Antonio Gramsci (1891-1937). L'eroismo della ragione

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Domenico A. Cassiano

ANTONIO GRAMSCI (1891-1937)

L’EROISMO DELLA RAGIONE

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Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy Stampato in Italia nel mese di gennaio 2021 per conto di Pellegrini Editore Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it E-mail: [email protected]

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……………………….. E, da questo paese in cui non ebbe posa La tua tensione, sento quale torto qui nella quiete delle tombe - e insieme quale ragione – nell’iniqua sorte nostra – tu avessi stilando le supreme pagine nei giorni del tuo assassinio… P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci

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1.  Le radici calabro-albanesi della famiglia Gramsci

1.  Le radici calabro-albanesi della famiglia Gramsci

La famiglia Gramsci, benché di indubbia origine albanese, emigrata in Calabria tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, a differenza delle altre numerose famiglie albanesi, subì un processo di progressiva italianizzazione e di assimilizzazione ai gruppi linguistici indigeni italiani o calabresi, smarrendo progressivamente, attraverso le generazioni susseguitesi, la memoria storica delle proprie origini. Tanto è avvenuto perché la famiglia Gramsci o quella parte della famiglia Gramsci, stabilitasi a Plataci, nel Pollino, a ridosso del mare Jonio, pur essendo riuscita a costituire un rilevante patrimonio fondiario, non si accontentò di vivere con la rendita fondiaria, ma tentò la fortuna entrando nell’esercito napoletano, nel quale non pochi suoi membri ricoprirono cariche elevate, come, per esempio, il nonno di Antonio, Gennaro, che fu ufficiale dell’esercito borbonico ed alla scomparsa del regno borbonico, fu inglobato come ufficiale nell’esercito dell’Italia appena unificata1. Fu, così, che si estraniò da Plataci e dalle sue turbolente vicende risorgimentali che videro schierate – anche in armi – su posizioni antiborboniche la stragrande maggioranza delle famiglie rural-borghesi del paese2. In una sua lettera dalla casa penale di Turi del 12 ottobre 1931 alla cognata Tatiana Schucht, Antonio Gramsci, dopo avere sottolineato il proprio disinteresse per la questione delle razze, fuori

Mario Brunetti, Le origini di Gramsci, in “Sinistra Meridionale”, Cosenza, n. 24/25/1997; M. Brunetti e G.C. Siciliano, ivi, n. 15-16/1997. 1 

2  Domenico Cassiano, Il Risorgimento in Calabria Figure e pensiero dei protagonisti italo-albanesi, ed, Marco, Lungro, 2003.

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dall’antropologia e dagli studi preistorici, afferma: “io stesso non ho nessuna razza; mio padre è di origine albanese recente (la famiglia scappò dall’Epiro dopo o durante la guerra del 1821 e si italianizzò rapidamente); mia nonna era gonzalese (discendeva da qualche famiglia italo-spagnola dell’Italia meridionale, come ne rimasero tante altre dopo la cessazione del dominio spagnolo); mia madre è sarda e per il padre e per la madre… Tuttavia la mia cultura è italiana fondamentalmente e questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi, sebbene ciò sia stato scritto nel “Giornale d’Italia” del marzo 1920… L’essere io oriundo albanese non fu messo in gioco perché anche Crispi era albanese e parlava albanese”3. Nel Gramsci di Salvatore Francesco Romano (1965) si parla genericamente dei primi anni e mesi di vita del piccolo Antonio, “simili a quelli di migliaia di nati di povera gente”, con la sua particolarità “dell’intreccio etnico… per avere un padre appartenente ad una famiglia albanese”, riproponendo, così, sostanzialmente il contenuto generico della citata lettera gramsciana4. Relativamente alla modestia dell’estrazione sociale, si tratta di una vera e propria favola e di un errore in cui sono incorsi molti biografi. I Gramsci, invece, appartenevano a quella borghesia rurale meridionale, segnatamente calabro-albanese o arberisca perché – come sarà chiaro in seguito – essi, approdati in Calabria dal Peloponneso nel quindicesimo o nel corso del sedicesimo secolo, già nel Settecento avevano raggiunto una ragguardevole posizione economica ed un sicuro prestigio sociale. Nelle narrazioni biografiche – suggeriva lo stesso Gramsci – occorre curare “l’importanza dei particolari” perché essa “è tanto più grande quanto più in un paese la realtà effettuale è diversa

3 

A. Gramsci, Lettere dal carcere, Milano, 2010, pp. 167-170.

4 

Salvatore Francesco Romano, Gramsci, Torino, 1965, pp. 9-10.

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dalle apparenze, i fatti dalle parole, il popolo che fa dagli intellettuali che interpretano questi fatti”. Il racconto dei casi particolari di una vita rende possibile la comprensione del suo “sbocco”. Il dato biografico o, comunque, tutto ciò che strettamente vi attiene, riveste “un grande valore storico” dal momento che si riferisce e comprende “non tanto avvenimenti autobiografici o biografici in senso stretto (sebbene anche questi non debbano mancare) quanto esperienze civili e morali, nel senso etico-politico, strettamente connesse alla vita e ai suoi avvenimenti considerate nel valore universale e nazionale”. Nella Vita di Antonio Gramsci di Giuseppe Fiori5, non si rinvengono specifiche e particolari notizie della famiglia, anche se ne è smentita l’umiltà della condizione sociale. Erroneamente Gennaro Gramsci, fratello di Antonio, ricorda “un Gramsci grecoalbanese, nostro bisnonno, fuggito dall’Epiro dopo i moti del 1821. Gli nacque in Italia un figlio, Gennaro, dal quale ho preso il nome. Questo Gennaro, nostro nonno, era colonnello della Gendarmeria borbonica. Sposò una Teresa Gonzales: lei figlia di un avvocato napoletano, discendeva da qualche famiglia italo-spagnola dell’Italia Meridionale… Ebbero cinque figli: papà era l’ultimo; nacque a Gaeta nel marzo 1860… finito il regime borbonico, nonno venne inquadrato nell’Arma dei Carabinieri, sempre col grado di Colonnello. Morì giovane. Dei cinque figli, l’unica femmina aveva sposato un Riccio di Gaeta, ricco signore; poi, uno era funzionario al Ministero delle Finanze, uno ispettore alle ferrovie, dopo essere stato capostazione di Roma, ed un terzo, lo zio Nicolino, ufficiale dell’esercito. Papà fu il meno fortunato: alla morte del padre, studiava legge. Dovendosi trovare un lavoro, ecco l’occasione dell’impiego in Sardegna, all’Ufficio del Registro di Ghilarza… Quella di nostro padre era, dunque, la tipica fami-

5 

Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, ed. Laterza, Bari, 1966.

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glia meridionale di buona condizione che, alla burocrazia statale, forniva i quadri intermedi”. Il cognome Gramise, Gramisci o Gramsci si riscontra, per la prima volta, tra quegli albanesi che, nella seconda metà del secolo XV, abbandonarono “alla spicciolata” la Morea o sue località non specificamente identificate per sfuggire all’invasione musulmana e sbarcare nelle coste della Calabria jonica. Si trattava di alcune migliaia di “arvanites” o di greco-albanesi, che erano poi i discendenti di quegli albanesi i quali, qualche secolo prima, avevano lasciato l’Epiro per cercare migliore fortuna in Grecia, nel Peloponneso. Approdati nelle coste calabresi del mare Jonio, i profughi vagarono per le terre, per lo più in mano dei baroni, parassitari latifondisti; dopo un periodo di nomadismo, trovarono stabile dimora nelle capanne di villaggi, resi deserti dalla carestia, dalle pestilenze o dai terremoti, venendo, così, a costituire un provvidenziale serbatoio di manodopera per i locali feudatari, laici o ecclesiastici6. Persone che portavano il cognome “Gramsci” si trovano, per la prima volta, in Calabria ed, esattamente, in Lungro, nella seconda metà del Cinquecento e nel corso della prima metà del secolo seguente. Quando il feudatario, nel 1532 e nel 1545, dispose di procedere alla “numerazione” dei “fuochi”, secondo le puntuali ricerche d’archivio dello Zangari, nel casale di Lungro, che contava 77 fuochi nel 1532 e 149 nel 1545, tra i cognomi si rinviene anche un Gramise accanto a numerosi altri: Baccaro, Bavasso, Bellezze, Belluscio, Burrelce, Conte, Cortese, Crisius, Cucchio, Cucchia, e Cuccia, Danese o Damese, De Alfano ed altri ancora, con la prevalenza dei cognomi Baccaro, Cortese, De Marco e Matino7.

Domenico A. Cassiano, Storie di minoranze Albanesi di Calabria, Vaccarizzo, ed. BookSprint, Salerno, 2017. 6 

7 

Domenico Zangari, Le colonie italo-albanesi di Calabria Storia e demografia secoli XV-XIX,

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Nella numerazione del 1643, i fuochi risultarono essere aumentati fino a 382 con una popolazione complessiva di 715 abitanti, tra i cui cognomi (Arari, Baccaro, Baffa, Bavasso, Camideca, Candreva Cucia, Danese, Dorsa, Elmo, Frega, Matano, Reres, Scura o Sgura…) continua a comparire quello dei Gramisci. In epoche successive, tale cognome comparirà anche nei villaggi albanesi, posti alla sinistra della Valle del Crati e, più tardi, in Plataci. A proposito dei cognomi dei profughi, occorre avvertire – come ha osservato acutamente Paolo Petta (1942-1999) – che l’onomastica è “un mistero”. Perché “i cognomi albanesi del 1500, infatti, non erano nomi di famiglia, attribuiti – come lo sono oggi i nostri cognomi – sulla base di regole precise. Essi erano in certi casi nomi di clan… comuni a numerosissime famiglie e corrispondenti di regola a un toponimo; in altri casi erano soprannomi, che potevano non essere ereditari ma venire attribuiti, viceversa, ad individui non appartenenti alla stessa stirpe, ed in altri e numerosi casi, erano secondi nomi, o secondi cognomi, adottati dall’interessato per ricordare una lontana parentela in linea femminile. Non era raro, in ogni caso, che un cognome diventasse, in un lontano parente, nome di battesimo… Non dimentichiamo, comunque che anche nel mondo balcanico, come in quello italiano, era cosa normale che il cognome di un signore fosse portato dai suoi protetti, dai suoi domestici, dai suoi contadini, e magari dagli schiavi turchi battezzati e liberati. È, quindi, estremamente improbabile, per fare solo un esempio, che il contadino Serafino Lascari, di Piana degli Albanesi, ucciso a Portella Delle Ginestre nella strage del 1° maggio 1947, discendesse dalla grande famiglia bizantina, da cui erano usciti imperatori e umanisti… il cognome Tocci… certamente richiama quello dei Tocco, che non erano affatto albanesi, ma nei loro domini di Levante – che fra il

ristampa, Farneta, 1974, pp. 21 e seg.: D. Cassiano, Storie di minoranze…cit., pp. 263 e seg.

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XIV e XV secolo si estesero dalle isole jonie dalla Grecia Nordoccidentale alla costa del Peloponneso – ebbero numerosi sudditi e soldati albanesi. Allo stesso modo, il cognome Crispi, che appartenne al più famoso statista italo-albanese, richiama quello della famiglia veronese dei Crispo, che dopo la quarta Crociata ebbe feudi a Negroponte e nell’Egeo, e che ricorse a nuclei di albanesi della Morea per ripopolare l’isola di Ios”8. Con ogni probabilità, il cognome Gramsci era portato da persone, emigrate qualche secolo prima nella Morea dalla omonima località epirota, tuttora esistente e che l’assunsero in ricordo del sito di provenienza. Tra gli albanesi di Plataci, il cognome Gramsci comparirà molto tardi. Né è possibile determinarne con esattezza l’epoca a causa della carenza della documentazione d’archivio, andata distrutta nel 1943 in un bombardamento aereo di Napoli in cui fu distrutta o irreparabilmente danneggiata quella parte dell’Archivio di Napoli contenente anche la documentazione relativa alla numerazione dei fuochi arberischi. Verso la fine del Settecento, in un atto notarile di compravendita, rogato dal notaio Troiano di Plataci nel corso del 1792, compaiono due Gramsci, don Nicola e la sorella Margherita. Il primo è proprietario del fondo rustico, sito alla località La Manca di San Pietro, coltivato a vigneto, pervenutogli precedentemente per successione dal padre Gennaro Gramsci. Tale fondo viene venduto, in virtù del richiamato atto notarile, alla sorella Margherita9.

8 

Paolo Petta, Despoti d’Epiro e prìncipi di Macedonia, ed. Argo, Lecce, 2000, pp. 18-19.

Giuseppe C. Siciliano, Le radici di Gramsci riscoperte a Plataci, in “Calabria”, mensile del Consiglio Regionale della Calabria, maggio 1998; M. Brunetti, op. cit.. Ebbe una certa rinomanza Gramisci Salvatore, nato a Plataci nel 1881 e deceduto a Trebisacce il 1966, inventore, che partecipò all’Esposizione Internazionale di Parigi e vi ottenne una medaglia d’oro con diploma e membro della Giurìa d’Onore. Durante la prima guerra mondiale, inventò per lo Stabilimento Ausiliario di Stato, che fabbricava proiettili, un sistema che aumentava la produzione di sette volte. Fu insignito del titolo di Cavaliere

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Il secondo atto notarile è del 27 aprile 1820; risulta redatto dal notaio napoletano Zeno e trascritto dal notaio Bellusci di Plataci. Con esso, il summenzionato Don Nicola Gramsci disponeva la costituzione in dote di alcuni suoi beni immobili in favore della figlia, Donna Marianna Gramsci, in occasione del matrimonio della stessa col tenente dell’esercito borbonico, Don Gaetano Moreno10. I ricordi di Antonio e di Gennaro Gramsci non vanno oltre il nonno Gennaro, “colonnello della Gendarmeria borbonica”, successivamente inquadrato, alla caduta del Regno di Napoli, nell’Arma dei Carabinieri. Ed il ricordo è esatto: quel Gennaro Gramsci, padre anche di Francesco, la cui memoria appare, nei nipoti, come avvolta nel mito e nella leggenda, era proprio figlio di Don Nicola Gramsci, che compare nei citati atti notarili. Lo “zio Nicolino” – del quale riferisce a Giuseppe Fiori il maggiore dei Gramsci, Gennaro – non può essere identificato col Don Nicola Gramsci surriferito, nato a Plataci il 31 dicembre 1769 da Gennaro Gramsci e da Domenica Blaiotta e deceduto a Portici il 17 settembre 1824. Pure Don Nicola era ufficiale dell’esercito borbonico e naturalmente si era dovuto trasferire a Napoli per ragione del servizio militare. Egli aveva contratto matrimonio con Donna Maria Francesca Fabbricatore “della terra di Altimonti, Diocesi di Cassano”. Da tale matrimonio, era nato a Plataci, nel 1810, Gennaro Gramsci, padre di Francesco e nonno di Antonio, al quale – secondo l’universale e consolidata tradizione meridionale – era stato imposto il nome del nonno paterno11. Anche Gennaro Gramsci, così come il padre Nicola, venne av-

del Lavoro della Repubblica Italiana (cfr. in G. Laviola, Dizionario biobliografico degli ItaloAlbanesi, Cosenza, 2006, ad vocem). 10 

Ivi.

11 

G.C. Siciliano, op. cit.

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viato alla carriera militare. Lo confermano ampiamente le carte d’archivio, dalle quali apprendiamo che prestò servizio “dapprima a Cosenza e successivamente a Gaeta, da dove viene inviato dai Borbone a difendere la città di Castrovillari durante i moti insurrezionali del 1848”. Gennaro Gramsci aveva sposato Donna Teresa Gonzales, figlia di un noto avvocato napoletano. Da questo matrimonio era nato a Gaeta il 6 marzo 1860 l’ultimo dei figli, Francesco, padre di Antonio e di Gennaro. Ed a Gaeta – come risulta dagli atti di morte dello Stato Civile di quel Comune – l’8 giugno 1873, “nella casa di contrada Vescovado, alle ore undici e mezza pomeridiane, è morto il Signor Cavaliere Gramsci Gennaro, marito di Donna Teresa Gonzales, di anni sessantuno (ma ne aveva, invece, sessantatre, essendo nato nel 1810! Ndr), Maggiore a riposo di Gaeta, figlio di Nicola e di Fabbricatore Maria”12. Questo era il nonno Gennaro, che “morì giovane” e che era stato – come scrive Antonio Gramsci – colonnello della Gendarmeria borbonica e probabilmente fu tra quelli che arrestarono lo Spaventa antiborbonico e fautore di Carlo Alberto”. Lo “zio Nicolino” era uno dei figli di Gennaro Gramsci che, come il padre e l’avo paterno Nicola, era stato avviato alla carriera militare e, da ufficiale, era stato, a Caserta, anche istruttore di Vittorio Emanuele III. La famiglia Gramsci era una delle tante famiglie di origine albanese che, dopo il loro insediamento in Calabria tra il XV ed il XVI secolo, era riuscita a crearsi una consistente posizione economica mediante l’acquisizione progressiva di notevoli appezzamenti di terreno. La conquistata agiatezza le conferiva naturalmente quel prestigio sociale sufficiente a consentirle di essere inclusa nel ristretto gruppo di famiglie che formavano, allora, la

12 

Ivi.

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classe egemone e dirigente del villaggio13. Il fondo rustico, sito nella località di “Manca di San Pietro”, che Don Nicola Gramsci cede alla sorella Donna Margherita, nel 1792, e che faceva parte del compendio ereditario paterno, costituisce una circostanza di qualche rilevanza perché sta ad indicare che anche i Gramsci, come buona parte delle famiglie, oriunde albanesi, pervenute in Calabria povere e nude come Giobbe, si fecero una piccola o grande fortuna economica con l’occupazione di quozienti di terreno in danno dei locali latifondisti, perlopiù, parassitari e neghittosi. Nella “Manca di San Pietro”, infatti, il sottoproletariato di Plataci trovava l’unica fonte di sostentamento col solo esercizio inizialmente della pastorizia e della caccia. Successivamente i Platacesi effettuarono una pertinace e sistematica azione di disboscamento e di trasformazione agraria, eseguendo violente occupazioni di terreno per impiantarvi oliveti, vigneti, ficheti e gelseti, utili all’allevamento del baco da seta, sanguinosamente scontrandosi anche con le altre popolazioni finitime. La famiglia Gramsci, però, al contrario di quanto all’epoca avveniva solitamente per le famiglie rural-borghesi albanesi, schierate con i suoi intellettuali col movimento illuministico-riformatore meridionale14, se ne tenne in disparte; anzi – come dimostrarono i fatti del 1848 – difese il governo borbonico, meritandosi anche qualche ricompensa militare. Il “nonno Gennaro”, a Castrovillari, nel giugno del ’48, combattè contro i volontari, guidati da Domenico Mauro (1812-1873) nella disperata difesa del goverDomenico A. Cassiano, Strigàri Genesi e sviluppo di una comunità calabro-arbreshe, ed. Marco, Lungro, 2004, pp. 163-182; Guglielmo Tocci, Notizie storiche e documenti relativi ai Comuni di San Giorgio, Vaccarizzo, San Cosmo, Macchia, San Demetrio Appendice alle Due memorie sulle questioni di scioglimento di promiscuità con Acri, Cosenza, 1865, pp. 134 e seg.

13 

14  Gaetano Cingari, Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799, ad vocem, Reggio Calabria, 1978.

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no provvisorio, che, in gran numero, erano albanesi di Spezzano, San Demetrio, Vaccarizzo, San Cosmo e dello stesso suo paese, Plataci15. La scelta della carriera militare aveva ovviamente avuto come conseguenza l’allontanamento dei Gramsci dal villaggio natìo e la definitiva residenza in Napoli e dintorni e tanto può averli portati a scelte politiche diametralmente opposte a quelle della generalità dei gruppi dirigenti albanesi, ove, anche per la notevole influenza esercitata dalla scuola laica di San Adriano, giudicata dalla polizia borbonica una pura “cattedra di sovversione”, il movimento antiborbonico era di gran lunga maggioritario, con solide basi anche nella piccola borghesia e nei ceti subalterni16. Ma, ancora ai primi del Novecento, la posizione economica della famiglia Gramsci o, meglio, di quella parte di essa che era rimasta a Plataci, era di tutto rispetto. Essa era, nel 1905, tra i maggiori contribuenti platacesi. In quell’anno, infatti, la Giunta Municipale compilava “l’elenco dei maggiori contribuenti che dovranno procedere in una col Consiglio alla nomina della Commissione Censuaria Comunale”. In quell’elenco, che consta di quindici proprietari, vi figura Emanuele Gramsci17. E ciò rivestiva una particolare importanza se si tiene conto della generale situazione di precarietà delle condizioni di vita della popolazione platacese, costretta a vivere – come scriveva il deputato socialista Giulio Casalini in un articolo sull’Avanti! del 1909

Domenico Cassiano, Processo del 1857ai patrioti di Sam Demetrio…., ed. Il Coscile, Castrovillari, 2009, pp. 5-26.

15 

D. Cassiano, Il Collegio di San Adriano e il Risorgimento in Calabria, ed. Comune di San Demetrio Corone, 2013.

16 

Vittorio Cappelli, La rivolta di Plataci (9 novembre 1909), in Immigrati, moschetti e podestà Pagine di storia sociale e politica nell’area del Pollino (1880-1943), ed. “Il Coscile”, Castrovillari, 1995, pp. 123 e seg.; Mario Brunetti, La piazza della rivolta microstoria di un paese arbresh in età giolittiana, ed. Rubbettino, 2003. 17 

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– in un territorio esteso, ma aspro, ingrato. Da ciò sembrerebbe doversi capire come non abbiano potuto sorgere grandi ricchezze ed affermarsi estesi possedimenti. Le famiglie agiate si contano sulla punta delle dita. “La grande massa della popolazione è fatta da piccoli proprietari che hanno un canto di terra, una casupola e contendono, con una lotta quotidiana, un po’ di grano, un po’ di uva, un po’ di olive, più in basso, al terreno, commisto dal loro sudore”18. Francesco Saverio Nitti, nella sua Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria (1910), pur rilevando, a Plataci, l’inesistenza di fondi rustici superiori ai duecento ettari, vi registrava, però, la presenza egemonica di ventotto proprietari terrieri, che erano, poi, dei rentiers, a fronte dei 521 piccoli e medi proprietari19. La svolta nella famiglia Gramsci o, quanto meno, in un ramo della stessa avviene con l’avviamento alla carriera militare di Nicola, arruolato nel Reggimento Real Macedone, nel gennaio del 1795, e che morirà a Portici “nell’anno milleottocentoventiquattro alle diciassette di settembre”. Don Nicola, trasferitosi nella Capitale del Mezzogiorno, di fatto abbandonerà il paese natìo, facendovi probabilmente saltuarie apparizioni per sistemarvi i suoi interessi economici, unicamente legati a quei beni fondiari, pervenutigli dalla eredità paterna, tra i quali – come si è detto – quella “vigna nel luogo denominato “La Manca di San Pietro, fra gli altri suoi beni lasciatigli dal fu suo padre Gramsci Gennaro”. Sembrerebbe logico dovere dedurre che, con la vendita del compendio fondiario ereditato, almeno questo ramo della famiglia Gramsci si sia progressivamente allontanato ed estraniato

Giulio Casalini, Nell’Italia irredenta. Viaggio a Plataci dopo la rivolta in “Avanti!”, 15-19-25 dicembre 1909; v. anche in V. Cappelli, op. cit., pp. 155-168. 18 

F. Saverio Nitti, Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Calabria e in Basilicata, II, Bari, 1968, pp. 186 e seg..

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da Plataci, integrandosi e, forse, assimilandosi tra i ceti elevati o medio-alti della società napoletana dell’epoca. Tale processo di allontanamento e di estraneazione dalla originaria minoranza linguistica calabro-albanese è sicuramente continuato con Gennaro Gramsci, figlio di Nicola e nonno paterno di Antonio, ufficiale dell’esercito borbonico e, dopo l’Unità, passato, pure come ufficiale, nell’Arma dei Carabinieri. Il grado di estraneazione dalla comunità albanofona calabrese di Plataci era tale che – come evidenziano chiaramente le Lettere dal carcere – i Gramsci, dopo essersi rapidamente italianizzati, hanno conservato un men che vago e generico ricordo della propria ascendenza. Del nonno Gennaro sanno solo che era nato in Italia da un non meglio identificato “Gramsci greco-albanese, nostro bisnonno, fuggito dall’Epiro durante o dopo i moti popolari del 1821”. Il che non è accaduto in altri non meno ragguardevoli casi, antichi e recenti. Lo stesso Antonio Gramsci ricorda Francesco Crispi, “educato in un collegio albanese e (che) parlava albanese”; il quale, in effetti, orgogliosamente ha rivendicato la sua origine arberisca in un telegramma alla Presidenza del primo congresso linguistico italo-albanese, tenutosi a Corigliano Calabro nell’ottobre 1895, dichiarandosi “albanese di sangue e di cuore”. Questa origine del Crispi venne esageratamente strumentalizzata nel corso di polemiche politiche fino al punto che Giuseppe Sergi arrivò a scrivere addirittura che “Crispi era di nazione albanese, portava ancora l’eredità selvaggia di quella nazione, aveva la tendenza brigantesca e riusciva bene nelle congiure e nei misteri di queste…”20. Il costituzionalista Costantino Mortati, benché costretto per ragione del suo ufficio a vivere lontano dalla sua piccola patria

20  L’espressione di Sergi a proposito di Crispi è tratta da Saverio Cilibrizzi, Storia parlamentare politica e diplomatica d’Italia, vol. II, Milano, 1925, pp. 589-590.

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arberisca di Civita, ne sentì sempre la struggente nostalgia. In una lettera ai soci del circolo culturale “Gennaro Placco” di Civita, scriveva che “l’amore del natìo loco e la prospettiva di venire a contatto con giovani entusiasti e pieni di ansia di rinnovamento mi inducono a non farmi sfuggire l’occasione di accettare il cortese invito…”. E ancora aggiungeva che “il Circolo di Cultura rievoca il ricordo del mio povero Padre che era orgoglioso della sua patria Civitese”21. I Gramsci, come si è già rilevato, della loro minipatria culturale di Plataci non fanno mai parola e, stando al ricordo di Antonio, ritengono che il nonno Gennaro, dopo essersi battuto per l’indipendenza greca, sia stato costretto a rifugiarsi nel regno di Napoli, ove si è sposato. Nessuno dei Gramsci ha mai ricordato Plataci, luogo di nascita dei loro antenati, di Don Nicola e del figlio Gennaro, tanto che il luogo d’origine è rimasto, per lungo tempo, sconosciuto, fino a quando, recentemente, non sono stati rinvenuti i richiamati atti notarli di compravendita. È, forse, l’unico caso di una famiglia arberisca che non ricordi il proprio villaggio o katund. Si può avanzare qualche ipotesi. I Gramsci effettivamente erano fuori e si tennero del tutto estranei al particolare ed effervescente clima politico-culturale degli albanesi di Calabria, che costituivano con i loro intellettuali una sorta di avanguardia del movimento democratico-repubblicano nel Risorgimento ed erano protagoniste nelle battaglie per la libertà ed in tutte le lotte progressiste del Mezzogiorno22. Fedeli alla monarchia regnante, essi erano distanti, anzi in opposizione, alla teoria ed alla prassi liberali. E questo era certaDomenico Cassiano, Fascismo e antifascismo nella Calabria albanese, ed. “Ist. Calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea” (ICSAIC), Cosenza, 2016, pp. 204-205.

21 

Nino Cortese, Il Mezzogiorno ed il Risorgimento italiano, Napoli, Libreria scientifica editrice, s.d., pp. 75-76.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

mente motivo sufficiente per raffreddare progressivamente le relazioni ed i rapporti con gli albanesi di Calabria, compresi i loro compaesani di Plataci, in fama di giacobini, ribelli, sempre pronti a tutte le insorgenze. Gennaro Gramsci, ufficiale in servizio nel regio esercito borbonico nel 1848, nel giugno dello stesso anno, “fu – come attesta l’Archivio Militare borbonico – nella spedizione della Calabria”, particolarmente solerte, a Castrovillari, nella repressione degli insorti e di quei corpi di volontari, per lo più albanesi, compresi i suoi compaesani di Plataci, che combattevano in difesa della libertà; per tale sua condotta si guadagnò la “Croce dell’Ordine di San Giorgio… per essersi distinto contro i rivoltosi calabresi il 27 giugno 1848”. I Gramsci di parte borbonica non dovevano sicuramente godere della solidarietà e delle simpatie della stessa borghesia rurale e degli intellettuali locali, con i quali certamente aspro era il contrasto politico, che, non rare volte, come accade nei piccoli centri e nei paesi, divide le stesse famiglie e diventa motivo di astio e di personali rancori. Oltretutto, essi erano, in qualche modo, addirittura obbligati a dimenticare Plataci ed a tacere della loro origine calabro-arberisca in considerazione della conosciuta e temuta ostilità delle popolazioni albanesi contro la monarchia, la cui popolazione contadina aveva dato il massimo contributo ai moti del ’44 e che sarà ancora in prima linea nel ’48 e successivamente. Di Plataci era il giovane sacerdote di rito greco Angelo Basile (1813-1850) che, a Napoli, nel ’48, capeggiava la rivoluzione ed attraversava le vie di Napoli alla guida di una doppia fila di studenti, sventolando la bandiera tricolore, anche attraverso i vicoli e le viuzze della “città bassa”, popolata dal sottoproletariato dei lazzaroni, che venivano costretti a salutare e baciare il vessillo tricolore23.

23  Giovanni Laviola, Dizionario biobibliografico degli italo-albanesi, Cosenza, 2006, ed. Brenner, p. 23. Anche Girolamo de’ Rada ricorda nella sua autobiografia (ed. Rubbettino,

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1.  Le radici calabro-albanesi della famiglia Gramsci

Bisognava, perciò, dimenticare la Calabria, i calabresi e gli albanesi, perché ivi più che nel resto del regno borbonico, prevalevano le correnti democratiche sovversive ed estremiste, “I radicali – come ha già sottolineato il Della Peruta – prevalgono soprattutto nelle provincie di Cosenza e Catanzaro… numerosissimi i moti demaniali; e particolarmente legati ai radicali sono le popolazioni contadine di lingua albanese, che avevano dato il massimo contributo ai moti del 1844 e che ancora nel ’48 sono in prima linea”. Di questo radicalismo calabrese, Napoli ebbe un efficace esempio proprio nella tragica giornata del 15 maggio. Malgrado le feroci repressioni e condanne alla pena capitale (a Cosenza ne furono emanate 14 a morte e 150 ai ferri; a Catanzaro 5 a morte e 133 ai ferri; l’ottusa ferocia portò anche alla condanna di un giovane barbiere reggino perché trovato in possesso dei “Canti” del Leopardi, ritenuti immorali, offensivi della religione e del buon costume), non cessarono le congiure ed i complotti. Furono proprio gli albanesi che, con l’attentato al re Ferdinando II, compiuto da Agesilao Milano, ex alunno del Collegio sandemetrese di S. Adriano, nel dicembre del 1856, smossero le acque della “morta gora” napoletana tanto da fare scrivere a Carlo Pisacane che “il lampo della baionetta di Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti da dottrinari”24. Erano queste, nel loro insieme, sufficienti motivazioni per indurre Gennaro Gramsci ad interrompere ogni suo rapporto col paese d’origine e con la Calabria. La tradizione politica dei Gramsci, da Don Nicola fino al figlio Gennaro ed ai figli di quest’ultimo, compreso Francesco, padre vol. VIII, pp. 116-117), il Basile, già suo “compagno di collegio” in San Adriano, che, il 15 maggio ’48, era “alla testa della giovinaglia, alla quale sovrastava del capo nell’abito maestoso di sacerdote greco, il mio compagno di Collegio traeva a sé fino a sera gli sguardi per le vie che percorrevano”. 24 

Domenico Cassiano, Storie di minoranze…, cit., pp. 192-226.

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di Antonio, era chiaramente conservatrice e borbonica e, quindi, diametralmente opposta a quella liberale, democratica e progressista, prevalente nel piccolo, ma ribollente mondo degli albanesi di Calabria, protagonisti di ribellioni, congiure ed insurrezioni, di colpi di testa individuali e di attentati. Tale circostanza è confermata dallo stesso Antonio Gramsci, che nelle Lettere dal carcere ha ricordato come il nonno Gennaro “era proprio colonnello della gendarmeria borbonica”, forse un po’ egli stesso meravigliandosi. Certamente non era a conoscenza che proprio il nonno Gennaro, nel giugno del 1848, tra Campotenese e Castrovillari, a un tiro di schioppo da Plataci, aveva contribuito, al comando delle truppe borboniche, a fiaccare la resistenza degli studenti, dei contadini e degli intellettuali albanesi, compresi i suoi compaesani, che, sotto la guida del poeta romantico sandemetrese e deputato all’Assemblea legislativa di Napoli, Domenico Mauro25, tentavano di difendere fino alla morte l’incerta vita del governo provvisorio calabrese. Ed a Campotenese – come scrive un testimone di quei fatti eroici e disperati – fu proprio un compaesano del Gramsci, Pietro Chidichimo Zecca che, nella notte antecedente la disfatta, “prese a cantare il Cristòs anésti (Cristo è risorto, n.d.R.). A quel canto si destò tutto il campo e quanti Albanesi vi si trovavano e per il primo l’illustre D. Antonio Marchianò accorsero a fare festa ed eco ai felici evocatori di quell’inno glorioso di nostra Chiesa (di rito greco, n.d.R.). Così in quella notte il canto della Redenzione pasquale valse a ridestare gli animi affievoliti, tutto il coraggio e la speranza dei primi giorni della campagna di Campotenese”26. Quivi, nella battaglia decisiva, Gennaro Gramsci dovette assi-

Gaetano Cingari, Romanticismo e democrazia nel Mezzogiorno, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1965; D. Cassiano, Domenico Mauro (1812-1873) Letteratura e rivoluzione, ed. Libreria Aurora, Corigliano Calabro, 2015.

25 

26 

D. Cassiano, Processo dei 1857 ai patrioti…, cit., p. 13.

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1.  Le radici calabro-albanesi della famiglia Gramsci

stere agli atti di eroismo del giovane albanese di Civita, Gennaro Placco (1825-1896), raccontati in memorabili pagine da Luigi Settembrini, poi suo compagno nell’ergastolo di Santo Stefano, in cui, tra l’altro, scrive che il Placco “combattè da prode, da leone, come si combattè a Maratona col coraggio di Cinegira. Animoso, spensierato… si avanza solo, non ode chi gli grida di ritirarsi, combatte fra le palle che gli fischiano attorno… ora disteso boccone a terra, ora dietro un albero, ei solo tiene fronte a cinquanta nemici irritati e meravigliati di tanto ardire. Due soldati non visti lo assaltano di fianco, gli scaricano due fucilate, una palla gli porta via il moschetto e il dito indice della mano destra, gli vanno sopra per trapassarlo con le baionette; ma egli, benché disarmato e ferito, slanciasi, afferra con le mani le due baionette, le separa, le svia, e abbranca uno dei soldati per farsene scudo e non morire solo. Sovraggiungono gli altri, che gli danno vari colpi in testa, sulla fronte, in una natica; e l’avrebbero disonestamente ucciso, se un caporale da lui ferito in una gamba, non l’avesse generosamente salvato e frenato l’ira soldatesca”27. Ancora ai primi del Novecento, i figli di Gennaro Gramsci erano su posizioni politiche moderate. Giuseppe Fiore nella citata Vita di Antonio Gramsci ricorda “le lavate di testa per certa stampa sovversiva che Francesco Gramsci, inorridito, vedeva tra le mani del figlio Antonino, al quale erano inviati da Torino dal fratello maggiore Gennaro opuscoli e giornali socialisti. E da qui le dispute continue tra padre e figlio che tentava di cavarsela celiando: “È proprio vero – diceva – che discendi dai Borboni”! Le origini della famiglia di Antonio Gramsci trovano, dunque,

Giovanni Laviola, Gennaro Placco. Fiore della prigionia di Settenbrini, Lucca, 1985; L. Settembrini, Ricordanze della mia vita e scritti autobiografici, Milano, 1961; S. Groppa, Gli italoalbanesi nelle lotte dell’indipendenza, Bari, 1912; D. Cassiano, Risorgimento in Calabria…, cit., pp. 207-228. 27 

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le loro radici nella comunità albanese di Plataci. Forse per una sorta di vendetta della storia, da questa famiglia, conservatrice e borbonica, è venuto fuori un rivoluzionario comunista, certamente una delle grandi menti e dei grandi intellettuali del secolo passato, che ha lasciato un’orma profonda nella cultura italiana ed europea.

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2.  Gramsci a Torino ed il Socialismo

2.  Gramsci a Torino ed il Socialismo

Ci sono circostanze, fatti ed accadimenti, ai quali ci è dato assistere da ragazzi o nei primi anni di vita, che ci colpiscono particolarmente e non solo lasciano un’impronta indelebile nella nostra mente, ma essi concorrono a determinare od a fare sorgere la nostra scelta di campo, la nostra scelta morale, che più tardi, con la maturità, diventerà politica e troverà le sue giustificazioni teoriche e logico-dialettiche. Tre personaggi, tra loro diversi, ma in qualche modo convergenti, della storia italiana del secolo passato, Ignazio Silone, Costantino Mortati e Antonio Gramsci, ce ne danno un esempio probante. Tale genesi remota nel tempo e poi col tempo consolidatasi, è icasticamente espressa in Uscita di sicurezza1 da Ignazio Silone che, alla fondazione del Partito Comunista di Livorno nel 1921, partecipò in rappresentanza della gioventù socialista per esprimere l’adesione alla nuova formazione politica comunista, in grande parte orientata decisamente, sin dagli inizi della prima guerra mondale, alla critica radicale della socialdemocrazia riformista. “Ma non è facile però descrivere che cosa fosse allora la coscienza politica della maggioranza di noi; lo stesso termine di coscienza politica è eccessivo, per la prevalenza di elementi psicologici primitivi. Eravamo semplicemente in rivolta contro tutto e tutti. Ciò che sublimava le tendenze infantili e nevrotiche della nostra ribellione era l’immensa speranza accesa dalla Rivoluzione russa”. Ricorda ancora Silone che, in un’altra circostanza volendo 1 

Ignazio Silone, Uscita di sicurezza, ed. Longanesi, Milano, 1965, pp. 62-63.

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spiegare i motivi della sua adesione al socialismo zimmerwaldiano, in piena guerra, quand’era ancora studente del liceo, “dovetti, di gradino in gradino, risalire con la memoria alla prima adolescenza e menzionare perfino qualche episodio dell’infanzia, per ritrovarvi le più lontane origini della mia rivolta che, più tardi, assumendo forma e portata politica, doveva necessariamente rivelarsi estremista. Non è vanteria. A diciotto anni, e in tempo di guerra, difficilmente si entra in un movimento rivoluzionario perseguitato dal governo, per motivi futili o d’opportunità. Ma, al diavolo la psicologia e le facili suggestioni. È più sicuro cercare di ricostruire l’itinerario su un’esistenza dal di fuori”. Tale itinerario esterno lo porta al luogo di nascita e, cioè, in “un comune rurale dell’Abruzzo, in un’epoca in cui il fenomeno che più m’impressionò, appena arrivato all’uso della ragione, era un contrasto stridente, incomprensibile, quasi assurdo, tra la vita privata e familiare, ch’era, o almeno così appariva, prevalentemente morigerata e onesta, e i rapporti sociali, assai spesso rozzi, odiosi, falsi… non intendo riferirmi ad avvenimenti clamorosi, sibbene ai piccoli fatti della vita quotidiana, monotoni banali usuali, in cui si manifestava quello strano doppio modo di essere… e ogni tanto non mancavano fattacci in cui il disprezzo diventava scandalo, per chi non vi era abituato”. Similmente Costantino Mortati (1891-1985), il futuro e famoso costituzionalista, di famiglia borghese calabro-albanese, figlio del regio Pretore di Corigliano Calabro, Tommaso, negli anni del liceo in S. Adriano di San Demetrio Corone, scopre le grame condizioni di vita dei ceti subalterni ed, in un infuocato articolo, pubblicato su La Giovane Calabria significativamente il 1° maggio 1910, lancia un appassionato appello ai lavoratori calabresi per esortarli al risveglio, all’associazione ed alla lotta per vincere “il doloroso spettacolo dell’apatìa del popolo calabrese che sembra non avere coscienza dei tempi né fede in sé stesso e che pare rassegnato ai 26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

2.  Gramsci a Torino ed il Socialismo

mali di cui si lagna”2, così preannunciando in quelle tesi giovanili i principi fondamentali di lavoro, libertà, giustizia e di democrazia, che poi, da Costituente, avrebbe sostenuto e che sarebbero entrati a fare parte della nostra Costituzione Repubblicana ed, anzi, a costituirne i pilastri costruttori e basilari. Mentre altrove, l’organismo sociale è in rapida trasformazione ed i lavoratori si associano in potenti organizzazioni finalizzate al cambiamento sociale, la Calabria, al contrario, sembra ferma al feudalisimo: “voi operai calabresi – constata il giovane figlio del regio Pretore – giacete disorganizzati nell’obiezione della servitù, non avete conoscenza dei vostri sacri diritti, siete relegati in una nullità morale veramente desolante, vivete ancora la vita dei bruti, curve le fronti sotto la parca legge della fame”. Il mancato risveglio dei lavoratori calabresi era un ostacolo serio all’ammodernamento ed al progresso della Regione perché manteneva una situazione di ingiustizia sociale a danno dei più e di privilegio per pochi gruppi parassitari, così oggettivamente consentendo che “l’ozioso latifondista, possessore di immense estensioni di terra, acquistate dai suoi antenati con la rapina e con il furto, può impunemente lasciare… incolte ed abbandonate quelle terre che, invece, distribuite fra di voi e coltivate con cura e con amore, diverrebbero la più grande fonte di ricchezza e vi permetterebbero di vivere in condizioni molto migliori di quelle attuali; il capitalista vi può impunemente sfruttare rubandovi una parte del vostro salario, vi può costringere ad un sopra-lavoro che serve ad alimentare i suoi vizi, ad accrescere le sue ricchezze, può gettarvi sul lastrico costringendovi fra il delitto e il morire d’inedia e non ha nulla da temere da voi che siete sparsi e spesso divisi da odi e da inimicizie”.

2  Domenico Cassiano, Un appello agli operai calabresi del giovane Costantino Mortati, in Il Serratore, Corigliano Calabro, n. 92/2012, pp. 51-52.

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È sorprendente come il giovane figlio del regio Pretore Tommaso pensasse, scrivesse e pubblicasse tali “eresie” oltre un secolo fa, nella Calabria arretrata e dominata dal notabilato agrario. Tali concezioni ovvero visione della società civile, basata sui princìpi codificati li libertà, di giustizia e di uguaglianza, erano destinate a maturare col tempo e ad essere trasfuse nelle opere del Mortati costituzionalista e nella stessa Carta Costituzionale italiana, sintetizzate nel “principio democratico” che ipotizza una democrazia reale con l’apporto popolare determinante, e negli altri princìpi della “democrazia governante”, oltre che nella tutela del lavoro in tutte le sue forme. Nel nuovo Stato democratico debbono avere, infatti, diritto di cittadinanza “tutte le specie di lavoro, anche non manuale e, quindi, allargare la struttura sociologica comprendendovi tutti gli esercenti funzioni sociali non parassitarie o non implicanti sfruttamento di lavoro altrui, con la sola esclusione perciò delle posizioni di privilegio o di trattamenti non adeguati alle capacità e rendimento del lavoro”. Queste concezioni del Mortati maturo avevano origini assai lontane nel tempo, risalendo all’epoca degli studi liceali nell’antico Collegio di S. Adriano, diventato ultra laico ai primi del Novecento; avranno sicuramente specifica rilevanza e prenderanno forma normativa nei lavori della Costituente, in cui Mortati insieme a Dossetti, sembreranno a De Gasperi rappresentare l’ala radicale dell’Assemblea. Secondo il giovane Mortati era tempo – nel 1910! – che avesse termine una sorta di razzismo di classe poiché “le persone cosiddette civili” consideravano i ceti popolari “di razza inferiore”: “quando parlano con voi assumono un tono sprezzante… e non nascondono un senso di ripugnanza quando sono costrette a starvi vicino. Ciò, per Dio, deve finire!”. Da qui l’esortazione ai ceti popolari di “acquistare chiara la nozione di una Società futura, di un’Epoca alla qual d’istante in istante ci avviciniamo e di cui la storia… ci addita infallibile l’avvenimento”. Sembra dire il Mor28 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

2.  Gramsci a Torino ed il Socialismo

tati che i mutamenti sociali, i cangiamenti delle condizioni di vita, non sono automatici, frutto di un preteso determinismo storico: bisogna anche volerli ed operare in previsione della loro realizzazione. Per tale motivo – scrive il Mortati – “voi che formate la vita, la forza, la potenza della nazione, non potete, non dovete più sopportare che vi si consideri come esseri spregevoli, non dovete più tollerare che vi si sfrutti senza pietà, voi dovete convincervi di essere chiamati a ben altro che lavorare dodici o sedici ore al giorno unicamente per mangiare del pane nero”. Lo strumento primario della emancipazione delle classi popolari calabresi è l’associazionismo, non tralasciando dal sottolineare che esso, da solo, non è sufficiente perché occorrono anche l’istruzione e l’educazione, in mancanza delle quali essi non potranno diventare coscienti dei loro diritti e, per conseguenza, “non potete ottenere quella partecipazione alla vita politica, senza la quale non riuscirete ad emanciparvi”. Quest’ultimo aspetto assumerà particolare rilevanza nel Mortati costituzionalista poiché “la personalità sociale dell’uomo” si afferma nel lavoro. Solo “nel lavoro ciascuno riesce ad esprimere la potenza creativa in lui racchiusa ed a trovare nella disciplina e nello sforzo che esso impone, insieme allo stimolo per l’adempimento del proprio compito terreno di perfezione, il mezzo necessario per soddisfare al suo debito verso la società con la partecipazione all’opera costitutiva della collettività in cui vive”. I lavoratori calabresi debbono portare il loro contributo “al raggiungimento di questo ideale sublime di uguaglianza e di giustizia”, aprendosi alla speranza e alzando “le fronti gravate del marchio del servaggio” per abbattere l’ingiusto “edificio sociale”, così realmente contribuendo a diradare le connesse “nebbie della superstizione e dell’oscurantismo”. Sorprendentemente, nello stesso anno (1910), quando era ancora studente nel liceo Dettori di Cagliari, Antonio Gramsci (18911937) scrive il suo primo saggio politico su oppressi e oppressori, in cui 29 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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evidenzia la lotta incessante che l’umanità combatte “da tempo immemorabile”3 per liberarsi da tutti i vincoli che, per bramosia di potere, hanno sempre tentato di imporle o un singolo soggetto od una classe oppure un popolo intero, celando il desiderio di conquista e di dominio sotto l’ipocrita manto della espansione della civiltà. “La verità (del colonialismo, NdR) invece consiste in una brama insaziabile che tutti hanno di smungere i loro simili… Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà: gli inglesi hanno bombardato non so quante città della Cina perché i Cinesi non volevano sapere del loro oppio. Altro che civiltà! E russi e giapponesi si sono massacrati per avere il commercio della Corea e della Manciuria”. Non è vero, pertanto, che l’umanità ha raggiunto il livello più alto nella civiltà, nella libertà, nel riconoscimento del diritto al lavoro, all’istruzione, alla sanità ed al definitivo superamento della fame, perché ancora “gli uomini non sono che verniciati di civiltà” perché “il diritto del più forte è il solo riconosciuto”. E, allora, che fare? Ci vuole – dopo la rivoluzione francese – un ulteriore e generale sommovimento per chiudere definitivamente con tutte le ingiustizie. “La Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all’altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotti della società e non della natura, possono essere sorpassate”. Il giovane Gramsci ha fatto propria la lezione dello storicismo che da Vico porta fino ad Antonio Labriola ed a Benedetto Croce. Tutti i condizionamenti storici, proprio perché tali, sono prodotti e voluti dall’azione umana, e non sono conseguenziali ad un cieco automatismo deterministico; essi possono essere – purché lo si voglia – superati ed eliminati. E, quindi, anche le ingiustizie potrebbero

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Antonio Gramsci, Scritti politici, Ed. Riuniti, Roma, 1971, pp. 3-5.

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essere annullate dal processo storico, all’uopo finalizzato. A questo ideale Antonio Gramsci non verrà mai meno sia opponendosi al fascismo sia alla brutale dittatura di Stalin, parlando sempre chiaro, ardito e forte, dimostrando che la dignità e la libertà di un uomo sono insopprimibili, come, più o meno nello stesso arco di tempo, andava scrivendo il poeta Osip Mandel’stam (1891-1938), vittima e “testimone-martire” del “montanaro del Cremlino”. Fin da ragazzo, Gramsci aveva maturato la sua posizione e condizione di “ribelle” osservando la realtà che lo circondava. È lo stesso Gramsci che, in una lettera del marzo 1924 a Giulia4 traccia le linee essenziali evolutive della sua vita fin dalla fanciullezza “isolata” e della genesi del sentimento di ribellione contro tutte le situazioni di ingiustizia che, ancora, aveva modo di constatare senza sapersene dare una ragione. “Sono stato abituato – scrive Gramsci – dalla vita isolata, che ho vissuto fino dalla fanciullezza, a nascondere i miei stati d’animo dietro una maschera di durezza o dietro un sorriso ironico… per molto tempo i miei rapporti con gli altri furono un qualche cosa di enormemente complicato, una moltiplicazione o una divisione per sette di ogni sentimento reale, per evitare che gli altri intendessero ciò che io sentivo realmente. Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato? L’istinto di ribellione (sottolineatura mia), che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione: ‘Al mare i continentali!’. Quante volte ho ripetuto queste parole. Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale

4 

A. Gramsci, Lettere 1908-1926, (cura di Antonio A. Santucci), Torino, 1992, p. 271.

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e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la lotta, per la classe operaia”. Quando giunge a Torino, nel 1911, a vent’anni, per frequentarvi l’Università grazie ad una borsa di studio, Gramsci aveva già maturato una buona preparazione culturale. Anche se aveva letto Marx “solo per curiosità intellettuale”, la lettura della stampa socialista e, soprattutto, la frequenza delle organizzazioni operaie, allargarono suo orizzonte “provinciale” facendogli comprendere molte cose della storia nazionale e lo rafforzarono nella scelta socialista. Il suo bagaglio non era soltanto libresco, derivato dalla lettura degli scritti del Salvemini, della stampa socialista, de La Voce di Giuseppe Prezzolini e dei saggi di Benedetto Croce, ma era fatto anche di “cose”; era riempito e completato ed arricchito dalla esperienza diretta, che lo portava al contatto con i ceti subalterni e, quindi, alla comprensione delle loro reali condizioni di vita e di lavoro. Gradualmente i suoi scritti, sempre lucidi e attenti nell’analisi ed originali nello stile, che venivano pubblicati sull’Avanti! o su altri organi di stampa, contribuivano a farlo crescere e ad elevarlo non solo nell’opinione dei socialisti. Sempre fedele al principio di dire sempre la verità, anche in politica, non esita a ridicolizzare quelle opinioni, affermatesi anche in ambienti della sinistra, sostenute da teorici positivisti, come il Lombroso, il Ferri, il Sergi, sulla pretesa inferiorità di razza delle popolazioni meridionali; tesi assolutamente errata sul piano storico e politico. Se il Mezzogiorno poteva essere definito quella “grande disgregazione sociale”, di cui scrive Gramsci nel suo famoso saggio del 1926, ciò non era avvenuto per opera dello Spirito santo o dovuto a qualche condizionamento naturale, ma era stato determinato da motivazioni storiche e da scelte politiche errate che oggettivamente avevano penalizzato il Sud. 32 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il distacco economico tra il Sud agricolo ed il Nord industrializzato era stato conseguenza della volontà dei governanti dell’epoca dell’immediato post-risorgimento, effetto, quindi, delle scelte politiche dei gruppi dominanti che avevano inteso privilegiare e proteggere lo sviluppo industriale del Nord. Pertanto, l’opinione di certi circoli socialisti secondo cui l’Italia era divisa in sudici e nordici, non solo era del tutto inveritiera ed offensiva, basata sul preconcetto settentrionale della poltroneria e della barbarie della gente del Sud, ma, diffondendosi tra le masse settentrionali, portava in sé la potenzialità della reciproca avversione tra lavoratori italiani; era, invece, assolutamente necessaria l’unità di tutti i lavoratori, del Nord e del Sud, perché comune era l’interesse dei ceti popolari a pretendere dai gruppi governanti una linea politica, ispirata agli interessi generali, senza pregiudizio e discriminazione. Gramsci, a Torino, fece – come egli stesso afferma5 – quelle “esperienze civili e morali (più nel senso etico-politico) strettamente connesse alla propria vita ed ai suoi avvenimenti, considerate nel loro valore universale o nazionale”, che hanno condizionato in seguito la sua azione e la sua vita. La collaborazione all’Avanti!, gli scritti apparsi nel Grido del Popolo ed in Città Futura, la fondazione dell’Ordine Nuovo, la collaborazione con Piero Gobetti, la scissione dal Partito Socialista e la fondazione del Partito Comunista, la tenace opposizione al fascismo derivata soprattutto dal bisogno culturale di revisione della storia nazionale, trovano la loro genesi negli anni torinesi e nella analisi profonda del fallimento della politica liberal-borghese, che aveva avuto come necessario approdo il frutto amaro del fascismo. La società italiana, dopo l’unità, era stata incapace di porre in atto una politica effettivamente democratica, affrontando e

5  A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. III, (a cura di Valentino Gerratana), Ed. Einaudi, Torino, 2014, p. 1776.

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risolvendo tutte le problematiche sorte con la sua unificazione; non ebbe la cura necessaria delle plebi rurali e di quelle cittadine per trasformarle in proletariato consapevole nella partecipazione alla vita pubblica. Per conseguenza, in disaccordo con quanto andava sostenendo Benedetto Croce, secondo cui la storia italiana era stata la progressiva attuazione delle idee liberali, Gramsci constatava che i gruppi dirigenti liberali avevano governato sempre appoggiandosi su un corpo elettorale ristrettissimo e su un manipolo di corrotti, ricorrendo anche alla violenza ed al colpo di stato ogniqualvolta le classi popolari avevano minacciato di scendere in campo, in nome dei principi democratici. Tanto era avvenuto nel 1894, nel 1898, nel 1915 quando fu imposto al popolo italiano l’intervento in guerra. In quegli anni torinesi, Gramsci doveva constatare come e perché il fascismo, al di là degli slogan e dei proclami, nella sua essenza era nient’altro che la crisi sociale e politica della classe borghese e della sua dirigenza, che si rifugiava sotto le ali protettive e violente del littorio, negando i suoi stessi principi di libertà e di democrazia, che a parole diceva di osservare e perseguire, pur di non cedere all’irrompere delle masse. Ci vorrà l’assassinio di Giacomo Matteotti per scuotere lo stesso Benedetto Croce il quale, agli inizi, aveva ritenuto le squadracce fasciste come una cura necessaria per dare quella scossa opportuna perché la grande malata Italia potesse alzarsi dal letto. A Torino, si era verificato ed attuato quel processo di “sprovincializzazione” che aveva consentito al “sardo” di superare le scorie tipiche “per appropriarsi di un modo di vivere e di pensare non più regionale e da “villaggio”, ma nazionale, e tanto più nazionale… in quanto cercava di inserirsi in modi di vivere e di pensare europei, o almeno il modo nazionale confrontava coi modi europei, le necessità culturali italiane confrontava con le necessità culturali e le correnti europee (nel modo in ciò era possibile e fattibile nelle condizioni personali date, è vero, ma almeno secondo 34 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

2.  Gramsci a Torino ed il Socialismo

esigenze e bisogni fortemente sentiti in questo senso). Se è vero che una delle necessità più forti della cultura italiana era quella di sprovincializzarsi anche nei centri urbani più avanzati e moderni, tanto più evidente dovrebbe apparire il processo in quanto sperimentato da un “triplice” o quadruplice provinciale”, come certo era un giovane sardo al principio del secolo”. Non certo agevole dovette essere il venire a capo di quel “processo”, “nelle condizioni date” in cui venne a trovarsi Gramsci nel corso degli studi a causa dello scarso peculio familiare. La sua “forza di resistenza”- come scrive al fratello Carlo6 – era tale che lo aiutò a superare momenti drammatici in alcuni periodi della sua vita. “Mi pare – scrive Gramsci – che siano passati quasi 22 anni da che io ho lasciato la famiglia; da 14 anni poi sono venuto solo due volte, nel ’20 e nel ’24. Ora io in tutto questo tempo non ho mai fatto il signore; tutt’altro; ho spesso attraversato dei periodi cattivissimi e ho anche fatto la fame nel senso più letterale della parola. A un certo punto questa cosa bisogna dirla… Probabilmente tu qualche volta mi hai un po’ invidiato perché mi è stato possibile studiare. Ma tu non sai certamente come io ho potuto studiare. Ti voglio solo ricordare ciò che mi è successo negli anni dal 1910 al 1912. Nel ’10, poiché Nannaro era impiegato a Cagliari, andai a studiare con lui. Ricevetti la prima mesata, poi non ricevetti più nulla: era tutto a carico di Nannaro, che non guadagnava più di 100 lire al mese. Cambiammo di pensione. Io ebbi una stanzetta che aveva perduto tutta la calce per l’umidità e aveva solo un finestrino che dava in una specie di pozzo, più latrina che cortile. Mi accorsi subito che non si poteva andare avanti, per il malumore di Nannaro che se la prendeva sempre con me. Incominciai col non prendere più il poco caffè al mattino, poi rimandai il pranzo sempre più tardi e così risparmiavo la cena.

6 

A. Gramsci, Lettere dal carcere, ed. Corriere della Sera, Milano, 2010, pp. 65-68.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

Per otto mesi mangiai così una sola volta al giorno e giunsi alla fine del 3° anno di liceo, in condizioni di denutrizione molto gravi. Solo alla fine dell’anno scolastico seppi che esisteva la borsa di studio del Collegio Carlo Aberto, ma nel concorso si doveva fare l’esame in tutte le materie dei tre anni di Liceo; dovevo perciò fare uno sforzo enorme nei tre mesi di vacanze. Solo lo zio Serafino si accorse delle deplorevoli condizioni di debolezza in cui mi trovavo e mi invitò a stare con lui ad Oristano, come ripetitore di Delio. Vi rimasi 1 mese e ½ e per poco non divenni pazzo. Non potevo studiare per il concorso, dato che Delio mi assorbiva completamente e la preoccupazione, unita alla debolezza, mi fulminava. Scappai di nascosto. Avevo solo un mese di tempo per studiare. Partii per Torino come se fossi in istato di sonnambulismo. Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza delle 100 lire avute da casa. C’era l’Esposizione e dovevo pagare 3 lire al giorno solo per la stanza. Mi fu rimborsato il viaggio in seconda, un’ottantina di lire ma non c’era da ballare perché gli esami duravano circa quindici giorni e solo per la stanza dovevo spendere una cinquantina di lire. Non so come ho fatto a dare gli esami, perché sono svenuto due o tre volte. Riuscii ma incominciarono i guai. Da casa tardarono circa due mesi a inviarmi le carte per l’iscrizione all’università, e siccome l’iscrizione era sospesa, erano sospese anche le 70 lire mensili della borsa. Mi salvò un bidello che mi trovò una pensione di 70 lire, dove mi fecero credito; io ero così avvilito che volevo farmi rimpatriare dalla questura. Così ricevevo 70 lire e spendevo 70 lire per una pensione molto misera. E passai l’inverno senza soprabito, con un abitino da mezza stagione buono per Cagliari. Verso marzo 1912 ero ridotto tanto male che non parlai più per qualche mese; nel parlare sbagliavo le parole. Per di più abitavo proprio sulle rive della Dora e la nebbia gelata mi distruggeva”. In queste “condizioni terribili” seppe tenere duro, teso nello 36 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

2.  Gramsci a Torino ed il Socialismo

“sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino”7. Anzi, gli servirono per “rinsaldargli il carattere” e lo convinsero ancora di più dei suoi propositi poiché, “anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio”; che “bisogna contare sempre solo su sé stessi e sulle proprie forze; non attendere niente da nessuno e quindi non procurarsi delusioni”, sottolineando che “ottima è la mia posizione morale: chi mi crede un satanasso, chi mi crede quasi un santo. Io non voglio fare né il martire né l’eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo”. Altro che “un uomo medio” vien fuori dal celebre ritratto, tracciato da Piero Gobetti: “Porta nella sua persona fisica il segno di questa rinuncia alla vita dei campi, e la sovrapposizione quasi violenta di un programma costruito e ravvivato dalla forza della disperazione, dalla necessità spirituale di chi ha respinto e rinnegato l’innocenza nativa. Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità intima, che dovette essere accettata senza discussione; il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale, e serba dello sforzo una rude serietà impenetrabile; solo gli occhi mobili e ingenui ma contenuti e nascosti dall’amarezza interrompono talvolta con la bontà del pessimista il fermo vigore della sua razionalità”8. Negli ambienti dei socialisti e della sinistra torinesi, Gramsci appariva – ed era – effettivamente un “diverso”, una rivelazione. La sua preparazione culturale, il taglio dei suoi scritti nella rubrica Sotto la Mole dell’Avanti! e nel Grido del Popolo, taglienti, ironici,

7 

Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale, ed. Einaudi, Torino, 1955, p. 115.

8 

Ivi, pp. 115-116.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

densi di cultura, sempre dialettici, denotavano all’evidenza una impostazione nuova delle questioni all’ordine del giorno, originale e moderna, assai diversa da quella tradizionale della stampa del Partito Socialista, nel quale Gramsci pure si iscrisse nel periodo universitario spinto da quelle ragioni umanitarie per il riscatto degli umili e degli oppressi, maturate spontaneamente all’epoca degli studi liceali. Ma il suo socialismo non è quello romantico, animato dalla difesa degli umili, com’era in genere quello torinese, caratterizzato dalla impreparazione culturale e da una generale approssimazione che lo facevano apparire piuttosto generica protesta per le condizioni delle masse popolari che oggettiva proposta, finalizzata alla soluzione di problemi reali. Gramsci rappresenta ed è il nuovo modello di dirigente che pone il suo patrimonio culturale a disposizione del partito per dargli una consistente sostanza di modernità e di strumento del contropotere proletario. Il Partito Socialista, per come se lo raffigura il Gramsci, è uno stato in potenza con suoi propri organi, che agisce in contrapposizione con lo Stato borghese in una lotta continua per superarlo, occupandone le strutture organizzative ed, infine, per conquistarlo. Alla vigilia del primo conflitto mondiale, anche per il Partito Socialista Italiano si pone il problema di prendere posizione di fronte allo scatenarsi della guerra. La linea ufficiale del partito era quella cosiddetta della “neutralità assoluta”, stabilita dalla Direzione nazionale. Immediatamente dopo l’inizio del conflitto, Mussolini, allora direttore dell’Avanti!, lanciò la sua proposta della neutralità relativa. Angelo Tasca, rilevante esponente socialista piemontese, contestò le affermazioni del Mussolini rimproverandogli di ignorare che “la parte migliore del proletariato” ha sempre considerato la guerra come lo strumento “più incontestabile del sistema borghese, l’espressione più pura della propria schiavitù di classe”9.

9 

Antonio Gramsci, Scritti politici, cit., pp. 6-9.

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2.  Gramsci a Torino ed il Socialismo

Il giovane Gramsci interviene nel dibattito con lo scritto intitolato Neutralità attiva ed operante, pubblicato sul settimanale Il Grido del Popolo del 31 ottobre 1914, che è anche il suo primo scritto politico e che denota una indiscutibile capacità di analisi e rappresenta anche un approccio nuovo di affrontare la questione della guerra da parte di un partito socialista e, quindi, internazionalista, ma, contestualmente, anche italiano. Secondo Gramsci, “perché il Partito socialista a cui noi diamo la nostra attività è anche italiano, cioè è quella sezione dell’Internazionale socialista che si è assunto il compito di conquistare all’Internazionale la nazione italiana. Questo suo compito immediato, sempre attuale gli conferisce dei caratteri speciali, nazionali, che lo costringono ad assumere nella vita italiana una sua funzione specifica, una sua responsabilità. È uno Stato in potenza, che va maturando, antagonista dello Stato borghese, che cerca nella lotta diuturna con quest’ultimo e nello sviluppo della sua dialettica interiore di crearsi gli organi per superarlo ed assorbirlo. E nello svolgimento di questa funzione è autonomo, non dipendendo dall’Internazionale se non per il fine supremo da raggiungere e per il carattere che questa lotta deve sempre presentare di lotta di classe. Del modo con cui questa lotta deve affermarsi nelle varie contingenze e del momento in cui deve culminare nella rivoluzione è solo giudice competente il PSI che ne vive e solo ne conosce il vario atteggiarsi”. Per conseguenza, secondo il giovane Gramsci, l’esistenza del Partito socialista e internazionalista, all’interno di una nazione, non implica necessariamente il sacrificio del concetto di nazione. Ciò perché un partito che è contemporaneamente nazionale, italiano, ed aderente all’internazionale, deve risolvere autonomamente i suoi problemi interni “non dipendendo dall’Internazionale”, posto che l’appartenenza all’Internazionale impone solo l’obbligo del fine ultimo dell’Internazionalismo, senza dettare le modalità e le specificità della lotta interna ai singoli Stati. Lo Stato nazionale e l’organizzazione internazionale dei lavoratori non 39 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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vanno confusi o annullati l’uno nell’altra perché si tratta di due diverse specificità. Ed è la prima volta che, per opera di Gramsci, viene inserito nella scolastica marxistica tradizionale il problema dello Stato nazionale, destinato nel corso del Novecento ad avere varie interpretazioni, teorizzazioni ed applicazione. In questa tesi gramsciana, fu, per la prima volta, teorizzata la possibilità della collaborazione internazionale basata sull’autonomia dei singoli paesi del campo socialista nei confronti delle pretese di supremazia di un paese-guida. Le tesi sostenute nella gramsciana Neutralità attiva e operante, non erano per l’interventismo – come si tentò di equivocare successivamente – ma miravano alla critica della formula di “neutralità assoluta” o, quanto meno, “sul modo di questa neutralità” nella interpretazione dell’ala riformista, contro cui Gramsci polemizzava. Se, in un primo momento, la “neutralità assoluta” poteva spiegarsi con l’improvviso dispiegarsi degli avvenimenti che non avevano consentito di prendere una posizione ben definita, “ora che dalla iniziale situazione caotica sono precipitati gli elementi di confusione e ciascuno deve assumere le proprie responsabilità, essa ha solo valore per i riformisti, che dicono di non volere giocare terni secchi (ma lasciano che gli altri li giochino e li guadagnino) e vorrebbero che il proletariato assistesse da spettatore imparziale agli avvenimenti, lasciando che questi gli creino la sua ora, mentre intanto gli avversari la loro ora se la creano da sé e preparano loro la piattaforma per la lotta di classe”. Gramsci stigmatizza tale passiva accettazione della “neutralità assoluta” ritenendola non degna di un partito che trova la sua principale ragione d’essere nel portare avanti, nel modo migliore possibile, gli interessi dei lavoratori. “I veri rivoluzionari che concepiscono la storia come creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di strappi operata sulle altre forze attive e passive della società, e preparano il massimo di condizioni favorevoli per lo strappo definitivo (la rivoluzione) non devono accontentarsi della 40 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

2.  Gramsci a Torino ed il Socialismo

formula provvisoria “neutralità assoluta”, ma devono trasformarla nell’altra “neutralità attiva e operante”. Il che vuol dire ridare alla vita della nazione il suo genuino e schietto carattere di lotta di classe, in quanto la classe lavoratrice, obbligando la classe detentrice del potere ad assumere le sue responsabilità, obbligandola a portare fino all’assoluto le premesse da cui trae la sua ragione di esistere, a subire l’esame della preparazione con cui ha cercato di arrivare al fine che diceva esserle proprio, la obbliga (nel caso nostro, in Italia) a riconoscere che essa ha completamente fallito al suo scopo, poiché ha condotto la nazione, di cui si proclamava unica rappresentante, in un vicolo cieco, da cui essa nazione non potrà uscire se non abbandonando al proprio destino tutti quegli istituti che del presente suo tristissimo stato sono direttamente responsabili”. Occorre rimarcare opportunamente, ai fini di identificare le linee di sviluppo ed il leit-motiv del pensiero gramsciano, che, anche in questo scritto, il suo essere socialista trova la sua ragion d’essere non nella scolastica del determinismo positivista, che caratterizzava la socialdemocrazia dell’epoca, ma nella cultura storica, che concepisce la storia appunto come espressione e “creazione del proprio spirito”. Tale concezione, sia pure evolvendosi ed affinandosi nel tempo, sarà il segno distintivo che caratterizzerà il pensiero del Gramsci distanziandolo e nettamente separandolo dal volgare materialismo, garantendogli un fondo sostanziale di freschezza, modernità e di attualità.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

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3.  Il richiamo alla storicità del reale

3.  Il richiamo alla storicità del reale

Sin dalle prime pubblicazioni, Gramsci non nascose quali erano i temi ed i problemi che concorsero in prosieguo di tempo alla formazione della sua visione e concezione del mondo. Essa comunque, nel suo nucleo essenziale, col richiamo ricorrente al valore della cultura ed alle opere di alcuni prestigiosi esponenti (Novalis, Vico, De Sanctis, Antonio Labriola, Benedetto Croce) rende manifesta, sin dagli inizi, la presa di posizione gramsciana in favore della storicità del reale e, contestualmente, del suo rifiuto di una sorta di “cultura inferiore” e, quindi, di grado meno elevato per le classi subalterne. Questa posizione distanzia il nostro Autore dagli intellettuali di area socialista del tempo, parificati ed unificati nella pedissequa accettazione delle ideologie di stampo positivistico. Seguendo il metodo, indicato dallo stesso Gramsci nelle sue note1 e, cioè, che “se si vuole studiare la nascita di una concezione del mondo che dal suo fondatore non è stata esposta sistematicamente (e la cui coerenza essenziale è da ricercare non in ogni singolo scritto o serie di scritti ma nell’intero sviluppo del lavoro intellettuale vario in cui gli elementi della concezione sono impliciti) occorre fare preliminarmente un lavoro filologico minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica, di lealtà intellettuale, di assenza di ogni preconcetto ed apriorismo o partito preso. Occorre, prima di tutto, ricostruire il processo di sviluppo intellettuale del pensiero dato per identificare gli elementi divenuti stabili e “permanenti”, quelli che sono stati 1 

A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. III, pp. 1840 e seg.

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assunti come pensiero proprio, diverso e superiore al “materiale” precedentemente studiato e che ha servito da stimolo; solo questi elementi sono momenti essenziali del processo di sviluppo… Date queste premesse, il lavoro deve seguire queste linee: 1) la ricostruzione della biografia non solo per ciò che riguarda l’attività pratica ma specialmente per l’attività intellettuale…”. Proprio alla luce di tali considerazioni metodologiche, l’oggetto ricorrente delle sue riflessioni – come attestano le Lettere ed i Quaderni – è costituito dall’indagine sugli intellettuali italiani, ripartito in varie parti, e dalla cultura popolare. Attraverso tale indagine, è dato cogliere la storia reale della nazione e delle classi sociali che hanno contribuito a comporla nel tempo. L’attività intellettuale del Gramsci, già alle sue prime manifestazioni, è particolarmente attenta alla genesi dei processi culturali. Anche la religione ossia il sorgere del sentimento religioso è, alla fine, collegabile al mondo reale della storia2. “Siete nel mondo, ma non sapete perché. Operate, ma non sapete perché. Sentite dei vuoti, e desiderereste delle giustificazioni al vostro essere, al vostro operare, e vi pare che le ragioni umane non vi bastino, che risalendo di causa in causa arriviate ad un punto che, per coordinare e regolare il movimento, ha bisogno di una ragione suprema, fuori del conosciuto e del conoscibile per essere spiegata… Il sentimento religioso è tutto materiato di queste aspirazioni vaghe… Ma è la vita che le vince, è l’attività storica che le cancella… Spiegarle vuol dire superarle. Farne oggetto di storia vuol dire riconoscere la loro vacuità. E allora si ritorna alla vita attiva, si sente più plasticamente la realtà della storia. Riconducendo ad essa non solo il fatto ma anche il sentimento, si finisce col riconoscere che solo in essa è la spiegazione della nostra esistenza. Tutto ciò che è storificabile non può essere soprannaturale, non può essere il residuo di una

2 

A. Gramsci, Scritti politici, cit., pp. 27-28.

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3.  Il richiamo alla storicità del reale

rivoluzione divina. Se qualcosa è ancora inesplicabile, ciò è dovuto solo alla nostra incompletezza conoscitiva, all’ancora non raggiunta perfezione intellettuale. E ciò può renderci più umili, più modesti, non già buttarci in braccia alla religione. La nostra religione ritorna ad essere la storia, la nostra fede ritorna ad essere l’uomo e la sua volontà e attività. Sentiamo questa spinta enorme che ci viene dal passato, la sentiamo nel bene che ci apporta, dandoci l’energica sicurezza che ciò che è stato possibile lo sarà ancora, e con maggiori probabilità in quanto noi ci siamo scaltriti per l’esperienza altrui. E la sentiamo nel male, in questi residui inorganici di stati d’animo superati. E così è che ci sentiamo in antitesi col cattolicismo e ci diciamo moderni. Perché il passato noi lo sentiamo bensì vivificare la nostra lotta, ma domato, servo e non predone, illuminatore e non aduggiatore”. Socialismo e cultura, pubblicato sul Grido del Popolo nel 19163, due anni dopo lo scritto sulla “neutralità”, quando, già da qualche anno, Gramsci, iscritto al PSI, aveva scelto di collaborare con l’Avanti!, con lo stipendio mensile di novanta lire, “mosso da una fede e da una convinzione profonda”4 è assai emblematico. Lo scritto è occasionato dalla polemica insorta tra Amadeo Bordiga e Angelo Tasca, al congresso nazionale dei giovani socialisti ed a proposito di “Educazione e cultura della gioventù”. Bordiga sosteneva che “non si diventa socialisti con l’istruzione ma per necessità reali della classe a cui si appartiene”; Tasca replicava che si imponeva la necessità di un rinnovamento culturale e di un ringiovanimento intellettuale del socialismo italiano. Gramsci, nello scritto in oggetto, preliminarmente, pone i limiti entro i quali va ricondotta la questione per ragioni di comprensione e di chiarezza, richiamandosi a due fonti autorevoli:

3 

Ivi, pp. 17-20.

4 

Antonio A. Santucci, Antonio Gramsci (1891-1937), ed. Sellerio, Palermo, 2017, p. 66.

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Novalis, vissuto tra il 1772 ed il 1801, e la Scienza nuova del filosofo napoletano Giambattista Vico. Del primo, richiama il brano in cui il romantico tedesco scrive che “il supremo problema della cultura è di impadronirsi del proprio io trascendentale, di essere nello stesso tempo l’io del proprio io. Perciò sorprende poco la mancanza di senso ed intelligenza completa degli altri. Senza una perfetta comprensione di noi, non si potranno veramente conoscere gli altri”. Del secondo richiama il 1° Corollario intorno al parlare per caratteri poetici delle prime nazioni, nel quale Vico ricorda che col famoso detto “Conosci te stesso”, Solone “volle ammonire i plebei, che credevano sé stessi d’origine bestiale ed i nobili d’origine divina, a riflettere su sé stessi per riconoscersi d’ugual natura umana co’ nobili, e per conseguenza a pretendere di essere con quelli uguagliati in civil diritto. E pone poi in questa coscienza dell’uguaglianza umana tra plebei e nobili, la base e la ragione storica del sorgere delle repubbliche democratiche nell’antichità”. Ciò posto, Gramsci precisa in che cosa consista la “non-cultura”, individuata nel cosiddetto sapere enciclopedico, che considera l’uomo come “recipiente” vuoto da riempire con una molteplicità di nozioni da potere sbandierare al fine di “rispondere ai vari stimoli del mondo esterno”. L’opinione del Gramsci è che “questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. Serve a creare quell’intellettualismo bolso e incolore, così bene fustigato a sangue da Romain Rolland, che ha partorito tutta una caterva di presuntuosi e di vaneggiatori…”. Ma, allora, che cos’è la cultura? È cosa ben diversa – risponde Gramsci. Essa “è organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il pro46 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

3.  Il richiamo alla storicità del reale

prio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri”. Questo processo di conquista e di comprensione del proprio io avviene per evoluzione automatica, naturalmente o determinato da un quid, da una qualche forza estranea al soggetto, al singolo individuo? Niente di tutto questo perché è da escludere che la genesi possa attribuirsi a “evoluzione spontanea, per azioni e reazioni, indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose”. L’uomo, assume vichianamente Gramsci, è al centro di ogni cosa ed è egli stesso il solo ed unico autore della storia civile delle nazioni. E “l’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura (sottolineatura mia). Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l’umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale”. E qui Gramsci ricorre alla recente storia europea per convalidare il suo assunto, deducendo che “ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorìo di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per sé stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni. L’ultimo esempio, il più vicino a noi e perciò meno diverso dal 47 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nostro, è quello della Rivoluzione francese. Il periodo anteriore culturale, detto dell’illuminismo, tanto diffamato dai facili critici della ragione teoretica, non fu affatto, o almeno non fu semplicemente quello sfarfallìo di superficiali intelligenze enciclopediche che discorrevano di tutto e di tutti con pari imperturbabilità, che credevano di essere uomini del loro tempo solo dopo avere letto la Grande Enciclopedia di d’Alembert e Diderot, non fu insomma solo un fenomeno di intellettualismo pedantesco e arido, simile a quello che vediamo dinanzi ai nostri occhi, e che trova la sua maggiore esplicazione nelle Università popolari di infimo ordine. Fu una magnifica rivoluzione esso stesso, per la quale, come nota acutamente il De Sanctis nella Storia della letteratura italiana, si era formata in tutta l’Europa una coscienza unitaria, tutta internazionale spirituale borghese sensibile in ogni sua parte ai dolori e alle disgrazie comuni e che era la preparazione migliore per la rivolta sanguinosa poi verificatasi in Francia”. Il movimento culturale di rinnovamento radicale, iniziato con l’Illuminismo, andò diffondendosi in tutta l’Europa, in Italia, in Germania e nei luoghi più remoti del continente. Una miriade di libri, opuscoli, giornali, sostenevano la necessità di un cangiamento rivoluzionario, di una fuoruscita dalla “minorità”. “Le baionette degli eserciti di Napoleone trovavano la via spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli… che avevano preparato uomini e istituzioni alla rinnovazione necessaria…Tutto ciò sembra naturale, spontaneo ai faciloni, e invece sarebbe incomprensibile se non si conoscessero i fattori di cultura che contribuirono a creare quegli stati d’animo pronti alle esplosioni per una causa che si credeva comune”. Simile è il percorso del socialismo: attraverso la critica del capitalismo il proletariato perviene alla consapevolezza dei propri diritti e doveri ed alla coscienza unitaria; naturalmente critica è uguale a cultura e non è spontanea evoluzione. “Critica – soggiunge Gramsci – vuol dire appunto quella coscienza dell’io che 48 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

3.  Il richiamo alla storicità del reale

Novalis dava come fine della cultura… Conoscere sé stessi vuol dire essere sé stessi, vuol dire essere padroni di sé stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. Vuol dire avere nozione di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito…Se è vero che la storia universale è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dai pregiudizi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuol aggiungere a quella catena, non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, e quale giovamento possa trarne da questo sapere”. Lo scritto richiamato è uno dei più rilevanti ed interessanti del giovane Gramsci perché vi spiega il significato che egli da ai termini di “cultura”, “rivoluzione”, “socialismo” e rivela quali sono gli autori che hanno caratterizzato il suo percorso culturale ed hanno contribuito alla sua formazione intellettuale: il poeta romantico tedesco Novalis, il filosofo napoletano Giambattista Vico, lo storico della letteratura italiana Francesco De Sanctis. Da tali fonti scaturiva la sua giovanile informazione, che si arricchiva e si ispirava alla concezione del neoidealismo e, cioè, al più volte richiamato nell’articolo su Il Grido del Popolo “io trascendentale” ed alla concezione della cultura come processo spirituale e “conquista di coscienza superiore”. Non mancò anche l’influenza di Benedetto Croce; Eugenio Garin scrive della presenza di “forti influssi crociani lungo il decennio del suo noviziato, ma già allora resi complessi da motivi diversi e di altro respiro”5.

5 

Eugenio Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Ed. Riuniti, Roma, 1974, p. 345.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

Gioele Solari, che aveva avuto come alunni il Gramsci ed il Gobetti, attesta che la loro formazione culturale traeva la sua fonte dall’idealismo attivistico del Croce e del Gentile, che tradussero in storicismo concreto rapportandolo alla attualità storica nazionale; entrambi consideravano il materialismo storico “come antieconomismo e antideterminismo, come filosofia della prassi tendente non solo a conoscere ma a cangiare il mondo”. Ma l’idealismo del Gramsci “non era come in Gentile e in Croce il prodotto dell’attività spirituale individuale, ma degli intimi processi dell’anima popolare. Dal movimento di idee suscitato doveva sorgere per opera del proletariato una nuova cultura, una nuova concezione della vita e del mondo, non limitata alla politica e all’economia, ma estesa all’arte, alla letteratura, alla scuola, alla morale, alla tecnica”6. Croce e Giustino Fortunato – riconoscerà Gramsci in Alcuni temi della questione meridionale – avevano svolto una grande funzione di svecchiamento e di ammodernamento, distinguendosi dalla “cerchia molto soffocante del blocco agrario”, ma si erano ben guardati dal travalicare “certi limiti” al fine di evitare che l’impostazione dei problemi “non diventasse rivoluzionaria”. La filosofia di Benedetto Croce ha operato una rivoluzione intellettuale e culturale, mutando “l’indirizzo e il metodo del pensiero”; sostituendo “una nuova concezione del mondo che ha superato il cattolicismo e ogni altra religione mitologica”. Tale mutamento nell’indirizzo del pensiero ha riguardato solo ristretti gruppi intellettuali che, peraltro, sono stati distaccati dalla massa dei contadini ed assorbiti di fatto dal tradizionale blocco agrario. Antonio Gramsci riteneva, invece, che la rivoluzione culturale dovesse essere suscitata nell’animo popolare e portasse alla presa di coscienza, da parte dei ceti subalterni, dei diritti e dei doveri,

6 

Ivi.

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3.  Il richiamo alla storicità del reale

come aveva bene sottolineato nel suo scritto su Socialismo e cultura. In qualche modo, Gramsci si apprestava e si attrezzava a diventare l’anti Croce o, meglio, il fondatore di una cultura e di una etica politica per superare quella borghese di Fortunato e dello stesso Croce che pure riconosceva essere “uomini di grandissima cultura e intelligenza, sorti sul terreno tradizionale del Mezzogiorno ma legati alla cultura europea e quindi mondiale, essi avevano tutte le doti per dare una soddisfazione ai bisogni intellettuali dei più onesti rappresentanti della gioventù colta del Mezzogiorno, per consolarne le irrequiete velleità di rivolta contro le condizioni esistenti, per indirizzarli secondo una linea media di serenità classica del pensiero e dell’azione”7. Giustamente il citato Solari sottolineava che la critica gramsciana prendeva di mira non solo i liberali, compresi quelli gobettiani, ma pure gli stessi riformisti e massimalisti che a parole erano capaci di fare una rivoluzione al giorno. Di fatto, però, mantenevano un atteggiamento paternalistico verso il proletariato e confondevano “lo sviluppo dello strumento tecnico con lo sviluppo delle forze economiche di produzione”. Gramsci contestava loro di essere carenti del senso della storia e “rimproverava di considerare tra le forze di produzione solo le cose materiali e non anche le forze umane, sociali in quelle incorporate; rimproverava la identificazione dello Stato coll’intervento governativo nei fatti economici, sia come regolatore “giuridico” del mercato, sia come creatore di privilegi di dati gruppi sociali, con conseguente deprezzamento e sfruttamento della forza lavoro”. Marx viene considerato non come “un mistico né un metafisico positivista”, ma esclusivamente come “storico” e come “interprete dei documenti del passato, di tutti i documenti, non solo di una parte di essi”. È vero che “con Marx la storia continua ad

7 

A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, in Scritti politici, cit., pp. 720-742.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

essere dominio delle idee, dello spirito, dell’attività cosciente degli individui singoli od associati. Ma le idee, lo spirito si sustanziano, perdono la loro arbitrarietà, non sono più fittizie astrazioni religiose o sociologiche. La sostanza loro è nell’economia, nell’attività pratica, nei sistemi e nei rapporti di produzione e di scambio. La storia come avvenimento è pura attività pratica (economica e morale). Un’idea si realizza non in quanto logicamente coerente alla verità pura, all’umanità pura…ma in quanto trova nella realtà economica la sua giustificazione, lo strumento per affermarsi… La classe che detiene lo strumento di produzione conosce già necessariamente sé stessa, ha la coscienza, sia pure confusa e frammentaria, della sua potenza e della sua missione. Ha dei fini individuali e li realizza attraverso la sua organizzazione… senza preoccuparsi se la sua strada è lastricata di corpi estenuati dalla fame, o dei cadaveri dei campi di battaglia”8. Gramsci sembra avere due precisi punti di riferimento sotto il profilo teoretico: la lezione di Antonio Labriola (1843-1904) che, polemizzando con l’astratto riformismo borghese ed il darwinismo sociale dei positivisti, liberò le dottrine di Marx dalle incrostazioni positivistiche restituendo alla filosofia la sua funzione autonoma ed il ruolo di scienza rigorosa della storia. Come “filosofia della prassi” e “teoria obiettiva della rivoluzione”, il corpus filosofico marxiano non è valido per sempre, in ogni tempo ed in ogni luogo, perché deve misurarsi e svilupparsi con le reali e concrete condizioni storiche, economiche, ideologiche in cui si attua la dialettica fra le classi9. Sotto altro profilo, l’antieconomicismo, l’antideterminismo, le forze materiali e spirituali che agiscono e si incrociano ed intera-

8 

A. Gramsci, cfr. ivi Il nostro Marx, pp. 120-123.

Antonio Labriola, La concezione materialistica della storia (con introd. di Eugenio Garin), ed. Laterza, Bari, 1965.

9 

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3.  Il richiamo alla storicità del reale

giscono nel divenire storico, l’idealismo come cultura e come critica, sono tutti elementi che attengono direttamente alla tradizione culturale neo-idealistica, integrata dalla concezione materialistica della storia come risulta elaborata nell’analisi del Labriola. Tale aspetto diventa assai chiaro ed esplicito nella considerazione in cui Gramsci tiene l’opera di Francesco De Sanctis10, perché era sostenitore di “una coerente, unitaria…” concezione della vita e dell’uomo”, a livello nazionale, e “di una “religione laica”, una filosofia che sia diventata appunto “cultura”, cioè abbia generato un’etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale… ma domandava specialmente un nuovo atteggiamento verso le classi popolari, un nuovo concetto di ciò che è “nazionale”, diverso da quello della Destra storica, più ampio, meno esclusivista, meno “poliziesco” per così dire”. Inoltre, aggiunge Gramsci, “il tipo di critica letteraria propria della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci); essa deve fondere la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo, con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo”11.

A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Ed. Riuniti, Roma, 1971, pp. 19-24 (Ritornare al De Sanctis).

10 

Per l’individuazione di una corrente “giacobina” della borghesia riformista meridionale del PCI, che aveva le sue radici nella cultura giacobina e borghese della Repubblica Partenopea del 1799, con la successiva legislazione eversiva della feudalità piuttosto che nella Rivoluzione russa del 1917 ed aderiva al PCI più attraverso la mediazione di Gramsci che di Lenin, cfr.: Simone Misiani, PCI e cultura riformista . modernizzatrice nel secondo dopoguerra, in Politica e Amministrazione nel Mezzogiorno Francesco e Saverio Spezzano nella Acri del Novecento (a cura di Marinella Chiodo), ed. Pellegrini, Cosenza, 1998, pp. 203 e seg,; Ferdinando Cordova, La formazione culturale e politica di Fausto Gullo, dagli studi giovanili all’avvento del fascismo, in Mezzogiorno e Stato nell’opera di Fausto Gullo (a cura di Giuseppe Masi) in “Collana studi e ricerche dell’Istituto Calabrese per la storia dell’antifascismo 11 

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

Nello scritto sulla rivoluzione russa, scoppiata “contro il Capitale” di Marx, Gramsci trova la smentita degli schemi ideologici, tipici del marxismo positivistico, dato che la rivoluzione ha negato nel fatto i sacri canoni del materialismo storico, i quali – sottolinea Gramsci – “non sono così ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato”. La rivoluzione se ha smentito l’ideologia positivistica di un certo marxismo deterministico, non ne ha rinnegato il “pensiero immanente, vivificatore… quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche”, che hanno dato origine ad una credenza ed interpretazione fatalistica e falsa. Cadute tali “incrostazioni”, resta l’uomo calato nella storia che, con la sua volontà e con il suo “pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma… le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra di loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace”. Il chiaro richiamo ai principi ispiratori del neoidealismo è ancora assai evidente negli scritti sulla Città Futura, in cui Gramsci attacca il “mito” del positivismo filosofico e della cosiddetta “filosofia scientifica”, residuato nel “ricordo scolorito del riformismo

e dell’Italia contemporanea” (ICSAIC), ed. Orizzonti Meridionali, Cosenza, 1998, pp. 10-12; Anna Rossi-Doria, Il ministro e i contadini. Decreti Gullo e lotte nel Mezzogiorno 19441949, ed. Bulzoni, Roma, 1983; Marco De Nicolò, Simone Misiani, Testimonianze e interpretazioni su Fausto Gullo. Conversazioni con Francesco Martorelli, Giovanni Russo, Maurizio Valenzi, in Mezzogiorno e Stato…, cit., pp. 379 e seg.; Maurizio Valenzi, C’è Togliatti! Napoli 1944. I primi mesi di Togliatti in Italia, ed. Sellerio, Palermo, 1995.

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3.  Il richiamo alla storicità del reale

teorico (però anche la Critica sociale non si chiama più: Rivista del socialismo scientifico) di Claudio Treves, un balocco di fatalismo positivista le cui determinanti sono energie sociali astratte dall’uomo e dalla volontà, incomprensibili e assurde: una forma di misticismo arido e senza scatti di passione dolorante”. Ma Benedetto Croce, nella presentazione di un testo crociano, nella stessa rivista, è additato come “il più grande pensatore d’Europa in questo momento”12. Oltre l’influenza di Vico, Hegel e di Croce, in alcuni scritti, per esempio, La critica critica13, vi è un evidente riferimento all’attualismo gentiliano. Nel citato articolo, Gramsci contestava le affermazioni di Treves, contenute in uno scritto apparso sulla Critica sociale, secondo cui era “spaventosa l’incultura della nuova generazione socialista italiana” per il fatto che metteva in discussione il postulato del determinismo storico, sostituendolo col volontarismo. Gramsci sottolineava che il Treves aveva, al contrario, “ridotto la dottrina di Marx a uno schema esteriore, ad una legge naturale, fatalmente verificantesi all’infuori della volontà degli uomini, della loro attività associativa, delle forze sociali che questa attività sviluppa, diventando essa stessa determinante di progresso, motivo necessario di nuove forme di produzione”. In essa, “l’uomo e la realtà, lo strumento di lavoro e la volontà non sono dissaldati, ma si identificano nell’atto storico”. È stato anche sottolineato che non si tratta dell’unico caso in cui è evidente il richiamo all’attualismo gentiliano. In altro scritto di Gramsci, pubblicato sul Grido del Popolo del 9 febbraio 1918, Giovanni Gentile viene definito uno dei più autorevoli interpreti di Marx ed “il filosofo italiano che più in questi ultimi anni abbia

A. Gramsci, La rivoluzione contro il “Capitale”; La rivoluzione russa; La Critica critica; Margini in Scritti politici, cit,, pp. 59-62; 80-83; 90-94; 51-55. 12 

13 

A. Gramsci, La critica critica, cit.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

prodotto nel campo del pensiero”14. Il fondo costante della produzione gramsciana consiste nel rifiuto e nella critica del positivismo e nel contestuale richiamo all’umanesimo – anzi ad un nuovo umanesimo – alla libertà ed all’idealità: “il comunismo critico – sostiene Gramsci – non ha niente in comune col positivismo filosofico, metafisica e mistica dell’Evoluzione e della Natura. Il marxismo si fonda sull’idealismo filosofico… L’idealismo filosofico è una dottrina dell’essere e della conoscenza, secondo la quale questi due concetti si identificano e la realtà è ciò che si conosce teoricamente, il nostro io stesso”. Marx ha potuto assorbire o assimilare elementi positivistici perché “non era un filosofo di professione, e qualche volta dormicchiava anch’egli. Il certo è che l’essenziale della sua dottrina è in dipendenza dell’idealismo filosofico e che nello sviluppo ulteriore di questa filosofia è la corrente ideale in cui il movimento proletario e socialista confluisce in aderenza storica”15. Il rapporto tra Gramsci ed il neoidealismo di Benedetto Croce va individuato nel fatto che dalla filosofia crociana si privilegiava la parte antideterminisica che contrastava il dogmatismo positivista, nella consapevolezza – come si evince dai Quaderni – “che gran parte dell’opera filosofica di Benedetto Croce rappresenti un tentativo di riassorbire la filosofia della prassi e incorporarla come ancella alla cultura tradizionale”. Il grande filosofo meridionale era e restava in ogni caso, per Gramsci, l’ideologo della borghesia liberale, che era poi la classe dirigente nazionale postriorgimentale fino alla dittatura fascista; Croce era, per conseguenza, dentro la “tradizione culturale del nuovo Stato italiano” ed aveva certamente fatto opera di “sprovincializzazione” della cultura italiana “depurandola di tutte le scorie magniloquenti e bizzarre del Risorgimento”.

14 

A. Santucci, op. cit., p. 74.

15 

E. Garin, op. cit., pp. 354-355.

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3.  Il richiamo alla storicità del reale

Nelle mutate condizioni politiche ed organizzative dello Stato italiano a seguito ed a causa del regime liberticida fascista e nel crogiolo della conseguente aspra lotta politica, necessariamente la figura del Croce liberale, legato all’egemonia della classe dirigente, veniva decisamente contestata da Gramsci nel tentativo di sostituzione all’egemonia borghese, che aveva condotto alla dittatura con la soppressione dei partiti e dei sindacati e con la stessa soppressione fisica degli stessi avversari, un’altra concezione della vita e della realtà finalizzata alla genesi ed allo sviluppo di un altro tipo di egemonia, legata ad una più moderna ed aggiornata visione del mondo. A tale fine, si rendeva necessario – secondo Gramsci – “stabilire con esattezza il significato storico e politico dello storicismo significa appunto ridurlo alla sua portata di ideologia politica immediata, spogliandolo della grandezza brillante che gli viene attribuita come di manifestazione di una scienza obbiettiva, di un pensiero sereno e imparziale, che si colloca al di sopra di tutte le miserie e le contingenze della lotta quotidiana, di una disinteressata contemplazione dell’eterno divenire della storia umana”. All’irrompere della violenza fascista, nell’immediatezza, Benedetto Croce non percepì la intrinseca pericolosità del fenomeno. Il suo atteggiamento – come quello di numerosi altri esponenti del ceto borghese – fu di aspettazione perché “si credeva o si sperava che la crisi politica fosse più blanda di come si è poi dimostrata nel fatto e, insomma, si giudicava con la mente adusata ai placidi decorsi delle lotte e crisi parlamentari”16. Nell’intervista, rilasciata al Giornale d’Italia del luglio ’24, riaffermò il suo concetto secondo cui il fascismo “non poteva e non doveva essere altro… che un ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale, nel quadro di uno Stato più

16 

B. Croce, Pagine sparse, II, ed. Laterza, Bari, 1960, p. 475.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

forte. Doveva rinunziare a inaugurare una nuova epoca storica, conforme ai suoi vanti; ma poteva ben soddisfarsi della non piccola gloria di ridare tono e vigore alla vita politica italiana”. Occorre, del resto, sottolineare che, nei circoli moderati, dopo il 1920, si dibatteva sul tema di Croce “precursore del fascismo” o, addirittura, “fascista malgré lui”. Balbino Giuliano, nel 1922, scrisse che gli uomini della sua generazione, sin dai primi del ’900, erano stati avvezzi o educati a mettere insieme i nomi del Croce e del Gentile, come i nomi dei due maestri della filosofia e della nuova cultura italiana che – secondo il Balbino – si identificava nel pensiero (!) di Corradini, di D’Annunzio e di Mussolini. Armando Carlini partendo dal Croce antipositivista ed antimassone, lo collocava tra i precursori ideali del fascismo e sottolineava “l’evidente affinità spirituale fra la mentalità viva del fascismo e l’idealismo crociano”17. La leggenda del Croce, precursore del fascismo per le sue dottrine politico-sociali e antifascista per motivi personali, era, sì, una spiritosa invenzione della pubblicistica fascista, supportata da qualche estrapolazione dagli scritti crociani, senza tenere conto che il Croce non aveva mai gradito quegli appellati di “precursore” o di “profeta” ed aveva sempre bene distinto il proprio storicismo dal falso idealismo. Non è tuttavia da trascurare il fatto che, all’epoca, un giudizio obbiettivo sulla posizione politica crociana andava incontro a non poche difficoltà di interpretazione, dovute, soprattutto, per dirla con il Garin18, al “lento precisarsi del crocianesimo”

Balbino Giuliano, L’esperienza politica dell’Italia, Firenze, 1924, p. 263; Armando Carlini, in La Nuova Politica Liberale, II, 1924, pp. 32-45. 17 

E. Garin, Cronache di filosofia italiana, II, ed. Laterza, Bari, 1966, p. 281; Giuseppe Antonio Borgese nel suo saggio Golìa marcia del fascismo (ed. di “Libero”, Milano, 2004, pp. 253 e seg.) scrive che B. Croce “fino al 1924 aveva difeso, più o meno energicamente, il fascismo e sperava che in qualche modo portasse la rinascita del paese: errore in cui erano cadute altre persone altrettanto stimabili ma che, nel suo caso, trovava le origini

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3.  Il richiamo alla storicità del reale

ed alla “iniziale indulgenza per atteggiamenti negativi e polemici”. Dopo il discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925, la distruzione dello Stato parlamentare ed oligarchico e l’istituzione dello Stato autoritario, Benedetto Croce, pur sempre rappresentante del moderatismo borghese, si schierò contro il fascismo, ruppe i rapporti con Giovanni Gentile, scrisse il famoso Manifesto in risposta a quello degli intellettuali fascisti, denunciando che “nella sostanza, quella scrittura è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati razionamenti” e per rivendicare il diritto di non “abbandonare” la “nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione morale e intellettuale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento”19. In coerenza con la presa posizione antifascista, il Croce elaborò la teoria della “religione della libertà”, entro i cui confini

nell’essenza stessa delle sue convinzioni filosofiche. Dopo la breve parentesi socialista della sua giovinezza, egli in sostanza era passato ad un conservatorismo ostinato che gli permise perfino, durante le elezioni municipali di Napoli del 1914, di mettersi a capo della coalizione dei partiti conservatori, chiamata, sfortunatamente, Fascio dell’ordine, in opposizione al Blocco delle sinistre… Al principio della guerra era stato germanofilo e sostenitore della neutralità… alla fine della guerra aderì al nazionalismo, pur non abbandonando la sua libertà di pensiero, e si iscrisse ufficialmente al partito. Denigrò il wilsonianesimo, il neomazzinianesimo e la Società delle Nazioni, definendoli tristi avanzi della mentalità massonica del diciottesimo secolo che egli aveva sempre odiato. Aveva già annunziato la “morte del socialismo”; ora egli metteva in rilievo le diversità nazionali fra Inglesi e Russi, Italiani e Croati, Cristiani e Turchi… considerandole essenza benefica della storia. Egli schernì a più riprese l’idea dello “stato come giustizia”, sostenendo che lo stato era unicamente forza e infine concludendo che la politica non può “essere trattata come l’etica, dato che la politica (questa è una verità lampante) è politica, soltanto politica e niente altro che politica…”. 19  Armando Saitta, Dal fascismo alla Resistenza, ed. “La Nuova Italia”, Firenze, 1976, pp. 116-118.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

è racchiusa la coscienza morale, orientatrice dell’agire pratico e, quindi, della stessa politica e della storia, che è appunto storia della libertà. Questa “religione della libertà” esercitò un particolare fascino sugli intellettuali italiani, com’era del resto naturale nel tempo della dittatura. Nel saggio La storia come pensiero e come azione, pubblicato nel 1938, Croce rivendicò la libertà della cultura e sferrò un duro attacco alla dittatura proprio nel momento in cui appariva più temibile ed onnipotente, esortando gli Italiani a non disperare del futuro ed a serbare fede ai valori della libertà. “Niente di più frequente – scriveva il Croce – che udire ai giorni nostri l’annuncio giubilante o l’ammissione rassegnata o la lamentazione disperata che la libertà abbia disertato il mondo, che il suo ideale sia tramontato sull’orizzonte della storia, come un tramonto senza promessa d’aurora. Coloro che così parlano scrivono e stampano, meritano il perdono motivato con le parole di Gesù: perché non sanno quello che si dicano. Se lo sapessero, se riflettessero, si accorgerebbero che asserire morta la libertà vale lo stesso che asserire morta la vita, spezzata la sua intima molla”. Benedetto Croce, con la sua ferma opposizione culturale al fascismo, egemonizzò l’opposizione intellettuale alla dittatura, sempre “dal punto di vista dell’oligarchia terriera prefascista” e disdegnò dall’impegnarsi in iniziative politiche, come se od in previsione della caduta della dittatura, fosse possibile il riprìstino del vecchio Stato prefascista con il recupero naturalmente dell’egemonia moderata. In questo modo, com’è stato ritenuto20, “tutti gli oppositori più intransigenti e coerenti della dittatura fascista”, da Rodolfo Morandi a Eugenio Calorni, da Eugenio Curiel ad Antonio Gramsci e numerosi altri gradualmente lo abbandonarono per seguire strade diverse.

20  Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, VI, ed. Garzanti, Milano, 1972, pp. 340-342.

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4.  Piero Gobetti e Antonio Gramsci

4.  Piero Gobetti e Antonio Gramsci

L’attualità del pensiero di Piero Gobetti è legata alla manifesta immaturità, in Italia, ancora oggi, delle condizioni politiche ed economiche che, nonostante i chiari e riaffermati princìpi della Costituzione repubblicana, hanno messo in crisi il corretto funzionamento e l’attuazione piena di un efficiente sistema democratico. Ne consegue – come scriveva Gobetti nell’ormai lontano 1923 su La Rivoluzione Liberale1 – che “gli uomini interessati a una pratica liberale devono accontentarsi di essere una minoranza e di preparare al paese un avvenire migliore con una opposizione organizzata e combattente”. Questa essenziale riflessione sulla complementarità tra libertà e rivoluzione, finalizzata alla instaurazione ed alla attuazione effettiva di un liberalismo con il sostegno anche – e, soprattutto – dei ceti popolari, fu ed è un segno di contraddizione che, incompresa ieri come oggi, porta all’accusa, da parte dei cosiddetti neo-liberali, di “falso liberalismo”. Secondo i critici gobettiani di ieri e di oggi, il liberalismo nient’altro sarebbe che un sistema politico moderato, stabilmente governato dalla borghesia. Niente di più falso dal punto di vista storico: le più grandi democrazie del mondo occidentale, Stati Uniti, Inghilterra e Francia, sono scaturite sotto il segno della rivoluzione, e, cioè, dietro la spinta e l’irrompere delle masse di popolo che, con la guerra e la violenza, si opposero ai gruppi dominanti e riuscirono a dare vita a più libere istituzioni in coerenza con le aspirazioni e gli interessi popolari.

1  Piero Gobetti, Il liberalismo in Italia, in “La Rivoluzione Liberale”, a. II, n. 14, 15 maggio 1923.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

Norberto Bobbio2 ha mirabilmente sintetizzato il pensiero gobettiano che in buona sostanza si risolveva nella formula della “rivoluzione liberale” che “apparve a molti contraddittoria. E infatti negli anni in cui Gobetti scatena la sua battaglia politica i liberali non sono certo dei rivoluzionari e i rivoluzionari sono tutt’altro che liberali. In questa formula ci sono, a mio parere, tre idee fondamentali: l’idea che una rivoluzione o è apportatrice di libertà, o si trasforma rapidamente nel suo contrario, cioè in una restaurazione, e quindi una rivoluzione o è liberale (nel senso di liberatrice) o non è una rivoluzione; l’idea che la trasformazione dello stato italiano, che non è mai stato liberale e col fascismo ha gettato la maschera, non potrà avvenire se non attraverso un processo rivoluzionario, cioè attraverso quel processo di trasformazione profonda che altri paesi hanno avuto e che l’Italia oppressa e schiava di potenze straniere non ha mai conosciuto; infine l’idea che nell’età della grande rivoluzione del quarto stato, se un processo rivoluzionario deve avvenire, questo sarà guidato dal movimento operaio, non dalla borghesia che gettandosi nelle braccia del fascismo ha dimostrato di avere esaurito il suo compito”. Erano appunto questi “liberali”, schieratisi col fascismo, i critici del Gobetti, che avevano dimenticato l’ammonizione ciceroniana nel De Republica secondo cui “la libertà non consiste nell’avere un buon padrone, ma nel non averne affatto”. Parimenti è accaduto, dopo un settantennio, nella recente e contemporanea storia italiana, che i cosiddetti neo-liberali o teo-conservatori, per lo più schierati col padrone del momento, accusarono Gobetti di falso liberalismo e di avere ostacolato il processo dello sviluppo liberaldemocratico del nostro paese, facendo da cavallo di Troia al dispiegarsi ed all’affermarsi dell’egemonia della sinistra comu-

2 

Norberto Bobbio, Italia fedele. Il mondo di Gobetti, Passigli ed., Firenze, 1986, pp. 149-150.

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4.  Piero Gobetti e Antonio Gramsci

nista3, omettendo debitamente dal considerare che il liberalismo non può che essere rivoluzionario proprio perché basato sulla dialettica tra i diversi ceti ed i diversi interessi che sono sempre in gioco nella società. Applicando un criterio negativo e contrario alla formula del Gobetti falso liberale, si dovrebbe affermare che il liberalismo è solo ed esclusivamente moderatismo borghese, antirivoluzionarismo, o addirittura nient’altro che reazione politica e sociale. Gobetti, invece, come ha scritto Bobbio4 è veramente un classico liberale perché, sotto il profilo filosofico, ha una visione laica e immanentista della vita e della storia; sotto il profilo economico, propugna la necessità del mercato e riafferma, sul terreno politico, il diritto del cittadino alla libertà ed alla sua difesa contro ogni tentativo di manomissione da parte dello Stato. Il fatto è che, dopo tangentopoli ed i conseguenti tentativi di revanche, di revisionismo, di rigurgiti maleodoranti di razzismo e di populismo straccione, parte della cosiddetta intellighenzia italiana – sempre pronta a correre in soccorso del vincitore – ha tentato, indossando la tradizionale casacca del cortigiano, di trovare una qualche giustificazione ai potenti del momento ed al malgoverno della borghesia nazionale, la quale, come al solito, “scende in campo” solo ed esclusivamente per suoi privati interessi, da tutelarsi in ogni modo, anche attraverso l’uso e l’abuso dei pubblici poteri. E non è proprio un caso che l’intellettualità più avveduta è insorta contro tale situazione post-tangentopoli, bollandola come caratterizzata dalla “libertà dei servi”5, stante che l’Italia si è veGiuseppe Bedeschi, Gobetti il finto liberale, in “Liberal”, ottobre 1995, n. 7; Lucio Colletti in “Espresso”, n. 23 del 9 giugno 1995; Dino Cofrancesco, in “Corriere della sera” del 27 giugno 1995; id., Sul gramsciazionismo e dintorni con pref. di Sergio Romano, ed. Marco, Lungro, 2001. 3 

4 

N. Bobbio, op. cit.

5 

Maurizio Viroli, La libertà dei servi, ed. Laterza, Roma-Bari, 2010; Nello Aiello, Quanti

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

nuta a trovare alla mercè di un “potere arbitrario ed enorme” ed esposta ai soprusi di una corte degradata che, “rispetto alle corti dei secoli passati, quella che ha messo radici in Italia, coinvolge non più poche centinaia, ma milioni di persone e le conseguenze sono le medesime: servilismo, adulazione, identificazione con il signore, preoccupazione ossessiva per le apparenze, arroganza, buffoni e cortigiane”. Va da sé che “la libertà dei servi” si colloca all’opposto di quella “libertà dei cittadini”, alla quale ambisce una minoranza del Paese. A renderci “servi” è la presenza di “uno troppo grande sopra gli altri, che è cosa perniciosissima nelle repubbliche”, come scriveva un antico memorialista fiorentino. Per tale motivo, anche nel periodo del dopo tangentopoli, è di agevole constatazione la sussistenza dell’immaturità politica, della debolezza morale e della consuetudine cortigiana della borghesia nazionale, del trasformismo e dello spirito servile di accomodamento dei suoi intellettuali, già realisticamente denunciati e fustigati da Piero Gobetti, la cui analisi è, per conseguenza, di lapalissiana attualità e contro la cui lezione, valida ancora oggi, si appuntano gli strali invero sfuocati di una intellighenzia asservita alla nuova destra. Sarebbe stato necessario “riscoprire”, al tempo di Gobetti, e lo è necessario ancora, come sottolinea Maurizio Viroli nel suo saggio sulle forme e sull’esercizio del potere, o “imparare il mestiere di cittadini” e, come primo passo, “capire il valore e la bellezza dei doveri morali” ed “operare per la libertà dei cittadini per una semplice scelta morale anche senza speranza di premio o di vittoria”. È d’obbligo il pessimismo: se i servi si emancipano, diventano liberti e – per dirla con Piero Calamandrei – manterranno per lungo tempo “nella schiena l’anchilosi dell’assuefazione agli inchini”.

servi in giro per l’Italia, in “La Repubblica”, 6 luglio 2010.

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4.  Piero Gobetti e Antonio Gramsci

Gobetti e Gramsci, differenziandosi in questo da Benedetto Croce, ravvisano l’incompiutezza del Risorgimento con pesanti conseguenze nello sviluppo della storia nazionale, come, del resto, avevano già sottolineato Pasquale Villari e Gaetano Salvemini6. Benedetto Croce sosteneva che il Risorgimento aveva dato l’avvìo ad una radicale e profonda trasformazione dell’Italia non solo nell’organizzazione politico-amministrativa, ma anche sotto il profilo economico e sociale. “In questo periodo – scrive il Croce – in Italia si va formando una vita nazionale comune, che supera le grette e meschine vite regionali e dà benessere economico e spirituale. All’interno quei saggi e onesti governanti riuscirono a mitigare gli odi di parte attraverso l’articolazione di un costume civile, morale e parlamentare così progressivo da suscitare nel 1888 l’ammirazione del grande Gladstone, che paragonava il cambiamento dell’Italia alla trasformazione della Francia tra il 1789 e l’Impero. In effetto si era stabilita la vita della libertà, e non stentatamente come presso altri popoli in passato, ma a un tratto, essendosi prese le mosse dal più alto grado altrove raggiunto. Il lungo desiderio di un secolo, il fine ingegno e l’agile spirito di un popolo di antica cultura, permisero di appropriarsi i metodi altrove elaborati e maneggiarli senza sforzo e come cosa naturale. Sparito affatto il regime poliziesco, coi sospetti, lo spionaggio e le vessazioni; dissipata la vigilanza clericale, che si insinuava e gravava in ogni parte della vita pubblica e privata. In cambio, completa libertà nella stampa, nell’associazione, nelle pubbliche discussioni; una libertà a pieno, garantita e che si garantiva da sé col suo stesso esercizio e sindacava l’amministrazione, impediva la vio-

B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, 1928; P. Villari, Saggi di storia, critica e politica, Firenze, 1868; G. Salvemini, Scritti sul Risorgimento, Milano, 1961; P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, Torino, 1926; A. Gramsci, Il Risorgimento, Torino, 1952; cfr. anche in A. Gramsci, Quaderni del carcere, III, a cura di V. Gerratana, cit., pp. 2010 e seg.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

lazione delle leggi, rendeva pubblico il controllo della giustizia”. Pasquale Villari che aveva una conoscenza diretta ed immediata della situazione italiana, oltre che nelle Lettere meridionali, anche in altri suoi scritti, manifestava un giudizio esplicitamente negativo sulla sostanza del Risorgimento e sulla sua capacità di profonda trasformazione della realtà politica, sociale ed economica del nostro Paese, negandone l’essenza rivoluzionaria. “Il Risorgimento – secondo il Villari – non portò affatto alcuna trasformazione, se noi avessimo fatto una vera e propria rivoluzione con le forze del paese, in mezzo ad una lotta lunga e sanguinosa, sarebbe scomparsa una generazione e ne sarebbe nata un’altra, giovane, nuova, aperta alle idee sociali nuove e capace di governare in modo nuovo il nuovo paese. Ma i governi passati crollarono quasi senza essere toccati, e la lotta contro l’Austria fu vinta con l’aiuto della Francia. Un bel giorno noi ci trovammo liberi e uniti, dopo lotte che, in proporzione del grande risultato, si potevano dire di puro ornamento. E l’Italia nuova si trovò formata degli stessi elementi di cui era composta l’Italia vecchia, solo disposti in ordine e proporzioni diversi”. Più radicale e negativa è la posizione dello storico pugliese Gaetano Salvemini, il quale, sulla premessa che il Risorgimento era stato il risultato di “conquiste militari” e di annessioni al Piemonte realizzate diplomaticamente da un ceto politico di conservatori, perciò stesso, non avrebbe potuto produrre come effetto conseguenziale la costituzione e l’organizzazione di uno Stato veramente democratico e liberale. Infatti, osservava il Salvemini, “nel 1871, Crispi, assai lontano dallo spirito del Mazzini, facendo un bilancio consuntivo di quanto era avvenuto in Italia, notava che la vera, grande e profonda rivoluzione che il Risorgimento aveva fatto… consisteva nel fatto che quel ceto proprietario, manufatturiero, commerciante, intellettuale, che nel 1815 era soggetto alle burocrazie diplomatiche e al clero, era diventato la classe dominante. Essa salmodiava in coro che per conferire al popolo 66 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

4.  Piero Gobetti e Antonio Gramsci

il diritto di cittadinanza del nuovo Stato era necessario, prima di tutto, educarlo, ma poco o niente faceva per educarlo, e così aveva tutte le ragioni possibili per negargli quel diritto. Se poi si cercava di scoprire in che cosa dovesse consistere quell’educazione, di cui si parlava, si constatava che essa si proponeva di persuadere il popolo che il mondo è fatto bene, così com’è, ed è errore e delitto volerlo cambiare. E se qualcuno cercava di educare il popolo all’idea che quel mondo bisognava cambiarlo, quel qualcuno finiva in prigione”. In tale contesto, non si poteva logicamente parlare di democrazia liberale, ma piuttosto di oligarchia, che governò saldamente l’Italia, riconoscendo i diritti civili e politici ad una esigua minoranza dei ceti abbienti. Alla fine dell’Ottocento, cioè dopo le riforme della Sinistra liberale, il diritto di voto comprendeva solo il 9% della popolazione sicché ne erano esclusi i braccianti, i contadini, i piccoli proprietari, i mezzadri, i fittavoli, gli operai, gli artigiani, la parte inferiore degli intellettuali, i commercianti ed i professionisti. Il Parlamento, eletto da una minoranza di agiati e in parte nominato dal re, non si poteva considerare espressione della Nazione e non poteva, per tale motivo, legiferare in favore della educazione e della elevazione del popolo. Così avveniva che tutto l’ordinamento pubblico e gli strumenti giuridici ed ammnistrativi, come imposte, tasse, pubblica sicurezza, codici, e scuola, riflettevano e di fatto tutelavano e salvaguardavano gli interessi dei ceti possidenti della Penisola. Né vi era una vera e propria opposizione, essendo il Parlamento espressione delle suddette classi borghesi economicamente elevate. Del pari Piero Gobetti considerava con pessimismo che, essendo derivata l’unità italiana dall’iniziativa del despotismo7 ed essendo stato il Risorgimento il risultato di uomini intesi solo alla

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P. Gobetti, in “Rivoluzione Liberale”, cit., p. 39.

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difesa delle loro posizioni acquisite, predisposti a tutti i compromessi col passato, insensibili al vero problema del nuovo Stato che era, poi, quello di inserirvi il popolo al fine di dargli vitalità e dinamismo, non poteva che considerarsi una “rivoluzione fallita”. “Il vero problema del nostro Risorgimento – osservò il Gobetti – era di costruire una unità, che fosse unità di popolo; esso rimane invece insoluto perché la conquista dell’indipendenza non fu sentita tanto da diventare la vita intima della nazione stessa, ma fu opera faticosa e autonoma di formazione attivamente spontanea. Mancò l’azione, la funzione del popolo, forza di ogni rivoluzione; mancò una nuova classe dirigente, capace di rivoluzionare la forma mentis italiana, e tutto continuò come prima, con i conservatori, camuffati da liberali, ma che in effetti non superavano il feudalesimo, né potevano sentire e fecondare le esigenze che in Italia erano sorte con la Rivoluzione francese”. Il Risorgimento non poteva, quindi, considerarsi una rivoluzione per il fatto che non fu espressione di una classe dirigente nuova né ha dato vita ad un nuovo gruppo dirigente, saldamente appoggiato alle masse popolari, che sono rimaste del tutto escluse dal moto unitario. Le successive convulsioni italiane, l’esercizio di un potere politico essenzialmente oligarchico non furono che la conseguenza della mancanza di una classe politica veramente liberale, moderna e popolare. La borghesia italiana, di fatto rimasta sempre ferma su posizioni conservatrici, non prese mai in considerazione, ai fini di un autentico rinnovamento del paese, l’apporto delle classi popolari, considerate paternalisticamente come inferiori e non interessate ai problemi nazionali ed a volte bisognose soltanto di interventi caritativi. L’Italia, dopo Cavour, è rimasta priva di una tradizione liberale per il fatto che “i liberali non risolvono nella loro logica i problemi del movimento operaio, la sola forza che rinnovando l’equilibrio sociale potrebbe resuscitare un mito libertario. Ma da Sonnino a Giolitti il problema sociale, quando non è negato in nome di un 68 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

4.  Piero Gobetti e Antonio Gramsci

assolutismo reazionario è trattato dai capi liberali quale un problema di beneficenza e si parla di assistere le masse per diminuirne i dolori e la possibilità di ribellione”8. Gobetti vedeva nel movimento operaio i fermenti di una società rinnovata, le “forze nuove, vergini, capaci di creazioni sociali diverse dalle attuali”, che erano tutt’altra cosa da quel tipo di società che allora si chiamava “comunistica o socialistica”9. E, secondo Luigi Einaudi, “ci sono negli operai manuali, nei tecnici degli stabilimenti industriali, nei rustici appena tolti alla vanga e gittati nel tormento dei forni e nel rombo assordante del macchinario di fabbrica, energie, forze, volontà le quali ancora non son state sfruttate; ci sono uomini d’eccezione, capaci di cose notevoli, intelligenze che l’ignoranza soltanto rende incapaci di dare frutti insperati”10.

8 

P. Gobetti, Il liberalismo e la massa, in “Rivoluzione Liberale”, a. II, n. 9, 10 aprile 1923.

Luigi Einaudi, Gobetti nelle memorie e nelle impressioni dei suoi maestri, in “Il Baretti”, III, n. 3, 16 marzo 1926. 9 

10  L. Einaudi, ivi; soggiungeva l’Einaudi che Gobetti che pure “in sostanza repugnava alla statolatria, ed alla irreggimentazione comunistica, fu amico dei comunisti, ne apprezzò gli sforzi. Aveva comune con essi il senso della rivoluzione, la quale, anche quando assunse per lui l’aggettivo liberale gli parve necessaria nei momenti delle gravi crisi, per scuotere l’ordine costituito e per lasciare venire a galla, al luogo delle vanità fatte persone, uomini energici tratti dalle classi sociali non ancora fruste nell’esercizio del potere politico ed economico. Sempre si dolse, allora e poi, che purtroppo venissero a galla non gli eroi… ma puri imitatori mascherati col rimbombo di assai parole grosse, dei politicanti corruttori venuti su dopo la caduta della destra storica. Il liberalismo comcreto delle classi dirigenti italiane gli sembrò perciò ognora assai meschina cosa… gli pareva che il liberalismo fosse decaduto al livello di una formula priva di contenuto, usata per tener su gente vecchia, in decadenza, non capace di lottare per il raggiungimento di nuovi ideali. Perciò egli voleva che nella lotta intervenissero le classi operaie; che di dosso ad esse fossero tolti quei pesi morti di ignoranza, di povertà che le tengono in basso ed impediscono alla società intiera di valersi utilmente delle loro forze fresche. Perciò egli era rivoluzionario; ché senza un qualche scrollo creativo di una nuova formula gli pareva impossibile che le classi operaie riuscissero a rompere la crosta di posizioni acquisite, di pregiudizi, di convenzionalismi, che davano il potere sociale ad una classe fossilizzata. Non mi parve mai un ammiratore dei ceti borghesi, che in Italia, dopo la

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Antonio Gramsci modifica in parte il giudizio di Gobetti e sostiene che più che di una “rivoluzione fallita”, il Risorgimento fu una “rivoluzione passiva”; fu, cioè, non solo un radicale mutamento della geografia della Penisola, fatto senza alcuna partecipazione popolare sotto la direzione dei moderati, che i democratici furono costretti a subire non essendo stati capaci di mobilitare le plebi rurali e quelle cittadine, la piccola borghesia e gli artigiani. Si tratta di ricercare il perché il partito d’azione, che era costituito da democratici e rappresentava la tradizione giacobina, non pose o non riuscì a porre “in tutta la sua estensione” la questione agraria. Fu sostanzialmente una scelta di classe; era naturalmente ovvio che non la ponessero i moderati che avevano tutto l’interesse di fare un blocco di tutte le classi sociali, borghesi ed aristocratici compresi. I democratici, però, che pure avrebbero dovuto e potuto mobilitare le plebi rurali con l’obiettivo, se non immediato, finale della riforma agraria nel tentativo di avvalersi del sostegno dei contadini nelle lotte risorgimentali, così creandosi una propria base di consenso politico, non furono in grado complessivamente di dare vita ad alcuna progettazione politica all’uopo finalizzata. Il fatto è che anche i democratici giacobini, come i moderati, avevano un pregiudizio di classe nei confronti dei ceti popolari, che invero ritenevano incapaci o non interessati alla soluzione del problema nazionale. “In questo terreno – scrive Gramsci – lo stesso Partito d’Azione la pensava come i moderati e riteneva nazionali l’aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini”, nonostante che, come dimostrarono l’impresa dei Mille e tante altre insurrezioni locali, come, per esempio, l’effimera “rivoluzione ca-

caduta della destra, eransi ristretti ad occupazioni materiali e, datisi ad arricchire, non sentivano i grandi problemi politici e sociali”.

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4.  Piero Gobetti e Antonio Gramsci

labrese” del 184811, i contadini si muovevano in massa chiedendo terre da coltivare e, per conseguenza, “la questione agraria era la molla per fare entrare in moto le grandi masse”12 e risolvere in tal modo la questione di Roma, battendo l’atteggiamento antiunitario del papa. Avvenne in tal modo che i moderati hanno potuto fare affidamento su una base sociale abbastanza compatta e stabile, riuscendo ad imporre la soluzione monarchica ed il loro programma sostanzialmente conservatore; i democratici non riuscirono a fare trionfare alcun punto del loro, sia pure, confusionario progetto, non potendo contare su alcuna forza sociale, rimanendo, di fatto, emarginati nell’opera di costruzione del nuovo Stato ed, in definitiva, finendo ad essere diretti dai moderati stessi. “L’affermazione

Gaetano Cingari, Romanticismo e democrazia nel Mezzogiorno. Domenico Mauro, Napoli, 1965, cap. III.

11 

La tesi del Gramsci fu ripresa ed approfondita dal Sereni ne Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), che inquadra la mancata rivoluzione agraria in un discorso più ampio ossia nel rapporto città-campagna, rimasto irrisolto dal Medioevo. Contro questa tesi, recentemente è insorto lo storico liberale Rosario Romeo con un saggio pubblicato nel 1956 (v. Risorgimento e capitalismo, Bari, 1970), attribuendo a Gramsci un errore di metodo e di prospettiva e sostenendo che, allora, non era possibile una rivoluzione contadina, che era fuori della realtà storica e politica “per le condizioni storiche di fondo in cui era destinato a svolgersi il Risorgimento”. La rivoluzione agraria non era possibile a causa della situazione internazionale che “avrebbe provocato uno schieramento anti-italiano di tutte le maggiori potenze europee, interessate alla conservazione sociale”. E poi l’Italia avrebbe pagato un prezzo troppo alto in conseguenza della rivoluzione agraria “in termini di ritardo dello sviluppo capitalistico e cioè di sviluppo in senso moderno e occidentale di tutto il paese”. Tali considerazioni non sono condivise dalla maggiore parte degli storici, che hanno rilevato il dato oggettivo della scelta volontaria dei gruppi dirigenti moderati che hanno preferito di addossare alle classi popolari il peso della ricostruzione e del risanamento del bilancio, mentre altre correnti politiche ed altri ambienti economici consigliavano un’altra e più equa linea di condotta. Il citato saggio del Romeo, secondo cui tutto si sarebbe svolto nel modo migliore possibile, si affida al fatalismo, negando la volontà e la capacità dell’uomo di intervenire nella storia, che è appunto creazione dell’attività umana e delle libere scelte politiche e/o culturali. 12 

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– rileva Gramsci – attribuita a Vittorio Emanuele II di avere in tasca il Partito d’azione o qualcosa di simile è praticamente esatta e non solo per i contatti personali del re con Garibaldi, ma anche perché di fatto il Partito d’Azione fu diretto indirettamente dal Cavour e dal re”. L’effetto della prevalenza e della supremazia dei gruppi moderati fu la creazione di uno Stato indipendente ed unitario, ma senza consenso e partecipazione popolare con conseguente netto distacco tra i ceti e le classi subalterne e la classe dirigente per lo più conservatrice, ma che, a volte, si dimostrò capace di fare ricorso a vere e proprie misure reazionarie. La mancanza di una vera e reale opposizione, espressione delle classi popolari, concorse ad aggravare la situazione. Tale motivo ha spinto uno storico recente, l’inglese Denis Mack Smith13, a non riconoscere alla classe dirigente italiana una oggettiva capacità democratica. Il famoso connubio Cavour-Rattazzi inaugurò quella serie di governi di coalizione che poi darà luogo al trasformismo depretisiano e, successivamente, al parlamentarismo giolittiano, cioè, ad una prassi politica deleteria di permanenti compromessi tra i maggiori gruppi politici con conseguente attenuazione dei controlli e del rigore nella gestione della cosa pubblica e con la prevalenza degli interessi particolari, facendo sì che, in tale contesto, l’azione politica finisse come per essere soffocata o comunque del tutto inefficace, considerato che gli stessi partiti politici cessarono di essere attivi, soffocati dal prevalere delle aspirazioni di gruppi o di formazioni contingenti a carattere locale. Un intellettuale del calibro di Francesco De Sanctis, che aveva diretta esperienza della prassi politica, era costretto ad osservare, nel 1887, la desolazione della vita politica a causa della fine dei “partiti solidalmente organizzati” e dell’emersione di piccole e meschine formazioni basate

13 

Denis Mack Smith, Storia d’Italia 1861-1958, Bari, 1959.

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4.  Piero Gobetti e Antonio Gramsci

“sugli antagonismi regionali o sul rapporto personale fra cliente e patrono. I gruppi esistenti erano composti di uomini pronti a cambiare idee e posizioni a seconda dei particolari e personali interessi”. Gramsci e Gobetti, sia pure da angolazioni diverse, interpretavano la pregressa storia del regno d’Italia per capire il presente che, nell’immediato dopoguerra, si presentava nebuloso, tumultuoso, ed annunziava un avvenire che avrebbe potuto essere e consistere o nel dispiegarsi di una piena ed efficiente democrazia col riconoscimento del suffragio universale oppure ripiegare in un regime autoritario, come la passata esperienza stava ad indicare. Sta di fatto che ambedue i giovani intellettuali concordavano nella necessità del superamento della prassi politica della precedente dirigenza, ormai “fossilizzata” ed incapace di governare il cambiamento, che si imponeva con urgenza, dal momento che, anche in passato, quei gruppi dirigenti avevano abbondantemente dato prova della loro “scarsissima efficienza”. Essi invero “dicevano di proporsi la creazione dello Stato moderno in Italia e produssero un qualcosa di bastardo; si proponevano di suscitare una classe dirigente diffusa ed energica e non ci riuscirono, di inserire il popolo nel quadro statale e non ci riuscirono. La meschina vita politica dal ’70 al ’900, il ribellismo elementare ed endemico delle classi popolari, l’esistenza gretta e stentata di un ceto dirigente scettico e poltrone sono la conseguenza di quella deficienza; e ne è conseguenza la posizione internazionale del nuovo Stato, privo di effettiva autonomia perché minato all’interno dal Papato e dalla passività malevola delle grandi masse”14. Il cambiamento era necessariamente legato, sia per Gramsci che per Gobetti, alla ascesa al potere delle nuove classi dirigenti, nella speranza che “il nuovo liberismo deve cominciare in Italia

14 

A. Gramsci, Il Risorgimento, cit., pp. 94-95.

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con la rivoluzione operaia per offrire le prime garanzie e le prime forze di uno sviluppo autonomo delle iniziative… La rinascita moderna della nostra economia incomincerà con la volontà di azione delle avanguardie industriali (operai e intraprenditori) del Nord, che sapranno offrire una soluzione unitaria al problema meridionale e liberarci dal politicantismo parassitario che fu durante sessant’anni il solo effetto dell’unità”15. Era evidente, quindi, che sul piano pratico-politico v’era concordanza tra Gobetti e Gramsci. Ambedue erano giunti alla conclusione che le radici del fascismo andavano ricercate e identificate nella debolezza, nella incompetenza e nella complicità della dirigenza liberale, che non aveva saputo introdurre, dopo il ’70, nell’ordinamento statale quelle riforme necessarie all’attuazione della transizione dallo Stato accentratore e borghese allo Stato democratico; né aveva adeguatamente affrontato la problematica nascente dalla trasformazione della plebe e dell’immenso sottoproletariato delle città e delle campagne in popolo, conscio dei propri doveri e diritti. Sicché – è la conclusione di Gramsci – “la storia d’Italia fino al fascismo non è stata la storia della progressiva attuazione delle idee liberali, come sostiene il Croce, ma della crisi sociale e politica di una classe dirigente miope e ristretta, il cui dominio era fondato sul gioco di clientele corrotte, pronte alla violenza ogni qualvolta che masse popolari minacciavano di rompere le dighe, come avvenne nel ’94, nel ’98 e nel ’15 con la lotta per l’intervento”16.

15 

P. Gobetti, La Rivoluzione Liberale, Torino, 1955, p. 51.

16 

A. Gramsci, Sul Risorgimento, Bologna, 1959.

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5.  La crisi dello Stato Liberale Italiano ed il Fascismo

5.  La crisi dello Stato Liberale Italiano ed il Fascismo

La crisi delle istituzioni liberali si manifestò in tutta la sua ampiezza, nell’immediato primo dopoguerra, particolarmente nel momento in cui, sulla scena politica, irruppero il Partito Popolare ed il Partito Socialista che, nel complesso, rappresentavano quelle masse popolari, estranee al Risorgimento ed alle quali le oligarchie liberali dominanti nel periodo postunitario avevano negato l’esercizio dei diritti politici1. La conquista fascista del potere pose naturalmente anche il problema delle relazioni e delle interferenze tra lo Stato liberale ed il fascismo. In un primo momento, si scontrarono due tendenze interpretative, sorte dall’incalzare degli avvenimenti: c’era chi riteneva il fascismo come conseguenza inevitabile della assoluta carenza di democrazia nel precedente periodo della storia italiana, sottolineando particolarmente come, nei momenti di acuta crisi politica, la monarchia ed i gruppi dominanti avevano sempre fatto ricorso alla maniera forte al fine di evitare il prevalere delle forze popolari. Un’altra linea di tendenza assumeva invece l’inesistenza di relazioni col pregresso sistema politico e con le istituzioni liberali e formulava l’ipotesi della estraneità del fascismo alla storia italiana, considerandolo una parentesi, un male improvvisamente spuntato, del tutto “estraneo alle intime aspirazioni” del popolo italiano, “non il frutto di una necessità generale, ma di una banda di avventurieri, priva di radici nel passato, un cattivo sogno dileguatasi al primo raggio di luce. Dopo la guerra del ’14-18, essendo la fede politica e morale nella civiltà umana mortificata, 1 

G. Salvemini, Fu l’Italia prefascista una democrazia?, in “Il Ponte”, 1952, n. 1-2-3.

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depressa e dispersa, fu possibile a Mussolini, uomo privo ed incapace di ogni fede e pronto ad accettarle l’una dopo l’altra tutte o ad abbracciarle tutte insieme mescolandole, mosso dall’unico impulso della sua brama di dominio e dall’orgia… di prepotenza e sfoghi di ogni sorta, e innanzi tutto dalla sua sconfinata vanità, raccogliere attorno a sé una banda di similmente disposti avventurieri, e profittare dei contrasti e delle debolezze che erano nel popolo italiano, nei suoi ceti dirigenti e nei suoi governi, e della confusione nei concetti e della stanchezza generale, per afferrare la macchina dello Stato, attaccarvisi ingannando con dichiarazioni e proteste menzognere e manovrarla ai propri fini”2. Per gli storici democratici, il fascismo, distruttore della libertà, della sovranità popolare e della democrazia, privo di una concezione morale seria e profonda, fu la negazione delle idealità risorgimentali, “con la sua forza bruta controllò la vita della nazione”, ma non riuscì a sradicare gli ideali di libertà3. Bisogna tuttavia considerare anche il nuovo quadro internazionale, che ebbe origine con la rivoluzione bolscevica del ’17 e guardare al fascismo come “fenomeno collegato a esigenze obiettive dei tempi” e come strumento della borghesia in funzione anticomunista su scala internazionale, essendosi sviluppato non solo in Italia, ma anche in altri Stati, salutato e accolto da borghesi e capitalisti come “salvatore dal pericolo bolscevico”4. Considerevole e rilevante peso ebbero le condizioni e le vicende politiche, economiche e sociali del dopoguerra come, da una parte, l’inflazione della moneta, il sempre crescente costo della vita, la carenza di generi alimentari,

2 

B. Croce, Per la nuova vita dell’Italia, Napoli, 1944.

A. Garosci, Gli ideali di libertà dal Risorgimento alla crisi fascista, in “Il secondo Risorgimento”, Roma, 1955; G.A. Borgese, Golìa. Marcia del fascismo, Milano, 1946; D. Mack Smith, Storia d’Italia 1961-1958, Bari, 1959. 3 

4 

N. Valeri, Il fascismo interpretato, in A. Saitta, Storia e miti del ’900, Bari, 1960.

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5.  La crisi dello Stato Liberale Italiano ed il Fascismo

fenomeni che colpivano i ceti popolari ed il ceto medio; e, dall’altra, il mercato nero, gli improvvisi e miracolosi arricchimenti, l’incapacità della dirigenza politica di prendere in mano la situazione al fine di provvedere a colpire gli abusi, le ricchezze di guerra, venire incontro alle istanze dei contadini, ai quali era stata promessa la concessione di terre dopo la guerra, e degli operai che affermavano i loro diritti con scioperi ed occupazione delle fabbriche. Furono tutti fatti ed eventi che, nell’insieme, concorsero a determinare un clima di preoccupazione per le loro fortune nei ceti elevati, di insoddisfazione nelle classi popolari, di frustrazione nella piccola borghesia costretta alle ristrettezze economiche, di paura della rivoluzione sociale5. La crisi post-bellica era, poi, aggravata dalla tradizionale debolezza dello Stato postunitario, che aveva tenuto ai margini le classi popolari, operai e contadini, che, private dell’istruzione primarie, colpite dalla coatta emigrazione oltreoceanica, costituivano una massa informe che neppure le incipienti organizzazioni sindacali riuscivano ad inquadrare, se non in minima parte. Solo alla immediata vigilia della prima guerra mondiale, in seguito all’allargamento del suffragio elettorale maschile ed alle attività organizzative sindacali, incominciavano a prendere consapevolezza della loro condizione. L’azione dei socialisti e della parte democratica del movimento d’ispirazione cattolica era sicuramente finalizzata a rendere attiva e ad integrare nello Stato le masse italiane, pur nella evidente resistenza dei ceti conservatori, come fu assai chiaro dagli avvenimenti del 1914-16. Ma lo scoppio della guerra, resa possibile solo dal colpo di Stato della monarchia col sostegno dei gruppi conservatori nazionalisti e autoritari, interruppe il processo di maturazione e di integrazione nello Stato di quei ceti popolari di operai, artigiani e contadini che, attraverso l’organiz-

5 

F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, 1961, p. 61 e seg.

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zazione sindacale e politica, si stavano gradualmente emancipando con “un apporto originale e autonomo di esperienze”, come ha rilevato Angelo Tasca6. Un altro aspetto, non meno rilevante, della debolezza e della criticità dei gruppi dirigenti, era lo squilibrio fra il Nord industrializzato ed il Sud rurale, che era gradualmente venuto ad aggravarsi in corrispondenza con il consolidamento del triangolo industriale. L’allargamento della forbice tra le due parti del Paese contribuiva a rendere sempre più difficile e complessa la “questione meridionale” con il suo groviglio di problemi. La guerra naturalmente concorse all’aggravamento delle diseguaglianze fra la popolazione e ad accentuare lo spirito autoritario coll’accrescere i poteri dell’esecutivo di controllo sull’informazione e sulle attività politiche e sindacali. Favorì la concentrazione ed il monopolio industriale con le commesse di guerra e la formazione di solidi blocchi capitalistici e bancari, convenientemente protetti, che poterono tranquillamente prosperare e progressivamente arricchirsi e, di conseguenza, rendere più acuti i contrasti fra ceti abbienti ed il resto della popolazione. D’altro canto, occorre considerare che l’esperienza bellica, con la sua drammaticità, aveva dato un colpo di acceleratore alle classi popolari che pur se costrette a sopportarne il peso col terribile bilancio di centinaia di migliaia di morti ammazzati, avevano tuttavia compreso l’importanza della solidarietà e della organizzazione in forza delle quali avrebbero potuto inserirsi e contare nello Stato ed avevano, altresì, maturato la consapevolezza di essere una forza decisiva nell’assetto futuro dello Stato. Quei lavoratori delle campagne e delle officine che, per il passato, erano di fatto estranei allo Stato, nei quattro anni di guerra, da semplici soldati o caporali o sergenti o ufficiali inferiori, avevano maturato una dura

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A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Bari, 1965.

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5.  La crisi dello Stato Liberale Italiano ed il Fascismo

esperienza nell’ubbidire e nel comandare. Dopo la guerra, diventeranno protagonisti e guide nelle lotte per il lavoro, l’occupazione e la giustizia sociale. Allora, nulla sarà più come prima: i vecchi gruppi dirigenti, di fronte all’irrompere delle rivendicazioni delle masse, non furono in grado di affrontare la nuova situazione, che veniva evolvendosi e assumendo dimensioni sconosciute in precedenza. La Confederazione Generale Italiana, di ispirazione socialista, con oltre due milioni di iscritti, e la Confederazione Italiana dei Lavoratori, di ispirazione cristiana, con un milione e mezzo di iscritti, a tutela dei lavoratori, operai, braccianti e contadini, organizzarono le agitazioni sociali dal Nord al Sud, ponendo sul tappeto il nodo della questione sociale, la cui soluzione s’imponeva con tutta l’urgenza del caso contestualmente a quella della crisi economica, scaturita dalla inflazione della moneta, dalla riconversione delle industrie di guerra e dalla necessità della ripartizione del carico fiscale. Il dopoguerra sconvolse anche il precedente panorama politico. La fondazione del Partito Popolare Italiano nel 1919 da parte del sacerdote siciliano Luigi Sturzo (1871-1959) fu un avvenimento fondamentale, destinato ad incidere efficacemente nella storia nazionale sia nell’immediato che in seguito. Con esso finalmente trovavano collocazione e rappresentanza nello Stato risorgimentale le masse popolari cattoliche, operando un mutamento profondo della scena politica e definitivamente superando l’astensionismo, da sempre praticato nelle elezioni politiche con le due eccezioni del 1904 e del 1909 e del Patto Gentiloni. Sturzo, messianico del riformismo, superò il vecchio clericalismo e la contestazione dello Stato risorgimentale, anche se ancora irrisolta restava la questione dei rapporti fra Chiesa cattolica e Stato italiano. Questo nuovo partito riuscì a cambiare il sistema elettorale, che fu trasformato da uninominale in proporzionale. Si trattò di una riforma di rilevante importanza perché portò la 79 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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lotta politica nazionale a svolgersi non più su un piano locale, nei vari collegi, tra alcune personalità politiche e relative clientele, ma sulla base dei programmi dei partiti. I deputati vennero eletti col sistema proporzionale tra le varie liste di candidati, presentate dai partiti, che diventavano così i protagonisti della vita politica assumendosi conseguentemente la funzione di direzione e di coordinamento dei gruppi parlamentari. Il Partito Popolare, nel 1919, portò alla Camera ben 100 deputati, ottenendo così un brillante successo alle prime elezioni alle quali partecipava dopo la sua fondazione. Altrettanto successo arrise al Partito Socialista che, da 52 aumentò i suoi deputati a 156. Ma i socialisti, pur essendo la forza politica maggioritaria, erano come paralizzati nella loro azione politica divisi, com’erano, nelle due correnti dei riformisti e dei massimalisti. All’interno del movimento socialista, si costituì – e questa è l’altra novità postbellica – il gruppo dell’Ordine Nuovo, guidato da Antonio Gramsci, che nell’omonima rivista tracciò un nuovo percorso politico, ispirato alla rivoluzione russa, dopo il fallimento della socialdemocrazia europea che non aveva saputo bloccare la guerra. Il “Consiglio di fabbrica” doveva costituire il punto di riferimento per le lotte proletarie nella prospettiva della formazione di un nuovo blocco storico tra le classi popolari e gli intellettuali in contrapposizione a quello liberal-borghese. A questo primo gruppo si unì anche quello socialista, capeggiato dal napoletano Amedeo Bordiga (1889-1970). I due suddetti gruppi, nel gennaio 1921, nel congresso socialista di Livorno, si staccarono dal partito socialista per fondare il Partito Comunista d’Italia, che aderì all’Internazionale comunista ed ebbe come primo segretario Bordiga, che sarà sostituito successivamente da Antonio Gramsci. Nello stesso 1919, Benito Mussolini, ex dirigente socialista ed ex direttore dell’Avanti!, fonda a Milano i “Fasci di combattimento” con un programma ultrademocratico, rivoluzionario, antiborghese, nazionalista e repubblicano. Non ebbe successo nell’im80 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

5.  La crisi dello Stato Liberale Italiano ed il Fascismo

mediato; nelle elezioni del ’19, raccolse soltanto quattromila voti. Questo movimento si trasformò in partito nel 1921 e mutando radicalmente il suo programma politico, prese posizione contro le agitazioni operaie e contadine, in aperta difesa dei gruppi dominanti e dell’ordine costituito, proprio nel momento in cui, dopo le occupazioni delle fabbriche e gli scioperi del 1920, ormai definitivamente conclusi, era assai chiaro che non esisteva in Italia un pericolo di rivoluzione, anche perché la crisi economica acuitasi nel ’21 aveva contribuito ad indebolire il movimento sindacale ed a determinare incertezze e fragilità nella stessa opposizione di sinistra. Giovanni Giolitti, allora presidente del Consiglio, fece approvare la norma che disponeva la nominatività dei titoli azionari e l’aumento delle tasse sui ceti abbienti. Fu proprio in questo momento di crisi del movimento sindacale che scesero in campo le squadracce fasciste le quali, finanziate e sostenute dagli agrari e dai conservatori, organizzarono e misero in atto le “spedizioni punitive” contro gli esponenti e le sedi delle organizzazioni sindacali di contadini ed operai, dei giornali e dei partiti di sinistra. Si trattò di un’offensiva di violenza reazionaria, spiegata sul piano nazionale, alla luce del sole e sotto gli occhi delle forze di polizia, per lo più conniventi, evidentemente e chiaramente finalizzata all’annichilimento delle conquiste popolari e, conseguentemente, ad arrestare il processo di democratizzazione del Paese. “Agrari ed industriali – è stato giustamente sottolineato da uno storico liberale7 – reagendo al movimento proletario, appoggiarono il fascismo; se gli uni non volevano sentire parlare di terre ai contadini e dell’imponibile della mano d’opera, gli altri non accettavano il controllo operaio sulle fabbriche. Il loro appoggio finanziario al fascismo è fuori discussione”.

7 

F. Chabod, op. cit.

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Il carattere di reazione borghese del fascismo lo si desume, tra l’altro, dal fatto che, non appena conquistato il potere con la benedizione e con il sostegno della monarchia e dei gruppi borghesi e conservatori e dei circoli militari, abolì le disposizioni sulla nominatività dei titoli azionari, sull’aumento dei carichi tributari e delle tasse di successione, che il governo Giolitti, nel 1920, aveva approvato per colpire i grandi patrimoni ed i profitti di guerra, realizzati da cosiddetti “pescecani”. Ma il trionfo del fascismo non è comunque ascrivibile al solo consenso e sostegno finanziario della reazione borghese: esso, infatti, non si sarebbe realizzato senza il benevolo atteggiamento dei liberali i quali erroneamente ritenevano che il fascismo fosse un movimento, tipico di ogni dopoguerra, destinato ad esaurirsi e ad essere assorbito o cooptato dagli stessi gruppi liberali secondo la consolidata e previgente prassi della lotta politica e parlamentare. Fu un tragico errore di valutazione quello di ritenere di potersi servire del fascismo per mettere a tacere i “sovversivi” per poi emarginarlo, rendendolo innocuo. Tanto perché “il fascismo non era una forza politica vecchio stile. I suoi principi non avevano nulla in comune con quelli che fino allora avevano regolato il gioco politico. La legalità degli atti non lo preoccupa, la libertà, la salvaguardia del Parlamento, tutti i vecchi principi dello Stato liberale gli sono estranei. Può parlarne per semplici motivi di opportunità, di tattica; in realtà se ne beffa”8. D’altra parte, va tenuto in conto che gli stessi socialisti, restati nel vecchio tronco del PSI, erano tra di loro profondamente divisi circa l’atteggiamento da tenere mei confronti del fascismo. Alcuni Ivi, pp. 69-70. Giovanni Giolitti, più tardi, si accorse dell’errore e condusse nel Parlamento una vigorosa opposizione al fascismo. A 86 anni, nel 1928, da solo, intervenne nella discussione sulla nuova legge elettorale che, di fatto, aboliva lo Statuto, per rinfacciare a Mussolini di volere affossare la libertà in Italia col favore della monarchia. Fu un tardivo e malinconico ravvedimento. 8 

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5.  La crisi dello Stato Liberale Italiano ed il Fascismo

ritenevano che addirittura sarebbe stata la stessa violenza, posta in essere dai fascisti, che in prosieguo di tempo si sarebbe ritorta in loro danno e ne avrebbe determinato la loro rovina. Sta di fatto che le divergenze insorte con le connesse, interminabili e stucchevoli discussioni, portarono alla ulteriore scissione dell’ala riformista, guidata da Giacomo Matteotti. Così il partito socialista, pur essendo il maggiore partito e potendo contare nel Parlamento su ben 156 deputati, restò paralizzato nell’azione politica e non fu in grado di farsi promotore di questa vasta alleanza con le altre forze democratiche, che l’urgenza politica richiedeva per una efficace opposizione al fascismo. Il massimalismo parolaio non fece la rivoluzione e lasciò che il potere fosse da altri conquistato. Causa non ultima del successo del fascismo fu lo stesso Partito Popolare, guidato da don Luigi Sturzo con le sue ambiguità e con le sue divisioni fra democratici e conservatori, che, restando pregiudizialmente avverso sia al socialismo che al liberalismo, non era riuscito ad elaborare un “programma positivo” per la salvaguardia del sistema democratico in Italia, dopo il colpo infertogli nel “maggio radioso” del 1915. Né avrebbe potuto essere bastevole e sufficiente il semplice richiamo all’ideale religioso, che ben presto venne strumentalizzato dallo stesso fascismo. Quest’ultimo, infatti, pur di accattivarsi le simpatie ed il sostegno del Vaticano, fece presto ad abbandonare le iniziali e retoriche posizioni repubblicane, rivoluzionarie e di sindacalismo rivoluzionario, accantonando anche ogni e qualsiasi ingerenza della massoneria. Fu il medesimo Mussolini che, al fine evidente di conquistare, se non l’aperto sostegno, almeno la neutralità delle gerarchie ecclesiastiche, nel Parlamento, nel 1921, ripetendo il Mommsen, proclamò solennemente che “a Roma non si sta senza una idea universale” e che “l’unica idea universale che oggi esiste è quella che si irradia dal Vaticano”, rivendicando contestualmente e l’universalità e l’italianità del cattolicesimo. Fu in questo modo che il fascismo conquistò gradualmente il 83 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sostegno del clero cattolico, grazie al quale riuscì a penetrare anche nelle campagne, nonostante la forte, decisa, estrema opposizione dell’ala democratica del partito popolare e del sindacato rurale di ispirazione cristiana. Non solo: il fascismo fu apertamente agevolato dal Vaticano nella conquista del potere, quando con la lettera del 5 ottobre 1922 invitò le gerarchie cattoliche a tenere un comportamento neutrale nella contesa politica in atto. Così accadde che, conquistato il potere, il fascismo potè usufruire della collaborazione della parte conservatrice del partito popolare e, successivamente, nel 1923, assorbirne quella frazione, facente capo a Crispolti e Gemelli, costituitasi sotto il nome di “Unione nazionale”. Successivamente, com’è noto, dopo il congresso di Torino, lo stesso Sturzo fu sconfessato dal Papato, che pose anche il veto a qualsiasi collaborazione fra socialisti e popolari e tenne un atteggiamento imparziale durante la crisi dell’Aventino. I popolari, eredi di una tradizione cattolica sempre dilaniata tra conservatorismo paternalistico e aperture modernistiche, divisi quindi fra democratici e conservatori, contribuirono ad allagare la frattura fra socialisti e democratico-liberali, spianando la conquista fascista del potere, che si trasformerà ben presto in dittatura e, con l’uomo inviato dalla Provvidenza, attuerà un patto illiberale ed iniquo con la Chiesa cattolica. Non si trattò soltanto – come ha osservato Giovanni Spadolini9 di “deficienza degli uomini del partito popolare, i cui capi, se se ne toglie lo Sturzo, più acuto che profondo, più abile che geniale, erano tutte figure di secondo piano, dal Rodinò al Crispolti, dal Santucci al Tangorra, dal Micheli al Gronchi, ma anche della sostanza stessa più autentica della dottrina cristiana. Da essa infatti non possono essere certo legittimati i regimi politici moderni, nati dall’eresia protestante e dalla rivoluzione francese”.

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G. Spadolini, Ritratto dell’Italia moderna, Firenze, 1948, pp. 414 e seg.

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5.  La crisi dello Stato Liberale Italiano ed il Fascismo

Il complesso di tali vicende interferì negativamente nel dispiegarsi del processo di trasformazione democratica del sistema liberale italiano; anzi, lo interruppe bruscamente proprio nel momento in cui era in corso con la partecipazione popolare, di parte della piccola e media borghesia, con lo sviluppo delle organizzazioni sindacali, con la prospettiva di una concreta e reale trasformazione democratico-liberale, alla quale contribuivano non solo l’Ordine Nuovo, fondato e diretto dal Gramsci, ma anche intellettuali – per citarne solo alcuni – come il giovanissimo Piero Gobetti col suo progetto di “rivoluzione liberale”, l’altro giovane Guido Dorso con “la rivoluzione meridionale”, Giovanni Amendola che teorizzava una “nuova democrazia”, Giuseppe Gangale con la “rivoluzione protestante”10. Il fascismo al potere, con una serie di decreti-legge, operò la fascistizzazione dello Stato; soppresse la libertà di stampa, soffocò l’attività dei partiti politici avversari e delle organizzazioni sindacali; limitò le autonomie locali con la sostituzione del podestà di nomina governativa al sindaco elettivo; riformò i codici e diede allo Stato un carattere totalitario, a capo del quale vi era il “duce”, a cui per legge era riconosciuta la supremazia sugli altri ministri; sterminò le opposizioni, arrestandone gli esponenti o costringendoli all’esilio; il tribunale speciale fascista, istituito nel 1925, con processi farsa, condannò migliaia di antifascisti al carcere o al confino. Proibito lo sciopero e sciolti i sindacati dei lavoratori, fu naturalmente vietata la festa del primo maggio, sostituita con quella del 21 aprile, giorno del natale di Roma. Gramsci, pri-

10  G. Gangale, Rivoluzione protestante, ed. Gobetti, Torino, 1925. Su Gangale, cfr. anche: Corrado Iannino, Giuseppe Gangale, un Italiano nel Novecento d’Europa, Crotone, 1998; Giovanni Rota, Giuseppe Gangale Filosofia e Protestantesimo, Torino, 2003; Ermanno Rea, La fabbrica dell’obbedienza, Il lato oscuro e complice degli italiani, Milano, 2011, pp. 110 seg.; Una Resistenza spirituale “Conscientia” 1922-1927 (a cura di Davide Dalmas e Anna Strumia), ed. Claudiana, Torino, 2000.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

vato della immunità parlamentare come deputato, fu arrestato e condannato, solo perché comunista, dal tribunale speciale a venti anni di carcere; Gobetti, bastonato a sangue, morirà a Parigi, a ventisei anni11.

Gangale, il 18 febbraio 1926, in Conscientia, commemorò Gobetti, scrivendo, tra l’altro: “Il dramma di Gobetti è consumato. Egli è proprio morto. Ci sentiamo più soli, oggi. Sentiamo l’infinita tristezza della sua tragedia che è la nostra, sentiamo l’amarezza dell’avvenire di noi superstiti. Quale oscuro destino ci spinge a combattere per un futuro che forse non vedremo, che ci spinge all’ingrato compito di essere incompresi e solitari? … noi non sappiamo: così colui che è morto non sapeva. Sentiamo, che ove così non fosse, il vuoto si aprirebbe intorno a noi, l’abbiosciamento, il suicidio morale. Ben sapeva questa fatalità Gobetti che errò per l’Italia inquieto inquietando le coscienze nostre: che veniva qui a Roma in terza classe, frettoloso, arruffato, con la grossa valigia carica dei suoi libri e dei suoi giornali… e i giovani sentirono il fascino e il contagio di questa ascesi febbrile e operosa; i vecchi e gli avversari si inchinarono stupefatti. Il caso Gobetti costituì una febbre ascetica comunicata alla gioventù d’Italia. Possa questa febbre ardere ancora…”.

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6.  Rivoluzione fallita e rivoluzione passiva

6.  Rivoluzione fallita e rivoluzione passiva

Il tema ed il problema delle “due Italie” ossia della divaricazione profonda tra la serietà ed il dilettantismo, tra i politici retori dalla “demagogia poetica” e la severità nell’impegno, tra popolo e gruppi dirigenti, fu dominante in Gobetti sin dal suo primo apparire con la rivista “Energie Nuove”, che fondò e diresse appena diciassettenne e s’impose da subito all’attenzione ed alla considerazione dei circoli intellettuali dell’epoca, di Croce, Salvemini e di Luigi Einaudi1, ma anche in Antonio Gramsci. Ambedue identificavano nelle modalità di svolgimento del Risorgimento e nella prassi politica postrisorgimentale quel peccato originale che aveva generato i guasti della democrazia in Italia, il cui sbocco conclusivo era stato il fascismo. Per Gobetti, “il vero problema del nostro Risorgimento era di costruire una unità, che fosse unità di popolo; esso rimase invece insoluto perché la conquista dell’indipendenza non fu sentita tanto da diventare la vita intima della nazione stessa, non fu opera faticosa e autonoma di formazione attivamente spontanea. Mancò l’azione, la funzione del popolo, forza di ogni rivoluzione; mancò una nuova classe dirigente, capace di rivoluzionare la forma mentis italiana, e tutto continuò come prima, con i conservatori, camuffati da liberali, ma che in effetti non superavano il feudalismo, né potevano sentire e fecondare le esigenze che in Italia erano sorte con la Rivoluzione francese”2.

1 

N. Bobbio, Italia fedele, Passigli ed., 1986, pp. 15 e seg.

P. Gobetti, Il liberalismo di Luigi Einaudi, in Rivoluzione Liberale, 23 aprile 1922; Id., Il Risorgimento senza eroi, Torino, 1926.

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Per la verità, vale la pena di sottolineare che Gramsci e Gobetti arrivavano ben ultimi in ordine di tempo a considerazioni pessimistiche sulla conclusione del nostro Risorgimento. Si è già ricordato che, un cinquantennio prima circa, un liberale come Pasquale Villari non mancò di sottolineare che il Risorgimento non aveva generato, come sarebbe stato utile e necessario, “alcuna profonda trasformazione” per il motivo che “se noi avessimo fatto una vera e propria rivoluzione con le forze del paese, in mezzo ad una lotta lunga e sanguinosa, sarebbe scomparsa una generazione e ne sarebbe nata un’altra, giovane, nuova, aperta alle idee sociali nuove e capace di governare in modo nuovo il nuovo paese. Ma i governi passati crollarono quasi senza essere toccati, e la lotta contro l’Austria fu vinta con l’aiuto della Francia. Un bel giorno noi ci trovammo liberi e uniti, dopo lotte che, in proporzione del grande risultato, si potevano dire di puro ornamento. E l’Italia nuova si trovò formata degli stessi elementi di cui era composta l’Italia vecchia, solo disposti in ordine e proporzione diversi”3. Alle nuove generazioni di intellettuali, impegnati nel proporre e portare avanti un progetto di stato moderno e democratico, doveva sembrare infondata, quanto meno, eccessivamente ottimistica la visione crociana della vicenda risorgimentale che – secondo Benedetto Croce – aveva apportato al paese solo benefici determinandone, dal 1871 al 1915, una profonda trasformazione spirituale ed il progresso economico, politico e sociale. Giustificherà Gramsci il rifiuto della storiografia crociana considerandola strumentalizzata ed adattata alla difesa dei gruppi conservatori dominanti e, pertanto, “adattata alle necessità e agli interessi del periodo attuale”4.

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Pasquale Villari, Saggi di storia, critica e politica, Firenze, 1868.

A. Gramsci, Quaderni del carcere, II, a cura di Valentino Gerratana, Torino, 2014, pp. 1219-20. 4 

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6.  Rivoluzione fallita e rivoluzione passiva

Tale storiografia non valorizza, come dovrebbe, le istanze di rinnovamento provenienti dai ceti subalterni, perché ha paura di “ogni intervento attivo delle grandi masse popolari come fattore di progresso storico” sicché “la formula critica di Vincenzo Cuoco sulle “rivoluzioni passive”, che quando fu emessa… aveva un valore di avvertimento e avrebbe dovuto creare una morale nazionale di maggiore energia e di iniziativa rivoluzionaria popolare, si convertì, attraverso… il panico sociale dei neoguelfi-moderati, in una concezione positiva, in un programma politico e in una morale che dietro i rutilanti orpelli retorici e nazionalistici di “primato”, di “iniziativa italiana”, di “Italia farà da sé”, nascondeva l’inquietezza dell’”apprendista negromante” e l’intenzione di abdicare e capitolare alla prima minaccia seria di una rivoluzione italiana profondamente popolare, cioè radicalmente nazionale”5. A parere del Gramsci, il Risorgimento evidenzia con chiarezza che i ceti moderati vi esercitarono la direzione politica, assorbendo ed inglobando le spinte rivoluzionarie popolari, così determinando le linee di sviluppo del nuovo stato senza peraltro intaccare la struttura sociale preesistente. Osserva Gramsci a tale proposito che “tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l’assorbimento graduale, ma continuo e ottenuto con metodi diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici. In questo senso la direzione politica è diventata un aspetto della funzione di dominio, in quanto l’assorbimento delle èlites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilimento per un periodo spesso molto lungo”. Il Risorgimento, pertanto, fu

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Ivi.

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una rivoluzione senza rivoluzione ovvero una “rivoluzione passiva” secondo l’espressione del Cuoco ma con significato diverso6. Tanto perché il partito d’azione che, in rappresentanza della parte democratica e delle istanze popolari, avrebbe dovuto coagulare il proletariato urbano, la piccola borghesia, le masse rurali per farne un blocco sociale in contrapposizione ai ceti moderati, non fu all’altezza del proprio compito; lasciò, così, spazio ai moderati, che rappresentavano gruppi più o meno omogenei, di inserirsi nel processo, prendendone di fatto la direzione, attirando sulle proprie posizioni la maggior parte della borghesia, dei ceti abbienti, dell’aristocrazia e, contestualmente, aggregando e neutralizzando le forze reazionarie. Contando su tale larga base sociale, i moderati riuscirono anche a trarre vantaggio dalle iniziative rivoluzionarie dei democratici, utilizzandole ai propri fini, imponendo, in definitiva, la soluzione moderata monarchico-sabauda; viceversa, i democratici non riuscirono a realizzare il loro programma: avvenne, così, che, di fatto, storicamente il partito d’azione fu diretto dai moderati. La conseguenza della supremazia delle forze moderate fu ovviamente la sconfitta dei democratici e la creazione di uno Stato unitario e indipendente, sì, ma non popolare, con un evidente ed accentuato distacco tra i gruppi dirigenti, di ispirazione conservatrice, se non proprio reazionaria, e la stragrande maggioranza delle masse popolari, che in concreto rimase estranea allo Stato, lontana dalle sue istituzioni e passiva anche rispetto alle moderate riforme operate progressivamente. In definitiva, per dirla col Salvemini, era diventato classe dominante quel ceto proprietario, manifatturiero, commerciante e di aristocratici, che, nei vari stati italiani, salvo che in Piemonte, si era liberato dei vecchi sovrani.

A. Gramsci, op. cit., pp. 2010 e seg.; cfr. anche Gaetano Salvemini, Scritti sul Risorgimento, Milano, 1961.

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6.  Rivoluzione fallita e rivoluzione passiva

Questa nuova, ma sempre la stessa, classe dominante “salmodiava in coro che per conferire al popolo il diritto di cittadinanza del nuovo Stato era necessario, prima di tutto, educarlo, ma poco o niente faceva per educarlo, e così aveva tutte le ragioni possibili per negargli quel diritto. Se poi si cercava di scoprire in che cosa dovesse consistere quell’educazione, di cui si parlava, si constatava che essa si proponeva di persuadere il popolo che il mondo è fatto bene così com’è, ed è un errore e delitto volerlo cambiare. E se qualcuno cercava di educare il popolo all’idea che quel mondo bisognava cambiarlo, quel qualcuno finiva in prigione”7. Le classi dirigenti italiane, dopo il 1870, hanno dimostrato di non volere attuare una vera e propria democrazia nel paese e di essere incapaci di guadagnare, con una accorta politica di riforme e di interventi nell’economia, il consenso del proletariato urbano e di quello delle campagne. Il sistema liberale, quindi, invece di attuare progressivamente le idee liberali, come assume il Croce, consegnò l’esercizio del potere pubblico ad una classe sociale che Gramsci – e non solo Gramsci – qualifica come “miope e ristretta, il cui dominio era fondato sul gioco di clientele corrotte, pronte alla violenza ogni volta che le masse popolari minacciavano di rompere le dighe, come avvenne nel ’94, nel ’98 e nel ’15 con la lotta per l’intervento”. E come avvenne nel 1922 con la consegna dell’Italia al fascismo, nel quale Gramsci ritiene di individuare la nuova forma assunta dalla “rivoluzione passiva”. Anche in politica, Gramsci era convinto che occorre sempre dire la verità e, cioè, spiegare ai cittadini lo stato reale delle cose di modo che possano rendersi effettivamente conto del corso effettivo della gestione del potere pubblico al fine di potere garantire una partecipazione cosciente e motivata allo svolgimento della vita politica o nella gestione dell’organizzazione politica,

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G. Salvemini, op. cit.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

specialmente nella conduzione dei partiti popolari: “nella politica di massa dire la verità è una necessità politica, precisamente”8. E Gramsci non venne mai meno a questa esigenza di chiarezza e di verità, che per lui era un vero e proprio imperativo categorico, sia come giornalista che come dirigente di partito o deputato. Parlò ardito e forte intervenendo alla Camera dei Deputati, nella seduta del 16 maggio 1925, nella discussione sul disegno di legge di “disciplina dell’attività delle associazioni” che apparentemente avrebbe dovuto colpire la massoneria, ma il cui vero significato e valore reale, secondo Gramsci, mirava ad “impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine” attraverso il controllo preventivo e la repressione: “domandiamo perché da parecchi mesi a questa parte senza che il Partito comunista sia stato dichiarato associazione a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in numero di almeno tre… si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere”. “La massoneria – rimarcò Gramsci – dato il modo con cui si è costituita l’Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, è stata l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo”, ma non è stata in grado di garantire uno sviluppo armonico del Paese e, per governare, “ha schiacciato i suoi nemici di classe”. Né la legge sulle organizzazioni potrà determinare “la stabilizzazione del regime capitalistico” dal momento che la borghesia industriale ha una sua debolezza strutturale per l’impossibilità di creare una industria con “radice profonda nel Paese” e di creare, così, stabili fonti di lavoro, risolvendo contestualmente la questione meridionale con il connesso esodo emigratorio in massa dei lavoratori; per tale

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A. Gramsci, op. cit., pp. 699 e seg..

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6.  Rivoluzione fallita e rivoluzione passiva

motivo, il sistema capitalistico predominante non è in grado di “dare il vitto, l’alloggio e i vestiti alla popolazione e una parte non piccola di questa popolazione è costretta ad emigrare”. I partiti borghesi e la massoneria non hanno risolto “la debolezza fondamentale del sistema capitalistico italiano”; essi si sono mossi su “due piani politici” e, cioè, “la pratica giolittiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè, il tentativo di stabilire un’alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-industriale la massa dei contadini italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo. Nell’Italia settentrionale si costituisce, infatti, una coalizione borghese-proletaria attraverso la collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperative; nell’Italia meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri… Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l’aristocrazia operaia e i contadini poveri di tutta Italia”. Il fascismo non ha una soluzione né per il lavoro né per la questione meridionale; con la legge sulle organizzazioni tenta di soppiantare la borghesia nella occupazione dei posti statali perché “la rivoluzione fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale”. A questo punto, Mussolini interrompe Gramsci col dire che si tratta della sostituzione di una classe ad un’altra classe. Gramsci di rimando puntualizza che “la rivoluzione è solo quella che si basa su una nuova classe. Il fascismo non si basa su nessuna classe che non fosse già al potere”. Perciò con la massoneria, espressione della stessa borghesia al potere, il “governo fascista dovrà venire ad un compromesso… Poiché la massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadi93 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

ne”. Gramsci conclude il suo intervento parlamentare ribadendo che il consenso che ostenta il fascismo non è reale perché “ottenuto col bastone”, ma che alla fine il fascismo sarà annientato e seppellito dal movimento rivoluzionario9. Ricordando il “sacrificio eroico” di Giacomo Matteotti, Gramsci sottolineava l’esistenza di una crisi italiana, accentuata dalla guerra e costituita da non risolti e irriducibili contrasti. “Da una parte vi è uno Stato che non si regge perché gli manca l’adesione delle grandi masse e gli manca una classe dirigente che sia capace di conquistargli questa adesione; dall’altra parte vi è una massa di milioni di lavoratori i quali si sono lentamente venuti risvegliando alla vita politica, i quali chiedono di prendere ad essa una parte attiva, i quali vogliono diventare la base di uno “Stato” nuovo in cui si incarni la loro volontà. Vi è da una parte un sistema economico che non riesce più a soddisfare i bisogni elementari della maggioranza enorme della popolazione, perché è costruito per soddisfare gli interessi particolari ed esclusivisti di alcune ristrette categorie privilegiate; vi sono dall’altra parte centinaia di migliaia di lavoratori i quali non possono più vivere se questo sistema non viene modificato dalle basi. Da quarant’anni la società italiana sta cercando invano il modo di uscire da questi dilemmi… Il risveglio degli operai e dei contadini d’Italia, iniziatosi sotto la guida di animosi pionieri, or sono alcune decine di anni, lasciava sperare che questa strada stesse per essere presa e seguita, senza esitazione e senza incertezze, fino alla fine”. Giacomo Matteotti è stato uno di questi pionieri. “Egli fu di coloro a cui il proletariato italiano chiedeva di essere guidato a creare in sé stesso la propria economia, il proprio Stato, il proprio destino…”. A fronte del sacrificio di Matteotti e del “trionfo sfac-

9 

A. Gramsci, Scritti politici, Roma, 1971, pp. 604-616.

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6.  Rivoluzione fallita e rivoluzione passiva

ciato dei suoi fieri nemici”, Gramsci sottolineava la contraddizione in cui si erano venuti a trovare questi “pionieri del movimento di riscossa dei lavoratori”. Infatti, essi attraverso l’organizzazione e tutta una serie di lotte e di scioperi, avevano fatto prendere coscienza di sé e della propria forza al proletariato urbano e delle campagne, ponendo, così, le premesse per un nuovo e più giusto ordinamento statale, senza, però, riuscire a stabilizzare definitivamente una qualche rilevante conquista del lavoro: si “partiva – scrive Gramsci – da un desiderio generoso di redenzione totale e si esauriva miseramente nel nulla di una azione senza vie di uscita, di una politica senza prospettiva, di una rivolta condannata, passato il primo istante di stupore e di smarrimento degli avversari, a essere soffocata nel sangue e nel terrore della riscossa reazionaria”10. Nel marzo del 1924, commemorando la morte di Lenin, Gramsci pubblicò sul quindicinale Ordine Nuovo un saggio dal titolo significativo di “Capo”11, nel quale propone una analisi molto elaborata, ma sostanzialmente astratta, dell’esercizio del potere a seguito e a causa della rivoluzione e delle relazioni tra chi gestisce il potere e la massa rivoluzionaria o, più esattamente, il gruppo sociale o la classe protagonista della rivoluzione. Lo scritto – anche se oggi ha perduto di attualità – è interessante sia perché conferma l’infatuazione ed il grado di sopravvalutazione della rivoluzione bolscevica sia perché rappresenta il punto di inizio della riflessione gramsciana sulla genesi di quella “volontà collettiva”, impersonata dal partito come moderno “principe”, e che successivamente attraverso la rivalutazione del giacobinismo approderà alla celebre e nota formulazione del cesarismo o bo-

10 

Ivi, pp. 572-75.

A. Gramsci, Capo, in Ordine Nuovo, a. I, n. 1, quindicinale, 1° marzo 1924; ora anche in A. Gramsci, Scritti politici, cit., pp. 540-543. 11 

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napartismo, distinto in progressivo e regressivo. Nel suddetto saggio sembra di capire che, all’epoca, le due tipologie contrapposte di esercizio del potere – uno progressivo e l’altro regressivo – erano rappresentate rispettivamente da Lenin e da Mussolini. Il primo “è stato l’iniziatore di un nuovo processo di sviluppo della storia, ma lo è stato perché egli era anche l’esponente e l’ultimo più individualizzato momento, di tutto un processo di sviluppo della storia passata, non solo della Russia, ma del mondo intero”. Lenin non è diventato “per caso” il “capo” del partito bolscevico e della rivoluzione proletaria e, quindi, capo dello Stato con l’instaurazione della dittatura del proletariato. Secondo Gramsci, la dittatura di Lenin trova la sua legittimazione e giustificazione dialettica in tutto il pregresso e faticosissimo processo storico che ha prodotto la selezione politica e sociale, concluso con il trionfo della rivoluzione. “Il Partito Comunista Russo, col suo capo Lenin, si era talmente legato a tutto lo sviluppo del suo proletariato russo, a tutto lo sviluppo, quindi, della intera nazione russa, che non è possibile neppure immaginare l’uno senza l’altro, il proletariato classe dominante senza che il Partito Comunista sia il Partito del governo e quindi senza che il Comitato Centrale del Partito sia l’ispiratore della politica del governo; senza che Lenin fosse il Capo dello Stato”. Mussolini, al contrario, benché “divinizzato”, proclamato “infallibile” e “preconizzato organizzatore e ispiratore di un nuovo rinato Sacro Romano Impero”, non è un “capo”; sin da quando militava nel Partito socialista, è sempre stato “il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce, impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti”. E, poi, bisogna escludere che “oggi, nel periodo della rivoluzione mondiale, esistano “capi” fuori della classe operaia… capi non marxisti, i quali non siano legati strettamente alla classe che incarna lo sviluppo progressivo di tutto il genere umano”. Per conseguenza, Mussolini non potendo “essere 96 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

6.  Rivoluzione fallita e rivoluzione passiva

il capo del proletariato, divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia”. Lenin ossia la dittatura del proletariato rappresenta ed è un fenomeno di sviluppo e di progresso, giammai regressivo o repressivo, stante che “un continuo movimento si verifica dal basso in alto, un continuo ricambio attraverso tutte le capillarità sociali, una continua circolazione di uomini”. Mussolini, invece, il potere lo esercita e “lo mantiene con la repressione più violenta ed arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale d’ordine di una amministrazione… la sua dottrina è tutta nella maschera fisica, nel roteare degli occhi entro l’orbite…”. La contrapposizione delle due dittature, una progressiva e l’altra repressiva, sembra essere senza fondamento sia sul piano logico che fattuale: ogni dittatura è di per sé la concentrazione del potere politico in un solo organo che l’esercita senza controllo e, pertanto, in modo arbitrario e repressivo proprio perché nega qualsiasi controllo sul suo operato. Quanto alla dittatura del proletariato che Carlo Marx aveva indicato come la fase conclusiva della rivoluzione proletaria che esercita il potere in preparazione ed in vista dell’instaurazione di una società senza classi, era – anche al tempo di Lenin – semplicemente la rappresentazione di una realtà astratta, magari una aspirazione ideale verso una organizzazione sociale basata sulla solidarietà e la giustizia. Sotto il profilo storico, recenti ricerche12 hanno messo in rilievo che la prassi e la teoria della dittatura del proletariato, quasi subito dopo la rivoluzione d’ottobre, ne avevano dimostrato l’inconsistenza dato che, come scriveva lo stesso Lenin, i soviet avevano perduto il potere che era “non certo nelle mani delle masse

12 

Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, ed. Laterza, Bari, 1969, pp. 13-31.

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operaie”. Essa, gradualmente si trasformerà in dittatura di una minoranza per, poi, restringersi e ridursi al predominio della vecchia guardia del partito. Ma il processo degenerativo andò avanti portando ad un ulteriore restringimento del potere in poche mani ed alla creazione di un sistema di rigoroso centralismo. Quando, nel 1922, Stalin sarà nominato segretario generale, concentrerà nelle sue mani una rilevante somma di potere e di competenze per essere contemporaneamente anche Commissario alle Nazionalità e Commissario dell’Ispezione operaia e contadina, destando non poche preoccupazioni nello stesso Lenin che si era reso consapevole della degenerazione burocratica dello Stato sovietico, in cui, come aveva previsto Trockij, “l’organizzazione del partito prenderà il posto del partito stesso, il Comitato Centrale prenderà il posto dell’organizzazione e, infine, il dittatore prenderà il posto del Comitato Centrale”. Questi scritti di Gramsci erano – com’è assai evidente – legati alla sua attività di partito, al militante socialista e fondatore del partito comunista; essi non rappresentano il vero Gramsci e non costituiscono certamente la misura della sua statura e della sua grandezza intellettuale, ormai internazionalmente riconosciuta. Ciò trova una agevole spiegazione nel fatto che gli scritti richiamati sono espressione di temi e di problemi di un periodo storico, ormai consegnato alla storia, senza alcuna attinenza con le problematiche odierne. Ricorda Umberto Terracini – che con Gramsci fu uno dei protagonisti della scissione di Livorno del ’21 – che, all’epoca, affascinati dalle “grandiose prospettive” della Rivoluzione d’Ottobre, insofferenti dei “vecchi schemi”, dell’insufficienza, dell’arretratezza e dell’inconcludenza del socialismo italiano, arrivarono a ritenere che la situazione politica italiana ed europea fosse nella fase prerivoluzionaria e da qui la necessità di una urgente e forte iniziativa politica, della quale il partito socialista italiano non era capace; quindi, o si muovevano subito le “forze autenticamente di sinistra” o, in alternativa, la borghesia 98 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

6.  Rivoluzione fallita e rivoluzione passiva

era pronta ad effettuare la controrivoluzione13. Resta, comunque, da sottolineare che il gruppo dell’Ordine Nuovo, che aveva contribuito alla fondazione del partico comunista italiano, pur scontando le difficoltà e le asprezze di una situazione difficile nell’intrico tra rivoluzione e reazione e repressione poliziesca, alimentata e sempre più incombente per l’alleanza tra fascismo e apparati statali, riuscì a conservare una sua fisionomia e particolarità. Rammenta Terracini che né il settarismo di Bordiga e né le repressioni poliziesche “cancellarono la nostra convinzione sulla necessità di costruire il socialismo nel riconoscimento del pluralismo sociale, culturale, ideale, della società italiana. Questo si deve soprattutto a Gramsci. Quando l’Ordine Nuovo divenne il quotidiano del nostro partito ebbe come critico teatrale un liberale, Piero Gobetti. E lo stesso Gramsci cercò perfino di stabilire contatti con quella parte del movimento dannunziano che non aveva stretto legami col fascismo e che anzi diffidava di Mussolini… la radice di Ordine Nuovo cercò di aprirsi agli intellettuali non comunisti, abbozzò almeno un dialogo con i lavoratori cattolici”14. Questo patrimonio ideale insieme con il riconoscimento del pluralismo, la consapevolezza che una democrazia socialista non ne può fare a meno, il convincimento che i diritti sociali e la loro salvaguardia non possono anzi debbono allargare e garantire gli spazi di libertà, la funzione degli intellettuali, la riforma morale ed intellettuale, costituiranno quel vasto campo di analisi delle pregevoli notazioni carcerarie di Gramsci, contenute nei Quaderni, in cui le sue meditazioni sui grandi temi del vivere civile sono certamente di pregnante attualità15.

Umberto Terracini, Quando diventammo comunisti, a cura di Mario Pendinelli, ed. Rizzoli, Milano, 1981, pp. 45-46.

13 

14 

Ivi, pp. 50-51.

15 

Antonio A. Santucci, Antonio Gramsci 1891-1937, ed. Sellerio, Palermo, 2005, p. 185.

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7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

L’8 novembre 1926, Antonio Gramsci, allora deputato alla Camera e non dichiarato decaduto, pur godendo dell’immunità parlamentare, viene arrestato a Roma e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il 18 novembre è assegnato al confino di polizia per cinque anni da scontare all’isola di Ustica, dove giunge il 7 dicembre. Il 14 gennaio 1927, il tribunale militare di Milano spicca contro di lui un mandato di cattura; prelevato da Ustica il 20 gennaio, viene condotto a Milano e rinchiuso nel carcere di San Vittore. L’anno seguente, in data 19 marzo, gli viene notificata l’ordinanza di rinvio a giudizio davanti al tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato1, composto soltanto da fascisti, vero e proprio strumento di repressione e rappresaglia contro gli avversari del regime fascista. Il 28 maggio 1928 inizia il processo, davanti al tribunale fascista, nei confronti di ventidue dirigenti del partito comunista, fortemente odiati e temuti da Mussolini, tra i quali vi è ovviamente Gramsci, ma anche Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Giovanni Roveda e gli ex deputati Luigi Alfani, Igino Borin, Enrico Ferrari ed Ezio Riboldi. Il cosiddetto tribunale è presieduto dal generale Alessandro Saporiti, relatore l’avvocato Giacomo Buccafurri, giurati cinque consoli della milizia fascista, accusatore l’avvocato Michele Isgrò; l’accusa è: cospirazione, istigazione alla guerra civile, apologia di reato, incitamento all’odio di clasMimmo Franzinelli, Il tribunale del duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1943), ed. Mondadori, Milano, 2017. 1 

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se; tutte accuse assolutamente infondate, ma che servivano come pretesto per una condanna esemplare dei più rilevanti esponenti comunisti. Si trattò di un processo-farsa sia in riferimento alle iperboliche accuse sia per la gestione da parte del presidente, che rigettò tutte le istanze della difesa, intenzionato com’era pregiudizialmente alla condanna, da vecchio fascista, e come esplicitamente manifestò agli avvocati difensori degli accusati. All’avvocato Gaetano Ferragni, il cui fratello Rosolino figurava tra gli imputati minori, alla vigilia del processo, fece le “duplici condoglianze” in riferimento al fatto sia che l’imputato era fratello dell’avvocato sia in ordine all’esito del processo stesso. L’avvocato gli fece presente che, dalla lettura degli atti di causa, emergeva chiaramente che la posizione processuale del fratello non era “affatto grave”; al che il presidente-generale ammise di non avere letto gli atti, “ma so che questo processo, in cui può darsi che culmini l’attività del Tribunale speciale, deve finire con una gravissima condanna”. Ammonì l’avvocato Giovanni Ariis, difensore di Terracini e Gramsci, preannunciandogli la sentenza di condanna: “Credo che lei, avvocato, abbia tra gli imputati alcune persone che le sono particolarmente care. Ebbene, io le consiglio che quando noi saremo chiusi per deliberare, lei vada a trovarli in guardina e li prepari alla condanna più grave possibile”2. Nell’udienza del 30 maggio 1928, il generale-presidente procedette all’interrogatorio di Gramsci in modo truculento ed arrogante, contestandogli le gravissime imputazioni di cospirazione, di istigazione alla guerra civile. Gramsci ovviamente ammise di essere comunista sottolineando opportunamente che “se l’essere comunista importa responsabilità, l’accetto”. Mise in chiaro che “la mia attività politica è nota per averla esplicata pubblicamente come deputato e come scrittore de ‘l’Unità’; che non aveva mai

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Ivi, pp. 9-50.

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7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

svolto alcuna attività clandestina che comunque neanche avrebbe potuto svolgere dal momento che “da anni ho sempre avuto vicino sei agenti, con il compito dichiarato di accompagnarmi fuori o di sostare in casa mia… con il pretesto della protezione, fu esercitata nei miei confronti una sorveglianza che diviene oggi la mia migliore difesa”; per deporre su tale precisa circostanza, chiedeva l’escussione come testi del prefetto e del questore di Torino, che ovviamente il cosiddetto tribunale del duce si guardò bene dal convocare. Alla conclusione dell’interrogatorio, ai fascisti camuffati da giudici, disse: Voi condurrete l’Italia alla rovina, spetterà a noi comunisti di salvarla”3. Nel pomeriggio di lunedì 4 giugno 1928, intervenne per tutti gli accusati Umberto Terracini che, in un continuo battibecco col presidente, ricordò che un tribunale costituzionale – “assai più in alto di questo” – come “il Senato costituito in Alta Corte di Giustizia”, nel procedimento penale contro il generale Luigi De Bono, accusato di complicità nell’assassinio dell’onorevole Giacomo Matteotti, aveva sentenziato che “nessun capo di partito o di altra organizzazione può essere tenuto penalmente responsabile di atti commessi da soci o da seguaci dei partiti o delle organizzazioni in questione quando non ne possa venire provata concretamente la reità”. Per tale motivo, in assenza di prova alcuna a carico dei prevenuti in ordine ai reati loro ascritti, la conclusione non avrebbe potuto essere che l’assoluzione. Ma il pubblico ministero Michele Isgrò, nella sua feroce e violenta requisitoria del 2 giugno 1928, aveva chiesto la condanna di tutti gli accusati evidentemente ritenendo non valido il detto principio, enunciato dall’Alta Corte, della necessità di prove concrete di reità e, nei riguardi di Gramsci, pur in assenza di prove, aveva sollecitato la grave pena detentiva perché “per vent’anni, dobbiamo impedire a que-

3 

Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Laterza, Bari, 1966, p. 267.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

sto cervello di funzionare”. Per Terracini, era evidente “il significato politico” del processo: “il fatto puro e semplice della esistenza del partito comunista è sufficiente, di per sé stesso, di porre in pericolo grave e imminente il regime… esso si sente minacciato… solo perché di fronte a lui si leva questo piccolo partito, disprezzato, colpito e perseguitato…”4. Come di già predisposto e previsto, piovvero le condanne: quella più grave, ventidue anni e nove mesi, per Terracini; vent’anni per Gramsci, Roveda e Scoccimarro; dai cinque ai diciotto anni per tutti gli altri quattordici coimputati. Gramsci fu rinchiuso al carcere di Turi, ove il suo cervello, pur tra inumane sofferenze5, riuscì a “funzionare” mirabilmente e lucidamente. Gli ultimi scritti di Gramsci del periodo immediatamente antecedente l’arbitrario ed illegittimo arresto, sono un articolo pubblicato su L’Unità del 26 settembre 1926, la lettera al Comitato Centrale del Partito Comunista Sovietico ed il saggio – rimasto, peraltro, incompiuto – vertente su Alcuni temi della questione meridionale6. Nell’articolo, apparso non firmato sul quotidiano comunista, polemizza con un giornalista de Il Mondo che era ricorso alla formuletta della psicosi massimalista per interpretare e spiegare la crisi politica italiana. Gramsci, invece, la attribuisce all’“equilibrio instabile fra le forze sociali in lotta” ed all’incapacità di una efficace azione politica delle forze socialiste derivante dalla loro disorganizzazione. “Il proletariato – scrive Gramsci – era troppo forte nel 1919-20 per assoggettarsi più oltre all’oppressione capitalistica. Ma le sue forze organizzate erano incerte, titubanti, deboli interiormente, perché il Partito Socialista non era che un amalgama

4 

M. Franzinelli, op. cit., p. 51.

5 

G. Fiori, op. cit., p. 271.

6 

A. Gramsci, Scritti, cit., pp. 701-742.

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7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

di almeno tre partiti; è mancato in Italia nel 1919-20 un partito rivoluzionario bene organizzato e deciso alla lotta. Da questa posizione di equilibrio instabile è nata la forza del fascismo italiano, che si è organizzato ed ha preso il potere con metodi e sistemi che, se avevano una loro peculiarità italiana ed erano legati a tutta la tradizione italiana e alla immediata situazione del nostro paese, pur tuttavia avevano e hanno una certa rassomiglianza con i metodi e i sistemi descritti da Carlo Marx nel Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, cioè con la tattica generale della borghesia in pericolo, in tutti i paesi”. Lo scritto sullo stato della questione meridionale, benché incompiuto e – secondo Gramsci – “rapidissimo e superficialissimo”7, riveste una sua peculiare rilevanza per il fatto che in esso sono contenuti in nuce e accennati o sommariamente sviluppati tutti quei temi e problemi relativi agli intellettuali italiani, alla loro funzione e influenza, alle classi sociali, allo spirito pubblico, che, poi, affronterà nel carcere in modo approfondito nei limiti e nelle possibilità oggettive, consentite dalla situazione carceraria. Gramsci scrive alla cognata Tatiana Schucht nella lettera del 19 marzo 1927 di essere “assilato” dall’idea “che bisognerebbe far qualcosa für ewig, secondo una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli… vorrei svolgere ampiamente le tesi che allora avevo abbozzato, da un punto di vista “disinteressato”, “für ewig” e qui si riferisce esplicitamente allo “scritto sull’Italia meridionale e sulla importanza di Benedetto Croce”. Si tratta di temi che Gramsci ebbe a studiare ed approfondire nel periodo della detenzione nel carcere di Turi, i cui frutti sono gli ormai celebri Quaderni del carcere, che palesarono la statura intellettuale dell’Autore conferendogli notorietà e fama für ewig,

7  A. Gramsci, lettera a Tatiana Schucht del 19.3.1927, in Lettere dal carcere, con pref. di Luciano Canfora, ed. Corriere della sera, Milano, 2010, pp. 39-42.

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collocandola anche al di sopra dello stretto ambito partitico e definitivamente consacrando Gramsci come intellettuale, pensatore e scrittore che, anche dopo il comunismo, ha ancora molto da insegnare. Il Mezzogiorno appariva a Gramsci come “una grande disgregazione sociale” e la “società meridionale un grande blocco agrario” fondamentalmente ripartito in tre gruppi sociali: 1) “la grande massa contadina amorfa e disgregata”; 2) la piccola e media borghesia con i suoi intellettuali; 3) la grande proprietà ed i “grandi intellettuali”, rappresentati all’epoca da Giustino Fortunato e da Benedetto Croce. La perenne irrequietudine contadina non era riuscita fino ad allora a trovare una concreta espressione nel campo politico e culturale. La piccola e media borghesia rurale non riesce a trovare una espressione autonoma in ambito culturale e politico. Sicché il ceto dei grandi proprietari e dei grandi intellettuali esercita il monopolio del potere pubblico ed ha anche l’egemonia culturale. Ne deriva che, “le chiavi di volta del sistema meridionale” sono Benedetto Croce e Giustino Fortunato. Nell’Italia meridionale, prevalentemente ad economia agricola, l’intellettuale rural-borghese costituisce il nerbo della burocrazia statale e, nel villaggio, esplica la funzione di intermediario tra la massa contadina e l’amministrazione pubblica. Ed è questo “tipo” che prevale, “con tutte le sue caratteristiche: democratico nella faccia contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo, politicante, corrotto, sleale; non si comprenderebbe la figura tradizionale dei partiti politici meridionali, se non si tenesse conto dei caratteri di questo strato sociale”. L’intellettuale rural-borghese è prevalentemente espressione del ceto dei piccoli e dei medi proprietari di terre, i quali non sono manuali coltivatori, cioè, non sono contadini veri e propri, ma sono soltanto proprietari di terre che danno a mezzadria o in 106 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

affitto, da cui ricavano di che vivere e mantenere la famiglia, fare studiare i figli maschi e provvedere alla dote per le femmine, che cercano di dare in spose a professionisti e impiegati. “Da questo ceto gli intellettuali ricevono un’aspra avversione per il contadino lavoratore, considerato come macchina da lavoro… ricavano anche il sentimento atavico e istintivo della folle paura del contadino e delle sue violenze distruttrici e quindi un abito di ipocrisia raffinata e una raffinatissima arte di ingannare e addomesticare le masse contadine”. Il clero appartiene anche al gruppo sociale degli intellettuali con questa differenziazione: il prete settentrionale, solitamente provenendo o da famiglie di artigiani o di contadini, è più vicino al popolo, più democratico, più corretto moralmente; il prete meridionale “spesso convive con una donna”, amministra qualche volta le terre della chiesa, entrando in rapporti conflittuali con i contadini fittavoli a causa dei canoni dei terreni spesso è usuraio per essere preda di “passioni comuni (donne e denaro)” dà tutt’altro che esempi di moralità e di affidabilità. Il proverbio popolare “il prete è prete sull’altare e fuori è un uomo come tutti gli altri” qualifica l’opinione che si ha del clero, cioè, la scarsa considerazione da parte delle masse contadine. “Tutto questo complesso di motivi – conclude Gramsci – spiega perché nel Mezzogiorno il Partito Popolare (eccettuata qualche zona della Sicilia) non abbia una posizione notevole…”. Ed, in effetti, il Partito Popolare scelse i suoi rappresentanti tra il ceto rurale-borghese più elevato economicamente e le stesse gerarchie ecclesiastiche si rifugiarono, perlopiù, durante il ventennio fascista, sotto le ali del littorio. Il concetto gramsciano del meridione d’Italia come “grande disgregazione sociale” comprende anche gli intellettuali, che non trovano adeguato spazio nel Mezzogiorno, né stimoli alla ricerca, né incoraggiamenti. Non vi sono, infatti, case editrici di grande respiro, salvo la casa editrice Laterza. Pertanto, gli intellettuali meridionali, che aspirano ad uscire fuori dal blocco agrario per 107 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

non esserne condizionati, hanno operato nell’Italia settentrionale, collaborando o dirigendo giornali o riviste, come le fiorentine “Voce”, “Unità”, l’“Azione” di Cesena, la “Patria” di Bologna e la “Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti”. Ma “supremi moderatori politici e intellettuali di tutte queste iniziative sono stati Giustino Fortunato e Benedetto Croce. In una cerchia più ampia di quella molto soffocante del blocco agrario, essi hanno ottenuto che la impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria. Uomini di grandissima cultura e intelligenza, sorti sul terreno tradizionale del Mezzogiorno ma legati alla cultura europea e quindi mondiale, essi avevano tutte le doti per dare una soddisfazione ai bisogni intellettuali dei più onesti rappresentanti della gioventù colta del Mezzogiorno, per consolarne le irrequiete velleità di rivolta contro le condizioni esistenti, per indirizzarli secondo una linea media di serenità classica del pensiero e dell’azione”. Benedetto Croce, con la sua filosofia, ha effettuato il mutamento del “metodo del pensiero”, ha costruito una “nuova concezione del mondo che ha superato il cattolicismo e ogni altra religione mitologica”; con la sua influenza, ha portato gli intellettuali “radicali” meridionali nell’ambito della cultura nazionale ed europea e, quindi, “li ha fatti assorbire dalla borghesia nazionale e dal blocco agrario”, distaccandoli dalle masse contadine. Passando all’esame della funzione, svolta dall’Ordine Nuovo, la rivista torinese da lui fondata e diretta, Gramsci ammette esplicitamente di avere “subìto l’influenza intellettuale di Giustino Fortunato e di Benedetto Croce”, ma contemporaneamente, attraverso la rivista e “i comunisti torinesi”, di avere operato “una rottura completa con quella tradizione” e dato inizio ad un “nuovo svolgimento che ha già dato dei frutti e che ancora ne darà”. Alla crociana filosofia dello spirito, al suo svolgimento secondo la dialettica dei distinti ed al dispiegarsi della storia come progressiva realizzazione della libertà, Gramsci oppone il proletariato ur108 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

bano come concreto “protagonista moderno della storia italiana e quindi della questione meridionale”. Ciò perché bisogna considerare che il proletariato urbano e quello rurale sono le due forze sociali “essenzialmente nazionali”, che segneranno l’avvenire ed alle quali, in passato, non era stato dato alcuna importanza: Croce stesso aveva ritenuto la sola borghesia come classe generale, rappresentativa di tutta la Nazione. Alla pari di come aveva fatto Carlo Marx nel contestare le fondamenta della filosofia hegeliana che aveva posto nell’Idea assoluta e astratta il concetto trascendentale dello spirito che crea e determina le istituzioni, tutte le istituzioni, in queste concretizzantesi, Gramsci opera il capovolgimento del canone storico crociano, ponendo quale protagonista della storia non il realizzarsi di una libertà ipotetica e astratta, ma l’uomo reale con i suoi problemi e bisogni reali, lo Stato come espressione degli interessi delle classi dominanti, la dialettica reale tra classi e gruppi sociali oggettivamente antagonisti, le due grandi forze popolari, proletariato urbano e proletariato rurale. L’Ordine Nuovo ed il gruppo gramsciano di intellettuali, costituitosi intorno alla rivista, aveva svolto l’importante funzione, agitando e dibattendo tale nuova problematica, di mediazione tra il proletariato come forza politica antagonista e gruppi di intellettuali progressisti liberali. Piero Gobetti, con la sua casa editrice e la prestigiosa rivista Rivoluzione Liberale, impersona il trait-d’union tra il nuovo liberalesimo e le masse popolari. Gobetti – osserva Gramsci – “non era comunista e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, ma aveva capito la posizione sociale e storica del proletariato e non riusciva più a pensare astraendo da questo elemento. Gobetti, nel lavoro comune del giornale, era stato posto a contatto con un mondo vivente che aveva prima conosciuto solo attraverso le formule dei libri… perciò non poteva non convincersi come tutta una serie di modi di vedere e di pensare tradizionali verso il proletariato erano falsi e ingiusti”. 109 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

Il capovolgimento dei princìpi liberali, che avevano un loro rappresentante eminente in Benedetto Croce, vengono trasferiti dagli individui e ricondotti a “dei fenomeni di massa”, anzi “le classi vengono concepite quasi come individualità collettive”. All’uopo, l’azione gobettiana di organizzazione culturale “scavò una trincea oltre la quale non arretrarono quei gruppi di intellettuali più onesti e sinceri che nel 1919-20-21 sentirono che il proletariato come classe dirigente sarebbe stato superiore alla borghesia”. Il gruppo di Ordine Nuovo, attraverso Piero Gobetti, era entrato in contatto anche con “una serie di intellettuali meridionali che, per collegamenti più complessi, ponevano la questione meridionale su un terreno diverso da quello tradizionale, introducendovi il proletariato del Nord”. Il più interessante ed eminente di questi intellettuali è l’avellinese Guido Dorso che, nel 1925, per le edizioni Gobetti, aveva dato alle stampe il saggio La Rivoluzione Meridionale8, in cui sosteneva la necessità della rottura del blocco agrario come presupposto per il superamento dell’immobilismo nel Mezzogiorno. Il termine “rivoluzione” nell’accezione dorsiana vuole significare ed essere il contrario di quel “trasformismo”, che impediva la democrazia reale nello Stato postunitario coll’assorbire “nel quadro istituzionale della conquista regia, le forze più vive che, di volta in volta, si presentavano nella scena politica”. Il blocco agrario meridionale e l’incapacità del Mezzogiorno di uscirne superando il proprio immobilismo mantenevano, anzi, garantivano la pratica deleteria del “trasformismo” e consentivano la permanenza del dominio della borghesia terriera sui contadini. Gli intellettuali meridionali, per essere il punto di intermediazione tra contadini e proprietari, costituiscono in questo contesto un elemento essenziale per la rottura del blocco agrario;

8 

Guido Dorso, Rivoluzione meridionale, ed. Gobetti, Torino, 1925.

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7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

senza tale mediazione, infatti, il detto blocco non potrebbe esistere. Per conseguenza, non avendo essi legami organici con gli agrari ed i latifondisti, potrebbero diventare, “nelle ore di punta della storia”, i leaders del movimento di rivolta contro la conservazione9. La conclusione di Gramsci è in perfetta sintonia con la tesi di Dorso: il proletariato riuscirà a debellare il blocco agrario con l’alleanza tra proletariato del Nord e le masse rurali meridionali; “ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è l’armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario”. La dissoluzione del sistema comunista, avvenuta non per opera dei suoi avversari o dei suoi nemici, ma per un progressivo processo di implosione, e che ha travolto, spedendolo nel dimenticatoio, naturalmente tutto l’armamentario dottrinale e ideologico con gli stessi nomi dei suoi protagonisti, non è valsa a cancellare il nome e le opere di Gramsci. Una vasta letteratura internazionale in tante lingue, sviluppatasi gradualmente dopo l’Ottantanove e la bibliografia gramsciana, che ammonta a circa diecimila titoli10, attestano l’attualità ed il fascino del pensiero gramsciano o di aspetti del medesimo a cui ci si rivolge nel tentativo di trovare risposte appaganti ai problemi angoscianti della contemporaneità. Nella sua martoriata vicenda umana, che la dittatura littoria stroncò nel vano tentativo di annichilire o fermarne il pensiero, Gramsci potrebbe apparire come uno sconfitto, un vinto, ma non si può non riconoscere che – alla pari del suo amico Piero Gobetti – era un vinto “che aveva ragione”. Ed ha avuto ragione sia

G. Dorso, Rivoluzione meridionale, in Rosario Villari, Il Sud nella storia d’Italia, II, ed. Laterza, Bari, 1971, pp. 519-534. 9 

10  Antonio A. Santucci, Antonio Gramsci 1891-1937, cit., ed. Sellerio, Palermo, 2005, pp. 169 seg.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

nei confronti dello spavaldo dittatore che lo ha incarcerato per zittirlo, sia nei riguardi dell’omologo dittatore sovietico e dell’alta nomenklatura staliniana, a cui Gramsci contestava la rovinosa china burocratica, che avrebbe travolto e annullato i benefici sperati della rivoluzione leninista. La lettera al Comitato centrale del partito sovietico, recapitata a Palmiro Togliatti, che si trovava a Mosca in rappresentanza del partito italiano nell’esecutivo dell’Internazionale comunista, sta a documentare l’autonomia culturale, l’intransigenza morale, l’indipendenza di giudizio e l’assenza di timori reverenziali di Gramsci nei confronti di Stalin, di Bucharin, di Zinoviev, di Kamenev e di Trockij, schierati su opposte fazioni in aperte e contrapposte posizioni sulle tematiche della politica agraria, della politica internazionale e della questione circa “il socialismo in un solo paese”. “Oggi – scrive Gramsci – alla vigilia della vostra XV Conferenza, non abbiamo più la sicurezza del passato; ci sentiamo irresistibilmente angosciati; ci sembra che l’attuale atteggiamento del blocco di opposizioni e l’acutezza delle polemiche del PC dell’URSS esigano l’intervento dei partiti fratelli…Voi siete stati, in questi nove anni di storia mondiale, l’elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi… ma voi oggi state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Partito comunista dell’URSS aveva conquistato per l’impulso di Lenin; ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale”. Il richiamo di Gramsci era pesante, veritiero, colpiva nel segno e riecheggiava la stessa preoccupazione di Lenin che vedeva il pericolo, incombente alla stessa stabilità dell’organizzazione statale, derivante dalla minaccia di una scissione nel partito a cau112 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

sa dei dissidi insanabili e delle contrapposizioni cristallizzate tra Trockij e Stalin, il quale ultimo era giudicato da Lenin “troppo grossolano” e che “diventato segretario generale, ha accentrato nelle sue mani un immenso potere ed io non sono sicuro che egli possa servirsene sempre con sufficiente prudenza”; perciò, proponeva “di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico e designare a questo posto un altro uomo che… si distingua dal compagno Stalin solo per questa migliore qualità, di essere cioè più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso…”11. Ma Stalin, che con la carica di Segretario generale esercitava anche quella di Commissario del popolo per l’Ispezione operaia e contadina, malgrado e contro il parere assolutamente negativo di Lenin, appoggiato da Zinovjev e Kamenev, conservò intatto il suo potere. Successivamente, con l’alleanza con la destra di Bukharin, Rikov e Tomski, si liberò anche dei due; sicché Trockij, Zinovjev e Kamenev, nel Politburo, si trovarono all’opposizione. È noto che poi Stalin si libererà anche della destra e diventerà il padrone del partito. In questo modo, nell’arco di pochi anni, il processo di burocratizzazione, contro il quale s’era battuto Lenin, ritenendolo giustamente fonte d’oppressione e come tale “da combattere in tutti i settori, compreso il vertice del partito”, fece regredire quello che avrebbe dovuto essere un nuovo ordinamento politico di democrazia proletaria, a regime personale, autoritario, poliziesco, illiberale e repressivo. E non era certamente uno spettacolo edificante il divampare dello scontro tra le fazioni contrapposte perché – avvertiva Gramsci – “l’insegnamento di Lenin è stato quello che noi dobbiamo molto studiare i giudizi dei nostri nemici di classe… è certo che i giornali e gli uomini di Stato più forti della borghesia internazionale puntano su questo carattere organico del conflitto esi-

11 

Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, ed. Laterza, Bari, 1969, pp. 91 seg.

113 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

stente nel nucleo fondamentale del Partito comunista dell’URSS, puntano sulla scissione del nostro Partito fratello e sono convinti che essa… debba determinare la catastrofe della Rivoluzione che non riuscirono a determinare le invasioni e le insurrezioni delle guardie bianche”. In conclusione, Gramsci esortava all’unità perché “solo una ferma unità e una ferma disciplina nel Partito… può assicurare l’egemonia proletaria in regime di Nep… ma l’unità e la disciplina in questo caso non possono essere meccaniche e coatte; devono essere leali e di convinzione e non quelle di un reparto nemico imprigionato o assediato che pensa all’evasione o alla sortita di sorpresa”. Togliatti, all’epoca allineato sulle posizioni di Bukharin e di Stalin, non condivise le motivazioni della lettera di Gramsci per il fatto che esse facevano perno principalmente sul pericolo della scissione, non condannavano le posizioni del gruppo di minoranza e non prendevano posizione in favore del gruppo di maggioranza; sembrava a Togliatti indispensabile ed essenziale “l’accordo con la linea politica del partito bolscevico e la condanna delle posizioni errate del gruppo di opposizione”12. Ma Gramsci non condivise la risposta di Togliatti e gli ribadì le sue argomentazioni con una “breve” risposta di replica, il cui testo non è ancora noto. Il Comitato centrale del partito bolscevico non tenne ovviamente conto alcuno dei rilievi di Gramsci. Il provvisorio sodalizio Stalin-Bukharin aveva vinto su tutta la linea: Trockij e Kamenev furono espulsi dal Politburo; Zinovjev fu destituito da presidente dell’Internazionale; tale importante incarico sarà ricoperto dallo stesso Bukharin. Tutti questi accadimenti dimostravano chiaramente – come narrerà Trockij in pagine ama-

G. Ferrata, 2000 pagine di Gramsci, Milano, 1964; v. anche Annali Feltrinelli, 1966, a cura di Giuseppe Berti, pp. 291 seg.

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7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

re e taglienti13 – che la “burocrazia termidoriana” aveva sconfitto l’opposizione di sinistra e lo stesso partito bolscevico, lasciato alla mercè di un “capo incontrastato”. In effetti, Stalin, dopo avere vinto Trockij e Zinovjev, s’era sbarazzato anche di Bukharin ed era veramente diventato il padrone del partito e, quindi, dello Stato sovietico14. Quel che succedeva nel partito bolscevico ed in seno all’Internazionale proiettava le sue ombre negative anche nella dirigenza del partito comunista italiano, notoriamente attestato sulle posizioni delle tesi gramsciane, approvate nel congresso del partito tenutosi a Lione nel 1926, nelle quali si affermava a chiare lettere che contro fascismo, al potere in rappresentanza delle classi dominanti e, per conseguenza, costituendo esso un blocco industrialeagrario, per combatterlo, bisognava costruire una grande alleanza delle autentiche forze nazionali e popolari e, cioè, l’alleanza operosa tra gli operai del Nord e le masse rurali meridionali, che avrebbero dovuto procedere in sintonia e costituire così un blocco sociale progressista. Gramsci legava la lotta politica antifascista alla storia nazionale per ricercare e identificare quelle forze – nazionali e popolari – sul concorso e l’alleanza delle quali fondare, su basi solide e senza settarismi ed estremismi, un nuovo, originale, efficace strumento di opposizione al fascismo. Tale peculiare visione, che Gramsci aveva maturato anche analizzando e scandagliando la storia nazionale ed il suo variegato svolgimento intellettuale e culturale, lo portava a diffidare delle “misure eccessive” ed estreme. Probabilmente sarà stata questa la ragione giustificatrice che lo indusse ad esprimere al Comitato centrale del partito sovietico, nel 1926, le sue riserve ed a solleci-

13 

Leone Trockij, La rivoluzione tradita, ed. Schwarz, Milano, 1956, pp. 95 seg..

Su Stalin, Kamenev, Trockij, Bukharin, Zinovjev, cfr. A. Santucci, op. cit., pp. 195204; M. Lewin, op. cit., pp. 195-199.

14 

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

tarne l’unità operosa. Gramsci, ben consapevole della complessità della situazione italiana, non riteneva ragionevolmente che, nella ipotesi di caduta del regime fascista, si potesse verificare l’automatica successione al potere del blocco popolare senza la fase intermedia democratico-borghese. Su questo punto essenziale della lotta politica in atto, netto era il contrasto con la posizione dell’Internazionale che, nel sesto congresso del 1928 e nel decimo Plenum del Comitato esecutivo del 1929, dietro l’impulso di Stalin ed in conseguenza delle drammatiche lotte di potere e delle lacerazioni all’interno del partito sovietico, aveva cangiato indirizzo e imposto una vera e propria svolta anche ai partiti nazionali: niente più “fronti unici” o blocchi popolari; il capitalismo è in crisi profonda; siamo in una situazione prerivoluzionaria; bisogna accelerare l’abbattimento del potere borghese-capitalistico, sostituendolo immediatamente con la dittatura del proletariato senza passare per la fase di transizione del governo democratico-borghese; la socialdemocrazia, non essendo una forza rivoluzionaria e servendo come puntello alla borghesia per mantenersi al potere, dev’essere combattuta, allo stesso modo del fascismo. L’equiparazione socialdemocrazia-fascismo – e da qui il cosiddetto socialfascismo – era puramente fantastica, profondamente errata ed astratta, ma era anche l’esatto contrario dell’indirizzo dei comunisti italiani. “Tradotta in linguaggio politico italiano – scrive Ignazio Silone15 – quella svolta imperiosamente richiesta da Mosca anche a noi, era la negazione più radicale di tutto l’orientamento dai comunisti seguito in Italia negli ultimi anni e ciò d’altronde venne esplicitamente confermato e preteso dagli emissari dell’Internazionale appositamente incaricati”. Anche Umberto Terracini, uno dei fondatori del partito co-

15 

Ignazio Silone, Uscita di sicurezza, ed. Longanesi, Milano, 1971, pp. 110 seg.

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7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

munista, allora in carcere dove stava scontando i 22 anni di reclusione infertigli dal tribunale fascista, appresa la notizia, rimase sorpreso, ma ritenne “doveroso” comunicare al partito il suo dissenso. “Non condividevo – dice Terracini16 – inoltre, anzi la consideravo una concezione curiosa e pazza, l’analogia tra fascismo e socialdemocrazia. Una concezione secondo la quale il fascismo era un nemico pari ai socialisti, ai socialdemocratici, alle forze democratiche borghesi… Tutto questo… mi colpì talmente che sentii la necessità di esprimere il mio parere, specialmente quando mi giunse la notizia – nel 1930 – che il partito aveva espulso il responsabile dell’organizzazione, Tresso, e altri due compagni del comitato direttivo, Leonetti e Ravazzoli, che avevano denunciato i rischi di una politica sbagliata. Che cosa stava succedendo nel partito? Seppi che in successione di tempo erano stati espulsi anche Ignazio Silone e Bordiga. Il metodo di cacciare i compagni che esprimevano posizioni diverse era estraneo alla tradizione di Ordine Nuovo”. Anche Terracini fu espulso per il suo dissenso. Gramsci fu contrario alla “svolta”. Riferisce Umberto Terra17 cini – di essere venuto a conoscenza attraverso “radio carcere” che anche Gramsci aveva espresso il suo dissenso. “Le critiche di Gramsci avevano però molto allarmato il centro estero del partito e in modo particolare Togliatti. Fu poi Athos Lisa, un compagno recluso a Turi, a raccontarmi come erano andate le cose”. Il dissenso di Gramsci fu conosciuto anche a Parigi. A quel punto, Togliatti incaricò il fratello maggiore di Gramsci, Gennaro, che lavorava a Parigi, di venire in Italia a trovare il fratello nel carcere di Turi, dove aveva diritto di entrare come stretto congiunto del carcerato, per chiedergli il suo parere sulla svolta e sulla espulsio-

Umberto Terracini, Quando diventammo comunisti, a cura di Mario Pendinelli, ed. Rizzoli, Milano, 1981, p. 99.

16 

17 

Ivi, pp. 103-104.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

ne dei tre, Pietro Tresso, Paolo Ravazzoli e Alfonso Leonetti, e di riferirlo al partito. Gennaro Gramsci, recatosi dal fratello, ebbe con lui un colloquio, nel quale Gramsci manifestò chiaramente il dissenso sulla linea imposta dall’Internazionale e sull’espulsione dei tre. Però, Gennaro Gramsci riferì tutto il contrario a Togliatti. Terracini ne spiega anche il perché. La sua narrazione è veritiera anche perché confermata da altre fonti mai smentite18. Gennaro Gramsci non riferì la verità perché “preoccupato” per la sorte del fratello; temeva che nel clima arroventato dalle reciproche intolleranze, creatosi nel centro estero del partito, il fratello avrebbe potuto essere colpito da provvedimenti disciplinari, che ne avrebbero peggiorato la situazione nel carcere con gravi “conseguenze pratiche, materiali. Perché era il partito, attraverso Tatiana, la cognata di Antonio, che provvedeva a far pervenire a Gramsci qualche medicina, qualche pacco di viveri, qualche piccola somma di denaro, e soprattutto i libri senza i quali Antonio si sarebbe sentito solo e perduto”. Per altre vie, però, il centro estero del partito ne venne a conoscenza. Nel carcere di Turi c’era pure Athos Lisa che ivi scontava, insieme ad altri comunisti, la pena detentiva alla quale era stato condannato dal tribunale speciale fascista. Costui, subito dopo la scarcerazione, si sentì in dovere di inviare un rapporto al centro di Parigi, nel quale esponeva che Gramsci aveva organizzato nel carcere stesso una sorta di seminario politico; teneva delle lezioni per educare le nuove generazioni di comunisti o, comunque, un nuovo gruppo dirigente con la maggiore apertura possibile, fuori da settarismi e da estremismi. Secondo il predetto Lisa, alcuni detenuti non condividevano le tesi di Gramsci, l’accusavano di opportunismo e di simpatie per la socialdemocrazia e, per tale

18 

G. Fiori, op. cit., pp. 291-298.

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7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

motivo, addirittura chiedevano la sua espulsione dal partito19. Sandro Pertini, socialista e futuro Presidente della Repubblica Italiana, che fu in carcere con Gramsci a Turi e con lui strinse allora amicizia “sincera”, racconta che questa amicizia per lui rivestiva un valore particolare proprio perché, in quell’epoca, si consumava un aspro contrasto tra comunisti e socialisti che, anzi, “si sbranavano”20. “Queste amicizie (con Pertini e due anarchici, che divennero comunisti, NdR.) gli venivano rimproverate dai compagni comunisti… ci fu un forte dissenso politico, in quel periodo, fra Gramsci e questo gruppo di comunisti. Gramsci se ne rammaricava con me: ‘Non hanno capito la mia opposizione’, diceva. Mi risulta che questo gruppo fece pervenire poi al centro estero del partito a Parigi una relazione sulle posizioni politiche di Gramsci, quasi denunciandolo come un deviazionista; la stessa sorte del resto capitò a Terracini e alla Ravera che al confino erano considerati fuori del partito. Gramsci soffriva molto di quella situazione… Ma la mia grande amarezza derivava dalla ostilità che gli dimostrava il gruppo di detenuti comunisti che era a Turi, fatta qualche eccezione. È inutile che faccia il nome di questi compagni, ricordo, però, che ad un certo punto anch’io cercai di intervenire per sanare questo dissidio; ma non fu possibile approdare a risultati. Dissi fraternamente ai compagni comunisti: ‘fate male a lasciarlo solo’. Perché non era lui che teneva a distanza i compagni, ma erano loro che lo tenevano isolato. Perciò lui continuava a stare con me e con i due anarchici milanesi… Allora, per i comunisti, noi socialisti eravamo dei “socialfascisti”. Non per Gramsci, perché egli prevedeva che un giorno vi sarebbe stata un’alleanza tra i socialisti, i comunisti e tutte le forze antifasciste.

19 

Ivi.

Sandro Pertini combattente per la libertà, a cura di Stefano Caretti e Maurizio Degl’Innocenti, ed. “Corriere della Sera”, Milano, 2020, pp. 148-154.

20 

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

E riteneva fosse un grave errore quello di certi suoi compagni che ancora persistevano su questa posizione nei nostri confronti”. In tutte queste drammatiche vicende, la posizione di Palmiro Togliatti, che era succeduto al vertice del partito ed era stato a fianco di Gramsci al tempo dell’Ordine Nuovo e che, quindi, si dovrebbe presumere che ne condividesse l’impostazione e la strategia politica, del tutto aliena da settarismi e manicheismi, è attraversata da non poche ombre e, già, all’epoca, ha posto interrogativi angoscianti agli stessi dirigenti comunisti. Nel sesto Congresso dell’Internazionale sembrò parteggiare per le tesi di Bukharin. Quando, però, nel 1929, venne lanciata la parola d’ordine di dare battaglia alla borghesia ed ai suoi pretesi servi socialdemocratici, in disaccordo con Gramsci, si adagiò sulle posizioni della maggioranza dell’Internazionale, facendo espellere senza esitazione gli esponenti della cosiddetta destra, fra i quali Angelo Tasca, intelligenza acuta, brillante e vivace, anch’egli prestigioso collaboratore dell’Ordine Nuovo. Fino al 1945, seguì pedissequamente tutte le giravolte politiche dell’Internazionale, convinto che tra partito comunista d’Italia e Unione Sovietica dovesse esserci un “legame di ferro” perché solo con la stretta unità si sarebbe garantito il buon esito della lotta di classe21. Secondo Umberto Terracini, “per Togliatti, dal 1928 in poi, l’ultima parola è stata sempre quella dell’Internazionale” perché convinto che la predetta organizzazione avesse una conoscenza precisa degli avvenimenti internazionali e fosse, quindi, in grado di guidare i singoli partiti nazionali dei quali, tra l’altro, solo l’Internazionale poteva garantire la sopravvivenza. “Ed è in questa luce che si può trovare una qualche risposta alla domanda che molti si posero più tardi, pensando a Togliatti a Mosca durante i tempi terribili, fra il 1936 e il 1938, dei processi staliniani. Perché

21 

Giuliano Procacci, Storia degli italiani, II, ed. Laterza, Bari, 1971, pp. 527-528.

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7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

non disse una parola di condanna? Perché non si dissociò? Era convinto veramente che Zinovjev o Bukharin o Trockij fossero criminali indegni, passibili di ogni più feroce condanna, come Zinivjev e Bukharin che furono fucilati dopo una sentenza dei tribunali sovietici, o come Trockij, che fu poi assassinato in Messico da un emissario, oggi diremmo killer, mandato da Mosca? Non lo credo”. Lo stesso Terracini non riusciva a dare una risposta plausibile, però riteneva comunque, che era giocoforza “prendere atto della permanente corrispondenza di Togliatti alle posizioni e alle indicazioni provenienti dall’Internazionale, e quindi essenzialmente da Stalin per tutta la durata del fascismo”22. I dubbi e gli interrogativi di Umberto Terracini hanno trovato conferma in recenti ricerche storiche23, dalle quali è emerso inequivocabilmente che, a decorrere dal 1926 fino al 1944, negli anni dell’esilio trascorsi fra Mosca, Parigi e Bruxelles, Togliatti ha subordinato e adeguato sistematicamente la linea politica del partito comunista italiano alle cannibaliche lotte di potere, esplose tra i dirigenti sovietici. Quando Angelo Tasca muove le sue critiche – condivise anche da Gramsci24 – all’evidente e progressivo 22 

U. Terracini, op. cit., pp. 100-101.

A. Agosti, Palmiro Togliatti, ed. UTET, Torino, 1996; Pietro Scoppola, Lezioni sul Novecento, ed. Laterza, Bari, 2010, pp. 73-100. 23 

Scrive, a tale proposito, Ignazio Silone in op. cit. pp. 107-108: “…quando Angelo Tasca, reduce da Mosca, ci riferì come, in nostra rappresentanza, egli fosse stato indotto ad assumere un’aperta posizione critica verso la politica agraria di Stalin, noi rimanemmo fortemente impacciati… Per tale via, anche quelli di noi che in sostanza eravamo d’accordo con Angelo Tasca e gli eravamo amici, commettemmo l’errore e la viltà di lasciarlo solo e di condannarlo. La nostra condotta avrebbe potuto anche trovare una giustificazione successiva se, l’anno dopo, quando finalmente l’esecutivo di Mosca pose sotto accusa e condannò tutta la nostra politica dal 1924 in poi, cioè, tutta la politica ispirata principalmente da Antonio Gramsci, ci fossimo, come era stato nei propositi, trovati uniti e solidali nel difenderla. Invece, la demoralizzazione sofferta in quella lunga fase di ambiguità e reticenze, la diffidenza verso taluni dei nostri ritenuti più proclivi a capitolare di fronte a ogni pretesa di Mosca, come pure l’esempio di quello che stava 24 

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

processo di burocratizzazione del partito sovietico, ormai in mano a Stalin, Togliatti prende le difese delle linee di indirizzo politico della maggioranza bolscevica per ribadirne la essenziale funzione di guida. E Tasca – come si è già detto – fu espulso dal partito. Nel 1929, ormai abbandonato Bukharin, si schiera per la “svolta” della lotta contro il cosiddetto “socialfascismo”, imponendola anche ai comunisti italiani, in gran parte recalcitranti, per poi, nel 1935, fare marcia indietro e sposare la politica dei Fronti Popolari in ottemperanza alle disposizioni dell’Internazionale ed, in definitiva, alle imposizioni staliniane. “In questi anni – è stato giustamente rilevato25 – non c’è spazio, nella visione di Togliatti, per i valori della tradizione liberaldemocratica dell’Occidente europeo. Ogni democrazia è dittatura, perché è dominio della borghesia; soltanto l’avvento del proletariato al potere può creare le condizioni di una vera democrazia con il radicale cambiamento dei rapporti di classe”. Ma sussistono ancora altre circostanze che evidenziano la particolare tortuosità o, se si vuole, doppiezza togliattiana, come l’assoluto “silenzio” sulla sfortunata sorte di Gramsci e sui processi e le orrende purghe staliniane del 1936-1938, su cui non è stato trovato, negli archivi moscoviti o altrove, alcun documento di protesta o in difesa di innocenti condannati alla fucilazione e ad altre

accadendo in altri partiti, finirono col produrre l’effetto opposto; e anche quei pochi che, presi alla sprovvista, protestarono e furono espulsi dal partito, si trovarono ad agire in condizioni impreviste, estremamente confuse e penose, senza alcuna possibilità di esprimersi sul vero fondo del problema e, quel ch’era più grave, senza rendersi conto dell’intero significato dei propri atti e delle loro conseguenze. Come avevamo potuto illuderci che in una organizzazione totalitaria fosse possibile un esame serio e in buona fede dei temi controversi? Quella nostra sorpresa provava fino a qual punto noi fossimo ancora all’oscuro della reale natura della evoluzione sbìta dal comunismo russo e quanto fosse insufficiente la nostra percezione del groviglio di contraddizioni nel quale ci trovavamo impigliati…”. 25 

P. Scoppola, op. cit., p. 84.

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7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

pesanti pene essenzialmente ingiuste e inique, come all’evidenza hanno dimostrato le postume, ma inutili, “riabilitazioni”. Ed ancora: Togliatti ha giustificato il famigerato patto Molotov-Ribbentrop del 1939, che ha messo in crisi i comunisti europei, considerando lo scontro nazista con le democrazie occidentali come conflitto essenzialmente borghese, estraneo agli interessi popolari, così erroneamente mettendo sullo stesso piano e, di fatto, parificando gli ordinamenti liberaldemocratici occidentali e la Germania nazista, del tutto ignorando la chiara e patente politica di aggressione e di espansione nazista. Quando, però, Hitler aggredirà l’Unione Sovietica, anche il registro togliattiano muterà e si metterà a sostenere la necessità del blocco democratico fra l’URSS e le democrazie occidentali per sconfiggere il nazifascismo. Sostiene qualche autore26 che Togliatti avrebbe avanzato “riserve importanti sul sistema staliniano”, pur non denunziandone la violazione dei diritti umani; a sostegno di tale assunto si riportano alcune dichiarazioni che, in via privata, ha rilasciato allo storico Ernest Fischer, “di formazione comunista”. Ora, non si può non sottolineare che il fatto di avere esplicitato, in privati conversari, peraltro resi noti di recente, alcuni giudizi negativi su comportamenti e azioni del dittatore sovietico, senza averne denunziato o, comunque, senza avere protestato particolarmente contro le criminali e sciagurate purghe e l’assassinio di comunisti dissenzienti, non può, secondo logica e buonsenso, essere considerato elemento tale da assurgere a segno di dissenso, specialmente se, contestualmente e pubblicamente, in scritti e discorsi, quel sistema politico illiberale e poliziesco viene esaltato. Ivi, in cui riporta di Ernest Fischer: “Tutto – disse Togliatti – è divenuto un groviglio inestricabile in cui nessuno si trova a suo agio. Nemici di Stalin, certamente trotzkisti, agenti di potenze straniere, ma solo con questo non si possono spiegare gli avvenimenti: vi è dell’altro, vecchie rivalità, ambizioni irragionevoli, manìa di persecuzione vera e immaginaria”. 26 

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

Le private mormorazioni non costituiscono protesta contro gli abusi del potere pubblico e neppure sono contestazioni o denunzia per la violazione dei diritti umani e naturali che, nel caso di specie, era oltretutto evidente e palese. Ma Togliatti neppure voleva elevare qualche protesta o esprimere i suoi lamenti e le sue preoccupazioni al dittatore se è vero che, quando il citato storico Fischer lo esorta “affinché comunichi a Stalin queste sue preoccupazioni, Togliatti risponde: “Stalin è molto sospettoso”27. Questa affermazione nient’altro significa che aveva timore della reazione del dittatore sovietico che – come aveva scritto Lenin28 – era “capriccioso”, “intollerante”, “non riguardoso verso i compagni”, oltre che “troppo grossolano”. Viene in mente, a proposito, il segreto chiacchiericcio su don Rodrigo, descritto all’inizio di un capitolo (XXV) del romanzo manzoniano dove si dice che, per la paura che incuteva il signorotto, i discorsi erano “rotti”, “segreti” e “bisognava che due si conoscessero ben bene… per aprirsi su un tale argomento… non ci mettevano tutto il sentimento di che sarebbero stati capaci: perché gli uomini, generalmente parlando, quando l’indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran meno, o tengono affatto in sé quella che sentono, ma ne senton meno in effetto: cioè, il “grave pericolo” riesce anche ad abituarli purtroppo ai soprusi. “Se noi ritorneremo nei nostri paesi – confidava a Fischer il futuro leader comunista – ci deve essere chiaro fin dal principio: la lotta per il socialismo è lotta per una maggiore democrazia. Se noi non saremo i democratici più conseguenti, la storia passerà sopra di noi”29. Quando, negli anni cinquanta, gli fu offerto di dirigere il

27  P. Scoppola, op. cit., p. 85; cfr. anche Giorgio Bocca, Palmiro Togliatti, ed. Biblioteca di “Repubblica”, Roma, 2005, pp. 93-94. 28 

M. Lewin, op. cit., pp. 99; G. Fiori, op. cit., p. 246.

29 

P. Scoppola, op. cit., pp. 85-86.

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7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo

Cominform e di trasferirsi a Mosca ed il Partito comunista, su sollecitazione di Pietro Secchia, legatissimo al Cremlino e ostile a Togliatti, ne deliberò il trasferimento, Togliatti – riferisce lo storico e compianto Pietro Scoppola che ha avuto conferma conversando con Nilde Iotti30 – “era terrorizzato. Rifiutò resistendo a Stalin”. Tornato in Italia, perseguì lo scopo della creazione di una “democrazia progressiva” con la ricerca dell’alleanza con tutte le forze democratiche disponibili. Riscopriva così, finalmente e tentava di mettere in atto il progetto gramsciano. Fu, però, un tentativo zoppo, non ispirato a quel principio nazional-popolare, di autonomia e di “grande politica”, cui aveva fatto sempre riferimento Gramsci. Togliatti tenne fermo sul punto della necessità del mantenimento di un collegamento con l’URSS, nella considerazione che, pur tra “errori”, in quel paese si era dato corso ad un ordinamento democratico, non avvertendo l’insanabile contraddittorietà tra la democrazia e l’esercizio di un potere personale, dispotico, violento e autoritario. C’erano, così, nella posizione togliattiana una evidente contraddizione di fondo e non poca ambiguità sul concetto di democrazia che, fondamentalmente, significa ed è rappresentanza politica, liberamente scelta dai cittadini fra formazioni politiche contrapposte in determinate scadenze elettorali, separazione dei poteri pubblici, riconoscimento, garanzia e libero esercizio dei diritti civili e politici, che aveva una certa e sicura tutela in sede giurisdizionale, assolutamente autonoma, affidata costituzionalmente ai giudici, non passibili per legge di alcun condizionamento né da parte dell’esecutivo né da parte di altre istituzioni, pubbliche e/o private. La scelta dell’attuazione di “una maggiore democrazia” in Italia, per essere credibile e veritiera, imponeva per coerenza logica

30 

Ivi, p. 156 (nota n. 18); cfr. anche G. Bocca, op. cit., pp. 532-542.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

e buonsenso la critica e la denuncia o, quanto meno, la non condivisione dei sistemi delle cosiddette democrazie popolari, essenzialmente illiberali, totalitari e polizieschi. L’errore inammissibile e grossolano fu quello di ritenere che, ancora dopo la denunzia kruscioviana dei crimini di Stalin, non si poteva comunque mettere in dubbio che in Unione Sovietica vi fosse sostanzialmente una democrazia, non scalfita o negata dagli “errori” del defunto dittatore; quanto all’assenza evidente di dialettica politica, erroneamente, si eccepiva che in un sistema sociale come quello sovietico, non più diviso in classi, la pluralità dei partiti politici non serviva più perché non esplicava alcuna pratica utilità dal momento che anche un solo partito poteva garantire il funzionamento di un governo democratico, potendo assicurare contemporaneamente anche l’attuazione del socialismo. Soltanto Umberto Terracini dissentiva da tale malferma e sofistica impostazione, tra l’altro, di continuo smentita dalla realtà storica; ma Terracini si distingueva per la sua anomalia rispetto alla generalità della dirigenza comunista, per la sua storia personale, per l’assoluta autonomia di giudizio e per la sua intransigenza morale. Come Antonio Gramsci che aveva duramente lottato e sofferto per il trionfo della ragione, secondo il quale “nella politica di massa dire la verità è una necessità politica”31 al fine di sollecitare il consenso popolare “attivo e diretto”. E per questo Gramsci vive ancora: dei suoi persecutori e del “comunismo a parole” la storia ha fatto strame.

A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 2019, pp. 699-700.

31 

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8. Crocianesimo e filosofia della prassi

8. Crocianesimo e filosofia della prassi

Il giovane Gramsci ha più volte fatto riferimento ad alcuni autori che hanno certamente avuto rilevanza, per così dire, nel suo apprendistato culturale e che hanno anche influito a “sprovincializzare” il giovane sardo, arrivato a Torino per compiervi gli studi universitari, fermamente deciso di “superare un modo di vivere e di pensare arretrato… per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da “villaggio”, ma nazionale, e tanto più nazionale… in quanto cercava di inserirsi in modi di vivere e di pensare europei, o almeno il modo nazionale confrontava coi modi europei, le necessità culturali italiane confrontava con le necessità culturali europee”. Senonché, al suo arrivo a Torino, egli già aveva un suo orientamento culturale per avere letto testi di Benedetto Croce, di Gaetano Salvemini, di Carlo Marx, e giornali come l’Avanti! e riviste come La Voce, diretta da Giuseppe Prezzolini. Tra i suoi autori sono principalmente ricordati Giambattista Vico, Francesco De Sanctis, Antonio Labriola e il tedesco Novalis (1772-1801), la cui raccolta di Frammenti era stata pubblicata in Italia nel 1906, a cura del Prezzolini. Ma Gramsci porta a Torino, oltre all’amore per la cultura, anche un altro sentimento che lo indurrà a impegnarsi, prima nel giornalismo politico-culturale e, successivamente, nella politica militante, come spiega alla moglie Giulia in una lettera del marzo 1924, in cui traccia un breve ed incisivo excursus della sua vita pregressa: “…io sono stato abituato dalla vita isolata, che ho vissuto fino dalla fanciullezza, a nascondere i miei stati d’animo dietro una maschera di durezza e dietro un sorriso ironico… per molto tempo i miei rapporti con gli altri furono un qualche cosa di estremamente complicato… che cosa mi ha salvato dal diven127 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

tare completamente un cencio inamidato? L’istinto di ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione: ‘al mare i continentali!’… poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la lotta, per la classe operaia”1. La coesistenza del sentimento di ribellione contro le ingiustizie con la persistente influenza dell’idealismo crociano e gentiliano, percepito da Gramsci in modo differente e, cioè, “il suo idealismo non era come in Gentile e in Croce il prodotto dell’attività spirituale individuale, ma degli intimi processi dell’animo popolare”; ciò perché il motivo che su questa nuova forma di liberalismo, sprigionantesi dalla coscienza popolare, doveva prendere avvìo un rinnovato corso storico “per opera del proletariato” e, per conseguenza, “una nuova cultura, una nuova concezione della vita e del mondo, non limitata alla politica e all’economia, ma estesa all’arte, alla letteratura, alla scuola, alla morale, alla tecnica”2. La medesima autorevole fonte ha sottolineato, in riferimento a Gramsci ed a Gobetti, che comunque “entrambi si formarono all’idealismo attivistico e storicistico del Gentile e del Croce; entrambi tradussero lo storicismo speculativo, aprioristico del Croce in storicismo concreto in rapporto a una data realtà storica, quella nazionale: entrambi intesero il materialismo storico come antieconomicismo e antideterminismo, come filosofia della prassi

1 

A. Santucci, op. cit., pp. 57-58.

2 

E. Garin, op. cit., pp. 545-546.

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8. Crocianesimo e filosofia della prassi

tendente non solo a conoscere ma a cangiare il mondo”. Con una differenza tra i due, dovuta al fatto che Gramsci era critico sia nei riguardi dei liberali come Gobetti sia dei socialisti riformisti e massimalisti. Ciò che lo stesso Gramsci non condivideva e, anzi, sottoponeva a ferma critica, era “la persistente mentalità illuministica, antistorica, anacronistica: rimproverava di confondere lo sviluppo dello strumento tecnico con lo sviluppo delle forze economiche di produzione; rimproverava di considerare tra le forze di produzione solo le cose materiali e non anche le forze umane, sociali in quelle incorporate; rimproverava la identificazione dello Stato coll’intervento governativo nei fatti economici, sia come regolatore ‘giuridico’ del mercato, sia come creatore di privilegi di dati gruppi sociali, con conseguente deprezzamento e sfruttamento della merce lavoro”3. Successivamente, con la collaborazione di Piero Gobetti a l’Ordine Nuovo, Gramsci rettificherà il giudizio su Gobetti; specificherà, infatti, nello scritto su Alcuni temi della Questione meridionale, che l’intellettuale torinese attraverso il contatto con la classe operaia e, quindi, la diretta conoscenza della stessa, ne aveva compreso e apprezzato la forza nuova e la risorsa che costituiva per lo sviluppo della democrazia e, per questo, aveva mutato “notevolmente l’indirizzo mentale”. Certo – scrive Gramsci – “Gobetti non era comunista e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, ma aveva capito la posizione sociale e storica del proletariato e non riusciva più a pensare che una serie di modi di vedere e di pensare tradizionali verso il proletariato erano falsi e ingiusti”4. Il giovane Gramsci aveva maturato una particolare conoscenza degli scritti marxiani che gli consentiva di polemizzare con Luigi

3 

Ivi.

4 

A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, in “Scritti”, cit., p. 740.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

Einaudi e con il suo antisocialismo, contestandogli di non avere una diretta conoscenza del filosofo tedesco, bensì mediata attraverso l’opera del Croce. Le tesi di Einaudi sono arbitrarie, astratte, non sufficientemente documentate. Accusa Marx di non essere uno scienziato: “eppure il reale sviluppo della storia dà ragione a Marx… mentre la scienza liberale si disfà… ha solo la parvenza della serietà… studia i ‘fatti’ e trascura gli ‘uomini’… la produzione e lo scambio delle merci vi diventano fine a sé stessi; si svolgono in un meccanismo di cifre rigide e autonome, che può venir “turbato” dagli uomini, ma non ne è determinato e vivificato”. L’accusa di astrattismo, mossa a Marx, è parimenti infondata perché si basa solo su “uno schema (liberale) dottrinario”, non essendosi mai realizzata nella storia una “perfetta società liberale”; “e se non si è realizzata non significa che è irrealizzabile, che riveste i caratteri rivelatori dell’utopia?... Gli schemi del liberalismo sono disfatti… la proprietà privata capitalistica dissolve ogni rapporto di interesse generale… il lucro singolo finisce sempre col trionfare di ogni buon proposito, di ogni idealità superiore, di ogni programma morale”. E non si tratta – sostiene Gramsci – di semplici “accidenti”, momentanei, contingenti e secondari in quanto non possono essere aboliti “senza abolire la struttura che li genera”. In aperta ed aspra polemica con Claudio Treves, un santone del socialismo riformista e positivista, gli rimprovera la vera e propria mistificazione del pensiero di Marx. Il Treves, in un articolo pubblicato nella Critica sociale, aveva rimproverato alla “nuova generazione socialista italiana una spaventosa incultura” perché aveva sostanzialmente sostituito al determinismo il volontarismo e la violenza eroica alla forza trasformatrice del lavoro. Gramsci ribatte, invece, che la nuova generazione socialista ha letto non soltanto il manifesto dei comunisti, ma ha anche letto e studiato tutti gli altri testi usciti in Europa “dopo la fioritura del positivismo ed ha scoperto… che la sterilizzazione operata dai socialisti riformisti delle dottrine di Marx non è stata precisamente una grande conquista 130 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

8. Crocianesimo e filosofia della prassi

di cultura, e non è stata neppure (necessariamente) accompagnata da grandi conquiste di realtà”. Rileva che “Treves, nella sua alta cultura, ha ridotto la dottrina di Marx a uno schema esteriore, a una legge naturale, fatalmente verificantesi all’infuori della volontà degli uomini, della loro attività associativa, delle forze sociali che questa attività sviluppa, diventando essa stessa determinante di progresso, motivo necessario di nuove forme di produzione”. Rifacendosi agli studi di Antonio Labriola, Gramsci opportunamente sottolinea che l’essenza del pensiero marxiano consiste nel fatto che “l’uomo e la realtà, lo strumento di lavoro e la volontà, non sono dissaldati, ma si identificano nell’atto pratico… i canoni del materialismo storico valgono solo post factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato e non debbono diventare ipoteca del presente e del futuro…”. Ed, in conclusione, con l’ironica stoccata finale ricorda a Treves che almeno la “cultura” avrebbe potuto rammentargli che, prima di Marx, “Gio. Battista Vico ha detto che anche la credenza nella divina provvidenza ha operato beneficamente nella storia diventando stimolo dell’azione consapevole, e che pertanto anche la credenza nel ‘determinismo’ potrebbe avere avuto la stessa efficacia, in Russia per Lenin e altrove per altri”5. Nell’opera di demistificazione delle incrostazioni positivistiche, che avevano come imprigionato il pensiero marxiano rendendolo irriconoscibile e privandolo della sua peculiarità, Gramsci – sulla scia indicata da Antonio Labriola – ne individua l’essenza che è, in buona sostanza, “la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco”, punto centrale oscurato da bardature naturalistiche e positivistiche. “E questo pensiero – scrive Gramsci ne La rivoluzione contro il ‘Capitale’, quella russa che aveva rotto “i canoni

5 

A. Gramsci, Scritti, op. cit., pp. 94-96.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

del materialismo storico” – pone sempre come massimo fattore la storia non i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace”6. Il richiamo allo storicismo vichiano è assai evidente: non sono i “fatti economici, bruti”, che muovono la storia, ma gli uomini reali, che agiscono in essa e non sono “agiti”; essa è, pertanto, il prodotto delle umane iniziative, degli sforzi e delle fatiche degli uomini che, pur tra errori e sconfitte, tendono faticosamente all’affermazione della razionalità. Il giovane Gramsci è, appunto, nella “realtà della storia” che cerca e trova la spiegazione delle umane vicende, “dei prodotti della tradizione, depositi istintivi di millenarie epoche di terrore e di ignoranza della realtà circostante… Riconducendo ad essa non solo il fatto ma anche il sentimento, si finisce col riconoscere che solo in essa è la spiegazione della nostra esistenza. Tutto ciò che è storificabile non può essere soprannaturale, non può essere il residuo di una rivelazione divina… La nostra religione ritorna ad essere la storia, la nostra fede ritorna ad essere l’uomo e la sua volontà e attività. Sentiamo questa spinta enorme, irresistibile che ci viene dal passato, la sentiamo nel bene che ci apporta, dandoci l’energica sicurezza che ciò che è stato possibile lo sarà ancora, e con maggiori probabilità in quanto noi ci siamo scaltriti per l’esperienza altrui… E così ci diciamo moderni”7. Punto di riferimento per Gramsci e che lo orientò anche nella

6 

Ivi, pp. 80-83.

7 

Ivi, pp. 27-28.

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8. Crocianesimo e filosofia della prassi

valutazione e selezione della scolastica marxista italiana, furono gli scritti di Antonio Labriola8, il quale, al declinare del secolo XIX, ebbe a compiere una poderosa impresa culturale per individuare tutte le posticce sovrapposizioni, che s’erano venute accumulando sul pensiero marxiano ad opera dell’intellighenzia positivistica e delle correnti neo-kantiane, onde fare emergere l’autenticità dei principii fondamentali dell’autore del Manifesto. In Italia, le correnti revisionistiche del marxismo si rifacevano a diversi orientamenti culturali: l’intellettualità borghese, con Benedetto Croce, utilizzò parzialmente le dottrine di Marx limitatamente al loro valore come strumenti di canoni interpretativi della storia; con Giovanni Gentile, invece, ne condusse una critica ed una analisi corrosiva; nel campo democratico-socialista è prevalente il riformismo di Filippo Turati, alle cui esigenze praticopolitiche il pensiero di Marx viene adeguato. Antonio Labriola era assai critico della situazione italiana nel campo della “scien-

8  Antonio Labriola (1843-1904) nacque a Sangermano (Cassino) il 2 luglio 1843. Trasferitosi a Napoli a 18 anni, frequentò il circolo del filosofo Bertrando Spaventa, zio di Benedetto Croce, il quale in seguito diventerà suo amico ed editore di alcune sue opere. Nel 1865, incominciò la sua lunga carriera di docente, prima al liceo e poi, come professore universitario, a Roma, dal 1874 alla morte. Nel 1869, pubblicò La Dottrina di Socrate, nel ’73 il saggio Della Libertà. Inizialmente hegeliano, attratto dalla filosofia herbartiana, incominciò a staccarsi dall’hegelismo e venne gradualmente meglio precisando il suo pensiero con la pubblicazione di alcuni saggi sulla dottrina dello stato. La milizia politica su posizioni radicali e poi nelle fila del movimento operaio romano lo avvicinò al socialismo, al quale aderì, partecipando da protagonista alla sua fondazione; fu in difficili rapporti con la dirigenza socialista, non condividendone l’impostazione teorica basata sul determinismo positivistico e sul revisionismo, emerso nell’Internazionale dopo la morte di Engels, col quale fu in corrispondenza. Nel suo insegnamento universitario svolse una serie di corsi sulla nascita storica e filosofica del socialismo moderno, il cui risultato è rappresentato dai tre Saggi sulla concezione materialistica della storia, pubblicati tra il 1895 ed il 1898, a cura di Benedetto Croce. Nell’ultimo periodo, fino alla morte avvenuta a Roma nel febbraio 1904, esplicò autorevolmente la sua azione nel dibattito teorico della II Internazionale, continuando all’Università i suoi corsi di filosofia della storia, dai quali è tratto l’ultimo saggio, rimasto incompiuto, dal titolo Da un secolo all’altro.

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za sociale”; ne additava l’arretratezza e l’azione mistificatrice del marxismo, particolarmente ad opera dei positivisti Achille Loria (1867-1945), Enrico Ferri (1856-1929), fautori di uno pseudomarxismo di impronta naturalistico-positivista. Nel 1895, Benedetto Croce – al quale Labriola aveva fatto leggere il saggio – dà alle stampe In memoria del manifesto dei comunisti, a cui poi seguiranno, nel 1896 e nel 1897 in Francia, a cura di Georges Sorel, teorico del sindacalismo rivoluzionario, e della rivista Devenir Social, ed in Italia, a cura di Benedetto Croce, gli altri due fondamentali saggi dal titolo Del materialismo storico, dilucidazione preliminare, e Discorrendo di socialismo e di filosofia, quest’ultimo sotto forma di lettere al Sorel9. Al Labriola, il Croce era legato da molto tempo da amicizia per averlo conosciuto a Roma nella casa dello zio Silvio Spaventa, che lo aveva anche esortato a frequentarne le lezioni all’Università. Nell’aprile del 1895, Labriola gli fece leggere il manoscritto del primo dei suoi saggi sul Manifesto dei comunisti, “che io lessi e rilessi – scrive il Croce10 – e mi sentii di nuovo tutta accendere la mente, e non potei più distogliermi da quei pensieri e problemi, che si radicavano e allargavano nel mio spirito… mi detti per più mesi con ardore indicibile agli studi, fino allora a me ignoti, della Economia. Senza troppo impacciarmi di manuali e libri di divulgazione, studiai i principali classici di quella scienza e lessi tutto ciò che vi ha di non volgare nella letteratura socialistica; e, sempre volto a impadronirmi dei punti essenziali e a schiarirmi le questioni più difficili, mi trovai in breve tempo affatto orientato, con meraviglia del Labriola, che mi fece ben presto confidente dei suoi dubbi

A. Labriola, La concezione materialistica della storia, ed. Laterza, Bari, 1965, cfr. Avvertenza alla seconda edizione, in Discorrendo di socialismo e filosofia, pp. 175-176. 9 

Benedetto Croce, Contributo alla critica di me stesso, ed. Biblioteca Treccani – Sole 24 ore, Milano, 2006, pp. 1150 seg.

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8. Crocianesimo e filosofia della prassi

e dei suoi tentativi di più esatto teorizzamento delle concezioni marxistiche… Ma quella pratica con la letteratura marxistica, e il seguire che feci per qualche tempo, con teso animo, le riviste e i giornali socialistici tedeschi e italiani, mi scossero tutto e suscitarono in me per la prima volta un sembiante di appassionamento politico, dandomi uno strano sapore di nuovo, come a chi per la prima volta, e non più giovane, si innamori e osservi in sé medesimo il misterioso processo della nuova passione”. Quella passione politica socialista in Croce ebbe breve durata, “corrosa” dalla critica che egli fece dei concetti del marxismo in una serie di scritti, poi raccolti nel volume Materialismo storico ed economia marxistica. Ma anche dal Labriola si distaccò per il fatto che, secondo il Croce, il Labriola “non sapeva perdonarmi certe conclusioni che io traevo dalle sue premesse”11. I saggi del Labriola sono come una preliminare introduzione al materialismo storico e, contestualmente, ne costituiscono anche una chiara esposizione nei suoi elementi essenziali, “nel suo intimo” e nel loro disvelarsi “come filosofia”, insieme all’espresso avvertimento che il marxismo non è una filosofia perenne, valida per tutti i tempi e per tutte le situazioni; né è una “chiesa” o “una setta cui occorra il dogma o la formula fissa”; è, invece, un indirizzo generale, una sorta di bussola per orientarsi nel labirinto della storia; in definitiva “una filosofia della storia”, soggetta alla “dura prova di una costante osservazione” e di intelligente e continuo adeguamento alla realtà. tanto perché le “idee”, espresse da Marx, sono esse stesse “frutti di esperienze raccolte in determinati tempi e luoghi” e nulla autorizza a ritenerle, sic et simpliciter, universalmente valide e “buone in ogni tempo e luogo”. Essendo la dottrina marxiana una filosofia chiara e bene de-

11  A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, Appendice, I – Postscriptum all’edizione francese, pp. 291-300, in La concezione materialistica…, cit.

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finita nei suoi lineamenti fondamentali, va interpretata, chiarita e analizzata e non v’è alcuna necessità che vi si aggiungano e sovrappongano altre idee, idonee solo a portare confusione o ambiguità tali da snaturarla. E qui il Labriola lancia i suoi strali ed il suo sarcasmo nei confronti dei “tanti (che) si sono affannati a completarlo, ora con Spencer, ora col Positivismo, ora con ogni altro ben di dio, dando segno di volere, chi sa mai, o italianizzare, o infraciosare, o russificare il materialismo storico; mostrando, vale a dire, di dimenticare due cose, che questa dottrina reca in sé stessa le condizioni e i modi della sua propria filosofia, ed è, così nella origine come nella sostanza, internazionale”. Labriola pone la genesi del materialismo storico nella dialettica hegeliana, con la differenza sostanziale che, mentre quest’ultima esprime il contrasto fra le idee, il primo sposta la contraddizione nella realtà della storia, negli antagonismi fra le classi portatrici di interessi contrapposti, “come filosofia della vita e non delle parvenze ideologiche di questa”. L’essenza del materialismo storico è data dalla filosofia della prassi, che è “la filosofia immanente delle cose su cui filosofeggia. Dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico. Dal lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a quello. Dai bisogni, e quindi dai vari stati interni di benessere e di malessere, nascenti dalla soddisfazione o insoddisfazione dei bisogni, alla creazione mitico-poetica delle nascoste forze della natura; e non viceversa. In questi pensieri è il segreto di una asserzione di Marx, che è stata per molti un rompicapo, che egli avesse, cioè, arrovesciata la dialettica di Hegel: il che vuol dire, in prosa corrente, che alla semovenza ritmica di un pensiero per sé stante… rimane sostituita la semovenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un prodotto”12.

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A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, cit., p. 216.

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8. Crocianesimo e filosofia della prassi

Che cosa si intende per praxis? Secondo Labriola “nel processo della praxis è la natura, ossia l’evoluzione storica dell’uomo: e dicendo praxis, sotto questo aspetto di totalità, si intende di eliminare la volgare opposizione fra pratica e teoria: perché, in altri termini, la storia è la storia del lavoro, e come, da una parte, nel lavoro così integralmente inteso è implicito lo sviluppo rispettivamente proporzionato e proporzionale delle attitudini mentali e delle attitudini operative, così, da un’altra parte, nel concetto della storia del lavoro è implicita la forma sempre sociale del lavoro stesso e il variare di tale forma: l’uomo storico è sempre l’uomo sociale, e il presunto uomo pre-sociale, o supersociale, è un parto della fantasia”13. Ricorrente è il richiamo alla filosofia di Giambattista Vico. E non potrebbe essere altrimenti perché, per il Labriola, l’intima essenza del materialismo storico ossia della “filosofia della prassi” consiste nella storicizzazione della realtà che diviene di continuo, processo che non è compreso soltanto dai “puri empiristi”, dai “metafisici sopravvissuti” o dai “popolari evoluzionisti, i quali non esprimono l’atto del comprendere, ma l’incomprensibile”. La stessa filosofia della prassi è soggetta al processo storico: “il materialismo storico si allargherà, si diffonderà, si specificherà, avrà esso stesso una storia. Forse da paese a paese avrà modalità e colorito diverso. E ciò non sarà un gran male; purché rimanga in fondo il nocciolo che n’è, come a dire, tutta la filosofia” e, cioè, il processo del farsi storico dell’uomo e della storicità di tale realtà, dalla quale bisogna partire ed alla quale occorre rifarsi per capire la struttura della stessa realtà in tutte le sue forme, implicazioni e connessioni. Gramsci ha la sua matrice storica in Labriola, dalle cui tesi sulle filosofia della prassi prende le mosse per arricchirle ed allar-

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Ivi, p. 204.

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garle ed analizzarle e svilupparle, in considerazione del fatto che – come lo stesso Labriola aveva esplicitato – essa è una filosofia indipendente ed originale che possiede già in sé stessa gli elementi per ulteriori sviluppi14. Secondo Gramsci la filosofia della prassi storicamente ha subìto una duplice divisione: da una parte, alcuni elementi della stessa sono stati assorbiti dalle correnti neo-idealistiche, com’è assai evidente in Croce, Gentile o Giorgio Sorel; dall’altra parte, erroneamente è stata confusa col tradizionale materialismo o col neo-kantismo. Il Labriola, per avere affermato l’indipendenza e l’originalità della filosofia della prassi, si distingue dalle suddette correnti revisioniste. Al fine di comprendere il motivo per cui la filosofia della prassi ha finito col trasfondere in altre filosofie alcuni suoi elementi, bisogna percorrere la storia della cultura moderna, con molta cautela, prudenza e oggettività, stante che, quando l’influsso, il prestito o l’assorbimento sono evidenti, non sussiste difficoltà alcuna nell’individuazione, come, per esempio, in Benedetto Croce che ha inteso ridurre la filosofia della prassi a semplice canone empirico di ricerca storica. Ma la ricerca degli elementi o prestiti “impliciti” presenta maggiori difficoltà “perché la filosofia della praxis è stata un momento della cultura moderna, un’atmosfera diffusa, che ha modificato i vecchi modi di pensare per azioni e reazioni non apparenti e non immediate”. Gramsci ritiene che la probabile ragione della combinazione della filosofia della prassi col tradizionale materialismo sia dovuta al fatto che “ha dovuto allearsi con tendenze estranee per combattere i residui del mondo precapitalistico nelle masse popolari, specialmente nel terreno religioso. La filosofia della praxis aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma

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A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., pp. 1485-1490; 1854-1864.

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8. Crocianesimo e filosofia della prassi

più raffinata, per potere costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti, e educare le masse popolari, la cui cultura era medioevale. Questo secondo compito, che era fondamentale, dato il carattere della nuova filosofia, ha assorbito tutte le forze, non solo quantitativamente ma anche qualitativamente; per ragioni “didattiche”, la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po’ superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte”, per cui era nata. Per comprendere perché e come sia stato possibile che simili “schieramenti culturali” si siano manifestati è opportuno indagare nella storia passata per vedere se vi siano stati simili fattispecie e che conseguenze – negative o positive – abbiano prodotto. Gramsci cita un brano del testo crociano della Storia dell’età barocca in Italia, nel quale il Croce osserva giustamente che, mentre in Italia – che pure ne era stata la sede – il grandioso movimento del Rinascimento, che gradualmente si diffuse in tutta l’Europa, rimase ristretto alle élites intellettuali ed alle dimore dei grandi signori rinascimentali, senza alcuna ripercussione a livello popolare, in Germania, la Riforma protestante, predicata da Lutero, si diffuse rapidamente ed efficacemente tra i ceti popolari e solo tardi maturò il “suo germe vitale”. Però, Riforma luterana e calvinismo, pur avendo prodotto una cultura alta solo successivamente, furono all’origine di un grande movimento “nazionale-popolare”, capace di resistere agli attacchi delle armate cattoliche e di uscirne vincitori. In Italia, invece, i grandi intellettuali rinascimentali “furono infecondi di grandi successi storici”. Anche in Francia, dove si era diffuso il “germe” della Riforma, nonostante le guerre di religione e la “vittoria apparente del cattolicismo”, si sviluppò un pervasivo movimento popolare che sfociò nell’Illuminismo, nell’Enciclopedia, precedendo ed accompagnando la rivoluzione del 1789, ancora “più completa di quella tedesca luterana, perché abbracciò anche le masse contadine 139 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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della campagna, perché ebbe un fondo laico e spiccato e tentò di sostituire alla religione una ideologia completamente laica rappresentata dal legame nazionale e patriottico; ma anche ebbe una fioritura immediata di alta cultura…”. La filosofia della praxis, che presuppone tutto questo “passato culturale” – Rinascimento, Riforma, rivoluzione francese, filosofia classica tedesca, liberalismo laico e storicismo – conclude tutto questo pregresso movimento riformatore, “dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura”, “attraversa ancora la sua fase popolaresca”. Occorre suscitare un solido movimento di “intellettuali indipendenti: impresa faticosa, difficile e che richiede un percorso, sia pure accidentato, di lunga durata; comunque, la filosofia della praxis, che è “l’aspetto popolare dello storicismo moderno”, contiene in fieri le potenzialità per il suo “superamento”. La storia della cultura, che è più complessa, più variegata e più vasta di quella della filosofia, dimostra che, quando nei periodi di trasformazioni o di rivolgimenti, è emersa la classe popolare e si è avuta “una fioritura di “materialismo”, contestualmente, gli intellettuali delle classi tradizionali tiravano fuori lo spiritualismo. Hegel, nel periodo della Restaurazione, “ha dialettizzato” i due aspetti del materialismo e dello spiritualismo, ma, riportando tutto allo Spirito assoluto, non ha concluso che col partorire “un uomo che cammina sulla testa”. I continuatori di Hegel, a loro volta col dare interpretazioni differenti ed opposte delle sue dottrine, si divisero in destra e sinistra e, cioè, in spiritualisti e materialisti, così spezzando e distruggendo quella sintesi unitaria e le opposizioni che la hegeliana filosofia dello Spirito riteneva di avere definitivamente conciliato. Ma con Carlo Marx, “fondatore della filosofia della praxis”, che aveva vissuto la lacerazione ed il contrasto tra la Destra dei cosiddetti “vecchi hegeliani” e la Sinistra dei “giovani hegeliani”, come li aveva distinti per la prima volta, nel 1838, David Federico 140 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

8. Crocianesimo e filosofia della prassi

Strauss, fu ricomposta una nuova sintesi unitaria, calando la dialettica hegeliana nella realtà storica e, così, riportando “l’uomo a camminare sulle gambe”. Anche la filosofia della praxis ha conosciuto e vissuto l’esperienza della scomposizione della sintesi unitaria, dividendosi in una corrente di materialismo filosofico ed in neo-idealismo, che ne ha incorporato alcuni elementi essenziali; la concezione materialistica “politicamente” è vicina al popolo, al senso comune… strettamente legata a molte credenze e pregiudizi, a quasi tutte le superstizioni popolari”. I “grandi intellettuali”, formatisi nel terreno della filosofia della praxis, non essendo di estrazione popolare, ma provenendo dalle “classi intermedie, nei momenti delle svolte storiche, abbandonarono il campo; quei pochi che rimasero, invece di lavorare per approfondire e rielaborare le tematiche della filosofia della praxis per adeguarla ai tempi nuovi ed alle mutate esigenze, preferirono fare ricorso a sterili revisioni. La prospettiva, secondo Gramsci, per l’affermazione della nuova filosofia della prassi sta nel fatto che, essendo essa “una concezione nuova, indipendente, originale, pur essendo un momento dello sviluppo storico mondiale”, è “in incubazione” e sarà il risultato dello svilupparsi dei rapporti sociali; “ciò che di volta in volta esige è una combinazione variabile di vecchio e nuovo, un equilibrio momentaneo dei rapporti culturali corrispondente all’equilibrio dei rapporti sociali”. Gramsci non può non riconoscere – come già aveva fatto Antonio Labriola – che la filosofia della prassi, essendo “uno sviluppo dell’hegelismo”, è un prodotto della storia reale ed è ovviamente legata alle contraddizioni storiche, delle quali essa stessa è espressione. E se le contraddizioni dovessero sparire in quanto si attinge il “regno della libertà”, una volta superato quello della “necessità”ossia dei contrasti, che succede della filosofia della prassi? Inevitabilmente sarebbe destinata a sparire essa stessa dal momento che “il pensiero, le idee non potranno più nascere sul 141 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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terreno delle contraddizioni e della necessità di lotta”. Per tale motivo, non si tratta di una philosophia perennis, valida per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Ma un mondo, che ha superato tutti i conflitti e gli antagonismi ed ha raggiunto il “regno della libertà”, non è neppure immaginabile perché, in caso contrario, si cadrebbe nel campo dell’utopia. Se la finalità della filosofia della prassi è quella di comporre hegelianamente tutte le opposizioni nell’unità della sintesi, questa non può che essere l’incarnazione della “libertà”, approdo finale e fuoriuscita dalla “necessità” e, quindi, la fine della dialettica. Gramsci avverte l’aporia e la difficoltà, del resto, tipica “di ogni filosofia storicistica” e tenta di ovviarvi, attribuendo alla stessa utopia “un valore filosofico, poiché essa ha un valore politico, e ogni politica implicitamente è una filosofia sia pure sconnessa e in abbozzo. In questo senso la religione è la più gigantesca utopia… apparsa nella storia, poiché essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita storica: essa afferma, invero, … che l’uomo in generale, in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, uguale agli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, e che tale egli si può concepire specchiandosi in Dio, “autocoscienza” dell’umanità, ma afferma anche che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro (- utopico -). Così le idee di uguaglianza, di fraternità, di libertà fermentano tra gli uomini, in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Così è avvenuto che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme e ideologie determinate, sono state poste queste rivendicazioni”. Ma la filosofia della prassi non ha niente a che fare con l’utopia e pare davvero inammissibile o inappropriato ogni raffronto o sia pure lontana relazione con la religione. Nella settima delle marxiane tesi su Feuerbach, la religione è considerata una ideologia 142 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

8. Crocianesimo e filosofia della prassi

che, come qualsiasi altro prodotto culturale, scaturisce dalla storia, rispecchiando determinati rapporti sociali; né esiste – secondo il fondatore della filosofia della prassi – un sentimento religioso in sé e per sé, di per sé stante, come non esiste l’uomo astratto, fuori di ogni rapporto umano storicamente determinato, reale e concreto. Per conseguenza, all’utopia, sotto qualsiasi forma, non è possibile annettere “valore filosofico” e neppure valenza politica, stante che ogni utopia è un vagare nell’inesistente, tra le nuvole. E la filosofia della prassi ha inteso ricomporre la dualità o divaricazione tra pensiero e realtà, tra filosofia e storia, che può essere composta e superata alla condizione che non si privilegi né l’uno né l’altro dei due termini dialettici, ricercando l’integrazione fra teoria e prassi. Bisogna, poi, considerare che la supremazia o primato dello sviluppo storico, il nesso tra storia e verità, il fatto che solo nel processo storico si può individuare il criterio di verità – il criterio vichiano del verum et factum convertuntur e della Scienza nuova ossia della ragione umana tutta spiegata, enunciato da G.B. Vico, fatto proprio dall’idealismo15 – costituisce il nocciolo dell’idealismo hegeliano, ma anche l’essenza della filosofia della prassi che, per il Labriola, è “la filosofia immanente alle cose di cui si filosofeggia”. Naturalmente non ha senso alcuno attribuire a Gramsci incoerenze o imperfezioni nelle note carcerarie, che veniva quotidianamente redigendo, in considerazione che lo stesso Gramsci le considerava alla stregua di semplici appunti o annotazioni da servire per ulteriori sistematiche trattazioni o come stimolo per ricerche ulteriori. Ad ogni modo, la qualificazione delle dottrine marxiane sotto il nome di “filosofia della prassi”, già nei confronti di Labriola, aveva fatto sollevare qualche dubbio perché “lasciava aperta una

Bertrando Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, a cura di Giovanni Gentile, ed. Sansoni, Firenze, 1955, pp. 55 e seg.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

interpretazione non del tutto illegittima in senso antimaterialistico del pensiero labrioliano, tendenza che è estranea al pensiero marxiano”16; giudizio che sembrerebbe possa essere valido anche per Gramsci. L’originalità della filosofia della prassi consiste nel superamento sia del materialismo metafisico che dell’idealismo, ma anche superamento del dualismo pratica-teoria. Ora la filosofia “immanente alle cose” di cui si discorre è una posizione tipicamente idealistica, dalla quale non può che scaturire una interpretazione in senso antimaterialistico17, inconciliabile con il marxismo. Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, VI, ed. Garzanti, Milano, 1972, pp. 105-107. 16 

B. Croce, Breviario di estetica, Appendice, ed. Laterza, Bari, 1978, pp. 141-148; G. Gentile, La filosofia di Marx, ed. Normale, Pisa, 2014, pp. 233-234. Secondo il Gentile, relativamente al concetto della prassi applicato alla realtà sensibile o alla materia, il materialismo storico di Marx è contraddittorio. “Marx – scrive il filosofo – non pare che si sia curato menomamente di vedere in che modo la prassi si potesse accoppiare alla materia, in quanto unica realtà; mentre tutta la storia antecedente della filosofia doveva ammonirlo dell’inconciliabilità dei due principii: di quella forma (= prassi) con quel contenuto (= materia). La materia per sé è inerte, quindi sempre uguale a sé medesima. Donde deriva la sua operosità, che la fa divenire incessantemente? Dicasi pure che le è immanente una forza; ma questa forza che trasforma via via la materia secondo uno sviluppo dialettico e finalistico, è una forza razionale: è ragione, è spirito. E così originario, oltre la materia, si presenta sempre lo spirito; e, nonché conchiudere a un monismo materialistico, si riesce a un dualismo più o meno platonico… Carlo Marx, idealista nato, e che aveva avuto tanta familiarità, nel periodo formativo della sua mente, con le filosofie di Fichte prima e poi di Hegel, non s’appressò al materialismo di Feuerbach dimenticando tutto ciò che aveva appreso, e che erasi connaturato col suo pensiero. Non seppe dimenticare che non v’ha oggetto, senza un soggetto che lo costruisca; né seppe dimenticare che tutto è in perpetuo fieri, tutto è storia. Apprese sì che quel soggetto, non è spirito, attività ideale; ma senso, attività materiale; e questo tutto (che diviene sempre) non è lo spirito, l’idea, ma la materia. In tal modo si credeva di procedere su quella via per cui s’era incamminato passando da Kant e Fichte e Hegel, quasi da una trascendenza idealistica a un’immanenza; in tal modo presumeva di allontanarsi sempre più dall’astratto accostandosi al concreto. Ma nella questione di astratto e concreto, come non tener conto della stupenda critica hegeliana dell’intelletto astratto? Dunque materia sì; ma materia e prassi (cioè oggetto soggettivo); materia sì; ma materia in continuo diveni-

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8. Crocianesimo e filosofia della prassi

Appare indubbio comunque il legame tra Gramsci ed il neoidealismo non foss’altro perché la formazione culturale del giovane Gramsci maturò “sotto il segno della cosiddetta rinascita idealistica – fenomeno anche questo, niente affatto limitato all’Italia, anzi neppure all’Europa”18 – motivo per il quale, sussistono relazioni e intrecci tra idealismo e filosofia della prassi, i cui confini costituiscono a volte un intrico, nel quale non è agevole orientarsi. Del resto, lo stesso Gramsci maturo dei Quaderni del carcere lo ammette esplicitamente: “Nel febbraio 1917 in un breve corsivo che precedeva la riproduzione dello scritto del Croce Religione e serenità… allora uscito di recente nella Critica io scrissi che come l’hegelismo era stato la premessa della filosofia della praxis nel secolo XIX, alle origini della civiltà contemporanea, così la filosofia crociana poteva essere la premessa di una ripresa della filosofia della praxis ai giorni nostri, per le nostre generazioni. La questione era appena accennata, in una forma certo primitiva e certissimamente inadeguata, poiché in quel tempo, il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica non era chiaro in me ed io ero tendenzialmente piuttosto crociano”19. Il giovane Gramsci, formatosi sotto l’influenza del crocianesimo, non poteva che essere “tendenzialmente crociano”; ma, da

re. Per tal modo si veniva a cogliere “il più bel fiore” del materialismo e dell’idealismo; il fiore della realtà concreta e delle concezioni concrete sostituite sempre alle astrazioni, e di Hegel, e di Feuerbach. Materialismo sì, ma storico… Diremo, dunque, per conchiudere, che un eclettismo di elementi contraddittori è il carattere generale di questa filosofia di Marx… Molte idee feconde vi sono a fondamento, che separatamente prese son degne di meditazione: ma isolate non appartengono, come s’è provato, a Marx, né possono quindi giustificare quella parola “marxismo” che si vuole sinonimo di filosofia schiettamente realistica. E bensì vero che non sta nei nomi l’interesse della scienza; e, se alcune tra le più importanti idee dell’hegelismo possono penetrare nelle menti per l’allettativa del nome di Marx, buona fortuna anche al “marxismo!” 18 

E. Garin, op. cit., pp. 348-349.

19 

A. Gramsci, Quaderni…, cit., pp. 1232-1233.

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intellettuale socialista impegnato che scriveva su giornali socialisti – l’Avanti! e Il Grido del Popolo – veniva anche maturando il proprio convincimento che, sulle fondamenta delle dottrine crociane, era possibile ripensare e ricostruire, adattandola alle nuove esigenze dell’epoca, la filosofia della praxis. Egli si riprometteva, cioè, di fare ciò che aveva fatto Carlo Marx con la filosofia hegeliana: come Marx aveva tradotto l’hegelismo “in linguaggio storicistico”, Gramsci si proponeva, partendo dalle premesse crociane, di rifondare la filosofia della prassi, una nuova visione del mondo e della vita, andando oltre il crocianesimo, evidentemente legato alla borghesia democratico-borghese ed espressione della stessa. Croce stesso, del resto, in una famosa intervista rilasciata al Giornale d’Italia, si era autoproclamato di “essere liberale… allo stesso modo che mi sento napoletano e borghese meridionale”. Ora, è evidente che il giovane Gramsci, che aveva fatto la scelta del socialismo ed era un militante socialista e che aveva maturato da tempo la convinzione profonda di lottare contro le diseguaglianze e le ingiustizie sociali ed economiche, rifiutava – come andava chiaramente esplicitando nei suoi interventi sulla stampa socialista – lo status quo, da cui doveva, però, partire per delineare e ricostruire una nuova organizzazione sociale, puntando sulla forza dell’immenso proletariato urbano e rurale. Scriveva, infatti, il 9 marzo 1918 su Il Grido del Popolo: “La classe borghese si è redenta dalla schiavitù feudale affermando i diritti dell’individuo alla libertà e all’iniziativa. La classe proletaria lotta per la sua redenzione, affermando i diritti della collettività, del lavoro collettivo, contrapponendo alla libertà individuale, all’iniziativa individuale, l’organizzazione delle iniziative, l’organizzazione delle libertà. Logicamente il principio dell’organizzazione è superiore a quello della libertà pura e semplice. Essa è la maturità in confronto della fanciullezza; ma storicamente la maturità ha bisogno della fanciullezza per svilupparsi… (che) la concorrenza brutale e sfrenata debba, per il bene di tutti, essere sostituita 146 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

8. Crocianesimo e filosofia della prassi

dall’organizzazione, dal metodo, che assegna a tutti un compito specifico da svolgere e a tutti assicura la libertà e i mezzi di sussistenza”20. Il rapporto Croce-Gramsci è, a suo modo, dialettico: Croce rappresenta la tradizione intellettuale del blocco agrario meridionale; Gramsci – che pur ne ha “subìto l’influenza intellettuale”21 – con la fondazione dell’Ordine Nuovo, vuole determinare e segnare “una rottura completa con quella tradizione e l’inizio di un nuovo svolgimento”, pur prendendo le mosse dalla concezione filosofica crociana per pervenire “alla creazione di una nuova cultura integrale, che abbia i caratteri di massa della Riforma protestante e dell’illuminismo francese e abbia i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano, una cultura che riprendendo le parole del Carducci sintetizzi Massimiliano Robespierre ed Emanuele Kant, la politica e la filosofia in una unità dialettica intrinseca ad un gruppo sociale non solo francese o tedesco, ma europeo e mondiale. Bisogna che l’eredità della filosofia classica tedesca sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare vita operante, e per fare ciò occorre fare i conti con la filosofia di Croce, cioè per noi italiani essere eredi della filosofia classica tedesca significa essere eredi della filosofia crociana, che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca”22. Nei lunghi e dolorosi anni delle detenzione, a cui l’aveva iniquamente condannato un cosiddetto “tribunale”, strumento della persecuzione fascista, perché il suo cervello “non funzionasse per un ventennio”, Gramsci, pur tormentato dalle malattie, aggravate dal carcere e che ne causeranno la morte immatura, con l’eroismo della ragione, riuscì ad elaborare i lineamenti, fecondi di ulteriori

20 

A. Gramsci, Scritti, cit., pp. 110-112.

21 

A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, cit., p. 740.

22 

A. Gramsci, Quaderni…, cit., 1233-34.

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approfondimenti, di un pensiero antiborghese in opposizione a quello del Croce, col quale bisognava fare definitivamente i conti “nel modo più ampio e approfondito possibile”. Per un lavoro di tal genere, “un Anti-Croce”, parificabile all’Anti-Duhring nel periodo precedente alla prima guerra mondiale, “varrebbe la pena che un intero gruppo di uomini ci dedicasse dieci anni di attività”23. Ma perché un Anti-Croce? Il filosofo napoletano personalmente non aveva mai partecipato o aderito ad alcuno dei gruppi liberali che, in Italia, si presentavano in “ordine sparso”; frazioni di quel coacervo, che si rifacevano al liberalismo, erano il cattolicesimo popolare, il nazionalismo, le unioni monarchiche, il partito repubblicano, i radicali democratici, i conservatori come Sonnino, Salandra, Orlando, Giolitti, Nitti, ma anche “gran parte del socialismo”. “Il Croce – secondo Gramsci24 – era il teorico di ciò che tutti questi gruppi e gruppetti, camarille e mafie avevano di comune; il capo di un ufficio centrale di propaganda di cui tutti questi gruppi beneficiavano e si servivano, il leader nazionale dei movimenti di cultura che nascevano per rinnovare le vecchie forme politiche”. A Gramsci, che era stato influenzato dal crocianesimo, non poteva sfuggire poi il dato reale che il Croce, insieme a Giustino Fortunato, aveva ispirato “ogni movimento giovanile serio che si proponesse di rinnovare il ‘costume’ politico e la vita dei partiti borghesi” e tanto era accaduto per la Voce, per la salveminiana Unità, La Patria e L’Azione Liberale, con la sola eccezione della gobettiana Rivoluzione Liberale, che interpretava il liberalismo non più in modo astratto e calava nella storia reale e concreta il concetto di libertà estendendolo ai ‘grandi gruppi sociali’ e, quin-

23 

Ivi.

A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, ed. Einaudi, Torino, 1952, pp. 172-173.

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di, al proletariato in gara ed in antagonismo con i ceti elevati borghesi. Il Croce esercitava, attraverso la sua molteplice attività culturale e anche di polemista, una vasta influenza in Italia ed all’estero, e questo spiega la ragione della sua leadership nazionale del liberalismo. In Gramsci, il persistente riferimento alle dottrine crociane si presenta con una duplice scansione temporale ed anche sotto un altrettanto duplice aspetto, prima e dopo l’arresto e la condanna fascista: di Croce – e dello stesso attualismo gentiliano – Gramsci condivide ed apprezza la critica radicale del positivismo, del determinismo e del meccanicismo, l’affermazione che la storia è il prodotto dell’attività, dell’intelligenza, della spiritualità dell’uomo perché ritiene che la filosofia idealistica, facendo piazza pulita di tutti i residui del materialismo volgare e dell’automatismo deterministico, che avevano anche inquinato il materialismo storico marxiano ed il socialismo italiano, poteva costituire la premessa necessaria per la riscoperta o la rifondazione della filosofia della prassi. A Croce, poi, come già si è sottolineato, Gramsci riconosceva il merito, oltre che di avere costruito una nuova moderna e laica concezione della vita e del mondo, anche quello di avere risvegliato e introdotto “gli intellettuali radicali del Mezzogiorno” nel circuito culturale nazionale ed europeo. Nelle note carcerarie, invece, l’interesse e l’analisi gramsciana si puntualizzano particolarmente sulla filosofia crociana considerata nel suo aspetto di “ideologia borghese”, sulla premessa che Benedetto Croce è visto come “il leader intellettuale dei revisionisti” la cui “elaborazione storiografica” tende “alla liquidazione del materialismo storico, ma vuole che questo svolgimento avvenga in modo da identificarsi con il movimento culturale europeo” e la prova si ricava dal “fatto che Croce sente con forza di essere il leader di una corrente intellettuale europea, e giudica di grande momento la sua posizione con gli obblighi che ne derivano si può vedere specialmente nella Storia d’Italia, ma risulta anche da tutta una 149 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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serie di scritti occasionali e recensioni pubblicati nella Critica”25. Pertanto, lo storicismo assoluto crociano va analizzato per essere riportato alla sua reale dimensione di ideologia politica immediata, rivelatrice del suo carattere di moderatismo e di conservazione. Lo storicismo crociano è fondato sulla “formula dell’equivalenza di rivoluzione-restaurazione” che – a parere di Gramsci – è simile a quella della “rivoluzione passiva” del Cuoco. Detta concezione è nient’altro che l’espressione “dell’assenza di una iniziativa popolare unitaria nello svolgimento della storia italiana” e che tale “svolgimento si è verificato come reazione delle classi dominanti al sovversivismo spontaneo, elementare, disorganico delle masse popolari con “restaurazioni” che hanno accolto una qualche parte delle esigenze dal basso, quindi “restaurazioni progressive” o “rivoluzioni-restaurazioni” o anche “rivoluzioni passive”. Si potrebbe dire che si è sempre trattato di rivoluzioni dell’“uomo del Guicciardini” (nel senso desanctisiano), in cui i dirigenti hanno sempre salvato il loro “particulare”: il Cavour avrebbe appunto “diplomatizzato” la rivoluzione dell’uomo del Guicciardini… Lo storicismo del Croce sarebbe quindi niente altro che una forma di moderatismo politico, che pone come solo metodo d’azione politica quello in cui il progresso, lo svolgimento storico, risulta dalla dialettica di conservazione e di innovazione. Nel linguaggio moderno questa concezione si chiama riformismo”26. Il filosofo napoletano, in buona sostanza, sembra fare uso della dialettica hegeliana del movimento storico che si attua tra innovazione e restaurazione, svuotandola di ogni concreto contenuto per privilegiare gli aspetti della restaurazione, considerando gli elementi innovativi come il “negativo”, l’antistorico, così che ciò che muove le forze del cambiamento, della rivoluzione, è sempre

25 

A. Gramsci, Quaderni…, cit., pp. 1214-1215.

26 

Ivi, pp. 1324-1326.

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8. Crocianesimo e filosofia della prassi

ed in ogni caso un fatto arbitrario, irrilevante, non apprezzabile. In tale maniera, il “vero” storicismo crociano finisce con l’essere l’espressione, nuda e cruda, della tendenza politica moderata dell’Autore, nonché “una ideologia in senso deteriore”. “Per questa specie di storicisti moderati ( e s’intende moderati in senso politico, di classe, cioè, di quelle classi che operarono dopo il 1815 e il 1848) – osserva Gramsci nel brano richiamato – irrazionale era il giacobinismo, antistoria era uguale a giacobinismo. Ma chi potrà mai provare storicamente che i giacobini erano guidati solo dall’arbitrio?... Non pare che ciò sia plausibile di sostenersi, perché la storia non si ricostruisce con calcoli matematici e d’altronde nessuna forza innovatrice si realizza immediatamente, ma appunto è sempre razionalità e irrazionalità, arbitrio e necessità, è ‘vita’, cioè, con tutte le debolezze e le forze della vita, con le sue contraddizioni e le sue antitesi”. Lo storicismo crociano è in rapporto con la tradizione moderata del Risorgimento e “col pensiero reazionario della Restaurazione” e disattende la stessa essenza della dialettica hegeliana e privato “della grandezza brillante che gli viene attribuita come manifestazione di una scienza obbiettiva”, non altro è che “ideologia immediata” del moderatismo borghese. La contestazione gramsciana delle dottrine crociane come espressione ideologica della borghesia italiana aveva uno scopo ben preciso, quello, cioè, di demistificare l’egemonia della classe borghese dominante per porre le fondamenta di una nuova egemonia delle classi popolari, ispirata dalla filosofia della prassi, ma nel solco della tradizione culturale italiana, dal Vico a Francesco De Sanctis col quale essa aveva raggiunto quel ‘grado di sviluppo teorico-pratico’, nei cui confronti “l’atteggiamento del Croce rappresenta(va) un arretramento”27.

27 

Ivi, p. 1288.

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9.  I due Gramsci e la grande politica

9.  I due Gramsci e la grande politica

Dalla analisi della biografia gramsciana emerge con evidenza che essa si scandisce in due precisi periodi. Il primo, fino all’arresto dell’8 novembre 1926, è caratterizzato, oltre che dal consueto e intenso impegno negli studi, dalla iscrizione al Partito Socialista, dalla attiva partecipazione alla vita politica, come giornalista prima e come dirigente poi; il secondo dalla detenzione nel penitenziario di Turi fino alla morte, avvenuta il 27 aprile 1937, per lo sconto dell’iniqua pena comminatagli dal tribunale del duce. Tra i due suddetti periodi vi è uno stacco netto, stante che, in quest’ultimo, ovviamente a Gramsci era impedita ogni e qualsiasi attività che potesse avere una qualche ripercussione pubblica; è noto che l’ottusa repressione del regime fascista addirittura avrebbe voluto imporgli che il suo cervello non funzionasse per almeno un ventennio; a tanto era arrivato il timore e l’odio per la sua intelligenza! Durante tutto il periodo dell’ingiusta detenzione, Gramsci, al contrario, esplicò tutta la sua vulcanica attività intellettuale per analizzare a fondo la storia civile, politica e culturale europea al fine di indagare le possibili cause della emersione dei regimi autoritari, della degenerazione dei sistemi liberali democratico-borghesi, perseguendo il suo antico progetto della possibile costruzione di un nuovo modo di governare, collegato ad un radicale rinnovamento intellettuale, morale e, naturalmente, politico con una solida base culturale anti-borghese. Il risultato della poderosa ricerca intellettuale gramsciana è attestato dai Quaderni del carcere e dall’insieme delle Lettere, che costituiscono, oltre che un drammatico documento della sua condizione umana di perseguitato dalla dittatura imperante, anche un notevole lavoro letterario, entrato 153 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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meritatamente negli annali della letteratura. I Quaderni sono costituiti da una serie di note e di osservazioni sullo svolgersi della storia italiana ed europea, sugli intellettuali e l’organizzazione della cultura, sulla politica e, quindi, le formazioni e la funzione dei partiti politici, la letteratura, l’educazione, la filosofia di Benedetto Croce e le sue relazioni col materialismo storico e la filosofia della prassi. Gli scritti del primo periodo, pubblicati su organi della stampa partitica, hanno naturalmente diverso valore e caratteristiche differenti sia dai Quaderni che dalle Lettere; di sicuro, essi sono documenti, validi per meglio comprendere i passaggi biografici del giovane Gramsci e per identificare anche i percorsi della sua graduale maturazione e formazione culturale, ma anche elementi e atti che testimoniano la sua attiva partecipazione allo svolgimento della vita politica del Partito Socialista, della sua dialettica interna e dello scontro tra le sua frazioni. Legati come sono alla cronaca politica e partitica, essi conservano una loro specifica valenza anche ai fini della conoscenza di particolari momenti politici e del dibattito su determinate problematiche politico-sociali del primo ventennio dello scorso secolo. Il complesso delle annotazioni carcerarie, sebbene disorganiche e senza pretese di sistematicità – come, del resto, lo stesso Autore avverte – si appalesa di rilevante valore culturale, attestato, peraltro, dal successo riscosso alla pubblicazione e dall’influenza esercitata nel dibattito culturale contemporaneo; ancora le note carcerarie rivelano, sotto alcuni profili, una loro specifica attualità sia di ordine politico in generale che culturale e morale, essendo espressione di un Autore che, ormai, può senz’altro definirsi un “classico” e che – in conseguenza – dimostra di avere qualcosa da dire su particolari problematiche e di potere ancora parlare alla contemporaneità, al di sopra e al di fuori della stessa sua appartenenza politica. Gli altri scritti – saggi e articoli pubblicati sugli organi di stampa partitica – hanno l’evidente caratteristica di appartenere 154 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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all’uomo di partito e di essere espressione, strettamente connessa alla militanza politica ed alla posizione gramsciana in momenti particolari della dialettica politica sia interna che in confronto ed in riferimento con altri raggruppamenti partitici antagonisti e/o collaterali. Le annotazioni ed i brevi saggi dei Quaderni rivelano il Gramsci, uomo di studio e intellettuale, impegnato a riflettere e indagare su determinati aspetti della storia civile, politica e religiosa, sugli svolgimenti e le interferenze degli indirizzi culturali e filosofici, sul dispiegarsi dei fenomeni economici con le loro ripercussioni socio-politiche, sulla letteratura popolare, sulla pedagogia con i suoi riflessi pratici, nonché sulla letteratura, anche del suo tempo, sulla funzione degli intellettuali e sulla organizzazione della cultura. Pertanto, un lavoro complesso, analitico, articolato, percorso e legato dal filo conduttore del rinnovamento profondo, in cui si respira e si coglie una ispirazione nuova e originale, non falsata dai parametri del settarismo ideologico; se pure si muove – e non potrebbe essere diversamente, come, peraltro, accade per ogni Autore – entro l’ambito della particolare e soggettiva visione del mondo, questa non pesa e non è di pregiudizio nella analisi e nella valutazione dei fenomeni ed eventi oggetto di studio. Il Gramsci, rivelato dai Quaderni, non è quello degli scritti esclusivamente partitici del periodo antecedente alla carcerazione; è diverso perché non è il militante, affetto da settarismo, che sostiene una particolare posizione o la bontà dei suoi assunti; ha una dimensione culturale ampia, analitica, a volte anche corrosiva, nell’orientarsi dentro l’intrico del caotico svolgimento degli avvenimenti, da cui riesce a districarsi cogliendone il filo conduttore. Vi si rivela, così, la figura dello studioso con i suoi molteplici interessi alla ricerca delle ragioni profonde, che determinano ed alimentano i fatti delle umane vicende ed anche delle connesse manifestazioni culturali e di costume. Ed è proprio questo che conferisce al Gramsci dei Quaderni quel fascino, quell’interesse e 155 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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quell’aura di freschezza e di novità – simile a quella della desantisiana storia della letteratura italiana – che valgono a farne un “classico”, utilmente fruibile e consultabile anche nell’oggi. La restante produzione ne rappresenta – se così è lecito dire – il caput mortuum, cioè, quanto non è più vivo, trattandosi di scritti, occasionati dal suo essere “uomo di partito”, relativi, quindi, a problematiche contingenti, parziali, prive del carattere di universalità che, di conseguenza, nella realtà contemporanea, vertendosi in altra temperie storica e mutata la stessa dialettica politica e ideologica, hanno irrimediabilmente perduto il crisma dell’attualità. Sono due, pertanto, i Gramsci: uno “uomo di partito” e, più esattamente del Partito Comunista delle origini, affascinato dalle possibilità miracolistiche della rivoluzione sovietica, consegnato ormai definitivamente alle pagine della recente storia nazionale e che, dopo il 1989, concluse il suo ciclo politico; furono gli stessi suoi dirigenti dell’epoca a proclamarne la fine. L’altro Gramsci – quello dei Quaderni e delle Lettere – è, invece, l’intellettuale, lo studioso, lo scrittore che è sopravvissuto alla formazione politica, da lui fondata, ed anche al suo tempo; con la sua opera intellettuale ha lasciato una non trascurabile orma nella cultura contemporanea. Tra i due non vi è necessariamente antitesi. Si tratta di due aspetti della stessa persona, di due tempi della sua operosità. Tra il Gramsci pensatore e studioso e quello “di partito”, vi una separazione oggettiva, evidenziata dagli eventi, succedutosi mentre scontava il carcere: egli, infatti, si distanziò dal partito, acquiescente passivamente alla deriva autoritaria e burocratica staliniana; rimproverò, con assoluta indipendenza di giudizio ed intransigenza morale, i dirigenti sovietici per le cannibaliche lotte frazionistiche, inutilmente invitandoli all’unità, da raggiungere solo attraverso la discussione e la dialettica e non attraverso scomuniche reciproche; non condivise la cosiddetta dottrina del “socialfascismo”, obiettando, al contrario dei deliberati dei dirigenti del suo partito che 156 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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passivamente accettarono la pretesa staliniana, che la ragionevole prospettiva politica per contrastare il fascismo era l’unione e l’alleanza tra tutti i partiti progressisti – anche democratico-borghesi – socialisti compresi. E, com’è abbastanza notorio, gli avvenimenti successivi ebbero a dare la prova concreta della bontà e della fondatezza delle sue ragioni. Gramsci appartiene alla schiera degli sconfitti che hanno ragione. E l’ha avuto nei confronti sia di chi lo aveva incarcerato per le sue idee sia nei confronti del dittatore sovietico e di quanti – dirigenti comunisti italiani compresi – lo seguirono senza fiatare, passivamente. L’Antonio Gramsci dei Quaderni e delle Lettere non può essere sminuito col fargli subìre una sorta di deminutio capitis, restringendolo esclusivamente nella stretta aiuola del partito e considerando il suo pensiero come espressione della sua pregressa militanza di partito, dal quale si era distanziato in momenti drammatici, e che, tra l’altro, non esiste più, è imploso per le sue interne contraddizioni, perché, come Gramsci aveva previsto, diventato “anacronistico”, svuotato nel momento di crisi “del suo contenuto sociale e rimasto campato in aria” tanto che, ad opera degli stessi suoi organismi burocratici, fu dichiarato “morto”. Il pensiero di Gramsci è ancora vivo e vivo e palpitante rimane il suo esempio educante di alta dignità umana, di moralità, di coerenza, di intransigenza morale e di assoluta libertà di pensiero. È di sicuro interesse, sotto il profilo storico, riandare al percorso gramsciano del primo ventennio del secolo scorso, al modo com’egli si poneva di fronte alla crisi delle istituzioni liberali e borghesi e come si confrontò con le correnti culturali dell’epoca, particolarmente con la dottrina di un grande intellettuale, come Benedetto Croce, del quale, peraltro, inizialmente aveva subìto l’influenza, ma va opportunamente sottolineato che il Gramsci dei Quaderni e delle Lettere è quello che è penetrato pervasivamente nel circuito della cultura contemporanea. La sua opera di scrittore e di intellettuale ha ancora larga eco nella contemporaneità, in157 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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fluenzando correnti di pensiero e comunque fecondando l’attività culturale della seconda metà del ’900. Antonio Gramsci, come pensatore e intellettuale, propugnatore di una visione della vita del mondo e di una riforma morale e politica nel solco del superamento della cultura liberal-borghese, icasticamente simboleggiata nella persona e nell’opera di Benedetto Croce, si pone al di sopra dello spazio storico ristretto – non sempre lineare – di quel partito, che pure aveva fondato, ma dal quale aveva dissentito su problemi fondamentali, che hanno segnato la stessa storia europea. Insieme al Croce, ma in diametrale opposizione allo stesso, Gramsci occupa un posto centrale nel pensiero italiano – e non solo – del Novecento. Resta anche da sottolineare che, in ogni caso, l’opera gramsciana è percorsa, sin dalla prima manifestazione del suo pensiero, dal filo conduttore del riscatto dei ceti subalterni, della difesa degli umili e degli oppressi, della prospettiva del rinnovamento complessivo della società, nel ribaltamento della dura legge di classe, da perseguire senza settarismi o infantili estremismi, nella ricerca delle alleanze opportune e necessarie per l’instaurazione di una “democrazia progressiva”, in una visione di “grande politica”. Sarebbe sufficiente tale visione di “grande politica”, separata dalla asfissia della “piccola politica”, per segnarne l’attualità, anche oggi, in un mondo globalizzato, nel quale piccoli e ristretti gruppi di potenti sono padroni della ricchezza ed, in nome del profitto, condannano alla miseria ed alla fame milioni di persone. Da qui, come scriveva Gramsci (Quaderni, pp. 1563-64), “la lotta per la distruzione… di determinate strutture organiche economicosociali”, che contraddistingue la “grande politica”. Le numerose e dense annotazioni carcerarie dei Quaderni contengono osservazioni su problematiche di varia natura, pur nella apparente asistematicità e disorganicità sono sovraordinate e finalizzate al progetto gramsciano di una “grande politica” di rinnovamento morale e intellettuale che avrebbe dovuto coinvol158 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gere tutta la società italiana e le sue istituzioni fino a diventare “senso comune” e, cioè, patrimonio universale ossia nazionale e popolare, strettamente legato ai sentimenti dei ceti subalterni. Le note riguardano, nel complesso, aspetti e problemi della storia nazionale: il Risorgimento, gli intellettuali, l’organizzazione della cultura, la cultura popolare, la filosofia della prassi in riferimento al pensiero crociano, le “notarelle” sul Machiavelli, lo Stato moderno e la politica. Dalla analisi specifica delle singole parti, è possibile cogliere l’essenza ed il significato del progetto gramsciano complessivo, suddiviso in una pars destruens ed un’altra construens. La prima – che è anche di critica corrosiva – è l’analisi dell’assetto sociale nella divisione classista, basato sulla egemonia, non solo economica, ma anche culturale dei gruppi e classi sociali abbienti che, da un’epoca all’altra, hanno, con l’esercizio del loro dominio, segnato e condizionato lo svolgimento della vita sociale, la sua organizzazione, la cultura, relegando di fatto i ceti subalterni ad una funzione “passiva” e di accettazione, se non di consenso, di quella data realtà e di quella organizzazione sociale come la migliore possibile. Lo stesso Risorgimento – dal quale avrebbe dovuto nascere uno Stato nazionale e popolare, fondato, cioè, sulla partecipazione e sul consenso cosciente e attivo della totalità della popolazione – fu, al contrario, il risultato della “conquista regia” che sanzionò la supremazia dei gruppi aristocratici, della borghesia e delle classi elevate della Penisola, negando nel fatto il pieno esercizio dei diritti politici al proletariato rurale ed urbano, cioè, ai ceti popolari che rappresentavano ed erano la stragrande maggioranza della popolazione. In realtà, fu la nascita di uno Stato “zoppo” perché carente della sua base popolare pienamente cosciente e partecipativa, in cui la direzione e la gestione politica e amministrativa era privilegio delle classi alte e di quelle economicamente elevate, autoproclamatesi classe generale, rappresentante presunta di tutta la Nazione. Ed esse soltanto godevano del pieno riconoscimento dei 159 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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diritti politici e civili; ai ceti subalterni era di fatto negato il diritto all’istruzione, elettorale, al lavoro, alla salute e ad una giustizia imparziale e disinteressata. I gruppi borghesi e moderati erano, in effetti, ossessionati dal terrore e dalla paura delle rivendicazioni delle classi popolari, che neppure erano considerate “nazionali”; ne hanno dato probante dimostrazione nei vari momenti dello svolgimento della vita nazionale, specificamente nei periodi di crisi e di ricerca di nuovi equilibri politici rilevanti: nel 1848, nel 1860, nel 1894, nel 1898, nel 1915 e, da ultimo, nel 1922, con l’appoggio al fascismo, sempre terrorizzati dalla “paura del rosso”, come era sistematicamente accaduto in precedenza quando si erano sempre opposti alle istanze del proletariato rurale ed urbano, magari palesate in forme tumultuose e disorganizzate, facendo ricorso alla violenza di Stato ed alla repressione indiscriminata o mettendo in atto, a volte, il metodo della cosiddetta “restaurazione progressiva”, fingendo, cioè, di accogliere parzialmente qualche rivendicazione, per poi mantenere e sempre più e meglio consolidare il proprio dominio senza intaccare la loro egemonia. Benedetto Croce, particolarmente nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, aveva magnificato ed esaltato la teoria e la prassi dei vari governi liberal-borghesi, succedutisi uno dopo l’altro, nella gestione del potere in Italia. Per tale motivo, essendo egli il più grande intellettuale dell’epoca che, con le sue pubblicazioni e con la rivista, da lui fondata e diretta, la Critica, esercitava una preponderante influenza sulla vita culturale e sugli intellettuali italiani, assurgeva, nella visione di Gramsci, a simbolo e ideologo della borghesia e della cultura borghese, per opporsi alla quale occorreva non solo svelarne le mistificazioni storico-politiche, ma contestualmente promuovere un processo di graduale formazione di una nuova cultura, finalizzata al rinnovamento intellettuale, morale e politico italiano. Questa cultura nuova doveva ispirarsi al realismo della filo160 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sofia della prassi, ma anche a quel filone della cultura italiana a incominciare dal Machiavelli, dal Vico, al De Sanctis, che aveva ipotizzato una cultura nazionale unitaria che si ispirasse ad un “nuovo atteggiamento” verso i ceti popolari e, cioè, ad una “religione laica” e ad una filosofia che potesse diventare cultura generatrice di un “nuovo modo di vivere” e di una “condotta civile e individuale”. Gramsci era ben consapevole delle difficoltà e del tempo lungo, necessario per l’attuazione del suo progetto di rinascita civile, in funzione del quale avrebbe dovuto prodigarsi un gruppo di intellettuali di estrazione popolare. Era, per questo fine, preliminare la ricerca e la determinazione di un “principio educativo” per fare nascere e sviluppare una scuola realmente democratica, che viene individuata nell’“unico tipo di scuola preparatoria” (elementare e media) per soppiantare e superare la tradizionale scuola “oligarchica” e, quindi, di classe, che era predisposta solo ed unicamente alla formazione dei gruppi dirigenti. Tuttavia – avverte Gramsci – la scuola deve essere seria e deve dare una buona cultura di base; non bisogna abbassare il livello degli studi, dovendosi ad ogni costo resistere alla tentazione ed alla tendenza di facilitare lo studio, la cultura, la cui acquisizione è il risultato di impegno e di costante fatica, per cui “rendere facile ciò che non può esserlo”, per sua natura, di per sé, vuol dire snaturarlo e svalutarlo. In tale contesto, rivela una particolare importanza il rapporto degli intellettuali col potere. Il Principe machiavelliano diventa lo strumento per affrontare l’argomento della politica e dello Stato moderno con le connesse implicazioni. Ma il “moderno principe” non può essere quello del Machiavelli che ha soltanto “carattere utopistico”, non esistendo nella realtà storica; per Gramsci il Principe moderno è il partito politico che è un “organismo collettivo”, non individuale, che già in sé contiene tutti gli elementi per la genesi e la progressiva formazione della “volontà collettiva”, finalizzata a diventare gradualmente universale; ciò vuol 161 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dire che il partito deve avere in sé la potenzialità di espandersi nei gangli della società per rappresentarla in tutte le sue istanze ed i suoi bisogni; dev’essere, conseguentemente, se così si può dire, un partito-progetto. Non è proprio un caso il richiamo al Machiavelli, per il quale Gramsci trae ispirazione dal De Sanctis che, nel capitolo della sua Storia della letteratura italiana dedicato allo scrittore fiorentino, ne ricostruisce ampiamente il pensiero e le dottrine, che considera come il risultato di una rivoluzione intellettuale e morale e, contestualmente, “l’affermazione dei tempi moderni”. Questa affermazione desanctisiana viene dettagliatamente specificata e tradotta nel suo reale e più vero significato che si identifica nella “emancipazione dell’uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici e la conoscenza e il possesso di sé stesso”; nella sostituzione di una concezione volontaristica, laica e moderna, col contestuale superamento degli antiquati valori medioevali, ormai dissolti, e la loro sostituzione con nuovi valori morali e politici, incentrati sulla “serietà della vita terrestre col suo istrumento, il lavoro; lo spirito e il pensiero umano, immutabile ed immobile”. Ma “anche dell’uomo collettivo, come famiglia e classe”. Ciò perché nella società fondamentalmente esistono “due sole classi, degli ‘abbienti’ e dei ‘non abbienti’, dei ricchi e dei poveri. E la storia non è se non l’eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando hanno a fondamento l’‘equalità’. Perciò libertà non può essere, dove sono ‘gentiluomini’ e classi privilegiate”. Ora, dovrebbe essere assai chiaro il motivo del riferimento di Gramsci al Machiavelli sulle orme del De Sanctis, del resto, più volte richiamato nei Quaderni e riconosciuto come promotore di una nuova cultura e di una nuova “concezione della vita e dell’uomo” (Quad., pp. 2185-86). L’impostazione teorica del Machiavelli ha un “carattere rivoluzionario” perché contiene in potenza i germi di quella rivolu162 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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zione intellettuale e morale che ancora non ha trovato attuazione; essa, inoltre, ribaltando gli “antiquati valori”, inaugura una nuova concezione e visione del mondo, fondata sulla concretezza storica dell’uomo sociale, espressione dei rapporti sociali “storicamente determinati” dalla stessa attività umana e, quindi, storicamente “accertabili” con l’ausilio della filologia e della critica. Ma esistono, nella attualità, i presupposti per la costituzione del “moderno Principe”, espressione della “volontà collettiva”? È mutata la realtà storica come sono mutate le forze sociali antagoniste e le modalità stessa della dialettica sociale. Per Gramsci, “le condizioni positive sono da ricercare nell’esistenza di gruppi sociali urbani, convenientemente sviluppati nel campo della produzione industriale e che abbiano raggiunto un determinato livello di cultura storico-politica. Ogni formazione di volontà collettiva nazionale-popolare è impossibile se le grandi masse di contadini coltivatori non irrompono simultaneamente nella vita politica”. Gramsci si rende conto degli ostacoli frapposti al dispiegarsi di questa “volontà collettiva” da parte delle tradizionali “forze opposte”. Infatti, “tutta la storia dal 1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collettiva di questo genere, per mantenere il potere ‘economicocorporativo’ in un sistema internazionale di equilibrio passivo”. Per conseguenza, il “moderno Principe” ha un duplice compito: quello, cioè, di farsi promotore, sotto il profilo culturale, di “una riforma intellettuale e morale” e, nello stesso tempo, di approntare una efficiente organizzazione per poterla attuare, nella consapevolezza che ciò “significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna”. C’è, però, una implicazione ulteriore: la riforma, proposta da Gramsci, consistendo nel necessario “elevamento civile degli stati depressi della società”, non può attuarsi senza la condizione di “una precedente riforma economica” e, quindi, un cambiamento 163 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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degli assetti economici; “anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale. Il moderno Principe… sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali… prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume” (Quad., pp. 1559-61). In tale contesto e nella prospettiva della costruzione di un nuovo blocco storico per resistere validamente alle opposte “forze tradizionali”, Gramsci analizza, come si è già detto, sotto il profilo storico, la funzione svolta dai gruppi intellettuali, di solito staccati dagli strati popolari e che, per questo, non hanno dato origine ad una cultura nazionale-popolare, ma prende ad esaminare anche lo stato della cosiddetta cultura popolare e, cioè, della concezione del mondo delle classi popolari, da sempre emarginate. Tale aspetto è – com’è intuitivo – essenziale nel progetto gramsciano di riforma al fine di guadagnare il consenso dei ceti subalterni. La cultura popolare consiste fondamentalmente nel folklore che, per Gramsci, non è affatto la “preistoria contemporanea”, come assumeva Raffaele Corso; esso non si lascia “definire brevemente” perché “frammentario”, “contraddittorio”, “legato alla cultura della classe dominante”; ha carattere “provinciale” in tutti i sensi… sia in senso di “particolaristico”, di anacronistico, privo di caratteri universali” (Quad., pp. 1195, 1660-61). Il folklore è una sorta di filosofia bambina, corrispondente al cosiddetto senso comune e, quindi, “una concezione disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale delle moltitudini di cui esso è la filosofia”. Tuttavia, secondo Gramsci, non è detto che “nel senso comune non ci siano delle verità. Significa che il senso comune è un concetto equivoco, contraddittorio, multiforme, e che riferirsi al senso comune come riprova di verità è un non senso… l’argomento ha un suo valore, appunto perché il senso comune è grettamente mi164 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

9.  I due Gramsci e la grande politica

soneista e conservatore ed essere riusciti a farci penetrare una verità nuova è prova che tale verità ha una bella forza di espansione e di evidenza” (Quad., pp. 1396-1400). In ogni caso, occorre tenere nella debita considerazione che trattasi pur sempre di una “cultura”, cioè di una particolare visione del mondo, a livello elementare, da cui partire per superarla attraverso l’attività educativa delle masse popolari. “Il folklore – osserva Gramsci – non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà la nascita di una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folklore. Un’attività di questo genere, fatta in profondità, corrisponderebbe nel piano intellettuale a ciò che è stata la Riforma nei paesi protestanti” (Quad., pp. 2313-14). Questo è il compito preciso che Gramsci assegna alla filosofia della prassi e, quindi, al moderno Principe, per “combattere i residui del mondo precapitalistico nelle masse popolari”; compito che si estrinseca in una duplice direzione: demistificare le ideologie moderne “per costituire un proprio gruppo di intellettuali indipendenti, e educare le masse popolari” al fine di strapparle dalla loro “cultura medioevale” (Quad., pp. 1857-58). In realtà, Gramsci esprimeva un giudizio negativo sulla “cultura popolare”, essendo espressione di arretratezza e di una mistura eterogenea e contraddittoria fra religiosità popolare e superstizioni e credenze. Non trascurava, però, dal sottolinearne la genesi e le finalità e, per questo, “prendendola sul serio” e non considerandola una pura e semplice “bizzarria” dal momento che, legata com’era, alle condizioni di subalternità e di emarginazione, alle quali da sempre erano stati relegati i ceti popolari, doveva pure avere un suo specifico significato ed esplicare una qualche utilità. Per tale motivo, occorreva partire da tale oggettivo e concreto dato di fatto, per dare corso ad una seria e reale educazione degli 165 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

strati popolari al fine di avviarli, attraverso un capillare processo educativo, verso la conquista di una cultura nuova e moderna e, per conseguenza, ad una visione laica e scientifica della vita, così superando le condizioni di arretratezza. Soltanto in questo modo si sarebbe potuto guadagnare il consenso convinto, cosciente e attivo, delle classi popolari al progetto politico-culturale di rinnovamento sociale. In questa prospettiva va anche inquadrata l’originale analisi gramsciana della letteratura nazionale e di quella popolare che, in prosieguo di tempo, sarà feconda di ulteriori ricerche e apporti e da cui scaturiranno pure nuovi approdi culturali. Conserva certamente, ancora oggi, una sua particolarità il progetto gramsciano, ispirato e animato dalla pungente necessità di dare finalmente corso ad una letteratura che sia, al contempo, nazionale e popolare, al fine di colmare il secolare fossato e stacco tra intellettuali e popolo. La riforma intellettuale e morale, di cui deve essere strumento operativo il moderno Principe, può trovare attuazione solo nell’ambito della “grande politica” implicando essa la trasformazione dell’organizzazione economico-sociale che coinvolge lo stesso assetto delle istituzioni pubbliche. La “grande politica”, infatti, attiene alle “questioni connesse con la fondazione di nuovi Stati, con la lotta per la distruzione, la difesa, la conservazione di determinate strutture organiche economico-sociali”. Viceversa la “piccola politica” è quella che si spende nei meschini maneggi della quotidianità, nelle beghe e negli intrighi di fazione, cioè, nelle “questioni parziali e quotidiane che si pongono all’interno di una struttura già stabilita per le lotte di preminenza tra le diverse frazioni di una stessa classe politica” (Quad., pp. 970, 1563). Come non pensare ad un implicito riferimento allo scontro tra le frazioni del partito sovietico ed al giudizio negativo, già espresso da Gramsci e non condiviso e taciuto da Togliatti? L’altro e fondamentale parametro e regola, a cui Gramsci si 166 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

9.  I due Gramsci e la grande politica

ispira e che considera una sorta di imperativo categorico e non solo come studioso ed intellettuale, ma anche come politico, è quello della “verità”. Ed il motivo è di agevole intuizione. Nella sua analisi sulla storia italiana ed europea, Gramsci era pervenuto alla conclusione che le grandi masse popolari, anche in periodi di radicali cambiamenti, erano state di fatto strumentalizzate e relegate alla passività, salvo che nella Riforma protestante e nella Rivoluzione francese del 1789; lo stesso Risorgimento italiano era considerato da Gramsci una “rivoluzione passiva” dal momento che il proletariato urbano e rurale ed in genere i ceti popolari erano rimasti “passivi” ed emarginati. Ne era, quindi, venuto fuori sì un nuovo Stato, cioè, una radicale trasformazione rispetto al precedente assetto della Penisola, ma non completo perché carente dell’apporto popolare cosciente. Gramsci, per portare ad effetto positivamente la riforma intellettuale e morale, è profondamente convinto che si può e si deve fare affidamento solo sul consenso reale e cosciente delle masse popolari; perché il sostegno ed il consenso siano duraturi il politico ha l’obbligo di dire al popolo la verità senza ricorrere a sotterfugi, pur essendo – non trascura dal rilevare – “opinione molto diffusa in alcuni ambienti (e questa diffusione è un segno della statura politica e culturale di questi ambienti) che sia essenziale nella politica il mentire, il sapere astutamente nascondere le proprie vere opinioni e i veri fini a cui si tende, il sapere fare credere il contrario di ciò che realmente si vuole. L’opinione è tanto diffusa e radicata che a dire la verità non si è creduti” (Quad., pp. 699-700). Gramsci rigetta tale “opinione” – diffusa anche all’estero a proposito particolarmente degli italiani, “ritenuti maestri nell’arte della simulazione e dissimulazione” – ritenendola giustamente erronea e produttiva di conseguenze nefaste: “in politica si potrà parlare di riservatezza, non di menzogna nel senso meschino che molti pensano: nella politica di massa dire la verità è una necessità politica, precisamente” (Quad., ivi). Dire la verità per il politico, che si propo167 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

ne a guida di un popolo, è “una necessità”, cioè, un imperativo morale, perché, se vuole guadagnare il consenso, l’appoggio popolare cosciente e attivo – quello che oggi si dice la partecipazione – alle proprie proposte, non deve ricorrere alla menzogna, ma deve essere sincero e chiaro al fine di fare capire il percorso da fare e lo scopo da perseguire. E ciò è, per Gramsci, una pressante “necessità” “nella politica di massa”. Proprio in riferimento al criterio della verità necessaria in politica, Gramsci demolisce il cosiddetto “centralismo organico”, in auge allora nel partito sovietico perché basato sull’errato presupposto “che il rapporto tra governanti e governati sia dato dal fatto che i governanti fanno gli interessi dei governati e pertanto ‘devono’ averne il consenso, cioè deve verificarsi l’identificazione del singolo col tutto, il tutto (qualunque organismo esso sia) essendo rappresentato dai dirigenti. È da pensare che, come per la Chiesa cattolica, un tale concetto non solo è utile, ma necessario e indispensabile: ogni forma di intervento dal basso, disgregherebbe infatti la Chiesa… ma per gli altri organismi è questione di vita non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione quindi dei singoli, anche se ciò provoca un’apparenza di disgregazione e di tumulto. Una coscienza collettiva, e cioè un organismo vivente, non si forma se non dopo che la molteplicità si è unificata attraverso l’attrito dei singoli: né si può dire che il ‘silenzio’ non sia molteplicità. Un’orchestra che fa le prove, ogni strumento per conto suo, dà l’impressione della più orribile cacofonia; eppure queste prove sono la condizione perché l’orchestra viva come un solo ‘strumento’” (Quad., p. 1771). La “coscienza collettiva” è, dunque, un “organismo vivente” se la sua formazione è il risultato della molteplicità dei “singoli attriti” che, nell’insieme, concorrono alla costituzione della sua unità, così ricomponendosi in una sintesi dialettica. Da tutto ciò emerge con estrema evidenza il perché l’autonomia e la libertà di espressione dei singoli componenti vengono considerati un valo168 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

9.  I due Gramsci e la grande politica

re essenziale nonché un metro fondamentale per la valutazione della vitalità democratica dell’“organismo” partito. Non solo: il criterio della verità rappresenta anche contestualmente lo strumento gramsciano di analisi degli avvenimenti e la garanzia per intervenire criticamente e lucidamente e per esprimere la propria opinione. È plausibile ritenere che Gramsci, venuto a conoscenza di come si mettevano le cose sia nel partito sovietico che negli organi dirigenti del partito comunista italiano, di cui era stato fondatore, volesse esprimere il suo malcontento, avendo dovuto constatare che “i singoli attriti”, anziché ricomporsi nell’unità della “coscienza collettiva”, si concludevano drammaticamente con l’espulsione dei dirigenti che non si adagiavano passivamente nell’accettazione delle opinioni imposte dall’alto. Si è già ricordato come l’espulsione sia stata comminata a Umberto Terracini, fondatore del partito insieme a Gramsci, che si trovava in carcere per scontare la condanna a ventidue anni di reclusione, infertagli dal tribunale del duce, perché aveva manifestato il suo dissenso contro la linea politica imposta da Stalin. Lo stesso Gramsci, del resto, fu salvato dall’espulsione dalla bugia del fratello Gennaro che appositamente – ma falsamente – lo fece apparire come consenziente alla “svolta” staliniana. Il criterio della verità accerta incontestabilmente che il “centralismo burocratico” determina la morte della democrazia e spegne irrimediabilmente la “coscienza collettiva” e, quando prevale “nello Stato indica che il gruppo dirigente è saturato diventando una consorteria angusta che tende a perpetuare i suoi gretti privilegi regolando o anche soffocando il nascere di forze contrastanti, anche se queste forze sono omogenee agli interessi dominanti fondamentali… L’“organicità”, invece, non può essere garantita che da “un centralismo in movimento”, come quello democratico, “che è una continua adeguazione dell’organizzazione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando 169 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

dall’alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella cornice solida dell’apparato di direzione che assicura la continuità e l’accumularsi delle esperienze: esso è “organico” perché tiene conto del movimento, che è il modo organico di rivelarsi della realtà storica, e non si irrigidisce meccanicamente nella burocrazia” (Quad., p. 1634). La “piccola politica”, fatta di meschine furbizie e di sotterranei maneggi e, non di rado, di attività corruttiva, corre naturalmente su tortuosi percorsi difficilmente d’accordo con la verità. Ma la “grande politica” no. Gramsci era nel vero quando scriveva le suesposte considerazioni: il sistema politico sovietico, infatti, a furia di soffocare e reprimere duramente il libero dibattito interno, che avrebbe garantito il rinnovamento continuo con “l’accumularsi delle esperienze” attraverso l’“inserimento degli elementi che sboccia(va)no dal profondo della massa”, finì col diventare “una consorteria angusta”, costretta ad esercitare un dominio sospettoso, repressivo e poliziesco, per preservare il potere con i “suoi gretti privilegi” ed, infine, ad esaurirsi per implosione. Se le giuste osservazioni gramsciane avevano una loro valenza per fatti ed avvenimenti degli anni trenta del ’900, esse tuttavia non sono inattuali e sono anche calzanti per il partito comunista italiano, notoriamente autodefinitosi gramsciano, ma che, di fatto, praticava il criterio della doppia verità: proclamava il valore della democrazia nel quadro di una politica riformatrice e nel rispetto della Carta costituzionale, ma, nello stesso tempo, si legava al sistema sovietico e delle cosiddette “democrazie popolari”, notoriamente dittatoriali, liberticide ed antidemocratiche. Una “doppiezza” durata ben oltre la rivelazione kruscioviana dei crimini del dittatore sovietico. Anche dopo il Rapporto Krusciov, l’opinione prevalente nel p.c.i. qualificava “errori” i crimini staliniani e riteneva che l’URSS fosse un regime democratico, non inquinato dagli “er170 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

9.  I due Gramsci e la grande politica

rori” di Stalin e che, essendovi stata realizzata la società senza classi, il partito unico garantisse la prassi democratica. Quando finalmente si prese atto della realtà criminale del regime stalinista, che aveva – come noto – condizionato anche la formazione del partito comunista italiano, nella destalinizzazione, non si individuò anche la necessità di analizzare le strutture del partito italiano per democratizzarle, adeguandole alle esigenze nazionali e del tempo. Si continuò nella prassi antidemocratica del “centralismo burocratico”, che non fu ovviamente strumento di democrazia interna, ma invece mezzo di passivo allineamento alle tesi predisposte dall’alto, pena l’espulsione dei dissenzienti. E questa prassi con tutte le sue ambiguità e ambivalenze non salvò il partito comunista italiano dal conseguente processo di decadimento e di esaurimento della sua funzione, attestato del resto dalla sua stessa dirigenza. Ma Gramsci vive ancora, con le sue idee sulla democrazia e contro la fase “predatoria” dello sviluppo umano che ha creato paurose e disastrose diseguaglianze, sulla giustizia, il riconoscimento e la salvaguardia dei diritti fondamentali della persona, oggi non definitivamente e ovunque acquisiti, nella prospettiva di un progetto di “grande politica”, di estrema attualità nella crisi epocale che stiamo vivendo e nel momento in cui è ricorrente il richiamo alla necessità del Socialismo.

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

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Indice dei nomi

Indice dei nomi

Aiello Nello, 63 Agosti A, 121 Alfani Luigi, 101 Amendola Giovanni, 85 Arari, 11 Ariis Giovanni, 102 Baccaro, 10, 11 Baffa, 11 Balbino Giuliano, 58 Basile Angelo, 20, 21 Bavasso, 10,11 Bedeschi Giuseppe, 63 Bellezze, 10 Bellusci (notaio) 13 Belluscio, 10 Berti Giuseppe, 114 Blaiotta Domenica, 13 Bobbio Norberto, 62, 63, 87 Bocca G. 125 Bonaparte Luigi, 105 Bordiga Amadeo, 45, 80, 99, 117 Borgese Giuseppe Antonio, 58, 76 Borin Igino, 101 Brunetti Mario, 7, 12, 16 Buccafurri Giacomo, 101 Bucharin, 112, 114, 115, 120-122 Burrelce, 10 Calamandrei Piero, 64 Calorni Eugenio, 60 Camideca, 11 Candreva, 11 Canfora Luciano, 105

Cappelli Vittorio, 16 Carducci, 53, 147 Caretti Stefano, 119 Carlini Armando, 58 Carlo Alberto, 14 Casalini Giulio, 16, 17 Cassiano Domenico A., 7, 10, 11, 15, 16, 19, 21-23, 27 Cavour, 68, 72 Chabod F., 77, 81 Chidichimo Pietro Zecca, 22 Chiodo Marinella, 53 Cilibrizzi Saverio, 18 Cingari Gaetano, 15, 22, 71 Cofrancesco Dino, 63 Colletti Lucio, 63 Conte, 10 Cordova Ferdinando, 53 Corradini, 58 Corso Raffaele, 164 Cortese, 10 Cortese Nino, 19 Crisius, 10 Crispi, 12 Crispi Francesco, 8, 18, 66 Crispo, 12 Crispolti, 84 Croce Benedetto, 30, 32, 34, 43, 49, 50, 51, 53, 55-60, 65, 74, 76, 87, 88, 91, 105, 106, 108-110, 127, 128, 130, 133-135, 138, 139, 144151, 154, 157, 158, 160 Cucchia, 10 Cucchio, 10 173

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Cuccia, 10, 11 Cuoco Vincenzo, 89, 90, 150 Curiel Eugenio, 60 D’Alambert, 48 Dalmas Davide, 85 Damese – Danese, 10, 11 D’Annunzio, 58 De Alfano, 10 De Bono Luigi, 103 De Gaspari, 28 Degl’Innocenti Maurizio, 119 Delio, 36 Della Peruta, 21 De Marco, 10 De Nicolò Marco, 54 Denis Mack Smith, 72, 76 De Rada Girolamo, 20 De Sanctis Francesco, 43, 48, 49, 53, 72, 127, 151, 161, 162 Diderot, 48 Don Rodrigo (I promessi Sposi), 124 Dorsa, 11 Dorso Guido, 85, 110, 111 Dossetti, 28 Einaudi Luigi, 69, 87, 130 Elmo, 11 Engels, 133 Fabbricatore Maria Francesca, 13, 14 Ferdinando II, 21 Ferragni Gaetano, 102 Ferragni Rosolino, 102 Ferrari Enrico, 101 Ferrata G., 114 Ferri, 32 Ferri Enrico, 134 Feuerbach, 142, 144, 145 Fichte, 144 Fiori Giuseppe, 9, 13, 23, 103, 104,

118 Fischer Ernest, 123, 124 Fortunato Giustino, 50, 51, 106, 108, 148 Franzinelli Mimmo, 101, 104 Frega, 11 Gangale Giuseppe, 85, 86 Garibaldi Giuseppe, 72 Garin Eugenio, 49, 56, 58, 128, 145 Geymonat Ludovico, 60, 144 Gemelli, 84 Gentile Giovanni, 50, 55, 57, 59, 128, 138, 143, 144 Gerratana Valentino, 65, 88, 126, Gesù, 60 Giolitti Giovanni, 68, 81, 82, 148 Gladstone, 65 Gobetti Piero, 33, 37, 50, 61-70, 73, 74, 85-99, 108-110, 128, 129 Goethe, 105 Gonzales Teresa, 9, 14 Gramisi Salvatore, 12 Gramsci, 12, 14, 16, 17, 19, 30, 38-41, 43, 44, 46, 47, 49-55, 57, 72, 85, 88, 99, 108, 128, 132, 137, 153, 155-157, 160-163, 165-167 Gramsci Antonio, 7-10, 13, 14, 18, 22, 23, 25, 29-35, 37, 38, 43-45, 50-53, 55, 60, 61, 65, 70, 71, 73, 74, 76, 80, 87, 89-95, 99-105, 111-116, 119, 121, 125-127, 129, 131, 138, 145, 147, 148, 150, 158 Gramsci Antonino, 23 Gramsci Carlo, 35 Gramsci Emanuele, 16 Gramsci Francesco, 13, 14, 21, 23 Gramsci Gennaro, 7, 9, 12-15, 17-19, 21-23, 117, 118 Gramsci Margherita, 12, 15 Gramsci Marianna, 13

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Indice dei nomi

Gramsci Nicolino, 9, 14 Gramsci Nicola, 12-15, 17-19, 21 Gronchi, 84 Groppa S., 23 Guicciardini, 150 Gullo Fausto, 53, 54 Hegel, 55, 136, 140, 144, 145 Hitler Alfred, 123 Iannino Corrado, 85 Iotti Nilde, 125 Isgrò Michele, 101, 103 Kamenev, 112-115 Kant Emanuele, 144, 147 Krusciov, 170 Labriola Antonio, 30, 43, 52, 53, 127, 131, 133-138, 141, 143 Lascari Serafino, 11 Laviola Giovanni, 13, 20, 23 Lenin, 53, 95-98, 112, 113, 124, 131 Leonetti Alfonso, 117, 118 Leopardi, 21 Lewin Moshe, 97, 113, 115, 124 Lisa Athos, 117, 118 Lombroso, 32 Loria Achille, 134 Lutero, 139 Machiavelli, 159, 161, 162 Mandel’stam Osip, 31 Marchianò Antonio, 22 Martorelli Francesco, 54 Marx Carlo, 32, 51, 52, 54-56, 97, 105, 109, 127, 128, 130, 131, 133, 135, 136, 140, 144-146 Masi Giuseppe, 53 Matano, 11 Matino, 10

Matteotti Giacomo, 34, 83, 94, 103 Mauro Domenico, 15, 22, 71 Mazzini, 66 Micheli, 84 Milano Agesilao, 21 Misiani Simone, 53, 54 Molotov, 123 Mommsen, 83 Morandi Rodolfo, 60 Moreno Gaetano, 13 Mortati Costantino, 18, 25-29 Mortati Tommaso, 26, 28 Mussolini Benito, 38, 58, 76, 80, 82, 83, 93, 96, 97, 99, 101 Napoleone, 48 Nitti Francesco Saverio, 17, 148 Novalis, 43, 46, 49, 127 Orlando, 148 Pascoli Giovanni, 105 Pendinelli Mario, 99, 117 Pertini Sandro, 119 Petta Paolo, 11, 12 Pisacane Carlo, 21 Placco Gennaro, 19, 23 Prezzolini Giuseppe, 32, 127 Procacci Giuliano, 120 Rattazzi, 72 Ravazzoli Paolo, 117, 118 Ravera, 119 Rea Ermanno, 85 Reres, 11 Ribbentrop, 123 Riboldi Ezio, 101 Riccio, 9 Robespierre Massimiliano, 147 Rodinò, 84 Rolland Romain, 46 175

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Indice dei nomi

Romano Sergio, 63 Romano Salvatore Francesco, 8 Romeo Rosario, 71 Rossi – Doria Anna, 54 Rota Giovanni, 85 Roveda Giovanni, 101, 105 Russo Giovanni, 54

Spezzano Francesco, 53 Spezzano Saverio, 53 Stalin, 31, 98, 112-116, 121-126, 169, 171 Strauss David Federico, 140 Strumia Anna, 85 Sturzo Luigi, 79, 83, 84

Saitta Armando, 59, 76, Salandra, 148 Salvemini Gaetano, 32, 65, 66, 75, 87, 90, 91, 127 Santucci Antonio A., 45, 56, 84, 99, 111, 115, 128 Saporiti Alessandro, 101 Schucht Tatiana, 7, 105, 118 Schucht Giulia, 127 Scoccimarro Mauro, 101, 105 Scoppola Pietro, 121, 122, 124, 125 Scura – Sgura, 11 Secchia Pietro, 125 Serafino, zio di Gramsci, 36 Sereni, 71 Sergi Giuseppe, 18, 32 Settembrini Luigi, 23 Siciliano Giuseppe C., 7, 12, 13 Silone Ignazio, 25, 116, 117, 121 Solari Gioele, 50, 51 Solone, 46 Sonnino, 68, 148 Sorel Georges, 134, 138 Spadolini Giovanni, 84 Spaventa Bertrando, 133, 143 Spaventa Silvio, 14, 134 Spencer, 136

Tangorra, 84 Tasca Angelo, 38, 45, 78, 120, 121, 122 Terracini Umberto, 98, 99, 101-104, 116-118, 120, 121, 126, 169 Tocci – Tocco, 11 Tocci Guglielmo, 15 Togliatti Palmiro, 54, 112, 114, 117, 118, 120-125, 166 Tresso Pietro, 117, 118 Treves Claudio, 55, 130, 131 Trockij Leone, 98, 112-115, 121 Troiano (notaio), 12 Turati, 133 Valeri N., 76 Valenzi Maurizio, 54 Vico Giambattista, 43, 46, 49, 55, 127, 131, 137, 143, 151, 161 Villari Pasquale, 65, 66, 88, 111 Viroli Maurizio, 63, 64 Vittorio Emanuele II, 72 Vittorio Emanuele III, 14 Zangari Domenico, 10 Zeno (notaio), 13 Zinovjev, 112-115, 121

176 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Indice dei luoghi

Indice dei luoghi

Acri, 15, 53 Altomonte, 13 Bari, 9, 17, 52, 57, 63, 71, 76, 78, 103, 111, 113, 120, 134 Bologna, 74, 108 Bruxelles, 121 Cagliari, 29, 35, 36 Campotenese, 22 Caserta, 14 Cassino, 133 Cassano, 13 Castrovillari, 14, 15, 16, 22 Catanzaro, 21 Cina, 30 Civita, 19 Corea, 30 Corigliano Calabro, 18, 22, 26, 27 Cosenza, 7, 13-15, 19-21, 53, 54 Egeo, 12 Epiro, 18 Farneta, 11 Firenze, 59, 62, 65, 84, 88, 143 Gaeta, 9, 14 Ghilarza, 9

Livorno, 25, 80, 98 Lucca, 23 Lungro, 7, 10, 15, 63 Macchia, 15 Manciuria, 30 Maratona, 23 Milano, 8, 18, 23, 25, 35, 58, 60, 65, 76, 85, 90, 99, 101, 105, 115-117, 119, 134, 144 Morea, 10, 12 Mosca, 112, 116, 120, 121, 125 Napoli, 12, 13, 16, 19-22, 54, 59, 76, 133 Negroponte, 12 Oristano, 36 Palermo, 45, 54, 99, 111 Parigi, 12, 86, 117-119, 121 Peloponneso, 12 Piana degli Albanesi, 11 Pisa, 144 Plataci, 7, 11-13, 15-18, 20, 22-24 Portella della Ginestra, 11 Portici, 13, 17

Ios (isola) 12

Reggio Calabria, 15 Roma, 30, 49, 53, 54, 63, 71, 76, 85, 86, 101, 124, 133

Lecce, 12 Lione, 115

Salerno, 10 San Adriano (scuola), 16, 21, 26, 28 177

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Indice dei luoghi

San Cosmo Albanese, 15, 16 San Demetrio Corone, 15, 16, 26 Sangermano, 133 San Giorgio, 15 Spezzano Albanese, 16

127, 148 Trebisacce, 12 Turi (carcere) 104, 105, 117-119, 153

Torino, 8, 23, 31-34, 36, 37, 65, 74, 77, 84, 85, 87, 88, 103, 110, 126,

Vaccarizzo Albanese, 15, 16 Vaticano (città) 83, 84

Ustica (isola) 101

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9.  I due Gramsci e la grande politica

INDICE

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

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9.  I due Gramsci e la grande politica

1.  Le radici calabro-albanesi della famiglia Gramsci........... pag. 7 2.  Gramsci a Torino ed il Socialismo................................... » 25 3. Il richiamo alla storicità del reale..................................... » 43 4.  Piero Gobetti e Antonio Gramsci.................................... » 61 5.  La crisi dello Stato Liberale Italiano ed il Fascismo......... » 75 6.  Rivoluzione fallita e rivoluzione passiva.......................... » 87 7.  Antonio Gramsci, la Questione Meridionale e il Socialfascismo............................................................ » 101 8. Crocianesimo e filosofia della prassi................................ » 127 9. I due Gramsci e la grande politica................................... » 153 Indice dei nomi..................................................................... » 173 Indice dei luoghi.................................................................... » 177

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

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9.  I due Gramsci e la grande politica

Stampato da Stabilimento Tipografico De Rose - Montalto (Cs)

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Antonio Gramsci (1891-1937). L’Eroismo della ragione

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