piccola prova generale del processo di discriminazione sviluppatosi macroscopicamente in seguito nell’ambito dello Stato nazionale italiano, diretto dalla borghesia industriale e finanziaria delle regioni settentrionali e secondariamente dagli agrari latifondisti e da altri ceti parassitari del Meridione11.

Comprendere in profondità Gramsci senza avere consapevolezza di quanto un simile retroterra lo abbia formato appare velleitario, o quanto meno affetto da parzialità. Gramsci non giunge solo in età adulta a una visione del conflitto di classe e della rivoluzione come oggettivazione di un blocco sociale che porta a sintesi le rivendicazioni della classe operaia settentrionale e dei gruppi subalterni del Meridione. Come accennato in apertura di questo volume, per quanto centrale, in Gramsci la costante sottolineatura della questione contadina non arriva solo da Lenin, essa affonda le sue radici nella concretezza della formazione sociale sarda, nell’insieme delle esperienze di vita e dall’osservazione attenta del suo mondo con tutte le sue contraddizio-

10. G. Angioni, Rapporti di produzione e cultura subalterna: contadini in Sardegna, Edes, Cagliari, 1982, pp. 55-56. 11. Ivi, p. 70.

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ni. Questa matrice riemerge negli anni della militanza socialista, quando si fa in Gramsci sempre più chiara la centralità di rapporti di sviluppo diseguali tra Nord e Sud per la difesa degli equilibri sociali passivi nazionali. Già in un articolo dell’aprile 1916 Gramsci trova nella questione meridionale un incrocio di contraddizioni paradigmatiche dei limiti nel processo di unificazione nazionale, a partire dalla scelta del modello centralistico, inadeguato alla realtà italiana e profondamente diverso da quello che Cavour aveva in mente. Dopo più di mille anni venivano riunificati due tronconi della penisola fino ad allora caratterizzati da forme di sviluppo storico, economico e anche istituzionale completamente differenti. “L’accentramento bestiale”, scrive il giovane Gramsci, concepì il Sud come mercato coloniale interno del Nord, confondendo o ignorando le reali esigenze del Mezzogiorno. L’unica alternativa alla miseria assoluta si incontrava negli esodi biblici dell’emigrazione di massa, mentre la reazione a questo stato di cose si manifestò nelle forme episodiche e disorganiche del ribellismo contadino o del brigantaggio. Il protezionismo per Gramsci era lo strumento con cui venne resa organica e strutturale la questione meridionale; non a caso già nel 1913 il giovanissimo Gramsci aderì alla Lega antiprotezionista sarda di Attilio Deffenu12, una figura che influenzò la sua prima formazione politica, eppure ancora poco approfondita tra i suoi studiosi. Il protezionismo era la moneta di scambio del blocco storico che univa la borghesia industriale del Nord e i ceti parassitari della proprietà terriera meridionale, di cui le sterminate plebi del Sud pagarono il conto: il protezionismo industriale rialzava il costo della vita al contadino calabrese, senza che il protezionismo agrario, inutile per lui che produceva (…) riuscisse a ristabilire

12. Tra le figure più rappresentative del rinnovamento politico nel nuovo secolo, Attilio Deffenu, nato a Nuoro nel 1890 e morto in guerra sul Piave il 16 giugno 1918 ad appena 27 anni. Figlio del presidente della società operaia di Nuoro (Giuseppe), ebbe modo di vivere intensamente quegli anni dando una prospettiva nuova alle tradizionali rivendicazioni sarde. Studiando giurisprudenza a Pisa, Deffenu entrò in contatto con socialisti e anarchici, legandosi agli orientamenti di intellettuali come George Sorel e a sindacalisti come Arturo Labriola. Collaborò con la rivista anarchica Il Pensiero e con Il Giornale d’Italia, fondò nel 1914 la rivista Sardegna. Deffenu in particolare si legò al pensiero meridionalista di Gaetano Salvemini, aderendo al movimento anti-protezionista, scrivendo a tal proposito anche un manifesto e ospitando sulla sua rivista un dibattito, anche se in appena quattro numeri, decisamente nuovo e approfondito sulla questione sarda. Deffenu infatti, piuttosto che indugiare su errori e indifferenza della politica nazionale verso la Sardegna, tema non certo trascurato, preferì analizzare concretamente i temi economico-sociali dello sviluppo diseguale proponendo la costituzione di un fronte unitario delle regioni (meridionali) che maggiormente avevano subito il processo squilibrato di costruzione dello Stato nazionale, individuando nel clientelismo e nella natura parassitaria delle classi dirigenti sarde l’origine vera di tutti i suoi mali.

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l’equilibrio. La politica estera degli ultimi trent’anni rese quasi sterili i benefici effetti dell’emigrazione. Le guerre eritree, quella di Libia, fecero emettere dei prestiti interni che assorbirono i risparmi degli emigrati. Si parla spesso di mancanza di iniziativa nei meridionali. È un’accusa ingiusta. Il fatto è che il capitale va a trovare sempre le forme più sicure e più redditizie di impiego, e che il governo ha con troppa insistenza offerto quella dei buoni quinquennali. Dove esiste già una fabbrica, questa continua a svilupparsi per il risparmio, ma dove ogni forma di capitalismo è incerta e aleatoria, il risparmio sudato e racimolato con gli stenti non si fida, e va ad investirsi dove trova subito un utile tangibile. Così il latifondo, che tendeva in qualche periodo a spezzettarsi naturalmente tra gli americani ritornati benestanti, rimarrà ancora per un pezzo la piaga dell’economia italiana, mentre le imprese industriali del Settentrione trovano nella guerra una fonte di profitti colossali, e tutta la potenzialità produttiva nazionale rivolta all’industria della guerra, si circoscrive sempre più nel Piemonte, nella Lombardia, nell’Emilia, nella Liguria e fa illanguidire quel poco di vita che esisteva nelle regioni del Sud13.

Nuovamente, in un altro articolo uscito il 7 luglio dello stesso anno nell’edizione piemontese de L’Avanti!, Gramsci ritornò su questi temi. In Italia, il protezionismo si consolidò sfruttando abilmente gli interessi antagonistici tra città e campagna, dunque contrapponendo una parte del Paese all’altra, pur di garantirsi il consenso delle sue classi dirigenti regionalmente radicate. All’interno di questa dinamica il prezzo del grano divenne una leva per garantire la sopravvivenza dei ceti improduttivi e parassitari, non certo uno strumento teso a favorire lo sviluppo rurale. Il dazio protettivo sul grano ha spinto molti nelle campagne a seminare in terre mezzo sterili nella sicurezza di un tenue guadagno procurato dallo Stato, artificialmente, per la solita ragione dell’incremento dei prodotti nazionali. Lo stato di monopolio creato dalla guerra, che da 29 franchi ha portato il grano a più di 40 franchi, serve a creare l’illusione che anche seminando sulla sabbia ci sia da guadagnare sempre abbastanza. Intanto però gli agrari della Valle Padana, che non seminano sulla sabbia, ma nelle fertili ed irrigate terre della Lombardia e dell’Emilia specialmente, realizzano dei guadagni favolosi, che trovano solo riscontro nei superprofitti di guerra degli industriali. È molto comodo per questi signori sfruttare il fatto compiuto della coltura a grano di terre improduttive per insinuare che il prezzo massimo deve essere fissato per assicurare ai poveri contadini un reddito equo,

13. A. Gramsci, “Il mezzogiorno e la guerra”, Il Grido del Popolo, 1° aprile 1916, XXII, n. 610, in Scritti giovanili (1914-1918), op. cit., pp. 31-32.

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ma, a costo di dovere assumere degli atteggiamenti apparentemente antipatici e odiosi, è necessario che il proletario, specialmente urbano, reagisca contro queste campagne tendenziose14.

Anche sulla scorta di quanto accaduto in Russia nel 1917, Gramsci riaffrontò il tema su L’Ordine Nuovo il 2 agosto del 1919, avanzando l’idea dell’alleanza tra operai e contadini come superamento della relazione antagonistica tra città e campagna. Qui Gramsci descrive i processi di concentrazione e centralizzazione in chiave monopolistica durante la guerra e il definitivo prevalere delle forme imperialistiche di sviluppo del capitalismo italiano. Questo articolo è particolarmente interessante anche perché possiamo trovare i primi elementi della sua lettura sui gruppi subalterni poi centrali nei Quaderni. Alle forme arretrate e parassitarie nelle relazioni sociali attorno al regime feudale (in Russia, Italia, Francia e Spagna) corrisponde una determinata psicologia nella quale le istituzioni economiche e politiche non sono concepite come categorie storiche, dunque superabili da forme nuove e più avanzate, ma come categorie naturali, pertanto, perpetue. In realtà secondo Gramsci la grande proprietà terriera ha potuto conservarsi con queste forme solo perché rimasta protetta dalla libera concorrenza. Qua anche la mentalità del contadino è rimasta la stessa del “servo della gleba”, tendente a ribellarsi periodicamente contro i “signori” ma incapace di pensare sé stesso come parte di una classe che agisce collettivamente secondo un fine determinato e a partire alla coscienza sul proprio suolo storico. Passaggi nei quali pur non nominando direttamente la Sardegna i riferimenti alla sua realtà sociale sono evidenti. La psicologia dei contadini era, in tali condizioni, incontrollabile; i sentimenti reali rimanevano occulti, implicati e confusi in un sistema di difesa contro gli sfruttamenti, meramente egoistica, senza continuità logica, materiata in gran parte di sornioneria e di finto servilismo. La lotta di classe si confondeva col brigantaggio, col ricatto, con l’incendio dei boschi, con lo sgarrettamento del bestiame, col ratto dei bambini e delle donne; con l’assalto al municipio: era una forma di terrorismo elementare, senza conseguenze stabili ed efficaci. Obiettivamente quindi la psicologia del contadino si riduceva a una piccolissima somma di sentimenti primordiali dipendenti dalle condizioni sociali create dallo Stato democratico-parlamentare: il contadino era lasciato completamente in balia dei proprietari e dei loro sicofanti e dei funzionari pubblici corrotti, e

14. “Clericali ed agrari”, edizione piemontese de L’Avanti!, 7 luglio 1916, XX, n. 187, Ivi, pp. 42-43.

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la preoccupazione maggiore della sua vita era quella di difendersi corporalmente dalle insidie della natura elementare, dai soprusi e dalla barbarie crudele dei proprietari e dei funzionari pubblici. Il contadino è vissuto sempre fuori dal dominio della legge, senza personalità giuridica, senza individualità morale: è rimasto un elemento anarchico, l’atomo indipendente di un tumulto caotico, infrenato solo dalla paura del carabiniere e del diavolo. Non comprendeva l’organizzazione, non comprendeva lo Stato, non comprendeva la disciplina; paziente e tenace nella fatica individuale di strappare alla natura scarsi e magri frutti, capace di sacrifici inauditi nella vita familiare, era impaziente e violento selvaggiamente nella lotta di classe, incapace di porsi un fine generale d’azione e di perseguirlo con la perseveranza e la lotta sistematica15.

Tuttavia, la guerra e i sacrifici delle trincee mutarono secondo Gramsci radicalmente questa psicologia, favorendo l’irruzione sulla scena politica di ceti, classi e categorie fino ad allora afone, divenute protagoniste della rivoluzione dei Soviet all’interno di un blocco sociale ampio con la classe operaia. È proprio a partire da questa visione che Gramsci elabora un’idea di rivoluzione non rintracciabile nel resto del movimento socialista italiano. Concetti ripresi e sviluppati sulle colonne de L’Ordine Nuovo il 3 gennaio del 1920, dove tra le altre cose si può leggere in maniera ancora più esplicita l’idea del Meridione come colonia di sfruttamento interno alle modalità passive di modernizzazione conservatrice nazionale. Anche la già citata nascita del quotidiano l’Unità era strettamente legata a questa prospettiva, resa ancora più urgente dall’affermazione del Fascismo come consolidamento di quegli equilibri passivi tra parti dinamiche e altre parassitarie o improduttive della società italiana. Il quotidiano l’Unità nacque nel pieno divampare della reazione fascista e in una fase di profonda crisi del neonato Partito comunista, paralizzato da una concezione profondamente settaria tanto dell’organizzazione, quanto delle alleanze di classe da perseguire. Per contrastarla con maggior efficacia, la direzione dell’Internazionale approvò la proposta di creare un “quotidiano operaio” in grado di dare corpo all’obbiettivo strategico dell’unità delle classi subalterne italiane, le masse operaie del Nord e quelle rurali del Mezzogiorno. Il famoso saggio Alcuni temi della quistione meridionale fu elaborato nel corso dell’ottobre del 1926, un mese difficile, sotto vari aspetti cruciale per

15. A. Gramsci, “Operai e contadini”, L’Ordine Nuovo, 2 agosto 1919, in Scritti politici, Vol. I, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 227.

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l’esistenza di Antonio Gramsci: il 14 dello stesso mese infatti egli scrisse la famosa lettera al CC del PCR nella quale venivano censurati i metodi usati per liquidare l’opposizione a Stalin, pur affermando al contempo di riconoscersi nelle posizioni espresse dalla maggioranza. Rispetto al dibattito, Gramsci condivideva le questioni di merito, prendendo tuttavia nettamente le distanze dal metodo adoperato dal gruppo dirigente capeggiato da Stalin e richiamando il Partito sovietico alla necessaria unità, indispensabile per il movimento comunista internazionale specie in una fase di riflusso come quella. Com’è oramai arcinoto, Togliatti, allora rappresentante del Partito a Mosca, si rifiutò di inoltrare la lettera, non condividendone la sostanza e aprendo un dissidio sulla cui estensione si è ricamato e scritto più che a sufficienza, spesso anche a sproposito, e nel quale non intendiamo in alcun modo addentrarci. Un mese prima Gramsci aveva avuto una durissima polemica con il direttore de l’Unità Alfonso Leonetti dando luogo a una serie di lettere infuocate16 tra il Segretario generale e la redazione, fino al suo arresto. Nello scritto sulla questione meridionale Gramsci riprende in mano alcuni temi portanti delle Tesi di Lione con il preciso intento di svilupparli e dargli forma organica, fino a creare uno strumento di analisi utile a comprendere meglio la genesi storica del Fascismo e a individuare gli strumenti più idonei a sconfiggerlo. Gramsci avvertiva l’importanza di questo compito e accusava il peso della sua responsabilità, tanto da lavorare alla stesura di questo scritto molto lentamente ponderando il peso di ogni singola parola per la paura di non esprimere con la dovuta chiarezza il contenuto del suo pensiero. Secondo diverse testimonianze in proposito, prima tra tutte quella più volte riportata di Ruggiero Grieco, questa preoccupazione aveva provocato in Gramsci insonnia e ansia, spingendolo a sottoporre le bozze del suo scritto all’esame critico di tutti i compagni che andavano a trovarlo. Come è noto l’ultimo scritto prima del carcere non era stato ultimato per il sopraggiunto arresto avvenuto l’8 di novembre. Reduce da una riunione del gruppo parlamentare comunista per discutere l’atteggiamento da tenere rispetto all’ordine del giorno nella seduta della Camera dei deputati prevista per il giorno seguente (ripristino della pena di morte e revoca del seggio parlamentare per i deputa-

16. Per maggiori dettagli si rimanda a G. Fiori (a cura di) Antonio Gramsci. Vita attraverso le lettere, op. cit., pp. 121-124.

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ti aventiniani), Gramsci rientrava nella sua casa in via Morgagni alle 22,30 quando venne arrestato. Condotto a Regina Coeli, fu sottoposto al regime carcerario dell’isolamento per diciassette giorni, prima di iniziare il pellegrinaggio nelle diverse sedi carcerarie del Paese. Il salvataggio de La questione meridionale, recuperato nella casa di Gramsci subito dopo il suo arresto, si deve a Camilla Ravera, la sua pubblicazione a Palmiro Togliatti che lo fa uscire sulla rivista del Partito Lo Stato operaio, stampato a Parigi nel 1930. Il 6 giugno del 1932, Gramsci scriveva a Tania Schucht una lettera molto importante per collocare nella sua giusta dimensione La questione meridionale e comprendere come, proprio a partire da questo scritto, egli avesse intrapreso un percorso di analisi sul “trasformismo” inteso non come semplice fenomeno di malcostume politico ma come preciso processo di formazione delle classi dirigenti italiane per cooptazione. Questo fenomeno necessariamente implicava una ridefinizione della nozione di Stato, che andava allargata alle diverse graduazioni con le quali si esprime il dominio politico nella società italiana. Se studi tutta la storia italiana dal 1815 in poi, vedi che un piccolo gruppo dirigente è riuscito metodicamente ad assorbire nel suo circolo tutto il personale politico che i movimenti di massa, di origine sovversiva, esprimevano. Dal 60 al 76 il Partito d’Azione fu assorbito dalla monarchia, lasciando un residuo insignificante che continuò a vivere come Partito Repubblicano ma aveva più un significato folcloristico che storico-politico. Il fenomeno fu detto del trasformismo ma non si trattava di un fenomeno isolato; era un processo organico che sostituiva nella formazione dirigente, ciò che in Francia era avvenuto nella rivoluzione e con Napoleone, e in Inghilterra con Cromwell. Infatti, anche dopo il 1876 il processo continua, molecolarmente. Assume una portata imponente nel dopoguerra, quando pare che il gruppo dirigente tradizionale non sia in grado di assimilare e dirigere le nuove forze espresse dagli avvenimenti. Ma questo gruppo dirigente è più “malin” e capace di quanto si poteva pensare: l’assorbimento è difficile e gravoso, ma avviene nonostante tutto, per molte vie e con metodi diversi. L’attività del Croce è una di queste vie e di questi metodi; il suo insegnamento produce la maggior quantità di «succhi gastrici» atti all’opera di digestione. Collocata in una prospettiva storica, della storia italiana, naturalmente, l’operosità del Croce appare come la più potente macchina per conformare le nuove forze vitali che il gruppo dominante oggi possiede17.

17. A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino, 1974, p. 232.

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Come lo stesso Gramsci chiarisce in apertura, la stesura del saggio prende spunto dalla pubblicazione sulla rivista Quarto Stato di un articolo nel quale era recensito il libro di Guido Dorso La Rivoluzione Meridionale. Nell’articolo in questione, infatti, era mossa un’accusa specifica al gruppo ordinovista: aver affrontato la questione del Mezzogiorno con un atteggiamento demagogico tutto incentrato sulla “formula magica” della suddivisione del latifondo tra i proletari rurali. Contrariamente a questa tesi, confermata da un articolo de L’Ordine Nuovo del 3 gennaio 1920 citato nel saggio, Gramsci rivendica ai comunisti torinesi il merito di aver fatto uscire la questione meridionale da un indistinto ambito intellettualistico, ponendola invece alla classe operaia come un problema centrale della politica nazionale del proletariato. La questione meridionale era sottratta al monopolio dei grandi “santoni” del mondo accademico e intellettuale cui facevano riferimento i redattori del Quarto Stato, e al contempo veniva sgombrato il campo dall’approccio antimeridionalistico al limite del razzismo, proprio della tradizione socialista italiana. Per l’intellettualità positivista del PSI, e a livello elementare per le masse settentrionali, l’arretratezza del Mezzogiorno non aveva ragioni storiche di carattere sociale ed economico, ma genetiche, biologiche. Il mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il mezzogiorno è arretrato, la causa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra ragione storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l’esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le palme solitarie in un arido e sterile deserto; (…) il Partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura meridionalista della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano, che in bozzetti, articoli, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la scienza era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato18.

18. A. Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma, 1991, pp. 9-10.

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Per Gramsci, i comunisti torinesi avevano già posto la questione meridionale entro i termini di una conquista “egemonica” da parte del proletariato settentrionale nei confronti delle masse disgregate del Sud: I comunisti torinesi si erano posti concretamente la quistione dell’egemonia del proletariato, cioè della base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio. Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classi che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei reali rapporti di classe esistenti in Italia, nella misura in cui riesce ad ottenere il consenso sulle larghe masse contadine19.

Le particolari condizioni di sviluppo della società italiana, la sua storia, la sua tradizione, avevano fatto assumere alla questione contadina due forme tipiche e peculiari, la questione meridionale e quella vaticana. Porsi l’obiettivo storico di conquistare la maggioranza degli sfruttati per il proletariato significava assumere socialmente tali questioni e farle proprie, vale a dire, incorporare le esigenze di classe delle masse contadine sia nelle rivendicazioni immediate, sia nel programma rivoluzionario per la transizione20. Secondo Gramsci, per assolvere la sua funzione storica di “classe generale”, il proletariato avrebbe dovuto assumere un ruolo dirigente nei confronti dei contadini e di alcune categorie semiproletarie della città, ossia abbandonare ogni residuo di mentalità corporativa e sindacale. I suoi membri dovevano porsi e pensare come membri di una classe capace di dirigere sia i contadini sia gli intellettuali. Questa era l’unica strada percorribile affinché il proletariato, ancora minoranza della popolazione italiana, potesse avviare un processo rivoluzionario. In mancanza di questa funzione dirigente, quegli strati sociali oscillanti, potenzialmente sensibili alla radicalizzazione, sarebbero invece rimasti sotto l’egemonia della borghesia contribuendo a rafforzarne il dominio. L’abbandono di una mentalità grettamente corporativa costituiva dunque la precondizione per svolgere un ruolo dirigente, ed evitare l’assorbimento 19. Ivi, p. 8. 20. Questo è probabilmente il passaggio nel quale con maggiore chiarezza emerge la riproposizione creativa e l’applicazione alla concreta realtà italiana, dei concetti sviluppati da Lenin al III Congresso dell’IC. Così come Lenin in quel congresso poneva con forza la necessità della conquista egemonica della maggioranza degli sfruttati, portando l’esempio dei bolscevichi che incorporarono il programma agrario dei socialisti rivoluzionari, conquistandosi in breve tempo il sostegno dei contadini nei diversi soviet, così Gramsci si pone il problema di incorporare la questione meridionale e contadina nel programma rivoluzionario dei comunisti italiani.

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della classe operaia, proprio in ragione dei suoi interessi corporativi, da parte del blocco sociale dominante. Gramsci spiegava questo fenomeno, rifacendosi ad alcune esperienze storiche concrete della classe operaia italiana. In particolare, alla luce di queste considerazioni, era interpretata la proposta di gestione diretta dell’azienda in forma cooperativa avanzata dalla Fiat agli operai che occupavano la fabbrica. Sulla base degli interessi di categoria, dati dall’imminenza di una nuova crisi economica e dalla necessità di salvaguardare i posti di lavoro in pericolo, i capi riformisti del Partito Socialista e della CGL, si mostrarono favorevoli a questa soluzione. La sezione socialista di Gramsci intervenne invece, chiedendo agli operai di rifiutarla. Una grande azienda come la Fiat può essere assunta dagli operai, solo se gli operai sono decisi a entrare nel sistema di forze politiche borghesi che oggi governano l’Italia. La borghesia, già prima della guerra, non poteva più governare tranquillamente. (...) Dopo il decennio sanguinoso 1890-900, la borghesia dovette rinunziare a una dittatura troppo esclusivista, troppo violenta, troppo diretta: insorgevano contro di lei simultaneamente, se anche non coordinatamente, i contadini meridionali e gli operai settentrionali. Nel nuovo secolo la classe dominante inaugurò una nuova politica, di alleanze di classe, di blocchi politici di classe, cioè di democrazia borghese. Doveva scegliere: o una democrazia rurale, cioè una alleanza coi contadini meridionali (...) o un blocco industriale capitalistico-operaio, senza suffragio universale, per il protezionismo doganale, per il mantenimento dell’accentramento statale (espressione del dominio borghese sui contadini, specie del mezzogiorno e delle isole), per una politica riformistica dei salari e delle libertà sindacali. Scelse, non a caso, questa seconda soluzione; Giolitti impersonava il dominio borghese; il Partito Socialista divenne lo strumento della politica giolittiana21.

Nel corso del 1920 Giolitti ritentò la stessa strategia, cercando di includere la classe operaia settentrionale nel suo blocco di potere, l’attuazione di un simile proposito avrebbe rappresentato la totale subordinazione della classe operaia e la sua divisione: Che avverrà se le maestranze Fiat accettano le proposte della Direzione? Le attuali azioni industriali diventeranno obbligazioni; cioè la cooperativa dovrà pagare ai portatori di obbligazioni un dividendo fisso, qualunque sia il giro degli affari. L’azienda Fiat sarà taglieggiata in tutti i modi dagli istituti di credito, che rimangono in

21. A. Gramsci, La questione meridionale, cit., p. 20.

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mano ai borghesi, i quali hanno l’interesse a ridurre gli operai a loro discrezione. Le maestranze necessariamente dovranno legarsi allo Stato, il quale verrà in aiuto agli operai attraverso l’opera dei deputati operai, attraverso la subordinazione del partito politico operaio alla politica governativa. Ecco il piano di Giolitti nella sua piena applicazione. Il proletariato torinese non esisterà più come classe indipendente, ma solo come una appendice dello Stato borghese. Il corporativismo di classe avrà trionfato, ma il proletariato avrà perduto la sua posizione e il suo ufficio di dirigente e di guida; esso apparirà alle masse degli operai più poveri come un privilegiato, apparirà ai contadini come uno sfruttatore alla stessa stregua dei borghesi22.

L’inclusione organica nel blocco giolittiano avrebbe portato le masse disgregate del Sud a contrapporsi alla classe operaia, anziché favorire la costituzione di un nuovo blocco sociale contrapposto a quello “storico”. Dunque, la mentalità corporativa (e con essa il sindacalismo), costituiva per Gramsci uno dei principali veicoli attraverso i quali la borghesia attuava i suoi processi inclusivi e trasformistici verso le aristocrazie operaie, staccandole dall’insieme delle classi subalterne, decapitando il movimento operaio, e disinnescando in ultima analisi qualsiasi ipotesi di radicalizzazione rivoluzionaria. Come vedremo più in dettaglio, per Gramsci «ogni organismo sociale ha un suo principio ottimo di proporzioni definite», e quelle del blocco agrario meridionale realizzavano il loro grado massimo di centralizzazione nel campo ideologico. Secondo Paggi, nel pensiero di Gramsci, ciò è in linea con la convinzione che tutta la filosofia idealistica italiana sia in qualche modo riconducibile all’idea dell’autonomia e della continuità ininterrotta del ceto intellettuale, la quale finisce per realizzare una corrispondenza tra l’«occultamento teorico dei contrasti sociali, proprio di questa filosofia» e la funzione egemonica da essa svolta, e ciò avveniva proprio attraverso la realizzazione del livello massimo di centralizzazione nel campo ideologico, tramite l’attribuzione di uno statuto speciale agli intellettuali come ceto23. Gramsci definisce il Mezzogiorno “una grande disgregazione sociale”, all’interno della quale i contadini non hanno alcuna coesione tra di loro. Le masse contadine, che costituivano la maggioranza della popolazione meridionale, non riuscendo a dare “espressione centralizzata” alle proprie aspirazioni, materializzavano il loro perenne fermento attraverso uno stato 22. Ivi, p. 24. 23. L. Paggi, Le strategie del potere in Gramsci, op. cit., p. 334.

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di ribellismo endemico privo di prospettive. Al di sopra di queste masse si strutturava l’assetto di dominio del blocco agrario capace, attraverso le sue “proporzioni definite”, di mantenere le plebi rurali permanentemente nella loro condizione “amorfa e disgregata” evitando qualsiasi forma di centralizzazione a quello stato di perenne fermento. Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attività politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo complesso di manifestazioni. Come è naturale è nel campo ideologico che la centralizzazione si verifica con maggiore efficacia e precisione. Giustino Fortunato e Benedetto Croce rappresentano perciò le chiavi di volta del sistema meridionale, e in un certo senso sono le più grandi figure della reazione italiana24.

All’interno del sistema meridionale, dunque, assumeva grande importanza il ruolo degli intellettuali intermedi, poiché essi realizzavano il collegamento tra il grande proprietario terriero e il contadino. Questo tipo di intellettuale, proveniente dalla piccola e media borghesia agraria, che viveva in genere dalla rendita delle sue proprietà date in affitto o mezzadria, costituiva una sopravvivenza della vecchia società, poi sostituito nelle società industriali dall’intellettuale organizzatore, tecnico, specialista della scienza applicata. Questa stratificazione parassitaria, tipica della società meridionale, fu poi analizzata in dettaglio nelle note su Americanismo e Fordismo dei Quaderni proprio per comprendere al fondo alcune delle fondamentali ragioni economico-sociali del Fascismo25. Per Gramsci il Fascismo e l’americanismo-fordismo sono le due risposte, profondamente diverse, che la civiltà borghese ha dato alla sua “crisi organica” nel primo Novecento: la prima è una soluzione profondamente regressiva, è una rabbiosa difesa dell’ordine costituito tradizionale, del sistema di privilegi e della stratificazione di rendite parassitarie che nel corso dei secoli si era accumulata nella società europea; la seconda costituisce invece una prospettiva programmatica di abbandono del vecchio individualismo economico, dunque progressiva e razionale, seppur segnata anch’essa dalle sue

24. A. Gramsci, La questione meridionale, op. cit., p. 28. 25. G. Fresu, Americanismo e fordismo: l’uomo filosofo e il gorilla ammaestrato, NAE, op. cit., pp. 54, 58.

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intime contraddizioni. Come rileva Alberto Burgio, in uno dei lavori più interessanti realizzati sull’intellettuale sardo, «il tentativo americano contiene agli occhi di Gramsci elementi di indubbia razionalità, potenzialmente in grado di determinare il superamento di quel vecchio individualismo economico la cui difesa costituiva invece, come sappiamo, una finalità costitutiva del Fascismo»26. Il fenomeno andava studiato anche in relazione alla “caduta tendenziale del saggio di profitto”, come tentativo atto a superarne la persistenza. Tutto dunque, dal perfezionamento nei macchinari e nelle tecniche produttive, compresa la costruzione di una nuova figura operaia, la diminuzione degli scarti e l’utilizzo dei sottoprodotti, era finalizzato a passare da una fase di costi crescenti a una di costi decrescenti, pur nell’aumento del capitale costante. L’americanismo-fordismo, e il suo sforzo nella costruzione di un’economia programmatica, segna la sostituzione dei vecchi ceti plutocratici attraverso la realizzazione di un nuovo sistema di accumulazione e distribuzione del capitale finanziario, fondato immediatamente sulla produzione industriale ed epurato da tutti i filtri di intermediazione propri della civiltà europea. Non è un caso che in Europa i tentativi di introdurre questi elementi di economia programmatica si siano scontrati con molte resistenze “intellettuali e morali”, ma soprattutto abbiano dato luogo al fallace tentativo di conciliare il fordismo con l’anacronistica struttura sociale-demografica del vecchio continente. «L’Europa [scrive Gramsci] vorrebbe avere la botte piena e la moglie ubriaca, tutti i benefici che il fordismo produce nel potere di concorrenza, pur mantenendo il suo esercito di parassiti che divorano masse ingenti di plusvalore, aggravano i costi iniziali e deprimono il potere di concorrenza sul mercato internazionale»27. È in questa contraddizione che va ricercata l’origine più profonda della “crisi organica” che ha investito le grandi nazioni europee nel dopoguerra. L’americanismo, per attuarsi concretamente, necessita di una condizione preliminare di “composizione demografica razionale”, vale a dire che non esistano classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, “classi parassitarie”. Al contrario la civiltà europea, quella meridionale an-

26. A. Burgio, Gramsci storico, Editori Laterza, Bari, 2002, p. 212. 27. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 2141.

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cora di più, era contraddistinta dal proliferare di classi simili generate dalla ricchezza e complessità della storia passata, che aveva lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito. Nel Quaderno 7 Gramsci commenta un articolo di Alfredo Rocco del 1931, nel quale si analizza la diversa capacità di risparmio di Francia e Italia. Gramsci riconduce la questione, principalmente, al fatto che in Italia esistono classi parassitarie in misura ben maggiore della Francia, la più importante delle quali è la borghesia rurale28. Quanto più vetusta è la storia di un Paese tanto più estese e dannose sono queste «sedimentazioni di masse fannullone e inutili che vivono del patrimonio degli avi, di questi pensionati della storia economica»29. Era evidente come questa realtà fosse operante nel sistema italiano delle “cento città”, frutto di quell’apparato di “industriosità non produttiva” che caratterizza il “mistero di Napoli”: «si può ripetere per molta popolazione di tal genere di città il proverbio popolare: quando un cavallo caca, cento passeri fanno il loro desinare»30. In tal senso il sistema delle rendite garantite alla proprietà terriera meridionale, attraverso il sistema della mezzadria primitiva o in enfiteusi, generava un modo di accumulazione di capitale tra i più mostruosi e malsani, perché basato su un livello di sfruttamento usuraio della miseria agraria e perché costosissimo, dato che per mantenere l’elevato livello di vita delle famiglie dei “signori”, abituati a vivere parassitariamente della rendita dei latifondi, occorrevano somme sempre più imponenti che non consentivano né accumulazione di risparmio, né, tanto meno, alcun tipo di investimento produttivo della rendita agraria. Proprio per la tutela verso le articolazioni di “parassitismo assoluto”, il Fascismo appariva per sua natura in profonda contraddizione con i tentativi di razionalizzazione fordista. L’occasione per spiegarne i motivi era contenuta nelle note di commento ad alcuni scritti di Massimo Fovel31, nei quali si interpreta il corporativismo come premessa indispensabile per la modernizzazione taylorista della produzione italiana, capace di superare le persi-

28. 29. 30. 31.

Ivi, p. 807. Ivi, p. 2141. Ivi, p. 2143. N. M. Fovel, Economia e corporativismo. S.A.T.E., Ferrara, 1929.

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stenze economiche semifeudali che prelevano quote di plusvalore sottratte all’accumulazione e al risparmio. In realtà, il corporativismo per Gramsci non era nato con l’intento di riordinare gli assetti produttivi del Paese, ma per mere ragioni di “polizia economica”. In Italia, la classe operaia non si era mai opposta alle innovazioni tecniche finalizzate alla diminuzione dei costi e alla razionalizzazione del lavoro; al contrario, analizzando senza pregiudizio la fase precedente il 1922 e ancora il 1926, sembrava che proprio il movimento operaio si fosse fatto portatore di queste esigenze. Nel corporativismo, le ragioni negative di “polizia economica” avevano prevalso su qualsiasi elemento positivo di rinnovamento reale della politica economica. L’americanismo richiedeva come condizione l’esistenza di un dato ambiente economico e statale di tipo liberale, contraddistinto dalla libera iniziativa economica, dall’individualismo economico, giunto «con mezzi propri, come società civile, al regime della concentrazione industriale e del monopolio»32. Contrariamente a quanto sostenuto dal Fovel, il corporativismo non portava al superamento delle incrostazioni parassitarie e semifeudali che sottraggono quote di plusvalore, semmai le proteggeva. Proprio in questo stava – sul piano puramente economico – la natura decisamente più regressiva del Fascismo rispetto all’americanismo e la netta prevalenza in esso degli elementi di “polizia economica”: Lo Stato [fascista] crea nuovi redditieri, cioè promuove le vecchie forme di accumulazione parassitaria del risparmio e tende a creare dei quadri chiusi sociali. In realtà finora l’indirizzo corporativo ha funzionato per sostenere posizioni pericolanti di classi medie, non per eliminare queste e sta sempre più diventando, per gli interessi costituiti che sorgono dalla vecchia base, una macchina di conservazione dell’esistente così come è e non una molla di propulsione. Perché? Perché l’indirizzo corporativo è anche in dipendenza della disoccupazione: difende agli occupati un certo minimo di vita che, se fosse libera la concorrenza, crollerebbe anch’esso, provocando gravi rivolgimenti sociali; e crea occupazioni di nuovo tipo, organizzativo e non produttivo, ai disoccupati delle classi medie33.

Al contrario dell’Italia, l’America non era gravata dalla “zavorra storica” delle classi parassitarie e anche in ciò andava ricercata la ragione della

32. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 2157. 33. Ibid.

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sua straordinaria capacità di accumulazione di capitali, pur in presenza di un tenore di vita nettamente superiore rispetto a quello delle classi popolari europee. L’assenza di tali sedimentazioni aveva conferito una base sana all’industria e al commercio consentendo una significativa riduzione di molte fasi intermedie tra la produzione e la commercializzazione dei beni. Ciò inevitabilmente aveva avuto degli effetti positivi nell’accumulazione come nella capacità d’investimento e nella distribuzione della ricchezza prodotta. Queste precondizioni avevano pertanto reso relativamente facile il processo di razionalizzazione tra produzione e lavoro attraverso la combinazione della coazione sociale (la distruzione del sindacalismo operaio) e del consenso (alti salari, benefici sociali, propaganda ideologica e politica). L’americanismo consisteva nell’imperniare tutta la vita del Paese sulla produzione: «l’egemonia nasce nella fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e dell’ideologia»34. Nel Sud Italia, invece, il controllo sociale era garantito proprio da intellettuali la cui principale funzione politica era, per Gramsci, impedire la formazione di organizzazioni di massa autonome e indipendenti, dei contadini in grado di selezionare quadri dirigenti contadini o di origine contadina. Quando i contadini riuscivano a entrare nelle articolazioni istituzionali dello Stato, come le amministrazioni locali o il Parlamento, ciò accadeva sempre attraverso «composizioni e scomposizioni di partiti locali, il cui personale è costituito di intellettuali, ma che sono controllati dai grandi proprietari e dai loro uomini di fiducia, come Salandra, Orlando, Di Cesarò»35. Tramite gli intellettuali si realizza il blocco agrario, “intermediario e sorvegliante” del capitalismo parassitario del Nord: Al di sopra del blocco agrario funziona nel mezzogiorno un blocco intellettuale che praticamente ha servito finora a impedire che le screpolature del blocco agrario divenissero troppo pericolose e determinassero una frana. Esponenti di questo blocco intellettuale sono Giustino Fortunato e Benedetto Croce, i quali possono essere perciò giudicati come i reazionari più operosi della penisola36.

34. Ivi, p. 2146. 35. A. Gramsci, La questione meridionale, op. cit., p. 37. 36. Ibid.

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La grande disgregazione sociale del Mezzogiorno non riguardava solo le masse contadine, ma gli stessi intellettuali. Così al Sud, accanto alle grandi proprietà, sono esistite grandi accumulazioni culturali e di intelligenza di singoli individui o in ristretti gruppi di grandi intellettuali, mentre mancava totalmente qualsiasi forma di organizzazione della cultura media. Nel Mezzogiorno erano presenti importanti case editrici come la Laterza, accademie e imprese culturali di grande importanza, ma al contempo non esistevano piccole e medie riviste, o case editrici attorno alle quali potessero concentrarsi gruppi di intellettuali medi meridionali. Per questa ragione, gli intellettuali in grado di affrontare la questione meridionale in termini radicali emancipandosi dal blocco agrario, ebbero la possibilità di compiere questo processo solo in imprese editoriali al di fuori del Mezzogiorno. In tutto ciò, Benedetto Croce e Giustino Fortunato svolgevano una funzione ben precisa: “supremi moderatori politici e intellettuali”, impegnati a evitare un salto qualitativo rivoluzionario nel modo di affrontare i problemi riguardanti il Mezzogiorno. Croce e Fortunato sono definiti da Gramsci “uomini di grandissima cultura e intelligenza”, legati alla cultura europea e mondiale eppure radicati nel terreno culturale meridionale d’origine, veri e propri strumenti di formazione culturale e politica in grado di cooptare nel blocco di potere nazionale gli intellettuali sorti nel terreno culturale del Sud: Essi avevano tutte le doti per dare una soddisfazione ai bisogni intellettuali dei più onesti rappresentanti della gioventù colta del Mezzogiorno, per consolarne le irrequiete velleità di rivolta contro le condizioni esistenti (...) In questo senso Benedetto Croce ha svolto una grandissima funzione nazionale: ha distaccato gli intellettuali radicali del mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale europea, e attraverso questa cultura li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario37.

L’analisi dettagliata del blocco intellettuale nel Mezzogiorno, “l’armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario”, non aveva per Gramsci una mera funzione conoscitiva, perché nella sua concezione della rivoluzione in Italia, tra i compiti dei comunisti, vi era anzitutto la sua disgregazione. Un obiettivo perseguibile con due linee d’azione: grazie a un lavoro accorto di

37. Ivi, p. 39.

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direzione politica, teso a favorire l’organizzazione di masse sempre più ampie di contadini poveri in formazioni autonome e indipendenti dagli assetti sociali dominanti; produrre nella massa degli intellettuali una frattura di carattere organico, producendo tra essi una tendenza di sinistra, favorevolmente orientata verso la funzione dirigente della classe operaia. La collaborazione con Piero Gobetti e altri esponenti del gruppo di Rivoluzione Liberale, da parte de L’Ordine Nuovo, rispondeva proprio a questa necessità. Gobetti e il suo gruppo, infatti, pur non essendo comunisti, posero il proletariato urbano come protagonista moderno della storia italiana e della questione meridionale, servirono da intermediari tra il proletariato e determinati strati intellettuali, lavorando in direzione di quella frattura nelle fila degli intellettuali meridionali. La collaborazione con Gobetti aveva dunque per Gramsci una duplice funzione: in primo luogo, collegare la classe operaia con gli intellettuali nati sul terreno della tecnica capitalistica che avevano assunto nel corso del “biennio rosso” una posizione di sinistra; in secondo luogo, collegare la classe operaia con quegli intellettuali meridionali che ponevano la questione meridionale al di fuori dei canoni tradizionali del blocco intellettuale egemonizzato da Benedetto Croce, introducendovi il proletariato del Nord. In questo modo si sarebbe contribuito ulteriormente a eliminare i residui di mentalità corporativa dalla classe operaia, ponendola alla guida di quegli intellettuali e delle masse contadine autonomizzatesi dal blocco agrario e dalle masse semiproletarie delle città, creando insomma un nuovo blocco sociale rivoluzionario. L’elaborazione di questo saggio avvenne nel vivo del secondo colpo di Stato di Mussolini, quando il regime si sbarazzò, definitivamente, delle residue tutele statutarie alla pluralità democratica, cancellando anche per via normativa quelle libertà individuali e collettive già di fatto conculcate. Le leggi fascistissime posero al vertice dello Stato il Gran Consiglio del Fascismo, cui furono attribuiti gran parte dei poteri prima spettanti al Parlamento. Fu istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, ripristinata la pena di morte, istituzionalizzata la milizia paramilitare del Partito fascista – rinominata Milizia volontaria per la sicurezza nazionale – fascistizzati i codici di procedura civile e penale. Soppressi, con i partiti e le associazioni, tutti i sindacati, tranne quello fascista. L’occasione per passare alle vie di fatto fu il fallito attentato a Mussolini del 31 ottobre 1926; tuttavia, già in agosto Gramsci aveva previsto la messa fuori legge del PCd’I indicando la necessità

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di preparare più rapidamente un’efficiente struttura clandestina. Nel giro di poche settimane si mise in moto la macchina repressiva, preparata per via normativa nei mesi precedenti, perfezionando i meccanismi e gli apparati della persecuzione legale delle opposizioni, a partire dall’annullamento di tutti i passaporti per l’estero. Per l’organizzazione comunista, come per tutte le altre forze antifasciste, si aprì il baratro di un’ancora più aperta dittatura poliziesca, un’autentica “caccia all’uomo”38, strada per strada: le squadre fasciste, ora totalmente coperte dalla legge, devastarono sezioni, sedi di partiti, sindacati e redazioni di giornali, praticando l’uso indiscriminato del terrore. I vertici del Partito comunista, anzitutto Gramsci, furono arrestati, iniziando il loro calvario nei Tribunali speciali tra le galere e il confino coatto. L’azione repressiva fu estremamente efficace e nel dicembre del 1926 un terzo dei suoi aderenti si trovò in stato di detenzione. Non è questa la sede per affrontare dettagliatamente tali vicende, peraltro ampiamente trattate in numerose pubblicazioni di ricostruzione storiografica e memorie. Basti qui ricordare il punto di non ritorno, scatenato tra il 1926 e il ’27, per comprendere il clima da cui prende le mosse la fuoriuscita degli antifascisti39 scampati all’arresto e le immense difficoltà da cui prende le mosse la clandestinità dei temerari che trovano il coraggio di sfidare comunque il Fascismo, restando in Patria, con il proposito di opporvisi40. In questo clima fu una donna protagonista dell’immediata ricostituzione di un Ufficio di segreteria clandestino, Camilla Ravera, che così ricostruisce l’avvio della vita clandestina in una sua memoria: In una piccola casa di campagna, nei dintorni di Genova, a Sturla, nel novembre 1926, avevo organizzato la segreteria clandestina del Partito comunista: vi si entrava per una strada pietrosa, stretta tra folte siepi e robusti muretti; (…) L’avevo scelta proprio per quel giardino che la isolava e confondeva tra le altre simili sparse in quella campagna. (…) Apparentemente in quella casa stavamo sempre soltanto in tre: io, Giuseppe Amoretti e Anna Bessone. Per dare alla nostra vita un aspetto

38. L’espressione è di Velio Spano (1905-1964) dirigente sardo di primo piano nel Partito comunista italiano, tra il 1923 e il 1964, e figura di spicco dell’antifascismo. 39. Nel mese di dicembre viene costituito il Centro estero del PCd’I a Parigi con Grieco, Togliatti e Tasca. 40. «Continuano a lavorare in Italia Camilla Ravera, Paolo Ravazzoli, Alfonso Leonetti, Ignazio Silone, Luigi Ceriana, Carlo Venegoni, Pietro Tresso e Teresa Recchia. Camilla Ravera che si assume il compito di riorganizzare il centro interno del Partito, provvede a prendere una serie di misure importanti. Viene scelta Genova come sede dell’Ufficio di segreteria e di altri uffici, mentre l’ufficio sindacale diretto da Ravazzoli si costituisce a Milano», P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, Editori Riuniti, Roma, 1969, vol. II, p. 96.

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normale, simile a quello delle famiglie residenti là intorno avevamo preso un’anziana donna del luogo, molto sorda, che ogni mattina veniva due ore a riordinare le stanze occupate al piano terra; quelle del piano superiore figuravano disabitate. (…) Verso sera incominciavano gli incontri, le discussioni fra noi del centro, con i compagni arrivati da altri luoghi. Sovente le discussioni si prolungavano fino a tarda notte; e i compagni di passaggio dovevano essere ospitati nelle stanze superiori della casa, e partire l’indomani alla spicciolata, senza lasciar traccia. Per questo Ignazio Silone aveva dato alla nostra sede il nome di Albergo dei poveri41.

Contemporaneamente, a migliaia di chilometri di distanza, la lotta per la successione a Lenin raggiunse il suo apice aprendo uno scontro drammatico e senza precedenti nel gruppo dirigente del Partito comunista bolscevico, destinato a influire negativamente sulle sorti e la linea del Comintern e delle sue singole sezioni nazionali. Tra queste, quella italiana risultò la più esposta alle oscillazioni e dunque soggetta alle pressioni provenienti da Mosca, per la sua gravissima situazione politico-organizzativa dovuta alla dittatura e alla caduta nella rete carceraria del suo capo. Proprio tra il novembre e il dicembre del 1926, al culmine della repressione in Italia, a Mosca si tenne il VII Plenum dell’Internazionale comunista nel quale andò in scena il durissimo scontro nel vertice del Partito russo con al centro del dibattito la divisione tra la visione del “socialismo in un paese” sostenuta da Stalin e Bucharin e quella della “rivoluzione permanente” di Trockij, sostenuto da Zinov’ev e Kamenev. Come è noto, i tre massimi dirigenti del Partito russo, postisi in conflitto con Stalin, finirono per essere definitivamente liquidati alla fine di questo scontro. Anche rispetto a questo tema non ci addentriamo oltre, limitandoci a richiamarlo per chiarire l’autentico disastro politico-organizzativo con cui fanno i conti i comunisti italiani nel passaggio tra il 1926 e il ’30, cui si aggiunse il drammatico scontro nel partito guida dell’Internazionale, sulla cui gravità Gramsci richiamò tutti al senso di responsabilità nella famosa lettera al Comitato centrale del Partito comunista bolscevico, scritta neanche un mese prima del suo arresto. Furono per primi i protagonisti a riconoscerlo, supportati poi dai dati impietosi delle ricerche storiche: il 1927 fu a tutti gli effetti l’annus horribilis della storia comunista in Italia. Il capo della polizia Arturo Bocchini istituì l’efficientissimo ispettorato speciale di

41. C. Ravera, in I comunisti nella storia d’Italia, C. Pillon (a cura di), Edizioni del Calendario, Roma, 1967.

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Milano contro i dissidenti politici, l’OVRA, poi articolata e resa operativa su tutto il territorio nazionale. Per Spriano il rapporto tra repressori e repressi è di uno a uno: Se centomila sono gli schedati almeno altrettanti sono i poliziotti (dagli agenti dei servizi investigativi della PS, e della MVSN, ai carabinieri, ai dipendenti dei ministeri in servizio speciale, ai militi della confinaria, della portuale, della ferroviaria) che si dedicano prevalentemente o esclusivamente a rafforzare la vigilanza e la repressione politica. A giudicare dallo spoglio dei documenti concernenti le opposizioni, almeno tre quarti del lavoro che questo vero e proprio esercito compie ha come bersaglio l’attività cospirativa dei comunisti42.

Il 13 marzo del 1927 si aprono a Roma i grandi processi del Tribunale speciale, inizialmente sfilano detenuti comunisti arrestati prima della svolta del 1926, in particolare 39 membri dell’organizzazione di Firenze arrestati nel 1925. Da questo momento in poi, Tribunale speciale e carceri lavoreranno a pieno regime per le continue ondate di arresti grazie all’abile uso da parte dell’OVRA di informatori e spie introdotte negli ambienti “sovversivi”, sicuramente lo strumento più efficace tra le mani della struttura messa in piedi dal Bocchini. Grazie alle soffiate, vanno così a bersaglio numerose retate: in marzo, contro il comitato direttivo milanese appena ricostituito; in aprile, a danno dell’organizzazione romana; in giugno, ancora contro la struttura di Milano, ma anche a Varese, quindi a Napoli, in Emilia-Romagna, Toscana, Umbria; in luglio è la volta della storica roccaforte del movimento operaio, Torino, e così via senza oramai più sosta. Tutti i dirigenti superstiti dell’organizzazione ancora nel Paese sono arrestati per tutto il 1927, poi l’azione repressiva si intensifica nuovamente dopo l’attentato a Vittorio Emanuele III alla Fiera campionaria di Milano del 12 aprile 1928. La bomba non raggiunse l’obiettivo prefissato: restarono sul terreno venti morti e moltissimi feriti, ma la dinamica non fu mai chiarita: tra le stesse fila dell’opposizione antifascista non si sapeva chi avesse messo la bomba, e ad accrescere il mistero si fece strada l’ipotesi che si trattasse di un attentato la cui paternità andava ricercata nelle componenti più intransigenti del Fascismo, desiderose di libe-

42. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, op. cit., pp. 91-92.

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rarsi della figura ingombrante del re per passare con più decisione alla fase della rivoluzione43. Anche se esecutori e mandanti non furono mai trovati, l’attentato fu l’occasione per scatenare nuovamente il terrore contro l’antifascismo: ci furono immediatamente quasi seicento arresti e fu impiegata sistematicamente la tortura per estorcere confessioni. Ancora una volta quella comunista fu l’organizzazione che subì il maggior numero di arresti, caddero nella rete della polizia dirigenti di primo piano come Li Causi, D’Onofrio, Amoretti, Bessone, lo stato maggiore del ricostituito Centro interno. È il prologo al processone contro il gruppo dirigente comunista: il 28 maggio del 1928 compaiono di fronte al Tribunale speciale di Roma 23 imputati eccellenti, tra cui Antonio Gramsci, accusato di cospirazione, propaganda, istigazione alla lotta armata di classe, oltraggio, vilipendio e creazione di un esercito rivoluzionario con il preciso scopo di rovesciare l’ordine costituito. 2. I Quaderni: l’avvio tormentato di un lavoro “disinteressato” Nel carcere di Turi l’8 febbraio 1929, due anni dopo l’arresto, Gramsci inizia la stesura dei Quaderni. In carcere lo studio è un metodo di resistenza all’abbruttimento intellettuale, uno strumento di sopravvivenza fisica e politica. Come ha scritto Valentino Gerratana, dalla tensione tra queste due esigenze prendono forma i Quaderni, un lavoro composto di appunti e riflessioni destinati a ulteriore definizione, eppure di straordinaria ricchezza, tanto da essere ritenuto irrinunciabile per tanti ambiti scientifici molto diversi tra loro. Dalla critica letteraria alla linguistica, dalla storia alla scienza politica, dalla pedagogia al teatro. Un’opera oggetto di studi scientifici approfonditi negli USA, in Inghilterra, Giappone, India, Brasile e Messico oltre che in Italia. Secondo Coutinho, la grande diffusione internazionale di Gramsci e la sua importanza per discipline differenti nel campo delle scienze umane e sociali sono una conferma circa la correttezza della definizione di “classico” in riferimento alla sua opera. Tuttavia, prosegue Coutinho, una tale affermazione richiede un chiarimento ulteriore, sia perché dietro alla “monu-

43. Ipotesi in seguito ventilata dall’allora Ministro Luigi Federzoni.

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mentalizzazione classica” c’è sempre dietro il rischio della mummificazione intellettuale, sia perché esiste una differenza tra Gramsci e altri “classici”, ossia quegli autori capaci di interpretare il proprio tempo restando al contempo attuali anche per le epoche successive. Se per opere come il Principe di Machiavelli o il Leviatano di Thomas Hobbes si può parlare di “classici” che mantengono forti tratti di attualità, nel senso di offrire spunti di analisi utili alla contemporaneità, l’opera di Gramsci è attuale in un altro senso: «egli è stato interprete di un mondo che, nella sua essenza, continua a essere il nostro mondo di oggi»44. Nei Quaderni emerge il rigore politico e insieme la spietata concretezza, con la quale l’intellettuale sardo fa i conti con il crollo del sistema liberale in Italia e con esso il travolgimento del movimento operaio e del proprio campo politico. Un dramma storico che spinge Gramsci a un’indagine priva di indulgenze sui limiti, gli errori, le astrattezze dell’intero fronte oppostosi a Mussolini. Da questa esigenza prende corpo un corpus di note che passa sotto la lente d’ingrandimento della riflessione gramsciana i fatti degli uomini e delle idee, esposti con una prosa attenta e tagliente che spesso non disdegna di cogliere il lato ironico delle cose. Il carattere tutt’altro che dogmatico dell’opera di Gramsci gli ha permesso di sfuggire alle rigide classificazioni, di andare oltre la crisi e il crollo del suo stesso campo politico-ideologico, di varcare il limite temporale e politico del Novecento. I Quaderni del carcere sono uno strumento chiave per leggere anche l’attualità, costituiscono ancora oggi una bussola utile a orientarsi nelle contraddizioni della modernità, e non è certo un caso se gli studi scientifici di diverse discipline gli abbiano conferito, oggi più di ieri, un posto di assoluto rilievo a livello internazionale tra i grandi pensatori della storia dell’umanità. L’impatto con il regime carcerario si rivelò difficilissimo, soprattutto nell’avvio dello studio, poiché era impossibile un rapporto dialogico con altri soggetti, necessario a evitare un lavoro troppo autoriflessivo. Ma al di là della condizione soggettiva, era difficilissimo ottenere i mezzi per studiare con continuità e scrivere secondo un ordine razionale. Lo sconforto conseguente alle prime disordinate letture gli fece dubitare sulle reali possibilità di riuscita del progetto. Così in una lettera a Tania, il 23 maggio

44. Carlos Nelson Coutinho, Il pensiero politico di Gramsci, Unicopli, Milano, 2006, p. 146.

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1927, Gramsci annunciava di volersi dedicare a due attività con scopo terapeutico, come gli esercizi ginnici e le traduzioni dalle lingue straniere: Un vero e proprio studio credo mi sia impossibile, per tante ragioni non solo psicologiche ma anche tecniche; mi è molto difficile abbandonarmi completamente a un argomento o a una materia e sprofondarmi solo in essa, proprio come si fa quando si studia sul serio, in modo da cogliere tutti i rapporti possibili e connetterli armonicamente. Qualche cosa in tal senso forse incomincia ad avvenire per lo studio delle lingue, (…) ora leggo le novelline dei fratelli Grimm. Sono proprio deciso a fare dello studio delle lingue la mia occupazione predominante45.

Al di là dell’aspetto “terapeutico”, queste traduzioni sono importanti anche sul piano biografico. In una lettera alla sorella Teresina del 18 gennaio 1932, Gramsci scriveva di voler dare un suo piccolo contributo allo sviluppo della fantasia dei nipoti ricopiando e spedendo loro le traduzioni dei fratelli Grimm, «una serie di novelline popolari proprio come quelle che ci piacevano tanto quando eravamo bambini. Sono un po’ all’antica, alla paesana, ma la vita moderna, con la radio, l’aeroplano, il cine parlato, Carnera, ecc. non è ancora penetrato abbastanza a Ghilarza perché il gusto dei bambini d’ora sia molto diverso dal nostro di allora»46. Pur provenendo dalla tradizione tedesca, le novelle, ambientate in boschi fitti e tenebrosi popolati di spiriti, streghe e folletti, non erano distanti dalla tradizione orale della fantasia popolare sarda e sembravano plasmarsi perfettamente sull’atmosfera della sua terra e di Ghilarza in particolare, un luogo «dove esisteranno sempre tipi all’antica come ‘tia Adelina’ e ‘Corroncu’47 e le novelle avranno sempre un ambiente adatto». Il mondo di quelle fiabe gli riportava alla memoria le scorribande d’infanzia nelle vallate in Sardegna, tra Ghilarza e Abbasanta, quando, suggestionato dalle letture d’avventura, non usciva mai di casa senza avere in tasca chicchi di grano e fiammiferi avvolti nella tela cerata, nella malaugurata eventualità di finire su un’isola deserta. L’interesse di Gramsci per la linguistica risale ai tormentati anni dello studio universitario nella grande Torino, resi difficili da salute cagionevole e da una indisponibilità economica che rasentava la miseria più assoluta. Il giovane

45. A. Gramsci, Lettere dal carcere, op. cit., pp. 92-93. 46. Ivi, p. 560. 47. Personaggi di Ghilarza citati nella lettera.

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sardo attirò subito l’attenzione di uno dei più importanti studiosi di glottologia del tempo, Matteo Bartoli, e intensificò i rapporti con il docente di letteratura Umberto Cosmo, in passato professore al Liceo Dettori di Cagliari. Bartoli in particolare lo incoraggiò nello studio della linguistica sarda. Così non è inusuale trovare lettere ai familiari riguardanti questo tema. In una di esse, destinata al padre, del 3 gennaio 1912, chiedeva quando nel dialetto fonnese la s «si pronuncia dolce, come in italiano rosa» e «quando dura, come sole»48, in altre destinate alla sorella chiedeva di informarsi circa alcune peculiarità del logudorese e del campidanese49, su termini, pronunce, varianti. Non è dunque un caso se nei Quaderni tanta attenzione sia dedicata alla glottologia e in generale alla linguistica. Dopo anni di militanza e un’intensa attività teorico-politica, le traduzioni di queste prime note dal carcere avevano un valore propedeutico, oltre che terapeutico, necessarie all’inizio di un lavoro “disinteressato” rispetto al quale le condizioni ambientali non aiutavano. È ancora una lettera a Tania del 15 dicembre 1930, nella quale considerazioni personali e di studio si mischiano, ad accennarlo: Sarà perché tutta la mia formazione intellettuale è stata di ordine polemico; anche il pensare disinteressatamente mi è difficile, cioè lo studio per lo studio. Solo qualche volta, ma di rado, mi capita di dimenticarmi in un determinato ordine di riflessioni e di trovare per dir così, nelle cose in sé l’interesse per dedicarmi alla loro analisi. Ordinariamente mi è necessario pormi da un punto di vista dialogico o dialettico, altrimenti non sento alcuno stimolo intellettuale50.

Al di là di questa valutazione autocritica, tratto caratteristico della personalità di Gramsci, le traduzioni e gli studi di linguistica sono condotti con un certo rigore filologico, curiosità intellettuale e un metodo oggi analizzato con grande attenzione dagli specialisti della materia. Nel comunicare in una lettera la volontà di dedicarsi a uno studio sistematico della linguistica comparata, egli confessò alla cognata Tania che uno dei suoi maggiori rimorsi intellettuali era il dolore procurato al professor Bartoli dell’Università di Torino,

48. Variante della lingua sarda parlata a Fonni, piccolo Paese di montagna ubicato nelle zone interne della Barbagia. 49. Il Logudoro è una regione della Sardegna situata nella parte interna e centrale del suo Nord, mentre il Campidano è un’area, una vallata pianeggiante, che si estende dal Sud fino al centro dell’isola. 50. A. Gramsci, Lettere dal carcere, op. cit., p. 390.

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che intravedeva per Gramsci un grande futuro tra i “neogrammatici”. Ma gli avvenimenti del «mondo grande, terribile e complicato», che precedettero e seguirono la guerra, avevano spinto il giovane intellettuale sardo, come tanti della sua generazione, a trovare nell’impegno politico una nuova ragione di esistenza per la quale valeva la pena di rischiare tutto, compresa la vita. Il terzo Quaderno di traduzioni, oltre a proseguire lo studio sui ceppi linguistici di Franz Nikolaus Finck, contiene le traduzioni delle Conversazioni con Goethe di Eckermann. Le Conversazioni raccolgono le memorie del grande poeta e scrittore tedesco attraverso i colloqui con il suo segretario Joahn Peter Eckermann. Goethe è stato definito un genio universale per la versatilità del suo estro manifestatosi in diversi campi del sapere, poesia, letteratura, scienza, filosofia. Eckermann, tramite i ricordi, ne ricostruisce l’universo ideale, il mondo e i valori, fino a tratteggiare un affresco biografico ritenuto uno dei più grandi patrimoni della letteratura occidentale, tanto da essere definito da Nietzsche il miglior libro tedesco mai scritto. Goethe è una figura sistematicamente presente nei Quaderni come nelle Lettere. Per Gramsci ogni nazione ha un letterato che ne riassume in qualche modo la gloria intellettuale: Shakespeare per l’Inghilterra, Cervantes per la Spagna, Dante per l’Italia, Goethe per la Germania51. Tuttavia, solo Shakespeare e Goethe possono ritenersi figure intellettuali operanti anche nell’età contemporanea, autori attuali, per la loro capacità «d’insegnare come dei filosofi quello che dobbiamo credere, come poeti quello che dobbiamo intuire (sentire), come uomini quello che dobbiamo fare»52. In Goethe Gramsci intravede una forza politico-culturale capace di varcare il suo tempo e imporsi al presente: «solo Goethe è sempre di una certa attualità, perché egli esprime in forma serena e classica ciò che nel Leopardi è ancora torbido romanticismo»53, rappresentando la fiducia nell’attività creatrice dell’uomo in una natura vista non come nemica e antagonista. La lettura delle Conversazioni con Goethe nella condizione di detenzione accomuna l’esperienza di Gramsci a quella di un grande critico letterario francese vissuto negli stessi anni, Jacques Rivière. Nel Quaderno I Gramsci riporta alcuni stralci delle Impressioni di prigionia, scritte dallo storico editore della Nouvelle Revue Française e pubblicate nel 1928, tre anni dopo la sua morte. In esse Rivière rac-

51. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1026. 52. Ivi, p. 1187. 53. Ibid.

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contava le vessazioni subite durante la prigionia nella Prima guerra mondiale, in particolare l’umiliazione patita nel corso di una perquisizione nella sua cella, quando vennero sequestrate le sue poche cose e soprattutto l’unico libro che aveva con sé, appunto le Conversazioni con Goethe. Gramsci ha trascritto le sensazioni di disperazione e angoscia del francese per lo stato brutale e incerto di una prigionia, vissuta come un’ineliminabile “stretta al cuore”, nella quale si è costantemente esposti a ogni tipo di angheria e la condizione di oppressione fisica e psichica diviene insopportabile. Un’angoscia, testimoniata da tutto il carteggio delle lettere, condivisa dall’intellettuale sardo che, non a caso, concluse queste note scrivendo del pianto in carcere «quando l’idea della morte si presenta per la prima volta e si diventa vecchi d’un colpo»54. In questi anni Gramsci vive inoltre un grande travaglio politico, non condividendo la svolta impressa nel movimento comunista internazionale tra il 1928 e il 1930, un’angoscia resa ancora più dura dall’isolamento nel quale si trovò tra gli stessi detenuti comunisti. Gli orientamenti emersi al X Plenum e al VI Congresso dell’Internazionale, che portarono all’affermarsi della teoria sul socialfascismo, provocarono una profonda crisi nel gruppo dirigente del PCd’I, con lo stesso Togliatti messo sotto accusa per le “ambiguità” di una linea sottoposta a profonda revisione, anche per i suoi passati rapporti con Tasca. Una crisi segnata da clamorose espulsioni (Tresso, Ravazzoli, Bavassano, Leonetti, Tasca, Silone), da polemiche durissime e accuse violente, in un contesto generale di indebolimento dell’organizzazione clandestina oramai quasi completamente saltata all’interno del Paese. Contro le espulsioni e la revisione della linea politica espresse le sue critiche Umberto Terracini, in una lettera indirizzata al gruppo dirigente del PCd’I, aprendo un dissenso durato poi dodici anni fino alla sua espulsione nel confino di Ventotene. In questa lettera, il futuro Presidente della Assemblea Costituente, oltre a esprimere riserve sui provvedimenti disciplinari, muoveva precise critiche alla tesi del “socialfascismo” accusando, con dovuta ragione, i vertici dell’organizzazione di aver assunto le posizioni un tempo espresse da Amadeo Bordiga sull’equipollenza tra Fascismo e democrazia. Proprio in questa lettera, oggetto di diverse analisi e studi, Terracini chiarì la posizione espressa da Gramsci e Scoccimarro nelle discussioni in comune del carcere di Regina

54. Ivi, p. 80.

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Coeli. Secondo il segretario in carcere, con la caduta del Fascismo si sarebbe dovuti passare attraverso una fase democratica, con la creazione di un’Assemblea costituente repubblicana, esattamente quanto l’Internazionale prima e il Partito italiano poi condannarono come “deviazionismo opportunista”. Sono numerose le testimonianze, tra queste quella di Athos Lisa, che confermano l’assunzione della parola d’ordine dell’Assemblea Costituente e l’esigenza di un’offensiva unitaria dei comunisti verso gli altri partiti antifascisti da parte di Gramsci: l’esortazione a «non avere paura di fare politica» e ad abbandonare i residui di mentalità massimalista. Il non allineamento di Gramsci alle nuove posizioni dell’Internazionale e del Partito provocò, nel collettivo dei detenuti comunisti del carcere di Turi, notevoli contrasti fino a determinare l’isolamento del detenuto sardo, amaramente costretto a chiudersi in sé stesso e nel silenzio e nello studio: Probabilmente da questo momento nasce un certo clima di sospetto nel carcere di Turi, una certa accusa di essere fuori dalla linea del Partito, addirittura su posizioni socialdemocratiche, che peseranno non poco sullo stato d’animo di Gramsci, aggravando il suo isolamento e mischiandosi a meschine accuse di appartarsi troppo, di voler essere legalitario all’eccesso nei confronti del regime carcerario, di rivelarsi individualista semplicemente perché egli protegge le condizioni minime per poter continuare a studiare55.

3. Relazioni egemoniche, rapporti produttivi e subalterni Sono assillato da questa idea: che bisognerebbe far qualcosa für ewig, secondo una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli. Insomma vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore. (...) Ricordi il rapidissimo e superficialissimo mio scritto sull’Italia meridionale e sulla importanza di B. Croce? Ebbene vorrei svolger ampiamente la tesi che avevo allora abbozzato, da un punto di vista disinteressato, für ewig56.

Questo brano, tratto dalla famosa lettera scritta a Tania Schucht il 19 marzo 1927 dal carcere di Milano, costituisce un ponte tra l’analisi della

55. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, vol. II, Einaudi, Torino, 1969, p. 286. 56. Ivi, p. 58.

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Questione meridionale e quella dei Quaderni, dove il tema dei rapporti tra Settentrione e Meridione, alla luce della polarizzazione antagonistica tra città e campagna, è assolutamente centrale e indagato con una prospettiva storica che investe in pieno le dinamiche del Risorgimento italiano e la funzione degli intellettuali come ceto. Negli ultimi decenni, le note sulla Questione meridionale e l’indagine sui gruppi subalterni hanno suscitato grande attenzione nell’ambito dei cosiddetti studi post-coloniali e dei subaltern studies57, sebbene tra i due orientamenti sia giusto fare le opportune distinzioni. Iain Chambers ha parlato del grande salto compiuto nel pensiero critico occidentale da Gramsci e rielaborato da Said, in ragione del quale la lotta politica e culturale non si fonderebbe sul rapporto tra tradizione e modernità ma attraverso la dialettica tra parte subalterna e parte egemonica del mondo58. In essa risiede la convinzione che la cultura giochi un ruolo determinante nella definizione degli assetti di dominio e nella costruzione dei blocchi storico-sociali59. A partire da questa consapevolezza e dalla definizione del concetto di subalterno, Gramsci è presente costantemente negli studi post-coloniali, a volte anche in modo approssimativo e incoerente, attraverso la traslazione delle sue categorie, dalla dimensione storica e territoriale italiana a quella planetaria nel rapporto tra Nord e Sud del mondo o più precisamente nella condizione di subalternità imposta a esso dall’Occidente60. A partire dalle profonde trasformazioni globali dei rapporti di sfruttamento, secondo alcuni tra i più celebrati autori di tali filoni di ricerca, il concetto di subalternità avrebbe subito un’evoluzione che sancisce una fuoriuscita dai canoni concettuali del cosiddetto “marxismo ortodosso”61. In questo modo, la questione sarebbe passata da un contesto segnato dal conflitto capitale/

57. Nell’agosto del 2011, in Brasile, alla Unesp di Marília, si è tenuto un grande convegno internazionale su questi temi. Gli atti del convegno sono stati recentemente pubblicati nel volume Gramsci, periferia o subalternidade, Edusp, São Paulo, 2017. 58. Esercizi di potere. Gramsci, Said, e il postcoloniale. A cura di Iain Chambers, Universale Meltemi, Roma, 2006. 59. Edward. W. Said, Cultura e imperialismo, Gamberetti Editrice, Roma, 1998/ Orientalismo, Bollati e Boringhieri, Torino, 1991. 60. Di particolare interesse, in proposito, il Convegno Internazionale “Gramsci in Asia e in Africa” tenutosi alla Università di Cagliari il 12 e 13 febbraio del 2009, i cui atti sono stati curati da Annamaria Baldussi e Patrizia Manduchi dall’omonimo volume pubblicato nello stesso anno dalla casa editrice Aipsa. 61. La questione postcoloniale. A cura di Iain Chambers e Lidia Curti, Liguori, Napoli, 1997.

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lavoro, a una dimensione di razza, etnia e territorio, oltre che di genere62. L’importanza della dimensione spaziale dei rapporti di dominio ed egemonia, ovverosia la caratterizzazione geografica o territoriale del concetto di subalternità, sarebbe stata presente già in Gramsci nella definizione del terreno comune tra masse contadine del Mezzogiorno e proletariato del Nord, così come sarebbe presente nel rapporto Oriente/Occidente. Alcuni utilizzi incoerenti delle categorie gramsciane, poggiando non solo su una mancanza di cautele filologiche, quando non proprio su interpretazioni basate su letture di seconda o terza mano, sono sovente il frutto di una loro dolosa decontestualizzazione. A nostro modesto avviso, non è possibile comprendere fino in fondo il lascito gramsciano prescindendo dal dibattito teorico di cui si è nutrito e dalla discussione politica in cui Gramsci è stato immerso in tutta la sua esistenza. Fatte queste precisazioni critiche, l’esigenza di dare carne e ossa alle categorie concettuali, contestualizzarle alle realtà storicamente determinate, è del tutto coerente con lo spirito dell’opera di Gramsci e con la sua aspirazione a evitare l’astrattezza e la genericità delle affermazioni ideologiche. Nei suoi diversi lavori Peter Thomas ha più volte mostrato come, convertita al singolare, la traduzione della categoria dei subalterni abbia favorito lo sviluppo di un intero campo di studi accademici, i Subaltern studies, consentendo un ampliamento enorme dei suoi possibili campi di applicazione. Giustamente Peter Thomas ha sottolineato l’ambivalenza dei sentimenti suscitati da questa estensione nella comunità degli studiosi più tradizionali e “ortodossi”: per un verso la soddisfazione per una così larga diffusione delle sue categorie; per un altro le perplessità, se non proprio il disappunto, per certi usi eccessivamente disinvolti delle stesse63. Al di là di questo sentimento contrastante, l’estensione creativa ed eterodossa del lascito teorico di Gramsci, in campi di applicazione così diversificati e non sempre coerenti, è una possibilità immanente alla struttura del suo ragionamento, problematicamente proteso verso lo studio degli elementi peculiari di ogni specifica formazione culturale e insieme interessato alla grande questione concettuale della “traducibilità” di linguaggi filosofici, dinamiche di sviluppo e relazioni sociali. A partire

62. Gayatri Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale: verso una storia del presente in dissolvenza, Meltemi, Roma, 2004. 63. P. D. Thomas, “Cosa rimane dei subalterni alla luce dello Stato integrale?”, in International Gramsci Journal, vol. II, n. 4, 2015, pp. 82-92.

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dal concetto di “storicamente determinato”, e da ciò che hegelianamente potremmo definire “seconda natura”, Gramsci si serve ripetutamente di categorie analitiche classiche della geografia nella sua analisi dei processi egemonici e delle relazioni di dominio a livello internazionale. In tal senso, l’intellettuale sardo definisce i concetti di Oriente e Occidente frutto di una convenzione storico-culturale che ci indica un fatto storico prodotto dallo sviluppo della civiltà. Ma per quanto si tratti di una costruzione, non sarebbe semplicemente un artificio puramente arbitrario e razionalistico. In assenza dell’uomo non avrebbe senso pensare in termini di Est e Ovest, o di Nord e Sud, perché questi sono rapporti reali difficilmente intellegibili senza l’uomo, lo sviluppo della sua civiltà e soprattutto le relazioni egemoniche tra dominanti e dominati. È evidente che Est e Ovest sono costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche, perché fuori dalla storia reale ogni punto della terra è Est e Ovest allo stesso tempo. Ciò si può vedere più chiaramente dal fatto che questi termini si sono cristallizzati non dal punto di vista di un ipotetico e malinconico uomo in generale ma dal punto di vista delle classi colte europee che attraverso la loro egemonia mondiale li hanno fatti accettare dovunque. (…) Così attraverso il contenuto storico si è andato agglutinando al termine geografico, le espressioni Oriente e Occidente hanno finito con l’indicare determinati rapporti tra complessi di civiltà diverse64.

Per questo, scrive Gramsci, il Giappone è Estremo Oriente anche per il californiano e per il giapponese stesso che, attraverso la mediazione della cultura politica inglese, considera Vicino Oriente l’Egitto, mentre l’italiano considera Oriente il Marocco in quanto parte della civiltà araba e musulmana. In tal senso, nella definizione di Gramsci il concetto di Occidente riguarda essenzialmente le realtà caratterizzate da un elevato sviluppo delle forze produttive e degli apparati egemonici, mentre quello di Oriente si riferisce a realtà caratterizzate da società civili ancora “primordiali” e “gelatinose” nelle quali il potere si regge essenzialmente per mezzo dei rapporti di dominio propri della società politica. Una caratterizzazione storica, ovviamente non statica né definitiva, che necessita di essere verificata in concreto, tenendo conto dei reali processi di sviluppo caratteristici di ciascuna formazione economico-sociale.

64. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., pp. 1419-1420.

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Il rapporto Nord/Sud, come quello Est/Ovest, in Gramsci, è inscindibile dalla concezione materialistica della storia, ossia dalla centralità delle relazioni sociali di produzione nella definizione dei concetti di egemonia e dominio. Il Quaderno 1, trattando nuovamente della questione meridionale, affronta proprio questo ordine di problemi partendo da una considerazione di tipo metodologico: la dinamica tra città e campagna muta profondamente in rapporto al contesto preso in esame e, pertanto, nessuna generalizzazione sarebbe scientificamente adeguata. L’Italia con la sua storia è per Gramsci la dimostrazione pratica della veridicità di questa valutazione, alla quale se ne può affiancare anche un’altra: l’affermazione generale secondo cui la città è sempre più progressiva della campagna può essere ritenuta valida solo se la città in questione è “tipicamente industriale”, mentre in assenza di questa condizione il ruolo progressivo della città sarebbe tutto da dimostrare. Così in Italia l’urbanesimo non era connesso al fenomeno industriale e il cosiddetto sistema delle “cento città” solo in rarissimi casi si esprimeva nelle forme della città industriale, tanto è vero che la più grande città era Napoli. Per Gramsci il rapporto tra Nord e Sud in Italia rientrava appieno nello schema classico della dialettica tra città e campagna, e poteva essere analizzato nelle diverse forme di cultura che le due realtà esprimevano65. Le strutture delle classi intellettuali variavano profondamente nei due contesti presi in esame: così nel Sud dominava ancora la figura dell’intellettuale di tipo “curiale”, la cui funzione era mantenere in contatto la massa dei contadini con quella dei proprietari fondiari e con lo Stato; nel Nord dominava il tipo del “tecnico d’officina” che manteneva in relazione l’operaio con la classe capitalistica, mentre il rapporto di collegamento tra la massa operaia e lo Stato era svolto da un nuovo ceto intellettuale, quello sindacale o espressione del partito politico. L’egemonia del Nord sul Sud avrebbe potuto storicamente assolvere una funzione positiva e progressiva se l’industrialismo si fosse posto l’obiettivo di ampliare la sua base di nuovi quadri incorporando, non dominando, le nuove zone economiche assimilate. In tal senso l’egemonia del Nord avreb65. Benedetto Croce e Giustino Fortunato sono posti da Gramsci a capo di un movimento culturale meridionale che si contrappone al movimento culturale [futurista] del Nord. All’interno di questa dinamica però la Sicilia si stacca dal resto del sud e i suoi intellettuali hanno una diversa collocazione; così Crispi è l’uomo dell’industria settentrionale, mentre sia Gentile sia Pirandello sono collocabili – seppur diversamente – all’interno del movimento culturale futurista.

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be potuto essere espressione di «una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo»66. Una dinamica di questo tipo avrebbe potuto innescare o favorire una rivoluzione economica con carattere nazionale; al contrario, l’egemonia non ebbe carattere inclusivo, ossia finalizzata a far venir meno quella distinzione, ma “permanente”, “perpetua”, nel senso di reggersi su un’idea di sviluppo diseguale tale da rendere la debolezza del Sud un fattore, indeterminato nel tempo, funzionale alla crescita industriale del Nord, come se il primo fosse un’appendice coloniale del secondo. In Italia il processo di unificazione nazionale non si realizzò sulla base di un rapporto d’uguaglianza, ma attraverso una relazione squilibrata all’interno della quale l’arricchimento e l’incremento industriale del Nord dipendevano strettamente dal crescente impoverimento del Mezzogiorno. La realtà dello sfruttamento semicoloniale del Sud è stata sempre accuratamente celata dalle classi dirigenti e a quest’opera, secondo Gramsci, contribuirono pure gli intellettuali socialisti che, anziché svelare l’origine del rapporto diseguale, spiegarono l’arretratezza del Sud con l’incapacità organica, l’inferiorità biologica, la barbarie congenita dell’uomo meridionale. Le antiche e radicate rappresentazioni del «lazzaronismo napoletano» tradotte nelle dottrine “pseudo-scientifiche” da sociologi positivisti e studiosi di antropologia criminale, in gran parte intellettuali del Partito socialista italiano. Attraverso queste argomentazioni, trovò ampio seguito, anche tra le masse popolari del Nord, la convinzione di un Meridione liberato dal giogo borbonico, fertile e ricco di risorse naturali e, ciò nonostante, incapace di emanciparsi dalla miseria e dall’arretratezza per ragioni tutte interne al Meridione stesso. Si radicò l’immagine di un Sud “palla al piede” che impediva al Nord un più rapido progresso verso la modernità industriale e la ricchezza economica. Questo rapporto diseguale trovò per Gramsci una sanzione politica nei programmi liberali – dall’Unità d’Italia fino all’avvento del Fascismo – in due linee guida: nel giolittismo anzitutto, il cui obbiettivo era creare un blocco urbano-industriale (capitalisti-operai) come base sociale di uno Stato protezionista, nel quale il Meridione era destinato a svolgere la funzione di mercato di vendita semicoloniale per l’industria settentrionale; nel program-

66. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., Ivi, p. 131.

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ma sostenuto dal Corriere della Sera, basato invece sull’alleanza tra industriali del Nord e rurali meridionali. La prima di queste due linee guida del liberalismo in Italia, si reggeva sulla repressione violenta e poliziesca di ogni movimento contadino di massa e su un sistema di privilegio e favori per i ceti intellettuali del Sud, incorporati a titolo personale nell’ordine impiegatizio pubblico. In questo modo si è impedito un qualsiasi punto d’incontro tra questi due elementi della società meridionale, e così «lo strato che avrebbe potuto organizzare il malcontento meridionale diventa [invece] uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio poliziesco»67. All’interno di questo sistema di potere, gli intellettuali svolgono la stessa funzione di sottufficiali e ufficiali subalterni nell’esercito, vale a dire, tengono in contatto gli ufficiali superiori con le truppe. Nel Quaderno 3 il concetto di “sovversivo”, nella sua essenza prettamente italiano, è definito sinteticamente come una “posizione negativa” e non positiva di classe, che contraddistingue sia il ribellismo primitivo delle masse bracciantili, sia quello reazionario della piccola borghesia rurale e cittadina. Per esemplificarlo Gramsci parla dell’avversione elementare e superficiale verso i signori da parte del popolo. Un odio, nel quale si rispecchia la vecchia contrapposizione tra città e campagna, di tipo semifeudale, che costituisce un manifesto della condizione di arretratezza nella coscienza di classe, che si manifesta nella sua forma primordiale puramente negativa. Non solo non si ha coscienza esatta della propria personalità storica, ma non si ha neanche coscienza della personalità storica e dei limiti del proprio avversario (le classi inferiori, essendo storicamente sulla difensiva, non possono acquistare coscienza di sé che per negazioni, attraverso la coscienza della personalità e dei limiti di classe dell’avversario: ma appunto questo processo è ancora crepuscolare, almeno su scala nazionale)68.

L’espressione “morto di fame” nelle campagne sta a indicare sia il lavoratore agricolo giornaliero (sottoproletariato rurale), sia il piccolo borghese che discende da una borghesia rurale la cui proprietà finisce per essere liqui-

67. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 36. 68. Ivi, pp. 324-324.

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data attraverso il progressivo spezzettamento nel passaggio da una generazione all’altra. Dunque, anche in questo caso, un morto di fame che però non vuole fare lavori manuali e aspira ai piccoli impieghi municipali e pubblici. Nella descrizione fatta dall’intellettuale sardo è ben riconoscibile la base sociale del primo Fascismo. Questo strato è un elemento perturbatore nella vita delle campagne, sempre avido di cambiamenti (elezioni ecc.) e dà il «sovversivo» locale e poiché è abbastanza diffuso, ha una certa importanza: esso si allea specialmente alla borghesia rurale contro i contadini, organizzando ai suoi servizi anche «i giornalieri morti di fame». In ogni regione esistono questi strati, che hanno propaggini anche nelle città, dove confluiscono con la malavita professionale e con la malavita fluttuante. Molti piccoli impiegati delle città derivano socialmente da questi strati e ne conservano la psicologia arrogante del nobile decaduto, del proprietario che è costretto a penare col lavoro. Il «sovversivismo» di questi strati ha due facce: verso sinistra e verso destra, ma il volto sinistro è un mezzo di ricatto: essi vanno sempre a destra nei momenti decisivi e il loro «coraggio» disperato preferisce sempre avere i carabinieri come alleati69.

Questo tipo di intellettuale, definito nelle già citate note del Quaderno 22 espressione organica di un ceto di “pensionati della storia economica”, proviene dalla piccola e media borghesia agraria, vive in genere dalla rendita delle sue proprietà date in affitto o mezzadria e costituisce una sopravvivenza della vecchia società, sostituito nelle società industriali dall’intellettuale organizzatore, tecnico, specialista della scienza applicata. La funzione interdittoria degli intellettuali grandi e intermedi, contro la tendenza dei gruppi subalterni a unificarsi, è presente in tutti i Quaderni del carcere e trova un passaggio di assoluta importanza nel Quaderno 25. In esso Gramsci afferma che ogni traccia di autonoma iniziativa, politica, sociale e culturale, da parte delle classi subalterne assume un valore “inestimabile” per la natura “episodica e disgregata” della loro storia. Quel che specificamente è chiarito nella Questione meridionale per comprendere la società italiana diviene qui una sorta di tendenziale regola storico-politica. Nella loro attività i gruppi subalterni subiscono costantemente l’iniziativa dei gruppi dominanti anche quando si ribellano e insorgono. La conseguenza diretta è che la ten-

69. Ivi, p. 325.

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denza verso una centralizzazione coerente di tale attività, capace di andare oltre il ribellismo o la mera rivendicazione economica, è sempre spezzata e resa disorganica dalla capacità di interdizione delle classi dominanti. La subalternità di questi gruppi può trovare fine solo con la vittoria “permanente” di questi gruppi, tanto che solo a compimento di un ciclo storico si può affermare se l’iniziativa dei gruppi subalterni si è conclusa con un successo. Più precisamente, i gruppi subalterni non possono unificarsi fino a che non diventano Stato70. Per quanto riguarda invece l’unità delle classi dirigenti, essa avviene nello Stato, tanto che si può affermare che la loro storia coincide con quella degli Stati; tuttavia, non bisogna credere che essa si risolva nel solo versante giuridico e politico delle istituzioni, perché il dominio di una classe non si riduce ai suoi apparati coercitivi e la dimensione operativa di uno Stato non si limita all’evidenza istituzionale. Nel commentare il libro di Daniel Halévy Decadenza della libertà, nel Quaderno 6, Gramsci scrive quanto «il concetto comune di Stato sia unilaterale e conduca a errori madornali»71, per la semplice ragione che lo si riduce al solo apparato governativo e coercitivo senza comprendere anche «l’apparato privato di egemonia e società civile». Lo Stato sinteticamente è esemplificato nella formula dittatura + egemonia. Se dunque la storia delle classi dirigenti finisce per coincidere con quella degli Stati, quella delle classi subalterne è invece una «funzione disgregata e discontinua» della storia della società civile e per suo tramite della storia degli Stati. Nello studio delle classi subalterne ogni dettaglio assume una importanza centrale per lo «storico integrale» e Gramsci indica alcuni punti essenziali di tale indagine dai quali emerge l’importanza della lotta egemonica: 1) Come i gruppi subalterni si formano e si sviluppano in rapporto ai processi della produzione economica, la loro diffusione quantitativa, le possibili origini da gruppi preesistenti, compresa l’eventuale persistenza di mentalità, ideologie e fini di questi; 2) le modalità, palesi o larvate, di adesione alle forze politiche dei gruppi dominanti, i tentativi di condizionarne i programmi attraverso le proprie rivendicazioni, le ripercussioni di tali dinamiche sulle vicende politiche delle classi subalterne; 3) il costituirsi di nuovi gruppi

70. Ivi, p. 2288. 71. Ivi, p. 801.

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politici per mantenere il consenso e il controllo delle classi subalterne; 4) l’esistenza di organizzazioni proprie dei gruppi subalterni sul terreno delle rivendicazioni economico-corporative; 5) l’esistenza di nuove formazioni che invece affermano l’autonomia dei gruppi subalterni pur nella persistenza dei vecchi quadri; 6) il formarsi di forze capaci di affermare integralmente l’autonomia dei gruppi subalterni, vale a dire, la capacità di costruire i propri intellettuali organici. Il processo evolutivo (dalla dimensione primitiva, economico-corporativa, a quella dell’autonomia integrale) nella consapevolezza dei gruppi subalterni va indagato con la massima attenzione verso ogni manifestazione del cosiddetto “spirito di scissione”, e verso tutte le contraddizioni provocate su tale processo evolutivo dal fatto che anche nei gruppi politici delle classi subalterne sono presenti elementi, in genere dirigenti, provenienti dalle classi dominanti. Nel Quaderno 3, la storia frammentaria delle classi subalterne è indagata alla luce del rapporto dialettico tra spontaneità e direzione consapevole. Anzitutto, per l’intellettuale sardo, non esiste mai nella storia una “pura spontaneità” e anche nel movimento più spontaneo sussistono sempre elementi di direzione consapevole; il problema è che essi sono difficilmente accertabili perché raramente lasciano documenti storicamente verificabili a causa del limitato livello di coscienza sociale che spesso contraddistingue l’esistenza delle classi subalterne. Si può dire che l’elemento della spontaneità è perciò caratteristico della «storia delle classi subalterne» e anzi degli elementi più marginali e periferici di queste classi, che non hanno raggiunto la coscienza della classe «per sé» e che perciò non sospettano neanche che la loro storia possa avere una qualsiasi importanza e che abbia un qualsiasi valore lasciarne tracce documentarie72.

Pur in presenza di una molteplicità di elementi di direzione consapevole nessuno di essi riesce a essere predominante e a superare il livello di scienza popolare e senso comune delle classi subalterne – ossia della loro concezione tradizionale del mondo. Da ciò deriva la necessità di studiare storicamente e attivamente, non sociologicamente o descrittivamente, gli elementi di psi-

72. Ivi, p. 328.

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cologia, cultura, senso comune delle masse popolari, esigenza che Gramsci ritrova in forma quantomeno implicita nella dottrina di Iliči (Lenin). Anche nei movimenti spontanei esistono elementi primitivi di direzione consapevole, di disciplina, come è confermato dall’esistenza di realtà che sostengono la spontaneità come metodo d’azione. Per spiegare meglio questo concetto Gramsci ritorna all’esperienza del movimento consiliare torinese nel “biennio rosso”. Come abbiamo visto nel primo capitolo di questo volume, il gruppo ordinovista era accusato – tanto dai riformisti alla Turati, quanto dai rivoluzionari alla Bordiga – di essere insieme “spontaneista” e “volontarista”, un’accusa contraddittoria che per Gramsci era indice della giustezza della direzione assunta da quel movimento, la quale non confondeva la politica con l’azione reale, semplicemente perché non aveva la pretesa scolastica di conformare questa a formule scientifiche o teoriche. Una direzione plasmatasi sull’esperienza di “uomini reali”, formatisi in determinati rapporti storici, con determinati sentimenti, modi di vedere, frammenti di concezioni del mondo che risultavano dalle combinazioni spontanee di un dato ambiente di produzione materiale, con il casuale agglomerarsi in esso di elementi sociali disparati. Il merito del gruppo de L’Ordine Nuovo fu di non trascurare o disprezzare mai quegli elementi di spontaneità, senza però, al contempo, farne un feticcio; al contrario, operando con tenacia per renderli omogenei, coerenti, e connetterli con le teorie moderne. Il rapporto organico tra direzione politica e concreta articolazione delle classi subalterne risiede propriamente in ciò: questa unità della «spontaneità» e della «direzione consapevole», ossia della disciplina è appunto la azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa73.

Una teoria moderna della direzione politica non può essere per Gramsci in opposizione con i sentimenti “spontanei” delle masse. Con questa espressione l’intellettuale sardo si riferisce al patrimonio formatosi tramite l’esperienza quotidiana in rapporto al senso comune, non la negazione di una qualche attività educatrice sistematica da parte di un gruppo dirigente già consape-

73. Ivi, p. 330.

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vole. I due elementi, “spontaneità” e “direzione consapevole”, sono necessari l’uno all’altro per andare oltre la dimensione istintiva e primordiale del senso comune, senza però realizzare un rapporto dualistico tra direzione politica e insieme delle classi subalterne rese mera massa di manovra. La sufficienza, il disprezzo, verso i movimenti spontanei, e quindi la rinuncia a rapportarsi a essi per fornirli di una direzione consapevole capace di elevarli e dargli contenuto politico, può peraltro avere gravi conseguenze, perché avviene spesso che il formarsi di un movimento spontaneo delle classi subalterne, specie in contesti di crisi economica, sia accompagnato da un movimento reazionario della classe dominante che si serve del malcontento diffuso per indebolire il governo e ordire complotti che inevitabilmente sfociano nei colpi di Stato. Tra le cause più “efficienti” dei colpi di Stato Gramsci rileva la rinuncia da parte dei gruppi dirigenti coscienti di dare una direzione consapevole e uno sbocco positivo ai moti spontanei delle classi subalterne. Questa, possiamo dire, è la principale lezione politica che viene a Gramsci dal fallimento del “biennio rosso” cui seguì l’avvento del Fascismo. Il compito della teoria politica deve essere di tradurre in linguaggio teorico gli elementi della vita storica, non, viceversa, pretendere di plasmare la realtà in base a schemi dottrinari astratti e a piani elaborati minuziosamente in precedenza. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un metodo riconducibile al primato attribuito da Lenin allo studio particolareggiato delle concrete «formazioni economico-sociali», contro ogni pretesa dottrinaria che affronti la realtà a partire da schemi dottrinari scolasticamente predefiniti dall’intuizione visionaria dell’intellettuale74. 4. Il trasformismo permanente L’intero corpus dei Quaderni poggia su una esigenza di indagine scientifica: per comprendere le profonde radici del dramma sfociato nella dittatura fascista, era necessario studiare la storia delle classi dirigenti italiane e chiarire le contraddizioni immanenti al nostro processo di unificazione nazionale. Nelle note del Quaderno 19 Gramsci individua quattro plessi tematici preliminari, necessari a comprendere le origini di questo insieme di proble-

74. G. Fresu, Lenin leitor de Marx, op. cit., p. 109.

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mi: 1) l’analisi dei diversi significati che ha assunto la parola Italia nelle diverse epoche storiche; 2) lo studio della fase di passaggio dalla Repubblica all’Impero con la «snazionalizzazione» di Roma e della penisola, una transizione che conduce al ridimensionamento dell’egemonia italica e al formarsi di una classe imperiale, supernazionale e cosmopolita; 3) l’arresto del processo di sviluppo politico-sociale della civiltà comunale; 4) la scarsa importanza nazionale in Italia dell’Età del mercantilismo, a differenza di quanto accade nei nuovi Grandi Stati moderni. La mancata formazione di uno Stato italiano unitario nell’epoca moderna, dunque la tradizionale assenza di un sentimento nazionale comparabile a quello sviluppatosi nelle nazioni interessate dall’affermarsi dei grandi Stati assoluti, è un tema particolarmente importante nei Quaderni. Secondo l’intellettuale sardo, il ruolo storico dei Comuni e della borghesia italiana si rivelò disgregatore dell’unità esistente e non riuscì a trovare forme nuove e più avanzate di unità. Quando gli altri Paesi iniziarono a acquisire una coscienza determinata e a organizzare le proprie culture nazionali, l’Italia perse invece la sua funzione di centro internazionale di cultura senza dare origine a un proprio processo di aggregazione nazionale. I suoi intellettuali non si nazionalizzarono, al contrario si trasferirono all’estero e assunsero ruoli di primissimo piano politico e culturale nelle Corti europee. Il fallimento del processo di integrazione nazionale della borghesia italiana, successivamente resa impossibile dal dominio straniero, fu storicamente attribuito a due fattori esterni: 1) l’invasione turca nel Vicino e Medio Oriente, con l’interruzione del commercio verso l’Est; 2) il trasferimento delle relazioni commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico, con le grandi scoperte geografiche. In realtà, secondo Gramsci, questi fenomeni debbono essere considerati l’effetto del declino delle Repubbliche italiane, non certo la causa. In linea generale, la borghesia si sviluppò meglio negli Stati assoluti esercitando un potere indiretto, mentre in Italia la borghesia, sebbene con un ruolo politico preminente, subì un processo involutivo. Ciò era dovuto anzitutto al quadro di disgregazione politica della penisola che nel lungo periodo ne decretò il declino. Sebbene ricchissimi, né il Comune, né la Signoria comunale potevano essere considerati Stato, perché mancava loro un vasto territorio e una popolazione adeguata a una politica internazionale indipendente. Pertanto, la borghesia italiana fu la prima storicamente a comparire e a generare forme significative di accumulazione

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capitalistica, ma non seppe uscire dalla dimensione corporativa-municipale finendo per subire un processo di involuzione, e ciò la spinse ad abbandonare il commercio e il rischio degli investimenti produttivi in favore della rendita fondiaria. La borghesia si ruralizzò, assumendo i tratti parassitari tipici della vecchia aristocrazia, mentre gli intellettuali conservarono il loro carattere cosmopolita senza però diventare mai nazionali. Il cosmopolitismo della tradizione istituzionale e intellettuale italiana – che la Chiesa ereditò dall’Impero Romano – è una delle cause della sua subalternità nelle relazioni internazionali durante il Medio Evo. In Italia la Chiesa, con il suo doppio ruolo di monarchia spirituale universale e principato temporale, non fu mai abbastanza forte da occupare tutta la penisola, né abbastanza debole al punto da permetterlo ad altri. La tradizione della universalità romana e medievale impedì lo sviluppo delle forze nazionali borghesi al di là del campo puramente economico-municipale, cosa che avvenne solo dopo la Rivoluzione francese. Per dar corso a uno studio serio sulla formazione storica degli intellettuali italiani era necessario risalire sino all’età imperiale romana, quando la penisola italiana fu punto di attrazione intellettuale per tutti i domini dell’Impero. Ciò rese i gruppi dirigenti, imperatori compresi, sempre più imperiali e sempre meno latini. In tal senso Gramsci nel Quaderno 3 parla di una linea di continuità unitaria, ma non nazionale, rispetto allo sviluppo delle classi colte italiane tale da determinare un disequilibrio interno alla composizione della sua popolazione. Il tema della funzione cosmopolita degli intellettuali italiani trova un ulteriore sviluppo nel Quaderno 5. Per un lungo periodo l’Italia ha svolto una funzione culturale a livello internazionale attirando nelle sue Università studiosi interessati a perfezionarsi assimilandone la cultura sotto la guida degli intellettuali italiani. Oltre a questa realtà esisteva anche un fenomeno migratorio verso l’Italia di altra natura, i viaggiatori che da tutto il mondo venivano nella Penisola ritenuta un grande museo a cielo aperto, a lungo passaggio irrinunciabile nella formazione intellettuale delle classi colte europee. Nonostante ciò, a partire da un determinato momento, gli intellettuali italiani (con l’eccezione degli ecclesiastici) iniziarono a emigrare all’estero, mentre il fenomeno inverso cessò. Se per un verso il centro romano si internazionalizzava, per un altro, gli altri Paesi acquisivano una propria cultura nazionale con il contributo decisivo proprio degli intellettuali italiani. Tutto ciò portò allo sfaldamento della “cosmopoli medievale”;

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tuttavia, la perdita del ruolo storico di centro internazionale di cultura non alimentò la genesi di una propria cultura nazionale. Il tema della debolezza delle classi dirigenti italiane affonda dunque le sue radici indietro nel tempo, ben prima dell’Ottocento, nell’arresto dello sviluppo capitalistico della civiltà comunale, nella natura cosmopolita dei ceti intellettuali, nella mancata formazione di uno Stato unitario moderno, prima che una serie di concomitanze di carattere internazionale consentissero tale processo. La pretesa di concepire e presentare il Risorgimento come fatto essenzialmente italiano, al contrario, tradiva il provincialismo e la poca onestà politico-intellettuale dei suoi esegeti. Secondo Gramsci il concetto di “personalità nazionale”, considerata al di fuori dei rapporti internazionali, sarebbe una mera astrazione letteraria senza alcun fondamento storico e politico. In tal senso, il Risorgimento non potrebbe spiegarsi senza dare il giusto peso ai profondi mutamenti prodottisi negli equilibri europei del Settecento: C’è un indebolimento reciproco delle due grandi potenze e sorge una terza potenza, la Prussia. Pertanto le origini del moto del Risorgimento, cioè del processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione e alle forze interne/nazionali di svilupparsi ed espandersi, non sono da ricercare in questo o quell’evento concreto registrato sotto una o altra data, ma appunto nello stesso processo storico per cui l’insieme del sistema europeo si trasforma75.

Tra i fattori del Risorgimento Gramsci indicava anche l’indebolimento “catastrofico” subito dal Vaticano nel Settecento. Come chiarito anche da Hegel nelle sue lezioni sulla Filosofia della storia, secondo Gramsci, la Santa Sede, a compimento di un lungo processo generato dalla Controriforma, subì un drastico ridimensionamento della sua potenza perché, non potendo contare più sulla pressione deterrente delle masse fanatiche da lei irreggimentate, perse progressivamente la capacità di influire direttamente e indirettamente sugli altri governi. «La politica regalista delle monarchie illuminate è la manifestazione di questo esautoramento della Chiesa come potenza europea e quindi italiana»76.

75. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1963. 76. Ibid.

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Anche con questo indebolimento si creano le condizioni per il Risorgimento, perché il processo di unificazione italiana poteva compiersi solo a condizione di questo ridimensionamento della Chiesa come potenza italiana e soprattutto europea. Il Risorgimento è lo snodo da cui si dipartono gli elementi essenziali di debolezza delle classi dirigenti italiane, a iniziare dal fallimento delle prospettive democratiche del Partito d’Azione e, al contrario, dalla capacità egemonica dei moderati di Cavour, «l’esponente della guerra di posizione» in Italia, il rappresentante più organico di quel mutamento prodottosi nelle modalità di espansione della borghesia europea. Nel Risorgimento, per quanto possa apparire contraddittorio, i concetti “guerra di posizione” e “guerra manovrata” si identificano e la guerra manovrata diviene guerra di posizione. «È un giudizio dinamico [scrive Gramsci] che occorre dare sulle Restaurazioni che sarebbero un’astuzia della provvidenza in senso vichiano»77. Questa identificazione è data dalla complementarietà tra il concetto di guerra manovrata (iniziativa popolare), rappresentata da Mazzini, e rivoluzione passiva (guerra di posizione), rappresentata da Cavour, entrambe indispensabili nella stessa misura. C’è una differenza di fondo però con cui si spiega l’egemonia dei moderati sul Partito d’azione: Mentre Cavour era consapevole del suo compito (almeno in una certa misura) in quanto comprendeva il compito di Mazzini, Mazzini non pare fosse consapevole del suo e di quello del Cavour; se invece Mazzini avesse avuto tale consapevolezza, cioè fosse stato un politico realista e non un apostolo illuminato (cioè non fosse stato Mazzini) l’equilibrio risultante dal confluire delle due attività sarebbe stato diverso, più favorevole al mazzinianismo: cioè lo Stato italiano si sarebbe costituito su basi meno arretrate e più moderne78.

Come è noto, parallelamente alle suggestioni neoguelfe, anche tra i moderati si sviluppò un orientamento liberale favorevole all’unificazione nazionale per via consensuale tra gli Stati italiani. Tuttavia, il primato di tale processo era attribuito al Re di Sardegna e non al Pontefice. Un orientamento chiarito nelle Speranze d’Italia del 1844 da Cesare Balbo, che teorizzò la

77. Ivi, p. 1767. 78. Ibid.

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liberazione dell’Italia dal dominio austriaco per via diplomatica, attraverso l’inserimento del Piemonte nel proscenio della politica delle grandi potenze europee interessate a dare soluzione alla questione d’Oriente. Balbo aveva prospettato in definitiva l’espansione dell’Austria in direzione della penisola balcanica, abbandonando le terre italiane, visto il prevedibile crollo dell’Impero Ottomano. Ciò avrebbe garantito l’equilibrio, europeo portando a soluzione sia la questione italiana, sia quella orientale. Tuttavia, l’idea di “balcanizzare l’Austria”, ribadita in altri scritti successivi, era per Gramsci totalmente irrealistica, non era né opera di ingegno né di preveggenza politica, ma sintomo di passività politica e di scoramento di fronte alla difficoltà dell’impresa nazionale. Con il 1848 naufragano due delle tre grandi opzioni politiche del Risorgimento italiano: prima viene meno l’ipotesi neoguelfa di Gioberti, per alcuni anni egemonica nel fronte moderato; poi, con la capitolazione della Repubblica romana e della resistenza in Veneto, le prospettive democratiche di Mazzini, Cattaneo e Ferrari subiscono un forte ridimensionamento. Il successo dell’attività diplomatica di Cavour spinse una parte del movimento democratico (tra gli altri, lo stesso Garibaldi, Daniele Manin, Giacomo Medici, Giuseppe Montanelli, Enrico Cosenz) a staccarsi da Mazzini e dalla sua prospettiva insurrezionale, rivelatasi totalmente infruttuosa, per formare il Partito nazionale italiano che nel suo manifesto dichiarava espressamente di voler fare causa comune con i Savoia. Nei primi mesi del ’59 questo Partito divenne un’arma utilissima nelle mani di Cavour per un fiancheggiamento della sua azione diplomatica. Questo passaggio appare importantissimo, perché aveva modificato molecolarmente la stessa composizione delle forze moderate facilitando la liquidazione del neoguelfismo e l’impoverimento del movimento mazziniano. In esso era rintracciabile la prima manifestazione del trasformismo, la cui importanza (come forma di sviluppo storico) non era stata ancora sufficientemente indagata, secondo Gramsci. Dopo il 1848 Mazzini non avrebbe compreso il passaggio dalla “guerra manovrata” alla “guerra di posizione”, un cambiamento radicale nella lotta politica rideterminatosi oltre il 1871. Dopo il 1848 solo i moderati svilupparono una riflessione autocritica rinnovando la propria strategia. La liquidazione del neoguelfismo ne fu la dimostrazione più lampante. Nulla di simile avvenne nel movimento mazziniano, progressivamente abbandonato

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da alcune sue figure di spicco, in seguito divenute “l’ala sinistra del Partito piemontese”. «Nell’espressione sia pure da sergente maggiore, di Vittorio Emanuele II: “il Partito d’Azione noi l’abbiamo in tasca” c’è più senso storico-politico che in tutto Mazzini»79. A partire da questa dinamica Gramsci ha evidenziato le modalità di composizione delle classi dirigenti attraverso un processo di cooptazione e assorbimento metodico degli elementi nuovi scaturiti dalle dinamiche sociali. In questo modo anche gruppi inizialmente ostili vengono progressivamente e molecolarmente assorbiti dagli apparati statali fino a divenirne un sostegno. Il trasformismo rientra appieno in questa dinamica ed esso ha espresso tutta la sua capacità attrattiva verso lo Stato nel Risorgimento (con i gruppi repubblicani e democratici), come nella storia successiva all’Unità d’Italia (con i cattolici e i riformisti). L’egemonia moderata sul Partito d’azione è per Gramsci uno dei temi più paradigmatici della storia delle classi dirigenti italiane funzionale alla comprensione del ruolo svolto dagli intellettuali nella definizione degli assetti di egemonia prevalenti80. Nel corso del Risorgimento, gli intellettuali del Partito d’Azione hanno assunto un atteggiamento paternalistico nei confronti delle masse popolari, alle quali non hanno voluto legarsi, e perciò sono stati assorbiti ed incorporati “molecolarmente” dai moderati. Il fenomeno tutto italiano dl “trasformismo” trae origine dunque da questa dinamica tra gli intellettuali e le due classi sociali fondamentali e in esso s’inscrive il problema generale della formazione dei gruppi dirigenti borghesi nazionali, dunque il tema del completo fallimento delle prospettive democratiche del Partito d’Azione, incapace di porre in tutta la sua vastità la questione agraria, per Gramsci la sola “molla” capace di far entrare in moto le masse popolari81. Una classe dominante è tale per Gramsci quando riesce ad essere dirigente delle classi alleate e dominante di quelle nemiche o avversarie; in virtù di questo la classe dominante deve essere dirigente prima e dopo la 79. Ivi, p. 1782. 80. G. Fresu, Moderati e democratici nell’Ottocento. L’interpretazione di Gramsci, pubblicato nel volume Il Risorgimento: un’epoca? Per una ricostruzione storico-critica, Zambon, Francoforte, 2012, p. 207-240. 81. Nonostante tutti i limiti ravvisati nel processo risorgimentale, negli orientamenti storiografici di orientamento marxiano il Risorgimento assume un valore e un’importanza centrale che va ben oltre i suoi esiti. Così il PCI della clandestinità, in sintonia con lo storicismo di Antonio Gramsci, si è richiamato idealmente al Risorgimento in antitesi al Fascismo (non a caso chiamerà le sue divisioni partigiane Brigate Garibaldi), e ha interpretato la Resistenza come il compimento del Risorgimento italiano.

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presa del potere. Così i moderati hanno esercitato questa direzione sul Partito d’Azione nel corso del Risorgimento, ma lo hanno fatto anche dopo con il “trasformismo”, e proprio grazie alla capacità dei moderati ad esercitare un’egemonia politica sugli azionisti il Risorgimento ha preso le forme di “una rivoluzione senza rivoluzione”. Tutta la politica italiana dal 70 a oggi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 48, con l’assorbimento degli elementi attivi sorti dalle classi alleate e anche da quelle nemiche. La direzione politica diventa un aspetto del dominio, in quanto l’assorbimento delle élites delle classi nemiche porta alla decapitazione di queste e alla loro impotenza82.

I moderati rappresentavano per Gramsci una classe sociale relativamente omogenea soggetta a poche oscillazioni, mentre il Partito d’Azione, non poggiando su nessuna classe storica, finiva per subire costantemente la direzione dei moderati83. Gli intellettuali del fronte moderato erano realmente espressione organica delle classi alte e perciò erano al contempo intellettuali, organizzatori-politici, imprenditori, grandi proprietari terrieri, cioè appartenevano realmente a quelle classi ed individualmente riuscivano ad unire l’identità del rappresentato con quella del rappresentante. Proprio per questa loro natura “condensata” gli intellettuali moderati seppero esercitare un’attrazione spontanea su tutta la massa degli intellettuali in Italia. Questa dinamica rilevata nella storia del Risorgimento conferma una sorta di regola storico-politica estremamente importante, poi sviluppata in dettaglio nei Quaderni: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni classe ha i suoi propri intellettuali organici; tuttavia, la classe che riesce ad assumere un ruolo propulsivo e progressivo finisce per esercitare un’egemonia tale da subordinare a sé anche gli intellettuali delle altre classi. Il Partito d’Azione non poteva esercitare questo potere di attrazione e subì quello dei moderati. Solo incorporando nel proprio programma le rivendicazioni delle masse popolari, anzitutto quelle contadine, i mazziniani avrebbero potuto resistere alla capacità egemonica dei moderati. Bisognava

82. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 41. 83. Ivi, p. 2010.

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contrapporre alla “attrazione empirica” dei moderati una “attrazione organizzata”, ossia un programma organico di governo capace di mettere in gioco le masse popolari. Ma il Partito d’Azione non ebbe mai un programma di governo e non seppe esprimere una direzione politica neanche tra i suoi stessi esponenti, limitandosi ad essere niente altro che un movimento di agitazione e propaganda dei moderati, che seguì la tradizione retorica della letteratura italiana confondendo l’unità culturale con l’unità politica e territoriale. Le contraddizioni dell’unificazione nazionale trovano un riflesso anche sul piano storiografico, così le molteplici e disparate interpretazioni di tale processo sarebbero secondo Gramsci una conferma delle sue ambiguità, della “inconsistenza”, debolezza e “gelatinosità” immanente alle forze protagoniste del Risorgimento, della carenza di elementi sufficientemente nazionali tra le sue classi dirigenti. L’insieme di queste interpretazioni ha un carattere immediatamente politico e non storico, oltre a essere affetta da una certa astrattezza e tendenziosità di fondo. Si tratta di una letteratura che germoglia nelle fasi più acute di crisi politico-sociale, segnate dal distacco tra governanti e governati e dalle paure per i rischi di travolgimento della vita nazionale nei sui equilibri conservatori84. Come vedremo più avanti, secondo Gramsci, esattamente in fasi simili, segnate dalla crisi di egemonia delle classi dirigenti, i ceti intellettuali si prodigano nella riorganizzazione di correnti ideologiche e di forze politiche in crisi. Di queste interpretazioni troviamo nelle note dei Quaderni una rassegna articolata, a partire dalla pubblicistica legata alla Destra storica85, spodestata dall’avvento della Sinistra, di cui il famoso articolo Torniamo allo Statuto! di Sidney Sonnino è forse il manifesto. Il cambio di governo, dopo la caduta di Minghetti, diede luogo a un filone segnato da recriminazioni e valutazioni pessimistiche sulla sorte dell’Italia. Pubblicazioni contraddistinte da una retorica petulante, definita da Gramsci «fegatosa, biliosa, acrimoniosa, senza elementi costruttivi, senza riferimenti storici a una tradizione qualsiasi, perché nel passato non esiste nessun punto di riferimento reazionario che possa essere proposto per una qualche restaurazione»86.

84. G. Fresu, Il trasformismo permanente. Feticismo storico e mitologia nazionale in Gramsci, all’interno del volume Narrazioni Egemoniche, Il Mulino, Bologna, 2014, pp. 151-167. 85. Un raggruppamento nel quale rientrano la Teorica dei governi e governo parlamentare di Gaetano Mosca, L’Italia vivente di Leone Carpi, fino ad arrivare ad una serie di approfondimenti di periodici, settimanali e riviste (Nuova Antologia e Rassegna Settimanale). 86. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1976.

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Questa corrente condannava l’evoluzione parlamentare del sistema politico italiano e invocava un ritorno alle antiche consuetudini nei rapporti tra monarchia, esecutivo e legislativo, ma i riferimenti a una presunta tradizione italiana di governo erano in realtà vaghi e astratti. Al fondo di una simile retorica si poteva rilevare il malcelato panico dei grandi proprietari terrieri, dell’aristocrazia e delle consorterie della Destra storica, verso il più piccolo progresso democratico capace di aprire la cittadella politica alle masse popolari87. I libri dei «destri» dipingono la corruzione politica e morale nel periodo della Sinistra al potere, ma la pubblicazione degli epigoni del Partito d’Azione non presentano come migliore il periodo di governo della Destra. Risulta che non c’è stato nessun cambiamento essenziale nel passaggio dalla Destra alla Sinistra: il marasma in cui si trova il paese non è dovuto al regime parlamentare (…) ma alla debolezza e inconsistenza organica della classe dirigente e alla grande miseria e arretratezza del paese88.

La realtà italiana di fine secolo era resa peraltro ancora più assurda dalla precarietà e insicurezza del nuovo Stato in virtù del non expedit89 e della contrapposizione frontale allo Stato legale e a tutta la modernità da parte del mondo cattolico. Ma più in generale il Paese era contraddistinto da una debolezza politica strutturale: Nel centro stanno tutte le gamme liberali, dai moderati ai repubblicani, sui quali operano tutti i ricordi degli odii del tempo delle lotte e che si dilaniano implacabilmente; a sinistra il paese, misero e arretrato, analfabeta esprime in forma sporadica, discontinua, isterica, una serie di tendenze sovversive-anarcoidi, senza consistenza e indirizzo politico concreto, che mantengono uno stato febbrile senza avvenire co-

87. Sola eccezione in questo panorama desolante era per Gramsci Quintino Sella, uno dei pochi borghesi italiani protagonisti del tentativo di costruzione di uno Stato moderno, una figura che si differenzia profondamente per competenze tecniche, dirittura morale, cultura, coerenza, dal personale politico della sua generazione. Allontanatosi dalla Destra, sempre più consorteria di burocrati, generali e proprietari terrieri, più che partito politico, Sella si era avvicinato ad alcune correnti più progressiste partecipando al trasformismo che qui Gramsci definisce in questo modo: «tentativo di creare un forte Partito borghese all’infuori delle tradizioni personalistiche e settarie delle formazioni del Risorgimento». Ivi, p. 184. 88. Ivi, p. 1978. 89. Il decreto della Sacra Penitenzieria del 10 settembre 1874 con cui Pio IX vietava ai cattolici la partecipazione alle elezioni politiche (né come elettori né come eletti) del Regno d’Italia, rimasto formalmente in vigore (sebbene attenuato già nel 1905 e soprattutto nel 1913) fino al 1919.

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struttivo. Non esistono «partiti economici» ma gruppi ideologici déclassés di tutte le classi, galli che annunziano un sole che mai vuole spuntare90.

Tutta l’analisi del passato d’Italia, dall’epoca romana a quella risorgimentale e post-unitaria, nella storiografia italiana, era così volta a trovare in esso un’unità nazionale di fatto, giustificando il presente con il passato storico. Questa operazione ideologica era dovuta alla necessità di fanatizzare i “volontari della nazione”, con le glorie presunte della storia d’Italia, compensando in questo modo le manchevolezze e i limiti di un Risorgimento realizzato da piccole élites, con la totale assenza delle masse popolari. Si cercò di sostituire, attraverso questa mitologia nazionale, l’adesione organica delle masse popolari allo Stato con la selezione di “volontari” di una nazione concepita astrattamente. Questo dimostrava in sostanza che nessuno seppe cogliere il problema posto dal Machiavelli nelle sue scritture militari: la necessità di legarsi alle masse contadine in modo da sostituire i mercenari con una milizia nazionale, far subentrare l’elemento nazionale-popolare in alternativa al volontarismo, poiché il volontarismo rappresenta una soluzione equivoca e pericolosa quanto il mercenarismo. Questo modo di rappresentare gli avvenimenti storici – che Gramsci definisce “storia feticistica” – rende protagonisti della storia d’Italia personaggi astratti e mitologici, e così «il problema di ricercare le origini storiche di un evento concreto e circostanziato, la formazione dello Stato moderno italiano, nel secolo XIX, viene trasformato in quello di vedere questo Stato, come Unità o come Nazione o genericamente come Italia in tutta la Storia precedente così come il pollo deve esistere nell’uovo fecondato»91. Anche questo fenomeno è ampiamente spiegabile sulla base della “dittatura di ferro degli intellettuali” e di alcuni gruppi urbani alleati con la proprietà terriera, funzionale alla conservazione dei vecchi equilibri sociali passivi, dunque a tenere lontane le masse popolari dai processi politici. L’idea che l’Italia sia sempre stata una nazione appariva a Gramsci una pura costruzione ideologica, un preconcetto responsabile di acrobazie dialettiche antistoriche finalizzate a rintracciare questa Unità nel passato pre-risorgimentale. In Italia nel XIX secolo non poteva esserci questa unità nazio90. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1978. 91. Ivi, p. 1981.

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nale perché mancava a essa un elemento fondamentale, il popolo-nazione, e un collegamento stretto di questo con gli intellettuali nazionali. Per queste ragioni le ricostruzioni storiografiche erano in realtà propaganda che cercavano di creare quell’unità basandosi sulla letteratura più che sulla storia; quell’approccio all’unità era un “voler essere”, piuttosto che un “dover essere” determinato da condizioni di fatto già esistenti92. Altro aspetto ideologico di questa impostazione storiografica sarebbe stata la sua tendenza a trovare due ostacoli all’Unità d’Italia nell’assopimento delle virtù del popolo italiano e nell’intervento di potenze straniere, che con il loro dominio impedirono il manifestarsi di ciò che era nei fatti: l’esistenza della nazione italiana. Questa interpretazione ha dato luogo a rappresentazioni oleografiche totalmente astratte. L’antistoricità di tale approccio deriva dal fatto che esso impediva non solo di comprendere la realtà, con cui era in contraddizione, ma anche di cogliere la reale portata dello sforzo compiuto dai protagonisti del Risorgimento. La loro scarsa attendibilità scientifica poneva la necessità di uno studio critico sul Risorgimento, superando un dibattito inconcludente e ozioso, di pura “metodologia empirica”: E se scrivere storia significa fare storia del presente, è grande libro di storia quello che nel presente aiuta le forze in isviluppo a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive. Il difetto massimo di tutte queste interpretazioni ideologiche del Risorgimento consiste in ciò che esse sono state meramente ideologiche, cioè che non si rivolgevano a suscitare forze politiche attuali. Lavori di letterati, di dilettanti, costruzioni acrobatiche di uomini che volevano fare sfoggio di talento se non di intelligenza; oppure rivolte a piccole cricche intellettuali senza avvenire oppure scritte per giustificare forze reazionarie in agguato, imprestando loro intenzioni che non avevano e fini immaginari, e, pertanto, piccoli servizi da lacchè intellettuali (…) e da mercenari della scienza93.

Il susseguirsi delle diverse interpretazioni ideologiche sulla nascita dello Stato italiano, legate agli impulsi individuali di singole personalità, era specchio fedele della natura primitiva ed empirica dei vecchi partiti politici

92. G. Fresu, Antonio Gramsci, fascismo e classi dirigenti nella Storia d’Italia, contenuto nel numero 21, anno VI, della rivista trimestrale di cultura NAE, op. cit., pp. 31-32. 93. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., pp. 1983-84.

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e quindi dell’assenza nella vita politica italiana di un movimento organico e articolato, potenzialmente capace di favorire uno sviluppo politico-culturale permanente e continuo. Il dilettantismo della letteratura storica sul Risorgimento sarebbe stato dunque legato alla mancanza di una prospettiva storica seria e rigorosa nei programmi dei partiti politici italiani, sulla cui natura “nomade e zingaresca” Gramsci si è soffermato in altre note. Così anche i dibattiti politico-culturali non si sarebbero dispiegati secondo un processo continuo, ma per singole campagne, di volta in volta, come premessa di movimenti politici di corto respiro e affetti dallo stesso dilettantismo mostrato sul piano della prospettiva storica. È questo un modo di procedere molto utile per facilitare le «operazioni» di quelle «forze occulte» o «irresponsabili» che hanno per portavoce i «giornali indipendenti»: esse hanno bisogno ogni tanto di creare movimenti occasionali di opinione pubblica, da mantenere accesi fino al raggiungimento di determinati scopi e da lasciar poi illanguidire e morire94.

In Italia la storia degli intellettuali, come categoria, era per Gramsci la sola ad aver avuto una continuità ininterrotta; pertanto, anche il cosiddetto sentimento nazionale – prima e dopo il Risorgimento – non risultava legato a istituzioni oggettive, non era “popolare-nazionale”, ma semplicemente un sentimento da “intellettuali”. In Italia non esistevano elementi oggettivi in grado di svolgere una funzione unificante reale tale da creare un sentimento nazionale che non fosse puramente soggettivo. Non potevano svolgere questa funzione né la lingua, resa discontinua dal prevalere dei dialetti; né la cultura, troppo ristretta e ad uso di piccoli gruppi intellettuali con carattere di casta; né i partiti politici, poco solidi e operanti nei soli frangenti elettorali. L’unico elemento “popolare-nazionale” valido ed esteso era la Chiesa, ma essa, vista la sua tradizionale natura cosmopolita e la sua lotta contro lo Stato laico, svolse una funzione disgregatrice più che favorire il formarsi di un sentimento nazionale unitario. Al contrario la cultura storica francese aveva avuto quale base unificante – oltre le diverse tendenze politiche succedutesi (dalla dinastica a quella radicale-socialista) – una coscienza “popolare-nazionale”, proprio

94. Ibid.

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perché l’elemento permanente di una storia caratterizzata dai rivolgimenti di carattere politico era il “popolo-nazione”; in essa si era determinata nei fatti quel collegamento tra “popolo-nazione” e intellettuali assente nella nostra storia nazionale. In Italia, al contrario, gli intellettuali – impegnati nell’opera di edificazione mitologica, più che storica, dell’Unità – si erano distinti dal popolo, se ne erano posti al di fuori, creando e rafforzando tra di loro un particolare spirito di casta caratterizzato proprio dalla diffidenza verso il popolo. I giacobini, invece, avevano lottato strenuamente per assicurare il legame tra città e campagna, conquistando una forte egemonia politica, imponendosi alla borghesia e conducendola su una posizione molto più avanzata di quanto essa avrebbe in realtà voluto e di quanto le stesse condizioni storiche rendessero possibile95. In linea generale, nelle fasi iniziali della rivoluzione, la borghesia pone soltanto i suoi interessi corporativi immediati, «fa la voce grossa ma in realtà domanda ben poco». Nella Rivoluzione francese furono i giacobini a «cacciare avanti la classe borghese a calci nel sedere»96, facendole perdere la sua caratteristica corporativa fino a farla divenire classe egemone e dando una “base permanente” al nuovo Stato. I giacobini furono il solo “partito della rivoluzione in atto”, perché non rappresentavano solamente gli interessi immediati della borghesia francese, ma il movimento rivoluzionario nel suo insieme, riuscendo a porsi alla testa di un nuovo blocco sociale rivoluzionario, nel quale ebbero un ruolo anche le masse popolari e contadine, consapevoli della necessità di far blocco comune con i giacobini per sconfiggere definitivamente i ceti dell’aristocrazia fondiaria. L’esperienza storica stava dunque a dimostrare che se i contadini si muovono per “impulsi spontanei”, ciò provoca delle oscillazioni nei ceti intellettuali, che possono portare una parte di questi sulle posizioni del nuovo blocco sociale, e allo stesso modo, se gli intellettuali o una parte di essi si fanno portatori di una piattaforma che faccia proprie le rivendicazioni delle masse contadine, questi finiscono con il trascinare gruppi di masse sempre più significative. Di conseguenza anche in Italia, si sarebbe potuto disgregare il blocco reazionario che univa i ceti rurali con i gruppi intellettuali legittimisti e clericali, solo se i gruppi democratici si fossero posti alla guida di un nuovo blocco sociale attraendo e dirigendo le

95. Ivi, p. 2014. 96. Ivi, p. 2027.

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masse contadine e gli intellettuali degli “strati medi e inferiori”. Esattamente il compito programmatico posto ai comunisti da Gramsci nel saggio sulla Questione meridionale. In Italia la debolezza dei partiti politici liberali, dal Risorgimento in poi, era riconducibile allo squilibrio tra l’agitazione e la propaganda e alla mancanza di principî e di continuità organica. Le tendenze all’opportunismo, alla corruzione e al “trasformismo” sarebbero da ricercare nell’angusto orizzonte culturale e strategico dei partiti politici, nell’assenza di legami organici tra questi e le classi rappresentate. Questi partiti si sono sviluppati non come espressione politica e collettiva degli interessi di una classe, come coscienza consolidata e teorizzata della funzione storica di questa, ma come mere consorterie d’interessi immediati condensatesi attorno a singole personalità. Si trattava di comitati elettorali, più che partiti, in essi mancava una qualsiasi attività teorica o visione programmatica rivolta al futuro, abituati al «giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici»97. In Italia i partiti politici «non erano permeati dal realismo vivente della vita nazionale»98, e per questa ragione non hanno assolto alla funzione storica della costruzione di una classe dirigente nazionale; per questo i gruppi dirigenti che hanno formato le loro capacità intellettuali nel mondo accademico o in quello della produzione erano gruppi di «quadri apolitici», con una formazione mentale e culturale puramente “retorica e non nazionale”. La causa principale di questo modo di essere dei partiti è da ricercare nella deliquescenza delle classi economiche, nella gelatinosa struttura economica e sociale del paese, ma questa spiegazione è alquanto fatalistica: infatti se è vero che i partiti non sono che la nomenclatura delle classi, è anche vero che i partiti non sono solo una espressione meccanica e passiva delle classi stesse, ma reagiscono energicamente su di esse per svilupparle, assodarle, universalizzarle. Questo non è avvenuto in Italia, e la manifestazione di questa omissione è appunto questo squilibrio tra agitazione e propaganda o come altrimenti si voglia dire99.

Sulla debolezza dei partiti politici e in conseguenza delle classi dirigenti in Italia, sulla loro natura, ha avuto una grave responsabilità quello che Gram-

97. Ivi, p. 386. 98. Ibid. 99. Ivi, p. 387.

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sci definisce lo “Stato-governo”, vale a dire, il grumo di interessi facenti capo alla Corona e alla burocrazia che in Italia ha operato come un partito, per staccare i quadri permanenti della vita politica nazionale dalle masse e dai reali interessi statali nazionali, per creare un vincolo paternalistico di “tipo bonapartistico-cesareo” tra queste personalità e lo Stato-governo. Il trasformismo e “le dittature di Depretis, Crispi e Giolitti”, la miseria e la meschinità della vita culturale e di quella parlamentare e politica in Italia vanno analizzati proprio a partire da questo fenomeno. Se normalmente le classi sociali producono i partiti politici e questi creano i quadri dirigenti della società civile e dello Stato, in Italia lo Stato-governo non ha operato per armonizzare queste manifestazioni con gli interessi nazionali statali, ma al contrario ne ha sempre favorito la disgregazione, staccando singole personalità politiche da un qualsiasi riferimento sociale culturale e anche teorico più ampio rispetto a quel rapporto fiduciario, appunto “bonapartistico-cesareo”, con lo Stato-governo100. Il Risorgimento italiano avrebbe potuto avere un esito democratico solo attraverso l’assunzione della questione contadina e della riforma agraria, dunque affrontando in maniera progressiva la dialettica tra città e campagna. 5. Premesse storiche e limiti congeniti della nostra biografia nazionale Come ampiamente chiarito, secondo Gramsci il Fascismo rappresentava un fenomeno complesso, ricco di premesse e implicazioni, le cui cause più profonde andavano ricercate nelle tante contraddizioni immanenti alla storia d’Italia e non appena nella «psicosi» che precedette e accompagnò la guerra. In tal senso, sebbene nei Quaderni egli parli poche volte in maniera diretta ed esplicita di fascismo, le sue note carcerarie rappresentano un importante tentativo di investigazione scientifica attorno a questo grande dramma storico. Negli anni successivi all’avvento del potere di Mussolini questa convinzione non era di pertinenza esclusiva del solo Gramsci. Al contrario, in diversi autori, a lui vicini e lontani, troviamo una simile esigenza storicista di analisi organica capace di spiegare in maniera più completa e soddisfacente il crollo del regime liberale italiano. Anche secondo Piero

100. Ibid.

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Gobetti, il dramma del Fascismo101 pose la necessità di una esegesi del Risorgimento capace di svelare «l’equivoco fondamentale della nostra storia: un disperato tentativo di diventare moderni restando letterati con vanità non machiavellica di astuzia, o garibaldini con enfasi tribunizia»102. Secondo questo brillante intellettuale, morto ad appena venticinque anni da esiliato del Fascismo, la rivoluzione liberale si imponeva come necessità storica per superare quei limiti congeniti più volte sottolineati dal suo amico Gramsci. In Italia, il liberalismo era stato soffocato nella culla, tanto sul piano economico, con il protezionismo, quanto su quello politico, impedendo una reale dialettica parlamentare tra programmi politici rappresentativi di forze sociali in competizione tra loro. In opposizione alla morale e servile imposta al Paese coattamente dalle milizie fasciste, bisognava riorganizzare l’etica dello Stato italiano a partire dal primato delle libertà. Nel divenire storico nazionale, dall’Unità al Fascismo, il giovane intellettuale liberale scorgeva una permanente tendenza a considerare la pluralità delle sfumature democratiche, la dialettica delle contraddizioni politiche, il conflitto sociale come anomalie da cancellare. Ciò, assai prima del Fascismo, era avvenuto con due direttrici: 1) l’assorbimento corruttore negli equilibri conservatori delle forze critiche; 2) l’annientamento fisico di gruppi e intellettuali avversi al blocco di potere dominante. Ciò impedì il progresso del Paese, impedendo l’affermazione di una moderna attività economica e, in conseguenza, disattivando i processi sociali necessari alla formazione di gruppi dirigenti adeguati a una classe tecnica avanzata. Come già visto, Gramsci ha localizzato la causa della mancata formazione di uno Stato unitario moderno in Italia nell’incapacità delle classi dirigenti comunali a superare la fase «corporativa-municipale»; Gobetti, a sua volta, ha descritto la prevalenza degli interessi conservatori e lo sfruttamento parassitario dell’economia agricola come tratti distintivi e chiarificatori dei limiti di quella realtà. Il prevalere, sul piano politico ed economico, della Signoria sui Comuni e l’assenza di una Riforma religiosa finirono per ritardare lo sviluppo politico nazionale, rinchiudendo la frammentata realtà culturale degli Stati italiani nell’angustia claustrofobica delle Corti.

101. G. Fresu, A. Accardo, Oltre la parentesi, op. cit., pp. 53-70. 102. P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia. Einaudi, Torino, 1974, p. 9.

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La nostra riforma fu Machiavelli, un teorico della politica, un isolato. I suoi concetti non trovarono uomini capaci di viverli, né un terreno sociale su cui fondarsi. È uomo moderno perché instaura una concezione dello Stato ribelle alla trascendenza e pensa un’arte politica organizzatrice della pratica e professa una religiosità civile come spontaneità di iniziativa e economia103.

Altro elemento di profonda convergenza, rispetto alla mancata rivoluzione liberale nel Risorgimento, riguarda il giudizio negativo sulla dimensione romantica e letteraria dell’aspirazione unitaria, che ha trovato la sua espressione più conseguente nelle astratte “metafisiche” del mazzinianesimo, contraddistinto da un apostolato moralista e nebuloso, capace di fare presa negli ambienti degli esuli italiani, ma incapace di mobilitare le grandi masse popolari. La dottrina di Mazzini, nata da frammenti ideologici provenienti dai movimenti di idee europei, si riduceva per Gobetti a una riforma religiosa attenuata, destinata a restare impopolare e a confondere la propaganda con la rivoluzione, la riforma politica con la demagogia. All’opposto di questa astrattezza dottrinaria, tipica del movimento democratico guidato da Mazzini, il liberalismo piemontese era invece composto da quadri dirigenti educati dalla loro formazione economica alla concretezza politica. Con “un re mediocre come Vittorio Emanuele II”, il Risorgimento avrebbe potuto avere un esito ancora più regressivo, si rivelò dunque una fortuna per il popolo italiano aver trovato in Cavour la guida di quel processo, evitandogli di risolversi in una tirannide. Nel panorama del Risorgimento, Cavour sovrastava tutti i suoi contemporanei per la capacità di affrontare le questioni più complesse con la prospettiva dell’uomo di Stato, in grado di parlare al popolo, senza sollecitarne demagogicamente il consenso o corromperlo. In un contesto dominato dalla retorica inconsistente del romanticismo democratico o, all’opposto dal dogmatismo antimodernista del mondo cattolico, Cavour era per Gobetti il solo ad aver gettato le basi di una moderna rivoluzione liberale, pur avendo come strumenti di azione soltanto la dinastia e l’esercito di un piccolo Stato. Paragonato con gli uomini politici che lo seguirono, tranne Sella, appare di un’altra razza: per Depretis e per lo stesso Giolitti, che pure ha mente di uomo di Stato, il

103. Ivi, p. 12.

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giusto termine di paragone non è Cavour, ma Rattazzi, modello di equilibrismo, di equivoco e di demagogia104.

Come chiarito, già negli articoli del dopoguerra, pure Gramsci utilizzò Cavour come pietra di paragone, per sottolinearne la statura intellettuale politica, in opposizione a figure come Crispi, Giolitti, ai nazionalisti o anche alle intellettualità confuse del movimento futurista. Nuovamente, nel Quaderno 8, egli sollevò l’esigenza di studiare senza pregiudizio e retorica “il realismo di Cavour”, reso palese proprio dalla preponderanza dei fattori internazionali nello sviluppo del processo di unificazione nazionale. Ai mazziniani la via diplomatica all’Unità pareva un “fatto mostruoso”, mentre secondo Crispi, Cavour si limitò essenzialmente a “diplomatizzare la rivoluzione”, affermando involontariamente l’indispensabilità di Cavour. Ridimensionare l’eredità storica di Cavour era politicamente necessario, perché ritenere prioritario il lavoro idoneo a creare le condizioni internazionali favorevoli all’Unità significava riconoscere l’impreparazione e la debolezza delle forze nazionali rispetto all’impresa, ossia fare i conti con il totale fallimento del programma mazziniano. Al di là delle doti di realismo, in controtendenza con una tradizione diplomatica fondata esclusivamente sull’astuzia personale, Cavour tentò di realizzare l’unificazione nazionale basandosi sull’economia e il liberalismo – rifuggendo le suggestioni retoriche o religiose – reinserendo gli italiani in una politica europea da cui erano oramai estranei. Cavour basò la sua pratica di governo e la sua stessa politica estera su principi “dignitosamente liberali”, conquistando in sede diplomatica un prestigio e una considerazione decisamente più avanzati rispetto alle condizioni effettive dell’Italia e delle sue modeste classi dirigenti. Secondo Gobetti, il vero capolavoro di Cavour fu la sua politica ecclesiastica, il principio “Libera Chiesa in libero Stato”, una dimostrazione di maturità e capacità politica, non una astratta formula di filosofia del diritto. Il politico piemontese ebbe l’accortezza di spostare la lotta dello Stato contro le ingerenze della Chiesa dal terreno dogmatico, su cui in un paese profondamente cattolico avrebbe irrimediabilmente perso, al terreno della libertà di

104. Ivi, p. 24.

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coscienza. In questo modo lasciò ad altri soggetti politici gli accenti anticlericali e le dispute politico-filosofiche, costringendo la Chiesa a confrontarsi su una pregiudiziale essenziale della modernità. Il presidente del Consiglio piemontese creò nel breve volgere di pochi anni una situazione concreta incomparabilmente più avanzata rispetto alle potenzialità reali del Paese, ma dopo la sua scomparsa le contraddizioni di quel processo vennero a galla e il nuovo Stato si trovò privato della sua unica vera guida e senza un principio ispiratore all’altezza del compito storico. Questi limiti si manifestarono in tutta la loro evidenza nel periodo dal 1860 alla Prima guerra mondiale, segnato dalla pratica corruttrice del trasformismo e da una dialettica fasulla di alternanza senza alternativa tra consorterie alla guida del Paese. Secondo Gobetti, la più grande deficienza del regime liberale italiano fu l’assenza tanto di un vero partito politico conservatore quanto di un autentico partito politico liberale. Il radicalismo nazionalista – che avrebbe trovato nell’interventismo prima e nel Fascismo le sue oggettivazioni più coerenti – fu un autentico «germe di dissoluzione dei costumi politici», divenendo dopo il ’70 pratica unanime della politica italiana. L’esistenza di un serio partito conservatore avrebbe svolto indirettamente una moderna e positiva funzione liberale, fondando la coesione morale del Paese sul rispetto della legge e della sicurezza pubblica, instillando in esso gli anticorpi contro la megalomania nazionalista tipica delle oscillazioni piccoloborghesi. In tal senso il passaggio da Depretis a Crispi assume anche per Gobetti un valore paradigmatico destinato a ripetersi in forma ancora più drammatica nella storia d’Italia, proprio per la mancanza di un reale sostrato liberale. Quando gli italiani furono stanchi delle astuzie e delle lusinghe di Depretis, si abbandonarono alle facili seduzioni della megalomania di Crispi, e nel fallimento africano tutta la nazione fu compromessa. Comunque suonino le tardive riabilitazioni, Adua segna l’estrema condanna di una facile mentalità romantica e rappresenta la critica preventiva di ogni ideologia nazionalista, destinata a sorgere in Italia con la mentalità dell’avventura e la preparazione spirituale parassitaria della piccola borghesia: l’imperialismo è un’ingenuità quando restano da risolvere i problemi elementari dell’esistenza105.

105. Ivi, p. 33.

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Se in Italia fosse esistito un partito conservatore avrebbe svolto una funzione di salute pubblica, liquidando preventivamente la psicologia radicaloide e nazionalista, divenuta invece dominante tra i «parvenus di una borghesia fallita»106. Allo stesso tempo, mancò un partito conservatore, espressione degli interessi agrari del Sud, e fallirono tutti i presupposti necessari a creare un partito liberale degli industriali, e in questo modo tra industria e liberalismo si scavò un solco enorme. La resa indecorosa delle classi dirigenti a Mussolini, pronte a servirsi della sua violenza per restaurare l’ordine sociale minacciato dall’irrompere dalla politica di massa, era il risultato finale di una simile contraddizione. Giolitti, Salandra, Croce, tutti i grandi nomi del liberalismo italiano, favorirono e appoggiarono indistintamente l’ascesa del Fascismo nell’illusione di poterlo costituzionalizzare, ossia assorbirlo, riservando al futuro duce la stessa sorte già toccata in passato ai politici mazziniani, cattolici e socialisti riformisti inghiottiti dagli equilibri del blocco di potere tradizionale. Dopo l’unità, l’industria italiana consolidò le sue posizioni grazie al protezionismo doganale e al sussidio statale, rinnegando l’individualismo economico, presupposto liberista di qualsiasi impostazione dignitosamente liberale. In questo modo l’industria si sviluppò alla luce di uno spirito corporativo, grettamente nazionale anziché europeo e mondiale. Da ciò l’arroccamento in difesa del sistema di privilegi e protezioni garantito dallo Stato e un certo provincialismo, sia economico sia politico, incompatibili con il liberalismo. Il protezionismo in Italia aveva prodotto enormi danni politici, travolgendo attraverso la corruzione tanto la borghesia quanto il proletariato, fino a produrre una decadenza nei costumi di entrambi. Il sistema compromissorio di Giolitti tra industriali e riformismo socialista settentrionale, a danno del Mezzogiorno, ne era la conferma. L’assenza di un partito conservatore aveva inoltre scavato l’abisso tra il Nord e il Sud fino a renderlo strutturale. Se l’industria italiana si fosse affermata liberisticamente, il rapporto con l’agricoltura e il Mezzogiorno si sarebbe sviluppato su basi più organiche e armoniche. Più in generale, Gobetti contestò al liberalismo italiano l’incapacità di fare i conti con il movimento operaio, da lui definito l’erede naturale della funzione universale esercitata prima dalla borghesia. Il non aver compreso la

106. Ibid.

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dinamica sociale sottesa alla lotta di classe e alla formazione storica dei partiti politici sarebbe stato alla base del tramonto della classe politica liberale, travolta dal comparire sulla scena politica delle grandi masse. Smarrita la via tracciata da Cavour, il liberalismo italiano si era sviluppato nella più completa confusione ideologica accettando sotto la sua insegna di tutto, dal nazionalismo guerrafondaio al protezionismo parassitario, perdendo coscienza dei suoi punti cardinali dottrinali e con essi il senso della sua missione storica. Il fragile liberalismo italiano si convertì in «democrazia demagogica». Dopo il ’70 il Partito liberale è svuotato della sua funzione rinnovatrice perché privo di una dominante passione libertaria e si riduce a un Partito di governo, un equilibrismo per iniziati che esercita i suoi compiti tutori ingannando i governati con le transazioni e gli artifici della politica sociale107.

Alla luce di questa continuità, Gobetti descrive il Fascismo come una «biografia nazionale», perché fu la rappresentazione finale della rinuncia alla politica, per pigrizia, da parte di classi dirigenti poco interessate a impegnarsi nella paziente edificazione dello Stato e, dunque, a rapportarsi con modernità alla dialettica politica e al conflitto sociale che, inevitabilmente, ogni modernizzazione finisce per generare. L’illusione di salvare le classi dal conflitto, attraverso un’idea retorica di conciliazione, al di là della concezione vana e astratta, nascondeva la malcelata volontà di impedire un’effettiva democratizzazione del Paese. Così il Fascismo ereditò dalle classi dirigenti post-Cavour la pretesa di “guarire gli italiani dalla lotta politica”. L’ideologia attualista del Fascismo, la sua fiducia ottimista e facilona con cui pretese di vincere ogni difficoltà grazie al potere palingenetico della volontà, erano la riprova non solo dell’infantilismo congenito di quel movimento ma, più in generale del primitivismo politico delle classi dirigenti italiane, entusiasticamente sedotte dalle pose teatrali di Mussolini. Questi elementi di continuità, dunque l’esigenza dell’interpretazione storicista del dramma fascista a partire dalla mancata rivoluzione liberale italiana, si ritrova in un’opera fondamentale come Storia del liberalismo europeo, scritta da Guido De Ruggiero. Anche in questo caso, l’esigenza di tornare 107. Ivi, p. 55.

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alle radici concettuali e politiche del movimento liberale europeo era legata alla volontà di comprendere le cause di quanto accaduto, riscoprendo le ragioni ideali e storiche necessarie al superamento della barbarie fascista. Nonostante il baratro apertosi nel Paese, che fece rimpiangere a tanti ex antigiolittiani, primo tra tutti Benedetto Croce, la “progressione democratica” vissuta tra 1900 e 1914, De Ruggiero non è affatto indulgente con la tradizione liberale italiana di cui, al contrario, sottolineò polemicamente la modesta importanza nel quadro europeo. Il liberalismo italiano si poneva in larga parte come un semplice riflesso di dottrine e indirizzi stranieri108. Le ragioni di questa limitata importanza erano riconducibili a fattori molteplici: 1) il frazionamento politico impedì la formazione di grandi correnti di opinione pubblica, sacrificando ogni sviluppo nell’angustia e nella rivalità di piccole fazioni regionali se non comunali; 2) l’asservimento di tanta parte del territorio italiano a potenze straniere sacrificò le migliori energie nella lotta per l’emancipazione nazionale, ma in un quadro di profonda confusione concettuale tra i principi di indipendenza e libertà; 3) lo spirito della controriforma mortificò il sentimento individualistico, premessa essenziale del liberalismo moderno; 4) la natura letteraria e libresca di una cultura ridotta a «polverosa erudizione separata da tutti gli interessi vitali del presente» divenuta cultura politica nazionale; 5) l’arretratezza economica ritardò il differenziamento sociale tra le classi e la formazione di un largo ceto medio. Tra i fattori economico-sociali che avevano limitato le potenzialità del liberalismo italiano c’era anche lo scarso peso del feudalesimo per il rapido comparire di Comuni e Signorie e il successivo dominio di potenze straniere. Altrove, dall’antitesi tra popolo e principe sorse la prima palestra del liberalismo politico: Diete, Stati generali, Parlamenti, invece estranei, alla tradizione italiana. In Italia la tradizione del diritto romano non si è mai del tutto spenta, fin dal più remoto Medio Evo, e la sua persistenza ha efficacemente contrastato l’esclusivo

108. Opinione condivisa da Arturo Carlo Temolo (Chiesa e Stato in Italia, dall’unificazione ai giorni nostri, Einaudi Editore, Torino, 1977), il quale in più riprese ha sottolineato come il liberalismo moderno, fondato (pur nelle sue molteplici accezioni) sull’idea di uno Stato nazionale con un ordinamento costituzionale e un governo legittimato da una maggioranza parlamentare, non ebbe nel movimento intellettuale in Italia – almeno fino a Cavour – alcun grande teorizzatore. I suoi uomini, scrive Jemolo, furono piuttosto apostoli dell’idea, missionari o realizzatori.

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dominio del diritto feudale, (…) ha ostacolato la formazione di un troppo esclusivo diritto privilegiato, favorendo così le libertà civili degli individui. Ma nel medesimo tempo, essendo un diritto di sudditi, di uomini eguali nella soggezione, ha, con la sua influenza, impedito che si radicasse nella coscienza del popolo l’idea di un diritto proprio ed originario, indipendente dallo stato, ed anzi opposto al diritto del principe. È venuta così a mancare agli italiani la vitale esperienza dell’antitesi tra il popolo e il principe, che altrove ha giovato a creare il senso e l’amore delle libertà politiche109.

Il movimento intellettuale del Risorgimento ha una importanza assai grande nella storia d’Italia, precorrendone l’unificazione politica; tuttavia, esso è stato elevato a un’importanza europea immeritata dai suoi protagonisti, epigoni ed esegeti, generando equivoci e illusioni destinate fatalmente a svelarsi nel 1848. La ragione di questa sproporzione auto-rappresentativa era attribuita alla tradizione letteraria che per De Ruggiero, come per Antonio Gramsci e Gobetti, era l’unico elemento di continuità nella vita nazionale attraverso i secoli, nell’assenza di un’unità nazionale politica. Dopo la sua fine, il giobertiano primato di civiltà e scienza propri dell’Umanesimo e del Rinascimento si era convertito in un «primato di ricordi». L’idea dell’autosufficienza, tipica della cultura letteraria italiana, si era alimentata di un mondo immaginario nel quale l’idea di quel primato, pur essendo morto e sepolto da secoli, aveva continuato a sussistere così come, a sua volta, in quel “sopramondo fittizio” si era formata l’idea di un’unità politica nazionale di fatto (dolosamente confusa con l’unità della cultura nazionale) nella storia d’Italia. L’angustia di questa dimensione culturale, convinta di possedere tutti gli elementi per bastare a sé, aveva reso ancora più difficoltoso l’inserimento delle correnti intellettuali italiane nel clima generale della cultura europea: anche quando l’influsso straniero s’è fatto predominante come nei secoli XVIII e XIX, l’incancellabile boria nazionale ha cercato di diminuirne l’importanza o di peggiorarne il significato, con quei raffronti, quei paralleli e quelle antitesi, che formano la parte più stucchevole della letteratura patriottica italiana110.

109. G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Editori Laterza, Bari, 2003, p. 293. 110. Ivi, p. 316.

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In tal senso l’opera di Gioberti111 si giustificava perfettamente ed appariva importante all’interno di quel quadro nazionale, mentre risultava «goffa e stonata» in un ambito più generale ed europeo. De Ruggiero era durissimo nel giudizio sul provincialismo della cultura italiana in rapporto al Risorgimento, che rivelava un atteggiamento da «signori decaduti», inorgogliti del proprio status, chiusi nel proprio isolamento. Un «falso pudore patriottico» aveva demotivato ogni coraggio, impedendo di guardare oltre il proprio recinto e di fare i conti con i propri limiti, viziando alcune manifestazioni della coscienza nazionale del Risorgimento e mistificando il giudizio delle generazioni successive: «esso è stato circondato da un alone di retorica; sottratto ad ogni sincera valutazione critica anche quando ha formato oggetto di studio e di curiosità erudita; e le sue manifestazioni intellettuali sono state tanto più ammirate ed esaltate, quanto meno conosciute nella loro vera realtà»112. Ciò spiega perché, in un secolo ricco di fermenti e scambi intellettuali come l’Ottocento, nessuna delle opere risorgimentali ha avuto una risonanza europea, così come nessuna di esse è divenuta familiare agli stessi italiani. «E basta, per rendersene conto, aprire i libri dei Rosmini, dei Gioberti, dei Mazzini, dei Balbo, dei d’Azeglio, dei Tommaseo, per avvertire un certo sentore di chiuso, come di muffa letteraria, che tradisce l’angustia dell’ambiente nazionale»113. I protagonisti del Risorgimento descritti da De Ruggiero hanno diversi punti di similitudine con i «volontari della nazione» di cui ha parlato Gramsci. In entrambi i casi si fa riferimento a una ristretta élite autoselezionatasi da diverse parti d’Italia attorno a valori morali altissimi, ma che volle tenere ben distante la partecipazione delle masse popolari, rimaste sostanzialmente indifferenti ai problemi dell’Unità, della libertà e dell’indipendenza. A questa dimensione esclusivamente etica e letteraria, e alla sua claustrofobica dimensione provinciale, era così riconducibile gran parte dell’approccio politico della classe dirigente risorgimentale. Il partito moderato era in realtà un non-partito, vale a dire, si trattava di una corrente priva di organizzazione e statuto, attorno al quale si andò coagulando il consenso di fasce sociali molto omogenee sul piano dei rapporti

111. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, UTET, Torino, 1932. 112. G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, op. cit., p. 317. 113. Ibid.

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di produzione e per cultura. Esso aborriva l’idea stessa del partito, definito da Rosmini il verme che corrode la società, per la semplice ragione che non solo non si poneva il problema del proselitismo tra le masse, ma perché non aveva nessuna volontà di coinvolgerle nei processi politico-sociali dell’unificazione. Se Machiavelli costruì la sua scienza politica attorno alla centralità di ciò che si intende per popolo, secondo Gioberti il popolo era un non-ente, un corpo inerte e informe, plasmabile a proprio piacimento. Coerentemente con questa concezione, era ai moderati totalmente estranea qualsiasi ipotesi democratica non solo di autogoverno popolare, ma anche di ordinaria socializzazione politica tesa ad ampliare le basi sociali di un ipotetico Stato unitario. L’azione e l’opera di proselitismo dei moderati era indirizzata dunque solo ai rappresentanti del proprio ceto e ai prìncipi degli Stati italiani, cui era attribuita la funzione dell’iniziativa. Nel complesso l’ideale politico dei moderati era più vicino al liberalismo semifeudale inglese del Settecento, di quanto non lo fosse al liberalismo moderno. Questa diffidenza verso il popolo non rimase recintata al Risorgimento, ma si spinse fino ai primi decenni del nuovo secolo nonostante l’affermarsi della politica di massa come conseguenza della guerra. Un tema, come abbiamo visto, costantemente sottolineato, anche con una certa ironia, da Antonio Gramsci: Il popolo (ohibò), il pubblico (ohibò). I politici d’avventura domandano con cipiglio di chi la sa lunga: «il popolo! Ma cosa è questo popolo? Ma chi lo conosce? Ma chi l’ha mai definito?» e intanto non fanno che escogitare trucchi e trucchi per avere le maggioranze elettorali (quanti comunicati ci sono stati in Italia per annunziare nuovi ritocchi alla legge elettorale? Quanti progetti presentati e ritirati di nuove leggi elettorali? Il catalogo sarebbe interessante di per sé)114.

L’assoluta indisponibilità a un coinvolgimento del popolo ha avuto storicamente due conseguenze, una politica e una filosofica: la prima aveva un carattere spiccatamente antipopolare, e spinse i moderati su posizioni di rigido difensivismo per il costante terrore verso qualsiasi possibile risveglio delle masse e la rivendicazione delle libertà; la seconda, invece, affondava le sue radici nella lotta tradizionale del mondo conservatore contro la modernità, nella sua strenua difesa del particolare contro l’universale prodotto dallo

114. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 293.

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sviluppo del razionalismo filosofico. In continuità con una lunga tradizione (Burke, De Maistre, Von Haller), l’idea della rivoluzione illuministica era ritenuta la conseguenza di un presupposto fallace e insolente, perché non disponibile a riconoscere il valore vincolante della continuità storica e della tradizione affermatesi nel corso dei secoli. Contro l’effetto dirompente dei due termini, libertà-razionalismo, la classe dirigente italiana si aggrappò alla Chiesa, trovando una diga istituzionale nella restaurazione e una funzione di stabilizzazione sociale nella dogmatica religiosa. In Italia ciò portò a ritenere la Chiesa cattolica un istituto schiettamente nazionale, un grande equivoco che non faceva i conti con la sua natura universale e dunque cosmopolita. L’impossibile conciliazione tra i valori del criticismo e quelli del dogmatismo, come l’illusione di un rapporto non contraddittorio tra unificazione politica dell’Italia e centralità della Chiesa come autorità politica erano figlie di tale equivoco. L’Italia aveva vissuto solo di riflesso tanto la rivoluzione quanto la controrivoluzione romantica. Dei due termini della contraddizione giunse solo un surrogato confuso dando luogo a una bizzarra combinazione eclettica: è parsa impresa facile spogliare il cattolicismo della sua veste reazionaria e privare il razionalismo liberale del suo fermento rivoluzionario per pacificarli insieme. È venuta così fuori l’idea, che campeggia nella infelice rivoluzione del 1848, di un risorgimento liberale imperniato sul Papa (…) salvare insieme l’antico e il nuovo, i principi e l’unità nazionale, il cattolicismo e il razionalismo, l’assolutismo illuminato e la libertà. Ciò che, espresso in termini brutali, significa voler fare una omelette senza rompere le uova115.

In questa palese contraddizione si sarebbe dibattuto l’orizzonte politico del Primato di Gioberti, e su questi limiti si sarebbe alimentata la pretesa fallace di fare del Papa, in quanto principe temporale, il centro di una tradizione italiana a cui sarebbe spettata l’iniziativa dell’unificazione politica. Il successo di una simile posizione presso i moderati è una prova ulteriore dei limiti di questo partito conservatore, fatalmente inserito in una situazione rivoluzionaria. A fianco e contro questa forte componente moderata si sono sviluppate sia singole personalità fuori dal tempo capaci di intuizioni originali, ad esem-

115. G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, op. cit., p. 325.

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pio Giacomo Durando che contrappose alle tentazioni neoguelfe di Gioberti la tradizione ghibellina, sia orientamenti decisamente più moderni e inseriti nel flusso della storia europea. Sotto l’influenza dell’economia classica l’indirizzo più avanzato del liberalismo italiano ha tentato di radicarne i valori nelle dinamiche di modernizzazione dell’Italia settentrionale. La dottrina del liberalismo si è fusa con i fermenti dell’Italia settentrionale trovando ispirazione nelle correnti del liberismo inglese e offrendo alle forze produttive dell’Alta Italia la parte del leone nel più ampio mercato italiano. Dunque, la libertà, intesa anzitutto nel suo significato economico, come nuovo elemento dell’unificazione nazionale, attraverso la modernizzazione della borghesia agraria e industriale. In questa scuola si era formato Cavour, il solo uomo veramente europeo del Risorgimento italiano, nella cui formazione culturale era totalmente assente quella muffa letteraria e quel gretto provincialismo rimproverato alla sonnolenta intellettualità moderata116. La cultura scientifica di Cavour, la sua formazione nel liberalismo manchesteriano, lo avevano portato a percepire le potenzialità di espansione della società industriale moderna, pur in un contesto come quello italiano nel quale era ancora di là da venire, e a imperniare su di essa il processo di unificazione nazionale. Attraverso l’opera di Cavour si percepisce per la prima volta nella storia d’Italia lo spirito dello Stato liberale moderno e lo stesso Cavour impersona nella sua figura questo Stato e il valore storico di questa “arte liberale di governo”. Al contrario, secondo De Ruggiero, le caratteristiche di fondo della predicazione mazziniana erano l’astrattezza mistica e la profonda distanza tra i motivi ispiratori della sua dottrina e la concreta realtà italiana. I lunghi anni di esilio impedirono a Mazzini di prendere concreta coscienza di cosa fosse quel fantomatico popolo al quale erano rivolti i suoi proclami. Oltre a ciò, i punti di riferimento religiosi, politici ed economico-sociali della pre-

116. Anche A. C. Jemolo ha sottolineato la funzione di vero artefice dell’unificazione nazionale svolta da Cavour, al quale si deve anche la matrice dell’assetto costituzionale, amministrativo e della legislazione ecclesiastica che plasmò il Regno d’Italia. Di Cavour Jemolo mette in luce i rapporti e i legami internazionali (francesi ed inglesi), l’equilibrio nell’approccio al liberalismo, la competenza nell’economia e nell’amministrazione. Sul versante religioso Cavour è indicato come un razionalista, che probabilmente si proclama cattolico più per ragioni politiche che per convinzione interiore, sicuro assertore dell’esigenza della modernizzazione e laicizzazione degli istituti fondamentali della vita civile in base al principio “libera Chiesa in libero Stato”. Cavour, secondo Jemolo, ebbe il merito di saper resistere alle pressioni dei giacobini da una parte e dei clericali dall’altra, rifiutando tanto le pretese d’intromissione ecclesiastica negli affari istituzionali, quanto misure limitative delle libertà religiosa.

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dicazione di Mazzini, le sue riflessioni e i suoi proclami riguardavano molto più da vicino la storia di Inghilterra e Francia che non l’Italia. Il misticismo politico-religioso di Mazzini scaturiva dalla tradizione di Lamennais e da quella sansimoniana, dalla matrice storica della riforma totalmente estranea all’Italia, paese della Controriforma per eccellenza. Per queste ragioni il binomio dottrinale “Dio e popolo” non ha suscitato alcun entusiasmo o anche solo senso di immedesimazione nello spirito popolare in Italia, rimanendo circoscritto alle esigue avanguardie del volontarismo democratico. Gli anatemi di Mazzini contro lo spirito individualistico, anarchico e materialistico, della scuola liberale si spiegavano così con gli orientamenti sansimoniani, le opere di Sismondi, di Owen, Fourier, con la concreta realtà sociale dell’Inghilterra industriale dell’Ottocento – dove lo spirito individualistico del libero mercato aveva generato contrasti sociali enormi e condizioni di miseria e sfruttamento immani per la sua classe operaia. Ma accanirsi contro l’individualismo liberale in un paese come l’Italia ancora irretito da tradizioni di cultura e costumi feudali, dove la rivoluzione industriale era ben lontana dal profilarsi, era un non senso, significava parlare all’Italia guardando all’Inghilterra. Cosa poteva significare in Italia l’associazionismo che il Mazzini vedeva sorgere sulle rovine di una libertà anarchica e spietata, ma che gli italiani non conoscevano neppure? Quali uomini erano da associare in un paese agricolo dall’agricoltura semi-feudale?117 La democrazia di Mazzini era totalmente al di fuori della realtà italiana, una predicazione piena di doveri morali e retorici tutti collocabili nel campo del voler essere, nemmeno del dover essere, senza fare alcuna presa sull’essere. Mazzini parlava al popolo, ma a un popolo immaginario e puramente retorico, non alle sterminate masse dei contadini senza terra delle campagne italiane. Questo spiega l’orrore provato da Mazzini e dai suoi seguaci di fronte alla rivoluzione agraria nel Mezzogiorno e all’occupazione delle terre nel 1848, rivoluzione lasciata in balia di sé stessa dai democratici che non vollero sfruttare quei fatti dirompenti, e la concomitante crisi dei moderati, lasciando di fatto mano libera alla reazione. Un’idea di democrazia intesa come organizzazione popolare autonoma, secondo De Ruggiero, si sarebbe materializzata solo con la nascita del movimento socialista, il primo movimento impegnato (seppur

117. G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, op. cit., p. 333.

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tra limiti e confusioni) nel tentativo di creare un rapporto organico con le masse, scuotendole dall’apatia e dalla subalternità nelle quali erano relegate da secoli, e ponendo nell’agenda della politica le questioni sociali, largamente eluse da Mazzini al di là delle petizioni di principio e degli slanci retorici. Di quest’insufficienza del Partito d’Azione, timoroso e riluttante a coinvolgere realmente le masse popolari nel processo risorgimentale, diede conto in più riprese anche lo stesso Karl Marx che in un articolo comparso sul New York Daily Tribune nell’aprile 1853 scrisse: Ora, è un gran progresso per il Partito mazziniano l’essersi finalmente convinto che, persino nel caso di insurrezioni nazionali contro il dispotismo straniero, esistono quelle che si è soliti chiamare differenze di classe, e che nei moti rivoluzionari, ai giorni nostri, non è alle classi superiori che si deve guardare. Forse i mazziniani faranno un altro passo avanti e arriveranno a capire che devono occuparsi seriamente delle condizioni materiali della popolazione delle campagne se vogliono che il loro Dio e Popolo abbia un’eco. (…) le condizioni materiali in cui si trova la maggior parte della popolazione rurale l’hanno resa se non reazionaria almeno indifferente alla lotta nazionale d’Italia118.

In un successivo articolo dell’11 maggio 1858, Mazzini e Napoleone, Marx rimprovera i mazziniani di restare totalmente ripiegati sulle forme politiche dello Stato (Repubblica contro Monarchia), senza degnare di uno sguardo l’organizzazione sociale su cui poggia la superstruttura politica: fieri del loro falso idealismo, essi hanno considerato al di sotto della loro dignità il prender coscienza della realtà economica. Niente è più facile che essere idealisti per conto d’altri. Un uomo rimpinzato può farsi beffe del materialismo degli affamati che chiedono un volgare pezzo di pane invece di idee sublimi. I triun??viri della Repubblica romana del 1848, che lasciarono i contadini della Campagna romana in uno stato di schiavitù più esasperante di quello dei loro antenati della Roma imperiale, non ci pensavano due volte quando si trattava di dissertare sulla degradazione della mentalità rurale119.

La strategia mazziniana si riduceva dunque all’azione agitatoria e cospirativa, al colpo di piazza dei “volontari della nazione”, senza però poggiare – a

118. K. Marx, F. Engels, Sul Risorgimento italiano, Editori Riuniti, Roma, 1959, p. 109. 119. Ivi, p. 142.

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differenza dei movimenti democratici in Germania, Inghilterra, Francia – su alcuna classe sociale storica concreta. Un’idea di democrazia nella quale non c’era nulla di organico e permanente, oltre l’istantanea esplosione del gesto rivoluzionario. Eppure, ciò nonostante, secondo De Ruggiero una funzione positiva la tradizione democratica mazziniana comunque l’ha svolta, conducendo forzosamente l’esitante mondo dei moderati sul terreno dell’azione risorgimentale. Il successo dell’azione democratica è affidato, pertanto, alla saggezza dei moderati di Cavour, capaci di dare un inquadramento statale e conservatore alle conquiste della piazza. Ecco così spiegato l’apparente paradosso per cui l’Italia, fatta dai cosiddetti democratici, è organizzata anche contro di essi dai partiti d’ordine120. Il timore suscitato dal popolo condizionò dunque la formazione dello Stato italiano unitario. Essa fu portata a compimento senza che le masse vi prendessero minimamente parte, avvenne lontano da loro, contro di loro. Tale circostanza sarebbe stata determinante per l’intera vita del nuovo Stato, dalla sua fondazione fino ai giorni nostri121.

L’intima debolezza della borghesia costrinse a continui compromessi per mantenersi al potere, in Italia non ebbe modo di svilupparsi una dialettica tra imprenditori industriali e latifondisti agrari e dunque la corrispondente alternanza (Gramsci la chiama «rotazione») delle classi dirigenti; al contrario, si realizzò un accordo compromissorio il cui costo venne pagato da tutto il Paese e in particolare dal Mezzogiorno, costretto al sottosviluppo e a una condizione da “regime quasi coloniale”. Anche la mancata definizione di veri e propri partiti politici delle classi dirigenti, realmente in alternativa secondo una prospettiva liberale o conservatrice, era una conseguenza di questa dinamica sociale. Da ciò l’indistinta natura melmosa delle consorterie liberali e le consolidate pratiche trasformiste. L’unico collante reale del paese era l’apparato burocratico guidato però da gruppi privi di una qualsiasi base oggettiva nella società.

120. G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, op. cit., p. 335. 121. Ivi, p. 9.

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6. “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere” Come spiegato in apertura, l’opera di Antonio Gramsci ha trovato traduzione (in senso filosofico e non solo linguistico) in realtà profondamente diverse da quelle di cui egli si occupò in forma prevalente. Così, ad esempio, nonostante la poca attenzione dedicata alla questione della relazione tra Nord e Sud del mondo, così come quelle specifiche su America Latina e Brasile in particolare, la sua diffusione e lo studio della sua opera ha trovato qua una diffusione più estesa e ramificata di quanto non sia accaduto nella stessa Europa, con la ovvia eccezione della sola Italia. Le ragioni di questo successo sarebbero riconducibili anzitutto alla centralità nel suo pensiero di due categorie essenziali nella lettura della storia politica e sociale di questo continente: il binomio categoriale Oriente/Occidente, del quale abbiamo già parlato, e il concetto di rivoluzione passiva. Nel Quaderno 10, Gramsci definisce il concetto di “rivoluzione passiva” come il fatto storico dell’assenza di una iniziativa popolare unitaria nello svolgimento della storia italiana, dove lo sviluppo storico effettivo si pone come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico, elementare, disorganico delle masse popolari. Ciò avviene attraverso delle «restaurazioni progressive» che hanno accolto e incorporato alcune delle esigenze sorte dal basso evitando l’irruzione delle masse popolari. Ma per non ingenerare equivoci, il fulcro politico delle rivoluzioni passive non è l’accoglimento di una parte delle rivendicazioni sorte nella dialettica sociale, ma la sterilizzazione politica delle grandi masse popolari. In tal senso Gramsci parla di «rivoluzioni-restaurazioni» o, appunto, di «rivoluzioni passive» riferendosi al Risorgimento italiano proprio per l’essersi sviluppato come rivoluzione senza rivoluzione, ossia senza alcun tentativo, nemmeno da parte dei democratici mazziniani, teso a favorire la più ampia mobilitazione e partecipazione popolare. Ma per quanto le rivoluzioni passive trovino il livello di centralizzazione massima sul terreno ideologico, possono sempre determinarsi livelli molto acuti di crisi di egemonia delle classi dirigenti, dovuti a fattori diversi come una grave crisi economica o gli effetti dirompenti (depressivi e allo stesso tempo di mobilitazione) propri di una guerra. Da questo punto di vista particolarmente utili si rivelano le note del Quaderno 13 sul cesarismo, nelle quali Gramsci indica l’obiettivo di compilare un

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catalogo degli eventi storici culminati con l’avvento di personalità carismatiche. In termini generali, il cesarismo, che comunque va inteso come una “formula di polemica ideologica” e non come “un canone di interpretazione storica”, sarebbe risultato di una situazione nella quale la dialettica tra le forze in lotta assume “forma catastrofica”, tanto da potersi concludere solo con la distruzione reciproca dei soggetti in conflitto. Di fronte all’equilibrio di forze “a prospettiva catastrofica”, il cesarismo è una soluzione arbitrale, la cui natura progressiva o regressiva può essere compresa con lo studio storico della realtà concreta e non con astratti schemi sociologici: è del primo tipo quando aiuta, seppur attraverso compromessi e temperamenti, la forza progressiva a trionfare; è di senso opposto quando il suo intervento favorisce il trionfo della forza regressiva. Cesare e Napoleone I sarebbero esempi di cesarismo progressivo, Napoleone III e Bismarck altri di contenuto regressivo: «Si tratta di vedere se nella dialettica “rivoluzione-restaurazione” è l’elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è certo che nel momento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni in “toto”»122. Nel mondo moderno il cesarismo incontra delle complicazioni per la presenza di mezzi nuovi a disposizione e la maggior complessità della società civile, rendendo il fenomeno molto diverso da quello ai tempi di Napoleone III: Nel tempo fino a Napoleone III le forze militari regolari o di linea erano un elemento decisivo per l’avvento del cesarismo, che si verificava con colpi di Stato ben precisi, con azioni militari ecc. Nel mondo moderno, le forze sindacali e politiche, coi mezzi finanziari incalcolabili di cui possono disporre piccoli gruppi di cittadini, complicano il problema. I funzionari dei partiti e dei sindacati possono essere corrotti e terrorizzati senza bisogno di azione militare in grande stile, tipo Cesare o 18 brumaio123.

Nuovamente risulta centrale il tema delle articolazioni egemoniche nella società civile, così come assume particolare importanza l’analisi del mutamento prodottosi nella politica moderna dalla guerra manovrata alla guerra di posizione. Una svolta radicale nella storia della borghesia, prodottasi dopo

122. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1619. 123. Ivi, p. 1620.

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il 1870, che rese superata la formula giacobina della “rivoluzione permanente”. Lo sviluppo del parlamentarismo, l’affermarsi dell’associazionismo attraverso i partiti e i sindacati, con ampie burocrazie pubbliche e private, trasformano la stessa funzione della polizia mobilitata dallo Stato non più solo nella repressione della delinquenza, ma posta a servizio della società politica e della società civile per garantirne il dominio. Gramsci rafforza ancora questo concetto, al punto da sostenere che gli stessi partiti politici e le organizzazioni economiche delle classi dominanti vanno considerate «organismi di polizia politica, di carattere preventivo e investigativo»124. Grazie a questa articolazione complessa, anche una forma sociale in crisi ha margini di sviluppo e perfezionamento organizzativo, potendo contare sulla debolezza relativa della “forza progressiva antagonistica” che ne rappresenterebbe la negazione. In tal senso il cesarismo moderno sarebbe più poliziesco che militare, proprio perché utilizza tutti quegli strumenti preventivi e investigativi necessari a mantenere le forze ostili in condizione di minorità. La natura organica della crisi italiana nel dopoguerra era data dal suo duplice significato, perché non fu solo un problema di squilibri e arretramenti nella struttura economica, ma una “crisi di egemonia” delle sue classi dirigenti125. Su questi temi la continuità nell’elaborazione gramsciana è totale, così il paragrafo 80 del Quaderno 7 sviluppa una concezione del tema forza e consenso già presente negli articoli del 1919 relativi alla radicalizzazione reazionaria della piccola borghesia. «Come ricostruire l’apparato egemonico del gruppo dominante, apparato disgregatosi per le conseguenze della guerra in tutti gli Stati del mondo?»126. Tuttavia, al di là della crisi di egemonia del liberalismo, la disgregazione dei vecchi equilibri aveva cause molteplici e non riducibili a un solo fattore. Gramsci si sofferma su tre elementi: 1) l’affermarsi della politica di massa, dunque l’irruzione delle classi popolari mobilitate nel conflitto e ora desiderose di assumere un inedito ruolo sociale; 2) la crisi della piccola e media borghesia che, dopo aver perso storicamente una funzione produttiva, fu prima la spina dorsale della riorganiz124. Ivi, p. 1621. 125. In passato ho avuto modo di soffermarmi su questi argomenti in diverse pubblicazioni, in particolare, a partire da un saggio pubblicato nel 2008: G. Fresu, Fascismo e classi dirigenti nella storia d’Italia, NAE, op. cit., pp. 29-35. 126. A. Gramsci, Quaderni del carcere, p. 912.

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zazione bellica del Paese per poi trovarsi nuovamente declassata dopo con la fine della guerra; 3) i limiti del socialismo italiano, inerte e paralizzato da una dialettica interna lacerante, privo di una strategia capace di portare a sintesi le istanze della classe operaia con quelle contadine, dunque totalmente incapace di sfruttare a suo vantaggio quella irripetibile fase storica. Questa contraddizione tra la decadenza dell’ordine liberale e l’incapacità delle forze riconducibili al socialismo è efficacemente sintetizzata da una efficace quanto nota espressione: «il vecchio muore e il nuovo non può nascere»127. Di fronte a una simile condizione di equilibrio instabile, la rigenerazione dell’apparato egemonico non poteva avvenire con i consueti strumenti dello Stato liberale, il vero mutamento si ottiene attraverso l’utilizzo politico della violenza con una combinazione dei metodi legali e illegali della forza. Da questo punto di vista il Fascismo si prestò perfettamente all’operazione, perché, in un contesto di crisi di egemonia delle vecchie classi dirigenti e di grande mobilitazione popolare, questa nuova ideologia si presentò con un contenuto nuovo e anticonformista. Il Fascismo assunse su di sé la funzione di restaurare l’ordine con la forza pur presentandosi come un movimento rivoluzionario, antagonista tanto delle vecchie classi dirigenti liberali, quanto del movimento socialista. Il rapporto tra dominio ed egemonia, secondo Gramsci, varia a seconda del livello di sviluppo di una società civile: «Quanto più grande è la massa di apolitici, tanto più grande deve essere l’apporto delle forze illegali. Quanto più grandi sono le forze politicamente organizzate e educate, tanto più occorre “coprire” lo Stato legale, ecc.»128. In una realtà a elevato sviluppo delle forze produttive e con una società civile sviluppata, gli elementi di direzione (intellettuali e apparati privati dell’egemonia) sono preponderanti o, se preferiamo, più decisivi rispetto a quelli immediatamente riconducibili all’esercizio monopolistico della forza. Un canone interpretativo, già visto in precedenza, centrale nelle note del Quaderno 13, dove Gramsci definisce l’opinione pubblica come il punto di contatto della dialettica tra società politica e società civile, tra forza e consenso, o anche come «il contenuto politico della volontà pubblica».

127. Ivi, p. 311. 128. Ivi, p. 913.

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Una delle principali funzioni nell’esercizio del potere consiste proprio nel formare un’opinione pubblica preventivamente a determinate scelte, impopolari, dello Stato, nell’organizzare e centralizzare certi elementi della società civile. La lotta per il monopolio degli organi dell’opinione pubblica, attraverso il controllo di giornali, partiti e parlamento, è proprio finalizzata ad evitare che si determini una contraddizione e dunque una scissione tra i due livelli. Quando si verifica una simile frattura siamo di fronte a una condizione di “crisi di egemonia”: i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali non riconoscendo più nei propri gruppi dirigenti l’espressione politica dei propri interessi di classe. In situazioni di tale tipo si moltiplicano le possibili soluzioni di forza, i rischi di sovversivismo reazionario, le operazioni oscure sotto la guida di capi carismatici. Il determinarsi di questa frattura tra rappresentati e rappresentanti porta per riflesso al rafforzamento di tutti quegli organismi relativamente indipendenti dalle oscillazioni dell’opinione pubblica come la burocrazia militare e civile, l’alta finanza, la Chiesa. Dietro alla crisi di egemonia del regime liberale in Italia c’era l’inutile sforzo per la guerra, con il suo carico di promesse millantate non mantenute, e l’irrompere di soggetti sociali prima passivi. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò è appunto la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso129.

Se le classi dirigenti dispongono di apparati egemonici (giornali, accademie, case editrici) e di un personale politico più attrezzato, capace di modificare uomini e programmi in situazioni di emergenza, i gruppi subalterni, privi di questo nutrito arsenale, corrono maggiori rischi perché nelle crisi o svolte storiche tendono a perdere i propri dirigenti. È esattamente quanto accade nella crisi del dopoguerra, quando una parte significativa delle classi dirigen-

129. Ivi, p. 1603.

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ti passa dal liberalismo al Fascismo, da Giolitti a Mussolini, unificando le sue diverse frazioni dietro un’unica centrale politica. Come abbiamo visto, è un tema già trattato da Gramsci nelle Tesi di Lione ripreso e sviluppato qui in maniera organica: abbiamo il passaggio della massa di manovra di diverse organizzazioni in un unico partito che riassume gli interessi dell’intera classe centralizzandone la direzione, ritenuta la sola capace di superare il pericolo mortale insito nella crisi. «Fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro e con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato»130. Quando la situazione di equilibrio instabile produce una condizione nella quale né il gruppo tradizionale né quello progressivo può vincere, dopo il reciproco svenamento di entrambi, emerge una terza forza che ne supera dialetticamente la contraddizione attraverso una soluzione cesarista della crisi. La centralizzazione dell’intero gruppo sociale dietro un’unica direzione politica può assumere la forma del partito unico o quella del “capo carismatico”. Quest’ultima soluzione, centrale nel cesarismo, corrisponde secondo Gramsci a una fase ancora primitiva nello sviluppo dei partiti di massa, nella quale la dottrina è incoerente e disorganica e le masse necessitano di un “papa infallibile”, capace di interpretarla e adattarla alle diverse circostanze. Una condizione dominata da concezioni politiche poco sviluppate che conquistano il campo suscitando l’emotività della propria base sociale attraverso i colpi di teatro, la demagogia, l’abilità oratoria del leader. Una guida di questo tipo, tuttavia, sarebbe stata contraddetta dal sorgere di un partito espressione di una qualche classe storicamente essenziale e progressiva, portatore di una concezione unitaria e ricca di sviluppi, rispetto alla quale si imponeva il tema della collegialità della direzione e della maggiore orizzontalità delle sfere partecipative. Non occorrono troppi giri di parole per comprendere a quale tipo di organizzazione e concezione del mondo alludesse Gramsci in queste note. Il tema della guida carismatica ritorna nelle note dedicate alla relativa popolarità politica di d’Annunzio. Tra gli elementi che avevano concorso alla popolarità di D’Annunzio Gramsci elencava anzitutto la apoliticità del

130. Ivi, p. 1603.

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popolo italiano e soprattutto della piccola borghesia, una apoliticità definita irrequieta e riottosa, facilmente seducibile da parte di qualsiasi avventura e avventuriero, specie se a essa le forze dell’ordine costituito si fossero opposte solo debolmente e senza metodo; in secondo luogo, l’assenza di una tradizione dominante e forte, riconducibile un partito di massa, capace di orientare le passioni popolari con direttive storico-politiche, vale a dire l’assenza di un vero e proprio partito di massa della borghesia; nel contesto successivo alla guerra, questi due elementi avevano visto moltiplicarsi la loro presenza. Quattro anni di guerra avevano disancorato da qualsiasi disciplina statale gli elementi più irrequieti della piccola borghesia rendendoli, ancora di più, “moralmente” e “socialmente vagabondi”. Ma al fondo di questi fattori, comunque occasionali, Gramsci individuava un elemento permanente, il carattere del popolo italiano, la sua tendenza a farsi sedurre dalle doti carismatiche del tribuno ritenuto intelligente131. Tanto nell’indagine storica quanto nell’elaborazione politica, appariva fondamentale una distinzione preliminare atta a chiarire se determinate imprese e organizzazioni politiche fossero di “volontari” o espressione di gruppi sociali omogenei. In rapporto all’emersione di una figura come D’Annunzio e all’ascensione di Mussolini, capaci di attrarre non solo la piccola borghesia radicalizzata, ma parti decisive dei ceti dirigenti nazionali, Gramsci localizza alcune caratteristiche immanenti alla realtà nazionale del tempo: la passività e l’apoliticismo delle grandi masse, che agevolavano il reclutamento di volontari, rendendole facilmente manovrabili; la composizione sociale italiana, nella quale c’è una presenza sproporzionata e «malsana» di borghesia rurale improduttiva, di piccola e media borghesia al cui interno si formano intellettuali irrequieti facilmente suggestionabili da qualsiasi iniziativa, «anche la più bizzarra che sia vagamente sovversiva», dunque «volontari»; la grande presenza di sottoproletariato urbano e bracciantato agricolo. Come nel già citato articolo dell’aprile 1921 intitolato “Forze elementari”, Gramsci rilevava tra i caratteri del popolo italiano un certo individualismo apoliticista, in ragione del quale ai partiti politici e al sindacato si preferivano altre forme organizzate, le “cricche”, più di carattere malavitoso o camorristico

131. Ivi, p. 1202.

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che politico. Ogni livello di civiltà aveva un suo tipo di individualismo, e questo corrispondeva alla fase nella quale i bisogni economici non potevano trovare soddisfazione regolare e permanente a causa della miseria e della disoccupazione. Le origini di tale condizione erano profonde e le responsabilità stavano in capo alla classe dirigente nazionale che attraverso l’esclusione delle grandi masse popolari dal processo risorgimentale aveva impedito che il nuovo Stato sorgesse dal basso, coinvolgendo e rendendo parte dello spirito nazionale anche gli strati più bassi da un punto di vista economico e culturale. A differenza di quanto accaduto in Francia con la filosofia razionalista del Settecento, o in Germania con la riforma luterana e la filosofia tedesca dell’’800, secondo Gramsci, in Italia non ci fu mai una riforma intellettuale e morale capace di coinvolgere non solo le classi elevate ma anche quelle popolari. Pur rappresentando una riforma, l’idealismo moderno crociano, non ebbe ad esempio questo carattere, mentre proprio su questo terreno si sarebbe dovuta misurare la capacità e diversità del materialismo storico per il quale Gramsci indica una “funzione totalitaria” non solo rispetto alla visione del mondo organica e coerente, ma in quanto capace di investire tutta la società sino alle sue radici132: «Il torto storico della classe dirigente è stato quello di aver impedito sistematicamente che un tale fenomeno avvenisse nel periodo del Risorgimento e di aver fatto ragion d’essere della sua continuità storica il mantenimento di una situazione cristallizzata, dal Risorgimento in poi»133. Nuovamente, “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”: in questa celebre frase dei Quaderni è dunque contenuto il senso della crisi di modernità e di autorità verificatasi in Italia nel primo dopoguerra. La classe dominante a un certo punto rimane detentrice della sola forza coercitiva, e dunque le classi subalterne si staccano dalle ideologie tradizionali e «non credono più a ciò in cui prima credevano». Gramsci individua in Croce e Giolitti i due esponenti più rappresentativi di questa classe dominante e a entrambi imputa lo stesso errore: non avere compreso i mutamenti prodottisi nella società per effetto dell’ingresso delle grandi masse popolari sulla scena della vita politica italiana. Alla luce di questa critica, anche la sconfitta di Caporetto non era per Gramsci un

132. Ivi, p. 515. 133. Ivi, p. 817.

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mero fatto militare, ma anzitutto politico e sociale. Immediatamente dopo la disfatta dell’esercito italiano si diffuse la convinzione che le responsabilità politiche fossero da ricercare nella massa militare e nello “sciopero militare”. Storicamente si è poi dimostrato che a Caporetto non c’è stato alcuno “sciopero militare”; tuttavia, anche nell’ipotesi in cui ci fosse stato veramente, la responsabilità politica di esso andava attribuita ai governanti; spetta infatti alla classe politica prevedere, in guerra, come determinati fatti possano condurre allo “sciopero militare” e porvi rimedio, evitandoli. Così, ad esempio, in una guerra, la classe politica può mettere in conto l’inevitabilità di un numero anche alto di vittime, ma non può non prendere provvedimenti per evitare che le vite umane debbano essere inutilmente sacrificate. Non si può pretendere di far sopportare il peso e il sacrifico di un’intera guerra alle masse popolari, senza tenere conto del loro “carattere sociale” e senza andare incontro alle loro esigenze. Pertanto, se la responsabilità non può essere addossata alle masse, non può neanche essere attribuita in toto alle pur gravi responsabilità tecnico-militari e politiche di Cadorna, un generale ben rappresentativo della mentalità e della capacità di comprensione politica delle forze al governo del Paese. Una classe dirigente dimostratasi ancora più inetta nell’immediato dopoguerra, quando, in definitiva, si è rivelata incapace di intuire la direzione della corrente storica, agevolando nei fatti ciò che poi essa stessa avrebbe voluto e dovuto evitare: il Fascismo. Ma quando il vecchio muore e il nuovo non può nascere, può esserci inettitudine non solo nella classe dirigente al potere, ma anche in quella che si pone, o dovrebbe porsi, come la sua negazione storica: nonostante la crisi di autorità del regime liberale nel dopoguerra, la diffusione del marxismo in Italia non andò oltre un certo grado di sviluppo e il partito del proletariato si mostrò incapace di assumere un qualsiasi ruolo positivo, cadendo vittima della sua inerzia. Gramsci trova la rappresentazione esemplare di ciò nel discorso tenuto in Parlamento da Claudio Treves il 30 marzo 1920. Secondo Treves la “crisi del regime” era la conseguenza della condizione di stallo tra le forze sociali contrapposte. Il vecchio ordine non poteva più imporre il suo ordine alle masse e queste contemporaneamente non potevano ancora imporre il loro, perché la rivoluzione non è un qualcosa che si fa in un dato momento ma è come un lento processo naturale di erosione che si manifesta in uno stato febbrile di irrequietudine delle masse.

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L’agonia degli ordinamenti economici e politici esistenti non poteva però essere accorciata da una rivoluzione immediata, ma doveva passare attraverso una via crucis lunga e penosa destinata a durare anni, e in ciò sarebbe consistita l’espiazione borghese delle proprie colpe. Dietro a questa rappresentazione apocalittica di Treves si nascondeva per Gramsci la paura di assumere una qualche responsabilità concreta e con essa la mancanza di un qualsiasi legame del PSI con le masse, l’incapacità a comprenderne i bisogni fondamentali, le aspirazioni, le energie latenti: «C’era una grandezza sacerdotale in questo discorso, uno stridore di maledizioni che dovevano impietrire di spavento e invece furono una grande consolazione, perché indicavano che il becchino non era ancora pronto e Lazzaro poteva risorgere»134. Il Partito socialista italiano, anche nelle sue componenti più radicali, era per Gramsci dominato da una concezione fatalistica e meccanica della storia, dalla confusione politica, dal dilettantismo polemico dei suoi leader. I dirigenti socialisti – riformisti o massimalisti – si proclamavano tutti nemici giurati del volontarismo135, ciò nonostante aborrivano la spontaneità come un qualcosa di non degno di essere preso in considerazione e analizzato. In realtà per Gramsci la spontaneità delle masse nel “biennio rosso” era la riprova documentata dell’inettitudine del Partito socialista, della distanza tra i suoi programmi e i fatti concreti; la spontaneità aveva fatto uscire le masse subalterne dalla stagnazione inerte rendendole protagoniste di un moto in grado, proprio perché spontaneo, di mettere in discussione le posizioni parassitarie di privilegio dei dirigenti sindacali e di quelli socialisti. Era più di tutto la negazione che si trattasse di qualcosa di arbitrario, di avventuroso di artefatto [e non di storicamente necessario]. Dava alla massa una coscienza teoretica, di creatrice di valori storici ed istituzionali, di fondatrice di Stati. Questa unità della spontaneità e della direzione consapevole, ossia della disciplina è appunto la azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa136.

134. Ivi, p. 2592. 135. In queste note Gramsci ricorda l’accusa di bergsonismo che gli venne mossa nella riunione della frazione massimalista rivoluzionaria tenutasi a Firenze nel novembre 1917. 136. Ivi, p. 330.

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Nuovamente Gramsci tornava ai temi delle sue riflessioni giovanili proprio mentre lo sviluppo storico aveva confermato quanto deboli e anti-dialettiche fossero le posizioni teoriche del positivismo socialista. Per combattere efficacemente le concezioni “infantili” e “primitive” di un materialismo storico equivocato, bisognava riconsiderare con maggiore attenzione opere storiche di Marx come il 18 brumaio, Rivoluzione e Controrivoluzione in Germania, La guerra civile in Francia e così via. Questi scritti integrano le affermazioni teoriche presenti in tutta l’opera di Marx e, soprattutto, sono importanti perché in essi sono direttamente percepibili le cautele con le quali vengono trattate le questioni dei rapporti tra struttura e sovrastruttura, che non possono invece trovar posto nelle opere generali di Marx. Identificare, di volta in volta, staticamente e con precisione la struttura non è un compito semplice: un “periodo strutturale” può venire studiato in termini scientifici solo dopo che il periodo in questione ha superato tutto il suo processo di sviluppo, prima di allora si possono fare solo ipotesi. La poca attenzione nel distinguere ciò che è organico e relativamente permanente da ciò che è occasionale e contingente ha generato le due tendenze: quella del “dottrinarismo ideologico” e “pedantensco”, propenso a esaltare l’elemento volontaristico individuale; quella opposta dell’economismo volgare, tendenzialmente propenso a sopravvalutare le cause meccaniche “strutturali”. Per chiarire quali forze operano nella storia di un determinato periodo bisogna distinguere l’organico dall’occasionale, ancorandosi a due principî essenziali della filosofia della praxis contenuti nella prefazione a Per la critica dell’economia politica di Marx: Una formazione sociale non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si pone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione137.

137. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 4-5.

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Occorre stabilire il nesso dialettico tra “movimenti e fatti organici” da una parte e “movimenti e fatti di congiuntura” dall’altra, non solo sul piano della ricostruzione storiografica – quando si tratta di ricostruire il passato – ma anche e soprattutto nell’arte politica – quando bisogna costruire il presente e il futuro – e bisogna accuratamente evitare di farlo in base ai propri pii desideri e alle proprie passioni deteriori, piuttosto che ai dati reali. L’avversione di principio verso i compromessi, di cui il “bordighismo” è stato un’esemplificazione perfetta, così come l’economismo, si basa sulla convinzione che nello sviluppo storico esistano delle leggi obiettive destinate implacabilmente a dispiegarsi. Come le concezioni più deterministiche, anche l’indisponibilità intransigente al compromesso ha, al fondo, una matrice di “finalismo fatalistico”, molto simile a quella religiosa, per la quale ogni intervento soggettivo predisposto secondo un piano risulta non solo inutile ma dannoso rispetto al fatale andare delle cose, alla marcia trionfale che condurrà per conto proprio alle “condizioni favorevoli”, alla fatidica “ora X” della palingenesi economico-sociale. Se Bernstein aveva derubricato il tema del “fine” dando al “movimento” l’intero senso dell’agire socialista, a loro volta, il massimalismo, la visione di Bordiga e anche Bucharin fecero dell’obbiettivo finale un momento mistico capace di contraddire tutta la natura dialettica del marxismo. Errata interpretazione del materialismo storico che viene dogmatizzato e la cui ricerca viene identificata con la ricerca della causa ultima o unica ecc. Storia di questo problema nello sviluppo della cultura: il problema delle cause ultime è appunto vanificato dalla dialettica. Contro questo dogmatismo aveva posto in guarda Engels in alcuni scritti dei suoi ultimi anni138.

L’approccio radicalmente intransigente attribuisce alla volontà un ruolo positivo solo nel momento della distruzione, separata dalla ricostruzione e concepita meccanicamente; proprio per questa ragione essa si affida in maniera cieca e “scriteriata” alla “virtù regolatrice delle armi”. Per un simile modo di vedere, i “fatti ideologici di massa” sono sempre in ritardo rispetto ai fenomeni economici di massa, perché imbrigliati e impastoiati dall’intervento della classe dominante, che frammenta e interdice ogni

138. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 445.

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possibile forma di coordinamento delle forze sociali che possa risultare a lei avversa139. La politica di fatto non è sempre immediatamente riconducibile, in ogni suo aspetto, allo sviluppo della struttura come un suo riflesso meccanico. Un determinato atto politico può essere il frutto di un errore di valutazione da parte dei gruppi dominanti, o può essere anche il tentativo di un determinato gruppo di assumere l’egemonia all’interno della classe dominante. Questi tentativi possono fallire e a loro volta gli errori essere riassorbiti e superati dallo sviluppo storico, ma in entrambi i casi non ci troviamo di fronte a manifestazioni immediate della struttura economica, a una sua modificazione reale e permanente. Spesso gli atti in questione scaturiscono da necessità organizzative interne, dal bisogno di dare coerenza a un partito politico, a un gruppo o ad una società, da esigenze settarie140. Nel considerare ogni atto politico come il riflesso della struttura economica, non si tiene conto di tali e tante variabili. La critica al determinismo meccanico di Gramsci, per quanto nel tempo si sia affinata, precisata e definita, mantiene inalterata l’impostazione storicista di fondo degli scritti giovanili, ed è espressa in forma compiuta nell’importantissimo passaggio conclusivo delle note su “Struttura e sovrastruttura”: Ogni fase storica reale lascia traccia di sé nelle fasi successive che ne diventano in un certo senso il miglior documento. Il processo di sviluppo storico è una unità nel tempo, per cui il presente contiene tutto il passato e del passato si realizza nel presente ciò che è essenziale senza residuo di un inconoscibile che sarebbe la sua vera essenza. Ciò che si è perduto, cioè non è stato trasmesso dialetticamente nel processo storico, era di per se stesso irrilevante, era scoria casuale e contingente, cronaca e non storia, episodio superficiale, trascurabile, in ultima analisi141.

139. L’iniziativa politica appropriata, dunque anche il compromesso, risulta sempre necessaria per liberare certe forze sociali dalla direzione che la classe dominante esercita su di esse. Nuovamente per Gramsci la questione essenziale è che un gruppo sociale subalterno che si predispone a divenire dominante, deve essere capace di esercitare una direzione nei confronti dei gruppi affini e alleati assorbendoli all’interno di un nuovo blocco storico economico-sociale omogeneo che si può realizzare o con un’alleanza e una serie di compromessi o con la forza delle armi: vale a dire o alleandosi con quella forza sociale o subordinandola. Ma per Gramsci «se l’unione di due forze è necessaria per vincere una terza, il ricorso alle armi e alla coercizione è una pura ipotesi metodica e l’unica possibilità concreta è il compromesso, poiché la forza può essere impiegata contro i nemici, non contro una parte di se stessi che si vuole rapidamente assimilare e di cui occorre la buona volontà e l’entusiasmo». A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1612. 140. Da questo punto di vista è illuminante per Gramsci la storia della Chiesa cattolica perché sarebbe decisamente assurdo pretendere di rintracciare modificazioni della struttura economica dietro ad ogni sua lotta ideologica interna – come ad esempio lo scisma tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente. 141. Ivi, p. 873.

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Il fattore economico è uno dei tanti modi in cui si presenta il più profondo processo storico, ma la filosofia della praxis intende spiegare la totalità di questo processo nella sua complessità, proprio perché essa è una filosofia, una “antropologia” e non un mero canone di ricerca storica. La superstizione del progresso scientifico ha seminato illusioni e concezioni talmente ridicole e infantili da “nobilitare la superstizione religiosa”, ha fatto nascere l’attesa verso un nuovo messia che avrebbe realizzato sulla terra il “Paese di Cuccagna” senza l’intervento della fatica umana ma solo per opera delle forze della natura e dei meccanismi del progresso resi sempre più perfezionati. Questa infatuazione puerile per le scienze in realtà nascondeva la più grande ignoranza sui fatti scientifici, sulla specializzazione dei suoi rami disciplinari, e dunque finiva per caricare di attese il mito del progresso scientifico trasformato in una «superiore stregoneria». 7. La doppia revisione del marxismo e i punti di contatto con Lukács Il determinismo fatalistico e meccanicistico è caratteristico di una fase ancora contraddistinta dalla subalternità di determinati gruppi sociali, costituisce una sorta di “aroma ideologico immediato”, una sorta di eccitante o religione necessitata appunto dal carattere subalterno del gruppo sociale. La concezione meccanicistica è per Gramsci “la religione dei subalterni”. Nel marxismo la scissione tra teoria e prassi corrisponde alla separazione tra intellettuali-dirigenti e masse, cioè a una fase in cui l’iniziativa ancora non è nella lotta, e il determinismo, la convinzione nella razionalità della storia, divengono una forza di resistenza morale e di coesione. Ma tutto questo cambia nel momento in cui il subalterno diviene dirigente, una persona storica, un protagonista del suo processo di emancipazione. Il determinismo meccanico può essere spiegato come “filosofia ingenua” della massa, tuttavia quando viene innalzato a filosofia dagli intellettuali «diventa causa di passività, di imbecille autosufficienza, e ciò senza aspettare che il subalterno sia diventato dirigente e responsabile»142. Secondo Gramsci sono proprio i residui di meccanicismo – il considerare la teoria come un «complemento accessorio» della prassi, come “ancella della pratica” – ad aver impedito nel marxismo un pieno sviluppo della que-

142. Ivi, p. 1389.

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stione relativa all’unità tra teoria e prassi. Il problema è posto da Gramsci nelle considerazioni su come lo sviluppo di un nuovo pensiero interviene ad alimentare e fecondare un’età storica e una produzione orientate filosoficamente secondo una Weltanschauung originale. Parallelamente a quello di Gramsci, un analogo processo di chiarificazione intellettuale e politica caratterizza anche l’evoluzione del giovane György Lukács, impegnato in una costante polemica tanto con il marxismo positivista, quanto con quello revisionista. Pure il filosofo ungherese, in contrasto con la doppia revisione subita dal marxismo143, sottolineò ripetutamente la centralità della filosofia classica tedesca tra le fonti essenziali del materialismo storico e l’assoluta importanza della dialettica, da lui ritenuta il vero cuore pulsante del marxismo. Una similitudine più volte affrontata da Michael Löwy, attento studioso dei due intellettuali. Il riferimento al pensiero idealista – soprattutto a Croce e a Bergson – è nel Gramsci del 1917-1918 un mezzo per opporsi all’ortodossia positivista, scientista ed economico-determinista dei Claudio Treves e dei Filippo Turati, rappresentanti ufficiali del marxismo della Seconda Internazionale alla testa del socialismo italiano. Tentativo che trova il suo preciso equivalente nell’ideologia rivoluzionaria sui generis di Lukács in quella stessa epoca, elaborata da una combinazione HegelAndy-Dostoevskij-Sorel radicalmente contrapposta al kautskismo. (...) In questo primo tentativo volto a formulare un marxismo rivoluzionario non positivista, sia Gramsci che Lukács faranno ampio ricorso a Sorel, rappresentante di un socialismo romantico anticapitalista144.

Secondo il giovane Lukács il marxismo si caratterizza per il suo metodo dialettico rivoluzionario in grado di superare la distinzione tra teoria e prassi e i meccanicismi del dottrinarismo. In esso i concetti non sarebbero schemi rigidi e immutabili o apparati razionali isolati tra loro, tali da poter essere compresi solo per astrazione; Lukács parla di realtà viventi che producono un passaggio processuale ininterrotto, nel quale i singoli concetti si rovesciano nell’opposto della loro formulazione originaria. Per Bernstein, il protagonista di una delle due revisioni sofferte dal marxismo contro cui polemiz143. Abbiamo parlato della “doppia revisione del marxismo” nel paragrafo numero uno (Dialettica versus positivismo: la formazione filosofica del giovane Gramsci) del primo capitolo. 144. M. Löwy, “Gramsci e Lukàcs: verso un marxismo antipositivista”, in Gramsci e il marxismo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma, 1990, p. 304.

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zano Gramsci e Lukács, la dialettica farebbe invece violenza alla realtà per solo amore del metodo, mostrandosi in definitiva inidonea a comprendere la scienza moderna basata sui “fatti”. La dialettica sarebbe cioè un residuo superato della filosofia hegeliana dalla quale ci si doveva liberare per assumere un metodo scientifico “privo di pregiudizi”. L’affermarsi delle interpretazioni deterministe per Gramsci fu per un verso dovuto alle concrete esigenze del nascente movimento operaio, ma, per un altro, le semplificazioni sull’inevitabilità della fine del modo di produzione capitalistico come una “necessità storica” parevano offrire un’adeguata spiegazione alla grande depressione di quegli anni. Lo stato di instabilità e la vulnerabilità della società borghese, create dalla più grande crisi della produzione capitalistica fino ad allora verificatasi, unito al peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori per quasi vent’anni, sembrarono una materializzazione delle teorie sulla “miseria crescente” e della “crisi finale”145. Per tutte queste ragioni, la nuova impetuosa ripresa economica iniziatasi nel 1896 e la disillusione sull’imminente crollo della società borghese determinarono una grave crisi teorica del movimento operaio socialista. Fino ad allora, l’impostazione dominante all’interno del movimento socialista internazionale, era incentrata su una tattica nella quale lo sviluppo degli eventi faceva coincidere esattamente l’esplodere delle contraddizioni capitalistiche con l’inarrestabile crescita del movimento operaio, il tutto inserito in un processo progressivo e ascendente considerato irreversibile. Lo scontrarsi di questa nuova situazione con le certezze ortodosse del determinismo marxista condannò quest’ultimo alla paralisi, per l’incapacità di affrontare adeguatamente i nuovi fenomeni connessi ad uno scenario contraddistinto dal nascente imperialismo delle grandi potenze capitalistiche146.

145. La seconda metà dell’Ottocento è contraddistinta da una serie di mutamenti talmente rapidi e profondi da avere determinato uno sviluppo delle forze produttive senza riscontri nella precedente storia dell’umanità. Tra il 1860 e il 1870 si raggiunge l’apogeo della libera concorrenza; con la crisi del 1873 inizia a delinearsi il sistema dei cartelli, quindi tra il 1890 e il 1903 (anno che a sua volta segna l’inizio di una nuova crisi) si registra un’ascesa del volume di affari e traffici che porta a una sempre più forte concentrazione e centralizzazione dei capitali in ragione della quale l’organizzazione per cartelli diviene una base fondamentale di tutta la vita economica e non più un fenomeno transitorio legato alla congiuntura. Secondo l’espressione di Lenin “il capitalismo si era trasformato in imperialismo”. 146. G. Fresu, Lênin leitor de Marx. Dialética e determinismo na história do movimento operário, op. cit., pp. 28-60

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In un simile contesto di crisi teorica, tra il 1896 e il 1898, Eduard Bernstein inizia a pubblicare sulla Neue Zeit una serie di articoli intitolati “Problemi del socialismo”, poi ripresi e ampliati nel 1899 nell’opera più celebre del revisionismo marxista, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia147. Secondo Bernstein, le errate previsioni di Marx ed Engels erano la logica conseguenza dei limiti del materialismo storico. Gli abbagli sui tempi e le possibilità di sviluppo del modo di produzione capitalistico erano perciò la conseguenza di un certo apriorismo del materialismo storico, perché in esso il progresso storico sarebbe stato costretto nella camicia di forza di un processo metafisico animato da un movimento per antitesi dialettica. Il filosofo socialdemocratico definì il materialista un «calvinista senza Dio, [...] se egli non crede alla predestinazione per decreto divino tuttavia crede e deve credere che, a partire da un momento qualsiasi, ogni evento ulteriore è predeterminato dalla materia data e dalle relazioni dinamiche delle sue parti»148. L’accusa di apriorismo era riferita al rapporto tra coscienza e essere, da lui considerato unilaterale, meccanico e antiscientifico. Come vedremo, si tratta della stessa critica mossa da Benedetto Croce a Marx. In entrambi i casi, secondo Gramsci, la necessità della “revisione” nasceva dalla incapacità di distinguere l’opera di Marx ed Engels da quella dei suoi interpreti positivisti, contraddetta e messa in crisi dal concreto sviluppo storico. Con l’autonomia dei fattori politici e ideologici rispetto allo sviluppo delle basi economiche, Bernstein giunge alla rivalutazione dell’eclettismo (accentuare l’influsso dei fattori non economici contro la sopravvalutazione della tecnica produttiva), a suo dire una “reazione naturale e di buon senso” contro le tendenze dottrinarie «di chi pretende di dedurre tutto da un’unica causa e trattare tutto secondo un unico e medesimo metodo», di chi intende “comprimere il pensiero in una camicia di forza”149. Queste teorie avevano un chiaro obiettivo politico, delineato con trasparenza sin dal titolo dell’opera: revisionare i presupposti teorici del socialismo per ridefinire i compiti della socialdemocrazia. Dunque, l’analisi era tutta protesa a dimostrare l’inadeguatezza del materialismo storico, riplasmare la socialdemocrazia e con ciò risolvere la contraddizione che Bernstein avvertiva tra

147. E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari, 1968. 148. Ivi, p. 31. 149. Ibid.

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una pratica riformista basata sull’attività parlamentare e una teoria utopistica e rivoluzionaria. Una contraddizione ricondotta da Bernstein a un presunto influsso blanquista su Marx e alla dialettica hegeliana, che gli sarebbero stati particolarmente fatali nel contesto di generale fermento degli anni attorno al 1848. La messa in discussione del rapporto tra movimento operaio e marxismo doveva pertanto passare attraverso la denuncia del suo apriorismo utopistico, il superamento della dialettica hegeliana e soprattutto del blanquismo. Gli errori in cui erano incorsi Marx ed Engels nel Manifesto erano dovuti dunque all’adozione della dialettica hegeliana – seppur “rimessa sui piedi” – quale principio dinamico e cardine del materialismo storico; la dialettica hegeliana costituiva per Bernstein «l’elemento più infido della dottrina marxista, l’insidia che impediva ogni considerazione coerente delle cose»150, e a essa andava attribuita la responsabilità dell’apriorismo immanente alla filosofia della prassi. “Rimettere sui piedi la dialettica” non era del resto per Bernstein un’operazione agevole, «perché, quale che sia il rapporto reale delle cose nella realtà, non appena si abbandona il terreno dei fatti sperimentali e procediamo col pensiero al di là di essi, noi incappiamo nel mondo dei concetti logici, e se allora seguiamo le leggi della dialettica hegeliana, senza nemmeno accorgercene ci troviamo di nuovo nelle maglie dello sviluppo spontaneo del concetto, qui sta il grande rischio scientifico della hegeliana logica della contraddizione»151 e così, per quanto la dialettica hegeliana si fosse rivelata di estrema utilità nell’aver dato l’impulso a importanti scoperte, non appena si cercò di anticipare deduttivamente gli sviluppi della realtà sulla base di questi principi il marxismo generò un dottrinarismo astratto innervato di costruzioni arbitrarie. In tal senso, la relazione deduttiva posta nel Manifesto del Partito comunista tra le condizioni avanzate della civiltà europea e l’imminente rivoluzione proletaria costituiva una «autosuggestione storica» degna di un «visionario». Ma per Bernstein dietro a questo errore non c’era solo una semplice sopravvalutazione di alcuni fattori politici contingenti (come affermava Engels nella prefazione del 1895), si trattava semmai di un’anticipazione arbitraria, puramente speculativa e deduttiva, sulla maturità di uno sviluppo di cui si

150. Ivi, p. 58. 151. Ivi, p. 52.

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intravedevano al massimo i primi segni. Un esito inevitabile, quando si pretende di tradurre la dialettica dal mondo dei concetti a quello della realtà, imputato all’influenza della filosofia hegeliana su Marx. La contestazione di questi presupposti teorici era dunque legata alla negazione di alcune previsioni di Marx sulle modalità evolutive del modo di produzione capitalistico, negazioni a loro volta funzionali al mutamento dell’azione concreta e delle finalità della socialdemocrazia. Così Bernstein negò o ridimensionò alcune teorie fondamentali del marxismo: le tesi sulla contraddizione tra il carattere sociale della produzione e le forma privata della appropriazione dei profitti; quelle relative alla polarizzazione della società verso le due classi estreme, alla proletarizzazione crescente della piccola e media borghesia e dunque all’aumento della forbice della sperequazione economica tra capitalisti e lavoratori; le tesi sulla crescente centralizzazione e concentrazione dei capitali e la relazione tra queste e il maggiore sfruttamento della forza lavoro; infine quelle relative alle crisi connesse alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Tutte queste “errate previsioni” non sarebbero altro che il risultato dell’apriorismo teorico del marxismo. La contestazione dei principi teorici fondamentali del marxismo trovò poi la sua traduzione politica nella polemica sugli errori di Marx nel trattare il tema del rapporto tra socialismo e democrazia. Per Bernstein, con il progresso delle forze produttive e l’incalzare della forza organizzativa e politica del movimento operaio le istituzioni rappresentative avrebbero cessato di essere un organo di dominio borghese, dando luogo a un progressivo e inarrestabile ampliamento delle sfere di democrazia reale. Lo svilupparsi della legislazione sociale, quella a tutela dei diritti del lavoro e la democratizzazione delle istituzioni nelle nazioni moderne avrebbero scalzato naturalmente la lotta di classe, riducendo le occasioni e le necessità delle grandi catastrofi politiche. Per Bernstein tra democrazia politica e sfruttamento capitalistico vi è contraddizione, lo sviluppo dell’eguaglianza politica avrebbe portato a riassorbire naturalmente le disuguaglianze economiche e le differenze di classe. Dunque, la socialdemocrazia avrebbe dovuto abbracciare senza più esitazioni la bandiera del suffragio universale e della crescita parlamentare, abbandonando non solo l’idea della presa rivoluzionaria del potere, ma anche la stessa fraseologia rivoluzionaria sopravvissuta a sé stessa ma oramai priva di qualsiasi significato concreto. A partire da questa svolta teorica e politica, nella Seconda Internazionale, iniziò a formarsi una sempre più forte

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corrente riformista contrapposta a una impostazione massimalista, il discrimine essenziale tra le due visioni risiedeva nel primato attribuito alla pratica riformista o alla strategia rivoluzionaria. Anche la frase più rappresentativa del pensiero di Bernstein – «quel che comunemente si chiama obbiettivo finale del socialismo per me è nulla, il movimento è tutto»152 – che contrappone il momento della riforma al fine ultimo dell’azione socialdemocratica, trae il suo fondamento dalla “ribellione” conto l’apriorismo marxista. Le teorie preconcette sull’esito del movimento, che ne predeterminano sia la direzione che il carattere, conducono il movimento stesso all’utopismo, paralizzando ogni progresso reale e compromettendo scientificità all’opera di Marx. Nell’ultimo capitolo del suo scritto, emblematicamente intitolato Kant contro Cant, è esplicito l’influsso della vulgata neo-kantiana, che proprio in quegli anni si afferma su una parte minoritaria della socialdemocrazia tedesca, ed espressamente si pone l’obiettivo di mantenere un nucleo scientifico del marxismo riducendolo a nient’altro che a canone d’interpretazione storica, e in tal senso lo concilia a Kant nella misura in cui questo libera il socialismo scientifico dall’influenza negativa della dialettica hegeliana. Bernstein evoca lo spirito di Kant contro il Cant153 annidatosi nel movimento operaio, ossia la tendenza conservatrice e dogmatica della tradizione tra i rivoluzionari. Per un partito che vuol tenere il passo con lo sviluppo reale, la critica è indispensabile, mentre la tradizione può diventare un peso opprimente e trasformarsi da forza motrice in freno che lo inceppa; in tal senso l’invocazione a Kant assume il valore della battaglia critica contro lo scolasticismo che troverebbe il suo sostegno principale nell’eredità di Hegel sul materialismo storico154. In netta controtendenza con questa revisione neokantiana, ma pure con quella determinista del marxismo ufficiale, Gramsci e Lukács dedicarono approfondite riflessioni critiche sia in gioventù che in età adulta155. 152. Ivi, p. 244. 153. La parola Cant sta ad indicare la cantilena bigotta dei puritani, la pura e semplice ripetizione rituale di una formula, e più in generale sta ad indicare secondo Bernstein la retorica insincera. 154. In netta contrapposizione con questa impostazione, Lenin, durante la guerra, si dedica a un approfondito studio dell’opera di Hegel per dimostrarne l’importanza nel marxismo. Da questo studio nascono i suoi Quaderni filosofici. Di tutto ciò mi sono occupato largamente nella mia monografia Lenin lettore di Marx. Determinismo e dialettica nel movimento operaio, op. cit. 155. G. Fresu, Il diavolo nell’ampolla. Antonio Gramsci, gli intellettuali e il partito, op. cit., pp. 21-48.

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Secondo il filosofo ungherese, eliminando il metodo dialettico dal marxismo lo si sarebbe privato del suo rigore e della sua forza rivoluzionaria. La sola raccolta bruta dei fatti non renderebbe intelligibile la complessità della storia, perché solo la dialettica mostra come ogni modo di produzione crea in sé gli elementi della sua rovina e del suo superamento. Solo attraverso la dialettica viene a chiarirsi il ruolo della contraddizione immanente a ogni tappa della storia. Per Lukács, senza la dialettica si brancolerebbe in un labirinto di fatti disorganici privi di un ordine e ci si perderebbe nell’attesa di ricevere dai fatti stessi l’indicazione per l’azione. Nuovamente troviamo un elemento centrale di polemica filosofica già riscontrata in Labriola e Gramsci: se l’eclettismo trovava la sua giustificazione nel rifiuto del metodo dialettico, a sua volta, pure l’appiattimento volgare del marxismo ortodosso era riconducibile proprio all’abbandono – seppur non evidente o manifesto – della dialettica. «Mentre Bernstein dichiarava apertamente che l’obiettivo finale per lui non esisteva, ma che il movimento era tutto, Kautsky e i suoi seguaci hanno assegnato all’obiettivo finale un ruolo di divinità celeste, lo hanno avvolto in un’aura di sublimità estranea ad ogni realtà immediata»156. In questo modo l’obiettivo finale divenne solo una vuota formula utile ad abbellire le conclusioni di discorsi, libri o manifesti. La rivoluzione in Marx assume un carattere processuale, usando il lessico di Gramsci potremmo dire “molecolare”, e la continua crescita di differenze quantitative si capovolge ad un certo punto in una differenza qualitativa. Nell’unita dialettica dei singoli momenti si esprime dunque il processo rivoluzionario e in essa va ricercata la maturità o la possibilità della rivoluzione: Ogni momento del corso normale del movimento operaio, ogni aumento salariale, ogni riduzione dell’orario di lavoro ecc., è dunque un’azione rivoluzionaria, perché proprio di questi momenti si compone quel processo che a un certo punto si rovescia in un elemento qualitativamente nuovo, elemento che rende impossibile la produzione capitalistica. Ma questi singoli momenti possono diventare rivoluzionari solo nell’unità del metodo dialettico. Per chi riconosce solo i singoli momenti, il movimento operaio si stempera in riformistiche rivendicazioni salariali157.

156. G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919-1928, Editori, Laterza, Bari, 1972, p. 28. 157. Ivi, p. 30.

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Marx, grazie ad Hegel, giunge a comprendere l’unità-totalità del processo dialettico, riesce a capire come l’intero prevalga sulle parti e come si debba arrivare alle singole parti procedendo dall’intero e non viceversa. In questo modo, è riuscito a smascherare la “falsa coscienza” immanente all’economia politica classica, che considera isolatamente i singoli elementi del processo economico, arrivando poi al sistema economico. Per Lukács, grazie a questo rovesciamento, l’economia politica fa apparire alcuni presupposti del modo di produzione (l’origine della proprietà privata e il diritto) come leggi naturali eterne, supporto necessario all’esistenza umana. L’economia politica è in grado di descrivere il funzionamento del modo di produzione, entro certi rapporti, ma è incapace di spiegare come nascano quei rapporti di produzione e sorga storicamente il processo produttivo. Tanto l’economia politica quanto la sociologia erano per Lukács incapaci di spingersi anche solo concettualmente oltre l’ambito dei presupposti che presiedono alla produzione così come essa avviene nella società borghese. Esattamente la concezione unitaria, totalitaria (non nel senso che ha poi assunto questo termine dopo la Seconda guerra mondiale) del processo storico rende il metodo di Marx profondamente legato all’azione e alla vita; così anche il presunto contrasto concettuale tra astratto e concreto cade di fronte ad una visione nella quale il concreto è tale in quanto composizione di diverse determinazioni, unità del molteplice. Se Marx è stato il primo a cogliere la natura storicamente determinata e non eterna delle leggi economiche, proprio grazie a questo metodo, Hegel ha saputo riconoscere la storia mondiale come un processo unitario mosso da un continuo movimento dialettico, nel quale le trasformazioni non erano dovute ad imperscrutabili leggi divine o naturali, ma allo stretto intreccio di contraddizioni oggettive e soggettive generatesi all’interno dello stesso corpo sociale. Come più volte chiarito nei suoi lavori da Losurdo, se prima i rivolgimenti legati alla Rivoluzione francese erano spiegati facendo ricorso alle teorie del complotto o comparandoli alle catastrofi naturali e alle epidemie, Hegel è il primo a fornire un quadro concettuale che ha consentito la comprensione storica razionale dei processi rivoluzionari. Hegel individua dunque la genesi della rivoluzione in un complesso, in un intreccio di contraddizioni, e la decisiva importanza della Logica è nell’aver fornito gli strumenti concettuali indispensabili per la comprensione di tale fatto: gli

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gimenti violenti che spazzano via il vecchio mondo feudale e, più in generale, un ordinamento ormai decrepito e intollerabile, non sono più il risultato di un complotto e di subdole manovre, come affermavano i teorici della controrivoluzione, ma non sono neppure il risultato della ribellione, dell’indignazione della coscienza morale contro un ordinamento considerato contrario ai diritti naturali dell’uomo, come facevano o tendevano a fare non solo i teorici, ma gli stessi protagonisti della Rivoluzione francese. Ma di grande rilievo è soprattutto la categoria del negativo. Hegel celebra l’“immanente potenza del negativo” e la negatività costituisce una categoria centrale della logica, la cui genesi o la cui centralità non può essere adeguatamente compresa se non si tiene presente l’esperienza alle spalle della Rivoluzione francese, il movimento storico più alto e più drammatico della negatività158.

Il metodo dialettico era per Lukács il solo in grado di evitare tanto l’utopismo dell’approccio riformista, quanto l’inerte messianismo del “marxismo volgare”, ambedue uniti dal ripudio, dall’abbandono, o più semplicemente dal non riconoscimento della funzione centrale della dialettica hegeliana nel materialismo storico. Una centralità ribadita da Lukács anche nella recensione alla nuova edizione delle Lettere di Ferdinand Lassalle: L’evoluzione giovanile di Marx è occupata dalla critica a Hegel, dal superamento interno di Hegel, che si realizza poi appunto in modo così radicale che Marx non ritornerà mai più in maniera esplicita su questo argomento, quantunque occasionalmente continui ad affiorare il proposito di dare un breve compendio del nucleo utilizzabile della logica hegeliana, e questo sebbene il nucleo della filosofia della filosofia hegeliana, superato e conservato da Marx nel suo pensiero sia più importante di quanto sogliono ammettere i marxisti volgari159.

L’essenza del marxismo non andava ricercata tanto nel predominio delle motivazioni economiche, ma nella categoria della cosiddetta “totalità”, vale a dire il predominio dell’intero sulle singole parti, il metodo essenziale della filosofia hegeliana rielaborato in modo originale da Marx e posto a base di una scienza storica completamente nuova. Marx ha mantenuto l’essenza del metodo hegeliano e, attraverso il suo rovesciamento materialistico, ne ha fatto la base di una scienza rivoluzionaria, che considera ogni fenomeno parziale come elemento dell’intero e concepi-

158. D. Losurdo, L’ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella Editore, Lecce, 2001, p. 25. 159. G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919-1928, op cit., p. 206.

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sce il processo dialettico come “unità di pensiero e storia”. Il materialismo storico interpreta la società come una totalità, ammette la delimitazione conoscitiva delle sue singole parti, ma non concepisce una autonomia concettuale di queste: per il marxismo è inevitabile nello studio il determinarsi di delimitazioni disciplinari, tuttavia non vi può però mai essere una scienza autonoma del diritto, una dell’economia, una della storia e così via. Per il marxismo esiste una sola e unitaria scienza “storico-dialettica” dello sviluppo della società come totalità. La tradizione liberale, al contrario, considera i fenomeni della società sempre a partire dall’individuo, così, l’economia politica classica ha sempre considerato le leggi dello sviluppo capitalistico dal punto di vista del singolo capitalista. Marx, invece, ha analizzato «i problemi dell’intera società capitalistica come problemi delle classi in cui essa è strutturata, intese come totalità»160. In coerenza con questa impostazione epistemologico-politica, nel saggio Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Lukács si pose il compito di mostrare le specifiche radici tedesche dell’opera complessiva di Marx, chiarendo la relazione organica tra la sua visione del mondo e l’evoluzione progressiva della Germania da Lessing a Heine, da Leibniz a Hegel e a Feuerbach. «Un’esatta analisi storica, di Hegel, che lo consideri e lo interpreti fin da principio nella prospettiva di Marx, può essere un contributo anche alla soluzione di questo compito»161. All’interno delle consonanze rilevabili tra i temi trattati da Gramsci e Lukács nella polemica contro “i due revisionismi” un posto di particolare rilievo assumono le rispettive annotazioni critiche sullo scritto di Bucharin del 1922, Teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista. Entrambi lo giudicarono figlio di un materialismo metafisico e “volgare”, quasi una rivincita postuma del determinismo positivista della Seconda Internazionale nel cuore dello Stato sovietico. Secondo Lukács, l’intento di realizzare un’opera divulgativa sul materialismo storico andava incontro a un’esigenza reale; tuttavia, il Manuale di Bucharin, che aveva anzitutto il torto ricorrere essenzialmente a fonti di “seconda mano”, banalizzava le grandi questioni riguardanti l’arte, la lette-

160. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar Editore Milano 1970, p. 38. 161. G. Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Einaudi Editore, Torino 1960.

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ratura e la filosofia, senza per questo renderle più accessibili ai non addetti ai lavori. Se superficialmente l’esposizione poteva apparire chiara e lineare, in realtà, tutte le connessioni più problematiche erano omesse risultando in definitiva ancora meno intellegibili. Così, l’intento di rendere il materialismo storico più comprensibile ai più finiva per tradursi in un appiattimento volgare di tutti i problemi che lo riguardavano. In questo saggio, ad esempio, l’analisi delle relazioni tra economia e sfera spirituale sembrava ricalcare più le caricature dei detrattori di Marx che la sua opera, affermando un rapporto di identità assoluta tra rapporti di produzione e Stato, totalmente al di fuori dalla realtà. Contrariamente a questo appiattimento, la storia dimostrava come la possibilità di equilibrio delle forze economiche tra le classi concorrenti potesse rendere possibile il sorgere temporaneo di un apparato statale non pienamente dominato da nessuna delle due classi in lotta (è il caso della monarchia assoluta all’inizio dell’età moderna). Alla stessa maniera, una classe poteva arrivare al potere economico senza, tuttavia, essere in grado di creare istituzioni politiche e giuridiche pienamente corrispondenti alla nuova età. È il caso della borghesia tedesca nella sua fase di massima ascesa economica, quando interruppe bruscamente la sua azione riformatrice liberale, lasciando il controllo dell’apparato statale nelle mani della aristocrazia terriera degli Junker. In linea generale, il Manuale abbandonava la tradizione del materialismo storico senza però arrivare al livello concettuale di quanti lo avevano preceduto in quest’opera revisionista e, soprattutto, senza trovare ragione nei fatti. In particolare, l’approfondimento filosofico del capitolo introduttivo ignorava completamente gli apporti della filosofia classica tedesca, così come del tutto superficiale era il fugace riferimento a Feuerbach. La teoria di Bucharin, che s’approssima in misura considerevole al materialismo borghese delle scienze naturali, acquista in tal modo l’impronta di una science (secondo l’uso francese del termine) e nella sua concreta applicazione alla società e alla storia finisce non di rado col cancellare l’elemento decisivo del metodo marxista: quello di ricondurre tutti i fenomeni dell’economia e della sociologia alle relazioni sociali degli uomini. La teoria acquista l’accento di una falsa oggettività: diventa feticistica162.

162. G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919-1928, op. cit., p. 191.

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Bucharin, trattando dell’evoluzione sociale, attribuiva alla tecnica un significato debordante, affermando che ogni sistema della tecnica sociale determina anche il sistema dei rapporti di lavoro fra gli uomini, tanto da definire “normatività fondamentale” la stretta dipendenza tra livello di sviluppo delle forze produttive ed evoluzione tecnica della società. Se si spiega lo sviluppo delle forze produttive attraverso la tecnica, è inevitabile ricadere in un nuovo “feticismo”, così come la centralità di fattori naturalistici (territorio, clima e ambiente) nelle trattazioni filosofico-politiche del XVIII e del XIX secolo. Al contrario, la tecnica andava concepita come un momento di ognuno dei sistemi produttivi e il suo sviluppo spiegato con l’evoluzione delle forze produttive sociali, non viceversa. Il livello raggiunto dalla tecnica, determinato dallo sviluppo delle forze produttive, può esercitare un’influenza su queste ultime, ma non sarebbe corretto decontestualizzare la tecnica dalla serie delle forme ideologiche fino ad attribuirgli un’esistenza autonoma. Questi errori erano la diretta conseguenza dell’impostazione generale di Bucharin e della pretesa di intendere il marxismo come una “sociologia generale”, dunque del tentativo di “civettare” con le scienze naturali. L’intero fondamento filosofico della teoria di Bucharin è ancora fermo al punto di vista del materialismo dell’intuizione; egli anziché assoggettare le scienze naturali e il loro metodo a una critica storico-materialistica, concependole cioè come prodotti dello sviluppo capitalistico, ne applica il metodo alla conoscenza della società incautamente, in modo acritico, antistorico antidialettico163.

Per passare al giudizio di Gramsci, egli, nel Quaderno 4, individua alcuni filoni di ricerca utili allo studio di materialismo e idealismo in modo da costruire una storia del marxismo con due obiettivi dichiarati: 1) chiarirne processi evolutivi e limiti; 2) delineare un nuovo quadro ideologico capace di incidere sulla realtà e trasformarla. Queste riflessioni filosofiche sul marxismo prendono le mosse dai criteri metodologici necessari a inquadrare l’opera del suo principale ispiratore. Se si intende studiare un autore, la cui concezione del mondo non è mai stata esposta sistematicamente e nella quale si intrecciano strettamente attività teorica e pratica, bisogna ricostruirne con attenzione la biografia attraverso l’analisi di tutte le opere, gli scritti minori

163. Ivi, p. 201.

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e le lettere secondo una successione cronologica che ne colga il leitmotive. Nello studio di un autore bisogna distinguere le opere da lui condotte a termine e pubblicate da quelle non compiute e inedite, poiché il contenuto di queste va esaminato con molta più cautela e attenzione, proprio per la loro natura di materiale provvisorio e in elaborazione su cui l’autore sarebbe probabilmente ritornato sopra. In queste note l’intellettuale sardo sembra delineare la mappa per inoltrarsi nel mare magnum del pensiero di Marx, ma fornisce insieme alcune bussole di orientamento per accingersi allo studio della sua stessa opera e dei Quaderni del carcere in particolare. In queste note, nuovamente, Gramsci si sofferma sul processo di involuzione e volgarizzazione filosofica del marxismo dopo Marx ed Engels. Se il marxismo originario costituiva il superamento della più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica tedesca, il marxismo dopo Marx si dimostra incapace di abbracciare e comprendere l’uomo in tutti i suoi aspetti; dunque, deve servirsi degli apporti di altre filosofie. Al positivismo Gramsci riconosce un merito, aver favorito una nuova connessione tra la cultura europea, impaludatasi nelle “antiche ideologie razionaliste”, e una realtà di cui aveva smarrito il senso. Al contempo, però, esso ebbe il limite rinchiudere quella stessa realtà entro schemi predefiniti autoreferenziali, imprigionandola nella sfera della “natura morta”. Ciò ebbe come conseguenza l’impoverimento della ricerca filosofica trasformata in una nuova “teologia materialistica”164. In forte contrasto con quest’impostazione Lenin sviluppò un durissimo confronto teorico nel movimento marxista mondiale165, tuttavia, nonostante la sua vicinanza con il rivoluzionario russo, nel suo saggio Bucharin risentiva fortemente dell’influsso delle scienze sociali e di quelle naturali, secondo

164. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 85. 165. «Tutto questo porta, come conseguenza pratica, a tendenze attendiste e quasi messianiche nel movimento operaio: l’elemento soggettivo assume una funzione marginale e totalmente subordinata rispetto all’ambito oggettivo; la lotta di classe si pone come una legge dell’evoluzione sociale che i marxisti devono limitarsi a spiegare, come Newton spiega la gravitazione. Dunque, il compito delle forze socialiste era semplicemente quello di accrescere la propria forza, nell’attesa che la storia facesse il suo corso, fino a determinare nei fatti – come una inevitabile legge naturale – l’abbattimento del modo di produzione capitalistico e l’instaurazione di una società socialista. (…). Tutte queste tendenze e interpretazioni hanno trovato poi cittadinanza nella parte generale del programma di Erfurt del 1891 – non solo votato dalla socialdemocrazia tedesca, ma presto divenuto un’importante assunto teorico per tutti gli altri partiti socialisti – e hanno trovato teorizzazione completa nella saggistica di importanti intellettuali come Karl Kautsky, per i quali il compito della socialdemocrazia non era di organizzare la rivoluzione, ma di organizzarsi per la rivoluzione, non fare la rivoluzione, ma usarla», G. Fresu, Lenin lettore di Marx, op. cit., pp. 41-42.

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l’impostazione teorica superficiale e di taglio positivista caratteristica della Seconda Internazionale. Secondo Gramsci, già tra titolo e contenuto del lavoro di Bucharin possiamo rilevare una contraddizione. Un libro intitolato Teoria del materialismo storico avrebbe dovuto esporre in forma sistematica e organica i concetti filosofici fondamentali del marxismo, fornendo inoltre una rassegna critica di tutti i concetti spuri e di derivazione estranea, spesso erroneamente ricompresi sotto il termine materialismo storico. Al contrario, nel Manuale le sole considerazioni a carattere filosofico contenute nel capitolo introduttivo risultavano assai schematiche e superficiali. Anche l’affermazione apodittica secondo cui la “vera filosofia” sarebbe il materialismo filosofico, mentre la filosofia della praxis sarebbe una “pura sociologia”, di cui Bucharin non spiega il significato, è frutto di quest’accezione impoverita del marxismo. Nella trattazione non si chiarisce anzitutto cosa Bucharin intenda per sociologia, se scienza della politica e della storiografia, o raccolta sistematica di osservazioni empiriche sulla politica e la ricerca storica. Il giudizio dell’autore dei Quaderni è estremamente severo, individuando alla radice della sociologia la pretenziosa ambizione di pervenire ad una scienza “esatta” dei fatti sociali, della politica e della storia. Nel commentare l’incapacità della sociologia di conoscere il principio dialettico del mutamento quantitativo-qualitativo, Gramsci espone una concezione che ha molti punti di contatto con le riflessioni di Lukács: La sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico, sul quale la sociologia ha reagito, ma solo parzialmente. La sociologia è quindi diventata una tendenza a sé, è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente fatti storici e politici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare sperimentalmente le leggi di evoluzione della società umana in modo da prevedere l’avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. L’evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio della quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico166.

166. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1432.

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Al soggettivismo del Saggio popolare di Bucharin Gramsci contrappone lo storicismo, riaffermato attraverso la nota proposizione hegeliana «ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale», spesso erroneamente interpretata come legittimazione filosofica di tutto quel che esiste, compresi governi dispotici e reazionari. In realtà, Hegel applica l’attributo di “reale” solo a ciò che è anche “necessario” – dunque non qualsiasi misura del governo può ritenersi tale – e ciò che è “necessario” è anche “razionale”. Come chiarito da Engels in uno dei suoi più importanti saggi filosofici, tale proposizione applicata all’entità statuale prussiana significa che questo Stato corrisponde alla ragione nella misura in cui si pone come necessario: «se esso ci appare cattivo e ciò nonostante continua ad esistere, benché sia cattivo, la cattiva qualità del governo trova la sua giustificazione e la sua spiegazione nella corrispondente cattiva qualità dei sudditi. I prussiani di allora avevano il governo che si meritavano»167. Dunque, per Hegel l’attributo di reale non è applicabile in qualsiasi contesto storico e ad ogni stato di cose sociale o politico, così la Repubblica romana era reale come pure l’Impero che la soppiantò, mentre la monarchia francese era così priva di necessità, e pertanto irrazionale, che venne distrutta dalla Rivoluzione, di cui il solo Hegel colse e difese la razionalità, la necessità storica. Il cuore della proposizione hegeliana sta tutto nella dialettica della tesi che si capovolge nel suo contrario: nel divenire storico, quello che prima era reale finisce per perdere la propria necessità e divenire irreale; al posto della realtà che muore subentra una nuova realtà vitale, e il subentrare violento o pacifico di questa dipende dall’intelligenza del vecchio, dal suo opporsi o meno alla nuova necessità. Se tutto quel che è reale nella storia umana può perdere la sua necessità e divenire irrazionale e tutto quel che è razionale nelle teste degli uomini è destinato a diventare reale, la proposizione di Hegel sulla razionalità del reale diviene per Engels che «tutto ciò che esiste è degno di perire». Il carattere rivoluzionario della filosofia hegeliana per Engels è dovuto al fatto che essa spazza via d’un colpo il dogmatismo di ogni assunto filosofico, pone fine al «carattere definitivo di tutti i risultati del pensiero e dell’attività umana»: la verità risiedeva oramai nel processo della conoscenza stessa, nella lunga evoluzione storica della scienza, che si eleva dai gradi inferiori della coscienza ai gradi

167. Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Edizioni Rinascita, Roma, 1950. Traduzione dall’edizione originale tedesca del 1888 di Palmiro Togliatti, p. 12.

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sempre più alti, senza però giungere mai, attraverso la scoperta di una cosiddetta verità assoluta, al punto in cui non può più avanzare e non le rimane che starsene con le mani in grembo e contemplare la verità assoluta raggiunta168.

Il discorso vale nella filosofia come in ogni attività pratica: così come la conoscenza si evolve da un grado più basso a uno più alto, allo stesso modo la storia non può arrestarsi, giungere ad una conclusione definitiva di condizione perfetta. Lo Stato e la società perfetta e definitiva possono esistere solo nella fantasia. Ogni situazione storica non è altro che una tappa di un processo ascendente di sviluppo della società umana. Ogni tappa è storicamente determinata ed in quanto tale necessaria, ma cessa di esserlo quando si creano al suo interno le condizioni per una fase successiva più elevata, entrando nel ciclo che la porta dalla decadenza alla morte. Lo stesso discorso, dunque, riguarda i sistemi filosofici e il processo di sviluppo del pensiero, di cui Bucharin non coglie l’essenza limitandosi a negarne la razionalità. In questo modo, chiarisce Gramsci, «la storia della filosofia diventa un trattato storico di teratologia, perché si parte da un punto di vista metafisico». Nuovamente, l’intellettuale sardo al determinismo meccanicista contrappone la dialettica di Hegel, indicandone la centralità tra le fonti essenziali del marxismo: giudicare tutto il passato filosofico come un delirio e una follia non è solo un errore di antistoricismo, perché contiene la pretesa anacronistica che nel passato si dovesse pensare come oggi, ma è un vero e proprio residuo di metafisica perché suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in tutti i paesi alla cui stregua si giudica tutto il passato. L’antistoricismo metodico non è altro che metafisica. Che i sistemi filosofici passati siano stati superati non esclude che essi siano stati validi storicamente e abbiano svolto una funzione necessaria: la loro caducità è da considerare dal punto di vista dell’intero svolgimento storico e della dialettica reale; che essi fossero degni di cadere non è un giudizio morale o di igiene del pensiero, emesso da un punto di vista «obbiettivo», ma un giudizio dialettico-storico. Si può confrontare la presentazione fatta da Engels della proposizione hegeliana che «tutto ciò che è razionale è reale e il reale razionale», proposizione che sarà valida anche per il passato169.

Nonostante le sue pretese filosofiche, le questioni trattate nel Manuale non hanno per Gramsci in alcun modo carattere teorico, semmai immedia-

168. Ivi, p. 14. 169. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., pp. 1416-1417.

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tamente politico, a metà strada tra filosofia e pratica quotidiana, e soprattutto sono una giustapposizione caotica e disorganica di riflessioni su fatti storici slegati tra loro. Il tentativo di ridurre il marxismo a una sociologia era in linea con le tendenze positiviste più deteriori di fine Ottocento di cui abbiamo parlato nella prima parte del presente volume, le stesse che avevano portato tanti neofiti del marxismo a commettere imperdonabili confusioni teoriche, portandoli alle «improvvisazioni giornalistiche più strampalate». Si trattava della stessa propensione a tradurre schematicamente il materialismo storico con la pretesa di «avere tutta la storia in tasca», già criticata da Labriola, capace di partorire al massimo formulari generici e meccanici nei quali l’unico elemento sistematico era l’improvvisazione. Il marxismo, invece, getta le sue fondamenta nella totalità del processo storico, ossia un’esperienza che non può essere schematizzata o sistemata in una “scienza esatta”, ma può condurre o alla “filologia” come metodo di ricerca nell’accertamento dei fatti empirici particolari, o alla «filosofia, intesa come metodologia generale della storia». La filologia può condurre all’identificazione di linee di tendenza più generali, ma la legge statistica dei grandi numeri non può essere impiegata nello studio dei fatti umani e politici come avviene per le scienze naturali, al massimo può avere un (limitato) valore solo fino a quando le masse “rimangono essenzialmente passive”. Al contrario, adottare schematicamente la statistica come legge essenziale della scienza e dell’arte politica può avere risultati gravi e catastrofici perché, oltre a favorire la “pigrizia mentale” e la “superficialità programmatica”, può determinare non solo un abbaglio scientifico (rimediabile con nuove ricerche, come nel caso dell’utilizzo della statistica per le scienze naturali), ma un ben più grave “errore pratico in atto”. «L’azione politica tende appunto a far uscire le moltitudini dalla passività, cioè a distruggere la legge dei grandi numeri; come allora questa può essere ritenuta una legge sociologica?»170. Del resto, anche la rivendicazione economica secondo un piano è destinata a sconvolgere le leggi statistiche meccanicamente intese, ma lo stesso accade con il prevalere della funzione direttiva collettiva dei partiti politici in luogo dei capi individuali o “carismatici”. «La consapevolezza umana si sostituisce alla spontaneità naturalisti-

170. Ivi, p. 1430.

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ca» scrive Gramsci; pertanto, la raccolta casuale di atti arbitrari individuali (i cosiddetti dati statistici) diviene la norma per l’economia e l’arte politica, tanto da creare uno “schema naturalistico” sconvolto dall’intervento consapevole dell’uomo, che distrugge quanto fino a quel momento era considerato una “legge naturale”. Per Gramsci, come per Lukács, la filosofia della praxis è “filosofia generale”, una totalità data dall’intreccio organico tra storia, economia, politica. Per essere coerente con il suo titolo, nel Saggio popolare, dopo una trattazione sistematica della filosofia della prassi in quanto filosofia generale, Bucharin avrebbe dovuto anche affrontare le sue singole parti costitutive, ma in esso manca in primo luogo una definizione chiara e precisa di cosa sia la stessa filosofia della prassi e a loro volta le trattazioni riguardanti le singole parti sono caotiche e casuali. Così nel Manuale manca anche un’esposizione minima della dialettica e ciò per Gramsci si spiega con la pretesa di Bucharin di dividere la filosofia della prassi in due parti distinte: una sociologia intesa come scienza della politica e della storia, alla maniera delle scienze naturali; una filosofia sistematica propriamente detta. Questa scissione, che per Gramsci, è l’origine di tutti gli errori del Saggio, fa perdere alla dialettica la sua natura, la sua stessa ragion d’essere, perché da elemento centrale della storia e della politica viene degradata a una logica formale. Solo se il marxismo viene concepito come una filosofia integrale, nuova ed originale, come la intendeva Labriola, nella quale la dialettica è il motore della totalità di un processo storico, politico ed economico, si comprende il suo significato. Il marxismo per Gramsci apre una fase nuova nello sviluppo del pensiero mondiale grazie al quale supera tanto l’idealismo, quanto il vecchio materialismo borghese, nel quale, in definitiva, Bucharin ricade operando questa distinzione. «Scissa dalla teoria della storia e dalla politica, la filosofia non può essere che metafisica, mentre la grande conquista nella storia del pensiero moderno, rappresentato dalla filosofia della praxis è appunto la storicizzazione concreta della filosofia e la sua identificazione con la storia»171. La pretesa di scrivere un Manuale rispetto a una dottrina ancora in fase di definizione ed elaborazione risultava debole sin dalle sue premesse, perché

171. Ivi, p. 1426.

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quando una visione del mondo non ha ancora raggiunto una fase “classica”, tale da consentire un’esposizione posata e definita di un determinato argomento, si può al massimo realizzare un’introduzione allo studio scientifico per affrontare monograficamente i suoi problemi essenziali. Un lavoro più serio e scientificamente attendibile, ma in contrasto con l’idea volgare di scienza, anch’essa di derivazione positivista, secondo cui scienza significa “sistema”, sebbene del sistema non abbia l’organica coerenza, ma solo la “meccanica esteriorità”. Questo accade anche per il Saggio popolare, definito una «meccanica giustapposizione di elementi disparati, che rimangono inesorabilmente sconnessi e slegati nonostante la verniciatura unitaria data dalla stesura letteraria»172. Secondo Gramsci, Bucharin si dimostrò incapace di comprendere il movimento storico, il divenire e la stessa dialettica, per questa ragione il suo lavoro non era in grado di operare una critica della filosofia speculativa. Bucharin non avrebbe dovuto “concepire la filosofia come storicità”, ossia intendere un’affermazione filosofica come espressione necessaria di una determinata azione storica, ma questo è esattamente quel che fece cadendo nello schematismo dogmatico già percorso da Kautsky e dai teorici della Seconda internazionale. Tale volontà faceva perno su una casistica di esempi storici particolari, di questioni risolte in modo dogmatico, attraverso un empirismo metafisico e antistorico quanto l’idealismo speculativo: Se l’idealismo speculativo è la scienza delle categorie e della sintesi a priori dello spirito, cioè una forma di astrazione antistoricistica, la filosofia implicita nel Saggio popolare è un idealismo alla rovescia, nel senso che dei concetti e delle classificazioni empiriche sostituiscono le categorie speculative, altrettanto astratte e antistoriche di queste173.

Il concetto di scienza presente nel Saggio popolare, considera quella naturale come la scienza per eccellenza, o la sola in assoluto, e così la metodologia storica può definirsi scientifica solo se è in grado di prevedere “astrattamente” l’avvenire della società, il futuro della storia, così come nelle scienze naturali le leggi dell’evoluzione danno la capacità di prevedere l’esito del divenire dei processi naturali. Il materialismo storico invece può prevedere scientificamen-

172. Ivi, p. 1424. 173. Ivi, p. 1403.

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te solo la presenza della lotta tra le classi ma non il risultato di questa, poiché essa è sempre la risultante di forze contrastanti in continuo movimento, non riducibili a quantità fisse predeterminabili in provetta. L’unica previsione reale si ha per Gramsci attraverso l’azione, nella misura in cui si contribuisce con l’intervento volontario a creare le condizioni per il risultato ipotizzato. Tutto ciò significa che la “previsione” del socialismo, come esito della lotta tra le classi, non è un atto “scientifico di conoscenza”, non è la “previsione” di una legge inevitabile e già scritta, ma attiene allo sforzo pratico per formare una volontà collettiva in tal senso, riguarda le possibilità date dall’intreccio di cause oggettive e soggettive, nelle quali queste ultime concorrono potentemente a determinare gli esiti della “previsione”. La previsione non può essere un atto conoscitivo perché si può conoscere solo quel che è stato e non ciò che sarà. Come Lukács, anche Gramsci contesta a Bucharin il voler far dipendere la filosofia della praxis da una teoria generale di materialismo volgare, mentre il marxismo, come chiarì Labriola nei suoi saggi, sarebbe in grado di “bastare a se stesso”, disponendo già di tutti gli elementi fondamentali per una “totale” e “integrale” concezione del mondo che si “vivifica” riorganizzando l’intera società, cioè in una “totale, integrale civiltà”174. L’errore consisteva nel cercare una filosofia generale alla base del marxismo, confondendo tra la cultura filosofica personale di Marx, le correnti filosofiche e i filosofi ai quali si è interessato nella sua formazione, e le origini o le parti costitutive della sua filosofia. La formazione e la cultura filosofica di Marx sono utili a patto di avere ben chiaro che la filosofia della praxis costituisce il superamento originale di tutte le vecchie filosofie alle quali Marx ha fatto riferimento, e apre una strada completamente nuova capace di trasformare integralmente il modo stesso di concepire la filosofia. Nelle note sulla Oggettività del mondo esterno del Quaderno 11, che trattano della dialettica tra storia degli uomini e storia della natura e nelle quali si ritrova anche un fugace riferimento a Lukács, Gramsci si lascia andare a un’affermazione spesso utilizzata strumentalmente per rafforzare la tesi (a nostro modo di vedere errata) di un Engels profanatore positivista dell’opera di Marx: «è certo che in Engels (Antidühring) si trovano spunti che possono portare alle deviazioni del Saggio [di Bucharin]»175. La considerazione, tuttavia,

174. Ivi, p. 1434. 175. Ivi, p. 1449.

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non tiene conto della natura di quest’opera e il fatto che essa non intendesse minimamente essere una esposizione sistematica del materialismo storico, piuttosto andava incontro anzitutto a esigenze di polemica politica. Nel clima politico segnato dall’affermazione del marxismo come dottrina preponderante del movimento operaio, le nuove leve del socialismo tentarono di trovare nelle scienze sociali come in Marx una concezione unitaria del mondo, una “filosofia della storia”. A questo bisogno “enciclopedico”, di sintesi sistematica della filosofia della prassi, ha dato involontariamente una risposta quest’opera, per molto tempo, testo base della formazione marxista per alcune generazioni di rivoluzionari. L’Antidürhing costituisce la prima sistematica esposizione delle teorie del socialismo scientifico. I tre principali aspetti dell’opera del pensiero di Marx ed Engels – filosofia, economia, politica – sono presenti per la prima volta in una visione complessiva e i diversi elementi si intersecano tra loro. Proprio per questa sua natura unitaria e complessiva, l’ Antidürhing ha avuto un’influenza tanto determinante nell’affermarsi del marxismo come teoria del movimento operaio. L’Antidühring si rivela così importante non tanto in relazione alla polemica con Dühring, quanto per l’esposizione positiva in essa contenuta. Secondo Gerratana176 quest’opera, che si prestava tanto a un’interpretazione eclettica che a una “ortodossa”, era stata celebrata sin dal primo momento come manuale o compendio del socialismo e definita la prima opera sistematica e completa dei principi teorici del socialismo scientifico, strettamente collegati con tutti i principali aspetti delle scienze moderne. Ma si trattò di un equivoco. Secondo Gerratana, l’Antidühring non era il riassunto del pensiero di Engels e Marx, semmai esso sollecitava la lettura e l’approfondimento della loro opera. L’Antidühring è andato incontro solo involontariamente a quel bisogno di sintesi e, in linea generale, lo stesso Engels si era mostrato sempre fortemente critico verso la tendenza alla sintesi enciclopedica caratteristica di quel periodo storico. A essere più precisi, proprio questa “mania”, ben presente in Dühring, era uno dei principali bersagli polemici dello scritto fin dalla prefazione alla sua prima edizione del 1878, nella quale Engels contestava proprio la vocazione sistemica e pseudoscientifica di gran parte delle produzioni intellettuali del

176. V. Gerratana, Introduzione all’Antidühring, Editori Riuniti, Roma, 1971.

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tempo177. Del resto, lo stesso Antonio Labriola, non certo sospettabile di simpatie positiviste, ha definito l’Antidühring «il più compiuto libro di socialismo critico», capace di fornire «tutta quella filosofia che occorre alla intelligenza del socialismo»178. Nella prefazione alla seconda edizione, è lo stesso Engels a spiegare come mai questo scritto avesse assunto il carattere di rappresentazione unitaria del metodo dialettico marxista, nonostante fosse nato esclusivamente dall’esigenza di rispondere alle teorie di Dühring. Il pensiero di Dühring, estendendosi su di un campo teorico molto vasto, aveva costretto Engels a seguirlo in tutti gli ambiti da questo affrontati, contrapponendo alle tesi di Dühring le sue. In questo modo, la critica negativa divenne esposizione positiva e la semplice polemica si trasformò in compendio unitario delle teorie di Marx ed Engels. La necessità della sintesi e la sottolineatura di certe parti rispetto ad altre, dovute in sostanza alle necessità della battaglia politica contingente179, resero l’Antidühring il testo fondamentale per favorire l’assimilazione e l’affermazione del marxismo nel movimento operaio. Tuttavia, allo stesso tempo, proprio per la sua natura “involontariamente sistemica”, l’Antidühring si prestò a generalizzazioni superficiali, le quali hanno finito per favorire (o non ostacolare) l’interiorizzazione in chiave deterministica del marxismo stesso. 8. Traducibilità ed egemonia Come abbiamo visto, la biografia politica di Gramsci, tra il 1921 e il 1926, è segnata dal drammatico fallimento dei tentativi rivoluzionari in Occidente e dall’aprirsi di una fase di riflusso che facilitò una radicale svolta reazionaria 177. «Il creatore di sistema sig. Dühring non è un fenomeno isolato nella Germania del tempo presente. Da qualche tempo in Germania i sistemi di cosmogonia, di filosofia della natura in generale, di politica, di economia ecc. spuntano come i funghi a dozzine dalla sera alla mattina. Oramai l’ultimo dottorello in filosofia, e perfino lo studente, non si accinge a qualcosa che non sia meno di un sistema compiuto», F. Engels, Antidühring, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 4. 178. Antonio Labriola, La concezione materialistica della storia, Laterza, Bari, 1965, p. 191. 179. Sulla questione, particolarmente illuminante è la lettera scritta da Engels a Bloch il 21 settembre 1890. «Il fatto è che i giovani talora annettono al lato economico un’importanza maggiore di quella che gli spetta, è in parte colpa di Marx e mia. Di fronte agli avversari noi dovevamo sottolineare il principio essenziale da loro negato, e allora non trovavamo sempre il tempo, il luogo e l’occasione di rendere giustizia agli altri fattori che partecipavano dell’azione reciproca. Ma non appena si giungeva all’esposizione di un periodo della storia, cioè all’applicazione pratica, la cosa cambiava e nessun errore era possibile. Ma purtroppo accade anche troppo di frequente che si creda d’aver perfettamente compreso una nuova teoria e di poterla senz’altro maneggiare, non appena ci si è appropriati dei principi essenziali e per di più non sempre in modo esatto. Non posso risparmiare questo rimprovero a più d’uno dei marxisti dell’ultima ora e per questo si è creata talvolta una strana confusione». F. Engels, Sul materialismo storico, op. cit., p. 78.

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culminata con l’avvento del Fascismo. Dunque, la principale domanda al fondo dei Quaderni del carcere è per quale ragione, nonostante una profonda crisi economica e di egemonia delle classi dirigenti, e un contesto oggettivamente rivoluzionario, in Occidente non fu possibile “tradurre” la vittoriosa esperienza dei bolscevichi russi mentre al contrario fu la reazione a trionfare. Sebbene sovente omesso, il tema della traducibilità politica nei differenti linguaggi nazionali è ben presente in Lenin e ciò influenzò profondamente Gramsci che fu tra i primi ad averne consapevolezza. Troviamo diverse conferme nelle note del carcere, in particolare, nel Quaderno 11, egli ricorda come nel 1921, il rivoluzionario russo avesse sottolineato l’incapacità di tradurre nelle lingue europee la lingua russa, ossia di dare contenuto nazionale ai valori universali, sorti dalle condizioni specificamente nazionali, della Rivoluzione d’ottobre. Un concetto ripreso nel Quaderno 19, dove vengono sottolineati i limiti dei democratici di Mazzini nel Risorgimento, in particolare la loro incomprensione circa il ruolo dei giacobini nella Rivoluzione francese, dunque della centralità della questione agraria come leva per favorire una rivoluzione democratica in Italia attraverso l’irruzione delle masse popolari nel processo di unificazione nazionale: «il Ferrari non seppe tradurre il francese in italiano e perciò la sua stessa acutezza diventava un elemento di confusione, suscitava nuove sette e scolette, ma non incideva nel movimento reale»180. Gramsci ha affrontato diffusamente il tema della traducibilità reciproca dei diversi linguaggi filosofici, partendo da una premessa (contenuta nel Quaderno 11) che contiene in sé un riconoscimento di valore circa la superiorità gnoseologica del materialismo storico: solo nella filosofia della praxis la traduzione è “organica e profonda”, mentre in linea generale, per altre visioni del mondo, troviamo un semplice gioco di “schematismi generici”. Il concetto di traducibilità si situa nella dialettica tra universalità e peculiarità nazionali di ogni formazione economico-sociale: La traducibilità presuppone che una data fase della civiltà ha una espressione culturale «fondamentalmente» identica, anche se il linguaggio è storicamente diverso, determinato dalla particolare tradizione di ogni cultura nazionale e di ogni sistema filosofico, dal predominio di una attività intellettuale o pratica ecc.181.

180. Ivi, p. 2016. 181. Ivi, p. 1468.

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Nella successiva, nota intitolata Giovanni Vailati e la traducibilità dei linguaggi scientifici, egli sviluppa ulteriormente il ragionamento spiegando come scienziati formatisi nel terreno della stessa cultura possano affermare verità ritenute differenti o opposte semplicemente perché utilizzano diversi linguaggi scientifici. Alla stessa maniera, culture nazionali simili (Germania e Francia nel caso specifico) possono ritenersi diverse e opposte, o una superiore dell’altra, perché impiegano linguaggi di tradizione differente, formatisi a partire dalle specificità storico-culturali di ciascuna di esse. Sebbene la traducibilità dei linguaggi filosofici nazionali non possa essere mai perfetta (ma pure nel caso della lingua non può essere mai tale) tali civiltà possono trovare traduzione l’una nell’altra almeno negli elementi di fondo e essenziali. In ciò starebbe il significato dell’affermazione di Marx e Engels contenuta nella Sacra famiglia secondo la quale il linguaggio politico francese equivale al linguaggio della filosofia classica tedesca. Una osservazione contenuta anche nelle lezioni di Storia della filosofia di Hegel, secondo il quale la filosofia di Kant, Fichte e Schelling conterrebbe in forma di pensiero la rivoluzione. Se in Germania il nuovo principio si afferma come spirito e concetto, in Francia si manifesta come realtà effettuale; tuttavia, i due Paesi sarebbero parte dello stesso progresso storico universale. Sul piano concettuale Gramsci trova una corrispondenza tra questa affermazione di Hegel e l’undicesima Tesi su Feuerbach di Marx secondo la quale la filosofia deve diventare politica e trovare traduzione pratica nella realtà effettuale delle cose per inverarsi. In tal senso la filosofia della praxis si concepisce storicisticamente come una fase transitoria del pensiero filosofico, al punto da interpretare lo sviluppo storico come il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà. Ogni filosofia sorge dalle intime contraddizioni storiche di cui è parte e ogni filosofia concepisce sé stessa come unità di storia e natura, ossia come sviluppo e superamento di ciò che l’ha preceduta; tuttavia, nella storia del pensiero filosofico, l’opera di Hegel rappresenta un caso a parte perché comprende cosa è la realtà in un solo sistema filosofico come coscienza delle contraddizioni. In questa nota Gramsci affronta il problema, da sempre oggetto di polemica, dell’hegelismo come fonte del marxismo: In un certo senso, pertanto, la filosofia della praxis è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca di liberarsi) da ogni elemento unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni in cui lo stesso filosofo,

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inteso individualmente o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione182.

Questa è la premessa della concretezza del marxismo (inteso nella sua forma autentica e non brutalizzata dal determinismo positivista), ossia della sua capacità di sfuggire a ogni astratta generalizzazione sistemica. Per questo egli conclude: «l’uomo in generale, comunque si presenti, viene negato e tutti i concetti dogmaticamente unitari vengono dileggiati e distrutti in quanto espressione del concetto di ‘uomo in generale’ o di natura umana immanente in ogni uomo»183. La traduzione dal terreno filosofico a quello della praxis sarebbe l’essenza del materialismo storico e una delle ragioni della sua superiorità rispetto alle altre visioni filosofiche, ecco perché Gramsci adotta la definizione di Labriola: filosofia della praxis. Ma questo livello non esaurisce il campo della traducibilità della filosofia della praxis, al contrario l’ambito maggiore di sua attuazione si ha nella traduzione della teoria alle condizioni di ogni specifica e originale formazione economico-sociale nazionale. La filosofia della praxis nasce sul terreno concreto delle contraddizioni storiche, per questo è anzitutto legata alla “necessità” più che alla “libertà” che ancora non ha avuto modo di manifestarsi storicamente. In tal senso l’indicazione programmatica delle contraddizioni che impediscono il passaggio dalla necessità alla libertà significa anche superamento della filosofia della praxis, nata sul terreno di quelle contraddizioni e dunque sulla necessità della lotta contro esse. Per Gramsci la scissione tra teoria e prassi nel marxismo corrisponde dunque alla distinzione tra intellettuali-dirigenti e masse ed essa è caratteristica di una fase contraddistinta dalla subalternità completa di queste ultime; lo sviluppo della filosofia della praxis può realizzarsi se essa suscita, all’interno della classe di cui è la visione del mondo, i propri intellettuali, ossia, attraverso il superamento di quella frattura e della concezione determinista che ne è l’espressione teorica. La questione dei rapporti tra intellettuali e masse come abbiamo visto costituisce il tema presente con maggior continuità nell’opera di Gramsci, e nelle note del carcere assume una centralità assoluta

182. Ivi, p. 1487. 183. Ivi, p. 1488.

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sia in termini storico-analitici, sia di elaborazione politico-filosofica, trovando nel Quaderno 12 l’insieme più organico di tali riflessioni. Nell’affrontare lo studio sistematico della storia degli intellettuali, il primo problema da indagare è se gli intellettuali costituiscano un gruppo sociale autonomo ed indipendente, o se invece ogni gruppo sociale produca una sua propria categoria specializzata di intellettuali. Secondo Gramsci ogni gruppo sociale “essenziale”, sorgendo all’interno di determinati rapporti di produzione economica, tende a crearsi uno o più ceti di intellettuali che conferiscono al gruppo omogeneità e consapevolezza, tanto nel campo economico quanto in quello sociale e politico: così, ad esempio, l’affermarsi della borghesia coincide con l’emergere di funzioni intellettuali specializzate nella scienza economica e politica, nel diritto, nell’organizzazione della cultura, nella stessa tecnica produttiva184. Tuttavia, in questo fenomeno di emersione, la nuova classe trova in genere non solo gruppi sociali consolidati preesistenti ma anche ceti intellettuali che tendono a presentarsi come un gruppo sociale a sé, vale a dire, queste varie categorie di intellettuali tradizionali tendono ad affermarsi e a esistere secondo uno “spirito di corpo”, considerando conseguentemente sé stessi autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante e la loro funzione, come la risultante di una continuità storica del proprio particolare “statuto”185. La filosofia idealista italiana rappresenta l’espressione ideologica più coerente di questa ininterrotta continuità storica degli intellettuali come “ceto” e della presunta autonomia di questi dai ceti sociali dominanti. Un esempio di questo tipo sono gli ecclesiastici, capaci di monopolizzare per lungo tempo alcune funzioni “intellettualmente” importanti, come l’ide-

184. Ivi, p. 1513. 185. Nelle note intitolate Quistioni di nomenclatura e di contenuto, presenti nel Q 11, Gramsci riaffronta in termini generali questo fenomeno: «Una delle caratteristiche degli intellettuali come categoria sociale cristallizzata (che cioè concepisce se stessa come continuazione ininterrotta nella storia, quindi indipendentemente dalla lotta dei gruppi e non come espressione di un processo dialettico, per cui ogni gruppo sociale dominante elabora una propria categoria di intellettuali) è appunto il ricongiungersi, nella sfera ideologica a una precedente categoria intellettuale attraverso una stessa nomenclatura di concetti. Ogni organismo storico nuovo (tipo di società) crea una nuova superstruttura, i cui rappresentanti specializzati e portabandiera (gli intellettuali) non possono non essere concepiti come anch’essi nuovi intellettuali, sorti dalla nuova situazione e non continuazione della precedente intellettualità. Se i nuovi intellettuali si pongono come continuazione diretta della precedente intellighenzia essi non sono affatto nuovi, cioè non sono legati al nuovo gruppo sociale che rappresenta organicamente la nuova situazione storica, ma sono un rimasuglio conservatore e fossilizzato del gruppo sociale superato storicamente». Ivi, p. 1406.

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ologia religiosa, la scuola, l’istruzione, la morale, la giustizia, la beneficenza, e via dicendo. Sulla base di quanto detto, gli ecclesiastici rimasero la categoria intellettuale organicamente legata all’aristocrazia fondiaria, alla quale erano giuridicamente equiparati e con la quale dividevano l’esercizio della proprietà feudale della terra e l’uso dei privilegi statali legati alla proprietà. Storicamente la centralizzazione dei poteri nella persona del monarca, con la comparsa degli Stati moderni, ha portato all’emergere di nuove categorie laiche di intellettuali organici, come la cosiddetta aristocrazia della toga, incaricata della gestione amministrativa e giurisdizionale sui territori in nome del sovrano. Il rapporto tra intellettuali e mondo della produzione è mediato dal tessuto sociale attraverso il quale si articola il complesso delle superstrutture, di cui gli intellettuali sono i funzionari, e questo complesso si compone essenzialmente di due piani: il piano della “società civile” che corrisponde alla funzione di egemonia che la classe dominante esercita sull’intera società, e il piano della “società politica o Stato” che corrisponde al dominio diretto che si esprime nelle funzioni di comando e nel “governo giuridico”186. Il concetto comune di Stato è per Gramsci unilaterale e conduce inevitabilmente ad errori madornali circa la sua natura, per la semplice ragione che lo si riconduce esclusivamente all’apparecchio istituzionale-coercitivo, mentre per Stato non dovrebbe intendersi solo l’apparato governativo ma anche l’apparato privato dell’egemonia o società civile. Gli intellettuali sono dunque i «commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia e del governo politico»187, il cui esercizio avviene in due modi: attraverso il consenso spontaneo delle masse all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante; oppure attraverso l’apparato coercitivo giuridico, con il quale la classe dominante si garantisce in primo luogo la disciplina legale di quei gruppi dai quali non ottiene un consenso né attivo né passivo e quindi si tutela per il futuro in previsione delle fasi di crisi delle funzioni di egemonia e dominio, quando viene meno anche il consenso spontaneo del resto della società. La funzione organizzativa dell’egemonia sociale e del dominio statale determina una complessa gradazione di qualifiche, e una stratificazione di com-

186. Ivi, p. 1518. 187. Ivi, p. 1519.

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petenze gerarchiche con molti punti di similitudine con l’organismo militare. Lo sviluppo delle forze produttive e l’evoluzione delle società capitalistiche in senso democratico e burocratico ampliano e rendono sempre più sofisticati i sistemi dell’apparato egemonico e di dominio, estendendo e graduando le funzioni intellettuali essenziali, al punto che si può dire, quanto maggiore è il grado di sviluppo delle forze produttive tanto maggiore è l’importanza delle funzioni egemoniche nella società civile. Secondo Gramsci uno dei temi più caratteristici della teoria della rivoluzione in Lenin è l’esigenza di tradurre nazionalmente i principi del materialismo storico, ossia, rigettare le affermazioni superficiali sul capitalismo e la rivoluzione in generale, per costruire una nuova teoria della trasformazione a partire dalle concrete condizioni di ciascuna formazione economico-sociale188. In coerenza con questo assunto generale, il percorso della Russia verso il socialismo avrebbe dovuto essere diverso rispetto a quello ipotizzato nei Paesi occidentali. In ragione di questa diversità Lenin sviluppa una concezione dei rapporti con le masse contadine non rintracciabile nelle altre componenti del POSDR e che, nel corso del 1917, lasciò interdetti anche molti bolscevichi, rimasti sostanzialmente fermi al vecchio programma. Nella concezione socialdemocratica, infatti, alle masse contadine veniva attribuito un ruolo solo nella fase democratico-borghese della rivoluzione, mentre non si prevedeva nessun piano d’azione egemonico verso loro da parte del partito operaio, altro tema sviluppato poi da Gramsci nella sua costante polemica con il PSI. Contro tutto ciò, Lenin opera una prima svolta tra il 1901 e il 1908 proponendo di inserire nel programma del partito rivoluzionario del proletariato le rivendicazioni delle masse contadine, perché solo ponendosi il problema della loro direzione il proletariato russo avrebbe avuto qualche possibilità di successo189. Questa intuizione, poi decisiva nel 1917 e anche per il recepimento del marxismo nei Paesi rurali con un limitato sviluppo delle forze produttive, non si riscontra in nessun’altra elaborazione marxista del tempo. Una posizione

188. G. Fresu, Gramsci e a revolução nacional, all’interno del volume Gramsci e a revolução russa (a cura di) Ana Lole, Victor Leandro Chaves Gomes, Marcos Del Roio, Morula, Rio de Janeiro, 2017, pp. 157-178. 189. Questa battaglia di Lenin trova una sintesi significativa nello scritto La questione agraria e i critici di Marx, Editori Riuniti, Roma, 1976. I primi nove capitoli vennero scritti nel 1901, gli ultimi tre nel 1907. La pubblicazione clandestina dei primi nove capitoli è dello stesso 1901, quindi furono ripubblicati nel 1905 e 1906, ed infine furono integrati dagli ultimi tre capitoli e riediti nel 1908.

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che la stessa Rosa Luxemburg non perse occasione di criticare in quanto soluzione “piccolo-borghese” della questione contadina. Già ne Lo sviluppo del capitalismo in Russia del 1898190 la riforma agraria è la chiave di volta per fare assumere al proletariato russo un ruolo egemonico verso le sterminate e amorfe masse dei contadini senza terra. Gramsci ha ben chiara questa concezione quando analizza la funzione positiva dei Giacobini nella Rivoluzione francese, e a questo tipo di direzione fa riferimento quando riflette sul ruolo della classe operaia italiana nella soluzione progressiva della questione meridionale. In polemica tanto con le posizioni ortodosse di Kautsky, quanto con quelle revisioniste di Bernstein, Lenin fu protagonista di una dura contesa teorico-politica dentro il movimento socialista internazionale. Secondo gli orientamenti allora prevalenti, a prescindere dalla realtà storico-territoriale del processo in atto, non era possibile derogare all’unico schema di modernizzazione e transizione dell’Occidente. In conseguenza, un Paese arretrato come la Russia non avrebbe nemmeno potuto pensare a un processo rivoluzionario socialista senza essere prima passato per tutte le tappe della “via crucis del capitalismo” e gli stadi evolutivi della società borghese. Questa interpretazione antidialettica del marxismo mostrò tutte le sue contraddizioni in rapporto a un tema scottante per il movimento operaio europeo in un’epoca segnata da profonde contraddizioni interimperialistiche: la questione coloniale. Tra il 1905 e il 1907, di fronte alle crescenti ambizioni espansive della Germania e al divampare del nazionalismo, la socialdemocrazia si trovò lacerata da due posizioni tra loro antitetiche: da una parte il rifiuto e la netta opposizione all’imperialismo; dall’altra il sostegno verso una politica coloniale positiva. In questo secondo versante si collocarono, al Congresso di Stoccarda dell’agosto 1907, figure di primo piano della socialdemocrazia come Bernstein, Van Kol e David, secondo i quali, l’europeizzazione forzata dei domini coloniali avrebbe accelerato i processi evolutivi di quei Paesi schiodandoli da strutture socio-economiche arcaiche, da istituzioni dispotiche e feudali. In sostanza il colonialismo e l’estensione di rapporti produttivi occidentali, con l’industrialismo, avrebbero avvicinato il socialismo.

190. V.I. Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia. Vol. III, Opere Complete, Editori Riuniti, Roma, 1956.

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Sebbene sia estremamente diffusa la tendenza a presentare l’opera dei Quaderni, e segnatamente le teorie sull’egemonia, come un punto di profonda discontinuità tra Gramsci e Lenin, nelle note relative al passaggio dalla “guerra manovrata” alla “guerra di posizione” del Quaderno 7, l’intellettuale sardo attribuisce proprio a Lenin il merito di aver compreso la complessità degli assetti di dominio delle società occidentali capitalisticamente avanzate, indicando per primo alle classi subalterne il grande compito storico della conquista egemonica. Al contrario, la teoria della “rivoluzione permanente” di Trockij era per Gramsci il riflesso della teoria della guerra manovrata, dell’assalto immediato, vale a dire, il riflesso di un Paese nel quale le condizioni generali economiche, culturali e sociali, erano embrionali e poco sviluppate e dunque la classe dominante non era in grado di esercitare una sua egemonia politica e sociale. La formula della “rivoluzione permanente” è sorta prima del 1848, come espressione scientificamente elaborata delle esperienze giacobine, e più in generale corrisponde a una fase di forte arretratezza della società e della campagna, nella quale si ha un limitato sviluppo della società civile e degli apparati egemonici delle classi dominanti. In questa fase ancora non esistono i grandi partiti politici e i sindacati e si ha una maggiore autonomia nazionale delle economie e degli apparati statali-militari. Questa fase muta radicalmente nel 1870 con l’espansione coloniale europea, quando i rapporti organizzativi interni e internazionali degli Stati divengono più complessi e articolati; in questa fase, nella politica, si determina lo stesso mutamento avvenuto nell’arte militare e la formula della “rivoluzione permanente” viene superata dall’egemonia civile, vale a dire, si passa dalla guerra di movimento alla guerra di posizione. L’articolazione sia statale, sia di società civile, delle democrazie moderne è per l’arte politica paragonabile alle “trincee” e alle fortificazioni permanenti della “guerra di posizione” e si può dire che uno Stato vince una guerra in quanto la prepara tanto sul piano tecnico-militare, quanto su quello politico negli anni della pace. Ovviamente questo discorso riguarda solo gli Stati moderni ed avanzati e non i Paesi arretrati e le colonie. La teoria di Trockij era dunque per Gramsci frutto di un’impostazione superficiale, sia sul piano nazionale, sia europeo, e solo la sua ostinazione gli fece credere che quanto da lui teorizzato al tempo della rivoluzione del 1905

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si fosse poi realizzato quindici anni appresso191. Lenin aveva invece compreso che in Occidente, nel marzo 1921, dopo il fallimento delle prospettive rivoluzionarie e l’aprirsi di una fase di offensiva reazionaria, occorreva un mutamento dalla guerra manovrata alla guerra di posizione. La prima aveva avuto successo nella Rivoluzione russa del 1917, ma la seconda era a quel punto la sola possibile in Occidente, dove la società civile era assai sviluppata e le capacità egemoniche della classe dominante molto forti. Questo è per Gramsci il significato più immediato e importante della teoria del “fronte unico”. Lenin era stato capace dell’intuizione ma non ebbe il tempo di svilupparla, anche perché secondo Gramsci avrebbe potuto farlo solo sul piano teorico, mentre il compito era essenzialmente “nazionale”, vale a dire, spettava ai partiti dei Paesi occidentali operare una profonda ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza: In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale192.

Nel paragrafo 68 dedicato a Machiavelli del Quaderno 14, Gramsci scrive che il compito della “classe internazionale”, era pertanto studiare esattamente “la combinazione di forze nazionali” (quel che in altre note egli definisce gli elementi di trincea e casematte) sviluppandole anche in funzione delle esigenze internazionali. Può definirsi tale solo la classe dirigente capace di interpretare questa combinazione; per questo, conclude Gramsci, le accuse 191. Gramsci fa qui riferimento alle memorie di Trockij nelle quali questi affermava che la stretta connessione e continuità tra rivoluzione borghese e rivoluzione socialista genera una condizione di rivoluzione permanente dalla quale non si può più uscire fino al compimento della rivoluzione sociale; in base a ciò Trockij rivendicava la sua posizione tesa a bruciare tutte le tappe e a forzare la situazione per passare subito dalla rivoluzione borghese a quella socialista, affermando che se anche nel 1905 non si era ottenuto nulla e la rivoluzione era stata in definitiva soffocata, la sua previsione si era poi comunque avverata quindici anni dopo. In realtà Gramsci ritiene che la teoria di Trockij non era buona, «né quindici anni prima né quindici anni dopo», e con ironia si fa beffe delle sue presunte doti divinatorie affermando che questi al massimo era stato capace di indovinare “all’ingrosso”: «come a dire che si predice che una bambina di quattro anni diventerà madre e quando lo diventa a venti anni si dice l’avevo indovinato, non ricordando però che quando aveva quattro anni si voleva stuprare la bambina sicuri che sarebbe diventata madre». A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 866. 192. Ibid.

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di nazionalismo di Leone Davidovici (Trockj) a Bessarione (Stalin) «sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione»193. Se si studia tutto lo sforzo tra il 1902 e il 1917 dei “maggioritari” (i bolscevichi), prosegue Gramsci, si comprende come la loro originalità risiedesse esattamente nel «depurare l’internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica»194. L’egemonia si sostanzia delle esigenze di carattere nazionale, pertanto una classe internazionale, per guidare strati sociali strettamente nazionali, deve nazionalizzarsi, perché secondo l’intellettuale sardo (anche a causa della sconfitta delle rivoluzioni in Occidente) non si erano oggettivate le condizioni mondiali per il socialismo, dunque sarebbero occorse molteplici fasi nelle quali le singole combinazioni nazionali potevano essere le più differenti. È interessante notare come Gramsci ricolleghi atteggiamenti “non nazionali” agli errori già compiuti dal meccanicismo determinista nella Seconda Internazionale, che produssero inerzia e passività nel movimento operaio, quando nessuno si riteneva nelle condizioni internazionali per dare l’avvio al processo rivoluzionario e nell’attesa che anche gli altri lo fossero il movimento si limitava ad accumulare forze. Ora lo stesso atteggiamento “non nazionale” si ripresentava nella teoria della rivoluzione permanente che egli definisce frutto di un “napoleonismo anacronistico e antinaturale”: Le debolezze teoriche di questa forma del vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente195.

Secondo Gramsci anche Rosa Luxemburg trattò in maniera superficiale e deterministica gli avvenimenti del 1905 con dei ragionamenti che rasentavano il “misticismo storico”. Così come in guerra l’artiglieria campale, dopo essersi aperta un varco nelle fila nemiche, irrompe e ottiene una vittoria strategica, allo stesso modo per Rosa Luxemburg il momento immediato della crisi economica avrebbe portato alla vittoria strategica del proletariato

193. Ivi, p. 1729. 194. Ibid. 195. Ivi, p. 1730.

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attraverso tre effetti fulminei: 1) la crisi avrebbe aperto un varco nella compattezza di classe e nella fiducia di sé della borghesia; 2) le classi subalterne sarebbero riuscite a formare, inquadrare e coordinare rapidamente i propri quadri prima dispersi; 3) la concentrazione ideologica del fine da raggiungere si sarebbe imposta. In realtà l’assalto immediato ha assunto una mera funzione tattica nella guerra come nella scienza politica: nel primo caso, infatti, la guerra di posizione non è costituita solo dalle trincee, in quanto tali, ma dall’apparato industriale che gli sta alle spalle, dall’abbondanza dei rifornimenti, in ultima analisi dalla capacità di resistere dopo uno sfondamento e un arretramento, in grado di sostituire rapidamente gli elementi persi nel momento dell’offensiva nemica; allo stesso modo, negli Stati maggiormente avanzati la società civile assume una struttura articolata, complessa, è capace di resistere alle “irruzioni” e alle devastazioni delle improvvise crisi economiche. Le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco d’artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva solo distrutto solo la superficie esterna e al momento dell’attacco e dell’avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, così avviene durante le grandi crisi economiche196.

Due dei tre effetti dell’irruzione nelle file nemiche previsti da Rosa Luxemburg, in realtà, non si verificano, perché da un lato né le truppe assalitrici riescono fulmineamente nel tempo e nello spazio ad organizzarsi e coordinarsi acquisendo uno spirito aggressivo, né dall’altra le truppe assalite perdono la loro compattezza e fiducia di sé. Se Lenin è indicato da Gramsci come il protagonista di una “egemonia realizzata”, a sua volta Benedetto Croce è presentato come il massimo studioso dell’egemonia nella filosofia italiana. L’opera di Croce ha cioè il merito di aver indirizzato l’interesse scientifico verso lo studio degli elementi culturali e filosofici come parte integrante degli assetti di dominio di una società; da ciò consegue la comprensione della funzione dei grandi intellettuali nella vita degli Stati, nella costruzione dell’egemonia e del consenso, vale a dire,

196. Ivi, p. 1616.

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del “blocco storico concreto”. Più in generale l’attenzione per la funzione degli intellettuali nella scienza politica si deve per Gramsci principalmente a Hegel. Con il filosofo tedesco si ha il vero passaggio dalla concezione patrimoniale dello Stato, lo Stato per caste chiuse dell’ancien régime, alla concezione dello Stato etico. Senza la comprensione di questo fatto sarebbe storicamente arduo capire l’idealismo moderno e le sue origini sociali. Ciò che distingueva maggiormente la borghesia nella sua fase rivoluzionaria era la sua capacità di includere altre classi sociali e dirigerle attraverso lo Stato, di esercitare l’egemonia politica e sociale. Mentre nel feudalesimo l’aristocrazia, organizzata come “casta chiusa”, non si poneva il problema di inglobare le altre classi, la borghesia si rivela ben più dinamica e mobile puntando all’assimilazione del resto della società al suo livello economico e culturale. Questo muta profondamente la funzione dello Stato rendendolo “educatore”, anche attraverso la funzione egemonica del diritto nella società. La borghesia storicamente opera al fine di rendere omogenee (per costumi, morale, senso comune) le classi dirigenti e creare un conformismo sociale capace di consolidarne il potere, attraverso una combinazione di forza e consenso. In questo modo riesce a irreggimentare e dirigere con schemi culturali propri anche le classi dominate. Ogni Stato è etico nella misura in cui opera per elevare l’insieme della popolazione a un livello culturale e morale confacente allo sviluppo delle forze produttive e agli interessi delle classi dominanti. Tale importantissima funzione trova nella scuola e nei tribunali le attività statali fondamentali, anche se in realtà esse non sono le sole. Devono essere comprese nel concetto di “Stato etico” anche l’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti. Gramsci ha indagato in profondità il funzionamento di questi apparati di egemonia, Marx ha il grandissimo merito di aver per primo squarciato il velo su come la borghesia si serve di tutti gli strumenti ideologici (economia, filosofia, politica ecc. ecc.) per trasfigurare la realtà concreta, presentando i propri interessi particolari come universali. Nella concezione di “storia etico-politica” Benedetto Croce costruisce la storia del momento dell’egemonia. Nella storiografia crociana la giustapposizione dei termini etica e politica sta indicare due elementi essenziali della direzione e del dominio politico: nel primo caso (etica) il riferimento è all’egemonia, all’attività della società civile; nel secondo caso (politica) il riferimento è all’iniziativa statale-governativa, alla dimensione istituzionale

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e coercitiva. «Quando c’è contrasto tra etica e politica, tra esigenze della libertà ed esigenze della forza, tra società civile e Stato-governo c’è crisi e il Croce giunge ad affermare che il vero Stato, cioè la forza direttiva dell’impulso storico, occorre cercarlo non là dove si crederebbe»197, al punto che, per quanto possa apparire paradossale, in determinati frangenti la direzione politica e morale del Paese può essere esercitata anche da un partito rivoluzionario e non dal governo legale. Il limite maggiore di Croce consiste, per l’intellettuale sardo, nel ritenere che il marxismo non riconosca il momento dell’egemonia e non dia importanza alla direzione culturale. Nella sua giustificata reazione al meccanicismo positivista e al determinismo economico, Croce confonderebbe il materialismo storico con la sua forma volgarizzata. È il problema efficacemente sollevato da Vanzulli, già citato nella prima parte di questo libro: Croce, ambiguo curatore della sua eredità filosofica, fu protagonista della trasfigurazione arbitraria del pensiero di Labriola che gli servì di base per la sua critica a Marx. Contrariamente a quanto affermato da Croce, secondo Gramsci, per la filosofia della praxis le ideologie non hanno nulla di arbitrario, ma sono strumenti di direzione politica. Per la massa dei governati esse sono strumenti di dominio attraverso la mistificazione e l’illusione, per le classi dirigenti un “inganno voluto e consapevole”. Nel rapporto tra i due livelli emerge la funzione essenziale della lotta egemonica nella società civile e la natura non arbitraria delle ideologie: Esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti, per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis. (…) Per la filosofia della praxis le superstrutture sono una realtà oggettiva ed operante198.

Del resto è nel terreno delle ideologie, della cosiddetta superstruttura, che gli uomini prendono coscienza del loro essere sociale ed avviene il cosiddetto passaggio dalla “classe in sé” alla “classe per sé”, dunque per il materialismo storico tra struttura e superstruttura (tra economia e ideologie) esiste un

197. Ivi, p. 1302. 198. Ivi, p. 1319.

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nesso necessario e vitale, in ragione del quale si può parlare di movimento tendenziale del primo verso il secondo, la qual cosa non esclude un rapporto di reciprocità tra i due termini e comunque la funzione tutt’altro che secondaria delle superstrutture. Ma Gramsci non limita questa consapevolezza del materialismo storico all’opera dei due suoi fondatori, al contrario, egli scrive che gli sviluppi recenti della filosofia della praxis, il riferimento è nuovamente a Lenin, pongono il momento dell’egemonia come momento essenziale della propria concezione statale e dell’opera di trasformazione dei rapporti sociali di produzione, valorizzano l’importanza dei fattori di direzione culturale, della creazione di un “fronte culturale”, a fianco di quelli meramente economici e politici. La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura sul terreno delle ideologie deve essere considerata un’affermazione di carattere gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’approccio teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto filosofico199.

Tra i paradigmi di storia etico-politica presenti nella Storia dell’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce, Gramsci individua un uso politico delle categorie come «strumento di governo», specchio fedele di quella autorappresentazione della ideologia borghese che Marx definiva “falsa coscienza”. Il limite maggiore della rappresentazione compiuta da Croce dell’età liberale risiederebbe nel mantenere due livelli nettamente distinti (uno per gli intellettuali, uno per le grandi masse popolari) di ciò che si intende per religione, filosofia, libertà. «La libertà come identità di storia e di spirito e la libertà come religione superstizione, come ideologia circostanziata, come strumento pratico di governo». La presupposta eticità dello Stato liberale si scontra cioè con la sua poca propensione espansiva-inclusiva.

199. Ivi, pp. 1249-1250.

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[Croce] crede di trattare di una filosofia e tratta di una ideologia, crede di trattare di una religione e tratta di una superstizione, crede di scrivere una storia in cui l’elemento di classe sia esorcizzato e invece descrive con grande acutezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e a far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale, come concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio. (…) Ma per le grandi masse della popolazione governata e diretta, la filosofia o la religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile. E il gruppo dirigente non si propone forse di perpetuare questo stato di cose? Il Croce dovrebbe spiegare come mai la concezione del mondo della libertà non possa diventare elemento pedagogico nell’insegnamento delle scuole elementari e come egli stesso da ministro abbia introdotto nelle scuole elementari l’insegnamento della religione confessionale. Questa assenza di «espansività» nelle grandi masse è la testimonianza del carattere ristretto, pratico immediatamente, della filosofia della libertà200.

Riemerge in queste note con tutta la sua forza il problema centrale nell’opera di Gramsci, la distinzione tra lavoro manuale e intellettuale intesa come paradigma della distinzione tra dirigenti e diretti, la dimensione organica di tutti gli assetti di dominio e sfruttamento della società liberale. Una concezione di cui Gramsci contesta la pretesa origine naturale, dimostrandone la storicità e contrapponendogli l’affermazione secondo cui «ogni uomo è un filosofo». Ciò detto, Gramsci attribuisce alla filosofia di Croce un’importanza assoluta, tanto da suggerire sulla sua opera un lavoro analogo a quello compiuto da Marx ed Engels su quella di Hegel e, contemporaneamente, la stesura di un Anti-Croce capace di svolgere la stessa funzione che l’Antidühring assunse per le nuove leve del marxismo prima della guerra. La sua vis polemica nichilista verso il materialismo storico è per Gramsci una reazione al meccanicismo fatalista del determinismo, ma, al di là della confusione compiuta dal filosofo tra il marxismo e certe sue tendenze degenerative, gli viene riconosciuto il merito di aver rivalutato sul terreno della lotta e dell’organizzazione politica il “fronte di lotta culturale”, elaborando la dottrina dell’egemonia e ampliando il campo concettuale della scienza politica oltre la semplice identificazione del rapporto Stato-forza.

200. Ivi, pp. 1231-1232.

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9. L’uomo filosofo e il gorilla ammaestrato Come appena chiarito, la concezione allargata del concetto di Stato e dominio politico in Gramsci non si riduce ai soli apparati coercitivi, ma comprende gli strumenti attraverso cui si articola l’apparato egemonico di una classe dominante, incaricata di difendere e sviluppare il “fronte teorico o ideologico”. Comprendere l’articolazione culturale (stampa, case editrici, biblioteche, scuole, circoli, ecc.) degli assetti di dominio è vitale per qualsiasi teoria che intenda modificare lo Stato di cose esistenti, sia perché fornisce un modello storico vivente di tale struttura, sia perché rende possibile una più realistica e ponderata valutazione delle forze che agiscono nella società per garantire una determinata stabilità. Il paragrafo 49 del Q 3 è forse quello dove con maggiore chiarezza Gramsci delinea il compito storico di una conquista egemonica degli “elementi di trincea e casematte” in cui si articola la società civile, a partire da un processo di autodeterminazione materiale e spirituale dei gruppi subalterni che, utilizzando una tipica espressione di Georges Sorel, Gramsci identifica con lo “spirito di scissione”. Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana201.

Così la comprensione politica dell’ambito egemonico è fondamentale per indagare la crisi di egemonia della borghesia dopo la Prima guerra mondiale, dunque l’avvento del Fascismo. È proprio quest’articolazione complessa delle società civili avanzate a rendere essenziale lo studio della funzione storica assolta in esse dagli intellettuali. Da ciò, l’esigenza di un’analisi approfondita della distinzione tra intellettuali intesi come “categoria organica di ogni gruppo sociale” e intellettuali intesi come “categoria tradizionale”. Storicamente, l’affermarsi di un nuovo modo sociale di produzione è sempre 201. Ivi, p. 333.

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contraddistinto dalla lotta del gruppo sociale emergente per “egemonizzare gli intellettuali tradizionali”, lotta che si rivela tanto più rapida quanto più il gruppo sociale in questione riesce ad elaborare simultaneamente i propri intellettuali organici202. Un esempio in tal senso si ha con l’affermarsi della moderna produzione industriale in Inghilterra, dove la classe emergente ottiene un sorprendente predominio economico-corporativo, ma una limitata affermazione in campo intellettuale e politico. Con l’affermarsi del nuovo sistema di produzione industriale la borghesia produce un ampio numero di intellettuali organici, ma nella dimensione teorica e politica più elevata la vecchia aristocrazia terriera mantiene il suo monopolio, pur avendo perso la sua supremazia economica. La borghesia industriale nella sua lotta per il dominio finisce quindi per integrare al suo interno la dimensione politico intellettuale della vecchia classe dominante, la quale «viene assimilata come intellettuali tradizionali e strato dirigente dal nuovo gruppo sociale al potere. La vecchia aristocrazia terriera si unisce agli industriali con un tipo di sutura che in altri paesi è appunto quello che unisce gli intellettuali tradizionali alle nuove classi dominanti»203. Nell’identificazione della figura dell’intellettuale, l’errore più grossolano risiede nel cercare quale suo elemento distintivo e caratterizzante, la natura intrinsecamente intellettuale delle sue attività, anziché «nel sistema dei rapporti in cui esse vengono a trovarsi nel complesso generale dei rapporti sociali», dunque nella posizione sociale che questi vengono ad assumere in base ai rapporti di produzione esistenti. Per spiegare questo concetto Gramsci utilizza proprio l’esempio dell’operaio industriale: la caratteristica fondamentale, infatti, non è la natura intrinsecamente manuale o strumentale della sua attività lavorativa; se così fosse non si distinguerebbe dalle precedenti forme di lavoro anch’esse manuali e strumentali, bensì le condizioni e rapporti sociali in cui si svolge questo lavoro. Allo stesso modo, nonostante l’imprenditore debba possedere alcune qualifiche di carattere intellettuale, la sua figura sociale è data dai rapporti generali sociali che caratterizzano appunto la posizione dell’imprenditore nell’industria.

202. Ivi, p. 1541. 203. Ivi, p. 1526.

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Tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò; ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali (così, perché può capitare che ognuno in qualche momento si frigga due uova o si cucisca uno strappo della giacca, non si dirà che sono tutti cuochi e sarti). Si formano così storicamente delle categorie specializzate per l’esercizio della funzione intellettuale, si formano in connessione con tutti i gruppi sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo sociale dominante204.

Questo tema riemerge nelle note dedicate al Fordismo e al suo obiettivo strategico: la creazione di un nuovo tipo lavoratore plasmato sulle esigenze della produzione205. Le riflessioni del Quaderno 22, tuttavia, non si limitano al fordismo, ponendo in strettissima connessione gli obiettivi tecnico produttivi del taylorismo con l’americanismo, di cui l’ideologia del Rotary era a suo modo rappresentativa. Già nel paragrafo 2 del Quaderno 5 Gramsci sottolinea le peculiarità e le differenze essenziali tra il Rotary e la massoneria tradizionale, sollevando l’importanza di questa forma moderna di ideologia borghese. Gramsci suggeriva uno studio sugli aspetti ideologici, pratici e organizzativi di questa realtà, domandandosi se la grande crisi del 1929 non avrebbe ridimensionato il suo prestigio e, più in generale, quello dell’ideologia americanista. Anzitutto il Rotary non è né confessionale, né anticlericale, né massonico, in quanto possono aderirvi tutti e in forme palesi, oltre a questo, la sua filosofia si può riassumere nell’aspirazione a una etica sociale del capitalismo, ossia, il concepire le attività industriali e commerciali come un “servizio sociale” capace di superare il “capitalismo da rapina”. Il Rotary ha trovato negli USA la sede naturale del suo sviluppo e nell’americanismo un supporto ideologico necessario a uno sviluppo delle forze produttive coerente con un nuovo costume di onestà e lealtà negli affari. Il Rotary dunque non può essere confuso con la massoneria, anzi è un suo superamento, essendo espressione di “interessi più concreti e precisi”. La massoneria aveva un carattere democratico-borghese associato al laicismo, mentre il Rotary ha una proiezione verso il popolo solo indiretta, restando essenzialmente una organizzazione moderna delle classi elevate. Gramsci sottolinea come la Chiesa, pur non

204. Ivi, p. 1516. 205. G. Fresu, Americanismo e fordismo: l’uomo filosofo e il gorilla ammaestrato, numero monografico della Rivista trimestrale di cultura NAE, dedicata ad Antonio Gramsci, numero 18, anno VI, Cuec, Cagliari, 2007, pp. 53-54.

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vedendo di buon occhio il Rotary, non potesse avere lo stesso atteggiamento di contrapposizione tradizionalmente mostrato verso la massoneria, perché ciò avrebbe assunto il significato di una sua ostilità verso il capitalismo in generale. Fa eccezione a questo orientamento il mondo dei gesuiti, in ragione dei ripetuti tentativi di offensiva ideologica di Civiltà Cattolica contro il Rotary, considerato una emanazione dissimulata della massoneria tradizionale206. L’idea di fondo è che la massoneria tradizionale se ne serva infiltrandosi nell’agnosticismo religioso dei rotariani per affermare la propria visione laicista. Tuttavia, l’intellettuale sardo rileva una contraddizione nel loro atteggiamento, dovuta ad esigenze tattiche, che impedisce una lotta più diretta al Rotary. L’atteggiamento di indifferenza e dunque di tolleranza religiosa se è ragione di ostilità aperta nei Paesi cattolici diviene invece motivo di interesse in quelli acattolici o protestanti, dove per potersi diffondere e condurre una offensiva di conquista il mondo cattolico necessita di “istituzioni amorfe” dal punto di vista religioso. Ciò spiega perché l’atteggiamento verso il Rotary è di critica ideologica ma senza scomuniche, proibizioni o altre pratiche di lotta a livello internazionale. Sempre a conferma di questa strettissima connessione tra piano tecnico e ideologico, la razionalizzazione del lavoro e il proibizionismo avevano profondi momenti di convergenza, così come le inchieste sulla vita degli operai e le ispezioni delle aziende per verificarne la moralità, intesa come necessità del nuovo metodo di lavoro, ovviamente. Chi vedesse dietro a una simile offensiva una semplice manifestazione di puritanesimo ipocrita non comprenderebbe la portata del “fenomeno americano” che per Gramsci è lo sforzo collettivo più grande mai realizzato, con una “coscienza del fine” inedita nella storia, per creare un nuovo tipo di lavoratore e di uomo. L’espressione usata da Taylor “gorilla ammaestrato” esprime alla perfezione, seppur in maniera brutale e cinica, questo fine della società americana: «sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspet-

206. Ivi, p. 593.

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to fisico macchinale»207. Ma per Gramsci non ci troviamo di fronte ad una realtà del tutto originale, bensì al punto di approdo di un lungo processo di trasformazione che si afferma con l’industrialismo. Le attenzioni per il comportamento del lavoratore non sono certo dettate dalla preoccupazione per la sua “umanità” e “spiritualità”, ma hanno il solo fine di conservare al di fuori del lavoro un equilibrio psico-fisico che impedisca un collasso del lavoratore sulla produzione. Il coinvolgimento umano nella produzione raggiungeva il suo livello massimo nell’opera dell’artigiano, dove la personalità del lavoratore si rifletteva nell’oggetto creato, ma l’industrialismo, e il taylorismo in particolare, dirige la sua brutalizzazione nella divisione del lavoro proprio contro questa umanità e spiritualità del produttore. L’industriale americano ha quale sua unica preoccupazione l’efficienza fisica (psico-muscolare) necessaria a garantire stabilità e continuità alla produzione. L’industriale fordista ha cura delle maestranze per una semplice ragione, l’azienda è come una macchina che, in quanto tale, «non deve essere troppo spesso smontata e rinnovata nei suoi pezzi singoli senza perdite ingenti»208. In tal senso anche la crociata del proibizionismo era una battaglia contro l’agente più pericoloso di distruzione della forza produttiva, un modo per uniformare gli stili di vita della classe operaia alla nuova divisione del lavoro che il taylorismo andava a creare. Lo stesso discorso valeva per i comportamenti sessuali, la cui irregolarità era, insieme all’alcool, un nemico pericoloso delle energie nervose. Anche perché è insito nei lavori monotoni, ripetitivi e ossessionanti l’indurre comportamenti di depravazione alcolica e sessuale. In tal senso si spiega per quale ragione Ford arrivò a creare corpi ispettivi aziendali con la finalità di controllare come gli operai spendevano il loro danaro e quali erano le loro attitudini private o latenti sul piano sessuale. È interessante il modo con cui Gramsci in queste note pone in stretta connessione le esigenze del modo di produzione con i tratti salienti del puritanesimo e dell’ideologia americana, non riducendo la crociata proibizionista e quella per la moralizzazione dei costumi a una semplice tendenza culturale e religiosa. Gramsci parla in proposito di una nuova “ideologia statale” innestatasi nel puritanesimo tradizionale presentandosi come un «rinascimento

207. Ivi, p. 2165. 208. Ivi, p. 2165.

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della morale dei pionieri, del vero americanismo (…). Appare chiaro che il nuovo industrialismo vuole la monogamia, vuole che l’uomo lavoratore non sperperi le sue energie nervose nella ricerca disordinata ed eccitante del soddisfacimento sessuale occasionale: l’operaio che va al lavoro dopo una notte di stravizio non è un buon lavoratore, l’esaltazione passionale non può andar d’accordo coi movimenti cronometrati dei gesti produttivi legati ai più perfetti automatismi»209. Ma per quanto i tentativi di spersonalizzazione del lavoro, propri dell’industrialismo taylorista, possano essere profondamente pervasivi, secondo Gramsci, l’obiettivo di trasformare l’operaio in “gorilla ammaestrato” è destinato a fallire. Questo perché quando la suddivisione delle funzioni lavorative giunge al suo grado di perfezionamento e specializzazione tecnica – quello che Gramsci definisce “processo di adattamento” – il cervello dell’operaio anziché mummificarsi si libera. La meccanizzazione riguarda solo il gesto fisico: «la memoria del mestiere, ridotto a gesti semplici ripetuti con ritmo intenso si è annidata nei fasci muscolari e nervosi che ha lasciato il cervello libero e sgombro per altre occupazioni»210. Come si cammina, senza il bisogno che il cervello sia impegnato su tutti i movimenti che il camminare comporta, allo stesso modo il lavoro del cosiddetto “operaio fordizzato” non determina l’annullamento delle funzioni intellettive nell’atto produttivo. Il tentativo di brutalizzazione dell’industrialismo è, pertanto, orientato a rendere costantemente operante e invalicabile la separazione tra lavoro manuale e funzioni intellettuali e proprio in questa sua irrealistica aspirazione sta il suo maggior limite. Dunque, quando ci si riferisce in genere alla distinzione tra intellettuali e non intellettuali, si prende quale solo elemento distintivo quello preponderante nell’attività specifica professionale e quindi dell’elaborazione intellettuale o alternativamente dello sforzo muscolare-nervoso. Ma anche tenendo conto di questa classificazione, assai superficiale, per Gramsci si può parlare di intellettuali ma non si può parlare di non intellettuali, cioè si può affermare che i non intellettuali non esistono, perché in primo luogo, non esiste attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, e per-

209. Ivi, p. 2167. 210. Ivi, p. 2171.

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ché, in secondo luogo, ogni uomo al di fuori della sua attività professionale esplica una qualche attività intellettuale, è un filosofo che partecipa ad una determinata concezione del mondo che contribuisce con il suo operare a sostenere o a modificare211. Di tale verità gli industriali erano consapevoli: l’operaio, “purtroppo”, resta uomo e non solo non gli si può impedire di ragionare, ma la stessa specializzazione di semplici funzioni ripetitive gli lascia maggiori possibilità di pensare rispetto alle forme di lavoro nel quale è presente una componente maggiore di “umanità” e “spiritualità”. Questa per Gramsci è massima nel lavoro artigiano, dove esiste ancora un forte nesso arte-lavoro. Al contrario l’insoddisfazione indotta dalla monotonia ossessiva del lavoro, che non consente alcuna sintonia creativa tra la personalità del lavoratore e il frutto del suo lavoro, porta l’operaio a sviluppare pensieri “poco conformisti”. La fabbrica taylorista porta dunque alle estreme conseguenze il fenomeno dell’alienazione già presente nelle precedenti forme organizzative della produzione industriale e insieme accresce i fattori essenziali alla deflagrazione del conflitto sociale. Tutto ciò significa che, per quanto sia enormemente più razionale e progressivo delle precedenti forme di organizzazione economica capitalistica, il taylorismo non può dispiegare tutte le sue potenzialità proprio per le contraddizioni di classe in seno alla direzione di tale processo. In una fase storica in cui l’operaio acquisisce coscienza di sé e della sua funzione, e in ragione di questo raggiunge una piena soggettività sociale e politica, l’automatizzazione del lavoro non è in grado di andare oltre la contraddizione fondamentale tra capitale e lavoro. Il taylorismo può oggettivare al meglio la sua natura programmatica solo in un contesto dominato dall’autogestione operaia, dall’assunzione di una funzione di direzione economica da parte del proletariato. Proprio l’assenza di questa, e la pretesa di concentrare tutto lo sforzo verso lo sviluppo delle forze produttive sul solo momento della coercizione esteriore, rendeva fallimentare anche la prospettiva della militarizzazione del lavoro proposta da Trockij per far fronte alla disgregazione economica russa. La posizione di Trockij sulla “militarizzazione del lavoro” era per Gramsci strettamente connessa alla problematica della “razionalizzazione della produzione e del lavoro” propria dell’americanismo, ma esprime-

211. Ivi, p. 1375.

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va una tendenza assai più arretrata. L’obiettivo essenziale di questa posizione consisteva nel dare supremazia all’industria, in termini produttivi e culturali, attraverso un utilizzo di metodi coercitivi capaci di accelerare i processi di trasformazione della società in direzione della disciplina e dell’ordine nella produzione con l’adeguamento dei costumi alle necessità del lavoro. L’impostazione in questi termini del problema doveva sfociare necessariamente in una forma deleteria di “bonapartismo produttivo”. Le preoccupazioni che stavano alla base delle posizioni di Trockij erano giuste, ma le soluzioni proposte profondamente errate. Il perfezionamento del metodo taylorista presuppone una continuità e una stabilità nella composizione delle maestranze, vale a dire, una limitazione nei fenomeni di turn over della mano d’opera. Questo alla Ford avveniva attraverso il sistema degli alti salari perché la sola coazione sociale, oltre a non bastare, sarebbe stata anche più costosa degli alti salari. Tuttavia, in Gramsci è chiaro che il sistema di alti salari sarebbe stato un fatto transitorio, destinato a esaurirsi con la fine del monopolio tecnico-industriale da parte di alcune aziende, sia negli USA che all’estero. Con la concorrenza, che la produzione razionalizzata, generalizzata e a basso costo inevitabilmente determina, spariscono gli alti profitti e a quel punto a limitare il fenomeno del turn over può al massimo intervenire la pressione dell’esercito industriale di riserva nel mentre ingrossatosi. In ogni caso, nonostante il sistema degli alti salari, alla Ford persisteva una grande instabilità della mano d’opera, una simile tendenza era dovuta al fatto che l’organizzazione taylorista richiedeva un tipo di qualifica che comportava livelli di sfruttamento della forza lavoro molto maggiore che neanche gli alti salari erano in grado di compensare. Alla luce di tutte queste considerazioni Gramsci si pone la domanda se il sistema taylorista sia realmente “razionale”, o se invece si tratti di un “fenomeno morboso” da combattere con le lotte sindacali e la limitazione legislativa. Nella sua interpretazione, il metodo taylorista è razionale, ma per trovare applicazione necessita di un profondo mutamento delle condizioni sociali, dei costumi e degli stili di vita. Soprattutto, è necessaria una sua estensione attraverso il consenso, la persuasione e non soltanto attraverso la coazione, come ad esempio pretendeva Trockij. Quindi anche attraverso un sistema di alti salari accompagnato a un miglioramento complessivo della qualità della vita per compensare il forte dispendio di energie muscolari e nervose che un simile modo di lavoro

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comporta. Va garantita la continuità e la stabilità del lavoro, ossia, favorire in tutti i modi il formarsi di una competenza delle maestranze non messa in discussione neanche da una crisi congiunturale o da un temporaneo arresto della produzione: sarebbe antieconomico [aggiunge Gramsci] lasciare disperdere gli elementi di un tutto organico costituito faticosamente perché sarebbe quasi impossibile raccozzarli insieme, mentre la sua ricostituzione con elementi nuovi, di fortuna, costerebbe tentativi e spese non indifferenti212.

Ma come già accennato, per quanto Gramsci definisca razionale e progressivo l’americanismo-fordismo, ciò non gli impedisce di individuarne i limiti, anzitutto l’impossibilità a superare le contraddizioni sociali proprie della crisi organica del capitalismo. Esso basava il suo disegno di economia programmatica sul tentativo di rendere il lavoratore una semplice estensione della macchina al punto da pretendere di conformare le sue attitudini e i suoi stili di vita alle esigenze della produzione. Ma, come abbiamo visto, per Gramsci nella lotta tra il “gorilla ammaestrato” e “l’uomo filosofo” è quest’ultimo a prevalere e a questo consegue che anche l’altro presupposto necessario alla omogeneizzazione della società ai fini della produzione fordista – il superamento del conflitto capitale/lavoro – viene a non realizzarsi. La realizzazione di nuovi rapporti sociali di produzione, pertanto, avrebbe dovuto avere come sua premessa essenziale il superamento della distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, una distinzione non naturale ma storicamente determinata, come conseguenza di una divisione del lavoro imposta alle masse di lavoratori strumentali. La creazione da parte delle classi subalterne dei propri intellettuali organici è l’elemento chiave, ma, come già chiarito, questo compito è reso difficile dalle condizioni stesse delle classi subalterne la cui storia è necessariamente disgregata ed episodica. In esse c’è la tendenza all’unificazione ma questa può realizzarsi compiutamente solo a vittoria avvenuta, per il resto le classi subalterne subiscono l’iniziativa della classe dominante anche quando si ribellano. I grandi intellettuali formatisi nell’ambito del marxismo per Gramsci, oltre ad essere poco numerosi, non risultavano legati al popolo, e ancora meno 212. Ivi, p. 2174.

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provenivano da popolo, ma furono sempre espressione della classe dominante alla quale ritornavano poi nelle svolte storiche, quelli che invece restarono sul terreno del marxismo lo fecero sottoponendolo a profonda revisione anziché favorendone uno sviluppo autonomo. La chiave di lettura del trasformismo è usata da Gramsci anche per spiegare l’irresistibile capacità di attrazione esercitata sui capi del movimento operaio socialista italiano da parte delle classi dominanti, dunque la tendenza ciclica al loro assorbimento dentro gli equilibri conservatori del Paese. Il movimento socialista italiano formò interi strati di intellettuali passati poi come gruppi alla classe di cui contestavano il dominio sociale. Una questione che secondo l’intellettuale sardo si spiegherebbe con la scarsa aderenza delle classi alte al popolo: nella lotta delle generazioni, i giovani si avvicinano al popolo; nelle crisi di svolta questi ritornano alla loro classe (così è accaduto per i sindacalisti rivoluzionari e per i fascisti). Il trasformismo «classico» fu il fenomeno per cui si unificarono i partiti del Risorgimento; questo trasformismo mette in chiaro il contrasto tra civiltà, ideologia ecc. e la forza di classe. La borghesia non riesce a educare i suoi giovani (lotta di generazione): i giovani si lasciano attrarre culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno [o cercano di farsene] i capi («inconscio» desiderio di realizzare essi l’egemonia della loro propria classe sul popolo), ma nelle crisi storiche ritornano all’ovile213.

La creazione dei propri intellettuali organici diviene quindi centrale per evitare la sistematica decapitazione dei movimenti politici delle masse popolari nelle fasi di crisi; tuttavia questa creazione non deve consistere nello staccare singoli proletari dalle loro classi di origine per renderli dirigenti del movimento, bensì nel trasformare radicalmente concezione, ruolo e funzione degli intellettuali e soprattutto nel rideterminare completamente il rapporto tra attività manuale e attività intellettuale: Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto ele-

213. Ivi, p. 397.

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mento di una attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo214.

Gramsci contrappone questa idea nuova della funzione intellettuale al tipo “tradizionale” e “volgarizzato”, cioè al letterato, al filosofo, al giornalista, all’artista, a tutte quelle categorie di individui che ritengono di possedere l’esclusiva dell’attività intellettuale. Esse, in realtà, costituiscono un residuo ossificato del passato, nella moderna società industriale si determina già spontaneamente uno stretto intreccio tra attività tecnico-pratica e attività intellettuale. La creazione degli “intellettuali organici” e la loro saldatura con gli “intellettuali tradizionali” assume particolare rilievo per il moderno partito. Se si tiene conto della funzione prevalente che i membri di un partito svolgono, vale a dire la funzione direttiva e organizzativa, si deve arrivare alla conclusione che tutti loro sono in un certo senso intellettuali. Gli individui dei diversi gruppi sociali entrano in un partito politico con un’ottica ed un ruolo diverso da quello del sindacato di categoria, perché nel partito divengono agenti di attività generali di carattere nazionale ed internazionale. Il Principe di Machiavelli è per Gramsci la metafora del moderno partito politico, nel quale si ha il concretarsi di una volontà collettiva tendente a divenire “universale e totale” cioè tendente a fondare il proprio Stato. Nelle note dei Quaderni viene evocata la stesura di un “moderno principe” inteso come organismo che incarna plasticamente la volontà collettiva delle masse popolari. Il «moderno principe deve necessariamente avere una parte dedicata al giacobinismo, esemplificazione di come si sia formata e abbia concretamente operato una volontà collettiva per certi aspetti originale, deve inoltre indagare quali condizioni debbono sussistere affinché si possa suscitare e sviluppare una volontà collettiva che sia creazione ex novo. Secondo Gramsci, Il Principe di Machiavelli non è una fredda utopia ma un “libro vivente”, perché riesce a fondere l’ideologia e la scienza politica attraverso il mito, perché in esso la concezione politica non ha nulla di astrattamente dottrinario, ma si oggettiva in un condottiero ideale che, pur non esistendo nella realtà storica immediata, rappresenta la volontà collettiva di un popolo disperso e polverizzato. Il Principe, attraverso la sua forma fantastica e

214. Ivi, p. 1551.

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artistica, ha la capacità di stimolare, persuadere, suscitare l’organizzazione di quella volontà collettiva. Se nella trattazione Machiavelli individua con rigore e distacco scientifico le doti necessarie al principe per guidare un popolo e fondare uno Stato, nelle conclusioni egli si fa popolo, si confonde con esso, ne diviene coscienza ed espressione organica. In tutto ciò sta secondo Gramsci la forza e la modernità del Principe, nella comprensione che non è possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare senza l’irrompere delle grandi masse nella vita politica. Questa intuizione è contenuta nell’idea della riforma della milizia, nella quale Gramsci coglie il “giacobinismo precoce di Machiavelli”, il germe della sua concezione rivoluzionaria poi tradottasi storicamente nella funzione assolta dai giacobini nella Rivoluzione francese. L’idea di un “moderno principe”, l’edificazione di un partito reale espressione delle masse popolari, ha quale suo intento principale proprio la rottura di ogni “equilibrio passivo” attraverso la realizzazione di una profonda “riforma intellettuale e morale”, ossia, una concezione del mondo coincidente con lo sviluppo ulteriore di quella volontà collettiva verso una forma “superiore e totale di civiltà”, una trasformazione radicale della società a partire dal suo modo sociale di produzione economica. Se per Marx, sin dalla sua polemica giovanile con Bauer rispetto alla Questione ebraica, l’emancipazione umana non può limitarsi alla emancipazione politica, allo stesso modo, secondo Gramsci, non può determinarsi una riforma culturale, un elevamento civile delle classi sfruttate, se prima non si è determinata una radicale trasformazione economica capace di porre fine alla loro condizione di subalternità. Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma morale e intellettuale215.

Questo nodo problematico è fondamentale per intendere correttamente le note dei Quaderni sulla scuola e l’educazione senza fare di Gramsci un pedagogista216. Ridurre il problema pedagogico nelle sue riflessioni a tecnica educativa 215. Ivi, p. 1561. 216. G. Fresu, De Marx a Gramsci: educação, relações produtivas e hierarquia social, contenuto nel volume A atualidade da filosofia da praxis e políticas educacionais, (a cura di) A. Schlesener, A.L. De Oliveira, T.M. Garcia de Almeida, Universidade Tuiuti do Paraná, Curitiba, 2018, pp. 19-62.

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o a problema culturale significa non comprendere, sottovalutare o omettere la natura organica delle questioni e la radicalità delle soluzioni proposte217. Già in Marx, dimensione politica e educativa sono indissolubilmente intrecciate in un rapporto di reciprocità: per un lato, è essenziale una profonda trasformazione delle condizioni sociali per creare un differente sistema scolastico; per un altro, è necessario cambiare la natura dell’educazione per cambiare le condizioni sociali218. La prospettiva educativa nel marxismo risiede nell’esigenza di rendere possibile il pieno sviluppo della personalità umana, superando le condizioni imposte dalla divisione in classe e dalla specializzazione del lavoro. Nel suo percorso di formazione intellettuale Marx passò dalla critica filosofica alla critica dell’economia politica conservando, tuttavia, una relazione dialettica di organicità tra le due sfere, ciò riguarda anche il problema educativo e la questione della completa liberazione dell’uomo. Se lo sviluppo della società industriale produce il massimo della disumanizzazione, l’alienazione del lavoro e la trasformazione del lavoratore in merce e protesi della macchina, la stessa divisione del lavoro responsabile di quella negazione dell’umanità può divenire fattore determinante per lo sviluppo integrale dell’individuo. Per Marx, come per Gramsci, nella società borghese, la scuola svolge un ruolo sempre più importante nel consolidamento delle relazioni tra dirigenti e diretti, fornendo mano d’opera alla produzione materiale e formando intellettualmente i futuri rappresentati della classe dominante. L’insegnamento pubblico e gratuito, liberato dalle condizioni sociali di sfruttamento della società borghese, permetterebbe ai giovani di partecipare all’intero sistema di produzione, rendendo possibile l’alternanza da un settore all’altro in ragione delle esigenze sociali o delle proprie inclinazioni. La possibilità di scegliere la direzione della propria esistenza disattivando la predestinazione dei vecchi rapporti di classe, rappresenterebbe la premessa per quello sviluppo onnilaterale dell’uomo nel quale si sostanzia il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà. In questo senso, il socialismo troverebbe una delle sue ragioni fondamentali nel garantire a ognuno eguali

217. M. A. Manacorda, L’Alternativa pedagogica in Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 2012, cfr. pp. 43-101. 218. M. A. Manacorda, Marx e a pedagogia moderna, Cortez editora, São Paulo, 1991, p. 36.

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opportunità, che concretamente significa la possibilità di scegliere (già in Hegel il passaggio dalla necessità alla libertà si esprime in questi termini) coscientemente e senza condizionamenti il proprio campo di attività. Solo quando questa libertà di arbitrio cesserà di essere patrimonio di pochi, divenendo condizione collettiva di sviluppo integrale della propria personalità, secondo Marx, «la società può scrivere sulle sue bandiere da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni»219. Questo insieme di problemi, già affrontato dal giovane Gramsci in alcuni articoli pubblicati tra il 1916 e il 1920, trova nei Quaderni un approfondimento ancora più organico connettendosi alla questione del rapporto tra intellettuali e gruppi subalterni e all’assenza di una cultura nazional-popolare italiana. Nel paragrafo Sulle università italiane del Quaderno 5, questo tema è affrontato analizzando l’incapacità delle università nell’influenzare e regolare la vita della cultura nazionale, mentre nel Quaderno 12 la riflessione investe direttamente il ruolo storico della scuola e la sua evoluzione sempre più specialistica parallela alla modernizzazione e proporzionale al grado di sviluppo delle sue forze produttive. L’enorme sviluppo preso dall’attività e dall’organizzazione scolastica (in senso largo) nelle società sorte dal mondo medievale indica quale importanza abbiano assunto nel mondo moderno le categorie e le funzioni intellettuali: come si è cercato di approfondire e dilatare «l’intellettualità» di ogni individuo, così si è anche cercato di moltiplicare le specializzazioni e di affinarle. Ciò risulta dalle istituzioni scolastiche di diverso grado, fino agli organismi per promuovere la cosiddetta «alta cultura», in ogni campo della scienza e della tecnica. La scuola è lo strumento per elaborare gli intellettuali di vario grado. La complessità della funzione intellettuale nei diversi Stati si può misurare obbiettivamente dalla quantità delle scuole specializzate e dalla loro gerarchizzazione: quanto più estesa è l’area scolastica e quanto più numerosi i «gradi» «verticali» della scuola, tanto più è complesso il mondo culturale, la civiltà, di un determinato Stato220.

Il livello di sviluppo industriale e sociale può così essere misurato con il grado di articolazione delle strutture di formazione e selezione intellettuale. L’elaborazione dei ceti intellettuali non avviene in un “terreno democratico

219. K. Marx, Critica del programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 32. 220. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1517.

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astratto”, ma in coerenza con determinate relazioni sociali di produzione, secondo “processi storici tradizionali molto concreti” che orientano attraverso la scuola la divisione e specializzazione del lavoro. Gli indirizzi scolastici hanno la precisa funzione di plasmare la società dividendo le classi dirigenti intellettuali dalla base sociale di massa dei lavoratori strumentali. Lo stretto intreccio tra esigenze tecnico produttive e conformazione degli indirizzi formativi trova poi nelle differenze di selezione intellettuale tra città e campo, quindi tra Nord e Sud Italia: La differente distribuzione dei diversi tipi di scuole (classiche e professionali) nel territorio “economico” e le diverse aspirazioni delle varie categorie di questi ceti determinano o danno forma alla produzione nei diversi rami di specializzazione intellettuale. Così in Italia la borghesia rurale produce specialmente funzionari statali e professionisti liberi, mentre la borghesia cittadina produce tecnici per l’industria: e perciò l’industria settentrionale produce specialmente tecnici e l’Italia meridionale specialmente funzionari e professionisti221.

In questa articolazione, prosegue Gramsci, la divisione tra scuola fondamentale e professionale svolgeva un compito coerente con le necessità produttive della società borghese. Tuttavia, l’emersione di un nuovo sistema di scuole specialistiche di diverso grado mise in crisi l’articolazione tradizionale della scuola. Questa ulteriore specializzazione riguardò non solo le cosiddette scuole professionali, ma anche la selezione di ceti intellettuali con una formazione sempre più specializzata e meno universalistica. Ad esempio, se prima il personale burocratico-politico aveva una preparazione tecnico giuridica generale, in seguito si assiste a una specializzazione disciplinare sempre più dettagliata con la creazione di figure professionali costruite attorno a una specifica esigenza (tecnico-amministrativa, fiscale, economico-politica ecc.). La crisi del vecchio sistema educativo portava al superamento di qualsiasi tipo di scuola “disinteressata” e puramente formativa. La soluzione si sarebbe potuta trovare in una scuola unica iniziale di cultura generale, umanista e formativa, capace di equilibrare in maniera armonica le capacità di lavoro manuale e le funzioni intellettuali. A questo primo livello, dopo ripetute esperienze di orientamento professionale,

221. Ivi, p. 1518.

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sarebbe dovuta seguire una scuola secondaria di specializzazione conforme alle attitudini e inclinazioni dello studente222. Secondo Gramsci la scuola necessitava di essere pubblica, destinataria di un impegno economico e organizzativo statale nella creazione di una rete educativa dalle scuole dell’infanzia alle università, perché solo la scuola pubblica può coinvolgere tutte le generazioni senza differenze di gruppo, ceto o classe. Gramsci parla di una “scuola attiva”, riferendosi alla prima fase nella quale si deve disciplinare e livellare in direzione di un conformismo dinamico, e di una “scuola creativa” nella quale, a partire dal livello comune degli studenti, sia possibile favorire uno sviluppo specifico di ogni personalità, divenuta autonoma e responsabile, e con una coscienza morale-sociale solida omogenea. Una scuola con tempo integrale e vita collettiva diurna e notturna, liberata dalle vecchie forme ipocrite e esteriori di disciplina, nella quale lo studio debba avvenire collettivamente. Identificandola come “creativa” Gramsci non intendeva proporre una scuola di inventori e scopritori, ma indicare una fase specifica caratterizzata da un metodo di ricerca e formazione capace di stimolare uno sforzo spontaneo dell’alunno nel quale il professore abbia solo la funzione di guida: «scoprire da se stessi, senza suggerimenti e aiuti esterni, una verità e creazione, che se la verità è vecchia, e dimostra il possesso del metodo; indica che in ogni modo si è entrati nella fase della maturità intellettuale in cui si possono scoprire verità nuove»223 attraverso seminari, lavori sperimentali, ricerche bibliografiche. Nella visione di Gramsci la vecchia scuola era profondamente oligarchica, perpetuando e consolidando le relazioni dualistiche tra le classi e la condizione di subalternità dei semplici. Per quanto potesse apparire frutto della democratizzazione, anche la specializzazione professionale della scuola contribuiva, in realtà, a rendere permanenti le differenze sociali. Nuovamente, la soluzione di questa contraddizione richiedeva lo sconvolgimento dei vecchi “schemi naturalistici” nel rapporto tra dirigenti e diretti. Il nuovo modo di essere intellettuale avrebbe dovuto connettere organicamente tecnica del lavoro, tecnica della scienza e concezione umanistica, trasformando ogni individuo in un dirigente “specialista+politico”224.

222. Ivi, p. 1531. 223. Ivi, p. 1537. 224. Ivi, p. 1551.

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la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni «cittadino» può diventare «governante» e che la società lo pone, sia pure «astrattamente», nelle condizioni generali di poterlo diventare; la democrazia tende a far coincidere governanti e governati (nel senso che il governo col consenso dei governati), assicurando a ogni governato l’apprendimento gratuito delle capacità e della preparazione tecnica generale necessarie al fine225.

10. Michels, gli intellettuali e il problema dell’organizzazione Il tema dell’utilizzo strumentale dei diretti da parte dei gruppi dirigenti, trasformati grazie un rapporto di delega passivo in casta sacerdotale degli specialisti della politica, trova nelle note dedicate da Gramsci a Michels alcuni spunti essenziali al nostro discorso226. La sociologia del partito politico nella democrazia moderna di Robert Michels, opera di successo pubblicata per la prima volta nel 1911, rappresenta un momento essenziale nelle considerazioni sulle contraddizioni tra direzione politica e masse nella storia del movimento operaio. Ovviamente non è questa la sede per un approfondimento sistematico dell’opera, né ci addentreremo sul terreno della controversa e paradigmatica biografia politico-intellettuale di Michels227. Ci limitiamo qui a richiamare solo alcuni elementi (a nostro avviso) utili a sviluppare un ragionamento più ampio e organico su alcune categorie e concezioni gramsciane affrontate in questo lavoro. Gramsci, come vedremo, nei Quaderni si è occupato approfonditamente del lavoro di Michels, traendone spunti di riflessione e valutazioni critiche che contribuiscono a definire la sua visione del marxismo come soluzione organica della frattura tra funzioni intellettuali e manuali. Tra i tanti, in tal senso, due temi del discorso di Michels risultano essenziali: la cosiddetta “legge ferrea delle oligarchie” e la “legge della distorsione dei fini”, vale a dire, lo studio delle dinamiche che portano la struttura organizzata di un partito di massa a cadere vittima della dittatura di una minoranza dirigente fino a trasformare l’organizzazione stessa da mezzo a

225. Ivi, p. 1547. 226. G. Fresu, Il diavolo nell’ampolla, op. cit., pp. 201-218. 227. La biografia di Robert Michels, con la sua parabola dalla socialdemocrazia tedesca al Fascismo, è emblematica delle contraddizioni epocali di quegli anni.

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fine. Entrambi questi aspetti scaturiscono dai processi di crescita e sviluppo dell’organizzazione politica dei lavoratori, ed entrambi conducono inevitabilmente allo stravolgimento totale dei propositi, dei fini e più in generale della natura stessa del partito rivoluzionario del proletariato. Secondo Michels, quando una classe intende realizzare i propositi e gli ideali conseguenti alle funzioni economiche da essa adempiute, necessita in campo economico e politico di un’organizzazione come mezzo per costituire una volontà collettiva. In linea generale la democrazia non può sussistere senza organizzazione, ciò vale ancora maggiormente per la classe lavoratrice, la cui unica arma, nella lotta contro le classi privilegiate, è proprio l’organizzazione. La tendenza all’unificazione tra soggetti nella stessa condizione socioeconomica è un dato sempre più caratteristico delle società moderne, ma la classe lavoratrice ha ancora più necessità della “solidarietà tra cointeressati”, perché il proletario, se isolato, è alla totale mercé delle classi economicamente più forti. Per Michels le masse popolari hanno la loro forza nel numero, ma perché questa abbia un peso reale – moltiplicandosi da semplice forza numerica disgregata, in forza politica e sociale – è necessaria la loro organizzazione strutturata e disciplinata sul piano di massa. Una volta costituita, essa può mantenere la sua fisionomia di partito di lotta e fronteggiare il maggior livello di accentramento della borghesia solo strutturandosi secondo una linea di comando agile e gerarchizzata nella quale i gregari devono seguire obbedientemente il loro capo, affinché tutta l’organizzazione possa apparire come un martello nelle mani del suo presidente. L’accentramento è l’unica garanzia per la rapidità nelle decisioni e solo un certo grado di “cesarismo” garantisce una pronta trasmissione e un’esecuzione puntuale degli ordini nella battaglia quotidiana. La democrazia interna a un partito politico è per Michels controproducente per l’immediata disponibilità di questo alla lotta. Ma una simile necessità porta con sé anche l’inconveniente, altrettanto inevitabile, della dittatura dei gruppi dirigenti sulle masse organizzate: infatti, la sorgente da cui sgorgano le correnti conservatrici per riversarsi sulla pianura della democrazia ove talvolta causano straripamenti rovinosi al punto da renderla irriconoscibile, ha quello stesso nome, si chiama cioè: organizzazione. Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia. È insito nella natura stessa dell’organizzazione un elemento profondamente aristocratico. Il meccanismo

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nizzazione, mentre crea una solida struttura, provoca nella massa organizzata mutamenti notevoli, quali il totale capovolgimento del rapporto del dirigente con la massa e la divisione di ogni partito o sindacato in due parti: una minoranza che ha il compito di dirigere e una maggioranza diretta dalla prima228.

Per Michels tra democrazia e organizzazione c’è un rapporto inversamente proporzionale, pertanto, nelle società avanzate il grado di democrazia è destinato a diminuire con l’evolversi dell’organizzazione politico-sociale. Questa prospettiva, profondamente pessimista, non può venire scalfita neanche attraverso sistemi di partecipazione politica non mediata dalla rappresentanza. Secondo Michels l’autogoverno delle masse, il superamento della leadership attraverso forme di democrazia diretta emanazione della volontà popolare, è nei fatti irrealizzabile perché in primo luogo la democrazia diretta non può operare senza l’ausilio del sistema rappresentativo. Inoltre, se anche possono dimostrarsi in grado di limitare la partecipazione delegata delle democrazie rappresentative, le assemblee popolari sono in realtà maggiormente soggette alla formazione di leadership oligarchiche. La “moltitudine” porta alla “legge della riduzione della responsabilità”, ossia, nella massa indistinta l’individuo e la sua personalità tendono a scomparire. Nelle assemblee popolari le moltitudini sono più suscettibili all’eloquenza dell’oratore e di conseguenza sono più facili da dominare rispetto a un parlamento tradizionale. Il piccolo uditorio garantisce un’adesione più ponderata e riflessiva consentendo un maggior rispetto verso l’eventuale emersione di minoranze o singoli individui in opposizione alla maggioranza, mentre le deliberazioni per acclamazione delle assemblee popolari sono determinate dall’entusiasmo o dal panico irrazionale, cioè da forme di adesione più tumultuose ed elementari. A sua volta, il rapporto inversamente proporzionale tra organizzazione e democrazia, che porta la maggioranza ad essere tiranneggiata da una minoranza dirigente, trova la sua forma più tipica di espressione nel moderno partito politico. Michels nella sua analisi fa riferimento al grande Partito socialdemocratico tedesco: la tendenza alla specializzazione tecnica delle funzioni dirigenti in un partito o sindacato, conseguenza logica della sua crescita, porta all’esigenza della “direzione per competenza” e finisce per trasferire 228. R. Michels, La sociologia del Partito politico nella società moderna. Il Mulino, Bologna, 1966, pp. 55-56.

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tutti poteri decisori della massa aderente ai soli dirigenti. Se inizialmente sono organi esecutivi del volere della massa, in seguito, con lo sviluppo in organizzazione complessa, i dirigenti si emancipano da essa, ne divengono indipendenti fino a dominarla. Anche in questo caso il grado di organizzazione inevitabilmente tende ad aumentare con la crescita stessa del partito, ma contemporaneamente la tecnicizzazione delle sue funzioni dirigenti porta al formarsi di una casta di funzionari e dirigenti tendenti a divenire leadership oligarchica; in conclusione la costituzione di una leadership professionale nel partito segna per Michels la fine della sua democrazia. Tra le oligarchie dirigenti di un partito inserito in sistema di rappresentanza parlamentare un ruolo di assoluto rilievo è svolto dai rappresentanti istituzionali. Michels molto efficacemente mette in luce come il rapporto di delega produca una sorta di “diritto morale” alla perpetuazione di quella funzione, cioè a mantenere ininterrottamente e il più lungo possibile quella carica trasformandola da elezione a tempo determinato in carica a vita. Quando un dirigente riceve una delega per un determinato periodo di tempo tende poi a ritenerla di sua proprietà. Se poi la delega è messa in discussione, questi utilizza tutte le tecniche di rappresaglia possibili e immaginabili in modo gettare scompiglio nell’organizzazione e uscire infine rafforzato nel suo ruolo. Di fronte alla critica per il suo operato, il dirigente minaccia le dimissioni con il solo scopo di conservare e rafforzare il proprio potere, ottenendo dall’assemblea una nuova investitura plebiscitaria capace di incarnare la funzione vicaria di un tribunale competente. Ovviamente questo stratagemma va a buon fine quando il dirigente in questione risulta in quel determinato momento insostituibile o comunque talmente abile e scaltro da apparire tale. Questo processo, analizzato da Michels anche nel rapporto tra il gruppo parlamentare e l’insieme del corpo militante nel PSI, è un fattore determinante di quel fenomeno che porta i leader ad affrancarsi dal condizionamento della massa organizzata nel partito. Il bel gesto democratico delle dimissioni, al contrario, nasconderebbe il più delle volte un malcelato spirito autoritario di pressione sui propri seguaci in modo da ottenerne un nuovo mandato inappellabile. Strettamente legata ai fenomeni fin qui descritti è un’altra degenerazione dei partiti politici (centrale nelle riflessioni gramsciane) analizzata da Michels sia nella sua genesi storica in rapporto agli Stati, sia in riferimento al suo manifestarsi all’interno dei partiti democratici: il “bonapartismo”. Per Napoleone

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I il suo potere era fondato sulla volontà della massa, tanto da autonominarsi “Primo rappresentante del Popolo”; a sua volta, Napoleone III basava il suo “cesarismo” sul principio della sovranità popolare. Il “bonapartismo” incardina qualsiasi violazione della legalità sul principio della volontà popolare e non riconosce alcun organo intermedio tra la volontà del principe e quella del popolo. Il «bonapartismo è la teorizzazione della volontà individuale, scaturita in origine dalla volontà collettiva, ma emancipata col tempo per divenire a sua volta sovrana»229, proprio l’originaria natura democratica costituisce la legittimazione anche del suo presente antidemocratico. Attraverso il plebiscito esso finisce per congiungere la democrazia con l’autocrazia. Per il “bonapartismo” anche l’indipendenza e l’eventuale opposizione a un proprio atto da parte di corpi intermedi come la magistratura o la pubblica amministrazione sono un attentato alla volontà popolare che ha posto attraverso il voto il potere del principe al di sopra di ogni altro organismo. Parlamento, magistratura, pubblica amministrazione devono tutti essere strumenti sottoposti alla volontà del principe e attraverso esso alla volontà popolare. La storia dei moderni partiti politici e dei sindacati mostra numerose affinità con gli aspetti fin qui descritti, e, come abbiamo visto, attorno a questa problematica il giovane Gramsci, ancora profondamente influenzato da Sorel, sviluppa un versante importante della sua polemica contro il socialismo italiano. Nei partiti, l’autorità intangibile (perché di origine democratica) è il Comitato direttivo o il leader, cui la massa degli aderenti deve assoluta obbedienza. La disciplina per Michels è la sottomissione della collettività al suo volere collettivo. Anche in questo caso la tendenza a considerare antidemocratica ogni opposizione all’operato del leader è data dalla natura democratica del suo mandato. Questo spinge in ultima analisi i dirigenti nei partiti a pretendere dalla massa degli aderenti un adeguamento meccanico, militare, senza la necessità di ulteriori spiegazioni. Emanano ordini per scienza e coscienza, nell’intima convinzione che il proprio operato, in quanto conseguenza di un mandato liberamente votato, sia al di sopra di qualsiasi critica. Non è pertanto un caso se nei partiti socialisti ogni eventuale corrente di opinione critica verso la leadership sia bollata come opera di sabotatori e nemici impegnati a incrinare demagogicamente l’unità del partito:

229. Ivi, p. 295.

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Nell’atteggiamento complessivo della leadership dei moderni partiti democratici, (…) si esprime la teoria della grazia popolare divenuta grazia divina, teoria propria di quel sistema che noi, nella storia degli Stati, abbiamo imparato a conoscere con il termine di bonapartismo230.

Per queste ragioni nel movimento operaio rivoluzionario, tanto la tattica, quanto l’atteggiamento nei confronti delle opposizioni interne, non sarebbero per nulla dissimili dall’agire politico di un governo borghese. Secondo Michels, quando si è raggiunto un determinato grado di sviluppo del partito e questo finisce per essere dominato da dinamiche oligarchiche resesi autonome dalla massa degli organizzati, i leader finiscono per identificare l’organizzazione, e anche il suo patrimonio, con loro stessi, tanto da vivere ogni critica al partito come fosse direttamente e personalmente a loro rivolta. L’identificazione del burocrate con il partito è tanto perfetta e smisurata da rendere ogni leader un piccolo Re Sole, il cui motto potrebbe tranquillamente essere Le parti, c’est moi. La struttura del partito politico ha una configurazione piramidale e il potere decisionale risulta inversamente proporzionale al numero. La sua organizzazione muove dal corpo elettorale, su di essa si struttura la massa degli iscritti, quindi l’insieme dei frequentatori delle assemblee generali, infine il gruppo dei funzionari e il ristretto comitato dirigente. Tale articolazione rende la base decisionale e partecipativa ristrettissima, mentre la massa degli organizzati diviene, per usare una classica espressione di Gramsci, pura “massa di manovra”. All’interno della conformazione gerarchica i militanti dell’organizzazione cittadina – tra i quali si selezionano i dirigenti – tendono a prevalere nettamente sugli aderenti delle sezioni di campagna o di provincia, in gran parte destinati ad assumere un ruolo meramente passivo nella vita del partito. Oltre a questo, c’è poi il problema della composizione sociale dei partecipanti alle discussioni e agli organismi dirigenti del partito politico della classe operaia, in gran parte di estrazione borghese: I frequentatori abituali delle riunioni, specie nei piccoli centri non sono i proletari, che sfiniti dal lavoro vanno presto a coricarsi, bensì individui di ceto medio di ogni genere: dai piccoli borghesi a venditori di giornali e cartoline illustrate, ai giovani

230. R. Michels, La sociologia del Partito politico, op. cit., p. 305.

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intellettuali ancor privi di posizione che provano piacere a farsi apostrofare quali autentici proletari e quale classe del futuro231.

Per Michels questa condizione dualistica tra dirigenti e masse è oltremodo agevolata dalla mentalità delle masse bisognose di una preliminare preparazione da parte dei dirigenti e più in generale di essere guidate per mettersi in moto. Michels parla di una “impotenza congenita delle masse”, confermata dalla condizione di disgregazione da loro vissuta quando improvvisamente vengono private dei propri capi: esse abbandonano il campo in una fuga caotica, senza mostrare alcuna capacità di rapida riorganizzazione, si comportano come un “formicaio terrorizzato” e l’unica via d’uscita ad una tale paralisi si ha solo se emergono spontaneamente nuovi dirigenti capaci di sostituire quelli perduti. Per Gramsci invece l’impotenza delle masse non è congenita, ma conseguente alle modalità di organizzazione dei partiti del proletariato che in gran parte riproducono la frattura più caratteristica della società borghese. Per evitare questo fenomeno è necessario combattere ogni concezione che consideri la direzione politica una funzione troppo complessa per il popolo, dunque un’attività da delegare a una casta specializzata, quindi rendere quanto più possibile orizzontale (ricordiamoci la metafora gramsciana del partito come barriera corallina) l’elaborazione e la direzione, o quantomeno creare corpi intermedi capaci di tenere costantemente in contatto i diversi livelli del partito. L’impotenza dimostrata dalle masse quando vengono decapitate di colpo, seppur non congenita ma indotta, costituisce anche in Gramsci un problema di fondamentale importanza. La storia del movimento operaio in Italia aveva già offerto vari esempi di questo fenomeno, ma l’avvento del Fascismo ne costituisce forse l’emblema più rappresentativo: La classe operaia [scrive Gramsci] è come un grande esercito che sia stato privato di colpo di tutti i suoi ufficiali subalterni; in un tale esercito sarebbe impossibile mantenere la disciplina, la compagine, lo spirito di lotta, la unicità di indirizzo colla sola esistenza di uno stato maggiore. Ogni organizzazione è un complesso articolato che funziona solo se esiste un congruo rapporto numerico tra la massa e i dirigenti. Noi non abbiamo quadri, non abbiamo collegamenti, non abbiamo servizi per abbrac-

231. Ivi, p. 87.

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ciare con la nostra influenza la grande massa, per potenziarla, per farla diventare uno strumento efficace di lotta rivoluzionaria232.

La tendenza delle masse a farsi guidare è accresciuta secondo Michels anche da un altro fattore di natura psicologica che contribuisce a determinare la supremazia dei dirigenti: la gratitudine verso chi scrive e lotta in nome dei loro interessi, creandosi la fama di difensori e consiglieri del popolo, magari patendo il carcere, l’esilio, le persecuzioni. Questo “sacro dovere alla gratitudine” si traduce praticamente in un mandato illimitato di rappresentanza, sino a innalzare il dirigente al di sopra di tutto e non sottoporre mai a verifica il suo operato in nome delle battaglie passate. Per Michels, con la crescita del partito, al lavoro volontario e provvisorio dei proletari subentra quello professionale dei tecnici della politica, un problema particolarmente centrale nelle riflessioni di Gramsci sul rapporto tra intellettuali e masse. A un certo livello di sviluppo del partito si specializzano le competenze e trionfa la divisione del lavoro, fino a determinare una struttura organizzativa complessa, retta stabilmente da dirigenti di professione e funzionari autonomi dalla massa organizzata. Il sorgere di questa leadership professionale accresce ulteriormente le differenze tra dirigenti e seguaci nel partito e proprio l’istruzione formale acquisita, la “superiorità intellettuale”, è uno dei fattori maggiormente determinanti nella supremazia delle minoranze sulle maggioranze. Tale fenomeno produce due conseguenze diverse: in certi Paesi, come l’Italia, i cosiddetti intellettuali borghesi o “disertori della borghesia” (avvocati, professori universitari, medici), in virtù della loro superiorità intellettuale e delle loro competenze specifiche, entrando nel partito ne diventano le guide. In altri Paesi come la Germania, per determinate condizioni generali – come la durezza del conflitto tra le classi ed anche il maggior livello d’istruzione dei lavoratori – si ritrova nel gruppo dirigente una gran maggioranza di ex lavoratori manuali passati alle funzioni tecniche e politiche del partito a fianco di un limitato numero di intellettuali di estrazione borghese. Ma anche in questo caso secondo Michels il risultato è lo stesso, perché il livello di istruzione raggiunto da questi ex lavoratori manuali e il conseguente affrancamento 232. A. Gramsci, “Il nostro indirizzo sindacale”, Lo Stato operaio, 18 ottobre 1923, in La costruzione del Partito comunista, op. cit., p. 5.

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sociale – oltre che economico – ne fanno un qualcosa di profondamente diverso rispetto ai loro vecchi compagni di classe. In queste riflessioni di Michels, al di là di alcune approssimazioni e di qualche strumentalità, è possibile cogliere uno dei problemi maggiormente sentiti da Gramsci e prima ancora da Marx: la frattura tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Michels, infatti, rileva la grande attrattiva esercitata dal partito – con la sua abbondanza di posti retribuiti e possibilità di far carriera – sui proletari dotati intellettualmente. Tale fenomeno è capace di modificare molecolarmente quegli stessi proletari, divenuti dirigenti o funzionari del partito, fino a trasformarli in funzionari dalle caratteristiche piccolo-borghesi: Mentre gli impegni di lavoro e le angustie della vita quotidiana rendono inaccessibile alla massa una più precisa conoscenza dei processi politici e in particolare del funzionamento della macchina politica, il dirigente è, all’opposto, condotto dalla sua nuova posizione a familiarizzarsi più intimamente col tecnicismo della vita politica. In tal modo l’operaio innalzato al ruolo di dirigente giunge in breve tempo ad assimilare delle nozioni (…) che alla lunga determinano un’accentuazione sempre maggiore della sua superiorità nei confronti dei suoi mandanti233.

Dunque, con l’evoluzione della legislazione sociale, quanto più diviene difficile orientarsi nella vita politica, e le funzioni stesse della politica divengono complesse, tanto più si accentua questo distacco tra dirigenti e classe, «sino al punto che i primi finiscono con lo smarrire la coscienza della classe donde sono usciti e si forma una vera divisione di classe fra i dirigenti ex proletari ed i seguaci proletari»234. L’assunzione di funzioni dirigenti a livello professionale determina poi una dipendenza economica e di status dal partito che spinge i leader ad aggrapparsi con tutte le loro forze a quel ruolo, anche quando le passioni per l’avvenire socialista e la fratellanza proletaria vengono meno con il passare degli anni. Michels tratteggia questo fenomeno e lo riscontra tanto nei dirigenti “disertori della borghesia”, che spesso hanno rotto i ponti con le loro classi di provenienza e con le loro precedenti attività professionali, quanto in quelli di origine proletaria, oramai abituatisi allo status sociale ed economico

233. R. Michels, La sociologia del Partito politico, op. cit., p. 127. 234. Ibid.

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derivante dalle proprie mansioni politiche e organizzative e non più capaci o comunque indisponibili ad assumere nuovamente la vecchia professione di lavoratori manuali. Questa rappresentazione, appare forse eccessivamente schematica, tuttavia, anche in questo caso, sono riscontrabili spunti d’indagine molto interessanti. Tra questi c’è sicuramente l’analisi delle dinamiche che portano i disertori della borghesia a cambiare barricata fino a divenire i capi del proletariato. Una tendenza, come abbiamo avuto modo di vedere, più volte al centro delle riflessioni gramsciane. I cosiddetti “disertori della borghesia”, divenuti leader di partiti operai, in genere trovano il loro punto di incontro con il proletariato in giovane età come atto di rottura e ribellione etica contro lo stato di cose esistenti e la propria famiglia, o in ragione della loro adesione scientifica ai postulati del materialismo storico. Il passaggio da una classe alla direzione di quella antagonista è spesso il frutto di pulsioni giovanili, dell’entusiasmo nichilista che spinge all’assalto immediato contro la realtà da cui si fugge. Nell’altra parte della barricata i “disertori della borghesia” agiscono e combattono spesso per un’intera esistenza, ma si logorano rapidamente. Entrano nelle organizzazioni operaie e ne divengono in breve dirigenti nel pieno vigore degli anni, ma col passare del tempo il peso degli strapazzi fisici e psichici, determinati da una simile vita, determina un approccio disincantato, un’adesione formale ma distaccata al socialismo, e, infine, come scritto da Gramsci, “tornano all’ovile”: Con la giovinezza se ne vanno anche gli ideali (…). La massa perde ai loro occhi il suo fascino glorioso, l’amore per il prossimo e gli ideali impallidiscono nella realtà. Così molti leaders si allontanano nel loro intimo dal socialismo nelle sue componenti essenziali; taluni oppongono una blanda resistenza al proprio scetticismo, taluni perfino, consapevolmente o no, fanno ritorno agli ideali della loro fanciullezza (non socialista) o della casa natale235.

Questo fenomeno per Antonio Gramsci è caratteristico delle cosiddette “svolte storiche”, delle fasi di riflusso che costringono il movimento operaio su posizioni difensive o a ritirate strategiche ed è proprio questo fenomeno, diffusissimo nella storia del socialismo italiano, a determinare ciclicamente la decapitazione del movimento operaio e l’impossibilità, per parecchi anni,

235. Ivi, p. 283.

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di ricostituire le sue basi su posizioni di forza. Ma per Gramsci, a differenza di Michels, questo fenomeno non è una inevitabile legge naturale, è semmai una delle sfide più decisive e complesse del socialismo: la costruzione dei propri intellettuali organici, non funzionari del partito con ruoli impiegatizi di natura piccolo-borghese, ma lavoratori manuali capaci di assolvere attività di direzione politica, in primo luogo sul posto di lavoro, senza perdere mai il contatto con la propria funzione storica. L’obbiettivo non doveva essere la promozione sociale di alcuni operai con attitudini particolari al ruolo di intellettuali, ma l’elevamento culturale e politico delle masse popolari nel loro complesso e la loro trasformazione in protagonisti coscienti. Una simile frattura ha determinato storicamente una contraddizione insanabile nel processo di formazione della coscienza di classe del proletariato, perché il ruolo fondamentale, nel cosiddetto passaggio dalla “classe in sé” alla “classe per sé” è svolto proprio dalla borghesia, che nella sua incessante lotta, mobilita e fortifica nei suoi interessi egemonizzando il proletariato. Ma non solo la borghesia fa da “maestro d’armi” al proletariato, essa è anche protagonista di un altro fenomeno: la tendenziale propensione di gruppi di individui a separarsi da essa, per porre le proprie competenze ed energie a servizio della classe lavoratrice, per spingerla a lottare contro la propria classe sociale di appartenenza e contro lo stato di cose che essa rappresenta. Questo fenomeno non è mai particolarmente significativo in termini numerici – il numero dei “disertori della borghesia” è tutto sommato sempre piuttosto limitato – ma è invece molto significativa sul piano qualitativo, perché tali individui sono in genere al di sopra della media della loro stessa classe per forza morale, capacità teoretica e spirito di sacrificio. Agli albori della sua storia politica, il proletariato non disponeva ancora dei mezzi culturali per districarsi nel complicato labirinto dei rapporti sociali di produzione, per ricondurre a unità i propri interessi e costruire in coerenza la propria visione del mondo. Michels, come già aveva fatto del resto Lenin nel Che fare?, sottolinea come la teoria socialista sia scaturita dagli elaborati filosofici, economici e storici della scienza borghese, e come gli stessi progenitori del socialismo fossero anzitutto studiosi e solo in secondo luogo uomini politici. L’opera di reclutamento dei partiti operai tra le fila dell’intellettualità borghese assume una centralità assoluta nella formazione dei propri gruppi dirigenti, anzi, porta al dominio di vere e proprie oligarchie in gran parte dei

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casi estranee socialmente alle masse che intendono guidare. Il sindacalismo rivoluzionario e diverse correnti di pensiero socialista hanno cercato storicamente di eliminare questo problema proponendo l’esclusione degli intellettuali dalla leadership del movimento operaio per affidarla direttamente e senza mediazioni a leader operai, in modo da mantenere un’affinità effettiva tra i capi operai e i loro seguaci. La guida proletaria presenta degli indubbi vantaggi secondo Michels, in primo luogo perché il dirigente ex proletario pur non esercitando più la sua professione, è in grado di conoscere meglio i bisogni economici delle masse, quindi può esprimere pareri competenti su questioni particolari riguardanti il lavoro, la produzione e la vita operaia in genere. Egli ha una conoscenza molto più profonda della psicologia delle masse rispetto a un deputato o dirigente di origine borghese, e rispetto a questi dunque riesce a conservare un contatto ben più costante con esse. Ma secondo Michels queste ragioni possono valere all’interno dell’attività sindacale, dove il quadro dirigente resta realmente legato alla sua professione, mentre nell’ambito della lotta politica la situazione sarebbe completamente diversa. Nella lotta politica, la “legge ferrea delle oligarchie” manifesta la sua natura implacabile anche tra le fila del proletariato, perché il lavoratore manuale nel momento stesso in cui assume professionalmente un incarico dirigente all’interno di un partito politico, e per questa ragione prende uno stipendio, cessa di appartenere alla classe lavoratrice per entrare in quella dei funzionari, fino a farsi assorbire organicamente dalle tendenze oligarchiche che contraddistinguono ogni gruppo dirigente: Il dirigente operaio di origine proletaria cessa quindi di essere un lavoratore, non solo in senso puramente tecnico, (…), ma anche in senso psicologico ed economico, e diventa intermediario di professione esattamente come il suo collega avvocato o dottore. In altri termini: nella sua nuova qualità di delegato o di rappresentante, il capo di origine proletaria soggiace alle stesse tendenze oligarchiche di cui abbiamo parlato a proposito dei transfughi della borghesia divenuti leaders operai236.

Come in gran parte della sua opera, anche nell’affrontare questo tema Michels indugia con insistenza e una certa arbitrarietà nello schematismo di

236. Ivi, p. 408.

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una sociologia spicciola, che pretende di campionare le attitudini e i comportamenti collettivi sulla base di presunte caratteristiche psicologiche dei gruppi sociali. Per Gramsci si tratta di «pura descrittività e classificazione esterna della vecchia sociologia positivistica»: Egli non ha nessuna metodologia intrinseca, nessun punto di vista critico che non sia un amabile scetticismo da salotto o da caffè reazionario che ha sostituito la sbarazzineria altrettanto superficiale del sindacalismo rivoluzionario e del sorelismo237.

Così anche quando si occupa dei quadri dirigenti di origine proletaria, il sociologo tedesco si sofferma in lunghe spiegazioni e numerosi esempi pratici tesi a dimostrare come questi, una volta affrancatisi dalla loro professione, sarebbero in generale più avidi di potere, cocciuti, egoisti, vanitosi e soggetti all’autocompiacimento, pigri, voltagabbana, meno disponibili alla critica e persino tendenti alla viltà congenita, rispetto agli intellettuali borghesi. In Michels convivevano analisi e riflessioni in alcuni casi profonde, e tutto sommato attuali, con rappresentazioni schematizzate delle dinamiche sociali e individuali, sovente non dissimili dai luoghi comuni sulla immutabile natura pelandrona e tendente al malaffare dei meridionali, o quelli sulla proverbiale tirchiaggine degli ebrei. Per Michels, in generale, la storia del movimento operaio insegna che un partito socialista è tanto più esposto alle sollecitazioni dell’ambiente – dunque più corruttibile e tendente all’opportunismo – quanto maggiormente è accentuato il suo carattere proletario, per questa ragione l’idea che il proletariato possa fare affidamento solo su se stesso, provvedendo così alla tutela dei propri interessi, senza l’intermediazione di terze persone provenienti da altre classi sociali, sarebbe in definitiva niente altro che una pia illusione. L’inevitabile tendenza all’oligarchia della leadership nel partito politico è dunque un problema senza valide vie d’uscita, per dimostrarlo Michels si premura di smentire, come soluzioni alternative percorribili, tanto le ipotesi del sindacalismo rivoluzionario quanto quelle anarchiche. Peraltro, all’interno dei processi degenerativi del partito politico rivoluzionario di massa, Michels annovera anche l’altrettanto inevitabile tendenza alla progressiva trasformazione conservatrice. Pure in questo caso il morbo che porta l’orga-

237. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 238.

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nizzazione alla perdita del suo impeto rivoluzionario – e a divenire sempre più prudente, fino a perdersi nella pigrizia, nell’inerzia e nell’immobilità delle sue ordinarie incombenze istituzionali – scaturirebbe dalla crescita dell’organizzazione. Il partito rivoluzionario nasce con l’ambizione di avere ragione sulla forza centralizzata dello Stato borghese, per questo si dà una potente struttura organizzativa capillare e articolata, dotata di una propria autorità e regolato da una rigida disciplina. Il partito rivoluzionario di massa è uno Stato nello Stato, nato con l’obiettivo dichiarato di svuotare e distruggere quello esistente per sostituirlo con uno completamente diverso. Tuttavia, mentre quest’organizzazione si amplia e si consolida fino ad assumere una fisionomia imponente, anziché guadagnare in dinamismo rivoluzionario, finisce per essere preda di un fenomeno opposto. Per Michels, anche in questo caso, c’è un rapporto strettissimo tra la crescita del partito e l’aumento della prudenza nella politica perseguita: In altre parole, le tendenze conservatrici che sono tipicamente associate al possesso, si manifestano anche nel partito socialista. Gli uomini del partito hanno faticato e sudato mezzo secolo per creare un’organizzazione modello. (...) è stata organizzata una burocrazia che può gareggiare per senso del dovere, zelo e ubbidienza ai propri superiori, con quella dello Stato stesso; le casse sono piene; si è costituito un complesso di interessi finanziari e morali in tutto il Paese. Una tattica energica e ardita metterebbe in pericolo tutto questo: il lavoro di molte migliaia di leaders e sotto leaders, in breve l’intero partito238.

In definitiva, l’organizzazione finisce per trasformarsi da mezzo in fine, così, l’amore per l’opera creata porta i suoi dirigenti a evitare qualsiasi politica azzardata potenzialmente in grado di metterne a repentaglio l’esistenza. Un’eccessiva e continuata offensiva rivoluzionaria potrebbe indurre lo Stato alla decisione di sciogliere il partito, questa diviene dunque la principale preoccupazione che finisce per orientarne la linea politica. Con ciò Michels delinea anche la “legge della distorsione dei fini”, completando il quadro della sua analisi sull’organizzazione socialista di massa, che in definitiva non offre particolari soluzioni riguardanti il dover essere di

238. R. Michels, La sociologia del Partito politico, op. cit., p. 495.

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questa. Michels si limita in sostanza a una valutazione ontologica proseguendo e sviluppando l’analisi delle tendenze decadenti e decompositive delle organizzazioni marxiste avviata da Sorel. Una volta fatti i conti con i limiti di cui sopra, resta un dato incontestabile: quest’opera ha lasciato sul terreno una serie di problematiche reali che il movimento politico dei lavoratori, nel corso della lunga sua storia fino ai giorni nostri, non è mai riuscito a risolvere del tutto. Nei Quaderni del carcere Gramsci esprime dei giudizi taglienti e sarcastici sugli studi di Michels in merito ai partiti politici, dedicandogli però alcune riflessioni di notevole importanza. Le note dedicate allo studioso tedesco prendono le mosse dalla definizione di Max Weber, secondo cui il partito politico sarebbe un’associazione spontanea di propaganda e agitazione, la cui propensione al potere sarebbe legata all’esigenza di procurare, per i propri aderenti, i vantaggi morali e materiali che il potere comporta, e per perseguire e ottenere fini oggettivi. La forma del partito personale, che accorda la protezione di un uomo potente ai propri affiliati inferiori, sarebbe per Gramsci piuttosto comune, specie al primo comparire dei partiti politici moderni. Gli esempi di gruppi politici identificati con il nome dei loro capi sarebbero diversi. Anche nel movimento operaio e socialista la tendenza ha continuato a sopravvivere. L’esempio più evidente si è avuto nella distinzione tra lassalliani e marxisti, all’interno del socialismo tedesco, e tra guesdistes e jaurèssistes in quello francese239. In questo ci sarebbe un’analogia tra partiti moderni, sette religiose e ordini monastici. La definizione di “capo charismatico”, ovverosia di un capo che esercita un potere sui suoi sottoposti per qualità che sembrano soprannaturali, sarebbe per Gramsci non una scoperta di Michels ma di Weber. Le forme generali di questo partito sono molteplici e proprio il movimento lassalliano fornisce un primo esempio emblematico: Egli [Lassalle] si compiaceva di vantarsi dinnanzi ai suoi fautori dell’idolatria che godeva da parte delle masse deliranti e delle vergini vestite di bianco che gli cantavano dei cori e gli offrivano dei fiori. Questa fede charismatica non era solo frutto di una

239. Gramsci si riferisce all’articolazione del movimento socialista francese e di quello socialdemocratico tedesco attorno a personalità forti sul piano politico, con la quale diede vita a correnti che presero il nome dei rispettivi punti di riferimento intellettuale: Jules Bazile detto Guesde (1845-1922) e Jean Jaurés (1859-1914) nel primo caso; Ferdinand Lassalle (1825-1864) e Karl Marx (1818-1883) nel secondo.

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psicologia esuberante e un po’ megalomane, ma corrispondeva anche a una concezione teorica. Noi dobbiamo – disse agli operai renani esponendo loro le sue idee sull’organizzazione del partito – di tutte le nostre volontà disperse foggiare un martello e metterlo nelle mani d’un uomo la cui intelligenza, il carattere e l’attaccamento ci siano una garanzia che colpisca energicamente. Era il martello del dittatore240.

L’altro esempio emblematico preso in considerazione da Gramsci è proprio Mussolini, che assommava in sé le funzioni di capo unico di un partito e di uno Stato. Il partito fascista si identifica totalmente con la figura di Mussolini. Tuttavia, questo farsi carne e ossa della direzione unica carismatica è legata anche alla proibizione verso il formarsi di gruppi o posizioni che possano metterla in discussione. Mussolini in tal senso si serviva dello Stato per dominare il partito e, a sua volta, del partito per dominare lo Stato. L’effetto di trascinamento dei capi carismatici presso le masse è però “infantile”: «per chi conosce la facilità delle folle italiane all’esagerazione sentimentale e all’entusiasmo emotivo». Così la durata dei partiti carismatici, che per Gramsci possono essere sia autoritari, sia antiautoritari, «è spesso regolata dalla durata del loro slancio e dal loro entusiasmo che talvolta danno una base molto fragile»241. Secondo Gramsci la produzione teorica di Michels sui partiti politici è sommaria e superficiale, le sue idee risultano spesso confuse e schematiche, le categorie e le definizioni in essa comprese non sono immuni da errori banali, la trama analitica e narrativa è appesantita da una babele oziosa e ingombrante di ridondanti citazioni bibliografiche242. Ciò nonostante, per Gramsci, alcuni aspetti di questo lavoro possono risultare interessanti ed utili come raccolta di materiale grezzo e di osservazioni empiriche. Così ad esempio pur criticando aspramente sia quanto sostenuto in merito alla teoria del “capo carismatico”, sia quanto affermato in merito alla legge “ferrea dell’oligarchia”, i problemi dei rapporti tra democrazia e tendenza all’oligarchia nei partiti politici descritti da Michels assumono per Gramsci un 240. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 232. 241. Ivi, p. 234. 242. «Egli appoggia anche i più banali truismi con l’autorità degli scrittori più disparati. Si ha spesso l’impressione che non è il corso del pensiero che determina le citazioni, ma il mucchio di citazioni già pronte che determina il pensiero dandogli un che di saltellante e improvvisato. Il Michels deve aver costruito un immenso schedario, ma da dilettante, da autodidatta (…) egli non ha nessuna metodologia intrinseca ai fatti, nessun punto di vista critico che non sia un amabile scetticismo da salotto o da caffè reazionario che ha sostituito la sbarazzineria altrettanto superficiale del sindacalismo rivoluzionario e del sorelismo». Quaderni del carcere, op. cit., pp. 237-238.

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significato preciso quando nell’organizzazione si determina una scissione di classe tra capi e gregari. In questo caso il problema non è una delle tante classificazioni di schematismo sociologico, che spesso rendono poco attendibile l’opera di Michels, ma ci si trova di fronte a un problema reale, una profonda contraddizione politica con precisi riscontri pratici nella storia del sindacalismo, dei partiti socialdemocratici e di quelli comunisti. E proprio questo è il tema che ci accingiamo a trattare nell’ultimo paragrafo di questo libro. 11. Lo sconvolgimento dei vecchi schemi dell’arte politica Come ampiamente chiarito, la natura dualistica delle relazioni dirigentidiretti è un tema centrale nell’elaborazione teorica di Gramsci per diverse ragioni; anzitutto perché all’interno di questa contraddizione vanno ricercate tanto l’origine quanto la forza pervasiva dei rapporti di sfruttamento e dominio caratteristici della società borghese. Nel Quaderno 2 il cadornismo è definito come una categoria paradigmatica capace di sintetizzare il rapporto tra intellettuali e masse, dunque la natura passiva delle relazioni sociali e politiche italiane. Secondo Gramsci, pretendere da Cadorna243 una grande capacità politica non sarebbe generoso, dal momento che i principali uomini politici allora al governo erano totalmente sprovvisti di capacità militari. Le classi dominanti italiane si dimostrarono inadeguate a preparare politicamente i capi militari, pertanto, l’incapacità di Cadorna a esercitare un ruolo politico motivante verso ufficiali, sottoufficiali e soldati semplici era corrispondente a quella del governo (e della politica in generale) nei confronti delle masse popolari. La proverbiale avversione di Cadorna per la vita politica parlamentare non era affatto diversa da quella della casa regnante e dei liberali alla guida del Paese244. Ma come spiegato in tutte le pagine precedenti, il cadornismo non fu solo un problema delle classi dirigenti nazionali, ma al contrario riguardò profondamente anche il movimento che a loro si opponeva. 243. Luigi Cadorna (1850-1928) è il generale italiano al quale si associa la disfatta di Caporetto nella Prima guerra mondiale, scaturita anche dalla sua rigida e dispendiosa (in termini di vite umane sacrificate) strategia basata sulle cosiddette “spallate”, ossia le offensive militari contro le munitissime linee di difesa austriache, conclusesi con il fallimentare massacro delle truppe e la ritirata dell’esercito italiano fino al Piave. 244. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 259.

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Le organizzazioni del movimento operaio si erano rivelate inadeguate a operare il ribaltamento dei vecchi schemi dell’arte politica, finendo per riproporle al proprio interno e assegnare ancora una volta alle classi popolari il ruolo di “massa di manovra”. Tutti gli aggregati umani hanno per Gramsci un proprio “principio ottimo di proporzioni definite” e ciò si può vedere nell’esercito come nei partiti politici, nei sindacati o nelle fabbriche. Esso consiste nei rapporti che intercorrono tra i diversi elementi dell’aggregato sociale in questione245, rapporti necessariamente equilibrati e armonici, dove il mutamento in una delle parti determina la necessità di un nuovo equilibrio col tutto. Dalla presenza di quadri di diverso grado e dalle capacità di questi si può verificare come un movimento d’opinione si trasformi in partito politico, perché il partito ha essenzialmente la funzione di creare, per le sue diverse funzioni, quadri dirigenti capaci. L’efficacia di un partito risiede nel suo essere “funzione di massa”, che sviluppa e moltiplica i quadri dirigenti di una classe sociale trasformandola da insieme disgregato e amorfo in “esercito politico organicamente predisposto”. Il deficit qualitativo o anche quantitativo delle funzioni dirigenti ai diversi livelli di un partito politico, finisce per renderne sterile e inefficace l’azione anche in presenza delle precondizioni favorevoli al suo utile operare: la storia del partito socialista nel dopoguerra, per Gramsci, ma pure quella del partito comunista, è la testimonianza più lampante di ciò. Connesso al discorso sul principio delle proporzioni definite è il formarsi nel corso dello sviluppo storico del funzionario di carriera tecnicamente addestrato al lavoro burocratico, questione di significato “primordiale” nella scienza politica e nella storia degli aggregati statali, tema trattato diffusamente nelle pagine precedenti dedicate a Michels. La questione dei funzionari tende a coincidere con quella degli “intellettuali organici” al gruppo sociale essenziale: l’affermarsi di una nuova forma sociale e statale determina la necessità di un nuovo tipo di funzionario, la quale non può prescindere (almeno per un certo periodo) dai funzionari ereditati dai rapporti sociali e politici preesistenti.

245. In un partito politico ciò ha a che fare con le relazioni che sussistono tra gruppo dirigente, rappresentanti istituzionali, quadri intermedi, quadri militanti e massa degli iscritti.

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Tale questione costituiva un problema di straordinaria importanza per la Russia all’indomani dell’ottobre del 1917, per via delle difficoltà incontrate dal nascente Stato sovietico a far dirigere la produzione e la stessa amministrazione pubblica ai lavoratori, e la sua soluzione andava ricercata in un nuovo motivo ispiratore in vista del quale bisognava informare l’intera macchina statale: l’unità del lavoro manuale e intellettuale. Un problema non risolto dalla Rivoluzione russa, né sul piano pratico, né su quello teorico. Nel paragrafo intitolato La concezione del centralismo organico e la casta sacerdotale del Q 3, Gramsci sembra riferirsi al problema della cristallizzazione dottrinaria e dogmatica di una ideologia e alla questione del formarsi di un sacerdozio ufficiale delegato alla sua amministrazione. Contro questa tendenza, Gramsci scrive che l’ideologia va concepita storicamente, come manifestazione di una lotta incessante, non come un qualcosa di artificiale e sovrapposto meccanicamente. La pretesa di «fabbricare un organismo obbiettivamente perfetto», una volta per tutte, sarebbe una illusione disastrosa del centralismo organico, perché potenzialmente in grado di «affogare un movimento in un pantano di dispute personali accademiche»246. La questione dei funzionari e dell’organizzazione di un nuovo ordine sociale statale è strettamente legata al tema del cosiddetto “centralismo organico” e del “centralismo democratico”. Il “centralismo organico” è una concezione secondo la quale il gruppo politico si seleziona per cooptazione intorno a una personalità, a un “capo carismatico” ritenuto portatore di “verità infallibili” e custode di “leggi naturali infallibili” dell’evoluzione storica. All’interno del “centralismo organico” bisogna poi distinguere se il predominio di una parte sul tutto è dissimulata o esplicitamente attuata, in altre parole se è il portato di una concezione unilaterale di gruppi fanatici e settari. In questo caso non si dovrebbe parlare di “centralismo organico”, ma di “centralismo burocratico”, l’organicità si ha invece con il “centralismo democratico”, organico perché frutto di un continuo adeguamento dell’organizzazione al movimento reale delle cose, non la cristallizzazione burocratica di questa. Il centralismo democratico è per Gramsci «un contemperare le spinte dal basso con il comando dall’alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella cornice solida dell’apparato di direzione che assicura la con-

246. Ivi, p. 337.

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tinuità e l’accumularsi regolare delle esperienze»247, è una formula elastica che consiste nella costante ricerca critica di ciò che è uguale pur nell’apparente diversità, nel quale la ricerca di unità organica non è piatta uniformità, né tanto meno il risultato di un freddo processo razionalistico; l’unità organica è una necessità pratica e sperimentale, ed è unità organica di teoria e prassi, di ceti intellettuali e masse popolari, di governanti e governati. Il prevalere del “centralismo burocratico” in uno Stato indica invece che il suo gruppo dirigente si è “saturato”, è divenuto una consorteria d’interessi impegnata a perpetuare i suoi privilegi tanto da soffocare sul nascere nuove forze vitali anche quando omogenee agli interessi di quel gruppo dominante. La “legge delle proporzioni definite” varia a seconda del gruppo sociale preso in considerazione e anche a seconda del livello di cultura, indipendenza mentale e spirito di iniziativa dei suoi membri più arretrati e periferici. In tal senso, le forme più stagnanti e brutali di “centralismo burocratico” si hanno proprio in ragione dell’assenza di iniziativa e responsabilità dal basso, per i limiti e la natura ancora primordiale dell’elemento periferico, anche quando questo è omogeneo con il gruppo territoriale egemone. Il raggiungimento della forma compiuta e perfetta da parte dei partiti è difficile, perché ogni sviluppo comporta per loro nuovi compiti e mansioni. Nel caso del partito mosso dall’ambizione di eliminare la distinzione in classi della società, si può affermare che esso raggiunge la condizione di perfezione quando perde di necessità storica, cessando di essere un soggetto reale in quanto razionale e viceversa. Ogni partito è una nomenclatura di classe e pertanto se non esistono più le classi viene meno anche la necessità per esse di organizzarsi in partito, dunque la completa realizzazione della società senza le classi e del partito comunista dovrebbe aversi con la fine del partito comunista stesso. Detto questo, però, tra le varie forme di aggregazione umana, il partito politico è uno degli esempi nei quali meglio si può cogliere la regola del “principio ottimo delle proporzioni definite”. Un partito diviene storicamente necessario quando le condizioni del suo farsi Stato iniziano a delinearsi e lasciano intravedere possibili sviluppi; allorquando ciò accade il partito si compone e articola attraverso tre elementi fondamentali: anzitutto l’elemento diffuso di massa, per la cui partecipazione è essenziale la disciplina e

247. Ivi, p. 1634.

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la fedeltà e senza il quale il partito non potrebbe esistere. La forza di questo elemento è comunque in stretta connessione con la capacità dell’elemento dirigente nello svolgere una funzione coesiva e di centralizzazione in assenza della quale l’elemento diffuso di massa sarebbe disperso, privo di disciplina e in definitiva impotente. Per disciplina Gramsci intende il rapporto organico, continuato e permanente, tra governanti e governati tendente a generare una volontà collettiva, non l’accoglimento passivo e meccanico di ordini da eseguire senza discutere. Se concepita in questo modo, la disciplina non annulla la personalità e la libertà, ma diviene consapevole assimilazione di un indirizzo da realizzare che semmai limita “l’arbitrio e l’impulsività irresponsabile”. La questione della libertà e della personalità è messa in discussione non dalla disciplina in quanto tale, ma dalla natura della fonte da cui proviene l’indirizzo da realizzare: se questa è di origine democratica, vale a dire se è una funzione tecnica specializzata, e non un arbitrio o un’imposizione esteriore, allora la disciplina diviene un elemento necessario di ordine democratico e di libertà. Ma l’origine democratica dell’indirizzo si ha se esso è esercitato all’interno di un gruppo sociale omogeneo; se invece è esercitato da una classe sociale sull’altra il gruppo sociale che esercita l’ordine potrà magari parlare di disciplina, ma non quello che lo subisce. Il secondo elemento fondamentale del partito preso in esame da Gramsci è quello “coesivo principale”, il gruppo dirigente nazionale, che conferisce forza coesiva e centralizzazione all’insieme degli aderenti, e risulta decisivo per l’esistenza stessa del partito anche più dell’elemento diffuso di massa. Scrive Gramsci: Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani. Tanto è vero che un esercito è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani, affiatati, d’accordo tra loro, con fini comuni non tarda a formare un esercito anche dove non esiste248.

Infine, il terzo elemento è quello dei cosiddetti quadri intermedi la cui funzione è articolare l’elemento dirigente con quello di massa tenendoli in contatto fisico, morale e intellettuale, garantendo con ciò la continuità 248. Ivi, p. 1734.

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dell’indirizzo politico. L’efficacia politica di un partito e l’efficienza del suo funzionamento sono dunque strettamente legate all’esistenza di “proporzioni definite” tra questi tre elementi. La distinzione tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è un elemento primordiale e irriducibile dell’arte politica, la cui origine ha cause sue proprie che vanno analizzate in dettaglio. Il problema delle “proporzioni definite” nel partito politico riguarda il modo migliore e più efficace di dirigere e formare gruppi dirigenti. Nel partito rivoluzionario la questione fondamentale, connessa alla formazione dei gruppi dirigenti, è la volontà a far venire meno la divisione tra governanti governati. Uno dei difetti più classici dei gruppi dirigenti è, invece, la convinzione che una volta individuata la direttiva essa vada applicata con obbedienza militare, tanto da non sentire nemmeno l’esigenza di spiegarne la necessità e la razionalità. La persuasione che una determinata cosa sarà fatta, perché il dirigente la ritiene giusta e razionale, e per questa ragione viene affermata come dato di fatto indiscutibile, è esattamente quel che Gramsci intende per “cadornismo”. Nei partiti la tendenza al “cadornismo” e con essa «l’abitudine criminale di trascurare di evitare i sacrifici inutili» fanno parte di un malinteso modo di concepire la direzione politica, sebbene sia chiaro come i peggiori disastri politici collettivi avvengono quando si “gioca con la pelle altrui”. Ognuno ha sentito raccontare da ufficiali del fronte come realmente i soldati arrischiassero la vita quando ciò era necessario, ma come invece si ribellassero quando si vedevano trascurati. Per esempio: una compagnia era capace di digiunare molti giorni perché vedeva che i viveri non potevano giungere per forza maggiore, ma si ammutinava se un pasto solo era saltato per la trascuratezza o il burocratismo249.

Il superamento del “cadornismo” – il prevalere di organismi collettivi e diffusi di direzione politica – porta allo sconvolgimento dei vecchi schemi “naturalistici” dell’arte politica e più in generale del rapporto tra dirigenti e diretti nella società. Il diffondersi dei partiti di massa e l’adesione organica di questi alla vita più intima delle classi popolari, unitamente al forgiarsi di una loro coscienza di classe consapevole e critica, intesa come superamento di una forma disorganica, casuale e meccanica dei sentimenti popolari, sono

249. Ivi, p. 1753.

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i due elementi essenziali di questo sconvolgimento all’interno dei quali sono già intuibili i germi della società futura. Il “cadornismo” è dunque la metafora di un problema storico irrisolto: l’utilizzo strumentale delle masse da parte dei gruppi dirigenti, il fatto che esse finiscano per essere un materiale grezzo nelle mani del “capo carismatico” di turno. Già in un articolo scritto per la morte di Lenin nel 1924250 Gramsci si pose alcuni interrogativi sui rapporti necessari tra partito e masse nell’ambito della dittatura proletaria nel quale possiamo leggere che, preliminarmente, ogni Stato è una dittatura. Fino a quando ci sarà la necessità di uno Stato si porrà il problema della direzione, del “capo”; tuttavia, nell’ambito della transizione al socialismo il problema essenziale non è l’esistenza o meno di un “capo” ma la natura delle relazioni tra questo e le masse. In altre parole, se si tratta di rapporti puramente gerarchici e militari o, invece, di carattere organico. Affinché il “capo” e il partito non siano un’escrescenza, una sovrapposizione innaturale e violenta sul corpo delle masse, è necessario anzitutto che entrambi siano parte della classe, o almeno ne rappresentino gli interessi e le aspirazioni più vitali. Per Gramsci, Benito Mussolini rappresentava alla perfezione tutte le caratteristiche più negative del cosiddetto “capo-carismatico” intento a sedurre le masse con l’oratoria brillante e i colpi di teatro, ma privo di un legame organico con esse251. Un tema ripreso nelle note del Q 6, nelle quali l’intellettuale sardo si sofferma sul significato deteriore assunto dai termini “ambizione” e “demagogia”, ponendo la necessità di non confondere tra “grande” e “piccola ambizione”. Se si ha chiara questa differenza si può affermare che non è concepibile una politica senza ambizione, tuttavia, quando non si è in gra-

250. A. Gramsci, Capo, “L’Ordine Nuovo”, marzo 1924, in La costruzione del Partito Comunista, op. cit. 251. «Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del Fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il capo è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato sacro romano impero. Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro feroce meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Conosciamo tutto questo meccanismo, tutto questo armamentario e comprendiamo che esso possa impressionare e muovere i precordi alla gioventù delle scuole borghesi; esso è veramente impressionante da vicino e fa stupire. Ma capo? (...) Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impastato di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia» Ivi p. 15.

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do di distinguere l’una dall’altra, l’ambizione è associata all’opportunismo arrivista, al tradimento dei propri principî e del proprio gruppo sociale, per ottenere un maggior guadagno immediato. Come non può esistere politica senza ambizione così non può esistere un “capo” disinteressato all’esercizio del potere, però anche in questo caso il problema non è tanto l’ambizione in sé ma la natura dei rapporti tra il “capo” e la massa insieme alla quale si persegue quella “grande ambizione”. Il problema è se l’ambizione del capo si eleva dopo aver fatto attorno a sé il deserto, o se invece tale sentimento è associato all’elevamento di tutto uno strato sociale, in altre parole, se il capo ambizioso vede la propria elevazione come funzione della elevazione generale. Le stesse osservazioni valgono poi per la cosiddetta demagogia, associata alla tendenza generale a servirsi delle masse suscitandone l’entusiasmo, sapientemente eccitato e nutrito, con il solo scopo di perseguire le proprie “piccole ambizioni” particolari. Ma se il “capo” non considera le masse “carne da cannone”, cioè uno strumento buono per raggiungere i propri scopi e poi gettarle via, ma al contrario le rende protagoniste storiche di un fine politico organico e generale, non particolare, la demagogia in sé può assumere significato positivo. La tendenza del demagogo deteriore è quella di rendere sé stesso insostituibile, di far credere che dietro di lui ci sia solo l’abisso. A tal fine egli elimina ogni possibile concorrente ponendosi direttamente in rapporto diretto, ma strumentale, con le masse attraverso le sue doti seduttive e l’utilizzo di tutti gli strumenti spettacolari necessari a catturarne il consenso passivo, non la partecipazione attiva: [Il capo politico non mosso dalla piccola ambizione] tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili concorrenti ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa e questi vogliono che un apparecchio di conquista non si sfasci per la morte o il venir meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva252.

Andare oltre il “cadornismo” e stravolgere i vecchi schemi “naturalistici” dell’arte politica significa in primo luogo combattere il pregiudizio che porta

252. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 772.

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a considerare la filosofia un qualcosa di troppo difficile e riservato a una categoria specializzata di intellettuali e scienziati. Ogni uomo, a prescindere dalla sua specifica attività professionale, è un filosofo253 che partecipa a una determinata visione del mondo. Il problema non è il possedere o meno determinate facoltà intellettuali, ma capire se quella concezione è puramente spontanea e meccanica o, al contrario, critica e coerente. Ossia, se rispondente alle reali esigenze di chi se ne fa portatore o se è frutto di una formulazione esogena e imposta o assorbita inconsapevolmente dall’ambiente sociale nel quale si viene al mondo254. Come già chiarito, secondo Gramsci, i gruppi subalterni subiscono costantemente la direzione delle classi dominanti, pertanto, anche nelle diverse manifestazioni della filosofia popolare (linguaggio, senso comune, buon senso, religione popolare, folclore) si possono rintracciare frammenti e modi d’essere della visione del mondo dei gruppi dirigenti. L’adesione indotta o spontanea o all’idea di civiltà delle classi dominanti è infatti la più efficace garanzia alla conservazione dei loro rapporti di dominio, che porta gli sfruttati ad accettare le stesse leggi dello sfruttamento su cui si basa la loro subalternità. In una società avanzata, con stratificati apparati privati di egemonia civile, la chiave di volta degli equilibri passivi non risiede tanto nella concentrazione della forza nelle mani dello Stato, quanto nella capacità pregnante dell’irreggimentazione ideologica e culturale. Affinché i gruppi subalterni possano liberarsi da questo dominio, è necessario uno “spirito di scissione”, essi debbono autodeterminarsi materialmente e spiritualmente, superando le forme frammentarie ed episodiche di “filosofia spontanea” che ne inibiscono la coscienza. È preferibile pensare senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, (...) o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in connessione con tale lavorio del proprio cervello, scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della

253. Già nell’articolo de “L’Ordine Nuovo” su Socialismo e cultura del 1919, Gramsci scrive «ogni uomo è un filosofo», affrontando questo tema in termini non molto dissimili dalla trattazione dei Quaderni. 254. Nelle note sul Saggio popolare di N. Bucharin Gramsci definisce la “filosofia del senso comune”, come la “filosofia dei non filosofi”, cioè la concezione del mondo assorbita acriticamente dai vari ambienti sociali e culturali in cui si sviluppa l’individualità morale dell’uomo medio. Questa filosofia non è per Gramsci sempre identica nel tempo e nello spazio, ed è caratterizzata dall’essere «una concezione disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale delle moltitudini di cui esso è la filosofia». A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1396.

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storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità? (...) criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto cui è giunto il pensiero mondiale più progredito. Significa quindi anche criticare tutta la filosofia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratificazioni consolidate nella filosofia popolare. L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un conosci te stesso come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso una infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario255.

Una visione del mondo, criticamente coerente, necessita della piena coscienza della sua storicità (la concezione critica deve rispondere a determinati problemi posti dalla realtà) ed è storicamente determinata, scaturisce da un peculiare sviluppo delle forze produttive, è una visione del mondo in contraddizione con altre visioni del mondo, a loro volta espressione di altri interessi storicamente determinati. Ma la creazione di una visione del mondo criticamente coerente deve necessariamente assumere carattere unitario, trovando uno sbocco nella socializzazione e nella partecipazione collettiva agli assunti di questa filosofia. Creare una nuova cultura capace di porsi criticamente rispetto al passato, significa anche socializzare le scoperte già fatte e farle divenire base di azioni concrete, rendere questa cultura “elemento di coordinamento” e di ordine “intellettuale e morale” delle masse. Di per sé, scrive ancora Gramsci, il fatto che una massa di uomini sia portata a pensare in modo unitario e coerente il presente e la realtà è filosoficamente più importante di qualsiasi scoperta o novità filosofica che rimanga nel chiuso di ristrette élite di intellettuali. Per una qualsiasi concezione del mondo che divenga movimento culturale e produca un’attività pratica e una direzione politica consapevole e conseguente256, il vero problema è mantenere l’unità ideologica del blocco sociale da essa unificato. Così ad esempio, uno dei maggiori elementi di forza, pregnanza e persistenza tra le masse della religione, e in particolare di quella cattolica, è proprio il fatto che essa abbia costantemente lottato per una unione dottrinale di tutta la massa religiosa, perché non si formasse una religione degli

255. Ivi, p. 1376. 256. Gramsci parla in proposito di ideologia, vale a dire una concezione del mondo che si manifesta nell’arte, nel diritto nell’attività economica e in tutte le manifestazioni di vita sia individuali che collettive.

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intellettuali e una delle “anime semplici”, affinché dunque gli strati superiori intellettuali non si staccassero da quelli inferiori. La Chiesa ha saputo mantenere la sua comunità di fedeli attraverso la ripetizione coerente della propria apologetica e il mantenimento della continuità tra essa e i fedeli; ogni qual volta questa continuità si è interrotta – come ai tempi della Riforma religiosa e nella Rivoluzione francese – la Chiesa ha subito danni incalcolabili. Da questo esempio la filosofia della praxis avrebbe dovuto trarre un insegnamento. Ogni nuova visione del mondo che intenda sostituire il senso comune e le vecchie concezioni, deve necessariamente agire in due modi: in primo luogo non stancarsi di ripetere i propri argomenti dando a essi coerenza e continuità; quindi lavorare per «elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all’amorfo elemento di massa, ciò che significa lavorare a suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventare le stecche del busto»257. Uno dei maggiori limiti delle filosofie precedenti alla filosofia della praxis è stato invece proprio il non aver saputo creare “una unità ideologica tra il basso e l’alto”, “tra i semplici e gli intellettuali”. Così, ad esempio, l’idealismo si contrappose al movimento culturale di “andata verso il popolo” manifestatosi nel fenomeno delle Università popolari che, seppur tra mille difetti, furono un fenomeno degno di studio e interesse, non di semplice denigrazione, perché mostrarono l’entusiasmo e la volontà dei semplici verso la possibilità di innalzarsi a una superiore concezione del mondo. Se però uno dei punti di forza della Chiesa Cattolica sta nel suo intento di mantenere nell’unità dottrinale il contatto tra gli strati intellettuali superiori e le masse, questo proposito non è mai stato perseguito attraverso un lavoro teso a innalzare le masse al livello degli intellettuali, bensì, tramite una disciplina di ferro sugli intellettuali, affinché non oltrepassassero certi limiti nella distinzione tra loro e le masse. Il marxismo doveva essere per Gramsci metodologicamente (non solo ideologicamente) antitetico a questa concezione, poiché non avrebbe dovuto mantenere le masse nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma porsi l’obbiettivo di innalzarle a una più alta

257. Ibid, p. 1392.

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concezione della vita258. «Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali»259.

258. Su tale impostazione è rintracciabile la grande influenza del Che fare? di Lenin nel quale la questione è trattata diffusamente. In esso si può ad esempio leggere: «il nostro primo e più urgente dovere è quello di contribuire alla formazione di rivoluzionari operai che, per quel che riguarda l’attività di Partito, stiano allo stesso livello dei rivoluzionari intellettuali. Perciò si deve rivolgere l’attenzione principale al lavoro per innalzare gli operai ai rivoluzionari, e non dobbiamo affatto abbassarci noi al livello della massa operaia, come vogliono gli economisti.(…) La coscienza socialista contemporanea non può non sorgere che sulla base di profonde cognizioni scientifiche (...) il detentore della scienza non è il proletariato, ma gli intellettuali borghesi; anche il socialismo contemporaneo è nato nel cervello di alcuni membri di questo ceto, ed è stato da essi comunicato ai proletari intellettualmente più dotati. (...) ciò non significa che gli operai non partecipano a questa elaborazione. Essi, tuttavia, vi partecipano non come operai bensì come teorici del socialismo, solo in quanto riescono ad impadronirsi in varia misura delle concezioni del proprio secolo e a farle progredire. Ma perché gli operai vi riescano più spesso è necessario avere la massima cura di elevare il livello della loro coscienza in generale, è necessario che essi non si segreghino nei limiti artificialmente ristretti delle pubblicazioni per operai, ma imparino a padroneggiare sempre più le pubblicazioni in generale. Sarebbe persino più giusto dire non che gli operai si segregano, ma che sono segregati, perché essi leggono e vogliono leggere tutto ciò che si scrive anche per gli intellettuali, e soltanto alcuni cattivi intellettuali pensano che per gli operai basti parlare del regime di fabbrica e rimasticare ciò che da un pezzo è risaputo». V.I Lenin, Che fare?, Einaudi, Torino, 1979, p. 151, pp. 47-48. 259. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit, p. 1384.

Conclusioni

Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali sistematici1.

La conquista di una coscienza critica che trasformi i gruppi subalterni in soggetto storico consapevole di sé è per Gramsci possibile solo attraverso il sovvertimento dei “vecchi schemi naturalistici” dell’arte politica, con l’abbandono completo di un modo dualistico di intendere il rapporto tra direzione politica e masse. Grazie a questa concezione tradizionale, l’intellettuale diviene una sorta di sacerdote depositario dell’ampolla col diavolo dentro incaricato di interpretare i sentimenti delle masse popolari per tradurli poi in direttive politiche che esse devono applicare meccanicamente se non militarescamente. Al contrario, quel processo di autodeterminazione materiale e spirituale porta l’elaborazione e la direzione a essere il risultato di una “compartecipazione attiva e consapevole” dell’organismo collettivo, non più il risultato dell’intuizione intellettuale del capo o dei gruppi dirigenti, tradotta unilateralmente attraverso la catena di comando, dall’alto in basso, in idee-forza necessarie all’azione delle masse. Gramsci definisce tutto ciò un sistema di “filologia vivente”, nel quale sussiste un rapporto di proporzioni definite tra «grande massa, Partito, gruppo dirigente e tutto il complesso, bene articolato, [che ]si può muovere come un uomo collettivo»2. La contraddizione nel rapporto tra intellettuali e masse è per Gramsci la conseguenza di una incomunicabilità di fondo. L’elemento popolare, a causa della sua subalternità, riesce a “sentire” ma non sempre è in grado di comprendere e soprattutto “sapere”, mentre l’elemento intellettuale riesce

1. 2.

Ivi, p. 1375. Ivi, p. 1430.

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a “sapere” ma raramente è in grado di “sentire”. L’errore dell’intellettuale consiste per Gramsci nella convinzione che si possa “sapere” anche nella più totale assenza di empatia, senza “sentire ed essere appassionato”, dunque a partire da un processo di distinzione, non per mezzo di una relazione organica con il “popolo-nazione” capace di comprendere le sue passioni elementari. L’intellettuale puro, espressione della storica relazione dualistica tra sapere e attività strumentale, che per Gramsci unisce figure antitetiche come Croce e Bordiga, si relaziona al popolo solo per interpretare i suoi sentimenti, non per comprenderli ed entrare in sintonia con essi per porli in relazione dialettica con una superiore concezione del mondo scientificamente e coerentemente elaborata; l’intellettuale puro si china verso il popolo solo per costruire schemi scientifici, si rapporta al popolo come lo zoologo osserva un mondo di insetti. Il sapere non si fa politica-storia senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti tra l’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio. Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è dato da un’adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra dirigenti e diretti, cioè si realizza la vita d’insieme che è la sola forza sociale, si crea il blocco storico3.

Gramsci ha parlato ripetutamente della dittatura di ferro degli intellettuali sull’insieme delle funzioni strumentali della società, una relazione dualistica talmente organica da rendere invalicabile la barriera tra dirigenti e diretti, condannando le masse a una condizione immutabile e violenta di subalternità. In essa si concentrano e riassumono tutti i rapporti di dominio e sfruttamento della società borghese, si legittimano tutti i vincoli di comando e obbedienza dell’eterna distinzione tra dirigenti e diretti. Tale dittatura esemplifica la rappresentazione interessata del sapere da parte dei ceti intellettuali: la filosofia, la conoscenza, la direzione politica sono pre-

3.

Ivi, pp. 1505-1506.

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sentate come concetti intrasmissibili ai “semplici”, un qualcosa di troppo complicato e da delegare a un sacerdozio specializzato. Conservare verso il sapere lo stesso stupore generato nel popolo da un miracolo (umanamente inspiegabile) era funzionale alla difesa dello stato di cose esistenti e dei suoi equilibri sociali passivi. L’intera biografia intellettuale e politica di Gramsci si origina e rimane strettamente vincolata a un problema storico: togliere dalle spalle dei “semplici” il peso non più sopportabile della subalternità politica connessa allo sfruttamento e conseguenza del dominio dell’uomo sull’uomo. Una larga schiera di italiani, nel discutere di un problema, non bada a ciò che nel problema è essenziale, ma vanno spulciando i particolari più appariscenti e questi presentano come essenziali. Essi sono come quel tale cittadino, che andato in campagna a prestare patriottico aiuto ai contadini nel lavoro di trebbiatura, insaccò la pula e lasciò il grano sull’aia. Era un poeta, il buon cittadino, e la pula lo aveva ammaliato per la sua divina leggerezza, per quel soave danzare che faceva in aia sotto gli irridiscenti raggi del solleone, e anche perché le sue spalle preferivano un sacco di pula a un sacco di grano4.

Nella figura di Antonio Gramsci convivono esigenze e prospettive differenti, ma l’insieme della sua produzione teorica si sviluppa in un quadro di profonda continuità. Ciò non significa che egli rimanga sempre identico a sé stesso, al contrario, su molte questioni il suo ragionamento si sviluppa, diviene più complesso, intraprende nuove direzioni, muta alcuni giudizi iniziali. Il Gramsci dei Quaderni non può essere sovrapposto pedissequamente al giovane direttore de L’Ordine Nuovo, o al dirigente comunista, perché la sua elaborazione non si è sviluppata in una condizione di fissità intellettuale priva di evoluzioni. Detto questo, non esiste una contrapposizione tra un Gramsci politico e un Gramsci “uomo di cultura”, né si può parlare di una presunta frattura ideologica nella sua produzione intellettuale, tanto da individuare un prima e un dopo. Gramsci nella sua esistenza è stato un giovane rivoluzionario, un dirigente politico e un teorico: tuttavia, questa tripartizione può avere senso solo per darci una mano a organizzare cronologicamente le differenti fasi del-

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la sua vita. Nelle riflessioni dei Quaderni Gramsci non rinnegò i suoi ideali di gioventù; alla stessa maniera, l’indomabile necessità di indagine teorica, tipica delle note del carcere, ha caratterizzato tutta la sua esistenza, anche quando fu un giovane rivoluzionario o il dirigente politico del movimento comunista internazionale.

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