Anselmo d'Aosta E Il Pensiero Monastico Medievale (Nutrix) (Italian Edition) [Multilingual ed.] 9782503548401, 2503548407

This volume collects the papers read by more than twenty Italian and German scholars at the eighteenth congress of the S

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Anselmo d'Aosta E Il Pensiero Monastico Medievale (Nutrix) (Italian Edition) [Multilingual ed.]
 9782503548401, 2503548407

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NUTRI X

STUDIES IN LATE ANTIQ UE MEDIEVAL AND RENAISSANCE THOUGHT STUDI SUL PENSIERO TARDOANTICO MEDIEVALE E UMANISTICO

Directed by Giulio d’Onofrio Assistant director Renato de Filippis

11

Ubi in eam deduxi oculos intuitumque defixi respicio nutricem meam cuius ab adulescentia laribus obversatus fueram Philosophiam Boethius Consolatio Philosophiae, I, 3

© 2017 Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium

Nutrix is a peer-reviewed Series. The content of each volume is assessed by specialists chosen by the Direction of the Series. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without prior permission of the publisher. The logo of the series Nutrix – a miniature from Ms. New York, Pierpont Morgan Library, M. 302 (Ramsey Psalter), f. 2v – portrays the Christ Child among the Doctors in the Temple. Photographic credit: The Pierpont Morgan Library, New York.

D/2017/0095/147 ISBN 978-2-503-54840-1 Printed on acid-free paper

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale Atti del XVIII Convegno internazionale di studi della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (SISPM) (Cava de’ Tirreni – Fisciano, 5-8 dicembre 2009)

a cura di Luigi Catalani Renato de Filippis

F

Anselmo d’Aosta, Orationes vel meditationes Oratio ad sanctum Petrum, iniziale miniata ms. Bodleian Library, Oxford, Auct. D. 2. 6, f. 169r Photographic credit: © Bodleian Libraries, University of Oxford

INDICE DEL VOLUME

INDICE DEL VOLUME

Avvertenza

13 Parte prima ANSELMIANA

Giulio d’Onofrio Leggere Anselmo

17

Alessandro Ghisalberti La nuova frontiera ermeneutica delle opere speculative di Anselmo. Problemi e prospettive

77

Inos Biffi Le rationes necessariae di Anselmo d’Aosta: audacia o utopia?

107

Armando Bisogno Si vis, quaeramus quod sit veritas. Anselmo e  il modello pedagogico monastico

123

Italo Sciuto Significato e  valore del mondo laico nel pensiero di  Anselmo d’Aosta

137

Matteo Zoppi Tra il chiostro e il mondo: linee del pensiero ‘politico’ anselmiano

161

Pietro Palmeri Ricerca della verità, volontà di  giustizia e  desiderio di felicità nel monachesimo di Anselmo d’Aosta

191

Silvio Tafuri Il problema della significazione nel pensiero di Anselmo

211

9

INDICE DEL VOLUME

Carlo Chiurco Anselmo filosofo dell’infinito: la  natura elenctica dell’unum argumentum

237

Roberto Nardin Una lettura monastica del Cur Deus homo: indagine sui presupposti del metodo anselmiano

249

Marcella Serafini Una ‘rilettura’ del Cur Deus homo in prospettiva cristocentrica

265

Romana Martorelli Vico Il ‘quadrato’ di  Anselmo (dal Cur Deus homo): dalla generazione divina alla generazione biologica. Significato simbolico e storico-dottrinale di uno schema dialettico

293

Luigi Catalani La ragione monastica nell’epistolario di Anselmo d’Aosta

301

Parte seconda CONTESTO E FORTUNA Fabio Cusimano Benedetto di Aniane e la legislazione monastica carolingia attraverso i capitularia

327

Pierfrancesco De Feo L’eredità cristologica anselmiana in Ugo di  San Vittore e in Abelardo

359

Concetto Martello Influenze anselmiane nel secolo xii. Il caso della Summa sententiarum attribuita a Ottone da Lucca

371

Bernhard Hollick Logica ed ermeneutica: la  parafrasi sillogistica come strumento di interpretazione di testi filosofici nel dodicesimo secolo

393

Maria Borriello Il monachesimo e  le scuole nel passaggio tra il  dodicesimo e  il tredicesimo secolo

423

Alessandro Pertosa L’influenza di  Anselmo d’Aosta nella letteratura controversistica dei Correctoria

449

10

INDICE DEL VOLUME

Luca Parisoli La non-universalità del principio di  contraddizione: un’ipotesi su un approccio filosofico da Anselmo d’Aosta a Duns Scoto

463

Davide Monaco Maius quam cogitari possit. Anselmo e Cusano

497

Angelo Maria Vitale Il ruolo del monachesimo benedettino nel platonismo cristiano del Rinascimento

505

Luigi Della Monica L’argomento ontologico nell’apologetica cristiana di  Ralph Cudworth

525

Abstracts – Summaries

541

Indice dei nomi 565 Indice biblico 583

11

INDICE DEL VOLUME

AVVERTENZA

Le opere di Anselmo sono citate con riferimento alle coll. nel volume  158 (e, nel caso delle Epistolae, anche nel volume 159) della Patrologia Latina e  alle pagine dell’edizione Schmitt: S.  Anselmi Cantuariensis Archiepiscopi Opera Omnia, ad fidem codicum recensuit Franciscus Salesius Schmitt, 6  voll., Edinburgh 1946-1961 (ed. preced. dei soli voll. 1-2, Seckau 1938 e Roma 1940; ripr. anast. integrale, 6 voll., Stuttgart – Bad Cannstatt 19681, 19842). In generale, nelle note, le citazioni dalle opere di Anselmo sono prive di riferimento al nome dell’autore. Titoli e riferimenti alle coll. in PL 158-159 e alle pp. nell’ed. Schmitt (con indicaz. del volume): Cur Deus homo: 359C-432B, II, pp. 39-133 De casu diaboli: 325C-360C, I, pp. 231-276 De conceptu virginali et de peccato originali (De conceptu virginali): 431C-464A, II, pp. 137-173 De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio (De concordia): 507A-542A, II, pp. 245-288 De grammatico: 561A-582A, I, pp. 145-168 De libertate arbitrii: 489A-506C, I, pp. 205-226 De processione Spiritus Sancti: 285A-326B, II, pp. 177-219 De veritate: 467B-486C, I, pp. 173-199 Epistola de incarnatione Verbi: 259C-284C, II, pp. 3-35 (Prior recensio: I, pp. 281-290) Monologion: 142-224A, I, pp. 5-87 Proslogion: 223B-242C, I, pp. 93-122 [Gaunilo Maioris Monasterii], Q uid ad haec respondeat quidam pro insipiente: 241C-248C, I, pp. 125-129 13

AVVERTENZA

Responsio (Quid ad haec respondeat editor ipsius libelli): 247C-260B, I, pp. 130-139 I titoli delle Orationes sive Meditationes (PL 158,  709A-1016A, ed. Schmitt, III, pp. 3-91) e delle Epistolae (PL 158, 1059A-1208A, PL 159,  9A-272A, ed.  Schmitt, II, pp.  223-242, III, pp.  97-294, IV, pp. 3-232 e V, pp. 233-423) sono indicati per esteso Altre opere: De potestate = De potestate et impotentia, possibilitate et impossibilitate, necessitate et libertate, ed.  F.  S. Schmitt, Ein neues unvollendetes Werk des hl. Anselms von Canterbury, Münster 1936 (BGPTMA, 33/3) Memorials  = Memorials of St.  Anselm, ed.  by R.  W. Southern  – F. S. Schmitt, London 1969 (rist. Oxford 1991; Auctores Britannici Medii Aevi, 1)

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PARTE PRIMA

ANSELMIANA

GIULIO D’ONOFRIO

LEGGERE ANSELMO

1. Leggere, tradurre, intendere La percezione che il  lettore di  oggi riesce ad avere di  natura ed esiti dei procedimenti argomentativi di filosofi antichi e medievali è condizionata dal sedimentarsi secolare di conoscenze, istruzioni e precomprensioni di ordine teoretico che possono alterare, come uno schermo deformante, la comprensione della coerenza originaria che l’autore riteneva di avere assicurato fra le sue parole e la nozione interiore che esse dovevano comunicare. Di questa problematicità deve tenere conto chiunque intenda oggi ricostruire la storia di forme di pensiero sviluppatesi in mondi culturali lontani e su fondamenti teoretici che non godono più, nelle nostre menti, della piena condivisione che caratterizzava gli abitanti di altre ere speculative. Innanzi tutto, quasi per l’intero panorama delle produzioni teoretiche provenienti dall’àmbito che noi definiamo ‘medievale’, un filtro determinante di cui deve tenere conto lo storico, per essere realmente storico del pensiero, è  costituito dall’uso, nel testo originale, del latino: impiegato in modo artificioso già dallo scrivente, che di  solito si esprime e  pensa in  una lingua diversa, il lessico filosofico latino è tendenzialmente molto ‘tecnico’, in  quanto caratterizzato da  espressioni, formule e  argomentazioni che si ricollegano a una tradizione didattica (quella delle sette arti liberali) congelata e a noi ormai estranea. Alla luce di questa situazione, poco produttivo appare oggi il moltiplicarsi di traduzioni il cui fine immediato è produrre una leggibilità moderna, pratica e fruibile dei testi speculativi medievali, ma non Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 17-76 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112911

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GIULIO D’ONOFRIO

fondata sulla difficile e tuttavia indispensabile contestualizzazione storica di  parole e  immagini formalmente dipendenti da  un patrimonio culturale ormai lontano da noi e dai nostri linguaggi. L’espressione del ragionamento filosofico, nella produzione medievale, non corrisponde quasi mai pienamente alla libertà espressiva del linguaggio interiore; né, di solito, vi sono contemplati modi, sia pure inconsueti ed eccezionali, di rottura delle rigide regole strutturali della grammatica, della logica o della retorica per dare libera espressione a contenuti intuitivi del pensiero. Da tale costrizione non sono esenti neanche gli autori più ispirati, come i  poeti teologi o  i  contemplativi. Scaturisce inoltre da  tale situazione una valorizzazione piena e  specifica di  ogni singola parola inserita nel testo: ogni termine, anche nelle ripetizioni apparentemente ridondanti di  parole simili, è  scelto dall’autore con somma attenzione al peso che esso deve assumere nel suo discorso; cosicché – come regola generalizzata – non c’è alcuna parola, in  un testo filosofico medievale, che possa essere considerata superflua. È infine importante anche tenere conto dell’utilizzazione tacita e  frequente, da  parte dello scrittore medievale, di forme espressive che egli mutua da documenti con i quali la sua cultura di base ha una familiarità diffusa e sottoposta a continuo incremento: reminiscenze da testi classici in prosa o  in poesia, e  poi, soprattutto, l’influenza di  un ricco apparato espressivo dedotto dai testi della Scrittura (nel latino della Vulgata, soprattutto). Al di là di ogni intenzionale frettolosità interpretativa – che certo favorisce la  divulgazione, ma tutela assai poco la  corretta comprensione – è allora opportuno per lo storico dotarsi di una ponderata metodologia per il  corretto recupero dell’originaria valenza espressiva dei testi: riposizionando innanzi tutto la propria attenzione sulla corretta ricerca etimologica e  precisazione semantica delle parole; indagando, classificando, riconoscendo e considerando i tecnicismi del linguaggio e i procedimenti propri delle sette arti liberali; e operando un confronto approfondito – oggi reso possibile e veloce anche dall’uso di funzionali repertori informatici – tra il patrimonio espressivo dell’autore medievale e quello delle sue fonti, classiche, bibliche o patristiche, e di altri scrittori suoi contemporanei con i quali, direttamente o no, egli ha dialogato. 18

LEGGERE ANSELMO

Le opere teologiche di  Anselmo d’Aosta costituiscono un caso esemplare per la  verifica dell’opportunità di  questo richiamo generale al corretto impegno metodologico che deve caratterizzare lo storico del pensiero medievale. Originale ed elegante, la prosa di Anselmo ci offre uno dei più raffinati prodotti letterari dell’alto Medioevo, anche se – incomprensibilmente – viene solo di rado presa in considerazione con un adeguato apprezzamento dagli storici della letteratura medio-latina. D’altra parte anche gli storici della filosofia sembrano spesso essersi preoccupati assai più di  individuare, sciogliere e  valutare a-storicamente la  validità e  l’eventuale attualità dei suoi percorsi argomentativi, che di apprezzare nel modo adeguato provenienza, natura e significato autentico del linguaggio con cui sono espressi. Non sarà dunque fuori luogo tentare nelle pagine seguenti, almeno quale modello di base per ulteriori approfondimenti, una verifica articolata della possibilità di tornare a leggere Anselmo così come lo avrebbe letto un intellettuale suo contemporaneo, cercando di rintracciare nelle sue pagine lo spessore e la presenza operante del bagaglio culturale e del lessico speculativo propri di un pensatore vissuto a cavallo tra i secoli xi e xii.

2. I quattro modi del Monologion: dalla pensabilità del vero alla verità dell’esistenza di Dio Nei primi quattro capitoli del Monologion Anselmo argomenta la ‘verità’ dell’esistenza della summa substantia muovendo, come è  noto, dal riconoscimento della ‘verità’ di  taluni fondamentali caratteri delle cose che sono oggetto consueto della conoscenza naturale. In  quanto tali caratteri sono ‘conoscibili’  –  anzi sono essi stessi condizione della conoscibilità delle cose naturali, e quindi del riconoscimento di verità del loro esistere –, la ragione umana è invitata ad accogliere come indubitabile, al di sopra di essi, la realtà di ciò che le consente di ri-conoscerli come veri: di qualcosa, quindi, che essendo principio della vera conoscibilità, ossia della ‘verità’, di cose vere, a sua volta necessariamente è vero, e quindi esiste. Una diffusa tradizione storiografica ha accolto i quattro percorsi delineati da  Anselmo in  questi capitoli iniziali della sua prima opera speculativa come descrittivi di paralleli procedimen19

GIULIO D’ONOFRIO

ti ascensivi della mente, dall’esistenza delle cose finite alla causa di tale loro esistere, per evitare una regressio ad infinitum: e quindi come prove a  posteriori della necessità dell’esistenza di  Dio, esplicitamente contrapposte alla natura di dimostrazione a priori propria dell’argomento del Proslogion 1. Ad una attenta lettura di  questi capitoli si comprende tuttavia con chiarezza che l’impostazione delle quattro dimostrazioni non rientra assolutamente in quelle che Immanuel Kant classifica come prove fisico-teologiche dell’esistenza di  Dio: che «fangen  […] von der bestimmten Erfahrung und der dadurch erkannten besonderen Beschaffenheit unserer Sinnenwelt an und steigen von ihr nach Gesetzen der Causalität bis zur höchsten Ursache außer der Welt hinauf» 2; né in  quella che egli cataloga come prova cosmologica, che induce a ritenere necessaria l’esistenza di Dio a partire dalla semplice ammissione dell’esistenza di qualcosa di limitato e finito, perché «wenn etwas existiert, so muß auch ein schlechterdings nothwendiges Wesen existieren» 3. Le parole di Anselmo non intendono, di fatto, né delineare un processo di ascesa dalla relatività di un certo modo particolare di essere delle cose particolari a un principio (non relativo, ma assoluto) che determini sia tale loro particolarità, sia l’ordine complessivo in cui si incastonano le loro relazioni; né tanto meno suggerire l’individuazione di una concatenazione causale che proceda da  realtà effettuali, limitate e  contingenti, 1  Cfr.  P.  Gilbert, s. v. Anselmo, in  Enciclopedia Filosofica, a  c. della Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, 12 voll., Milano 2006, I, pp. 492b497b, in  partic. p.  494ab; G.  d’Onofrio, La  storia del pensiero altomedievale. Modelli tradizionali e  nuove chiavi di  lettura, in  Scientia, Fides, Theologia. Studi di filosofia medievale in onore di Gianfranco Fioravanti, a c. di S. Perfetti, Pisa 2011, [pp. 49-87], pp. 65-66. 2 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, II Abt. (Die trascendentale Dialektik), Buch II, Hauptstück 3, Abschn. 3, 618-619, in Kants gesammelte Schriften, hrsg. von der königl. Preußischen Akademie der Wissenschaften, III, Berlin 1904, p.  396,  22-30: «Alle Wege, die man in  dieser Absicht einschlagen mag, fangen entweder von der bestimmten Erfahrung und der dadurch erkannten besonderen Beschaffenheit unserer Sinnenwelt an und steigen von ihr nach Gesetzen der Causalität bis zur höchsten Ursache außer der Welt hinauf; oder sie legen nur unbestimmte Erfahrung, d. i. irgend ein Dasein, empirisch zum Grunde; oder sie abstrahieren endlich von aller Erfahrung und schließen gänzlich a priori aus bloßen Begriffen auf  das Dasein einer höchsten Ursache. Der erste Beweis ist der physikotheologische, der zweite ist der kosmologische, der dritte der ontologische Beweis». 3 Cfr. ibid., Abschn. 5, 633, p. 404, 30-31. Secondo Kant questo è il procedimento che Leibniz denomina a contingentia mundi: cfr. ibid., p. 404, 27-29.

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LEGGERE ANSELMO

all’ammissione dell’esistenza (necessaria per evitare il  regresso all’infinito) di un principio che le faccia essere tali, non limitato, e quindi esistente senza essere causato da altro. Il linguaggio dei primi capitoli del Monologion è, invece, chiaro e inequivocabile nel descrivere la necessaria sussistenza del principio divino come una conseguenza non dell’esistenza effettuale, ma, propriamente, della conoscibilità delle cose finite. Se si accosta a queste pagine astenendosi dalla ricerca di  formalismi argomentativi che sono ad esse estranei, il lettore moderno non può non cogliere in effetti – sotto un linguaggio elegante, regolato dal rispetto di  procedure retoriche elementari – la ‘novità’ formale di una diretta, immediata chiarificazione dei concetti presi in  considerazione e  della loro possibile connessione, orientata a documentare, perché sia inequivocabile, la possibilità di ‘conoscere’ (ossia di cessare di ‘ignorare’ come sia possibile ‘conoscere’) modi di ‘essere’ e di ‘essere vero’ che appaiono predicabili della creatura solo perché sono predicati, al massimo grado, del principio creatore: Si quis unam naturam summam omnium quae sunt solam sibi in  aeterna sua beatitudine sufficientem omnibusque rebus aliis hoc ipsum quod aliquid sunt aut quod aliquomodo bene sunt per omnipotentem bonitatem suam dantem et facientem aliaque perplura quae de Deo sive de eius creatura necessarie credimus aut non audiendo aut non credendo ignorat, puto quia ea ipsa ex magna parte, si vel mediocris ingenii est, potest ipse sibi saltem sola ratione persuadere 4.

La ratio, inequivocabilmente intesa come capacità di  giudizio dell’intelligenza umana, è  introdotta in  questo brano iniziale quale soggetto esclusivo e autonomo («sola ratione») di un persuadere efficiente, che la  conduce ad accogliere come certezza, anche in  caso di  ignoranza o  rigetto pregiudiziale dei contenuti della fede («si quis… aut non audiendo aut non credendo ignorat»), la conoscibilità dell’esistere di una natura superiore a tutte le  altre («summa»), che per essere tale è  inevitabilmente unica («una»), dotata di  autosufficienza («sola… sibi… sufficiens»), 4  Monologion, 1, 144C-145A, p. 13, 5-11. Nelle citazioni di testi anselmiani dall’ed. Schmitt correggo talvolta la punteggiatura; in tutte le citazioni, nel testo e nelle note, i corsivi sono miei, e sono finalizzati ad evidenziare i termini sui quali mi soffermo nel mio commento.

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GIULIO D’ONOFRIO

onnipotenza e bontà («per omnipotentem bonitatem»): attributi elencati come solo le prime tra altre sue caratteristiche, tutte evidenti per il giudizio dell’intelletto e pienamente coincidenti con i contenuti della fede («pluraque alia quae de Deo credimus»). Q uesto medesimo piglio diretto, questo ricorso a  espressioni rigorosamente pesate e  inequivocabili, o  almeno tali per un orecchio sensibile alla competenza nella dottrina delle arti liberali, si mantiene inalterato nello sviluppo delle quattro dimostrazioni, tutte fondate sulla persuasione che se è  vera la  conoscibilità di  determinazioni relative nelle cose finite, è  inevitabile che la mente prenda atto della determinazione assoluta di un principio originario da cui scaturisce tale conoscibilità, del quale deve quindi essere riconosciuta la necessaria esistenza. È allora evidente il radicarsi di questo procedimento su una profonda condivisione, da parte di Anselmo, della concezione agostiniana della realtà cosmica e del suo ordinamento: non è possibile, per esempio, secondo una meditazione di Agostino nel De musica che esplicita lo sfondo speculativo su cui si fonda questo modo di  ragionare, conoscere le  determinazioni numeriche molteplici e  particolari se non applicando alla loro conoscibilità la  verità formale e  primordiale dell’uno, in  sé non numerabile ma principio di  ogni numerabilità 5; e  non è  possibile, come si legge in  una pagina dominante delle Confessioni, conoscere la verità relativa di qualsiasi cosa vera se non applicando alla sua veridicità il  principio del vero in sé, non verificabile ma principio di ogni verificabilità 6. 5 Cfr. Aurelius Augustinus, De musica, I, 11, PL 32, [1079-1194], 1094: «Ergo ab ipso, si videtur, principio numerorum capiamus considerationis huius exordium et videamus, quantum pro viribus mentis nostrae talia valemus intueri, quaenam sit ratio, ut quamvis per infinitum, ut dictum est, numerus progrediatur, articulos quosdam homines in  numerando fecerint; a  quibus ad unum rursus redeant, quod est principium numerorum». 6 Cfr.  Id.,  Confessiones, XI, 8,  10, PL 32, [657-868], 813, ed.  L.  Verheijen, Turnhout 1981 (CCSL, 27), p. 119, 11-18: «Q uis porro nos docet, nisi stabilis veritas? Q uia et per creaturam mutabilem cum admonemur, ad veritatem stabilem ducimur; ubi vere discimus, cum stamus et audimus eum et gaudio gaudemus propter vocem sponsi (cfr. Jo 3, 29), reddentes nos unde sumus. Et ideo principium, quia nisi maneret, cum erraremus non esset quo rediremus. Cum autem redimus ab errore, cognoscendo utique redimus; ut autem cognoscamus, docet nos, quia principium est et loquitur nobis». E ancora cfr. Id., Enarrationes in Psalmos, Ps. 118, Sermo 30, 8, PL 37, [1033-1967], 1590, edd. E. Dekkers – J. Fraipont, 3 voll., Turnhout 1956 (CCSL, 38-39-40), III, p. 1769, 13-16: «‘Principium’, inquit, ‘verborum tuorum veritas, et in aeternum omnia iudicia iustitiae

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LEGGERE ANSELMO

Anselmo sceglie nel Monologion di sottoporre a questo procedimento le nozioni di bontà, di grandezza e di essere, ma avrebbe potuto optare anche per altri percorsi, mantenendosi comunque nell’alveo della generale intuitività del principio agostiniano secondo cui ciò che è  vero è  tale perché la  verità in  sé lo fa essere vero, e dunque la verità (relativa) di qualsiasi cosa è prova dell’esistenza della verità in sé (assoluta), ossia della Verità divina. Che questa sia la corretta interpretazione della metodologia anselmiana, è un’evidenza che può essere confermata da una esplicita, e precisa, indicazione di Tommaso d’Aquino – che pure è stato spesso invocato come garante di una lettura dei quattro modi del Monologion come prove cosmologiche – in un accenno alla metodologia della ricerca anselmiana della verità, nella ventunesima Q uaestio de veritate: secondo cui per Anselmo tutte le cose sono ‘vere’ in ragione di una verità prima, nella misura in cui ogni cosa reale è  commisurata all’intelletto divino e  sussiste quale compimento di un progetto finalistico della provvidenza divina. Il che, dunque, conferma come per Anselmo la conoscibilità della nozione particolare evidenzia il sussistere, come realtà necessaria e assoluta, del principio che la rende conoscibile, e dunque ‘vera’ secondo una certa modalità 7. Nell’introdurre il  primo percorso, nel quale il  processo di ascesa conoscitiva verso la  verità è  esplicitato in  base all’evidenza della conoscibilità della bontà delle cose finite, egli stesso parla in effetti di ‘innumerevoli modi’ («quod cum multis modis facere possit»), tra i  quali sceglie questo perché ‘particolarmente evidente’ alla ratio («illi», che fa riferimento alla «sola ratio» della proposizione precedente) e  ‘facilmente condivisituae’ (Ps 118, 160). A veritate, inquit, tua verba procedunt, et ideo veracia sunt, et neminem fallunt, quibus praenuntiatur vita iusto, poena impio». 7 Cfr. Thomas Aq uinas, Q uaestiones disputatae de veritate, q. 21, a. 4, ad 5, ed. cura et studio Fratrum Praedicatorum, 3 voll., Roma 1970-1975 (ed. Leo­nina, XXII), III, pp. 603, 305 - 604, 319: «Ad quintum dicendum, quod similiter etiam distinguendum est de veritate, scilicet quod omnia sunt vera veritate prima sicut exemplari primo, cum tamen sint vera veritate creata sicut forma inhaerente. (…) Ipsa enim ratio veritatis in  quadam adaequatione sive commensuratione consistit. Denominatur autem aliquid mensuratum vel commensuratum ab aliquo exteriori, sicut pannus ab ulna; et per hunc modum intelligit Anselmus omnia esse vera veritate prima, in quantum scilicet unumquodque est commensuratum divino intellectui implendo illud ad quod divina providentia ipsum ordinavit vel praescivit».

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GIULIO D’ONOFRIO

bile’ da tutti i  soggetti che sanno esercitarla («in promptu», «promptissimum»): Q uod cum multis modis facere possit, unum ponam, quem illi aestimo esse promptissimum. Etenim cum omnes frui soliis iis appetant quae bona putant, in  promptu est ut aliquando mentis oculum convertat ad investigandum illud, unde sunt bona ea ipsa, quae non appetit nisi quia iudicat esse bona, ut deinde ratione ducente et illo prosequente ad ea quae irrationabiliter ignorat, rationabiliter proficiat.  (…) Certissimum quidem et omnibus est volentibus advertere perspicuum quia quaecumque dicuntur aliquid, ita ut ad invicem magis vel minus aut aequaliter dicantur, per aliquid dicuntur quod non aliud et aliud se idem intelligitur in diversis, sive in illis aequaliter, sive inaequaliter consideretur. (…) Ergo cum certum sit quod omnia bona, si ad invicem conferantur, aut aequaliter aut inaequaliter sint bona, necesse est ut omnia sint per aliquid bona, quod intelligitur idem in diversis bonis (…). Q uis autem dubitet illud ipsum, per quod cuncta sunt bona, esse magnum bonum? Illud igitur est bonum per seipsum, quoniam omne bonum est per ipsum. (…) Sed quod est summe bonum, est etiam summe magnum. Est igitur unum aliquid summe bonum et summe magnum, id est summum omnium quae sunt 8.

L’espressione, «in promptu» rimanda di  fatto ad  alcuni significativi testi agostiniani, nei quali è  utilizzata per designare una verità immediatamente evidente alla ragione umana e condivisibile da tutti: proprio il genere di verità per la quale Agostino ha condotto dapprima la battaglia contro lo scetticismo accademico, che rifiuta qualsiasi riconoscimento di evidenza del vero da parte dell’intelletto umano 9, e poi quella contro l’immaginifico materialismo dei Manichei, che svilisce l’evidenza fondativa dei carat  Monologion, ibid., 145A-146B, pp. 13, 11 - 15, 12.  Cfr. Aurelius Augustinus, Contra Academicos, III, 4, 8, PL 32, [903958], 937, ed. W. M. Green, Turnhout 1970 (CCSL, 29), p. 39, 23-31: «Intentis omnibus, sic coepi: Itane est, Alypi, ut inter nos de re iam, ut mihi videtur, manifestissima non conveniat? – Non mirum est, inquit, si quod tibi in promptu esse asseris, mihi obscurum sit, si quidem pleraque manifesta possunt aliis manifestiora et item obscura quaedam nonnullis obscuriora esse. Nam si et hoc tibi vere manifestum est, mihi crede esse alium quemquam, cui et hoc manifestum tuum manifestius sit, et item alium, cui meum obscurum sit obscurius». 8 9

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teri di  immutabilità, perfezione e  autosufficienza del divino 10. Con questo solenne esordio della presentazione dei «modi» di riflessione razionale sulla realtà di Dio, Anselmo recupera dunque in modo significativo la terminologia agostiniana relativa all’evidenza, per sottolineare la  natura non articolata, non discorsiva, ma intuitiva e immediata del riconoscimento della bontà relativa in tutte le cose, tale proprio perché è assicurato dalla certezza superiore, ancor meno eludibile, della verità del buono per se. Se dunque il  punto di  partenza è  una innegabile evidenza razionale, ciò che ne scaturisce sarà una indubitabile consequenziarietà razionale. È prima di  tutto evidente che le  cose sono conosciute («dicuntur») come determinate in  un certo modo («aliquid», ossia come ‘buone’), secondo una scala di gradi corrispondenti ad altri modi dello stesso genere (la bontà), di pari o di diversa intensità («ita ut ad invicem magis aut minus aut aequaliter dicantur»). Tale prima evidenza invita la ragione a indagare («ad investigandum») l’altrettanto evidente verità della determinazione delle cose come buone secondo un solo e  medesimo principio buono, dal quale scaturisce il  riconoscimento della loro bontà («unde sunt bona»). È allora necessario – quale esito di  tale «investigatio»  –  che sia riconosciuto come vero, e  dunque che esista, il termine di confronto conoscitivo che è identico in tutte le cose che sono ri-conoscibili secondo tale determinazione, e in base al quale (per con l’accusativo), e soltanto sulla base del quale, è possibile conoscerle in questo modo («per aliquid… quod intelligitur idem in  diversis bonis»). Il  principio grazie al quale («per quod») è possibile argomentare che tutte le cose sono buone è accolto come indubitabile («quis… dubitet») tanto quanto è  indubitabile che esse siano buone; e  in ragione dell’univocità di  questo comune riconoscimento, esso è  necessariamente uno («unum aliquid»), ed è  buono per seipsum, perché  Cfr.  Id.,  De moribus Ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum, II, 11,  20, PL 32, [1309-1378], 1354, ed.  J.  B. Bauer, Wien 1992 (CSEL,  90), p.  106,  7-15: «Si ergo ratio convicerit, neminem de  Deo peiora dicere quam vos, ubi erit memorabile oris signaculum? Docet enim ratio, nec sane recondita, sed in  promptu sita et exposita omnium intellectui, sed invicta et eo invictior quod eam nemo ignorare permittitur, Deum esse incorruptibilem, incommutabilem, inviolabilem, in quem nulla indigentia, nulla imbecillitas, nulla miseria cadere possit. Usque adeo autem ista omnis anima rationalis communiter sentit, ut etiam vos cum dicuntur, annuatis». 10

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la sua bontà è senza principio, in quanto trascende il confronto con altre bontà che sono tali solo in quanto confrontate con essa. Sicché a tale principio può essere riservato in modo pieno il nome di  bonum, perché è  «summe bonum»; in  quanto tale, è  anche superiore a ogni altra cosa («summe magnum»); e dunque («igitur», formula che introduce sempre in queste pagine il concludersi di una argomentazione dialettica), poiché è presupposto dalla verità di ogni altra cosa che è, non può non esistere («est»). Il secondo capitolo ripropone stringatamente la  medesima articolazione, con lo stesso linguaggio, in  riferimento a  una diversa connotazione delle cose finite, ossia il  loro essere caratterizzate da  una certa (maggiore, minore o  pari) grandezza. Poiché tutte le  cose sono conoscibili come grandi, esiste ciò in  ragione di  cui (per  e  l’accusativo) sono grandi: questo principio del loro essere grandi è uno («unum aliquid») ed è grande «per seipsum», in quanto è tale in ragione solo del proprio compiuto autodeterminarsi come grande. Non è  dunque grande in  quanto è  più grande di  altro, ma è  grande in  sé, perché conoscibile come tale per sé: la  sua grandezza trascende il  confronto con altre grandezze ed è  un connotato assoluto del suo essere. Di tale principio può dunque in modo pieno essere predicato il  nome di  magnum, in  quanto summe magnum, e  come tale non può non esistere («necesse est… esse»), perché non è  qualcosa che sia fatto essere grande dal confronto con altro, ma è grande in quanto esiste; e dunque esiste in quanto è grande. Nella stringatezza dell’esposizione, in  questo secondo caso, il linguaggio anselmiano sembra ormai proporre un condensato della terminologia argomentativa emersa già nella prima argomentazione, che appariva più dettagliata anche se non meno rigorosamente ‘tecnica’: Sic ex necessitate colligitur aliquid esse summe magnum, quoniam quaecumque magna sunt, per unum aliquid magna sunt, quod magnum est per se ipsum. (…) Et quoniam non potest esse summe magnum nisi id quod est summe bonum, necesse est aliquid esse maximum et optimum, id est summum omnium quae sunt 11.

  Monologion, 2, 146C-147A, p. 15, 17-22.

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Pur nella maggiore essenzialità, è  opportuno notare in  questo secondo percorso l’aperta inversione del confluire veritativo della nozione di  grandezza somma in  quella di  somma bontà, rispetto al  procedimento opposto in  conclusione del primo passaggio: lì l’esistere del principio scaturiva dal fatto che, conoscibile in  quanto sommamente buono, cioè buono in  sé, non può non essere anche il più grande («sed quod est summe bonum, est etiam summe magnum»); qui si argomenta inversamente che il  più grande, ossia ciò che è conoscibile come grande in sé, non può non essere anche il più buono («non potest esse summe magnum nisi id quod est summe bonum»), e quindi esistere come grande in sé («maximum») e come bene in sé («optimum»). Ma tra queste parole emerge in forma chiara e distinta il ricorso a un sintagma specifico e importante, la cui efficacia semantica non va sottovalutata: è sommamente grande solo «id quod est» sommamente buono. Nel bagaglio intellettuale dell’alto Medioevo il ricorso alla formula id quod est è facilmente riconducibile alla teologia degli Opuscula sacra di  Boezio, alla cui fondazione metodologica risale probabilmente l’idea speculativa di  fondo da  cui Anselmo ha preso le  mosse: l’idea, cioè, che il  principio divino sia concepibile solo come forma pura, non semplicemente separata strumentalmente (mediante il pensiero) dalla materia, ma pensabile solo come forma assoluta, e quindi come autentico e  puro «id  quod est», non congiungibile ad alcuna determinazione (cioè  non come ‘forma di  qualcosa’), se non alla purezza della sua originaria unità e identità, e principio di ogni determinazione di tutte le cose che da essa sono derivate 12; e la famosa, primordiale divisione, nel terzo degli opuscoli boeziani noto con il  titolo di De  hebdomadibus, tra «esse» e  «id quod est», ossia tra la  condizione pura dell’essere senza alcuna altra deter Cfr.  Severinus Boethius, De sancta Trinitate, PL 64, [1247-1256], 1250C-1251A, ed. C. Moreschini, München – Leipzig 2000, p. 170, 92 - 171, 120: «Sed divina substantia sine materia forma est atque ideo unum est, et est id quod est: reliqua enim non sunt id quod sunt. Unumquodque enim habet esse suum ex his ex quibus est, id est ex partibus suis (…). Q uod vero non est ex hoc atque hoc, sed tantum est hoc, illud vere est id quod est; et est pulcherrimum fortissimumque, quia nullo nititur. Q uocirca hoc vere unum, in quo nullus numerus, nullum in eo aliud praeterquam id quod est. (…) Nulla igitur in eo diversitas, nulla ex diversitate pluralitas, nulla ex accidentibus multitudo atque idcirco nec numerus». 12

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minazione e l’essere che è, ossia esiste, in quanto è determinato da una qualche modalità che non è semplicemente il suo essere. Il che comporta, secondo Boezio, una distinzione specifica, fondamentale per il sapere teologico, anche tra l’essere di ciò che è in quanto è soltanto l’«esse» (ossia «id quod est esse») e ciò che è in quanto partecipa dell’essere per essere qualcosa che è qualcosa (ossia «id quod est» altro dal puro essere) 13. Ne risulta che la somma bontà e la somma grandezza si sostengono reciprocamente, in  uno strettissimo circolo ermeneutico di  identità esistenziale, palesato da  Anselmo con parole inequivocabili, secondo cui «id quod est per se ipsum bonum» è anche «id quod est per se ipsum magnum». Da tale identità scaturisce quindi, necessariamente, come un terzo identico, un nuovo termine indicativo di  una determinazione conoscibile, che sarà riconosciuto in  «id quod est per se ipsum esse»: perché la  congiunzione e  sovrapposizione di  bontà e  grandezza è  indicativa di  un’identità esistenziale, che appare subito essere, essa stessa, in  modo evidente, un terzo connotato significativo della realtà del principio. Q  uesto nuovo connotato viene quindi immediatamente sottoposto ad analisi nei due passaggi successivi. Innanzi tutto il  principio che è  sommamente buono e  sommamente grande non può che essere colto anche come «summum omnium quae sunt»; ossia come l’essere sommamente vero, ri-conoscibile quale ‘essere in sé’ solo in quanto è, e non per altre connotazioni che ne esplichino l’esistere; e  del quale dunque l’essere è  predicabile in modo più diretto e autentico di quanto non lo sia di tutte le  altre cose che sono, perché queste sono in  ragione dell’essere che le fa essere (e dunque non sono pienamente «id quod sunt», ma sono qualcosa che è e che è insieme qualcosa di altro dal proprio essere), mentre l’essere in sé è in ragione soltanto di se stesso (e dunque è «id quod est esse»). La stringatezza dell’argomentazione evidenzia il ridursi di tutto all’affermazione per cui il principio è «id quod est»:

 Cfr. Id., Q uomodo substantiae… [De Hebdomadibus], PL 64, [1311-1314], 1311B, ed. Moreschini, p. 187, 26-28: «Diversum est esse et id quod est; ipsum vero esse nondum est, at vero quod est, accepta essendi forma, est atque consistit». 13

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Denique non solum omnia bona per idem aliquid sunt bona, et omnia magna per idem aliquid sunt magna, sed quidquid est per unum aliquid videtur esse 14.

La terza articolazione del procedimento che evidenzia l’esistenza di Dio scaturisce dunque senza soluzione di continuità dalle due precedenti. Poiché le cose che sono, già conoscibili come buone e  come grandi, sono senz’altro conoscibili anche come cose che sono, e dunque come cose che esistono 15, allora, così come la loro ri-conoscibilità quali buone e  grandi è  rispettivamente resa possibile dall’individuare la  loro ragione di  esser buone e  grandi in qualcosa («per aliquid») che esiste in quanto principio della conoscibilità del bene in sé e della grandezza in sé, allo stesso modo la loro ri-conoscibilità come cose che sono («quidquid est»), ma che non sono semplicemente il loro stesso essere puro, è resa possibile dall’individuare la loro ragione di essere in quanto cose che sono in qualcosa («per aliquid») che è come tale in ragione solo del proprio compiuto autodeterminarsi come esistente, ed è dunque ragione di ogni essere (il proprio, e quello delle cose che sono soltanto in quanto sono in relazione con esso): Omne namque quod est aut est per aliquid aut per nihil. Sed nihil est per nihil. Non enim vel cogitari potest, ut sit aliquid non per aliquid. Q uidquid est igitur, non nisi per aliquid est. Q uod cum ita sit, aut est unum, aut sunt plura, per quae sunt cuncta quae sunt. Sed si sunt plura, aut ipsa referuntur ad unum aliquid per quod sunt, aut eadem plura singula sunt per se, aut ipsa per se invicem sunt: at si plura ipsa sunt per unum, iam non sunt omnia per plura, sed potius per illud unum per quod haec plura sunt; si vero ipsa plura singula sunt per se, utique est una aliqua vis vel natura existendi per se quam habent ut per se sint: non autem est dubium quod per id ipsum unum sint, per quod habent ut sint per se. (…) Ut vero plura per se invicem sint, nulla patitur ratio, quoniam irrationabilis cogitatio est, ut aliqua res sit per illud cui dat esse. (…) Cum itaque veritas omnimodo excludat plura esse per quae cuncta sint, necesse est unum illud esse per quod sunt cuncta   Monologion, 3, 147B, p. 15, 27-29.  L’argomentazione si fonda infatti sulla valenza esistenziale (come ‘esistere’) che ha in latino il verbo esse quando è assoluto, ossia quando non introduce un predicato. 14

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quae sunt. Q uoniam ergo cuncta quae sunt sunt per ipsum unum, proculdubio et ipsum unum est per seipsum 16.

Se le  cose non fossero «per aliquid», allora sarebbero «per nihil»: ma non può neanche essere pensato («non vel cogitari potest») 17, ossia non può essere conosciuto, qualcosa che (non) abbia in ‘nulla’ la sua ragione di essere. Tutte le cose sono dunque in ragione di qualcosa. Immediatamente si palesa allora che questo qualcosa non può che essere uno («unum aliquid»): perché le molteplici ragioni dell’essere delle cose o sono tali «per illud unum» oppure «per se»; ma anche in questo secondo caso l’efficacia che le  fa essere «per se» si riconoscerebbe come uguale in tutte («utique est una aliqua vis vel natura existendi per se»), e  sarebbe questa efficacia quel qualcosa di  unitario in  ragione di cui («per quod») tali ragioni dell’essere delle cose molteplici troverebbero a  loro volta la  ragione del loro essere («habent ut sint per se»). Escluso anche che possano essere reciprocamente le une ragione dell’altra, altrimenti si entrerebbe in un inefficace circolo vizioso («irrationabilis cogitatio»), per cui una cosa troverebbe la propria ragione di essere in ciò di cui è essa stessa ragione di essere, allora è certo che tutte le cose sono in ragione di qualcosa di unico («per ipsum unum»), che è soltanto in ragione del proprio essere se stesso e del proprio assoluto autodeterminarsi come esistente («et ipsum unum est per seipsum»). Di esso, in quanto «unum», si può dunque predicare in modo pieno il nome «est», perché solamente in  ragione di  se medesimo («per se») è  illud quod est, ed è quindi ciò che maxime omnium est, in ragione del quale («per quod») esiste tutto ciò che esiste come determinato nella bontà, nella grandezza e nell’essere stesso («est quidquid est bonum vel magnum et omnino quidquid aliquid est»): e dunque non può che essere (cioè esistere), come era stato anticipato al termine dell’argomentazione precedente, ed essere il summe bonum

  Ibid., 147B-148A, pp. 15, 29 - 16, 19.   Nel linguaggio anselmiano la  particella vel, in  accordo con l’uso tardoantico, ha talvolta valore avverbiale (‘almeno’, ‘se non altro’, saltem, o  –  nelle negative – ‘neanche’, ‘nemmeno’); cfr. J. B. Hoffmann – A. Szantyr, Lateinische Syntax und Stilistik, München 1965 (19722) (Handbuch der Altertumswissenschaft, 2.2.2), p. 502e. 16

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e quindi l’optimum, il summe magnum e quindi il maximum, e il summum omnium quae sunt e quindi l’esse per se. Il quarto capitolo, innestandosi sull’imbastitura argomentativa che ha appena congiunto concettualmente bontà, grandezza ed essere, procede osservando che se tutte le cose sono più o meno buone in varia relazione a quel principio in ragione del quale sono determinate come diverse bontà; e se sono più o meno grandi in varia relazione a quel principio in ragione del quale sono determinate come diverse grandezze; e se sono più o meno qualcosa che è in varia relazione a quel principio in ragione del quale sono determinate come cose che sono in modo diverso; è allora inevitabile ammettere, e non si può negare, che le cose sono tutte conoscibili come collocate in  una variata graduazione di  perfezione. Ma  questa graduazione di  perfezioni non sarebbe tale se fosse infinita e se non fosse invece chiusa al suo vertice da un grado superiore che è la ragione stessa per cui vengono determinati i gradi inferiori. Al grado superiore, perché sia veramente tale, non può che collocarsi una natura unica che non ammette confronti con altre nature, e che è dunque ciò per quod tutte le altre nature sono più o meno graduate in dignità. Poiché le cose sono collocate in diversi gradi di dignità, ossia come dotate di dignità maggiore o  minore le  une rispetto alle altre, proprio in  quanto sono buone, o grandi, o comunque in quanto sono qualcosa (aliquid) di diverso dalle altre, è vero ed esiste ciò in ragione di cui le  cose sono riconoscibili come dotate di  maggiore o  minore dignità le une rispetto alle altre: e ciò che è tale, ancora una volta deve essere riconosciuto come coincidente con il  «maximum» e «optimum», per la sua collocazione al vertice della graduazione ontologica universale: Restat igitur unam et solam aliquam naturam esse, quae sic est aliis superior ut nullo sit inferior. Sed quod tale est, maximum et optimum est omnium quae sunt. Est igitur quaedam natura quae est summum omnium quae sunt. Hoc autem esse non potest nisi ipsa sit per se id quod est et cuncta quae sunt sint per ipsam id quod sunt 18.

  Monologion, 4, 149BC, p. 17, 18-29.

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Con ciò anche la  prova fondata sulla graduazione rientra nella perfetta e  circolare triadicità delle determinazioni perfette del principio assoluto, convergenti tutte verso l’identità e l’assolutezza della sua perfezione. Riassumendo i quattro percorsi, distinti ma paralleli e tra loro saldati, quasi diverse modulazioni di  un’unica esperienza concettuale 19, verso la  fine del quarto capitolo Anselmo dà corpo all’esito unitario e coeso della riflessione in essi descritta mediante una rapida sintesi, la cui essenzialità lessicale è palese effetto di un intenzionale tecnicismo: Q  uare est quaedam natura vel substantia vel essentia quae per se est bona, et magna, et per se est hoc quod est, et per quam est quidquid vere aut bonum aut magnum aut aliquid est, et quae est summum bonum, summum magnum, summum ens sive subsistens, id est summum omnium quae sunt 20.

3. Il Monologion e i princìpi della dialettica Del procedimento sviluppato nei quattro ‘modi’ che conducono nel Monologion al  ri-conoscimento dell’esistenza del summum omnium quae sunt Anselmo poteva trovare illustri precedenti nella letteratura teologica di  età patristica e  alto-medievale. In generale, però, è quanto mai evidente il debito che egli ha contratto, come fondamento ideale della sua metodologia, con la concezione agostiniana della conoscenza come ascesa del pensiero dalla determinazione particolare del sensibile alla perfezione dell’intelligibile corrispondente, «per visibilia ad invisibilia» 21. In una interessante pagina dalla ventitreesima delle Diversae quaestiones LXXXIII, mirante ad argomentare la plausibilità razionale delle relazioni trinitarie in Dio, Agostino afferma l’opportunità 19  Cfr.  P. Gilbert, «Id est summum omnium quae sunt» (Saint Anselme, «Monologion», chap. I-IV), in «Revue philosophique de Louvain», 82 (1984), pp. 199-223. 20  Monologion, ibid., 150A, pp. 17, 32 - 18, 3. 21  Cfr.  il famoso passaggio in  Aurelius Augustinus, Retractationes, I, 5, 6, PL 32, [581-656], 591, ed. A. Mutzenbecher, Turnhout 1984 (CCSL, 57), p.  17,  40-44: «Per idem tempus, quo Mediolani fui baptismum percepturus, etiam disciplinarum libros conatus sum scribere  (…), per corporalia cupiens ad incorporalia quibusdam quasi passibus certis vel pervenire vel ducere».

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del prendere le mosse dalla constatazione di come tutto ciò che è significato mediante una determinazione positiva (casto, eterno, bello, buono, sapiente) sia conoscibile come tale in ragione dello stabilirsi di  una sua relazione con il  principio da  cui tali determinazioni derivano (la castità, l’eternità, la  bellezza, la  bontà, la  sapienza). Mentre però le  cose particolari per essere determinate partecipano in  modo sempre imperfetto del principio che assicura la loro determinazione, ossia attraverso varie gradazioni, limitazioni e anche eventuali privazioni di essa, il principio della determinazione è tale perché è a sua volta determinato in modo non imperfetto, ma sostanziale e assoluto. Perciò, conclude Agostino, mentre tutte le creature sono determinate (come caste, eterne, belle, buone, sapienti) per via di partecipazione (participatio) e  quindi in  modo imperfetto, Dio è  perfettamente determinato proprio in  quanto in  quanto è  il principio determinante stesso (e quindi è la castità, l’eternità, la bellezza, la bontà, la sapienza) 22.

 Cfr.  Id.,  De diversis quaestionibus octoginta tribus, 23, PL 40, [11-100], 16-17, ed.  A.  Mutzenbecher, Turnhout 1975 (CCSL, 44A), p.  27,  2  -  28,  35: «Omne castum castitate castum est, et omne aeternum aeternitate aeternum est, et omne pulchrum pulchritudine, et omne bonum bonitate; ergo et omne sapiens sapientia, et omne simile similitudine. Sed duobus modis castum castitate dicitur: vel quod eam gignat, ut ea sit castum castitate quam gignit et cui principium atque causa est ut sit; aliter autem cum participatione castitatis quidque castum est, quod potest aliquando esse non castum; atque ita de caeteris intelligendum. Nam et anima aeternitatem vel intelligitur vel creditur consequi, sed aeterna aeternitatis participatione fit. Non autem ita aeternus Deus, sed quod ipsius aeternitatis est auctor. Hoc et de pulchritudine et de bonitate licet intelligi. Q  uamobrem cum sapiens Deus dicitur et ea sapientia sapiens dicitur, sine qua eum vel fuisse aliquando vel esse posse nefas est credere, non participatione sapientiae sapiens dicitur sicuti anima, quae et esse et non esse sapiens potest, sed quod eam ipse genuerit qua sapiens dicitur sapientiam. Item illa quae participatione sunt vel casta vel aeterna vel pulchra vel bona vel sapientia recipiunt, ut dictum est, ut possint nec casta esse nec aeterna nec pulchra nec bona nec sapientia: at ipsa castitas, aeternitas, pulchritudo, bonitas, sapientia, nullo modo recipiunt aut corruptionem, aut, ut ita dicam, temporalitatem aut turpitudinem aut malitiam. Ergo etiam illa quae participatione similia sunt recipiunt dissimilitudinem. At ipsa similitudo nullo modo ex aliqua parte potest esse dissimilis. Unde fit ut cum similitudo Patris Filius dicitur – quia eius participatione similia sunt quaecumque sunt vel inter se vel Deo similia (ipsa est enim species prima, qua sunt, ut ita dicam, speciata, et forma qua formata sunt omnia), ex nulla parte Patri potest esse dissimilis. Idem  igitur quod Pater, ita ut iste Filius sit ille Pater, id est iste similitudo ille cuius similitudo est, ex quo una substantia. Nam si non una, recipit similitudinem similitudo, quod fieri posse omnis verissima negat ratio». 22

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Ora, che Anselmo abbia effettivamente utilizzato questo precedente agostiniano oppure no, è  evidente come nel comporre i  primi capitoli del Monologion egli abbia spinto proprio questa tipologia di processo argomentativo fino a incontrarsi con l’evidenza del fatto che il principio determinante, se veramente è tale in base ad una riflessione sull’esistenza delle cose create, non può non esistere realmente. Cosicché, una volta acquisito che esiste ciò in ragione di cui («per quod») le cose, secondo verità («vere»), sono determinate come bontà, quantità, essere, e  sono esistenti, e chiarito che tale principio è per se ciascuna di queste determinazioni, Anselmo può facilmente lasciarsi guidare dal principio della aequivocitas logica, fino a riconoscere come del principio possano legittimamente essere predicati tutti i singoli nomi corrispondenti a tali determinazioni, subordinandoli però ad una comune connotazione medante l’aggettivo «summus», che indica la pienezza e  l’assolutezza di  tale predicazione: summum bonum, summum magnum, summum ens, summum subsistens 23. Cosicché i quattro nomi di Dio sono fatti confluire in un ultimo nome, comprensivo di tutte le determinazioni implicite in essi, che esprime con pienezza la  trascendenza rispetto a  ogni determinazione: summum omnium quae sunt. Tutti questi nomi del principio, i  primi quattro e  l’ultimo in  cui i  primi convergono, sono in  effetti dei ‘predicati’, la  cui adeguata utilizzazione è  subordinata alle regole della dialectica, la seconda delle arti del trivium, che governa le modalità del linguaggio veridico 24. Prima di tutto, perciò, perché essi, in quanto 23  Il principio dell’aequivocitas (o ‘omonimia’) è una delle regole degli antepraedicamenta, che sono le  regole introduttive alla dottrina delle categoriae, e quindi una delle premesse costitutive dell’intero sapere dialettico, e consiste nella possibilità di ricomprendere i singoli termini significanti entro famiglie di maggiore estensione semantica (come quando le  specie vengono fatte rientrare nel genere superiore ad esse corrispondente); cfr.  G. d’Onofrio, Fons scientiae. La  dialettica nell’Occidente tardo-antico, Napoli 1986 (Nuovo Medioevo,  31), pp.  165-168. I  principali testi di  riferimento per tale dottrina sono il  primo capitolo delle Categoriae aristoteliche e  il corrispondente commento di  Boezio (in PL 64, 163B-168D). 24  Sulla dialettica in  Anselmo, cfr.  G. d’Onofrio, «Respondeant pro me». La  dialectique anselmienne et les dialecticiens du Haut Moyen âge, in  Saint Anselm – A Thinker for Yesterday and Today. Anselm’s Thought Viewed by our Contemporaries, Proceedings of   the International Anselm Conference (Centre National de  Recherche Scientifique, Paris), ed.  by C.  Viola  –  F.  Van Fleteren,

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tutti comunemente connotati dall’aggettivo «summus», possano essere riconosciuti ‘veri’, è necessario che al soggetto logico di cui sono predicati corrisponda un ambito semantico massimamente esteso, tale da poter accogliere la massima predicabilità dei termini bonum, magnum, ens e subsistens. Dovrà cioè essere un ‘soggetto sommo’: e  proprio questo è  il senso del ricorso anselmiano, fin dal primo capitolo dell’opera, alla circolare equivocità delle parole natura, substantia e essentia, tutte utilizzate nell’alto Medioevo dai teologi esperti di terminologia dialettica per designare il soggetto più universale possibile di  qualsiasi predicazione determinata 25: ossia la  prima delle dieci categorie aristoteliche, di  cui sono predicate tutte le altre. E per potere accogliere in sé la massima estensione del significato dei predicati bonum, magnum, ens e subsistens, questo soggetto dovrà essere designato come summa natura, summa substantia, summa essentia, ancora una volta non in ragione di altro (non per aliud), ma solo per se: l’«essentia, sive substantia, sive natura» che «per se est bona, et magna, et per se est hoc quod est» 26. Non sarà allora sbagliato riconoscere nelle quattro determinazioni che rimandano all’esistenza di Dio come principio della loro verità e della loro conoscibilità una applicazione distinta ed ordinata dei processi conoscitivi che i maestri di dialettica hanno fatto corrispondere alle prime fra le nove categorie che seguono la  substantia, ossia quelle che della substantia determinano nel primo possibile modo conoscitivo la realtà in sé: qualità, quantità e relazione. Lewiston – Q  ueenston – Lampeter 2002, pp. 29-49 [parzialmente ripreso e rielaborato nel capitolo 4 («The divine logic») di Id., Vera philosophia. Studies in Late Antique, Early Medieval and Renaissance Christian Thought, Turnhout 2008 (Nutrix, 1), pp. 209-264 (vers. it., Roma 2013, pp. 193-242)]. 25 Cfr. Alcuinus Eboracensis, Epistola ad Arnonem, PL 100, 418A-418C, in Id., Epistolae, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, IV (Epistolae Karolini aevi, II), Berlin 1895, pp. 426, 30 - 427, 9: «Q  uod vero me interrogare vestram sanctitatem placuit, quid sit inter substantiam, essentiam, et subsistentiam (…), sciendum est quod essentia proprie de Deo dicitur, qui semper est quod est; (…) substantia vero commune est nomen omnium rerum quae sunt  (…): Deus igitur substantia est, et summa substantia et prima substantia, et omnium substantiarum causa; (…) naturam vero Dei libera voce dicimus, quia omnis natura natura est, et maxime illa quae sola vera est natura, quia semper est quod est, quia nullatenus de ea natura, qua semper est, mutabilis est in aliam quamlibet naturam». 26  Monologion, 3, 148B, p. 16, 26-27.

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È infatti evidentemente implicata nel primo percorso la predicazione della categoria qualitas, riconoscibile nella più generica e significante forma di qualità, quella della bontà: Cum tam innumerabilia bona sint, quorum tam multam diversitatem et sensibus corporeis experimur et ratione mentis discernimus, estne credendum esse unum aliquid, per quod unum sint bona quaecumque bona sunt, an sunt bona alia per aliud 27?

La quantitas è facilmente riconoscibile nella nozione di grandezza: Sic ex necessitate colligitur aliquid esse summe magnum, quoniam quaecumque magna sunt, per unum aliquid magna sunt, quod magnum est per seipsum 28.

La relazione, infine, viene messa in  campo da  Anselmo con il  medesimo procedimento, ma tenendo conto di  due possibili forme di  predicazione che questa categoria può assumere, ossia fra due sostanze o tra due accidenti dello stesso genere. Per prima la relatio tra substantiae, riconoscibile nella predicazione dell’esistere in base a condizionamenti reciproci, è esplicitamente evocata da Anselmo nel capitolo terzo con l’esempio classico della relazione tra padrone e servo: Cum enim dominus et servus referantur ad invicem, et ipsi homines qui referuntur non omnino sunt per invicem, et ipsae relationes quibus referuntur non omnino sunt per invicem, quia eaedem sunt per subiecta. Cum itaque veritas omnimodo excludat plura esse per quae cuncta sint, necesse est unum illud esse, per quod sunt cuncta quae sunt. Q  uoniam ergo cuncta quae sunt, sunt per ipsum unum, proculdubio et ipsum unum est per seipsum 29.

Nella relatio tra le  qualitates e  le quantitates, ossia tra le  prime determinazioni categoriali-accidentali delle substantiae, emerge 27   Ibid., 1,  145B, p.  14,  5-9. Nel corso del capitolo, Anselmo illustra ulteriormente la  nozione di  ‘bontà’ rifacendosi a  qualità positive, come la  giustizia (145C, p. 14, 13-15), oppure la forza e la velocità del cavallo (145D-146A, p. 14, 19-22), ecc. 28  Ibid., 2, 146C, p. 15, 17-19. 29  Ibid., 3, 147C, p. 16, 12-19.

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invece la possibilità della predicazione di gradi di dignità, maggiore o minore nel rapporto tra le cose finite, su cui è fondato il quarto processo argomentativo del Monologion: Q  uidquid enim per aliud est magnum, minus est quam id, per quod est magnum. Q  uare non sic sunt magnae, ut illis nihil sit maius aliud. Q  uod si nec per hoc quod sunt, nec per aliud possibile est tales esse plures naturas quibus nihil sit praestantius, nullo modo possunt esse naturae plures huiusmodi. Restat igitur unam et solam aliquam naturam esse, quae sic est aliis superior, ut nullo sit inferior. Sed quod tale est, maximum et optimum est omnium quae sunt 30.

4. Dalla pensabilità del divino alla creazione, dall’unità alla trinità: Anselmo e la triade neoplatonica Nel quinto capitolo del Monologion Anselmo passa a chiedersi se, come è assolutamente evidente che tutte le cose sono «per summam substantiam», non sia lecito, conseguentemente, dedurne che tutte le cose siano anche «ex illa». Poiché infatti le cose finite sono vere solo in ragione della verità di Dio, è anche necessario ammettere che esse esistono perché sono causate dall’esistenza di Dio, causa prima e incausata, perché proprio la sua assoluta causalità è ragione della loro partecipazione (accidentale) ai caratteri (sostanziali) della sua substantia o natura: Iuvat indagare utrum haec ipsa natura et cuncta quae aliquid sunt non sint nisi ex ipsa, quemadmodum non sunt nisi per ipsam. Sed liquet posse dici quia quod est ex aliquo, est etiam per id ipsum, et quod est per aliquid, est etiam ex eo ipso, quemadmodum quod est ex materia et per artificem, potest etiam dici esse per materiam et ex artifice, quoniam per utrumque et ex utroque id est ab utroque habet ut sit, quamvis aliter sit per materiam et ex materia, quam per artificem et ex artifice 31.

30  Ibid., 4, 149BC, p. 17, 20-26. E cfr. ibid., 15, 163C-164A, p. 29, 21-26: «[Deus] non est igitur corpus vel aliquid eorum, quae corporei sensus discernunt. Q  uippe his omnibus melius est aliquid, quod non est quod ipsa sunt. Mens enim rationalis, quae nullo corporeo sensu quid vel qualis vel quanta sit percipitur, quanto minor esset, si esset aliquid eorum quae corporei sensibus subiecent, tanto maior est quam quodlibet eorum». 31  Ibid., 5, 150AB, p. 18, 7-14.

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Essendo stato accertato che tutte le cose, e la stessa summa natura o  substantia, sono tutte quello che sono (e  non sono altro) per ipsam, ossia in  ragione del modo di  essere pieno e  perfetto di essa, allora è anche possibile riconoscere che tutte le cose e la stessa summa natura o substantia sono ex illa, ossia sono perché sono causate dalla perfetta causalità produttrice di essa, la sola ad essere ex se. È infatti evidente («liquet posse dici») che l’essere ex qualcosa implica necessariamente anche l’essere per questo qualcosa, e che questo rapporto si può pienamente convertire, per cui l’essere per qualcosa equivale necessariamente all’essere ex qualcosa. Ciò che è  ragione (per) dell’essere di  qualcosa in  un certo modo è evidentemente anche la causa produttiva (ex) del suo essere. Tra questi due termini (ex aliquo e per aliquid) sussiste infatti una reciprocità totale, come è evidente dall’esempio che Anselmo introduce immediatamente dopo: ciò che è, è in un certo modo in ragione sia di come lo determina il pensiero dell’artefice che lo produce (per), sia di come lo condiziona la materia dalla quale l’artefice lo produce (ex); ma è inversamente vero anche che la cosa medesima è in ragione sia di come lo determina la materia (per), sia di come lo condiziona l’intervento dell’artefice (ex). Q  uesto linguaggio è  esito di  un artificio intenzionale, con il quale Anselmo si impegna tecnicamente a  distinguere l’idea di partecipazione (per ipsam) da  quella di  causalità produttiva (ex  ipsa). A  un orecchio assuefatto con il  linguaggio teologico latino tardo-antico e  alto-medievale appare però con chiarezza anche il  connettersi di  tali espressioni con il  linguaggio paolino – che si sofferma su formule come «quoniam ex ipso et per ipsum et in  ipso sunt omnia» (Rm 11,  36), oppure «ex quo omnia, et nos in ipso, et unus Dominus Iesus Christus, per quem omnia et nos per ipsum» (1Cor 8, 6) – ampiamente evocato, in riferimento anche al mistero trinitario, negli scritti dei Padri della Chiesa 32. Ma l’efficace pregnanza teologica di  queste sintesi pronominali è frequente anche presso gli autori dell’alto Medioevo. Anselmo le  apprezza in  modo particolare per la  loro capacità di  esprime Cfr. Ambrosiaster, In Epistolam ad Romanos, 11, 36, 1-2, PL 17, [45184], 155CD, ed.  H.  J. Vogels, 3  voll., Wien 1966-1969 (CSEL, 81/1-3), I, p. 390, 22-26: «Q  uia enim omnium creator est Deus – fecit enim ea quae non erant, ut essent –, ideo ex ipso sunt omnia. […] Q  uia ergo ipse operatur per Filium, per ipsum sunt omnia». 32

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re, sotto l’egida della Rivelazione, la purezza metafisica di quanto la ragione umana può intendere del rapporto tra l’opera creatrice divina e la sua efficacia nell’esistere delle creature. In questo il suo stile è stato modello per le successive generazioni di teologi 33, fino a un primo delinearsi, presso in particolare alcuni testimoni della scuola porretana, della teoria teologica degli attributi divini come trascendentalia 34. Tornando alle pagine iniziali del Monologion, è evidente come solo una reciproca interazione tra linguaggio divino e  umano (tra i tecnicismi dell’argomentazione filosofica e la densità delle formule scritturali) consenta di  capovolgere l’argomentazione sull’esistenza di  Dio come principio della conoscibilità delle modalità relative nelle cose (nei primi quattro capitoli) in  una (successiva) argomentazione sull’esistenza causata delle cose come effetto dell’esistenza causante di Dio (nel quinto). Il che conferma ulteriormente che l’esistenza di Dio non è dimostrata da Anselmo in ragione della sua causalità; al contrario, una volta ammessa come principio dell’intelligibilità della vera esistenza degli esseri creati, l’esistenza necessaria di Dio porta come conseguenza logica all’ammissione della sua causalità creatrice: Consequitur ergo ut quomodo cuncta quae sunt per summam sunt naturam id quod sunt, et ideo illa est per seipsam, alia vero per aliud, ita omnia quae sunt sint ex eadem summa natura, et idcirco sit illa ex seipsa, alia autem ex alio 35.

Cosciente della distanza che in  questo modo viene a  delinearsi tra due diverse prospettive aperte dalla logica umana sul divino – Dio come ragione per cui le cose sono nei modi in cui sono 33   Cfr.  per esempio in  Guiberto di  Nogent, l’idea che la  verginità conduce il  monaco ad assimilarsi alla condizione di  stabilità e  immutabilità dell’essere originario, concepibile come uno stato nel quale sussiste solo ciò che è «per  se et ex se et in  se existens», e  non è  affetto da  nulla di  tutto ciò che è  «per aliquid aut ex aliquo»; cfr.  Guibertus Novigentensis, De virginitate, 2, PL  156, [579-608], 582CD. Su Guiberto cfr.  C.  Marabelli, Ricordi di  Guiberto di  Nogent, in  Eadmero e  Giovanni di  Salisbury, Vite di  Anselmo d’Aosta, a c. di I. Biffi – A. Granata – S. M. Malaspina – C. Marabelli, Milano 2009, pp. 459-473. 34  Su questa tematica rimando al  mio studio Q  uando la  metafisica tornò in Occidente. Ugo Eteriano e la nascita della theologia, in «Aquinas», 55.1-2 (2012), pp. 67-106. 35  Monologion, 5, 150AB, p. 18, 14-17.

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e Dio come causa da cui deriva che le cose siano quello che sono – nel sesto capitolo Anselmo sente il dovere di conciliarle, mostrando che sono due momenti complementari di  un’unica riflessione sulla natura divina, perché in sé unico e identico è il principio per quem ed ex quo le cose sono 36. Ma non è cosa facile, per la mente umana, distinguere ciò che è in sé indistinguibile, mantenendone, come è doveroso, l’assolutà identità. E come spesso accade in casi di questo genere, in cui l’intelligenza è portata a toccare e a non poter oltrepassare i  limiti che essa stessa si è  posta, lo scrivente cede volentieri al soccorso di una similitudine attinta al mondo naturale: Q  uomodo ergo tandem [scil. summa substantia] esse intelligenda est per se et ex se, si nec ipsa se fecit, nec ipsa sibi materia extitit, nec ipsa se quolibet modo, ut quod non erat esset, adiuvit? Nisi forte eo modo intelligendum videtur, quo dicitur quia lux lucet vel lucens est per seipsam et ex seipsa. Q  uemadmodum enim sese habent ad invicem lux, et lucere, et lucens, sic sunt ad se invicem essentia, et esse, et ens (hoc est existens sive subsistens). Ergo summa essentia, et summe esse, et summe ens id est summe existens sive summe subsistens, non dissimiliter sibi convenient, quam lux et lucere et lucens 37.

Per aiutare la mente a intendere l’identità, in un soggetto unico, della sua assoluta sussistenza per se ed ex se, Anselmo suggerisce come percorso mentale possibile  –  introducendolo con la  formula «nisi forte», che evidenzia una svolta mentale, una marcata alternativa –, il ricorso a una similitudine con la natura della luce: a proposito della quale – sottacendo il fatto che è presentata dalla Scrittura come prima tra le creature (Gn 1, 3-4), e dunque come la più vicina alla sussistenza originaria del Creatore – è facile osservare che è anch’essa qualcosa che è, e che è per seipsam e che è ex seipsa. Q  uesta vivace somiglianza di una creatura con il modo di sussistere del principio consente all’intelligenza di  accostarsi («intelligendum videtur»), mediante la  comprensione di un ‘modo’ determinato («eo modo»), all’intuizione del ‘modo’ superiore e ineffabile del principio divino («quo-modo»). 36 Cfr. ibid., 6, 151B, p. 18, 22-23: «Q  uaerendum est diligentius quomodo per summam naturam vel ex ipsa sint omnia quae sunt». 37  Ibid., 152CD, p. 20, 11-19.

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Così, infatti, si dice che la «lux» illumina («lucet») ed è luminosa («lucens est»): un soggetto unico è illuminante ed è lucente, e il suo essere non è diverso dall’essere illuminante e dall’essere lucente. La luce è infatti luce in sé; ma è anche il principio che consente di riconoscere la luce in essa stessa e nelle cose illuminate, cioè che partecipano della luce, grazie ad essa, «per seipsam»; ed è  causa dell’essere luce di  se stessa e  delle altre cose lucenti, «ex  seipsa». Q  ueste tre distinte connotazioni della creatura ‘luce’ non possono però essere disgiunte tra loro, perché solo nella loro triplice convergenza e  coerenza la  complessiva realtà ontologica del soggetto (ciò che la  luce veramente è) viene compiutamente espressa: Anselmo dice «sibi conveniunt». Ma allora, se è  possibile coglierla in  una creatura, nella più semplice e  più intelligibile fra le  creature, questa relazione interna e  circolare fra tre condizioni fondative del suo essere potrà essere ricercata e ritrovata anche in altre creature, inferiori; e, in consonanza con il fondamentale modello teologico del De Trinitate agostiniano, diventa un grimaldello per scoprire tra le  creature, che recano nelle pieghe più profonde del loro esistere le tracce visibili della causa divina, un indizio ragionevole delle condizioni di essere del divino stesso. Con una rapida, ma decisiva precisazione, Anselmo evidenzia quanto sia utile, per intuire la verità della natura divina, il riflesso di tale rapporto, intelligibile nelle creature, tra il soggetto, la sua capacità e  la sua efficacia: «Q uemadmodum enim sese habent ad invicem lux, et lucere, et lucens, sic sunt ad se invicem essentia, et esse, et ens (hoc est existens sive subsistens)» 38. La grammatica sostiene con le sue regole l’immagine anselmiana, suggerendo tre momenti rigorosamente scanditi da: un sostantivo («lux», soggetto); un verbo connesso alla radice di tale sostantivo e predicato all’infinito presente, per indicare l’apertura a tutte le possibili concretizzazioni particolari del suo significato («lucere»); e  lo stesso verbo al participio presente, per esprime invece l’attuazio38  Ho precisato con virgole e parentesi in questa proposizione comparativa la  punteggiatura dell’edizione Schmitt in  modo da  consentire meglio nelle due serie la distinzione dei tre elementi di questa triade concettuale, e la coincidenza nel terzo della serie di concetti («ens», «existens» e «subsistens») che documentano la  sovrapponibilità di  funzione predicativa e  sostantiva nel verbo esse (su cui cfr. supra, alla nota 15).

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ne operante di tale significato in effettive determinazioni concrete («lucens»). E così, nello stesso modo in cui «sibi conveniunt» nella luce il soggetto, la capacità e l’efficacia dell’illuminare, così in Dio, nel quale tutto ciò che è un valore nelle creature non può non essere riconosciuto al  sommo grado («summe»), convergono in perfetta simmetria («sibi conveniunt») il soggetto, che è principio di tutte le cose, la capacità, di essere principio di tutte le  cose, e  l’efficacia, con cui effettivamente è  principio di  tutte le  cose. La  «summa essentia» è  dunque al  tempo stesso, in  sé come nel rapporto con qualsiasi altra cosa, un «summe esse» (la possibilità piena di essere e di far essere tutto ciò che è, «per seipsum» e  «per ipsum») e  un «summe ens» o  «existens» o «subsistens» (l’efficacia piena nell’essere e far essere tutto ciò che è, «ex seipso» e «ex ipso»). Varie giustificazioni di  questa terminologia possono venire in mente allo storico della filosofia, nella ricerca di fonti che supportino adeguate interpretazioni per comprenderne la  complessità. La  sola corretta metodologia è  tuttavia quella che si fonda su una valutazione storico-linguistica diretta e  autosufficiente (cioè esente da paragoni arrischiati) del linguaggio messo in opera dall’autore in questi primi capitoli del Monologion. Sarebbe insoddisfacente, in questo caso, riproporre il confronto con la composizione binaria di esse e id quod est enunciata negli Opuscula sacra boeziani 39, e  tanto meno con l’interpretazione che ne ha poi proposto Tommaso d’Aquino 40. La  terminologia qui evocata  Cfr. supra, alle note 12 e 13.  Cfr.  Thomas Aq uinas, Expositio libri Boetii de hebdomadibus, II, ed. cura et studio Fratrum Praedicatorum (ed. Leonina, L), Roma 1992, pp. 270b, 36 - 271a, 45: «Dicit ergo primo quod ‘diversum est esse et id quod est’, quae quidem diversitas non est hic referenda ad res de quibus adhuc non loquitur, sed ad ipsas rationes seu intentiones. Aliud autem significamus per hoc quod dicimus esse et aliud per id quod dicimus id quod est, sicut et aliud significamus cum dicimus currere et aliud per hoc quod dicitur currens. Nam currere et esse significatur in abstracto, sicut et albedo; sed quod est, id est ens et currens, significatur in concreto velut album». Nonostante l’apparente vicinanza terminologica, sarebbe fuorviante, tenendo conto della diversità di  prospettiva metafisica che le  ispira, avvicinare la  formula anselmiana, come se ne fosse una anticipazione, alla coppia tommasiana di  essentia ed esse, secondo cui l’ens è  ciò che ha l’esse quando partecipa dell’essentia; cfr. Id., De ente et essentia, 1, ed. cura et studio Fratrum Praedicatorum (ed. Leonina, XLIII), Roma 1976, pp. 369b, 22-26 e 370a, 50-52: «Oportet ut essentia significet aliquid commune omnibus naturis, per quas diversa entia in diversis generibus et speciebus collocantur, sicut huma39

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da  Anselmo ha invece un’origine assai più vicina al  suo mondo culturale: il ricorso alla relazione grammaticale di soggetto, infinito e participio, costituisce infatti un indizio prezioso che consente di  riconoscere la  radice di  questa dinamica trinitaria dell’essere in una dottrina ontologica di origine neoplatonica, documentabile in fonti patristiche greche e introdotta solo a partire dalla tarda età carolingia, in modo più o meno visibile, nei percorsi della sapienza teologica latina. Secondo tale concezione, in  ogni cosa reale è opportuno riconoscere una composizione triadica: 1) la essentia (in greco usia), soggetto primordiale del determinarsi di ciascun essere; 2) una sua vis o potentia (o dynamis) in cui sono riconoscibili tutte le potenziali capacità di determinazione dell’essenza; 3) e una sua operatio o actus (o energeia), effettiva attuazione nella concretezza del particolare di tali capacità. Nella terminologia del sesto capitolo del Monologion non è difficile riconoscere un preciso riferimento proprio a triplice composizione ontologica, con la distinzione del soggetto in sé (l’essentia, ossia, nella metafora, la lux) dalla sua capacità, piena ma ancora indefinita, di essere e di produrre essere, secondo le sue possibili modalità (l’esse, e quindi il lucere), e dalla sua effettiva attuazione e produzione di essere in atto (l’ens, ovvero l’essere lucens): in se - lux esse - lucere ens vel subsistens vel existens - lucens                 essentia - substantia - usia vis - potentia - dynamis operatio - actus - energeia ipsa est per ipsam cuncta habent esse ex ipsa cuncta habent esse

Originatasi e  sviluppatasi nella tradizione tardo-neoplatonica greca, da  Giamblico a  Proclo, questa scansione triadica della composizione dell’essere è  sinteticamente evocata nel De divinis nominibus dello pseudo-Dionigi Areopagita, con solo un rapido accenno, in  un passo sul tema della caduta degli angeli malvagi, in cui ci si domanda se in essi il peccato abbia determinato una corruzione dell’essenza, della potenza oppure del­ l’atto 41. A questa sintetica formulazione si riferisce, in area latina, nitas est essentia hominis, et sic de aliis. (…) Sed essentia dicitur secundum quod per eam et in ea ens habet esse». 41 Cfr. pseudo-Dionysius Areopagita, De divinis nominibus, 4, tr. lat. di Iohannes Scotus Eriugena, PL 122, [1023-1194], 1142AB: «Sed neque daemones natura mali. Etenim si natura mali (…), quomodo corrumpunt aut quid corrumpunt, essentiam, an virtutem, an actionem (οὐσιαν ἢ δύναμιν ἢ ἐνέργειαν)?».

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Giovanni Scoto Eriugena, traduttore del corpus areopagiticum, che pone l’universale composizione triadica del reale alla base del sistema speculativo del Periphyseon, quale traccia indelebile nelle creature della dinamica interna alla Trinità: tutte le essenze creaturali vi  sono infatti descritte come fecondissime sorgenti di potenzialità, eternamente pensate dal Padre nel proprio Verbo, che scorrono, nella dinamica spazio-temporale del creato, attraverso infinite attuazioni particolari tendendo sempre alla finale ricomposizione piena, nella conclusione dei tempi storici, del­ l’identità triadica originaria nella perfezione della recuperata similitudine con il pensiero divino 42. È probabile però che Giovanni Scoto, anche se cita solo Dionigi come fonte di tale dottrina, sia debitore di altre fonti patristiche greche che gli consentono una più approfondita conoscenza delle sue implicazioni ontologiche e escatologiche: in particolare, probabilmente, di Massimo il Confessore, che ne parla in più pagine e, in modo specifico, negli Ambigua ad Iohannem, che l’Eriugena ha tradotto in  latino 43; 42 Cfr. Iohannes Scotus Eriugena, Periphyseon, I, PL 122, [439-1022], 486BC, ed.  É.  Jeauneau, 5  voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM, 161-165), I, p. 62, 1883-1889: «In omni rationabili intellectualique natura tria inseparabilia semperque incorruptibiliterque manentia considerantur, οὐσία dico, et δὐναμις, ἐνεργειάνque, hoc est, essentiam, virtutem, operationem; haec enim teste sancto Dionysio inseparabiliter sibimet adhaerent, ac veluti unum sunt, et nec augeri nec minui possunt, quoniam immortalia sunt atque immutabilia». Su questa dottrina cfr. anche ibid., II, 568A-570C, ed. Jeauneau cit., II, pp. 57, 1319 - 61, 1399; e, sul confronto tra questa triade e quella agostiniana di esse-velle-scire, cfr. ibid., V, 941D-942B, ed.  Jeauneau cit., V, p.  115,  3665-3683. Per una interessante discussione sulle testimonianze antiche di questa dottrina si veda quanto scrive I. P. Sheldon-Williams alla nota 144 dell’ed. del primo volume del Periphyseon eriugeniano da lui curata, Dublin 1968 (Scriptores Latini Hiberniae, 7), pp. 237238. Prima di Giovanni Scoto, in area latina, la dottrina della triade appare rappresentata solo da  testimonianze episodiche: cfr.  Pelagius I  papa, Epistolae, PL  69, [393-422], 408D: «Hoc est tres personas, sive tres subsistentias unius essentiae sive naturae, unius virtutis, unius operationis, unius beatitudinis atque unius potestatis; ut trina sit unitas, et una sit Trinitas»; Agatho papa, Epistola ad Augustos imperatores, PL 87, [1161-1258], 1165D: «Ut confitentes sanctam et inseparabilem Trinitatem, id est, Patrem et Filium et sanctum Spiritum, unius esse deitatis, unius naturae et substantiae sive essentiae, unius eam praedicemus et naturalis voluntatis, virtutis, operationis, dominationis, majestatis, potestatis et gloriae»; Alcuinus Eboracensis, Professio fidei, PL 101,  1027-1098 (con una pura ripresa delle parole di papa Pelagio). 43 Cfr. Maximus Confessor, Ambigua, VI, 41, PG 91, [1031-1418], 1184D: «Τὸ γὰρ ἄπειρον κατὰ πάντα καὶ λὀγον καὶ τρόπον ἐστὶν ἄπειρον, κατ᾽οὐσίαν, κατὰ δύναμιν, κατ᾽ἐνέργειαν» (lat. interpr. Iohannis Scotti Eriugenae, ed.  É.  Jeauneau, Turnhout  –  Leuven 1988 [CCSG, 18], p.  97,  1539-1540:

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ma forse anche a Giovanni di Scitopoli, il quale in una delle sue glosse al corpus areopagiticum, proprio in riferimento al passaggio sopra ricordato, illustra la dottrina della triade neoplatonica con l’esempio del fuoco, la  cui ousia passa dalla capacità o  dynamis di ‘illuminare’ all’effettivo atto o energeia dell’‘illuminazione’ 44: un’immagine che è dunque, con probabilità, la fonte cui Anselmo ha attinto la similitudine della luce su cui è fondata la sua illustrazione della dinamica trinitaria tra essentia, esse e ens (e dunque tra «in ipso», «per ipsum» ed «ex ipso»). Anselmo non ha mai dichiarato apertamente un proprio debito intellettuale con le dottrine dello pseudo-Dionigi o con i suoi commentatori; ma è  abbastanza evidente che almeno la  distinzione fra la  via affermativa e  quella negativa abbia funzionato nel suo pensiero come uno degli schemi dominanti che rendono efficace il  discorso teologico. Per quanto riguarda la  triade neoplatonica è  chiaro come, evocandola in  modo tacito ma incontestabile in questo passaggio cruciale del Monologion, egli mostri di  apprezzarne la  funzionalità ermeneutica per la  comprensione dei rapporti intra-trinitari, quali si evidenziano nella sua riflessione sulla realtà in  sé indicibile e  inintelligibile della «summa natura» o «summa essentia». Del resto nell’intero Monologion non sono mai teorizzati preliminarmente, ma senz’altro messi direttamente in opera gli strumenti speculativi che (come la separazione procedurale delle dieci categorie o  la distinzione di  esse e  id quod est) assicurano il  progresso della mente verso la  verità del divino. È però fuori di dubbio che l’evocazione della similitudine con la natura della luce acquista il suo autentico significato solo se viene intesa, in armonia con l’orientamento neoplatonico della tradizione pseudo-dionisiana, come un tentativo di illustrare «Q uod enim infinitum est omni ratione et modo infinitum est, per essentiam, per virtutem, per operationem»). 44 Cfr.  Iohannes Scythopolitanus, Scholia in  librum De coelesti Hierarchia, PG 4 (sotto l’erronea attribuzione a Massimo il Confessore), [13-1115], 93A: «Ὡς ἐν ὑποδείγματι ῥητέον οὐσίαν μὲν εἰπεῖν τὴν πυρὸς φύσιν· δύναμιν δὲ ταύτης τὸ φωτιστικόν· ἐνέργειαν δὲ τὸ τῆς δυνάμεως ἀποτέλεσμα, ἥγουν τὸ φωτίζειν καὶ καίειν» [«Come se si dicesse per esempio che si chiama essenza la  natura del fuoco; potenza la  sua capacità di  illuminare; atto, invece, l’effetto della potenza, ossia l’effettivo illuminare e  bruciare»].  –  Su Giovanni di  Scitopoli cfr.  P.  Podolak, Giovanni di  Scitopoli interprete del Corpus Dionysiacum, in «Augustinianum», 47.2 (2007), pp. 335-386.

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la natura causativa del principio quale effettivo agire, nell’efficacia del processo creativo, di una pura sostanza necessaria, eterna e incorruttibile, veramente ‘esistente’, veramente ‘potente’ e veramente ‘operante’. In  questo modo, dopo avere accertata nella natura divina la  piena identità di  essere (Dio), di  potere (poter essere Dio e poter far essere le cose), e di efficacia operante (effettivamente essere Dio e far essere le cose), la mente umana si inoltra, con esiti sottili e sempre coerentemente concatenati, nel progresso conoscitivo della realtà più profonda della natura divina, a un tempo unitaria e triadica.

5. Verità ed essentia: la logica della locutio e la sua rectitudo L’utilizzo attento  –  non esplicitamente dichiarato  –  di terminologia e  norme legate agli insegnamenti delle arti liberali, e  in particolare della dialettica, è un connotato abituale dei testi speculativi altomedievali, non esclusi quelli dei più radicali difensori della superiorità dei contenuti spirituali della fede sui formalismi che regolano l’autonomia indagativa della razionalità, come Manegoldo di  Lautenbach, Otlone di  Sant’Emmeram, Gerardo di Cszanad o Pier Damiani 45. Come è già emerso fin qui con chiarezza, l’opera di Anselmo non fa eccezione, anche se le tracce che tali strutture intellettuali hanno lasciato nella sua scrittura non sono sempre esplicite e non sempre immediatamente riconoscibili da parte di un lettore moderno 46.

45 Cfr. G. d’Onofrio, La crisi dell’equilibrio teologico altomedievale (10301095), in Storia della Teologia nel Medioevo, 3 voll., dir. di G. d’Onofrio, Casale Monferrato 1996, I, pp. 435-480. 46  Solo nel De grammatico Anselmo ostenta un ricorso esplicito e  metodico a termini dialettici come syllogismus, sophisma, conclusio, probatio e così via, in  obbedienza alla presentazione formale di  questo testo come una exercitatio disputandi, ossia un esercizio di logica; cfr. De grammatico, 582A, p. 168, 8-12: «Magister. Tamen quoniam scis quantum nostris temporibus dialectici certent de quaestione a  te proposita, noto te sic iis quae diximus inhaerere, ut ea pertinaciter teneas, si quis validioribus argumentis haec destruere et diversa valuerit astruere. Q uod si contigerit, saltem ad exercitationem disputandi nobis haec profecisse non negabis». E cfr.  De veritate, Praefatio, 467B, p.  173,  6-7: «[Tractatum] (…) edidi, non inutilem ut puto introducendis ad dialecticam, cuius initium est De grammatico».

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Tale costante e metodica applicazione delle regole grammaticali, dialettiche e retoriche, è in effetti universalmente alimentata, nella civiltà teologica alto-medievale, da  una consolidata e  condivisa concezione esemplaristica della verità: ossia dal postulato metafisico di una coerenza assoluta vigente nell’universo tra ordo rerum (la creazione, e le leggi per essa eternamente fissate da Dio), ordo verborum (linguaggio delle scienze umane) e  ordo idearum (modelli eterni di tutto il reale, coincidenti con le immutabili divine volontà). Come è evidente, in particolare, nelle ragioni che lo guidano nella vivace polemica contro il nominalismo di Roscellino 47, Anselmo è stato un sostenitore importante di questa visione del reale, che egli difende apertamente fin dalle prime pagine del De veritate, escogitando il ricorso alla nozione di «rectitudo» per designare in assoluto la cosmica coerenza di parole, cose e idee 48. 47 Cfr. G. d’Onofrio, Anselmo e i teologi «moderni», in Cur Deus homo, Atti del Congresso Anselmiano internazionale (Roma, 21-23 maggio 1998), a  c. di  P.  Gilbert  –  H.  Kohlenberger  –  E.  Salmann (Studia Anselmiana, 128), Roma 1999, pp.  87-146; Id.,  Tra antiqui e  moderni. Parole e  cose nel dibattito teologico altomedievale, in  Comunicare e  significare nell’Alto Medioevo, LII Settimana di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto, 15-20 aprile 2004), 2 voll., Spoleto 2005, II, pp. 821-886; Id., s. v. Roscellino di Compiègne, in Enciclopedia Filosofica, Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, 12 voll., Milano 2006, X, pp. 9844-9847. 48 La prima utilizzazione metodica del concetto di  rectidudo da  parte di Anselmo concerne l’ambito etico e  l’orientamento della volontà libera; cfr. De  casu diaboli, 9,  337B, pp.  246,  26  -  247,  1: «Q uandiu enim voluntas primum data rationali naturae et simul in ipsa datione ab ipso datore conversa, imo non conversa, sed facta recta ad hoc quod velle debuit, stetit in ipsa rectitudine, quam dicimus veritatem, sive in iustitiam, in qua facta est, iusta fuit. Cum vero avertit se ab eo quod debuit, et convertit se ad id quod non debuit, non stetit in originali (ut ita dicam) rectitudine, in qua facta est». Con questa stessa valenza («rectitudo voluntatis») il concetto ricorre con frequenza nel De conceptu virginali e soprattutto nel De libero arbitrio. È però in particolare nel De veritate che l’estensione di  questo concetto al  contesto logico-epistemologico si compie in  modo persuasivo, individuando il  principio di  verità dell’enunciato nella sua capacità di corrispondere ‘correttamente’ tanto alla realtà della cosa significata quanto alla sua vera definizione; cfr. De veritate, 2, 470AB, p. 178, 14-26: «Magister. Cum significat quod debet, [enuntiatio] recte significat. Discipulus. Ita est. Mag. Cum autem recte significat, recta est significatio. Disc. Non est dubium. Mag. Cum ergo significat esse quod est, recta est significatio. Disc. Ita sequitur. Mag. Item cum significat esse quod est, vera est significatio. Disc. Vere et recta et vera est, cum significat esse quod est. Mag. Idem igitur est illi, et rectam, et veram esse, id est significare esse quod est. Disc. Vere idem. Mag. Ergo non est illi aliud veritas, quam rectitudo. Disc. Aperte nunc video veritatem hanc esse rectitudinem».

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In quanto comprensione della rectitudo delle cose vere, la veritas è qui da lui apertamente identificata con l’eterna contemplazione della loro essentia da parte di Dio nella propria immutabile e legislatrice mente («intelligentia» o «ratio»): Est igitur veritas in omnium quae sunt essentia, quia hoc sunt quod in  summa veritate sunt 49.  (…) Si ergo veritas et rectitudo idcirco sunt in rerum essentia, quia hoc sunt quod sunt in summa veritate, certum est veritatem rerum esse rectitudinem 50.

Il sostantivo essentia risolve la  veritas di  tutte le  cose nella loro partecipazione a  un genere che tutte le  comprende: tale nome, infatti, è  un nome ‘universale’, formato dalla comune connotazione che caratterizza tutte le cose vere in quanto sono vere, ossia quella di «essere», espressa con la sostantivizzazione del participio presente del verbo esse (che sarebbe, se la grammatica consentisse di formularlo, «essens» 51): ogni cosa è una «essentia» non perché semplicemente esiste, ma perché è qualcosa che è, secondo una certa modalità dell’essere, in  quanto è  «id quod est»; ma ogni cosa è «id quod est» quando è nel modo in cui il principio vero di tutte le cose la fa essere come deve essere; e quindi ogni cosa è «id quod est» in quanto «est in summa veritate», cioè nel pensiero e  nella volontà del principio che le  fa essere. Cosicché ogni cosa trova la  propria vera «essentia» nell’essere ‘come deve essere’: e quindi nella propria «rectitudo». Nel nono capitolo del Monologion la  medesima dottrina, così sintetizzata nel De veritate, era annunciata a  coronamento della determinazione della natura divina come unica realtà che è «id quod est», perché «per se est id quod est» 52, mentre tutte le altre realtà, che sono «per aliud», sono «ea quae facta sunt»:   De veritate, 77, 475B, p. 195, 18-19.   Ibid., 475C, p. 196, 1-3. 51 Cfr. Augustinus Hipponensis, Locutiones in Heptateucum, in Leviticum, 32 (Lv 45, 46), PL 34, [485-546], 519-520, edd. J. Fraipont – D. De Bruyne, Turnhout 1958 (CCSL, 33), p. 428, 169-174: «Item paulo post dicit, ‘Cum sit immundus, immundus erit’; quod in  latinum de graeco non sicut positum est exprimi potuit. Ait enim Graecus, ἀκάθαρτος ὢν ἀκάθαρτος ἔσται: quasi diceret, immundus existens, immundus erit: sed non hoc est existens, quod graecus dicit ὢν, sed si dici posset, essens, ab eo quod est esse, non ab eo quod est existere». 52  Cfr. supra, testo corrisp. alla nota 18. 49 50

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Patet itaque quoniam priusquam fierent universa erat in  ratione summae naturae quid aut qualia aut quomodo futura essent.  (…) Q uare cum ea quae facta sunt clarum sit nihil fuisse antequam fierent,  (…) non tamen nihil erant quantum ad rationem facientis per quam et secundum quam fierent 53.

Solo la natura divina ‘è’ sempre. Tutte le cose create e determinate, ossia tutte le cose diverse da essa («universa»), invece non ‘erano’, cioè ‘non erano ancora nulla’, prima di venire all’essere («nihil fuisse»). Esse non hanno in sé la «ratio» del loro essere; il che significa che nel loro essere vere, ossia nella loro verità, non è compreso anche l’esistere. E tuttavia, proprio in quanto erano destinate ad essere determinate secondo la  verità di  come dovevano essere, la loro essenza veramente ‘era’, ed è sempre stata vera nella verità della natura divina, che è la «ratio facientis», causa del loro essere esistenti («per quam») e del loro essere esistenti come dovevano essere («secundum quam»). Non solo dunque era la loro essenza pura, destinata dalla volontà divina ad esistere («quid futura essent»), ma anche la  loro capacità di  essere determinate («qualia futura essent») nonché, ancora, l’attuazione di  tale loro determinazione («quomodo futura essent»): quid,  qualia, quomodo, ossia, ancora una volta, la  triadicità unitaria della loro essenza (quali sono, nella mente divina), articolata tra potenza (quali potevano essere) ed atto (in che modo effettivamente si sarebbero realizzate). Tale triadicità costituisce allora, nella sua unitaria identità, la «ratio» vera dell’esistere di ciascuna cosa creata. La formula «ratio facientis» non vale nel linguaggio anselmiano come espressione di uno specifico principio formale (come potrebbe apparire, invece, nel contesto linguistico della tarda scolastica). Più semplicemente, se è  vero che le  cose finite sono ‘vere’ in quanto sono tutte «ea quae facta sunt», ossia se è vero che la loro connotazione veritativa viene dalla predicabilità in esse del verbo facere in  forma passiva («priusquam» o  «antequam fierent», «per quam» e  «secundum quam fierent», «factae sunt»), la  connotazione della loro verità, prima e  dopo il  loro

  Monologion, 9, 157C, p. 24, 14-20.

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venire all’esistenza, è  quella dell’essere determinate in  ragione del soggetto (grammaticale e  logico) di  questo stesso verbo facere predicato in forma attiva: la «ratio» della «summa natura» è dunque la ‘ragione’ o il ‘pensiero’ divino, ossia il Logos, nel quale è eternamente sussistente la verità di tutte le cose ‘che sono state fatte’ in quanto sono state fatte, e del quale soltanto, invece, si predica veritativamente l’essere «faciens». La verità, tanto del divino quanto delle cose finite, è  allora nella sola «ratio facientis», la ragione logico-veritativa per cui e secondo cui Dio è creatore e tutte le cose sono create. Procedendo nella precisazione di  questo ri-conoscimento della ‘verità’ (sia della verità del divino, sia del rapporto delle cose finite con il  divino), Anselmo evidenzia, nel decimo capitolo, come nella «ratio» o  ‘pensiero’ del fare di  Dio sia riconoscibile una «forma» ideale delle «res», che precede la loro esistenza. E percorrendo fino in  fondo la  similitudine con i  procedimenti del pensiero umano  –  similitudine che è  alla base della stessa denominazione teologica del pensiero divino come Logos o Verbum –, si può affermare che tale «forma» divina di tutte le cose è come una «locutio», formulata da Dio nella propria «ratio» («in eius ratione locutio»), così come un artefice prima di produrre un oggetto secondo le regole della sua arte pronuncia dapprima nella propria «mens» l’espressione di un pensiero progettuale («mentis conceptio»), in cui tale oggetto è già ‘vero’ prima ancora di essere ‘reale’: Illa autem rerum forma, quae in eius ratione res creandas praecedebat, quid aliud est quam rerum quaedam in ipsa ratione locutio, veluti cum faber facturus aliquod suae artis opus prius illud intra se dicit mentis conceptione? Mentis autem sive rationis locutionem hic intelligo, non cum voces rerum significativae cogitantur, sed cum res ipsae vel futurae vel iam existentes acie cogitationis in mente conspiciuntur 54.

Come Anselmo dichiara qui esplicitamente, conceptio mentis o conceptio rationis designano, in base al vocabolario delle arti del trivio  –  in accordo, in  particolare, con chiare indicazioni fornite da Boezio –, la riproduzione interiore del significato di ciò che   Ibid., 10, 158B, p. 24, 24-29.

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il pensiero coglie quando considera direttamente (con l’«acies», l’immediato contatto, della «contemplatio») il modo determinato di essere della «res» a tale significato corrispondente, tanto se essa è già esistente, quanto anche se deve ancora venire al­l’essere 55. Le  conseguenze teologiche di  queste premesse, intuitivamente chiare e condivisibili da qualsiasi razionalità capace di intendere («ratio docens»), sono esplicitate da Anselmo poco più avanti, nel dodicesimo capitolo: Sed cum pariter ratione docente certum sit, quia quidquid summa substantia fecit, non fecit per aliud quam per semetipsam, et quidquid fecit, per suam intimam locutionem fecit, sive singula singulis verbis, sive potius uno verbo simul omnia dicendo, quid magis necessarium videri potest, quam hanc summae essentiae locutionem non esse aliud quam summam essentiam 56?

Nella perfezione unitaria della somma natura divina non è lecito ammettere che diverse «locutiones» abbiano anticipato il significato formale dei molteplici effetti della sua creazione, perché il suo pensare-fare non dipende da una causa esterna ma solo dalla sua stessa identità essenziale («per semetipsam»), ossia dalla sua parola interiore («intima locutio»). È allora necessario concludere che questa eterna «locutio» non è altro che la somma sostanza divina, in sé e per sé esistente. Per la  mente umana, invece, acquisire una conoscenza vera, e dunque avere scienza di qualcosa, significa, come è stato chiarito, cogliere non l’essenza, ma la rectitudo o verità della parola che la esprime. Q uesto significa che l’uomo conosce la verità delle cose solo nella misura in cui la «locutio» o la «conceptio» che egli

55 Cfr. Severinus Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, III, PL 64, [1039-1174], 1106AB: «Notio vero intellectus est quidam et simplex mentis conceptio, quae ad res plures pertineat a se invicem differentes». Id., Consolatio Philosophiae, V, 5, 5-6, PL 63, [579-870], 855A, ed. Moreschini cit. (alla nota 12), p. 153, 21-29: «Q uid igitur, si ratiocinationi sensus imaginatioque refragentur, nihil esse illud universale dicentes, quod sese intueri ratio putet? Q uod enim sensibile, vel imaginabile est, id universum esse non posse: aut igitur rationis verum esse iudicium nec quicquam esse sensibile aut quoniam sibi notum sit plura sensibus et imaginationi esse subiecta, inanem conceptionem esse rationis, quae quod sensibile sit ac singulare quasi quiddam universale consideret». 56  Monologion, 12, 160BC, p. 26, 26-31.

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sarà capace di formulare nella propria finita «mens» o «ratio» sia coerente e  armonica con l’originaria locutio divina: cogliere il  vero, per l’intelligenza creaturale, significa cioè  –  nella misura in  cui ciò è  possibile  –  accostarsi alla somma e  perfecta Intelligenza divina che pensa e conosce la verità di tutte le cose pensando e conoscendo la verità della propria «perfecta» capacità di ‘essere’, ossia della propria perfecta essentia (parola che, come osservava Agostino, è la sostantivizzazione del participio presente del verbo ‘essere’). Anselmo perviene così, procedendo nelle argomentazioni del Monologion, a formulare in termini inequivocabili la necessità razionale di  una compiuta teoria del Verbo, seconda persona di una Trinità divina scaturita dal riconoscimento inevitabile del coincidere dell’essere divino con il pensiero perfetto che pensa se stesso per pensare la verità assoluta di tutto ciò che è vero: Liquet enim Filium esse verum Verbum, id est perfectam intelligentiam, sive perfectam totius paternae substantiae cognitionem, et scientiam, et sapientiam, id est quae ipsam Patris essentiam intelligit et cognoscit et scit et sapit. Si igitur hoc sensu Filius dicatur Patris intelligentia et sapientia et scientia et cognitio sive notitia, quoniam intelligit, sapit, scit et novit Patrem, nequaquam a veritate disceditur 57.

In obbedienza al  principio (poi riformulato, come abbiamo visto, nel De veritate) secondo cui la ‘verità’, in tutte le cose che sono vere, è la loro essentia conoscibile come tale da una perfetta mente, anche Dio è ‘vero’ per la ragione umana in quanto essa, fin dai primi passi del suo itinerario verso la sua verità, lo riconosce come somma essentia. Q uale esito della dimostrazione necessaria della sua esistenza, lungo i quattro diversi «modi» evidenziati al­l’inizio dell’opera, Dio appare dunque ad Anselmo come soggetto («subiectum», e quindi «substantia») di una perfetta conoscenza e predicazione dell’essere («perfecta cognitio totius substantiae»), che però, proprio in quanto perfetta, non può non essere anch’essa, reciprocamente, soggetto della medesima predicazione dell’essere divino. Ne risulta perciò convalidata la terminologia teologica cristiana, che distingue e  mantiene unite a  un   Ibid., 46, 198BC, p. 62, 17-22.

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tempo la  «substantia» conoscente, che può essere chiamata Padre («paterna substantia»), e la «substantia» conosciuta, ossia il  Figlio. Per esprimere la  sostanzialità del Figlio distinguendola da quella del Padre è in effetti possibile predicare di essa i sostantivi esprimenti la piena attuazione dei verbi che denotano un pensiero che conosce il proprio oggetto: «intelligentia», in quanto capacità di  «intelligere» il  proprio oggetto (l’«essentia» divina); «cognitio», ossia pieno possesso della «notio» o «notitia» (esito in atto del «noscere»), conoscenza esauriente della «veritas» di una «res» 58; e quindi «scientia» (esito dello «scire»), quale risultato incontrovertibile di  tale acquisizione; nonché «sapientia» (esito del «sapere»). Il vocabolario anselmiano, pur incardinato su alcune pregnanti formule paoline 59, affonda evidentemente qui le proprie radici in quello di Agostino, alla luce delle cui precisazioni terminologiche è  indispensabile valutarlo per comprenderlo 60: solo in  tale prospettiva, infatti, si capisce che la scientia (o il sermo scientiae, secondo Paolo) è la somma dei risultati progressivi conseguiti dall’intelligenza dell’uomo nel suo esplorare l’universo alla ricerca di verità parziali, di ordine sia teoretico, sia pratico; mentre è sapientia (o sermo sapientiae) l’esito di una contemplazione esauriente e compiuta della verità assoluta, in cui il versante teoretico e quello pratico convergono in unità, e che coincide con il fine del conoscere e il conseguimento della

  Sul significato tecnico di «notio» o «notitia», cfr. infra, alla nota 68.  Cfr. Col 2, 3: «In quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae absconditi»; 1Cor 12, 8: «Alii quidem per Spiritum datur sermo sapientiae, alii autem sermo scientiae secundum eundem Spiritum». 60   Si confronti per esempio la coerenza del testo del Monologion che stiamo esaminando con le seguenti chiarificazioni terminologiche nel De Trinitate agostiniano; cfr.  Augustinus Hipponensis, De Trinitate, V, 2,  3, PL  42, [8191098], 912, ed.  W.  J. Mountain, 2  voll., Turnhout 1968 (CCSL,  50-50A), I, pp. 207, 1 - 208, 12: «Est tamen sine dubitatione substantia, vel, si melius hoc appellatur, essentia, quam Graeci οὐσίαν vocant. Sicut enim ab eo quod est sapere dicta est sapientia, et ab eo quod est scire dicta est scientia, ita ab eo quod est esse dicta est essentia. Et quis magis est, quam ille qui dixit famulo suo Moysi, ‘Ego sum qui sum’, et ‘Dices filiis Israel: Q ui est, misit me ad vos’ (Ex 3,  14)? Sed aliae quae dicuntur essentiae sive substantiae, capiunt accidentia, quibus in  eis fiat vel magna vel quantacumque mutatio; Deo autem aliquid eiusmodi accidere non potest. Et  ideo sola est incommutabilis substantia vel essentia, quae Deus est, cui profectio ipsum esse, unde essentia nominata est, maxime ac verissime competit». 58

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felicità (o beatitudo) 61. Secondo il linguaggio delle discipline profane, allora, è scientia la «philo-sophia» o «studium sapientiae», acquisizione e progressivo incremento di passi sempre incompleti, ma via via accertati, lungo il percorso dell’uomo verso la verità e la felicità; mentre è sapientia (ovvero «sophia») l’esito definitivo e compiuto di tale processo. È allora evidente come in Dio, e soltanto in Dio, cognitio, scientia e sapientia del proprio ‘essere’ perfettamente compiuto o  essentia, coincidano perfettamente 62. Solo qui, infatti, la distinzione di un ‘conoscente’ da un ‘conosciuto’ si annulla nella perfetta identità dell’unica veritas della sostanza divina, come perentoriamente è stabilito da Anselmo, con un rapidissimo tratto conclusivo dell’esposizione di questa tematica, nel capitolo successivo: At si ipsa substantia Patris est intelligentia et scientia et sapientia et veritas, consequenter colligitur quia sicut Filius est intelligentia et scientia et sapientia et veritas paternae substantiae,

61 Cfr.  ibid.,  XII, 14,  22-23,  1009-1010, ed.  Mountain, I, pp.  357,  7-22 e 376, 44-48: «Distat tamen ab aeternorum contemplatione actio qua bene utimur temporalibus rebus, et illa sapientiae, haec scientiae deputatur. (…) In hac differentia intellegendum est ad contemplationem sapientiam, ad actionem scientiam pertinere.  (…) De his ergo sermo cum fit, eum scientiae sermonem puto discernendum a sermone sapientiae ad quam pertinent ea quae nec fuerunt nec futura sunt sed sunt, et propter eam aeternitatem in qua sunt et fuisse et esse et futura esse dicuntur sine ulla mutabilitate temporum». Ibid., XIII, 19, 24, 1033-1034, I, pp. 415, 1-23 e 416, 50 - 417, 57: «Haec autem omnia quae pro nobis Verbum caro factum temporaliter et localiter fecit et pertulit secundum distinctionem quam demonstrare suscepimus ad scientiam pertinent non ad sapientiam. Q uod autem Verbum est sine tempore et sine loco, est Patri coaeternum et ubique totum, de quo si quisquam potest quantum potest veracem proferre sermonem, sermo ille erit sapientiae. (…) Ego tamen (…), si ita inter se distant haec duo ut sapientia divinis, scientia humanis attributa sit rebus, utrumque agnosco in Christo, et mecum omnis eius fidelis. (…) Scientia ergo nostra Christus est, sapientia quoque nostra idem Christus est. Ipse nobis fidem de rebus temporalibus inserit; ipse de sempiternis exhibet veritatem. Per ipsum pergimus ad ipsum, tendimus per scientiam ad sapientiam. (…) Sed nunc de scientia loquimur, post de sapientia, quantum ipse donaverit, locuturi». Ancora, cfr. Id., De sermone Domini in monte, I, 4, 12, PL 34, [1229-1307], 1235, ed. A. Mutzenbecher, Turnhout 1967 (CCSL, 35), p. 11, 224-225: «Regnum coelorum (…) est perfecta summaque sapientia animae rationalis». 62 Cfr. Id., De diversis quaestionibus ad Simplicianum, q. 2, 3, PL 40, [101148], 140, ed.  A.  Mutzenbecher, Turnhout 1970 (CCSL, 44), p.  78,  101-104: «Q uanquam et in  ipsis hominibus solet discerni a  sapientia scientia,  (…) in  Deo autem nimirum non sunt haec duo, sed unum».

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ita est intelligentia intelligentiae, scientia scientiae, sapientia sapientiae, veritas veritatis 63.

La verità, o conoscenza definitoria perfetta della somma natura, cioè la conoscenza che Dio ha di se stesso, è la definizione della verità: ossia la verità della verità stessa. Nella misura in  cui è  cosa possibile a  una creatura, il  reperimento della verità deve dunque corrispondere anche per l’uomo a un accostamento alla verità dell’essentia di Dio. Ma poiché tale verità può essere colta solo per via di una sapientia piena dell’essere, che sia assoluta conoscenza e assoluto amore del suo oggetto (e  quindi vera cognitio, o  notio, o  scientia), essa non può che identificarsi con l’intelligentia divina stessa, che conosce e vuole tutto ciò che crea. La  conoscenza divina non è  dunque diversa dal­l’eterna superiore locutio tramite la quale il Figlio coglie la propria identità essenziale con il Padre. Solo Dio può godere di tale sapientia, o ratio dell’essenza divina, o perfetta locutio della verità in sé. La creatura umana potrà invece parlare in questa vita solo il sermo scientiae, imperfetto ma costante avvicinamento alla locutio divina, non il sermo sapientiae che assicura la perfetta contemplazione e comprensione della sua verità.

6. La locutio del Proslogion e la rectitudo della notitia di Dio L’analisi dei primi capitoli del Monologion ha evidenziato l’importanza che riveste per Anselmo, rispetto alla argomentazione proposizionale e  sillogistica, l’applicazione critica delle regole della ‘logica del termine’, che fondano l’efficacia del processo argomentativo sulla predicazione delle singole parti del discorso (predicabili, categorie, elementi della proposizione apofantica o proloquium, ecc.) e la cui massima espressione si risolve in una rigorosa dottrina della definizione 64. Il  lungo tessuto argomen  Monologion, 47, 198D-199A, p. 63, 4-7.  Cfr. Severinus Boethius, In Isagogen Porphyrii commenta, ed. prima, I, 1, PL 64, [9-70], 12C, ed.  S.  Brandt, Wien  –  Leipzig 1906 (CSEL, 48), pp.  10,  25  -  11,  1: «Definitionum quoque quae ad logicam pertinent magna atque utilis uberrimaque cognitio est». E cfr.  d’Onofrio, Fons scientiae cit. (alla nota 23), pp. 183-186. 63

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tativo che, tanto nel Monologion, quanto nel Proslogion, segue alle prime pagine dedicate all’accertamento dell’esistenza di  ciò che corrisponde alla pensabilità della natura divina appare allora l’esito articolato di  un unitario processo di  esplicitazione della verità della ‘definizione’ corrispondente all’essentia divina, che deve poi coincidere in tutto e per tutto con la notio che il pensiero divino stesso, qualificato solo da massima rectitudo, concepisce nella propria intelligentia pensandosi secondo verità. È come se Anselmo si fosse impegnato, in  entrambi gli scritti, nel portare la  propria comprensione dei processi conoscitivi umani, regolamentati dalla dialettica e dalle altre arti liberali, fino alla più alta attuazione possibile: ossia alla partecipazione alla piena e veritativa conoscenza, altissima e perfetta (e quindi comprensiva necessariamente anche dell’esistenza reale) che Dio ha di  sé quando pensa se stesso. A conferma di ciò, la conclusione del Proslogion esprime mirabilmente in  forma di  preghiera e  di ringraziamento insieme («alloquium», e  quindi, appunto, «pros-logion»), il senso di questo pieno ‘conoscere’ Dio (con la filosofia o scientia teoretica), ‘amarlo’ (con la filosofia o scientia pratica), ‘godendo’, per quanto possibile, di  tale comprensione (che anticipa la sapientia promessa con la beatitudine), attraverso un perfezionamento massimo dei processi che consentono al linguaggio umano di ‘parlare’ di Lui: Oro, Deus, cognoscam te, amem te, ut gaudeam de te. Et si non possum in  hac vita ad plenum, vel 65 proficiam in  dies usque dum veniat illud ad plenum. Proficiat hic in me notitia tui, et ibi fiat plena; crescat amor tuus, et ibi sit plenus, ut hic gaudium meum sit in spe magnum et ibi sit in re plenum. Domine, per Filium tuum iubes, immo consulis petere et promittis accipere, «ut gaudium» nostrum «plenum sit» (Jo 16,  24). Peto, Domine, quod consulis per admirabilem consiliarium nostrum; accipiam quod promittis per veritatem tuam, «ut gaudium» meum «plenum sit». Deus verax, peto, accipiam «ut gaudium» meum «plenum sit». Meditetur interim inde mens mea, loquatur inde lingua mea, amet illud cor meum, sermocinetur os meum. Esuriat illud anima mea, sitiat caro mea, desideret tota substantia mea, donec intrem

  Per il senso di questo «vel» cfr. supra, alla nota 17.

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in gaudium Domini, qui es trinus et unus Deus, benedictus in saecula. Amen 66.

La ‘conoscenza’ compiuta o ‘comprensione’ che l’uomo può avere in questa vita della verità (o rectitudo) dell’essentia di Dio, in attesa di poterne godere «ad plenum» in quella futura, è assicurata dalla mediazione – quasi dal ‘suggerimento’ – del Figlio («consiliarius» dell’umanità), parola eterna con cui Dio propone all’intelletto dell’uomo di  accogliere e  prendere in  considerazione («con­ su­lis») il senso della parola terrena che parla di Lui. Accettando questa parola («accipere»), l’uomo potrà meditare con la mente («meditari», per la conquista di una scienza teo­retica), formulare con la lingua («loqui», «sermocinari», secondo le norme della logica) e amare con il cuore («amare», per ottenere la sapienza pratica) la stessa piena e perfetta connotazione di verità che contempla e di cui gode ciascuna persona trinitaria nel contemplare la propria identità con le altre due. Appare perciò evidente, e  proprio dall’efficacia riepilogativa del linguaggio messo in campo in questa conclusione, come l’intero sviluppo del trattato sia orientato dalla ricerca, dal reperimento e dalla intensa e ribadita considerazione della rectitudo di una locutio definitoria, individuabile solo a prezzo di un supremo sforzo dell’intelligenza creaturale e riconoscibile – almeno in principio, in  quanto presente nell’intelletto («vel in  intellectu»)  –  come la più adeguata a rendere conto della realtà di tale essentia: Convincitur ergo etiam insipiens esse vel in intellectu aliquid quo nihil maius cogitari potest, quia hoc cum audit intelligit, et quidquid intelligitur in intellectu est 67.

L’espressione quo nihil maius cogitari potest (o quo maius cogitari nequit) emerge dunque dal tentativo massimo compiuto dall’intelletto creato di  pervenire a  una «definizione» dell’essentia divina. Non si tratta però di una definitio logica di tipo porfiriano (genere superiore determinato da differenza specifica), perché è impossibile far rientrare il significato del nome corrispondente   Proslogion, 26, 242BC, pp. 121, 14 - 122, 2.   Ibid., 2, 228A, p. 101, 13-15. Anche qui, per il significato che va riconosciuto al «vel», cfr. supra, alla nota 17. 66

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a tale essentia in alcun genere superiore, conoscibile per via comparativa nel confronto con altri ambiti significanti di pari grado. La sola differentia che possa caratterizzare la somma natura, e che possa essere riconosciuta «in intellectu», si individua infatti proprio nel suo non poter essere comparata con altre nature: né su un piano di  pensabilità ontologica superiore («quo maius cogitari nequit»); né su un piano di parità di significato, che potrebbe essere conoscibile dalla nostra mente, secondo il principio già evidenziato nel Monologion, solo quale esito della partecipazione a una perfezione superiore («maius»). La definitio porfiriana, chiamata anche «definizione sostanziale», nei compendi di logica diffusi tra il sesto e l’undicesimo secolo è  presentata come la  più rigorosa, ma non l’unica forma di determinazione del significato di una res, al cui conseguimento è  invece possibile per l’intellectus umano aspirare mediante molteplici forme di  descriptiones: ossia di  determinazioni denotative in  senso lato, secondo le  molteplici variabili previste dal De definitionibus liber, opera di  Mario Vittorino ma ritenuto in questi secoli opera di Boezio, e dallo stesso Boezio nel suo commento ai Topica di Cicerone. Subito dopo la presentazione della «definitio» porfiriana, Mario Vittorino vi invita il lettore a valutare l’importanza di ogni possibile forma di illustrazione del termine da definire, anche intuitiva e non logicamente rigorosa, raggiungibile mediante connotazioni che ne caratterizzino in modo peculiare la distinguibilità da altri oggetti conosciuti o conoscibili. In particolare, tra le molteplici forme di «descriptio» possibili, particolare impostanza viene attribuita a quella che è propriamente denominata appunto «notio», o  «notitia», e  che produce una «cognitio» illustrativa e orientativa della natura o maniera di essere della cosa, ossia di ciò che essa ha in comune con altre conoscenze, presente in forma immediata nell’animo come esito di una illustrazione («enodatio») sufficientemente atta a renderne conto 68. 68  All’origine di  tale dottrina si pone un passaggio da  Marcus Tullius Cicero, Topica, 7,  31 in  Id.,  Opera rhetorica, ed.  G.  Friedrich, I/2, Leipzig 1891, p. 431, 29-31: «Notionem appello quod Graeci tum ἔννοιαν tum πρόλεψιν. Ea est insita et animo praecepta cuiusque formae cognitio, enodationis indigens». Cfr. anche Marius Victorinus, De definitionibus, PL 64, [891-910], 902AB, ed. in T. Stangl, Tulliana et Mario Victoriniana, München 1888, [pp. 17-48],

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È allora significativo il  fatto che, nella conclusione del Proslogion sopra ricordata, per designare la  conoscibilità della verità della locutio su cui si fonda tutto il  trattato, lo stesso Anselmo abbia utilizzato esplicitamente il  termine notitia. Recepibile in questa vita come anticipazione della contemplazione beatifica, il quo maius assicura una notitia che è puro riflesso dell’azione del Figlio, quando suggerisce alla mente umana la verità su Dio, come l’amore è  riflesso dell’azione dello Spirito, quando incendia il cuore umano di trasporto per questa medesima verità: «Proficiat hic in me notitia tui, et ibi fiat plena» 69. Logicamente corretta e  semanticamente feconda, la  formula «Deus est quo maius cogitari nequit», pur non potendo essere proposta come una definizione logicamente rigorosa, è comunque capace di  produrre, nell’animo dell’uomo che la  considera, una designazione autentica, rispondente al vero, della suprema natu-

p. 33, 6-19: «De prima diffinitione plenius in superioribus sermo confectus est, cum substantialis quae sit diffinitio quibusque partibus compleatur ostendimus. Secunda [definitio] est quae dicitur ἐννοηματικὴ, quam notionem communi non proprio nomen possumus dicere. In omnibus enim reliquis diffinitionibus notio rei profertur, non substantia explicatione declaratur; verum haec quae secunda est hoc modo semper efficitur, cum proposito eo quod diffiniendum est, neque dicto eius genere, verbis in  rei sensum ducentibus audientem, quid illud sit de quo quaeritur explicatur:  (…) ut si dicam ‘homo est quod rationali conceptione et exercitio praeest animalibus cunctis’, hic non quidem ipsum quod sit dixi, sed, dicendo quid agat, quasi quodam signo in notitiam devocavi». E cfr. Severinus Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, III, PL 64, 1106C-1107A: «Haec vero definitio hinc tracta est, quod Plato ideas quasdam esse ponebat, id est species incorporeas substantiasque constantes, et per se ab aliis naturae ratione separatas, ut hoc ipsum homo, quibus participantes caeterae res homines vel animalia fierent. At vero Aristoteles nullas putat extra esse substantias, sed intellectam similitudinem plurimorum inter se differentium substantialem genus putat esse, vel speciem. Nam cum homo atque equus differant rationabilitate atque irrationabilitate, horum intellecta similitudo efficit genus. Nam similitudo equi et hominis substantialis in eo est, quod uterque substantia est, uterque animatus, uterque sensibilis, quae iuncta efficiunt animal, est animal namque substantia animata sensibilis. Igitur hominis atque equi similitudo est animal, quod est genus. Rursus cum Plato atque Cicero numero accidentibusque distarent, horum similitudo, quae est humanitas intellecta atque animo formata, species est. Ergo communitas quaedam et plurimorum inter se differentium similitudo notio est, cuius notionis aliud genus est, aliud forma». 69 Cfr. supra, testo citato in corrisp. alla nota 66. E cfr. nel brano dal Monologion citato sopra in corrisp. alla nota 57, il riconoscimento della seconda persona della Trinità come notitia della verità del Padre.

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ra. Cosicché, in quanto corrisponde adeguatamente al significato della parola «Deus», essa vale come una notio o notitia adeguatamente dotata di rectitudo. Non include infatti in sé né più né meno di quanto sia indispensabile e proficuo alla corretta conoscenza dell’essentia divina ricercata, proprio secondo la  regola che viene esplicitata nel De veritate a proposito della definizione di «veritas»: Magister. Possumus igitur, nisi fallor, definire quia veritas est rectitudo mente sola perceptibilis. Discipulus. Nullo modo hoc dicentem falli video. Nempe nec plus nec minus continet ista definitio quam expediat, quoniam nomen ‘rectitudinis’ dividit eam ab omne re quae ‘rectitudo’ non vocatur 70.

Viene spontaneo rievocare a  questo punto le  simili parole con cui anche all’inizio del Proslogion  –  nella ispirata invocazione a Dio perché conceda la grazia di cogliere la verità del suo stesso nome  –  Anselmo chiede di  riuscire a  congegnare una definizione della nozione corrispondente a Dio che sia adeguata, ossia che «expediat» (che sia favorevole) ad una comprensione adeguata dell’oggetto («quia es sicut credimus et hoc est quod credimus»); perché è evidente che tale formulazione sarà ‘utile’, e potrà ‘giovare’ all’uomo, solo se riesce ad esprimere la notitia di cui Dio stesso ha conoscenza («quantum scis») quando conosce in sé l’essere qualcosa che è Dio (cioè la propria essentia): Ergo Domine, qui das fidei intellectum, da mihi ut quantum scis expedire intelligam, quia es sicut credimus et hoc es quod credimus. Et quidem credimus te esse aliquid quo nihil maius cogitari possit 71.

Come soggetto di una formula che deve ‘denotare’ ciò che ‘giova’ a comprenderne il significato, la parola «Deus» è ‘suggerita’ dalla fede, che ne legge l’enunciato fin dalle prime righe della Scrittura: «In principio creavit Deus caelum et terram» (Gn  1,  1).   De veritate, 11, 480A, p. 191, 19-24.   Proslogion, 2, 227C, p. 101, 3-5. Per quella che è a mio parere la corretta interpretazione dell’espressione «intellectus fidei dare», secondo cui «fidei» va inteso come un dativo di vantaggio e non come un genitivo, mi limito a rimandare a d’Onofrio, Vera philosophia cit. (alla nota 24), p. 244, nota 61 (tr. it., pp. 224225, nota 61). 70

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La razionalità, considerando il contenuto di questa fede, si sforza di  attingere una precisazione della predicazione di  «essentia» ad essa corrispondente («quia es sicut credimus», «hoc es quod credimus», «credimus te esse»), capace di produrre un intellectus (participio passato del verbo «intelligere»): una precisazione che si attesta dunque come «intellectus fidei», atto di  intelligenza il  cui oggetto è  il medesimo che viene espresso della parole della fede. Il  significato della formula «aliquid quo nihil maius cogitari possit» è in tutto e per tutto corrispondente a quello del sintagma «summa substantia» nel Monologion, ma diametralmente inversa è la forma dell’espressione, lì pienamente affermativa, qui assolutamente negativa. Solo in Dio, nella mente di Dio, l’«intellectus» ad essa corrispondente è in atto, e quindi è concretamente operante in forma di «scientia» («quantum scis»); nell’uomo esso deve ancora compiersi in atto («ut intelligam»), e dare così vita a una «intelligentia» autentica: e quindi a  una «scientia», secondo le  aspettative della logica definitoria vittoriniano-boeziana.

7. L’inventio dell’argumentum Boezio, illustrando nel commento ai Topica di Cicerone la funzionalità logica della notio (o  notitia, o, ancora, nota oppure notatio), informa che essa deve essere sufficiente per sostenere un processo logico di ricerca del significato della realtà, acquisito mediante il  suo puro enunciato 72. Q uesto consente di  considerarla come uno dei primi loci o tópoi elencati da Cicerone come fonti degli argumenta («argumenti sedes»), ossia come gli ambiti più generali che raccolgono i  procedimenti dimostrativi finalizzati a evidenziare in modo risolutivo le connotazioni di verità di una cosa che viene sottoposta al «quaerere» dell’intelligenza 73: 72 Cfr. Severinus Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, III, PL 64, 1083D: «Notatio vero, eodem modo illud ipsum est quod in  quaestione proponitur. Rem enim unamquamque omne vocabulum designat in  quaestione ac denotat». 73  Le prime tre classi di loci, che sono anche le più produttive di conoscenza in quanto descrittive della natura in sé della cosa indagata («id de quo agitur» o «de quo quaeritur»), sono: quella che genera l’argumentum ex toto, ossia che dimostra la  verità della cosa a  partire dal ‘tutto’, da  una esplicazione completa

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gli  «argumenta» sono infatti le  operazioni mentali con cui la  mente affronta o  risolve tutte le  «quaestiones», ossia ogni «dubitabilis propositio» o enunciato in forma di domanda alla quale è possibile rispondere con un sì o con un no; e i primi tre sono i  più capaci di  produrre una descrizione della cosa indagata quanto più possibile coerente con la  sua realtà 74. Q uesto ‘apparire’ della verità è  l’esito corretto di  quella disciplina che, in  quanto fondata sull’impiego dei loci communes o  tópoi della mente, si chiama τοπική e  consiste appunto nella «argumentorum inventio» 75: la  chiarificazione della «res dubia» operata dall’«argumentum» è, secondo una fondamentale indicazione di Cicerone, la regolamentazione del pensiero («ratio») finalizzata alla produzione di una «fides» che scioglie ogni dubbio nei confronti della cosa indagata: «Itaque licet definire locum esse argumenti sedem, argumentum autem rationem quae rei dubiae faciat fidem» 76. ed esauriente della realtà della cosa; quella che scaturisce da  una enumerazione e  descrizione delle sue ‘parti’, o  argumentum ex partibus totius; e  infine quella, appunto, che viene dalla precisazione del nome con cui la cosa è correttamente designata, ossia l’argumentum ex nota (o notatio). 74 Cfr.  Severinus Boethius, ibid.,  I, 1048B: «Necesse est ut ubi dubitatur aliquid, ibi sit quaestio: quod si argumentum praeter rem dubiam esse non poterit, nullo modo esse praeter quaestionem potest. Q uaestio vero est dubitabilis propositio.  (…) Ad quaestionem igitur, id est ad dubitabilem propositionem, omnis intentio dirigitur argumenti». Cfr. d’Onofrio, Fons scientiae cit. (alla nota 23), pp. 260-261; e cfr. Id., Topica e sapere teologico nell’alto Medioevo, in Les lieux de l’argumentation. Histoire du syllogisme topique d’Aristote à Leibniz, éd. par J. Biard – F. Mariani Zini, Turnhout 2009 (Studia Artistarum. Études sur la Faculté des arts dans les Universités médiévales, 22) pp. 141-170. 75 Cfr. Severinus Boethius, ibid., I, 1148A: «Est enim topices intentio, argumentorum facilis inventio». 76  Marcus Tullius Cicero, Topica 2, 8, ed. Friedrich cit. (alla nota 68), p. 426, 8-10. Cicerone precisa che le parti della logica (ratio disserendi) sono due, l’inventio e  lo iudicium, cui corrispondono rispettivamente la  disciplina topica e  la disciplina chiamata, in  senso stretto, dialectica. Aristotele è  stato maestro in  entrambi i  campi, gli Stoici invece si sono limitati alla dialectica mediante la quale hanno soprattutto valutato la correttezza formale dei procedimenti logici, in  quanto hanno considerato inutile l’inventio, ossia la  fase di  reperimento dei fondamenti da cui trae veridicità il ragionamento, in quanto secondo la loro concezione la verità di una affermazione logicamente corretta dipende solo dall’evidenza (empiricamente accertabile) dei termini che la compongono. Aristotele ha invece assicurato, sempre secondo Cicerone, l’importanza della fase inventiva, in quanto la sola correttezza dialettica, ossia formale, dei ragionamenti (per esempio ‘gli uomini hanno le ali, i greci sono uomini, dunque i greci hanno le ali’) deve

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Q uando, nel quinto capitolo del Monologion, raccoglie l’esito del complesso argomentativo dei primi quattro, Anselmo lo definisce «quod inventum est» presupponendo che «placet», che appaga le aspettative interiori di verità di colui che ne ha seguito lo svolgimento 77. L’impiego del verbo invenire, non risponde qui, dunque, a un intento genericamente descrittivo (avere ‘trovato’ una soluzione adeguata per il quesito proposto), ma evidenzia, con preciso valore tecnico, la dipendenza metodologica dello scrivente dall’insegnamento della topica ciceroniano-boeziana. Con ciò si evidenzia, in maniera inequivocabile, il fatto che quattro procedimenti dimostrativi del Monologion sono elaborati, secondo tale impostazione metodologica, quale esito di una precomprensione intuitiva della verità da  argomentare, anteriore all’articolazione delle determinazioni particolari del pensiero che la esplicitano. Ma in  modo ancora più palmare, è  soprattutto l’avvio del Proslogion ad essere connotato in  modo insistente, quasi osses­ sivo, dallo scandirsi, fondato sulla medesima terminologia tecni-

essere innestata su un possesso di  certezze argomentative di  partenza, che sono esattamente quello che Cicerone si propone di elencare come topoi o luoghi (loci) in cui è nascosta la radice originaria della verità. Tra questi topoi si trovano naturalmente anche le definizioni (per cui per esempio non rientra nella definizione degli uomini l’avere le ali), e quindi la notitia o conoscenza adeguatamente informativa sulla vera realtà di una res. Q uesto significa che per risolvere una quaestio è necessario prendere le mosse dalla inventio di un luogo originario della verità, sul quale si fonda l’argumentum, ossia una ratio che risolve la quaestio, e a partire dal quale possono dipanarsi le indagini della dialectica, ossia la formulazione dello iudicium con il quale si verifica la correttezza della conclusione deducibile dall’argumentum mediante un’operazione dimostrativa che si chiama argumentatio. Cfr.  ibid.,  p.  426,  20-34: «Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat partis, unam inveniendi alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem videtur, Aristoteles fuit. Stoici autem in altera elaboraverunt; iudicandi enim vias diligenter persecuti sunt ea scientia quam διαλεκτικὴν appellant, inveniendi artem, quae τοπικὴ dicitur, quae et ad usum potior erat et ordine naturae certe prior, totam reliquerunt. Nos autem, quoniam in  utraque summa utilitas est, et utramque, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prior est ordiemur. Ut igitur earum rerum quae absconditae sunt demonstrato et notato loco facilis inventio est, sic eum pervestigare argumentum aliquod volumus, locos nosse debemus. Sic enim appellatae sunt ab Aristotele hae quasi sedes, e  quibus argumenta promuntur». Su questa dottrina, cfr.  d’Onofrio, Fons scientiae cit. (alla nota 23), pp. 94-96. 77 Cfr. Monologion, 5, 150A, p. 18, 7: «Q uoniam itaque placet quod inventum est».

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ca, di  passaggi argomentativi in  base all’evocazione delle regole dei «topica», che li rendono operanti: una serrata alternanza di quaerere, invenire; un allusione al locus dove è collocata la verità di Dio; fino all’esplicito – e ormai inequivocabile – ricorso al termine argumentum 78: Considerans illud [sc. Monologion] esse multorum concatenatione contextum argumentorum, coepi mecum quaerere si forte posset inveniri unum argumentum, quod nullo alio ad se probandum, quam se solo indigeret, et solum ad astruendum quia Deus vere est, et quia est summum bonum nullo alio indigens, et quo omnia indigent ut sint et bene sint; et quaecunque credimus de divina substantia, sufficeret. Ad  quod cum saepe studioseque cogitationem converterem  (…) desperans volui cessare, velut ab inquisitione rei, quam inveniri esset impossibile 79. «Intra in cubiculum» mentis tuae (cfr. Mt 6, 6), exclude omnia praeter Deum et quae te iuvent ad quaerendum eum.  (…) Dic nunc Deo: «Q uaero vultum tuum, vultum tuum Domine requiro». Eia nunc ergo tu, Domine meus, doce cor meum ubi et quomodo te quaerat, ubi et quomodo te inveniat. (…) Deinde, quibus signis, qua facie te quaeram? (…) Q uid faciet servus tuus? (…) Invenire te cupit, et nescit locum tuum. Q uaerere te affectat, et ignorat vultum tuum 80. Doce me quaerere te, et ostende te quaerenti; quia nec quaerere te possum, nisi tu doceas, nec invenire, nisi te ostendas. Q uaeram te desiderando, desiderem quaerendo, inveniam amando, amem inveniendo 81.

  È cosa degna di nota il fatto che, anche se proprio nel proemio del Proslogion Anselmo allude ai multa argumenta dai quali risulta intessuto il testo del Monologion, l’uso del termine argumentum in questo senso tecnico sia del tutto assente nel primo opuscolo, tanto quanto invece è metodicamente frequente nelle pagine del secondo. È soltanto in senso generico, senza alcun riferimento al lessico della topica ciceroniano-boeziana, che «argumenta», al  plurale, appare nel Prologo del Monologion, testo cit. supra in corrisp. della nota 6; e ibid., 19, 168D, p. 34, 8-9: «Q uid ergo molita est tanta moles argumentorum, si tam facile demolitur nihilum molimina eorum?». 79  Proslogion, Prooem., 223BC, p. 93, 4-10. 80  Ibid., 1, 225B-226A, pp. 97, 7 - 98, 12. 81  Ibid., 226B, p. 100, 8-11. Ho lievemente corretto la punteggiatura dell’ed. Schmitt. 78

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La stessa, esclusiva e precisa designazione di unum argumentum per quello che i  moderni  –  con terminologia estranea e  impropria  –  hanno l’abitudine di  chiamare ‘dimostrazione a  priori’ dell’esistenza di  Dio o  ‘argomento ontologico’, ne evidenzia l’appartenenza a  una tipologia di  procedimenti mentali riconducibili alla disciplina «topica», come era praticata nell’alto Medioevo: procedimenti tra i  quali esso viene presentato da Anselmo come ‘il solo’, l’unico capace di essere applicato con necessità inderogabile e  inequivocabile alla ‘nozione’ dell’esistenza di  Dio, ed è  l’unico capace di  funzionare ‘da solo’, ossia autonomamente («quod… sufficeret»). L’aggettivo «unus» indica in effetti non la semplice singolarità fra altri singoli identici all’interno di  una molteplicità, ma l’unicità assoluta all’interno del genere di  appartenenza 82: l’argumentum è  unum perché, mentre in  generale è  possibile (come è  risultato chiaro nel Monologion) che da  un medesimo locus mentale scaturiscano molteplici argumenta relativi allo stesso oggetto (l’esistenza di Dio), in questo caso la riflessione umana prende le mosse da un tópos dal quale, relativamente a tale oggetto, può prendere corpo un argumentum unico, il  solo che sia possibile trarre da  esso. Una volta cioè enunciato il  tópos, la  pura introduzione al  suo interno della definizione del soggetto «Deus» come «aliquid quo maius cogitari non potest» appare sufficiente per assicurare una incontestabile risposta affermativa alla quaestio sulla necessità della sua esistenza reale. Il locus che Anselmo tacitamente introduce, in  quanto dotato in modo peculiare di tale immediata efficacia, è il più prezioso e apprezzato, nella storia del pensiero logico tardo-antico e altomedievale, tra i  tópoi dell’elenco ciceroniano-boeziano: il  locus a repugnantibus, ossia che «ex contrariis efficitur» e che accerta 82 Cfr.  Hoffmann  –  Szantyr, Lateinische Syntax und Stilistik cit. (alla nota 17), p. 193: «Unus bedeutete zunächst stark isolierend ‘allein’». Esemplificazioni frequenti di questa utilizzazione dell’aggettivo «unus» in contesti particolarmente significativi sul piano teologico si trovano nell’opera di  Anselmo; cfr. Monologion, 1, 144C, p. 13, 5-6: «…unam naturam summam omnium quae sunt…»; ibid., 145B, p. 14, 7-9: «Estne credendum esse unum aliquid, per quod unum sint bona quaecunque bona sunt, an sunt bona alia per aliud?»; Epistola de incarnatione Verbi, prior recensio, 1, 265B, p. 10, 8-9: «Q ualiter discernet inter unum Deum et plures relationes eius?»; De casu diaboli, 12, 343AB, p. 253, 29-30: «Beatitudo et iustitia non sunt illo diversa, sed unum bonum».

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l’impossibilità che siano contemporaneamente vere due affermazioni contraddittorie. Cicerone, evocando la  testimonianza della tradizione retorica antica, afferma che questo tópos è talmente apprezzato dagli studiosi da avere meritato in modo specifico di  essere denominato enthymema (ἐνθύμημα), anche se questo nome è comunemente utilizzato per designare tutte le dimostrazioni (cioè tutte le  «inventiones» di  verità), così come Omero è  detto ‘il poeta’ per eccellenza 83. Boezio, commentando Cicerone, dichiara che questo tópos si esprime esaustivamente nella formulazione del terzo modo del sillogismo ipotetico («non et primum et non secundum, primum autem, igitur et secundum»), con cui si dichiara l’impossibilità che siano contemporaneamente negate due affermazioni la cui portata significante è identica, come se si dicesse ‘non è possibile che sia uomo e che non sia animale’: Tertium vero modum ait esse Cicero cum ea quae coniuncta sunt, denegantur, et his alia negatio rursus adiungitur, ut quia ‘animal’ ‘homini’ coniunctum est, ita dicamus: «non et homo et non animal est», atque ex his unum ponitur, ut quod relinquitur auferatur, hoc modo: ponimus hominem esse, dicentes: «atqui homo est»; quod ergo relinquitur, «non est animal», aufertur, atque concluditur, «animal igitur est». Fit argumentatio hoc modo: «non et homo est, et non animal, atqui homo est, animal igitur est». Ex his nasci dicit enthymemata ex contrariis conclusa, quibus plurimum rhetores uti solent; atque haec enthymemata nuncupantur, non quod eodem nomine omnis inventio nuncupari non possit (enthymema namque est mentis conceptio, quod potest omnibus inventionibus convenire), sed quia haec inventa, quae breviter ex contrariis colliguntur, maxime acuta sunt, propter excellentiam speciemque inventionis commune enthymematis nomen proprium factum est, ut haec a rhetoribus quasi proprio nomine enthymemata vocentur 84. 83 Cfr.  Marcus Tullius Cicero, Topica, 13,  55, ed.  Friedrich cit. (alla nota 68), p. 437, 19-26: «Ex hoc illa rhetorum sunt ex contrariis conclusa, quae ipsi ἐνθυμήματα appellant; non quod omnis sententia proprio nomine ἐνθύμημα non dicatur, sed, ut Homerus propter excellentiam commune poetarum nomen efficit apud Graecos suum, sic, cum omnis sententia ἐνθύμημα dicatur, quia videtur ea quae ex contrariis conficitur acutissima, sola proprie nomen commune possedit». 84  Severinus Boethius, In  Topica Ciceronis commentaria, V, PL 64, 1142C-1143A. Boezio stesso e  altre fonti tardo antiche confermano ulterior-

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Nella letteratura teologica dell’alto Medioevo l’efficacia dimostrativa di questo procedimento gode di ampio riconoscimento. Ne è attento testimone Giovanni Scoto Eriugena, che raccomanda l’uso dell’enthymema in più di una occasione nel trattato polemico De praedestinatione, per la sua feconda capacità di produrre argomenti a favore dell’unitarietà sostanziale del divino 85. In un commento anonimo alla Consolatio Philosophiae del secolo xii, noto come l’Anonimo di  Erfurt, le  parole con cui Boezio definisce il  divino come «quo nihil melius excogitari potest» sono senz’altro rivestite della forza argomentativa del procedimento anselmiano, designato come come «argumentum ab immediato» e formulabile proprio nella struttura formale di un sillogismo

mente il collegamento, qui suggerito, dell’enthymema con il sillogismo retorico, ossia con il sillogismo ‘imperfetto’ nel quale viene omessa la seconda premessa, per la sua implicita evidenza, e si passa direttamente dalla formulazione della prima alla conclusione: cfr. ibid., I, 1050BC: «Enthymema vero est imperfectus syllogismus, cujus aliquae partes, vel propter brevitatem, vel propter notitiam, praetermissae sunt. Itaque haec quoque argumentatio a  syllogismi genere non recedit. Q uoniam igitur syllogismus omnis propositionibus constat, propositiones vero terminis, terminique inter se differunt, eo quod unus maior est, alter minor, fieri non potest ut ex propositionibus conclusio nascatur, nisi per terminos progressae propositiones extremos terminos alicuius tertii medietate coniunxerint». Cfr.  anche Id., De  differentiis topicis, II, 1184BC; Cassiodorus Senator, Expositio Psalmorum, 20, PL 70, [9-1056], 149D, ed. M. Adriaen, 2 voll., Turnhout 1958 (CC, 97-98), p. 185, 124-132: «Enthymema, quod Latine interpretatur mentis conceptio, syllogismus est constans ex una propositione et conclusione, quem dialectici dicunt rhetoricum syllogismum, quia eo frequenter utuntur oratores pro compendio suo.  (…) Ista est tertia species syllogismorum per quos dialectici subtilissimis disputationibus quae probare nituntur ostendunt». 85 Cfr. Iohannes Scotus Eriugena, De praedestinatione, 3, PL 122, [347440], 366B, ed. E. Mainoldi, Firenze 2003 (Per verba, 18), p. 28, 8-13: «Q uae ratio enthymematis argumento concluditur, quod semper est a contrario, cuius propositio talis est: ‘non et Deus summa essentia sit, et eorum tantum, quae ab eo sunt, causa non sit’; ‘est autem Deus summa essentia’; ‘est igitur eorum tantum, quae ab eo sunt, causa’. ‘Peccatum, mors, miseria a Deo non sunt’; ‘eorum igitur causa Deus non est’». Q uindi con una importante sottolineatura del riconoscimento boeziano della posizione privilegiata che spetta all’enthymematis argumentum tra tutte alle «conceptiones mentis», cfr. ibid., 9, 3, 391B, p. 92, 11-18: «Restant ea, quae contrarietatis loco sumuntur, quibus tanta vis inest significandi, ut quodam privilegio excellentiae suae merito a  Graecis enthymemata dicantur, hoc est, conceptiones mentis. Q uamvis enim omne, quod voce profertur prius mente concipiatur, non tamen omne quod mente concipitur, eandem vim significationis, dum sensibus fervore infunditur, habere videtur. Sicut ergo argumentorum omnium fortissimum est illud, quod sumitur a contrario, ita omnium signorum vocalium aptissimum est, quod ducitur ab eodem contrarietatis loco».

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ipotetico 86. Più tardi sarà Bonaventura di  Bagnoregio a  coniare la  migliore sintesi possibile dell’argumentum anselmiano, con una serratissima conclusione per impossibile: «Si Deus est Deus, Deus est» 87. Anselmo non esplicita invece in  questa forma articolata l’evidenza dimostrativa dell’argumentum, perché è  palese che nei primi capitoli del Proslogion egli si vuole limitare, in  armonia con le istruzioni di Cicerone e Boezio, a utilizzarne in modo immediato e diretto la capacità di svelare l’evidenza della verità in esso implicata: senza cioè svilupparla – come è del resto sempre possibile nei confronti di ogni formulazione di argumenta topici  – in una o  più argumentationes che esplicitino e  consolidino attraverso una mediazione di  passaggi sillogistici la  concatenazione tra le  premesse (‘se aliquid è  concepibile come quo maius cogitari nequit non può non esse’ e ‘Dio è aliquid quo maius cogitari nequit’) e la conclusione (‘dunque Dio est’). Nel Proslogion si limita a sottolineare l’esito dell’inventio dell’argumentum, e non ritiene necessario il passaggio ad uno iudicium per confermarne, mediante una collatio di  passaggi logici, l’efficacia dimostrativa: tale passaggio viene anzi da  lui tacitamente rifiutato come un ostacolo alla stringente correttezza dell’intuizione topica, sufficientemente fondata sul riconoscimento del fatto che la proprie-

86 Cfr.  Anonymus Erfurtensis, Commentarius in  Boethii Consolationem Philosophiae, ed. in E. T. Silk, Saeculi noni auctoris in Boetii Consolationem Philosophiae commentarius, Roma 1935 (Papers and Monographs of   the American Academy in Rome, 9), pp. 191, 19 - 192, 13: «Nam cum Deus sit quo nihil melius excogitari possit, is Deus erit summum bonum, scilicet perfectum bonum; sicut humana ratio probat taliter: quia si Deus non erit tale, scilicet summum bonum, non poterit esse princeps omnium, quia oportebit esse alium Deo praestantiorem in quo sit summum bonum. Sic argumentaberis: ‘aut Deus est summum bonum aut aliud quod sit Deo praestantius et antiquius, id est dignius’. (…) ‘Sed non est aliud Deo scilicet praestantius quod sit summum bonum’, (…) ‘ergo Deus tantum est summum bonum’ (ab inmediato)». Sull’ipotesi (non più sostenibile) dell’editore Edmund T. Silk che il testo sia opera di un anonimo del nono secolo (a suo parere identificabile con Giovanni Scoto stesso), cfr. il mio studio Giovanni Scoto e Remigio di Auxerre: a proposito di alcuni commenti altomedievali a Boezio, in «Studi medievali», 3a Ser., 22/2 (1981), pp. 587-693. 87 Cfr. Bonaventura de Balneoregio, Q uaestiones disputatae de Mysterio Trinitatis, q. 1, a. 1., 29, ed.  studio et cura PP. Collegii a  S.  Bonaventura, in Id., Opera, V, Q uaracchi 1891, p. 48a: «Similiter argui potest: si Deus est Deus, Deus est; sed antecedens est adeo verum, quod non potest cogitari non esse; ergo Deum esse est verum indubitabile».

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tà dell’esistenza è implicita nella veritas della notitia di Dio come quo maius. Perciò Anselmo vieta all’insipiens – o comunque a chi non condivide la piena identità di quo maius e summa natura – di presumere l’esercizio di un giudizio logico sull’enunciato, intuitivo e indubitabile, di tale identità: Si enim aliqua mens posset cogitare aliquid melius te, ascenderet creatura super Creatorem, et iudicaret de Creatore: quod valde est absurdum 88.

Non è  poco significativo, del resto, il  fatto che, viceversa, nella stesura della Responsio a  Gaunilone, obbligato dall’avversario a  scendere sul piano della verifica dei passaggi logici successivi all’immediata evidenza dell’argumentum, egli proceda proprio ad evidenziare le  successive conexiones (o  collationes, o  conclusiones) di  asserzioni delucidatorie dell’inventio (cioè di  successive forme di  iudicium), introducendo apertamente la  nozione di  argumentatio per indicarne ogni successivo sviluppo mediato e discorsivo 89.

8. Il sistema teologico anselmiano, tra lectio scritturale e ratio necessaria È ormai evidente come nel tessuto scrittorio di un intellettuale del mondo monastico alto-medievale, che fin da fanciullo si è eserci88  Proslogion, 3, 228BC, p. 103, 4-6. Cfr. anche De processione Spiritus sancti, 14, 320C, p. 214, 19-22: «Sicut igitur intellectus noster non potest transire ultra aeternitatem, ut quasi de principio eius iudicet, sic non potest de hac nativitate vel processione nec debet ad similitudinem creaturae sentire vel iudicare». 89 Cfr. Responsio, 2, 251AB, p. 132, 10-11: «Dixi itaque in argumentatione quam reprehendis quia cum insipiens audit proferri ‘quo maius cogitari non potest’, intelligit quod audit»; ibid., 3, 252B, p. 133, 6-9: «Fidens loquor, quia si quis invenerit mihi aliquid aut reipsa, aut sola cogitatione existens, praeter ‘quo maius cogitari non possit’, cui aptare valeat connexionem huius meae argumentationis, inveniam et dabo illi perditam insulam amplius non perdendam»; ibid., 10, 260A, p. 138, 28-30: «Puto quia monstravi me non infirma, sed satis necessaria argumentatione probasse in  praefato libello reipsa existere aliquid, quo maius cogitari non possit». Cfr.  il mio saggio «Respondeant pro me» cit. (alla nota 24). Sulla distinzione di argumentum e argumentatio, cfr. Severinus Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, I, 1050B: «Argumentum vero nisi sit oratione prolatum, et propositionum contexione dispositum, fidem facere dubitationi non poterit. Ergo illa per propositiones prolatio ac dispositio argumenti, argumentatio nuncupatur».

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tato su regole e terminologia della disciplina dialectica, la ricorrente precisione terminologica fin qui riscontrata non possa essere considerata casuale, né episodica: in quanto loqui divino, la Rivelazione è meglio compresa grazie a una corretta applicazione degli strumenti di  indagine elaborati dalla scienza umana per analizzare, classificare e  comprendere i  procedimenti di  ogni discorso dotato di senso. Cosciente e  intenzionale deve allora essere considerato l’uso di questo linguaggio anche quando ritorna in altri scritti di Anselmo, come le sue meditazioni e preghiere, apparentemente decontestualizzato da intenti argomentativi, per essere agganciato a prescrizioni e immagini significanti incontrate nel testo sacro. Così, per esempio, nella Oratio a San Pietro, pastore di anime, non è né casuale né semplicemente metaforico l’emergere della successione tecnica di quaestio, inventio e collectio per descrivere la ricerca, il reperimento e la raccolta di anime, sulla cui coerente concatenazione si fonda la realtà meta-storica della Chiesa di Cristo: Petre, pastor Christi, recollige ovem Christi. Dominus tuus imposuit in humeros suos gaudens quaesitam et inventam, ne repellas redeuntem et supplicantem 90.

Il sillogismo è spesso definito dalle fonti dialettiche tardo-antiche come collectio, e  il verbo colligere è  con frequenza utilizzato per indicare le conclusioni necessarie che derivano da due premesse: perché la collectio è sempre lo sviluppo dimostrativo dell’inventio topica 91. La congiunzione tra l’immagine del pastore in cerca della pecora smarrita e la costruzione tecnica dell’argumentatio, scandita dall’apertura di una quaestio e dell’attuarsi di una inventio, è dunque qui finalizzata a illustrare, come esito del reperimento di  un corretto locus argomentativo, il  passaggio alla verace conclusione, che in  questo caso è  la possibilità della redenzione dal peccato. A conferma di  questa lettura, possiamo porre a  confronto altri due passaggi nei quali la stessa terminologia è utilizzata con   Oratio ad sanctum Petrum, 973C, p. 31, 43-45.  Cfr.  Severinus Boethius, In  Topica Ciceronis commentaria, I, PL 64, 1046A: «Iam vero si absit inventio, nequit esse collectio. Non erit igitur necessaria, nec verisimilis, nec sophistica argumentatio». 90

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la stessa struttura formale del discorso, anche se per finalità poste su piani ben distinti: ancora la  ricerca del peccatore nell’Oratio a San Nicola, e l’evidenziarsi della stringata tecnica dell’indagine dimostrativa nel Monologion. Reduc de abysso peccatorum, quem quaesitum invenisti perditum tuum, ne perdas amplius inventum tuum 92. Summum bonum, quod lucerna veritatis quaesitum et inventum est 93.

L’utilizzo, anche in contesti non specificamente ‘argomentativi’, di queste linee portanti che guidano l’espressione e l’organizzazione del sapere teologico evidenzia, in ultima analisi, il fatto che ciò che ‘è detto’ nella Scrittura non soltanto può, secondo Anselmo, ma deve essere oggetto di conoscenza razionale da parte del credente. Proprio in  questo modo, infatti, dalla comprensione di ciò che ‘è detto’ nella Scrittura potrà sprigionarsi anche la comprensione di quanto ‘non vi è detto’, ma che è intimamente collegato e conseguente alle sue parole, secondo la valutazione di una ragione capace di  seguire le  implicazioni necessarie della verità. Così, come Anselmo chiarisce nel De processione Spiritus sancti, la  Bibbia non dice mai apertamente («his verbis») che Dio sia uno e trino, né mai vi si legge alcun riferimento a termini come «Trinitas» o  «persona»; e  tuttavia la  verità del mistero trinitario è rigorosamente conseguente alla verità di altre cose che vi sono scritte. La fede dell’uomo deve dunque credere sia alle parole esplicite della rivelazione, sia a  quelle implicite nella rivelazione ma deducibili mediante la ragione: Potius docemur per haec quae sic dicta sunt, ea, quae in similibus dictis tacentur similiter intelligere, praesertim cum ex his quae dicuntur, nulla ratione contradicente ea quae non dicuntur rationabili necessitate consequi apertissime viderimus. (…) Denique ubi legimus in propheta aut evangelista aut apostolo his verbis deum unum esse tres personas, aut unum deum esse trinitatem, aut deum de deo? Sed neque in illo symbolo, in quo non est prolata processio sancti Spiritus de Filio, invenimus nomen personae vel trinitatis. Q uoniam tamen ex iis   Oratio ad sanctum Nicolaum, 1004A, p. 60, 167-168.   Monologion, 19, 169A, p. 34, 13-14.

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quae legimus haec apertissime sequuntur, constanter ea et corde credimus et ore confitemur. Q uare non tantum suscipere cum certitudine debemus quae in Sacra Scriptura leguntur, sed etiam ea quae ex his nulla alia contradicente ratione rationabili necessitate sequuntur 94.

A questo genere di  verità, inespresse nella Scrittura ma necessariamente deducibili da essa, e quindi credibili, appartiene appunto l’opportuna affermazione nella liturgia trinitaria latina della partecipazione del Figlio alla processione dello Spirito santo, espressa dalla formula filioque che i Greci rifiutano. Ma tale deducibilità, fra altri processi argomentativi intrecciati nello stesso trattato, appare anche come una immediata consequenza della medesima, centrale meditazione sull’identità assoluta in  Dio di verità e di conoscenza della verità che ha sostenuto e alimentato nel Monologion le molteplici articolazioni della intelligibilità della «summa substantia» divina da  parte della mente umana. Le parole di  Cristo stesso, nel Vangelo di  Matteo, proclamano infatti che la  piena e  vera conoscenza (notitia, da  «noscere») della ‘sostanza’ del Padre compete al  Figlio e  a  quanti il  Figlio la vuole rivelare. Ma da questo enunciato di fede la ragione umana deve dedurre che tale notitia non può competere solo al  Padre e al Figlio e non allo Spirito, perché questo implicherebbe nella terza persona una differenza e  una minorazione rispetto alle prime due. Siccome invece è certo che l’«essentia» dello Spirito è  proprio la  «notitia» o  conoscenza amorosa reciproca che lega il Padre al Figlio, restano solo due conclusioni possibili: o lo Spirito ‘ha’ tale notitia o scientia perché gli è rivelata dal Figlio; oppure lo Spirito ‘è’ tale notitia, perché la  perfetta conoscenza reciproca è  proprio ciò che assicura l’identità di  Padre e  Figlio tra loro e  di entrambi con lo Spirito. I  Greci sono liberi di  scegliere tra queste due possibilità, perché da  entrambe, secondo Anselmo, scaturisce per necessità logica la  verità del Filioque. Poiché infatti la notitia è l’«essentia» divina, se essi ammettono che lo Spirito conosce il  Padre grazie alla rivelazione del Figlio, devono riconoscere che lo Spirito riceve dal Figlio il  conoscere e l’essere: e quindi, poiché la fede afferma che procede dal Padre,   De processione Spiritus sancti, 11, 314B-315B, pp. 208, 8-11 e 209, 9-16.

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è  necessario concludere che procede anche dal Figlio. Se invece ammettono che lo Spirito è  la conoscenza reciproca del Padre e  del Figlio, è  evidente che anche la  terza persona partecipa di tale conoscenza in modo eguale alle altre due persone: è poiché il Padre è identico al Figlio, e la fede afferma che lo Spirito procede dal Padre, allora è necessario credere che lo Spirito procede anche dal Figlio 95. Con questa articolata dimostrazione, Anselmo si inoltra arditamente, una volta di  più, nell’illustrazione della perfetta univocità tra il  linguaggio della confessione di  fede e  quello della dimostrazione razionale applicata ai contenuti della rivelazione. Ai Greci che fondano la loro polemica sull’osservazione che nei testi sacri (Scrittura e  tradizione conciliare) non si trova alcuna esplicita indicazione sulla legittimità del Filioque, egli oppone la  forza con cui la  razionalità, applicata a  quei medesimi testi, deduce con correttezza, e  senza contraddittorietà («nulla ratione contradicente») la rationabilis necessitas di una migliore comprensione, e quindi di una più precisa formulazione, della confessione di fede su essi fondata. Con l’aggiunta del Filioque i Latini non hanno fatto altro, rispetto ai Greci, se non esplicitare qualcosa la cui verità, in quanto coerentemente congiunta con la verità della fede condivisa, viene fatta a sua volta oggetto di fede («credere et confiteri»):

95 Cfr. ibid., 7, 305A-306B, pp. 198, 5 - 199, 23: «Audimus quia ‘nemo novit Patrem’, aut Filium, nisi Pater, aut Filius, et cui ‘revelat Filius’ (cfr. Mt 11, 27). (…) Omnino igitur nullus habet hanc notitiam, nisi Pater et Filius, et cui Filius idem revelat. Aut itaque Spiritus sanctus non cognoscit Patrem et Filium, quod impium est opinari; aut Filius revelat ei sui et Patris scientiam, quae non est aliud quam eiusdem Spiritus sancti essentia. (…) Eligant itaque Graeci unum de duobus, si aperte veritati nolunt resistere: aut scilicet Spiritum sanctum non nosse Patrem et Filium nisi revelante Filio; aut propterea, quia in  hoc per quod se cognoscunt Pater et Filius unum sunt cum Spiritu sancto, quando ipsi dicuntur se nosse, consequi ex necessitate ut in eadem notitia intelligatur Spiritus sanctus. (…) Si quidem eligunt Spiritum sanctum nosse Patrem et Filium per revelationem Filii, habet a Filio nosse, quod non est aliud illi quam esse; est igitur et procedit a Filio, quoniam ab illo procedit a quo est. Si autem dicunt, cum Pater et Filius dicuntur nosse se, quia essentia, per quam se noscunt, eadem est Spiritui sancto, consequi Spiritum sanctum eiusdem esse consortem notitiae, cum legunt illum ‘a Patre procedere’ (Jo 15, 26), de quo ait Filius ‘Ego et Pater unum sumus’ (Jo 10, 30), confiteantur nobiscum, propter essentialem identitatem Patris et Filii, illum a Filio quoque proculdubio procedere».

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Q uod quam necessarium fuerit, per illos qui hoc negant quia in illo Symbolo positum non est, cognoscimus. Q uoniam igitur et necessitas cogebat et ratio nulla prohibebat et vera fides hoc admittebat, fiducialiter asseruit Latinitas quod credendum et confitendum esse cognoscebat. Scimus enim quod non omnia quae credere et confiteri debemus ibi dicta sunt, nec illi qui symbolum illud dictaverunt, voluerunt fidem Christianam esse contentam ea tantummodo credere et confiteri quae ibi posuerunt 96.

È dunque evidente come – pur in assenza, ancora, del nome che comincerà a caratterizzarla solo a partire dalle generazioni di intellettuali a  lui posteriori  – la theologia cristiana (o  sacra doctrina) sia nelle opere anselmiane già evidentemente operante con legittimità di metodo e nell’ottica di conseguire una produttiva chiarificazione di qualsiasi incertezza nei confronti della verità di fede. La razionalità creata vi appare pienamente capace di ‘dire’ tutto ciò che è necessariamente contenuto nelle formula della fede, sia in modo esplicito, sia in modo non esplicito. Il lettore dei tempi di  Anselmo comprendeva con chiarezza quali parole della filosofia, e con quali esiti, egli avesse introdotto nei propri testi per chiarire, estendere e consolidare il significato delle parole della fede: con esiti radicalmente diversi, dunque, da quelli degli interventi abusivi degli eretici o dei miscredenti, che si addentrano, facendosi largo con strumenti inadeguati e  senza correttezza logico-scientifica, tra le verità enunciate dalla Scrittura e già correttamente illustrate e interpretate dai Padri. L’obiettivo unico della meditazione teologica di Anselmo – come egli affermava programmaticamente contro la  vanificazione del sapere razionale promossa da Roscellino – rimane infatti «intelligere» a vantaggio della fede («pro fide nostra») ciò che già è oggetto indiscutibile di un «firmissime credere»: In quibus, si aliquid quod alibi aut non legi aut non memini me legisse – non quasi docendo quod doctores nostri nescierunt, aut corrigendo quod non bene dixerunt, sed dicendo forsitan quod tacuerunt, quod tamen ab eorum dictis non discordet, sed illis cohaereat –, posui ad respondendum pro fide nostra contra eos, qui nolentes credere quod non intelligunt   Ibid., 317BC, p. 211, 14-20.

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LEGGERE ANSELMO

derident credentes, sive ad adiuvandum religiosum studium eorum, qui humiliter quaerunt intelligere quod firmissime credunt, nequaquam ob hoc me redarguendum existimo 97.

Elaborata nel corso dei secoli dall’intelligenza umana per fissare elementi sicuri e fermi nel processo conoscitivo che la accosta alla rectitudo eterna delle realtà universali nel Pensiero divino, la  lingua della filosofia (ossia delle arti liberali) è  un supporto talmente indispensabile al  credente medievale che è  necessario da  parte dei lettori moderni sforzarsi di  coglierla, per intendere il loro pensare, nella sua autentica efficacia, storicamente determinata, ossia adeguatamente contestualizzata nel panorama mentale e educativo in cui è operante. Non è legittimo, inversamente, mettere in  campo, per entrare nell’ordito speculativo del testo di Anselmo, strumenti o processi mentali estranei alla sua competenza e che, trapiantati in un contesto cui non appartengono, non possono che alterarne la  sincera omogeneità argomentativa originale della sua prosa. Tanto meno è  legittimo isolare le  sue argomentazioni dalle esigenze speculative da  cui scaturiscono, perché proprio tali esigenze ne giustificano e ne guidano la genesi e i processi. Come sarebbe assurdo argomentare sulla correttezza o meno del Filioque in un contesto di disinteresse o di mancata comprensione per il significato della dottrina trinitaria cristiana, allo stesso modo per nessuna delle procedure dimostrative messe in atto nelle opere anselmiane avrebbe alcun senso deviarle dall’intenzione fondamentale della sua scrittura: che è  quella di  rielaborare in  forma di  linguaggio umano l’univocità certa ma non evidente del discorso con cui Dio parla agli uomini e li informa. Il che significa che tutte le molteplici e tra loro concatenate argomentazioni contenute nel corpus dei suoi scritti speculativi sono finalizzate al sostegno documentario e alla autentica finalizzazione, come si legge nel passaggio appena ricordato dalla requisitoria contro Roscellino, di un «religiosum studium» da parte dei credenti: espressione che non può non apparire indicativa di un vero e proprio programma speculativo, che doveva ricalcare, come già nel nome anche nelle forme e  nelle attuazioni concrete, gli insegnamenti di  quello «studium sapientiae» (o  filosofia) che   Epistola de incarnatione Verbi, 273A, pp. 20, 21 - 21, 4.

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GIULIO D’ONOFRIO

coincideva per gli intellettuali dell’alto Medioevo con l’esercizio e la pratica delle arti liberali. Ci sono state epoche nella storia dell’umanità in cui i movimenti di pensiero più complessi e arditi hanno trovato adeguata possibilità e capacità di esprimersi, oltre che nelle forme letterarie ritenute tradizionalmente più adatte come quella del trattato o anche del dialogo, anche mettendo a frutto il ricorso al linguaggio meno diretto ma più espressivo della letteratura e  della poesia 98. Nella più recente fase della civiltà medievale è forse difficile incontrare nel contesto della produzione scolastica adeguate concretizzazioni di  questa generale potenzialità: a  parte alcune, quanto mai significative eccezioni (Dante, prima di  chiunque altro), la  speculazione filosofica e  teologica dei secoli xiii e  xiv si esprime mettendo in  opera un tecnicismo puro ed essenziale, regolamentato da  formalismi ricorrenti e  condivisi. Q uasi cent’anni prima della nascita delle università, l’opera di  Anselmo d’Aosta offre invece una significativa testimonianza inversa. Pensatore e, insieme, poeta (poiché prodotti di squisita raffinatezza poetica sono le sue Orationes e Meditationes), egli non è meno poeta quando si investe rigorosamente del compito del pensatore di quanto non sia pensatore quando canta da poeta. Una rara sintesi di abilità tecnica ed elegante ricercatezza formale lo impone senza dubbio come uno dei più grandi scrittori dell’alto Medioevo occidentale. E tuttavia, assai elevato è il rischio di compromettere la valutazione di questa sua grandezza, se si perde di vista quanto la  lucida intensità dei suoi pensieri prenda vita dalla perfezione tecnica che dà forma alla loro espressione.

98 Cfr.  G. Gentile, Dante nella storia del pensiero italiano (1905), in Id., Studi su Dante, a c. di V. C. Bellezza, Firenze 1965 (nuova ed. 2004), [pp. 3-52], p.  3-5; e  E.  Paratore, La  letteratura latina dell’età imperiale, Milano 1969 (Le letterature del mondo, 47), p. 241.

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LA NUOVA FRONTIERA ERMENEUTICA DELLE OPERE SPECULATIVE DI ANSELMO. PROBLEMI E PROSPETTIVE

La ricorrenza del nono centenario della morte di  Anselmo d’Aosta (1033-1109) offre l’occasione, oltre che di fare un bilancio della rinnovata ermeneutica dei testi anselmiani, prodotta internazionalmente a  partire dagli anni sessanta del ventesimo secolo, di affrontare in modo più consapevole e maturo alcuni nodi interpretativi del suo pensiero filosofico e teologico. Non intendo affrontare in questa sede la mappatura della vasta bibliografia, per la quale rinvio alle principali opere più recenti 1; intendo piuttosto affrontare problemi ermeneutici antichi ed ancora oggi sottoposti a discussione, incominciando dall’annosa disputa sulla possibilità di  distinguere in  modo netto tra opere filosofiche e  opere teologiche nella produzione di Anselmo, disputa riconducibile ad una mancata collocazione contestuale dell’accezione dei termini filosofia e teologia alla fine del secolo xi. Di una mancanza di prospetticità è frutto la contrapposta accusa, ora di razionalismo, ora di  fideismo, ripetutamente rivolta ad Anselmo dalla tradizione storiografica. 1 Ho deliberatamente escluso, nei singoli passaggi esegetici dei testi di Anselmo, il  richiamo della bibliografia specifica, anche perché, essendo molto ampia, avrebbe molto appesantito il presente saggio. Si tratta di una bibliografia continuamente e  massicciamente riprodotta negli studi su Anselmo, e  dunque facilmente reperibile da  tutti. Mi limito, in  base a  una scelta soggettivamente mirata, a rinviare ai seguenti volumi: B. Goebel, Rectitudo. Wahreit und Freiheit bei Anselm von Canterbury. Eine philosophische Untersuchung seines Denkenansatzes, Münster 2001 (BGPTMA, N. F., 56); M. Leonor Xavier, Razào e ser. Tres questioes de ontologia em Santo Anselmo, Porto 1999; N.  Albanesi, Cur Deus homo: la  logica della redenzione. Studio sulla teoria della soddisfazione di S. Anselmo arcivescovo di Canterbury, Roma 2002; A. Luiso, Il grande koan. Le disavventure dell’argomento ontologico, Napoli 2007.

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 77-105 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112912

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Una querelle temporalmente distesa riguarda poi la  corretta accezione di  espressioni come sola ratione, rationes necessariae, rationis necessitas, coinvolgente l’ermeneutica di  termini come fides, ratio, intellectus, necessitas. Resta altresì aperta la discussione circa l’interrogativo se la speculazione anselmiana possa essere proiettata in direzione della teologia speculativa, che ha avuto la sua espansione prima nelle opere teologiche di  suoi immediati successori, come Pietro Abelardo, Pietro Lombardo, Alano di  Lilla, e  che venne successivamente ripresa nella linea più strutturata epistemologicamente della sacra doctrina del secolo xiii, quella della grande fioritura della scolastica medievale; oppure se non si debba pensare ad Anselmo come coinvolto in una linea di teologia contemplativa, talora sbrigativamente connotata come mistica, nella direzione delle opere dei maestri delle scuole monastiche del secolo xii, in particolare delle scuole dei Cisterciensi o dei Vittorini.

1. Introduzione: le principali emergenze ermeneutiche L’impegno di questa riflessione è quello di offrire un contributo volto a dirimere in parte alcuni dei punti controversi, senza pretesa di chiudere il dibattito. Si cercherà così di mostrare, attraverso una puntualizzazione critica relativa ad alcuni passaggi dei testi anselmiani, la necessità di superare la richiesta di distinzione tra opere caratterizzabili come opere di pura filosofia e opere qualificabili come strettamente teologiche, poiché tale distinzione netta è legata ad una forzatura nell’accezione dei termini filosofia e teologia: la storiografia più recente ha infatti riconosciuto come essi siano assunti nel secolo di Anselmo con una valenza ben diversa da quella che i due termini riceveranno a partire dal secolo xiii. Trattando del celebre unum argumentum, noto nella storiografia filosofica come ‘argomento ontologico’, vedremo emergere come l’affermazione del capitolo 4 della Risposta di Anselmo a Gaunilone, per cui l’esistenza dell’«id quo maius cogitari nequit» non può essere pensata negativamente nemmeno dal solo pensiero 2,  Cfr. Responsio, 4, 253B, p. 134, 4-6: «Illud vero solum non potest cogitari non esse, in quo nec initium nec finem nec partium coniunctionem, et quod non nisi semper et ubique totum ulla invenit cogitatio». 2

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raggiunga il risultato della definitiva esclusione, per via di confutazione o elenchos, di ogni istanza riconducibile all’atteggiamento dell’insipiens, allorquando questi volesse negare la costituzione del principio del cogitare e  dell’intelligere della mente. Nel libro IV della Metafisica Aristotele mostra che chiunque pretende di negare il valore del principio di non contraddizione, lo afferma, diversamente la  sua negazione non potrebbe consistere, non potrebbe stare, perché non si concede la stabilità dei significati di qualsiasi affermazione 3; analogamente nella prospettiva di Anselmo l’insipiente che volesse sostenere che l’«id quo maius cogitari nequit» non solo non sussiste nella realtà, ma che non si dà nemmeno nel pensiero, finisce col negare che si costituisca alcun significato delle parole che pensa. Per Anselmo infatti il negatore non può pensare che Dio non esista, anche se può materialmente dire queste parole, perché esse non possono avere alcun significato, ossia si annulla la loro portata significativa, come nel caso di uno che dicesse che ‘il nulla esiste’: due parole che si autoelidono, non potendo assurgere ad un significato congiunto. Una ulteriore anticipazione di emergenza ermeneutica riguarda la dialettica anselmiana: affiora con chiarezza l’istanza della ratio anselmiana come veicolatrice di una riformulazione dei compiti della teologia, attraverso un programma teologico che si distacca dal modello dionisiano: la teologia non viene più protesa unidirezionalmente al superamento della negazione per lasciare spazio alla superlativa ‘tenebra luminosissima’, ma si assesta con molta lucidità nell’ammissione delle affermazioni antitetiche. Anselmo accoglie il paradosso come benefico e ne fa l’insostituibile punto di  approdo per caratterizzare l’essere di  cui non si può pensare il maggiore. Si tratta della «necessità ellittica», come la chiama Nicola Albanesi, riprendendo la formula della «logica dei doppi pensieri», felicemente illustrata da Italo Mancini qualche decennio fa 4; e a me sembra rinvenibile chiaramente nei capitoli 5-15   Aristoteles, Metaphysica, IV, 4, 1006a11-28.  Cfr. Albanesi, Cur Deus homo: la logica cit., pp. 147-148: «Il pensiero di Anselmo è dunque un pensiero ellittico, con due fuochi che non si fondono mai, ma che stanno in tensione polare permanente (…). Anselmo non arriva mai alla sintesi dialettica o all’unione sovraeminente dei contrari. Il movimento del suo pensiero si muove nella tradizione di  Calcedonia della conciliazione degli opposti senza fusione né separazione dell’unità polare». Cfr.  I. Mancini, 3 4

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del Proslogion, nei quali Anselmo mette in  atto una circolarità ternaria tra «id quo maius cogitari nequit», «quiddam maius» e  «summum omnium». Il  Dio che viene alla prova è  identico al «quiddam maius», è infatti qualcosa di più grande di quanto si possa pensare, e perciò qualificabile come il sommo di tutti, ossia, in termini nostri, è la perfezione somma o assoluta, ovvero la totalità dell’essere. Da qui il carattere ellittico o antinomico di ogni comprensione positiva di  Dio: lo sforzo del pensiero è  quello di portare alla luce l’inesprimibile, mediante antinomie che non comportano l’elisione reciproca: Dio è sensibile e senza sensi; Dio è onnipotente e non può fare certe cose; è misericordioso e impassibile; buono con i buoni e buono con i malvagi; è illimitato ed è  ovunque; è  giusto e  misericordioso. Sono antinomie che pongono e  depongono all’interno di  un rapporto non distruttivo, bensì dotato di capacità contentiva absque contradictione, perché in  tutti e  due i  poli, dell’affermazione e  della negazione, il  referente accogliente è  ‘maggiore di  ciò che noi possiamo pensare’, e dunque la contraddizione è sospesa dalla distanza tra la condizione in cui Dio è (Anselmo dice che Dio abita una luce inaccessibile) e la condizione in cui si trova a pensare la nostra mente, che si assesta sempre in un minus quam, per rapporto a ciò che è maius quam, eccedente la possibilità del pensare.

2. La dialettica di ragione e autorità nel Monologion Nel Prologo del Monologion, opera composta nel 1076 mentre era priore del monastero del Bec, Anselmo racconta l’occasione della composizione del trattato e ne articola il contenuto: Q uidam fratres saepe studioseque precati sunt ut quaedam qua illis de meditanda divinitatis essentia et quibusdam aliis huiusmodi meditationi cohaerentibus usitato sermone colloquendo protuleram, sub quodam eis meditationis exemplo describerem 5.

A una prima lettura il Monologion sembra essere un’opera di filosofia; Anselmo illustra con chiarezza il metodo dell’indagine: Teologia e filosofia. I doppi pensieri e la logica della fede, in «Asprenas», 36 (1989), pp. 5-21. 5  Monologion, Prol., 142C-143A, p. 7, 2-5.

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Cuius scilicet scribendae meditationis, magis secundum suam voluntatem quam secundum rei facilitatem aut meam possibilitatem, hanc mihi formam praestituerunt: quatenus auctoritate scripturae penitus nihil in  ea persuaderetur, sed quidquid per singulas investigationes finis assereret, id ita esse plano stilo et vulgaribus argumentis simplicique disputatione et rationis necessitas breviter cogeret et veritatis claritas patenter ostenderet 6.

Il nostro autore indica con precisione ciò cui la  mens è  capace di giungere: Si quis unam naturam, summam omnium quae sunt, solam sibi in  aeterna sua beatitudine sufficientem, omnibusque rebus aliis hoc ipsum quod aliquid sunt aut quod aliquomodo bene sunt per omnipotentem bonitatem suam dantem et facientem  (…) ignorat, puto quia ea ipsa ex magna parte, si vel mediocris ingenii est, potest ipse sibi saltem sola ratione persuadere 7.

Lo sviluppo del Monologion avviene in modo conforme al metodo enunciato: nei capitoli 1-4 Anselmo dimostra che vi è una somma essenza; nei capitoli 7-8 prova che le cose altre dalla somma essenza sono state fatte dal nulla; nel capitolo 9 che prima di essere create, esse erano già qualcosa nella mente del creatore; nel capitolo 10, proprio quest’ultimo dato gli permette di  dimostrare che si dà una locutio mentis del creatore 8; nel capitolo 15 l’indagine su quali predicati possano convenire alla sostanza increata è condotta dalla ratio 9; e di seguito Anselmo prova che la somma natura è la sola «qua penitus nihil est melius» 10. Certo egli non nega che la ragione abbia dei limiti: nel capitolo 36 scrive che se è vero che le sostanze create sono più in se stesse che nella nostra conoscenza, è però anche vero che esse sono più nella conoscenza del Creatore che in se stesse; dunque, conclude,

6  Ibid.,  143A, p.  7,  5-11. Si noti che le  espressioni «rationis necessitas» e «veritatis claritas» sono riferite a «quidquid per singulas investigationes finis», ossia a «qualunque conclusione di ogni singola riflessione». 7   Ibid., 1, 144C-145A, p. 13, 5-11. 8 Cfr. ibid., 10, 158B, p. 24, 24-29. 9 Cfr. ibid., 15, 162A-163B, pp. 28, 3 - 29, 9. 10  Ibid., 163C, p. 29, 20.

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è chiaro che la scienza umana non può conoscere come sono le cose così come sono nella conoscenza del Creatore 11. Nel capitolo 64, poi, distingue la conoscenza del fatto che la somma essenza è dalla conoscenza del come essa è: Videtur mihi huius tam sublimis rei secretum transcendere omnem intellectus aciem humani, et idcirco conatum explicandi qualiter hoc sit continendum puto. Sufficere namque debere existimo rem incomprehensibilem indaganti, si ad hoc ratiocinando pervenerit ut eam certissime esse cognoscat, etiamsi penetrare nequeat intellectu quomodo ita sit.  (…) Q uapropter si ea quae de summa essentia hactenus disputata sunt necessariis rationibus sunt asserta, quamvis sic intellectu penetrari non possint ut et verbis valeant explicari, nullatenus tamen certitudinis eorum nutat soliditas 12.

I limiti ora esplicitati sono fissati e spiegati dalla ratio stessa: nel primo caso si tratta di un limite che «manifestissime comprehendi potest»; circa il secondo caso, il nostro autore si premura di illustrare nel capitolo successivo per quale ragione accada che benché le  caratteristiche della somma essenza (quanto al  suo essere trinitario) siano state spiegate con ragioni vere, essa resta ineffabile: perché, scrive Anselmo, qualunque nome possa essere detto di quella natura, esso non tanto la manifesta («ostendere») per mezzo di una proprietà a lei propria, bensì l’accenna («innuere») tramite qualche similitudine 13. Se ne deve concludere che la ragione ha la capacità di condurre sia l’indagine su quali predicati possono convenire alla somma essenza, sia l’indagine su quale sia il limite e dell’indagine predetta, e del convenire alla somma essenza di tali predicati. Ciononostante, non mancano passaggi che sollevano dubbi sulla tesi secondo cui il Monologion sarebbe un trattato puramente filosofico. 11  Cfr. ibid., 36, 190A, p. 54, 16-18: «Manifestissime comprehendi potest, quomodo dicat idem spiritus vel quomodo sciat ea quae facta sunt, ab humana scientia comprehendi non posse». 12  Ibid., 64, 210BC, pp. 74, 30 - 75, 10. 13 Cfr. ibid., 65, 211D-212A, p. 76, 19-24: «Hac itaque ratione nihil prohibet et verum esse quod disputatum est hactenus de summa natura, et ipsam tamen nihilominus ineffabilem persistere: si nequaquam illa putetur per essentiae suae proprietatem expressa, sed utcumque per aliud designata. Nam quaecumque nomina de illa natura dici posse videntur, non tam mihi eam ostendunt per proprietatem quam per aliquam innuunt similitudinem».

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Un primo aspetto del problema consiste nel rapporto che Anselmo pone tra ratio e auctoritas. Nel prologo all’opera il priore del Bec afferma che, in seguito alle richieste dei suoi confratelli, egli avrà l’obbligo di parlare di Dio e della Trinità senza appoggiarsi all’autorità della sacra Scrittura. Così dicendo, egli stabilisce una distinzione tra il sostenere una tesi invocando l’autorità della Scrittura e il sostenere la stessa tesi per mezzo di argomenti la cui forza sta nella necessitas rationis e nella veritatis claritas. Nel Monologion tuttavia l’auctoritas è tutt’altro che accantonata: al termine del prologo lo stesso Anselmo si propone al lettore come rispettoso dell’autorità dei Padri, e  dichiara di  non aver scritto nulla che non si trovi negli scritti dei Padri e di Agostino in particolare; invita pertanto chi vedesse nelle sue tesi dottrine troppo nuove a confrontarle con quelle espresse da Agostino nel De Trinitate 14. Poche righe più avanti scrive che qualora egli abbia affermato qualcosa che non sia sostenuto da una più grande autorità, ciò che ha detto dev’essere inteso non come assolutamente necessario, bensì come provvisoriamente necessario 15. Va inoltre evidenziato il  fatto che Anselmo utilizza talvolta il termine ‘credere’ in riferimento a verità che egli ha dimostrato a  prescindere dai contenuti della religione cristiana. Abbiamo sopra ricordato la  tesi per cui colui che indaga razionalmente la natura trinitaria può giungere a determinare con certezza che essa è, ma non può giungere a determinare come essa sia. L’esposizione di quella posizione è seguita da queste parole: Nec idcirco minus iis adhibendam ‹sit› fidei certitudinem quae probationibus necessariis nulla alia repugnante ratione asseruntur si suae naturalis altitudinis incomprehensibilitate explicari non patiantur 16.

La domanda che sorge è: perché Anselmo introduce la figura della fede? Abbiamo visto che la certezza su ciò che può essere conosciuto è  stata conseguita da  Anselmo tramite argomentazioni necessarie («probationibus necessariis»), senza alcun ricorso all’autorità della Scrittura. Perché ora il nostro autore afferma che  Cfr. ibid., Prol., 143C-144A, p. 8, 8-20.  Cfr. ibid., 1, 145AB, p. 14, 1-4. 16  Ibid., 64, 210BC, p. 75, 3-6. 14 15

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se anche vi sono nella Trinità aspetti per l’uomo strutturalmente ignoti, nondimeno a  quelle cose che sono state dimostrate con argomentazioni necessarie va applicata la  certezza della fede? Se quelle cose sono certe perché sono state provate con argomentazioni necessarie, come si può dire che ad esse va applicata la certezza della fede? Come può qualcosa essere certo sia per argomentazione necessaria, sia per fede? Si potrebbe rispondere a  questa domanda dicendo che tra le cose certe per fede ve ne sono alcune certe anche per via argomentativa. Una tale risposta solleva due difficoltà: in primo luogo ci si può chiedere se, una volta che una verità creduta fosse stata dimostrata, questa sarebbe ancora creduta? In  secondo luogo, nelle pagine del Monologion non è  in questione solo l’esistenza di Dio, o la sua eternità; è in questione la natura della Trinità, circa la quale Anselmo ritiene di poter mostrare che è una, che è trina e in qual modo è una, ma di non poter mostrare in qual modo sia trina. La medesima posizione è rinvenibile nel capitolo 79, dove si legge: «Ecce patet omni homini expedire, ut credat in quandam ineffabilem trinam unitatem et unam trinitatem. Unam quidem et unitatem propter unam essentiam, trinam vero et trinitatem propter tres nescio quid» 17. Va dunque ribadita la  conclusione vista: Anselmo afferma che, circa la Trinità, è bene credere a tutto ciò che egli ha razionalmente argomentato. Un modo per risolvere la  difficoltà ora incontrata potrebbe essere il  seguente: il  Monologion è  un trattato di  teologia sacra, positiva; è, cioè, una riflessione condotta a partire da dati di fede e del tutto interna alla religione; la ratio, in quest’ottica, sarebbe solo uno strumento, tramite il quale esplicitare i contenuti della religione cristiana. Q uesta interpretazione, tuttavia, contrasta con l’ipotesi di lettura precedentemente formulata e, come si è visto, ben supportata dal testo: quella per cui il Monologion è un trattato di filosofia o di teologia razionale. Il conflitto tra le due interpretazioni richiede pertanto un approfondimento. Ciò su cui occorre innanzi tutto fare chiarezza è  che cosa Anselmo intenda per ratio e per fides. Il primo termine ha almeno due significati, non sempre ben distinguibili. Il  primo è  quello di ‘ciò in forza di cui si giunge a una certa conclusione’; se ne trova   Ibid., 79, 221C, p. 85, 12-14.

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un esempio nell’espressione «hac itaque ratione» 18. Il  secondo è quello di ‘capacità della mente di conoscere le cose’; prove della sua presenza nel Monologion sono il fatto che Anselmo usa come equivalenti le  espressioni «locutionem mentis» e  «locutionem rationis» 19 e utilizza il sintagma «mens rationalis» 20. Tale capacità, poi, ha due caratteristiche: innanzitutto è  capacità dialettica, capacità di argomentare; in secondo luogo, ma anteriore per importanza, è  la capacità della mente o  dello spirito dell’uomo di far presa sul conosciuto sia a livello di conclusione del ragionamento, sia a livello di presupposti dello stesso: lo dimostra l’intero Monologion e, in particolare, ciò che Anselmo scrive nel capitolo 65 a proposito del modo in cui i nomi tratti dalle creature possono essere utilizzati per indicare la natura della Trinità. Ha dunque colto nel segno Hans Urs von Balthasar, quando scrive che «diese Vernunft [scil. di Anselmo] hat sosehr Eigencharakter, daß sie weder durch Rückbeziehung auf  den intellectus der Patristik noch durch Vorausdeutung auf  die hochscholastiche ratio festgelegt warden kann. Vernunft ist für Anselm das Sehvermögen des Geistes in einem ursprünglichsten Sinn. Denken heißt, eine Sache geistig schaubar machen» 21. Più complesso è il discorso sui significati di fides. Q uesto termine compare raramente nel Monologion, mentre molto diffuso è il verbo credere, ed i termini credere e fides sono connessi dallo stesso Anselmo. Nel capitolo 78 egli scrive: «per quanta sia la certezza con cui si crede a una realtà tanto grande», ossia alla Trinità, «la fede sarà inutile e qualcosa di pressoché morto se non ha forza e vive in virtù dell’amore» 22. Parrebbe, dunque, che gli ambiti del credere e della fede siano equivalenti; dunque è possibile chiarire i significati del raro fides esaminando i significati del più frequente credere, che sono fondamentalmente tre.   Ibid., 65, 211D, p. 76, 19.   Ibid., 10, 158B, p. 24, 27. 20  Ibid., 15, 163CD, p. 29, 23. 21  H.-U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik, 7 Bde., II, Fächer der Stile: Klerikale Stile, Einsiedeln 1962, p. 226 (tr. it., Gloria. Una estetica teologica. II, Stili ecclesiastici, Milano 1978, p. 199). 22   Monologion, 78, 220C, p. 84, 16-17: «Q uantacumque certitudine credatur tanta res, inutilis erit fides et quasi mortuum aliquid nisi dilectione valeat et vivat». 18 19

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Il primo di  essi è  desumibile dal prologo del Monologion, dove si pone una distinzione tra il  sostenere una tesi basandosi sull’autorità della Scrittura e  il sostenere la  stessa tesi perché se ne ha conoscenza dimostrativa e chiara 23. L’importanza del passo sta nel fatto che esso suggerisce che il  Monologion sia un’opera di filosofia pura, di teologia razionale, ma si deve aggiungere che proprio il medesimo passo rende problematica questa interpretazione. Il  fatto è  che il  prologo del Monologion non contiene né il sostantivo fides, né il verbo credere, pertanto esso non permette di stabilire che Anselmo ritenga equivalenti il sostenere una tesi basandosi sull’autorità della Scrittura e  il sostenere una tesi per fede, credendola. Vengono in  nostro parziale aiuto le  prime righe del primo capitolo: Anselmo scrive che se qualcuno ignora la  realtà della natura somma e  le altre verità relative ad essa e  alla creazione, costui ha comunque la  possibilità di  giungere alla conoscenza della maggior parte di esse. Il nostro autore si preoccupa di indicare le ragioni di tale ignoranza: «aut non audiendo, aut non credendo ignorat» 24. Anselmo lega audire e credere con la formula disgiuntiva «aut… aut»; se ne deduce che egli pensa a queste due attività come alternative l’una dell’altra. Ciò implica da un lato che l’audire non può significare genericamente ‘aver sentito dire che le cose stanno così’, ma esso dovrà significare ‘aver avuto spiegazione del fatto che le cose stanno così’; dall’altro lato che credere significa un aderire senza aver avuto spiegazione, senza aver avuto prove razionali del fatto che le cose stanno così. In conclusione, in questo contesto credere parrebbe avere il significato di ‘affermare qualcosa senza averne conoscenza evidente direttamente o per via di  argomentazione’. Pur non pretendendo di  aver esaurito l’intera estensione del significato di credere, tuttavia riceve una qualche spiegazione l’espressione di Anselmo per cui colui che ignora le  cose precedentemente elencate «per quanto sia di  ingegno mediocre possa persuadere se stesso di gran parte di queste almeno

23 Cfr. ibid., Prol., 143A, p. 7, 7-11: «Q uatenus auctoritate scripturae penitus nihil in ea persuaderetur, sed quidquid per singulas investigationes finis assereret, id ita esse plano stilo et vulgaribus argumentis simplicique disputatione et rationis necessitas breviter cogeret et veritatis claritas patenter ostenderet». 24  Ibid., 1, 145A, p. 13, 9-10.

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con la  sola ragione» 25. Ora, quel «gran parte» potrebbe essere così inteso: «sola ratione» l’uomo può giungere a gran parte di ciò che crede, dunque, non a tutto. In realtà, a ben riflettere, il significato di quell’espressione va ricercato in altra direzione: Anselmo ci pone di fronte all’ipotesi di un uomo, ossia di un individuo, che si trovi nella situazione di dover riflettere sulla natura delle cose e sul loro fondamento senza aver alcun aiuto. Ebbene, è di fronte a un tale uomo, e non a un uomo istruito (che cioè abbia udito, o indirizzato, che cioè abbia creduto), che il nostro autore dice: ‘egli potrebbe raggiungerne gran parte’; infatti un uomo istruito o indirizzato avrà la possibilità di comprendere tutte, e non solo gran parte, delle cose di cui poi il Monologion tratta. Il secondo significato di credere è illustrato in modo esplicito dallo stesso Anselmo, che dedica i capitoli 74-76 del Monologion rispettivamente alla carità, alla speranza e  alla fede. Nel primo di essi vi si legge, però, che «ogni uomo deve tendere verso quello stesso bene», ossia la  somma essenza, «amandolo e  desiderandolo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente» 26. Nel secondo, si legge che l’uomo può impegnarsi in questa tensione solo se spera di poter giungere a ciò cui tende; dunque a lui «necessaria est spes pertingendi» 27. Infine, nel terzo dei tre capitoli ricordati Anselmo scrive che l’uomo «non può amare o sperare ciò che non crede»; dunque, prosegue, «expedit itaque eidem humanae animae summam essentiam, et ea sine quibus illa amari non potest, credere, ut illa credendo tendat in  illam» 28. Nella parte centrale del capitolo si afferma che il credere, e la fides, nella somma essenza, è già un tendere ad essa e, viceversa, che il tendere ad essa è già un credere in essa 29. Si affaccia così un secondo signi-

25  Ibid., 145A, p. 13, 10-11: «Puto quia ea ipsa ex magna parte, si vel mediocris ingenii est, potest ipse sibi saltem sola ratione persuadere». 26   Ibid., 74, 219A, p. 83, 7-8: «Ad idem ipsum bonum est omni homini toto corde, tota anima, tota mente amando et desiderando nitendum». 27  Ibid., 75, 219A, p. 83, 13. 28  Ibid., 76, 219BC, p. 83, 16-18. 29  Cfr.  ibid.,  219C, p.  83,  18-25: «Q uod idem apte breviusque significari posse puto si pro eo quod est credendo tendere in  summam essentiam, dicatur credere in summam essentiam. Nam si quis dicat se credere in illam, satis videtur ostendere et per fidem quam profitetur ad summam se tendere essentiam, et illa se credere quae ad hanc pertinent intentionem. Nam non videtur credere in illam

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ficato di credere e, questa volta esplicitamente, di fides: affermare qualcosa tendendo in esso, tendere a qualcosa affermandolo. Vi è  tuttavia un significato di  credere più radicale, sebbene meno evidente, dei due visti in precedenza: il primo di questi vede nel credere l’affermare qualcosa in forza dell’autorità, cioè a prescindere dall’evidenza, immediata o  argomentativa, di  ciò che è affermato; il secondo riconduce il credere all’affermare qualcosa tendendovi. Essi hanno dunque qualcosa in comune: l’affermare qualcosa. E questo è  precisamente il  terzo significato di  credere: affermare qualcosa come vero sulla base del fatto che è vero, pensare una verità acconsentendovi. Anselmo non esplicita in alcun luogo questo significato di credere; nondimeno troviamo elementi a sostegno di questa ipotesi di  lettura. Nel primo capitolo del Monologion si parla di  cose che «necessarie credimus» 30; al termine del capitolo 78 si dice che la fede è credere ciò «quod credi debet» 31. Alcune di queste espressioni, di cui l’opera abbonda, possono essere intese moralmente, cioè condizionatamente, e dando a credere il senso di ‘tendere’: se vuoi essere beato, argomenta Anselmo, devi ammettere il  darsi della Trinità e  tendere in  essa. Altre potrebbero, forse, essere intese anche in un senso confacente alla teologia moderna: la  coerenza tra dogmi, direbbe il  nostro autore, richiede che se credi in  un certo dogma, tu debba credere anche agli altri. Ma almeno alcuni dei passi in cui Anselmo usa espressioni come ‘credere necessariamente’, o  equivalenti, hanno un unico possibile senso: devi assentire, fare una certa affermazione, perché le  cose stanno così e  non altrimenti. Q uasi che, esprimendoci con termini più recenti, l’affermare che certe cose stanno in un certo modo sulla base del fatto che stanno effettivamente in quel certo modo richieda una decisione, postuli un intervento della volontà. Ancora, nel capitolo 78 Anselmo affronta la distinzione tra fede viva e fede morta: la fede viva consiste nel «credere in ciò che dev’essere creduto»; è, cioè, un credere tendendo. La  fede

sive qui credit quod ad tendendum in illam non pertinet, sive qui per hoc quod credit non ad illam tendit». 30  Ibid., 1, 145A, p. 13, 9. 31  Ibid., 75, 221A, p. 85, 9.

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morta consiste nel «solo credere ciò che dev’essere creduto» 32. In questo passo il nostro autore esplicita in modo netto la propria nozione fondamentale di fede, secondo cui essa equivale a ‘affermare ciò che va affermato’ 33. Un affermare che si presenta come doveroso in relazione al fatto che si riferisce a un effettivo stato di cose, ma che non dice nulla circa la via attraverso la quale tale stato di  cose è  reso presente alla mente e  certificato. Non dice nulla, cioè, sul fatto che tale presenza e  tale certificazione debbano essere frutto di  un’evidenza, immediata o  argomentativa, oppure di un’autorità presa nella sua autorevolezza 34. Siamo ora in grado di dire qualcosa di più preciso sui rapporti tra fides e  ratio nel Monologion. Se prendiamo fides nel secondo e nel terzo dei sensi prima considerati, e ratio nel senso di capacità di far presa conoscitivamente sulle realtà create in modo diretto e sulla realtà increata in modo indiretto, comprendiamo che per Anselmo la  prima non si oppone in  alcun modo alla seconda. Anche ciò che diviene chiaro dimostrativamente dev’essere accolto, giudicato nella sua veridicità; dunque è  creduto. Anzi: dev’essere certissimamente, necessariamente creduto. E anche ciò che è colto argomentativamente si presenta alla mente come desiderabile, sia che lo sia per se stesso, sia che lo sia in vista di altro. Anzi, la  mente agisce conformemente alla propria natura solo allorché lo desidera. Se invece prendiamo fides nel senso di  assentire al  vero reso noto e  certificato da  un’autorità, è  chiaro che essa si oppone, in qualche modo, alla ratio. Si tratta però di un’opposizione relativa, poiché nel primo capitolo del Monologion Anselmo afferma che se ciò che concluderà non sarà suffragato da un’autorità più grande, esso dovrà essere inteso non come assolutamente neces32  Cfr. ibid., 78, 221A, p. 85, 7-9: «Satis itaque convenienter dici potest viva fides credere in id in quod credi debet, mortua vero fides credere tantum id quod credi debet». 33  Non si tratta, ovviamente, di un ‘affermare’ inteso come lo potrebbe intendere Tommaso d’Aquino, ossia come atto formale dell’intelletto; qui ‘affermare’ vale ‘assentire’, ossia ‘dare un consenso e tenerlo per fermo’. 34  Un’ultima osservazione, estrinseca al testo di Anselmo. Ancora nel secolo xiii Pietro Ispano denomina la seconda operazione della mente credulitas, fides e iudicium. Cfr. G. Nuchelmans, Theories of  the proposition. Ancient and medieval conceptions of   the bearers of   truth and falsity, Amsterdam  –  London 1973 (North-Holland linguistic series, 8), p. 191.

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sario, bensì come provvisoriamente necessario. Con ciò il nostro autore non si limita a respingere la possibilità che si possa dare una doppia verità, una per la  ragione e  una per l’autorità, ma rende manifesta anche una precisa concezione della auctoritas e  della veritas. La verità è innanzitutto qualcosa che qualcuno, cioè Dio, originariamente possiede; solo in  seguito essa si identifica con la  realtà creata, e  solo in  ultimo diviene acquisizione umana 35. La manifestazione della verità, dunque, è innanzitutto proclamazione di  essa da  parte di  chi la  possiede, il quale proprio perché la  possiede è  auctoritas. Solo in  seguito la  verità, in  virtù di  tale proclamazione, giunge all’uomo; e solo in ultimo è conquista possibile, sul fondamento delle cose create, da parte di un uomo che la ignora o perché non è stato istruito in essa, o perché non l’ha creduta. Nella prospettiva del nostro autore nulla è più razionale, in senso moderno, dell’accettare la vera auctoritas, che egli identifica con la Scrittura, senza problematizzazioni di alcun genere. Ne viene che l’operazione di mettere tra parentesi i dati scritturistici non ha per Anselmo il senso di percorrere la via della ragione a  prescindere da  quella della fede; ha, invece, il senso di  percorrere una delle due vie attraverso le quali giunge all’uomo la conoscenza, vie che per il priore del Bec sono entrambe possibili e, per chi ha la possibilità di percorrerle, doverose. Il medesimo orientamento può essere ulteriormente messo in risalto prestando attenzione al fatto che il Monologion affronta, percorrendo il  cammino della ratio, l’intero spettro del dogma trinitario. Q uesto non significa che Anselmo abbia la  pretesa di cogliere pienamente ogni realtà: la mens rationalis, infatti, non può superare il limite a lei connaturato di parlare per immagini, facendo uso di  vocaboli che indicano la  creatura più facilmente di  quanto indichino le  proprietà della somma essenza. Significa piuttosto, in primo luogo, che ciò che l’autorità rende manifesto all’uomo è  dall’uomo conoscibile altresì seguendo il  nesso che lega le creature al creatore; in secondo luogo, e più radicalmente, che ciò che l’autorità rende manifesto all’uomo è del tutto comprensibile. Certamente non è  noto alla mens rationalis il  modo in cui Padre, Figlio e Spirito Santo differiscono; ma per essa non 35 Cfr., ad esempio, Monologion, 31,  183C-185C, pp.  48,  13 - 50,  13; 36, 189C-190B, pp. 54, 14 - 55, 10.

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vi è oscurità nell’affermazione che differiscono pur essendo uno solo. Ed è  questa affermazione che l’autorità manifesta, ed è  ad essa, e non all’incomprensibile modalità di distinguersi delle tre persone, che l’autorità sollecita il consenso umano.

3. Ragione, fede, intelletto: per una rinnovata ermeneutica dell’argomento del Proslogion Diversamente da quanto accade nel caso del Monologion, il Proslogion, scritto da Anselmo nel 1077, sembra presupporre la fede. Ed è sull’interpretazione di questo atteggiamento che si sono diversificate, sino alla contrapposizione, le ermeneutiche, in particolare in  relazione all’unum argumentum trattato nei ben noti primi capitoli del testo. Prima di  avanzare una nostra ipotesi di  lettura dell’unico argomento, è  opportuno riflettere su alcuni passaggi, a  cominciare dal proemio dell’opera, dove Anselmo afferma di assumere «il punto di vista di colui che desidera elevare la propria mente a contemplare Dio e che aspira a comprendere intellettivamente (intelligere) ciò che crede» 36. Poco oltre scrive che il primo titolo dell’opera era Fides quaerens intellectum: la  fede che aspira alla comprensione dell’intelletto. Nel primo capitolo, poi, espone con nitore il proprio atteggiamento: non «cerco di comprendere intellettivamente al fine di credere, bensì credo al fine di comprendere intellettivamente» 37. Q uesti passi sono suscettibili di due possibili letture: la prima è che Anselmo intenda sì scrivere un’opera di filosofia, ma che sia mosso dalla convinzione di poter e dover giungere, al  termine della sua ricerca, alle medesime posizioni professate per fede. La seconda lettura è che egli intenda scrivere un’opera in cui indagare i vincoli che uniscono i contenuti della fede. Nel primo caso la fede rivestirebbe la funzione di guida del filosofare, ma non fornirebbe i presupposti delle argomentazioni e delle riflessioni; nel secondo caso la fede fornirebbe tali presup36  Proslogion, Prooem., 224BC, pp.  93,  21  -  94,  2: «Sub persona conantis erigere mentem suam ad contemplandum Deum et quaerentis intelligere quod credit». 37  Ibid., 1, 227BC, p. 100, 18: «[Non] quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam».

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posti, così che l’esercizio speculativo su di essi non avrebbe altro scopo che mostrarne l’unità ed esplicitarne l’ordine. Delle due interpretazioni, l’unica corretta parrebbe la seconda. Infatti, nei capitoli 2 e 3 del Proslogion Anselmo elabora il celebre unum argumentum, cui assegna un ruolo fondamentale: nel proemio scrive che dovrebbe essere l’unico argomento «quod nullo alio ad se probandum quam se solo indigeret, et solum ad astruendum quia Deus vere est, et quia est summum bonum nullo alio indigens, et quo omnia indigent ut sint et ut bene sint, et quaecumque de divina credimus substantia, sufficeret» 38. Si tratta del fulcro della costruzione speculativa anselmiana relativa all’esistenza e  alla natura di  Dio.  Ora ci si chiede se il  fondamento di  tale argomento sia un dato colto osservativamente, razionalmente, oppure un dato di fede. La risposta del priore del Bec è apparentemente inequivocabile: il fondamento dell’intero argomento, e dunque dell’intera costruzione speculativa del Proslogion, è una precisa nozione di Dio: quella di ‘ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore’, e, nel secondo capitolo dell’opera, questa nozione si presenta come fornita dalla fede: «certamente noi crediamo che tu sei qualcosa di cui non si può pensare nulla di maggiore» 39. È opportuno anticipare brevemente qui un dato, ossia che nella risposta alle critiche mossegli da Gaunilone, Anselmo presenterà la medesima prospettiva: «poiché mi contesta in ciò che ho detto non quell’insipiente contro il quale mi sono espresso nel mio piccolo lavoro», cioè nel Proslogion, «bensì qualcuno che, cattolico e  non insipiente, prende le  difese dell’insipiente, allora mi può bastare rispondere al cattolico» 40. Ora, che cosa Anselmo intenda con ‘cattolico’ è  desumibile dal capitolo 8 della risposta a  Gaunilone: il cattolico è colui che accetta l’autorità della Scrittura 41;   Ibid., Prooem., 223BC, p. 93, 6-10.   Ibid., 2, 227C, p. 101, 5: «Q uidem credimus te esse aliquid quo nihil maius cogitari possit». 40  Responsio, Prol., 247C-248C, p. 130, 3-5: «Q uoniam non me reprehendit in his dictis ille ‘insipiens’ contra quem sum locutus in meo opuscolo, sed quiddam non insipiens et catholicus pro insipiente, sufficere mihi potest respondere catholico». 41  Cfr.  ibid.,  8,  258B, pp.  137,  28 - 138,  2: «Sic itaque facile refelli potest insipiens qui sacram auctoritatem non recipit, si negat ‘quo maius cogitari non valet’ ex aliis rebus conici posse. At si quis catholicus hoc neget, meminerit quia 38 39

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da ciò si può anche dedurre che, viceversa, l’insipiente è, in ultima analisi, colui che non accetta tale autorità, non accetta in particolare l’asserto della Scrittura secondo cui è proclamato insipiente colui che dice che Dio non esiste. Altro elemento: Gaunilone sostiene che la nozione di Dio inteso come «id quo maius» può non essere «in intellectu vel cogitatione»; e Anselmo risponde: «per mostrare che ciò è  falso, uso come solidissimo argomento la tua fede e la tua coscienza» 42. Tuttavia, diversi passaggi mettono in  dubbio la  tesi per cui il Proslogion sarebbe un trattato di teologia dogmatica nel senso moderno dell’espressione. Nel secondo capitolo dell’opera Anselmo eleva la  seguente invocazione: «Domine, qui das fidei intellectum, da mihi ut, quantum scis expedire, intelligam quia es sicut credimus et hoc es quod credimus» 43. Ora, se l’intellectus, o l’intelligere, fosse qualcosa oltre la fede ma pur sempre interno ad essa, se cioè fosse un approfondimento della fede a partire dalla fede, ci si aspetterebbe che il  nostro autore scrivesse ‘concedimi di comprendere intellettivamente ciò che crediamo’, e non «da mihi ut, quantum scis expedire, intelligam quia es sicut credimus et hoc es quod credimus». In  effetti, l’espressione di  Anselmo non spinge a  ritenere che l’intellectus sia un approfondimento della fede; spinge a ritenere che sia un’acquisizione per altre vie di quelle stesse verità che sono professate per fede. Q uesta interpretazione trova conferma nel ringraziamento che il  priore del Bec pone al termine dell’esposizione dell’unum argumentum: nel quarto capitolo egli scrive: «Gratias tibi, bone domine, gratias tibi, quia quod prius credidi te donante, iam sic intelligo te illuminante, ut si te esse nolim credere, non possim non intelligere» 44. Di fronte a  questa dichiarazione è  difficile pensare che la  comprensione intellettuale sia un’esplicitazione dei contenuti della fede. Se  così fosse, infatti, tolta la  fede, avrebbe dovuto venir meno anche la  comprensione intellettuale della stessa, mentre Anselmo afferma che, se anche non volesse credere che Dio esi‘invisibilia’ Dei ‘a creatura mundi per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur’ (Rm 1, 20)». 42  Responsio, 1, 249B, p. 130, 15-16: «Q uod falsum sit, fide et conscientia tua pro firmissimo utor argumento». 43  Proslogion, 2, 227C, p. 101, 3-4. 44  Ibid., 4, 229B, p. 104, 5-7.

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ste, non potrebbe non comprenderlo intellettivamente. Certamente, dunque, il Proslogion è una chiarificazione dei contenuti della fede; ma lo è nel senso che in esso quei contenuti vengono compresi in  modo tale da  dover essere affermati a  prescindere dal fatto che essi siano stati proclamati da un’autorità. La stessa risposta di Anselmo a Gaunilone, a dispetto dell’indole della formula introduttiva, costituisce una prova del carattere razionale dell’unum argumentum. In  linea di  massima la  Responsio anselmiana è una chiarificazione condotta su un piano essenzialmente razionale, filosofico; al capitolo 9 di questo scritto leggiamo: Etsi quisquam est tam insipiens ut dicat non esse aliquid quo maius non posse cogitari, non tamen ita erit impudens ut dicat se non posse intelligere aut cogitare quid dicat. Aut si quis talis invenitur, non modo sermo eius est respuendus, sed et ipse conspuendus 45.

Anche in  questo caso la  prospettiva del nostro autore sembra chiara: l’insipiente non è tale solo perché rifiuta l’autorità della Scrittura; è  tale in  ultima analisi soprattutto perché nega un’evidenza. Ne viene che se è  possibile che nel proprio procedere Anselmo faccia dipendere di fatto dalla fede la nozione di «id quo maius cogitari nequit» quanto alla sua enunciazione, è  tuttavia certo che egli non fa dipendere tale nozione dalla fede quanto alla comprensione del suo contenuto; la fede ha dunque solo il compito di richiamare l’attenzione su di un’evidenza. Una proposta di ermeneutica coerente con tutti i richiami evidenziati potrebbe perciò essere questa: di fronte alla nominazione di  Dio come «id quo maius cogitari nequit», Anselmo passa a valutare la posizione dell’insipiente – desunta da un passaggio del Salmo 13 – il quale afferma che Dio non esiste, e si domanda che cosa può significare l’affermazione ‘Dio non esiste’, e  perché la Bibbia, che non erra, l’attribuisca ad uno qualificato insipiens, ossia ad un uomo che non sa quello che dice. Sviluppando la  propria valutazione, Anselmo incomincia con l’osservare che l’affermazione ‘Dio non esiste’ raggiunge un livello significativo per l’intelletto solamente se l’insipiente si riferisce al  termine Dio intendendolo come ciò di cui non si può pensare il maggiore;   Responsio, 9, 259A, p. 138, 11-15.

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così facendo, il senso del suo dire si traduce nell’affermazione che Dio esiste solo nell’intelletto: infatti, se di esso negasse l’esistenza anche nell’intelletto, l’insipiente non potrebbe attribuire più alcun significato alla parola Dio, né alla sua negazione. In questa direzione circoscritta, Anselmo osserva che la  negazione dell’esistenza di Dio – riportata, in positivo, all’affermazione che Dio esiste solo nell’intelletto e non nella realtà – implica una contraddizione: è contraddittorio dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore sia ciò che esiste solo nell’intelletto, poiché io posso pensarlo esistente anche nella realtà, e così facendo penso qualcosa di  ‘maggiore’. Non resta perciò che respingere la  posizione dell’insipiente perché inficiata da manifesta contraddizione. Anselmo si appella all’evidenza: non siamo di fronte ad una dimostrazione vera e propria, articolata in premessa maggiore e minore; l’esistenza nella realtà («in re») non significa esistenza empirica, ma esistenza in generale o esistenza reale, e la forza probativa della conclusione è demandata al principio di non-contraddizione, ossia è immediatamente evidente l’aporeticità della tesi dell’insipiente, il  quale, confinando l’esistenza di  ciò di  cui non si può pensare il maggiore nel solo intelletto, finisce con affermare che non è ciò di cui non si può pensare il maggiore. La contraddizione è tolta solo affermando che ciò di cui non si può pensare il maggiore deve essere pensato esistente e nel pensiero e nella realtà. Nel successivo terzo capitolo Anselmo presenta una seconda argomentazione, volta a  rafforzare la  conclusione precedente, facendo vedere che, in ultima istanza, si deve concludere che Dio esiste in modo così vero che non può nemmeno essere pensato non esistente, sia per cogenza della ragione dialettica, sia secondando l’istanza teologica, connessa con la ‘logica della rivelazione’: dire che Dio non esiste significa dire – senza poterlo pensare – che ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore, ossia equivale a dire: Dio non è Dio; Dio è un idolo; Dio è pari a una qualsiasi cosa creata, di cui si può pensare il maggiore. Ancora una volta, ed in una modalità ancora più evidente, la parola di Dio rivelata afferma che colui che in cuor suo pensa di poter dire Deus non est non può che essere qualificato insipiens. L’ultimo interrogativo del terzo capitolo, apparentemente retorico, è assai importante: se è così evidente alla mente razionale che Dio esiste più di ogni altra cosa, perché accade che l’insipiente 95

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possa dire che Dio non esiste? In realtà, precisa Anselmo, lo dice a parole, ma non può pensarlo, e quindi l’insipiente è realmente uno stolto, che non sa quello che dice, e  che vorrebbe negare la struttura originaria della mente, ossia la sua capacità di pensare il massimo del pensabile, un massimo che non può essere trasceso né da altro essere, né dal pensiero. Anselmo si assesta in una posizione teoretica che proclama l’evidenza della coincidenza di ‘ciò di cui non si può pensare il maggiore’ con l’essere che non può non essere pensato esistente, e ciò vale solo per la formula dell’unico argomento; è altresì evidente che esso è più grande di tutto quanto si possa pensare, ossia che deve essere pensato come impensabile. La  formulazione dell’unico argomento attesta cioè l’evidenza dell’esistenza di  Dio, provando paradossalmente che essa non deve essere ‘dimostrata’, dal momento che si ‘prova’ con evidenza che colui che la  nega, l’‘insipiente’, si assesta nell’impossibilità di pensare.

4. Gli sviluppi della speculazione anselmiana: dalla verità all’Incarnazione del Verbo Le costruzioni speculative del Monologion e  del Proslogion non discutono tutti i presupposti su cui si reggono, né illustrano tutti i contenuti della religione cattolica. Ci si può chiedere che cosa sia la verità di cui la ratio e l’intellectus sono capaci, e perché l’anima umana non sia in grado di mantenere da sé il proprio sguardo fisso in Dio; ma ci si può anche chiedere se si possa illustrare l’Incarnazione, su cui le opere menzionate tacciono, con i medesimi metodi con cui sono stati illustrati la Trinità, la natura dell’anima e i suoi destini. Ai primi due quesiti Anselmo risponde con due opere composte tra il 1080 e il 1085: il De veritate e il De libertate arbitrii, al terzo con il Cur Deus homo, ultimato nel 1098. Il De veritate e  il De libertate arbitrii gravitano intorno alla nozione di rectitudo, ossia di giusta conformità. La verità è la «rettitudine percepibile dalla sola mente» 46; la moralità è la «rettitudine della volontà conservata per se stessa» 47; il libero arbitrio è il

  De veritate, 11, 480A, p. 191, 19-20: «Rectitudo mente sola perceptibilis».   Ibid., 12, 482B, p. 194, 26: «Rectitudo voluntatis propter se servata».

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«potere di conservare la rettitudine per la rettitudine stessa» 48, ma non è il potere di acquisirla; il peccato è l’atto con cui si perde tale rettitudine. La ragione per cui l’anima, senza l’aiuto di Dio, non può essere fedele a se stessa, giusta, tendente a Dio è data dal peccato, che ha tolto la rettitudine, e la volontà, che può conservarla, non può però acquisirla. Dell’Incarnazione, come dicevamo, Anselmo si occupa con maturità speculativa nel Cur Deus homo. Chi legge questo testo potrebbe essere tentato di pensare di trovarsi di fronte a un’opera di  teologia nel senso moderno del termine. Nella prefazione l’autore enuncia lo scopo dell’opera: «Remoto Christo, quasi numquam aliquid fuerit de illo, probat rationibus necessariis esse impossibile ullum hominem salvari sine illo» 49. Ove, si noti, «remoto Christo» non significa ‘prescindendo dall’autorità delle Scritture’; significa, invece, ‘premesso a titolo di ipotesi che Cristo non esista in alcun modo’, cioè ‘in alcun tempo e in alcuna forma’. Nel capitolo 25 del I libro, inoltre, si legge che le argomentazioni proposte sono addotte «ut rationabili necessitate intelligam esse oportere omnia illa quae nobis fides catholica de Christo credere praecipit si salvari volumus» 50. Infine, si consideri la stessa argomentazione che il nostro autore dispiega per illustrare la ragione dell’Incarnazione, che può essere così riassunta: gli uomini desiderano la beatitudine e la beatitudine può essere ottenuta solo con una restaurazione della capacità dell’uomo di tenere fermo il proprio amore per Dio.  Ora, una tale restaurazione è  sicuramente in potere di Dio; la giustizia di Dio tuttavia non è compatibile con un’azione unilaterale di condono da parte di Dio stesso: il riscatto dell’offesa prodotta dal peccato deve contemplare la restituzione dell’onore connesso con l’ordine voluto da  Dio creatore; pertanto la giustizia impone che sia l’uomo a riscattare questa offesa. Se Dio semplicemente perdonasse l’uomo, egli andrebbe contro la  giustizia, riconoscendo al  peccato una impunità sostanziale; dunque non è ammissibile la restaurazione attraverso una remissione unilaterale del debito da  parte di  Dio.  Siccome la  valuta48   De libertate arbitrii, 3, 494B, p. 212, 20: «Potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem». 49  Cur Deus homo, I, Praefatio, 361A-362A, p. 42, 12-13. 50  Ibid., I, 25, 400B, p. 96, 10-11.

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zione razionale mostra come l’uomo a sua volta non abbia alcuna possibilità di restituire con le proprie azioni l’onore tolto a Dio, non si presenta una soluzione del problema escogitabile dalla ragione umana. L’unico che può escogitare una soluzione è Dio, e, dalla Rivelazione, sappiamo che Dio l’ha individuata attraverso il  percorso dell’Incarnazione del Verbo, una via che soddisfa la  giustizia: un vero uomo, Gesù di  Nazareth, che è  anche vero Dio, offre la propria passione e morte a riscatto dell’offesa. Con la giustizia viene soddisfatta anche la misericordia: Gesù, detentore anche della natura divina, ottiene dal Padre che la sua vita, offerta come riscatto del peccato dell’uomo, si permuti in donoperdono e ottenga il ristabilimento dell’ordine di familiarità della vita umana con Dio, come stava inscritto nel piano originario della creazione. Dunque l’Incarnazione risulta l’unico evento che permette agli uomini, posti nella condizione in cui di fatto si trovano dopo la caduta, di divenire beati. Una conclusione questa che si appoggia sulla necessità dell’Incarnazione come via alla salvezza dell’uomo decaduto, dunque chiaramente una necessità ‘conseguente’, ‘conseguenza’ che noi possiamo correttamente intendere come una una ragione di ‘convenienza’, poiché fonda la propria stringenza su una premessa che Anselmo chiama ‘necessità antecedente’, la quale non è stabilita sulla base di ragionamenti, ma si rifà alla dichiarazione della Rivelazione: Dio ha deciso di percorrere la via dell’Incarnazione e della Redenzione (che nessuna ragione umana avrebbe mai escogitato), e  questa è  la premessa necessaria metarazionale, alla quale consegue la  conclusione ricordata, che tiene discorsivamente in forza di tale premessa e che contrae caratteri di necessità solo in conseguenza di essa. Non penso che sia improprio allora qualificare le  ragioni necessarie, che l’opera anselmiana giudica tali sulla base di necessità conseguenti, come ‘argomenti di convenienza’, e forse questo può essere un elemento utile per dirimere la disputa annosa su che cosa intenda Anselmo con «rationis necessitas» o con «ratio necessaria». Se il programma di Anselmo nelle opere speculative è sempre quello di assestare la ragione sui contenuti della fede, della quale cerca l’intrinseca permeabilità da  parte dell’intelligenza, credo che le argomentazioni qualificate come necessarie alla radice esibiscano il carattere di necessità conseguenti, supportato da quanto scrive Anselmo: 98

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Est namque necessitas praecedens, quae causa est ut sit res; et est necessitas sequens, quam res facit. Praecedens et efficiens necessitas est, cum dicitur caelum volvi, quia necesse est ut volvatur; sequens vero et quae nihil efficit sed fit, est cum dico te ex necessitate loqui, quia loqueris. Cum enim hoc dico, significo nihil facere posse, ut dum loqueris non loquaris, non quod aliquid te cogat ad loquendum 51.

L’esito del ragionamento complessivo del Cur Deus homo può essere compendiato così: Anselmo non dimostra che si è data, o si deve dare, l’Incarnazione; dimostra che se non si dà Incarnazione, allora l’uomo non può conseguire la  beatitudine: «Si ponimus Christum non esse, nullo modo potest inveniri salus hominis» 52. Il fondamento di questa prospettiva è chiaro: è falso che l’Incarnazione sia necessaria sulla base di dati reperibili dalla sola dialettica razionale; dunque il dialettico non può dimostrare che lo è, ma la necessità è tutta nella necessità antecedente della premessa. In altri termini: l’Incarnazione non è necessaria nello stesso modo in  cui è  necessaria la  generazione del Figlio da  parte del Padre, secondo la prospettiva del Monologion, dato che il Padre genera il Figlio per una necessità interna alla natura divina; la necessità della generazione è dunque, per così dire, metafisica. Al contrario, l’Incarnazione del Figlio nasce dalla libera volontà di Dio, mossa dalla duplice istanza di giustizia e misericordia, di ridare la felicità piena all’uomo, e ciò costituisce la necessità antecedente; la necessità conseguente dell’Incarnazione è  di convenienza o  morale, e  non è  possibile stabilire per via di  ragionamento che l’Incarnazione si dà di fatto. Ancora una volta è chiaro che il discorso di  Anselmo non si presenta come un tentativo né di  mostrare la concatenazione dei dogmi, né di esplicitare le conseguenze dei dati rivelati; è, invece, il  tentativo di  acquisire i  contenuti della religione cristiana per vie diverse (la via della ratio e la via dell’intellectus) da quella che si limita a fare appello all’autorità. Trova ora una spiegazione quanto il nostro autore scrive nella Epistola de incarnatione Verbi: «Monologion (…) et Proslogion (…) ad hoc maxime facta sunt, ut quod fide tenemus de divina natura et eius personis praeter incarnationem, necessariis rationibus sine   Ibid., II, 17, 424A, p. 125, 8-13.   Ibid., I, 25, 399B, p. 95, 11-12.

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scripturae auctoritate probari possit» 53. Q uesta dichiarazione potrebbe essere interpretata nel modo seguente: il  Monologion e il Proslogion non trattano dell’Incarnazione perché non si può dar ragione di  essa facendo a  meno dell’autorità delle Scritture. In altre parole, Anselmo riterrebbe che l’esistenza di Dio e il fatto che egli è  uno e  trino siano alla portata della teologia razionale, mentre l’Incarnazione sarebbe di competenza della teologia sacra. In realtà, in sede di bilancio complessivo del programma speculativo del teologo Anselmo d’Aosta, è possibile assestarsi su di un’altra interpretazione del testo, del tutto elementare ed insieme coerente: «con l’eccezione dell’Incarnazione» allude semplicemente al fatto che né il Monologion, né il Proslogion trattano dell’Incarnazione, tema che sarà affrontato in altro momento.

5. Conclusioni Per avviare un bilancio conclusivo, occorre richiamare i significati con cui Anselmo usa i termini fides, ratio e intellectus. Fides ha tre significati: in primo luogo è il semplice affermare e tener per fermo qualcosa perché è vero, comunque esso e la sua veridicità siano noti. In secondo luogo è l’affermare e il tener per fermo qualcosa perché è  vero, ove però esso e  la sua veridicità sono noti in  quanto proclamati da  un’autorità. Infine è  l’affermare e il tener per fermo qualcosa tendendovi. Ratio a sua volta ha due significati: è il fondamento di un certo fatto o di una certa affermazione, oppure è la capacità della mente di cogliere la natura delle creature che essa constata e di giungere, per nessi necessari, a  conoscere ciò che non le  è  immediatamente noto. Intellectus infine ha due significati: è la capacità della mente di cogliere ogni realtà nella sua fonte e la fonte stessa di ogni realtà e conoscibilità, oppure è il contenuto intellettuale, è ciò che viene intellettualmente colto. Chiarito il posizionamento semantico e non univoco dei termini, una prima serie di possibili considerazioni concerne la collocazione della fede nell’ambito del sapere e la natura della fede stessa. Per alcuni aspetti, la  posizione di  Anselmo può essere

  Epistola de incarnatione Verbi, 6, 272CD, p. 20, 17-19.

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riassunta nel modo seguente: l’uomo ha la capacità di affermare per vero, cioè di  assentire e  tenere per fermo, ciò che sa essere vero; si dà allora la fides che potremmo chiamare ‘fede in senso lato’. Ciò che sa essere vero e  la veridicità di  questo possono essere noti in quanto comunicati da un’autorità; è questa la fides che potremmo chiamare ‘fede in  senso stretto’. Esiste tuttavia la  possibilità che queste verità divengano note all’uomo, e  certificate, in  forza della capacità di  conoscere che è  propria della sua mente, nelle due modalità d’azione di  ratio e  di intellectus. Come si vede, in questo schema nulla è al di fuori di quella che potremmo chiamare genericamente ‘razionalità’: non lo sono né la ratio, né l’intellectus; ma non lo è neppure la fede presa in senso lato, cioè intesa come capacità di assentire. L’assenso a qualcosa come vero, infatti, per Anselmo è la giusta, doverosa, azione della mente di fronte a una verità. Infine non lo è neppure la fede presa in senso stretto: colui che possiede in proprio la verità, e dunque non può mentire, è  fonte sicura di  verità; dunque riconoscere come vero ciò che è proclamato da tale autorità è, nuovamente, azione del tutto doverosa. Si potrebbe obiettare che la  difficoltà del credere, o  almeno una delle difficoltà del credere, non sta nell’assentire a una certa autorità; sta nell’ammettere che quell’autorità è veramente tale, ossia possiede realmente la verità. Detto in altri termini: se vi fosse la certezza che la rivelazione cristiana ha veramente origine divina, non vi sarebbe motivo per dichiarare falsi i  suoi contenuti; ma è certo che essa abbia origine divina? La fede, in definitiva, non consiste forse nell’ammettere che quella rivelazione ha precisamente quell’origine? Anselmo non affronta mai tematicamente la  questione, e,  quando egli parla del non credente, parla di  qualcuno che nega che la dottrina cattolica abbia origine divina, mentre, quando parla del credente, non parla di  qualcuno che ripone la  propria fiducia in una certa autorità senza aver prova che essa sia autenticamente tale; parla di qualcuno che dà il proprio assenso a quanto proclamato da un’autorità che è certamente tale. Se ne può concludere che dal punto di vista del nostro autore il momento irrazionale non sta nell’affermare che la dottrina cattolica ha origine divina; sta nel negare tale origine. Detto in altri termini, Anselmo non ha una nozione di fede intesa come salto in un vuoto di razio101

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nalità, poiché la  fede, presa in  senso stretto, ha un fondamento certo, che il  cristiano, il  monaco in  particolare, constata essere qualcosa che gli è  quotidianamente tramandato e  che egli a  sua volta quotidianamente tramanda. Non è  questo, tuttavia, l’unico senso in  cui si può dire che la fede, presa sempre in senso stretto, è razionale. Il Monologion, il Proslogion e il Cur Deus homo hanno un preciso intento e un preciso metodo; l’intento è  quello di  mostrare ai credenti che i non credenti hanno torto quando pensano che i credenti sostengono falsità, mentre il metodo consiste nell’esibire la stringenza razionale delle verità accolte dal credente prescindendo dall’autorità della Scrittura. Anselmo segue il metodo enunciato in modo rigoroso: in nessuna delle opere ricordate egli fa uso di  presupposti tratti dalla Rivelazione, ed abbiamo visto che egli intende mostrare la  veridicità di  tutte le  verità di  fede; di  conseguenza, nessuno dei tre scritti opera una esplicitazione dei contenuti della fede, o un’esibizione della loro coerenza a partire da dati di fede. Q uesto non implica, però, che le  tre opere non esplicitino i  contenuti della fede o non ne esibiscano la coerenza, semplicemente attestano che tale esplicitazione ed esibizione è condotta sulla base di dati evidenti e di ragioni qualificate necessarie. I contenuti dottrinali della fede godono di razionalità perché sono proclamati da un’autorità autentica, e  perché sono acquisibili tramite un procedimento razionale, in un senso da circoscrivere e da interpretare con molta acribia. La fede è un assenso a un vero reso noto, e certificato come tale, da  un’autorità; l’assenso dato in  forza dell’autorità presuppone che si conosca, in qualche modo, che l’autorità è tale, tuttavia non poggia su una conoscenza diretta della veridicità delle verità proclamate. È l’intelletto, nell’opera di Anselmo, che ha un contatto diretto con la fonte delle verità, per cui esso può pervenire a conoscere in modo immediato la veridicità di tali verità. A tanto, tuttavia, il solo intelletto non basta: nel Monologion, colui che compie la ricerca, e nei cui panni Anselmo si è calato, espande le proprie conoscenze spinto da un’esigenza che sembra nascere dalla ratio stessa: l’esigenza di dare risposta alla domanda ‘cosa fa sì che le cose buone siano buone?’. Nel Proslogion il motore della ricerca è esplicitamente la fides, la quale genera comprensione 102

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intellettuale (intelligere) innanzi tutto nel senso che il  credente desidera contemplare ciò che crede. La  dichiarazione programmatica che leggiamo nel proemio dice che Anselmo assume qui «il punto di vista di colui che desidera elevare la propria mente a contemplare Dio e che aspira a comprendere intellettivamente (intelligere) ciò che crede» 54. Si tratta, ormai è  chiaro, di  un approfondimento dei contenuti della dottrina cattolica non sulla base di alcuni di questi stessi contenuti presi in quanto certificati da un’autorità, bensì di una riacquisizione di essi per altra e più potente via. In effetti, si è visto che ciò vale, in qualche modo, anche per l’opera della ratio, nondimeno è chiaro che il credente nutre per la  conoscenza intellettuale un desiderio maggiore di  quello che nutre per la  conoscenza razionale, e  ciò proprio in  quanto credente: le verità colte intellettivamente, infatti, hanno un grado di certezza, di forza d’evidenza, superiore a quello delle verità viste come tali solo in forza di un’autorità; inoltre riguardano direttamente la somma essenza. Circa la  capacità della fides di  generare conoscenza intellettiva 55, ci si potrebbe chiedere se l’aspirazione a  contemplare, a  comprendere intellettivamente, la  somma essenza e  ogni altra realtà possa nascere nell’anima del non credente. Può l’intelletto stesso essere spinto, così come la ratio, da un semplice desiderio di  sapere? La  risposta di  Anselmo è  sostanzialmente, sebbene non totalmente, negativa. L’intelletto può efficacemente tendere alla somma essenza solo se l’anima stessa tende efficacemente, stabilmente, alla somma essenza; anzi, il  tendere dell’intelletto alla conoscenza della fonte di  ogni realtà e  conoscibilità fa tutt’uno con il  tendere a  Dio di  tutta l’anima. Ma l’anima non può tendere efficacemente a Dio se non si conforma moralmente ai suoi comandi; anzi, l’agire conformemente ai comandi 54  Proslogion, Prooem., 224BC, pp.  93,  21  -  94,  2: «Sub persona conantis erigere mentem suam ad contemplandum deum et quaerentis intelligere quod credit». 55  Ho trattato più distesamente questo argomento altrove: cfr.  A.  Ghisalberti, Il compito dell’intelligere e la figura dell’intelletto nel Cur Deus homo, in Cur Deus homo, Atti del Congresso anselmiano internazionale (Roma, 21-23 maggio 1998), a  c. di  P.  Gilbert  –  H.  Kohlenberger  –  E.  Salmann, Roma 1999 (Studia anselmiana, 128), pp. 311-331; Id., Anselmo: la fede genera intelligenza, in Il risveglio della ragione. Proposte per un pensiero credente, a c. di G. Sgubbi – P. Coda, Roma 2000 (Contributi di teologia, 29), pp. 137-168.

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di Dio fa tutt’uno con il tendere a lui e con l’essere simili a lui. Dunque l’esercizio dell’intelletto presuppone la fede: presuppone sia l’accettazione di  tutto ciò che è  necessario per convertirsi e tendere a  Dio, sia la  conversione stessa. Pertanto presuppone che Dio intervenga per restituire all’uomo la  rettitudine, mediante la grazia. Ne concludiamo che in  Anselmo non vi è una nozione di fede intesa come salto nell’irrazionalità, mentre si può forse affermare che vi è  una nozione di  fede intesa come salto nella moralità, come conversione; la  fede non è  presupposta all’intelletto quanto alle premesse delle argomentazioni, nondimeno è  presupposta all’intelletto quanto all’esercizio efficace dell’intellezione. Agostino, Boezio e Dionigi da un lato, e i teologi del monachesimo benedettino altomedievale dall’altro lato, hanno avuto nel monaco del Bec un acuto discepolo. Le tre opere principali esaminate (il Monologion, il Proslogion e il Cur Deus homo) non sono atte di per sé a generare la fede; possono solo rimuovere ostacoli alla sua generazione. Il senso più profondo del celebre «[non] quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam» 56 va pertanto in questa direzione: la comprensione intellettuale non genera la  fede; viceversa la  fede genera, nel senso che ne è condizione fondamentale, la comprensione intellettuale. C’è tuttavia un margine di apertura di credito all’intelletto in  sé: nel paragrafo dedicato al  Proslogion ho fatto osservare che, nell’ottica di Anselmo, la nozione di ‘ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore’ forse presuppone la fede di fatto, ma certo non la presuppone di diritto. Colui che nega che l’«id quo maius» sia o esista, è un insipiente; ma colui che nega di avere questa nozione nel pensiero è  degno di  essere dileggiato come uomo: nega, infatti, un’evidenza presente in  ogni mente, che vale cioè non solo per il credente, ma anche per il non credente. Ecco allora che intercettiamo una misura dell’apertura minima dell’intellectus a Dio; un’apertura che è costitutiva dell’intelletto e sotto la quale è impossibile andare, se non configurando la cessazione dello stesso intelletto. Si tratta della nozione di  id  quo maius cogitari nequit, dalla quale si genera ogni conoscenza   Proslogion, 1, 227BC, p. 100, 18.

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intellettiva e, indirettamente, anche ogni conoscenza razionale. Ci  si  potrebbe chiedere se non sia essa ciò che, posto al  fondo di  ogni capacità umana di  conoscere, permette di  riconoscere un’autorità autentica. Resta, nonostante tutto, che anche in questa occasione la moralità, la rectitudo, non è del tutto esclusa: per ammettere di avere quella nozione nel pensiero occorre una accoglienza minima della verità, cioè occorre non essere protervo, piegato solo su se stesso.

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1. Avvicinarsi al  mistero accolto nella fede al  fine di  comprenderlo: è  certamente l’intento esplicito di  Anselmo, il  suo modo di concepire e di fare teologia. Ma si avverte esattamente il senso e lo spirito di questo accesso, se, da un lato, si tiene presente la premessa o il fondamento della fede, e, dall’altro, la struttura mentale di Anselmo, dominata da una profonda esigenza logica e quindi dalla passione dell’evidenza; o, si potrebbe dire, da una tale confidenza nella logica da essere inclinato a ritenere che in certo modo essa coincida con la realtà. Q uasi in una trasposizione ‘dalla parte di Dio’, dove logica e realtà risultano coincidenti. Sofia Vanni Rovighi osserva che «l’atteggiamento di fondo del suo spirito» è  «la ricerca della chiarezza, dell’evidenza intellettuale su quello che è l’oggetto della sua più profonda aspirazione, Dio e l’esperienza dolorosa di non poter raggiungere questa chiarezza», ma è quanto, in realtà, vale per tutto il mistero cristiano: è  di tutto il  mistero cristiano che Anselmo ricerca instancabilmente la «chiarezza» e l’«evidenza intellettuale» 1. D’altra parte, Anselmo fu attratto al monastero di Le Bec non dall’intenzione di farsi monaco, ma per il magistero che vi impartiva Lanfranco 2, certamente «inferiore a  lui sul piano specula  S. Vanni Rovighi, Introduzione, in Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, Bari 1969 (20082), p. xxxvii. Nelle note seguenti le citazioni in traduzione italiana delle opere di Anselmo saranno tratte da questo volume, con indicazione delle pagine. 2  Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, 1, 5, PL 158, [49-118], 52C, ed.  R.  W. Southern, Edinburgh 1962 (Nelson’s Medieval Texts) (repr. Oxford 1972), pp. 8-10 (tr. it., Milano 2009, pp. 25-29). 1

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 107-121 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112913

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tivo», ma che «si presentava ai contemporanei specialmente come un maestro di logica», e «per questo deve aver soddisfatto il gusto per la logica, così vivo e radicato in Anselmo» 3. E, forse, si potrebbe più radicalmente dire: siccome per Anselmo il mistero è in sé, ossia intrinsecamente, evidente, logico, ‘razionale’, questa dimensione di  evidenza può essere resa trasparente esattamente col procedimento della razionalità e della logica applicata all’oggetto della fede. Ed è  ciò che crea, in  certo senso, la  peripezia e quasi il dramma interiore di Anselmo, e che alimenta e sostiene la sua ricerca, dove inscindibilmente e contemporaneamente sono compresenti e  strettamente legati la  fede e  l’intelletto  –  fides, intellectus – intenti al raggiungimento della visione – species –, che in qualche misura l’intellectus mira ad anticipare. Nella realtà  –  va chiaramente osservato  –  la fides non è  mai esclusa. Nel suo procedere dal profilo dell’intellectus, nel suo sforzo di far salire e di provare la ratio necessaria 4, Anselmo non cessa di essere appassionatamente credente: si direbbe che lo sia ancora di più. Il registro o il metodo è mutato, ma ciò che si tende a manifestare al livello dell’evidenza ‘razionale’ appartiene all’Oggetto, alla res, sempre creduta. Anselmo mira all’intelligenza della fede. Proprio perché crede, aspira a vedere Dio. Egli elabora l’intellectus, nella persuasione che in  quel momento, dal profilo della ratio, o della capacità di ‘evidenza’, riesca a vedere intellettivamente la necessità del suo Oggetto. Nasce, così, la domanda: si tratta di un’audacia, di un’utopia, o di una reale possibilità? 2. Anselmo, com’è noto, prima di arrivare alla stesura del Monologion – e del Proslogion –, vive un periodo importante per la sua maturità spirituale. Egli arriva, infatti, a Le Bec nel 1059 e scrive il Monologion solo nel 1076. Nella sua vita di fede, aderisce a Dio in ogni istante della sua vita monastica, mentre svolge contemporaneamente la  sua attività intellettuale (studio, scuola), per poi diventare monaco, giungendo allo ‘stato perfetto di vita’. Il clima in cui nasce il Monologion è un clima d’orazione e di contemplazione: è un’intuizione orante che si trasforma in un’af  Vanni Rovighi, Introduzione cit., p. xii.   Sul significato di  ratio in  Anselmo cfr.  Ead., Ratio in  Anselmo d’Aosta, in Ead., Studi di Filosofia medioevale, 2 voll., I, Milano 1978, pp. 22-36. 3 4

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fermazione ragionante. Le meditazioni, le  preghiere vi sono caratterizzate però dall’intensità e dalla forma del procedimento dialettico. Anselmo non intende, con ciò, scoprire qualcosa di  assolutamente nuovo. Vuole, invece, rendere più immediata, o più trasparente e più incisiva, esattamente la verità della fede che egli ‘spiega’ e che possiede già all’inizio del suo discorso: essa vi è implicata fin dal principio dell’opera. E, d’altra parte, egli vuole portare il  suo discepolo (o  il lettore) alla contemplazione della claritas veritatis. Anselmo è  pienamente consapevole dell’ori­ ginalità del suo metodo, consenziente alla domanda dei discepoli – e, in fondo, di se stesso –, che gli chiedono di prescindere dalla Scrittura. E proprio questa credo sia una delle caratteristiche che distinguono Anselmo da Agostino, per il quale invece l’intellectus sale dalla fede attestata dall’autorità biblica. Eadmero ha descritto perfettamente la  struttura, lo spirito e l’intento della speculazione di Anselmo: Factumque est ut soli Deo caelestibusque disciplinis iugiter occupatus, in tantum divinae speculationis culmen ascenderit, ut obscurissimas et ante suum tempus insolutas de divinitate Dei et nostra fide quaestiones Deo reserante perspiceret ac perspectas enodaret, apertisque rationibus quae dicebat rata et catholica esse probaret. Divinis nanque scripturis tantam fidem habebat, ut indissolubili firmitate cordis crederet nichil in  eis esse quod solidae veritatis tramitem ullo modo exiret. Q uapropter summo studio animum ad hoc intenderat, quatinus juxta fidem suam mentis ratione mereretur percipere, quae in ipsis sensit multa caligine tecta latere 5.

Il proposito anselmiano nella composizione del Monologion è l’applicazione di quanto Eadmero ha appena menzionato 6: Q uidam fratres saepe me studioseque precati sunt, ut quaedam, quae illis de meditanda divinitatis essentia et quibusdam aliis huiusmodi meditationi cohaerentibus usitato sermone 5  Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, I, 7, 54D-55A, ed. Southern cit., p. 12 (tr. it., p. 33). Come si vede, Eadmero descrive esattamente l’intenzione e la forma del metodo di Anselmo nel Monologion, nel Proslogion e nel Cur Deus homo. 6 Cfr. R. W. Southern, Saint Anselm. A portrait in a landscape, Cambridge 1990, pp. 118-127 (tr. it., Milano 1998, pp. 124-133); S. Vanni Rovighi, Introduzione a Anselmo d’Aosta, Bari 1987 (19992), pp. 20-44.

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colloquendo protuleram, sub quodam eis meditationis exemplo describerem. Cuius scilicet scribendae meditationis magis secundum suam voluntatem quam secundum rei facilitatem aut meam possibilitatem hanc mihi formam praestituerunt: quatenus auctoritate scripturae penitus nihil in ea persuaderetur, sed quidquid per singulas investigationes finis assereret, id ita esse plano stilo et vulgaribus argumentis simplicique disputatione et rationis necessitas breviter cogeret et veritatis claritas patenter ostenderet. […] Q uam [scil. scripturam] ego saepe retractans nihil potui invenire me in  ea dixisse, quod non catholicorum patrum et maxime beati Augustini scriptis cohaereat 7.

In realtà, osserva Southern, «although from the moment when he first began to write Anselm’s words and programme were wholly Augustinian, a  closer inspection reveals some quite fundamental divergencies between the two men in their attitudes to the world, in the range and spirit of  their theological inquiry, and in their personalities». L’opera di Anselmo appare caratterizzata da «a logical drive which was entirely his own: his programme was Augustinian, his operating system was Aristotelian» 8 – o, forse sarebbe meglio dire, più generalmente, ‘dialettico’. Con questa sua intenzione Anselmo si pone certamente, dal punto di vista del metodo, al di fuori della prospettiva della teologia, se questa si definisce come un ‘esplicito’ pensare nella fede, quale essa è attestata esattamente dall’«autorità della Scrittura» (auctoritas Scripturae) 9. La teologia è, infatti, un pensare metodologicamente ‘inclusivo’ della Scrittura, a cui si aderisce. La stessa espressione anselmiana «fides quaerens intellectum» 10 delinea l’intento della teologia, se veramente essa significa ricerca dell’intelligenza del contenuto della fede, e, quindi, una forma di comprensione che non solo non abbandona la fonte scritturistica, ma vi si riferisce in maniera programmatica. D’altra parte, appare pienamente legittima una «meditatio de ratione fidei»  –  come Anselmo definisce il  Monologion 11 –,   Monologion, Prol., 142D-143C, pp. 7, 2 - 8, 9 (tr. it., pp. 4-5).   Southern, Saint Anselm cit., p. 82 (tr. it., pp. 86-87). 9  Monologion, Prol., 143A, p. 7, 7-8. 10  Proslogion, Prooem., 225A, p. 94, 7. 11  Ibid., p. 94, 6-7. 7 8

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quando del contenuto della fede si intenda rilevare quanto vi si trova di adeguato alla ragione e che emerge in virtù della riflessione della ratio, nel caso nostro quanto concerne l’«essenza di Dio» e «alcuni altri argomenti connessi» 12. È esatto, cioè, ritenere che la fides contenga una dimensione di dimostrabilità, che appartiene e  che appare necessariamente alla ratio. Anselmo, però, mettendola in luce, mentre non fa della teologia (almeno secondo il senso tecnico del termine, che abbiamo indicato), ma fa legittimamente, nella misura della bontà del suo modo di procedere, della valida filosofia. C’è solo da osservare che, con la scelta programmatica di procedere e di concludere in forza della dimostrazione con argomenti necessari («quatenus… rationis necessitas cogeret»), e  quindi inducenti alla convinzione con la  luce della verità proveniente intrinsecamente dall’evidenza («et veritatis claritas patenter ostenderet»), non si potrà coerentemente pretendere una «veritatis claritas» relativa a  contenuti unicamente attestati dalla Scrittura, come la Trinità, tanto più dopo l’enunciazione di principio che si intende prescindere dall’«autorità della Scrittura» 13. È  dunque significativa, da  parte di  Anselmo, l’esplicita formulazione del proprio metodo: da un lato, non prendere in considerazione la Scrittura, ossia la fonte stessa della teologia; dall’altro, prendere in considerazione la fides nella sua ratio. Ma se nel Monologion il  porsi programmaticamente sul piano della necessitas rationis, inducente l’adesione razionale per evidenza, fino a  un certo punto (ossia fino a  che non si tratti della Trinità, tema che esce dall’àmbito della necessitas e  claritas della ratio), non suscita per sé nessuna questione, il problema si solleverebbe nel caso in cui il medesimo progetto si applicasse a un dato assolutamente e  imprescindibilmente ‘teologico’, come il  mistero dell’Incarnazione, dove la veritatis claritas e la ‘ostensione’ patenter non appaiono proponibili, o dove è arduo affermare che nella fides sia ‘evidentemente’ rilevabile una ratio, come la  intende Anselmo. E  non mi sembra pertinente equiparare le  riflessioni anselmiane con quelle del De Trinitate di  Agostino  –  come lo 12  Monologion, Prol., 143A, p. 7, 3-4: «(…) de meditanda Divinitatis essentia, et quibusdam aliis huic meditationi cohaerentibus». 13 Cfr. supra, testo cit. in corrisp. alla nota 6.

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stesso Anselmo fa  nel Prologo a  propria giustificazione 14 –: il procedimento metodologico di Agostino non equivale a quello di Anselmo, che non programma la messa in parentesi della Scrittura. «Anselmo – afferma la Vanni Rovighi – è un contemplativo in cerca delle ragioni della fede» 15. A proposito della relazione ragione-fede in Anselmo, Southern insiste sul «suo sviluppare il pensiero in discorso», ossia, il suo incoercibile «gusto dell’indagine intellettuale», la  sua passione per l’‘evidenza’ 16. Il che non impedisce, d’altronde, di distinguere l’avvento delle ‘ragioni necessarie’ quando si tratti della prospettiva effettivamente ‘filosofica’ – come in certa misura si può osservare nel caso del Monologion  –  dall’avvento delle stesse ragioni quando invece si tratta della prospettiva formalmente teologica. Notiamo subito che il credente come credente, e quindi il teologo come teologo, è sempre inserito nell’area della fede, nel senso che egli non cessa mai di affidarsi in maniera esplicita, senza che venga posta neppure metodologicamente tra parentesi, alla Rivelazione: ma gli è possibile, sotto queste stesse condizioni, giungere a una vera evidenza prima di essere giunto a godere della visione beatifica, ossia permanendo nella condizione della fede, che è «prova di ciò che non si vede» («argumentum non apparentium», Heb 11, 1)? Il traguardo a cui mira Anselmo, e di cui il Monologion vale come un pre-sentimento, è quello di un intelligere la fede a prescindere dalla Scrittura: una meditazione che sorga dalla verità stessa che si manifesta, e che si impone («rationis necessitas»), per la sua stessa forza in quanto «veritas». Perché se qualcosa è vero, la  sua verità deve possedere la  forza per manifestarsi, e  l’uomo deve poterla cogliere. Anselmo vuole far vedere la  verità, a  partire dalla sua stessa intrinseca forza di  automanifestazione, proprio in  quanto essa è  vera. Procedendo così  –  pur senza fare direttamente riferi14  Cfr. Monologion, Prol., 143C-144A, p. 8, 10-14: «Q uapropter, si cui videbitur quod in eodem opusculo aliquid protulerim, quod aut nimis novum sit, aut a veritate dissentiat, rogo ne statim me aut praesumptorem novitatum, aut falsitatis assertorem exclamet; sed prius libros praefati doctoris Augustini de Trinitate diligenter perspiciat, deinde secundum eos opusculum meum diiudicet». 15  Vanni Rovighi, Introduzione a Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 6), p. 21. 16  Southern, Saint Anselm cit. (alla nota 6), pp. 120-121 (tr. it., p. 125). E cfr. ibid., pp. 126-127 (tr. it., p. 133).

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mento alla Scrittura – non si perde la fede. Si vuole piuttosto far esplodere la verità – presente evidentemente anche a livello della fides – nella sua intrinseca necessità, nella sua intrinseca evidenza. Ma tutto questo è possibile? Le investigationes di Anselmo svolte per manifestare la  claritas veritatis, non finiscono per razionalizzare, o  naturalizzare la  fede? Non viene, in  tal modo, ridotta la verità delle Scritture, proprio come esito di una pretesa, un’illusione di  ‘vedere’ razionalmente il  mistero, in  quanto si presuppone che esso possa apparire nella sua luce, a prescindere dal dato scritturistico? Si noti bene: Anselmo non cessa mai di essere credente, e  anzi vive nel clima della preghiera, e  proprio perché si lascia penetrare, si lascia attrarre dalla verità cioè da Dio. Egli continua a ricercare con ansia il volto di Dio, e proprio in questo non viene a mutarsi mai l’oggetto reale della sua riflessione, che rimane l’Oggetto professato dalle Scritture. Ma questa claritas della verità è ancora la claritas teologica o è la claritas apparente, cioè che appare, come esito di un procedimento logico? Chi legga i  testi di  Anselmo avverte sempre in  essi come due dimensioni: quella orante (affidantesi), e quella contemplante, che ritiene d’essere già in grado di unificare. Prescindendo dal caso del Monologion, questo stesso sarà l’interrogativo cruciale a  proposito del Cur Deus homo. È possibile una meditatio che concluda al possesso di una ‘ragione (ratio) della fede’, senza ridurre – e preciso: da questa esatta prospettiva – la fides alla ratio o, se vogliamo, senza l’acquisizione di un contenuto nella forma del mistero o della fede e di un contenuto nella forma della ragione o ‘evidenza’? O della verità della fede nella sua ‘evidenzialità’, già posseduta come se si fosse già nella visione beatifica? È nell’indole di Anselmo essere un appassionato delle essenze delle verità atemporali immutabili, quindi della visione di ciò che è  assolutamente vero, secondo la  forma dei procedimenti logici stringenti e  costringenti. Egli cerca delle conclusioni che si reggano da sé, e che egli brama contemplare. 3. In base al profilo della ricerca qui avviata, si rende indispensabile anche una breve analisi del Proslogion. Se nel Monologion Anselmo descrive, mostrandosi ‘parzialmente’ filosofo, le prerogative (qualità) di  Dio come bontà, giustizia ecc., nel Proslogion parla del soggetto portatore di queste qualità. Vuole descrivere l’esistenza 113

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che si impone necessariamente dell’unico Dio che possiede tutte queste qualità: Ergo, Domine, qui das fidei intellectum, da mihi, ut quantum scis expedire intelligam, quia es sicut credimus, et hoc es quod credimus. Et quidem credimus te esse aliquid quo nihil maius cogitari possit. Si ergo id quo maius cogitari non potest, est in solo intellectu: id ipsum quo maius cogitari non potest, est quo maius cogitari potest. […] Et certe id quo maius cogitari nequit, non potest esse in solo intellectu. Si enim vel in solo intellectu est, potest cogitari esse et in re, quod maius est. Si ergo id quo maius cogitari non potest, est in solo intellectu: id ipsum quo maius cogitari non potest. Sed certe hoc esse non potest. Existit ergo procul dubio aliquid quo magis cogitari non valet, et in intellectu et in re 17.

Eadmero ci fa sapere quanto Anselmo si sentisse assillato da questa sua ricerca. A volte gli sembrava addirittura che si trattasse di una tentazione demoniaca. Infine, un giorno – scrive Eadmero – «la grazia di  Dio brillò nel suo cuore» 18. Potremmo dire: la  grazia del Signore rende Anselmo metodologicamente filosofo, logico, o meglio uno che non solo crede, ma ‘capisce’ (intelligit). Nell’itinerario del monaco beccense troviamo due momenti: quello orante, sostanziato dalla preghiera e dalla fede, e quello logico con la struttura stessa dell’argomentazione e la conclusione dell’evidenza. L’intera questione – scrive Eadmero – «apparve evidente al suo intelletto» 19. Vediamo, così, che non si può parlare di un argomento puramente teologico 20, anche se si deve riconoscere che il Dio a cui conclude la sua riflessione e la sua logica è lo stesso Dio della sua fede e  della sua ardente e  appassionata preghiera. In lui i due livelli si unificano ‘realmente’, ma si distinguono dal profilo formale o metodologico.

  Proslogion, 2, 227C-228A, p. 101, 4 - 102, 3.   Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, I, 19, ed. Southern cit. (alla nota 1), p. 30 (tr. it., p. 57): «Et ecce quadam nocte inter nocturnas vigilias Dei gratia illuxit in corde eius…». 19  Ibidem: «…et res patuit intellectui eius». 20   Un argomento teologico è infatti finalizzato a giustificare un’accoglienza della non-evidenza (di un atto di affidamento); qui invece Anselmo è preoccupato di far apparire la verità nella sua evidenza. 17 18

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In altri termini, Anselmo, già persuaso come credente che Dio esista, cerca un argomento chiaro e  semplice che dimostri, o meglio che mostri, in modo evidente questa sua esistenza. Egli brama di  poter ‘vedere’ Dio, nel quale egli già crede. Una tale ‘visione’ o  ‘contemplazione’ di  Dio non verrebbe ad annullare la fede in Lui, e neppure ne rappresenterebbe solo un’‘aggiunta’; e, tuttavia, pur sopravvenendo come una illuminazione che si accende nella preghiera  –  si potrebbe dire: come grazia –, nella misura in cui essa è frutto di argomentazione, il suo statuto specifico è  di natura filosofica e  come tale va giudicato. Il  che vuol dire che, se l’evidenza di  Dio è  intrinseca all’oggetto della fede, tuttavia, in quanto viene sostenuta con un’argomentazione, pur restando senza dubbio ancora intrinseca al medesimo oggetto, dal punto di vista metodologico viene ad assumere uno status filosofico. Si tratta di una «meditazione» (meditatio) che in sé consiste in un’attività logica, filosofica che, generata nel credente, gli permette di appagare il suo desiderio di contemplare Dio. Diciamo meglio: Anselmo è convinto che tale meditazione gli permetta di «capire» (intelligere) ciò che accetta con la «fede» (fides). Non quindi: una fides, da un lato, e, contrapposta o giustapposta, un’«intelligenza» (intellectus), dall’altro. Ma una «fede» dentro la  quale matura o  si esercita una ‘logica’, che fa vedere: ma, in ogni caso appunto come ‘logica’ filosofica. Se questa possiede una claritas maggiore rispetto alla pura fides, tale claritas, raggiunta con il ragionamento, non coincide in ogni caso con la species o con la ‘visione’ beatifica di Dio. Se ad essa si avvicina in quanto claritas, se ne distingue in quanto propriamente filosofica e non teologica. Il volto di  Dio qui finalmente contemplato e  sommamente desiderato dal suo cuore che crede e ama è quello che ad Anselmo appare in  virtù di  questa ‘grazia’ di  natura filosofica. Egli parte da teologo e da credente e non pone la ‘visione’ come condizione per credere: «Non cerco infatti – dichiara Anselmo – di capire per credere, ma credo per capire (non enim quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam)». E aggiunge: «Poiché credo anche questo: che ‘se non avrò creduto, non potrò capire’ (nam et hoc credo: quia ‘nisi credidero, non intelligam’)» 21. Solo che il  tra  Proslogion, 1, 227BC, p. 100, 18-19.

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guardo di  questo capire raggiunto da  Anselmo è  d’altra natura rispetto alla fede, rispetto alla teologia, che è sì «intelligenza della fede», ma non ‘evidenza razionale’ della fede, come già abbiamo osservato, rispetto alla visione e a una ‘intuizione mistica’. Va senza dubbio sottolineato con chiarezza che Anselmo è assolutamente consapevole dei limiti della ragione e della irraggiungibilità di Dio e che conosce l’esercizio propriamente teologico della ratio, dove la Scrittura e la fede sono in maniera espressa e metodologica poste a fondamento della sua speculazione. Basta leggere il capitolo 14 del Proslogion, in cui Anselmo ripete che Dio è «altro» (aliud) rispetto a quello che l’anima ha veduto; che essa «si sforza di vedere di più, e non vede nulla oltre ciò che ha veduto (intendit se ut plus videat, et nihil videt ultra hoc quod vidit nisi tenebras)»; «il suo occhio è schiacciato» dalla immensità di Dio (obruitur tua immensitate) 22. Ma nello stesso Proslogion Anselmo, partito da teologo, diventa ‘contemplativo’ unicamente a condizione di essere ‘filosofo’. 4. Indagando sulle «ragioni della fede», Anselmo intende mostrare nel Cur Deus homo la  necessità ‘logica’ e  ‘deduttiva’ dell’Incarnazione del Verbo. Anche grazie a  un procedimento di ricerca ‘razionale’, egli conclude che il «Dio uomo» è ‘necessario’. Ma ecco la questione: da questo profilo, risulterebbe ancora, in base a tale procedimento, la gratuità dell’Incarnazione? E, dalla prospettiva del metodo teologico, questa sarebbe ancora un’operazione di ‘teologia’? Il proposito di Anselmo è esplicito: partendo dal fondamento (o dal presupposto) della fede, esercitarsi a indagarne le «ragioni». Q uamvis post apostolos sancti patres et doctores nostri multi tot et tanta de fidei nostrae ratione dicant ad confu22 Cfr. ibid., 14, 235AB, pp. 111, 22 - 112, 4: «Domine Deus meus, formator et reformator meus, dic desideranti animae meae, quid aliud es, quam quod vidit, ut pure videat, quod desiderat. Intendit se ut plus videat, et nihil videt ultra hoc quod vidit nisi tenebras; immo non videt tenebras, quae nullae sunt in te, sed videt se non plus posse videre propter tenebras suas. Cur hoc, domine, cur hoc? Tenebratur oculus eius infirmitate sua, aut reverberatur fulgore tuo? Sed certe et tenebratur in se, et reverberatur a te. Utique et obscuratur sua brevitate, et obtruitur tua immesintate». E cfr. H. de Lubac, Sur le chapitre xiv du Proslogion, in Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec (Abbaye Notre-Dame du Bec), Paris 1959, pp. 295-312.

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tandum insipientiam et frangendum duritiam infidelium, et ad pascendum eos qui iam corde fide mundato eiusdem fidei ratione, quam post eius certitudinem debemus esurire, delectantur, ut nec nostris nec futuris temporibus ullum illis parem in veritatis contemplatione speremus: nullum tamen reprehendendum arbitror, si fide stabilitus in  rationis eius indagine se voluerit exercere. Nam et illi, quia ‘breves dies hominis sunt’ (Jb 14,5), non omnia quae possent, si diutius vixissent, dicere potuerunt; et veritatis ratio tam ampla tamque profunda est, ut a  mortalibus nequeat exhauriri; et dominus in  ecclesia sua, cum qua se esse ‘usque ad consummationem saeculi’ (Mt 28,  20) promittit, gratiae suae dona non desinit impertiri. Et ut alia taceam quibus sacra pagina nos ad investigandam rationem invitat: ubi dicit: ‘nisi credideritis, non intelligetis’ (Is 7,  9 sec. LXX), aperte nos monet intentionem ad intellectum extendere, cum docet qualiter ad illum debeamus proficere. Denique quoniam inter fidem et speciem intellectum quem in  hac vita capimus esse medium intelligo: quanto aliquis ad illum proficit, tanto eum propinquare speciei, ad quam omnes anhelamus, existimo. Hac igitur ego consideratione […] confortatus, ad eorum quae credimus rationem intuendam […] aliquantum conor assurgere 23.

L’obiettivo di Anselmo appare chiaro: elevarsi alla «intelligenza» delle «realtà», che sono il contenuto della sua fede. E in tali termini è racchiusa perfettamente la finalità e la natura della teologia. Ma la singolarità di Anselmo nel Cur Deus homo si delinea, ancora una volta, quando egli determina più precisamente il suo intento: quello cioè di mostrare l’inconsistenza delle obiezioni di quelli che non hanno la fede e la rigettano, giudicandola contro la ragione. «Facendo astrazione da  Cristo (remoto Christo), come se nulla fosse avvenuto a suo riguardo», Anselmo si prefigge di «provare con ragioni necessarie (rationibus necessariis)» l’impossibilità della salvezza senza di lui. In altre parole, egli si propone, «come se non si sapesse nulla di Cristo» (quasi nihil sciatur de Christo), di  «dimostrare con evidenti ragioni e  verità» (aperta ratione et veritate) la  necessità dell’«homo-Deus». Per cui «bisogna che

23  Cur Deus homo, Commendatio operis ad Urbanum Papam II, 260B-261B, pp. 39, 2 - 40, 15.

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avvenga necessariamente (ex necessitate fieri) tutto quanto crediamo riguardo a Cristo» 24. Anselmo, quindi, esattamente nell’ambito dell’inesauribile ratio veritatis, di cui ha parlato, assegna alla sua ricerca, per parte sua – e questa è la sua originalità e la sua avventura –, un compito e un senso ben preciso: si tratta, anche in questo caso, di una ratio o di una contemplatio il cui contenuto non domanda, o non include e non presuppone, metodologicamente, la  fede e  la Scrittura, l’evento storico, senza alcun dubbio creduto da Anselmo, ma di cui, in ogni caso, è affermata l’evidente necessità in base a un procedimento logico. Il Dottore magnifico crede però di poter far ‘apparire’ le  ragioni del ‘Deus-homo’. Q ueste ragioni possono, a  suo giudizio, emergere nella loro necessità, grazie al  suo ‘ragionare’ e quindi grazie al ragionare dell’intellectus. Si tratta di un’evi­denza costringente della verità dell’Incarnazione per la ratio stessa. L’intento è, cioè, comprendere con l’intellectus  –  e  quindi con una scienza ‘assoluta’ a prescindere dal regime della fides – il perché, anzi la necessità ‘logica’ dell’Incarnazione del Verbo. Q uesto intuitus, come egli lo chiama («ad eorum quae credimus rationem intuendam» 25), nella sua natura di ‘visione’, equivale alla species (da «spectare») beatifica, almeno dal profilo razionale: ma una tale ‘visione’, dalla prospettiva del metodo, è saldata – a parte la sua validità – con l’assunzione del puro punto di vista della razionalità logica. Si potrebbe dire che Anselmo è persuaso che nella fides sia incluso uno «splendor veritatis» che fa irradiare la verità stessa. Di questo splendore – egli ritiene –, grazie alla ‘logica’, possiamo fruire già nello stato presente come, in certa maniera, prevenendo lo stato della visione. Ma in tal modo, con la prevalenza della ratio, si passa dall’auctoritas (accettazione della verità in quanto Dio l’attesta e la rivela) a quello che è già una ‘visione razionale’ di ciò che la fides anticipava o assicurava in anticipo. 24 Cfr. ibid., Praefatio, 361A-362A, pp. 42, 11 - 43, 3: «Ac tandem remoto Christo, quasi numquam aliquid fuerit de illo, probat rationibus necessariis esse impossibile ullum hominem salvari sine illo. In secundo autem libro similiter quasi nihil sciatur de Christo, monstratur non minus aperta ratione et veritate naturam humanam ad hoc institutam esse, ut aliquando immortalitate beata totus homo, id est in corpore et anima, frueretur; ac necesse esse ut hoc fiat de homine propter quod factus est, sed non nisi per hominem-deum; atque ex necessitate omnia quae de Christo credimus fieri oportere». 25 Cfr. supra, nota 23.

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Anche Tommaso è appassionato di lumen, e parla di «lumen fidei» 26, di «novum lumen» e di «nova lux intelligibilis» 27: ma tale lumen è nel suo linguaggio quello che irradia dalla fede e dalla Rivelazione, che stanno oltre i  «confini della filosofia (metae philosophiae)» 28 e di cui unicamente possiamo affermare la possibilità. La fides possiede per Tommaso uno splendor veritatis in sé: è caratterizzata da una visibilità, è comprensibile, è evidenziabile in sé: il problema è però nel fatto che il mistero di Dio è evidente in sé ma non lo è per noi. Esiste un’affinità profonda tra il desiderio di  vedere il  mistero e  la sua visibilità, la  sua conoscibilità. Ma dal punto di vista di Tommaso, se per noi il mistero è reso evidente in base a un procedimento logico, razionale, non ci è garantito che esso sia il  contenuto della fede, o  quell’«excessus» del soprannaturale, come lo chiama Tommaso, del quale egli ritiene che la ragione possa vedere solo delle similitudines: «In ipsis que per naturalem rationem cognoscuntur sunt quedam similitudines eorum que per fidem sunt tradita» 29. In altre parole, la fides certamente possiede la dimensione dello splendor veritatis, ma si tratta di uno splendore occulto, velato, che non appare necessariamente nella sua evidenza: c’è, ma non appare ancora. Il credente si trova, così, in  una situazione singolare, potremmo dire di  ‘sofferenza’. Con la res della fede il credente possiede già lo splendor, ma non è ancora capace di vedere. Ancora il Dottore angelico scrive: «Fit nobis in statu vie quedam illius cognitionis [scil. secundum modum ipsorum divinorum] participatio et assimilatio ad cognitionem divinam, in quantum per fidem nobis infusam inheremus ipsi prime veritati propter

 Cfr. Thomas Aq uinas, Super Boetium de Trinitate, q. 2, a. 3, resp., ed. cura et studio Fratrum Praedicatorum (ed. Leonina, L), Roma 1992, p. 99a, 131-133: «Sicut autem sacra doctrina fundatur supra lumen fidei, ita philosophia fundatur supra lumen naturale rationis». 27 Cfr. ibid., q. 1, a. 1, resp., p. 82a, 147-158: «Sic ergo sunt quaedam intelligibiles veritates (…) et ad haec cognoscenda non requiritur nova lux intelligibilis (…). Q uaedam vero sunt ad quae praedicta principa non se extendunt, sicut sunt ea quae sunt fidei (…); et haec cognoscere mens humana non potest nisi divinitus novo lumine illustretur, superaddito lumini naturali». 28 Cfr. ibid., q. 2, a. 3, ad 3, p. 99b, 193-196: «Sacramentum fidei pro tanto dicitur liberum a philosophicis argumentis, quia sub metis philosophiae non coartatur, ut dictum est». 29  Ibid., q. 2, a. 3, resp., p. 99a, 128-130. 26

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se ipsam» 30. L’intellectus fa avanzare la  fides e, al  tempo stesso, anticipa la  species. Ma quale intellectus? Q uello che metodologicamente si affida alla logica, per percepire la ‘logica’ del mistero, o quello che viene via via raggiunto per l’irraggiarsi del lumen fidei nella ragione esplicitamente e metodologicamente credente? Anselmo, che non cessa mai di credere, ritiene che l’intelletto, posta in parentesi la fede, già possa vedere: ma con questa visione egli fa un ingresso metodologico dal mondo della stessa fede a  quello della logica, che certo non obietta alla fede, ma sicuramente ne prescinde. Ma allora il teologo nel suo metodo è diventato (dal punto di vista di Tommaso) filosofo. Giustamente René Roques osserva: Plus strictement philosophique et spéculative dans le  Proslogion, plus théologique et plus engagée dans l’histoire religieuse de l’humanité dans le  Cur Deus homo, la  démonstration anselmienne garde, de part et d’autre, un caractère systématiquement déductif. C’est la  logique et la  nécessité interne d’un donné qui font preuve ici et là: l’idée de Dieu entraîne sa nécessité; la destination de l’humanité pécheresse et le dessein de Dieu sur sa création, radicalement compromis l’une et l’autre et absolument impossibles sans le Christ, rendent le Christ ‘nécessaire’. A sa manière, le Cur Deus homo présente, lui aussi, une espèce d’argument ‘ontologique’ 31.

5. Non era mia intenzione valutare in sé la dottrina di Anselmo sulla redenzione ottenuta con il metodo delle ‘ragioni necessarie’, ma mettere in  luce che il  suo apporto proprio è  quello dell’elaborazione di una impossibile ‘filosofia’ del mistero, inaccettabile dai filosofi e dai teologi, accanto a una teologia felicemente esercitata e a una fede non mai ‘realmente’ e soggettivamente abbandonata, ma a cui, per esplicita scelta metodologica, in quel preciso momento elaborativo, applica un’epochè. Tale ‘filosofia’ del mistero offre sicuramente ad Anselmo un intellectus, una visione, che egli ritiene lo avvicini alla species beatifica, ma si tratta di  una visione della ratio. Da qui l’interrogativo critico: può veramente questa ‘visione’ dirsi un intellectus   Ibid., q. 2, a. 2, resp., p. 95b, 73-77.   R. Roq ues, Introduction, in Anselme di Cantorbéry, Pourquoi Dieu s’est fait homme, Paris 1959, [pp. 9-192], p. 181. 30 31

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del mistero, per sua natura definibile come soprannaturale, ‘eccedente’, gratuito e incommensurabile alla ratio e alla sua necessità (ratio necessaria)? È il  motivo per cui parlerei di  ‘audacia’, anzi di  ‘utopia’ di Anselmo. Egli ritiene di offrire una forma di visione del mistero stesso; in verità vi riesce, abbassandolo – insisto: sempre dal punto di  vista del metodo  –  al livello della razionalità, la  quale è  pure intrinseca e  necessaria al  mistero stesso, ma è  la scientia Dei et beatorum che ne ha la percezione immediata e ‘logica’. Anselmo, credente, assetato di  species, ha come aspirato a  porsi quasi già dalla parte di quella scientia, anticipandone i tempi: un anticipo appunto audace e utopico. «Chiedo – egli pregava – non di venir confermato nella fede ma, già confermato in essa, di godere dell’intelligenza della verità (ut veritatis intellectu laetifices)» 32. Viene da pensare a una ‘visione’ gioiosa sì, ma nel desiderio.

32  Cur Deus homo, II, 15, 416B, p. 116, 9-12: «Hoc postulo (…) non ut me in fide confirmes, sed ut confirmatum veritatis ipsius intellectu laetifices».

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SI VIS, Q UAERAMUS Q UOD SIT VERITAS. ANSELMO E IL MODELLO PEDAGOGICO MONASTICO

Nel cantare le lodi di Anselmo, tanto dal punto di vista religioso che da quello umano e culturale, il suo biografo Eadmero di Canterbury si sofferma più volte e  con particolare enfasi sui talenti magistrali dell’arcivescovo. Dovendo relazionarsi a  interlocutori di volta in volta diversi in quanto a  prestigio e  formazione, Anselmo mostrava infatti una naturale capacità di adattare le sue parole a  ciascuno di  essi, generando una «famelica aviditas» di  ascoltarlo in  chiunque lo incontrasse. Tramite una paziente ma insistente opera di persuasione riusciva dunque a indirizzare i  monaci a  una vita che non esondasse dagli argini della moralità monastica, i  chierici a  conservarsi nella pratica del Signore, i coniugi alla fedeltà matrimoniale 1. Q uesta capacità di dialogare con tutti e di fornire, nel modo più appropriato a ciascuno, un consiglio esaustivo, un ammonimento o  una parola di  conforto esemplifica perfettamente, secondo Eadmero, la particolare attenzione del magister nei confronti dei problemi della comunicazione interpersonale e, nello specifico, della pratica didattica. L’essere umano appare a  Anselmo come cera, che può presentarsi, a chi la debba lavorare, tanto resistente alle modificazioni quanto a  esse cedevole. Entrambi gli eccessi, in quanto tali, sono dannosi: nel primo caso, uomini vissuti nella corruzione del mondo («in vanitate huius saeculi») sono dive1   Cfr. Eadmerus Cantuarensis, Vita Anselmi, 31, PL 158, [49-118], 76C-77A, ed. R.W. Southern, in The Life of  St Anselm Archibishop of  Canterbury by Eadmer. Introduction, Notes and Translation, London – Edinburgh – Paris – Melbourne – Toronto – New York 1962, p. 54.

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 123-135 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112914

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nuti sordi alle verità spirituali; nel secondo caso, invece, fanciulli, ancora non temprati dall’età e dalla conoscenza («aetate ac scientia teneri») risultano incapaci di discernere il bene dal male e dunque ancora inadatti a ricevere il sigillo della formazione. Negli adolescenti e nei giovani, invece, nei quali teneritudo e duritia sono ben contemperati dall’età mediana, appare ad Anselmo più concreta la possibilità del magister di imprimere il proprio segno 2. Lo stesso Anselmo, quando descrive le  linee generali di  un modello di  formazione, pensa certamente alla educazione dei monaci e dei novizi. A un abate, che si lamentava di non riuscire ad ottenere risultati dai più giovani tra i suoi confratelli, pur avendoli frustati più volte e con costanza («die ac nocte»), Anselmo indica come il  maestro, prima ancora della competenza e  di una disciplina imposta con tanta violenza, debba saper trasmettere al discepolo la certezza di star lavorando per il suo bene. Il suggerimento che Anselmo fornisce, al fine, all’abate non è certamente di usare solo le blandizie, ma di convincersi dell’inutilità della sola disciplina. A  differenza dell’artigiano mediocre che sa solo picchiare senza criterio sulla materia informe, l’artista esperto alterna colpi e levigature, sbalzi e pressioni. Parimenti, l’educatore dovrà essere severo ma disponibile, fornendo ai suoi discepoli quanto occorre loro, volta per volta, per crescere, in  una lenta e  ragionata progressione di nutrimenti via via più ricchi e complessi. Il maestro otterrà dai suoi discepoli solo ciò che riuscirà a dare loro: laddove essi non avvertano amor, pietas, benevolentia e dulcedo nel parole e  nelle azioni di  chi deve guidarli, non potranno che generare odium e invidia e ricurvarsi ad vitia come alberi mal cresciuti 3. La figura di maestro di Anselmo appare in queste parole chiaramente delineata e fa eco al topos, frequentissimo lungo tutto l’alto Medioevo, del magister sensibile alle esigenze e alle richieste esplicite dei suoi discepoli e, in special modo, del monaco erudito che cede alle insistenti preghiere dei fratres che si appellano alla sua capacità teoretica e divulgativa perché lasci loro traccia delle conversazioni tenute assieme, affinché essi possano individualmente riprenderle per meditarne le conclusioni.

 Cfr. ibid., 11, 59AC, pp. 20-21.  Cfr. ibid., 67C-68D, 22, pp. 37-40.

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Già Benedetto aveva indicato, in  diversi punti della Regula, quali fossero i  doveri legati al  docere. Chi insegna, e  nello specifico l’abate, deve sempre mostrare una totale omogeneità tra ciò che esprime e i suoi comportamenti, per non rischiare di denunciare, laddove emergessero incoerenze, l’infondatezza del suo messaggio 4. Da parte sua, il  monaco discepolo deve accettare con umiltà gli insegnamenti ricevuti e, soprattutto, deve tacere dinanzi al magistero che riceve. Anche ai discipuli perfecti va concessa infatti raramente la licentia loquendi, perché è dato ai maestri parlare ed insegnare, e ai discepoli tacere ed ascoltare («nam loqui et docere magistrum condecet, tacere et audire discipulum convenit») 5. Negli stessi anni, sempre in una ottica di convivenza comunitaria tra magistri e discipuli ma nell’ambito di una esperienza monastica distinta e parallela rispetto a quella benedettina, Cassiodoro esprime, nella prefazione al primo libro delle sue Institutiones, la  necessità di  una ordinata prassi didattica all’interno dell’esperienza comunitaria. Lo stesso carisma fondativo di Vivarium lo esige. Verificata la  presenza soltanto di  scuole utili allo studio delle lettere profane, Cassiodoro decide infatti di  impegnarsi («nisus sum») per fondare a Roma una schola Christiana. L’imperversare della guerra greco-gotica impedisce però la buona riuscita del progetto, che troverà realizzazione altrove, nella fondazione di  un orto dello spirito, funzionale alla crescita dei più giovani tra i credenti. A loro, Cassiodoro indirizza dei libri come se fosse per loro un maestro («ad vicem magistri»). Le Institutiones, che danno il  titolo all’opera, sono i  due corni della formazione del buon cristiano: le Scritture e le arti liberali. È infatti compito del maestro serio («magister gravis») interrogare spesso («frequenter») gli antichi («prisci»), tanto gli interpreti del testo sacro quanto gli autori di  testi sulle artes 6. Agli studiosi 4  Cfr.  Benedictus Nursinus, Regula, 2, PL 66, [215-932], 263CD, ed. R. Hanslik, Wien 1960 (19772) (CSEL, 75), p. 23. 5 Cfr. ibid., 6, 356C, p. 42. 6 Cfr. Cassiodorus Senator, Institutiones, Praefatio, PL 70, 1106D-1107A, ed. R. A. B. Mynors, Oxford, 1937, p. 37: «Sed cum per bella ferventia et turbulenta nimis in Italico regno certamina, desiderium meum nullatenus valuisset impleri, quoniam non habet locum res pacis temporibus inquietis; ad hoc divina charitate probor esse compulsus, ut ad vicem magistri introductorios vobis libros istos, Domino praestante, conficerem; per quos (sicut aestimo) et Scripturarum divinarum series, et saecularium litterarum compendiosa notitia Domini munere

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fratres Cassiodoro indica dunque una scala ascensiva, simile in  forma e  funzione a  quella apparsa in  sogno al  patriarca Giacobbe, grazie alla quale, procedendo nella lettura ordinata e ragionata dei testi sacri, dei loro interpreti e dei migliori rappresentanti della tradizione pagana, è possibile giungere, in una progressiva ascesa legata all’insegnamento religioso («religiosa doctrina»), alla contemplatio di Dio 7. La costruzione del monastero in una posizione geografica utile a sostentarsi e ad aiutare i più poveri; l’utilizzo, mutuato da Girolamo, di cola e commata per distinguere nei testi termini e proposizioni; la presenza, nelle mura del monastero, di esperti artifices abili nelle rilegature; l’acquisto di mechanicae lucernae per le veglie notturne; la realizzazione di un horologium che indicasse lo scorrere del tempo sono tutti elementi che, anche nella loro concretezza, permettono a Cassiodoro di facilitare, materialmente, un processo di formazione complessiva che coinvolge tutti gli aspetti della vita comunitaria in una completa e circolare osmosi didattico-spirituale tra il magister ed i suoi discipuli 8. panderetur. Minus fortasse disertos, quoniam in eis non affectata eloquentia, sed relatio necessaria reperitur; utilitas vero magna inesse cognoscitur, quando et per eos discitur, unde et salus animae, et saecularis eruditio provenire monstratur. In quibus non propriam doctrinam, sed priscorum dicta commendo, quae posteris laudare fas est, et praedicare gloriosum: quoniam quidquid de priscis sub laude Domini dicitur, odiosa iactantia non putatur. Huc accedit quod magistrum gravem pateris, si frequenter interroges; ad istos autem quoties redire volueris, nulla asperitate morderis». 7 Cfr. ibid., 1108B, p. 39: «Moderamini ergo, studiosi fratres, sapienter desideria vestra, per ordinem quae sunt legenda discentes, imitantes scilicet eos qui corpoream desiderant habere sospitatem»; ibid., 1110A, p. 40: «Instituti operis ordine celebrato, nunc tempus est ut veniamus ad religiosae doctrinae saluberrimum decus, devotarum lumen animarum, coeleste donum, et gaudium sine fine mansurum. Q uod, ut ego arbitror, duobus libris qui sequuntur, est breviter intimatum»; ibid., 1107AB, p. 35: «Q uapropter, dilectissimi fratres, indubitanter ascendamus ad divinam Scripturam per expositiones probabiles Patrum, velut per quamdam scalam visionis; ut eorum sensibus provecti, ad contemplationem Domini efficaciter pervenire mereamur. Ista est enim fortasse scala Iacob per quam angeli ascendunt atque descendunt (cfr. Gn 28, 12), cui Dominus innititur, lassis porrigens manum, et fessos ascendentium gressus sui contemplatione sustentans». 8 Cfr. ibid., I, 33, 4, 1150BC, p. 70: «Eia nunc, charissimi fratres, festinate in Scripturis sanctis proficere, quando me cognoscitis pro doctrinae vestrae copia, adiutorio dominicae gratiae, tanta vobis et talia congregasse. Conferte nunc legentes vicissitudinem rerum, ut pro me iugiter Domino supplicare dignemini: quoniam scriptum est; ‘Orate pro invicem, ut salvemini’ (Iac 5, 16). O inaestimabilis

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Le due esperienze monastiche, cronologicamente parallele ma tra di  loro indipendenti, di  Cassiodoro e  Benedetto descrivono dunque la  pratica didattica come una necessità direttamente derivante dalla scelta della vita comunitaria. Tanto Benedetto quanto Cassiodoro avvertono infatti l’esigenza personale di declinare il fervore della propria fede nella attività di diffusione dei suoi principi. Nella stessa ottica di  aderenza tra habitus spirituale e  magistero sociale, nella stesura dei suoi Moralia in  Iob Gregorio Magno ricorda a  quei doctori che osano insegnare ciò che trascurano di praticare che non soltanto smarriscono in  ciò la regola di una vita corretta (l’ordo bene vivendi) ma soprattutto infrangono la superiore correttezza di ciò che affermano (la rectitudo loquendi) 9. È invece, afferma autobiograficamente Gregorio, la sua sofferenza individuale, la sua irripetibile cifra personale a  renderlo interprete plausibile di  Giobbe 10, perché il  maestro che tratta di  argomenti religiosi non può affidarsi alla semplice tecnica, all’ars loquendi, che si rivela sempre essere una disciplina legata all’apparenza, all’exterioritas 11. È in  virtù di  tale timore che Gregorio rifiuta di  ingabbiare («restringo») le  parole della Scrittura («verba celesti oraculi») sotto le regole del grammatico pietas virtusque Creatoris, quando in commune utile esse promittitur, si pro nobis invicem pio Domino supplicemus!». 9 Cfr.  Gregorius I  papa [Magnus], Moralia in  Iob, XI, 15,  23, PL 75-76,  75,  964BC, ed.  M.  Adriaen, 3  voll., Turnhout 1979-1985 (CCSL, 143-143A-143B), II, p. 599, 1318: «Et plerumque doctor qui docere audet quod negligit agere, cum desierit bona loqui quae operari contempsit, docere subiectos incipit prava quae agit, ut iusto omnipotentis Dei iudicio, in bono iam nec linguam habeat, qui habere bonam vitam recusat; quatenus cum mens eius terrenarum rerum amore incenditur, de terrenis rebus semper loquatur». 10 Cfr. ibid., VI, 11, 13, 763CD, I, p. 293, 1-10: «Idcirco enim saepe et desidiosus ingenium accepit, ut de negligentia iustius puniatur, quia quod sine labore assequi potuit, scire contemnit. Et idcirco nonnunquam studiosus tarditate intelligentiae premitur, ut eo maiora praemia retributionis inveniat, quo magis in studio inventionis elaborat. Nihil ergo est in terra sine causa, quando et studioso tarditas ad praemium proficit et desidioso velocitas ad supplicium crescit. Ad intelligenda autem quae recta sunt, aliquando laboris studio, aliquando vero dolore percussionis erudimur». 11  Cfr. ibid., ep. praef. ad Leandrum, 5, 516B, p. 7, 215-222: «Unde et ipsam loquendi artem, quam magisteria disciplinae exterioris insinuant, servare despexi. Nam sicut huius quoque epistolae tenor enuntiat, non metacismi collisionem fugio, non barbarismi confusionem devito, situs modosque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum vehementer existimo, ut verba coelestis oraculi restringam sub regulis Donati».

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Donato («sub regulis Donati»). Insegnare non è infatti semplicemente veicolare un contenuto. Tutti gli uomini tendono per natura a  trascendere se stessi, ma l’amor che spinge a  meditare spesso non è sufficiente nemmeno a dare inizio al proprio percorso di ricerca 12. È qui che acquisisce significato l’opera magistrale dei confratelli che hanno già superato tali difficoltà ma non ne hanno cancellato il ricordo e che in nome della comune fede si volgono indietro a guardare chi è in ambasce. Q uando si parla di Dio agli uomini, dunque, l’ordo docendi, il metodo cioè con il quale si sceglie cosa dire e come dirlo, non può che nascere ex propria infirmitate, dalla coscienza cioè di  essere o  di esser stati nella stessa, incerta condizione dei propri allievi. Il  magistero appare così, nelle parole di  Gregorio, una operazione circolare, nella quale ci si rivolge, indietro, ai parvuli, bisognosi di  apprendere, e  ci si affida, guardando avanti, ai magni, che hanno già percorso quel cammino 13. L’insegnare è dunque condividere con una comunità una tensione alla verità, vale a dire una filosofia, che rigetti i beni terreni, senza ignorare la finitezza umana, e tenda ai beni celesti, senza lasciar dietro i più deboli. Per questo, chi rimane legato alla sensibilità e non supera tale oscurità è incapace di impartire qualsivoglia insegnamento: quando Giobbe afferma che Dio sottrae 12 Cfr. ibid., VI, 10, 12, 735-736A, pp. 291, 4 - 292, 16: «Saepe stultus habet interni liquoris fontem, sed non bibit, quia ingenium quidem intelligentiae accipit, sed tamen veritatis sententias cognoscere legendo contemnit; scit quia intelligere studendo praevaleat, sed ab omni doctrinae studio fastidiosus cessat. Divitiae quoque mentis, sunt verba sacrae locutionis; sed has divitias stultus oculis aspicit, et in ornamenti sui usum minime assumit, quia verba legis audiens, magna quidem esse considerat, sed ad comprehendenda haec nullo studio amoris elaborat. At contra alius sitim habet, ingenium non habet; amor ad meditandum pertrahit, sensus hebetudo contradicit; et saepe hoc in divinae legis eruditione quandoque studendo intelligit, quod per negligentiam ingeniosus nescit. Huius ergo stulti divitias sitientes bibunt, dum praecepta Dei, quae ingeniosi fastidientes nesciunt, hebetes amantes assequuntur». 13 Cfr.  ibid.,  XXXV, 20,  49,  781A-782A, III, p.  1811,  115-127: «Et quia in hoc tam magno humano genere, nec parvi desunt qui dictis meis debeant instrui; nec magni desunt qui cognitae meae valeant infirmitati misereri, per haec utraque aliis fratribus quantum possum curam confero, ab aliis spero. Illis dixi exponendo quod faciant, istis aperio confitendo quod parcant. Illis verborum medicamenta non subtraho, istis lacerationem vulnerum non abscondo. Igitur quaeso ut quisquis haec legerit, apud districtum iudicem solatium mihi suae orationis impendat, et omne quod in me sordidum deprehendit fletibus diluat. Orationis autem atque expositionis virtute collata, lector meus in recompensatione me superat, si cum per me verba accipit, pro me lacrymas reddit».

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il contenuto del docere, vale a dire la doctrina, agli anziani, Gregorio non esita a individuare e stigmatizzare in essi coloro i quali, rapiti dall’amore delle cose terrene, hanno dimenticato di cercare quelle celesti. La  loro condizione è  dunque simile a  quella degli eretici, che sono incapaci di comprendere, tramite i sensi, unica forma di  conoscenza per loro accettabile, il  vero («per experimentum ignorant quae vident») 14. Invece, la comprensione della verità è  stimolata dall’apparente incomprensibilità superficiale («exterius rationabile») che spinge allo sforzo di comprensione di un senso più profondo («ad studium interioris intellectus») 15. Giobbe fu dunque veramente prototipo magistrale, rispettoso della regola della vera filosofia, quando, subite le  sofferenze, si stracciò le vesti ma al contempo adorò 16: è infatti della vera philosophia non solo evitare gli eccessi ma unire la sofferente ignoranza del mondo alla devozione per la trascendenza. Q uesto ideale di  una comunione monastica nella quale l’erudizione del frater più colto diviene stimolo e viatico di promozione di tutta la comunità, attraversa tutti i secoli dell’alto Medioevo, giungendo sino ai decenni dell’età carolingia. Epoca di ulteriore sviluppo delle realtà monastiche, il secolo nono fu percorso da una riflessione continua e profonda sul senso del magistero teologico e spirituale. Così, il celebre magister della corte di Carlo Magno, Alcuino, riassume in  modo perfetto il  modello di  tale relazione 14  Cfr. ibid, III, 24, 47, 623B, I, p. 145, 2-13: «Haeretici quippe cum sanctae Ecclesiae facta considerant, oculos levant, quia videlicet ipsi in immo positi sunt et cum eius opera respiciunt, in alto sunt sita quae cernunt; sed tamen hanc in dolore positam non cognoscunt. Ipsa quippe appetit hic mala recipere, ut possit ad aeternae remunerationis praemium purgata pervenire. Plerumque prospera metuit, et disciplina eruditionis hilarescit. Haeretici igitur, quia pro magno praesentia appetunt, eam in vulneribus positam non cognoscunt. Hoc namque quod in illa cernunt, in suorum cordium cognitione non relegunt. Cum ergo haec et adversitatibus proficit, ipsi suo stupori inhaerent, quia per experimentum ignorant quae vident». 15 Cfr. ibid., IV, Praefatio, 4, 637A, p. 162, 139-140: «Nam si quid exterius rationabile fortasse sonuisset, nequaquam nos ad studium interioris intellectus accenderet». 16 Cfr. ibid., II, 16, 28, 569B, p. 77, 3-8: «Nonnulli magnae constantiae philosophiam putant, si disciplinae asperitate correpti, ictus verberum doloresque non sentiant. Nonnulli vero tam nimis percussionum flagella sentiunt, ut immoderato dolore commoti, etiam in excessu linguae dilabantur. Sed quisquis veram tenere philosophiam nititur, necesse est ut inter utraque gradiatur».

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didattica quando, da S. Martino, dichiara al suo sovrano di esser diventato, nella sua vita, molte cose per molti («plurima plurimis») proprio per realizzare a  pieno il  proprio magistero 17. La filosofia, come il maestro Alcuino rivela ai suoi discipuli nella breve Disputatio de vera philosophia, è  magistra di  ogni virtù, unica tra le ricchezze mondane a non lasciare mai in miseria chi la possiede. È dunque compito di chi ha già colto i vertici di tale magistero invogliare a una gerarchica indagatio coloro i quali desiderino («cupientes») ascendere alle sue vette. Il maestro dovrà, in relazione alla giovane età degli aspiranti filosofi, concedere loro un supporto («dans dexteram»), facilitarli nei passaggi più complessi, in modo tale che il naturale lumen presente latentemente in ogni uomo, come la scintilla è presente nella selce, possa emergere grazie alla sua insistente tenacia («crebra intentio»). Fonte della conoscenza è  dunque soltanto Dio, che concede doni con abbondanza («qui dat affluenter»), ma compito del doctor è guidare e corregere, come un ductor, i suoi allievi lungo i sentieri della ragione divina («per divinae vias rationis»). Nella stessa ottica, pochi anni più tardi, Benedetto di  Aniane, incaricato di  realizzare una Concordia regularum che mettesse ordine tra le diverse versioni della Regula di  Benedetto all’epoca circolanti, afferma con forza che la vita in comune è ben più degna della vita solitaria perché permette una piena condivisione di valori e saperi tra chi vi partecipa. Gli uomini sono infatti come membra del corpo della Chiesa; se vengono separati, il  corpo non può che morire. Essi sono destinatari, continua Benedetto, di diversi doni, come indica S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi. Se dunque a qualcuno è data la scientia e ad altri la sapientia, solo nella vita comunitaria e nella sua quotidiana condivisione circolare è possibile far sì che questi talenti esprimano pienamente e diffusamente il loro potenziale 18. 17 Cfr.  Alcuinus Eboracensis, Epistola CXXI ad Carolum, PL 100, [207A-210A], 208B, in Epistolae, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 4 (Karolini aevi, 2), Hannover 1895, pp. 175-178. 18 Cfr.  Benedictus Anianensis, Concordia regularum, 3,  3, PL 103, 741BC, ed.  P.  Bonnerue, Turnhout 1999 (CCCM, 168), p.  37,  254-264: «Tunc deinde nec sufficere potest unus ad suscipienda omnia dona spiritus sancti, quia secundum uniuscuiusque mensuram fidei et donorum spiritalium distributio celebratur, ut id quod per partes unicuique distributum est, rursum tamquam membra ad aedificationem unius corporis coeat et conspiret: ‘Alii enim

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È nella scia di questa tipologia di relazione didattica che sembra immettersi Anselmo nel disegnare la  sua figura di  magister, fornendo però, di  tale tradizione, una interpretazione personale e originale legata alla sua peculiare vis speculativa. L’intento evidentemente encomiastico della biografia di  Eadmero, infatti, interessato a  sottolineare i  meriti dell’Anselmo magister capace di conversare con chiunque e di fornire a ciascuno conforto e insegnamento, trova conferma diretta nell’impostazione didattica che Anselmo manifesta sin dalle prime righe del Monologion. È noto come il movente dell’opera sia la preghiera, mossa ad Anselmo dai suoi fratres, affinché desse forma scritta («describere») ad alcune meditazioni sull’essenza divina esposte, sino a  quel momento, in un linguaggio colloquiale (un usitatus sermo). Dinanzi a questa richiesta, Anselmo appare estremamente arrendevole. Nel confezionare l’opera, infatti, il magister non ignora le difficoltà dell’impresa e dichiara la sua conseguente scarsa fiducia nel poterla realizzare al meglio; ciononostante, il magister si piega alla volontà dei discepoli, che non esitano a imporgli precise precondizioni in relazione alle quali dar vita al testo. I fratres chiedono e ottengono, infatti, che non venga in alcun modo sfruttata l’auctoritas scritturale; che il linguaggio e lo stile siano plani; che la dimostrazione sia condotta con argomenti semplici («vulgari»); che tutto sembri derivare naturalmente dalla forza della ragione, in modo tale che il procedere degli argomenti quasi costringa il lettore ad ammettere la claritas della veritas così individuata. Per timore, infine, che, nonostante tutte queste accortezze, fosse per loro ancora difficile comprendere le parole del magister, i fratres chiedono e ottengono da Anselmo la possibilità di muovere obiezioni di qualsiasi genere, anche quelle più semplici o banali. L’ampiezza delle concessioni è  giustificata dallo stesso Anselmo in  virtù della loro modesta importunitas e soprattutto della loro honestas; i fratres non si sono infatti dimostrati né invadenti né falsi, tanto che, pur avendo dato inizio alla sua esposizione controvoglia, Anselmo dichiara di averne concluso la stesura libenter perché era riuscito a rielabo-

datur sermo sapientiae, alii sermo scientiae, alii fides, alii prophetia, alii gratia sanitatum’ (1Cor 12, 8) et cetera, quae singula utique non tam pro se unusquisque quam pro aliis suscipit ab Spiritu sancto. Et ideo necesse est uniuscuiusque gratiam quam susceperit ab Spiritu Dei in commune prodesse».

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rarla proprio secondo i desideri espressi dai suoi confratelli («sicut sciebam eos velle quorum petitioni obsequi intendebam») 19. Q uesta descrizione, fornita dallo stesso autore, dell’attenzione posta nel voler proporre la  propria riflessione nella forma che meglio si adatta alla petitio dell’uditorio, riassume perfettamente il  sentimento che guida l’approccio di  Anselmo al  magistero. Al di là del semplice desiderio di assecondare le richieste dei propri fratres, Anselmo concede ai suoi interlocutori un amplissimo spazio di movimento iniziale, che li rassicuri e li renda ben disposti a seguirlo lungo i percorsi, talvolta tortuosi, delle sue argumentationes. Così, nelle righe iniziali del primo capitolo del Monologion, forte delle facilitazioni concesse al suo uditorio, Anselmo può pretendere che anche chi si reputi dotato di un ingegno mediocris si faccia persuadere dalla sola ratio, e che dunque ceda all’evidenza di un argomento strutturato in modo tale da essere, per chiunque, il più evidente possibile («promptissimus») 20. Il magister ha dunque il compito di rendere tale cammino meno tortuoso, ben predisponendo l’animo di chi lo ascolterà grazie a una disponibilità massima nei confronti delle sue richieste; l’impegno di Anselmo è di rendere talmente privo di ostacoli il procede dell’argomentazione da mostrarlo come necessariamente autoevidente («perspecta ratio nullo potest dissolvi pacto») 21. Proprio nell’ottica di questa aspirazione a rendere i contenuti della fede intellegibili a  qualsivoglia interlocutore, Anselmo si impegna a trasformare le multae argumentationes del Monologion in un intuitivo argumentum unico. Al mutare del procedimento individuato, muta in  parallelo, necessariamente, il  contesto narrativo e  didattico; se nel Monologion infatti la  tensione alla formazione dei suoi fratres era massima, tanto da indurre Anselmo a rispondere a tutte le obiezioni per evitare che una qualsivoglia incertezza minasse il percorso del suo argomentare, nel Proslogion l’azione sembra svolgersi nel chiuso dell’animo dell’autore, che nel proemio si descrive in preda a un tormentato conflitto inte Cfr. Monologion, Prol., 144A, p. 8, 20.  Cfr.  ibid.,  1,  1, 145A, p.  13,  10-12: «Puto quia ea ipsa ex magna parte, si vel mediocris ingenii est, potest ipse sibi saltem sola ratione persuadere. Q uod cum multis modis facere possit, unum ponam, quem illi aestimo esse promptissimum». 21 Cfr. ibid., 146A, pp. 14, 28 - 15, 1. 19

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riore tra il  desiderio di  giungere all’argumentum e  la difficoltà nell’individuarlo. Anche nella solitudine di  tale sforzo, disperato prima e dopo gioioso, Anselmo sembra non poter dimenticare la sua funzione magistrale e da essa è spinto, immedesimandosi nei panni di un uditore spaesato («sub persona conantis et quaerentis»), a metter per iscritto le sue riflessioni, come guida, esempio, paradigma di meditazione 22. Anselmo, che da magister aveva prima acconsentito a ogni richiesta dei suoi fratres per poi poter imporre loro una fitta serie di ragionamenti, richiamandone la  naturale capacità, in  quanto uomini, di  acconsentire alle evidenze della verità, sembra ritrarsi, nel Proslogion, da  una condizione sociale di magistero a una più intima e personale consapevolezza che la formazione di se stesso può diventare, se condivisa, un magistero universale grazie al legame tra la costituzione razionale dell’uomo e il manifestarsi autoevidente della verità: «sono stato fatto per vederti, ma non ho ancora fatto ciò per cui sono stato fatto» 23. Anselmo offre cioè ai suoi lettori, nel Proslogion, i risultati di un travaglio personale, un percorso di formazione interiore che dunque è solo apparentemente individuale e senza precipitati didattici esterni. Il Salmo che, infatti, suggerisce ad Anselmo la celeberrima figura dell’insipiens, centrale per la drammatizzazione dell’unum argumentum, descrive, nei versetti successivi non citati nel Proslogion, la condizione tormentata del requirens: «Il Signore dal cielo si china sugli uomini per vedere se esista un saggio: se c’è uno che cerchi Dio» 24. L’insipiens è dunque l’uomo che, pur avendo in sé il concetto di Dio, ciò cioè che gli permette di dire «Dio non esiste», non coglie spontaneamente l’evidenza della verità che gli si mostra nel pensiero; Anselmo, come ha chiaramente espresso nel Proemio, se ne può fare magister in quanto requirens sofferente lui stesso, alla ricerca di quella intelligenza della fede che è condizione 22  Cfr. Id., Proslogion, Prooem., 224BC, pp. 93, 20 - 94, 2: «Aestimans igitur quod me gaudebam invenisse, si scriptum esset, alicui legenti placiturum: de hoc ipso et de quibusdam aliis sub persona conantis erigere mentem suam ad contemplandum Deum et quaerentis intelligere quod credit, subditum scripsi opusculum». 23 Cfr. ibid., 1, 226A, p. 98, 14-15: «Denique ad te videndum factus sum; et nondum feci propter quod factus sum». 24 Cfr.  Ps 13,  2: «Dominus de caelo prospexit super filios hominum ut videret si esset intellegens requirens Deum».

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ARMANDO BISOGNO

essenziale per guidare chi, come l’insipiens appunto, ha la verità in sé, come ogni altro uomo, ma non sa riconoscerla. Protagonista in prima persona della ricerca, maestro di se stesso, Anselmo mostra nel Proslogion la cogente autoevidenza che, dalla presenza nella mente dell’insipiens del solo nome di  Dio, conduce all’affermazione positiva della sua esistenza: «chi dunque comprende che Dio è così, non può pensarlo non esistente» 25. Tale conclusione, che sembrerebbe rivolta direttamente all’insipiens, viene da Anselmo invece estesa a tutti gli uomini, e a lui stesso in primo luogo: Gratias tibi, bone Domine, gratias tibi, quia quod prius credidi te donante, iam sic intelligo te illuminante, ut si te esse nolim credere, non possim non intelligere 26.

Si evidenzia così una completa e  in ciò straordinaria inversione e sovrapposizione dei ruoli tra l’Anselmo-magister e guida sicura e  l’Anselmo-requirens in  continua ricerca, nella quale l’autore ringrazia Dio non per averne guidato il magistero nei confronti dell’insipiens, ma per avere illuminato la  sua personale ricerca, affinché la ragione indagatrice inquieta si facesse, al fine, maestra di se stessa. Se dunque nel Monologion il magister Anselmo ha quasi accompagnato i suoi lettori in aula, sforzandosi di costruire per loro il più funzionale dei teatri didattici, nel Proslogion apre le porte del suo studio interiore, attraverso l’andito della ineludibile ricerca personale che, sola, prelude al momento della formazione. L’impegno didattico di  Anselmo si rivela, nelle ansie del Proslogion, innanzitutto come un magistero del requirere individuale e preventivo, di  quella inquieta ricerca che permette al  magister di  accogliere i timori dei suoi alunni perché in essi egli riconosce gli aneliti del suo stesso animo. Se Anselmo si mostra dunque impegnato a creare, nel Monologion, un ambiente formativo adatto alla miglior comprensione dei fratres, nel Proslogion propone una intensa riflessione sulla necessità, per il  magister, di  una indagine pre25 Cfr.  Proslogion, 4,  229A, p.  104,  4 : «Q ui ergo intelligit sic esse Deum, nequit eum non esse cogitare». 26  Ibid., 229B, p. 104, 5-7.

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liminare che chiarisca prima a se stesso i temi del proprio magistero. L’opera di formazione è dunque un intersecarsi continuo tra il desiderio del discepolo di apprendere e la ricerca personale del maestro, impegnato nella definizione di una dottrina che sia stabile dimora per lui in prima istanza e, solo a questa condizione, accogliente ambiente di formazione per i suoi seguaci. La conoscenza appare dunque, in  Anselmo, un percorso da  compiersi nella ricerca comune e  parallela, quella stessa che, nelle pagine del De veritate, conduce l’allievo a chiedere «aspetto di  imparare da  te la  definizione della verità», ed il  maestro a rispondere «non ricordo di aver trovato una definizione della verità; ma, se vuoi, cerchiamo (quaeramus) cosa sia la verità attraverso le diverse realtà nelle quali essa si trova» 27.

  De veritate, 1, 469B, pp. 176, 21 - 177, 2: «Non memini me invenisse diffinitionem veritatis: sed si vis quaeramus per rerum diversitates in quibus veritatem dicimus esse, quid sit veritas». 27

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ITALO SCIUTO

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1. La questione della laicità nel Medioevo e la posizione di Anselmo Per lungo tempo, l’attenzione al  mondo laico medievale è  stata coltivata soprattutto da storici della Chiesa, della cultura e della società, secondo un’ottica essenzialmente ecclesiastica, socio-politica e di storia delle idee 1. Solo recentemente, ma in modo ancora  Cfr.  Y. Congar, Jalons pour une théologie du laïcat, Paris 1953; G. de Lagarde, La naissance de l’esprit laïque au déclin du moyen Âge, 5 voll., Louvain – Paris 1956-19683; H. Grundmann, Litteratus-illitteratus. Der Wandel einer Bildungsnorm vom Altertum zum Mittelalter, in «Archiv für Kulturgeschichte», 40 (1958), pp. 1-65 (e in Id., Ausgewählte Aufsätze, 3 voll., Stuttgart 1976-1978, III, 1978, pp. 1-66); P.  Riché, Recherches sur l’instruction des laïcs au Moyen Âge, in  «Cahiers de civilisation médiévale», 5  (1962), pp.  175-182; L. Prosdocimi, Chierici e laici nella società occidentale del sec. xii, in «Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Genova», 3 (1965), pp.  241-262; Id.,  Chierici e  laici nella società occidentale del secolo xii. A  proposito di Decr. Grat. C. 12, q. 1, c. 7: «Duo sunt genera christianorum», in Proceedings of   the Second International Congress of   Medieval Canon Law (Boston College, 12-16 August 1963), edd. S. Kuttner – J. J. Ryan, Città del Vaticano 1965, pp. 105-122; I laici nella societas christiana dei secoli xi e xii, Atti della terza Settimana internazionale di studio (Mendola 1965), Milano 1968; Y. Congar, Clercs et laïcs au point de vue de la culture au Moyen Âge: laicus = sans lettres, in Studia mediaevalia et mariologica P. Carolo Balic OFM septuagesimum explenti annum dicata, Roma 1971, pp. 309-332 (e in Id., Études d’ecclésiologie médiévale, London 1983); Ilarino da Milano, La spiritualità dei laici nei secoli viii-x, in Problemi di storia della chiesa. L’alto medioevo, II Corso di aggiornamento per professori di storia ecclesiastica dei seminari d’Italia (Passo della Mendola, 30 agosto – 4 settembre 1970), Milano 1973, pp. 139-300; J. le Goff, s. v. Chierico/laico, in Enciclopedia Einaudi, 14 voll., II, Torino 1977, pp. 1066-1086; G. G. Meersseman, Ordo laicorum nel secolo xi, in Id., Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, 3 voll., I, Roma 1977 (Italia sacra, 24), pp. 217-245; G. Picasso, 1

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 137-159 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112915

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limitato, anche gli storici della filosofia medievale hanno iniziato a interessarsi di questo tema, specialmente a partire da una importante iniziativa di  Ruedi Imbach, con esiti estesi e  approfonditi per quanto limitati prevalentemente agli autori del tardo Medioevo, dal dodicesimo al  quattordicesimo e  quindicesimo secolo 2. Naturalmente, è  inevitabile che l’attenzione venga catturata innanzitutto da personaggi come Lullo, Dante, Eckhart, Boccaccio, Petrarca 3, anche in relazione al tema strettamente connesso della ‘filosofia in  volgare’ 4. Da parte nostra, abbiamo cercato di  mostrare l’importanza e  la ricchezza anche dell’alto Medioevo 5, il che ci permette di entrare meglio nel discorso che riguarda Anselmo. La ricorrenza del termine laicus non è molto frequente nell’opera di  Anselmo, tuttavia è  significativa per cogliere aspetti rilevanti dell’antropologia, della spiritualità e  della visione del mondo coltivate dal grande pensatore. Secondo la  Concordance di  Gillian Rosemary Evans, in  tutto si trovano soltanto diciannove occorrenze, di cui una sola nelle Orationes (la XVII) e tutte le altre nelle Epistolae, che dunque per il nostro tema sono fonLaici e laicità nel Medioevo, in Laicità: problemi e prospettive, Atti del XLVII corso di  aggiornamento culturale dell’Università Cattolica, Milano 1977, pp.  84-99 (e in Id., Sacri canones et monastica regula. Disciplina canonica e vita monastica nella società medievale, Milano 2006 [Bibliotheca erudita, 27]), pp.  327-344; K. Mordsdorf, s. v. Laie, Laienstand, in Lexikon für Theologie und Kirche, hrsg. von J. Hofer – K. Rahner, 14 voll., VI, Freiburg 19862, pp. 733-741; A. Vauchez, Les laïcs au Moyen Âge. Pratiques et expériences religieuses, Paris 1987; G. Lobrichon, La religion des laïcs en Occident: xi-xv siècle, Paris 1994; J.-C. Schmitt, Clercs et laïcs, in J. Le Goff – J.-C. Schmitt, Dictionnaire raisonné de l’Occident médiéval, Paris 1999, pp. 214-229 (tr. it., 2 voll., II, Torino 2003, pp. 197-212). 2 Cfr.  R. Imbach, Laien in  der Philosophie des Mittelalters. Hinweise und Anregungen zu einem vernachlässigten Thema, Amsterdam 1989; Id.,  Dante, la  philosophie et les laïcs. Initiations à la  philosophie médiévale, Fribourg  –  Paris 1996. 3 Cfr.  Laicità e  Medioevo, numero monografico di  «Doctor Virtualis», 9  (2009), in  cui C.  König-Pralong, Les laïcs dans l’histoire de la  philosophie médiévale. Note historiographique, pp. 169-197 traccia una sintesi complessiva del nuovo interesse per questo tema, con l’indicazione degli autori e delle questioni più importanti, specialmente in relazione al basso Medioevo. 4  Su cui cfr. Filosofia in volgare nel Medioevo, Atti del Convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (Lecce, 27-29 settembre 2002), a c. di N. Bray – L. Sturlese, Louvain-la-Neuve 2003. 5  Cfr. I. Sciuto, Significato e posizione del laico nell’alto Medioevo, in Laicità e Medioevo cit., pp. 11-43.

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damentali, mentre dobbiamo quindi ritenere del tutto secondarie le opere principali di Anselmo, in quanto appunto ignorano il  tema 6. Nei pochi ma validi studi che hanno esplorato questo tema, in effetti, la maggiore attenzione si è appunto concentrata sulle Lettere, in cui peraltro il tema non viene trattato sistematicamente, ma solo incidentalmente citato 7. Il  che non vuol dire, però, che nel contesto dell’opera anselmiana e più in generale del clima culturale del suo secolo sia irrilevante; anzi, è  importante per capire molti aspetti del pensiero e  dell’azione di  Anselmo, per cui è sorprendente che solo raramente sia stato «l’object de l’étude approfondie que son intérêt réclamait» 8. Si tratta dunque di interpretare alcune sparse valutazioni, dalle quali emergono una prospettiva antropologica e una visione del mondo che sembrano oscillare tra il tradizionale deprezzamento del saeculum tipico del monachesimo alla Pier Damiani e  il nuovo apprezzamento che, già presente in autori come Ivo di Chartres, porterà nel dodicesimo secolo a ‘scoprire’ il valore intrinseco dell’individuo, valorizzato prescindendo dal suo particolare ‘stato di vita’ o dall’ordine di appartenenza. Anselmo, in effetti, usa espressioni che prese alla lettera si possono collocare in entrambe le posizioni, ma si tratta appunto di chiarirle e soprattutto di interpretarle.

2. Chi e cosa è ‘laico’ per Anselmo Il punto cruciale è costituito, in ogni caso, dalla prospettiva essenzialmente e radicalmente monastica in cui si pongono tanto il pensiero quanto l’azione di Anselmo, e quindi dalla stretta relazione che spesso egli istituisce tra la  realtà del mondo laico e  la tradizionale dottrina, coltivata specialmente in ambito monastico, del contemptus mundi, spesso citata in molte lettere. Ma prima di ciò, è necessario chiarire cosa e chi sia, per Anselmo, il vasto e incerto 6  Cfr.  G.  R. Evans, A  Concordance to the Works of   St.  Anselm, 4  voll., Milwood (N.Y.) 1984, vol. II, p. 790. 7 Cfr. J. F. A. Mason, St. Anselm’s relations with Laymen: selected Letters, in Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec (Abbaye Notre-Dame du Bec), Paris 1959, pp.  547-560; M. Grandjean, Laïcs dans l’église. Regards de Pierre Damien, Anselme de Cantorbéry, Yves de Chartres, Paris 1994, pp. 171-292. 8  Ibid., p. 185.

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ambito del mondo umano che viene qualificato come ‘laico’. Soltanto in  seguito potremo rispondere alla domanda che ci interessa: quale consistenza e quale valore vengono attribuiti, da parte di  Anselmo, al  mondo profano? Infine, può risultare molto significativo esaminare un ambito specifico di  questo mondo: non tanto quello politico, ampiamente studiato, quanto piuttosto quello religioso-ideologico della prima crociata, che per certi aspetti è anche stata una grande ‘occasione’ per il mondo laico, ma sulla quale Anselmo assume una posizione distaccata fortemente originale e  per nulla consonante con la  comune percezione che vede in essa un evento epocale. Riflettere su questo tema, quindi, può consentire di cogliere meglio la complessa figura intellettuale di Anselmo. Ponendosi decisamente nella prospettiva monastica più rigida e  intransigente, secondo esigenze della rectitudo fatte valere in  modo assoluto, Anselmo vede innanzitutto il  mondo laico in  termini essenzialmente negativi: la  figura del laico viene cioè definita non in sé, ma in termini relativi-negativi, ossia viene individuata come la condizione del non-chierico e del non-monaco. D’altra parte, la  specificità dello stato di  vita laico viene anche riconosciuta e  apprezzata, per cui Anselmo ripete spesso il  suo principio etico generale secondo il quale agisce bene moralmente chi fa ciò che deve, ma secondo lo stato di vita cui appartiene: che uno sia monaco, chierico o ammogliato, ciò che importa è che egli faccia sempre ‘ciò che deve’ in relazione alla specificità della sua condizione, dell’ordo cui appartiene. In  Anselmo, la  distinzione tra i vari ordines che in seguito sarà prevalente (secondo la triade monaci – chierici – laici, oppure secondo le coppie chierici – laici e  chierici  –  coniugati), non è  ancora codificata e  neppure chiaramente concettualizzata, ma non è del tutto assente. Egli la usa di  fatto in  varie lettere, per dire appunto che il  fine dell’uomo consiste nel diventare degno di venire considerato buono dal Giudice supremo, e «bonus autem quisque fidelis ab eo iudicatur, qui in suo ordine perfectionem attingere conatur (…). Conentur igitur laici in suo ordine, clerici in suo, monachi in suo viriliter semper proficere» 9. Per Anselmo la figura del laico, dunque, va individuata all’interno e non all’esterno della dimensione di fede: essa   Epistola ad Willelmum monachum Cestrensem, 65CD, 189, p. 75, 24-30.

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costituisce il primo grado, a partire dal basso, della categoria del fidelis terreno, che ha nel clericus la figura intermedia e nel monachus il vertice. Le ulteriori specificazioni della figura laica non interessano affatto, essendo accidentale, dal punto di vista dell’ideale di perfezione, che si tratti di nobili potenti o di umili contadini e  semplici servi: la  prevalenza dei primi, quali destinatari privilegiati delle Lettere anselmiane, si giustifica solo con l’alta posizione politica di Anselmo, già come priore ma poi specialmente come abate del Bec e ancor più come arcivescovo di Canterbury, e quindi con le sue più consuete frequentazioni, e certamente non per giudizi o pre-giudizi di valore. Ad Anselmo interessa invece impegnarsi piuttosto nella valutazione ontologica e morale di questa figura, che pertanto viene presa globalmente, in opposizione a quella suprema del monaco. Dal punto di vista ontologico, naturalmente, nessun ente appartenente all’ordine della realtà può essere valutato come non buono, per il principio di creazione; dunque, nella prospettiva di Anselmo la figura del laico è certamente in sé positiva, anche semplicemente perché appartiene alla dimensione umana. A  questo proposito, anzi, Anselmo sviluppa un’antropologia decisamente positiva in cui si può dire che venga esaltata l’alta «dignità dell’uomo» 10. In questa sua disposizione che si potrebbe considerare già pre-umanistica, infatti, Anselmo sostiene che l’uomo non è stato creato solamente per colmare il vuoto lasciato in cielo dagli angeli decaduti, secondo quanto afferma la dottrina corrente 11, ma anche per se stesso, in quanto la sua natura contribuisce a compiere la perfezione della creazione 12, idea che verrà poi ripresa da autori come Ruperto di Deutz e specialmente da Onorio di Autun e da Alano di  Lilla, dopo i  quali l’idea dell’uomo come creatura supplente

10  Bene argomentata in  M.  Zoppi, La  verità sull’uomo. L’antropologia di Anselmo d’Aosta, Roma 2009, in partic. pp. 165-181. 11 Sulla base dell’autorità, specialmente, di  Agostino e  Gregorio Magno: cfr.  Augustinus Hipponensis, De civitate Dei, XXII, 1,  2, PL 41, [13-804], 752, edd. B. Dombart – A. Kalb, 2 voll., Turnhout 1955 (CCSL, 48), II, p. 807, 52-55; Gregorius Magnus, Homiliarum in Evangelia libri duo, II, 34, 6, PL 76, [1075-1312], 1249C-1249D, ed. R. Étaix, Tournhout 1999 (CCSL, 141), p. 304, 144-145: «Ut compleretur electorum numerus, homo decimus est creatus». 12 Cfr. Cur Deus homo, I, 16-18, 381B-389C, pp. 74-84.

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o angelo di rimpiazzo diviene un che di valde absurdum e quindi scompare dall’orizzonte teologico 13. Per questo aspetto, si può dire che la  coraggiosa e  originale risposta anselmiana a  ciò che si potrebbe definire come la  questione del cur homo apre la  strada, sia pure forse inconsapevolmente, alla direzione fondamentale del dodicesimo secolo che fonda un’antropologia nuova e autonoma, non più misurata solamente e totalmente sull’assimilazione alla vita angelica. Tuttavia, non ci sono dubbi che per Anselmo l’uomo realizzi veramente e nel migliore dei modi se stesso facendo proprio il modello di vita monastico, perché solo in  questo modello si può vacare Deo, vivere interamente in Dio. E se in Dio si trova, nel modo sommo e perfetto, ogni bene degno di essere desiderato, è del tutto vano e insensato ricercare beni terreni. Oltre a essere imperfetti, i beni terreni sono anche occasione di peccato; quindi vanno ‘disprezzati’, come accade nel modello di vita monastico. Anselmo, così, tende chiaramente a  identificare vita cristiana e  vita monastica, secondo il modello di una contraddittoria «anthropologie angélique» che si può accostare forse all’uomo spirituale e  a-cosmico di Pier Damiani 14. In effetti, sono molti i  luoghi anselmiani che, presi alla lettera, conducono in questa direzione di un chiaro deprezzamento, o  addirittura disprezzo, del mondo laico, più o  meno esplicitamente espresso, o sottinteso, quando vengono usati termini come saeculum, saeculariter, saecularis, mundus, mundanus. Nella contrapposizione tra la vita dei saeculares homines e quella dell’ordo monachorum, sembra implicita la  convinzione che la  vita ‘secolare’ e ‘nel mondo’, cioè la vita dei laici, sia per sé la più prossima al peccato. In molte lettere, effettivamente, il reiterato invito che Anselmo rivolge ai suoi interlocutori laici a ‘lasciare il mondo’ per 13 Cfr. M.-D. Chenu, Cur homo? Le sous-sol d’une controverse au xii siècle, in «Mélanges de science religieuse», 10 (1953), pp. 195-204 (tr. it. in Id., La teologia nel xii secolo, Milano 1986, pp. 59-69). 14 Cfr.  R. Bultot, Christianisme et valeurs humaines. A.  La doctrine du mépris du monde, en Occident, de S.  Ambroise à Innocent III, IV: Le xi siècle, 1: Pierre Damien, Louvain – Paris 1963, p. 40. Per contro, Grandjean, Laïcs dans l’église cit. (alla nota 7), pp.  257-285, s’impegna a  fondo, e  con successo, nel dimostrare che Bultot «exagère» (p. 269, nota 43) e che sia possibile parlare almeno di «reconnaissance d’une certaine consistance à la vie laïque» (p. 288) nel pensiero di Anselmo.

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entrare nel monastero significa ‘lasciare il  peccato’, in  evidente tensione, se non contraddizione, con la  tesi precedentemente ricordata secondo cui ciascuno può tendere alla perfezione all’interno del proprio ‘ordine’. Nettamente prevalente, comunque, è la tesi che vede nel mondo presente un ‘esilio’ anche rispetto alla vita monastica, intesa, al modo tradizionale, come anticipazione del paradiso. Rivolgendosi a un abate di nome Lamberto, a proposito di un monaco fuggito dal suo monastero e poi pentito (evento per nulla raro), Anselmo difende la pecora momentaneamente fuggita dall’ovile e osserva che si tratta di farle capire la  questione essenziale, per dare il  giusto senso alla vita umana e  agire di  conseguenza, cosa possibile dato che per esperienza diretta ha potuto fare conoscenza dell’albero del bene e del male, e cioè riconoscere «quanta sit differentia inter delicias paradisi claustralis et exilium vitae saecularis» 15. E anche quando si deve pur ammettere la bontà ontologica della saecularis vita, va ribadito che tale vita non si deve apprezzare in sé ma soltanto in termini strumentali, cioè in  vista della vita eterna: con una forte sentenza degna delle più memorabili massime di Agostino e con il consueto ricorso alla figura dell’antitesi tra tempo ed eternità, Anselmo afferma che si deve «sic in temporalibus velle aeternitatem, ut in aeternis noli temporalitatem» 16. Per volgere autenticamente lo sguardo alle realtà eterne e spirituali, si deve dis-volere e quindi anche togliere valore, dis-prezzare, le realtà terrene, temporali e materiali. Per capire il  significato dell’antropologia di  Anselmo, non è  dunque sufficiente rifarsi alla classica dualità agostiniana che vive nella dialettica tra uti e  frui, ma è  necessario chiarire il  suo modo d’intendere la  diffusa dottrina monastica del ‘disprezzo del mondo’, proprio perché Anselmo riesce a parlare del mondo laico solo negativamente, cioè in  relazione/opposizione al  mondo monastico. Infatti, «il est impossible de comprendre l’image qu’il a  du laïc sans évoquer sa conception de la  vie monastique» 17, di  cui la  dottrina del contemptus mundi è  appunto elemento essenziale. Su questa figura tipicamente   Epistola ad Lambertum abbatem, 72C, 197, p. 87, 5-6.   Epistola ad Robertum monachum, 1067A, 3, p. 102, 2-3. 17  Grandjean, Laïcs dans l’église cit. (alla nota 7), p. 187. 15 16

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monastica del disprezzo del mondo, quindi, è opportuno sostare, per comprendere meglio il  pensiero anselmiano circa la  posizione dell’uomo nel mondo.

3. Senso e scopo del contemptus mundi In varie occasioni, come testimoniano molte lettere specialmente del periodo episcopale e  diverse citazioni della Vita Anselmi di  Eadmero, Anselmo esprime un vero disgusto per gli ‘affari mondani’, i  saecularia negotia che in  genere sono per lui come un incubo non solo perché lo costringono a  commerciare con uomini malvagi, prepotenti e immorali, ma anche per il fatto che in essi egli vede la pura e semplice vanitas, cioè l’opposto e la negazione più radicale dell’autenticità cristiana che si manifesta nel modello di  vita monastico. Il  dovere dell’obbedienza, il  senso di responsabilità e la norma universale dell’amore non sono sufficienti a dissipare questo disgusto, perché al fondo della sensibilità di Anselmo agisce l’idea del contemptus mundi come istanza altrettanto forte, se non superiore. Non si tratta dunque, soltanto, della difficoltà e del disagio che uno spirito così acutamente speculativo come quello di  Anselmo prova nell’esser costretto ad affrontare questioni ‘pratiche’, ma anche del fatto che il principio di disprezzo del mondo, così diffuso nella spiritualità monastica, in Anselmo «n’est pas seulement aspiration mystique, mais jugement de valeur» 18. Tra i molti testi significativi in tal senso, è particolarmente efficace il passo di un’epistola in cui Anselmo cerca di opporsi alla propria elezione episcopale, definendosi come servitore di Dio e quindi spregiatore del mondo: «servus tuus, contemptor mundi» 19. Nella frequente e fondamentale opposizione tra vanitas e veritas da lui sostenuta, Anselmo afferma che si può raggiungere la  verità soltanto praticando il  contemptus mundi, come dice in molti luoghi e incisivamente nelle due lettere (168 e  169) scritte alla nobile Gunnilda, per indurla alla professione 18  Bultot, Christianisme et valeurs humaines cit. (alla nota 14), 2: Jean de  Fécamp, Hermann Contract, Roger de  Caen, Anselme de  Canterbury, Louvain – Paris 1964, p. 102. 19  Epistola ad Baldricum priorem ceterosque monachos Beccenses, 21D, 156, p.  19,  50-51: «(…) Amor alicuius rei quam servus tuus, contemptor mundi, debeat contemnere».

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monastica anziché vivere con l’uomo che ama. Sorprendentemente, Anselmo rinuncia in questo caso alla sua consueta finezza psicologica e ricorre a toni aggressivi e addirittura violenti, per lui del tutto inusuali, per opporre la veritas e la salvezza del monastero alla vanitas e alla perdizione del mondo secolare. Si può forse dire che queste lettere testimoniano, come afferma Richard Southern, «an extraordinary conflict between contradictory passions» degno di essere accostato a quello che, venti anni dopo, animerà l’acceso e celeberrimo epistolario di Abelardo ed Eloisa 20. Tuttavia, in  opposizione a  questa interpretazione, che vede nel contemptus mundi anselmiano non soltanto una inevitabile e quindi ben comprensibile e non enfatizzabile concessione a un topos universalmente diffuso nel suo ambiente, ma anche una vera e propria concezione del mondo, si è giustamente sostenuto che bisogna pensare al  contesto in  cui Anselmo esprime giudizi così negativi sul mondo laico, cioè in  definitiva sul mondo non monastico. Trattandosi di  lettere d’ammonizione o  esortazione alla vita spirituale, in realtà, le frequenti professioni di disprezzo del mondo andrebbero forse lette non come dichiarazioni teoriche, ma come indicazioni pratiche. Andrebbero intese cioè sul piano morale, come raccomandazioni di «pratica ascetica» mosse da un intendimento «propriamente pedagogico-strumentale» 21. A parte il fatto che i due aspetti, quello teorico e quello pratico, non sono necessariamente in contraddizione, e che il secondo si può e anzi direi che si deve leggere come conseguenza del primo, è opportuno notare che il contemptus mundi viene raccomandato, da Anselmo, soprattutto nelle lettere indirizzate non a monaci, ma a laici o chierici secolari, per indurli più efficacemente al desiderio della felicità eterna 22. Riducendo però, d’altra parte, il  discorso al semplice esercizio ascetico, si corre il rischio d’intendere le forti, nette e  chiare affermazioni di  Anselmo come espressioni retoriche; ma il  linguaggio anselmiano, come dice l’autore della biografia intellettuale più bella, informata e  acuta scritta sinora su Anselmo, «may be fervent, but it is never rhetorical: that is to say, 20  Cfr. R. W. Southern, Saint Anselm: a portrait in a landscape, Cambridge 1990, p. 264 (tr. it., Milano 1998, p. 279). 21  Zoppi, La verità sull’uomo cit. (alla nota 10), p. 193. 22 Cfr. ibid., pp. 198-199.

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he never used language to evoke an emotional response» 23. Lo usa infatti, quasi esclusivamente, per sollecitare innanzitutto la riflessione e, poi, una conseguente prassi razionale. Q uindi, è opportuno leggere le  adesioni anselmiane alla dottrina del contemptus mundi alla lettera, come appunto professioni dottrinali rispondenti alla sua visione del mondo, senza edulcorarle per non falsificarle 24. Sullo sfondo di tale concezione, perciò, va letto e valutato il debole apprezzamento che Anselmo coltiva per il mondo laico, inteso come espressivo della prevalente realtà presente.

4. Eloquenti silenzi D’altra parte, per comprendere l’atteggiamento di  Anselmo verso il mondo e la sua storia presente, è importante interrogarsi anche intorno ai suoi silenzi circa fatti che, nel suo tempo, avevano coinvolto emotivamente o  intellettualmente, se non praticamente, quasi tutti. Per comprendere un autore, infatti, bisogna tener presente anche ciò che egli non dice, e non soltanto nel senso della ben nota teoria delle «dottrine non scritte», che qualcuno ritiene di dover applicare anche ad Anselmo per suggestione forse del modello platonico 25, ma anche semplicemente nel senso del tacere intorno a fatti particolarmente rilevanti e circa i quali una esplicita presa di posizione parrebbe obbligatoria. A mio avviso, in Anselmo c’è proprio un silenzio di questo tipo, un silenzio cioè che non intende nascondere vere e proprie dottrine non destinate ai profani, ma che rivela ugualmente una presa di posizione teorica, da  collegare a  impliciti princìpi che si trovano in  evidente contrasto col modo comune o prevalente di pensare.   Southern, Saint Anselm cit., p. 170 (tr. it., p. 179).   Si può citare qui un solo esempio, ma significativo: la forte massima che apre l’Epistola ad Odonem et Lanzonem, 1063A, 2, p. 98, 2-3, «pro aeternis temporalia despicere, pro temporalibus aeterna percipere», viene tradotta da  Aldo Granata, in Anselmo d’Aosta, Lettere, 1, Milano 1988, p. 109, con «per i beni eterni disprezzare quelli temporali, per i temporali gustare gli eterni», ma è chiaro che la seconda preposizione pro va intesa in senso contrario: «invece dei beni temporali gustare gli eterni». 25 Cfr. L. Catalani, Variazioni sul tema della beatitudo nelle «dottrine nonscritte» di Anselmo d’Aosta, in Le felicità nel Medioevo, Atti del Convegno della Società italiana per lo studio del pensiero medievale (Milano, 12-13 settembre 2003), a c. di M. Bettetini – F. Paparella, Louvain-la-Neuve 2005, pp. 217-239. 23 24

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A mio avviso, questi fatti sono soprattutto tre, di peso teologico-filosofico assai diverso ma ugualmente significativi dal punto di vista pratico, che in un pensatore come Anselmo significa dal punto di  vista decisivo della rectitudo: la  disputa eucaristica tra Berengario e  Lanfranco, la  predicazione e  la conseguente esecuzione della prima crociata, le prime ferocissime prove di un antigiudaismo che sarebbe diventato sempre più tragicamente aggressivo e spietato. Per economia, e per coerenza col nostro tema, ci limitiamo nella presente occasione alla questione della crociata, in quanto coinvolge direttamente e direi essenzialmente la visione anselmiana del mondo laico. Come è noto da varie fonti, Anselmo non nutre alcuna simpatia né per le  spedizioni militari che in  quel tempo venivano condotte in aiuto dei cristiani d’Oriente minacciati dai Turchi, né per la prima crociata condotta dopo il 1095 per sollecitazione papale, dei cui concili, a  quanto pare, egli disattende o  ignora i testi 26. Non si tratta, però, soltanto di coerenza con l’evangelica non-violenza, ma anche e  forse soprattutto di  coerenza con un fondamentale principio di  valore seguito da  Anselmo, di  chiara derivazione paolino-agostiniana, secondo il  quale alla realtà spirituale/interiore va subordinato qualsiasi beneficio materiale/ esteriore. Ad Anselmo non interessa infatti la libertà esteriore, ma quella interiore. Si potrebbe forse dire che la sua opposizione alle guerre di ‘pseudo-liberazione’ della Terra Santa o di aiuto ai cristiani minacciati non è tanto dovuta all’orrore per le terribili stragi e  le intollerabili ingiustizie che tali guerre inevitabilmente comportano, quanto piuttosto all’errore che si commette impegnandosi in temporalibus, mentre l’unum necessarium deve consistere nel volgere l’anima sempre e soltanto alle res aeternae. Anselmo avrebbe quindi potuto ammettere, forse, che tali guerre siano ‘giuste’, ma in nessun modo che siano anche ‘sante’ e cioè rispondenti al suo concetto di rectitudo; quindi non vanno perseguite, perché il  valore morale/spirituale si pone al  di là di  quello meramente legale e, in caso di conflitto, deve prevalere. L’eloquente testimonianza che, di questo atteggiamento anselmiano, offrono alcune celebri lettere non può lasciare dubbi. 26 Cfr. Southern, Saint Anselm cit., pp. 169-170 e 255-256 (tr. it., pp. 179180 e 270-271).

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In una di queste, Anselmo vuole dissuadere un giovane monaco dal recarsi in  Italia per aiutare la  sorella, ridotta in  servitù dalle prepotenze di un ricco signore. Per convincerlo a non impegnarsi in tale ‘inutile’ impresa, Anselmo usa un argomento coerente con la sua prospettiva del contemptus mundi, ma non meno sorprendentemente spietato nei confronti della vittima di tanto sopruso: «Q uid enim, dilectissime, monachorum interest et eorum qui se profitentur velle fugere mundum, qui quibus vel quo nomine serviant in mundo?» 27. Neppure una parola in difesa della vittima innocente, ma il massimo e totalmente anaffettivo impegno meramente logico per difendere l’argomento che assicura la superiorità del bene supremo e fondamentale, oggi si direbbe ‘indisponibile’, della vita monastico-spirituale rispetto al  bene ‘inferiore’ della semplice e accidentale libertà fisica. Sembra che a parlare non sia più il priore del Bec animato da zelo ma anche da profondo affectus per i suoi giovani monaci, ma un freddo e spietato stoico antico: se in qualche modo ogni uomo è costretto a servire, se ogni uomo nasce per il dolore come l’uccello per il volo, allora «quid refert, excepta superbia, quantum vel ad mundum vel ad deum quis vocetur servus vel liber?» 28. Poiché, anzi, l’impresa pensata dal giovane monaco è piena di pericoli (soprattutto spirituali, naturalmente), «quis intelligens illud bonum, ac non potius non bonum vel magis malum dixerit?» 29. Al posto della dolcezza nei modi sostenuta dal naturale affectus unita alla severa e austera rigorosità di un pensiero volto alle rationes necessariae che di solito caratterizza, in omaggio al sapienziale fortiter et suaviter, la prassi etico-politica e spiritualepastorale di  Anselmo, in  questo caso possiamo constatare come l’assolutistica rigidezza dei princìpi lo porti a esercitare una dura severità che appare spietata e irritante, in quanto si accompagna «with a strange acquiescence in lay violence» 30, esercitata peraltro da un laico. In termini attuali, si potrebbe dire che Anselmo segue nel modo più rigido l’astratta e ideologica etica della convinzione, ignorando completamente e deliberatamente le esigenze di una più umana e concreta etica della responsabilità.     29  30  27 28

Epistola ad Henricum monachum, 1081A, 17, p. 123, 18-20. Ibid., 1081B, p. 123, 23-25. Ibid., 1081C, p. 123, 37-38. Southern, Saint Anselm cit., p. 182 (tr. it., p. 192).

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Il secondo esempio, tratto dalla Epistola ad Willelmum adolescentem, è ancora più rilevante, perché il protagonista non è un monaco ma un laico: un giovane nobile italiano che intende imbarcarsi per la crociata, rinunciando all’idea prima coltivata di recarsi al  Bec per farsi monaco. In  questo caso, la  lettera è  introdotta da  una delle tipiche, forti massime di  Anselmo, costruita sulla opposizione per lui sempre decisiva tra vanitas e veritas: in tutte le  nostre decisioni, dobbiamo sempre e  soltanto «periculosam et aerumnosam contemnere vanitatem et securam atque beatam quaerere veritatem» 31. Il  disegno del giovane è  ‘iniquo’, dice Anselmo, perché iniquitas è  il feroce turbine della guerra stessa («cruenta bellorum confusio»), così come lo è la superba e sterile ambizione della mundana vanitas, nonché l’insaziabile avidità di falsi onori e false ricchezze 32. La triplice ripetizione del termine iniquitas, in  questo forte passaggio, serve appunto a  scolpire un concetto per Anselmo fondamentale, ossia l’idea che perseguire cose vane non comporta soltanto una perdita di  tempo, come potrebbe suggerire il termine vanitas, ma anche l’esecuzione di un atto intrinsecamente immorale e perciò da respingere in ogni caso, non avendo attenuanti o scusanti: una iniquitas, appunto. Il vero motivo della opposizione di Anselmo all’idea di ‘guerra santa’, o meglio ‘giusta’, non è perciò di natura etico-politica, ma innanzitutto e  fondamentalmente di  natura ontologico-metafisica: se il mondo è essenzialmente vanitas, non giova impegnarsi per giovargli, neppure quando si trattasse di  salvare dai suoi nemici la Gerusalemme terrena, che in quanto terrena non differisce sostanzialmente da una metaforica ‘Babilonia’. Bisogna invece impegnarsi per la  Gerusalemme celeste, in  virtù della quale soltanto si può entrare nella vera libertà, o meglio nella libertà della verità: in libertatem veritatis. Al fondo sta sempre il disprezzo del mondo esteriore, che non può giustificare alcuna impresa in suo favore, se compiuta in alternativa a un sia pur piccolo bene spirituale, perché tra i due beni vi è una differenza qualitativa incolmabile da una eventuale compensazione quantitativa. Al giovane   Epistola ad Willelmum adolescentem, 1167C, 117, p. 252, 2-3.  Cfr.  ibid.,  1168B, pp.  252-253,  18-21: «Iniquitas enim est cruenta bellorum confusio. Iniquitas est superba mundanae vanitatis ambitio. Iniquitas est insatiabilis falsorum honorum et falsarum divitiarum aviditas». 31 32

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Guglielmo, destinatario della lettera, Anselmo addita l’esempio di un altro giovane che, pur in possesso di tutti i beni di questo mondo, e  cioè bellezza, ricchezza e  nobiltà, e  pur essendo stato smoderatamente mondano (immoderatus amator saeculi), ha trovato la sua felicità facendosi monaco al Bec, perché «non dedecus, sed honor est transire in libertatem veritatis» 33. Di fronte al generale fanatismo che circonda la prima crociata Anselmo tace, o  addirittura la  condanna esplicitamente, contro l’universale consenso, perché secondo lui essa mette in  primo piano l’elemento esteriore, cioè si configura in sostanza e nonostante le apparenze come frivola preoccupazione terrena, ma per un uomo che aspira veramente alla vita spirituale «ce pélerinage purement géographique est sans intérêt en regard du pélerinage céleste» 34, con cui si perviene alla ‘libertà della verità’. Anselmo ne è così convinto, che non riesce a capire come il suo giovane interlocutore possa ancora tergiversare; quindi non soltanto lo esorta, consiglia, supplica e  scongiura di  seguire la  via monastica, ma si ritiene legittimato addirittura a obbligarlo, con un argomento che per noi risulta molto illuminante. Si tratta, infatti, di rinunciare non soltanto a quella Gerusalemme «che ora non è visione di pace ma di tribolazione», ma anche «ai tesori di Costantinopoli e di Babilonia, al saccheggio di mani lorde di sangue» 35: un passo che appare dotato di preveggenza e realismo impressionanti, se collegato al saccheggio di Costantinopoli compiuto dai crociati latini nel 1204, in  occasione della quarta crociata. La  conclusione, quindi, consiste nel sollecitare il  giovane a  prendere la  via della Gerusalemme celeste, cioè della vera visio pacis, ove troverà tesori che «solo chi disprezza quelli presenti potrà cogliere» 36. Q uindi, al mondo spirituale della salvezza e della vera libertà, su questa terra, si può veramente accedere, secondo una testimo-

  Ibid., 1169B, p. 254, 55-56.   Grandjean, Laïcs dans l’église cit. (alla nota 7), p. 277. 35 Cfr.  Epistola ad Willelmum adolescentem, 1169C, 117, p.  254,  66-69: «Moneo, consulo, precor, obsecro, praecipio ut dilectissimo, ut dimittas illam Ierusalem, quae nunc non est visio pacis sed tribulationis, et thesauros Constantinopolitanos et Babylonios cruentatis manibus diripiendos». 36  Cfr. ibid., 1169C, p. 254, 69-71: «Et incipe viam ad caelestem Ierusalem, quae est visio pacis, ubi invenies thesauros non nisi istos contemnentibus suscipiendos». 33 34

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nianza fedele riportata dai Memoriali, soltanto per la via monastica: «Aut ergo monachus salvabitur, aut aliter non salvabitur» 37. Soltanto nella vita monastica, infatti, si può effettivamente evitare ogni compromissione col mondo terreno che, in realtà, comporta sempre qualche colpa; e  per uno strenuo difensore dell’etica della convinzione come Anselmo vale il  principio fiat iustitia pereat mundus, perché il  più piccolo peccato non va commesso, egli dice coerentemente, anche se con ciò si potesse, appunto, salvare il mondo intero: si tratta certo di una sententia gravis, ma se il peccato consiste nell’agire contro la volontà divina, la coerenza impone che anche una parva res contro tale volontà vada evitata, persino se con ciò avvenisse la  fine del mondo: se accadesse che «totum mundum  (…) perire et in  nihilum redigi» 38. L’osservanza della rectitudo, infatti, ha per Anselmo un valore assoluto e implica un obbligo incondizionato: si agisce in modo ‘giusto’, come dice il  celeberrimo passo del De veritate, quando si attua l’idea stessa di  giustizia, che consiste nel praticare la  rettitudine della volontà per se stessa e non in vista di uno scopo esterno alla rettitudine stessa. Consiste nel coltivare la «rectitudo voluntatis propter se servata» 39. Tuttavia, benché si possa forse parlare, nel caso del principio fiat iustitia pereat mundus cui si attiene implicitamente la riflessione sopra citata del Cur Deus homo, di ‘spietata coerenza’, si deve anche osservare un tratto notevole, e cioè l’assenza, in tutto questo discorso, di ogni traccia di legittimazione della coercizione e della violenza e, quindi, l’implicito riconoscimento del valore supremo della libertà. Infatti, manca in tutta l’opera di Anselmo la formula decisiva che può giustificare la  violenza, spirituale o  materiale, esercitata contro coloro che vengono accusati di  eresia, formula che si trova nel Vangelo di Luca, nella celebre parabola del convito in cui il signore ordina al servo di «costringere a entrare» tutti coloro che incontra (Lc 14, 23), ma della cui applicazione violenta Agostino sembra portare la gravissima responsabilità: si tratta del più prezioso dei ‘silenzi’ anselmiani, quello che lo ha condotto a ignorare il famigerato e nefasto compelle intrare, principio car  Id., De humanis moribus, 73, in Memorials, p. 65, 6-7.   Cur Deus homo, I, 21, 394A, p. 89, 2. 39  De veritate, 12, 482B, p. 194, 26. 37 38

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dine, peraltro, della futura inquisizione. Come è noto, il senso del passo evangelico non va per nulla inteso come incitamento alla coercizione violenta, ma semplicemente come sollecitazione a una insistente ma dolce esortazione; quindi, non autorizza la formulazione di una ‘dottrina’ o di un ‘principio’ di legittimità dell’uso della violenza per convincere chi si oppone a  un comando proveniente dall’autorità costituita. Agostino, tuttavia, nel suo contrasto con gli eretici e soprattutto con i Donatisti si muove proprio in  questa direzione, interpretando il  compelle intrare come la  giustificazione evangelica della legittimità, e  anzi del dovere, di adottare misure di coercizione violenta per convincere gli eretici a rientrare nella Chiesa, distinguendo perciò la ‘persecuzione ingiusta’ di cui sono vittime i cattolici dalla iusta persecutio esercitata da questi contro gli ‘empi’ eretici Donatisti, persecuzione ‘giusta’ sia perché motivata dalla difesa della verità sia perché condotta «con amore» 40. In effetti, questo è il caso in cui «chi subisce la persecuzione è ingiusto e chi la esercita è giusto», essendo chiaro che i cattivi hanno sempre perseguitato i buoni e i buoni hanno sempre perseguitato i cattivi: ma i primi agendo con ingiustizia, cupidigia e iniquità, i secondi con giustizia, amore e verità 41. Non si tratta, infatti, di considerare se uno sia costretto, ma se ciò cui è costretto sia bene o male 42. Di fronte a un tema così imbarazzante, reperibile in un dossier veramente impressionante per quantità e qualità, il cui significato quindi non è facilmente riducibile a unità e di fatto è tuttora controverso 43  –  anche perché in  genere gli studiosi filo-agostiniani  Cfr.  Augustinus Hipponensis, De correctione Donatistarum liber (Epistola ad Bonifacium), 2,  11, PL 33, [792-815], 797, ed.  A.  Goldbacher, Wien  –  Leipzig 1911 (CSEL, 57), 185, p.  10,  7-13: «Si ergo verum dicere vel agnoscere volumus, est persecutio iniusta quam faciunt impii Ecclesiae Christi; et est iusta persecutio quam faciunt impiis Ecclesiae Christi (…). Proinde ista persequitur diligendo, illi saeviendo». 41 Cfr. Id., Epistola ad Vincentium, 2, 8, PL 33, [321-347], 325, ed. A. Goldbacher, Wien 1898 (CSEL, 34), 93, p. 452, 20-23: «Sed plane semper et mali persecuti sunt bonos et boni persecuti sunt malos, illi nocendo per iniustitiam, illi consulendo per disciplinam; illi immaniter, illi temperanter; illi servientes cupiditati, illi caritati». 42 Cfr. ibid., 5, 16, 329, p. 461, 3-5: «Non esse considerandum quod quisque cogitur, sed quale sit illud quo cogitur, utrum bonum an malum». 43 Cfr. A. Mandouze, Saint Augustin. L’aventure de la raison et de la grâce, Paris 1966, cap. VII, pp. 331-390 (in partic. pp. 383-390); P. Brown, Saint Augu40

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sottolineano il fatto che, in ogni caso, pur essendo evidente l’interpretazione aggressiva e  «intransigente» del compelle intrare, Agostino ha «jamais soutenu l’assurdité révoltante de la  validità d’une conversion obtenue par la  violence e  maintenue par la contrainte» 44 – si rimane perplessi e sconcertati. Si deve infatti riconoscere che, per evitare l’inquietante imbarazzo di  vedere in  Agostino il  primo e  principale teorizzatore delle conversioni forzate, «il principe e patriarca dei persecutori», queste affermazioni attestano un indiscutibile e certamente censurabile «atteggiamento», ma non una vera e propria «dottrina» di Agostino 45. In quest’ultimo caso, infatti, non si potrebbe evitare di considerare correttamente e  coerentemente Agostino «als Urbild der bluttriefenden Inquisitoren so vieler Jahrhunderte» 46. In  ogni caso, non è  sufficiente limitarsi a  dire che la  teoria agostiniana della coercizione si caratterizza per lo spirito di carità che la anima, avendo essenzialmente un ‘carattere medicinale’ 47. Effettivamente, la  posizione di  Agostino circa il  tema della coercizione verso gli eretici, di  cui è  particolarmente rappresentativa la polemica sempre più violenta contro i Donatisti, è assai complessa. All’inizio, come egli stesso dichiara, non è favorevole all’uso della forza, ma poi cambia idea e ritiene giusto che degli ‘scismatici’ siano ricondotti alla comunione violenter, con l’aiuto anche della saecularis potestas, in vista ovviamente del loro stesso bene: avendo sperimentato quanto male avrebbero compiuto mantenendo l’impunitas e quanto sarebbero migliorati con l’aiuto stine’s attitude to religious coercion, in «Journal of   Roman Studies», 54 (1964), pp. 107-116 (e in Id., Religion and society in the age of   saint Augustine, London 1972, pp. 260-278; tr. it., Torino 1975, pp. 245-263); Id., Religious coercion in the later Roman Empire: the case of  North Africa, in «History», 48 (1963), pp. 283305 (e in Id., Religion and society cit., pp. 301-331; tr. it., pp. 287-316); E. Lamirande, Church, State and toleration. An intriguing change of   mind in Augustine, Villanova (Pa.) 1975; R. A. Markus, Saeculum. History and Society in the theology of   St. Augustine, Cambridge 1988², pp. 133-153; Id., Introduzione generale, in Sant’Agostino, Polemica con i Donatisti, Roma 1998 (Opere di Sant’Agostino, XV/1), pp. VII-XXXVIII. 44  Mandouze, Saint Augustin cit., pp. 384-385. 45 Cfr. Brown, Religion and society cit., pp. 260-261 (tr. it., p. 245). 46 K.  Deschner, Kriminalgeschichte des Christentums, 1: Die Frühzeit, Reinbek bei Hamburg 1986, p. 487 (tr. it., Milano 2000, p. 418). 47  H.  Maisonneuve, Croyance religieuse et contrainte: la  doctrine de saint Augustin, in «Mélanges de science religieuse», 19 (1962), [pp. 49-68], p. 67.

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di una severa disciplina 48. Dopo questa decisione, le sue espressioni circa l’interpretazione del compelle intrare evangelico sono decisamente forti e non equivocabili. Da questo momento, infatti, Agostino pensa costantemente che i Donatisti vadano trattati come i «pastori di anime» devono trattare le «pecorelle smarrite», che vanno ricondotte all’ovile con la  forza e  flagellorum terroribus, proprio come il Signore ha fatto con gli invitati al suo grande banchetto: «prima li ha fatti invitare, poi li ha costretti a entrare» 49. E non è il caso di appellarsi, come fanno i Donatisti, al principio di libertà, perché non è questo che ha ordinato il Signore, bensì di costringerli a entrare. Del resto, Agostino è convinto che dalla costrizione esteriore possa derivare la  volontà interiore: «Foris inveniatur necessitas, nascetur intus voluntas» 50. Per ottenere questo effetto, è opportuno mettere in atto una sorta di pedagogia della paura, con cui si può portare l’eretico a ripudiare il falso cui tendeva e cercare il vero che ignorava, giungendo infine «a tenere volentieri ciò che prima non voleva» 51. Da cui la formula conclusiva e  perfetta di  tutto il  discorso agostiniano, una formula che presa alla lettera e fuori dal suo contesto può diventare, effettivamente, la falsa e atroce giustificazione di ogni violenza e sopraffazione; a un prete donatista che rifiuta la forzata permanenza nella Chiesa cattolica appellandosi alla libertà del credente, Agostino risponde infatti col fatale argomento: lo facciamo «contro la tua volontà, ma per la tua salvezza» 52. 48 Cfr. Augustinus Hipponensis, Retractationes, II, 5, PL 32, [581-656], 632, ed.  A.  Mutzenbecher, Turnhout 1984 (CC, 57), pp.  93,  3  -  94,  7: «Dixi non mihi placere ullius saecularis potestatis impetu schismaticos ad communionem violenter arctari. Et vere mihi tunc non placebat, quoniam nondum expertus eram, vel quantum mali eorum auderet impunitas, vel quantum eis in melius mutandis conferre posset diligentia disciplinae». Cfr. anche Id., Epistola ad Vincentium, 5, 17, 330, ed. Goldbacher cit. (alla nota 41), pp. 461-462. 49  Id., De correctione Donatistarum liber, 6, 23-24, 803-804, ed. Goldbacher cit. (alla nota 40), pp. 21-23. 50   Id.,  Sermo habitus in  Basilica restituta de invitatis ad coenam, 8, PL 38, [643-648], 647-648, ed.  P.  P. Verbraken, in  «Révue Bénédictine», 76  (1966), [pp. 41-58], p. 54. 51  Id., Epistola ad Vincentium, 5, 16, 329, ed. Goldbacher cit. (alla nota 41), p. 461, 9: «Et volens iam teneat, quod nolebat». 52 Id.,  Epistola ad Donatum presbyterum, 4, PL 33, [753-757], 755, ed. A. Goldbacher, Wien – Leipzig 1904 (CSEL, 44), 173, p. 643, 3-4: «Contra voluntatem tuam, sed propter salutem tuam».

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A sostegno di  questa sua ‘attitudine’, ma secondo chi scrive in  questo caso e  a  questo punto dovremmo forse considerarla una vera e  propria dottrina, Agostino richiama anche l’utilità, o meglio la necessità, della coercizione anche in ambito educativo. Pur ammettendo che è  certo meglio condurre gli uomini a  coltivare l’amore divino con la forza della doctrina, egli rileva però che l’espe­rienza dimostra l’utilità del timore e del dolore, perché «sono migliori quelli che si lasciano dirigere dall’amore, ma sono più numerosi quelli che si possono correggere col timore», e infatti la Scrittura dice che «non solo il servo, ma anche il figlio indisciplinato va corretto con la verga, e con vantaggio»; afferma infatti che «odia il proprio figlio, chi risparmia il bastone» (Pv 13, 24), quindi molti, per diventare boni filii, devono prima essere condotti al Signore, in qualità di mali servi e improbi fugitivi, «con la verga delle pene temporali» 53. Per Agostino, l’eretico è come il servus durus di cui la Scrittura dice che «non può venire corretto a parole, perché se anche comprende, non obbedisce» (Pv 29, 19), perciò va costretto col «terrore delle leggi» 54. Per la  sua netta distanza da  questo atteggiamento, o  meglio dottrina, che legittima la pratica della coercizione anche violenta, e  nonostante ciò che s’è detto prima a  proposito della ‘spietata coerenza’ intorno al principio della rectitudo, Anselmo si colloca in  una dimensione di  estraneità rispetto a  un clima di  violenza e di intolleranza che caratterizza il suo tempo e, in buona parte, l’intero Medioevo. Alla dottrina agostiniana del compelle intrare, infatti, farà essenziale riferimento l’Inquisizione, ma essa è ampiamente condivisa in  ogni periodo, anche fuori da  tale contesto. Basti pensare, per limitarci a due soli esempi molto significativi, a  quanto affermano Graziano e  Tommaso d’Aquino. Il  primo elogia lungamente, nel suo Decretum, il  principio dell’amore e della moderazione, ma riguardo agli eretici condivide la dottrina 53  Id., De correctione Donatistarum liber, 6, 21, 802, ed. Goldbacher cit. (alla nota 40), pp. 19, 18 - 20, 21: «Sicut meliores sunt quos dirigit amor, ita plures sunt quos corrigit timor. (…) Alio quippe loco [scil. Scripturae divinae] dicit non solum servum sed etiam filium indisciplinatum plagis esse coercendum; et magno fructu; nam (…) multi prius, tamquam mali servi et quodammodo improbi fugitivi, ad Dominum suum temporalium flagellorum verbere revocantur». 54  Id., Epistola ad Vincentium, 5, 18, 330, ed. Goldbacher cit. (alla nota 41), pp. 462, 25 - 463, 1: «His omnibus harum legum terror (…) ita profuit, ut nunc alii dicant: Iam hoc volebamus».

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di Agostino: essi vanno condotti alla salvezza anche contro la loro volontà 55. Per Tommaso, non è  lecito usare la  costrizione verso gentili ed ebrei, perché l’accesso alla fede riguarda la volontà che è libera, ma il mantenere la fede già professata è un dovere, quindi nei confronti degli eretici (che per definizione hanno abbandonato la vera fede in cui prima si trovavano) l’esercizio della coercizione è pienamente legittimo, è anzi doveroso perché essi devono mantenere ciò che hanno promesso; li si può costringere, perciò, anche mediante la violenza fisica: «etiam corporaliter» 56. Infatti, ricevere la fede riguarda la volontà, che è libera, ma tenerla è una vera e propria necessitas 57. Di fronte a un simile massiccio bombardamento, è veramente notevole che Anselmo riesca a  mantenere una sobria e  ferma distanza. Circa le  principali occasioni di  ricorrere all’autorità di  Agostino per almeno giustificare, se non promuovere, azioni coercitive, e  cioè i  movimenti ereticali, la  crociata e  l’atteggiamento ostile verso gli Ebrei, Anselmo infatti rimane essenzialmente in silenzio. Della crociata abbiamo già detto, sugli altri due aspetti non possiamo sostare a  lungo, ma per il  nostro discorso è sufficiente rilevare due semplici fatti. Da una parte, per quanto riguarda la  posizione di  Anselmo verso gli eretici, basta rilevare la  scarsissima presenza del termine stesso ‘eresia’, di  cui appaiono in  tutto solo tre occorrenze, oltretutto concentrate in  un solo testo di cui possediamo due versioni, la Epistola de incarnatione Verbi, e  assai poco significative. Infatti, le  prime due sono rivolte sobriamente contro l’eresia di Sabellio 58, la terza si riferisce

55  Cfr. Gratianus Bononiensis, Decretum, II, causa XXIII, q. IV, cap. 38, PL 187, 1198A, ed. A Friedberg, Graz 1959, p. 917: «Haeretici ad salutem etiam inviti sunt trahendi». 56 Cfr. Thomas Aq uinas, Summa Theologiae, IIa IIae, q. 10, a. 8, ed. cura et studio Fratrum Praedicatorum (ed.  Leonina, VIII), Torino  –  Roma 1956, pp. 58-59: «Gentiles et Iudaei (…) nullo modo sunt ad fidem compellendi, ut ipsi credant: quia credere voluntatis est (…). Haeretici vel quicumque apostatae (…) sunt etiam corporaliter compellendi ut impleant quod promiserunt et teneant quod semel susceperunt». 57 Cfr. ibid., ad tertium, ed. Leonina cit., p. 59: «Accipere fidem est voluntatis, sed tenere iam acceptam est necessitatis. Et ideo haeretici sunt compellendi ut fidem teneant». 58 Cfr. Epistola de incarnatione Verbi, 269B, I, p. 287, 24 e II, p. 15, 13: «Sed haec ratiocinatio si rata est, vera est haeresis Sabellii».

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a  chi usa male o  ignora le  regole della dialettica 59. Su tutta l’enor­me macchina polemica messa in atto da Agostino, dunque, neppure una parola. Per quanto riguarda il tema dell’antigiudaismo, anche in ciò l’attitudine di Anselmo si distanzia nettamente da quella di Agostino, il quale in molte occasioni, pur non giustificando mai l’uso della violenza contro gli Ebrei che ritiene tuttavia responsabili della morte di Cristo, critica nel suo complesso il mondo ebraico e scrive un Tractatus adversus Iudaeos che non è  violentemente negativo, tuttavia ha certamente un significato aprioristicamente antiebraico. Pur lontano dagli smodati eccessi, per esempio, di Giovanni Crisostomo in età patristica e di moltissimi autori medievali, questo trattato è pieno dei consueti stereotipi che attribuiscono agli Ebrei le ben note nefandezze: hanno ucciso Cristo, della cui Chiesa sono nemici, sono affetti da cecità e  durezza di  cuore, nella lettura della Bibbia si attengono alla lettera contro lo spirito, eccetera 60. Anselmo, invece, non scrive alcun trattato pregiudiziale contro gli ebrei, verso i quali esercita una critica puntuale su questioni teologiche rilevanti, in  primo luogo l’Incarnazione, mantenendo sempre un atteggiamento di  studio rigoroso e di serio rispetto 61. Non a caso, infatti, uno dei testi medievali di più serio e rispettoso confronto tra cristiani ed ebrei è  stato composto da  un allievo di  Anselmo, il  monaco del Bec e poi abate di Westminster Gilberto Crispino 62. Inoltre, a  quanto pare la  controversia con gli Ebrei sembra essere stata una delle più importanti sollecitazioni alla composizione del Cur Deus homo, che è  appunto un rigoroso trattato teologico condotto rationibus necessariis e  non un’opera apologetica mossa da intenti denigratori. Lo stesso atteggiamento rispettoso, e  dunque il  medesimo allontanamento dai violenti toni agostiniani, è ben evidente anche  Cfr. ibid., 265A, II, p. 9, 21: «Dialecticae haeretici».  Cfr.  B. Blumenkranz, Augustin et les juifs, Augustin et le  judaïsme, in  «Recherches Augustiniennes», 1  (1958), pp.  225-241; G.  G. Stroumsa, Dall’antigiudaismo all’antisemitismo nel cristianesimo primitivo?, in «Cristianesimo nella storia», 17 (1996), pp. 13-45 (e in Id., La formazione dell’identità cristiana, a c. di P. Capelli, Brescia 1999, pp. 85-117). 61 Cfr. Southern, Saint Anselm cit., pp. 198-202 (tr. it., pp. 208-212). 62  Cfr. Gilbertus Westmonasterii, Disputatio Iudei cum Christiano de fide christiana, PL 159, 1006-1036, edd. A. Sapir Abulafia – G. R. Evans, in The Works of  Gilbert Crispin Abbot of  Westminster, London 1986, pp. 8-53. 59 60

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intorno a ciò che abbiamo definito la ‘pedagogia della paura’ che Agostino adotta per convertire la  voluntas male orientata. Per cogliere bene questa differenza veramente impressionante, basta leggere un celebre episodio della Vita Anselmi, nel quale il fedele biografo Eadmero riferisce il dialogo avvenuto tra Anselmo e un abate intorno alla disciplina della vita monastica, in particolare nei confronti dei giovani; l’abate si lamenta dei fanciulli educati nel monastero che, benché frustati giorno e  notte, rimangono cattivi e anzi peggiorano: «Perversi sunt et incorrigibiles, die ac nocte non cessamus eos verberantes, et semper fiunt sibi ipsis deteriores» 63. Anselmo gli risponde mostrando l’assurdità e l’inef­fi cacia di una tale pedagogia del terrore, cui oppone la contraria dottrina dell’amore e della pia discretio, ben più giusta ed efficace. Tra l’altro, Anselmo afferma che i  giovani, se oppressi da paure e percosse, inevitabilmente «pravas et spinarum more perplexas intra se cogitationes congerunt, fovent, nutriunt» 64; cioè dice il contrario di Agostino, il quale afferma, nella sua difesa dell’idea di coercizione, che sterpi e spine sono ciò da cui la coercizione libera, mentre per Anselmo sono ciò che la  coercizione provoca. Per tutti questi aspetti, e  particolarmente nel confronto con Agostino, si può forse azzardare un anacronismo, cioè un’attualizzazione che non è  tuttavia del tutto fuori luogo e  consente di  apprezzare meglio il  peculiare spirito anselmiano. Si può dire, infatti, che Anselmo, pur appartenendo compiutamente all’età monastica in cui vive, e della quale condivide anche, come abbiamo visto, il tratto forse più inattualizzabile e cioè l’idea del contemptus mundi, sviluppa un pensiero che è mosso da un atteggiamento laico, se questo significa un pensiero libero, condotto sola ratione e  quindi non bisognoso del soccorso di  autorità esterne alla ragione stessa. Perciò, si può ben dire anche in riferimento ad 63  Eadmerus Cantuariensis, Vita Sancti Anselmi, I, 30, PL 158, [49-118], 67C, ed. R. W. Southern, Edinburgh 1962 (Nelson’s Medieval Texts) (repr. Oxford 1972), pp.  58-59. Su Anselmo accorto e  fine educatore, fermo e risoluto ma rispettoso e umano, cfr. Anselmo d’Aosta educatore europeo, Atti del Convegno di Studi (Saint-Vincent, 7-8 maggio 2002), a c. di I. Biffi – C. Marabelli – S. M. Malaspina, Milano 2003 (Biblioteca di Cultura Medievale. Di fronte e attraverso, 624). 64 Cfr. Eadmerus Cantuariensis, ibid., ed. Southern cit., p. 59.

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Anselmo che il termine ‘laico’ indica «quella qualità che contraddistingue la figura che nasce all’interno della cristianità ben prima dell’età moderna e  dell’Illuminismo» 65. Per altri aspetti del pensiero anselmiano questa idea può certamente suonare strana e forse anche stonata, ma per il tema che abbiamo toccato si può allora concludere che Anselmo è nella sua essenza, e sia pure in un suo modo peculiare che andrebbe ulteriormente esaminato nei suoi elementi costitutivi e particolari ma che ritengo risulti chiaro da ciò che abbiamo detto, un eminente filosofo della libertà. Per questo motivo e  in questo senso possiamo fare nostra la  conclusione della magnifica biografia intellettuale anselmiana di Richard William Southern, quando afferma che benché Agostino sia vissuto «in a world in which the world outside Christendom was seen to be much larger than the world of   Christians», mentre i pensieri di Anselmo «are those of  the cloister» e alla fine della sua vita erano già fuori moda, a differenza di quelli agostiniani i migliori pensieri di Anselmo «are above fashion, and they can be taken up at any time and found to be as fresh as ever» 66.

65 M.  Fumagalli Beonio Brocchieri, Storia della filosofia medievale e laicità, in Laicità e Medioevo cit. (alla nota 3), [pp. 5-10], p. 5. 66  Southern, Saint Anselm cit., p. 457 (tr. it., p. 480).

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1. Considerazioni preliminari Vi sono due modi possibili di  affrontare lo studio del pensiero ‘politico’ anselmiano: il  primo, invero il  più seguito, si realizza quando, a partire da un esame dettagliato della vita di Anselmo, si ricercano nelle sue opere i criteri ispiratori del suo agire come autorità pubblica. Il secondo, invece, ha luogo quando, a partire da una lettura immanente dei suoi scritti, si cerca di ricomprendere la stessa mens di Anselmo circa questo aspetto: come ai suoi occhi doveva apparire il mondo in cui viveva, quali fossero i principi ispiratori del suo agire all’interno della comunità umana, come intendesse la vita associata. Il primo modo si pone, per così dire, sub specie temporis, ed è più immediatamente accessibile allo storico: le prospettive di studio di Michel Grandjean e di Richard William Southern, in  tal senso, hanno fatto scuola e  hanno, in qualche modo, orientato gli studi finora pubblicati su questo tema 1. Il secondo modo, al contrario, si pone sub specie aeternitatis, 1 Cfr.  M. Grandjean, Laïcs dans l’Église. Regards de  Pierre Damien, Anselme de Cantorbéry, Yves de Chartres, Paris 1994 (Théologie historique, 97), pp. 171-292; R. W. Southern, Saint Anselm: a portrait in a landscape, Cambridge 1990 (tr. it., Milano 1998); W. Frölich, Regere secundum voluntatem Dei. Rex iustus et rex malus sive tyrannus as perceived by Saint Anselm of  Canterbury, in Cur Deus homo, Atti del Congresso Anselmiano Internazionale (Roma, 21-23 maggio 1998), a c. di P. Gilbert – H. Kohlenberger – E. Salmann, Roma 1999 (Studia Anselmiana, 128), pp. 261-284. Si vedano anche, più profilati dal punto di vista teoretico, gli studi di R. Foreville, L’ultime ratio de la morale politique de saint Anselme: rectitudo voluntatis propter se servata, in  Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec (Abbaye Notre-Dame du Bec), Paris 1959, pp.  423-438; J.  F.  A.

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 161-190 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112916

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ed è  per sua natura accessibile a  chi guarda ad Anselmo, prediligendo la  dimensione speculativa a  quella storica, il  pensiero all’azione, la riflessione alla prassi. Senza operare assurde opposizioni il filosofo, attraverso lo studio delle opere disponibili, cerca di  porsi in  quella particolare prospettiva che fu alla base della visione politica maturata da  Anselmo nell’arco della sua vita, e  di renderla accessibile, dandone, per quanto è  possibile, una puntuale descrizione. Q uest’ultima non ignora affatto gli aspetti biografici e le altre informazioni di eventi storici a disposizione, oltre agli scritti anselmiani, ma li acquisisce già a partire da una consapevolezza teoretica, che può fare sua solo alla luce degli opera omnia di  Anselmo. Da un lato gli eventi storici, per dir così gli acta di Anselmo, possono creare le premesse per una prima comprensione del suo pensiero, ma soltanto lo studio dei suoi dicta e,  ancor più, dei suoi scripta ne permette una ricognizione realmente esaustiva. La prospettiva sub specie temporis rischia, in tal senso, di non cogliere il cuore del pensiero di Anselmo, limitandosi a gettare un po’ di luce semplicemente su alcuni aspetti di esso, a partire da eventi che restano pur sempre frammentari rispetto al complesso della sua vita. Anselmo, infatti, fa sua una prospettiva di valutazione della vita comunitaria che affonda le radici al di qua del tempo, a  cominciare appunto dall’eternità, e  la estende per giunta al di là di esso, risolvendola nuovamente nell’eternità. Inoltre, egli assume come criteri di valutazione e di giudizio per le sue scelte politiche valori che, nei loro fondamenti, si configurano trascendenti il tempo e la storia, benché siano poi in parte realizzabili già nel tempo e nella storia. È questa la prospettiva monastica, propria di uomini e donne che, pur vivendo nella dimensione del tempo, si pongono nondimeno in quella dell’eternità, scegliendo quest’ultima come criterio di  orientamento per le  loro vite. Il chiostro è per essi, dunque, polo prospettico per comprendere

Mason, Saint Anselm relations with laymen: selected letters, ibid., pp. 547-560; C.-É.  Viola, Anselmo di  fronte ai re e  ai papi: coscienza e  politica, in  Anselmo d’Aosta educatore europeo, Atti del Convegno di studi (Saint-Vincent, 7-8 maggio 2002), a cura di I. Biffi – C. Marabelli – S. M. Malaspina, Milano 2003, pp. 157190; I. Sciuto, L’etica nel Medioevo. Protagonisti e percorsi (v-xiv secolo), Torino 2007, pp. 95-105; I. Biffi, Anselmo d’Aosta e dintorni. Lanfranco, Guitmondo, Urbano II, Milano 2007, in partic. pp. 115-210.

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se stessi e la realtà che li circonda, punto di riferimento verticale per operare nell’orizzonte del mondo temporale. La comprensione anselmiana della vita politica è stata spesso oggetto di  grossolani fraintendimenti. L’idea di  fondo, peraltro fortemente suggerita e alimentata da alcune inveterate interpretazioni del Cur Deus homo, riconosce nel pensiero di  Anselmo e, massimamente, nella sua ermeneutica della Redenzione, la legittimazione teologica del sistema feudale, che sarebbe stato da lui assunto quale criterio di  comprensione del rapporto che lega gli uomini a  Dio.  Q uesta discutibile conclusione trova comunque riscontro, oltre che in alcuni passi del corpus Anselmianum, in quella corrente teologica che da esso è scaturita e che prese poi il  nome di  ‘teologia giuridica’, secondo la  quale è  possibile, nel solco di Anselmo, argomentare e giustificare la morte del Redentore come soddisfazione vicaria. In effetti, come si è detto, vi sono alcuni testi del corpus Anselmianum, che comprende non solo gli scritti di Anselmo, ma anche altre opere a lui attribuite, testimonianze e scritti biografici, riportati da discepoli, come i Memoriali, la Vita sancti Anselmi e l’Historia novorum in Anglia di Eadmero di  Canterbury, dove l’immaginario politico-feudale del tempo è utilizzato per spiegare aspetti e contenuti della vita umana, sia individuale che collettiva, in ordine alla fede. È importante, prima di considerare alcuni contributi salienti di questi testi, che come è  noto sono per lo più reportazioni o  rielaborazioni di  insegnamenti anselmiani ad opera dei discepoli, cercare di ricostruire, per quanto è possibile, il quadro genuino del pensiero ‘politico’ che Anselmo stesso lascia intravedere nei suoi scritti.

2. Il Cur Deus homo Il testo fondamentale di riferimento per ricostruire questo quadro è il Cur Deus homo, soprattutto nei capitoli XVI-XVIII del libro primo, dove Anselmo, nel solco dei libri XI e XII del De civitate Dei di Agostino 2, espone alcune importanti considerazioni sulla  Cfr.  Augustinus Hipponensis, De civitate Dei, XI, 9-21; XII, 1,  1  -  27,  2, PL 41,  327-335; 347-376, ed.  B.  Dombart  –  A.  Kalb, 2  voll., Turnhout 1955 (CC,  47-48), II, pp.  328-340,  355-384 (tr.  it., Roma 1988, pp. 9-21; 80-107). Cfr. anche F. van Fleteren, Traces of  Augustine’s De Trinitate XIII in Anselm’s Cur Deus Homo, in Cur Deus homo cit., pp. 165-178. 2

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caelestis civitas. L’aspetto saliente di questa parte dell’opera consiste nel passaggio appunto dall’immaginario feudale dei capitoli precedenti e  seguenti, incentrato sul concetto di  debitum, per spiegare la necessità dell’Incarnazione, a quello urbano di matrice agostiniana, qui utilizzato per chiarire una questione correlata sull’ori­gine e sulla dignità dell’angelo e dell’uomo 3: Anselmus. Deum constat proposuisse, ut de humana natura quam fecit sine peccato, numerum angelorum qui ceciderant restitueret.  (…) Rationalem naturam, quae dei contemplatione beata vel est vel futura est, in quodam rationabili et perfecto numero prescitam esse a  deo, ita ut nec maiorem nec minorem illum esse deceat, non est dubitandum. (…) Necesse est ergo eos de humana, quoniam non est alia de qua possint, natura restaurari 4.

Una complessa analisi circa le modalità di intendere la creazione degli uomini e  degli angeli conduce Anselmo alla seguente conclusione: Sed et si perfectio mundanae creaturae non tantum est intelligenda in numero individuorum quantum in numero naturarum, necesse est humanam naturam aut ad complementum eiusdem perfectionis esse factam, aut illi superabundare, quod de minimi vermiculi natura dicere non audemus. Q uare pro se ipsa ibi facta est, et non solum pro restaurandis individuis alterius naturae. Unde palam est quia, etiam si angelus nullus perisset, homines tamen in  caelesti civitate suum locum habuissent. Sequitur itaque quia in angelis, antequam quidam illorum caderent, non erat ille perfectus numerus. Alioquin necesse erat, ut aut homines aut angeli aliqui caderent, quoniam extra numerum perfectum ibi nullus manere poterat 5.

Uno degli aspetti più interessanti è, senz’altro, questo singolare rapporto di familiarità e di concittadinanza tra angeli e uomini, che, secondo Anselmo, caratterizza la  vita della città celeste. 3  Cfr.  D.  P. Henry, Numerically definitive reasoning in  the Cur Deus Homo, in «Dominican studies», 6 (1953), pp. 48-55. Più in generale, si vedano: C.-É. Viola, Le «Sitz im Leben» du Cur Deus homo, in Cur Deus homo cit., pp. 515-559; K. Kienzler, Zur Struktur von Cur Deus homo, ibid., pp. 597-608. 4  Cur Deus homo, I, 16, 381B-382A, pp. 74, 4 - 75, 12 (tr. it., Roma 2007, pp. 109-110). 5  Ibid., 18, 384AB, pp. 77, 20 - 78, 9 (tr. it., pp. 112-113).

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Secondo una prospettiva inclusiva, nella città di Dio vi è posto per tutte le creature razionali che intendono restarvi. Q uesta considerazione è tale da avere decisive ripercussioni persino nella valutazione di alcune importanti questioni di carattere interreligioso, rispetto alle quali Anselmo lascia intendere un’apertura davvero straordinaria per il  suo tempo 6. Alla domanda di  Bosone circa la possibile estensione del numero degli eletti, Anselmo risponde proponendo un esempio in  cui associa gli ebrei che respinsero la Rivelazione cristiana agli angeli decaduti, e i pagani divenuti cristiani agli uomini santi, citando a conferma gli Atti degli Apostoli (10, 35): Nam si Iudei omnes credidissent, gentes tamen vocarentur, quia ‘in omni gente qui timet deum et operatur iustitiam, acceptus est illi’. Sed quoniam Iudei apostolos contempserunt, ea tunc fuit occasio, ut ad gentes illi converterentur 7.

Q uella che Anselmo rivendica con forza, mediante l’affermazione che gli uomini beati saranno maggiori degli angeli, è l’idea di una città celeste aperta, spaziosa, in cui vi è posto per tutti gli uomini, purché giusti. Operare la  giustizia, infatti, è  il requisito richiesto a quanti sono chiamati ad abitare questa singolare città, come il  godere della beatitudine è, al  contempo, la  condizione che caratterizzerà la  loro vita in  essa. Può essere utile qui ricordare l’argomentazione fornita da Anselmo a Lanfranco a sostegno del discusso martirio dell’arcivescovo cantuariense Elfego, riferita da Eadmero nella Vita sancti Anselmi: Q uid distat inter mori pro justitia, et mori pro veritate? Amplius. Cum testante sacro eloquio ut vestra paternitas optime novit Christus veritas (cfr.  Jo 14,  16) et justitia sit, qui pro veritate et justitia moritur, pro Christo moritur. 6  Sul tema, mi permetto di reinviare ai seguenti lavori: M. Zoppi, Le potenzialità dialogiche della ratio in Anselmo d’Aosta, in Dialogus. Il dialogo filosofico fra le religioni nel pensiero tardo-antico, medievale e umanistico, a cura di M. Coppola – G. Fernicola – L. Pappalardo, Roma 2014 (Institutiones, 4), pp. 183-217; Id., Anselmo e la grandezza di Dio: una via cristiana di dialogo con ebrei, musulmani e non credenti, in Anselmo e la ‘nuova’ Europa, Atti del Congresso internazionale La partecipazione di Anselmo al processo di costruzione della ‘nuova’ Europa (Roma, 25-27 novembre 2010), a cura di G. Cipollone, Roma 2014 (Miscellanea Historiae Pontificiae, 70), pp. 305-335. 7  Cur Deus homo, I, 18, 385A, p. 78, 29-32 (tr. it., pp. 113-115).

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Q ui autem pro Christo moritur aecclesia teste martyr habetur. Beatus vero Aelfegus, aeque pro justitia, ut beatus Johannes passus est pro veritate. Cur ergo magis de unius quam de alterius vero sanctoque martyrio quisquam ambigat, cum par causa in mortis perpessione utrunque detineat? Haec me quidem reverende pater in quantum perspicere possum rata esse ipsa ratio docet 8.

Come si vede, la ragione permette ad Anselmo di cogliere la portata salvifica, universale del «fare la verità», giacché «chi muore per la verità e la giustizia muore per Cristo». Il De veritate offre le  opportune giustificazioni di  questa conclusione, e  permette di comprendere meglio quale sia la tipologia del cittadino della città celeste. D’altra parte, Anselmo stesso scrive nel Cur Deus homo che «coloro che vivono con giustizia sono angeli di Dio, cosa che li fa chiamare ‘confessori’ e ‘martiri’» 9. In tal senso, si comprende che la prospettiva entro cui Anselmo lascia emergere le linee del suo pensiero politico fa perno su valori eterni e assoluti verso i quali l’uomo nel corso del pellegrinaggio della vita è  chiamato a  tendere, realizzandoli, a  differenza dell’angelo chiamato a  farli suoi da subito irrevocabilmente. Secondo Anselmo, il diritto di cittadinanza nella città celeste, proprio ab origine di tutti gli angeli e di tutti gli uomini, è condizionato dal rispetto della giustizia, irrimediabilmente perduta dagli angeli ribelli e abbandonata, in Adamo ed Eva, dal genere umano. La Redenzione operata dal Dio-uomo si prospetta, pertanto, necessaria per sanare il debito dell’uomo, permettendogli di  riabitare e  di popolare finalmente la  città celeste. Q uest’ultima, in tal modo, diventa di nuovo accessibile a tutti gli uomini e a tutte le donne che fanno la verità. È anche la convinzione di questa apertura universalistica alla salvezza dischiusa dalla Redenzione, probabilmente, una delle motivazioni alla base della netta presa di distanza da parte di Anselmo rispetto alla prima crociata e alla forte condanna degli eccidi da essa perpetrati 10. 8   Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, I, 30, PL 158, [49-118], 75CD, ed.  R.  W. Southern, Edinburgh 1962 (Nelson’s Medieval Texts) (repr. Oxford 1972), p. 53 (tr. it., Milano 2009, pp. 89-91). 9  Cur Deus homo, I, 18, 388C, p. 83, 7-8 (tr. it., p. 118): «Q uia omnes iuste viventes angeli sunt dei; unde ipsi ‘confessores’ aut ‘martyres’ dicuntur». 10 Cfr.  Epistola ad Willelmum adolescentem, 1167C-1170A, 117, pp.  252, 1 - 255, 79 (tr. it. in Lettere, 3 voll., Milano 1988-1993, I, Priore e Abate del Bec,

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Nel cap. XVIII del primo libro del Cur Deus homo, Anselmo fa riferimento al fatto che la città celeste attende un compimento e che questo coinciderà con la promozione degli uomini all’uguaglianza con gli angeli: Q uamvis enim nondum proveherentur ad illam aequalitatem angelorum, ad quam perventuri erant homines, cum perfectus esset numerus de illis assumendus: in illa tamen iustitia in qua erant videtur quia, si vicissent, ut tentati non peccarent, ita confirmarentur cum omni propagine sua, ut ultra peccare non possent 11.

Lo sguardo di Anselmo è pertanto universale. Decadono qui i confini politici, culturali e religiosi, in forza della ratio stessa, che rende accessibile a ogni creatura razionale, nella dimensione della giustizia, l’adesione al mistero di Gesù Cristo redentore: Adamo, Eva e tutta la loro discendenza, ogni uomo e ogni donna, nonostante il peccato, restano potenziali cittadini della città celeste. L’uguaglianza con gli angeli e il conseguente appello all’imitazione della loro vita, proposti da Anselmo nel solco di alcune espressioni evangeliche 12, implicano, in tal senso, non tanto una disincarnazione dell’uomo di matrice spiritualistica, né una negazione della corporeità o un giudizio negativo su di essa, dal momento che è proprio questa dimensione a differenziare la  natura umana da  quella angelica. L’ugua­glianza con gli angeli, al contrario, orienta l’uomo, per natura, al pieno radicamento nella giustizia e all’abitazione della città celeste, similmente a quanto avvenuto agli angeli buoni, rimasti fedeli: Q ui enim confitetur et testatur veritatem dei, nuntius, id est angelus eius est. (…) Tam diu erunt populi et erit hominum in  hoc mundo procreatio donec numerus eorundem electorum compleatur; et eo completo cessabit esse hominum generatio, quae fit in hac vita. (…) Tam diu erunt populi in hoc saeculo, donec numerus hominum sanctorum assumatur 13. Milano 1988, pp.  355-359); Epistola ad Osmundum episcopum Serisberiensem, 195, pp. 85, 1 - 86, 25 (tr. it. in Lettere cit., II/1, Arcivescovo di Canterbury, Milano 1990, pp. 241-243). Cfr. F. B. A. Asiedu, Anselm, the ethics of  solidarity, and the ideology of  crusade, in «The American Benedictine review», 53 (2002), pp. 42-59; Sciuto, L’etica nel Medioevo cit. (alla nota 1), pp. 103-105. 11  Cur Deus homo, ibid., 387A, p. 81, 14-19 (tr. it., p. 116). 12 Cfr. Lc 20, 34-36; Mt 22, 30; Mc 12, 25. 13  Cur Deus homo, ibid., 388C-389B, p. 83, 8-25 (tr. it., pp. 118-119).

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In questa prospettiva, si comprende che il fine fondamentale della vita politica è  il rispetto della giustizia, inteso però come obiettivo personale, prima ancora che comunitario. In tal senso comprendiamo che valore potesse avere tanto nella vita di Anselmo, quanto in ordine a queste linee di pensiero politico, la missione del monachesimo. Essa anzitutto assume un compito esemplare dinanzi al mondo e ad ogni uomo, raccogliendo assieme persone che accettano di  vivere nella città terrena come cittadini della città celeste. Mediante il cammino di ascesi personale, i monaci aderiscono al mistero di Cristo, danno assieme testimonianza alla verità, praticano la giustizia e anticipano l’espe­rienza della beatitudine della vita perenne. Essi, in  tal modo, richiamano ogni uomo a  questa fondamentale meta e  offrono, a  quanti li accolgono, tutti gli insegnamenti e gli strumenti necessari per poterla conseguire. Eppure, il monachesimo non ha solo un valore esemplare, dischiudendo a ogni uomo il mistero della caelestis civitas, la città degli eletti di cui è segno sulla terra la Chiesa, comunità dei redenti da  Cristo. Secondo Anselmo, è  quest’ultima l’istituzione a  servizio della quale va sottoposto il  potere politico, il quale comunque trae pur sempre la sua legittimità dalla volontà di Dio. Fra la fine del 1100 e gli inizi del 1101 egli scrive a Baldovino, re di Gerusalemme: Precor vos, moneo, obsecro et deum oro, quatenus sub lege dei vivendo voluntatem vestram voluntati dei per omnia subdatis. Tunc enim vere regnatis ad vestram utilitatem, si regnatis secundum dei voluntatem. Ne putetis vos, sicut multi mali reges faciunt, ecclesiam dei quasi domino ad serviendum esse datam, sed sicut advocato et defensori esse commendatam. Nihil magis diligit deus in hoc mundo quam libertatem ecclesiae suae. Q ui ei volunt non tam prodesse quam dominari, procul dubio deo probantur adversari. Liberam vult deus esse sponsam suam, non ancillam. Q ui eam sicut filii matrem tractant, et honorant, vere se filios eius et filios dei esse probant. Q ui vero illi quasi subditae dominantur, non filios sed alienos se faciunt, et ideo iuste ab haereditate et dote illi promissa exhaeredantur 14.

14  Epistola ad Baldewinum regem Hierosolymorum, 206BC, 295, pp.  142, 16 - 143, 27 (tr. it. in Lettere cit., II/1, pp. 338-339).

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Anselmo, in piena sintonia con i principi ispiratori della riforma gregoriana, sostiene che interprete della volontà di Dio è anzitutto la  Chiesa, in  particolare l’Apostolico, cioè il  romano pontefice, come risulta da questa lettera indirizzata a Urbano II: Novimus, domine reverende et pater diligende, quod dominus noster Iesus Christus sublimavit sanctitatem vestram in ecclesia sua ad consulendum et subveniendum iis, qui ad supernae patriae requiem anhelantes in  huius saeculi exsilio diversis fatigantur tribulationibus 15.

Da questa premessa consegue che le tutte le consuetudini, comprese quelle giuridiche, politiche e  religiose, possono e  debbono essere disattese e cambiate, qualora un decreto papale lo prescriva, come avvenne per l’omaggio feudale, proibito da papa Urbano II, pena la  scomunica, in  aggiunta alla proibizione dell’investitura a ecclesiastici data da papa Gregorio VII. Secondo Anselmo, così, la legge di Dio interseca tutti i vincoli di obbedienza e gli accordi che vigono tra gli uomini, regolando la vita di essi, e limita o addirittura annulla ipso facto il potere delle prescrizioni incongruenti rispetto a essa, per coloro che sono e intendono essere cristiani. Sempre nella citata lettera a  papa Urbano II, inviata da  Lione, Anselmo nel suo primo esilio riferisce così circa la situazione politica in Inghilterra e l’operato illegittimo del re: Videbam enim multa mala in  terra illa, quae nec tolerare debebam nec episcopali libertate corrigere poteram. Ipse quoque rex faciebat quaedam quae facienda non videbantur de ecclesiis, quas post obitum praelatorum aliter quam oporteret tractabat. Me etiam et ecclesiam Cantuariensem multis modis gravabat. Terras namque ipsius ecclesiae, quas post mortem archiepiscopi Lanfranci, cum in manu sua archiepiscopatum teneret, militibus suis dederat, mihi, sicut eas idem archiepiscopus tenuerat, non reddebat, sed insuper alias secundum libitum suum me nolente dabat. Servitia gravia et antecessoribus meis inusitata, ultra quam ferre possem aut pati deberem, a me exigebat. Legem autem dei et canonicas et apostolicas auctoritates voluntariis consuetudinibus obrui videbam.

15  Epistola ad Urbanum papam, 199A, 206, p. 99, 4-7 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 265).

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De his omnibus, cum loquebar, nihil efficiebam, et non tam simplex rectitudo quam voluntariae consuetudines obtendebantur 16.

Lo stesso sistema feudale ne risulta, così, pesantemente condizionato ed è definitivamente messo in scacco qualsiasi tentativo di cesaropapismo. Scrive al riguardo Coloman Viola: Anselmo apporta un correttivo essenziale al sistema feudale, relativizzandolo, sottomettendolo al  «volere di  Dio». Non accetta di essere vassallo del re senza riserve, ma nella misura in cui il re garantisce la sua libertà nell’amicizia, non secondo gli usus atque leges, ma secondo le  promesse fatte all’epoca del battesimo e  della sua ordinazione. Non accetta di  divenire uomo del re, a  meno che questi non garantisca l’osservanza della legge divina. Con il suo atteggiamento e in tutti i suoi modi di procedere con dei re, Anselmo nega e respinge il valore assoluto del sistema feudale stabilito esigendo la sottomissione del sistema da  parte dei suoi rappresentanti alla legge divina 17.

Ma questo principio vale anche, paradossalmente, per la  legge ecclesiastica, giacché essa stessa non si configura come assoluta, ma sempre subordinata alla legge di Dio, di cui è a servizio e che la  recta ratio può riconoscere e  discernere, come afferma il  Cur Deus homo: Boso. Nam cum deus sic sit liber ut nulli legi, nullius subiaceat iudicio, et ita sit benignus, ut nihil benignius cogitari nequeat, et nihil sit rectum aut decens nisi quod ipse vult (…). Anselmus. Verum est quod dicis de libertate et voluntate et benignitate illius, sed sic eas debemus rationabiliter intelligere, ut dignitati eius non videamur repugnare. Libertas enim non est nisi ad hoc quod expedit aut quod decet, nec benignitas dicenda est quae aliquid deo indecens operatur 18.

Q ueste parole sono ancora più perspicue se considerate alla luce di  alcune affermazioni contenute nell’Epistola 329, indirizzata alla regina d’Inghilterra Matilde:   Ibid., p. 100, 31-43 (tr. it., pp. 265-267).   Viola, Anselmo di fronte ai re e ai papi cit. (alla nota 1), p. 189. 18  Cur Deus homo, I, 12, 337D-378A, p. 70, 6-14 (tr. it., p. 104). 16 17

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Nihil enim adversus patrem regis et archiepiscopum Lanfrancum, viros magnae et religiosae famae, protuli, cum me in  baptismo et in  ordinationibus meis legem et consuetudines illorum non promisisse monstravi, et legem dei me non abnegaturum significavi. Nam quod a  me nunc requiritur idcirco, quia illi fecerunt: ego propter hoc quod auribus meis Romae audivi, facere nequeo absque gravissima offensione. Q uam si contemnerem, utique contra legem dei facerem. Ut ergo ostenderem quam rationabiliter recusem facere hoc quod a  me requiritur secundum illorum consuetudinem, ostendi quomodo potius debitor sim apostolicam et ecclesiasticam cunctis notam servare constitutionem. In qua lex dei sine dubio intelligitur, cum ad Christianae religionis firmamentum promulgatur. Q uanto autem periculo contemnatur, supersedeo nunc dicere, quia cotidie Christiani, qui habent aures audiendi, ex divinis dictis possunt cognoscere 19.

Anselmo, sempre in  esilio, ripropone queste considerazioni in un’altra lettera, risalente al 1100 circa e destinata al nuovo papa Pasquale II, succeduto a Urbano II nel 1099: Videbam in  Anglia multa mala, quorum ad me pertinebat correctio, quae nec corrigere nec sine peccato meo tolerare poteram. Exigebat enim a me rex, ut voluntatibus suis, quae contra legem et voluntatem dei erant, sub nomine rectitudinis assensum praeberem 20.

Al cuore di  questo discorso, si ripresenta l’incoercibile legame personale sussistente tra ogni uomo e Dio, summa veritas, accessibile mediante la ratio e tale da non permettere che alcuna autorità vi si possa frapporre, se non in modo vicario, come per esempio può avvenire nel caso dell’insegnamento del papa o, per quanto riguarda il potere temporale, nel giusto compito di amministrare la giustizia: Anselmus. Deus hoc nobis praecipit, ut non praesumamus quod solius dei est. Ad nullum enim pertinet vindictam 19  Epistola ad Mathildem reginam Anglorum, 226AB, 329, pp.  261, 17  -  262,  29 (tr.  it. in  Lettere cit., II/2, Arcivescovo di  Canterbury, Milano 1993, p.  213). Cfr.  anche Epistola ad Henricum regem Anglorum, 74BC, 319, pp. 247, 1 - 248, 36 (tr. it., ibid., pp. 183-185). 20  Epistola ad Paschalem papam, 74BC, 210, p. 106, 14-17 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 277).

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facere, nisi ad illum qui dominus est omnium. Nam cum terrenae potestates hoc recte faciunt, ipse facit, a quo ad hoc ipsum sunt ordinatae 21.

Come attesta il De veritate, infatti, esiste un ordine di verità, a cui fa riferimento la citata lettera a Pasquale II con il termine «rectitudo», che la ragione umana può solo accogliere e che non può essere contraddetto, né modificato da  nessuno, perché radicato nell’essere stesso di  Dio, sul quale si fonda l’esistenza di  ogni essere e  la possibilità di  ogni azione 22. Grazie a  questa considerazione Anselmo, prendendo le distanze da ogni forma di fondamentalismo, entra di  fatto nel dibattito a  lui coevo sulla onnipotenza di Dio, tutelandosi dalle secche tanto dell’arbitrarismo giuridico, quanto del volontarismo fideistico, per potersi spingere fino a formulare, sempre nel Cur Deus homo, affermazioni tanto ardite quanto illuminanti, capaci di onorare le istanze della razionalità, senza scadere però in prospettive razionalistiche o volontaristiche: Boso. Nam cum deus sit sic liber ut nulli legi, nullius subiaceat iudicio, et ita sit benignus, ut nihil benignus cogitari queat, et nihil rectum aut decens nisi quod ipse vult: mirum videtur si dicimus quia nullatenus vult aut non ei licet suam iniuriam dimittere, a quo etiam de iis quas aliis facimus solemus indulgentiam petere. Anselmus. Verum est quod dicis de libertate et voluntate et benignitate illius; sed sic eas debemus rationabiliter intelligere, ut dignitati eius non videamur repugnare. Libertas enim non est nisi ad hoc quod expedit aut quod decet, nec benignitas dicenda est quae aliquid deo indecens operatur. Q uod autem dicitur quia quod vult iustum est, et quod non vult non est iustum, non ita intelligendum est ut, si deus velit quodlibet inconveniens, iustum sit, quia ipse vult. Non enim sequitur: si deus vult mentiri, iustum esse mentiri; sed potium deum illum non esse. Nam nequaquam potest velle mentiri voluntas, nisi in qua corrupta est veritas, immo quae deserendo veritatem corrupta est. Cum ergo dicitur: si deus vult mentiri, non est aliud quam: si deus est talis natura quae velit mentiri; et idcirco non sequitur iustum esse   Cur Deus homo, ibid., 377CD, p. 70, 1-4 (tr. it., p. 104).  Cfr.  De veritate, X-XIII, 478C-486C, pp.  189,  29  -  199,  29 (tr.  it., Bari 1969 [ripr. Roma – Bari 2008], [pp. 133-157], pp. 148-157). 21 22

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mendacium. Nisi ita intelligatur, sicut cum de duobus impossibilibus dicimus: si hoc est, illud est; quia nec hoc nec illud est. Ut si quis dicat: si aqua est sicca, et ignis est humidus; neutrum enim verum est. Itaque de illis tantum verum est dicere: si deus hoc vult, iustum est, quae deum velle non est inconveniens. Si enim deus vult ut pluat, iustum est ut pluat; et si vult ut homo aliquis occidatur, iustum est ut occidatur. Q uapropter si non decet deum aliquid iniuste aut inordinate facere, non pertinet ad eius libertatem aut benignitatem aut voluntatem, peccantem qui non solvit deo quod abstulit impunitum dimittere 23.

3. Un confronto con altri scritti del corpus Anselmianum Nella Vita sancti Anselmi, Eadmero offre una puntuale descrizione dell’immaginario religioso infantile di  Anselmo, che dischiude anche quello politico, da lui appreso dalla madre Ermenberga e dal contesto aostano in cui visse fino alla giovinezza: Et [scil. Anselmus puer parvulus] audito unum deum sursum in caelo esse, omnia regentem, omnia continentem, suspicatus est utpote puer inter montes nutritus caelum montibus incumbere, in  quo et aulam dei esse, eamque per montes adiri posse. Cunque hoc sepius animo volveret, contigit ut quadam nocte per visum videret se debere montis cacumen ascendere, et ad aulam magni regis Dei properare. Verum priusquam montem coepisse ascendere, vidit in planitie qua pergebat ad pedem montis mulieres quae regis erant ancillae segetes metere, sed hoc nimis negligenter faciebant et desidiose. Q uarum puer desidiam dolens atque redarguens, proposuit animo se apud dominum regem ipsas accusaturum. Dehinc monte trascenso, regiam aulam subit, Deum cum solo suo dapifero invenit. Nam familiam suam ut sibi videbatur quoniam autumnus erat ad colligendas messes miserat. Ingrediens itaque puer a domino vocatur. Accedit, atque ad pedes ejus sedet. Interrogatur jocunda affabilitate quis sit vel unde, quidque velit. Respondet illa ad interrogata, juxta quod rem esse sciebat. Tunc ad imperium Dei panis ei nitidissimus per dapiferum affertur, eoque coram ipso reficitur.   Cur Deus homo, ibid., 377D-378C, p. 70, 6-30 (tr. it., pp. 104-105).

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Mane igitur, cum quid viderit ante oculos mentis reduceret, sicut puer simplex et innocens se veraciter in caelo, et ex pane Dei refectum fuisse credebat, hocque coram aliis ita esse publice asserebat 24.

Q uesto brano, che giustamente è riferito dagli studiosi ai celebri argomenti sull’esistenza di Dio del Monologion e del Proslogion 25, offre spunti interessanti anche per la nostra ricerca: in particolare, l’immaginario di Dio come gran re, del maggiordomo, della corte celeste, dei servi e, soprattutto, il particolare del pane bianco, di cui Anselmo riferisce di essere stato nutrito nel suo sogno da parte del maggiordomo, per comando di Dio. Sono qui compresenti, infatti, a livello metaforico gli elementi fondamentali della sua comprensione tanto dell’ordine politico, quanto della vita monastica. L’immagine del pane bianco, per giunta, ritornerà ancora nell’immediato prosieguo del racconto di  Eadmero. Anselmo, infatti, maturò a quindici anni la decisione di farsi monaco, in seguito alla considerazione che «non ci fosse nulla di più eccellente dello stato monastico» 26, ma in  seguito all’opposizione del padre, cambiò il suo proposito e, con la crescita, optò probabilmente per la carriera ecclesiastica, fino poi ad accantonare del tutto la prospettiva dello stato clericale: Exinde cum corporis sanitas, juvenilis aetas, seculi prosperitas ei arrideret, coepit paulatim fervor animi ejus a religioso proposito tepescere, in  tantum ut seculi vias magis ingredi, quam relictis eis monachus fieri cuperet. Studium quoque litterarum in quo se magnopere solebat exercere, sensim postponere, ac juvenilibus ludis coepit operam dare. Veruntamen pia dilectio et diligens pietas quas in matrem suam habebat, nonnichil eum ab istis restringebant. Defuncta vero illa, ilico navis cordis ejus quasi perdita anchora in fluctus seculi pene tota dilapsa est 27.

  Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, I, 2, 50B-51B, ed. Southern cit., pp. 4-5 (tr. it., p. 21). 25 Cfr. Biffi, Anselmo d’Aosta e dintorni cit., pp. 365-368. 26  Eadmerus Cantuariensis, ibid., I, 3, 51B, ed. Southern cit., p. 5 (tr. it., p.  23): «(…) Nichil in  hominum conversatione monachorum vita praestantius esse». 27   Ibid., 4, 51D-52A, p. 6 (tr. it., pp. 23-25). 24

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In questo contesto, l’ostilità del padre Gondulfo lo indusse a lasciare Aosta e ad andare oltralpe, per evadere da un ambiente ormai per lui opprimente e  intraprendere una qualificante esperienza di studio in qualche rinomata scuola dell’Europa settentrionale. Valicando il Moncenisio, fu nuovamente un pane bianchissimo, miracolosamente trovato dal servo nel sacco, a ridargli forza e a salvarlo 28. Che cosa rappresenta questo pane per Anselmo? Esso è una chiara metafora della vita monastica, e il maggiordomo della corte celeste, molto probabilmente, va identificato con lo stesso san Benedetto da Norcia, fondatore dell’omonimo ordine. Nell’Oratio ad sanctum Benedictum a lui dedicata troviamo scritto: Sancte et beate Benedicte, quem tam opulenta benedictione virtutum superna gratia ditavit, ut non solum te ad desideratam gloriam, ad beatam requiem, ad caelestem sedem sublimaret, sed et alios innumerabiles ad eandem beatitudinem tua admirabilis vita attrahaeret, dulcis admonitio incitaret, suavis doctrina instrueret, miracula provocarent (…). Utique o preclare dux inter magnos duces exercituum Christi, tuo me addixi ducatui, quamvis imbecillem militem, tuo me subdidi magisterio, licet ignavum discipulum; secundum tuam regulam devovi me vivere, quamquam carnalem monachum. (…) Ecce beate Benedicte, quam strenue pugnat hic miles Christi sub tuo ducatu! Ecce quam efficaciter proficit hic tuus discipulus in  tua schola! Ecce bonum monachum, qui sic mortificatis vitiis et voluptatibus carnis, sic fervet et vivit solis virtutibus! Immo ecce falsum monachum, cui sic extinctis virtutibus, sic turba dominatur vitiorum, premit moles peccatorum! Pro pudor! O impudens monache, qua fronte audis dici miles Christi, discipulus sancti Benedicti? False professor, qua impudentia potes pati videri in te tonsuram et vestem professionis, cuius non habes vitam? Heu dolor, o ‘angustiae, quae mihi sunt undique’ (cfr. Dn 13, 22)! Si enim summum regem meum et bonum magistrum meum et professionem factam nego: mors mihi est.  (…) Iesu, bone Domine, ‘vide humilitatem meam et laborem meum, et dimitte universa delicta mea’ (cfr.  Ps 24,  18). ‘Adiutor meus esto’, domine, ‘ne derelinquas me neque despicias me’ (Ps 26, 9); sed ‘doce et adiuva me facere voluntatem tuam’ (cfr. Ps 142, 10), ut vita mea testetur quod cor et os libenter confitentur. ‘Intende voci  Cfr. ibid., 52BC, pp. 24-25.

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orationis meae, rex meus et deus meus’ (Ps 5, 3), per merita et intercessionem pii Benedicti, dilecti tui, ducis mei et magistri mei. (…) Age, advocate monachorum, per caritatem qua sollicitus fuisti quomodo vivere deberemus, esto sollicitus, ut sufficienter velimus et efficaciter possimus quemadmodum debemus, ut et tu de nostro discipulatu et nos de tuo magisterio gloriemur coram deo, qui vivit et regnat per omnia saecula saeculorum, amen 29.

Come si vede, l’Orazione ripropone le due figure del sogno riferito da Eadmero: Dio, re e signore, qui identificato direttamente con Gesù Cristo, e il suo maggiordomo Benedetto, da lui posto come guida e  maestro dei propri soldati, i  monaci. Benedetto insegna a essi il modo giusto di vivere, che consiste nel compiere il volere di Dio. Q uesto è per Anselmo il pane bianchissimo, nutrimento spirituale che permette di  sopravvivere nel mondo. Il  Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines ripropone questa metafora, ampliandola, nella Similitudo inter diversa alimenta et praecepta: Sicut enim alimentis diversis ad perfectam corporis aetatem, sic praeceptis dissimilibus ad spiritalem perducitur vitam. Ut enim prius educatur simplici lacte matris, dehinc alio aliquo, deinde farinae commixto, postea micis panis, postmodum etiam crustis, donec quolibet solido cibo valeat uti, sic ei primum iubetur in deum credere, dehinc eum diligere, deinde timere, postea bene operari, postmodum etiam adversa pati, quoadusque sibi praeceptum quodlibet secure possit iniungi 30.

Il monaco è pertanto colui che, divenuto capace di accogliere e di rispettare qualsiasi precetto, ha raggiunto lo stato di maturità spirituale proprio dell’adulto. Tale capacità lo investe nel consesso degli uomini di una specifica responsabilità, all’origine di una triplice distinzione di genere all’interno dell’umana famiglia, di cui il Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines ci fornisce una icastica descrizione: 29  Oratio ad sanctum Benedictum, 1005A-1007B, pp.  61,  3  -  64,  63 (tr.  it., Milano 1997, [pp. 366-377], pp. 368-377). 30  Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, 141, 684AB, pp. 91, 32 - 92, 4 (tr. it., Milano 2009, p. 137).

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Tres quippe sunt hominum ordines, videlicet orantes, agricultores, defensores. Hos autem ordines sic ad diversa deus officia in hoc mundo disposuit, quomodo quidam paterfamilias oves et boves canesque maximos sua in domo distribuit. (…) Oves namque ad hoc habet, ut lac sibi ferant et lanam; boves vero, ut terram exerceant; canes autem, ut tam oves quam boves a  lupis defendant.  (…) Q uosdam namque, ut clericos monachosque, ad hoc [scil. deus] disposuit ut pro aliis orent, mitesque ut oves lacte praedicationis eos imbuant, lanaque sui boni exempli ferventes in dei amore faciant. Alios vero, ut agricultores, ad hoc disposuit ut de suo velut boum labore ipsi vivant et alii. Q uosdam etiam, ut milites, ad hoc ut asperitatem ostendant tamque orantes quam agricultores ab adversis gentibus velut a lupis defendant. Si ergo sui quisque officium impleat, longam promeretur vitam, quia ceterorum vivit ad utilitatem. (…) Unusquisque ergo sui ordinis gerat officium, ne et totum quod vivit deputetur mendacium 31.

Nella già citata Orazione a san Benedetto, si è visto che Anselmo definisce il monaco «miles Christi» 32, attribuendogli un appellativo che non gli si addice nella metafora or ora considerata. Esso ci permette di sviluppare una riflessione sul suo personale modo di intendere l’identità e la missione del monaco nel mondo, con un’attenzione particolare appunto alle linee del suo pensiero politico. Effettivamente, in un altro testo del Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus, troviamo un opportuno approfondimento della metafora del miles Christi, ma senza il  riferimento esclusivo alla figura del monaco. Soldato di Cristo è l’uomo interiore che deve in ogni tempo militare per il suo Creatore, avendo come cavallo, «suo fidatissimo compagno», il  suo corpo, cioè l’uomo esteriore. Anselmo è  risoluto nell’affermare che le  armi proprie di questa singolare battaglia non sono temporali, ma spirituali, dando luogo così ad una ricca e dettagliata rassegna delle virtù necessarie per compiere questa impresa, con cui ripropone e rielabora liberamente quanto è scritto nella Lettera agli Efesini (6, 16): la giustizia e le sue opere, la retta intenzione, come fondamento di  ogni virtù, la  beata speranza, che solleva alla gloria eterna, la fede, la pazienza, la previdenza e, infine, la Parola di Dio,   Ibid., 127-128, 679A-680A, p. 87, 1-33 (tr. it., pp. 126-129).   Oratio ad sanctum Benedictum, 1006A, p. 63, 32 (tr. it., pp. 372-373).

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come spada che permette di vincere e di porre fine alla battaglia, sgozzando il nemico. Appunto con la presentazione di quest’ultima arma Anselmo conclude la  similitudine, dedicando a  essa molto più spazio che alle altre. In effetti quello dell’ascolto della Parola di Dio è uno dei temi a lui più cari, su cui fonda tutta la vita spirituale. Conferma questa considerazione il fatto che la similitudine del cellerario, che segue immediatamente quest’ultima e che affronta appunto il tema dell’ascolto della Parola di Dio, è quella conclusiva del Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus: il  cellerario accorto è  quello che colloca nell’angolo più remoto della cantina il vino migliore, sicché non vada sprecato. Si enim bonum vinum esset iuxta ostium, ipse cellerarius non minimum inde ab ingredientibus sive egredientibus incurreret damnum. Citius namque diripitur quidquid prope manus invenitur. Et ideo viliorem potum anteponit, potiorem vero postponit 33.

La cella dei diversi vini è, per Anselmo, similitudine della Bibbia, cui tutti possono accedere, sebbene con gradi di  comprensione diversi, mediante i  quattro generi letterari: storico, morale, allegorico e anagogico. L’ultimo di questi rappresenta l’intelligenza della fede e la contemplazione, ed è accessibile solo a chi coltiva un grande desiderio di Dio. Il messaggio è chiaro: vi è un primato dell’ascolto della Parola di  Dio  –  la stessa Regula di  Benedetto inizia con questo severo monito 34 – che è variamente accessibile all’uomo. Realizzare questo ascolto è  il fine della vita terrena di tutti e di ciascuno, come goderne appieno i frutti nella beatitudine della patria celeste è il fine ultimo. Anselmo non destina espressamente ai monaci questo insegnamento, ma anche ai laici; non associando direttamente il  vino più buono al  monaco, egli lascia, per così dire, aperto il problema di un’eventuale scelta personale, non essendo per giunta scontato che il monaco, benché si trovi nelle condizioni ottimali per farlo, faccia tesoro di  questa possibilità di  scelta. È interessante notare che queste considerazioni sono sviluppate a  chiusura di  un’opera in  cui la  vita del 33  Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, 194, 707C, p. 103, 12-15 (tr. it., p. 161). 34 Cfr. Benedictus Nursinus, Regula, Prol., PL 66, [215C-246A], 215C (tr. it., Verona 1995, p. 118).

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monastero è proposta chiaramente quale via più sicura e adatta, in  talune similitudini addirittura l’unica, per realizzare e  conseguire il  fine della vita umana: appunto la  beatitudine 35. Motivo per cui si è  avanzata l’ipotesi che queste similitudini conclusive siano spurie. Ma è chiaro che, in tal senso, la vita monastica offre le possibilità di realizzare tutto questo, senza al contempo poterle garantire, lasciando alla responsabilità individuale l’ultima parola. Nessuna istituzione religiosa o politica può essere, di conseguenza, garanzia di salvezza personale, dal momento che fare la verità comporta assieme alla coerenza della vita esteriore quella della vita interiore. Q uest’ultima dipende sempre, in ultima istanza, dalla libera risposta dell’uomo, che si esprime anzitutto con la  scelta dello stato di vita, secondo quanto considerato precedentemente, e  successivamente con un’adesione ferma e  costante ai compiti assunti. Tra quelli dei monaci e  dei chierici vi sono, appunto, nutrire e scaldare tutti gli uomini con la forza della Parola di Dio, mediante l’insegnamento e la testimonianza evangelici, armandoli così alla vera battaglia, quella interiore contro le  forze del male. Vi è però una condizione necessaria perché tutto questo abbia efficacia: occorrono la retta fede e l’umiltà. Occorre cioè credere nella Sacra Scrittura e nel suo messaggio, per non restare disarmati ed essere sopraffatti: Habet autem istud cellarium in se quoddam ostium. In isto vero ostio quaedam clavis habetur, per quam infidelibus clauditur et fidelibus aperitur. Ostium huius cellarii, id est sanctae scripturae, est recta fides 36.

La vita monastica in  modo particolare alimenta la  fede e  allena all’umiltà, mettendo nelle condizioni ottimali per conoscere la Sacra Scrittura e comprovando, come fa il fuoco con i metalli preziosi, la moralità di chi vi si applica 37. In ultima analisi, la principale missione del monaco non si realizza fuori dal monastero, ma dentro di esso; nella misura, infatti, in cui egli accoglie la Parola di Dio e gusta la beatitudine dell’incontro con Lui, rende questo 35  Cfr. Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, 73 e 75-76, 644A-645B e 647A-648B, pp. 64, 3-37 e 66, 14 - 67, 17 (tr. it., pp. 73-75 e 79-81). 36  Ibid., 194, 708C, p. 104, 21-23 (tr. it., p. 163). 37 Cfr. ibid., 95, 662BC, p. 79, 4-15 (tr. it., p. 107).

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luogo un bastione della città celeste sulla terra. Nel monastero si realizza, così, veramente quanto insegna Benedetto all’inizio della Regula, e le comunità degli uomini e delle donne che abbracciano la vita monastica si possono, in tal senso, configurare e associare già sulla terra all’ordine degli angeli in cielo, appunto in forza di una vita radicalmente vissuta, sia personalmente che comunitariamente, all’insegna dell’ascolto radicale della Parola di Dio e del suo diretto servizio. Nella presentazione della vita monastica e nei frequenti appelli che destina a chi ancora non l’ha abbracciata, Anselmo sottolinea sempre l’incomparabile soavità che essa riserva, quasi come uno status che realizza davvero pienamente la vita umana, anticipando nel tempo il suo compimento escatologico: Frater iste comedens de ligno ‘scientiae boni et mali’ (Gn  2,  17) experimento didicit, quanta sit differentia inter delicias paradisi claustralis et exilium vitae saecularis 38.

Secondo Anselmo, solo la  vita monastica può dare l’accesso al grado massimo possibile di anticipazione della felicità perenne del cielo nel corso della vita terrena. A chi non è monaco – laico o chierico che sia –, infatti, sono preclusi, per indubbi limiti, tanto la possibilità di vivere la pace del chiostro e della contemplazione di Dio, nutrita dalla Sacra Scrittura, quanto il necessario distacco dagli affanni del mondo – che travolgono inevitabilmente persino abati e vescovi –, quanto quella libertà interiore che può scaturire solo da un affidamento indiscusso e irrevocabile di sé e della propria volontà al fondamento stesso dell’essere e della libertà umani: Dio onnipotente e misericordioso, somma verità e somma beatitudine. Il Cur Deus homo offre, in tal senso, uno spaccato illuminante di questa disposizione interiore: Boso. An non honoro deum, quando propter timorem eius et amorem in cordis contritione laetitiam temporalem abicio, in  abstinentiis et laboribus delectationes et quietem huius vitae calco, in  dando et dimittendo quae mea sunt largior, in oboedientia me ipsum illi subicio? Anselmus. Cum reddis aliquid quod debes deo, etiam si non peccasti, non debes hoc computare pro debito quod debes pro peccato. Omnia autem 38  Epistola ad Lambertum abbatem, 72C, 197, p. 87, 4-6 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 245).

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ista debes deo quae dicis. Tantus namque debet esse in  hac mortali vita amor, et – ad quod pertinet oratio – desiderium perveniendi ad id ad quod factus es, et dolor quia nondum ibi es, et timor ne non pervenias, ut nullam laetitiam sentire debeas, nisi de iis quae tibi aut auxilium aut spem dant perveniendi. Non enim mereris habere quod non, secundum quod est, amas et desideras, et de quo, quia nondum habes, et adhuc utrum habiturus sis an non in  tanto es periculo, non doles. Ad quod etiam pertinet quietem et delectationes mundanas, quae animum ab illa vera quiete et delectationes revocant, fugere, nisi quantum ad intentionem illuc perveniendi cognoscis sufficere. Dationem vero ita considerare debes te facere ex debito, sicut intelligis quia quod das non a  te habes, sed ab illo, cuius servus es tu et ille cui das. Et natura te docet, ut conservo tuo, id est homo homini, facias, quod tibi ab illo vis fieri; et quia qui non vult dare quod habet, non debet accipere quod non habet. De dimissione vero breviter dico quia nullatenus pertinet ad te vindicta, sicut supra diximus; quoniam nec tu tuus es, nec ille tuus aut suus qui tibi fecit iniuriam, sed unius domini servi facti ab illo de nihilo estis; et si de conservo tuo te vindicas, iudicium quod proprium domini et iudicis omnium est, super illum superbe praesumis. In  oboedientia vero quid das deo quod non debes, cui iubenti totum quod es et quod habes et quod potes debes 39?

Effettivamente, come si evince dal testo, ogni uomo è  chiamato per sua natura a  soddisfare questo suo singolare ‘debito’ a  Dio, conseguendo così la  pace della beatitudine della vita perenne. Ma tale obiettivo può essere soddisfatto secondo tre precise modalità di  vita. Anselmo le  descrive puntualmente nell’Epistola 189, secondo una tripartizione non pienamente congruente rispetto alla suddivisione in chierici e monaci, agricoltori e cavalieri contenuta nel Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, precedentemente considerata. Q uest’ultima infatti ha una valenza, per così dire, sociale e suddivide gli uomini per ordine di  produzione e  di funzione pubblica: i  primi procurano il  bene spirituale, i  secondi quello materiale, i  terzi la  sicurezza di  tutti. Nell’epistolario, invece, emerge un punto della comprensione anselmiana del mondo più genuina, perché la scansione in ordines è originalmente pensata appunto nella prospettiva della perfezione   Cur Deus homo, I, 20, 392B-393A, pp. 86, 28 - 87, 24 (tr. it., pp. 122-123).

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personale, cioè del desiderio di giungere a ciò per cui l’uomo è stato fatto: la beatitudine eterna. Q uest’ultima nel corso della vita può essere in vario modo esperita, può addirittura essere in una certa misura anticipata. In tal senso, lo schema tradizionale degli ordines, poi mantenuto nel Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, salta: se a procurare il bene spirituale dei fedeli sono sia i chierici che i monaci, secondo Anselmo a fruirne appieno i frutti nel corso della vita terrena è il solo monaco, che occupa per questo il primo grado nella gerarchia degli ordines di uomini: proprio perché assorto nella vita contemplativa, il monaco è l’uomo a cui, sulla terra, si dischiude il grado massimo di felicità. Al secondo ordo si collocano poi i chierici, sempre contesi tra una dedizione assorta alle cose di Dio e la vita nel secolo, al terzo i laici, che raramente dispongono dei mezzi e dei tempi necessari per perseguire la  pace della contemplazione e  del servizio diretto di  Dio previsto da Benedetto nella Regula. È illuminante, in tal senso, quanto Anselmo scrive al monaco Guglielmo di Chester: Bonus autem quisque fidelis ab eo iudicatur, qui in suo ordine perfectionem attingere conatur. Nam etsi omnes ad perfectionis summam pariter pervenire non possimus, non tamen erimus extra numerum bonorum, sicut scriptum est: ‘Imperfectum meum viderunt oculi tui, et in libro tuo omnes scribentur’ (Ps 138, 16), si ad eandem perfectionem incessanter et fortiter conari velimus. Conentur igitur laici in suo ordine, clerici in suo, monachi in suo viriliter semper proficere, ut illi qui superioris propositi sunt, eos qui inferiori sunt, humilitate – in qua quantum homo magis proficit, tanto magis sublimatur – et aliis virtutibus excellere. Q uapropter, fili carissime, semper memor esto cuius propositi gradum ascenderis, nec umquam tibi vitae tuae sanctitas sufficiat, nisi eas illos qui inferiorum graduum sunt transcenderis. Sicut enim illi qui inferioris propositi sunt, laudabiliter ad virtutes superioris ascendunt: ita illi qui maiora sectari proposuerunt, vituperabiles sunt, si ad aequalitatem minora eligentium descendunt. Q uoniam ergo monachum te habitu profiteris: hortor, precor, consulo, ut semper in  conspectu dei intus studeas esse quod foris in conspectu hominum videris 40.   Epistola ad Willelmum monachum, 65C-66A, 189, p. 75, 24-40 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 227). La stessa tripartizione di ordines è già presente in Epistola ad Baldricum priorem ceterosque monachos Beccenses, 20C-26A, 156, p. 21, 110-111 40

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Occorre notare che Anselmo, in tale progresso di virtù in virtù, che trova nel proposito monastico il punto di slancio più alto, più che sulle rinunce effettuate per realizzarlo, focalizza l’attenzione sulla dimensione della perfezione, a cui comunque in ogni ordo si può accedere. In tal senso, si comprende che la prospettiva ascetica di fondo lascia, alla fine, il posto a quella eudemonistica del fine ultimo: la felicità, appunto. Nel citato brano del Cur Deus homo, si è visto che Anselmo traccia una sorta di climax della felicità: si va dalla «tranquillità e  dai piaceri del mondo, cose che allontanano lo spirito dalla vera pace e gioia», fino a «ciò per cui siamo fatti», appunto «l’amore» e la «vera pace e gioia», finalmente raggiunti e  goduti in  pienezza. Il  paradigma filosofico su cui si fonda questa climax è  chiaramente neoplatonico, si va dai gradi inferiori ai gradi superiori, dalla penombra alla luce, dalla copia all’archetipo di cui essa partecipa. Da questa ascesa alla perfezione chi vive fuori dal chiostro non è escluso, benché non sempre le sue scelte colgano l’essenziale, nel pur naturale tentativo di  conseguire la felicità: spesso infatti la vita nel mondo porta a confondere le felicità terrene con quella celeste, l’amore per le cose create con quello per il  Creatore. Per giunta, una tale tentazione può, inevitabilmente, mettere in  difficoltà anche il  monaco nel suo percorso personale di  ascesi, benché la  vita del monastero come un bastione ben munito tuteli da tali errori. La Similitudo inter Deum et quemlibet regem raccontata nei capitoli 75 e 76 del Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines illustra molto bene questo aspetto: vi è una lotta tra Dio e il diavolo, che ha come campo di battaglia il mondo. L’aspetto stupefacente di questa metafora è che il mondo è fatto coincidere interamente con il dominio di Dio, senza alcun territorio proprio del diavolo, e che di tale dominio divino fanno parte anche gli ebrei e i pagani, non solo i cristiani: Dio ha tutto questo in suo potere. All’interno di tale regno vi è un grande borgo, con molte case indifese e alcune case fortificate, in esso si erge un castello solidissimo in cui torreggia un maschio: Itaque rex ille deus est, qui cum diabolo bellum habet. Hic in  suo regno habet Christianismum, in  Christianismo vero (tr. it., ibid., p. 131), ma stavolta secondo il criterio di governo ecclesiastico, per cui troviamo prima i chierici, poi i monaci e infine i laici «di entrambi i sessi».

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monachatum, supra monachatum autem conversationem angelorum. In  Christianismo quidam in  virtutibus sunt validi, plures vero invalidi. In  monachatu autem firmitas est tanta, ut, si quis illuc confugiens monachus effectus fuerit, nisi inde paenitendo redierit, a diabolo laedi non possit. In angelorum vero conversatione gaudium est securitas tantae, ut quisquis illuc ascenderit, nolit umquam redire. Haec autem omnia rex, id est deus, habet in potestate sua. Inimicus vero eius, id est diabolus, tantae est potestatis, quod omnes Iudaeos atque paganos, quos extra Christianismum reperit, nullo obsistente rapit et in  infernum demergit. In  ipsum quoque Christianismum saepius intrat et eos quos debiles invenit tentando violat, animasque corporibus inhabitantes captivas asportat. Illos vero quos fortes invenit, postquam eos superare nequit, tandem, licet tristis, dimittit. In monachatum quoque non valet irrumpere, nec his qui monachi effecti sunt quicquam mali facere, nisi ad saeculum redierint corpore vel corde 41.

Il pericolo più grande, per Anselmo, non è tanto vivere nel mondo fisicamente, ma «con il  cuore», cioè agire con criteri di  vita che non permettono di  realizzare l’umanità propria di  ogni uomo – cristiano, ebreo o pagano che sia – e il fine della sua esistenza, la felicità della vita perenne. Da quest’ultima, che si raggiunge mediante la pratica delle virtù, il mondo tende a distrarre, offuscando i  beni imperituri con quelli caduchi, mentre orienta con sicurezza ad essa solo la  fede cristiana vissuta nella fedele appartenenza ad una comunità monastica. Per questo, chi non ne fa parte deve essere particolarmente forte, capace cioè di anteporre sempre ai beni immediati e molteplici che la vita del mondo offre, quello imperituro che la vita perenne promette. Nella Meditatio ad concitandum timorem e nella Deploratio virginitatis male amissae, Anselmo dà uno spaccato efficace di tale dramma, logicamente rigoroso e  retoricamente suggestivo 42. La  Vita sancti Anselmi, inoltre, riferisce un paragone tra vita nel mondo e vita claustrale particolarmente icastico: 41  Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, 76, De regno et villa et castello et dungione, 647C-648A, p. 67, 1-17 (tr. it., pp. 79-81). 42 Cfr.  Meditatio ad concitandum timorem, 722A-725B, pp.  76,  2  -  79,  99 (tr.  it., Milano 1997, pp.  429-441); Id.,  Deploratio virginitatis male amissae, 725B-729C, pp. 80, 2 - 83, 116 (tr. it., Milano 1997, pp. 447-461).

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[Anselmus] vidit fluvium unum rapidum atque praecipitem, in  quem confluebant omnium fluxuum purgaturae, et quarunque rerum terrae lavaturae. Videbatur itaque aqua ipsa nimis turbida et immunda, et omni spurciciarum sorde horrida. Rapiebat igitur in se quicquid attingere poterat, et devolvebat tam viros quam mulieres, divites et inopes simul. Q uod cum Anselmus vidisset, et tam obscenam revolutionem illorum miseratus unde viveret, aut unde sitim suam refocillarent qui sic ferebantur inquireret, accepissetque responsum eos ea qua trahebantur aqua vivere delectarique, indignantis voce ‘Fi[t]’ inquit ‘quomodo? Taline aliquis caeno potus vel pro ipso hominum pudore se ferret?’ Ad haec ille qui eum comitabatur, ‘Ne mireris’ ait. ‘Torrens mundi est quod vides, quo rapiuntur et involvuntur homines mundi.’ Et adjecit, ‘Visne videre quid sit verus monachatus?’ Respondit, ‘Volo’. Duxit ergo illum quasi in conspectum cujusdam magni et ampli claustri, et dixit ei, ‘Circumspice.’ Aspexit, et ecce parietes claustri illius obducti erant argento purissimo et candidissimo. Herba quoque mediae planitiei virens erat et ipsa argentea, mollis quidem et ultra humana opinionem delectabilis. Haec more alterius herbae sub iis qui in ea pausabant leniter flectebatur, et surgentibus ipsis et ipsa erigebatur. Itaque locus ille totus erat amoenus, et praecipua jocunditate repletus. Hunc ergo ad inhabitandum sibi elegit Anselmus 43.

Il Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus dedica molto spazio a  questo aspetto, associando di  fatto ogni forma di  piacere (delectatio), soprattutto quelle dei sensi corporei, a qualcosa di  pericoloso e  di contrario al  cammino ascetico. La  delectatio, infatti è  considerata assieme alla exaltatio e  alla curiositas, una delle tre esplicazioni possibili dell’attività della voluntas propria. Q uando l’uomo non abbraccia con la sua volontà quella di Dio, l’unica ad avere la prerogativa di poter essere propria, si originano in lui i vizi, dei quali il piacere occuperebbe il primo posto, seguito appunto dall’esaltazione e  dalla curiosità 44. La  conclusione contenuta in  questa reportatio non è  del tutto congruente con 43  Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, I, 21,  66C-67A, ed. Southern cit., pp. 35-36 (tr. it., pp. 65-67). 44 Cfr.  Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, in  partic., 11-29,  40,  608A-615B, 620AD, pp.  41,  21  -  48,  16; 53,  4-32 (tr.  it., pp. 21-37; 47-49).

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la prospettiva che Anselmo lascia emergere nei testi di sua indiscussa paternità. Come è noto infatti, i suoi persistenti richiami, nell’epi­stolario, alla pratica del contemptus mundi non vanno recepiti come giudizio negativo sulle realtà terrene e sulla vita del mondo, ma come un monito pedagogico a non anteporre i beni minori della vita secolare al bene maggiore che solo il monastero può riservare in  pienezza 45. Il  Monologion esordisce affermando la sussistenza di «una natura, summa omnium quae sunt, sola sibi in aeternam beatitudinem suam sufficientem, omnibusque rebus aliis hoc ipsum quod aliquid sunt aut quod aliquomodo bene sunt, per omnipotentem bonitatem suam dans et faciens» 46; nell’economia dell’opera, poi, il mondo, fatto di realtà buone, diventa via a  Dio, sommamente buono, sommamente grande, essere per sé, per il quale sono tutte le cose 47. Il Proslogion, inoltre, si conclude prospettando una lista di  beni  –  che possono diventare viatico a  Dio, il  quale è  «id quo maius cogitari nequit» 48, «quidquid melius est esse quam non esse» 49 e «quiddam maius quam cogitari possit» 50 –, che sarà alla base delle successive rielaborazioni presenti tanto nelle tre redazioni 51 del De beatitudine perennis vitae 52, quanto nei Dicta Anselmi 53, nei Miscellanea Anselmiana 54 45 Cfr.  M. Zoppi, La  verità sull’uomo. L’antropologia di  Anselmo d’Aosta, Roma 2009 (Collana di teologia, 62), pp. 182-218. 46  Monologion, 1, 144C-145A, p. 13, 5-8 (tr. it., Milano 1995, p. 49). 47  Cfr. ibid., 1-4, 144B-150A, pp. 13, 1 - 18, 3 (tr. it., pp. 49-59). 48  Proslogion, 2, 227C-228A, p. 101, 15-16 (tr. it., Milano 1995, p. 97). 49  Ibid., 5, 229BC, p. 104, 16 (tr. it., p. 103). 50  Ibid., 15, 235C, p. 112, 14-15 (tr. it., p. 121). 51  La prima redazione, contenuta nel manoscritto Chambéry (France), Mediathèque ‘J. J. Rousseau’ 24, 107v-111r, fu scoperta da Jean Leclercq e studiata nel suo saggio J. Leclercq , Sur la transmission d’un opuscule anselmien, in Cultura e società nell’Italia medievale. Studi per Paolo Brezzi, 2 voll., II, Roma 1988, pp.  449-455, vent’anni dopo la  pubblicazione dell’edizione critica: Memorials, pp. 271-291. Il testo della prima redazione, contenuto nel manoscritto di Chambéry, è stato interamente trascritto e pubblicato in Zoppi, La verità sull’uomo cit., pp. 219-233. 52 Cfr. Eadmerus Cantuariensis, Scriptum de beatitudine perennis vitae sumptum de verbis beati Anselmi, PL 159, 587A-606A, in Meditationes et orationes, pp. 271-291 (tr. it., Milano 2009, pp. 479-531). 53 Cfr.  Alexander Cantuariensis, Liber ex dictis beati Anselmi, PL 159,  605A-708D, in  Meditationes et orationes, pp.  105-195, in  partic. cap. V, pp. 127, 16 - 141, 11 (tr. it., Milano 2009, pp. 165-325, in partic. pp. 205-229). 54 Cfr.  Miscellanea Anselmiana, in  Meditationes et orationes, pp.  293-360,

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e nel Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines 55. Tra i beni che comportano la fruizione di questo singolare Bene, si annovera a  chiare lettere anche la  «munda voluptas», menzionata al termine di una sequenza di qualità che ineriscono inequivocabilmente alla dimensione fisica: pulchritudo, velocitas, fortitudo, libertas corporis, longa et salubris vita, satietas, ebrietas, melodia 56, seguite poi da  quelle proprie della dimensione spirituale: sapientia, amicitia, concordia, potestas, honor et divitiae, vera securitas; per giunta tutte sono introdotte inequivocabilmente dal seguente monito: O qui hoc bono fruetur: quid illi erit, et quid illi non erit! Certe quidquid volet erit, et quod nolet non erit. Ibi quippe erunt bona corporis et animae, qualia ‘nec oculus vidit nec auris audivit nec cor hominis cogitavit’ (1Cor 2, 9). Cur ergo per multa vagaris, homuncio, quaerendo bona animae tuae et corporis tui? Ama unum bonum, in quo sunt omnia bona, et sufficit. Desidera simplex bonum, quod est omne bonum, et satis est. Q uid enim amas, caro mea, quid desideras, anima mea? Ibi est, ibi est quidquid amatis, quidquid desideratis 57.

Si comprende così che fuori dal monastero non c’è l’inferno, ma un mondo bisognoso di  ordine e  di ordinatori, che permettano a chi vi abita di orientarsi ad  un ideale di vita veramente umano, realizzando quindi, per quanto è  possibile, anche nel mondo, il fine per cui l’uomo è stato fatto: la felicità. La vita associata e le sue istituzioni, in tal senso, sono positivamente accolte e sostenute da Anselmo quali mezzi per realizzare tale fine. Scrive, al riguardo Southern: Clearly he [scil. Anselm] was not an opponent of  royal authority, or of   secural policies, or of   the warlike activities that these policies required, or even of   Rufus himself. Despite his severe view of   the temptations of   the world, his spirituality allowed a very large place for the physical world and for the in partic. The Anselmian miscellany in Bodleian ms. Digby 158, 3. De octo beatitudinibus, pp. 327, 13 - 333, 11 (tr. it., Milano 2009, pp. 533-721, in partic. pp. 635-653). 55 Cfr.  Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, 48-71, 627C-643B, pp. 57, 20 - 63, 9 (tr. it., Milano 2009, pp. 57-73). 56 Cfr. Proslogion, 25, 240A-241C, pp. 118, 20 - 119, 3 (tr. it., p. 137). 57  Ibid., 25, 240AB, p. 118, 12-19 (tr. it., pp. 135-137).

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rights of  those to whom the administration of  this world had been committed. It was against self-will and worldy desires that he set his face; and these could only be overcome by personal conversion. They could not be overcome by altering the organization of  the world 58.

In tal senso, le reticenze di Anselmo ad accettare l’elezione abbaziale al  Bec, e successivamente la  sua vigorosa opposizione alla nomina ad arcivescovo di Canterbury e primate d’Anglia, più che essere ascritte alla sua indubbia umiltà, vanno ricomprese alla luce della sua autoconsapevolezza di essere monaco, cioè uomo chiamato a vivere nel riposo del chiostro le prerogative di quanti sono già cittadini del cielo, e  anticipare così, in parte, l’esperienza della felicità eterna. Egli si riteneva, pertanto, ormai libero dalle fatiche, dai legami oppressivi e dalle pene che la vita del mondo tristemente riserva. È significativa, al riguardo, la testimonianza che riporta Eadmero nella Historia novorum in Anglia, dove Anselmo giustifica le sue reticenze a diventare arcivescovo: Conversusque [scil. Anselmus] ad eos [scil. episcopos] in haec verba sciscitatus est, ‘Intelligitis quid molimini? Indomitum taurum et vetulam ac debilem ovem in aratro conjungere sub uno jugo disponitis. Et quid inde proveniet? Indomabilis utique feritas tauri sic ovem lanae, lactis et agnorum fertilem per spinas ac tribulos hac et illac raptam, si jugo se non excusserit, dilacerabit, ut nec ipsa sibi nec alicui, dum nihil horum ministrare valebit, utilis existat. Q uid ita? Inconsiderate ovem tauro copulastis. Aratrum ecclesiam perpendite juxta apostolum dicentem, «Dei agricoltura estis, Dei aedificatio estis» (1Cor 3, 9). Hoc aratrum in Anglia duo boves caeteris praecellentes regendo trahunt et trahendo regunt, rex videlicet et archiepiscopus Cantuariensis. Iste saeculari justitia et imperio, ille divina doctrina et magisterio. Horum boum unus, scilicet Lanfrancus archiepiscopus, mortuus est, et alius ferocitatem indomabilis tauri obtinens jam juvenis aratro praelatus; et vos loco mortui bovis me vetulam ac debilem ovem cum indomito tauro conjungere vultis? Q uae dico satis intelligitis; et ea re quid cui velitis associare vellem consideraretis, considerantes ab incoepto desisteretis. Q uod si non desistitis;

58  Southern, Saint Anselm: a  portrait in  a  landscape cit., p.  273 (tr.  it., p. 289).

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en praedico vobis quia me, de quo lanam et lac verbi Dei et agnos in  sevitium ejus nonnulli possent habere, extra quam modo putetis regia feritas, diversis a  se fatigatum injuriis, opprimet, et gaudium, quod nunc de me quasi pro revelationis vestrae spe vos tenet, multos, cum nil consueti consilii aut sperati auxilii per me habere potuerint, versum in moestitiam dolentes efficiet 59.

Secondo Anselmo, le autorità politiche e religiose sono chiamate a collaborare alla medesima causa: il bene del popolo che devono servire. Q uesto ufficio, benché distinto nei ruoli, associa re e principi, papa e vescovi in  una comune responsabilità e  obiettivo di fondo: unico è il giogo che essi sono chiamati a portare senza poter fare a meno gli uni degli altri. In particolare, per mandato divino, vi sono laici ed ecclesiastici deputati al  governo temporale e spirituale della comunità umana: è compito delle autorità politiche laiche governare e difendere il popolo secondo giustizia, mentre è  compito di  quelle religiose provvedere alla cura spirituale tanto di chi governa quanto del popolo 60. Sempre la Historia novorum in Anglia riporta queste parole, rivolte da Anselmo, una volta divenuto arcivescovo di Canterbury, al re d’Inghilterra Guglielmo Rufo: Volo ut in iis quae ad Deum et Christianitatem pertinent te meo prae ceteris consilio credas, ac, sicut ego te volo terrenum habere dominum et defensorem, ita et tu me spiritualem habeas patrem et animae tuae provisorem 61.

Si comprende, pertanto, che il fermo rifiuto di Anselmo ad accettare la carica arcivescovile e primaziale di Canterbury non si fondava tanto su una sua preconcetta condanna del servizio dell’autorità politica e  religiosa, quanto piuttosto sulla sua radicata identità monastica, del tutto avversa alle responsabilità di potere, giudicate difficilmente compatibili con la vita del chiostro. In tal 59   Eadmerus Cantuariensis, Historia novorum in  Anglia, I, PL 159, [347-524], 368AC, ed. M. Rule, London 1884 (ripr. 1965) (Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores, 81), pp. 36-37 (tr. it., Milano 2009, pp. 91-93). 60  Su questo aspetto, mi permetto di  reinviare a  M. Zoppi, La  posizione di Anselmo nel dibattito politico medievale, in «Bulletin. Académie Saint-Anselme d’Aoste», N. S. 15 (2014), [pp. 159-168], in part. pp. 162-168. 61  Eadmerus Cantuariensis, Historia novorum in  Anglia, I, PL 159, 370D-371A, ed. Rule cit., p. 40 (tr. it., p. 99).

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senso, persino la sua elezione alla carica abbaziale fu da lui inizialmente rigettata, dal momento che anche questo ufficio, con i suoi negozi secolari legati all’amministrazione di terre e di beni, minava l’otium monasticum, comportando inesorabilmente una perdita di pace, nefasta per un monaco, nonostante comportasse la cura dei propri fratelli («suscipere curam in  spe auxilii dei, postponens requiem, pro fratrum utilitate» 62). Al riguardo, la Historia novorum in Anglia riporta le parole rivolte da Anselmo ai vescovi inglesi, per dissuaderli dal loro proposito di fargli ricevere dal re l’investitura ad arcivescovo di Canterbury: Ex quo monachus fui saecularia negotia fugi, nec unquam eis ex voto intendere potui, quia nihil in eis esse constat quod me in amorem aut delectationem sui flectere queat. Q uare sinite me pacem habere, et negotio quod numquam amavi, ne non expediat, implicare nolite 63.

Si può meglio comprendere, così, anche il senso di quanto Anselmo scrisse a papa Urbano II, fornendogli un suggestivo bilancio dei suoi primi quattro anni di episcopato: Notum est multis, mi pie pater, qua violentia et quam invitus et quam contradicens captus sim et detentus ad episcopatum in Anglia, et quomodo obtenderim repugnantiam ad huiusmodi officium naturae, aetatis, imbecillitatis et ignorantiae meae, quae omnino omnes saeculi actiones fugiunt et  inconsolabiliter exsecrantur, ut nullatenus illas tolerare possim cum salute animae meae. In quo archiepiscopatu iam per quatuor annos manens nullum fructum feci, sed immensis et exsecrabilibus tribulationibus animae meae inutiliter vixi, ut cotidie magis desiderarem mori extra Angliam quam ibi vivere 64.

62   Epistola ad Baldricum priorem ceterosque monachos Beccenses, 26B-27A, 157, p. 24, 13-15 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 137). 63  Eadmerus Cantuariensis, Historia novorum in  Anglia, I, 366B, ed. Rule cit., p. 33 (tr. it., p. 87). 64  Epistola ad Urbanum papam, 405D-406A, 206, pp. 99, 22 - 100, 30 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 265).

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RICERCA DELLA VERITÀ, VOLONTÀ DI GIUSTIZIA E DESIDERIO DI FELICITÀ NEL MONACHESIMO DI ANSELMO D’AOSTA

L’itinerario teoretico di  Anselmo è  sensibilmente influenzato da quello esistenziale e costituisce con esso un unico intreccio, nel quale il  secondo genera e  motiva il  primo e  questo, a  sua volta, fornisce alla sua vita le  risposte che rinforzano e  irrobustiscono le scelte e i passi da lui compiuti. La scelta di essere monaco è stata quella decisiva ed ha costituito la cifra di tutta la vita di Anselmo. Da allora egli è stato sempre e soprattutto un monaco 1. La vita monastica è stata da lui considerata la  maniera migliore e  più alta di  vivere la  vita cristiana e la sua attività di insegnante e di scrittore teologico e filosofico, e, in  particolare, i  suoi scritti di  filosofia morale, costituiscono nel loro insieme un tentativo unitario di fondazione e giustificazione argomentata e razionale del significato e della forma di vita monastica 2 e, più specificamente, di ciò che per Anselmo è il cuore di essa e cioè dell’obbedienza. Dopo aver abbandonato Aosta, Anselmo peregrina per la Borgogna e la Francia 3 per circa tre anni prima di approdare al Bec e compiervi poi la scelta di diventare monaco. Q uei tre anni sono 1  Cfr.  P. Grammont, Sant’Anselmo: un’esperienza monastica, in  Anselmo d’Aosta figura europea, Atti del Convegno di  Studi (Aosta, 1-2 marzo 1988), a  c.  di  I.  Biffi  –  C.  Marabelli, Milano 1989 (Biblioteca di  Cultura Medievale. Di fronte e attraverso, 231), pp. 63-71. 2 Cfr.  R.  W. Southern, Saint Anselm. A  Portrait in  a  Landscape, Cambridge 1990, p. 217: «His monastic commitment was total, because he believed that a total commitment was the only acceptable relationship between Man and God. This aspect of  Anselm’s thought is fundamental to the understanding of  his practical life as well as his theology». 3 Cfr. ibid., pp. 11-13.

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 191-209 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112917

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un tempo di inquietudine e di ricerca, durante il quale Anselmo si interroga su che cosa debba fare della sua vita e sulle diverse possibilità di condurla. In questi tre anni egli cerca di venire in chiaro con se stesso e di trovare una verità soddisfacente, che gli permetta di stare al mondo con piena convinzione. Sin da quegli anni, anche se ancora in modo incerto e confuso, la ricerca della verità diventa elemento centrale della sua esistenza e  del suo modo di  stare al  mondo. Senza di  questa egli non potrà più vivere. Ed è  una ricerca di verità che è prima di tutto un bisogno esistenziale, ma nello stesso tempo si va sempre più definendo come un bisogno intellettuale. A partire da questa condizione l’arrivo al Bec diventa decisivo, anche e soprattutto per l’incontro con Lanfranco, come ha saputo ben mettere in  luce Southern: «Lanfranc took him in hand, and in the course of   a year he had given him a direction that would last his whole life. Within four years he had given him all the intellectual equipment necessary for his future» 4. A questo proposito, mi sembra particolarmente importante, per le riflessioni che sto per sviluppare, sottolineare l’identificazione di verità e giustizia, compiuta da Lanfranco commentando la Lettera ai  Romani (Rm  3,  4), evidenziata da  Richard Southern 5, perché essa era destinata ad avere un’influenza di  grande portata in Anselmo, diventando uno dei cardini su cui si regge in lui la relazione tra vita monastica e vita teoretica. Nella Lettera, Paolo scrive: «Est autem Deus verax, ‘omnis autem homo mendax’, sicut scriptum est: ‘Ut justificeris in sermonibus tuis, et vincas cum judicaris’», citando il Salmo 115, 11 e il Salmo 50, 6, nel quale Davide si rivolge a Dio dopo aver peccato con Betsabea e aver fatto morire in guerra il marito di lei, Uria l’Hittita 6. Commentando questo punto della Lettera ai Romani, precisamente in  riferimento alle parole «Ut justificeris», Lan4  Ibid., p. 14; per il rapporto tra Anselmo e Lanfranco cfr.  ibid., pp. 14-66 e Id., The Relationship between Anselm’s Thought and His Life at Bec and Canterbury, in Saint Anselm – A Thinker for Yesterday and Today. Anselm’s Thought Viewed by Our Contemporaries, Proceedings of  the International Anselm Conference (Centre National de Recherche Scientifique, Paris), ed. by C. Viola – F. Van Fleteren, Lewiston – Q ueenston – Lampeter 2002 (Texts and Studies in Religion, 90; Anselm Studies, 5), [pp. 9-26], pp. 12-17. 5 Cfr.  Id.,  Saint Anselm cit., pp.  41-42 e  Id.,  The Relationship between Anselm’s Thought and His Life cit., pp. 14-15. 6  Cfr. 2Rg 11.

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RICERCA DELLA VERITÀ, VOLONTÀ DI GIUSTIZIA E DESIDERIO DI FELICITÀ

franco scrive: «Probatio quod Deus verax est; justitia enim sermonum, est veritas» 7. Southern nota che questo commento non è di immediata interpretazione e che per essere reso più chiaro può essere riferito ad un sillogismo in cui la premessa maggiore affermi che Dio è giustizia, la minore che la verità è la giustizia nelle parole e la conclusione che Dio è verità 8. Risulta compiuta così l’identificazione tra giustizia e verità. Essa è importante in se stessa, ed avrà un’enorme portata nella vita e nell’opera di Anselmo, ma è anche significativo il modo in cui è realizzata ed il luogo da cui proviene. Infatti l’operazione logica di  articolazione sillogistica, che in questo caso non è compiuta direttamente da Lanfranco, è però il modello che egli propone, mettendolo di fatto in pratica ripetutamente nel commento all’epistolario paolino 9. Si tratta di una legittimazione dell’utilizzo della dialettica come strumento di comprensione del testo sacro e del dato di fede, che sarà proseguita dal discepolo Anselmo, che ne farà un programma di ricerca e  di vita. In  questo modo anche l’identificazione di  giustizia e verità, che sarà sviluppata più tardi da Anselmo ed avrà nella sua opera un ruolo decisivo, trae origine da una analisi, messa in atto con strumenti razionali, di un punto della sacra Scrittura, quindi da un tentativo di comprendere il dato di fede. Inoltre dicevo che è da segnalare il luogo, nel senso che il passo commentato è tratto dalla Lettera ai Romani di Paolo. Appunto Lanfranco, esperto maestro nelle arti del trivio, fattosi monaco, si dedicò all’insegnamento e  commentò le  lettere di  Paolo, 7   Lanfrancus Cantuariensis, Commentarius in  Epistolam Pauli ad Romanos, 3, 4, PL 150, [105D-156B], 115B. 8 Cfr. Southern, Saint Anselm cit., p. 42. 9  Cfr. G. d’Onofrio, Lanfranco teologo e la storia della filosofia, in Lanfranco di Pavia e l’Europa del secolo xi, nel IX centenario della morte (1089-1989), Atti del Convegno Internazionale di  Studi (Pavia, Almo Collegio Borromeo, 21-24 settembre 1989), a  c. di  G. d’Onofrio, Roma 1993 (Italia Sacra, 51), pp.  189228, in partic. pp. 216-217: «Una volta rintracciati i procedimenti topici, è più facile sciogliere il  discorso paolino in  una serie di  sillogismi che soggiacciono all’andamento narrativo del testo. Lanfranco lo sa bene, e  in più occasioni egli traduce apertamente in sillogismi gli argomenti topici da lui individuati nel testo di  Paolo. Procedendo in  questo modo, Lanfranco si abbandona quindi ad una vera e  propria ricostruzione sillogistica dell’intero testo paolino, moltiplicando vistosamente (…) l’evidenziazione della struttura rigorosamente deduttiva delle argomentazioni che lo percorrono». Cfr. anche I. Biffi, Lanfranco esegeta di san Paolo, ibid., pp. 167-187, in partic. pp. 179-182, in cui l’autore si sofferma specificamente sul metodo retorico-dialettico dell’esegesi di Lanfranco.

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e  Anselmo, divenuto monaco e  suo discepolo, conosceva certamente questo lavoro di  Lanfranco, se non era stato direttamente ad ascoltarne la lectio 10 ed era consapevole del valore che Lanfranco attribuiva alle lettere paoline; esse erano per il pavese un modello teologico, in quanto mostravano la necessità e dunque anche la legittimità dei tentativi di fornire nuove interpretazioni a questioni di carattere dottrinale originate dai testi sacri 11. In queste considerazioni non è difficile scorgere le radici dello stile che Anselmo, proprio in quanto monaco, vorrà dare alla sua presenza al Bec e ai suoi studi: un’appassionata ed inesausta ricerca di conoscenza, comprensione e assimilazione delle sacre Scritture, condotta attraverso il  pieno dispiegamento delle proprie facoltà e delle proprie dimensioni, certamente di quelle affettive e mistiche, ma altrettanto certamente di quelle razionali. Nell’abbracciare e vivere la scelta monastica, Anselmo è animato dal vivo senso del peccato e da una sensibilità acutissima nei confronti della condizione di colpa che riguarda lui direttamente e la specie umana in  generale. In  particolare, nelle orazioni e  meditazioni che ci sono giunte, il tema del peccato emerge con forza. Nella prima – secondo l’edizione Schmitt – delle preghiere raccolte insieme dallo stesso Anselmo, l’Oratio ad deum, la richiesta iniziale che egli rivolge a  Dio è: «Miserere mihi peccatori. Da  mihi veniam peccatorum meorum. Cavere, vincere omnes insidias et tentationes et delectationes noxias; perfecte mente et actu vitare quae prohibes» 12. L’Oratio ad sanctam Mariam cum mens gravatur torpore è uno degli esempi più evidenti e forti di come il monachesimo di Anselmo fosse segnato e determinato dalla coscienza del peccato. Il torpor, di cui si fa menzione nel sottotitolo della preghiera in questione, è lo stato di aridità spirituale e di insensibilità al bene causato dal peccato. L’orante, proprio in  quanto perfettamente consapevole  –  di una consapevolezza non solo teorica, ma anche esistenziale e  quasi fisica  –  dei propri peccati, sa di avere bisogno di un grande aiuto per superare la situazione paralizzante in cui si trova. Egli presenta la propria  Cfr. ibid., p. 183.  Cfr. d’Onofrio, Lanfranco teologo cit., pp. 207-209. 12  Oratio ad deum, 876CD, p. 5, 3-6. 10 11

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anima come «morbis vitiorum languida, vulneribus facinorum scissa» 13, caratterizzata da sporcizia, orrore, fetore, turbamento, confusione, provocati dai peccati, i quali strappano, corrodono, tormentano, bruciano, atterriscono, opprimono, schiacciano, sfigurano 14. Anche l’Oratio ad sanctam Mariam cum mens est sollicita timore 15 è la preghiera di un peccatore – «ad te, (…) ego peccator et utique nimis peccator anxius confugio» – che ha presente l’enormità dei propri peccati e teme il conseguente giudizio divino, pur sperando nell’intercessione di Maria e nel perdono di Dio 16. La coscienza del peccato e il sentimento della colpa generano uno stato di  inquietudine e  di peso che spingono a  cercare una via d’uscita e di sollievo. L’ansietà che tormenta l’animo del peccatore si ripresenta ripetutamente. Nell’Oratio ad sanctum Iohan-

  Oratio ad sanctam Mariam cum mens gravatur torpore, 948C, p. 13, 10.  Cfr. ibid., 949AB, p. 13, 14-23: «Sic sordibus et foetore foedatur [scil. anima mea], ut timeat ne ab ipsa misericors vultus tuus avertatur. Sic tabescit desperando respectus tui conversionem, ut etiam os obtumescat ad orationem. Peccata mea, nequitiae meae, si habetis animam meam vestro veneno peremptam: vel cur sic facitis eam vestra foeditate horrendam, ut miseratio non possit aspicere illam? Si obruitis ei spem exauditionis vestra mole: vel cur obstruitis illi vocem orationis vestri pudore? Si mentem eius vestri fecistis amore dementem: vel cur sensum eius vestro redditis torpore non sentientem? Heu pudor sordentis iniquitatis, in praesentia nitentis sanctitatis! Heu confusio immundae conscientiae, in conspectu fulgentis munditiae!»; e ibid., 949BC, p. 14, 26-37: «Rogare enim te, domina, desidero, ut miserationis tuae respectu cures plagas et ulcera peccatorum meorum, sed confundor coram te ob foetorem et sordes eorum. Horreo, domina, parere tibi in immunditiis et horroribus meis, ne tu horreas me pro eis, et non possum – vae mihi! – videri sine eis. O perturbata, o confusa peccandi conditio! En quippe vos, peccata mea, quomodo discerpendo distrahitis, distrahendo corroditis, corrodendo torquetis praecordia mea. Eadem enim peccata mea, o domina, cognosci a te cupiunt propter curationem, parere tibi fugiunt propter execrationem. Non sanantur sine confessione, nec produntur sine confusione. Si celantur, sunt insanabilia; si videntur, sunt detestabilia. Urunt me dolore, terrent me timore. Mole me obruunt, pondere me premunt, pudore me confundunt». 15 Cfr. Oratio ad sanctam Mariam cum mens est sollicita timore, 950B-952C, pp. 15-17. 16 Cfr. ibid., 950BC, p. 15, 7-14: «Ad te, praepotens et misericors domina, ego peccator et utique nimis peccator anxius confugio. Videns enim me, domina, ante districti iudicis omnipotentem iustitiam, et considerans irae eius intolerabilem vehementiam, perpendo peccatorum meorum enormitatem et condignam tormentorum immanitatem. Tanto igitur, domina clementissima, horrore turbatus, tanto pavore perterritus: cuius enixius implorabo interventionem, quam cuius uterus mundi fovit reconciliationem?». 13 14

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nem Baptistam 17, lo «scelerosus vermis» 18 carico della sua grande colpa è angosciato per i peccati 19 di cui sente la piena responsabilità 20. Ancora «anxius» è il peccatore che si rifugia da santo Stefano impetrando intercessione 21 nell’Oratio ad sanctum Stephanum 22. Egli è il colpevole e la sua coscienza lo accusa al cospetto di un giudice tremendo 23. Ancora, l’inquietudine è  degna del monaco che con i  suoi peccati ha tradito l’impegno che si era assunto 24 e, nell’Oratio ad sanctum Benedictum 25, chiede aiuto al  fondatore dell’ordine. E l’ansietà è, di nuovo, il sentimento che pervade l’animo di chi, essendo consapevole delle proprie colpe, ha paura di non trovare un intercessore che lo difenda e si chiede con quale coerenza e con quale credibilità possa chiedere lui il perdono per i propri amici 26. La mancanza di  sicurezza è, dunque, una cifra esistenziale di  Anselmo, che ancora Richard Southern ha ben messo in rilievo 27. Essa è una ragione precisa della ricerca di pace e di sal Cfr. Oratio ad sanctum Iohannem Baptistam, 969A-972B, pp. 26-29.   Ibid., 969A, p. 26, 8. 19  Cfr. ibid., 969AB, p. 26, 10-15: «Ad te, tam magne amice dei, valde timens venit dubius de salute sua, quia certus de magna culpa sua, sed sperans de maiori gratia tua. Maior enim est, domine, gratia tua quam culpa mea, quia plus potes apud deum, quam delere scelera mea. Ad te, ergo, domine, quem gratia fecit tam amicum dei, ad te fugit anxius, quem iniquitas fecit tam reum dei; ad te quem tam beatum fecit gratia, ego quem tam miserum fecit nequitia». 20 Cfr. ibid., 969B-970B, pp. 26, 19 - 27, 43. 21 Cfr. Oratio ad sanctum Stephanum, 993AB, p. 50, 16-18: «Anxius itaque et tremens refugit ad te male conscius sibi peccator. Vide ergo, pie Stephane, angustiam meam et dilata super eam caritatem tuam». 22  Cfr. ibid., 992C-997A, pp. 50-54. 23  Cfr. ibid., 993B, p. 50, 19-21: «Ecce enim astat reus ante tremendum iudicem. Accusatur multis et magnis offensis. Convincitur teste propria conscientia et testibus oculis ipsius iudicis». Sul ruolo della coscienza in Anselmo cfr. I. Biffi, La  coscienza e  la libertà nell’Epistolario di  Sant’Anselmo, in  Saint Anselm – A Thinker for Yesterday and Today cit. (alla nota 4), pp. 395-408. 24 Cfr. Oratio ad sanctum Benedictum, 1006B, p. 63, 43-44: «Anxiare in me, spiritus meus, turbare in me, cor meum, erumpe et clama, anima mea». 25 Cfr. ibid., 1005A-1007B, pp. 61-64. 26 Cfr.  Oratio pro amicis, 907C, p.  72,  30-34: «Et qui anxius intercessores quaero: qua fiducia pro aliis intercedo? Q uid faciam, domine deus, quid faciam? Tu iubes me orare pro illis et dilectio concupiscit, sed clamante mihi conscientia ut pro meis peccatis sollicitus sim, pro alienis loqui contremisco». 27  Cfr.  Southern, Saint Anselm cit. (alla nota 2), pp.  84-87, in  partic. pp. 84-85: «In turning inwards he found no grounds for satisfaction. Self-abasement in the presence of   God was the only appropriate human response. Apart 17 18

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vezza che Anselmo conduce da monaco 28 ed è collegata al senso di  inadeguatezza, di  insoddisfazione di  sé e  di colpa per i  propri peccati 29 e  del terrore di  doverne rispondere. Nel Cur Deus homo Anselmo spiega quanto sia motivato questo sentimento, chiarendo che anche il più piccolo atto di volontà contrario alla volontà di Dio non è paragonabile ad alcun altro tipo di danno ed è in ogni caso più grave, al punto che bisognerebbe evitarlo a qualunque costo, anche se ciò comportasse la distruzione del mondo intero: «Q uid si necesse esset aut totum mundum et quidquid deus non est perire et in nihilum redigi, aut te facere tam parvam rem contra voluntatem dei?  (…) Fateri me necesse est quia pro conservanda tota creatura nihil deberem facere contra voluntatem dei» 30. Non è sorprendente, di conseguenza, l’interesse teorico nutrito da Anselmo nei confronti dei temi etici del male, della volontà, della responsabilità e della giustizia e non è un caso che nella prefazione al De veritate l’autore spieghi che obiettivo della ricerca è capire cos’è la giustizia 31. È dal cuore di un monachesimo profondamente vissuto come rimedio al pericolo della perdizione e come via migliore per dirigersi verso la perfezione 32, allontananfrom the bare scaffolding of   rational argument pointing towards God, he found within himself  only sin and insecurity. Anselmian introspection led to increased anxiety, not to an increased understanding of   human powers. Anxiety was the constant refrain of  his earliest spiritual writings»; e p. 85: «There was no moderation, no sense of  security in Anselm’s thought». 28 Cfr. ibid., p. 84: «It was only in the narrow stream of   monastic life that safety lay». 29  Cfr. Id., The Relationship between Anselm’s Thought and His Life cit. (alla nota 4), p. 17: «The grievousness of   sin was a main subject of   Anselm’s earliest monastic thoughts». 30  Cur Deus homo, I, 21, 394AB, p. 89, 1-13. 31 Cfr.  De veritate, Praefatio, 467B, p.  173,  9-10: «Unus horum trium est De veritate: quid scilicet sit veritas, et in quibus rebus soleat dici; et quid sit iustitia». 32  Cfr. Epistola ad Albertum medicum, 1091A-1092A, 36, p. 144, 18-21, dove Anselmo prospetta e augura l’ingresso nella comunità monastica come la scelta che permette di  cogliere i  veri ed eterni beni ed incamminarsi verso l’incorruttibilità beata; Epistola ad Lambertum et Folceraldum avunculos, 1116BC, 54, p. 168, 15-17, in cui esorta i destinatari ad abbandonare la vita secolare, paragonata ad un sonno infruttifero, e ad entrare in monastero, per ottenere i veri beni della vita; Epistola ad Petrum consobrinum, 1118B, 56, p. 171, 15-19, in cui la vita monastica è indicata come il percorso più adatto verso la vita eterna; Epistola ad Helinandum, 1162AB, 101, pp. 233, 43 - 234, 55, in partic. p. 234, 49-55: «Valde difficilius est inter saeculares per liberam voluntatem, quam intra claustrum

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dosi quanto più possibile dalla strada del peccato, che sgorga l’indagine speculativa tesa a dare una giustificazione razionale a ciò che è creduto per fede e che urge dal punto di vista esistenziale 33. Tale atmosfera spirituale e  tali sentimenti agiscono, inoltre, all’interno delle relazioni con gli altri monaci, ed in particolare con i suoi amici monaci, e sono condivisi con loro in un comune orizzonte di  vita e  di preoccupazioni, il  quale è, anch’esso, terreno fertile da  cui si alimenta la  pianta della riflessione etica anselmiana. Ciò risulta ulteriormente determinante, se si tiene presente la  convinzione nutrita da  Anselmo, secondo la  quale all’interno della comunità benedettina l’amicizia deve svolgere un compito preciso e  centrale per realizzare in  concreto il processo di salvezza 34 e contemporaneamente rispondere alla destinazione metafisica alla quale sono chiamati gli esseri razionali sulla terra. I suoi rapporti di amicizia, come emergono dalle sue lettere, sono sempre interni ad un comune impegno terreno, in vista di un bene e di un compimento ultraterreni ed eterni 35, e possono sussistere soltanto sulla base di questa comune tensione etica e  religiosa, in  quanto essi trovano la  loro ragion d’essere monachorum sub disciplina custodire vitae sanctitatem. Non dico nunc quod propositum vitae inter omnes vitas altiorem gradum contingat humilitatis, quem altior sequitur exaltatio, nisi quia nullus, ut melius vivat, monachi propositum deserit, et omne genus hominum ad monachicam vitam ut magis deo propinquet concurrit». 33 Cfr. Southern, Saint Anselm cit. (alla nota 2), p. 106: «We can see the origins of   his theological system in an intense horror of   sin operating on a mind of  exceptional power and precision». 34 Cfr.  ibid.,  cap. 7: The nature and importance of   friendship, pp.  138-165 e Id., The Relationship between Anselm’s Thought and His Life cit. (alla nota 4), pp. 17-21. 35  Cfr.  Epistola ad Haimonem et Rainaldum consanguineos, 1180A, 120, p. 258, 10-12: «Desiderat conversationem vestram quidquid restat de vita mea, ut in  pleno gaudio futurae vitae vobiscum gaudeat anima mea»; e  1180BC, p.  259,  25-32: «Sed quid cunctor aperte dicere desiderium cordis mei? Dicam ego, persuadeat deus. Desiderati mei, nihil tam bene potestis, quam monasticae vitae propositum arripere; nusquam melius hoc potestis quam cum illo, qui vobis in hoc desiderat et potest deo dante servire et consulere. Utique non fallo, quia amicus sum; certe nec fallor, quia expertus sum. Simus ergo monachi simul, serviamus deo simul, ut de invicem nunc et in futuro gaudeamus simul. Una caro, unus sanguis sumus; una anima, unus spiritus simus». Cfr. inoltre Southern, Saint Anselm cit., p. 158: «When he [scil. Anselm] spoke in ecstatic terms about friendship, he was thinking of   individuals, not primarily on earth, but in  Heaven» e p. 159: «In speaking of  friendship, he was making statements about eternity».

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nel fine che li trascende e li completa, che è l’amore del sommo bene 36 e  la conformità alla volontà divina; per questo motivo «the softest words of  friendship are associated with the harshest requirements of   obedience and self-abnegation in  a  complete dedication to the monastic life» 37. Da questi rapporti e dall’ambiente monastico in  genere sorgono le  questioni, che sono poi trattate teoreticamente, e ai membri di questa cerchia in primo luogo sono destinate le opere che ne fissano i contenuti, per irrobustire la scelta già intrapresa. Ricercare la  verità per Anselmo è  sempre ricercare Dio, ma questa ricerca monastica trova nel tentativo di  comprensione razionale un motivo di  forza e  di incoraggiamento sul percorso intrapreso. Per questa ragione, atto del credere e interrogazione intellettuale si compenetrano così profondamente in lui e, a partire dall’atto di  fede iniziale, si alimentano reciprocamente 38. La  ricerca della verità diventa allora il  tentativo di  rispondere all’interrogativo sulla propria collocazione nel mondo e  nella realtà e  di inquadrare metafisicamente e  teologicamente la  propria vita e le sue possibilità. In questo modo la  domanda sulla verità si trasforma nella domanda sul senso dell’agire e dell’essere, sulla sua finalità e sul suo perché. Così nel De veritate, a partire dalla domanda sulla verità dell’enunciazione, l’indagine viene rivolta alla finalità intrinseca che dà senso all’oratio e la costituisce come tale: «Ad quid facta est affirmatio?» 39. Allo stesso modo la  domanda si ripropone per gli altri ambiti ai quali si attribuisce un rapporto con la verità  Cfr. Monologion, 68, 213C-214C, pp. 78, 12 - 79, 9 e Cur Deus homo, II, 1, 399C-401C, pp. 97, 1 - 98, 5. 37  Southern, Saint Anselm cit., p. 147. 38 Cfr. C. E. Viola, Saint Anselme, ses historiens et les théologiens: Critique de quelques vues récentes, in Twenty-Five Years (1969-1994) of  Anselm Studies. Review and Critique of  Recent Scholarly Views, ed. by F. Van Fleteren – J. C. Schnaubelt, Lewiston – Q ueenston – Lampeter 1996 (Anselm Studies, 3), [pp. 1-27], p. 15: «Son point de départ comme son point d’aboutissement sont également la foi chrétienne»; e p. 16: «Ce qui est identique, dans l’esprit d’Anselme, c’est l’objet visé par l’acte de penser et l’acte de croire, mais la manière dont chacun de ces actes atteint l’objet est radicalement différent: l’acte de penser sera toujours un acte qui s’appuie sur des raisons et qui atteint directement son objet qui est ‘rationnel’ tandis que l’acte de croire est un acte qui n’atteint pas directement son objet, mais par le biais d’une autorité». 39  De veritate, 2, 470A, p. 178, 8. 36

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e sempre la finalità, in vista della quale qualcosa è fatto o esiste, è il criterio a partire dal quale si può trovare la definizione ricercata. Infatti il fine del dire, del pensare, del volere, del fare e dell’essere è ciò che determina il suo dover essere e quindi la sua rectitudo, che viene quindi identificata con la veritas. È vero ciò che risponde e  si conforma al  fine per il  quale esiste o  viene posto in  essere e così fa o è ciò che deve. Il linguaggio 40, il pensiero 41, la volontà 42, l’azione 43, l’essere delle cose 44 trovano la loro verità nella loro rettitudine, perché allora sono veri, quando sono come devono essere e sono come devono quando compiono e realizzano la finalità per la quale esistono e che dà loro senso 45. È importante rilevare sia la  riflessione anselmiana secondo la quale va ricompreso nel fare e nell’azione qualunque tipo di attività, compresa quella di  volere 46, sia l’attribuzione di  un valore veritativo di significazione e di espressione comunicativa ad ogni tipo di azione e di esistenza 47. Attraverso tale movimento teorico, risulta in modo più chiaramente fondato la presenza della verità in un ambito che non sia quello logico-linguistico – in cui è comunemente collocata –, quale è l’ambito etico. Da un lato l’azione guidata dalla conoscenza e dalla volontà e dall’altro l’azione che avviene per natura e ciò che esiste in natura in conformità al piano creativo divino sono i  due ambiti che riassumono in  sé tutte le diverse possibilità di esprimere e comunicare il proprio rapporto con il fine, che corrisponde al rapporto con la verità. Nel primo di questi due ambiti, tale rapporto non è necessariamente determinato e può quindi sussistere o meno, generando verità o falsità. Nel secondo dei due ambiti, invece, è  la natura che determina in modo necessario la relazione con il fine, producendo immancabilmente una situazione di verità 48. Ciò esprime filosoficamente  Cfr. ibid., 2, 469B-471B, pp. 177, 4 - 180, 4.  Cfr. ibid., 3, 471BD, p. 180, 4-18. 42 Cfr. ibid., 4, 471D-472A, pp. 180, 19 - 181, 9. 43 Cfr. ibid., 5, 472A-473C, pp. 181, 10 - 183, 7. 44 Cfr. ibid., 7, 475AC, pp. 185, 6 - 186, 4. 45   Per quanto riguarda l’essere delle cose, la loro finalità è già compiuta nella loro essenza, che risponde intrinsecamente alla volontà creatrice di Dio. 46 Cfr. ibid., 5, 472D-473B, p. 182, 10-23. 47 Cfr. ibid., 9, 477D-478C, pp. 188, 25 - 189, 28. 48 Cfr. ibid., 5, 472D, p. 182, 6-10: «Animadverti potest rectitudinem seu 40 41

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quell’ordine divino del tutto che ha in Dio il proprio principio e che viene teologicamente descritto nel Cur Deus homo 49. In questo contesto, il compito del monaco è quello di comunicare la verità con la propria vita, in conformità con quanto prescrive la Regula di Benedetto: «Veritatem ex corde et ore proferre» 50. Dire la verità con il cuore significa viverla interiormente, aderirvi totalmente, in  modo che ogni moto della volontà ed ogni atto siano espressione di essa. Il monachesimo di Anselmo poggia su queste parole e si interroga sul senso più profondo di esse. A partire dall’atto di fede con cui crede che la verità sia Dio, Anselmo conduce una ricerca intellettuale, tesa alla comprensione più piena della via attraverso la quale possa incarnare monasticamente la propria tensione di ricerca verso Dio. Cercare la verità è cercare Dio e questa ricerca, per essere gustata e vissuta integralmente, ha bisogno di  una comprensione intellettuale che possa poi essere tradotta in  chiave esistenziale. Da qui si genera la  scrittura del De  veritate, che conseguentemente è  un’indagine sulla iustitia, ovvero sulla virtù e la moralità. Con quest’opera Anselmo inizia a chiarire a sé ed ai suoi monaci l’importanza dell’esercizio della volontà nella loro vita ascetica e continua a farlo nel De libertate arbitrii, nel De casu diaboli e nel De concordia. La verità è  «rectitudo mente sola perceptibilis» 51. Q uesta definizione implica il rimando al debere, all’essere come si deve. Esso è posseduto da ogni essere che è o agisce per natura, in quanto compie il fine intrinseco che ha ricevuto come realtà creata, che è  parte di  un ordine armonico e  bello 52. Le creature razionali, invece, hanno ricevuto il  fine di  conformare pienamente il  loro veritatem actionis aliam esse necessariam, aliam non necessariam. Ex necessitate namque ignis facit rectitudinem et veritatem, cum calefacit; et non ex necessitate facit homo rectitudinem et veritatem, cum bene facit»; e  ibid.,  7,  475B, p. 185, 18-21: «M. Est igitur veritas in omnium quae sunt essentia, quia hoc sunt quod in summa veritate sunt. D. Video ita ibi esse veritatem, ut nulla ibi possit esse falsitas; quoniam quod falso est, non est». 49   In riferimento in particolare alla volontà e all’azione delle creature razionali all’interno dell’ordine delle cose cfr. Cur Deus homo, I, 11-15, 376A-381B, pp. 68, 1 - 74, 7. 50  Benedictus Nursinus, Regula, 4,  28, PL 66, [215D-932D], 295D, ed. G. Penco, Firenze 1970 (Biblioteca di studi superiori, 39), p. 38. 51  De veritate, 11, 480A, p. 191, 19-20. 52  Cfr. Cur Deus homo, I, 15, 380B e 381A, p. 73, 5-24, dove Anselmo usa la parola pulchritudo in riferimento all’universo e al suo ordine.

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essere al dover essere attraverso la volontà. Tale è il compimento della «iustitia cui laus debetur» 53, cioè della virtù morale, che costituisce la realizzazione della verità per le creature razionali ed è  loro esclusiva prerogativa. Infatti la  giustizia si definisce come «rectitudo voluntatis propter se servata» 54, ed implica come condizione indispensabile la conoscenza di ciò che è retto 55, ovvero dovuto, e la volontà di esso, in quanto tale. E la ratio, intesa come facoltà intellettiva, e la voluntas, intesa come capacità di autodeterminazione guidata dall’intelligenza, appartengono esclusivamente agli esseri razionali. Ricercare il vero, nel senso di conoscere il piano divino all’interno del quale ogni cosa ha una sua propria verità ed un suo significato, si manifesta come compito ineludibile per chi deve farne oggetto di scelta consapevole. Nello stesso tempo la sede propria della giustizia non può che essere ravvisata nella volontà, perché non può dirsi giusto chi conosce la rettitudine, ma non la vuole; nemmeno può dirsi giusto chi agisce rettamente, ma non vuole rettamente 56, perché ciò che conta non è  un’adesione esteriore e formale alla rettitudine, ovvero alla volontà divina, ma un’adesione intima e totale ad essa, che non può non dipendere da una decisione della volontà. Essa è lo strumento su cui il monaco deve continuamente lavorare per assoggettarla completamente alla volontà di Dio. L’indagine sulla rettitudine si rivela come uno dei modi possibili per aprire una comprensione razionale su ciò che è  creduto in  merito all’infinità di  Dio, alla natura creata e  al destino dell’uomo. Dio è  la somma rettitudine verso la  quale tutte le  cose sono in  debito 57, perché sono l’estrinsecazione e l’oggettivazione della sua volontà, che le ha create finalizzandole e destinandole a sé. Ogni cosa è retta e vera, perché creata,   De veritate, 12, 481A, p. 192, 27.   Ibid., 482B, p. 194, 26. 55 Cfr. ibid., 481A, p. 192, 30-31: «Constat quia illa iustitia non est in ulla natura quae rectitudinem non agnoscit». 56 Cfr. ibid., 481B, p. 193, 9-13: «M. Q uid si quis recte intelligit aut recte operatur, non autem recte velit: laudabit eum quisquam de iustitia? D. Non. M. Ergo non est ista iustitia rectitudo scientiae aut rectitudo actionis, sed rectitudo voluntatis». 57 Cfr. ibid., 10, 478D, p. 190, 2-4. 53 54

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e  quindi detta e  voluta, da  Dio e  necessariamente e  intrinsecamente corrispondente a ciò che deve essere. Il De veritate – come pure il Monologion – illustra l’ordine ontologico che il Cur Deus homo spiega in chiave teologica. Il creato è strutturato secondo un ordine razionale 58, in cui ogni elemento ha la sua ragion d’essere ed il suo posto preciso 59. Il De libertate arbitrii e il De casu diaboli, insieme al De concordia, completano la riflessione filosofica di natura etica iniziata nel De veritate e trovano anch’essi nel Cur Deus homo la lettura soteriologica della visione morale che presentano. Infatti, a loro volta, le creature razionali sono state create tali per discernere tra bene e male e per scegliere il bene, e  tra i  beni, il  migliore e  poter essere conseguentemente beate, secondo il piano della giustizia divina. In questo quadro, nel monachesimo anselmiano, ricerca della verità e volontà di giustizia convergono nella modalità fondamentale e  propria della vita monastica, cioè l’obbedienza. Il  Prologo della Regula di  Benedetto indica proprio nella fatica dell’obbedienza lo strumento decisivo di cui servirsi per superare l’allontanamento da Dio dovuto alla disobbedienza 60. L’oboedientiae labor implica la rinunzia alla propria volontà 61, rinunzia che va intesa anselmianamente come l’adeguamento più perfetto possibile della propria volontà a quella divina, che nel chiostro è rappresentata dalle disposizioni dell’abate. «Abnegare semetipsum sibi, ut sequatur Christum; corpus castigare, delicias non amplecti, ieiunium amare» 62 sono alcuni degli strumenti che la Regula indica e che servono per esercitare la propria volontà a liberarsi da tutto 58 Cfr. Cur Deus homo, I, 8, 369A, p. 59, 11: «Voluntas namque dei numquam est irrationabilis». 59  Cfr. ibid., I, 12, 377B, p. 69, 15: «Deum vero non decet aliquid inordinatum in suo regno dimittere». 60 Cfr. Benedictus Nursinus, Regula, Prol., 1-2, PL 66, 215D, ed. Penco cit. (alla nota 50), p. 2: «Obsculta, o fili, praecepta magistri et inclina aurem cordis tui et admonitionem pii patris libenter excipe et efficaciter comple, ut ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras». 61 Cfr.  ibid.,  3,  215D-216D, p.  2: «Ad te ergo nunc mihi sermo dirigitur, quisquis abrenuntians propriis voluntatibus Domino Christo vero regi militaturus, oboedientiae fortissima atque praeclara arma sumis»; ibid., 3, 8, 288A, p. 36: «Nullus in monasterio proprii sequatur cordis voluntatem»; ibid., 4, 60, 297A, p. 40: «Voluntatem propriam odire» e ibid., 5, 7, 349B, p. 44: «(…) Voluntatem propriam deserentes (…)». 62   Ibid., 4, 10-13, 295C, p. 38.

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ciò che potrebbe dirigerla o attrarla in una direzione contraria alla volontà divina. In linea di continuità con questi consigli e coerentemente con essi, nella riflessione etica anselmiana è molto forte l’interesse per la definizione delle condizioni e dell’esercizio della volontà. Tale indagine fornisce le  basi teoriche per comprendere le  modalità di attuazione dell’ascesi monastica e del cammino di perfezione del monaco. La  volontà è  considerata come una vis, allo stesso livello e distinta dalla ratio. Da questa prospettiva voluntas e ratio sono due facoltà dell’anima che fungono da strumenti per effettuare concrete volizioni, la  prima, e  per produrre ragionamenti, la  seconda. Ma la  volontà è  caratterizzata anche dalle affectiones o aptitudines 63, che sono le due tendenze fondamentali secondo le  quali si muove la  volontà-strumento. L’affectio è  una disposizione abituale della volontà, che essa possiede anche quando non sta attualmente dirigendosi verso un oggetto – anche quando si dorme, dice Anselmo  –  ma che porta a  volere in  una determinata direzione non appena si è  coscienti e  si esercita la  volontà. Due  sono le  affectiones della volontà individuate da  Anselmo. Una è quella che vuole la iustitia, l’altra è quella che vuole la commoditas, intesa come tutto ciò che è  utile, vantaggioso o  piacevole. Q uest’ultima è sempre presente nella volontà 64, perché ogni creatura razionale vuole sempre la propria felicità, anche quando crede di raggiungerla secondo modalità o con strumenti che non la procurano. Invece l’affezione per la giustizia non è inseparabile dalla volontà 65, ma può essere perduta a causa del peccato e riacquistata con l’aiuto della grazia e l’accettazione di essa da parte della volontà stessa. È l’affezione per la felicità che deve essere disciplinata e sottomessa da quella per la giustizia e l’uso degli strumenti di mortificazione, anche corporale, indicati dalla Regula, serve proprio a questo scopo. Anselmo non nega mai il  valore e  l’importanza della tendenza e del desiderio di felicità 66, che anzi reputa connaturato

 Cfr. De concordia, q. 3, 11, 534B, p. 279, 6-12.  Cfr. ibid., 12, 537B, p. 284, 10-12. 65 Cfr. ibid., 12-14, 537B-542A, pp. 284, 8 - 288, 19. 66 Cfr. E. Recktenwald, Die ethische Struktur des Denkens von Anselm von Canterbury, Heidelberg 1998 (Philosophie und realistische Phänomenologie, 8), 63 64

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alla creatura razionale ed espressione di quella struttura ontologica finalistica che destina a Dio come pienezza di beatitudine. Si vede qui come la visione monastica dell’esercizio ascetico, della pratica della carità e del desiderio di felicità eterna riceva una spiegazione filosofica etica ed antropologica, imperniata sulla riflessione sulla volontà. Il monaco desidera Dio ed in ciò l’affezione per la giustizia e quella per la felicità trovano una conciliazione ed una composizione suprema e la vita del monaco che vive pienamente la sua vocazione è a questo punto la vita perfetta, perché realizza compiutamente il fine per il quale la creatura razionale è stata fatta. Come accennato, l’affezione per la giustizia può essere perduta nel momento in  cui viene abbandonata la  rettitudine, cioè con il peccato. Ciò avviene per l’esclusiva responsabilità della creatura razionale, mentre il  recupero della rettitudine può avvenire soltanto perché quest’ultima è offerta dalla grazia divina e accettata dalla volontà di chi la riceve 67. Q uesto vuol dire che l’unica causa del male morale è la creatura colpevole, mentre il bene viene sempre da  Dio.  Rispetto ad esso la  volontà può comportarsi in  due modi: o  rifiutarlo o  accettarlo e  conservarlo. Q uesta dottrina anselmiana è perfettamente coerente con quanto dichiarato dalla Regula di Benedetto, là dove afferma: «Bonum aliquid in se cum viderit, Deo adplicet, non sibi; malum vero semper a  se factum sciat et sibi reputet» 68. Ciò che è sostenuto nelle opere teoretiche riceve una traduzione pastorale e di orientamento monastico nelle lettere. Per esempio, in  un’Epistola indirizzata ai monaci del cenobio di  Santa Werburga in Chester, si legge: «Cum enim dei sit sua gratia semper nos praevenire, nostrum est quod accipimus eius auxilio studiose custodire» 69; Anselmo ricorda ai monaci che è sempre la grazia divina che ha l’iniziativa della salvezza e va incontro agli uomini, ai quali tocca di custodire con estrema cura ciò che viene ricevuto p. 29: «Innerhalb des Horizontes der Entscheidung für die rectitudo bleibt nun das Streben nach Glückseligkeit durchaus legitim». 67 Cfr. De casu diaboli, 3, 328C-332A, pp. 236, 10 - 240, 13; e De concordia, q. 3, 3-4, 523C-525D, pp. 265, 25 - 268, 25. 68  Benedictus Nursinus, Regula, 4, 42-43, PL 66, 296C, ed. Penco cit. (alla nota 50), p. 40. Cfr. anche ibid., Prol., 29-30, 218A, p. 8. 69   Epistola ad monachos coenobii Cestrensis  S. Werburgae, 80B, 231, p. 136, 15-16.

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grazie all’aiuto soprannaturale. Il dono grande elargito dalla grazia divina è la rettitudine della volontà ed è quest’ultima che ha la responsabilità di non sciupare e perdere il bene ricevuto, come dice il seguito immediato della lettera: «Nam quamvis nec habere nec servare possimus aliquid nisi per illum [scil. auxilium], perdere tamen et deficere non est nisi ex nostra negligentia» 70. Nell’Epistola ad Robertum eiusque moniales, rivolgendosi ad un gruppo di  persone che vivono un’esperienza di  vita comunitaria e  gli chiedono un’esortazione «ad bene vivendum» 71, Anselmo risponde indicando nella volontà l’origine e  l’essenza della vita morale: «Omnis actio laudabilis sive reprehensibilis ex voluntate habet laudem vel reprehensionem. Ex voluntate namque est radix et principium omnium actionum, quae sunt in nostra potestate» 72. È dalla volontà e dal modo in cui si vuole che dipendono il merito ed il biasimo, è sulla base dell’atto di volontà che le azioni acquisiscono un determinato valore, perché è l’intenzione con la quale vengono compiute ciò che conta veramente e questa è sempre presente dinanzi a Dio ed alla propria coscienza, anche se non è visibile agli occhi degli uomini. Infatti, la posizione teoretica di Anselmo sostiene che la rettitudine della volontà deve essere conservata propter se e viene tradotta in chiave pastorale, mettendo l’accento sull’interiorità dell’intenzione alla quale viene subordinato il valore dell’azione. Inoltre, Anselmo sottolinea che non è  decisivo dal punto di vista morale riuscire a portare a compimento quanto intrapreso secondo giustizia, se si è in ciò impediti da forze esterne contro la propria volontà, perché la vita morale riguarda soltanto ciò che è in nostro possesso e dipende da noi ed è di ciò che siamo chiamati a rendere conto davanti a Dio 73. La responsabilità emerge, quindi, con veemenza come la  chiave di  interpretazione deter  Ibid., 80B, p. 136, 16-18.   Epistola ad Robertum eiusque moniales, 167B, 414, p. 360, 8. 72  Ibid., 167B, p. 360, 13-15. 73  Cfr. ibid., 167BC, p. 360, 15-23: «Si non possumus quod volumus, iudicatur tamen coram deo unusquisque de propria voluntate. Nolite igitur considerare tantum quid faciatis, sed quid velitis; non tantum quae sint opera vestra, quantum quae sit voluntas vestra. Omnis enim actio quae fit recta, id est iusta voluntate, recta est; et quae fit non recta voluntate, recta non est. Iusta voluntate dicitur homo iustus; et iniusta voluntate dicitur iniustus. Si ergo bene vultis vivere, voluntatem vestram indesinenter custodite, in magnis et in minimis, in iis 70 71

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minante che attribuisce alla volontà il ruolo di protagonista che essa riveste: solo della volontà siamo pienamente padroni e conseguentemente solo di  essa siamo totalmente responsabili. Per quanto riguarda la  sfera dell’esteriorità, ciò che importa è  l’intenzione con la quale si interviene in essa, non il potere di riuscita o l’effettivo successo. Per questo motivo la  coscienza 74 assurge a  luogo privilegiato in cui la moralità si rivela ed accade, perché solo la coscienza custodisce in tutta la sua nudità, purezza ed essenzialità l’atto del volere e ne è testimone. Inoltre è alla coscienza che si manifesta la volontà di Dio ed è quindi la coscienza stessa a poter giudicare se la volontà del soggetto si uniforma ed aderisce a quella divina e in qual misura. Così Anselmo può consigliare le monache della comunità guidata da Roberto di misurare la rettitudine della loro volontà chiedendosi se il loro volere è sottomesso a quello divino; la risposta potrà fornirla soltanto la loro coscienza e se sarà affermativa, dovranno conservare quell’atto volontario e perseverare in esso, a prescindere dal fatto che sia possibile metterlo in pratica 75.

quae potestati vestrae subiacent et in iis quae non potestis, ne aliquatenus a rectitudine declinet». 74 Sul tema della coscienza in  Anselmo ha scritto riflessioni particolarmente incisive e penetranti Biffi, La Coscienza e la Libertà cit. (alla nota 23), pp. 395-408; tutto l’articolo è estremamente interessante, ma, per quel che qui interessa più da vicino, cfr. in partic. p. 396: «La coscienza è in Anselmo esattamente la mediazione per il compimento dell’atto vero e retto – o giusto (…). La  coscienza è  quindi la  mediazione per il  compimento dell’atto libero»; ibidem: «La coscienza permette il discernimento dell’atto retto e libero e ne offre la testimonianza»; ibid., p. 402: «Il ricorso del tema della coscienza, connesso intrinsecamente ai temi della verità, della rettitudine e della libertà (…) non è considerato astrattamente da  Anselmo; non è  da lui teorizzato, ma risalta nel suo contenuto dottrinale nel richiamo alla sua applicazione. In altri termini: ci è dato di constatare la traduzione della teoria sulla coscienza nelle situazioni complesse di cui l’Epistolario anselmiano è descrizione e testimonianza»; e ibid., p. 407: «Essa (scil. la coscienza) è il luogo della consapevolezza e dell’emergenza della volontà di Dio». 75  Cfr.  Epistola ad Robertum eiusque monalies, 167CD, p.  360,  24-33: «Si autem vultis cognoscere quae vestra voluntas sit recta: illa pro certo est recta, quae subiacet voluntati dei. Cum ergo aliquid magnum vel parvum facere disponitis vel cogitatis, ita dicite in cordibus vestris: Vult deus ut hoc velim, an non? Si vobis respondet conscientia vestra: vere vult deus ut hoc velim, et placet illi talis voluntas: tunc, sive possitis sive non possitis quod vultis, voluntatem tamen amate. Si autem conscientia vestra vobis testatur quia deus non vult vos illam habere voluntatem: tunc toto conatu avertite ab illa cor vestrum; et si bene illam

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Accettare la rettitudine che Dio dà significa realizzare la libertà, mettendo in opera quella «potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem» 76 in  cui consiste la  libertas arbitrii, potestas che è  stata data alla creatura razionale proprio in  vista della sua messa in  atto. La  rettitudine della volontà che Dio dà e che l’essere razionale riceve coincide con il volere la rettitudine per se stessa e non per altri scopi ed è la giustizia stessa. Essa, infatti, concerne direttamente la volontà in quanto tale che sceglie come proprio contenuto la rettitudine per se stessa e non subordinandola ad altri fini, con una purezza d’intenzione totale e tutta interiore, non visibile dall’esterno. Ciò non significa che la volontà della giustizia sia incompatibile ed escluda la volontà della felicità, che, essendo inseparabile dalla volontà stessa, non viene mai meno e  non può mancare in  nessun atto volontario; ma è  essenziale che l’affectio commoditatis sia subordinata all’affectio iustitiae e che la seconda detti sempre la misura e i limiti alla prima. In tal modo Anselmo legittima da un punto di vista filosofico la compatibilità e la compresenza nell’itinerario monastico di desiderio di felicità e di rettitudine di vita; infatti la tensione verso la beatitudine non è altro che il desiderio di Dio e della sua giustizia, in modo tale che la pratica monastica finisce con il trasformarsi in un anticipo di paradiso sulla terra. La sottomissione alla volontà di Dio e l’uniformità della propria alla Sua volontà sono la realizzazione della giustizia ed il compimento della libertà. Lungi dall’essere una forma di  alienazione umana, la rinunzia alla propria volontà, di cui parla la Regula, si manifesta come il massimo di esercizio di libertà da parte dell’uomo, perché volere ciò che Dio vuole che l’uomo voglia è  il raggiungimento del fine al  quale l’essere razionale è  destinato. Ma  si tratta di  un destino che non si compie necessariamente ed indipendentemente dall’uomo, ma esige l’intervento da protagonista della volontà, che è la forza grazie alla quale il piano divino può giungere a perfezione in quell’essere che è imago dei. Per questo si deve rinnovare in lui lo stesso movimento che si realizza nella vita trinitaria 77. a  vobis vultis expellere, in  quamtum potestis, eius cogitationem et memoriam a corde excludite». 76  De libertate arbitrii, 3, 494B, p. 212, 20. 77 Cfr.  Proslogion, 1,  227B, p.  100,  12-13: «Fateor, domine, et gratias ago, quia creasti in me hanc imaginem tuam, ut tui memor te cogitem, te amem».

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L’esercizio dell’obbedienza così realizza e ricapitola in sé verità, libertà, giustizia e felicità. L’obbedienza è la libera scelta di incardinarsi nell’ordine razionale e retto, che la sapienza divina ha creato, pronunciandolo con parola di verità, e che la giustizia di Dio ha disposto, in modo che anche l’uomo possa goderne. È la scelta che realizza l’umanità del monaco in quanto essere razionale, che opta senza costrizione per quel bene che gli permette di  conseguire la beatitudine desiderata 78.

78 Cfr.  Southern, Saint Anselm cit. (alla nota 2), pp.  216-227 e  p.  288, dove si descrive l’idea anselmiana di libertà come «perfect obedience to the will of   God: an obedience of   a will so attuned to the source of   order in the universe that there has ceased to be any constraint in obeying». Cfr. ancora B. Goebel, Rectitudo. Wahrheit und Freiheit bei Anselm von Canterbury. Eine philosophische Untersuchung seines Denkansatzes, Münster 2001 (BGPTMA, 56), pp. 234250 e I. Sciuto, La ragione della fede. Il Monologion e il programma filosofico di Anselmo d’Aosta, Genova 1991, pp. 303 e 305.

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1. Anselmo filosofo del linguaggio? Dopo i pioneristici lavori di Desmond P. Henry è divenuta sempre più diffusa l’interpretazione del pensiero anselmiano da  un punto di vista generalmente logico e specificatamente linguistico 1. Se fino a un certo punto gli studiosi avevano attribuito al pensiero anselmiano una componente eminentemente teologica, oppure avevano visto nelle frequenti riflessioni sul linguaggio dell’arcivescovo di Canterbury un momento di passaggio utile e funzionale alla sua speculazione teologica, con il  passare degli anni, soprattutto in area anglosassone 2, gli approcci interpretativi al pensiero 1  Cfr. in particolare D. P. Henry, Why grammaticus?, in «Archivum Latinitatis Medii Aevi», 28 (1958), pp. 165-180; Id., The De grammatico of  St. Anselm. The theory of   paronymy, Notre Dame (Ind.) 1964; Id., The logic of   saint Anselm, Oxford 1967; Id., St. Anselm and the linguistic disciplines, in «Anselm Studies», 2 (1988), pp. 319-322. 2  Oltre ai succitati lavori di  Henry si vedano: M.  L. Colish, The mirror of  language: a study in the medieval theory of  knowledge, New Haven 1968; Ead., St. Anselm’s philosophy of  language reconsidered, in «Anselm Studies», 1 (1983), pp.  113-123; W.  J. Courtenay, On the eve of   Nominalism: consignification in Anselm, in «Rivista di Storia della Filosofia», 3 (1993) (= Anselmo d’Aosta: logica e dottrina), pp. 561-567; M. dal Pra, Logica e realtà. Momenti del pensiero medievale, Bari 1974; W. L. Gombocz, Über E! Zur Semantik der Existenzprädikates und des ontologischen Arguments für Gottes Existenz von Anselm von Canterbury, Wien 1974; Id., Anselm über Sinn und Bedeutung, in «Anselm Studies», 1  (1983), pp.  125-141; I.  Sciuto, La  semantica del nulla in  Anselmo d’Aosta, in  «Medioevo», 15  (1989), pp.  39-66; M.  McCord Adams, Re-reading De grammatico or Anselm’s introduction to Aristotle’s «Categories», in «Documenti e  studi sulla tradizione filosofica medievale», 11  (2000), pp.  83-114; J.  Marenbon, Some semanticproblems in  Anselm’s De grammatico, in  Latin culture in  the eleventh century, ed.  by M.  W. Herren  –  C.  J. McDonough  –

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 211-235 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112918

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di  Anselmo si caricano di  una valenza eminentemente logicolinguistica, fino a vedere una connessione tra la sua speculazione filosofica sul linguaggio non solo con il pensiero logico-linguistico della tarda scolastica, ma anche con i  moderni approcci della logica. Voler interpretare un pensatore come Anselmo d’Aosta privilegiando l’uno o l’altro aspetto del suo pensiero sembra, però, alquanto limitativo: innanzitutto non si può dimenticare che il pensiero anselmiano, nella sua interezza, è connotato dalla profonda esigenza di  approfondire, da  un punto di  vista razionale, gli argomenti di fede e dunque sempre orientato, anche quando oggetto di riflessione è il linguaggio, all’approfondimento di tali argomenti. Non si può trascurare, inoltre, il  fatto che Anselmo scriva le sue maggiori opere rivolgendosi a una platea di lettori operante all’interno di un contesto ben definito e specificato da alcune caratteristiche: l’ambiente monastico. Tali caratteristiche hanno avuto un’importanza decisiva sia nella sua formazione iniziale, sia nel momento in cui Anselmo farà sua l’esigenza, apparentemente lontana dal procedere mistico della teologia monastica, di rendere intelligibili alla mente umana gli argomenti di fede 3. Ciò significa che, anche quando si valuta l’Anselmo logico, o l’Anselmo filosofo del linguaggio, vanno tenuti presenti alcuni aspetti: innanzitutto R.  G. Arthur, Turnhout 2002; P.  King, Anselm’s philosophy of   language, in The Cambridge companion to Anselm, a c. di B. Davies – B. Leftow, Cambridge 2004, pp. 84-110. 3  A testimoniare e documentare una diversità di principi metodologici, più che altro formali, tra il metodo anselmiano e il metodo monastico, vi è lo scambio epistolare tra Anselmo e  il suo maestro del Bec, Lanfranco di  Pavia: tali documenti ci mostrano tutta la  perplessità del vecchio maestro di  fronte alla forma e  al procedere metodologico con cui Anselmo aveva proposto la  sua meditazione religiosa, senza mai ricorrere all’autorità dei Padri e  senza alcun riferimento esplicito alla Scrittura, in  particolare in  occasione della pubblicazione del Monologion. Una perplessità, quella di Lanfranco, ancora più accentuata dal fatto che egli si era già reso protagonista, in  tempi non troppo lontani, di  un ulteriore dissidio, dovuto a medesime ragioni, con l’eretico Berengario di Tours. Il  testo delle lettere anselmiane è  in Epistolae ad Lanfrancum, 1134C-1135E e 1138D-1139C, 63 e 68, pp. 193-194 e 199-200. Una puntuale e precisa analisi del dibattito tra Lanfranco e Anselmo è fornita in C. Viola, Lanfranc de Pavie et Anselme d’Aosta, in Lanfranco di Pavia e l’Europa del secolo xi, nel IX centenario della morte (1089-1989), Atti del Convegno internazionale di studi (Pavia, 21-24 settembre 1989), a c. di G. d’Onofrio, Roma 1993, pp. 542-547; G. d’Onofrio, Anselmo d’Aosta, in  Storia della Teologia nel Medioevo, dir. di  G. d’Onofrio, 3 voll., Casale Monferrato 1996, I, I princìpi, [pp. 481-553], p. 487.

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è  da considerare il  ruolo giocato da  alcuni argomenti teologici nella strutturazione complessiva della sua teoria del linguaggio; va poi posta nel giusto rilievo l’importanza di una particolare concezione della significazione linguistica operante all’interno del contesto monastico; e  infine non si può trascurare quanto una concezione del linguaggio di tipo mistico-monastico, proveniente da un particolare sfondo teologico, possa rappresentare un limite alla volontà di chiarificazione razionale degli argomenti di fede. Tenendo presenti questi aspetti, con il presente scritto ci proponiamo di  indagare innanzitutto il  contesto dal quale emerge la strategia logico-linguistica anselmiana. Una tale indagine non è un problema di poco conto: nella formazione della linguistica medievale tout court si assiste allo scontro, e all’incontro, di due paradigmi o  modelli filosofici che potremmo definire aristotelismo linguistico e platonismo linguistico 4; la posizione di Anselmo sembra collocarsi proprio al  centro di  questo incontro-scontro, assorbendo diverse caratteristiche e  problematiche (dell’uno e  dell’altro paradigma), delle quali, naturalmente, dovremo dar conto 5. Inoltre, come già osservato, il pensiero di Anselmo, dun4  Era stato Jean Jolivet, in  un saggio del 1966, a  usare per la  prima volta l’espres­sione «platonisme grammatical», volendo significare con tale espressione una tendenza, presente in alcuni autori operanti tra il secolo vi e il secolo xii, soprattutto in un contesto grammaticale, a calare la strategia metafisica dei dialoghi platonici in tale contesto; cfr. J. Jolivet, Q uelques cas de «platonisme grammatical» du vie au xiie siècle, in Mélanges offerts à René Crozet, Poitiers 1966, pp. 93-99. Anche in un successivo lavoro, lo stesso Jolivet tornava su questa strategia platonica, caratteristica, secondo lo studioso francese, della speculazione grammaticale dei secoli vii-xii, conducendo in  questo caso un’approfondita analisi della tematica grammaticale dei paronimi, proveniente dalle Categorie aristoteliche, ma oggetto di una trattazione tipicamente platonizzante negli autori da lui studiati; cfr. Id., Vues médiévales sur les paronymes, in «Revue internationale de philosophie», 113 (1975), pp. 222-242. Chi legge l’intera linguistica medievale in termini di influenza ora aristotelica, ora platonica è A. Maierù, Filosofia del linguaggio, in Storia della linguistica medievale, a cura di G. C. Lepschy, 3 voll., Bologna 1990, II, pp. 101-137. 5  Jan Pinborg, in  un cruciale passo del suo testo più celebre (J.  Pinborg, Logik und Semantik im Mittelalter, Stuttgart – Bad Cannstatt 1972, p. 43 [tr. it., Torino 1984, p. 48]), affermava: «Die Logik Anselms kann gewissermaßen als Beispiel für die ganze mittelalterliche Logik gelten. 1. Sie zeigt, wie die mittelalterliche Logik aus der Arbeit mit der Logica Vetus, vor allem mit den Kategorien und mit Perihermeneias, herauswächst. 2. Es begegnet uns bei ihm ein Beispiel der Verschmelzung von Grammatik und Logik, die für das 12. Jahrhundert typisch ist». Ora, è da notare che questi aspetti su cui Pinborg richiama l’attenzione, in particolare la logica vetus, sono dei temi di derivazione aristotelica, ma

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que anche la  sua filosofia del linguaggio, ha sempre uno sfondo teologico; oggetto e  scopo del suo pensiero è  sempre il  Sommo Essere, o  summa natura, come viene indicata nel Monologion 6. E allora è  imprescindibile un ulteriore quesito circa la  portata effettiva di una strategia logico-semantica in Anselmo: che ruolo gioca la teologia anselmiana nella strutturazione di una riflessione logico-linguistica? Cosa accade quando oggetto di  denotazione linguistica non è un ente semplice, ma il Sommo Ente, non una natura semplice, ma la summa natura?

2. Il problema della significazione «Tantam enim vim huius probationis in se continet significatio, ut hoc ipsum quod dicitur, ex necessitate, eo ipso quod intelligitur vel cogitatur  (…) revera probetur existere» 7. Con queste parole Anselmo si sta avviando alla conclusione della sua Risposta alle obiezioni di Gaunilone; e proprio in questo modo Anselmo ribadisce il nucleo centrale non solo del suo argomento, ma dell’intero Proslogion 8. Proviamo a seguire il ragionamento di Anselmo: il  significato di  quell’enunciato, o  meglio ciò che è  significato dall’enunciato è l’«aliquid quo maius nihil cogitari potest», ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore; che per essere ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore deve necessariamente essere, perché se non fosse non sarebbe ciò di cui non si può pensare nulla Anselmo, come ogni logico dell’undicesimo secolo, non può non confrontarsi con altre tematiche di derivazione platonica che solo indirettamente rientrano nella speculazione logico-linguistica, essendo primariamente di derivazione teologica, ma che finiscono poi per caratterizzare l’intera tradizione linguistica successiva: ci riferiamo in particolare al problema dell’origine dei nomi e della nominazione/ creazione divina, di derivazione biblica, e all’interpretazione linguistico-grammaticale degli Opuscula sacra di Boezio. 6  Il riconoscimento, secondo Anselmo, dell’esserci necessario di una natura superiore a  tutte le  altre è  il presupposto e  punto di  partenza del Monologion (cfr. Monologion, 1, 144 BC, pp. 13, 5 - 15, 4). 7  Responsio, 10, 260A, pp. 138, 31 - 139, 3. 8   Scopo del Proslogion, come si sa, è sondare la possibilità, da parte dell’intelletto, di penetrare direttamente i contenuti della fede. Ma questo tentativo dovrà essere, per Anselmo, condotto a partire dalla fede; è la fede che si mette in cammino per cercare intelligenza e dovrà farlo nella immediatezza della realtà del pensiero che si produce in  essa quando la  fede pronuncia la  parola «Deus». Ecco perché il titolo primitivo del Pros-logion era Fides quaerens intellectum. Su questo si veda G. d’Onofrio, Anselmo d’Aosta cit., pp. 502-503.

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di maggiore o, per esprimerci con le parole di Anselmo, ciò di cui non si può pensare il  maggiore sarebbe ‘ciò di  cui si può pensare il  maggiore’ 9. L’enunciato, riguardante Dio, che è  esprimibile da  un parlante, tramite espressioni significative, è  compreso dal parlante e  dall’uditore e  dunque, per il  fatto di  essere espresso e  compreso, ciò che si esprime è. Ossia esiste, è  presente o  per lo meno rappresentabile. Ma, seguendo la  logica di  Anselmo, se è rappresentabile è 10. Ora, tutto questo varrebbe solo per la parola che significa Dio, o per l’enunciato che vuole caratterizzare Dio come ciò di cui non si può pensare il maggiore, e questo perché, sempre seguendo il ragionamento anselmiano, Dio è il solo ente da cui è possibile ricavare l’esistenza dalla semplice comprensione della parola che lo significa o  dall’enunciato che lo definisce 11.  Cfr. Proslogion, 2, 228A, pp. 101, 12 - 102, 3.   Q uest’aspetto sarà una costante soprattutto nelle riformulazioni moderne dell’argomento ontologico, in  particolare in  Cartesio e  Leibniz, nei cui sistemi è  cruciale la  deduzione dell’esistenza di  Dio dalla semplice posizione del giudizio circa la sua esistenza: il giudizio «Dio esiste» è necessariamente vero perché, in  Cartesio, si può separare tanto poco l’esistenza dall’essenza di  Dio quanto poco è  possibile scindere dall’essenza del triangolo il  fatto che la  grandezza dei suoi tre angoli corrisponda a due retti. Mentre in Leibniz, invece, è la pura possibilità logica del giudizio su Dio a mostrarne la verità, poiché non vi è contraddizione tra l’essenza di Dio, in quanto comprende tutte le perfezioni, e la sua esistenza. Per la discussione di queste posizioni cfr. D. Heinrich, Der ontologische Gottesbeweis, Tübingen 1967, pp. 10-22 und 45-55 (tr. it., Napoli 1983, pp. 29-43 e pp. 69-80). Ciò che ci sembra di poter rilevare è come in queste posizioni ci si muova in un contesto di logica degli enunciati, all’interno dei quali si pone il problema della verità o della falsità. Il contesto particolare del pensiero anselmiano che vorremmo prendere in  considerazione è  quello riguardante il  rapporto tra il  nome, la  cosa e  la loro rispettiva corrispondenza; ci troviamo, dunque, in  un contesto di  logica del termine, all’interno del quale non si pone il  problema della verità o della falsità: una cosa significata da un termine può semplicemente essere, ma non essere vera (in senso stretto). Ora, si tratta di capire se, in Anselmo, un’ope­razione di tal genere è possibile, ossia se è possibile parlare di significazione senza che sia implicato, necessariamente, un valore veritativo di questa significazione e quanto questo valore veritativo imponga un rispettivo, correlato, valore ontologico. 11  Andrebbe nuovamente posta, come abbiamo già fatto nella nota precedente, la differenza tra la semplice parola che significa e l’enunciato che è anche vero o falso; ma nel costruire la sua strategia significativa, Anselmo non ha in mente un unico criterio di validità, sia nella logica del termine, sia in quella degli enunciati? E questo criterio non è lo stesso, dal punto di vista logico (e non dal punto di vista, diremmo così, ontoteologico), sia nella parola/enunciato che significa Dio, sia nella parola/enunciato che significa una qualsiasi entità? In questa direzione va, in fondo, anche il magistrale studio di M. Dal Pra, Discorso, concetto e realtà nel pensiero di Anselmo, in Id., Logica e realtà cit., [pp. 3-44], p. 21. 9

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Senza voler fare della prova ontologica un paradigma per ogni forma di significazione o un modello esemplare di come funzioni la corrispondenza tra parole e cose, c’è quantomeno da chiedersi (premesso che la prova ontologica sarebbe valida per alcune peculiarità attribuite a Dio e alla Sua natura e non per le regole della semantica) se il cardine di tale prova non sia appunto di natura semantica 12. Non vi deve essere una strategia semantica complessiva per rendere funzionante l’intera prova? E se tale strategia è effettivamente presente in Anselmo, non c’è il rischio che essa diventi operativa sia nella prova, sia nella significazione di un’entità qualsiasi? E allora, per poter dare, non una risposta, ma una caratterizzazione più precisa a  tali quesiti, si impone un’analisi generale di ciò che per Anselmo è la significazione. Molti autorevoli studiosi della filosofia del linguaggio anselmiana hanno fatto notare come l’impianto generale della teoria della significazione in Anselmo sia essenzialmente di derivazione agostiniana 13. Va però notato come, anche per apportare al dibattito scientifico su questi temi un diverso contributo, nel voler precisare la teoria del significato in Anselmo non è solo ad Agostino che si debba far riferimento, ma a un contesto più vario (quello che più sopra abbiamo definito lo scontro, e l’incontro, del platonismo linguistico e  dell’aristotelismo linguistico); e, parallelamente, non è solo alla storia della semantica che dobbiamo guardare, quando si cerca di dare una caratterizzazione precisa dei fenomeni linguistici in ambito medievale, ma anche a quelle che sono le influenze provenienti dalla teologia. 12  La bibliografia sull’argomento ontologico è sconfinata; per i fini del presente lavoro ci sembra utile rimandare, da un lato, a trattazioni di carattere generale: K. Barth, Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenz Gottes, München 1931 (Zollikon 19582) (tr. it., Milano 1965); L’argomento ontologico, a c. di M. M. Olivetti (= «Archivio di Filosofia», 58 [1990]); Dio e la ragione. Anselmo d’Aosta, l’argomento ontologico e  la filosofia, a  c. di  L.  Perissinotto, Genova 1993 (Dipartimento di  filosofia dell’Università di  Genova, Annuario, 1992); dall’altro, a  quelle opere che, pur non dedicate espressamente e  interamente ad Anselmo, cercano di cogliere la logica sottesa all’argomento, analizzando anche gli sviluppi successivi della sua fortuna, in  particolare in  epoca moderna: Heinrich, Der ontologische Gottesbeweis cit. (alla nota 10); E. Scribano, L’esi­ stenza di  Dio.  Storia della prova ontologica. Da Descartes a  Kant, Bari 1994; V.  Vitiello, Cristianesimo senza redenzione, Roma  –  Bari 1995, in  partic. pp. 5-33. 13  Lo studio più esplicito e  completo su questa prospettiva interpretativa è sicuramente King, Anselm’s philosophy of  language cit. (alla nota 2), pp. 84-110.

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Innanzitutto c’è da  dire che la  posizione logico-linguistica e teologica di Anselmo si comprendono meglio tenendo presente non solo la forte incidenza della prospettiva platonico-agostiniana sul suo pensiero, ma anche ciò che si presenta come una compiuta riformulazione di tale prospettiva da parte dell’arcivescovo di  Canterbury: l’innovazione anselmiana consiste «nell’avere immediatamente posto, come oggetto primo (…) la ricerca di una rectitudo nell’idea in cui l’uomo cerca di rappresentare Dio stesso» e dunque la verità, che è indagabile, e dunque rappresentabile, solo tentando di ricostruire e descrivere «nella misura possibile, la corrispondenza tra l’ordo verborum del pensiero-linguaggio umano e  l’oggettività dell’ordo rerum pensato-pronunciato da  Dio» 14. La corrispondenza tra questi piani è la rectitudo di cui parlavamo prima, e recta deve essere la scienza che permette all’uomo di conoscere il  rapporto sussistente tra il  piano delle parole e  il piano delle cose, ossia la dialettica; ora, per Anselmo la correlazione tra parole e cose ha un nome: significatio 15. Ma, per far sì che tutto ciò 14  d’Onofrio, Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 4), pp.  488-490. Cfr.  inoltre Id., Tra antiqui e moderni. Parole e cose nel dibattito teologico altomedievale, in Comunicare e significare nell’Alto Medioevo, 2 voll., Spoleto 2005 (Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 52), II, pp. 821-886; e  Id.,  Q uando la  metafisica non c’era. Vera philosophia nell’Occidente latino ‘pre-aristotelico’, in  Metaphysica  –  sapientia  –  scientia divina. Soggetto e  statuto della filosofia prima nel Medioevo, Atti del Convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (Bari, 9-12 giugno 2004), a c. di P. Porro, Turnhout – Bari 2005 [=Q uaestio», 5 (2005)], pp. 103-144. 15 Il termine significatio per indicare la  corrispondenza tra parole e  cose è naturalmente problematico: infatti con significatio si intende, almeno da Agostino a Tommaso, non il rapporto diretto tra vox e res, ma quello tra il correlato mentale di un’espressione linguistica (definito di volta in volta: cogitatio, intellectus, species), secondo la nota definizione di Agostino (Augustinus Hipponensis, De doctrina cristiana, II, 1, 1, PL 34, 35-36, ed. J. Martin, Turnhout 1981 [CCSL, 32], p. 32): «Signum est enim res praeter speciem, quam ingerit sensibus, aliud aliquid ex se faciens in cogitationem venire»; mentre per il rapporto diretto tra vox e res si usavano, preferibilmente, in questi autori espressioni come designatio, nominatio, denotatio, appellatio. Per la discussione di questi temi e per le occorrenze terminologiche si veda lo studio di U. Eco, Denotation, in On the medieval theory of   signs, a c. di U. Eco – C. Marmo, Amsterdam – Philadelphia 1989, [pp. 43-77], pp. 49-56. In questo studio Eco mostra anche come, con il nascere e  il diffondersi dell’idea di  suppositio, molti autori, a  cominciare da  Bacone e  Ockham, vadano a  intendere il  termine significatio come il  rapporto diretto, senza la mediazione di ulteriori operazioni o enti mentali, tra la parola e la cosa. Ora, Anselmo apparterrebbe, secondo Eco, al gruppo che vede la significazione come il rapporto non diretto tra nome e cosa, dove questo rapporto, di referenza, sarebbe indicato dal termine appellatio; ma a  ben vedere, e  lo faremo seguendo

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funzioni, c’è bisogno che vi sia una particolare concezione della significazione linguistica; non è, infatti, grazie a questa particolare concezione che è possibile ad Anselmo apportare le novità, sopra ricordate, allo schema platonico-agostiniano del quale anch’egli si fa portavoce? E non è  sempre una particolare concezione della significazione linguistica che gli permette di tenere insieme quella che è stata definita «una delle produzioni teologiche più compatte e omogenee dell’intera età medievale» 16? E infine, non è ancora una particolare concezione della significazione linguistica che permette ad Anselmo di formulare la sua prova ontologica per dimostrare l’esistenza di Dio? Nella vasta produzione teologico-filosofica dell’arcivescovo di Canterbury vi è solo una piccola opera dedicata alla significazione linguistica o  più in  generale alla problematica del segno, mentre vi sono numerosissimi cenni e riferimenti sparsi in quasi tutti i  suoi scritti. Q uest’ultimo aspetto non è  un fatto privo di  importanza; infatti, come rilevato più sopra, il  tema della significazione in generale, e quello della significazione linguistica in particolare, è ciò che permette ad Anselmo non solo di apportare novità fondamentali al sapere teologico, ma anche di distrile  varie occorrenze in  diverse opere anselmiane del termine significatio, vi è  un utilizzo più vario e complesso del termine, e proprio questa varietà e complessità di  utilizzi fa della significazione una questione problematica. Per il  momento, basta accennare al  fatto che nello studio di  Eco il  solo riferimento testuale è  al De grammatico, all’interno del quale effettivamente vengono posti la differenza tra appellatio e significatio e il rispettivo modo di riferirsi a una sostanza o a una qualità; non viene però, in tale testo, posta la problematica del riferimento diretto a una res o ad una conceptio mentis. Q uesto avviene in altri testi, che rendono più vario e complicato il quadro, a cui facciamo riferimento ora velocemente, per poi rimandare a una loro approfondita analisi più avanti: nel De potestate si discute dell’aliquid che rende significativa una vox, individuando quattro diversi modi di essere di questo aliquid di cui uno solo è proprio; nel De grammatico è posta la differenza tra significato diretto e indiretto, ma solo le parole che hanno significato diretto sono propriamente parole con significato; nel De veritate un enunciato significa rettamente quando significa ciò che deve, ma significa ciò che deve quando significa come stanno le  cose; e  infine nel Monologion sono tre i  modi di significare di cui uno solo è utile a mostrare come stanno le cose. Ora, ciò che rende problematica la tematica della significazione in Anselmo è sì la questione del rapporto tra vox, res e la mediazione di una conceptio mentis (o passio animae), ma anche, e soprattutto, questo differente modo di darsi della significazione: propria, diretta, retta, utile. Per la discussione di questi temi, con le opportune citazioni, si veda infra. 16  d’Onofrio, Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 3), p. 486.

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care le più intricate e complesse questioni teologiche: è la problematica del segno e della significazione, in particolare linguistica, infatti, che permette la  corretta meditazione sulle ragioni della fede o che consente alla fede di mettersi in cammino per cercare l’intelligenza. Ed è la significazione che entra in gioco ancora nella disputa trinitaria o in quella sugli universali con Roscellino. Ed è ancora questa tematica ad avere un peso notevole nelle questioni riguardanti il male, la volontà e il libero arbitrio 17. Giunti a questo punto, però, non possiamo eludere alcuni quesiti: un utilizzo tanto diffuso di questo particolare dispositivo che è la significazione, anzi di una particolare concezione della significazione, non pone dei problemi alla strategia filosofica anselmiana? Ossia, dove il problema del segno linguistico incontra il problema teologico, non si pongono delle questioni difficilmente eludibili con la  semplice posizione di  una teoria piuttosto che un’altra? Detto diversamente: non ne va della stessa teo-logia, ossia del logos che vuole significare Dio, in questa teoria linguistica di Anselmo? Tali questioni vanno senz’altro approfondite e meglio specificate, ma prima dovremo meglio precisare cosa intende Anselmo per significatio.

3. Platonismo linguistico e aristotelismo linguistico Alla base di  ogni forma di  teorizzazione e  interpretazione dei fenomeni del segno e del linguaggio, gli studiosi moderni hanno individuato due modelli filosofici, che andrebbero a  creare due concezioni della significazione (talora interpretate come alternative). Vi è  innanzitutto una concezione della significazione linguistica di tipo platonizzante, in cui esiste un forte isomorfismo tra linguaggio e realtà, tra parole e cose 18. Ora, una tale elaborazione concettuale giungeva ai primi autori medievali attraverso la mediazione dello stoicismo, del neoplatonismo e dell’aristotelismo adottati dalla tradizione latina tardoantica. Ma senz’altro 17  Su questi ultimi aspetti cfr.  Sciuto, La  semantica del nulla in  Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 2); G. d’Onofrio, «Q uod est et non est». Ricerche logicoontologiche sul problema del male nel Medioevo pre-aristotelico, in «Doctor Seraphicus», 39 (1991), pp. 13-35. 18 Cfr. Jolivet, Q uelques cas de «platonisme grammatical» cit. (alla nota 4), p. 93; Maierù, Filosofia del linguaggio cit. (alla nota 4), pp. 101-108.

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l’aspetto che contribuisce a diffondere e radicare nei primi autori cristiani un tale punto di vista sul linguaggio di stampo platonizzante è il fatto che essa potesse sposarsi perfettamente con quanto i  suddetti autori trovavano scritto nella Bibbia: nel Genesi, Dio crea le cose dicendole e nominandole; e nominandole, o meglio appellandole, le  fa essere. Innanzitutto le  cose sono perché dette e  nominate da  Dio; ma, ancora, dopo aver detto/creato la  luce, il giorno e la notte, il cielo e la terra, le acque brulicanti di esseri viventi e gli uccelli che volano nei cieli, Dio fa l’uomo a sua immagine e somiglianza, ossia dotato di linguaggio, e lo fa insufflando nelle sue narici il suo flatus, ossia la materia con cui è fatta la sua voce creatrice. E all’uomo dona tutto il creato affinché ne possa disporre, ma il creato è esperibile, e a disposizione dell’uomo, solo attraverso un successivo atto di  imposizione dei nomi alle cose da parte dell’uomo stesso 19. È questo uno dei motivi per cui una tale concezione di tipo platonizzante, agli albori del Medioevo, venne fatta propria da quegli autori che pur trovandosi a operare avendo a disposizione un patrimonio di  testi di  origine pagana, dovevano, in  quanto cristiani, basarsi innanzitutto sul dettato biblico. Isidoro di Siviglia fu senz’altro un esempio di questa tendenza. All’interno della sua trattazione enciclopedica egli caratterizza la  grammatica come la prima delle arti liberali, che sta a fondamento di tutta la successiva acquisizione del sapere, in quanto mette in opera le quattro componenti (analogia, etimologia, glossa e differenza) che definiscono, appunto, il carattere totalizzante della grammatica. Infatti, come scrive Alfonso Maierù, «se la  differenza mira ad individuare il significato di una parola distinguendolo da quello di altra di  senso opposto (re, tiranno), l’etimologia dà accesso al  senso profondo della parola e in definitiva all’essenza delle cose significate (…), mentre l’analogia ricompone la conoscenza in una sintesi strutturata seguendo il filo delle somiglianze con un processo dal 19 Cfr. Gn 1-2. Sulla concezione di Adamo come primo impositore della parola vi è una tradizione lunghissima che dura tutto il Medioevo (da Varrone ad Agostino, da Prisciano fino alla Grammatica speculativa) e che culmina nell’interpretazione dantesca nel quarto capitolo del primo libro del De vulgari eloquentia, la dottrina del cosiddetto primiloquium; cfr. a tal proposito A. Raffi, La gloria del volgare. Ontologia e semiotica in Dante. Dal «Convivio» al «De vulgari eloquentia», Soveria Mannelli, pp.  160-177; M.  Corti, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Torino 1993, pp. 87-95.

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noto all’ignoto, e la glossa mette a frutto, per l’esplicazione di un termine difficile, la conoscenza già acquisita fornendo il sinonimo di esso» 20. Q uesta prospettiva isidoriana, come non hanno mancato di rilevare Maierù e Jolivet, è platonizzante proprio perché caratterizzata da  un forte isomorfismo tra linguaggio e  realtà, dove i nomi rimandano, e hanno sempre la capacità di rimandare, all’essenza delle cose 21. Nella lettera di Fridugiso di Tours De substantia nihili et tenebrarum tale concezione assume il valore di un vero e proprio paradigma, perché con questo autore inizia una tendenza fondamentale per la successiva riflessione: quella di vedere innanzitutto l’origine dell’universo dei nomi nella stessa iniziativa divina che istituisce l’universo delle cose, ma anche la volontà di Dio di far corrispondere l’uno all’altro e la necessità di tale corrispondenza 22. Q uesto platonismo grammaticale, definito da  Jolivet «ignorant de  Platon» 23, raggiunge il  suo culmine con Teodorico di  Chartres. Con questo autore, secondo gli studiosi 24, si colmano delle lacune importanti: innanzitutto, da un punto di vista testuale, fa la  sua comparsa nella speculazione medievale il  vero Platone. Inoltre si colma una lacuna tematica: se fino a ora il rapporto di significazione era stato inteso come un rapporto diretto 20  Maierù, Filosofia del linguaggio cit. (alla nota 4), p.  102; e  cfr.  Isidorus Hispalensis, Etymologiarum sive originum libri XX, I, PL 82, [73-728], 73A-124C, ed. W. M. Lindsay, 2 voll., Oxford 1911, I, pp. 2-31. 21  Jolivet usa l’espressione «similitude entre le noms et les choses»: cfr. Jolivet, Q uelques cas de «platonisme grammatical» cit. (alla nota 4), p. 95; mentre Alfonso Maierù parla di  una «densità ontologica», riconosciuta ai nomi, che li eguaglierebbe alle cose: cfr. Maierù, Filosofia del linguaggio cit. (alla nota 4), p. 102. 22   È questo il motivo di fondo che il ragionamento di Fridugiso lascia intendere. Cfr. Fredegisus Turonensis, De substantia nihili et tenebrarum, PL 105, [731-756], 752B, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 4, Epistolae Karolini Aevi, 2, Berlin 1985, [pp. 552-555], p. 553, 8-22: «Omne itaque nomen finitum aliquid significat, ut homo, lapis, lignum. Haec enim uti dicta fuerint, simul res, qua significant intellegimus (…). Omnis significatio eius significatio est, quod est»; ma il tutto è sostenuto dall’autorità divina: «Q uoniam vero ad demostrandum, quod non solum aliquid sit nihil, sed etiam magnum quiddam, paucis actum est ratione, cum tamen possint huiusmodi exempla innumera proferri in medium, ad divinam auctoritatem recurrere libet, quae est rationis munimen et stabile firmamentum». 23  Jolivet, Q uelques cas de «platonisme grammatical» cit. (alla nota 4), p. 98. 24 Cfr. Maierù, Filosofia del linguaggio cit. (alla nota 4), p. 103.

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tra nome e cosa, un rapporto che aveva la garanzia di una densità ontologica proveniente dall’iniziativa divina, con Teodorico fa la sua comparsa, accanto al nome e alla cosa, la forma 25. I nomi, per Teodorico, non solo esprimono l’essenza della cosa, ma in qualche modo la fondano, tutto questo perché nomi e cose sono eternamente uniti nella mente divina 26. Ora, è possibile far risalire anche la teoria della significazione di Anselmo a questa linea di tendenza? È caratterizzabile, una tale speculazione linguistica, come semplicemente platonica? Prima di soffermarci, con più precisione, sui riferimenti anselmiani alle problematiche del segno e del linguaggio, c’è da fare ancora qualche considerazione preliminare sulla linea platonizzante della linguistica medievale. Q uali che siano l’origine, le  influenze, gli esiti di  questo platonismo linguistico o  grammaticale, possiamo ritenerlo un platonismo ignorante di Platone, forse perché ignora il testo che ha contribuito a fondare tale tendenza: il Cratilo. Senza entrare troppo nel merito, è sufficiente dire che in questo dialogo ciò che viene discusso è l’ὀρθότης τῶν ὀνομάτων, la correttezza dei nomi, e tale ὀρθότης è ricercata tramite la preliminare confutazione di due tesi sull’origine e il funzionamento, contro le quali Platone prende decisamente posizione: quella convenzionalistica e quella naturalistica. L’intervento di Socrate, che è come al solito innanzitutto elenctico, ossia confutativo delle due tesi, non mira però a dire cosa siano le parole o in cosa consista la loro correttezza, ma sposta il  focus della questione dal contrasto natura/convenzione alla ricerca della natura della relazione significativa fra la  voce e la cosa. Dall’analisi platonica emerge che tale funzione referenziale è attuata dal nome inteso come δήλωμα, come atto ostensivo. Nell’ambito del Cratilo il  verbo δηλόω (mostrare) e  i  sostantivi da esso derivati hanno la funzione di specificare il tipo di azione 25  In questi primi autori è  totalmente ignorato il  ruolo delle idee o  delle forme; il loro ruolo è tenuto da forme non ontologiche, ma grammaticali. Inoltre, se nel Sofista era il dialettico a orientarsi nel mondo delle forme, in questi autori è il grammatico che assume questa funzione. Sul ruolo del dialettico in Platone, e sui risvolti ontologici di tale arte, cfr. le illuminanti pagine di F. Fronterotta, Introduzione, in Platone, Sofista, Milano 2007, [pp. 3-74], pp. 60-74. 26  Theodoricus Carnotensis, Lectiones in Boethii librum De trinitate, II, 52-53, ed. N. M. Häring, in Commentaries on Boethius, a c. di N. M. Häring, Toronto 1971, [pp.  125-402], p.  172: «Unde patet quod nomina res essentiant. (…) Per quod notatur quod rebus vocabula unita sunt in mente divina».

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che si compie nominando: quando si nomina si mostra una cosa. L’utilizzo di  questi termini è  fondamentale: Platone non vuole dirci che il nome indica la cosa, ma che la mostra 27. L’altro modello è  quello aristotelico del De interpretatione, modello che viene ricordato come il cosiddetto triangolo semantico 28. Aristotele, anche in maniera critica nei confronti di Platone, cerca decisamente di spostare l’asse dell’analisi dalla funzione rivelativa del linguaggio a quella più pragmatica, o se vogliamo funzionale; in tal modo, secondo lo Stagirita il significato o la funzione dei nomi deve essere inquadrata come quella che Bottin ha definito «una buona tecnica del rapporto tra voci, concetti, o meglio affezioni dell’anima, e cose» 29. Il passo del De interpetatione lascia però irrisolti alcuni problemi: la questione del rapporto naturale sussistente tra affezioni dell’anima (παθήματα τῆς ψυχής) e  cose (πράγματα) o il problema di come le parole (φώναι) simbolizzino le affezioni 30. Ora, questo punto di partenza già complesso viene   L’intenzione platonica di  accentuare la  differenza tra ‘indicare’ e ‘mostrare’, quest’ultimo con valore di  ‘svelare’ o  ‘rivelare’, è  data, nel Cratilo, dall’utilizzo di  due verbi differenti: quando all’interno del dialogo Socrate ironizza sulle teorie dei suoi avversari, Platone utilizza, nel dire che il nome indica la cosa quale è, il verbo ενδείκνυμι (ad esempio in Plato, Cratilus, 428e), mentre δηλόω per ‘mostrare’ l’essenza della cosa (ad esempio in ibid., 423a-b oppure 433b). Ma  la  differenza tra indicare e  mostrare è  data anche dalla valenza semantica differente che c’è tra le  prime occorrenze di  δηλόω (in ibid.,  393d-e) e  l’utilizzo di  δήλωσιν (in  ibid.,  435b) alla fine del dialogo, dopo che Socrate ha guadagnato una posizione più solida circa la  dimostrabilità dell’essenza delle cose. Per la caratterizzazione di queste differenze terminologiche e le relative occorrenze si veda F.  Aronadio, Introduzione, in  Platone, Cratilo, Roma – Bari 1996, pp. V-XLV. A insistere sulla funzione rivelativa del nome nel Cratilo è  G.  Manetti, Le teorie del segno nell’antichità classica, Milano 1987, pp. 92-97. 28  Cfr. Aristoteles, De interpretatione, 1, 16a, 3-8: «Ora, i suoni che sono nella voce sono simboli delle affezioni che sono nell’anima, e i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce. E come neppure le lettere dell’alfabeto sono identiche per tutti, neppure le voci sono identiche. Tuttavia ciò di cui queste sono segni, come di termini primi, sono affezioni dell’anima identiche per tutti, e ciò di cui queste sono immagini sono le cose, già identiche». Una interpretazione di questo passo è fornita da D. Charles, Aristotle on names and their signification, in Companions to ancient thought. 3: Language, ed. S. Everson, Cambridge – New York 1994, pp. 37-73. 29   F. Bottin, Filosofia medievale della mente, Padova 2005, pp. 21-22. 30  Se le  voci sono segni delle affezioni e  non sono identiche presso tutti i popoli, questo significa che tra voci e affezioni vi è un rapporto di convenzionalità stabilito arbitrariamente dai parlanti, laddove tra affezioni e cose vi è un rapporto di naturalità, essendo le affezioni immagini delle cose, e dunque uguali presso tutti 27

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ulteriormente complicato dalla lettura boeziana del De interpretatione 31. La traduzione/mediazione di Boezio 32, che nelle intenzioni dell’autore voleva «sciogliere, se non eliminare le possibili ambiguità latenti del testo greco  (…), ha finito per rendere irrisolvibili alcune di tali ambiguità» 33. Un ulteriore livello di complicazione del già di  per sé complesso quadro semantico del De interpretatione proviene dalle letture più tarde di  questo passo aristotelico 34, nonché dall’acceso dibattito tra i  maestri parigini del secolo xiii sul problema della significazione in  Aristotele 35. Scendere nelle abissali profondità di queste interpretazioni e delle problematiche che esse hanno sollevato è  impossibile in  questa sede: ricordare questo modello aristotelico significa, però, richiamare la sua influenza, la sua capacità di creare un orizzonte di rifei  popoli. Che cos’è questa supposta naturalità? In  relazione a  quest’ultima c’è anche da tener presente un’ulteriore complicazione proveniente da un passo aristotelico (Aristoteles, De anima, I, 1, 403a, 17-29): «Le affezioni dell’anima hanno tutte un legame con il corpo», quando invece nel De interpretatione ci si muoveva decisamente in  un contesto concettuale che faceva usare indifferentemente, ad Aristotele, come sinonimi i termini πάθημα e νοθήμα. Per la discussione di tali problemi il rimando è alla querelle sulla natura della sensazione in Aristotele, sorta tra Richard Sorabji e Myles F. Burnyeat: cfr. R. Sorabji, From Aristotle to Brentano: the development of   the concept of   intentionality, in «Oxford studies in  ancient philosophy», 9  (1991), pp.  227-259; M.  F. Burnyeat, Aquinas on ‘spiritual change’ in perception, in Ancient and medieval theories of   intentionality, ed. D. Perler, Leiden – Boston – Köln, pp. 129-154. 31  Anicius Manlius Torq uatus Severinus Boethius (d’ora in poi: Boethius), In  Aristotelis Periermeneias, editio prima, I, 1, PL 64, [293640], 297A-299C, ed.  C.  Meiser, in  Commentarii in  librum Aristotelis ΠΕΡΙ ΕΡΜΗΝΕΙΑΣ, I, Leipzig 1877, pp. 36, 22 - 38, 24. 32  La traduzione di  Boezio (in Aristoteles, De interpretatione vel ΠΕΡΙ ΕΡΜΗΝΕΙΑΣ , ed. L. Minio-Paluello, Bruges – Paris 1965 [AL, 2], p. 5, 3-9) è la seguente: «Sunt ergo ea quaesunt in voce eorum quae sunt in anima passionum notae, et ea quae scribuntur eorum quae sunt in  voce. Et quaemadmodum nec litterae omnibus eadem, sic nec eadem voces; quorum autem haec primo earum notae, eadem omnibus passiones animae sunt, et quorum haec similitudines, res etiam eaedem». 33  Bottin, Filosofia medievale della mente, Padova 2005, p.  32. I  punti controversi, nella traduzione di  Boezio, che poi assumeranno la  valenza di  vere e proprie controversie tematiche, possono ridursi ai seguenti due: la traduzione di entrambi i termini συμβόλα e σημεῖα con il solo termine latino «notae»; e il trascurare un’ambiguità che era presente nell’originale testo aristotelico, ossia l’uti­ lizzo come sinonimi, da parte dello Stagirita, dei termini πάθημαe νοθήμα. 34 Cfr. ibid., pp. 27-35. 35  Cfr.  C. Marmo, Semiotica e  linguaggio nella scolastica: Parigi, Bologna, Erfurt 1270-1330. La semiotica dei Modisti, Roma 1994, pp. 64-73.

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rimento teorico (come è stato per il platonismo linguistico) non solo rispetto alla riflessione grammaticale, che ha il suo avvio nel secolo xii, ma anche per l’intero alto Medioevo, attraverso la lettura boeziana, tenendo conto però che quando si fa riferimento a un orizzonte teorico si fa riferimento anche ai suoi problemi irrisolti.

4. Anselmo sulla significatio Per Anselmo, come si diceva all’inizio, significatio è la correlazione tra le parole e le cose. Cos’è che fonda questo rapporto? Vi deve essere per l’arcivescovo di  Canterbury, nel significare, innanzitutto un qualcosa che sia oggetto di significazione. Nel De potestate et impotentia, questo qualcosa, o aliquid, si può dire in quattro modi, dei quali però uno soltanto è proprio e vige quando si verifica una piena corrispondenza tra gli ordini del linguaggio, del pensiero e della realtà extramentale 36. Tra questi ordini, per Anselmo, sussiste un rapporto di necessaria corrispondenza «che parte dal presupposto teologico dell’esistenza eterna di un modello ideale del vero e dell’essere» 37; in sostanza vi deve essere una rectitudo che l’espressione significante deve rispettare per essere vera: «Q uando un’enunciazione dice come stanno le  cose, allora c’è in essa verità ed è vera (…) quando dunque significa come stanno le cose, quando significa ciò che deve. (…) Ma quando significa ciò che deve, rettamente significa» 38. Ora, causa della verità e dell’esistenza delle cose vere, secondo l’arcivescovo di Canterbury, è la Somma verità che è anch’essa rettitudine e garanzia della rettitu36  Cfr.  De potestate, pp.  336-337: «Q uattuor modis dicimus ‘aliquid’. 1. Dicimus enim ‘aliquid’ proprie, quod suo nomine profertur et mente concipitur et est in re (…). 2. Dicitur etiam ‘aliquid’ quod et nomen habet et mentis conceptionem, sed non est in veritate, ut chimera (…). 3. Solemus quoque dicere ‘aliquid’, quod solum nomen habet sine ulla eiusdem nominis in mente conceptione et est absque omni essentia, ut est iniustitia et nihil. (…) Nullam tamen habent in mente conceptionem iniustitia et nihil, quam vis constituant intellectum, sicut infinita nomina (…). Ita ‘iniustitia’ removet debitam iustitiam nec ponit aliud, et ‘nihil’ removet aliquid et non ponit aliquid in intellectu. 4. Nominamus etiam ‘aliquid’, quod nec suum nomen habet nec conceptionem nec ullam existentiam (…). Cum igitur quattuor rmodis dicatur aliquid, unum proprie dicitur, alia vero non aliquid sed quasi aliquid, quia ita loquimur de illis, quasi sint aliquid». 37  d’Onofrio, Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 4), p. 489. 38  De veritate, 2, 479AB, p. 178, 6-14.

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dine dell’enunciazione 39. Q ueste considerazioni presenti nel De veritate, che sembrano dire tutto sulla questione che stiamo cercando di indagare e che sembrano risolvere definitivamente il problema, in verità riguardano l’enunciazione o la proposizione e non i singoli termini o parole e il loro rapporto con la cosa. In Anselmo non c’è una differenza nell’analisi della complexio e dei termini sine complexione 40, ma quando si passa all’analisi dei termini sine complexione in altre opere e alla loro funzione significante, o meglio al fondamento del loro significato, emerge il vero problema della significazione. È con un tema aristotelico che Anselmo si confronta nella sua opera espressamente dedicata alla significazione: il  De grammatico, avente per oggetto l’analisi dei paronimi. Aristotele aveva scritto nelle Categorie che accanto ai sinonimi e  agli omonimi vi sono i  paronimi, ossia quei termini che pur derivando da  un certo nome ne modificano il caso, come ad esempio da grammatica deriva grammatico 41. Il tema dei paronimi ha una storia lunga nel Medioevo 42, essendo una questione che già dal quarto secolo si muoveva su due fronti: quello grammaticale, con Prisciano e Donato, e quello logico-filosofico con Boezio; ed è in particolare alla tradizione grammaticale che fa riferimento Anselmo quando affronta la questione nel De grammatico. Prisciano sosteneva che un nome, nel significare, svolge sempre una duplice funzione: quella di  indicare una sostanza, ossia una realtà corrispondente al  nome, e  quella di  indicare una qualità, ossia uno o  più modi di essere di tale sostanza. I grammatici danno a queste due funzioni della significazione, rispettivamente, il nome di significatio e quello di appellatio 43. Ora, è vero che Anselmo avvia la sua indagine chiedendosi «se grammatico sia sostanza o  qualità» (ossia  Cfr. ibid., 10, 478C-479C, pp. 189, 31 - 190, 26.  Cfr. Dal Pra, Discorso, concetto e realtà cit. (alla nota 11), p. 21. 41 Cfr. Aristoteles, Categoriae (translatio Boethii), I, 1a 13-15, ed. L. MinioPaluello, Bruges – Paris 1961 (AL I, 1-5), [pp. 1-51], p. 5, 15-17: «Denominativa vero dicuntur quaecumque ab aliquo, solo differentia casu, secundum nomen habent appellationem ut a grammatica grammaticus et a fortitudine fortis». 42 Cfr. Henry, The De grammatico of   St. Anselm cit. (alla nota 1), passim; Jolivet, Vues Médiévales sur le paronymes cit. (alla nota 4). 43 Cfr.  Priscianus Caesariensis, Institutiones grammaticae, II, 18, ed. M. J. Hertz, 2 voll., Leipzig 1855-1859, II, p. 55, 6: «Proprium est nominis substantiam et qualitatem significare». 39 40

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se il  termine ‘grammatico’, che deriva da  ‘grammatica’, faccia riferimento, nel significare, a una sostanza oppure a una qualità), interrogandosi quindi sul significato dei paronimi, ma per comprendere tale significato bisogna sapere come funzioni la significazione di un termine qualsiasi. Un termine come ‘grammatico’ ha una duplice significazione, diretta e indiretta; ‘grammatico’ significa direttamente la  grammatica e  indirettamente, appellandolo, diciamo così, l’uomo 44. Ora però, come Anselmo dice poco più avanti, «il significato diretto è  essenziale alle parole con significato, l’altro è accidentale. Q uando infatti definendo il nome o il verbo, si dice che è parola con significato, si deve intendere con significato diretto» 45. Sempre secondo Anselmo, Aristotele nelle Categorie non ha voluto mostrare cosa siano le  realtà, ma come le parole significhino le cose 46. Possiamo concludere dunque che il vero problema, anche di Anselmo, è quello di come le  parole, tout court, facciano riferimento alle cose e del tipo di relazione che sussiste tra la parola e la cosa; e da quello che si è fin qui detto tale relazione non può che essere diretta ed essenziale. Come ha ben mostrato Jolivet, Anselmo si muove lungo una tradizione interpretativa che va da  Boezio ai Modisti e  che fa intervenire delle tematiche metafisiche e  teologiche, all’interno della trattazione grammaticale dei paronimi, portando questo tema di derivazione aristotelica in  un campo fortemente contaminato dal platonismo 47. Ora, al  di là di  quelle che possono essere delle contami44  Cfr.  De grammatico, 12,  570CD, p.  157,  1-8: «Grammaticus vero non significat homine et grammaticam ut unum, sed grammaticam per se et hominem per aliud significat. Et hoc nomen quamvis sit appellativum hominis, non tamen proprie dicitur eius significativum; et licet sit significativum grammaticae, non tamen est eius appellativum. Appellativum autem nomen cuiuslibet rei nunc dico, quo res ipsa usu loquendi appellatur. Nullo enim usu loquendi dicitur: grammatica est grammaticus, aut: grammaticus est grammatica; sed: homo est grammaticus, et grammaticus homo». 45  Ibid., 15, 574BC, p. 161, 14-18: «Considera etiam, quoniam harum duarum significationum illa quae per se est, ipsis vocibus significativis est substantialis, altera vero accidentalis. Cum enim in definitione nominis vel verbi dicitur quia est, vox significativa, intelligendum est non alia significatione quam ea quae per se est». 46 Cfr. ibid., 17, 575CD, p. 162, 20-23. 47  Cfr. Jolivet, Vues Médiévales sur le paronymes cit. (alla nota 4), pp. 226232. Una tale linea di tendenza sarebbe fortemente debitrice a Boezio e alla sua riformulazione del lessico delle Categorie, in particolare quando introduce il concetto di partecipatio nella discussione dei paronimi.

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nazioni o  delle scelte dottrinali, ciò che interessa in  questa sede è capire come e se Anselmo utilizzi questo sfondo platonizzante per inquadrare la sua dottrina della significazione. Bisogna riferirsi a un altro testo per meglio comprendere come il dispositivo anselmiano della significazione assuma in pieno una valenza platonica. Nel capitolo X del Monologion, un piccolo trattato di linguistica anselmiana, il quadro della significazione si arricchisce di un elemento che precedentemente, anche se sottointeso, non era esplicitamente formulato; in tale contesto Anselmo sembra fornirci una sorta di  tripartizione delle facoltà sensitive, alla maniera agostiniana, ma a  ben vedere, e  usando una terminologia più tarda, si tratta di una sorta di tripartizione dei modi di significare e non dei modi di intelligere. L’arcivescovo di Canterbury dice che noi parlanti possiamo dire una cosa in tre modi: Aut enim res loquimur signis sensibilibus, id est quae sensibus corporeis sentiri possunt sensibiliter utendo; aut eadem signis, quae foris sensibilia sunt, intra nos insensibiliter cogitando; aut nec sensibiliter nec insensibiliter his signis utendo, sed res ipsas vel corporum imaginatione vel rationis intellectu pro rerum ipsarum diversitate intus in nostra mente dicendo 48.

In un caso ci troviamo, dunque, di fronte alla significazione di una cosa tramite un segno sensibile, ossia tramite una vox o un segno scritto, come quando dico o  scrivo ‘uomo’ significo col nome ‘uomo’ la cosa o la sostanza (‘uomo’); nel secondo caso, invece, la significazione avviene facendo in qualche modo risuonare nella propria mente, senza pronunciarlo o scriverlo, il termine ‘uomo’; infine, nel terzo caso, la  significazione avviene quando la  mente vede l’uomo tramite un’immagine corporea, rappresentandosene la figura, oppure tramite la ragione nel pensare all’essenza universale dell’uomo che è animale razionale mortale. È Anselmo a dirci che a ognuno di questi tre modi corrisponde una parola, ma sono le parole del terzo modo a essere naturali e identiche presso tutti i popoli. Non è però semplice intendere di che tipo di parole si tratti, né tantomeno capire in che modo queste parole del terzo tipo siano uguali presso tutti i popoli. È forse ad Aristotele, e ai παθήματα τῆς ψυχής del De interpretatione, che Anselmo sta   Monologion, 10, 158BC, pp. 24, 30 - 25, 4.

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facendo riferimento parlando di questi verba naturalia? In effetti questa sarebbe l’ipotesi interpretativa più ragionevole, anche alla luce del fatto che erano i παθήματα τῆς ψυχής ad avere un rapporto naturale con la cosa 49. E per Anselmo nessun altro tipo di parola è necessario per conoscere le cose, perché sono queste parole, che si colgono in una sorta di discorso essenziale interiore, che ci fanno conoscere la cosa. Ma perché sono parole naturali e perché questa supposta naturalità sarebbe necessaria per farci conoscere le cose? Q ueste parole sono naturali perché «nullum aliud est utile ad rem ostendendam» 50, nessun’altra parola è utile per mostrare la cosa. Eccoci giunti a  un punto cruciale: è  con questa affermazione che la  teoria della significazione anselmiana si fa davvero platonica; e diventa platonica proprio perché la sua posizione sul rapporto tra parola e cosa diventa sostanzialmente simile a quella del   Cfr. il passo del De interpretatione cit. alla nota 28.   Monologion, 10,  159A, p.  25,  15. Con questa perentoria affermazione Anselmo sembra tagliare con ogni forma di semantica rigorosamente aristotelica; una semantica, insomma, che pensi l’intero processo di significazione nei termini del triangolo semantico (voces  –  passiones animae  –  res). Ragionare nei termini di una semantica aristotelica, dove appunto c’è un rapporto naturale o non convenzionale tra passiones animae e  cose, significa anche farsi carico della natura di queste passiones, un problema enorme su cui gli autori dei secoli xiii e xiv non hanno smesso di interrogarsi (cfr. R. Pasnau, Theories of   cognition in the later Middle Ages, Cambridge – New York 1997 e K. H. Tachau, Vision and certitude in  the age of   Ockham. Epistemology, optics and the foundation of   semantics, Leiden 1988) e su cui è impossibile in questa sede soffermarsi, data la vastità della questione. C’è solo però da fare un’osservazione, che testimonia di alcune ambiguità presenti nella semantica anselmiana, che diventano, forse, più evidenti nel meccanismo della prova ontologica: per Anselmo c’è significazione quando c’è un aliquid che viene significato, e questo aliquid (cfr. il passo del De potestate cit. alla nota 36) è detto proprio quando «suo nomine profertur et mente concipitur et est in re», dunque vi è significazione propria quando il meccanismo della significazione funziona esattamente come lo stesso triangolo semantico aristotelico; mentre, quando uno degli elementi del triangolo manca, abbiamo una significazione difettiva o  impropria. L’obiezione, o  meglio, la  provocazione di  Gaunilone sulle isole beate sembrerebbe essere condotta proprio a partire da queste premesse semantiche: se quell’ente, di  cui predico la  necessaria esistenza, non posso significarlo attraverso un processo di significazione che rispetti la regola del triangolo semantico, perché difettivo di almeno un elemento ossia dell’esistenza in re (in sostanza non posso stabilire un rapporto di corrispondenza tra passiones animae e res), posso appunto calare nel meccanismo della prova anche un’isola perduta e beata. Ma è chiaro che per Anselmo la necessaria corrispondenza, nel caso di Dio, e solo nel caso di Dio, di vox – passiones animae – res, può avvenire a  priori, non per ragioni semantiche, ma perché lo impone la  fede. In  tal senso va visto il preventivo richiamo al catholicus nel momento in cui Anselmo si avvia a rispondere alle obiezioni di Gaunilone (cfr. Responsio, 247C, p. 130, 4-5). 49

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Cratilo, nel quale la parola non era più un segno naturale o convenzionale, ma era δήλωμα: una manifestazione, un ordine, una proclamazione 51.

5. Il problema della significatio nel Proslogion È il Proslogion però a costituire il testo in cui la teoria della significatio anselmiana trova la  sua più esplicita formulazione portando alla luce le  molteplici problematiche di  cui si è  nutrita, nonché venendo a  costituirsi come paradigma e  modello di  un modo di intendere la funzione significativa del linguaggio nel suo far riferimento alle cose (o, volendo esprimerci in  termini platonico-anselmiani: nella sua capacità rivelativa delle cose). Una tale ipotesi interpretativa è anche alla base di numerosi tentativi di portare la logica sottesa alla prova ontologica a costituirsi come «il principale exemplum di corrispondenza tra parole e cose, un modello normativo di  denotazione, l’inesauribile repertorio tematico cui attinge ogni meditazione sul potere referenziale del linguaggio» 52. Senza riformulare ancora una volta la prova ontologica, possiamo dire che essa funziona, secondo Anselmo, perché l’esistenza dell’oggetto designato è  attestata dallo stesso contenuto semantico della designazione. Alla base di  tutto questo vi è una differenza fondamentale tra il pensare una cosa, quando si pensa la  parola che la  significa e  comprendere ciò che la  cosa è. Se ci si ferma al piano delle voces, a una mera cogitatio secundum vocem 53, senza comprendere la res che è significata dalla vox, sarà anche possibile affermare che tale res non sia; ma quando si avrà una cogitatio rerum e dunque ci si sforzerà di comprendere ciò che la cosa è, non si potrà fare a meno di affermare che il sintagma aliquid quo nihil maιus cogitari potest ha un referente realmente esistente 54. E da questo ne consegue che la parola Deus sarà δήλωμα  Cfr. supra, alla nota 27.   P. Virno, Parole con parole. Poteri e limiti del linguaggio, Roma 1995, p. 52. 53 Cfr. Dal Pra, Discorso, concetto e realtà cit. (alla nota 11), pp. 41-44. 54  Cfr. Proslogion, 4, 229AB, pp. 103, 18 - 104, 4: «Aliter enim cogitatur res cum vox eam significans cogitatur, aliter cum id ipsum quod res est intelligitur. Illo itaque modo potest cogitari deus non esse, isto vero minime. Nullus quippe intelligens id quod deus est, potest cogitare quia deus non est, licet haec verba dicat in corde, aut sine ulla aut cum aliqua extranea significatione. Deus enim est 51

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di Dio, sarà parola che svela e rivela Dio. Ora, assumere la prova ontologica come modello di ogni forma di significazione espone il nostro discorso a una serie di possibili obiezioni. La principale è che la parola ‘Dio’ o l’enunciato ‘aliquid quod nihil maius cogitari potest’, entrambi con valore o potere rivelativo dell’essenza divina, varrebbero, naturalmente, solo per Dio, e  se venissero assunti come modelli o exempla di ogni forma di significazione si arriverebbe al paradosso di rendere ogni referente (esistente o possibile) necessario. Inoltre, è lo stesso Anselmo a negare vigorosamente, di fronte alle obiezioni di Gaunilone, l’esemplarità della prova per ogni forma di referenza significativa, insistendo sul fatto che il  meccanismo della prova vale solo per Dio, ossia solo per quell’ente che si identifica, ipso facto, con il sintagma ‘aliquid quod nihil maius cogitari potest’ e dichiarando che la necessità della sua dimostrazione, o  l’impossibilità della sua confutazione, impone necessariamente la conferma dell’esistenza di Dio (in base a tutta la logica dimostrativa della prova). Molta della filosofia e parte della teologia successive ad Anselmo ha cercato, in vari modi, di smontare e di confutare l’argomento ontologico, ma è  nel Novecento e  con la  filosofia analitica che si comincia ad affrontare l’argomento ontologico da  un punto di vista eminentemente linguistico, trascurando, però, il fatto che per Anselmo «l’esistenza di Dio non è un caso particolare dell’esistenza di qualcosa proprio in quanto il pensare a Dio – e il parlare di Dio – non è un caso particolare del pensare a qualcosa – del parlare a  qualcosa» 55. Per filosofia analitica, naturalmente, non si può intendere un unico blocco, con una visione del problema univoca e  con una soluzione condivisa: c’è chi, ispirandosi alla sezione della Dialettica trascendentale di Kant, Dell’impossibilità di una prova ontologica dell’esistenza di Dio, e in particolare alla distinzione dei giudizi analitici/sintetici 56, ne trae conseguenze id quod maius cogitari non potest. Q uod qui bene intelligit, utique intelligit id ipsum sic esse, ut nec cogitatione queat non esse. Q ui ergo intelligit sic esse deum, nequit eum non esse cogitare». 55  L.  Perissinotto, Grammatica e  esistenza. L’argomento ontologico e  la filosofia analitica, in Dio e la ragione cit. (alla nota 12), [pp. 83-109], p. 94. 56  Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, 29 voll., III, Berlin 1911, pp. 398-400 (tr. it., Roma – Bari 1981, pp. 379-381). La distinzione, fondamentale, tra giudizi sintetici e analitici non è presente nella sezione dove Kant

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generali di natura semantica (Frege, Russell, Wittgenstein) 57; ma c’è anche una componente, più o  meno recente, che si esercita nella formalizzazione della prova in termini di logica matematica o  addirittura in  riformulazioni creative dell’argomento, sempre in termini di logica formale 58. Non è possibile, in questa sede, soffermarsi in  un’analisi puntuale delle posizioni dei filosofi analitici; si può però notare che, quando Russell nel saggio Sulla denotazione utilizza la  prova ontologica per condurre il  suo discorso sulla denotazione 59, o  quando Frege nel § 53 de I  fondamenti dell’aritmetica discute di esistenza a partire dalla distinzione tra note caratteristiche (Merkmale) e  proprietà (Eigenschaften) di  un concetto 60, richiamando esplicitamente la  prova di  Anselmo, lo fanno entrambi con l’obiettivo sì di  confutare la  prova, ma anche con quello di salvare la pura denotazione logica (come per altro ammetteva lo stesso Kant, nella sua confutazione dell’argomento) 61, senza la necessità di inferire l’esistenza dalla posizione di un concetto. Se però adesso ci rivolgiamo a un testo anselmiano, non espressamente dedicato al  tema della significazione, ma riguardante essenzialmente questioni teologiche, l’accettazione da  parte di Anselmo di un mero utilizzo logico dei concetti logici risulta quantomeno problematico; ci riferiamo all’Epistola de incarnatione Verbi 62, ossia il testo che documenta la polemica tra l’arcidimostra l’impossibilità della prova ontologica, essendo essa formulata all’ini­zio della Critica, ma una tale distinzione costituisce l’elemento che premette la confutazione. 57 Cfr. Perissinotto, Grammatica e esistenza cit., p. 84. 58  Per una visione d’insieme di questa componente si veda G. Oppy, Ontological arguments and belief  in God, Cambridge 1995. 59  Cfr.  B. Russell, On Denoting, in  «Mind», 14  (1905), [pp.  479-493], p.  490 (tr.  it., Sulla denotazione, in  La  struttura logica del linguaggio, a  c. di A. Bonomi, Milano 1973, pp. 181-195, in partic. p. 193). 60 Cfr. G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik. Eine logisch-matematische Untersuchung über den Begriff  der Zahl, Breslau 1884, pp. 64-65 (tr. it., I fondamenti dell’aritmetica, in Id., Logica e aritmetica, Torino 1977, p. 288). 61 Cfr.  Kant, Kritik der reinen Vernunft cit. (alla nota 56), p.  401 (tr.  it., p. 382). 62 Cfr.  Epistola de incarnatione Verbi, prior recensio, 259C-284C, pp.  281290. Per il confronto di Anselmo con Roscellino cfr. G. d’Onofrio, Anselmo e i teologi «moderni», in Cur Deus homo, Atti del Congresso Anselmiano internazionale (Roma, 21-23 maggio 1998), a  c. di  P.  Gilbert  –  H.  Kohlenberger  – E. Salmann (Studia Anselmiana, 128), Roma 1999, pp. 87-146.

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vescovo di Canterbury e il suo altro grande avversario, Roscellino di  Compiègne: ammettere un mero darsi degli enti della logica, senza che a essi corrisponda una qualche consistenza ontologica, significava che quegli stessi enti della logica fossero una mera emissione di suono dalla bocca (flatus vocis). Alla base di  tutto, per ritornare al  tema della significazione, vi può essere solo un tipo di significazione diretta ed essenziale. Il meccanismo che permette di tenere insieme il funzionamento della prova ontologica e di garantire al contempo una significazione realistica, ovvero che sia garante del realismo delle essenze, non può che essere una parola che sia rivelativa delle essenze alla maniera platonica. Ma una domanda resta: in una strategia semantica di  questo tipo, che ne è  del meccanismo di  significazione aristotelico? Ovvero, cercando di articolare meglio questa domanda: in un meccanismo di significazione di tipo realistico ed essenzialistico, alla maniera platonica, che ruolo giocano le passiones animae, dal momento che, come abbiamo visto nel De potestate, in un processo di significazione proprio è l’aspetto mentale a ricoprire un ruolo fondamentale e inoltre è proprio questo correlato mentale a costituire il vero arco di volta della prova ontologica 63? Non ci sembra che in  Anselmo, in  tutte le  sue opere, la natura e il funzionamento delle passiones/conceptiones sia esplicitato o almeno affrontato, ma è questo un argomento che resta costantemente all’orizzonte della speculazione, non solo semantica, dell’arcivescovo di Canterbury; la presenza di questa tematica in  diversi luoghi dell’opera anselmiana, senza però una sua trattazione esplicita, non permette, a nostro avviso, ad Anselmo di sviluppare una strategia, relativa alla problematica della signifi-

  Il momento dell’intellezione o, come dice Anselmo, dell’esse in intellectu, come si sa, è il momento cruciale della prova, ed è proprio il punto che Gaunilone contesterà con più energia, negando che si possa avere intellezione di una cosa che non è stata prima percepita dai sensi; ma quando Gaunilone afferma (Gaunilo Maioris Monasterii, Q uid ad haec respondeat quidam pro insipiente, 2, 243B, pp. 125, 19 - 126, 1): «Et ideo non dicor illud auditum cogitare vel in cogitatione habere, sed intelligere et in intellectu habere; quia scilicet non possim hoc aliter cogitare, nisi intelligendo id est scientia comprehendendo re ipsa illud existere», ci sta fornendo una spiegazione sul funzionamento del triangolo semantico aristotelico: posso comprendere una parola perché mi sono formato una corretta concezione mentale di una cosa, che dovrà prima essere stata percepita. 63

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cazione, che sia funzionale al suo disegno teologico prima ancora che a quello semantico.

6. Conclusioni All’inizio delle risposte di  Anselmo a  Gaunilone, l’arcivescovo di  Canterbury ammette di  trovarsi innanzi a  un interlocutore tutt’altro che insipiente; un interlocutore non insipiente e cattolico. E sottolinea la  necessità di  doversi rivolgere al  catholicus 64. Tale appello al  credente, posto in  quel luogo particolare, non è  un aspetto di  poca importanza. Infatti, sembra che Anselmo, con un simile procedere, voglia in qualche modo prevenire quella che è stata l’obiezione più forte di Gaunilone: per parlare di Dio, come ente senza dubbio esistente, devo significarlo e, per avere una significazione propria, deve sussistere una piena corrispondenza tra voce, concetto e  cosa (realmente esistente). Ma non potendo avere di  questa cosa particolare che è  Dio una qualche esperienza, non me ne potrò formare un’adeguata concezione (la mia anima non potrà essere affetta da una qualche passione) e dunque non lo potrò significare in  quanto esistente. Per Anselmo, invece, la  garanzia della necessaria corrispondenza dei tre piani (voci – concetti – cose) non è data dalla semantica, ma dalla fede: per il catholicus la parola Dio sarà sempre una parola che significherà rettamente, perché sempre avrà la garanzia di far corrispondere il piano delle parole a quello dei concetti e quello delle cose. Il richiamo al  catholicus sembra però invitarci a  un’ulteriore riflessione. Il confronto tra Gaunilone e Anselmo è, prima di tutto, un dialogo spirituale tra monaci. Ora, quando si fa riferimento a  una teoria del linguaggio in  ambito monastico, si sta facendo riferimento fondamentalmente a una concezione apofatica 65: come alcuni suoi predecessori, che hanno cercato di razionalizzare in maniera più o meno sistematica i contenuti della fede, anche Anselmo trova nel monaco Gaunilone quel concentrato di  intensa spiritualità che ha rappresentato un grosso problema  Cfr. Responsio, 248C, p. 130, 1.  Cfr.  J. Leclercq , L’amour des lettres et le  désir de  Dieu: initiation aux auteurs monastiques du Moyen âge, Paris, 1957, p. 59 (tr. it., Cultura umanistica e desiderio di dio, Firenze 1983, p. 65). 64

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IL PROBLEMA DELLA SIGNIFICAZIONE NEL PENSIERO DI ANSELMO

per coloro che cercarono di  condurre delle indagini razionali in teologia. Un problema, ma anche una sfida per la teologia, per il logos che vuole significare Dio. Se però i tentativi (cui abbiamo brevemente accennato), presenti nella storia dell’interpretazione dell’argomento ontologico, di creare una sorta di analogia tra la parola che significa Dio e la significazione tout court (in particolare quello della filosofia analitica) possono avere una certa rilevanza speculativa, dall’altro lato non possiamo ignorare la  provocazione della teologia negativa: l’incombere dell’απόφασις, anche innanzi a  un discorso su Dio che vuole essere razionale, smette di avere valore solo per la teologia, creando sconcerto e inquietudine, perché rischia di mettere in discussione non solo la parola che vuole significare Dio, ma ogni forma di significazione.

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ANSELMO FILOSOFO DELL’INFINITO: LA NATURA ELENCTICA DELL’UNUM ARGUMENTUM

1.  Come è noto, Anselmo chiama argumentum il celebre ragionamento del Proslogion. L’uso di questo termine vanta numerosi antecedenti illustri. In primo luogo, naturalmente, occorre citare la  Lettera agli Ebrei, 11,  1 («Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium») e Cicerone 1; ma qui ci si vorrebbe soffermare in particolare sul rapporto tra l’uso e  il significato dell’argumentum come appare in  Boezio e come invece appare in Anselmo in quanto, ad avviso di chi scrive, paradigmatici di due concezioni di fondo assai diverse nonostante presentino un numero considerevole di affinità. La differenza consisterebbe in questo: Boezio (ma in realtà anche Agostino) struttura la  propria idea di  argumentum in  consonanza con un’idea del reale e del pensiero come ‘sistema’ chiuso e gerarchico, il cui culmine – vale a dire Dio – viene compreso principalmente nel senso di essere l’ultimo elemento della serie degli enti, della quale costituisce il  vertice ed  il coronamento in  quanto la  chiude, mentre Anselmo, che pure non è affatto estraneo a tale impostazione, ma anzi la porta a livelli di sviluppo elevati nel Monologion, si avvede che, se si vuole realmente parlare di Dio secondo una necessità che sia veramente assoluta, tale concezione è  insufficiente. Pertanto, affinché possa esservi qualcosa come l’unum argumentum, occorre invece partire dall’idea di Dio come unum Principium, elemento 1 Cfr.  Marcus Tullius Cicero, Topica, 2,  8, ed.  T.  Reinhardt, Oxford 2006, p. 118, 27-28: «Itaque licet definire locum esse argumenti sedem, argumentum autem rationem quae rei dubiae faciat fidem». La  definizione ciceroniana verrà ripresa oltre, al § 3.

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 237-248 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112919

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che fonda la serie (degli enti, dunque delle condizionatezze) ma che proprio per questo (in quanto è l’assolutamente incondizionato) è  al di  fuori della serie stessa, e  attenervisi strenuamente. Ma a sua volta tale idea di Dio visto nella sua irriducibile infinità, come id quo maius che è anche un quiddam maius quam cogitari possit, non comporta affatto una condanna della ragione, perché è  vera anche l’idea contraria: l’unum argumentum esclude, infatti, che l’unum Principium non manifesti pienamente la propria natura nella sfera logico-discorsiva, ma solo, semmai, che la ragione possa esaurirne l’infinità semantica, la quale viene pertanto nuovamente e autorevolmente confermata. 2.  Il  limite della prima concezione, che è  quella agostiniana, boeziana e del Monologion, potrebbe essere ravvisato nella dipendenza dell’idea di argumentum da una metafisica di tipo partecipativo. Così, la celebre ‘prova’ agostiniana ex veritate presente nel De libero arbitrio 2, in un contesto di ascesa dal mondo della sensibilità a quello delle idee più astratte, fa dipendere in ultima istanza la capacità della ragione umana di cogliere una verità immutabile (il verum) dall’esistenza di una veritas immutabile in se stessa, sì che mostrando l’esistenza di «una realtà superiore alla ragione» si può quindi «concludere che allora l’esistenza di Dio è qualcosa di manifestum» 3. In Boezio quest’impostazione è sviluppata in modo estremamente dettagliato e raffinato, attraverso una riflessione che mette costantemente in  rapporto il  piano gnoseologico con l’articolazione dei vari piani della realtà. Che Boezio utilizzi una metafisica di tipo partecipativo è, naturalmente, fuori discussione: basti pensare al celeberrimo metro 9 del libro III del De consolatione. Grosso modo, lo schema boeziano si può riassumere in  questi termini: la  realtà non è  nient’altro che l’insieme dei diversi gradi di manifestazione della forma, e tali gradi esistono in virtù del loro partecipare in misura maggiore o minore, e più o meno 2 Cfr.  Aurelius Augustinus, De libero arbitrio, II, 5,  11,  42  -  14,  57, PL 32 [1221-1310], 1246-1248, edd. W.  M. Green  –  K.-D.  Daur, Turnhout 1970 (CCSL, 29), pp. 239-247. 3   I. Sciuto, Genesi e struttura dell’argomento anselmiano, in L’argomento ontologico, a  c. di  M.  M. Olivetti, (= «Archivio di  Filosofia», 58 [1990]), [pp. 19-42], p. 19.

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diretta, al mondo delle forme pure, situate nella mente di Dio 4. A  ciascuno di  tali gradi  –  essendo che, per quanto detto, la forma è evidentemente anche l’unico oggetto possibile di ogni conoscenza 5  –  corrispondono poi diverse facoltà conoscitive dell’ani­ma umana: avremo pertanto che alla forma «così come essa è  incarnata nella materia» corrisponde la  sensibilità, alla forma «priva della materia» ma ancora singola e  individuata (cioè la  singola forma astratta da  un singolo individuo) corrisponde l’immaginazione, alla forma come «la specie stessa che si trova nei singoli individui» (cioè la  forma astratta e quindi già non più individuata che può incarnarsi «nei singoli individui», intesi però a loro volta come un insieme, una pluralità) la ragione, mentre «la forma stessa nella sua semplicità», intesa come puro archetipo, è l’oggetto della coppia di facoltà conoscitive formata da  intelligenza e intelletto 6. Il  testo boeziano si presenta quindi come una raffinata evoluzione dell’impostazione anagogica presente nell’argumentum agostiniano. Come in  quello, la  solidità dell’intera costruzione riposa sulla verità dell’oggetto della conoscenza: a oggetto sempre vero corrisponde una conoscenza necessariamente vera. Q uesto è  il senso dell’affermazione contenuta nella prosa 5 del libro V della Consolatio, dove Boezio afferma che la  ragione è  soltanto umana, laddove l’intelletto è  solo divino 7.  Cfr. Anicius Manlius Severinus Boethius (d’ora in poi: Boethius), De consolatione philosophiae, III, ix, PL 63 [547A-862C], 758A-759A, ed. C. Moreschini, München – Leipzig 2005, pp. 79, 1 - 80, 9: «O qui perpetua mundum ratione gubernas / terrarum caelique sator, qui tempus ab aevo / ire iubes stabilisque manens das cuncta moveri  / quem non externae pepulerunt fingere causae / materiae fluitantis opus, verum insita summi / forma boni livore carens; tu cuncta superno / ducis ab exemplo, pulchrum pulcherrimus ipse / mundum mente gerens similique in imagine formans / perfectasque iubens perfectum absolvere partes». Si veda anche Id., De sancta Trinitate, 2, PL 64 [1247A-1256A], 1250BD, ed. Moreschini cit., pp. 168, 68 - 171, 120. 5 Cfr.  G. d’Onofrio, Fons scientiae. La  dialettica nell’Occidente tardoantico, Napoli 19862 (Nuovo Medioevo, 31), p. 131. 6  Cfr. Boethius, De consolatione philosophiae, V, 4, 28-30, PL 63, 849AB, ed.  Moreschini cit., p.  149,  81-88: «Sensus enim figuram in  subiecta materia constitutam, imaginatio vero solam sine materia iudicat figuram; ratio vero hanc quoque transcendit speciemque ipsam, quae singularibus inest, universali consideratione perpendit. Intellegentiae vero celsior oculus exsistit; supergressa namque universitatis ambitum, ipsam illam simplicem formam pura mentis acie contuetur». 7  Cfr. ibid., 5, 4, 854B, ed. Moreschini cit., p. 153, 16-18: «Ratio vero humani tantum generis est, sicut intellegentia sola divini». 4

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Già qui, però, si coglie la  novità del percorso boeziano rispetto ad Agostino: l’intelletto, infatti, vien detto divino non perché tale, ma perché coglie solo e sempre un unico tipo di oggetti, vale a dire le forme come puri archetipi. La differenza con Agostino è  evidente. Nel De libero arbitrio, il  ragionamento conduce sì a un unico oggetto – il quale è immutabile –, ma giunge a questo risultato solo in quanto, in realtà, esso anche si fonda su tale oggetto. La  dimostrazione attraverso la  quale la  ragione coglie quella veritas che è Dio può essere a sua volta un autentico verum solo in  quanto la  relazione partecipativa tra la  ragione e  quella veritas sia già presupposta. Benché Agostino parli di demonstratio, pertanto, il ragionamento del De libero arbitrio a rigore non ‘dimostra’ Dio, ma piuttosto lo ‘mostra’. La complessità dell’argomentazione boeziana invece è maggiore. Boezio infatti non lega il  valore della conoscenza, ratio o  intellectus che sia, al  loro rapporto a un oggetto, bensì fa riferimento ad una classe di oggetti, le  forme pure, della quale anche Dio fa parte, sia pure in  modo unico e  perfettissimo. Detto altrimenti: ciò che conta nell’impostazione boeziana non è  tanto che l’essere venga dalla forma, quanto la tendenza da parte di quest’ultima, a dispetto del principio di partecipazione, a restare in se stessa, a non comunicarsi. Come afferma il  De trinitate, sono piuttosto le  imagines (cioè le forme considerate nella loro unione alla materia) che non le vere formae a dare vita alle realtà di questo mondo 8: ma le forme non sono le immagini, giacché queste ultime, considerate nella loro vera natura di ‘forme improprie’, sono soggette al mutamento (Boezio dice: «soggette agli accidenti»), trovandosi incarnate nella materia, laddove la  forma propriamente considerata è  assolutamente immutabile ed eternamente identica a sé 9. È per questo che Boe8 Cfr. Id., De sancta Trinitate, 2, 1250B, ed. Moreschini cit., p. 169, 79-83: «In divinis intellectualiter versari opertebit neque diduci ad imaginationes, sed potius ipsam inspicere formam, quae vere forma neque imago est et quae esse ipsum est et ex qua esse est. Omne namque esse ex forma est»; ibid., 1250BC, pp. 169, 89 - 170, 94: «Nihil igitur secundum materiam esse dicitur sed secundum propriam formam. Sed divina substantia sine materia forma est atque ideo unum est, et est id quo est: reliqua enim non sunt id quod sunt»; ibid., 1250D, p. 171, 113-117: «Ex his enim formis quae praeter materiam sunt, istae formae venerunt quae sunt in materia et corpus efficiunt. Nam ceteras quae in corporibus sunt abutimur formas vocantes, dum imagines sint: adsimulantur enim formis his quae non sunt in materia constitutae». 9 Cfr.  ibid.,  1250CD, p.  170,  100-108: «Q uod vero non est ex hoc atque

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zio può affermare che solo le forme veramente sono, sì che è corretto, a questo punto del ragionamento, dedurre – in base a quello che Boezio stesso, nel De hebdomadibus, pone al primo posto tra i nove principî più importanti del pensiero, vale a dire l’arcinoto «diverso è l’essere da ciò che è» 10 – che la stessa divinità di Dio sia tale proprio perché Dio è l’unico ente ad essere purissima forma senza alcuna relazione ad altro, una sorta di super-archetipo per così dire, dove il motore e il fondamento dell’intera argomentazione è, di nuovo, la natura della forma correttamente intesa, non la  specialissima natura di  Dio.  Se, come affermano i  Commenti all’Isagoge di  Porfirio, ognuno degli intellectibilia (termine che traduce il  greco νοετά) è  tale «perché è  uno ed identico, consistente per sé nella propria divinità, e mai si può cogliere con alcun senso, ma unicamente con la mente sola e l’intelletto» 11, allora è chiaro che Dio, in questa impostazione di pensiero, è soltanto, per così dire, l’intellettibile supremo, il vertice di questo sistema del reale fondato sulla gerarchia delle forme 12: l’ultimo elemento della serie che chiude, coronandola, la  serie stessa degli enti. Lo  status dell’intellectus, come quello di  Dio, dipendono dalla relazione esclusiva che intrattengono con la forma, sì che l’intellectus è tale, e quindi sempre vero e divino, perché in primo luogo ha a che fare con la forma in generale, e non con quella forma speciale che è Dio.

hoc, sed tantum est hoc, illud vere est id quod est; (…) Neque enim subiectum fieri potest: forma enim est, formae vero subiectae esse non possunt. Nam quod ceterae formae subiectae accidentibus sunt, ut humanitas, non ita accidentia suscipit eo quod ipsa est, sed eo quod materia ei subiecta est». Cfr.  anche d’Onofrio, Fons scientiae cit. (alla nota 5), p. 142. 10  Boethius, Q uomodo substantiae in eo quod sint bonae sint cum non sint substantialia bona (De hebdomadibus), PL 64, [1311A-1314C], 1311B, ed. Moreschini cit. p. 187, 26: «Diversum est esse et id quod est». 11  Id.,  In Isagogen Porphyrii Commenta, I, 3, PL 64, [9A-158D], 11BC, edd. G. Schepss – S. Brandt, Wien – Leipzig 1906, p. 8, 13-21: «Est enim intellectibile quod unum atque idem per se in  propria semper divinitate consistens nullis umquam sensibus, sed sola tantum mente intellectuque capitur. Q uae res ad speculationem dei atque ad animi incorporalitate considerationemque vere philosophiae indagatione componitur: quam partem Graeci θεολογίαν nominant. Secunda vero est pars intellegibilis, quae primam intellectibililem cogitatione atque intellegentia comprehendit». 12  Cfr. d’Onofrio, Fons scientiae cit. (alla nota 5), p. 142: «Forma suprema in cui tutte trovano il vero essere».

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3.  Per Anselmo, invece, lo status dell’intellectus e quello di Dio hanno un diverso fondamento, e  quindi un diverso significato. Volendo riassumerlo in  una formula, lo si potrebbe esprimere così: l’unum argumentum non scatta in quanto si applichi a Dio in  quanto ente, ma perché si applica a  quell’ente che è  Dio. Se il paradigma boeziano si potrebbe definire in certo qual modo di tipo ontico, in quanto la divinità di Dio è subordinata al suo essere forma, per quanto assolutamente pura  –  «forma formalissima», come assai felicemente diranno gli epigoni di  Boezio del secolo xii 13 –, in Anselmo, al contrario, l’esser-ente da parte di  Dio è  subordinato alla sua infinità, da  intendersi nel duplice senso di totalità dell’Essere e trascendenza. La saldezza dell’edificio della metafisica boeziana della forma, così come l’argumentum agostiniano del De libero arbitrio, riposavano su di  una concezione dell’essere di  tipo partecipativo. Del resto, lo stesso Monologion anselmiano, che riprende uno schema in  qualche modo anagogico, deduce l’essere summum di Dio «come il grado massimo e primo dell’ordine, ma non fuori dell’ordine» 14. Spetta appunto all’argumentum del Proslogion sganciare l’idea di Dio da quella di ordine (in termini agostiniani; dalla classe degli oggetti che sono forme, in  termini boeziani) e porla nella sua assoluta specialità e infinità in quanto Principio. Non  si tratta di  una semplice modifica esteriore: senza questo cambio di prospettiva non si avrebbe l’unum argumentum, e l’affermazione dell’esistenza necessaria di Dio non sarebbe un’evidenza originaria, ma una verità derivata, destinata perciò a rifarsi sempre ad altri principî, situazione della quale Anselmo, nel prologo al  Proslogion, si dichiara esplicitamente insoddisfatto 15 (è  lo  scopo dell’opera, nonché della necessità, così acutamente 13  Cfr. Alanus de Insulis, Regulae caelestis iuris (Regulae theologicae), 16, PL  210, [617C-684C], 629D, ed.  N.  M. Häring, in  «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen-Age», 48  (1981), [pp.  121-226], p.  136: «Sola forma informis est q via forme non est forma. Divina enim forma a nullo informatur ut cum sit forma formalissima». 14  Sciuto, Genesi e  struttura dell’argomento anselmiano cit. (alla nota  3), p. 23. 15 Cfr.  Proslogion, Prooem., 223BC, p.  93,  4-7: «Considerans illud [scil. il Monologion] esse multorum concatenatione contextum argumentorum, quod nullo alio ad se probandum quam se solo indigeret, et solum ad astruendum quia deus vere est».

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sentita dall’autore, del superamento del programma del Monologion). Porre Dio come il  Principio significa porlo come omnitudo realitatis: non semplicemente come il maius nell’ordine dell’esse (e del bonum, e del magnum), il summum omnium quae sunt – ciò che ancora fa dipendere Dio, e quindi la validità dell’argumentum, dal rapporto col finito, il mutevole ecc. 16 – ma per se, indipendentemente da ogni legame alla finitezza, e quindi unicamente in rapporto alla sua infinità 17. Al contrario degli assiomi presenti all’inizio del De hebdomadibus, dai quali si possono comunque dedurre altre conclusioni, l’argumentum non è un principio indimostrato perché immediatamente evidente, ma (a) un principio la cui negazione è autocontraddittoria in quanto quest’ultima presuppone ciò che intende negare, e (b) un principio che, rispecchiando fedelmente, nella sua ‘perseità’, la  ‘perseità’ assoluta del suo Oggetto, afferma unicamente se stesso, al contrario di altri tipi di argomentazione, come ad esempio l’entimema, cui l’argumentum anselmiano è talvolta 16  Caratteri che sono ancora ravvisabili nella definizione, così simile a quelle del Monologion, presente nella Consolatio: Boethius, De consolatione philosophiae, III, 10,  7, 765A, ed.  Moreschini cit., p.  81,  24-25: «Nam cum nihil deo melius excogitari queat, id quo melius nihil est bonum esse quis dubitet?». Il senso profondo di questa frase è che Dio non è superabile, essendo l’ultimo termine nella serie gerarchica degli enti, ciò che è ben lontano dall’affermare, come fa l’unum argumentum, che, se si può pensare l’id quo maius cogitari nequit, allora non lo si possa neppure pensare non esistente. Si veda Proslogion, 3, 228B, p. 102, 7: «Potest cogitari esse aliquid, quod non possit cogitari non esse»; ibid., 228B, p. 103, 1-2: «Sic ergo vere est aliquid quo maius cogitari non potest, ut nec cogitari possit non esse». Come ha felicemente notato P. Gilbert, Unum Argumentum et Unum Necessarium, in L’argomento ontologico cit. (alla nota 3), [pp. 81-94], p. 91, il pensiero della trascendenza correttamente inteso (cioè come ciò che è totalmente al di là di ogni possibile serie di enti, non essendone il termine ultimo e Sommo) esclude ogni negazione da Dio: «L’altérité ou la négation appartiennent au crée et non au Créateur qui n’est pas simplement ‘plus grand’ que l’esprit». Paradigmatica, in tal senso, l’opposizione a questa impostazione che fa da sfondo alla lettura di G. d’Onofrio, Chi è l’insipiens? L’argomento di Anselmo e la dialettica dell’Alto Medioevo, ibid., [pp. 95-109], p. 101: «Se qualcosa c’è, c’è qualcosa di Sommo rispetto a ciò che non lo è». 17  Ciò accade anche se già nel Monologion Anselmo notava come il summum omnium quae sunt sia talmente superiore agli altri enti, da non poter costituire in alcun modo un termine di paragone: Monologion, 1, 146B, p. 15, 10-12: «Id enim summum est, quod sic supereminet aliis, ut nec par habeat nec praestantius. Sed quod est summe bonum, est etiam summe magnum. Est igitur unum aliquid summe bonum et summe magnum, id est summum omnium quae sunt».

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accostato, a mio avviso a torto. D’altronde, lo stesso dettato ciceroniano dei Topica non deve essere letto in  senso depotenziato. Già  per Boezio il  «togliere un dubbio» che è  proprio all’argumentum 18 non è  una mera ‘chiarificazione’, ma l’eliminazione di  una contraddizione rilevata all’interno di  una quaestio 19. Anselmo si ispira a questo significato dell’argumentum, derivante dalla topica ciceroniana, che è quello che storicamente egli conosceva, ma ne amplia la portata al punto di creare – si perdoni il gioco di parole – uno dei più famosi topoi del pensiero occidentale. E ciò accade non tanto in virtù di quel segmento dell’argumentum, certamente il più problematico e il più studiato e criticato, che vuol dedurre necessariamente l’esistenza di  Dio dalla sua essenza 20, ma di  quell’altro segmento, solitamente lasciato più in  ombra, per il quale la negazione dell’argumentum è autocontraddittoria. Se  si  dà la  priorità al  momento elenctico dell’argumentum, più che alla complessa deduzione dell’esistenza di  Dio dalla sua essenza, ci si avvede allora di  come l’argumentum non intenda, né possa, essere un semplice entimema, tale per cui «se le  cose di cui tale aliquid è maius esistono, anche esso, per essere in questo medesimo ambito o  luogo significativo accolto come maius, certamente esiste» 21. Né è possibile pensare l’argumentum come appartenente ad una classe di «verità […] non dialettiche ma predialettiche, anteriori rispetto ad ogni mediazione formale perché oggetto di  un’intuizione noetica e  riconoscibili come vere dalla

  Si veda supra, alla nota 1.  Cfr. Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, I, PL 64, [1039A-1174A], 1048B-1049A. Dopo aver ripreso la  definizione di  Cicerone («Argumentum autem ratio est quae rei dubiae faciat fidem»), Boezio afferma il legame necessario tra argumentum e res dubiae: «Argumentum namque est quod rem arguit, id est probat, nihil vero probari, nisi dubium, potest. Nisi ergo sit res ambigua, et ad eam ratio fidem facies afferatur, argumentum esse non poterit». Ma «ubi dubitatur aliquid, ibi sit quaestio», al punto che «si argumentum praeter rem dubiam esse non poterit, nullo modo esse praeter quaestionem potest». E, per la sua natura di dubitabilis propositio, la quaestio, e di conseguenza anche l’argumentum, è intimamente legata alla contraddizione: «Omnis enim quaestio contradictionibus constat». 20  Anche in  questo caso l’ispirazione è  agostiniana: cfr.  Aurelius Augustinus, De libero arbitrio, II, 5, 11, 43, PL 32, 1247, edd. Green – Daur cit. (alla nota 2), p. 244, 20-21: «Melius est quod etiam vivit quam id quod tantum est». 21   d’Onofrio, Chi è l’insipiens? cit. (alla nota 16), p. 101. 18

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ragione per il  solo fatto di  essere pensate o  enunciate» 22, quali erano appunto le  communes animi conceptiones di  Boezio. Se infatti così fosse, e  se quindi l’argumentum non fosse che l’entimema supremo, non scatterebbe, per l’insipiens, quella condizione di  autocontraddittorietà necessaria, la  quale è  propria solo al negatore del principio di non contraddizione. Non è che l’insipiens si autocontraddica, in quanto capisca il significato ma seguiti a negarlo, né l’id quo maius può essere immediatamente capito solo che lo si pensi o lo si affermi (ciò che vale per tutte le forme di evidenza immediata, come gli hebdomada boeziani): questo modo interpretativo sarebbe infatti un fraintendimento della natura dell’ἔλεγχος, e  quindi della natura elenctica dell’argumentum. Il  quale, al  contrario, ed esattamente come il  principio aristotelico, è un’evidenza non assiomatica. Ciò che conta, in esso, non è  l’immediatezza pura (com’è per gli hebdomada boeziani), ma il riconoscimento della sua natura principiale. Infatti l’insipiens, dice Anselmo, non deve intelligere l’id quo maius – come invece occorre fare per gli hebdomada boeziani, legati per essenza all’intellectus e  al mondo delle forme pure  –  ma lo deve cogitare 23. Occorre cioè una mediazione, e  non una comprensione intui­ tiva, e  questa è  a  sua volta articolata: anzitutto si deve comprendere la definizione dell’id quo maius, e solo in un secondo tempo l’argumentatio contro l’insipiens ci conduce a  cogliere appieno il  senso dell’argumentum, esattamente come è  solo attraverso la concreta azione discorsiva portata avanti dal negatore della βεβαιοτάτη ἀρχὴ πασῶν che di  quest’ultima si coglie, grazie all’ἔλεγχος, tutta l’enorme portata logico-semantica. L’insipiens, come già il  negatore di  Metafisica  IV 24, deve articolare, esprimendolo (se solo nel suo cuore o anche nel linguaggio concretamente parlato, non importa), il pensiero della negazione   Ibid., p. 100.  Cfr. Responsio, 4, 253A, p. 133, 21-24: «Q uod autem dicis, quia cum dicitur, quod summa res ista non esse nequeat cogitari, melius fortasse diceretur quod non esse aut etiam posse non esse non possit intelligi: potius dicendum fuit non posse cogitari». 24  Alla confutazione della possibilità di negare il principio d’identità e di noncontraddizione è, come noto, dedicato il paragrafo 4 del IV libro della Metafisica aristotelica. Cfr.  Aristoteles, Metaphysica, IV, 4,  1005b35 e  seqq.; cfr.  anche la nota successiva. 22

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di  quella verità  –  e  non, semplicemente, articolare quella negazione stessa: ché anzi tale negazione è  sempre articolabile senza che in  ciò vi sia in  sé necessariamente contraddizione 25  –  che è  l’esi­stenza necessaria di  Dio 26. Purché abbia espresso qualcosa e non il niente, purché abbia articolato quel pensiero della negazione della verità, egli, come il negatore del principio aristotelico, sarà subito preda della potenza dell’ἔλεγχος; e, se non avrà inteso dire nulla, egli sarà allora «simile ad una pianta», ὅμοιος φυτῷ 27. Nessuna altra forma del ragionare, eccetto l’ἔλεγχος, ha questo potere. Se invece l’argumentum fosse unicamente l’entimema supremo, allora, per riprendere i  termini cari alla topica ciceroniana e boeziana, esso non sarebbe risolutivo, bensì occorrerebbe fare appello ad un’ulteriore – e stavolta estrinseca – argumentatio per far sì che la controversia possa trovare il suo possibile sfogo: che è quanto Anselmo cerca programmaticamente di evitare nel suo capolavoro. 25  Come afferma Aristotele, infatti, «Non è  necessario che uno ammetta veramente tutto ciò che dice»: cfr. ibid., IV, 3, 1005b25-26. 26 Cfr. F. Tomatis, L’argomento ontologico. L’esistenza di Dio da Anselmo a Schelling, Roma 1997 (Idee, 111), p. 24: «L’insipiente pensa Dio come non esistente; quindi, pur come non esistente, lo pensa. Ma, pensando Dio, non può non pensarlo esistente, quindi lo ha già pensato come esistente nel momento stesso in cui lo pensa come non esistente. Per questo costui è un insipiente, poiché nel pensare a qualcosa non pensa davvero a quel qualcosa a cui pensa. L’insipiente ha l’idea di Dio nel proprio intelletto, ma ce l’ha come una mera parola scritta o pronunciata che non viene compresa nel suo significato effettivo, altrimenti dovrebbe pensarlo come esistente. L’insipiente, quando pronuncia la parola Dio, difatti usa un semplice termine, emette un suono, ma non intellige davvero quella che è l’idea di Dio, vale a dire ciò che non può essere pensato come non esistente». 27  Cfr. Aristoteles, Metaphysica, IV, 4, 1006a14-15. È anche il caso di ricordare come Aristotele, con felicissima prossimità semantica rispetto ad Anselmo, indichi proprio nell’ἀπαιδευσία la causa principale dell’ignoranza del negatore del principio di non contraddizione: cfr. ibid., 1006a5-8. L’insipiens non è «lo stolto», come troppo spesso si tende a tradurre, ma «colui che non sa». A riprova, il termine stultus viene esplicitamente usato nella risposta a Gaunilone, riferito a colui che, solo per il  fatto di  aver compreso la  definizione (descriptio) di  «isola perduta», passasse senz’altro ad affermarne l’esistenza in re. Cfr. Responsio, 5, 256A, pp. 135, 31 - 136, 2: «Vides ergo, quam recte me comparasti stulto illi, qui hoc solo quod descripta intelligeretur, perditam insulam esse vellet asserere?», dove la stultitia è implicitamente tripla: oltre a pensare l’assertio esplicitata nel testo, essa consta nel pensare che Dio sia sullo stesso piano degli enti, compreso ovviamente l’ente maius omnibus, e  che l’argumentum scatti appunto in  considerazione del semplice essere, da parte di Dio, maius omnibus, e non già id quo maius cogitari nequit.

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Ricapitolando: l’infinità di Dio è richiesta, da un lato, dalla stessa definizione di omnitudo realitatis presente nell’elencticità dell’argumentum – non è infatti possibile che questo possegga tale proprietà, se non vi fosse in gioco al suo interno l’idea del verum esse di Dio intesa come la totalità dell’Essere – e, dall’altro, dalla stessa necessità di  superare l’impostazione agostiniana, boeziana e  già dello stesso Monologion, nelle quali Dio, in  qualità di  summum omnium quae sunt, era visto fondamentalmente come l’ultimo e non più superabile termine della serie degli enti 28. Q uesta articolazione del senso dell’infinità, la  quale è  insieme totalità del­ l’Essere 29 e trascendenza (cioè superamento dell’ordine e fuoriuscita dalla serie), si ritrova massimamente esplicitata nel decisivo capitolo XV del Proslogion, là dove Anselmo mostra che l’esi­ stenza necessaria dell’id quo maius implica che tale ente sia anche il quiddam maius. Se è possibile pensare che vi sia un ente di cui non si può pensare il maggiore, allora esso è anche ciò che è maggiore di ogni pensabile, altrimenti la prima proposizione – che noi sappiamo però essere necessaria – non sarebbe realmente posta 30. 28  È facile vedere come le  obiezioni di  Gaunilone ricadano ancora all’interno di  un equivoco di  questo tipo: egli infatti obietta, cosa peraltro in  sé del tutto corretta, che la  posizione, all’interno di  una serie, di  un termine x come termine ultimo della serie stessa non conduce in  alcun modo all’affermazione necessaria dell’insuperabilità di  quel termine in  quella serie, e  quindi all’esistenza necessaria di  x. Anselmo ribatte con degli esempi volti a  mostrare come Dio sia totalità, intesa non come mera sommatoria di parti (nel tempo e non): cfr. Responsio, 1, 250A-251A, pp. 131, 18 - 132, 2. La confutazione decisiva, stavolta condotta direttamente e senza l’ausilio di esempi, arriva al § 5, allorquando Anselmo esclude apertis verbis che l’id quo maius sia il maius omnibus quae sunt: cfr.  ibid.,  5,  254BC, p.  134,  24-30: «Saepe repetis me dicere, quia quod est maius omnibus est in intellectu, si est in intellectu est et in re – aliter enim omnibus maius non esset omnibus maius –: nusquam in omnibus dictis meis invenitur talis probatio. Non enim idem valet quod dicitur ‘maius omnibus’ et ‘quo maius cogitari nequit’, ad probandum quia est in  re quod dicitur. Si quis enim dicat ‘quo maius cogitari non possit’ non esse aliquid in re aut posse non esse aut vel non esse posse cogitari, facile refelli potest». 29 Cfr. Proslogion, 5, 229C, p. 104, 16: «Tu [Deus] es itaque iustus, verax, beatus, et quidquid melius est esse quam non esse»; ibid., 11, 234A, p. 110, 1-3: «Sic ergo vere es sensibilis, omnipotens, misericors et impassibilis, quemadmodum vivens, sapiens, bonus, beatus, aeternus, et quidquid melius est esse quam non esse». Dio è tutto ciò che è meglio essere che non essere, ossia è la totalità del positivo. 30 Cfr. ibid., 15, 235C, p. 112, 14-17: «Ergo domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit. Q uoniam namque

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È in questo modo soltanto che si realizza «la cifra più autentica» del Proslogion: l’affermazione della «fiducia più completa nella assolutezza degli argomenti, accompagnata dalla convinzione che la verità è inesauribile» 31.

valet cogitari esse aliquid hiuiusmodi: si tu non es hoc ipsum, potest cogitari aliquid maius te; quod fieri nequit». 31  I. Sciuto, Introduzione al Proslogion, in Anselmo d’Aosta, Monologio e Proslogio, a c. di I. Sciuto, Milano 2002 (Testi a fronte, 56), [pp. 233-302], p. 247.

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UNA LETTURA MONASTICA DEL CUR DEUS HOMO: INDAGINE SUI PRESUPPOSTI DEL METODO ANSELMIANO

1. L’orizzonte metodologico e una lettura monastica del Cur Deus homo La prospettiva ermeneutica entro cui collocare la ricerca per poter descrivere una lettura monastica del Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta potrebbe svolgersi in  vari orizzonti, dal metodologico al  tematico, dal lessicale al  semantico. Focalizzerò l’attenzione sulla prima prospettiva evocata, ritenendola fondamentale, lasciando sullo sfondo le altre tre. Per comprendere il  metodo anselmiano nel Cur Deus homo certamente la Praefatio dell’opera costituisce una chiave di lettura significativa. Ne cito un momento saliente: Q uorum [scil. duos libellos] prior quidem infidelium Christianam fidem, quia rationi putat illam repugnare respuentium continet obiectiones et fidelium responsiones. Ac tandem remoto Christo, quasi numquam aliquid fuerit de illo, probat rationibus necessariis esse impossibile ullum hominem salvari sine illo. In secundo autem libro similiter quasi nihil sciatur de  Christo, monstratur non minus aperta ratione et veritate naturam humanam ad hoc institutam esse, ut aliquando immortalitate beata totus homo, id est in  corpore et anima, frueretur; ac necesse esse ut fiat de homine propter quod factus est, sed non nisi per hominem-deum; atque ex necessitate omnia quae de Christo credimus fieri oportere 1.

1  Cur Deus homo, Praefatio, 361A-362A, pp. 42, 9 - 43, 3 (tr. it., Roma 2007, p. 77).

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 249-264 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112920

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L’orizzonte metodologico a livello teologico scelto da Anselmo si pone nell’esplicita astrazione da Cristo («remoto Christo, quasi numquam aliquid fuerit de illo») per poi provarne la  necessità attraverso cui poter rendere possibile la salvezza dell’uomo, altrimenti impossibile («probat rationibus necessariis esse impossibile ullum hominem salvari sine illo»). Da questa breve ma incisiva premessa metodologica, perseguita in tutto lo scritto anselmiano, discendono due ulteriori e fondamentali considerazioni che non giustificherebbero alcuna lettura monastica del Cur Deus homo. Infatti, la  struttura complessiva dell’argomentazione  –  oltre al  metodo teologico di  astrazione dall’evento di  Cristo (remoto Christo)  –  rivela, necessariamente legato alla premessa metodologico-teologica, un sistema logico stringente (ratio necessaria), come in  tutti i  trattati dell’autore. I  due versanti metodologici del Cur Deus homo, l’astrazione teologica da  Cristo (remoto Christo) e  l’indagine strettamente logico-razionale (ratio necessaria), non costituiscono due prospettive entro cui collocare una sensibilità monastica, specie benedettina 2 – esplicitamente cristocentrica e fondata sulla fede – a cui Anselmo appartiene 3. Si rende necessaria, quindi, una lettura articolata dell’opera anselmiana in questione per individuarne aspetti che rimandino a uno sfondo monastico.

2. La premessa teologica e metodologica del Cur Deus homo 2.1. Il  percorso anselmiano nell’opera e  la portata della premessa teologica del remoto Christo.  –  La domanda a  cui si intende rispondere è  la seguente: quale portata ha la  premessa teologica del remoto Christo? Guardando più da  vicino l’articolazione del percorso anselmiano, il nostro autore, schematicamente, propone un’argomentazione in due momenti: il primo antropologico e il secondo cristologico. 2 Per una sintesi in  chiave storica della sensibilità monastica, rimando a R. Nardin, s. v. La spiritualità monastica, in Dizionario critico di teologica, éd. J.-Y. Lacoste, ed. it. a c. di P. Coda, Roma 2005, coll. 876-882, poi in R. Nardin – A. Simón, La vita benedettina, Roma 2009, pp. 141-168. 3 Cfr. J. Leclerq , Regards monastiques sur le Christ au Moyen Âge, Paris 1993, su Anselmo in partic. pp. 178-182 (tr. it., Cinisello Balsamo 1994, pp. 152-155).

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UNA LETTURA MONASTICA DEL CUR DEUS HOMO

Nel primo momento possiamo individuare due sezioni: una antropologico-analitica e una sintetica. In quella analitica (capitoli 11-25 del primo libro) Anselmo analizza la condizione dell’umanità peccatrice davanti a  Dio. L’aspirazione naturale dell’uomo alla beatitudine (beatitudo) trova nel peccato – paragonato a un furto (rapere, auferre)  –  il limite invalicabile che impedisce, alla radice, la  realizzazione di  quell’aspirazione. Il  peccato è  un’ingiuria (iniuria et contumelia) con cui si offende Dio, che altera l’ordine (ordo) dell’universo voluto da  Dio stesso, e  solo Dio può ricostituire quell’ordine. L’uomo dovrebbe restituire (reddere) a Dio ciò che gli ha tolto (debitum) e così ristabilire il suo onore (honor). Astraendo da  Cristo (remoto Christo), il  duplice problema dell’aspi­razione alla beatitudine intrinsecamente legata all’umanità, come suo fine voluto da Dio, ma irrealizzabile, e la ricostituzione dell’ordine dell’universo, non trova soluzione. È da questa analisi che conduce a un vicolo chiuso che il nostro autore propone l’ipo­tesi della salvezza in Cristo (capitolo 25 del primo libro). Nella sezione antropologico-sintetica (capitoli 1-5 del secondo libro) Anselmo ricorda la  destinazione umana alla beatitudine e, da  un lato, come il  peccato dell’uomo abbia reso impossibile questo piano divino originario, dall’altro, come Dio stesso non lascerà che il suo piano non si realizzi. Anche nel secondo momento possiamo individuare due sezioni: una cristologica ed una soteriologica. Nella prima sezione del secondo momento (capitoli 6-13 del secondo libro) Anselmo coglie con quale modalità Dio potrà realizzare la beatitudine per l’uomo e  al tempo stesso mantenere le  esigenze della giustizia (iustitia) per le quali si invoca una soddisfazione (satisfactio) proporzionale al  peccato. L’opera del Dio-uomo (Deus-homo) sarà la  soddisfazione perfetta richiesta. Nella seconda sezione (capitoli 14-21 del secondo libro) il  nostro autore descrive gli effetti della morte redentrice del Dio-uomo. Si tratta della soteriologia o dell’antropologia colta nell’orizzonte di Cristo, che ci contrappone all’antropologia senza Cristo del primo momento. Alla conclusione dell’opera, Anselmo ribadisce che la  verità della dottrina cristiana è  fondata sulla totalità della Scrittura, e quanto detto sul perché del Dio-uomo attraverso un’impostazione di sola ratio, corrisponde a quanto la fides rivela su Cristo, Verbo incarnato (capitolo 22 del secondo libro). 251

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La struttura del Cur Deus homo che è stata appena presentata rivela una chiave di lettura fondamentale nel dialogo che Anselmo instaura con il  suo discepolo Bosone, figura costantemente presente in tutta l’opera. Infatti, in un primo tempo (capitoli 1-10 del primo libro), a detta del discepolo, Anselmo descrive ma non prova la  libertà (sponte) del Figlio di  fronte alla croce. Bosone, quindi, nel suo dialogo serrato con il maestro, non accoglie le conclusioni di  questa prima parte proprio perché non sono argomentate ma solo descritte, attraverso il semplice utilizzo della sacra Scrittura. Per il discepolo l’argomentazione di Anselmo è valida solo nella misura in cui è mostrata quella morte in croce attraverso la ratio e la necessitas 4. In altri termini, l’istanza del discepolo richiede che il maestro elabori un pensiero che non solo derivi e sia in armonia con la sacra Scrittura, ma mediante una riflessione (ratio), derivi e sia coerente a un percorso rigorosamente posto da argomentazioni dettate dalla logica (necessitas). Bosone, tuttavia, alla fine del primo libro, in un punto di svolta dell’opera, pone in evidenza che non intende stabilire la ratio come base della fides – togliendo le perplessità precedentemente avanzate solo attraverso una dimostrazione razionale – ma mostrare (ostendere) con la ratio la certezza che deriva dalla fides 5. Sono le  osservazioni critiche del discepolo che inducono Anselmo ad assumere come premessa fondamentale l’impostazione metodologica nella quale porre come dato previo e assoluto l’astrazione dall’evento di Cristo (remoto Christo), in una duplice prospettiva, ossia sia l’Incarnazione di  Dio (Dei incarnatio) sia ciò che viene detto di quell’uomo (quae de illo dicimus homine) 6. Potremmo dire, con una terminologia contemporanea, la  messa tra parentesi sia della cristologia dall’alto (Dei incarnatio), sia di quella dal basso (assumpto homine). La fondamentale premessa metodologico-teologica del remoto Christo è, quindi, la  risposta anselmiana in  chiave epistemologica all’istanza del discepolo, colta come pertinente. 4  Cfr. Cur Deus Homo, I, 10, 375B, p. 66, 19-20: «Mors illa rationabilis et necessaria monstrari possit». 5 Cfr. ibid., I, 25, 400B, p. 96, 6-7: «Non ad hoc veni ut auferas mihi fidei dubitationem, sed ut ostendas mihi certitudinis meae rationem». 6 Cfr. ibid., I, 10, 376A, p. 67, 12-13: «Ponamus ergo Dei incarnationem et quae de illo dicimus homine numquam fuisse; et constet inter nos hominem esse factum ad beatitudinem».

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Ci potremmo chiedere se tale risposta sia un acconsentire poco convinto e quasi obbligato dall’incalzare delle richieste del discepolo, oppure se corrisponda alla mens anselmiana. La  seconda domanda a cui dobbiamo rispondere, come già rilevato, è se una simile premessa di carattere epistemologico sia ancora inquadrabile in un orizzonte monastico. Alla prima domanda ho già cercato di rispondere altrove 7. Ora, riprendendo brevemente quelle considerazioni, senza entrare nelle osservazioni di  carattere metodologico relative al  senso dell’espres­sione anselmiana «remoto Christo» e sui destinatari dell’opera che ne orientano tale impostazione metodologica 8, basti qui ricordare che si tratta di un’astrazione che si potrebbe chiamare logica e  non ontologica, nel senso che il  nostro autore intende ignorare completamente l’evento cristologico come previa ipotesi di lavoro, quindi sul piano delle premesse logiche, ma non in riferimento alla personale adesione di fede a Cristo (fides ueste premesse metodologiche, inoltre, giustificano qua) 9. Q  in Anselmo la presenza di una mistica cristiana senza Cristo, perché si tratterebbe di un’assenza solo ipotetica e logica 10. 2.2. La  portata della premessa metodologica della ratio necessaria. – Un’ulteriore analisi relativa al metodo del Cur Deus homo è offerta dall’utilizzo della logica nella riflessione sulla fides. Come è  stato opportunamente osservato «i  due scogli che in  teologia Anselmo vuole evitare sono rappresentati dal giuoco intellettualistico (dialectici sophismata) e  dall’artificio retorico (rethorici colores)» 11. Il primo è stato evidenziato a proposito di Roscellino, in  cui l’uso errato della dialettica portava a  conclusioni teologiche non in armonia con la fides. Il secondo è colto nel dialogo con 7 Cfr. R. Nardin, Metafisica e rivelazione in Sant’Anselmo, in «Pontificia Academia Theologica», 5 (2006), pp. 341-363. 8   Ho già trattato del metodo di Anselmo nel Cur Deus homo in Id., Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta. Indagine storico-ermeneutica e orizzonte tri-prospettico di una cristologia, Roma 2002, pp. 213-246. 9 Cfr. Id., Metafisica e rivelazione cit., pp. 355-356. 10 Cfr. Id., Anselmo d’Aosta: una mistica senza Cristo?, in «Filosofia e teologia», 20 (2006), pp. 366-384. 11  C. Marabelli, Anselmo d’Aosta. Imago e ragione teologica nel De beatitudine perennis vitae, in Id., Medievali & Medievisti. Saggi su aspetti del Medioevo teologico e della sua interpretazione, Milano 2000, p. 49.

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Bosone, il  quale non riteneva valide le  iniziali argomentazioni del Cur Deus homo  –  definendole picturae  –  perché basate su parallelismi retorici 12 anche se fondate sulla sacra Scrittura e sui Padri 13. Da qui la necessità di un rigore logico nell’argomentare anselmiano in cui la valenza metafisica della ratio 14 garantisce una necessitas logica all’intelligere anche astraendo da  un presupposto esplicitamente biblico-patristico (rispondendo all’obiezione di Bosone). Q uesta ‘messa tra parentesi’ è legittima sul piano teologico in quanto da un lato la dialectica appartiene allo statuto formale della teologia (contro la prospettiva di Roscellino), e dall’altro l’astrazione è collocata solo sul piano logico e non ontologico, come già rilevato. Il metodo di Anselmo nel Cur Deus homo, in estrema sintesi, consiste nella deduzione di prove attraverso l’indagine della ratio, in cui il punto di partenza è costituito da assiomi variabili, i quali sono assiomi della fede. Infatti, partendo dal contenuto della fede, Anselmo verifica, con la ratio, che esso è legato da una coerenza logica intrinseca; oppure partendo dalla situazione dell’umanità peccatrice, ma destinata alla beatitudine, mostra attraverso un procedimento razionale che, senza Cristo, la  salvezza è  impossibile. Inoltre, per Anselmo, la coerenza interna della fede cristiana non solo esprime la possibilità logica dell’Incarnazione, ma la sua necessità 15, per cui l’Incarnazione del Figlio di Dio non è solo possibile come ipotesi perché rispetta le esigenze logiche della ratio, ma è necessaria perché si possa realizzare la salvezza dell’uomo 16. 12  È una questione sollevata da Bosone nel quarto capitolo del libro I, in cui esordisce affermando (Cur Deus Homo, I, 4, 365A, p. 51, 16): «Omnia haec pulchra et quasi picturae suscipienda sunt». «Picturae» è da intendersi qui come realtà non solida, infatti Bosone poco oltre afferma (ibid., 365A, p. 51, 20-21): «Nemo enim pingit in aqua vel in aëre, quia nulla ibi manent picturae vestigia». 13   Come rivela l’edizione critica di Schmitt (cfr. ibid., p. 51), il riferimento biblico posto qui da Anselmo è Rm 5, 12-19, mentre quelli patristici sono testi di Tertulliano, Ambrogio, Agostino e Leone Magno. 14   Sulla valenza metafisica della ratio in Anselmo rimando ancora a Nardin, Metafisica e rivelazione cit., in partic. pp. 356-360. 15 Cfr.  R. Roq ues, La  méthode de saint Anselme dans le  Cur Deus homo, in «Aquinas», 5 (1962), pp. 3-57, in partic. p. 52: «La fécondité logique de tels axiomes ne doit pas seulement ‘prouver’ leur possibilité, c’est-à-dire leur noncontradiction, mais bien leur réalité et leur nécessité». 16  Si tratta della necessitas non cogens o necessitas sequens; cfr. Cur Deus homo, II, 17, 421C-425B, pp. 122, 22 - 126, 19.

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La ragione, comunque, non aggiunge nulla alla fede, non la dimostra, ma la analizza e la mostra. René Roques ha trovato un suggestivo gioco linguistico per esprimere l’azione dell’intelligenza sulla fede nel Cur Deus homo in  quanto «l’intelligence ne démontre pas la foi, mais seulement la démonte» 17. Così Yves Cattin parla di un processo di «monstration» e non di «démonstration» 18. La ragione, allora, non è il fondamento della teologia di Anselmo, ma la  sua esposizione. L’argomentazione di  Anselmo consiste nell’analisi della fede per trovare, attraverso delle categorie teologiche, l’unità organica della fede stessa nel suo contenuto. Non la ratio ma la fides fonda l’intellectus fidei.

3. Una ratio monastica 3.1. Remoto Christo e  ratio: una correlazione monastica.  – La premessa teologica (remoto Christo) e  quella metodologica (ratio necessaria) sono correlate in  quanto la  prima determina la seconda. Ad una astrazione assoluta (remoto) da Cristo (ascendente e discendente sul piano logico, non ontologico, dei contenuti) corrisponde una valenza della ratio assoluta (necessaria). L’ampiezza del remoto Christo, però, non è  costante e  univoca, ma varia a seconda del destinatario con cui Anselmo si trova a dialogare. In un interlocutore non credente l’astrazione da Cristo sarà assoluta, non solo logica, ma anche ontologica, per usare la terminologia precedente, e di conseguenza la ratio dovrà essere solamente una concatenazione estremamente rigorosa di  argomentazioni (ratio necessaria) la  cui conclusione cristologica può essere accolta anche dal non credente come necessità o  almeno come ipotesi logica. Nel caso in cui l’interlocutore sia un credente, invece, l’astrazione da Cristo dovrà essere solo logica (astrazione dalla fides quae), non sarà ontologica (fede teologale), né esistenziale (fides qua), ossia avrà ricevuto in dono la fede in Cristo (fede teologale) ed essa diventerà adesione cosciente del soggetto (fides   Roq ues, La méthode de saint Anselme cit., p. 53.  Cfr. Y. Cattin, La preuve de Dieu. Introduction à la lecture du Proslogion de Anselme de Canterbury, Paris 1986, p. 207, espressione ripresa anche da I. Biffi, Preghiera e  teologia nelle «orazioni meditative» di  sant’Anselmo, in  Anselmo d’Aosta, Orazioni e  meditazioni, introd. di  B.  Ward  –  I.  Biffi  –  A.  Granata, Milano 1997, [pp. 31-64], p. 43. 17 18

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qua). Nel credente la ratio non potrà essere solo una concatenazione logica di argomentazioni, perché esse non dovranno servire solo a  ‘soddisfare’ l’astrazione logica da  Cristo, ma dovrà ‘soddisfare’ l’adesione cosciente a Cristo attraverso la fede ‘esistenziale’. La riduzione dell’ampiezza del remoto Christo (da logico e  ontologico del non credente al  solo logico del credente) ha portato come conseguenza l’ampiezza della ratio in rapporto alla fides (da una semplice concatenazione logica all’adesione dell’io). Potremmo dire che il  remoto Christo e  la ratio sono direttamente proporzionali o, similmente, che l’astrazione dall’evento di  Cristo si coniuga con la  sottolineatura della ratio necessaria (logica) quale lettura della fede, che diviene solo un contenuto (fides quae). Q uesta dinamica in cui si viene a modificare l’ampiezza del remoto Cristo è dovuta alla pluralità degli interlocutori del Cur Deus homo: dai monaci agli ebrei, fino ai musulmani 19. Il  metodo di  Anselmo nel Cur Deus homo, quindi, si potrebbe descrivere secondo l’espressione di  René Roques «méthode axiomatique» 20, nella duplice prospettiva ipotetico-deduttiva e categorico-deduttiva. Anselmo, infatti, inizia l’argomentazione da assiomi che sono comuni ai suoi interlocutori, ma senza esaurire l’ampiezza del credo. In un primo momento astrae da Cristo: l’argomentazione diviene così ipotetica per il  credente, il  quale crede in Cristo, e categorica per il non credente, il quale non ci crede. Nel secondo momento il  Cur Deus homo ammette Cristo ma l’argomentazione diviene ipotetica per il  non credente, il quale non ci crede, e categorica per il credente, il quale invece ci crede. Da queste premesse comuni scaturisce il percorso con cui mostrare, attraverso l’indagine della ratio, la necessità del Cristo della fede. In  questo modo, partendo dal contenuto della fides, anche se parziale, Anselmo verifica, con la ratio, che tale contenuto è legato da una coerenza logica intrinseca. Da quanto rilevato sino a  ora si pone una prima conclusione in ordine alla comprensione della valenza monastica del Cur Deus homo. Il  remoto Christo, che costituisce la  maggiore obiezione 19  Sui destinatari del Cur Deus homo ho già trattato in Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta cit., pp. 81-107. 20 R.  Roq ues, Introduction, in  Anselme de  Canterbury, Pourquoi Dieu s’est fait homme, a  c. di  R.  Roques, Paris 1963 (Sources chrétiennes, 91), [pp. 9-192], p. 84.

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a una prospettiva monastica dell’opera anselmiana, non solo non esprime l’annullamento della tematica cristologica, chiaramente evocata da Anselmo già nello stesso titolo dell’opera, ma nemmeno diviene la messa tra parentesi della prospettiva cristologica esistenziale – in cui Anselmo aderisce a Cristo con la fede (fides qua) – pur astraendone logicamente nella prima parte del suo lavoro. Anche per i  destinatari dell’opera anselmiana, siano essi credenti o non credenti, l’orizzonte cristologico è esplicito dal punto di vista tematico, pur divenendo una semplice ipotesi previa e, successivamente, una conclusione logica per i non credenti. A questo proposito, diversa è la situazione nei precedenti due trattati ‘maggiori’ di Anselmo, il Monologion e il Proslogion, nei quali l’astrazione da Cristo non solo era metodologica, come per il Cur Deus homo, ma anche contenutistica. Dopo avere verificato che la premessa teologica (remoto Christo) non compromette l’orizzonte monastico (ossia cristologico-esistenziale) del Cur Deus homo, occorre ora analizzare l’altra premessa, quella metodologica (ratio necessaria). 3.2. L’intellectus nel Cur Deus homo. – La ratio necessaria, come osservato, è caratterizzata dall’indagine logica sul contenuto della fede. Si tratta dello strumento comune tra credenti e  non credenti e permette di mostrare in modo rigoroso la fondatezza delle argomentazioni teologiche anche astraendo dall’evento di Cristo (remoto Christo). Anselmo, però, nella sua indagine, non si limita alla ratio necessaria. È lo stesso arcivescovo di Canterbury che lo rileva nella lettera di  presentazione del Cur Deus homo inviata al Papa Urbano II. Ne riporto un passo significativo: Denique quoniam inter fidem et speciem, intellectum quem in hac vita capimus esse medium intelligo: quanto aliquis ad illum proficit, tanto eum propinquare speciei, ad quam omnes anhelamus, existimo 21.

Nella prospettiva enunciata programmaticamente da  Anselmo, l’intellectus occupa un posto intermedio tra la  fede e  la visione (inter fidem et speciem) e quanto più il soggetto progredisce (proficit) 21  Cur Deus homo, Commendatio operis ad Urbanum papam 261A, p. 40, 10-12 (tr. it., p. 76).

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tanto più si avvicina (propinquare) alla visione (species). L’intellectus è quindi descritto attraverso un dinamismo di progressivo avvicinamento alla visio 22. Proseguendo le intuizioni di Henri de Lubac 23 e di Hans Urs von Balthasar 24 – per i quali si descrivono due orizzonti di lettura dell’intellectus, identificato con la  ratio se considera la  fede nel suo contenuto oggettivo, oppure con la  contemplatio se si pone sul piano esistenziale – è possibile comprendere l’intellectus anselmiano in un triplice livello che schematicamente propongo. Il primo livello è  caratterizzato dal rapporto tra l’intellectus e  la  fides nel suo contenuto oggettivo (fides quae). L’intellectus è  identificato con la  ratio necessaria (indagine logica) e  la fede diventa un semplice ‘dato’. In questo livello l’intellectus ha come unica legge la  dialectica (logica) di  cui Anselmo è  stato maestro nella scuola del Bec. Il secondo livello considera l’intellectus in  cui il  soggetto si  pone sulla prospettiva esistenziale in  rapporto alla fede (fides qua). In questo livello la ratio chiede l’adesione alla fede da parte del soggetto che crede. È questa propriamente la ratio monastica. Il remoto Christo, come rilevato, per Anselmo e per il credente a cui si rivolge, astrae l’evento di Cristo a livello logico, ossia al primo livello dell’intellectus, non al secondo, al piano esistenziale. Il terzo livello considera l’intellectus in rapporto con la species, ossia con il compimento della fides. Si tratta della Veritas, scorta dal credente che vive intensamente l’esperienza della fede nell’appartenenza a Cristo e la ratio, nell’accostarsi alla Veritas, diventa mistica ed escatologica. A questo livello, sul piano storico, appartiene propriamente ciò che ho descritto come fede ontologica. 22   Q uesto dinamismo di continua crescita verso la pienezza, si trova espresso in una forma intensa alla fine del Proslogion, 26, 242B, p. 121, 14-18: «Oro, deus, cognoscam te, amen te, ut gaudeam de te. Et si non possum in hac vita ad plenum, vel proficiam in dies usque dum veniat illud ad plenum. Proficiat hic in me notitia tui, et ibi fiat plena; crescat amor tuus, et ibi sit plenus: ut hic gaudium meum sit in spe magnum, et ibi sit in re plenum» (tr. it., Milano 2002, p. 359). 23 Cfr. H. de Lubac, Sur le chapitre XIVe du Proslogion, in Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec (Abbaye Notre-Dame du Bec), Paris 1959, pp. 295-312, qui p. 307. 24 Cfr. H. U. von Balthasar, Anselm, in Herrlichkeit. Eine Theologische Ästhetik, II.1, Fächer der stile: Klerikale stile, Einsiedeln 1962, pp. 213-263, qui p. 221 (tr. it., Anselmo, in Id., Gloria. Una estetica teologica, vol. 2, Stili ecclesiastici, Milano 1971, pp. 189-234, qui p. 195).

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I tre livelli dell’intellectus potremmo chiamarli: ratio necessaria, ratio contemplationis e ratio veritatis 25 a cui corrisponde la fede logica (come contenuto, fides quae), la fede esistenziale (come adesione, fides qua) e la fede ontologica (come appartenenza radicale a Dio che avrà il suo compimento nell’ἔσχατον). 3.3. Una ratio monastica nell’orizzonte della communio.  – Lo studio dell’intellectus in  Anselmo porta alla conclusione che nel monaco del Bec, poi arcivescovo di Canterbury, convivono due valenze dipendenti, naturalmente, dalla sua formazione umana, spirituale e  intellettuale: l’orizzonte monastico e  la dimensione dialettica. La valenza logica o dialettica del Cur Deus homo coincide con la ratio necessaria, già illustrata. Si tratta ora di focalizzare ulteriormente la dimensione monastica. Una lettura attenta del testo anselmiano rivela un ventaglio molteplice di  aspetti che risentono della sensibilità tipica della tradizione monastica, ampiamente presenti anche nella Regula Sancti Benedicti. Possiamo evidenziare schematicamente tre aspetti monastici del Cur Deus homo che sono già stati evocati: la priorità della fede in un quadro cristologico, l’importanza della sacra Scrittura e quella dei Padri. L’attenzione all’orizzonte della fede in  chiave cristologica, come visto, è dato in quanto punto di partenza dell’indagine della ratio. Si tratta di una prospettiva mai abbandonata da Anselmo, anche quando astrae dall’evento di Cristo, perché viene posto tra parentesi solo logicamente. La rilevanza biblica è riscontrabile per la presenza di abbondanti riferimenti scritturistici nei primi dieci capitoli del primo libro. Ne risulta l’orizzonte implicito del trattato in quanto è dalla sacra Scrittura che Anselmo trae i presupposti tematici comuni ai suoi interlocutori, presupposti che saranno oggetto della ratio. La rilevanza dei Padri, soprattutto Agostino, è  ben evidenziata dall’edizione critica. Dal testo emergono anche atteggiamenti vitali che caratterizzano una sensibilità che potremmo descrivere come monastica. In  particolare: il  valore della communio, l’importanza della preghiera e dell’invocazione di Dio, l’obbedienza e l’umiltà 26. 25  Ho proposto più distesamente i tre livelli in Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 8), pp. 249-287. 26  Si tratta di aspetti ampiamente presenti nella Regula Sancti Benedicti; la preghiera, l’obbedienza e l’umiltà, anche con capitoli specifici. Inoltre, nell’impor-

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Per la communio è significativo rilevare che sono multi a chiedere con insistenza ad Anselmo il trattato riguardante una certa questione della fede e alla quale il nostro autore è solito offrire una risposta, come lo stesso Anselmo rileva all’inizio dell’opera: Saepe et studiosissime a multis rogatus sum et verbis et litteris, quatenus cuiusdam de fide nostra quaestionis rationes, quas soleo respondere quaerentibus, memoriae scribendo commendem 27.

Il Cur Deus homo, quindi, nasce a seguito di una esplicita e insistente richiesta dei primi interlocutori, con ogni probabilità gli studenti frequentanti la  scuola teologica del Bec, soprattutto monaci e  chierici, per cui la  communio segna, in  questo modo, la genesi dell’opera. Inoltre, con la presenza dialogica di Bosone lungo tutto il trattato e con il quale si determina la fondamentale svolta ermeneutica, come visto, del remoto Christo, la communio diviene un elemento centrale nell’ambito del metodo perseguito dal nostro autore. Occorre rilevare che Bosone non è solamente l’interlocutore privilegiato di  Anselmo, ma, in  qualche modo, il rappresentante dei multi che chiedono il trattato 28. Una communio, quindi, non declinata in senso duale ma come espressione di una communitas, in primis quella della schola monastica di cui Anselmo fa parte quale magister. Non solo. Già nel secondo capitolo del libro I, dal titolo «Q uomodo accipienda sint quae dicenda sunt», quindi un luogo in cui si tratta una questione fondamentale, il nostro autore afferma un importante principio: Q uoniam video importunitatem tuam et illorum qui hoc tecum ex caritate et religioso studio petunt, tentabo pro mea possibilitate, Deo adiuvante et vestris orationibus, quas hoc

tante capitolo 58 della Regula, nel descrivere i criteri che il maestro deve seguire nel discernimento per l’ammissione al noviziato monastico, vi è la significativa terna opus Dei (ossia la preghiera liturgica), oboedientia, opprobria (quest’ultima strettamente legata all’umiltà che la rende possibile). Cfr. Benedictus Nursinus, Regula, 58, PL 66, [215-932], 803D-804C, ed. R. Hanslik, Wien 1960 (19772) (CSEL, 75), p. 147: il candidato alla vita monastica, sia ammesso «si revera deum quaerit, si sollicitus est ad opus dei, ad oboedientiam, ad opprobria». 27  Cur Deus homo, I, 1, 361B, p. 47, 5-7 (tr. it., p. 81). 28  Bosone in più occasioni afferma di chiedere delle spiegazioni «mihi et hoc ipsum mecum petentibus»: cfr. ibid., I, 1, 363C, p. 49, 26; II, 16, 421B, p. 122, 19.

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postulantes saepe mihi petenti ad hoc ipsum promisistis, quod quaeritis non tam ostendere quam tecum quaerere 29.

Q uesto passo del Cur Deus homo racchiude una densa valenza metodologica che ben sintetizza l’impostazione che potremmo chiamare monastica, caratterizzata dalla communio nel senso orizzontale (con i  fratelli) e  verticale (con Dio) e  dall’umile obbedienza (potremmo chiamarla rectitudo o debere). Il primo elemento che emerge nella communio descritta da  Anselmo, è  che essa ha ancora in  Bosone il  suo rappresentante concreto ed è caratterizzata dall’insistenza (importunitas) e dallo zelo (studium) con cui si reclama lo scritto anselmiano. Non una communio neutra e  distaccata, quindi, ma coinvolta e sollecita. Dal punto di vista di Anselmo si evidenzia l’impegno con cui il nostro autore intende assolvere alla richiesta, ossia utilizzando appieno le  proprie capacità (pro mea possibilitate). Tuttavia, lo stesso autore ha l’umile consapevolezza di essere inadeguato al  compito (tentabo), la  cui riuscita è  condizionata dall’aiuto divino (Deo adiuvante) e  dalle preghiere (orationes) della communio. Le preghiere furono promesse proprio perché Anselmo potesse argomentare sulla necessità dell’Incarnazione (ad hoc ipsum promisistis). È il nostro autore che chiese l’aiuto della preghiera a coloro i quali spesso gli domandavano chiarificazioni su questo argomento (quas hoc postulantes saepe mihi petenti). L’ultima osservazione è  ancora su Anselmo, sulla modalità interiore con cui si accinge all’impresa: egli non pretende di mostrare (non tam ostendere) ciò che gli viene richiesto (quod quaeritis), ma di cercare la verità nella communio con il discepolo (tecum quaerere). Si tratta di  una communio, quindi, che non solo propone la tematica da affrontare (de fide nostra quaestionis) e ne definisce la metodologia (remoto Christo), ma accompagna lo sviluppo della stessa ricerca. La communio, tuttavia, non sarebbe sufficiente se non vi fosse una fondazione teologica in  cui Dio non è  un semplice oggetto della Rivelazione, la quale, a sua volta, verrebbe indagata dalla ratio, ma è  il soggetto che si rivela, è  la Rivelazione, per cui Anselmo   Ibid., I, 2, 363C, p. 50, 3-6 (tr. it., p. 84).

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potrà dire sinteticamente «quod Deus mihi dignabitur aperire, petentibus ostendere» 30. Sul versante ‘verticale’ della communio, ossia sull’importanza della preghiera e dell’aiuto di Dio nel Cur Deus homo ho già riferito altrove 31, basti qui rilevare che nei passaggi fondamentali del procedere dell’argomentazione Anselmo invoca l’aiuto di  Dio e chiede esplicitamente preghiere ai suoi interlocutori. Sull’obbedienza, infine, un passo del Cur Deus homo ci permette di chiarirne i risvolti: Q uae cum vult quod debet, Deum honorat; non quia illi aliquid confert, sed quia sponte se eius voluntati et dispositioni subdit, et in  rerum universitate ordinem suum et eiusdem universitatis pulchritudinem, quantum in ipsa est, servat 32.

Il debere della natura razionale, potremmo dire la  sua rectitudo, consiste nell’onorare Dio. Si tratta, però, non semplicemente nel dargli ciò che gli si deve, ma nel voler dargli ciò che gli si deve. Da questo volere della creatura discendono due importanti conseguenze: la creatura si sottomette (subdit) a Dio in modo libero (sponte) e  mantiene (servat) il  proprio posto all’interno dell’armonia e  della bellezza dell’universo (in rerum universitate ordinem suum et eiusdem universitatis pulchritudinem). L’obbedienza monastica descritta dalla Regula Sancti Benedicti si configura, analogamente ad Anselmo, nella prospettiva della spontaneità (evidenziata dall’immediatezza dell’esecuzione) del monaco, coinvolgente la  volontà libera del soggetto (sottolineata dall’assenza di mormorazioni del cuore) 33 e non la forzata coercizione, come del resto Anselmo ha mostrato nel suo servizio abbaziale 34.   Ibid., I, 1, 362B, p. 48, 10-11 (tr. it., p. 82).  Cfr.  R. Nardin, L’aiuto divino e  la preghiera in  Anselmo d’Aosta. La prospettiva del Cur Deus homo, in Sanctitatis Causae. Motivi di santità e cause di canonizzazione di alcuni maestri medioevali, ed. M. M. Rossi – T. Rossi, Roma 2009, pp. 83-97. 32  Cur Deus homo, I, 15, 380B, p. 73, 3-6 (tr. it., p. 107). 33  Si veda in proposito il capitolo 5, (in particolare i versetti 1, 4, 8, 14, 16-19) dal titolo De oboedientia, della Regula Sancti Benedicti: Benedictus Nursinus, Regula, 5, 349B-350C, ed. R. Hanslik cit., pp. 38-41. 34   È stato posto in luce, in un significativo convegno anselmiano, che l’abate di  Bec si è  caratterizzato per una impostazione educativa in  cui la  personale modalità formatrice era centrata nella dolcezza e  non nella forza. Per una sintesi sul convegno sopra citato, cfr.  R.  Nardin, Anselmo d’Aosta educatore 30 31

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4. Conclusione L’indagine appena conclusa è  stata segnata da  tre ordini di domande, così sintetizzabili: quale valore ha la premessa teologica, ossia l’astrazione definita come remoto Christo? Q uale portata presenta la premessa metodologica, ossia l’indagine attraverso la  ratio necessaria? Q uale rilevanza offre il  contesto esistenziale di Anselmo la cui eco è presente nel suo scritto? La prima domanda ha permesso, innanzitutto e  preliminarmente, di  evidenziare come l’esplicita premessa teologica del remoto Christo non costituisca, come potrebbe sembrare, una evidente negazione, in radice, di qualunque prospettiva monastica, vista l’essenziale ed esplicita dimensione cristologica di quest’ultima. Lo studio del metodo del Cur Deus homo, infatti, ha mostrato come Anselmo ponga una astrazione da  Cristo logica e non ontologica, in cui è ignorato completamente l’evento cristologico come previa ipotesi di  lavoro, quindi sul piano delle premesse logiche, ma non in riferimento alla personale adesione di fede a Cristo. Q uesta impostazione permette che sia rimossa, in un primo tempo, la valenza cristologica solo dal punto di vista logico (come ipotesi), rimanendo, però, nella realtà esperienziale e radicale (ontologica) in rapporto all’autore e ai destinatari (principali). Una volta appurato il  permanere dell’orizzonte cristologico, elemento fondante del monachesimo cristiano e  benedettino in  particolare, a  cui Anselmo appartiene, la  successiva ricerca ha cercato di  rispondere alla seconda domanda, la  valenza della premessa metodologica, la ratio necessaria. Ne è emersa non solo la piena legittimità della ratio in ordine all’indagine sulla fides, ma l’inclusione della ratio nello statuto formale della teologia. Inoltre, l’indagine sulla ratio ha mostrato come essa si debba comprendere all’interno di un continuo dinamismo di avvicinamento alla veritas, in una visione triprospettica in cui dalla dimensione strettamente ‘razionale’, logica, si passa a  una valenza contemeuropeo. Nota in margine al Convegno Internazionale di Studi anselmiani svoltosi a Saint-Vincent il 7-8 maggio 2002, in «Rassegna di Teologia», 44/4 (2003/4), pp.  591-600. Rimando soprattutto agli Atti del convegno: Anselmo d’Aosta educatore europeo, Convegno di studi (Saint-Vincent, 7-8 Maggio 2002), a cura di I. Biffi – C. Marabelli – S. M. Malaspina, Milano 2003.

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plativa e sapienziale fino a quella mistica ed escatologica. La ratio contemplationis così evidenziata esprime propriamente ciò che potremmo chiamare ratio monastica. La risposta alla terza domanda ha cercato di individuare alcuni aspetti descrivibili come appartenenti ad una sensibilità monastica a partire da delimitati passi del Cur Deus homo. Sono emersi la communio (i multi e Bosone) la preghiera e l’invocazione di Dio, l’obbedienza e l’umiltà. In una prospettiva sintetica, si tratta della communio (orizzontale, con gli uomini, e verticale, da/con Dio) e del debere (rectitudo), entrambi descrivibili come aspetti che presentano il  loro retroterra monastico, in  particolare nella Regula Sancti Benedicti, ben conosciuta dal monaco e abate Anselmo. Le tre domande iniziali, in  definitiva, mostrano come una lettura monastica del Cur Deus homo sia non solo legittima, ma anche proficua e inaspettatamente ricca.

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Vorrei introdurre questa mia riflessione richiamando un episodio, particolarmente significativo, avvenuto nella vita di Anselmo e  tramandato dal biografo Eadmero. Si tratta di  un sogno, che Anselmo stesso amava raccontare, fatto da bambino, in cui doveva salire sulla cima di  una montagna e  affrettarsi verso la  corte del gran re 1. Eadmero introduce l’episodio in termini alquanto suggestivi: siccome era un fanciullo cresciuto tra le montagne, «audito unum Deum sursum in caelo esse, omnia regentem, omnia continentem, suspicatus est caelum montibus incumbere, in  quo et aulam Dei esse, eamque per montes adiri posse» 2. Q uesto sogno, commenta la  studiosa Benedicta Ward, getta una luce particolare sul pensiero e  sul­l’esperienza spirituale di Anselmo: Il sincero desiderio di Dio, che informa il successivo pensiero di  Anselmo, è  chiaramente già qui.  (…) L’immagine del­ l’asce­sa, dello sforzo verso l’alto, del desiderio di un altro regno non è semplicemente un’immagine naturale, ma un’immagine amplificata e  dilatata dalla Bibbia e  dai Padri della Chiesa. Essa rimase nella teologia di Anselmo e nella sua devozione, ma mutò col suo pensiero, le sue letture, la sua crescita 3.

1 Cfr. Eadmerus Cantuariensis, Vita Sancti Anselmi archiepiscopi Cantuariensis, I, 1, PL 158, [49-118], 50B-51B, ed. R. W. Southern, Edinburgh 1962 (Nelson’s Medieval Texts) (repr. Oxford 1972), p. 4 (tr. it., Milano 2009, p. 21). 2  Ibidem. 3   B. Ward, Le ‘Orazioni e Meditazioni’ di Sant’Anselmo, in Anselmo d’Aosta figura europea, Atti del Convegno di  Studi (Aosta, 1-2 marzo 1988), a  c. di

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 265-292 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112921

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C’è infatti, in Anselmo, uno stretto legame tra teologia e devozione, riflessione ed esperienza spirituale: lo sfondo su cui la riflessione teologica si innalza è l’esperienza spirituale; vita e preghiera per Anselmo erano una cosa sola, tanto che ci si può accostare alla sua teologia anche attraverso le Orationes sive Meditationes 4. In particolare, la sintesi più compiuta della sua riflessione su Cristo si trova nella Meditatio redemptionis humanae 5, che traduce in  preghiera la  teologia della redenzione elaborata concettualmente nel Cur Deus homo 6. Nella storia della teologia si è comunemente portati a contrapporre, sul piano della riflessione sul­l’Incarnazione, due orientamenti: quello che mette al centro il peccato, considerato il motivo di  fondo del­l’Incarnazione, e  quello cristocentrico, secondo cui Cristo si sarebbe incarnato ugualmente, essendo stato comunque predestinato. I teologi fanno risalire l’articolazione più compiuta della prima tesi ad Anselmo d’Aosta, l’elaborazione della seconda al francescano Giovanni Duns Scoto (1265/66-1308), nella convinzione che tra le  due prospettive non possa esserci incontro e  integrazione 7. Q uesto mio intervento propone una sintesi interpretativa che tenta di  considerare il  trattato cristologico di Anselmo, il Cur Deus homo, in un’ottica più ampia, cercando di individuare un punto di incontro con la prospettiva cristocentrica. In pratica metterò a confronto l’opuscolo anselmiano con alcune tesi di Duns Scoto, significativo interprete del cristocentrismo 8: I. Biffi – C. Marabelli, Milano 1989 (Di fronte e attraverso. Biblioteca di cultura medievale, 231), [pp. 93-101], pp. 94-96. 4  Sul rapporto tra preghiera e speculazione, cfr. Ead., Anselmo di Canterbury: maestro di  preghiera, in  Anselmo d’Aosta educatore europeo, Atti del Convegno di Studi (Saint-Vincent, 7-8 maggio 2002), a c. di I. Biffi – C. Marabelli – S. M. Malaspina, Milano 2003 (Di fronte e attraverso. Biblioteca di Cultura Medievale, 624), pp. 135-155. 5 Cfr. Meditatio redemptionis humanae, 762C-769B, pp. 84-91 (tr. it., Milano 1997, pp. 462-493). 6 Cfr. Cur Deus homo, pp. 37-133 (tr. it. a c. di A. Orazzo, Roma 2007 [Fonti medievali, 27]). 7  Cfr.  M. Serenthà, Gesù Cristo ieri, oggi e  sempre. Saggio di  cristologia, Torino 1982 (20056), pp. 256-259, 293-294, 348-350. 8  Secondo il dizionario teologico di Karl Rahner, ‘cristocentrismo’ significa porre Cristo al  centro della storia, della creazione e  della salvezza come condizione del­l’essere e del­l’ordine di ogni realtà: cfr. K. Rahner – H. Vorgrimler, Kleines theologisches Worterbuch, Freiburg i. Br. 1961, p. 75 (tr. it. a c. di G. Ghi-

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dopo una sintesi di entrambe le argomentazioni, cercherò di individuare alcuni elementi di riflessione a partire dai quali è possibile un incontro.

1. Credere e intelligere: una fede intelligente Uno studio analitico delle interpretazioni del Cur Deus homo mostra valutazioni contrastanti riconducibili a due orientamenti di  fondo: un primo orientamento tende a  evidenziare la  forte connotazione giuridica del­l’opuscolo, riducendone la portata teologica, con la  conseguenza di  rendere quest’opera difficilmente conciliabile con l’annuncio di  Dio come amore, proprio della rivelazione cristiana. Un’altra linea interpretativa, invece, sottolinea la priorità della prospettiva teologica, in cui l’amore libero di Dio per l’uomo è la coordinata di fondo attraverso cui leggere l’opuscolo, in armonia con l’eredità biblico-patristica 9. Effettivamente, nel confronto diretto con il testo, ciò che immediatamente attira l’attenzione è l’utilizzo di categorie che oggi sarebbero del tutto improponibili: l’ordine della giustizia, l’onore feudale, lo stretto formalismo giuridico, l’inesorabile necessità di una riparazione del­l’offesa provocata dal peccato; tale orizzonte semantico contrasta con la  nostra sensibilità e  non rispecchia il  cuore del­ l’insegnamento biblico. Tuttavia, andando oltre questo primo e  immediato livello di  approccio, si possono individuare aspetti più positivi e  fecondi: la  dimensione giuridico-penale, retaggio di una cultura e di un contesto storico ben preciso, risulta funzionale a una grande ricchezza teologica e morale, legata al­l’annuncio pasquale del mistero di Cristo 10. A partire da tale problematicità, è necessario precisare, prima di ogni altra considerazione, il senso del­l’intelligere e della ratio: berti – G. Ferretti, Roma – Brescia 1968, p. 165). Cfr. anche G. Moioli, s. v. Cristocentrismo, in Nuovo Dizionario di Teologia, a c. di G. Barbaglio – S. Dianich, Alba 1977, pp.  210-222. Sul­l’impostazione cristocentrica di  Duns Scoto e sui limiti di tale identificazione aggettivo e definizione, cfr. G. Iammarrone, La cristologia francescana. Impulsi per il presente, Padova 1997, pp. 271-279. 9  Un’accurata ricognizione di  tali interpretazioni si trova in  R.  Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta. Indagine storico-ermeneutica e orizzonte tri-prospettico di una cristologia, Roma 2002, pp. 31-39. 10 Cfr. ibid., p. 39.

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Anselmo considera l’intelligere come un’attività che non si oppone alla fede ma corrisponde al­l’autocomprendersi della fede stessa e fa parte della condizione storica del­l’uomo 11. Il pensare del credente scaturisce dalla dinamica stessa della fede nella misura in  cui questa viene accolta in  maniera autenticamente umana, passando attraverso il  confronto con l’intelligenza 12. Solo a partire da questo livello di comprensione il credente può aprirsi a un dialogo costruttivo con i non credenti 13. In tale contesto, anche l’ipotesi temeraria e azzardata, presente nel Cur Deus homo, di fare a meno della rivelazione storica su Cristo (remoto Christo) 14, è una condizione che consente al­l’intelligenza di percorrere un cammino, autonomo e rigoroso, di razionalità. L’assurdità cui conduce tale ipotesi, infatti, mette in luce che la salvezza offerta dal Dio-uomo risponde a criteri di razionalità, cioè di coerenza 15; nello stesso tempo, però, mostra l’eccedenza della salvezza rispetto alla logica umana, facendo emergere il carattere totalmente gratuito della Redenzione. La ragione riconosce infatti la convenienza e la necessità del­l’Incarnazione, tuttavia l’evento storico di  Cristo rimane indeducibile per via puramente razio11 Cfr.  A. Orazzo, Introduzione, in  Anselmo d’Aosta, Perché un Dio uomo? cit. (alla nota 6), [pp. 5-61], p. 27. 12 Cfr. Cur Deus homo, I, 1, 361B-363C, pp. 47-49 (tr. it., pp. 81-83). 13  Cfr. ibid., 4, 365AB, pp. 51-52 (tr. it., p. 86). 14 Cfr. ibid., 10, 376A, p. 67, 12-13 (tr. it., p. 101). 15 Cfr.  ibid.,  8,  369B, p.  59,  25 (tr.  it., p.  93): «Et sic nostrae fidei nulla ratio obviare cognoscitur». La razionalità del­l’Incarnazione deve essere tale che, anche a  prescindere inizialmente dalla realtà storica di  Cristo (remoto Christo), la  ragione arriva a  riconoscerne la  necessità e  convenienza attraverso un procedimento razionale. Secondo  C.  É. Viola, Anselmo d’Aosta. Fede e  ricerca del­ l’intelligenza, Milano 2000 (Eredità Medievale 16), p. 118, «questa formulazione metodologica è  senza dubbio la  più ardita della storia della teologia cristiana». Per essere correttamente compresa, spiega lo studioso, deve essere interpretata nel contesto e secondo l’intenzione profonda di Anselmo: anche se si ammettesse (per absurdum) che Cristo non sia venuto, è possibile mostrare la necessità (convenienza, razionalità) della sua venuta. Tale procedimento è conseguenza logica del metodo sola ratione, che passa sotto silenzio ogni autorità per procedere con le sole forze della ragione. Cfr. ibidem: «Naturalmente la venuta di Cristo dipendeva dalla volontà divina sommamente libera, dunque da  una decisione divina sommamente libera. Tuttavia, secondo Anselmo, in Dio tutto è ragionevole, ogni decisione della volontà divina è  ragionevole al  sommo grado e, di  conseguenza, noi possiamo percepirla come una necessità nella misura in  cui esiste una certa coincidenza tra ‘razionalità’ e ‘necessità’. È dunque la razionalità divina che fonda in ultima analisi la necessità del­l’Incarnazione».

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nale e circondato dal mistero, oltrepassa la ragione allargandone i  confini e  si pone come iniziativa sovranamente libera di  Dio, misericordioso e  giusto; richiede pertanto l’obbedienza della fede 16. L’intelletto diventa così il luogo in cui la verità si manifesta: «Ad eorum quae credimus rationem intuendam, quantum superna gratia mihi dare dignatur – scrive Anselmo nel­l’epistola di raccomandazione del­l’opera al papa Urbano II – aliquantum conor assurgere; et cum aliquid quod prius non videbam reperio, id aliis libenter aperio, quatenus quid secure tenere debam, alienum discam» 17. La ragione umana risulta pertanto al servizio di una verità che essa stessa non si è data, dinanzi alla quale tutte le argomentazioni razionali rimangono soltanto deboli premesse, annunciatrici di  uno splendore che proviene da  altra fonte, la fonte del­l’amore.

2. Volontà, ordine e rettitudine nella prospettiva anselmiana Nel Cur Deus homo sono richiamate una serie di nozioni antropologiche e  teologiche  –  peccato, soddisfazione, giustizia, rettitudine, onore di Dio, volontà – elaborate da Anselmo in opere precedenti e  tra loro in  stretta relazione. Anselmo aveva definito la libertà di arbitrio come «potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem» 18; la giustizia invece era 16  Cfr. Cur Deus homo, I, 2, 364A, p. 50, 12-13 (tr. it., p. 84). Per approfondire il ruolo della ragione nel Cur Deus homo, cfr. A. Ghisalberti, Il compito del­l’intelligere e la figura del­l’intelletto nel Cur Deus homo, in Cur Deus homo, Atti del Congresso Anselmiano Internazionale (Roma, 21-23 maggio 1998), a c. di P. Gilbert – H. Kohlenberger – E. Salmann, Roma 1999 (Studia Anselmiana, 128), pp. 311-331. 17  Cur Deus homo, Commendatio operis ad Urbanum Papam II, 261AB, p. 40, 14-17 (tr. it., p. 76). Sulla teologia di Anselmo, in particolare sulla terminologia usata in riferimento alla ragione e sulla specificità del campo semantico, è molto bello e suggestivo quanto scrive H. U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik. II: Fächer der Stile: Klerikale Stile, Einsiedeln 1962, p.  226: «Vernuft ist für Anselm das Sehvermögen des Geistes in  einem ursprünglichsten Sinn. Denken heisst eine Sache geistig schaubar machen» (tr. it. Gloria. Un’estetica teologica, II, Stili ecclesiastici. Ireneo, Agostino, Dionigi, Anselmo, Bonaventura, Milano 1978, p. 199). 18  De libertate arbitrii, I, 494B, p. 212, 19-20: «Ergo quoniam omnis libertas est potestas, illa libertas arbitrii est potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem».

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stata definita come «rectitudo voluntatis propter se servata» 19. In entrambi i casi si presuppone che l’uomo abbia ricevuto con la creazione una comunione di volontà con Dio, con il compito di custodirla, cosa che invece non si è verificata a causa di un’opzione morale contraria, il peccato, che ha turbato l’ordine a livello individuale e  cosmico. Onorare Dio, osserva Anselmo, significa proclamarlo Signore 20, riconoscerne la  sovranità, la  signoria, la  maestà assoluta, universale e  incomparabile con altra signoria (Anselmo confuta la teoria dei diritti del diavolo). Anselmo distingue tra onore di Dio intrinseco (ontologico) e onore estrinseco; quest’ultimo è dato dal rispetto, da parte dalle creature, del­ l’ordo universi stabilito da Dio stesso: osservare l’ordine significa obbedire a  Dio e  onorarlo. Il  peccato è  l’alterazione di  questo ordine universale con la  conseguenza di  non poter più conseguire il fine della propria vita, cioè la beatitudine eterna. L’onore di Dio, pertanto, coinvolge gli ambiti del­l’interiorità e della relazione. Anche il  concetto di  ordine, riferito al­l’uomo, va inteso in senso relazionale, quale rettitudine interiore e conformità alla volontà di  Dio; coinvolge la  libertà della creatura razionale nel suo rapporto con il Creatore: Verum quando unaquaeque creatura suum et quasi sibi praeceptum ordinem sive naturaliter sive rationabiliter servat, Deo oboedire et eum honorare dicitur, et hoc maxime rationalis natura, cui datum est intelligere quid debeat. Q uae cum vult quod debet, Deum honorat; non quia illi aliquid confert, sed quia sponte se eius voluntati et dispositioni subdit, et in rerum universitate ordinem suum et eiusdem universitatis pulchritudinem, quantum in ipsa est, servat. Cum vero non vult quod debet, Deum, quantum ad illam pertinet, inhonorat, quoniam non se sponte subdit illius dispositioni, et universitatis ordinem et pulchritudinem, quantum in se est, perturbat, licet potestatem aut dignitatem Dei nullatenus laedat aut decoloret 21. 19   De veritate, I, 482B, p. 194, 26. È un significato presente nella Sacra Scrittura (cfr. Sap 1, 1). Anselmo perviene a tale definizione di giustizia attraverso una puntuale argomentazione, al termine della quale conclude (De veritate, I, 484A, p.  196,  20-23): «Et hinc est quod iusti dicuntur aliquando ‘recti corde’, id est recti voluntate; aliquando ‘recti’ sine adiectione ‘cordis’, quoniam nullus alius intelligitur rectus nisi ille qui rectam habet voluntatem». 20 Cfr. Cur Deus homo, I, 14, 379BC, p. 72, 8-12 (tr. it., p. 106). 21  Ibid., 15, 380B, pp. 72-73 (tr. it., p. 107).

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Il cardine della relazione tra ordine, rettitudine e  giustizia consiste nel compito, assegnato al­l’uomo, di  custodire l’ordine secondo la modalità a lui propria, cioè la rettitudine della volontà; tale custodia è  l’obbedienza. Con il  peccato, la  libertà umana è venuta meno alla vocazione di alleanza e al compito di conservarsi giusta nella relazione con il  Creatore, turbando l’ordine universale e  sottraendo a  Dio l’onore dovuto. In  tale contesto vanno interpretate le nozioni di offesa a Dio, sottrazione al Creatore del­l’onore dovuto, riparazione e  soddisfazione, nozioni che a  prima vista assumerebbero un significato esclusivamente giuridico-penale: Occorre non lasciarsi fuorviare dal­l’uso di tali categorie, che potrebbero proiettare su Dio l’ombra minacciosa di un giudice severo che esige la soddisfazione di un debito contratto dalla creatura razionale ed estinguibile solo con la morte del Figlio. Esse devono essere interpretate piuttosto al­l’interno di una visione in cui occupa il posto centrale la creatura razionale vista nella sua capacità originaria di agire liberamente e di riconoscere una verità oggettiva  –  ordine esterno e  interno al tempo stesso – messa da Dio nelle creature 22.

Poste tali premesse, la  riparazione deve essere considerata in senso relazionale, come ristabilimento del­l’alleanza e  della comunione con Dio.  Per tale motivo, osserva Anselmo, se Dio rimettesse il  peccato del­l’uomo in  virtù della sola misericordia, sarebbe un intervento solo esteriore che escluderebbe la  dimensione della giustizia, intesa come rettitudine della volontà. L’Incarnazione invece permette al  Figlio di  Dio di  comunicare la  pienezza della sua libertà al­l’umanità assunta, cosicché il  Figlio può offrirsi al  Padre in  totale e  sovrana libertà, anche come Figlio del­l’uomo. Da ciò nasce il  significato ‘redentivo’ della Croce, che assume valore infinito  –  perché è  l’offerta del Figlio al  Padre  –  ed efficacia salvifica per l’umanità intera, perché è  un’offerta che proviene da ‘qualcuno’ che appartiene alla stessa umanità: La volontà del Figlio, nulla perdendo della pienezza della propria libertà, accetta di entrare, per così dire, in un regime   Orazzo, Introduzione cit. (alla nota 11), p. 33.

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di  necessità, per amore dei ‘suoi parenti e  fratelli’. Il  piano della ratio argomentativa e quello del­l’economia storico-salvifica trovano qui il punto nodale di convergenza. Nella libertà trascendente e sovrana del­l’offerta sacrificale del Figlio, le rationes necessariae della Incarnazione e della morte redentrice incrociano la novità unica e indeducibile del­l’evento storico di Gesù di Nazareth 23.

L’offerta di  Cristo al  Padre comporta l’esercizio pieno della sua libertà di  uomo. Tale gesto assume un significato salvifico: radicato e  appoggiato in  Lui, ogni uomo potrà fare della propria esistenza un’offerta a Dio, fino al dono della vita. A questo punto la riflessione di Anselmo assume una tonalità nuova, passando gradualmente dal procedimento deduttivo delle rationes necessariae a  modalità espressive diverse, finalizzate a  motivare la  libertà del credente ad accogliere e  imitare l’esempio di  Cristo. Anselmo abbandona il  metodo della sola ratio per lasciarsi interrogare dalla vicenda storica del Verbo Incarnato, mettendo in  luce il  valore di  esemplarità del Dio-uomo per ogni uomo; adotta così il  criterio della convenienza, applicato al  contesto del­l’economia storico-salvifica 24. L’esercizio della ragione è  perciò rivolto a  rafforzare la  libertà del credente, presentando tutti i  motivi di  convenienza, affinché la  volontà si decida a  imitare il  Dio-uomo nel­l’opzione morale per quella beatitudine che si ottiene offrendo spontaneamente la  propria vita a  Dio per amore. Il Dio-uomo, pagando per l’uomo, non ne limita la libertà e  la responsabilità, ma le  rende possibili per grazia, restituendo al­l’uomo la possibilità di vivere secondo giustizia, cioè in quella rettitudine e  comunione con Dio che con il  peccato originale erano state perdute.

3. Volontà, libertà e necessità nella riflessione di Anselmo L’Incarnazione, osserva Anselmo, è  l’espressione più alta della misericordia di Dio per gli uomini, contrariamente a quanto pensano gli infedeles, che la ritengono un’offesa a Dio:   Ibid., p. 40.  Cfr.  ibid.,  p.  41. Cfr.  Cur Deus homo, II, 11,  410C-412B, pp.  109-111 (tr. it., pp. 149-152). 23 24

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Nos non facimus Deo iniuriam ullam aut contumeliam, sed toto corde gratias agentes laudamus et praedicamus ineffabilem altitudinem misericordiae illius, quia quanto nos mirabilius et praeter opinionem de tantis tam debitis malis in quibus eramus, ad tanta et tam indebita bona quae perdideramus, restituit, tanto maiorem dilectionem erga nos et pietatem monstravit 25.

L’amore per gli uomini, radice e fondamento del­l’Incarnazione, emerge anche nella risposta al­l’obiezione, che gli infedeli rivolgono ai cristiani, secondo cui lo spirito umano avrebbe accolto con minore difficoltà questa liberazione se fosse stata realizzata da una persona diversa da quella divina. A tale osservazione infatti Anselmo replica che se l’uomo non fosse stato liberato da  Dio, sarebbe diventato servo di  colui che l’aveva liberato; di  conseguenza, per tutelare la massima dignità del­l’uomo, è più ragionevole pensare che sia stato personalmente Dio a realizzare la redenzione 26. Un’altra frequente obiezione riguarda la  scelta della croce, disdicevole a un Dio onnipotente, poiché porrebbe limiti alla stessa onnipotenza 27. A motivo di  tali osservazioni, Anselmo si propone di argomentare la  necessità della croce, espressione del­l’amore infinito di Dio, quale unica via per salvare l’uomo. Il suo obiettivo è dunque il tentativo di chiarire, in modo comprensibile per il credente, l’efficacia salvifica della morte di Cristo, che tuttavia rimane indescrivibile e ineffabile, perché partecipa della profondità del mistero. Presupposto di tutta l’argomentazione è il significato del peccato, inteso da Anselmo come furto a Dio del­l’onore a Lui dovuto e violazione del­l’ordine 28. Dare onore a  Dio comporta volergli dare ciò che a Lui è dovuto, cioè la sottomissione libera della volontà, riconoscendo la  strutturale relazione di  dipendenza. Signoria e ordine sono fissi e immutabili sul piano oggettivo, ma sul piano soggettivo è possibile rifiutarli, con gravi conseguenze: tale è il peccato. L’indagine sola ratione evidenzia la gravità del peccato e la difficoltà nel trovare una soddisfazione adeguata: «Cum intueor   Ibid., I, 3, 364BC, pp. 50 -51 (tr. it., p. 85).  Cfr. ibid., 5, 365CD, p. 52, 19-24 (tr. it., p. 87). 27 Cfr. ibid., 6, 366C, p. 54, 12-17 (tr. it., p. 88). 28 Cfr. ibid., 11, 376B-377A, pp. 68-69 (tr. it., pp. 102-103). 25 26

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quid sit contra voluntatem Dei, gravissimum quiddam et nulli damno comparabile intelligo» 29. Peccando, l’uomo si è  messo in una situazione di grave e insuperabile impossibilità: è necessario che a Dio venga ‘pagato’ qualcosa che sia più grande di tutto ciò che esiste al­l’infuori di Dio, ma ciò non può farlo se non Dio stesso, in quanto più grande di tutto ciò che non è Dio; tuttavia deve farlo l’uomo, in quanto è l’uomo che ha peccato; è dunque necessario che la soddisfazione provenga da un Dio-uomo e che un unico e medesimo soggetto sia perfetto Dio e perfetto uomo 30. Anselmo descrive questa situazione in termini alquanto efficaci: «Deus non faciet, quia non debebit; et homo non faciet, quia non poterit» 31. Il punto di incontro tra la giustizia e la misericordia, e dunque la salvezza da tale situazione altrimenti insuperabile, è il senso della risposta alla domanda posta dal trattato. L’argomento che ha condotto a  tale conclusione è  basato sulla necessità e sulla grandezza; la ratio si collega al­l’ambito della necessità, come evidenzia l’analisi del campo semantico e la presenza di espressioni come «inevitabiliter oportet esse» 32, «ratio inevitabilis» 33; «Deus nihil sine ratione facit» 34, «rationabiliter conveniat» 35. Il Dio-uomo assume la morte liberamente, per l’ono­re di Dio; la morte infatti non appartiene alla natura umana originaria, ma è conseguenza del peccato 36. Il poter morire è segno della sua onnipotenza e volontà: «Si ergo volet, poterit animam suam ponere et iterum sumere (…). Si igitur voluerit permettere, poterit occidi; et si noluerit, non poterit» 37. Egli  infatti disponendo di un bene più grande di ciò che non è Dio, può offrirlo a  Dio liberamente e  non a  titolo di  debito; per tale motivo,   Ibid., 21, 394A, p. 89, 4-6 (tr. it., p. 125).  Cfr. ibid., II, 7, 404BC, pp. 101-102 (tr. it., p. 140). La salvezza del­l’uma­ nità è assicurata unicamente se le due nature si trovano integralmente nello stesso soggetto; Anselmo intende pervenire a questa conclusione non in base al­l’autorità delle formule di fede fissate dalla Chiesa, ma solo tramite argomentazioni di tipo razionale. 31  Ibid., 7, 404D-405A, p. 102, 13-14 (tr. it., p. 141). 32  Ibid., 8, 406A, p. 103, 20 (tr. it., p. 142). 33  Ibid., 9, 408A, pp. 105-106 (tr. it., p. 145). 34   Ibid., 10, 410B, p. 108, 23-24 (tr. it., p. 149). 35  Ibid., 11, 411D, p. 111, 6 (tr. it., p. 151). 36 Cfr. ibid., 11, 410C, p. 109, 11-13 (tr. it., p. 149). 37  Ibid., 411AB, p. 110, 1-7 (tr. it., p. 150). 29

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«aut  igitur se ipsum aut aliquid de se dabit» 38. Q uesta offerta è un sottomettersi a Dio, alla sua volontà, custodendo con perseveranza la giustizia, a livello ontologico e assiologico: ogni creatura razionale infatti deve a Dio ciò che possiede per il solo fatto di essere creatura 39. Tali conclusioni sono conformi alla ragione: poiché l’uomo ha peccato con una facilità tale che non se ne potrebbe pensare una più grande 40, obbedendo al diavolo e disonorando Dio, è necessario che colui che soddisfa vinca il diavolo, in vista del­l’onore di Dio, offrendosi a Dio in modo tale da non poterlo fare più pienamente. Come nel Proslogion, Anselmo adotta lo stile del­l’eminenza, parlando di  facilità, o  difficoltà, tale che non se possa pensare una più grande 41. L’offerta totale di  sé consiste nel consegnarsi alla morte per l’onore di Dio. È quanto riconosce e conclude Bosone: «Video hominum illum plane, quem quaerimus, talem esse oportere qui nec ex necessitate moriatur, quia omnipotens erit, nec ex debito, quia numquam peccator erit, et mori possit ex libera voluntate, quia necessarium erit» 42. Per tale motivo, la sua vita e la sua morte superano tutti i peccati, se offerte per essi; la sua vita infatti è tanto più amabile quanto più è buona, è degna di amore più di quanto i peccati siano degni di odio. Pertanto, un bene così grande e  amabile può pagare a  sufficienza quanto è  dovuto per i peccati del mondo, e anzi ‘può infinitamente di più’ 43. Attraverso una complessa e rigorosa argomentazione, Anselmo conduce alla consapevolezza che la remissione dei peccati è possibile solo per mezzo di un uomo che sia anche Dio, che con la sua morte riconcilia con Dio gli uomini peccatori. La ratio pertanto mostra la necessità di Cristo pur non comprendendone la modalità:   Ibid., 411B, p. 110, 16 (tr. it., p. 150).  Cfr. ibid., I, 20, 392CD, p. 87, 5-7 (tr. it., p. 123). 40  Cfr. ibid., II, 11, 412A, p. 111, 10 (tr. it., p. 151). 41 Cfr. ibid., p. 111, 9-14 (tr. it., pp. 151-152). 42  Ibid., 412B, p. 111, 22-25 (tr. it., p. 152). 43  Cfr. ibid., 14, 415A, p. 114, 31 (tr. it., p. 156): «Imo, plus potest in infinitum». Tale espressione si trova anche in ibid., II, 18, 425C, p. 127, 8 (tr. it., p. 170): «Et plus in infinitum»; richiama Eph 3, 20 e si accorda con gli attributi di Dio presenti nel Proslogion (summum omnium e quiddam maius), mostrando che la salvezza procurata dal­l’offerta libera del Dio-uomo è a misura di Dio, cioè senza misura. 38 39

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Hoc debes ab illis nunc exigere, qui Christum non esse credunt necessarium ad illam salutem hominis, quorum vice loqueris, ut dicant qualiter homo salvari possit sine Christo. Q uod si non possunt ullo modo, desinant nos irridere, et accedant et iungant se nobis, qui non dubitamus hominem per Christum posse salvari, aut desperent hoc ullo modo fieri posse. Q uod si horrent, credant nobiscum in Christum, ut possint salvari 44.

4. Dal­l’antropologia alla cristologia Il Cur Deus homo si costruisce su una premessa antropologica: l’uomo è  stato creato razionale e  giusto, ma il  peccato ha alterato il progetto originario di Dio. «Rationalem naturam a Deo factam esse iustam, ut illo fruendo beata esset, dubitari non debet» 45; questa l’affermazione principale, che Anselmo dimostra in  vari passaggi: è  stata creata razionale per discernere tra bene e  male, giusto e  ingiusto; la  razionalità infatti comporta capacità di discernimento e di scelte corrette. Niente nella natura razionale è stato fatto invano, nulla va perso, pertanto tutto deve conseguire il  proprio fine. Di conseguenza, finché l’uomo non avrà scelto Dio come sommo bene, sarà sempre infelice, perché sarà nel­l’indigenza suo malgrado, non possedendo quanto desidera nel profondo del suo cuore. E questo, conclude Anselmo, «nimis absurdum est» 46. Da tali premesse Anselmo deduce che Dio stesso avrebbe portato a compimento quanto iniziato nella natura umana, altrimenti avrebbe creato invano una natura così sublime che ha il proprio fine in un bene così grande: poiché Dio non ha creato nulla di  più prezioso (nihil pretiosus), è  molto lontano da  lui lasciare che tale natura perisca completamente 47. L’esigenza di  realizzare tale progetto si fonda sulla fedeltà di Dio alle sue promesse; Dio non fa nulla per necessità, perché in alcun modo è costretto   Cur Deus homo, I, 24, 399A, p. 95, 1-5 (tr. it., p. 132).   Ibid., II, 1, 399C-400C, p. 97, 4-5 (tr. it., p. 135). Sul rapporto fra cristologia e antropologia, cfr. N. Varisco, Dal cur homo al cur Deus homo: un percorso sulla via della consapevolezza, in Cur Deus homo cit. (alla nota 16), pp. 561-572. 46   Cur Deus homo, II, 1, 401B, p. 98, 2-3 (tr. it., p. 136). 47 Cfr. ibid., 4, 402B, p. 99, 5-7 (tr. it., p. 137). 44

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o impedito: in lui la necessità «non est aliud quam immutabilitas honestatis eius» 48; pertanto non dovrebbe chiamarsi necessità, bensì gratuità, e merita una riconoscenza maggiore 49. Libertà e necessità convergono, anche se il linguaggio spesso non sembra tener conto di tale rapporto. Se Dio completa il bene iniziato nel­ l’uomo, tutto va attribuito alla sua grazia: «Non enim illum latuit quid homo facturus erat, cum illum fecit, et tamen bonitate sua illum creando, sponte se ut perficeret incoeptum bonum quasi obligavit» 50. La cristologia è  dunque condizione di  possibilità del­l’an­ tropologia, la  necessità del Dio-uomo è  argomentata con rigore e  coerenza logica; Anselmo dimostra che l’unità delle due nature nel­l’unica persona è  condizione necessaria per garantire la  soddisfazione: è  infatti necessario che il  Redentore sia perfetto Dio e perfetto uomo e che la natura umana sia assunta integralmente, perché integralmente possa essere ‘restaurata’. Anselmo utilizza espressioni linguistiche che fanno riferimento al­l’Incarnazione di  Dio e  al­l’assunzione del­l’uomo, accostando così due prospettive cristologiche complementari: la  prima sottolinea la  preesistenza del Verbo, che entra nella storia attraverso l’Incarnazione; la  seconda, partendo dalla vicenda storica di  Gesù, evidenzia come Dio lo abbia costituito Signore e  Cristo attraverso il  mistero pasquale. Parla comunque con più frequenza di  ‘assunzione’ che di  ‘Incarnazione’, attingendo da  Agostino: con l’Incarnazione, il  Verbo ha assunto la  totalità del­l’uomo, la vera e integra natura umana 51. Del resto, Anselmo era monaco e l’umanità di Cristo era, nella spiritualità monastica, oggetto privilegiato di meditazione, strumento di ascesi e crescita nel­l’itinerario spirituale 52. 48  Ibid.,  5,  403C, p.  100,  24-25 (tr.  it., p.  139). Nella traduzione italiana, ‘honestas’ viene tradotto con ‘fedeltà’: è proprio in virtù della immutabile fedeltà a se stesso e alle sue promesse, infatti, e non per qualche necessità esterna, che Dio porta a compimento nel­l’uomo il fine che si era prefisso. 49  Cfr. ibid., 403A, p. 100, 3 (tr. it., p. 138). 50  Ibid., 403BC, p. 100, 18-20 (tr. it., p. 139). 51 Cfr.  Nardin, Il  Cur Deus homo di  Anselmo d’Aosta cit. (alla nota  9), pp. 167-172. 52  Cfr. I. Biffi, La filosofia monastica: ‘sapere Gesù’, Milano 2008 (Di fronte e attraverso. Biblioteca di cultura medievale, 859).

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5. Dalla cristologia al­l’antropologia Anselmo imposta la  sua riflessione a  partire da  una prospettiva antropologica realista, concreta, che tiene conto della frattura, presente nella natura umana, tra il  progetto originario di  Dio (ciò per cui l’essere umano era stato pensato e creato) e la condizione storica (l’uomo in statu viae, l’impossibilità dovuta al peccato, alla disobbedienza). L’uomo è fatto per la beatitudine ma, dopo il  peccato di  Adamo, non può più conseguirla: la  remissione dei peccati è  necessaria per ottenere la  salvezza e  quindi la beatitudine. È una prospettiva che parte dal basso, dalla natura umana ferita, segnata dal peccato. Anselmo sottolinea la  gravità del peccato non soltanto dal punto di vista individuale, ma anche cosmico e relazionale. In questo senso il peccato è rottura del­l’ordine (del­l’armonia nelle relazioni) e  furto nei confronti di  Dio, in  quanto privazione del­l’onore a  Lui dovuto: «Non est itaque aliud peccare quam non reddere Deo debitum  (…). Omnis voluntas rationalis creaturae subiecta debet esse voluntati Dei» 53. Pertanto il debito che l’angelo e  l’uomo devono a  Dio e  con cui lo onorano è  la sottomissione di  tutta la  volontà alla volontà di Dio: Haec est iustitia sive rectitudo voluntatis, quae iustos facit sive rectos corde, id est voluntate. Hic est solus et totus honor, quem debemus Deo et a nobis exigit Deus. Sola namque talis voluntas opera facit placita Deo, cum potest operari; (…) nullum opus sine illa placet. Hunc honorem debitum qui Deo non reddit, aufert Deo quod suum est, et Deum exhonorat; et hoc est peccare 54.

La nozione di  ordine richiama quella di  giustizia, che Anselmo definisce in prospettiva dinamica, ovvero come rispetto e reciprocità delle relazioni; la rectitudo è considerata in rapporto alla verità e  indica ‘ciò che è  come deve essere’. Nel De veritate Anselmo aveva analizzato la rectitudo in rapporto alla volontà, la quale, scriveva, è retta quando vuole ciò che deve 55. L’uomo, per essere giusto, deve volere quello che deve e deve volerlo volontariamente,   Cur Deus homo, I, 11, 376B, p. 68, 10-12 (tr. it., p. 102).   Ibid. 376BC, p. 68, 15-21 (tr. it., p. 102). 55 Cfr. De veritate, 472A, p. 181, 4. 53 54

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perché il dovere, per essere retto, deve essere volontario 56. Il concetto di  ordine assume una connotazione ontologica, in  quanto si fonda sul riconoscimento del primato di  Dio, e  relazionale, a motivo del­l’esigenza che ne deriva di rendere a lui l’onore, ossia di sottomettere a lui la volontà. A partire dal riconoscimento della maestà divina, Anselmo sottolinea la  gravità del peccato e  lo stretto legame tra Incarnazione e Redenzione: dal momento che l’onore reso a Dio è sottomissione della volontà, è necessario che la riparazione avvenga attraverso un atto di perfetta e totale sottomissione della volontà. A motivo del peccato, la condizione umana è gravemente compromessa: la salvezza è necessaria perché l’uomo raggiunga il proprio fine e non sia stato creato invano, ma è altrettanto necessario che essa venga da  Dio; l’uomo da  solo è  condannato, è  perciò indispensabile che, per salvarlo, Dio stesso si faccia uomo. Non era conveniente rimettere il peccato per sola misericordia per due motivi: in  primo luogo perché avrebbe lasciato il disordine della volontà, in secondo luogo perché sarebbero stati trattati ugualmente il peccatore e il giusto; la sola misericordia avrebbe perciò lasciato spazio al­l’ingiustizia. Anche se l’impostazione assume un tono prevalentemente giuridico che sembra limitare la gratuità della salvezza, Anselmo in realtà mette in risalto la grandezza del­ l’amore di Dio e della sua misericordia: sottolineando il dramma della condizione umana e  l’insufficienza della sola misericordia rispetto alla giustizia, mostra infatti che la  misericordia è  veramente tale proprio nel momento in cui comprende la giustizia e, restaurando l’ordine, ristabilisce l’armonia originaria 57. 56 Cfr. ibid., 480B-483D, pp. 192-194. Cfr. Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 9), pp. 126-129. 57  Significative a tale proposito le affermazioni di M. Serenthà, Gesù Cristo ieri, oggi e  sempre cit. (alla nota 7), p.  366: «Il ‘sacrificio’ di  Cristo libera, ‘redime’ l’uomo non solo negativamente, cancellando il  peccato, ma positivamente, rinnovando l’alleanza del­l’uomo con il  Padre, non solo assumendo il passato di peccato e di morte del­l’umanità, ma aprendo a un futuro rinnovato di resurrezione, di vita nuova». Nella Bibbia infatti la nozione di ‘giustizia’, come anche l’aggettivo ‘giusto’, richiamano una fedeltà: «Giusto è colui che mantiene le  sue promesse, gli impegni presi. Dio ha promesso di  salvare l’uomo, di  non lasciarlo in balia della morte e del peccato (‘Io non voglio la morte del peccatore –  dice il  Signore  – ma  che si converta e  viva’: Ez 18,  23): in  Cristo, in  particolare nella sua Pasqua, Dio ha definitivamente realizzato la  sua promessa. In  questo senso, nella croce si manifesta massimamente la  giustizia di  Dio»

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Partendo da presupposti diversi rispetto a Duns Scoto, anche Anselmo fa emergere la  centralità di  Cristo e  lo stretto legame – il particolarissimo ‘debito’ – che l’uomo ha nei suoi confronti: tutto gli deve perché gli ha restituito la vita. Tale centralità emerge soprattutto laddove Anselmo approfondisce la libertà e la gratuità con cui Cristo ha dato la  vita per gli uomini: il  Dio-uomo non è stato obbligato a obbedire a un ordine del Padre, ma ha inteso liberamente osservare la giustizia con tanta perseveranza e determinazione da affrontare persino la morte. Il Verbo Incarnato è il solo vero adoratore e perfetto glorificatore del Padre; ciò che gli è stato inflitto dagli uomini è conseguenza della sua libera decisione di custodire la giustizia, cioè di mantenersi in perfetta comunione con la  volontà del Padre. Non c’è pertanto una necessità violenta, ma la  perseveranza spontanea e  tenace della volontà: in questo senso, obbedienza al Padre significa custodire la volontà che Egli ha dato 58. Dalla ferma volontà da  parte di  Cristo di  soffrire la  morte, Anselmo deduce che il  genere umano non poteva essere salvato diversamente; era necessaria la  remissione dei peccati perché l’uomo potesse conseguire la beatitudine 59.

6. Il cristocentrismo di Duns Scoto La riflessione di Duns Scoto sul­l’Incarnazione parte da presupposti diversi: Dicitur quod lapsus hominis est ratio necessaria huius (scil. Christi) praedestinationis (…). Dico tamen quod lapsus non fuit causa praedestinationis Christi, imo si nec fuisset angelus lapsus, nec homo, adhuc fuisset Christus sic praedestinatus, imo, et si non fuissent creandi alii quam solus Christus 60. (ibid., p. 367). Cfr. anche M. Serenthà, La discussione più recente sulla teoria anselmiana della soddisfazione. Attuale status quaestionis, in «La Scuola Cattolica», 108 (1980), pp. 344-393. 58 Cfr. Cur Deus homo, I, 10, 374BC, p. 65, 6-7 (tr. it., p. 99). 59 Cfr.  ibid.,  374D-375A, p.  66,  2-4 (tr.  it., p.  100): «Mundum erat aliter impossibile salvari; et ipse indeclinabiliter volebat potius mortem pati, quam ut mundus non salvaretur». Cfr.  O. Rossi, L’aliquid maius e  la riparazione, in Cur Deus homo cit. (alla nota 16), pp. 641-657. 60   Iohannes Duns Scotus (d’ora in  poi: Duns Scotus), Reportata Parisiensia, III, d. 7, q. 4, n.  4, éd. L.  Vivès, XXIII, Paris 1894, p.  303a. Duns

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Duns Scoto non medita sul­l’infinito a partire dal finito, ma intraprende il  percorso inverso, persuaso che il  significato del finito si possa intuire soltanto a  partire dal­l’infinito: là dove le  creature hanno inizio è custodita la chiave del loro essere 61. Per tale motivo, medita l’Incarnazione non a  partire dal peccato, quasi che tale ‘capolavoro divino’ (summum opus Dei) sia subordinato alla colpa del­l’uomo, ma, al contrario, alla luce del primato di Cristo: Dio ha voluto da sempre l’Incarnazione del Verbo, e, in  Lui, l’uomo e  il mondo. La  riflessione cristologica di  Scoto si collega pertanto alla riflessione sulla creazione: Dio ha creato per amore di sé e per la propria gloria. Di conseguenza, la prima ragione del­l’Incarnazione è il desiderio di poter ricevere dalla creatura un amore infinito e una gloria infinita: Cristo è il perfetto adoratore, la ragione e il fine della creazione 62. Il cristocentrismo di  Scoto tuttavia non si esaurisce nel­l’affermazione del motivo del­l’Incarnazione, ma condiziona tutta la sua teologia del­l’uomo e  della creazione: quest’ultima infatti è  ordinata a  Cristo e,  per mezzo di  Lui, a  Dio; l’uomo stesso è  stato creato a  immagine di  Dio perché destinato, per mezzo di  Cristo, a  partecipare alla vita intima di Dio nel tempo e per l’eternità 63. Scoto sottolinea la  radicale gratuità del­ l’Incarnazione, indipendentemente da ogni peccato del­l’uomo. Per le citazioni delle opere di Duns Scoto, faccio riferimento al­l’edizione critica Vaticana ancora in corso di pubblicazione a c. della Commissione Scotista Internazionale, Città del Vaticano 1950ss. Laddove questa non fosse ancora disponibile, utilizzo la  precedente edizione Vivès (Opera Omnia, 26 voll., Paris 1891-1895). Per il De primo Principio faccio riferimento al­l’edizione critica: Duns Scotus, Tractatus de primo Principio, Hrsg. M. Müller, Freiburg i. Br. 1941 (Bücher Augustinischer und Franziskanischer Geistigkeit, 1; Reihe: Texte und Forschungen, Abteilung A, Band 1), (tr.  it. a  c. di  P.  Scapin, Padova 1973 [Testi e saggi, 4]). 61 Cfr.  O. Todisco, Libertà e  bontà chiave di  lettura del III libro del­ l’Ordinatio di Duns Scoto, in Giovanni Duns Scoto. Studi e ricerche nel VII centenario della sua morte, ed. M. Carbajo Nuñez, 2 voll., Roma 2008 (Medioevo, 15), II, pp. 133-152, in partic. p. 135: «Scoto non parte dalla creazione, di cui cogliere la  forza ascensiva che, inceppandosi a  causa del peccato, sarebbe la  ragione del­ l’Incarnazione del Verbo, in vista della sua ascesa a Dio. Egli non condivide questa lettura, non degna di Dio, non perché misconosca l’importanza redentiva di Cristo o la gravità della frattura tra l’uomo e Dio, a cui l’Incarnazione porrà rimedio. Egli non ritiene degna di Dio una lettura che fa pensare al­l’orologiaio riparatore, con cui Leibniz stigmatizzerà il Dio di Newton». 62 Cfr.  L. Veuthey, Giovanni Duns Scoto tra aristotelismo e  agostinismo, a c. di O. Todisco, Roma 1996 (I maestri francescani, 6), p. 9. 63  Cfr. Duns Scotus, Ordinatio, I, d. 1, p. 1, q. 1, n. 14, ed. Vaticana, II, Ordinatio. Liber primus, distinctio prima et secunda, Città del Vaticano 1950,

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Alla domanda sul motivo della creazione, Bonaventura aveva risposto: l’amore; Dio è  amore, bene, bontà, e  la bontà tende a  espandersi («bonum est diffusivum sui») 64. Alla medesima domanda Duns Scoto, volendo salvaguardare la  libertà della creazione, che gli sembrava compromessa dal principio neoplatonico del bene che tende necessariamente alla propria diffusione, risponde: la causa della creazione è il volere stesso di Dio, che vuole un determinato effetto e  lo produce in  un preciso momento 65. Con tali parole intende affermare la libertà assoluta di Dio. Tuttavia Dio agisce, secondo il nostro modo di esprimerci, «rationabiliter» 66, cioè con un obiettivo e  secondo un preciso ordine di  motivi. La  ragione della creazione è  la gloria di  Dio: Dio  ha creato il  mondo per essere amato e  glorificato ‘dalle’ e ‘nelle’ sue creature, ha costituito un monumento nel quale si rispecchia la propria bontà, grandezza e gloria: «Deus universum propter se creavit, unde Deus diligens se fecit haec» 67, «propter bonitatem suam communicandam, ut propter suam beatitudinem, plura in  eadem specie produxit» 68. Per tale motivo, crep. 9, 9-10: «(…) sensitiva nostra, quae a Deo creatur secundum unam opinionem, non posset perfecte quietari, nisi in Deo». 64  Cfr.  Bonaventura de  Balneoregio, In  Primum Librum Sententiarum, d. 45, a. 2, q. 1, in  Id., Commentaria in quatuor libros Sententiarum, I, In  primum librum Sententiarum, Q uaracchi 1882, p.  804: «Ratio causandi est bonitas, et in ratione effectivi et in ratione finis. Nam ‘bonum dicitur diffusivum’, ‘et bonum est propter quod omnia’». 65 Cfr. Duns Scotus, Ordinatio, II, d. 1, q. 2, n. 91, ed. Vaticana, VII, Ordinatio. Liber secundus a  distinctione prima ad tertiam, Città del Vaticano 1973, p. 48, 4-9: «Et ideo ista voluntas Dei – quae vult hoc et pro nunc – est immediata et prima causa, cuius non est aliqua alia causa quaerenda: sicut enim non est ratio quare voluit naturam humanam esse in hoc individuo et esse possibile et contingens, ita non est ratio quare hoc voluit nunc et non tunc, sed tantum ‘quia voluit hoc esse, ideo bonum fuit illud esse’». Cfr.  ibid.,  p.  48,  9-11: «Et quaerere huius propositionis  –  licet contingentis immediatae  –  aliam rationem, est quaerere rationem cuius non est ratio quaerenda». Poco più avanti Scoto aggiunge che la  volontà divina «nec suam bonitatem habet a  volito, sed e converso»: cfr. ibid., n. 92, p. 48, 18-19. 66  Ibid., I, d. 35, n. 39, ed. Vaticana, VI, Ordinatio. Liber primus a distinctione vigesima sexta ad quadragesimam octavam, Città del Vaticano 1963, p.  261,  2. L’agi­re ordinato è l’agire razionale, cioè secondo un ordine nei fini. Cfr. anche Id., De primo Principio, Capitulum secundum, quarta conclusio, probatur, Hrsg. Müller cit. (alla nota 61), p. 13-14: «Finis est prima causa in causando» (tr. it., p. 88). 67  Id., Reportata Parisiensia, IV, d. 49, q. 7, n. 10, éd. Vivès, XXIV, Paris 1894, p. 657b. 68   Id., Ordinatio, II, d. 3, p. 1, q. 7, n. 251, ed. Vaticana, VII, Ordinatio. Liber

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ando ha comunicato ad altri il  suo amore, affinché a  loro volta lo amino; vuole cioè che siano a lui uniti in un vincolo d’amore. Il movente fondamentale è dunque l’amore, che Dio vuole condividere con altri: Q ui enim primo se amat ordinate (et per consequens non inordinate, zelando vel invidendo), secundo vult alios habere condiligentes, et hoc est velle alios habere amorem suum in  se  –  et hoc est praedestinare eos, si velit eos habere huius modi bonum finaliter; tertio autem vult illa quae sunt necessaria ad attingendum hunc finem, scilicet bona gratiae; quarto vult  –  propter ista  –  alia quae sunt remotiora, puta hunc mundum sensibilem pro aliis ut serviant eis 69.

La ragione della creazione include, secondo Scoto, la ragione del­ l’Incarnazione, in un atto di perfetta libertà da parte di Dio, ma in un piano razionale nel quale Cristo è il centro, l’alfa e l’omega, la ragione e il fine di tutto, in un primato assoluto, come l’‘amante’ supremo destinato a ricondurre tutto il divenire alla sua origine, in un atto d’amore infinito: Primo Deus diligit se; secundo diligit se aliis, et iste est amor castus; tertio vult se diligi ab alio, qui potest eum summe diligere, loquendo de amore alicuius estrinseci; et quarto praevidit unionem illius naturae, quae debet eum summe diligere, etsi nullus cecidisset 70.

In tale contesto, Duns Scoto reinterpreta anche l’idea anselmiana della ‘somma soddisfazione’: secundus a distinctione prima ad tertiam cit., p. 514, 11-13. Cfr. anche Id., Reportata Parisiensia, II, d. 1, q. 3, n. 14, éd. Vivès, XXII, Paris 1894, p. 538b: «Propter suam bonitatem vult et propter obiectum primum». 69  Id.,  Ordinatio, III, d. 32, q. un., n.  6, ed.  Vaticana, X, Ordinatio, Liber tertius a distinctione vigesima sexta ad quadragesimam, Città del Vaticano 2007, pp. 136-137, 141-148. 70  Id.,  Reportata Parisiensia, III, d. 7, q. 4, éd. Vivès, XXIII, Paris 1894, p. 303a. Scoto interpreta l’agire di Dio alla luce del­l’ordo amoris, che non è vincolato al  determinismo causale, ma non per questo è  privo di  ratio, di  ragioni e  quindi di  ragionevolezza; cfr.  Todisco, Libertà e  bontà cit. (alla nota  62), p. 150: «La tesi di Scoto è che l’operare di Dio non va agganciato a una causa, quasi che la  causa potesse determinarlo. Il  che non significa che non vi sia una ratio o che non abbia un senso. Ratio e causa non si identificano. La predestinazione è la ratio o anche il senso del grande evento del­l’Incarnazione».

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Dicitur quod non potest satisfieri Deo nisi aliquid formaliter maius omni creatura sibi offeratur quam sit illud pro quo peccare non debuerat, quod est tota creatura. Credo quod, salva gratia sua, hoc non est verum, quia non oportuit satisfactionem pro peccato primi hominis excedere totam creaturam in magnitudine et perfectione: suffecisset enim obtulisse maius bonum Deo quam fuit malum huius hominis peccantis tantum; unde si Adam per gratiam datam et caritatem habuisset unum vel multos actus diligendi Deum propter se, ex maiore conatu liberi arbitrii quam fuit conatus in peccando, talis dilectio suffecisset pro peccato suo redimendo et remittendo, et fuisset satisfactio 71.

La vera soddisfazione per il peccato, osserva Scoto, consiste in un atto della volontà che liberamente sceglie Dio e lo ama: è dunque un atto di amore – prerogativa della volontà libera – e si concretizza nella decisione, nella scelta. In tale contesto di amore totale e  totalizzante, Scoto contempla il  mistero del­l’Incarnazione e dell’umanità rinnovata, compiuta, beatificata. Volendo liberamente essere amato da  un altro, Dio prevede Colui che avrebbe potuto amarlo supremamente, cioè Cristo, il Verbo di Dio, che assume la natura umana e con essa tutti gli uomini, predestinati a  condividere la  sua gloria in  cielo. Da ciò deriva il primato di Cristo e la convinzione che l’Incarnazione sia indipendente dal peccato di Adamo. La causa finale della creazione è Cristo, voluto per se stesso in vista del più grande amore, in un primato assoluto, essendo tutto ordinato a  Lui: Egli è  il primo inteso e il primo voluto 72. La natura umana è stata costituita, nella mente eterna di  Dio, come la  più nobile fin dal­l’eternità, quale 71  Duns Scotus, Lectura, III, d. 20, n.  31, ed.  Vaticana, XXI, Lectura in librum tertium sententiarum, a distinctione decima octava ad quadragesimam, Città del Vaticano 2004, p. 49, 225-236. 72 Cfr. Id., Ordinatio, III, d. 7, q. 3, n. 61, ed. Vaticana, IX, Ordinatio, Liber tertius a  distinctione prima ad decimam septimam, Città del Vaticano 2006, p. 287, 426-430: «Ordinate volens prius videtur velle hoc quod est fini propinquius, et ita, sicut prius vult gloriam alicui quam gratiam, ita etiam inter praedestinatos – quibus vult gloriam – ordinate prius videtur velle gloriam illi quem vult esse proximum fini, et ita huic animae». Interessante il textus interpolatus riportato in  nota: «Deus prius vult gloriam quam alicui alteri animae velit gloriam, et prius cuilibet alteri gloriam et gratiam quam praevideat illi opposita istorum habituum; ergo a primo, prius vult animae Christi gloriam quam praevideat Adam casurum». Cfr.  anche Id.,  Reportata Parisiensia, III, d. 7, q. 4, n.  5, éd.  Vivès, XXIII, Paris 1894, p. 302.

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strumento per attuare il fine supremo della creazione 73. Il Figlio di  Dio l’ha assunta integralmente, senza variazioni o  miglioramenti; così facendo, Dio ha mostrato di  amare e  approvare pienamente la  sua opera: «In ista passiva assumptione naturae humanae ad Verbum, nullum fuit medium ‘quod’ inter Verbum et totam naturam, sed tota natura fuit immediate assumpta» 74. Dal momento che è stata assunta dal Figlio di Dio, l’intera natura umana verrà anche glorificata in ciascun uomo 75. Cristo è l’uomo perfetto: potenzialità e aspirazioni umane naturali e soprannaturali sono pienamente attuate in Lui, nella sua volontà, nella sua intelligenza, nella sua capacità di Dio. La predestinazione di Cristo è come la prima ondata di amore e  libertà che Dio riversa nel tempo e  nella storia: Egli è  voluto indipendentemente dal peccato, uomini e angeli sono in funzione di lui, essendo egli «fini propinquior» 76, archetipo e mediatore tra l’uomo e Dio. Sciendum ergo est quod anima Christi praedestinata fuit ab aeterno ad maximam gloriam, non quia alii praevisi erant cadere, sed ut frueretur Deo; immo prius erat Christus –  secundum modum intelligendi nostrum – praedestinatus ad gloriam, quam fuerit praevisus a  Deo casus et lapsus humani generis, quia omnes praedestinati prius sunt praedestinati quam praevisus sit eis illud quod est ad finem, quia primo volitum volitione ordinata omnibus est finis; et ideo passio Christi, quae est ad finem ordinata, ut ad salutem animarum, posterius ordinabatur quam praedestinatio animarum. Et 73  Cfr. Id., De primo Principio, Capitulum quartum, octava conclusio, Hrsg. Müller cit. (alla nota 61), p. 87-88 (tr. it., p. 212): «Intellectus Primi intelligit actu semper et necessario et distincte, quodcumque intelligibile prius naturaliter quam illud sit in se». Q uesta conoscenza previa di Dio è perfettamente chiara e distinta; cfr. Id., Ordinatio, I, d. 2, n. 105, ed. Vaticana, II, Ordinatio, Liber primus, distinctio prima et secunda cit., p. 187. 74  Ibid., III, d. 2, q. 2, n. 66, ed. Vaticana, IX, Ordinatio, Liber tertius a distinctione prima ad decimam septimam cit., p. 146, 502-504. 75  Cristo è  dunque pienamente uomo e  pienamente Dio; cfr.  ibid.,  d. 17, q. un., n. 5, ed. Vaticana, IX, Ordinatio, Liber tertius a distinctione prima ad decimam septimam cit., p. 564, 25-30: «Sicut secundum fidem firmiter tenendum est in Christo esse duas naturas et unam hypostasim, ita oportet concedere – sicut consequens ex illo – quod in ipso sint naturales proprietates et potentiae utriusque naturae; sed potentiae perfectissimae rationalis naturae sunt intellectus et voluntas; quare in ipso sunt intellectus creatus et voluntas creata». 76   Ibid., d. 2, q. 2, n. 61, p. 287, 427.

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ideo Christus non fuit praedestinatus propter casum aliorum, sed omnes praedestinati prius erant praedestinati quam praevisa et ordinata fuerit passio Christi 77.

A un ordine nel­l’amore corrisponde un ordine nella previsione: partendo da sé quale sommo bene, Dio conosce tutte le creature possibili; solo successivamente prevede che gli uomini sarebbero caduti con il peccato di Adamo e, di conseguenza, prevede e  stabilisce il  rimedio, cioè il  modo attraverso cui gli uomini sarebbero stati redenti per mezzo della Passione di  suo Figlio. Anche la  redenzione è  un dono gratuito, contingente: l’uomo infatti, argomenta Scoto, poteva essere redento diversamente che per mezzo della morte di  Cristo. Non c’è alcuna necessità che Cristo redima l’uomo per mezzo della sua morte, se non una ‘necessità di conseguenza’, cioè il fatto che Dio stesso abbia deciso che così Egli lo redimesse. La necessità di conseguenza è di questo tipo: se corro, mi muovo; il muovermi è una conseguenza del mio correre, ma il correre è, senza dubbio, contingente; perciò sia il correre che il muovermi sono contingenti. Similmente, la morte di Cristo fu un atto contingente come la previsione della sua Passione; poiché fu previsto che Cristo doveva patire, di fatto ha patito, ma sia la previsione che l’esecuzione sono contingenti, cioè libere, per amore: Omnia haec quae facta sunt a  Christo circa redemptionem nostram, non fuerunt necessaria nisi praesupposita ordinatione divina qua sic ordinavit facere; et tunc tantum necessitate consequentiae necessarium fuit Christum pati  –  sed tamen totum fuit contingens, et antecedens et consequens 78.

Tutto l’evento di  Gesù, l’Incarnazione, la  vita pubblica, la  Passione e la morte, fino alla sua Resurrezione, è illuminato dalla gratuità e dal dono. Scoto afferma che Cristo avrebbe potuto redimerci in modo diverso da come ha fatto, tuttavia ha scelto la morte in croce per attirarci maggiormente nel suo amore. Tale consapevolezza non può che suscitare una risposta d’amore, alimentando sentimenti di profonda gratitudine, devozione e adorazione: 77  Id., Lectura, III, d. 19, n. 20, ed. Vaticana, XXI, Lectura in librum tertium sententiarum, a distinctione decima octava ad quadragesimam cit., p. 32, 160-171. 78  Ibid., d. 20, n. 36, p. 51, 279-284.

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De facto libere, sui gratia, passionem suam ordinavit et obtulit Patri pro nobis. Et ideo multum tenemur ei: ex quo enim homo aliter potuit fuisse redemptus, et tamen ex libera voluntate redemit sic, multum ei tenemur, et amplius quam si sic necessario – et non aliter – potuissemus fuisse redempti. Ideo ad alliciendum nos ad amorem sui, hoc praecipue (ut credo) fecit et quia hominem voluit magis Deo teneri 79.

Q uesto il  cuore di  tutta la  cristologia di  Duns Scoto; questo, secondo Scoto, il  cuore del mistero di  Cristo e  del mistero di Dio.

7. Dal maius al summum: due prospettive a confronto Anselmo e  Duns Scoto riflettono sul­l’Incarnazione secondo impostazioni diverse: Anselmo si interroga sulle rationes necessariae della fede, sulla coerenza logica del progetto divino (la storia della salvezza); per tale motivo si muove sul piano ipotetico della sola ratio, indipendentemente dal­l’evento storico di  Cristo, per evidenziare il  bisogno umano di  Cristo. Duns Scoto, al  contrario, adotta la  prospettiva, tipica dello stile francescano, che privilegia la  libertà quale fondo del­l’essere, la  gratuità, che è  senza una ragione (nel senso della logica razionale) ma non per questo senza uno scopo, che segue una logica che va oltre la logica umana. È un altro livello di coerenza, quello della volontà, che oltrepassa la  mera consequenzialità logica della ragione umana, per inabissarsi nella logica e nella ratio del­l’infinito amore di Dio. Tuttavia, è proprio nel­l’amore, quale summa ratio e suprema lex, che è  possibile l’incontro. È quanto emerge nel finale del Cur Deus homo, dove giustizia e misericordia trovano una sintesi nella misericordia più grande: Nel Cur Deus Homo Anselmo scruta con la sua mente sottile e profonda e con tutte le capacità della sua ragione i motivi del­ l’Incarnazione. Anselmo vuole vedere nel­ l’opera della Redenzione, il cui centro è l’Incarnazione, un’opera suprema del­l’amore divino. Egli applica qui il principio che aveva già utilizzato nel Proslogion per dimostrare che Dio esiste vera-

  Ibid., n. 38, pp. 51-52, 293-299.

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mente. Sfruttando lo stesso principio, tenta di  stabilire che l’Incarnazione è  il vertice della manifestazione del­l’amore di Dio verso l’umanità, amore ‘di cui la ragione umana non può pensare nulla di  più grande’. Q ui dunque il pensiero di  Anselmo gravita intorno alla nozione d’amo­re, intorno al più alto grado d’amore che l’uomo possa concepire 80.

Da parte sua, Duns Scoto, partendo dalla consapevolezza che Dio è libero di fare ciò che vuole, si domanda quale posto abbia Cristo nella creazione per come essa è. Così facendo, contempla il piano di Dio alla luce del­l’ordine del­l’amore – Cristo è il primo voluto in quanto amante perfetto – e in virtù del principio metafisico secondo cui la causa finale è la ‘causa delle cause’, e ciò che è più perfetto non può essere in funzione di mezzo relativamente a quanto è meno perfetto 81. Se Cristo è voluto per se stesso, il peccato non può essere il motivo del­l’Incarnazione; infatti, se la caduta fosse causa della predestinazione di Cristo, ne seguirebbe che l’opera suprema di  Dio (summum Opus Dei) sarebbe stata solo occasionale, e il fatto che Dio avesse rinunciato a un bene così grande se Adamo non avesse peccato sarebbe molto irrazionale 82. Tuttavia, storicamente parlando, l’uomo ha peccato; perciò Dio, avendo previsto la  caduta di  Adamo, previde la  redenzione per mezzo di Cristo come scopo ulteriore del­l’Incarnazione: «Christus non venisset ut redemptor, nisi homo cecidisset – nec forte ut passibilis, quia nec fuit aliqua necessitas» 83. Scoto osserva che, di fatto, Cristo è venuto anche per la Redenzione, ma non solamente per essa, perché la sua gloria da sola supera infinitamente tutta la gloria dei beati riuniti 84. 80  Viola, Fede e ricerca del­l’intelligenza cit. (alla nota 15), p. 115. Cfr. anche ibid.,  p.  125: «Figlio del suo tempo, sant’Anselmo tenta di  utilizzare nella sua riflessione teologica tutte le risorse della ratio fino ad allora conosciute, con una coscienza metodologica che gli è propria. Infatti Anselmo è forse il primo teologo che applica coscientemente un metodo preciso in teologia». 81  Cfr. Duns Scotus, De primo Principio, Capitulum secundum, quinta conclusio, corollarium, Hrsg. Müller cit. (alla nota 61), p. 16 (tr. it., p. 68): «Illud, propter quod amatum ab efficiente, efficiens facit aliquid esse, quia ordinatum ad amatum in quantum amatum, est causa finali facti». 82 Cfr. Id., Reportata Parisiensia, III, d. 7, q. 4, n. 4, éd. Vivès, XXIII, Paris 1894, p. 303a. 83  Id., Ordinatio, III, d. 7, q. 3, n. 62, ed. Vaticana, IX, Ordinatio, Liber tertius a distinctione prima ad decimam septimam cit., p. 287, 431-433. 84  Cfr. ibid., pp. 287-288, 433-434.

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Il primato di Cristo è dunque assoluto: Egli è il primogenito di  ogni creatura, l’alfa e  l’omega, il  capolavoro di  Dio, ragione e  causa finale della creazione, previsto assolutamente e  indipendentemente da  qualsiasi merito o  caduta. Il  peccato è  solo un ‘accidente’, al  quale la  redenzione porterà rimedio con una Incarnazione ‘passibile’; anzi, in  questo contesto, il  peccato diventa occasione per un amore più grande: «Q uod ergo Christus voluit sic pati, processit ex amore intenso finis et nostri amoris quo dilexit nos propter Deum» 85. Cristo è il dono supremo da  parte del­l’Amore infinito di  Dio; la  predestinazione e  l’elevazione del­l’uomo e di tutta la creazione a Lui sono il dono più grande che Dio abbia potuto fare alle sue creature. A  motivo della assunzione da parte del Figlio di Dio, la creatura razionale può essere personalmente elevata alla comunione beatificante con Dio. Anche Anselmo perviene a  conclusioni analoghe: grazie al principio dialettico della grandezza, già sperimentato nel Proslogion, mette in evidenza che il gesto d’amore divino, quale appare nel­l’Incarnazione, è  il gesto più grandioso, del quale non se ne può pensare uno maggiore 86. Il riconoscimento del­l’amore di Dio avviene pertanto per mezzo della ragione umana, in una prospettiva analoga a quella del Proslogion – la grandezza – che si misura in  rapporto alla capacità di  comprendere del­l’uomo, ma che va oltre la stessa capacità di comprensione, come era stato dichiarato nel Proslogion: «Ergo, Domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit» 87. Anselmo riconosce che il mistero di Dio e il significato del­l’Incarnazione possono essere intuiti e  comunicati dal­l’uomo, in  modo meno inadeguato, con il linguaggio superlativo, o del­l’eminentia: questo è il culmine e il punto di arrivo del suo linguaggio teologico. Il dinamismo dello spirito umano, partendo da  un’affermazione positiva su Dio, trascende se stesso, consapevole dei limiti, oltre che delle possibilità, di ogni umano parlare su Dio. Con tale percorso, risalendo il  dramma del­l’uomo peccatore e  redento, 85   Id.,  Lectura, III, d. 20, n.  43, ed.  Vaticana, XXI, Lectura in  librum tertium sententiarum, a  distinctione decima octava ad quadragesimam cit., p.  53, 343-345. 86 Cfr. Cur Deus homo, II, 20, 430B, p. 131, 29 (tr. it., p. 176). 87  Proslogion, 1, 235C, p. 112, 14-15.

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la riflessione conduce alle soglie del mistero di Dio, nel cuore della vita trinitaria, dove la restaurazione del­l’umanità è pensata e voluta al di là dei limiti della originaria ‘instaurazione’: «Mirabilius Deus restauravit humanam naturam quam instauravit (…) Tanto ergo mirabilius Deus illum restituit quam instituit, quanto hoc de peccatore contra meritum, illud non de peccatore nec contra meritum fecit» 88. Si tratta di una vittoria di Dio sul peccato pensata a misura di Dio, cioè senza misura, in vista di un perfezionamento ulteriore della natura umana: «Non ergo in  Incarnatione Dei ulla eius humilitas intelligitur facta, sed natura hominis creditur exaltata» 89. Anche la  terminologia usata (satisfactio, restauratio, conciliatio) richiama tale dinamismo salvifico, che supera i limiti delle rationes necessariae e rimanda al­l’infinità del­l’amore e della misericordia. È quanto riconosce Bosone: «Vitam autem huius hominis tam sublimem, tam pretiosa apertissime probasti, ut sufficere possit ad solvendum quod pro peccatis totius mundi debetur, et plus in infinitum» 90. E Anselmo replica: «Misericordiam vero Dei quae tibi perire videbatur, cum iustitiam Dei et peccatum hominis considerabamus, tam magnam tamque concordem iustitiae invenimus, ut nec maior nec iustior cogitari possit» 91. Comune tra Anselmo e  Scoto è  dunque il  criterio metodologico adottato nel­l’accostarsi al  mistero di  Dio: il  metodo del­ l’eminenza, del maius come eccedenza, poiché lo stile proprio di  Dio è  quello della grandezza senza misura. Su questo punto la prospettiva anselmiana si incontra e converge con il cristocentrismo: l’aggettivo maius, che Anselmo usa costantemente e ripetutamente nel suo riferirsi a Dio, converge nel­l’eccesso di stupore e  gratitudine con cui Scoto definisce l’Incarnazione «summum Opus Dei». E di  fronte al­l’eccesso senza misura di  Dio, anche la risposta del­l’uomo non può che essere nei termini della ‘smisuratezza’, della lode senza misura, oltre ogni misura: «In commendando Christum  –  scrive Duns Scoto  –  malo excedere laudando quam deficere in laude sibi debita» 92. È la stessa attitudine di Anselmo:     90  91  92  88 89

Cur Deus homo, II, 16, 417A, p. 117, 6-13 (tr. it., p. 159). Ibid., I, 8, 369C, p. 59, 27-28 (tr. it., p. 93). Ibid., II, 18, 425C, p. 127, 6-8 (tr. it., p. 170). Ibid., 20, 430AB, p. 131, 27-29 (tr. it., p. 176). Duns Scotus, Ordinatio, III, d. 13, q. 4, n. 53, ed. Vaticana, IX, Ordi-

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Toto corde gratias agentes laudamus et praedicamus ineffabilem altitudinem misericordiae illius, quia quanto nos mirabilius et praeter opinionem de tantis et tam debitis malis in  quibus erramus, ad tanta et tam indebita bona quae perdideramus, restituit, tanto maiorem dilectionem erga nos et pietatem monstravit 93.

8. Il cuore del­l’Incarnazione è l’amore «Mirabilius Deus restauravit humanam naturam quam instauravit» 94: la  fedeltà di  Dio, la  stabilità nel­l’amore, che Anselmo esprime nei termini di giustizia e necessità, è espressione di grande misericordia. L’Incarnazione rappresenta il  punto più alto di incontro tra Dio e  l’uomo: si tratta di  un mistero inaccessibile alla sola ragione, di  un prodigio impenetrabile, di  fronte al  quale l’intelligenza è  costretta al  silenzio e  si apre allo stupore; senza l’intervento diretto di Dio, ogni uomo sarebbe stato creato invano. Con una sottilissima analisi logica e  linguistica, Anselmo dimostra che, parlando di  necessità o  immutabilità riferiti a  Dio, si intende «immutabilitas voluntatis eius, qua se sponte fecit hominem ad hoc ut in eadem voluntate perseverans moreretur, et quia nulla res potuit illam voluntatem mutare» 95. Per questa necessità, la volontà di amore al Padre e agli uomini, Egli divenne uomo: «Scito omnia ex necessitate fuisse, quia ipse voluit. Voluntatem vero eius nulla praecessit necessitas. Q uare si non fuerunt, nisi quia ipse voluit: si non evoluisse, non fuissent» 96. Egli offrì liberamente al Padre la propria vita, ciò che per nessuna necessità avrebbe mai perduto, e pagò per i peccatori quanto non doveva per se stesso. Pertanto ha dato un esempio, perché nessuno esiti nel rendere a Dio ciò che anche la ragione riconosce che gli è dovuto: «Tam pretiosam vitam, immo se ipsum, tantam scilicet personam tanta voluntate dedit» 97. natio, Liber tertius a  distinctione prima ad decimam septimam cit., p.  406, 369-371. 93  Cur Deus homo, I, 3, 364BC, p. 51, 50-51 (tr. it., p. 85). 94   Ibid., II, 16, 417A, p. 117, 6-7 (tr. it., p. 159). 95  Ibid., 17, 423A, p. 124, 7-9 (tr. it., p. 166). 96  Ibid., 424C, p. 125, 29-31 (tr. it., p. 168). 97  Ibid., 18, 426C, p. 128, 1-2 (tr. it., p. 171).

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L’esempio di  Cristo che dona al  Padre quanto non avrebbe ‘dovuto’, cioè la vita, e vive costantemente nella dimensione del ‘di più’, insegna al­l’uomo ad andare al di là del dovuto, nello spazio del ‘di più’, a  superare l’ambito del dovere e  della legge per entrare nella logica esistenziale della gratuità e del­l’amore: viene in soccorso alla libertà umana per aiutarla a liberarsi e rieducarsi dopo l’esperienza del peccato. L’uomo usa bene la propria libertà quando va oltre il dovuto, oltre la logica del calcolo e della misura. L’esclamazione di  Bosone è  un crescendo di  gratitudine, meraviglia e  stupore: «Nihil rationabilius, nihil dulcis, nihil desiderabilius mundus audire potest. Ego quidem tantam fiduciam ex hoc concipio, ut iam dicere non possim quanto gaudio evulse cor meum. Videtur enim mihi quod nullum hominem reiciat Deus ad se sub hoc nomine accedentem» 98. La categoria del dono è il punto in cui si accordano giustizia e misericordia che, pensate alla maniera umana, sembravano escludersi a vicenda; il loro incontro avviene su un piano più elevato, quello del­l’amore, la cui misura supera ogni umano pensare. Il procedimento razionale, adottato da  Anselmo e  perfezionato nel corso del­l’opuscolo, mostra la  verità del­l’Antico e  del Nuovo Testamento: il cammino della ragione incontra il linguaggio storico-narrativo della Parola rivelata, pur senza esaurirne la ricchezza; punto di arrivo di tale percorso è l’Incarnazione del Verbo, intesa come evento, con tutte le dimensioni e lo spessore della storia. La necessità che Dio si faccia uomo, riconosciuta dalla ragione con un procedimento coerente, corrisponde al grido del­ l’umanità ferita e lacerata in attesa della salvezza. È la via ‘negativa’ del bisogno, della indigenza, della non-autosufficienza l’unica strada attraverso cui la ragione umana può aprirsi al­l’intervento di Dio nella storia; è la via che apre lo spazio al­l’unico evento che porta a compimento le attese, le esigenze e i desideri più profondi del­l’umanità.

  Ibid., 19, 429B, p. 131, 3-6 (tr. it., p. 175).

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IL ‘Q UADRATO’ DI ANSELMO (DAL CUR DEUS HOMO): DALLA GENERAZIONE DIVINA ALLA GENERAZIONE BIOLOGICA. SIGNIFICATO SIMBOLICO E STORICO-DOTTRINALE DI UNO SCHEMA DIALETTICO L’opuscolo Cur Deus homo, insieme al Monologion e al Proslogion, è tra le più celebri opere di Anselmo d’Aosta. Fu iniziato in Inghilterra tra il  1094 e  il 1095, nel corso delle persecuzioni attuate in quel regno contro la Chiesa, e fu terminato dal­l’autore nel 1098 in  Italia, durante il  suo esilio nel monastero campano di Liberi. Redatto in forma dialogica, esso sviluppa un programma di chiarificazione razionale del dogma cristiano del­l’Incarnazione di Cristo, argomentando le rationes necessariae, ovvero presentando gli argomenti di  ragione in  grado di  dimostrare la  razionalità del­ l’Incarnazione, utili nelle controversie con l’ebraismo e l’Islam ma anche, sul fronte cristiano, utilizzabili nelle dispute contro coloro che, come Roscellino di Compiègne, propugnavano l’esten­sione del­l’Incarnazione anche alle altre Persone della Trinità 1. Il significato teologico e  metafisico di  questo programma anselmiano è stato ampiamente indagato 2. Parimenti, è stato fatto *  Si pubblica qui l’ultimo saggio scritto da Romana Martorelli Vico, compianta studiosa della storia della medicina e del­l’embriologia nel Medioevo, scomparsa a Macerata il 2 gennaio del 2011. 1 Scrive a  questo proposito A.  Ghisalberti, Il  compito del­l’intelligere e la figura del­l’intelletto nel Cur Deus homo, in Cur Deus homo, Atti del Congresso Anselmiano Internazionale (Roma, 21-23 Maggio 1998), a  c. di  P.  Gilbert  –  H.  Kohlenberger  –  E.  Salmann, Roma 1999, [pp.  311-331], p.  312: «Bosone, interlocutore vivo e  non accomodante, si fa interprete dei plures, dei molti che si interrogano su quale sia la necessità o la ragione per cui Dio onnipotente ha assunto la natura umana debole e inferma per restaurarla». Cfr. anche C.  É. Viola, Anselmo d’Aosta. Fede e  ricerca del­l’intelligenza, Milano 2000, pp. 103-105. 2  Le voci bibliografiche relative al  pensiero del­ l’arcivescovo di  Canterbury sono molto numerose. Per questo motivo rimando al­l’utile sintesi di G. d’Ono­ Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 293-300 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112922

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opportunamente notare come la mancanza di un sistema filosofico dominante nel pensiero di  Anselmo d’Aosta abbia di  fatto lasciato spazio nella sua ricerca a una purificazione e precisazione del linguaggio del senso comune 3. Q uesta strategia dialettico-razionale può essere ravvisata in forma esemplare nel capitolo 8 del libro II del Cur Deus homo dove si trova, come è  noto, un singolare esercizio logico che può essere considerato anche come una particolare estensione al­l’ambito teologico di  una categoria concettuale fisico-biologica, enunciata attraverso l’uso di  una forma linguistica apparentemente generica perché presupposta dal­l’introduzione del verbo facere, in realtà fortemente allusiva del­l’idea di ‘generazione’ 4. Il contenuto di questo capitolo è stato analizzato e approfondito, nei suoi aspetti direttamente connessi al­l’uso da  parte di Anselmo d’Aosta del metodo dialettico, da Giulio d’Onofrio, nel suo contributo al Congresso romano del 1998 dedicato proprio a quest’opera del Doctor magnificus 5. Più recentemente e da una diversa angolatura, questo capitolo è  stato preso in  esame anche nello studio antropologico di Maaika Van der Lugt dedicato alle teorie medievali della generazione straordinaria, proprio per queste sue implicazioni extra-teologiche 6. Tenuto conto di  questi autorevoli e  fondamentali studi, riproporre di  nuovo al­l’attenzione queste poche pagine anselmiane ha il  solo scopo di chiarire ulteriormente i nessi impliciti tra le diverse generationes a cui il discorso di Anselmo d’Aosta sembra alludere, riprenfrio, Anselmo d’Aosta, in Storia della Teologia nel Medioevo, 3 voll., Casale Monferrato 1996, I, I princìpi, pp. 481-533 e alla bibliografia contenuta nella recente edizione italiana del Cur Deus homo: Anselmo d’Aosta, Perché un Dio uomo?; Lettera sul­l’incarnazione del Verbo, a c. di A. Orazzo, Roma 2007, pp. 63-71. Sulla teologia e l’antropologia anselmiane e il Cur Deus homo in particolare, si vedano, oltre al già citato volume relativo al Congresso romano del 1998, i recenti studi: N. Albanesi, Cur Deus homo: la logica della redenzione. Studio sulla teoria della soddisfazione di S. Anselmo arcivescovo di Canterbury, Roma 2002; R. Nardin, Il  Cur Deus homo di  Anselmo d’Aosta, Roma 2003; M.  Zoppi, La  verità sul­ l’uomo. L’antropologia di Anselmo d’Aosta, Roma 2009. 3 Cfr. Viola, Anselmo d’Aosta cit., p. 126. 4 Cfr. Cur Deus homo, II, 8, 405-407, pp. 102-104. 5 Cfr.  G. d’Onofrio, Anselmo e  i  teologi moderni, in  Cur Deus homo cit. (alla nota 2), [pp. 87-146], pp. 125-130. 6  Cfr. M. Van der Lugt, Le ver, le démon et la Vierge. Les théories médiévales de la génération extraordinaire, Paris 2004, pp. 33-41.

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dendo a tal fine alcune idee generali già formulate da Van der Lugt e sostanzialmente condivisibili, in particolare i diversi significati del concetto di generatio, rintracciabili nella tradizione testuale del Medioevo latino. Tra gli argomenti necessari a  dare corpo a  questa complessa impresa dottrinale, pedagogica e  apologetica, introdotti da An­sel­mo nella sua opera c’è ovviamente il tema della riparazione del debito contratto dal­l’uomo con Dio a causa del peccato originale. Tale riparazione, e  la conseguente salvezza del­l’umanità, è resa possibile, sostiene l’autore, dal­l’offerta libera che Cristo, Dio-uomo, fa di sé stesso al Padre. Il tema della trasmissione del peccato originale da  Adamo a  tutto il  genere umano sembra avere qui un prevalente significato giuridico-penale, espresso in  particolare dal linguaggio di Anselmo che si serve delle categorie del rapporto feudale servosignore 7. La questione del rapporto peccato originale/generazione umana è profondamente radicata nella riflessione cristiana occidentale, a partire da Agostino, il quale identifica il peccato originale con la  concupiscenza, cioè con l’imperfezione morale della natura umana che è  conseguita alla disobbedienza di  Adamo. Da quel momento l’uomo, secondo Agostino, si volge spontaneamente verso il suo bene individuale e temporale e questo dominio della concupiscenza implica un disordine della natura e uno stato di  peccato in  ogni uomo, anche prima di  ogni atto personale. Del male di Adamo sono responsabili anche i suoi posteri, in  quanto si trovano virtualmente e  materialmente contenuti in lui, che è il loro progenitore. Infatti è attraverso la generazione, sempre sottomessa alla concupiscenza attuale, che il peccato personale di Adamo è imputato come colpa ai suoi discendenti 8. Anselmo rielabora in vari testi tale dottrina dandole un significato nuovo rispetto a  questa tradizionale visione agostiniana ancora dominante agli inizi del dodicesimo secolo. Egli infatti non identifica il  peccato originale con la  concupiscenza ma lo 7  Si veda in particolare il libro II del Cur Deus homo. Cfr. a questo proposito l’Introduzione di  Antonio Orazzo alla già citata edizione italiana: A.  Orazzo, Introduzione, in  Anselmo d’Aosta, Perché un Dio uomo? cit., [pp.  5-61], pp. 26 e 32-33. 8 Cfr. J. B. Kors, La justice primitive et le péché original d’après S. Thomas. Les sources. La doctrine, Paris 1922, pp. 3-22.

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definisce come la  perdita di  quella rettitudine della volontà (o giustizia originale) che l’uomo possedeva prima della caduta. Tutti gli uomini dunque partecipano di  una stessa natura reale che fu creata in  Adamo e  che si propaga nel­l’atto della generazione. Non  è dunque a  causa della concupiscenza che essi sono resi colpevoli, ma per questa unità della natura di ogni uomo con quella del suo progenitore 9. Q uesta idea anselmiana sul peccato originale rappresenta un presupposto fondamentale della descrizione delle modalità della generazione, umana e divina, così come sono illustrate in questo breve capitolo. Infatti con essa Anselmo d’Aosta pone l’accento sul­l’unità della natura di ogni uomo con quella di Adamo, ricevuta attraverso la generazione 10. Un altro presupposto fondamentale della riflessione anselmiana nel Cur Deus homo è  di tipo dogmatico e  riguarda l’assunzione da  parte di  Cristo della natura umana nel­l’unità della persona, secondo il pronunciamento del concilio di Calcedonia. Come segnala Van der Lugt 11, una significativa menzione di questo capitolo del Cur Deus homo si trova, fra le  altre, anche nel dizionario Catholicon, del domenicano genovese Giovanni Balbi, della seconda metà del tredicesimo secolo, che per primo lo pone in relazione con il concetto di generazione, utilizzandolo proprio al­l’interno della voce «genero», dove viene attribuita appunto ad Anselmo d’Aosta l’invenzione del modello concettuale di una generazione ‘quadruplice’, quindi di  un punto di  vista senz’altro originale sulla relazione tra generazione divina e generazione umana 12.  Cfr. ibid., pp. 23-35. Cfr. Cur Deus homo, II, 8, 405A, p. 102.  Cfr. ibid., II, 8, 405B, p. 103, 1-5: «Sicut enim rectum est, ut pro culpa hominis homo satisfaciat, ita necesse est, ut satisfaciens idem sit qui peccator aut eiusdem generis. Aliter namque nec Adam nec genus eius satisfaciet pro se. Ergo sicut de Adam et Eva peccatum in omnes homines propagatum est, ita nullus nisi vel ipsi vel qui de illis nascitur, pro peccato hominum satisfacere debet». 11 Cfr. Van der Lugt, Le ver cit. (alla nota 7), p. 38. 12  Cfr. Johannes Balbus, s.v. Genero, in Id., Catholicon, Mainz 1460, senza foliazione (rist. an. Westmead  –  Farnborough  –  Hants 1971): «Et invenitur quadruplex generacio quia ut dicitur Anshelmus, Deus quatuor modis hominem fecit scilicet sine viro et femina, sicut patet in  generacione Ade  (…). Item de viro sine femina sicut fuit generacio Eve que est facta de costa viri dormientis, sicut dicam in mulier. Item de viro et femina sicut patet in generacione Seth et communiter aliorum hominum. Item de femina sine viro sicut fuit in generacione 9

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Come è stato bene messo in evidenza dalla studiosa olandese, gran parte degli autori medievali che si sono confrontati con il tema della generazione, in genere filosofi e teologi successivi ad Anselmo d’Aosta, hanno inteso il termine generatio in un senso molto ampio, che è in relazione con oggetti molto diversi tra loro: uomini, animali, piante, minerali, e anche Dio. Pur nella consapevolezza del­l’esistenza di precise distinzioni concettuali tra la generazione come movimento, la generazione animale e umana come riproduzione e la generazione divina, essi colgono tra queste differenti accezioni o significati interessanti analogie. Una prima accezione del concetto di  generatio, così come è inteso dagli autori medievali, rimanda alla generazione fisica, che riguarda essenzialmente gli elementi e i corpi misti e che ha sullo sfondo la  teoria aristotelica del movimento, sviluppata soprattutto nel De generatione et corruptione, dove Aristotele descrive la  generazione come movimento di  crescita, decrescita, spostamento nello spazio e in generale come cambiamento delle qualità accidentali e sostanziali dei corpi. Una seconda e  più propria accezione è  la generazione intesa come atto biologico, che riguarda la  riproduzione degli esseri viventi più complessi, l’uomo e  gli animali, ma che presuppone anche la precedente definizione di generazione come movimento. In  questa seconda accezione, generatio fa riferimento propriamente ed essenzialmente al  passaggio dal non-essere al­l’essere, attraverso l’unione di un maschio e di una femmina, dove l’essere generato è della stessa natura o sostanza di ciò che lo genera. Sullo sfondo di  queste constatazioni esperienziali si colloca il  principio aristotelico della generazione come ‘replica formale’: l’uomo genera l’uomo, così come un cavallo genera un cavallo 13. Una terza accezione di generatio si riferisce propriamente alla generazione divina, annoverabile tra le  generazioni cosiddette ‘straordinarie’ e che ha a che fare quasi sempre con un significato Christi qui singulariter natus est de virgine Maria. Hec generacio figurata fuit Gen. XV ubi dicitur generacione quarta revertentur huc. Q uia scilicet in Christi generatione exules ad patriam celestem revertuntur». 13 Cfr.  Aristoteles, Metaphysica, XII, 3. A  partire dal sec. xiii, quando inizieranno a essere disponibili le traduzioni delle opere biologiche aristoteliche, questo principio verrà ribadito anche sulla base delle dottrine embriologiche del De generatione animalium.

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analogico o metaforico. ‘Generare’ in senso metaforico o analogico appartiene soprattutto al  vocabolario della teologia, come viene bene esplicitato ad esempio nel­l’idea della relazione trinitaria del Padre che genera il Figlio e nel­l’idea della generazione o ri-generazione spirituale attraverso il  sacramento del battesimo. Infatti in generale in ambito teologico ‘generazione’ si dice per significare il modo in cui il Figlio procede dal Padre nella sua natura divina, nel senso che l’intelletto divino produce un termine simile a  sé nella natura, in  quanto il  Figlio è  l’immagine della sua sostanza o del suo essere. Il significato analogico con la generazione parentale è evidente, perché proprio della generazione è produrre qualcosa di simile a colui che genera, come nella generazione biologica dove il padre generante comunica al figlio parte della sua sostanza specifica 14. Inoltre, nel più specifico contesto sacramentale, l’idea della generazione è afferente, nel suo significato metaforico, alla funzione ri-generativa del battesimo: come vi è una parentela biologica relativa alla generazione fisica, così vi è una parentela spirituale relativa alla generazione spirituale 15. Anche Anselmo d’Aosta in questo breve capitolo del libro II del Cur Deus homo, intitolato Q uod ex genere Adae et de virginefemina Deum oporteat assumere hominem, tratta della generazione divina, ma la considera in un modo diverso e più ampio rispetto alle consuete accezioni teologiche di tipo analogico e metaforico. Pur operando infatti in  un contesto culturale pre-aristotelico, almeno per quanto riguarda le nuove acquisizioni relative ai contenuti dottrinali delle scienze naturali, egli non considera la generazione della natura umana di Cristo, pur essendo di origine divina, come una metafora o un’analogia della generazione biologica, ma la ritiene una generazione a tutti gli effetti. Q uesto breve capitolo presenta dunque almeno due diversi piani di  lettura, intimamente correlati: un piano strettamente teologico, nella sua parte iniziale, che introduce l’argomento che 14 Cfr. P. Del­l’Aq  uila, s. v. Generazione, in Dizionario portatile della teolo­ gia, II, Venezia 1768, pp. 95-97. 15 Cfr.  Thomas de  Aq uino, Summa theologiae, Suppl., q. 56, a. 2, ed. P.  Ca­ramello, Torino 1956, p.  186: «Sicut enim se habet corporalis cognatio ad corporalem generationem, ita spiritualis ad spiritualem. Sed solum baptismus dicitur spiritualis generatio. Ergo per solum baptismum contrahitur spiritualis cognatio: sicut et per solam generationem carnalem carnalis cognatio».

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verrà trattato, cioè l’indagine sulla ragione o necessità e sul modo in  cui Dio, che è onnipotente, ha assunto la bassezza e  la debolezza della natura umana per restaurarla, ovvero l’Incarnazione, dove è necessario presupporre la dottrina anselmiana sulla giustizia originale e sul peccato originale; e un piano logico-razionale, nella parte centrale del capitolo, che vede il  trionfo del metodo dialettico, dove viene data indirettamente la definizione di ‘generazione’ attraverso uno schema linguistico-formale introdotto per rispondere al problema posto. Vi sono due condizioni poste da Anselmo in questo capitolo affinché abbia senso l’attuazione del piano salvifico, cioè la reintegrazione in tutti gli uomini della natura umana corrotta a causa del peccato originale ed ereditata da Adamo: la prima, realistica, richiede che il  Dio-uomo debba appartenere al  genere umano, quindi debba discendere da  Adamo; la  seconda, estetico-teologica, suggerisce come sia più bello e  più degno (ma forse anche logicamente necessario) che quest’Uomo sia procreato o dal solo uomo o dalla sola donna, piuttosto che dal­l’unione dei due, come per tutti gli altri figli di Adamo e come suggerisce il parallelismo logico con Adamo stesso, creato e non generato secondo una generazione carnale. Va aggiunta ancora una postilla per chiarire che il punto di vista di Anselmo d’Aosta è sostanzialmente il punto di vista di Dio, il quale non ‘genera’ l’uomo, ma lo ‘crea’ o lo ‘fa’. Essendo Dio l’artefice del­l’essere nella sua totalità, il suo atto non può essere completamente descritto dal realistico generare o dal­ l’ancor più biologico gignere. Scrive dunque Anselmo che Dio può ‘fare’ (facere) l’uomo in quattro modi: dal­l’uomo e  dalla donna, come mostra continuamente l’esperienza; senza uomo e senza donna, come fu per la ‘creazione’ di Adamo; dal­l’uomo senza la donna, come ‘fece’ Eva (sicut fecit Evam); dalla donna senza l’uomo, come non aveva ancora fatto, prima del­l’Incarnazione di  Cristo 16. Per provare che anche questa quarta modalità non è  solo una conseguenza necessaria dopo le  prime tre ma è  sottomessa al  potere divino,

16 Cfr. Cur Deus homo, II, 8, 406A, p. 104, 3-6: «Q uatuor modis potest deus hominem facere. Videlicet aut de viro et femina, sicut assiduus monstrat usus; aut nec de viro nec de femina, sicut creavit Adam; aut de viro sine femina, sicut fecit Evam; aut de femina sine viro, quod nondum fecit».

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cioè è  una «scelta libera e  tenace della volontà divina» 17, che è stata solo cronologicamente differita, niente è più conveniente, sostiene Anselmo d’Aosta, che assumere che Cristo provenga da una donna senza l’uomo 18. La quarta modalità completa dunque, in modo coerente anche dal punto di vista logico, la rosa delle intersezioni possibili tra agire umano e agire divino. Lo schema dialettico ‘generativo’ che Anselmo d’Aosta descrive è dunque sintetizzabile in un quadrato logico 19, suddiviso in quattro sezioni, in ciascuna delle quali si può collocare una delle quattro opzioni possibili della generazione, tre delle quali appartengono alla generazione sovrannaturale o miracolosa. Tale quadrato dimostra così che l’Incarnazione di Cristo completa la serie delle possibilità che Dio ha stabilito nel­l’universo creato per generare un uomo e riunifica in un significato unitario creazione e generazione, l’eccezionale e l’abituale. Per concludere, da  un punto di  vista strettamente antropologico, si può affermare che in  questo particolare capitolo del Cur Deus homo alla generazione divina, intesa in  questo caso come generazione della natura umana di Cristo, viene attribuito da  Anselmo d’Aosta un significato analogico reale che la  mette in corrispondenza con la generazione biologica. Di conseguenza, la generazione divina attraverso l’Incarnazione non risulta essere una generazione virtuale (spirituale) ma una generazione concreta (sostanziale) come la generazione biologica dei discendenti di Adamo, la quale a sua volta, proprio in virtù delle intersezioni logicamente possibili, non è  prerogativa esclusiva del­l’uomo ma compete a ed è resa possibile da Dio stesso.

  Ghisalberti, Il compito cit. (alla nota 2), p. 323.  Cfr.  Cur Deus homo, ibid., 406B, p.  104,  6-8: «Ut igitur hunc quoque modum probet suae subiacere potestati et ad hoc ipsum opus dilatatum esse, nil convenientius, quam ut de femina sine viro assumat illum hominem quem quaerimus». 19 Cfr. Van der Lugt, Le ver cit. (alla nota 6), p. 39. 17

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1. Satietas mentis Nella lettera in cui intercede a favore del monaco Mosè, che ha abbandonato il monastero di Canterbury e che, pentito, vuole farci ritorno, Anselmo lo descrive come un figliol prodigo da riaccogliere con gioia, poiché non ha dissipato del tutto il tesoro ricevuto in monastero, ossia la satietas mentis, un concetto che pare difficile ricondurre ad una matrice esclusivamente intellettuale, ma che piuttosto esprime al meglio la completa soddisfazione, razionale e spirituale, derivante dalla condizione di monaco 1. La vocazione monastica di Anselmo – il quale molto spesso nel­l’epistolario ricorda quanto sia gratificante l’esperienza della vita cenobitica – non è mossa dal desiderio di esibire il proprio sapere, quanto dalla ferma volontà di scegliere Dio quale unico scopo del­l’anima e della mente 2. In effetti, uno dei tratti peculiari del­l’esperienza monastica di Anselmo d’Aosta è la compresenza dello slancio spirituale e della dimensione intellettuale, esemplificata dai frequenti riferimenti alla ragione e  al metodo razionale, non solo nelle opere

1  Cfr. Epistola ad Henricum priorem ceterosque fratres Cantuarienses, PL 158, 1201A, 140, pp. 285, 5 - 286, 12: «Moyses, carissimus frater noster (…) nondum exhausta mentis satietate, quam de spirituali mensa vestra acceperat, ad nostrum monasterium, quasi ad notum portum post multos mundani maris discursus tandem applicuit». 2 Cfr.  P. Salmon, L’ascèse monastique dans les lettres de saint Anselme de Cantorbéry, in Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec, Abbaye Notre-Dame du Bec, Paris 1959, pp. 509-519.

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 301-323 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112923

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più celebri ma anche nelle pagine del­l’epistolario, che di  quel­ l’esperienza rappresenta la fonte più ricca e preziosa. Se in passato le lettere, che pure rappresentano la parte più consistente del corpus anselmiano, non divennero mai parte integrante della sua opera – motivo per cui ebbero un’eco assai più limitata rispetto ad altri epistolari, come quello di Bernardo di Clairvaux 3 – oggi, alla luce dei risultati della lunga e difficile opera di ricostruzione della complessa tradizione epistolare anselmiana, esse hanno finalmente conquistato, agli occhi della storiografia più avveduta, un posto di rilievo accanto ai più noti opuscoli teologici e filosofici, di cui rappresentano, nel­l’unica e inscindibile visione di Anselmo, una sorta di necessario completamento affettivo e spirituale 4. L’omo3 Cfr. R. W. Southern, Verso una storia della corrispondenza di Anselmo, in Anselmo d’Aosta figura europea, Atti del convegno di studi (Aosta, 1-2 marzo 1988), a c. di I. Biffi – C. Marabelli, Milano 1989 (Biblioteca di cultura medie­ vale. Di fronte e attraverso, 231), pp. 269-289. 4  L’edizione critica del­ l’epistolario di  Anselmo è  in Sancti Anselmi Opera Omnia, ed.  F.  S. Schmitt,  voll. III-V, Edinburgh 1946-1951. In  particolare, il volume  III contiene le  Epistolae 1-147, il  volume IV le  Epistolae 148-309 e  il volume V le  Epistolae 310-475. Le lettere scritte quale priore del Bec sono le  prime  87, le  lettere dalla 88 alla 147 sono scritte in  qualità di  abate del  Bec, mentre le  successive sono scritte in  quanto arcivescovo di  Canterbury. L’edi­ zione Schmitt ha completamente ridefinito il  corpus epistolare anselmiano rispetto al­l’edizione seicentesca del benedettino Gabriel Gerberon, poi confluita in PL  158, 1059A-1208A e  PL 159,  9A-272A. Per le  corrispondenze delle lettere fra le  due edizioni, cfr.  Sancti Anselmi Opera Omnia, ed.  Schmitt  cit., III, pp.  95-96; V,  pp.  XV-XVII. Per la  ricostruzione della tradizione epistolare anselmiana, cfr.  F.  S. Schmitt, Zur Überlieferung des Korrespondenz Anselms von Canterbury. Neue Briefe, in  «Revue Bénédictine», 43  (1931), pp.  224238; Id., Zur Entstehungsgeschichte der handschriftlichen Sammlungen der Briefe des hl. Anselm von Canterbury, in  «Revue Bénédictine», 48  (1936), pp.  300317; Id.,  Die Cronologie der Briefe des hl. Anselm, in  «Revue Bénédictine», 64  (1954), pp.  176-207; A.  Wilmart, La  tradition des lettres de S.  Anselme. Lettres inédites de S. Anselme et de ses correspondants, in «Revue Bénédictine», 43  (1931), pp.  38-54; W.  Fröhlich, Die Entstehung der Briefsammlung Anselms von Canterbury, in «Historisches Jahrbuch», 100 (1970), pp. 457-466, poi con il  titolo The Genesis of   the Collections of   St.  Anselm’s Letters in «The American Benedicine Review», 35  (1984), pp.  249-266; R.  W. Southern, La  trasmissione delle prime lettere di  Anselmo, in  Anselmo d’Aosta figura europea cit., pp. 133-143. Cfr. inoltre i preziosi saggi introduttivi ai tre volumi della traduzione italiana, Anselmo d’Aosta, Lettere, in Id., Opere, a c. di I Biffi – C.  Marabelli, 3  voll., Milano 1988-1990-1993 (Di fronte e  attraverso), che riproducono il  testo latino critico del­l’edizione Schmitt: I.  Biffi, Anselmo al  Bec.  Amabilità e  rettitudine di  un monaco riuscito, in  Anselmo d’Aosta, Lettere, 1: Priore e  abate del Bec, Milano 1988, pp.  43-88; R.  W. Southern, La  tradizione delle Lettere di  Anselmo, priore e  abate del Bec, ibid.,  pp.  89-98;

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geneità della produzione anselmiana suggerisce, infatti, di sfumare la distinzione tra le sue opere rivolte a indagare le più importanti questioni teoretiche e la sua corposa raccolta di missive, suscitate spesso da motivazioni di ordine pratico, ma non per questo prive di spunti intellettuali. Scritte per i motivi più diversi (un legame di amicizia, un richiamo alla responsabilità, una richiesta di  intercessione, una questione ecclesiastica), le  lettere trattano tutti gli aspetti della vita monastica con uno slancio spirituale che non è  mai scevro da  una vigile tensione speculativa e  da una speciale cura nella scelta delle argomentazioni. D’altro canto, il  presupposto dei superbi sforzi razionali che sono alla base di  opere come il  Monologion o il Cur Deus homo è rappresentato dal­l’adesione piena e convinta al contenuto della rivelazione, per cui non stupisce che tra le  pagine del­l’epistolario si scoprano con una certa frequenza tracce di un utilizzo del termine ratio coerente con i presupposti gnoseologici ed epistemologici enucleati nei suoi trattati, e  potenziato, per così dire, dal calore del­l’esperienza monastica, vissuta in  prima persona e  trasmessa come modello di  vita. Può dunque essere utile provare a  definire i  contorni di  questa ‘ragione monastica’, da intendersi non come una comoda formula di sintesi, ma piuttosto come una categoria – insieme teologica, filosofica e spirituale – dotata di una sua specificità al­l’interno del pensiero di Anselmo. Il presupposto epistemico della ragione anselmiana può essere individuato in una concezione del sapere che pone in intima relazione la scientia nella quale eccelleva il maestro Lanfranco con la  sanctitas: il  sapere anselmiano riconosce se stesso come riflesso della sapientia divina, per cui la conoscenza di sé e del mondo

G.  Picasso, La  Chiesa anglo-normanna nella seconda metà del secolo XI, in Anselmo d’Aosta, Lettere, 2.1: Arcivescovo di  Canterbury, Milano 1990 (Di fronte e attraverso, 212), pp. 15-37; I. Biffi, Anselmo dal Bec a Canterbury: riluttanza e coscienza episcopale. Gli inizi, ibid., pp. 39-83; R. W. Southern, Trasmissione della corrispondenza arcivescovile di Anselmo, ibid., pp. 85-96; I. Biffi, Anselmo arcivescovo e monaco: le tribolazioni per la «libertas ecclesiae». L’azione pastorale. Il  tramonto a  Canterbury, in  Anselmo d’Aosta, Lettere, 2.2: Arcivescovo di  Canterbury, Milano 1993 (Di fronte e  attraverso, 296), pp.  17-108; A.  Granata, L’epistolario anselmiano: un monumento di  vita e  di letteratura, ibid., pp. 109-154.

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è anche conoscenza di Dio 5. Rivolgendosi al pontefice Urbano II, Anselmo scrive che Dio opera più spesso attraverso la vita di illetterati che ricercano le cose di Dio, che non attraverso l’abilità di sapienti che cercano il proprio interesse: il sapere, la conoscenza sono valori da perseguire se sono rivolti a Dio, se in Dio trovano il loro senso più profondo e più vero 6.

2. Apertis rationis Per valutare la reale portata della ratio anselmiana, ovvero la misura del contributo razionale al­l’indagine sul divino, non si può fare a meno di evidenziare il frequente richiamo di Anselmo al­ l’efficacia del­l’argomentazione razionale, in qualsivoglia contesto. Descrivendo il  metodo del­l’intellectus fidei, Eadmero sottolinea che Anselmo si dedicò costantemente a Dio e agli studi teologici («caelestibusque disciplinis»), così da raggiungere un livello talmente alto nella speculazione divina («divinae speculatonis culmen») che con l’aiuto del­l’illuminazione di Dio riuscì a risolvere questioni estremamente complesse circa la natura di Dio e la fede cristiana, non risolte prima di lui, e a dimostrare con ragionamenti evidenti («apertis rationibus») che quanto asseriva era conforme alla dottrina cattolica. L’intenso studio di Anselmo mirava dunque, secondo il suo biografo, al­l’acquisizione della capacità di afferrare col suo intelletto, in accordo con la fede, quanto appariva ancora nebuloso ed irrisolto 7. 5  Cfr.  Eadmerus Cantuariensis, Vita Sancti Anselmi, I, 30, PL 158, [49-118], 74B, ed. R. W. Southern, in The Life of   St. Anselm Archbishop of   Canterbury by Eadmer, Edinburgh 1962 (ripr. Oxford 1972), p. 50: «Q ui vero non noverunt, ex eo intelligant, quod in quantum nostra et multorum fert opinio, non erat eo tempore ullus qui aut Lanfranco in auctoritate vel multiplici rerum scientia, aut Anselmo praestaret in sanctitate vel Dei sapientia». 6 Cfr. Epistola ad Urbanum papam, 1187BC, 127, p. 263, 30-32: «Ingerebat se etiam hoc menti meae quia saepe deus magis operatur per vitam illitteratorum quaerentium quae dei sunt, quam per astutiam litteratorum quaerentium quae sua sunt». 7 Cfr. Eadmerus Cantuariensis, Vita Sancti Anselmi, I, 7, 55A, ed. Southern cit., p.  12: «Factumque est ut soli Deo caelestibusque disciplinis jugiter occupatus, in  tantum divinae speculationis culmen ascenderit, ut obscurissimas et ante suum tempus insolutas de divinitate Dei et nostra fide quaestiones Deo reserante perspiceret ac perspectas enodaret, apertisque rationibus quae dicebat rata et catholica esse probaret. Divinis namque scripturis tantam fidem habebat,

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Colui che nel Cur Deus homo ha spinto l’uso della ragione fin dove forse nessuno aveva osato nei secoli precedenti (la sfida sola ratione del remoto Christo) è  lo stesso autore che, nella lettera indirizzata a Odone e Lanzone, dichiara di voler aggiungere pochi concetti rispetto a quanto è affermato nella stessa Scrittura 8, e che al perplesso Lanfranco scrive che ogni concetto espresso nel Monologion è  stato sottoposto al­l’azione del discernimento spirituale e al giudizio dei biblisti più esperti: solo laddove la ragione non ha potuto procedere con le proprie forze («ubi ratio deficit»), si è cercato conforto e conferma nel­l’autorità divina 9. Non c’è nel­l’opuscolo alcuna affermazione che non trovi la sua fondazione nella Bibbia e  nel De Trinitate di  Agostino: nessun ragionamento («nulla ratiocinatio mea»), per quanto necessario, avrebbe legittimato Anselmo ad appropriarsi delle verità desunte dalle auctoritates, che egli si è limitato a sintetizzare mediante un’argomentazione più stringata («quasi mea breviori ratiocinatione») 10. Nonostante si mostri piuttosto riluttante a donare una copia del­l’opuscolo al­l’abate Rainaldo, che ne aveva fatto esplicita richiesta, Anselmo è convinto della coerenza logica della sua opera, che la  pone al  riparo dalle critiche affrettate: in ogni caso, egli si dice disponibile ad ascoltare e ad approfondire ut indissolubili firmitate cordis crederet nichil in eis esse quod solidae veritatis tramitem ullo modo exiret. Q uapropter summo studio animum ad hoc intenderat, quatinus juxta fidem suam mentis ratione mereretur percipere, quae in ipsis sensit multa caligiine tecta latere». 8 Cfr.  Epistola ad Odonem et Lanzonem, 1064B-1065A, 2, p.  99,  25-30: «Q uapropter cum hoc quod a me poscis, ubique in sacris paginis multo melius possis invenire, et mansuetae gravitati tuae velim ob sui reverentiam, quantum in  me est, libenter oboedire: sic inter utrumque incedam, ut primum studendi in sacra scriptura tibi curam iniungam; deinde in mea persona non ex mea, sed ex eiusdem scripturae sententia pauca subiungam». 9 Cfr.  Epistola ad Lanfrancum archiepiscopum Cantuariensem, 1139A, 77, p.  199,  13-17: «De illis quidem, quae in  illo opusculo dicta sunt, quae salubri sapientique consilio monetis in statera mentis sollertius appendenda et cum eruditis in sacris codicibus conferenda, et ubi ratio deficit, divinis auctoritatibus accingenda: hoc et post paternam amabilemque vestram admonitionem et ante feci, quantum potui». 10  Cfr.  ibid.,  1139AB, p.  199,  21-26: «Etenim ea quae ex eodem opusculo vestris litteris inservistis et quaedam alia quae non inservistis, nulla mihi ratiocinatio mea, quantumlibet videretur necessaria, persuasisset, ut primus dicere praesumerem. Ea enim ipsa sic beatus Augustinus in libro De Trinitate suis magnis disputationibus probat, ut eadem quasi mea breviori ratiocinatione inveniens eius confisus auctoritate dicerem».

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ogni rettifica per l’amore della verità («amore veritatis servato»), purché espressa da parte di uomini ragionevoli e ben disposti sulla base di un’argomentazione condivisibile 11. A coloro i  quali non condividono la  decisione di  reintegrare i  ministri della fede che abbiano confessato il  completo pentimento per i propri errori, a meno che non si adduca a sostegno di tale concessione un’auctoritas scritturale, Anselmo ricorda che le argomentazioni esposte da papa Callisto e da Gregorio Magno sono così solide e convincenti da non lasciare dubbi in proposito: le  spiegazioni razionali possono dunque supplire pienamente alla Scrittura laddove in  essa non sia possibile trovare una risposta precisa ad una questione religiosa 12. La ragione discorsiva, la  ratio intesa come ragionamento, è  evocata anche nella lunga lettera indirizzata al  monaco Maurizio, verso il  quale Anselmo dimostra una speciale inclinazione anche a motivo della sua spiccata attitudine metafisica. Discutendo del significato dei termini «malum» e  «nihil», anticipando nella sostanza quanto andrà esplicitando nel capitolo  XI del De casu diaboli, l’abate sottolinea dapprima le «opposte ragioni» in forza delle quali l’espressione «non  aliquid» indica qualcosa per via di  negazione 13, per poi concludere che se in  base al  ragionamento precedente 11  Cfr. Epistola ad Rainaldum abbatem, 1144C, 83, p. 208, 21-27: «Q uapropter vestram vehementer efflagito sanctitatem, ut idem opusculum non verbosis et litigiosis hominibus, sed rationabilibus et quietis ostendat. Q uod si contigerit ut aliquis sic aliquid ibi reprehendat, ut eius ratio digna vobis cui responderi debeat videatur: rogo ut mihi quid quave ratione reprehendat, caritative aut eius aut vestris litteris mandetis. Q uatenus, caritatis pace et amore veritatis utrimque servato, aut me illius reprehensio aut illum mea corrigat responsio». 12 Cfr. Epistola ad Willelmum abbatem, 1127BC, 65, p. 183, 57-63: «Q ui autem huic sententiae, quae ad sacri ordinis officium reditum post lapsum concedit, nequaquam alia ratione, nisi auctoritate fulciatur scripturarum, vult consensum attribuere: legat epistolam beati Calixti papae directam universis episcopis per Galliam constitutis et beati Gregorii ad Secundinum inclusum, ubi ipsi hanc sententiam sic firmis et paene eisdem rationibus et auctoritatibus confirmant, ut nullatenus aliorum probatione indigeat». Poco prima, Anselmo aveva ricordato al­l’abate Guglielmo che le ragioni del conte che pretendeva di partecipare alle liturgie nonostante avesse subìto una scomunica potevano essere accolte solo se accompagnate dal rispetto della sentenza emanata dalla Sede Apostolica: cfr. ibid., 1126B, p. 182, 26-27: «Facilius quoque atque benignius apostolicum eius rationes suscepterum, si suam illum sententiam cognoverit reveritum». 13 Cfr. Epistola ad Mauritium monachum, 1157B, p. 227, 56-58: «Igitur haec vox ‘non-aliquid’ his diversis rationibus aliquatenus significat rem et aliquid, et nullatenus significat rem aut aliquid».

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(«hac ratione») i  termini «malum» e  «nihil» significano un qualcosa che però non è né il male né il niente, si dà un’altra argomentazione («alia ratio») per cui tali voci significano invece proprio ciò che viene significato 14. In una lunga lettera indirizzata al cardinale legato Gualtiero, vescovo di  Albano, Anselmo replica alla calunnia secondo cui i  vescovi inglesi avrebbero dichiarato la  loro fedeltà a  Canterbury dietro l’assicurazione che il nuovo arcivescovo avrebbe abbandonato la  Chiesa cattolica a  favore degli scismatici: un semplice ragionamento basterebbe a  smontare quest’accusa dinanzi ai suoi sostenitori 15. È sempre con la  forza del­l’argomentazione che l’abate del Bec risponde al­l’inaccettabile richiesta del­l’abate Pietro, che aveva attirato un novizio presso la  propria abbazia nonostante questi avesse già fatto domanda e  voto al  Bec, e  ora minaccia di ripiudarlo e chiede ad Anselmo di fare altrettanto 16. Anselmo si dichiara altresì pronto ad argomentare («rationabiliter ostendere») ad Enrico I la ragione per cui la consacrazione episcopale del vescovo di Winchester spetta a lui e non al­l’arcivescovo di York 17. Per quanto concerne il  ricorso alla ratio, dunque, ciò che emerge è  una sostanziale continuità fra le  lettere scritte al  Bec, dove Anselmo trova la pace spirituale e la quiete mentale, frutto della convergenza della «vera fides» e della «invincibilis ratio»  Cfr. ibid., 1157BC, p. 227, 66-68: «Sed cum hac ratione malum et nihil vere significent aliquid, et tamen quod sic significatur non est malum vel nihil, est tamen et alia ratio qua significant aliquid et quod significatur est aliquid; sed non vere aliquid, sed quasi aliquid». Sulla molteplicità delle argomentazioni addotte da Anselmo in un’opera a torto considerata minore, cfr. L. Catalani, L’estensione della ragione teologica: plures rationes e altiores rationes nel De conceptu virginali di Anselmo d’Aosta, in Rationality from Saint Augustine to Saint Anselm. Proceedings of  the International Anselm Conference (Piliscsaba, Hungary, 20-23 giugno 2002), ed. by C. Viola – J. Kormos, Piliscsaba 2005, pp. 231-242. 15 Cfr. Epistola ad Walterum legatum cardinalem episcopum, 68C, 192, p. 80, 43-45: «Certe nec sciebam nec scio eos scismaticos aut sic divisos ab ecclesia fuisse, ut dicunt. Et si aliquis eorum qui hoc vobis dicunt me praesente hoc diceret, ostenderem rationabiliter non ita esse». 16  Cfr. Epistola ad Petrum abbatem, 1174AB, 113, p. 248, 34-35: «Ad calumniam vestram quam dicitis rationem excusationis nostrae exposuimus». 17  Cfr.  Epistola ad Henricum regem Anglorum, 268D, 265, p.  180,  8-10: «Nam satis est notum quia ad me pertinet eius consecratio, nec alius eam debet facere nisi per me. Q uod paratus sum, si necesse fuerit, rationabiliter ostendere, sicut talis res ostendi debet». 14

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che gli consente di elaborare il Monologion e il Proslogion 18, e le lettere composte in qualità di arcivescovo di Canterbury, nelle quali il riferimento a un quadro di assoluta coerenza razionale appare spesso più urgente, ma non meno necessario.

3. Iusta ratione La portata della ragione anselmiana va oltre la  dimensione del­ l’efficacia argomentativa, configurandosi essa anche come criterio di  condotta, misura della giustezza e  della convenienza delle proprie azioni. Al monaco Enrico che nel suo tragitto dal­ l’Inghilterra a Roma non si è fermato al Bec, Anselmo scrive con malcelato risentimento dicendosi convinto che la mancata sosta sia stata dovuta ad un motivo ragionevole 19. Anselmo non dubita invece della bontà del sentimento di Lanfranco, il quale avrà avuto i suoi buoni motivi per non aver accompagnato la sua missiva con qualche dono prezioso: le scuse del­l’arcivescovo non sono assolutamente necessarie, ma confermano l’opinione del priore 20. Al monaco Roberto che ha lasciato volontariamente la sua abbazia, Anselmo dal­l’Inghilterra ricorda che questo è un comportamento intollerabile, se non è  motivato da  un’intenzione buona e da un motivo ragionevole 21. Ragionevole è anche il motivo per cui l’arcivescovo non ha potuto esaudire la richiesta di un colloquio da parte del cardinale legato Gualtiero, vescovo di Albano, inviato da Urbano II in Inghilterra per trattare direttamente con

18 Cfr.  Eadmerus Cantuariensis, Vita Sancti Anselmi, 1,  19,  60AC, ed. Southern cit., p. 29. 19 Cfr.  Epistola ad Henricum monachum, 267D, 24, p.  131,  7-8: «Q  uod quamquam ego non sine aliqua rationabili causa factum esse, si bene vestram novi dilectionem, non credam». 20  Cfr.  Epistola ad Lanfrancum archiepiscopum Cantuariensem, 1112C, 49, p. 162, 15-19: «Neque enim cum vestra suscipio dona, opus habeo eorum commendatione, quae nullatenus dubito vera mei dilectione fieri; neque cum non affluunt, indigeo excusatione, quia certus sum ea cessare aliqua iusta ratione, quam si vobiscum intelligerem, eligerem vobiscum». 21 Cfr. Epistola ad Robertum monachum, 1179AB, 119, p. 257, 3-6: «Dictum est mihi quia, postquam ivi in Angliam, noluistis in monasterio vestro conversari. Q uod si factum est bono animo et propter rationabilem causam utcumque potest tolerari; si vero aliquo rancore factum est, scitote me multum mirari».

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Guglielmo il  Rosso e  poi per impostare con lo stesso Anselmo la riforma della Chiesa anglosassone 22. Se ragionevoli gli appaiono i  consigli dei suoi monaci, come quello di rinunciare ad intraprendere un lungo e stancante viaggio verso Roma nel periodo più caldo del­l’anno 23, e i motivi per cui i  canonici regolari di  Saint-Q uentin desiderano rimuovere dalla carica l’abate Odone e sostituirlo con Gunterio 24, Anselmo fa fatica a  comprendere il  motivo («nescio quo consilio quave ratione») per cui Enrico I  non ha ancora provveduto ad inviare un legato presso il papa per informarlo del­l’esito del colloquio fra l’arcivescovo e il sovrano svoltosi a Laigle 25. Si capisce come per Anselmo non si tratti di una mera questione di opportunità, quanto piuttosto di un problema di coscienza che rischia di incrinare il rapporto di fiducia con il pontefice. Rientrato in Inghilterra, Anselmo dà immediatamente seguito alle istruzioni impartite da papa Pasquale II, che gli aveva ordinato di assolvere e benedire quanti avevano ricevuto investiture 26. Se in  questo caso la  ratio non ha un mero valore procedurale, poiché esprime la doverosa obbedienza al pontefice, in una lettera indirizzata a Muirchertach, re d’Ibernia, essa assume il significato di norma, di regolarità dei 22 Cfr. Epistola ad Walterum legatum cardinalem episcopum, 68A, 192, p. 79, 20-25: «Tunc monitus ut vobis occurrerem, quatenus colloqueremur de iis quae corrigenda sunt in hoc regno, rationabilem et susceptibilem reddidi causam: quia propter praedictum periculum et praeceptum regis venire non poteram, et nihil efficeremus nos duo absente rege et aliis, quorum assensu et consilio et operatione ad effectum duci posset colloquium nostrum». 23 Cfr. Epistola ad Ernulfum priorem et monachos Cantuariensis, 113C, 286, p. 205, 15-20: «Sciens enim scripturam divinam dicere: ‘Omnia fac cum consilio et post factum non paenitebis’ (Sir 32, 24), timui ne, si tam rationabili et amico consilio non acquiescerem, paenitentia sequeretur. Hac ergo ratione, quamvis praedicta comitissa me in  terra sua retinere et omnia necessaria libentissime vellet impendere, reversus sum in Normanniam». 24  Cfr.  Epistola ad G(unterium) canonicum S.  Q uintini Belvacensis, 143B, 345, p.  282,  3-6: «Sicut audio, confratres vestri Belvacenses, canonici ecclesiae Sancti Q uintini, non temere, sed ob multas rationes domnum O(donem), qui modo vester abbas dicitur, volunt ab hac praelatione removere et vestram fraternitatem loco eius substituere». 25  Cfr. Epistola ad Henricum regem Anglorum, 150A, 368, p. 312, 26. 26 Cfr.  Epistola ad Elferum priorem et monachos S.  Eadmundi, 241A, 408, pp. 353, 4 - 354, 7: «Q uod hactenus me subtraxi a communione domni Roberti, feci propter praeceptum et oboedientiam domini papae. Nunc autem iubente eodem domino papa, ea ratione qua ipse mihi praecepit, eum in pacem et communionem suscepi».

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legami coniugali, sulle cui condizioni il sovrano irlandese è esortato a vigilare 27. Al monaco Maurizio che aveva espresso il  desiderio di  ritornare al  Bec, Anselmo risponde dicendo che occorre attendere il  momento favorevole per inoltrare la  richiesta al­l’arcivescovo Lanfranco 28. Invitato a  raccomandare il  monaco Gunfrido presso Elgoto, priore di  Saint-Etienne a  Caen, Anselmo precisa di non voler chiedere un trattamento di favore che esoneri il suo assistito da una parte dei suoi doveri, bensì la concessione di un affetto familiare dettato dalla convenienza del suo comportamento e quindi da quella che può definirsi una giusta ragione 29. Similmente, raccomandando a  Gondulfo, vescovo di  Rochester, alcuni monaci provenienti dal Bec, Anselmo confida nel sentimento familiare di amicizia reciproca, in nome della quale chiede – «ubi ratio exiget» – una generosità commisurata alla disponibilità di  beni materiali e  spirituali del suo scrupoloso interlocu­ tore 30. Per rassicurare Ernulfo, appena eletto abate di  Troarn, Anselmo ricorda che non c’è ragione per cui il vescovo di Bayeux debba pretendere dal neoabate un atto formale di obbedienza per impartirgli la benedizione abbaziale, giacché appare del tutto superfluo richiedere una nuova professione monastica, dal momento che essa non è stata mai rinnegata bensì rinforzata dalla recente

 Cfr. Epistola ad Muriardachum regem Hiberniae, 174B, 427, p. 374, 25-26: «Auditur apud nos quia coniugia in  regno vestro sine omni ratione dissolvuntur et commutantur». Cfr.  anche Epistola ad Muriardachum regem Hiberniae, 178C - 179A, 435, p. 382, 16-19. 28 Cfr.  Epistola ad Mauritium monachum, 1106BC, 42, p.  154,  28-31: «De reditu tuo quod te desiderare significas, sub silentio adhuc decrevi supprimere, donec tempore opportuniori reverendo domino et patri nostro archiepiscopo Lanfranco, cuius voluntati nos oboedire oportet, desiderium nostrum rationabiliter valeamus suggerere». 29 Cfr. Epistola ad Helgotum priorem, 1111CD, 48, p. 161, 4-12: «Domnus abbas Rogerus, certus de vobis et de me (…) petiit a me quatenus eius frater Gunfridus, qui Cadumi moratur, vestrae sanctitati commendaretur per me. Non ut aliquando aut eius iniustitiae in aliqua causa a vobis faveatur (…) sed ut caritatem quam vos omni proximo scitis debere, familiarius illi, cum id ratio videbitur exigere, propter amorem nostrum dignemini exhibere». 30  Cfr. Epistola ad Gondulfum episcopum Roffensem, 1151A, 91, p. 218, 9-14: «Q uapropter numquam minus praesumam de vobis propter vestrum episcopatum (…), immo tanto magis – ubi ratio exiget –, quanto magis vobis suppetit et in terrenis facultas ex dignitate et in spiritualibus opportunitas ex sanctitate». 27

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elezione 31. Alla nobile signora Ermengarda, riluttante alla decisione del marito di farsi monaco, Anselmo ricorda che non ci sono argomenti validi per anteporre i  beni del suo corpo ai beni del­ l’anima del marito 32. Non stupisce che nella lettera a Folco, vescovo di Beauvais, che ruota intorno alle teorie di Roscellino, Anselmo ricorra più di una volta al termine ratio, con una diversità di sfumature, per giustificare alcuni dei passaggi più significativi. È in  primo luogo una ragione di opportunità quella cui l’abate richiama l’attenzione del suo interlocutore: se sussisteranno le giuste ragioni, Folco potrà esibire, in  occasione del concilio che l’arcivescovo di  Reims intende convocare per discutere le  dottrine trinitarie del maestro di  Compiègne, la  breve memoria difensiva contenuta nella lettera 33. Entrando nel merito, Anselmo afferma che al  sedicente cristiano il quale nega anche solo uno dei capisaldi della professione di  fede non si dovrà chiedere spiegazione («ulla  ratio») della sua malafede, né gli si dovrà mostrare spiegazione della verità, che gli risulterà manifesta naturalmente 34. Q uesto perché, chiarisce subito dopo Anselmo, è  da insipienti accendere una discussione su ciò che è  indiscutibilmente vero, mentre le  argomentazioni razionali sono opportune e  necessarie nei confronti degli empi 35.

31 Cfr.  Epistola ad Ernulfum abbatem Troarnensem, 1206D, 123, p.  264, 9-11: «Ad quod si quis nos vult cogere, cum ad abbatiae praelationem promovemur, sine ulla ratione fieri videtur». 32  Cfr.  Epistola ad Ermengardam, 1192A, 134, p.  277,  27-29: «Aut qua ratione potes ab eo exigere, ut ipse aeterna bona animae suae postponat temporalibus bonis corporis tui, si tu bona corporis tui praeponis bonis animae illius?». 33  Cfr.  Epistola ad Fulconem episcopum Belvacensem, 1193A, 136, pp.  279, 10  -  280,  12: «Q uoniam ergo puto reverentiam vestram ibi praesentem futuram, volo ut instructa sit quid pro me respondere debeat, si ratio exegerit». Cfr. ibid., 1194A, 281, 44-45: «Si ratio nominis mei exegerit, in totius conventus audientia legantur; sin autem, non erit opus ut ostendantur». 34 Cfr. ibid., 1193B, p. 280, 26-28: «Q uod si baptizatus et inter Christianos est nutritus, nullo modo audiendus est, nec ulla ratio aut sui erroris est ab illo exigenda aut nostrae veritatis illi est exhibenda». 35 Cfr. ibid., 1193C, pp. 280, 34 - 281, 38: «Fides enim nostra contra impios ratione defendenda est, non contra eos qui se Christiani nominis honore gaudere fatentur. Ab iis enim iuste exigendum est ut cautionem in  baptismate factam inconcusse teneant; illis vero rationabiliter ostendendum est, quam irrationabiliter nos contemnant».

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In un’altra lettera scritta dal­l’esilio, Anselmo invita Gondulfo vescovo di  Rochester a  comprendere le  ragioni del suo non ritorno in Inghilterra, ragioni – puntualizza Anselmo – che non sono insignificanti parole di un chierico, bensì motivi ragionevoli («rationabiles causae») e sui quali egli chiede sia mantenuto il riserbo 36, peraltro già spiegate al priore di Canterbury in un’altra epistola, nella quale si augura che la sua assenza forzata non comprometta i rapporti della Chiesa di Canterbury con il regno 37. Anselmo riconosce la giustezza dei molti e  ragionevoli motivi enunciati da  Ernulfo, priore di  Canterbury, a  sostegno della sua volontà di  ammettere i  giovani alla sua comunità monastica: una delle tante questioni pratiche sulle quali il  premuroso priore sollecita un parere del­l’arcivescovo 38. Altrettanto giusti sono i  motivi per cui almeno tre vescovi debbano partecipare al­l’ordinazione di un nuovo vescovo 39. Se Anselmo ha deciso di rivolgersi a  papa Pasquale  II, lo ha fatto solo dopo aver valutato attentamente l’opportunità della richiesta: l’aspirazione al  pallio da  parte di  Tommaso II di  York e  il timore di  una ripresa della lotta per le  investiture gli impongono di  interpellare il pontefice per avvertirlo dei rischi che corre la Chiesa inglese 40. In una lettera indirizzata ad Ugo, arcivescovo di Lione, Anselmo chiarisce la sua posizione circa i ruoli del­l’arcivescovo di Canterbury e del re, chiedendo al suo interlocutore una conferma o una 36 Cfr. Epistola ad Gundulfum episcopum Rofensem, 227A, 330, p. 263, 14-16: «Ibi, ut puto, legetis rationabiles causas quare nec debui, nec debeo, secundum quod res nunc est, redire in Angliam. Q uas tamen causas nolo publicari». 37  Cfr.  Epistola ad Ernulfum priorem Cantuariensem, 127B, 311, pp.  235, 3 - 236, 6: «Q uod vos et amici nostri doletis quia rediens Roma in Angliam non veni, hoc facit dilectio; sed quod pastoralem curam sine ulla ratione relinquere videor, non hoc aestimant sapientes religiosi, quibus rem ostendo, neque ego intelligo». 38  Cfr.  Epistola ad Ernulfum priorem Cantuariensem, 224A, 331, p.  265, 31-33: «De pueris et iuvenibus suscipiendis propter multas rationabiles causas, quas scripsistis, consilio vestro faveo, donec deo disponente redeam et haec et alia communi agamus consilio». 39 Cfr. Epistola ad Muriardachum regem Hiberniae, 179B, 435, p. 383, 7-9: «Minus quoque quam a tribus episcopis episcopus ordinari non debet, cum propter multas alias et rationabiles causas». 40 Cfr. Epistola ad Paschalem papam, 184C - 185A, 451, p. 398, 4-6: «Q uoniam fortitudo et directio ecclesiarum dei maxime post deum pendet ex auctoritate paternitatis vestrae: quando ratio exigit, ad eius libenter recurrimus auxilium et consilium».

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smentita alla sua cogitatio, purché accompagnata da  una chiara motivazione («ostensa ratione») 41. Q uest’ampia casistica dimostra come per Anselmo ogni azione debba essere ispirata da una giusta ed evidente ragione, ossia da  un motivo di  opportunità, di convenienza, di adesione ad uno stile comportamentale.

4. Rationabiliter Se in una lettera indirizzata a Bosone, la ratio è intesa ancora come criterio di  misura e  di valutazione del­l’opportunità di un’azio­ ne 42, in un’epistola indirizzata a papa Urbano essa sembra indicare un’esigenza più profonda, ovvero la comprensione dei compiti e dei doveri che spettano a ciascuno secondo il proprio grado: Anselmo esprime il ringraziamento per l’invio della delegazione che gli ha portato il pallio, anche se egli avrebbe desiderato rendergli visita personalmente, sia perché così era giusto fare («ratio id fieri postulabat»), sia per il bisogno di un consiglio e di un colloquio su argomenti di grave importanza 43. Nella celebre Epistola 156, indirizzata al priore Baldrico e agli altri monaci del Bec, Anselmo spiega che non avrebbe potuto rationabiliter resistere al­l’elezione a  motivo del suo impegno abbaziale, perché questo è  da intendersi come un atto di  offerta del­l’abate non solo ai monaci ma in  primo luogo a  Dio, è  cioè la  disponibilità, che non può conoscere eccezioni, a compiere sempre la sua volontà 44.  Cfr. Epistola ad Hugonem archiepiscopum Lugdunensem, 55AB, 176, p. 59, 48-51: «Intendat igitur prudentia vestra et consideret quid ex praedictis sentiam, quatenus sententiam meam litteris vestris aut approbetis aut ostensa ratione infirmetis, et me in eo quod magis tenendum est confirmetis». 42 Cfr.  Epistola ad Bosonem monachum Beccensem, 49A  -  50A, 174, p.  56, 8-11: «Si autem deus pacem et opportunitatem mihi dare dignabitur, ut tuae dilectionis mihi liceat frui praesentia: scito quia hoc ut fiat curabo libentissime, et si non semper, vel tantum quantum permittet ratio». 43 Cfr. Epistola ad Urbanum papam, 71AB, 193, p. 82, 7-11: «Nostri quippe, fateor, ordinis et officii intererat et praesentiam vestram ex more visitare, et eam, ut fieri decet, condigna reverentia honorare. Et id quidem, ex quo gradum episcopalem suscepi, summo desiderio fecere concupivi, cum quia ratio id fieri postulabat, tum quia consilio et alloquio vestro frui desiderabam». 44  Cfr.  Epistola ad Baldricum priorem ceterosque monachos Beccenses, 22C, 156, p. 20, 75-76: «Ad ea vero quibus vestrum putant me potuisse rationabiliter electioni praedictae resistere, breviter respondeo». In effetti, l’elezione alla sede arcivescovile di Canterbury aveva provocato ad Anselmo molti sentimenti con41

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In questa lettera, che esordisce con un tono da orazione, Anselmo applica tutta la sua raffinata e rigorosa dialettica per discutere e ribattere uno dopo l’altro gli argomenti dei monaci beccensi, facendo risaltare alla fine la coerenza della sua posizione e delle sue scelte, pure tanto sofferte. Il rationabiliter con cui Anselmo spiega il suo cedimento dopo le iniziali, sincere resistenze al­l’elezione al­ l’arciepiscopato, non è l’espressione di una mera ragionevolezza, bensì di  una più profonda razionalità, poiché l’accettazione si configura come sottomissione piena, volontaria e  convinta non ad un equilibrio di poteri ecclesiastici o tantomeno alla soddisfazione di ambizioni personali, bensì direttamente al volere di Dio che, per il monaco-arcivescovo, si manifesta nel­l’autorità del papa e nella regola benedettina. Rifiutando con fermezza la richiesta del cardinale legato Gualtiero di  programmare un incontro in  cui trattare «degli affari concernenti le  Chiese di  Dio», Anselmo afferma di  non poter lasciare Canterbury, auspicando che il legato accolga serenamente queste scuse («nostras rationabiles excusationes») che sono tanto ragionevoli quanto vere 45. La  volontà di  Anselmo si adegua, in maniera libera e convinta, alla razionalità e alla verità che la presiede: il suo codice etico non è opinabile poiché è ancorato ad un principio di verità indissolubile, ossia alla giustizia divina. Il  dovere di  Anselmo è  quello di  suggerire al  re, d’accordo con i vescovi e i nobili, in maniera conveniente e ragionevole (opportune et rationabiliter) il  da farsi, e  affidarsi per il  resto al­l’aiuto di Dio, affinché i desideri comuni possano esaudirsi 46. Avvertendo in  pieno la  responsabilità della sua carica, in  quanto garante della collegialità episcopale, Anselmo si rifiuta di  introdurre nel sinodo aggiunte o cambiamenti «non nisi consensu coepiscopo-

trastanti, tanto che il dolore per il distacco dai suoi monaci aveva prevalso sulla ragione: cfr. Epistola ad monachos Beccenses, 9C, 148, p. 4, 20: «Dolore rationem superante». 45 Cfr. Epistola ad Walterum legatum cardinalem episcopum, 66D - 67A, 191, p. 78, 20-22: «Precor igitur sanctitatis vestrae discretionem, quatenus aequo et pacato animo suscipiat has nostras rationabiles et quae infirmari nequeunt, quoniam verae sunt, excusationes». 46 Cfr. ibid., 67A, p. 78, 23-25: «Exspecto reditum domini mei regis et episcoporum et principum qui cum eo sunt, quatenus illi quae agenda sunt opportune et rationabiliter suggeramus».

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rum nostrorum» 47: mentre i vescovi erano favorevoli alla ricerca di un compromesso per motivi di ragionevolezza, Anselmo appare sordo a qualsiasi appello di moderazione e contrario ad ogni atteggiamento accondiscendente nei confronti delle esigenze mondane, che devono cedere il passo alla ragione incontrovertibile nella sua idealità. In una lettera indirizzata a  Matilde, regina d’Anglia, che lo aveva rimproverato di  aver suscitato con il  suo comportamento l’ira del re, compromettendo l’esito dei suoi sforzi per farlo tornare in  Inghilterra, Anselmo difende con una presa di  posizione netta e con stile apologetico la sua condotta, nella quale non si può scorgere nulla di  opaco e  di inopportuno, né tantomeno di  assurdo, poiché è  stata sempre ispirata alla ragione, ossia alla legge divina, in virtù del battesimo e del­l’ordinazione sacerdotale: in  questo senso, Anselmo non poté che opporre un ragionevole rifiuto alla richiesta di  infrangere le  disposizioni apostoliche ed ecclesiastiche e  di adeguarsi alla volontà del sovrano 48. Una conferma emerge dalla lettera a  Ordwio, monaco di  Canterbury, il  quale gli aveva riportato l’accusa di  non impegnarsi sufficientemente per ritornare nella sua arcidiocesi: lo farà, risponde Anselmo, quando si presenteranno le  giuste condizioni (rationabiliter) 49. Lo  stesso pensiero rivolge anche ad un altro monaco di  nome Guarnerio: egli farà ritorno in  Inghilterra appena avrà compreso la giusta maniera per farlo secondo il volere divino 50. Anselmo si rivolge anche a  Roberto, conte di  Meulan ed influente consigliere di  Enrico I, affinché solleciti il  sovrano a  risolvere il  problema del suo ritorno in  Anglia: un ulteriore ed ingiustificato rinvio della soluzione attirerebbe sul re   Epistola ad Willelmum archidiaconum Cantuariensem, 94D, 257, p. 169,

47

7-8.

48 Cfr. Epistola ad Mathildem reginam Anglorum, 226B, 329, p. 262, 23-26: «Ut ergo ostenderem quam rationabiliter recusem facere hoc quod a me requiritur secundum illorum consuetudinem, ostendi quomodo potius debitor sim apostolicam et ecclesiasticam cunctis notam servare constitutionem». 49 Cfr. Epistola ad Ordwium monachum Cantuariensem, 228B, 336, p. 273, 22-23: «Postquam de  Anglia exivi, numquam intellexi quomodo rationabiliter redire possem». 50   Epistola ad Guarnerium monachum novitum, 151A, 375, p.  319, 4-6: «Reditum quidem meum deo annuente non differam, quando ipso disponente intelligam me illud posse rationabiliter facere».

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l’ira divina poiché ostacolerebbe l’esito necessario e ragionevole della vicenda 51.

5. Intelligentia veritatis L’impressione che si deriva dalla lettura di questi passi è che attorno al concetto di ratio si coagulino alcune fra gli assi portanti del pensiero anselmiano, ossia la rectitudo, la verità e l’ordine. La ratio è l’espressione, soddisfacente ma sempre parziale, di una più ampia e completa intelligenza della verità, missione di ogni uomo di  fede, che può ottenersi solo grazie al­l’integrità morale e  al­ l’adesione libera e convinta alla verità, al­l’obbedienza e al­l’odine, in una parola alla rectitudo. In più di un’occasione, Anselmo invita i suoi monaci a «non deflettere mai dalla rettitudine», a non cedere alle suggestioni diaboliche di  chi li vorrebbe distogliere dalla «sinceritas honestatis et iustitiae» 52. Non è un appello convenzionale al rispetto della regula, ma una raccomandazione più incisiva, proveniente da un monaco che, anche da arcivescovo, affronta tutte le questioni da un punto di vista esclusivamente monastico, rivolto con indefettibile coerenza alla ricerca della verità e della giustizia. L’obbedienza è il presupposto della rettitudine, che a sua volta è la chiave di accesso alla verità. Rimproverando severamente il monaco Lanfranco, responsabile di gravi atti di insubordinazione, Anselmo lo ammonisce scrivendo che solo entrando in monastero per l’obbedienza e la retta via, ossia per Cristo, si può accedere alla verità 53. Rivolgendosi al maestro Unfrido affinché impartisca la sua dottrina a un giovane bisognoso, Anselmo ricorda che se l’istruzione umana può essere ricompensata, Dio apre il cuore 51  Cfr.  Epistola ad Robertum comitem de  Mellento, 369, p.  313, 15-17: «Q uapropter dico vobis quia valde timeo, ne ipse super se provocet iram dei et super eos, quorum consilio differt tam necessariae rei, tam rationabili succurrere». 52  Epistola ad Willelmum electum episcopum Wintoniensem, 142D, 344, p. 281, 7. 53 Cfr.  Epistola ad Lanfrancum monachum, 1195B  -  1196A, 137, p.  283, 43-46: «Fili mi, non intrasti per ostium, quia non intrasti per Christum. Non intrasti per Christum, quia non per veritatem. Non per veritatem, quia non per rectitudinem. Non enim intrat monachus in abbatiam per rectitudinem, qui non intrat per regularem electionem et per oboediantiam».

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degli uomini al­l’intelligenza della verità (intelligentia veritatis), senza chiedere nulla in cambio 54. Tuttavia, il dovere del cristiano è quello di confermare la rettitudine del proprio comportamento operando sempre secondo la legge della propria Chiesa. La travagliata elezione ad arcivescovo di  Canterbury è  per Anselmo l’occasione per accentuare l’atteggiamento di  sottomissione alla volontà divina. Egli ha cercato di opporsi con tutte le  sue forze al­l’elezione a  successore di  Lanfranco, vissuta come una vera e  propria violenza; tale resistenza è  stata però esercitata «servata veritate», ossia in  conformità alla volontà di  Dio 55. Scrivendo a Fulcone, vescovo di Beauvais, Anselmo precisa il senso della sua obbedienza («servata oboedientia»), che non è  il frutto di un comportamento virtuoso, bensì della consapevolezza di  dover servire Dio e  la sua Chiesa 56. In  una lettera indirizzata a  Ugo, arcivescovo di  Lione, Anselmo accenna alle multae rationes per le  quali, spinto dal timore di  Dio, acconsentì dopo mesi di  resistenza al­l’ordine del­l’arcivescovo di  Rouen che lo spingeva ad accettare la nomina ad arcivescovo di Canterbury 57. Di tenore opposto sono le  rationes consolatorie sulle quali Anselmo invita Lanfrido, abate di San Vulmaro, a riflettere affinché gli appaia meno gravoso il compito di guidare le sorti dei recalciranti monaci a  lui sottoposti 58. I  motivi di  tribolazione devono dunque trasformarsi in  motivi di  letizia giacché ogni sofferenza patita è sostenuta per il timore di Dio. Sono infine le ragioni della tradizione ecclesiastica a sostenere Anselmo nella sua richiesta a papa Pasquale II di confermare l’antico privilegio riservato agli 54 Cfr. Epistola ad Hunfridum, 1142D - 1143A, 81, p. 205, 14-18: «Nam etsi ab homine forsitan ut vos doceret emistis, auribus quidem instrepere ille potuit, sed cor ad intelligendum aperire non potuit nisi deus, cui nullus ‘prior dedit’ ut ‘retribueretur ei’. Si enim amicos qui nos ‘recipiant in aeterna tabernacula’, facere iubemur ‘de mammona iniquitatis’: quanto magis de intelligentia veritatis?». 55  Cfr. Epistola ad monachos beccenses, 10B, 148, p. 4, 37-38: «Huic autem de me electioni immo violentiae hactenus quantum potui, servata veritate, reluctatus sum». 56 Cfr. Epistola ad Fulconem episcopum Belvacensem, 34BC, 160, p. 31, 48-59. 57 Cfr. Epistola ad Hugonem archiepiscopum Lugdunensem, 54A, 176, p. 58, 11-13: «Tandem timore dei ob multas rationes coactus, subdidi me dolens praecepto archiepiscopi mei et electioni totius Angliae, et sacratus sum». 58  Cfr.  Epistola ad Lanfridum abbatem S.  Wilmari, 63B, p.  72, 23-25: «Certe ubi tot rationes sunt consolationis et spiritualis laetitiae, non magnum pondus habere debet amaritudo tristitiae».

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arcivescovi di  Canterbury di  rappresentare in  Anglia la  Chiesa di Roma 59. La ricerca continua di un ordine incrollabile di verità e giustizia si riflette con nettezza anche nella ‘politica’ ecclesiastica anselmiana. In una lettera indirizzata a Sansone, vescovo di Worcester, Anselmo censura duramente l’insubordinazione della Chiesa di York alla Chiesa di Canterbury; ma nulla tralascerà, di quanto sia in suo potere presso Dio o presso gli uomini, pur di eliminare questa intollerabile e  disordinata temerarietà («inordinata praesumptio») 60. Al che Sansone risponde cercando di stemperare l’ira di  Anselmo e  adducendo motivi di  semplice e  pratico buon senso, che però non hanno nulla a che vedere con i rigorosi ideali anselmiani, con la costante e ostinata rivendicazione dei diritti della sua Chiesa e delle sue tradizoni, riflessi del­l’inalterabile ordine eterno voluto da Dio. In una lettera indirizzata a tre monaci di Canterbury, spaventati dalle difficoltà provenienti dal­l’assenza del loro arcivescovo e desiderosi di abbandonare l’Inghilterra per raggiungerlo, Anselmo descrive i rischi derivanti dal loro proposito: ad uno di loro, di nome Beniamino, che si era detto sicuro di raggiungere la salvezza solo accanto alla sua guida spirituale, ricorda che la responsabilità della salvezza è individuale e che occorre evitare ogni disordinata avventatezza («indiscreta et inordinata temeritas»), e abbandonarsi alla disposizione divina, insistendo affinché i sentimenti di  ciascuno di  loro rientrino nei confini del rationabile e della discretio, come freno a ogni impetus animi 61. Per l’arcivescovo non sussistono le condizioni per ritornare dal­l’esilio senza compromettere l’osservanza di  una condizione imprescindibile, 59  Cfr. Epistola ad Paschalem papam, 201BC, 214, p. 112, 17-22: «Q uando Romae fui, ostendi praefato domino papae de legatione Romana super regnum Angliae, quam ipsius regni homines asseverant ab antiquis temporibus usque ad nostrum tempus ecclesiam Cantuariensem tenuisse, quam necessarie ita esse oporteat, nec aliter nisi contra utilitatem ecclesiae Romanae et Anglicae fieri possit. Rei autem huius rationes praesenti nuntio ex quadam parte, ut vobis referat, iniunximus». 60 Cfr. Epistola ad Samsonem episcopum Wigornensem, 248D, 464, pp. 413, 18 - 414, 20. 61 Cfr. Epistola ad Farmannum Ordwium Beniamin monachos Cantuarienses, 145C - 146A, 355, p. 296, 36-39: «Q uod petis, nulla ratione fieri potest. Indiscreta et inordinata temeritate forsitan fieri posset. Non enim est rationabile sequi, quocumque nos impetus animi, etiam bona intentione, impellit sine discretione».

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ossia la  liceità morale della sua azione: il  desiderio per il  suo ritorno non è  «secundum scientiam» (Rm 10,  2), per cui non può essere gradito a Dio 62. L’unica soluzione è che il re riconosca la propria colpa e la ripari di fronte a Dio: fuori da questa circostanza non data, egli non concepisce  –  né potrebbe concepirlo «aliquis rationalis intellectus» – un ritorno che sia onorifico per Dio e  per la  Chiesa cantuariense 63. E così in  un’altra epistola il richiamo al  «recte et ordinate facere», al  comportamento limpido e retto, appare come l’unica via perseguibile e consigliabile ad Ernulfo, priore di Canterbury, e ai suoi monaci 64. I molteplici riferimenti alla divina dispositio, ai mandata dei e alla religiosa necessitas raccontano di una ragione per certi versi disarmante nella sua coerenza di fondo, al pari della definizione anselmiana di  libertà come rinuncia alla scelta libera e  adesione incondizionata alla volontà di  Dio: la  resistenza al­l’elezione al­ l’episcopato era condizionata alla verità, senza la quale lo stesso rifiuto non sarebbe più stato un comportamento dotato della necessaria rettitudine. Anselmo non cede alle pressioni degli uomini ma alla volontà di Dio fatta propria: sottrarsi vorrebbe dire opporre un’ingiusta resistenza a  una disposizione divina che, in quanto tale, non può conoscere altra risposta adeguata che l’atto di obbedienza senza riserva, frutto del­l’intima e profonda comprensione di ciò che è giusto fare per il bene generale della Chiesa. Il timor Dei e l’oboedientia sacra appaiono in questi e in altri frangenti le  condizioni imprescindibili della condotta anselmiana: è soltanto a Dio che dovremo reddere rationem di ogni momento della nostra vita 65. 62  Cfr. ibid., 144D - 145A, p. 295, 5-7: «Q uamvis bonum sit habere bonum zelum et laudabile, tamen, si non est secundum scientiam, non est deo acceptabile». 63 Cfr. ibid, 146B, p. 297, 55-57: «Nullatenus intelligo, neque aliquis rationabilis intellectus, quomodo ei concordare aut ad eum redire possim ad honorem dei et ecclesiae nostrae et salutem animae meae. Si fit mihi quod fieri debet, faciam quod debeo ad honorem dei». 64 Cfr. Epistola ad Ernulfum priorem et monachos Cantuarienses, 218B, 292, p. 212, 13. 65  Cfr.  Epistola ad monachos coenobii Cestrensis  S. Werburgae, 81A, 231, p. 137, 41-42: «Unusquisque consideret quia de singulis momentis vitae nostrae reddituri sumus deo rationem»; Epistola ad Burgundium eiusque uxorem Ricezam sororem suam, 104B - 105A, 264, p. 179, 16-18: «Disponite totam rem vestram, sicuti faceretis, si in praesenti vos moriturum et deo redditurum rationem de tota

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6. De vera ratione dilectio La ratio che appare dalle lettere del monaco Anselmo, che resta tale anche quando diventa abate e  arcivescovo, è  dunque un principio di condotta morale che giudica l’opportunità e la rettitudine di  ciascuna azione, è  la misura incompromissoria e  intransigente della propria adesione incondizionata alla volontà e  alla giustizia di  Dio. È un concetto di  ragione che, pur accordandosi con il metodo sola ratione, applicato con esiti assai soddisfacenti alle più impegnative questioni teologiche e  perfino ai misteri della fede, e  con il  corollario, potenzialmente infinito, di argomentazioni (plures rationes, rationes necessariae 66) che l’intellettuale cristiano può escogitare a  sostegno della propria fede (la «veritatis ratio tam ampla tamque profunda» 67), non è ad essi completamente assimilabile. È una ratio che rimanda piuttosto al­l’idea di  ordine, o  meglio ad una delle dimensioni del­l’ordine rintracciabili lungo tutta l’opera di Anselmo, ossia la dimensione interiore, morale, che rinvia alla possibilità che l’uomo ha di scegliere fra la rectitudo e la tortitudo, ovvero tra la sottomissione al­ l’ordine divino (l’ordine della rettitudine) e la disobbedienza alla volontà di  Dio (il disordine del peccato) 68. È in  definitiva una vita vestra sciretis»; Epistola ad Guarnerium monachum novitum, 151B, 375, p. 319, 11-13: «Q ualem igitur te desideras inveniri in die obitus tui: talem te cotidie stude exhibere, et semper quasi cras moriturus hodie te praepara ad reddendam rationem vitae tuae». 66 Cfr. G. d’Onofrio, Anselmo d’Aosta, in Storia della Teologia nel Medioevo, I. I princìpi, dir. di G. d’Onofrio, Casale Monferrato 1996, pp. 481-533, in partic. pp. 521-533; C. É. Viola, Anselmo d’Aosta. Fede e ricerca del­l’intelligenza, Milano 2000 (Eredità medievale, 16). 67  Cur Deus homo, Commendatio operis ad Urbanum Papam II, 260C - 261A, p. 40, 4. 68  Cfr.  Epistola ad Ricardum aliosque monachos, 1154A, 96, p.  222,  5-9: «Testis enim est mihi conscientia mea quia nihil me tantum laetificat, quantum eorum, qui meae parvitati nescio quo divino iudicio commissi sunt, prosperitas et rectitudo; nihil me tantum maestificat, quantum eorumdem adversitas et tortitudo»; ibid., 1154AB, p. 223, 14-15: «Morum compositio in qualibet rerum perturbatione secundum rerum congruentiam ordinata queat consistere». Le altre dimensioni del­l’ordine sono quella ontologica, che rimanda al­l’ordine della realtà creata, al­l’ordinata varietà del molteplice (l’ordine del­l’essere inteso in  senso gerarchico), quella escatologica, che riflette la  corrispondenza tra l’originario piano della creazione divina e la perfetta realizzazione della città di Dio (l’ordine storico della provvidenza), e  quella estetica, che coglie la  manifestazione della pulchritudo e del­l’armonia del creato (l’ordine della bellezza). Cfr. L. Catalani,

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ragione che, nel particolare contesto letterario del­l’epistolario, può definirsi squisitamente monastica, veramente monastica, ossia legata e  motivata dal­l’esperienza di  Anselmo monaco (anche quando monaco non è più) più di quanto possa dirsi logicofilosofica in  senso stretto o  teologica nel senso tradizionale del­ l’intellectus fidei. In virtù della ragione ogni gesto si giustifica e si legittima solo se ricompreso al­l’interno del più ampio disegno divino. L’ostinata intransigenza della ragione monastica, espressa con disarmante coerenza da  Anselmo, è  la conferma, ogni giorno dovuta, del­l’indissolubile rapporto che lega il  monaco al suo Dio. A coloro i  quali credono che la  vita monastica rappresenti un intollerabile fardello Anselmo ricorda che tale condizione è da celebrarsi con gioia 69 giacché, se va riconosciuto il bene che può derivare dal mondo secolare, l’uomo, in quanto creatura razionale, dovrebbe comprendere senza difficoltà l’opportunità e  il vantaggio derivante dalla vita monastica: non è  ragionevole, infatti, credere che la  via più sicura per la  salvezza sia quella di coniugare l’amore di Dio con l’amore del secolo 70. Al novizio Lanzone che Anselmo aveva spinto verso la condizione monastica, il  priore del Bec ricorda che il  raggiungimento della virtù passa attraverso la costanza, la mansuetudine e l’osservanza delle usanze del proprio monastero, anche se non se ne comprende pienamente il senso 71. Lo scrupoloso rispetto delle regole parrebbe dunque Il postulato del­l’ordine in Anselmo d’Aosta, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du moyen-age», 71 (2004), pp. 7-33. 69 Cfr.  Epistola ad Helinandum, 1162A, 101, p.  233,  46  -  234,  49: «Q  ui putat melius sibi esse in habitu clericali religiose vivere quam subire monachicae vitae pondus importabile: consideret per totum mundum quanta hilaritate utrique sexui, omni aetati, omni generi hominum sit pondus illud cantabile». 70 Cfr. Epistola ad Henricum, 1182A, 121, p. 261, 22-28: «Si dicis: non soli monachi ad salutem perveniunt: verum est. Sed qui certius, qui altius: illi qui solum deum conantur amare, an illi qui amorem dei et amorem saeculi simul volunt copulare? Sed forsitan dicet aliquis quia et in  ordine monachorum est periculum. O homo qui hoc dicit, quare non considerat quid dicit! O rationalis natura, an est hoc rationabile consilium ut, quia ubique est periculum, ibi eligas manere, ubi maius est periculum?». 71  Cfr. Epistola ad Lanzonem novitium, 1101CD, 37, p. 147, 87-91: «Ad hanc vero monachus qui in  monasterio conversatur, pertingere nullatenus valet sine constantia et mansuetudine, quae manuetudo indissolubilis comes est patientiae; et nisi monasterii sui instituta, quae divinis non prohibenter mandatis – etiam si rationem eorum non perviderit – ut religiosa studuerit observare».

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LUIGI CATALANI

prevalere sul­l’esigenza della loro chiarificazione razionale. Tuttavia, poco prima, Anselmo aveva da un lato messo in guardia dal veleno del ragionamento capzioso che seduce le reclute di Cristo 72, dal­l’altro ricordato l’esistenza di molteplici mezzi (rationes) attraverso i quali il monaco può sconfiggere le tentazioni del male 73. In un’altra lettera indirizzata al medico Alberto, Anselmo suggerisce l’idea che il criterio di condotta della vita monastica vada individuato nel sentimento del­l’amore 74, che appare anch’esso dotato di una sua imprescindibile dimensione intellettuale, come si evince dalle parole rivolte al  priore Enrico sul fondamento ragionevole del­l’amore: «Q uando l’amore tra esseri razionali nasce da  una ragione autentica (Postquam enim de vera ratione dilectio inter rationabiles nascitur), esso non si estingue assolutamente fin che la  radice vive» 75. Ratio e  delectatio appaiono inestricabilmente legate, anche con una certa efficacia retorica, come indica il  chiasmo «rationabili delectatione  (…) delectabili ratione», nella lettera indirizzata al  monaco beccense Enrico – basata fin dal­l’inizio sulla reciprocità dei sentimenti e sulla somiglianza del­l’affetto del­l’uno per l’altro – nella quale Ansel72  Cfr. ibid., 1095B, p. 145, 23-25: «Saepe namque dum tironem Christi vulnere malae voluntatis aperte malivolus non valet perimere, sitientem eum poculo venenosae rationis malivole callidus tentat extinguere». 73 Cfr. ibid., 1101B, p. 147, 73-76: «Scio quia haec maiorem aut scribendi aut colloquendi exigunt amplitudinem, ut plenius intelligatur, quibus scilicet dolis antiquus serpens ignarum monachum in hoc genere tentationis illaqueet, et econtra quibus rationibus prudens monachus eius callidas persuasiones dissolvat et annihilet». 74 Cfr. Epistola ad Albertum medicum, 1108D, 74, p. 157, 26-29: «Q uapropter si vobis consulo quod me mihi, cum sic essem, sicut vos nunc estis, singulariter consuluisse, consulendo tenuisse, tenendo amare, amando habitu profiteri et tota vita niti cogniscitis: vos ipsi iudicate si illud respuere debeatis». 75  Cfr. Epistola ad Henricum (priorem), 1152B, 93, p. 220, 3-5: «Postquam enim de vera ratione dilectio inter rationabiles nascitur, nequaquam ipsa, quamdiu radix vivit, extinguitur». Non è l’unico caso in cui Anselmo fa riferimento agli uomini in quanto esseri razionali. L’amico Gualeranno, per esempio, è chiamato in causa in quanto uomo colto e riflessivo: cfr. Epistola ad Walerannum, olim cantorem ecclesiae Parisiensis, 38B, 162, p.  388,  11-14: «Amice carissime, si multa non legisses et rationabilis ingenii non esses, multa tibi dicerem». I rationabiles et religiosi viri fanno parte del ristretto consesso di persone preposte a decidere circa il destino della vasta diocesi di Lincoln: cfr. Epistola ad Paschalem papam, 441, p. 388, 11-14: «Q uod cum consideraret rex et episcopi et principes et alii rationabiles et religiosi viri regni Anglorum: ad utilitatem ecclesiae consilium visum est episcopatum praefatum in duos dividere».

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LA RAGIONE MONASTICA NELL’EPISTOLARIO DI ANSELMO D’AOSTA

mo pone il desiderio della carità fraterna in diretta relazione con il comando della volontà divina 76. Come si è cercato di mostrare finora, l’amore di  Dio si traduce per Anselmo prima di  ogni cosa nel­l’amore della giustizia divina («amore dei iustitiae») 77. Ogni gesto, consiglio, decisione di Anselmo appare guidato da una linea di condotta coerente nella sua inflessibilità e nel suo richiamo costante alla verità intesa come l’unica ragione discriminante delle azioni del­l’uomo e del monaco in particolare. Non stupisce quindi che al monaco Gualtiero, Anselmo ricordi che si deve amare di più la carità della scienza («plus debet amari caritas quam scientia») giacché ogni scienza deriva dalla carità («omnis utilis scientia pendet a  caritate») e  chi è  spinto dalla carità accederà alla conoscenza della verità 78. Colui che cerca con amore sincero la scienza della verità, sazierà allo stesso tempo il desiderio spirituale e quello intellettuale.

76  Cfr. Epistola ad Henricum monachum, 1069D - 1070A, 5, p. 106, 14-20: «Non enim melius dei ordinationem nostrae utilitati valebimus contemperare, quam si in nostra dispositione eius voluntati voluerimus obtemperare. Denique quoniam utrique plures praesentes, quos ab iis dilecti pariter diligimus, habemus: ipsis cum rationabili delectatione fruentes, eisdem nos cum delectabili ratione fruendos aptemus, et ut quandoque cum praesentibus et absentibus amicis simul praesentes ipso deo confrui possimus instanter oremus». 77 Cfr. Epistola ad Mathildem reginam Anglorum, 137B, 321, p. 251, 27. 78 Cfr. Epistola ad Walterum monachum, 1146B, 85, pp. 210, 26 - 211, 32.

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PARTE SECONDA

CONTESTO E FORTUNA

FABIO CUSIMANO

BENEDETTO DI ANIANE E LA LEGISLAZIONE MONASTICA CAROLINGIA ATTRAVERSO I CAPITULARIA

1. Introduzione La personalità di  Benedetto di  Aniane si colloca pienamente al­l’interno del clima di  riordinamento ecclesiale e  politico promosso da  Carlomagno, prima, e  da Ludovico il  Pio, poi: egli, infatti, ha dato vita ad un vasto movimento riformatore ed unificatore delle norme alla base del cenobitismo benedettino nel­ l’Europa carolingia. Il  dominio della Regula di  Benedetto nel monachesimo della tradizione latina occidentale fu per lungo tempo meno assoluto di  quanto generalmente si possa pensare. In  realtà, oltre naturalmente al  suo innegabile pregio intrinseco (già riconosciuto da Gregorio Magno, che ne elogia la discretio 1), la Regula ha dovuto fronteggiare, per così dire, un’agguerrita concorrenza, attraversando un vero e  proprio processo di  selezione naturale. Affrontando la storia del monachesimo latino medievale, specialmente nel­l’arco cronologico che precede lo sviluppo dei movimenti cluniacensi e cisterciensi (il cosiddetto ‘rinascimento monastico’ dei secoli x-xi), un elemento da  tenere in considerazione è la primigenia assenza di unità: ogni monastero possiede, infatti, una propria identità. Come è  noto, la  Regula Sancti Benedicti non fu la  prima ed unica regola monastica affermatasi in  Gallia  Cfr. Gregorius Magnus, Dialogi, II, 36 (Q uod regulam monachorum scripserit), 4-8, PL 66, [125-240], 200C, ed. S. Pricoco – M. Simonetti, I, Milano 2010, pp. 210-212: «Hoc autem nolo te lateat, quod vir Dei inter tot miracula quibus in mundo claruit, doctrinae quoque verbo non mediocriter fulsit. Nam scripsit monachorum regulam discretione praecipuam, sermone luculentam». 1

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 327-358 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112924

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e successivamente nel regno dei Franchi, anche se col tempo essa soppiantò via via tutti gli altri ordinamenti fino a diventare, sul finire del­l’ottavo secolo, praticamente l’unico e  decisivo regolamento monastico. Le più antiche regole monastiche potevano ormai a quel tempo essere già qualificate come storiche, tanto che lo stesso Carlomagno, in un’assemblea svoltasi ad Aquisgrana nel­l’811, ebbe a proporre la  domanda su quali fossero le  radici pre-benedettine del monachesimo gallico a partire da Martino di Tours: Q ua regula monachi vixissent in  Gallia, priusquam regula sancti Benedicti in  ea tradita fuisset, cum legamus sanctum Martinum et monachum fuisse et sub se monachos habuisse, qui multo ante sanctum Benedictum fuit 2.

L’importante quesito del­l’imperatore (anch’esso pervenutoci, in­sieme ad altre testimonianze, grazie alle raccolte dei documenti politici ed amministrativi) faceva riferimento ad una cultura monastica della Gallia e del regno merovingio molto ricca e fiorente, che nel­l’811 doveva essere già abbondantemente scomparsa dalla coscienza collettiva, non da ultimo grazie alla nascita del cosiddetto monachesimo d’Impero di stampo benedettino, nel periodo compreso tra Bonifacio e Benedetto di Aniane. L’operato del­l’abate di Aniane, dunque, si pone come elemento di rottura in questo clima di disordine normativo al­l’interno del mondo monastico occidentale. La  fonte principale cui ricorrere per delineare la biografia di  Benedetto di  Aniane 3 (e  grazie 2  L’edizione di riferimento per i capitularia è quella curata da Alfred Boretius, in  MGH, Leges, II, Capitularia Regum Francorum, I, Hannover 1883. Il  passo citato, tratto da tale edizione, riguarda il capitolare Capitula de causis cum episcopis et abbatibus tractandis, 12, p. 164, 16-18. I prossimi riferimenti ai capitolari del­ l’edizione del Boretius saranno citati unicamente attraverso titolo, numero del capitolare e pagine e righe di riferimento. 3  Cfr.  J. Besse, s. v. Benoît d’Aniane (saint), in  Dictionnaire de  Théologie catholique, II.1, Paris 1910, coll. 708-709; J. Semmler, s. v. Benedikt von Aniane, in Lexikon für Theologie und Kirche, II, Freiburg im Breisgau 1931 (19582), coll. 179-190; Benedetto di Aniane, vita e riforma monastica, a c. di G. Andenna – C.  Bonetti, Cinisello Balsamo 1993; R.  Grégoire, Il  monachesimo carolingio dopo Benedetto di Aniane († 821), in «Studia Monastica», 24 (1982), pp. 349388; Id.,  Benedetto di  Aniane nella riforma monastica carolingia, in  «Studi Medievali», N.S., 26.2 (1985), pp. 573-610; L. Bergeron, s. v. Benoît d’Aniane (Saint, abbé bénédictin), in Dictionnaire de spiritualité, Paris 1937, I, coll. 14381442; Benedictus ab. Anianensis, in  Bibliotheca Hagiografica Latina Antiquae

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alla quale possiamo seguire, passo dopo passo, anche l’evolversi di  tale cammino riformatore) è  il racconto agiografico 4 redatto da Ardone Smaragdo 5 negli anni 822-823, a soli cinque anni dalla morte di Benedetto di Aniane († 817): a dimostrazione del carisma del personaggio e  del­l’importanza del suo operato riformatore, alcuni riferimenti contenuti nel testo agiografico ci permettono di affermare, citando Réginald Grégoire, che «se ‘Benedetto è il padre di tutti i monaci’, Aniane è ‘la testa dei cenobi’» 6.

2. Le attenzioni della politica carolingia rivolte al monachesimo: i capitularia come fonti privilegiate È interessante ripercorrere le  tappe principali di  questa riforma proprio attraverso l’analisi delle fonti che meglio ne descrivono et Mediae Aetatis, I, Bruxelles 1898-1899, coll. 1095-1096; Benedictus ab. Anianensis, in  Bibliotheca Hagiografica Latina Antiquae et Mediae Aetatis, Novum Supplementum, ed.  E.  Fros, Bruxelles 1986, p.  130; D.  Iogna-Prat, s.  v. Benedetto di  Aniane (santo), in  Dizionario Enciclopedico del Medio Evo, I, Roma – Paris – Cambridge 1998, p. 224; I. Mannocci, s. v. Benedetto d’Aniane, santo, in  Bibliotheca Sanctorum, II, Roma 1962, coll. 1093-1096; G.  Picasso, s.  v. Benedetto d’Aniane, santo, in  Dizionario degli Istituti di  Perfezione, I, Roma 1983, coll. 1357-1359; Ph.  Schmitz, s. v. Benoît d’Aniane, in  Dictionnaire d’Histoire et de  Géographie ecclésiastiques, VIII, Paris 1935, coll. 177-188; H. Tribout de Morembert, s. v. Aniane, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, I, Roma 1983, coll. 653-654; M.  Del­l’Omo, Storia del monachesimo occidentale dal Medioevo al­l’età contemporanea. Il carisma di san Benedetto tra vi e xx secolo, Jaca Book, Milano 2011, pp. 91-110. 4  Disponiamo di due differenti edizioni del testo agiografico: una in PL 103, 353-384, con il titolo di Ardo Smaragdus, Vita S. Benedicti Anianensis; l’altra, con il titolo di Id., Vita Benedicti Abbatis Anianensis et Indensis (d’ora in poi: Vita Benedicti Anianensis), è inserita in MGH, Scriptores, XV, 1, Hrsg. G. Waitz, Hannover 1887, pp. 198-220. Saranno di seguito citate solo col titolo abbreviato. 5  Di questo autore non conosciamo quasi nulla; il suo secondo nome, Smaragdo, ha fatto in modo che venisse spesso confuso con Smaragdo di Saint-Mihiel, autore del­l’Expositio in Regulam Sancti Benedicti. Per approfondimenti sulla sua biografia cfr. G. Mathon, s. v. Ardone, in Bibliotheca Sanctorum, II, Roma 1962, col. 386; Ardone, santo, in Grande dizionario illustrato dei santi, Casale Monferrato 1990, p. 90; Ardo Smaragdus, in Repertorium fontium historiae Medii Aevi, II, Fontes A-B, Roma 1967. 6 R. Grégoire, Benedetto di Aniane cit., p. 576; cfr. Vita S. Benedicti Anianensis, 365B; Vita Benedicti Abbatis, 18 (27), p. 206, 35-38: «Cognoscat, quisquis ille est qui hanc cupit legere vel audire vitam, cunctorum hoc capud esse coenobiorum, non solum quae Gotiae in partibus constructa esse videntur, verum etiam et illorum quae aliis in regionibus ea tempestate et deincebs (sic) per huius exempla hedificata atque de thesauris illius ditata, sicut inantea narratura est scedula».

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la politica monastica: i capitularia compresi tra la metà del­l’ottavo e la metà del nono secolo. Innanzitutto un breve accenno tecnico per meglio comprendere le  caratteristiche di  simili documenti: i  capitolari possono essere definiti come atti del potere che i  sovrani carolingi adottavano per rendere valide le  diverse misure di  ordine legislativo o amministrativo e il cui testo è generalmente diviso in articoli. Così definiti, i  capitolari indicano essenzialmente i  documenti promulgati dai sovrani e  dagli imperatori carolingi nel corso dei placiti, cioè le assemblee che vedevano riuniti con il sovrano i  grandi del­l’Impero, sia laici che ecclesiastici. Durante queste sedute al sovrano erano sottoposti problemi di natura e di carattere molto diverso, per i quali si aspettava una pronta risoluzione. Al termine del placito l’imperatore procedeva alla promulgazione della legge, che avveniva per verbum regis, atto considerato come l’attributo necessario per una regolare accettazione della legge: tale adnuntiatio rappresenta, però, con buona probabilità, solo una breve sintesi finale di tutte le disposizioni prese durante il placito. Le leggi, nella loro forma completa, subivano infatti una redazione per capitula da un’apposita commissione di esperti. Q uesti articoli erano poi affidati a missi e a comites affinché si preoccupassero della loro diffusione nei territori del regno. Il profilo dei capitolari che emerge da tale descrizione è rappresentativo di un’epoca e di una particolare visione che personaggi del calibro di Carlomagno e Ludovico il Pio cercheranno di trasmettere al proprio Impero, sotto molteplici punti di vista: dal­l’unità politico-amministrativa alla crescita culturale, al­ l’unificazione religiosa dei monasteri sotto la  Regula di  san Benedetto. E proprio tale percorso di  unificazione religiosa, oggetto del nostro intervento, rivela – a partire dal­l’analisi della suddetta documentazione amministrativa – il palesarsi di un disegno unificatore che affonda (come vedremo più avanti) le  proprie origini già prima del­l’avvento al potere di Carlomagno. Nel­l’802 Carlomagno promulgò una legislazione ad hoc per fare in  modo che tutti i  monasteri del suo regno fossero accomunati, nella vita monastica, dal­l’osservanza di  un unico testo normativo, la  Regula Sancti Benedicti. Tale legge anticipa una nuova e  più efficace legislazione promulgata negli anni 816-817 da Ludovico il Pio, a seguito della quale la Regula Sancti Benedicti 330

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sarebbe stata posta a  fondamento della vita monastica europea. In  precedenza si è  fatto riferimento al  cosiddetto monachesimo d’Impero: proprio questa definizione inquadra perfettamente quanto avvenne in quegli anni. È indubbio, infatti, che i monasteri giocarono un ruolo politico fondamentale al­l’interno delle dinamiche del potere carolingio, in quanto essi divennero anche importanti centri del potere economico e terriero; i carolingi utilizzarono le  ingenti risorse monastiche per elevare se stessi alla leadership del­l’Impero, ed in  seguito proprio tali possedimenti monastici fornirono un supporto-chiave nel­l’affermazione della dinastia carolingia. Tali monasteri fornirono anche l’immancabile apporto del proprio sostegno spirituale. In più, i centri monastici espansero in maniera sempre crescente le aree della propria influenza sul territorio, sulla popolazione, sulla cultura, sulla vita quotidiana della società carolingia. L’adozione di una singola regola monastica, dunque, divenne un passo di  fondamentale importanza per il  mantenimento del controllo: solitamente le  spiegazioni addotte dalla storiografia sono state che Carlomagno fosse motivato da  finalità religiose, oppure da  un approccio umanistico al­l’interno del clima della renovatio imperii 7. Tuttavia, pur non abbandonando tali considerazioni, si porrà l’accento sul peso politico di  simili scelte, mettendo in evidenza la stretta connessione tra la sfera politica e la sfera monastica. Joseph Semmler, a proposito della politica monastica, identifica principalmente quattro obiettivi perseguiti da  Carlomagno: innanzitutto egli sfruttò tutta la ben nota pervasività monastica per diffondere la cultura franca nei territori del­l’Impero attraverso la cosiddetta rinascita carolingia; in secondo luogo i monasteri si mostrarono fin da subito utilissimi per rafforzare l’influenza politica del governo franco; ancora, i  monasteri, con il  loro portato 7  Dal punto di vista della storiografia i temi della rinascenza carolingia, della renovatio imperii e  della genesi  –  proprio nel contesto carolingio  – di una cultura unitaria europea sono vastissimi e  molto dibattuti. Tra i  tanti riferimenti bibliografici cfr. Nascita del­l’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare, 2  voll., Spoleto 1981 (Settimane di  studio del Centro Italiano di Studi sul­l’Alto Medioevo, 27). Cfr.  anche F.  Cardini, Carlomagno. Un padre della patria europea, Bompiani, Milano 2002; A. Bisogno, Il metodo carolingio. Identità cuturale e dibattito teologico nel secolo ix, Brepols, Turnhout 2008 (Nutrix, 3).

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di  opere edilizie e  di bonifica, di  attività economiche, agricole e commerciali, furono preziosi alleati della politica per colonizzare e sviluppare i confini del­l’Impero, anche come supporto indispensabile a  seguito delle conquiste militari di  Carlomagno; infine, i monasteri agirono come basi per la conversione dei pagani, specialmente ad est del Reno 8. Per ciò che riguarda la Regula Sancti Benedicti sempre il Semmler identifica quattro date-cardine per descrivere l’importanza politica del­l’adozione universale della Regula nei monasteri del­ l’Impero 9; partendo da  questi riferimenti cronologici possiamo reperire le fonti che documentano l’attenzione rivolta dalla politica carolingia alle questioni monastiche. La prima data significativa che egli individua è  l’anno 782, quando Benedetto di  Aniane edifica «ex precepto Karoli» un monastero esclusivamente votato al­l’osservanza della Regula di Benedetto e  dedicato alla Trinità 10: per documentare questa fondazione ad opera del­l’abate di  Aniane riteniamo opportuno e molto significativo per la nostra ricerca citare di seguito un brano tratto dalla biografia di  Benedetto d’Aniane scritta da  Ardone Smaragdo: Nunc opitulante Christo, ex precepto Karoli quibus modis aliud in eodem loco coenobium hedificaverit, evidenti ratione pandamus. Anno igitur 782, Karoli vero Magni regis 14, adiuvantibus eum ducibus, comitibus, aliam rursus in honore domini et Salvatoris nostri aecclesiam pregrandem construere coepit; set et claustra novo opere alia cum columnis marmoreis quam plurimis, quae sitae sunt in  porticibus; non iam stramine domos, set tegulis cooperuit. Tanta autem sanctitate hisdem locus est preditus, ut, quisquis fideliter petiturus advenerit et non esitaverit in corde suo, set crediderit, statim quod poposcerit impetrare licebit. Q uia ergo mira religiositate prefulget, ratum ducimus, si de positione eiusdem loci aliquid post futuris pandamus. Siquidem venerabilis pater Benedictus

8  Cfr. J. Semmler, Karl der Grosse und das Fränkische Mönchtum, in Karl der Grosse: Lebenswerk und Nachleben, unter Mitwirkung von W. Braunfels, 4 voll., II, Das geistige Leben, hrsg. von B. Bischoff, Düsseldorf  1967, pp. 255-289. 9 Cfr. ibid. 10 Cfr.  Vita  S. Benedicti Anianensis, 363C-364A; Vita Benedicti Abbatis, 17 (25), p. 206, 3-5.

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pia consideratione preventus, non in alicuius sanctorum pretitulatione, set in deificae Trinitatis, uti iam diximus, nomine prefatam aecclesiam consecrare disposuit 11.

Altro riferimento cronologico individuato dal Semmler è l’anno 789, data a  partire dalla quale l’osservanza della Regula Sancti Benedicti sarà l’unica forma di ordinamento monastico ammessa e riconosciuta e si diffonderà verso il sud della Loira e nel cuore della Neustria 12. Riportiamo alcuni brani tratti dal­l’Admonitio generalis del 23 Marzo 789: Monachis et omni clero. Item in eodem concilio, ut clerici et monachi in suo proposito et voto quod Deo promiserunt permaneant. Sacerdotibus. Item in decretis Innocenti papae de eadem re, ut monachus, si ad clericatum proveatur, propositum monachicae professionis non ammittat. Episcopis, monachis, virginibus. Item eiusdem, ut monachi et virgines suum propositum omnimodis observent. Sacerdotibus. Sed et hoc flagitamus vestram almitatem, ut ministri altaris Dei suum ministerium bonis moribus ornent, seu alii canonice observantiae ordines vel monachici propositi congregationes; obsecramus, ut bonam et probabilem habeant conversationem, sicut ipse Dominus in  evangelio praecipit: ‘Sic luceat lux vestra coram hominibus, ut videant opera vestra bona et glorificent patrem vestrum qui in  celis  est’ (Mt  5,  16), ut eorum bona conversatione multi protrahantur ad servitium Dei, et non solum servilis conditionis infantes, sed etiam ingenuorum filios adgregent sibique socient. Et ut scolae legentium puerorum fiant. Psalmos, notas, cantus, compotum, grammaticam per singula monasteria vel episcopia et libros catholicos bene emendate; quia saepe, dum bene aliqui Deum rogare cupiunt, sed per inemendatos libros male rogant. Et pueros vestros non sinite eos vel legendo vel scribendo corrumpere; et si opus est evangelium, psalterium et missale scribere, perfectae aetatis homines scribant cum omni diligentia.

  Vita Benedicti Abbatis, 17 (25-26), pp. 205, 49 - 206, 5.  Cfr.  J. Semmler, Karl der Grosse und das Fränkische Mönchtum cit., p. 264. 11

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Sacerdotibus. Simul et hoc rogare curavimus, ut omnes ubicumque qui se voto monachicae vitae constrinxerunt monachice et regulariter omnimodis secundum votum suum vivant, secundum quod scriptum est: ‘Vota vestra reddite domino Deo vestro’ (Eccle 5,  4), et iterum: ‘Melius est non vovere, quam non reddere’(ibid.). Et ut ad monasteria venientes secundum regularem ordinem primo in  pulsatorio probentur et sic accipiantur. Et qui ex seculari habitu in monasterio veniunt, non statim foras ad ministeria monasterii mittantur antequam intus bene erudiantur. Et ut monachi ad secularia placita non vadant. Similiter qui ad clericatum accedunt, quod nos nominamus canonicam vitam, volumus ut illi canonice secundum suam regulam omnimodis vivant, et episcopus eorum regat vitam, sict abbas monachorum 13.

Riportiamo anche alcuni brani tratti dal Duplex legationis edictum del 23 Marzo 789, i cui punti da 1 a 16 forniscono precisi riferimenti normativi su diversi aspetti della vita monastica ispirati ai capitula della Regula Sancti Benedicti: De monachis gyrovagis vel sarabaitis. De anachoritis: melius est ut hortentur in congregatione permanere, quam animus eorum aliubi ambulare temptet. Ut non parvipendentes sint pastores animarum sibi commissarum, nec maiorem curam habeant de lucris terrenis quam de animabus sibi commissis. De oboedentia quae abbati exhiberi debet, et ut absque murmuratione fiat. De decanis et praepositis: ut eorum mutatio secundum regulam fiat. De cellelariis monasterii: ut non avari mittantur, sed tales quales regula praecipit. Ut ubi corpora sanctorum requiescunt aliud oratorium habeatur, ubi fratres secrete possint orare. De eulogiis. De susceptione hospitum: sicut regula continet. De vestimentis monachorum: ubi superfluum est, abscidatur; et ubi minus, augeatur. De noviter venientibus ad conversationem: ut secundum regulam probentur, et non antea suscipiantur nisi sicut regula 13   Admonitio generalis, 26-27, p.  56,  1-4; 52, p.  57,  17-18; 72, pp.  59,  40  60, 7; 73, p. 60, 8-17.

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iubet; et nullus cogatur invitus promittere. Et de oboedentia et de stabilitate permanendi, sicut regula habet. De filiis nobilium qui offeruntur. De ordinando abbate. De fratribus in via directis. Ut nullus abbas pro susceptione monachi praemium non quaerat. Ut disciplina monachis regularis imponatur non secularis, id est non orbentur nec mancationes alias habeant nisi ex auctoritate regulae. De monasteriis minutis ubi nonnanes sine regula sedent, volumus ut in unum locum congregatio fiat regularis, et episcopus praevideat ubi fieri possint. Et ut nulla abbatissa foras monasterio exire non praesumat sine nostra iussione nec sibi subditas facere permittat; et earum claustra sint bene firmata, et nullatenus ibi winileodos scribere vel mittere praesumant: et de pallore earum propter sanguinis minuationem 14.

Il successivo riferimento cronologico è l’anno 802, data decisiva, perché da quel momento in poi la Regula Sancti Benedicti diverrà l’unico standard monastico ammesso nel­l’Impero. Riportiamo alcuni brani tratti da diversi capitularia del­l’anno 802: il Capitulare missorum generale; il Capitulare missorum specialia; il Capitulare missorum item specialem; i Capitula ad lectionem canonum et regulae S. Benedicti pertinentia. Ut abbate, ubi monaci sunt, pleniter cum monachis secundum regula vibant (sic) adque canones diligenter discant et observent; similiter abbatissae faciant. Ut episcopi, abbates adque abbatissae advocatos adque vicedomini centenariosque legem scientes et iustitiam diligentes pacificosque et mansuetus habeant, qualiter per illosque sanctae Dei ecclesiae magis profectum vel merces adcrescat; quia nullatenus neque praepositos neque advocatos damnosus et cupidus in  monasteria habere volumus, a  quibus magis non blasphemia vel detrimenta oriantur. Sed tales sint, quale eos canonica vel regularis institutio fieri iubet, voluntati Dei subditos et ad omnes iustitia perficiendi semper paratos, legem pleniter observantes absque fraude maligno, iustum semper iudicium in omnibus exercentes, praepositus vero tales, qua  Duplex legationis edictum, 1-16, p. 63, 1-24; 19, p. 63, 31-36.

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les sancta regula fieri docet. Et hoc omnino observent, ut nullatenus a  quibus magis nobis a  canonica vel regulari norma discendant sed humilitatem in omnibus habeant. Si autem aliter praesumserint, regulare disciplina sentiant; et si se emendare noluerit, a praepositum removeantur, et qui digni sunt in loca eorum subrogentur. Monachi autem, ut firmiter ac fortiter secundum regula vivant, quia displicere Deo novimus quisquis in sua voluntate tepidus est, testante Iohanne in Apocalypsin: ‘Utinam calidus esse aut frigidus: sed quia tepidus es, incipian te evomere ex ore meo’ (Ap 3, 15). Seculare sibi negotium nullatenus usurpent. Foris monasterio nequaquam progrediendi licentiam habeant, nisi maxima cogente necessitatem: quod tamen episcopus, in cuius diocese erunt, omnino praecuret, ne foris monasterio vagandi usum habeant. Sed si necessitas sit ad aliquam obhedientiam aliquis foris pergere, et hoc cum consilio et consensum episcopi fiat, et tales personae cum testimonium foris mittantur in quibus nulla sit suspitio mala vel a quibus nulla oppinio mala oriatur. Foris vero peculium vel res monasterii abbas cum episcopi sui licentiam et consilium ordinet qui praevideat, non monachum, nisi alium fidelem. Q uaestum verum seculare vel concupiscentia mundanarum rerum omnismodis devitent; quia avaritia vel concupiscentia huius mundi omnibus est devetanda christiani, maxime tamen in  his qui mundo et concupiscentiis abrenuntiasse videtur. Lites et contentiones nequaquam, neque infra neque foris monasterio, movere presumat. Q ui autem presumserit, gravissima disciplina regulari corripiantur, et taliter caeteri metum habeant talia perpetranda. Ebrietatem et commessationem omnino fugiant, quia inde libidine maxime polluari omnibus notum est. Nam pervenit ad aures nostras oppinio perniciosissima, fornicationes et in habhominatione et inmunditia multas iam in  monasteriis esse deprehensos. Maxime contristat et conturbat, quod sine errore magno dici potest, ut unde maxima spe salutis omnibus christianis orriri crederent, id est de vita et castitate monachorum, inde detrimentum, ut aliquis ex monachus sodomitas esse auditum. Unde etiam rogamus et contextamur, ut certissime amplius ex his diebus omni custodia se ex his malis conservare studeant, ut numquam amplius tale quid aures nostras perveniat. Et hoc omnibus notum sit, quia nullatenus in ista mala in nullo loco amplius in toto regno nostro consentire audeamus: quanto minus quidem inter eos qui castitatis et sanctimoniae emendatiores esse 336

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cupimus. Certe si amplius quid tale ad aures nostras pervenerit, non solum in  eos, sed etiam et in  ceteris, qui in  talia consentiant, talem ultionem facimus, ut nullus christianus qui hoc audierit, nullatenus tale quid perpetrare amplius presumserit. 18.  Monasteria puellarum firmiter observata sint, et nequaquam vagare sinantur, sed cum omni diligentia conserventur, neque litigationes vel contentione inter se movere praesumat, neque in nullo magistris et abbatissis inhobedientes vel contrariae fieri audeant. Ubi autem regulares sunt, omnino secundum regula observent, ne fornicatione deditae, non ebrietatis, non cupiditati servientes, sed omnimodis iuste et sobrie vivant. Et ut in claustra vel monasterium earum vir nullus intret, nisi presbiter propter visitationem infirmarum cum testimonio intret, vel ad missam tantum, et statim exeat. Et ut nemo alterius filiam suam in congregationem sanctemonialium recipiat absque notitia vel consideratione episcopi ad cuius diocense pertinet locus ille; et ut ipse diligenter exquirat, qualiter in  sancto ad Dei servitio permanere cupiat, et stabilitatem suam ibidem firmare vel professionem. Ancilla autem aliorum hominum, vel tales feminas quae secundum more conversationis in  sancta congregatione vivere volunt, omnes pleniter de congregatione eiciantur. Ut episcopi, abbates, presbiteri, diaconus nullusque ex omni clero canes ad venandum aut acceptores, falcones seu sparvarios habere presumant, sed pleniter se unusquisque in ordine suo canonice vel regulariter custodiant. Q ui autem presumserit, sciat unusquisque honorem suum perdere. Caeteri vero tale exinde damnum patiatur, ut reliqui metum habeant talia sibi usurpare 15. De abbatibus, utrum secundum regulam an canonice vivant, et si regulam aut canones bene intellegant. De monasteriis virorum ubi monachi sunt, si secundum regulam vivant ubi promissa est. De monasteria puellarum, utrum secundum regulam an canonice vivant, et de claustra earum 16. Ut clerici et monachi in suo proposito permaneant.

15  Capitulare missorum generale, 12-13, p.  93,  31-44; 17-19, pp.  94,  24  95, 27. 16  Capitulare missorum specialia, 3-5, p. 100, 18-23.

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Ut abbates regulares et monachi regulam intelligant et secundum regulam vivant. Ut abbatissae canonicae et sanctimoniales canonice secundum canones vivant, et claustra earum ordinabiliter composita sint. Ut abbatissae regulares et sanctimomales in  monachico proposito existentes regulam inteitigant et regulariter vivant, et claustra earum rationabiliter disposita sint 17. Si placet domno meo, legatur capitula VII. III. VI. VIII. LIX. LX et LXI id est ‘De generibus monachorum’, ‘Q ualis debeat esse abba’, ‘De obedientia discipulorum’, ‘De disciplina suscipiendorum novitiorum’, ‘De filiis nobilitun vel pauperum qui offeruntur’, ‘De sacerdotibus qui voluerint in  monasterio habitare’, et ‘De clericis seu et de monachis peregrinis’. Continentur in  his definiciones quae sufficiunt ad numerum XX abbatum. Insuper etiam questiones quaedam eis familiarum obponi possunt, ut queratur ab eis in  quo capitula scriptum vel quomodo intellegendum est: ‘Nullus in  monasterium proprii sequatur cordis voluntatem’. Similiter ubi vel quid sit sinaxis. Ubi vel quid sit senpectas. Ubi etiam vel qui sit ‘non super sanas tyrannidem’, vel ubi legitur in scriptura ‘voluptas habet poenam et necessitas parit coronam’ (loc. inc.). Vel si secundum regulam legitur evaugelium dominicis noctibus, vel ubi praeceptum sit tundere monachum, vel si dormiantur fratres post nocturnas, et ubi hoc praeceptum sit. Haec omnia in  secundo humilitatis gradu, et in tertio capitulo, et in XI. et in XVII. et in XXVIII. continentur; et quid singulos biberes vel mixtum accipere 18.

Infine l’ultimo riferimento cronologico: l’anno 806, data dopo la quale Carlomagno abbandonerà il suo programma monastico, impegnandosi nella suddivisione del­l’Impero fra i  suoi tre figli Ludovico, Pipino e Carlomanno, come si evince chiaramente dal capitulare Divisio regnorum datato 6 febbraio 806 19. Un primo sguardo alle fonti narrative del periodo preso in esame mostra che non ci sono pervenute chiare espressioni che   Capitualre missorum item specialem, 12, p. 102, 38; 33-35, p. 103, 32-37.   Capitula ad lectionem canonum et regulae S. Benedicti pertinentia, 23-24, pp. 108, 34 - 109, 8. 19 Cfr. Divisio regnorum, pp. 126-129. 17

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possano descrivere la  politica monastica di  Carlomagno: non disponiamo, infatti, di lettere, trattati o cronache che ne descrivano nel dettaglio le inizitive, né il posto di rilevanza occupato dalla Regula Sancti Benedicti. A dispetto della mancanza di esplicite fonti narrative che descrivano simili dinamiche, i capitolari oggetto del nostro intervento giocano un ruolo molto importante. Ed è proprio nei capitolari che possiamo incontrare esattamente le  azioni effettive e  gli obiettivi dichiarati o  impliciti del potere reale. Bisogna precisare che gli estremi cronologici individuati per la  nostra ricerca (dal 742 al­l’813) precedono di  ventisei anni l’avvento di  Carlomagno al  potere (768): questo sia perché la  politica di  Carlomagno fu profondamente influenzata da  quella dei suoi predecessori, sia a  causa della scarsità di  capitolari disponibili per i  suoi primi anni al potere. Solo cinque, infatti, sono i  capitolari, rilevanti per la  politica monastica, antecedenti al  regno di  Carlomagno: questi vanno a  integrare i  sedici documenti inerenti ai primi anni di  regno prima del­l’800, poco documentati; dal­l’800 al­l’813 i  capitolari saranno, invece, trentaquattro. Dal­l’814 succederà al regno Ludovico il Pio. Dei centoventiquattro documenti inerenti il regno di Carlomagno e dei suoi predecessori contenuti nel­l’edizione del Boretius, sessantuno contengono informazioni rilevanti: trentotto di  questi formano il  corpus principale dei capitolari monastici; otto sono capitolari italiani; altri undici non sono datati con precisione, ma compaiono dal­l’anno 800 in  poi; ulteriori quattro capitolari, infine, non sono datati.

3. Alcune tematiche generali individuabili al­l’interno dei capitularia Tutta questa documentazione che affronta le  problematiche connesse alla legislazione monastica è pervasa da riferimenti che possono essere a  loro volta inglobati  –  a  posteriori  –  al­l’interno di tre gruppi tematici più ampi, delle vere e proprie macro-aree. Al­l’interno della prima macro-area individuata possiamo riscon­trare cinque tematiche. La  tematica che maggiormente spicca sulle altre, per l’ampiezza dei riferimenti e  per l’importanza delle sue ricadute in  termini di  applicazione normativa, 339

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è  quella che possiamo definire del Tema della Regola: essa racchiude al  suo interno tutte le  problematiche e  i  provvedimenti messi in atto per l’applicazione della Regula benedettina da parte dei monaci. Una seconda tematica è  quella che possiamo definire Tema del vescovo e  del­l’abate: essa racchiude in  sé la  problematica delle relazioni tra vescovi e  abati, specialmente per ciò che riguarda la  predominanza del­l’autorità vescovile sul­ l’abate; questo tema è strettamente correlato al precedente Tema della Regola. La  terza tematica è  quella che possiamo definire Tema del monaco e  del canonico: essa pone in  evidenza tutti gli sforzi normativi che sono stati fatti per marcare la  distinzione tra monaci e  canonici. La  quarta tematica, che possiamo identificare come Tema della giustizia, racchiude riferimenti alla separazione da  mettere in  atto tra mondo ecclesiastico e  secolare, anche a  livello di  provvedimenti disciplinari e  della loro conseguente gestione. Chiude questo primo gruppo il Tema del novizio, che possiamo denominare in questo modo in quanto si riferisce al­l’ammissione nel­l’ordine monastico di  nuovi membri, da distinguere (con tutte le differenze del caso) tra bambini e adulti. Al­l’interno del presente contributo ci limiteremo a  trattare (per motivi redazionali) delle suddette cinque tematiche afferenti alla prima macro-area. Tutti i riferimenti presi in esame si prestano già ad un congruo numero di  spunti critici. Forniamo comunque, per completare il quadro della nostra analisi, l’elenco delle restanti macro-aree in cui è possibile suddividere tematicamente tutti i capitularia a nostra disposizione. La seconda macro-area, dunque, è  formata da  quattro tematiche, tutte concentrate sulla condotta individuale di  ogni singolo monaco e abate; affrontare l’analisi di tale documentazione è  molto interessante perché si ha la  possibilità di  comprendere quali fossero le reali difficoltà che si dovevano affrontare per fare in  modo che si riuscisse a  realizzare una reale separazione dei monaci dal mondo secolare. Il Tema dei monaci girovaghi, il Tema della caccia, il  Tema della fornicazione e  del bere e  il Tema della simonia (che include tutti i  riferimenti al­l’estorsione, alla corruzione e  al pettegolezzo) ci forniscono, con un buon margine di  realismo, un’idea circa la  mancanza di  disciplina che doveva riscontrarsi al­l’interno dei monasteri. 340

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La terza ed ultima macro-area è formata, infine, da tre tematiche, tutte concentrate sulla connessione tra i monasteri e il mondo reale. Nel Tema degli affari secolari ritroviamo ripetute ammonizioni rivolte ai monasteri che bloccano ogni genere di  affare o  che limitano gli affari in  diversi modi, mentre nel Tema della proprietà possiamo trovarci di fronte ad una realtà ben differente: quella del sovrano che considera i  monasteri alla stessa stregua di  centri di  amministrazione delle terre reali. Allo stesso modo, nel Tema dei vari utilizzi, possiamo trovare alcune delle funzioni che i monasteri mettevano in atto per operare in favore del­ l’impero carolingio, incluso il funzionamento di strutture come scuole, punti d’accoglienza, prigioni e centri per il reclutamento militare. 3.1. Il  Tema della Regola. – Di fondamentale importanza per il nostro intervento è  l’analisi della documentazione inerente alla più importante tematica compresa al­l’interno della prima macroarea che abbiamo creato, e di cui precedentemente abbiamo esposto le principali caratteristiche. Analizzando tale documentazione emerge immediatamente che il Tema della Regola rappresenta un punto di fondamentale interesse nella politica di Carlomagno e dei suoi predecessori: riferimenti al  termine regula (sia nel­l’accezione della Regula Sancti Benedicti, che in altre accezioni non meglio specificate) sono presenti ben centoventitrè volte. Il concetto di  vivere secondo la  Regola è  espresso sotto molte forme diverse: molto presente è  la frase «secundum regulam», come nel caso del­l’espressione «de monasteriis qui regulares fuerunt, ut secundum regulam vivant»; riportiamo il passo completo nella forma communis: De monasteriis qui regulares fuerunt, ut secundum regulam vivant; necnon et monasteria puellarum ordinem sanctum custodiant, et unaquaeque abbatissa in  suo monasterio sine intermissione resedeat 20.

Un gruppo di espressioni leggermente più ampio, ma meno uniforme nella costruzione, è  quello che vede l’utilizzo di  termini   Capitulare Haristallense, 3, p. 47, 31-35.

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derivati, come l’espressione «ad restaurandam normam regularis vitae», tratta dal seguente passo: Modo autem in hoc synodali conventu, qui congregatus est ad Kalendas Martias in loco qui dicitur Liftinas, omnes venerabiles sacerdotes Dei et comites et praefecti prioris synodus decreta consentientes firmaverunt, se implere velle et observare promiserunt. Et omnis aecclesiastici ordinis clerus, episcopi et presbyteri et diaconi cum clericis, suscipientes antiquorum patrum canones, promiserunt se velle ecclesiastica iura moribus et doctrinis et ministerio recuperare. Abbates et monachi receperunt sancti patris Benedicti [regulam] ad restaurandam normam regularis vitae. Fornicatores et adulteros clericos, qui sancta loca vel monasteria ante tenentes coinquinaverunt, praecipimus inde tollere et ad poenitentiam redigere. Et si post hanc definitionem in crimen fornicationis vel adulterii ceciderunt, prioris synodus iudicium sustineant. Similiter et monachi et nonnae 21.

Oppure ancora l’espressione «secudum regularem ordinem», tratta dal già citato passo del­l’Admonitio generalis 22. Nel seguente passo si registra anche l’uso del­l’avverbio regulariter: Ut monachi, qui veraciter regulariter vivunt, ad Romam vel aliubi vagandi non permittantur, nisi oboedientiam abbatis sui exerceant. Et si talis causa evenerit, quod absit, quod ille abbas sic remissus vel neglegens inveniatur aut in manus laicorum ipsum monasterium veniat, et hoc episcopus emendare non potuerit, et aliqui tales monachi ibidem fuerint qui propter Deum de ipso monasterio in alterum migrare vellent propter eorum animas salvandas, hoc per consensum episcopi sui licentiam habeant, qualiter eorum animas possint salvare 23.

Alcune costruzioni, poi, esprimono concetti simili, ma attraverso l’uso di perifrasi quali «Monachi (…) regula memoriter teneat et firmiter custodiat»: Monachi quod Deo promiserunt custodiant, nichil extra abbati sui preceptum faciat; turpi lucrum non faciant; regula   Karlmanni principis capitulare Liptinense, 1, pp. 27, 42 - 28, 7.  Cfr. Admonitio generalis, 73, p. 60, 11; cfr. supra, nota 13. 23  Concilium Vernense, 10, p. 35, 19-25. 21 22

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memoriter teneat et firmiter custodiat, scientes preceptum ‘quod multis melius est non votum vobere quam post votum non reddere’ (Ec 5, 4-5) 24.

Altre volte si ricorre al­l’uso di termini specifici del monachesimo: nel seguente passo tratto dal Duplex legationis edictum viene utilizzato, ad esempio, il vocabolo conversatio. De noviter venientibus ad conversationem: ut secundum regulam probentur, et non antea suscipiantur nisi sicut regula iubet; et nullus cogatur invitus promittere. Et de oboedientia et de stabilitate permanendi, sicut regula habet 25.

Altre volte si ricorre al­l’utilizzo del termine propositum: Sacerdotibus. Item in decretis Innocenti papae de eadem re, ut monachus, si ad clericatum provocatur, propositum monachicae professionis non ammittat 26.

Naturalmente la questione-chiave di una simile analisi va ben oltre il mero studio semantico dei termini utilizzati: essa punta principalmente a  individuare quali e  quante, tra queste espressioni, facciano precisamente riferimento alla Regula Sancti Benedicti; in  frasi come «secundum regulam» la  differenza tra la  Regola ed una regola è  di fondamentale importanza. Per rispondere ad un simile interrogativo i capitolari possono essere ulteriormente suddivisi in tre gruppi: un primo gruppo che raccoglie casi in cui il linguaggio adottato è chiaro oppure in cui il contesto ci suggerisce che la Regula Sancti Benedicti è specificatamente indicata; un secondo che raccoglie casi in cui è indicato un riferimento a qualche altra regola diversa dalla Regula Sancti Benedicti; e un terzo che raccoglie altri casi che non possono essere determinati con precisione. Come abbiamo già accennato, sono presenti centoventitre riferimenti al termine regula (al­l’interno di trentuno capitolari), e di questi ventinove menzionano la Regula per nome o in modo inequivocabile in  nove capitolari. Possiamo rintracciare questi   Missi cuisdam admonitio, p. 240, 15-17.   Duplex legationis edictum, 11, p. 63, 16-18. 26  Admonitio generalis, 27, p. 56, 3-4. 24 25

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riferimenti nei documenti di  diversi anni. Nel­l’anno 742, nel Karlmanni principis capitulare, si legge: Decrevimus quoque, ut presbiteri vel diaconi non sagis, laicorum more, sed casulis utantur, ritu servorum Dei. Et nullus in sua domu mulierem habitare permittat. Et ut monachi et ancillae Dei monasteriales iuxta regulam sancti Benedicti ordinare et vivere, vitam propriam gubernare studeant 27.

Rimandiamo inoltre al  già citato passo del Karlmanni principis capitulare Liptinense del­l’anno 744 in cui possiamo leggere il chiaro riferimento alla Regula 28. Ancora nel Karlmanni principis capitulare possiamo leggere: Clerici qui monachorum nomine non pleniter conversare videntur et ubi regula sancti Benedicti secundum ordinem tenent, ipsi in  verbum tantum et in  veritate promittant, de quibus specialiter abbates adducant domno nostro 29.

Nel Synodus Franconofurtensis del 794 leggiamo: Ut abbas cum suis dormiat monachis secundum regulam sancti Benedicti. Ut cellerarii in monasteriis avari non elegantur, sed tales electi sint quales regula sancti Benedicti docet. Audivimus enim, quod quidam abbates cupiditate ducti praemia pro introeuntibus in monasterio requirunt. Ideo placuit nobis et sancta synodo: pro suscipiendis in sancto ordine fratribus nequaquam pecunia requirantur, sed secundum regulam sancti Benedicti suscipiantur 30.

Negli Statuta Rhispacensia, Frisingensia, Salisburgensia degli anni 799-800 si legge: Ut novatiani qui veniunt in  monasterio non recipiantur in  ordine congregationis, antequam secundum regulam pleniter examinentur, et non preponantur ceteris in monasterio,   Karlmanni principis capitulare, 7, p. 26, 6-9.  Cfr.  Karlmanni principis capitulare Liptinense, 1, pp.  27,  42  -  28,  7; cfr. supra, nota 21. 29  Capitulare missorum, 3, p. 67, 1-3. 30  Synodus Franconofurtensis, 13-14, pp. 75, 36 - 76, 6. 27

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antequam regularis vitae ordinem pleniter edoceantur, sicut in regula sancti Benedicti continetur. Ut abbatissae nullatenus exeant de monasteriis suis nisi per consensum atque licentiam episcoporum suorum, ipsique episcopi prevideantur eis non negentur quando egredi debent de monasteriis pro utilitate sua. Talesque ipse abbatissae secum assumant, de quibus nullatenus redeuntes recitare praesummant ceteris sanctimonialibus, ‘quia plurima destructio est’ 31, sicut in sancta regula continetur 32.

Richiamiamo inoltre il già citato passo dei Capitula ad lectionem canonum et regulae Sancti Benedicti pertinentia del­l’anno 802, in cui ritroviamo l’esplicito riferimento ad alcuni capitoli della Regula Sancti Benedicti 33. Nei Capitula tractanda cum comitibus, episcopis, et abbatibus degli anni 810-811 possiamo invece leggere: De conversatione monachorum, et utrum aliqui monachi esse possint praeter eos qui regulam sancti Benedicti observant. Inquirendum etiam, si in Gallia monachi fuissent, priusquam traditio regulae sancti Benedicti in  has parroechias pervenisset 34.

Sempre relativamente agli anni 810-811, richiamiamo il già citato passo 12 dei Capitula de causis cum episcopis et abbatibus tractandis 35, e  completiamo la  rassegna di  riferimenti al  termine regula riportando quanto contenuto in un passo nel capitolare Interrogationes examinationis, databile al­l’incirca intorno al­l’803-813: Vos autem, abbates, interrogo, si regulam scitis vel intelligitis, et qui sub regimine vestro sunt secundum regulam beatissimi Benedicti vivant an non, vel quanti illorum regulam sciant aut intellegant 36. 31 Cfr.  Benedictus Nursinus, Regula, 67, PL 66, [215-932], 914C, ed.  S.  Pricoco, Milano 2006, p.  264: «Nec presumat quisquam aliis referre quaecumque viderit aut audierit, quia plurima destructio est». 32   Statuta Rhispacensia, Frisingensia, Salisburgensia, 19, pp. 228, 26 - 229, 7. 33 Cfr. Capitula ad lectionem canonum et regulae Sancti Benedicti pertinentia, 23-24, pp. 108, 34 - 109, 8; e cfr. supra, nota 18. 34  Capitula tractanda cum comitibus, episcopis, et abbatibus, 12, pp. 161, 38 162, 2. 35  Cfr.  Capitula de causis cum episcopis et abbatibus tractandis, 12, p.  164, 16-18; e cfr. supra, nota 2. 36   Interrogationes examinationis, 10, p. 234, 38-40.

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È molto importante notare che il  primo riferimento diretto al  nome della Regula Sancti Benedicti nel regno di  Carlomagno appare circa ventisette anni dopo il suo avvento al potere, in un passo del già citato Capitolare missorum 37. Gli unici due riferimenti espliciti precedenti risalgono a  due capitolari del breve regno di Carlomanno (che regna dal 768 al 771), fratello minore di Carlomagno 38. Andando ancora a  ritroso, al  tempo del regno di  Pipino  III il  Breve (Re dei Franchi dal 751 al  768), non troviamo riferimenti precisi alla Regula Sancti Benedicti: va sottolineato, però, che per tale periodo la documentazione è molto lacunosa (rimangono, infatti, solo sei capitolari). Un altro punto importante da  sottolineare è  quello della grande abbondanza di  riferimenti relativi al­l’anno 802, l’anno in  cui Carlomagno apportò il  suo maggiore impegno per fare in modo che la Regula fosse adottata per legge. Passando in rassegna la documentazione inerente al regno di Carlomagno e dei suoi predecessori, abbiamo avuto modo di constatare come la  riflessione sul­l’esigenza del­l’adozione di  un unico testo che regolamentasse la vita monastica fosse particolarmente sentita. Dal­l’anno 814 succederà al governo del­l’Impero il figlio di Carlomagno, Ludovico il Pio: egli sarà un personaggio di fondamentale importanza, perché strettamente connesso al­l’operato riformatore di  Benedetto di  Aniane. Il  sodalizio tra Ludovico e l’abate di Aniane risale, infatti, al periodo in cui il sovrano, allora re d’Aquitania (consacrato dal papa Adriano I  nel 781), affidò a  Benedetto la  riforma dei monasteri del regno: questo avvenimento può essere identificato come il primo tassello del processo di  riforma. Dopo la  morte di  Carlomagno, Ludovico assunse la  pienezza del potere imperiale: egli richiamò vicino a  sé, alla corte di Aquisgrana, Benedetto d’Aniane. Q uesto ulteriore avvenimento può essere identificato come il secondo e decisivo tassello del processo di riforma monastica. A seguito di questa importante decisione, Ludovico pose sotto la direzione del­l’abate di Aniane  Cfr. Capitolare missorum, 3, p. 67, 1-3; e cfr. supra, nota 29.  Cfr. Karlmanni principis capitulare, pp. 24-26; Karlmanni principis capitulare Liptinense, pp. 26-28. 37

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tutti i monasteri del­l’Impero, per fare in modo che egli creasse un clima di uniformità nel­l’osservanza. Tra l’816 e l’817, ad Aquisgrana, due concili segnarono il cammino della riforma: Benedetto d’Aniane, per ordine imperiale, convocò gli abati, insieme a  molti monaci, e  con loro discusse della Regula. L’intenzione è chiara: vengono abolite tutte le altre osservanze, le altre tradizioni. A testimonianza di ciò, possiamo rintracciare –  al­l’interno di  un significativo passo tratto dalla biografia di Benedetto di Aniane redatta da Ardone Smaragdo – una testimonianza che bene fotografa l’importanza del­l’operato del­l’abate di Aniane a sostegno del­l’unificazione monastica del­ l’Impero: Et una cunctis generaliter posita observatur Regula, cunctaque monasteria ita ad formam unitatis redacta sunt, ac si ab uno magistro et in  uno imbuerentur loco. Uniformis mensura in potu, in cibo, in vigiliis, in modulationibus cunctis observanda est tradita. Et quoniam alia per monasteria ut observaretur instituit regula, suos in  Inda degentibus ita omni intentione instruxit, ut ex diversis regionibus adventantes monachi non, ut ita dixerim, perstrepentia, ut imbuerentur, indigerent verba, quia in singulorum moribus, in incessu habituque formam disciplinamque regularem pictam cernerent 39.

3.2. Il  Tema del vescovo del­l’abate.  –  Q uello che abbiamo definito come Tema del vescovo e  del­l’abate è  il secondo tra i  temi inerenti la legislazione monastica carolingia. Esso appare in trentuno diversi capitolari, per un totale di  settantatre riferimenti. Q uesto importante tema può essere suddiviso a sua volta in due parti: una parte che raccoglie trentatre provvedimenti che legiferano in  merito al­l’autorità del vescovo sul­l’abate e  che possiamo chiamare Riferimenti al  vescovo; un’altra parte che raccoglie trentuno provvedimenti in  cui si fa riferimento a  una certa equivalenza di  status tra l’autorità del vescovo e  quella del­ l’abate: possiamo definire questi riferimenti come Riferimenti al­l’equivalenza. Dal punto di  vista della mera autorità, gli abati 39  Vita S. Benedicti Anianensis, 377D-378A; Vita Benedicti Abbatis, 36 (50), pp. 215, 48 - 216, 5.

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non saranno mai ufficialmente equivalenti ad un vescovo: questi riferimenti ci mostrano semplicemente la  superiorità gerarchica del vescovo, oppure passano in  rassegna un’equivalenza de facto, legata a  certe occorrenze oppure giustificata da  finalità specifiche. In aggiunta a  quanto accennato finora possiamo identificare altre due sotto-parti: una che raccoglie tutte le  testimonianze (tre riferimenti) di  una pacifica convivenza tra vescovi ed abati, senza la necessità di dover fare ricorso ognuno alla propria autorità; un’altra parte che richiama i  cambiamenti che sono intercorsi nelle relazioni tra vescovi ed abati in  circostanze diverse (sei  riferimenti). I  cosiddetti Riferimenti al  vescovo tendono a  essere l’insieme più semplice e  più uniforme, e  appaiono in gruppi cronologici ben definiti. Sotto Pipino possiamo rintracciare nella documentazione a nostra disposizione sei Riferimenti al vescovo ed un solo Riferimento al­l’equivalenza. Un passo tratto dal Concilium Vernense del­l’anno 755 può essere un buon esempio del primo tipo di riferimento: Ut unusquisque episcoporum potestatem habeat in sua parrochia, tam de clero quam de regularibus vel secularibus, ad corregendum et emendandum secundum ordinem canonicam spiritale, ut sic vivant qualiter Deo placere possint 40.

C’è una distribuzione abbastanza uniforme nella successiva decade fino al­l’anno 789, quando domineranno i Riferimenti al­l’equi­ valenza. Nel 794 i  Riferimenti al  vescovo tornano nuovamente alla ribalta, e i poteri dei vescovi si estendono, come si evince da un passo tratto dal Synodus Franconofurtensis: Statutum est a domno rege et sancta synodo, ut episcopi iustitias faciant in suis parroechiis. Si non oboedierit aliqua persona episcopo suo de abbatitus, presbiteris, diaconibus, subdiaconibus, monachis et caeteris clericis vel etiam aliis in eius parrochia, venient ad metropolitanum suum, et ille diiudicet causam cum suffraganeis suis. Comites quoque nostri veniant ad iudicium episcoporum (…) 41.   Concilium Vernense, 3, p. 33, 41-43.   Synodus Franconofurtensis, 6, p. 74, 39-43.

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I Riferimenti al vescovo rimangono di gran lunga i riferimenti più comuni fino al­l’anno 802 incluso, quando troviamo la più forte affermazione di questo principio, come si evince da un passo tratto dal Capitulare Missorum Generale: Abbates autem et monachis omnis modis volumus et precipimus, ut episcopis suis omni humilitate et hobhedientia sint subiecti, sicut canonica constitutione mandat. Et omnis eclesiae adque basilicae in  eclesiastica defensione et potestatem permaneat. Et de rebus ipse basilicae nemo ausus sit in divisione aut in sorte mittere. Et quod semel offeritur, non revolvatur et sanctificetur et vindicetur. Et si autem aliter praesumpserit, presolvatur et bannum nostrum conponat. Et monachi ab episcopo provinciae ipsius corripiantur; quod si se non emendent, tunc archiepiscopus eos ad sinodum convocet; et si neque sic se correxerint, tunc ad nostra praesentiam simul cum episcopo suo veniant 42.

Indicazioni del­l’equivalenza di  status tra un vescovo e  un abate non sono così semplici. Specialmente nel periodo precedente l’anno 802, i  Riferimenti al­l’equivalenza risultano essere posti in  relazione ad altre motivazioni dal­l’importanza secondaria se riferite alla nostra ricerca. Essi tendono a  rivelare i  modi in  cui l’effettiva autorità degli abati, in opposizione al loro potere legale, era comparabile a quella dei vescovi. Negli esempi seguenti troviamo abati posti al fianco di vescovi e di altre importanti figure che entrano in scena quando Carlomagno avverte la necessità di ricostruire chiese o di governare monasteri femminili: Ut illas eclesias Dei qui deserti sunt restaurentur tam episcopi quam abates vel illi laici homines qui exinde benefitium habent 43. Episcopis, abbatibus. Auditum est, aliquas abbatissas contra morem sanctae Dei ecclesiae benedictionis cum manus inpositione et signaculo sanctae crucis super capita virorum dare, necnon et velare virgines eum benedictione sacerdotali. Q uod

  Capitulare Missorum generale, 15, p. 94, 7-15.   Pippini Capitulare Aquitanicum, 1, p. 42, 33-34.

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omnino vobis, sanctissimi patres, in vestris parrochiis interdicendum esse scitote 44.

I cosiddetti Riferimenti al­l’equivalenza diventano ancora più difficili da interpretare dopo l’anno 794, quando la categoria dei Riferimenti al vescovo torna nuovamente a essere predominante. In questi passaggi possiamo facilmente supporre una turbolenta equivalenza di autorità e di status tra abati e vescovi quando sia gli abati che i vescovi vengono puniti per la stessa tipologia di reati burocratici: Ut nullus episcopus vel abbas atrahere audeat res nobilium causa ambitionis sicut in  canone Cartaginensi continetur cap. V 45. Ut nullus episcopus neque abbas sibi atrahere audeat res tributalium domni regis, id est basilicas eorum benedicere vel quicquid a  tali conditione pertinere videtur, antequam domnus rex hoc pleniter definiatur 46.

Dopo l’anno 802 c’è un chiaro declino dei Riferimenti al vescovo e, di conseguenza, i Riferimenti al­l’equivalenza si fanno un po’ più espliciti, spesso utilizzando l’espressione «episcopi, abbates, et comites» oppure una variante, come nel­l’esempio seguente che riguarda questioni militari, tratto dal Capitulare Aquisgranense: Et episcopi, comites, abbates hos homines habeant qui hoc bene praevideant et ad diem denuntiati placiti veniant et ibi ostendant quomodo sint parati. Habeant loricas vel galeas et temporalem hostem, id est aestivo tempore 47.

Un solo riferimento, sempre al­l’interno del Capitulare Aquisgranense, chiarisce che a livello locale può giocare un ruolo importante il modo in cui l’autorità è condivisa e il modo in cui un monaco deve comportarsi per vivere regulariter 48.   Admonitio generalis, 76, p. 60, 27-30.   Statuta Rhispacensia, Frisingensia, Salisburgensia, 11, p. 227, 41-42. 46  Ibid., 30, p. 229, 18-20. 47  Capitulare Aquisgranense, 9, p. 171, 26-28. 48 Cfr. ibid., 1, p. 170, 38-39. 44 45

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Riferimenti a una reale equivalenza tra i poteri di un vescovo e di un abate persistono dopo l’anno 802: ciò non deve sorprendere, considerato l’ampio numero di  documenti in  cui abati e vescovi vengono chiamati in causa. Q uesta persistenza è probabilmente un buon indicatore delle reali relazioni tra vescovi ed abati, in opposizione allo stato legale e politico del governo sul­ l’argomento. Tuttavia Carlomagno avrebbe potuto cambiare la sua politica, provando a inasprire la legislazione inerente le loro relazioni; riferimenti alla realtà di tale situazione potrebbero continuare ad apparire incidentalmente. Abbiamo già avuto modo di  riscontrare una simile persistenza con i  riferimenti al  Tema della Regola dopo l’anno 802. Riepilogando, dunque, il  Tema del vescovo e  del­l’abate condivide con il  Tema della Regola un generale inasprimento del­ l’atteggiamento dal 794 e, allo stesso modo, un allentamento dal­ l’anno 802. Q uesta corrispondenza suggerisce uno sforzo da parte di  Carlomagno nel 794 di  incrementare l’effettiva validità della sua regolamentazione dei monasteri rendendo chiara la subordinazione del­l’abate al vescovo e applicando standard più rigorosi per la vita dei monaci. 3.3. Il  Tema del monaco e  del canonico.  –  Il cosiddetto Tema del monaco e del canonico, terza tematica della nostra prima macroarea, pone in  evidenza tutti gli sforzi normativi che sono stati messi in atto dal­l’entourage carolingio per marcare la distinzione tra monaci e  canonici. Q uesto tema raccoglie quindici riferimenti al­l’interno di un arco cronologico compreso tra l’anno 755 e l’anno 810-811. Il primo riferimento, sotto Pipino, è datato 755, in occasione del Concilium Vernense: De illis hominibus, qui se dicunt propter Deum quod se tonsorassent, et modo res eorum vel pecunias habent et nec sub manu episcopi sunt nec in  monasterium regulariter vivunt, placuit ut in monasterio sint sub ordine regulari aut sub manu episcopi sub ordine canonica; et si aliter fecerint, et correpti ab episcopo suo se emendare noluerint, excommunicentur. Et de ancillis Dei velatis eadem forma servetur 49.   Concilium Vernense, 11, p. 35, 26-30.

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L’ultimo riferimento databile con certezza si riferisce a un passo tratto dai Capitula de causis cum episcopis set abbatibus tractandis del­l’anno 810-811: In quo canonum vel in cuius sancti patris regula constitutum sit, ut invitus quislibet aut clericus aut monachus fiat, aut ubi Christus praecepisset aut quis apostolus praedicasset, ut de nolentibus et invitis et vilibus personis congregatio fieret in ecclesia vel canonicorum vel monachorum 50.

I riferimenti che abbiamo appena citato esprimono quasi simili preoccupazioni: che i  monaci ed i  canonici devono essere ben distinti, e  che coloro i  quali vorranno intraprendere la  vita religiosa in  uno dei due ordini dovranno scegliere categoricamente tra l’uno e l’altro. Q uesto messaggio rimane costante in  tutta la  legislazione. Siccome questo tema si estende oltre i  limiti cronologici delle riforme di Carlomagno, e  siccome rimane così costante, esso potrebbe essere preso in considerazione quasi autonomamente tra tutti gli sforzi compiuti ai fini della riforma. Esso rappresenta un impegno di lunga durata che non è  stato influenzato dal valore della regola che veniva utilizzata. 3.4. Il Tema della giustizia. – Il Tema della giustizia rappresenta solo un aspetto della politica monastica e  riflette soltanto una piccola porzione delle politiche riguardanti la  giustizia attuate dai sovrani carolingi. Ai fini della nostra ricerca gli aspetti maggiormente salienti riguardo a  questo tema sono gli sforzi intrapresi per riformare il processo d’appello delle corti ecclesiastiche e per attuare la Regula Sancti Benedicti, il testo che diverrà anche il punto di riferimento legale per la vita dei monaci, oltre a essere già la guida spirituale dei monasteri. Q uesti sforzi diverranno più forti dal­l’anno 794 e  costituiranno una fondamentale base per i cambiamenti in atto in quel tempo nella politica monastica e che abbiamo già osservato. Il Tema della giustizia è presente trentasette volte al­l’interno di  quindici capitolari. Alcuni elementi si presentano costante  Capitula de causis cum epicopis et abbatibus tractandis, 10, p. 163, 40-43.

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mente nel corso del­l’arco cronologico a cui ci riferiamo. Gli abusi a cui si fa riferimento sono diversi e tutti molto gravi: in un passo del Karlmanni principis capitulare del 742 possiamo leggere a proposito della fornicazione e delle relative pene da comminare: Statuimus similiter, ut post hanc synodum, quae fuit XI. Kalendas Maias, ut quisquis servorum Dei vel ancillarum Christi in crimen fornicationis lapsus fuerit, quod in carcere poenitenciam faciat in pane et aqua. Et si ordinatus presbiter fuisset, duos annos in carcere permaneat, et antea flagellatus et scorticatus videatur, et post episcopus adaugeat. Si autem clericus vel monachus in hoc peccatum ceciderit, post tertiam verberationem in carcerem missus, vertentem annum ibi paenitenciam agat. Similiter et nonnae velatae eadem penitencia conteneantur, et radantur omnes capilli capitis eius 51.

Nel passo 17 52 del Capitulare Missorum generale del­l’anno 802 si fa riferimento alla disapprovazione di  vari comportamenti che certamente non si addicono ai buoni cristiani e  ai monaci. Altro grave reato è quello delle ordinazioni dietro compenso economico: possiamo leggere a proposito in un passo del­l’Admonitio generalis del 789: Clericis et monachis. In concilio Calcidonense, ut non oporteat episcopos aut quemlibet ex clero per pecunias ordinari: quia utrique deponendi sunt, et qui ordinat et qui ordinatur, necnon et qui mediator est inter eos 53.

Si registra anche uno sforzo per assicurare che monaci e chierici non siano giudicati da  corti secolari, ma dalla giustizia ecclesiastica: troviamo chiari riferimenti a  questa restrizione nel Concilium Vernense del 755: Ut nullus clericus ad iudicia laicorum publica non conveniat nisi per iussionem episcopi sui vel abbatis, iuxta canones Cartaginensis, capitulo IX. ut ibi scriptum est: ‘Q ui relicto ecclesiastico iudicio publicis iudiciis se purgare voluerit, etiamsi pro illo fuerit prolata sententia, locum suum amittat. Hoc   Karlmanni principis capitulare, 6, pp. 25, 38 - 26, 5.  Cfr.  Capitulare Missorum generale, 17, pp.  94,  24  -  95,  9; e  cfr.  supra, nota 15. 53  Admonitio generalis, 21, p. 55, 28-30. 51

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in criminale iudicio. In civili vero perdat quod evicit, si locum suum obtenere voluerit. Cui enim ad elegendos iudices undique ecclesiae patet auctoritas, ipse se indignum fraterno consortio iudicat qui, de universa ecclesia male sentendio  (sic), seculare de iudicio poscit auxilium, cum privatorum christianorum causas apostolus ad ecclesiam deferri atque ibidem terminare praecipiat’. Et maxime, ne in talibus causis inquietudine domno rege faciant 54.

Anche nel passo 73 del­l’Admonitio generalis del 789 si trovano riferimenti a proposito 55. È possibile ritrovare ulteriori riferimenti alla questione nel Synodus Franconofurtensis del 794: Ut monachi ad saecularia negotia neque ad placita exercenda non exeant, nisi ita faciant sicut ipsa regula praecepit 56.

Concludiamo la trattazione del­l’argomento relativo alla competenza di giudicare chierici e monaci con la citazione di due passi tratti dagli Statuta Rhispacensia, Frisingensia, Salisburgensia del 799-800: Statuerunt, ut nullus inter aeclesiasticos ordines pro qualibet causa absque iuditio episcopi sui vel etiam metropolitani consensu ad iuditia secularia minime audeat accedere. Sed si qualibet causa intra sanctas eclesias contigisset adquirere, cum omni caritate et concordia in  invicem conservata requiratur. Si episcopus vel abbas vel etiam presbiter inter se aliquam habuissent secularis rei altercationem, cum moderamine caritatis et insolubili vinculo pacis cum consilio episcopi sui in  invicem sibi ea quae in  causa essent absque iniuria vel damnatis iuramentis fideliter et devote, iustitia inter eos peracta, cum timore Domini essent consentientes. Si vero cum consilio episcopi iustitia inter eos minime potuisset peragi, tunc ad metropolitanum episcopum causa deferatur, et cum ipsius consilio vel voluntate necnon et iussu omnia perficerentur.

54   Concilium Vernense, 18, p.  36,  24-32. La  citazione infratestuale fa riferimento al  cap. IX del terzo Concilium Carthaginense (384-399 ca.), dal titolo Ut clerici publica judicia non appellent. Cfr. J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio, III, Firenze 1849, col. 882. 55 Cfr. Admonitio generalis, 73, p. 60, 14-17; e cfr. supra, nota 13. 56  Synodus Franconofurtensis, 11, p. 75, 32-33.

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Ut qui monachico voto est constitutus nullo modo parroechiam teneat nec ad iuditia secularia accedere praesummat 57.

La legislazione di  Carlomagno non fa alcun riferimento al processo d’appello, ma si concentra sul fatto che la legge della Chiesa venga applicata più fedelmente, e  questo dovrebbe rinforzare l’autorità del vescovo sul­l’abate. Nella prima sezione del suo Karlmanni principis capitulare Liptinense del 744 Carlomanno decreta: Et omnis aecclesiastici ordinis clerus, episcopi et presbyteri et diaconi cum clericis, suscipientes antiquorum patrum canones, promiserunt se velle ecclesiastica iura moribus et doctrinis et ministerio recuperare. Abbates et monachi receperunt sancti patris Benedicti [regulam] ad restaurandam normam regularis vitae 58.

Anche Carlomanno ha raccomandato la Regula Sancti Benedicti, non soltanto come strumento di  riforma del monachesimo, ma come legge per i  monaci. Sotto Pipino, specialmente nei primi anni del suo governo, non c’è una sostanziale iniziativa di riforma giuridica. Lo scenario muta nel 755, quando viene intrapresa una significativa riforma della Chiesa. Tra le  altre cose, viene messo a punto un processo d’appello per i monasteri: Ut monasteria, tam virorum quam puellarum, secundum ordinem regulariter vivant; et si hoc facere contempserint, episcopus in  cuius parrochia esse videntur hoc emendare debeat. Q uod si non potuerit, hoc quem metropolitanum constituimus innotescat et ipse hoc emendare faciat. Q uod si hoc nec ipse emendare potuerit, ad sinodum publicum exinde veniant, et ibidem canonicam sententiam accipiat. Et si publicum sinodum contempserit, aut honorem suum perdat aut excommunicetur ab omnibus episcopis, et talis in eius locum in ipso sinodo constituatur per verbum et voluntatem domno rege vel consensu servorum Dei, qui secundum ordinem sanctam ipsam gregem regat 59.

57   Statuta Rhispacensia, Frisingensia, Salisburgensia, 3, p.  226,  27-36; 25, p. 228, 39-40. 58  Karlmanni principis capitulare Liptinense, 1, pp. 27, 45 - 28, 3. 59  Concilium Vernense, 5, p. 34, 7-15.

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Q uesto processo include il  vescovo, il  metropolita, ed il  sinodo pubblico. I monaci devono vivere «secondo la regola», ma, come abbiamo visto, Pipino non specifica il nome della regola da utilizzare. Carlomagno conferma l’ultimo capitulum di  Pipino emettendolo di nuovo una volta salito al trono, ma fino al Pippini capitulare papiense del­l’Ottobre 787 non sono presenti riferimenti alla legislazione ecclesiastica 60. Tuttavia, tra il 789 e l’808, l’argomento ricorre con una certa frequenza 61. Come si evince da  un passo del Duplex legationis edictum del 789 e  da un passo del Synodus Franconofurtensis del 794, la Regula viene raccomandata due volte, specialmente nel contesto giuridico, rendendola a tutti gli effetti la legge a cui fare appello per le  decisioni inerenti 62. Nel 794, in  un passo che abbiamo già preso in  considerazione per la  sua rilevanza nelle relazioni vescovo-abate 63, viene istituita una decisiva riforma del processo d’appello, in cui gli abati e tutte le leggi ecclesiastiche sono poste sotto l’autorità giuridica del vescovo. Ulteriori appelli si possono rivolgere al  metropolita; l’appello finale si rivolge direttamente al re. Ma nel­l’anno 802 entrano in vigore importanti variazioni. I vescovi hanno adesso il completo controllo sulle punizioni dei monaci e sugli appelli al­l’arcivescovo ed al re: Et monachi ab episcopo provinciae ipsius corripiantur; quod si se non emendent, tunc archiepiscopus eos ad sinodum convocet; et si neque sic se correxerint, tunc ad nostra praesentiam simul cum episcopo suo veniant 64.

Q uesto è  un altro sforzo messo in  atto per porre gli abati sotto l’autorità del vescovo nel contesto giuridico: in  questo modo si 60 Cfr.  Pippini capitulare papiense, pp.  198-200. Nel­ l’edizione del Boretius questo capitulare riporta il n. 94. 61  Cfr. Admonitio generalis, pp. 52-62; Capiturale missorum de exercitu promovendo, pp. 136-138. 62 Cfr. Duplex legationis edictum, 16, p. 63, 23-24: «16. Ut disciplina monachis regularis imponatur non secularis, id est non orbentur nec mancationes alias habeant nisi ex auctoritate regulae»; Synodus Franconofurtensis, 18, p. 76, 9-10: «18. Ut abbates, qualibet culpa a monachis commissa, nequaquam permittimus coecare aut membrorum debilitate ingerere, nisi regularis disciplina subiaceat». 63 Cfr. supra, nota 45. 64  Capitulare missorum generale, 15, p. 94, 12-15.

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lede chiaramente l’esclusiva giurisdizione degli abati nei loro rispettivi monasteri. Altre iniziative del­l’epoca, come mandare nuovi funzionari nei monasteri per ridurre l’appropriazione indebita verso il re, oppure per far applicare la Regula Sancti Benedicti, rafforzano queste limitazioni verso i poteri degli abati. Dal­l’anno 802 non si farà più riferimento a simili interessi, però continueranno ad apparire altri provvedimenti concernenti la  giustizia monastica. Il Tema della giustizia esprime alcuni interessi che non mutano nel corso del periodo preso in esame, ma dal­l’anno 794 possiamo notare una maggiore attenzione dedicata sia alla riforma del processo d’appello che al­l’applicazione della Regula Sancti Benedicti come legge per i  monaci. Ciò costituisce il  necessario supporto legale per le altre modifiche che abbiamo visto essere state messe in atto nello stesso tempo al­l’interno del Tema del Vescovo e del­ l’Abate e del Tema della Regola. Cioè il nuovo processo d’appello che supporta l’autorità del vescovo sui monasteri, ma soprattutto l’importanza della Regula Sancti Benedicti come regola osservata dai monaci.

4. Conclusione Possiamo concludere affermando che il  processo di  riforma del monachesimo venne intensificato e  messo in  atto da  Benedetto di Aniane, ma esso aveva già avuto, come si evince dalla documentazione, vari precedenti. Se il nono secolo, con l’abate di Aniane, rappresenta il  momento di  maggiore slancio riformatore, sappiamo che tale articolato processo affonda le sue radici già nel settimo secolo: i concili regionali svolti in quegli anni hanno emanato alcune disposizioni relative ai monaci. Con l’ottavo secolo, come abbiamo avuto modo di constatare, si apre un secondo periodo molto importante per il  cammino di  riforma del monachesimo: attraverso i  capitolari analizzati si è potuto verificare un processo di maturazione della legislazione civile, insieme ad una maggiore ingerenza del mondo laico negli affari ecclesiastici e religiosi. Con Carlomagno e  Ludovico il  Pio si raggiunge la  massima concentrazione di  interventi a  favore di  un monachesimo unificato sotto la  Regula Sancti Benedicti: l’elemento basilare  è, 357

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appunto, la scelta di una regola unica; essa, poi, sarà fiancheggiata da  un codice disciplinare e  liturgico, che ne precisa gli aspetti più contingenti. Si realizzerà, in  questo modo, un’uniformità materiale, rituale, formale, ma anche un’identità pedagogica e ideologica.

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PIERFRANCESCO DE FEO

L’EREDITÀ CRISTOLOGICA ANSELMIANA IN UGO DI SAN VITTORE E IN ABELARDO

1. Ugo di San Vittore Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta, opera terminata nel 1098, è  l’irrinunciabile termine di  confronto della produzione soteriologica del secolo xii 1. Anselmo, ormai arcivescovo di Canterbury, dimostra perché, pur prescindendo da Cristo, un credente in  Dio sia portato dalla ragione ad ammettere necessariamente che soltanto un Dio-uomo possa essere l’artefice della salvezza del genere umano. La  ratio teologica è  dunque necessaria, perché, pur partendo da una preliminare accettazione di dati di fede, conduce ad avvalorare in  modo inoppugnabile la  veridicità del dogma cristologico. Ugo di San Vittore, esponente di spicco della scuola parigina di  San Vittore, recepisce l’opera anselmiana alla luce di una sensibilità precipuamente caratterizzata da un approccio storico al  mistero della salvezza, che si evidenzia in  particolar modo nelle Sententiae de divinitate, nel De Sacramentis christianae fidei e in alcune Q uaestiones pubblicate da Odo Lottin 2. La contemplazione dello splendore di gloria del Verbo si accompagna ad una costante meditazione del conflitto drammatico che 1   La soteriologia è quel ramo della cristologia che analizza le cause, il fine e gli effetti della redenzione del genere umano operata da Gesù Cristo. Q uesto breve articolo vuole fornire qualche spunto supplementare a quanto già analizzato in un mio volume sulla cristologia della prima metà del secolo xii; cfr. P. De Feo, Il Cristo delle scuole. Il dibattito cristologico nella prima metà del secolo xii, Roma 2012 (Collationes, 3), p. 147. 2  Per la figura e le opere di Ugo, cfr. Ugo di San Vittore. Atti del XLVII Convegno del Centro di  studi del Basso Medioevo, Accademia Tudertina (Todi, 10-12 settembre 2010), Spoleto 2011.

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 359-370 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112925

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si è  consumato sul palcoscenico della storia umana tra il  Figlio di Dio e il suo antico avversario, Satana. Da questo punto di vista, gli autori monastici si preoccupano di  evidenziare il  ruolo rivestito dal diavolo nella vicenda della redenzione operata da Cristo. Anselmo diventa punto di  riferimento obbligato perché, opponendosi a un filone della tradizione patristica che attribuiva al diavolo il  diritto di  esercitare un potere sull’uomo, acquisito dopo che l’uomo aveva liberamente scelto di peccare, ritiene che nessun diritto possa essere riconosciuto a chi per primo aveva gravemente offeso Dio. Se è evidente l’esistenza di uno iugum diaboli, il potere che il diavolo esercita non può trovare a suo fondamento alcuno ius. Il diavolo, seducendo l’uomo, lo aveva conquistato con l’inganno, per cui l’uomo non poteva essere considerato una legittima proprietà di Satana. L’uomo è stato sempre suddito di Dio e  Satana non aveva alcun diritto di  rendere l’uomo schiavo del peccato. Se Dio ha permesso l’azione tentatrice del diavolo è soltanto perché l’uomo, affrontando la tentazione, potesse assumersi la responsabilità del peccato e riscattarsi dalla sua schiavitù, non certo perché il  diavolo avesse diritto a  un risarcimento. L’Incarnazione e  il sacrificio di  Cristo non costituiscono, dunque, un riscatto da un preteso ius diaboli. Ugo esprime la sua vicinanza a  questa posizione nella sua summa teologica, il  De sacramentis christianae fidei: Iniuste ergo diabolus tenet hominem. Sed homo iuste tenetur, quia diabolus numquam meruit, ut hominem sibi subiectum premeret, sed homo meruit per culpam suam, ut ab eo premi permitteretur 3.

Certamente l’uomo ha meritato un castigo per la  sua disonestà nei confronti di  Dio, perché è  possibile che l’uomo ignorasse la  natura ingannatrice del diavolo, ma non che l’azione a  cui lo incitava Satana fosse contraria al volere di Dio. Tuttavia, anche per Ugo, lo ius che il diavolo esercita sull’uomo è uno ius tyrannicum, quindi, in realtà, non è uno ius ma uno iugum. Il diavolo è  un involontario strumento del castigo divino, in  quanto eser  Hugo de Sancto Victore, De Sacramentis christianae fidei (in seguito: De Sacramentis), I, 8, 4, PL 176, [173-618], 308A, ed. R. Berndt, Achendorff  2008 (Corpus Victorinum. Textus historici, 1), p. 196, 16-18. 3

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cita la  sua malefica azione sull’uomo non certo per assecondare la  volontà di  Dio, ma perché è  malvagio e  desidera che l’uomo rovini nella dannazione eterna. Q uesto significa, però, che Dio è  capace di  reintegrare il  male nel bene ordinandolo a  un fine armonizzabile col suo disegno provvidenziale. Anselmo aveva scritto nel Cur Deus homo: Nam hoc non faciebat Deo iubente, sed incomprehensibili sapientia sua, qua etiam mala bene ordinat, permittente 4.

Per Ugo, la volontà di Dio è un beneplacito immutabile: da essa discende la  volontà come operatio, che compie sempre il  bene, e la volontà come permissio, che permette anche il male. Ed è un bene che vi siano stati, nella storia della salvezza, sia il bene che il male, non perché il male in sé possa diventare bene, ma perché dal male Dio ha tratto un bene: «Malarum voluntatum ordinator est Deus, non Creator» 5. Ma l’uomo, contratto il peccato, è  diventato incapace di  liberarsi dallo iugum diaboli. Se l’uomo avesse beneficiato di un patronus non soggetto a nessuno e superiore alle parti, a cui affidare la sua causa contro il diavolo, certamente avrebbe vinto, proprio perché avrebbe avuto buon gioco nel dimostrare che non esisteva alcuna motivazione in grado di legittimare il legame tra il giusto castigo patito e la tirannia esercitata dal diavolo nei suoi confronti: Si ergo homo talem patronum haberet, cuius potentia diabolus in  causam adduci posset, iuste dominio eius homo contradiceret, quia diabolus nullam iustam causam habuit, quare sibi ius in homine vindicaret 6.

Solo Dio poteva fungere da  patrono; Ugo riprende il  motivo paolino dell’ỏργή θεοῦ (cfr.  Rm 1,  18) per giustificare il  rifiuto di Dio di esercitare questo patronato: Patronus autem nullus talis inveniri poterat nisi solus Deus, si Deus causam hominis suscipere noluit, quia homini adhuc pro culpa sua iratus fuit 7.  Cfr. Cur Deus homo, I, 7, 367C, p. 57, 12-13.   Hugo de Sancto Victore, ibid., 5, 27, 258C, p. 128, 24-25. 6  Ibid., 8, 4, 308AB, p. 196, 21-24. 7  Ibid., 308B, p. 196, 24-25. 4 5

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La soddisfazione necessitava la  riparazione del danno, azione impossibile all’uomo. Dio, avendo consapevolezza che non avrebbe potuto richiedere dal peccatore un risarcimento che l’uomo non era in grado di procurarsi, ebbe misericordia di lui. Si fece uomo per amore dell’uomo e lo liberò, giustificandolo non dal diavolo, ma dal peccato di  cui si era reso colpevole soltanto di fronte a Dio stesso: Videns ergo Deus hominem sua virtute iugum damnationis non posse evadere, misertus est eius (…). Dedit igitur homini hominem quem homo pro homine redderet, qui ut digna recompensatio fieret priori non solum aequalis sed maior esset. Ut ergo pro homine redderetur homo, maior homine factus est Deus homo pro homine 8.

Solo Dio, infatti, è  giusto, per cui, anteriormente alla causa tra l’uomo e il diavolo, esiste il debito contratto da entrambe le creature nei confronti di Dio. La causa tra Dio e il diavolo è stata risolta fin da prima della creazione dell’uomo, con la cacciata definitiva di Lucifero dal Paradiso. La causa tra l’uomo e Dio è stata differita alla fine dei tempi, perché il sacrificio di Cristo ha dilatato i tempi della pazienza divina fino al  giorno del Giudizio. La  causa tra il diavolo e l’uomo è stata risolta con la passione di Cristo, centro della storia, che ha apportato la liberazione dell’uomo dal destino di dannazione. Se l’uomo, infatti, avrà voluto riconciliarsi con Dio tramite Cristo, aspetterà il giudizio senza timore di condanna 9. La ratio necessaria dell’Incarnazione si comprende nell’autoconsapevolezza che l’uomo acquisisce della necessità di  un Redentore. Tale autoconsapevolezza coincide, nella longitudo del tempo subtractae servitutis dell’uomo nei confronti di  Dio, con l’imprescindibilità oggettiva, a  parte hominis, della riparazione e dunque dell’Incarnazione. In questo senso, dunque, tale rivisitazione in  chiave temporale-economica delle rationes necessariae anselmiane dell’Incarnazione pone Ugo in un atteggiamento tipicamente monastico del quaerere Deum: è un affidarsi completamente a Dio nell’autoconsapevolezza della necessità di Dio stesso per la propria redenzione.   Ibid., 308CD, p. 197, 7-17.  Cfr. ibid., 309C, p. 198, 12-16.

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Proprio a  partire da  quest’ottica, l’originalità di  Ugo nel ripensare Anselmo produce un distacco del vittorino dall’arcivescovo di  Canterbury in  merito alla tematica della giustizia. Ugo introduce la  distinzione tra iustitia patiens e  iustitia cogens che richiama un’altra distinzione, tra iustitia aequitatis e iustitia potestatis. La iustitia patiens è quella per la quale, se un evento si realizza, è  giusto che ciò accada, senza che questo implichi che, qualora quell’evento non si realizzi, ciò provochi un’ingiustizia. La iustitia patiens è, dunque, sempre possibilità di concepire un’alternativa da parte di Dio 10. La iustitia cogens è, invece, quella per la quale qualcosa accade giustamente, ma, se non accadesse, ciò provocherebbe un’ingiustizia. La iustitia potestatis, connessa alla iustitia patiens, è quel potere di giustizia che Dio esercita in modo assoluto, per cui qualunque cosa Egli compie è  giusta, mentre la iustitia aequitatis riguarda, nella questione della salvezza degli uomini, il merito umano, perché tale giustizia retribuisce gli esseri umani secondo i meriti da essi acquisiti. Partendo dal presupposto che nessun uomo merita di essere salvato, si può affermare che quando Dio salva i peccatori, agisce per potere di giustizia. Se non salvasse coloro che invece salva, i  reprobi sarebbero comunque condannati per giustizia di equità, proprio perché nessuno è giustificato di fronte a Dio 11. Se invece Dio salvasse coloro che condanna, si servirebbe nuovamente del potere di  giustizia. In  ogni caso, dannati ed eletti vengono giudicati in  base a  una giustizia patiens, in cui a una determinata potestas corrisponde una determinata aequitas: Sive in  his igitur qui salvantur, sive in  his qui dampnantur, iustitia paciens est, per quam illud quod fit sic iustum est, ut etiam si aliter fieret iniustum non esset 12.

Ugo rifiuta decisamente di  aderire alla posizione di  Anselmo, secondo la  quale Dio compie solo ciò che è  oggettivamente buono. Per Anselmo, la libertà divina non si rivolge se non a ciò che è  lecito o  decoroso, né deve essere reputata benevolenza 10  Cfr.  C. Martello, Pietro Abelardo e  la riscoperta della filosofia, Roma 2008, p. 187. 11 Cfr. Hugo de Sancto Victore, De sacramentis, I, 8, 7, 310C-310D, ed. Berndt cit. (alla nota 3), pp. 199, 24 - 200, 7. 12  Ibid., 9, 311C, p. 201, 6-8.

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quella che opera qualcosa di sconveniente per Dio. Q uando poi si dice che ciò che Dio vuole è giusto e che ciò che non vuole non è  giusto, questa affermazione non va interpretata nel senso che, se Dio vuole qualunque cosa, anche sconveniente, ciò che è ingiusto diventerà giusto per il  fatto che Dio lo vuole. Perciò se non conviene alla natura divina operare qualcosa in  modo ingiusto o disordinato, non pertiene alla sua libertà o benevolenza assolvere senza punizione il peccatore che non restituisce a Dio quanto gli ha sottratto 13. Per Ugo, invece, qualunque cosa Dio abbia voluto o avrebbe voluto è comunque giusta per la giustizia di potere, che ha radice nella sua volontà 14. Il peculiare apporto del vittorino alla tematica si comprende anche alla luce della sua concezione dell’essere di Cristo. Per Ugo, il Verbo ha una tale capacità di attrarre a sé e di assumere in sé l’altro da  sé, che l’altro da  sé, l’uomo assunto, diventa lo stesso Verbum. La  distinzione tra iustitia potestatis e iustitia aequitatis consente di  salvaguardare la  teodicea divina senza sconfinare né nell’arbitrarietà dell’agire rispetto all’uomo né in una dipendenza di Dio da una bontà essenziale a Lui esterna, perché tale distinzione è  un aspetto di  quel rapporto tra misericordia e giustizia che si risolve nel radicalismo dell’identificazione di Dio e uomo in  Cristo. La  coincidenza tra Verbum in  se e  Verbum pro nobis è l’esito mistico-monastico ugoniano della libertà amante di Dio esaltata dal Cur Deus homo.

2. Abelardo Mentre Anselmo costruisce sistematicamente l’edificio della sacra doctrina, il lavoro di quanti, tra i teologi posteriori, si segnalano per un’accentuata propensione ad applicare la dialettica al dato rivelato, consiste nella rigorosa analisi logica degli enunciati di fede 15. Q uesto sforzo caratterizza in modo particolare la teologia di Abelardo; il  maestro di  Le Pallet prosegue il  cammino anselmiano di  una teologia filosofica come svolgimento della fede e  adegua Cfr Cur Deus homo, I, 12, 378AC, p. 70, 13-30.  Cfr. Hugo de Sancto Victore, De Sacramentis, I, 8, 9, 311CD, ed. Berndt cit. (alla nota 3), p. 201, 10-13. 15  Cfr. Martello, Pietro Abelardo cit. (alla nota 10), p. 33. 13 14

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zione della ratio ad essa 16. Com’è noto, per Abelardo la fede è existimatio, assenso dato alla verità rivelata, e dunque è un atto che si esercita su intellezioni di un contenuto che non può mai essere colto dalla conoscenza umana in modo esaustivo 17. Compito del teologo è allora quello di cercare delle rationes honestae che, anche se non incontrovertibili, costituiscano una valida risposta alle obiezioni dei non credenti: Expeditis his quae ad singularem christianae fidei professionem attinere videntur, de discretione videlicet trium personarum in una eademque penitus ac simplici divinitatis substantia, iuvat in  huius summi boni perfectioni contemplanda mentis aciem altius imprimere, ac diligentius singula replicando quaecumque aliquid questionis habere videntur, verisimilis ac honestissimis rationibus definire, ut quo amplius innotuerit huius summi boni perfectio, maiori unumquemque ad se trahat desiderio 18.

Tali argomentazioni vengono esplicitamente contrapposte alle necessariae rationes, in quanto ciò che è verosimile, non costringendo all’assenso, è  preferito dagli uomini retti, che intendono operare, in  materia di  fede, una scelta libera e  ragionevole 19. Abelardo si discosta dal piano anselmiano di una dimostrazione cogente dei contenuti della fede. La teologia abelardiana è indebolita sul piano epistemico perché la ragione, per poter analizzare i dati di fede, deve adoperare un linguaggio congetturale e translato, oltre a fare uso di similitudini 20. Ciò non implica che l’uomo sia del tutto incapace di argomentare in rapporto a Dio; le rationes 16  Le opere teologiche abelardiane cui si farà riferimento sono le tre Theologiae (Theologia Summi Boni, Theologia christiana e Theologia Scholarium), composte tra il 1118 e il 1125, e i Commentaria in Epistulam Pauli ad Romanos. 17  Cfr. S. Vanni Rovighi, Introduzione, in L. Urbani Ulivi, La psicologia di Abelardo e il Tractatus de intellectibus, Roma 1976, [pp. 11-83], pp. 37-38. 18  Abaelardus, Theologia scholarium, III, 1,  PL 178, [979-1114], 1085C, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1987 (CCCM 13), [pp. 203-549], p. 499, 1-9. L’edizione della patrologia si ferma al libro III, cap. 102, nell’ed. Buytaert a p. 542, 1338. 19 Cfr.  ibid.,  15,  1090C, p.  506,  217-223: «Magis autem honestis quam necessariis rationibus nitimur, quoniam apud bonos id semper precipuum statuitur quod ex honestate amplius commendatur, et ea semper potior est ratio quae ad honestatem amplius quam ad necessitatem vergit, presertim cum, quae honesta sunt, per se placeant atque nos statim ad se sua vi quadam alliciant». 20  Cfr. Martello, Pietro Abelardo cit. (alla nota 10), p. 39.

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honestae conservano parzialmente la capacità di spiegare la rettitudine dell’agire divino nell’economia salvifica. Nella Theologia scholarium, il  filosofo francese cerca una risposta a  quel quesito che, formulato negli stessi anni da Ugo, fa segnare una distanza del Vittorino rispetto ad Anselmo: si tratta del tentativo di illustrare l’opportunità dei criteri con i quali Dio decreta la salvezza e la dannazione degli uomini. Q uando ci si chiede se Dio abbia voluto o potrebbe voler salvare coloro qui minime salvandi sunt, Abelardo risponde che questa opzione ripugna alla dignità divina: Cum autem dicimus Deum posse illum salvare qui minime salvandus est, ad ipsam divinitatis naturam possibilitatem reducimus, ut videlicet naturae divinae repugnet quin eum salvet. Q uod omnino falsum est. Prorsus quippe naturae divinae repugnat id eum facere quod eius derogat dignitati, et quod eum facere minime convenit 21.

Abelardo si rivela su questo punto vicino ad Anselmo. È evidente che la  dignitas di  cui parla il  Maestro Palatino richiama l’honor del Cur Deus homo: Dio non può volere ciò che ne lederebbe la dignità. In Abelardo questo dato si lega ad un progetto trinitario: Dio è onnipotente, sapiente e buono nelle sue tre persone e, in quanto tale, non può non volere ciò che a Lui conviene, non può volere qualcosa di indecens 22. L’onnipotenza divina fornisce alle creature, per Abelardo, il paradigma perfetto del rapporto tra libertà e necessità. Diversamente dalle creature, in Dio necessità e libertà coincidono perché Dio è perfetto e può tutto quello che vuole e ciò che vuole merita di essere; ma, come per le creature, la  libertà deve volere il  bene scelto con la  ragione, perché ne va della stessa dignitas divina 23. Sviluppando il  concetto di  necessità, Anselmo elabora una distinzione tra necessitas praecedens e necessitas sequens che è fondamentale per comprendere la coincidenza di necessità e libertà nel Dio che si fa uomo. La necessitas antecedens obbliga una causa a  determinare la  realtà in  un certo modo, mentre la  necessitas sequens segue a un atto deliberativo di una volontà che ha la capa21   Abaelardus, Theologia scholarium, III, 49, 1099D-1100A, ed. Buytaert cit., p. 521, 674-679. 22 Cfr. Martello, Pietro Abelardo cit. (alla nota 10), p. 89. 23 Cfr. ibid., p. 92.

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cità di attuarsi 24. In modo simile, Abelardo distingue il significato dei termini possibile e  necessario, a  seconda che siano utilizzati in  senso relativo o  assoluto. In  senso assoluto, era possibile che Cristo, come ogni uomo, peccasse. Ma non appena tale assoluta possibilità venne determinata, ne conseguì l’impossibilità che Cristo peccasse. Infatti, proprium dell’umanità di Cristo è la congiunzione alla divinità. Cristo non è soltanto uomo, ma unione di uomo e Dio, per cui non può peccare. Allo stesso modo, per un cieco è possibile, in assoluto, vedere, perché è un uomo, e l’uomo è dotato di sua natura della facoltà visiva. Ma, quando un uomo è diventato cieco, è impossibile che veda: Videtur itaque nobis ut in hac quoque sicut in ceteris rebus vires propositionum diligenter attendamus, quando videlicet cum determinatione ‘possibile’ aut ‘necesse’ ponitur, et quando simpliciter praedicatur, id est sine apposita determinatione (…). Eum qui curtatus est possibile est habere duos pedes, cum sit omnis homo bipes, et eum qui caecus est possibile est videre; non tamen possibile est postquam curtatus est vel postquam caecus est (…). Sic et fortasse non est absurdum nos concedere simpliciter quod eum hominem, qui Deo unitus est, possibile sit peccare, non tamen postquam unitus vel dum unitus est. Christum vero, id est Deum simul et hominem, modis omnibus impossibile est peccare 25.

D’altro canto, se, diversamente dalla teologia, la scienza naturale può arrivare a comprendere la verità delle cose, questo non implica, all’interno dell’orizzonte speculativo abelardiano, la  conoscenza delle essenze universali della realtà. Abelardo nega che l’universale sia reale, per quanto abbia un fondamento nella realtà. Di qui l’importanza del contesto proposizionale, che individua il senso di  una parola in  relazione alle altre, e  il riconoscimento di  una precarietà relativa anche alla conoscenza della realtà naturale 26.  Cfr. Cur Deus homo, II, 17, 421C-424A, pp. 122, 25 – 125, 7.   Abaelardus, Commentaria in  Epistulam Pauli ad Romanos, I, (3,  4), [783-978], 824AC, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 11), [pp. 3-340], p. 99, 97-115. 26 Cfr.  Abaelardus, Logica ingredientibus, in  B.  Geyer, Peter Abaelards philosophische Schriften, I, Die logica ingredientibus, 1, Die Glossen zu Porphyrius, Münster 1919 (BGPTM, 21), [pp. 1-109], p. 16, 39-40: «Est praedicari coniungibile esse alicui veraciter vi enuntiationis verbi substantivi praesentis». Cfr. R. Pinzani, The Logical Grammar of  Abelard, Dordrecht 2003, in partic. pp. 165-167. 24 25

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Il  discorso teologico, al  contrario, può giovarsi di  una univoca corrispondenza tra la  vox e  il sensus dei termini adoperati dalla Scrittura, assicurata dal fatto che la realtà creata, dal punto di vista di  Dio, sussiste nella perfezione archetipa delle idee del Verbo. Anche se la  stessa Parola di  Dio è  oggetto di  un’ermeneutica necessaria a mostrarne la ricchezza plurisemantica e a suggerirne l’adeguata contestualizzazione, la  componente gnoseologica si situa in un diverso orizzonte ontologico: nel De intellectibus Abelardo sostiene che le idee divine colgono l’intima natura della cosa, perché ne sono il modello, mentre la conoscenza umana ricostruisce faticosamente dai dati dei sensi uno status comune tra realtà dotate di caratteristiche condivise 27. Se dunque, sul piano della cogenza della dimostrazione dei contenuti di fede, Abelardo si allontana dalle rationes necessariae, condivide con Anselmo l’univocità del senso delle affermazioni teologiche, fondata sull’immediata corrispondenza del pensiero e  della realtà nel Verbo di  Dio.  Così, quando la  stessa Sapienza incarnata rivela che Dio è spirito, la conoscenza umana può senza alcun dubbio cogliere l’assoluta distanza che intercorre tra Dio e le realtà corporee: Ad quod illum primum respondendum esse arbitror quod mirabile non debet videri, si illa divinitatis natura, sicut singularis est, ita singularem modum loquendi habeat (…). Hoc enim docere recte sophiae incarnandae reservandum erat, ut ipse per se ipsum sui notitia afferret Deus, cum ad eius notitia nulla assurgere creatura sufficiat. Ipse itaque solus quid ipse sit manifeste aperuit, cum gentili illi et Samaritanae mulier ait: Il denotato di un nome comune è uno status o esse rei. Abelardo vuole rifiutare ogni analisi del nesso predicativo tale da postulare una relazione di entità di tipo differente; riducendo ogni predicato verbale a predicato nominale, il soggetto non predica un oggetto entitativamente differente. I termini universali denotano status, denotano le cose significate dai nomi propri e contribuiscono a formare enunciati veri quando vengono uniti in modo congruo agli stessi nomi. Se i verbi sono tutti riconducibili alla formula copula + predicato nominale, i nomi comuni hanno lo stesso significato dei verbi. L’universale è  quod de pluribus natum aptum est praedicari. Il dictum propositionis, come lo status, rientra tra le entità che non sono aliquae de rebus existentibus. Le varie componenti logiche che Abelardo desume dall’analisi atomica delle espressioni non hanno di  per sé alcun ruolo diversificante: il loro presentarsi in combinazione con le altre fa la differenza tra i diversi oggetti semantici. 27 Cfr. Vanni Rovighi, Introduzione cit. (alla nota 17), p. 8.

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«Spiritus est Deus» (Gv 4, 24), hoc est divinitas spiritualis substantia et non corporalis. At vero sicut in corporibus alia aliis subtiliora sunt, utpote aqua quam terra, et aer quam aqua, et ignis quam aer, ita longe et inexcogitabili modo omnium spirituum naturam ita propriae sinceritatis subtilitate divinitas transcendit, ut in comparatione eius omnes alii spiritus quasi corpulenti seu corpora quaedam dicendi sint 28.

Ma la  distanza e l’incomunicabilità tra la  dimensione spirituale e quella corporea sono sottolineate con tale vigore da Abelardo, da creare a volte un certo affanno concettuale nel dover rendere ragione della loro coesistenza in  Cristo. Il  Maestro Palatino, in questo senso, deve costantemente adeguare le espressioni cristologiche a questo fondamentale presupposto ontologico. Va inoltre aggiunto che anche il linguaggio teologico non può essere considerato nella sua purezza, per lo meno quando non si esprima direttamente in termini scritturistici, ma tenti di inferire a partire dalla Scrittura conseguenze logiche. La  teologia, infatti, quando deve allontanarsi dall’univocità del sensus per adeguarsi alle strutture inferenziali desunte dalla scienze naturali, sarebbe ridotta al silenzio dalla radicale diversità tra il bagaglio concettuale e linguistico umano e l’oggetto divino, se non ricorresse ad una traslazione di significato delle proprie voces. Certamente tale difficoltà si acuisce in ambito cristologico, nel quale il pensiero e il linguaggio si trovano al crocevia di una formidabile distanza ontologica. La cristologia dogmatica abelardiana propone un separatismo ontologico che è  anche impossibilità di  omogeneizzare le  rationes honestae della teologia con le  ragioni della scienza naturale; ma è proprio l’eredità soteriologica anselmiana che consente ad Abelardo un superamento della radicalità di  questa prospettiva. Dio sceglie, nella lettura anselmiana dell’Incarnazione, di vincolarsi liberamente al  progetto d’amore pensato per l’uomo, fino al punto di morire per lui senza venir meno, ma anzi nel rispetto necessario della propria dignitas. Abelardo interpreta questa necessità-libertà di Dio nel senso del primato assoluto dell’amore, in  particolar modo nel Commento alla Lettera ai Romani. Sembrerebbe impossibile e inaccettabile che un male, la crocifis28  Abaelardus, Theologia christiana, III, 116, PL 178, [1123-1330], 1241BD, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 12), pp. 236, 1346 - 237, 1371.

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sione dell’unico giusto, possa servire alla salvezza. Abelardo tuttavia, come Anselmo e Ugo, ritiene che Dio sia in grado di riordinare il male e dunque di trasformarlo in bene 29. Ma, diversamente da  Anselmo, l’aspetto espiatorio del sacrificio di  Cristo non costituisce la motivazione più profonda dell’Incarnazione e della passione. Dio ha sofferto per l’uomo perché l’uomo, conquistato dall’immenso amore del suo Creatore e Redentore, si convertisse. Dall’amore di  Cristo è  scaturita una sorgente di  grazia qua maior inveniri non potest. L’assonanza con la  definizione anselmiana di  Dio non è  casuale. Nell’orizzonte onto-gnoseologico anselmiano della condizione limite come orizzonte necessario di  ogni possibile, la  soteriologia abelardiana dell’amore si pone quale ‘onesta’ soluzione di percorrenza dell’infinita via che unisce il divino all’umano. L’onnipotenza della grazia divina si sottopone ad una exinaninatio (cfr.  Phil 2,  7). Q uesta chenosi per amore rivela l’incommensurabilità della benignitas divina, che per Abelardo si manifesta nella rinuncia a  esercitare un potere: è  la  nulla potentia dell’autoumiliazione del Verbo disceso nel grembo della Vergine 30.

29 Cfr. Id.,  Theologia Scholarium,  III, 118, pp.  548,  1593  -  549,  1601: «Q uomodo divinae congruit bonitati ut nos velle vel poscere aliquid precipiat, quod a rectissima eius ordinatione seiunctum est quod nequaquam decreverit esse faciendum? Nec id utique sine causa. Non enim his tantum quae fiunt, sed in his etiam quae fieri non permittit, causa ei rationabilis deest, sed tam haec quam illa cur fieri vel non fieri conveniat, nobis ignorantibus, pensat, qui mala etiam ita bene ordinat ut etiam bonum sit mala esse, et quicquid evenit, bonum sit evenire». 30 Cfr.  Abaelardus, Apologia contra Bernardum, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 11), [pp. 359-368], pp. 362, 106 - 363, 113: «Amor itaque Dei, sive bonitas, optima eius est voluntas faciendi optime sive disponendi omnia, ut diximus, non potentia faciendi sive disponendi illa. Numquam enim, sive in nobis sive in Deo, amor vel benignitas dici debet ‘potentia’, cum nequaquam amare vel benignum esse sit aliquid posse, cum saepe hi qui magis diligunt vel benigniores sunt, minus possunt implere quod volunt, et minus sunt potentes qui plus sunt benevoli».

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CONCETTO MARTELLO

INFLUENZE ANSELMIANE NEL SECOLO XII. IL CASO DELLA SUMMA SENTENTIARUM ATTRIBUITA A OTTONE DA LUCCA

1. La Summa sententiarum e il dibattito teologico L’istanza razionalizzante che permea il  pensiero di  Anselmo d’Aosta, cui attribuisce un carattere e uno spessore peculiarmente filosofici, costituisce il punto di riferimento delle generazioni a lui successive in ordine al metodo e ad alcuni fondamentali contenuti, come la  Trinità e  l’onnipotenza divine, della teologia. Si  tratta inequivocabilmente del contributo più rilevante del pensiero cristiano alla crescita dei saperi prima dell’ingresso e della diffusione, tra la  seconda metà del xii secolo e  la prima del successivo, dei libri naturales e della Metafisica di Aristotele; un contributo che matura e  si realizza dentro la  ‘cornice’ neoplatonizzante frutto delle trasformazioni della filosofia nell’Occidente latino tra tarda Antichità e  alto Medioevo 1. La  Summa sententiarum attribuita a Ottone da Lucca costituisce una testimonianza particolarmente significativa dell’influenza anselmiana, quanto meno fino ai primi anni Q uaranta del xii secolo; non per nulla, in  ragione delle affinità tematiche tra essa e  l’opera dell’aostano, tra le  sue false attribuzioni ha suscitato qualche credito nel passato quella, pur destituita del tutto di fondamento, secondo la quale essa andrebbe ricondotta proprio all’autore del Monologion 2. In ogni caso nella 1 Sulla ricezione della tradizione filosofica da  parte della cultura latina, cfr. C. Martello, Tradizione senza continuità. Le trasformazioni della filosofia nell’alto Medioevo, in «Mediaeval Sophia», 7 (2010), pp. 33-49. 2 Cfr. J. J. Bourassé, In tractatum sequentem monitum, PL 171, 1065-1068: si tratta della breve introduzione alla riproduzione di Hildebertus Cenomanensis, Opera tam edita quam inedita, ed.  A.  Beaugendre, Apud Laurentium

Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 371-392 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112926

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CONCETTO MARTELLO

Summa si riscontra la capacità dell’autore di coniugare l’esigenza di  rimanere nell’‘alveo’ della tradizione del pensiero cristiano e, in tale contesto, il desiderio di ripercorrere a ritroso il suo ‘asse’ filosofico, per poter attingere, attraverso Anselmo, alla sua origine patristica e  agostiniana, con l’attenzione al  dibattito teologico contemporaneo, incentrato sulla comprensibilità, più che sulla mera pensabilità, dei misteri 3. I principali protagonisti di  tale dibattito sono almeno quattro. Innanzitutto i  Cisterciensi, e  tra essi Bernardo di  Clairvaux ma anche Guglielmo di  Saint Thierry, che con personalità diverse dominano la  seconda fase della riforma ecclesiastica che culmina nel compromesso tra impero e papato sui conferimenti delle cariche religiose, dopo oltre mezzo secolo di  conflittualità, e  ne rappresentano il  progetto culturale, costituito da  una forte spinta alla ‘restaurazione’ dell’originaria purezza spirituale dei cristiani unitamente a  un’intensa attività censoria sulle innovazioni teologiche, un controllo delle idee che si focalizza sui processi di razionalizzazione dei dogmi e dei sacramenti 4. In secondo Le Conte, Paris 1708, che comprende il testo della Summa sententiarum col titolo di Tractatus theologicus, opera peraltro inserita, questa volta in una versione più completa, seppure anch’essa tronca (il Tractatus theologicus è costituito dei primi tre dei sette trattati, e parte del quarto, in cui essa è articolata), e col titolo con cui oggi la conosciamo di Summa sententiarum septem tractatibus distincta (d’ora in poi: Summa sententiarum), tra le opere di Ugo di S. Vittore, PL 176, 41B-174A; ho fatto cenno al  problema dell’attribuzione della Summa in  C.  Martello, La dottrina dei teologi. Ragione e dialettica nei secoli xi-xii, Catania 20082, pp. 118120, e in Id., Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia. Percorsi intellettuali nel xii secolo tra teologia e cosmologia, Roma 2008, pp. 169-177. 3  L’autore della Summa cita il  credimus ut cognoscamus agostiniano con la chiara finalità di riprendere anche il credo ut intelligam di Anselmo. Cfr. Summa sententiarum, 44C; [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 1070A: «Credimus ut cognoscamus; non cognoscimus, ut credamus. Q uid est enim fides, nisi credere quod non vides? Fides ergo est quod non vides credere; veritas quod credidisti videre». Cfr.  Augustinus Hipponensis, In  Iohannis evangelium tractatus CXXIV, 40, 9, PL 35, [1375-1976], 1690, ed. R. Willems, Turnhout 1954 (CCSL 36), p. 355, 5-6; Proslogion, 1, 227BC, p. 100, 18-19. 4  Su Bernardo di Clairvaux e il suo ruolo culturale cfr. Saint Bernard of   Clairvaux. Studies commemorating the eighth centenary of   his canonization, ed. M. B. Pennington, Kalamazoo (Mich.) 1977; R. Klibansky, Peter Abailard and Bernard of  Clairvaux. A Letter by Abailard, in «Medieval and Renaissance Studies», 5 (1961), pp. 1-27; A. V. Murray, Abelard and St. Bernard. A Study in 12th century ‘Modernism’, Manchester – New York 1967; J. Verger – J. Jolivet, Bernard–Abelard ou le clôitre et l’école, Paris 1982 (tr. it., Milano 1989); su Guglielmo di  St.  Thierry cfr.  M.  M. Davy, Guillaume de  Saint-Thierry. Deux traités sur

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luogo Anselmo di Laon, che, mediante l’attività della sua scuola e le sue raccolte di Sententiae, introduce negli ambienti culturali il metodo teologico costituito dalla selezione e dalla suddivisione per aree tematiche – Dio, creazione, Trinità, ecc. – di testi autorevoli su cui basare la  pensabilità e  l’esprimibilità della natura e  delle operazioni divine; metodo peraltro non solo influente sulle generazioni immediatamente a lui successive ma anche tale da diventare, attraverso i contributi forniti alla sua maturazione da Abelardo e Pietro Lombardo, modello di procedura teorica per i commentatori scolastici del xiii secolo 5. In terzo luogo proprio Pietro Abelardo, che, in conflitto sia, da ex allievo, con la scuola del maestro di Laon, sia con le guide, la spirituale e la teorica, dei Cisterciensi, si orienta con coraggio e ostinazione sulla via della razionalizzazione dei contenuti della fede, individuando nelle discipline logico–linguistiche gli strumenti privilegiati, ancorché impropri, per ‘penetrare’, nella misura del possibile, la  natura del creatore di tutte le cose, uno e trino, libero e necessario, per realizzare integralmente il  destino dell’uomo, creato superiore a tutti gli altri animali e ‘a immagine e somiglianza’ di Dio proprio in quanto capace di astrarre, dedurre e intuire, cioè in quanto dotato della funzione razionale e  dell’intellettuale 6. Infine Ugo la foi: le miroir de la foi, l’énigme de la foi, Paris 1959; M. Lemoine, Introduction, in Guillelmus de Sancto Theodorico, De natura corporis et animae, Paris 1988, pp. 3-56. 5  Su Anselmo di Laon e la sua scuola cfr. F. P. Bliemetzrieder, Einleitung, in Anselmus Laudunensis, Systematische Sentenzen, I. Teil: Texte, hrsg. von F. P. Bliemetzrieder, Münster i. W., 1919, pp. 1-37. 6 Oltre ai miei studi già citati (Martello, La  dottrina dei teologi cit., pp. 177-222, e Id., Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia cit., pp. 21-165), cfr.  D.  E. Luscombe, Nature in  the Thought of   Peter Abelard, in  La  filosofia della natura nel medioevo, Atti del III Congresso Internazionale di  Filosofia Medioevale (Passo della Mendola, 31 agosto  –  5 settembre 1964), Milano 1966, pp. 314-319; Murray, Abelard and St. Bernard cit.; E. Luscombe, The School of   Peter Abelard. The Influence of   Abelard’s Thought in the Early Scholastic Period, Cambridge 1969; M. M. McLaughlin, Abelard’s Conception of   the Liberal Arts and Philosophy, in Arts libéraux et philosophie au Moyen Âge, Actes du IVe Congrès International de  Philosophie Médiévale, Paris 1969, pp.  523550; L.  Grane, Peter Abelard. Philosophy and Christianity in  the Middle Ages, London 1970; Peter Abelard, Proceedings of  the International Conference (Leuven, may 10-12, 1971), ed. E. M. Buytaert, Leuven 1974; Pierre Abélard. Pierre le  Vénérable. Les courants philosophiques, littéraires et artistiques en Occident au milieu du xiie siècle, Actes du Colloque International du CNRS n° 546 (Abbaye de Cluny, 2-9 juillet 1972), éd. par R. Louis – J. Jolivet – J. Châtillon, Paris 1975;

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di  S.  Vittore, che considera la  teologia ‘umana’ o  ‘mondana’ la più ‘alta’ tra le scienze, e quindi assimilabile ai saperi razionali riguardo al metodo, distinguendola tuttavia dalla ‘divina’, che alla prima contrappone la rivelazione come contenuto esclusivo e l’umiltà come metodo 7. Sono soprattutto gli ultimi due, Abelardo e  Ugo, a  ‘segnare’ la  loro epoca, per lo ‘spessore’ teorico della riflessione di  cui si mostrano capaci e per l’innovatività della loro proposta culturale. Il primo, che prosegue nel ‘percorso’ avviato un paio di generazioni prima di  lui da  Berengario di  Tours, completandolo, sulla scia di  Anselmo d’Aosta, attraverso il  superamento dell’esegesi come prospettiva esclusiva della teologia, pur subendo gli attacchi concentrici da parte degli ambienti culturali tradizionalisti per M.  Dal Pra, Introduzione, in  Pietro Abelardo, Conosci te stesso o  Etica, Firenze 1976, pp.  iii-lvii; E.  Little, Relations between St.  Bernard and Abelard Before 1139, in Saint Bernard of   Clairvaux cit., pp. 155-168; A. Crocco, Abelardo. L’altro versante del Medioevo, Napoli 1979; Verger – Jolivet, Bernard–Abelard cit.; C. J. Mews, General Introduction, in Petrus Abaelardus, Opera theologica III: Theologia summi boni, Theologia scholarium, ed. E. M. Buytaert – C. J. Mews, Turnhout 1987 (CCCM, 13), pp. 15-37; D. F. Blackwell, Non–Ontological Constructs. The Effects of   Abelard’s Logical and Ethical Theories on his Theology. A  Study in  Meaning and Verification, Bern 1988; M.  T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Introduzione a Abelardo, Bari 1988; Ead., Introduzione, in Pietro Abelardo, Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, Milano 1992, pp. 5-27; S. P. Bonanni, Parlare della Trinità. Lettura della Theologia Scholarium di  Abelardo, Roma 1996; J.  Jolivet, Abelardo. Dialettica e mistero, Milano 1996; M. T. Clanchy, Abelard. A Medieval Life, Oxford 1997; J. Marenbon, The Philosophy of  Peter Abelard, Cambridge 1997; Id., The Platonisms of   Peter Abelard, in Neoplatonisme et philosophie médiévale, Actes du Colloque international (Corfou, 6-8 octobre 1995), éd. L. B. Benakis, Turnhout 1997, pp. 109-129; M. Parodi – M. Rossini, Introduzione, in Fra le due rupi. La logica della Trinità nella discussione tra Roscellino, Anselmo e Abelardo, Milano 2000, pp. 7-58; S. P. Bonanni, Introduzione, in Pietro Abelardo, Teologia ‘Degli scolastici’. Libro III, Roma 2004, pp. 1-26; Id., Postfazione, ibid., pp. 139188; The Cambridge Companion to Abelard, ed. J. E. Brown – K. Guilfoy, Cambridge 2004; Anselm and Abelard. Investigation and Juxtapositions, ed. G. E. M. Gasper – H. Kohlenberger, Toronto 2006 (Turnhout 20072). 7 Cfr.  A. Mignon, Les Origines de la  scholastique et Hugues de  St.  Victor, Paris 1895; R. Baron, Science et sagesse chez Hugues de Saint-Victor, Paris 1957; Id., Études sur Hugues de Saint-Victor, Bruges 1963; V. Liccaro, L’uomo e la natura nel pensiero di Ugo di S. Vittore, in La filosofia della natura nel Medioevo cit., pp.  305-313; D.  Poirel, Ugo di  S.  Vittore. Storia, scienza, contemplazione, Milano 1997; Id., Livre de la nature et débat trinitaire au xiie siècle. Le De tribus diebus de Hugues de Saint-Victor, Turnhout 2002; Martello, La dottrina dei teologi cit., pp. 145-176; Id., Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia cit., pp. 177-190.

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il credito teologico che attribuisce alla sapienza antica e pagana, anzi anche in virtù di tali attacchi e contestualmente a essi orienta gli interessi e le opinioni di molti teologi, in un certo senso ‘detta’ buona parte dell’‘ordine del giorno’ del dibattito culturale; dal canto suo Ugo partecipa, dal ‘versante moderato’, allo ‘scontro teologico’ che oppone ad Abelardo i  suoi maestri, da  Anselmo di Laon a Roscellino di Compiègne a Guglielmo di Champeaux, e chi s’è assunto il compito di fissare una sorta di ortodossia e, alla luce di  essa, di  ‘arginare’ le  devianze dottrinali e  determinarne le chiamate in giudizio da parte delle comunità ecclesiastiche della Francia centro–settentrionale, e tuttavia si mostra coinvolto nei processi di  crescita della dimensione filosofica del pensiero cristiano ‘messi in moto’, per così dire, dall’attitudine di Anselmo d’Aosta alla teoresi e  partecipa alla conseguente affermazione di nuovi generi filosofici, quali il tractatus e la summa. Abelardo e  il Vittorino possono essere considerati, e lo sono anche da parte dei contemporanei 8, gli esponenti più rappresentativi dei due atteggiamenti più diffusi, e tra essi divergenti, negli ambienti teologici gravitanti intorno a  Parigi tra gli anni Venti e Q uaranta del xii secolo: da un lato l’impegno abelardiano ad accogliere la  domanda di  razionalità con cui ampi strati della società ‘borghese’ si ricollegano oggettivamente al  ‘filone filosofico’ del cristianesimo; dall’altro lato la tradizionale ricerca della purezza spirituale come base imprescindibile della fede e  della stessa sapienza cristiana. E tuttavia non mancano tra i due le affinità, rivelatrici della comune ascendenza anselmiana della loro riflessione, e quindi della comune esigenza di accostarsi ai contenuti della fede tramite un’attrezzatura concettuale atta alla loro piena, ancorché impropria o parziale, chiarificazione. Si può dire anzi che i due atteggiamenti culturali di cui sono considerati rappresentanti sono compresenti, seppure in  modo diverso e corrispondente alla peculiare personalità di ciascuno, sia nel pensiero   Sull’immagine di Ugo cfr. R. Baron, Étude sur l’authenticité de l’oeuvre de Hugues de Saint-Victor d’après les manuscrits, in «Scriptorium», 10 (1956), p. 220; D. E. Luscombe, The School of   Peter Abelard cit., pp. 183-185; M. Dal Pra, Introduzione cit., pp.  xxiv-xxxv; sull’influenza del pensiero abelardiano cfr. in particolare J.-P. Letort-Trégaro, Pierre Abélard, Paris 2002, pp. 126132; Y.  Iwakuma, Influence, in  The Cambridge Companion to Abelard cit., pp. 305-335. 8

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del Palatino sia in  quello di  Ugo; infatti entrambi distinguono il  livello razionale della conoscenza del divino dal superiore e  ultrarazionale, che nel Vittorino è  costituito dall’approccio intellettuale alla verità, intuitivo e  sorretto dalla Rivelazione, secondo l’analisi delle facoltà dell’anima e dei gradi della conoscenza che Agostino e Boezio mutuano dalla tradizione platonica e Anselmo d’Aosta ripropone all’attenzione dei contemporanei 9. In Abelardo l’intuizione intellettuale è un tutt’uno con i saperi razionali, probabilmente a partire da un’interpretazione razionalizzante dell’opera anselmiana, incentrata sul Monologion, anche se dall’una e dagli altri resta fuori il Vero in sé, che rimane longe remotus rispetto alle capacità epistemiche dell’uomo, create per comprendere e  rappresentare le  possibilità e  le necessità della natura sensibile, di cui l’uomo stesso fa parte 10. Un interessante indizio del comune ruolo innovatore dei due filosofi nel dibattito teologico della prima metà del xii secolo nella Francia centro-settentrionale, al di là della loro disponibilità a palesarlo e della stessa consapevolezza che ne hanno, è costituito dall’uso dei termini philosophia e theologia dopo un paio di secoli di discredito per la chiara riconducibilità di essi alla lingua greca e alla sapienza pagana, in un significato sostanzialmente univoco, seppure con accenti e  sfumature diversificate tra i  due. Infatti, anche in questo caso sulla scia di Agostino e Boezio, philosophia esprime il sapere razionale e theologia significa ‘scienza filosofica di Dio’, che per Abelardo ha il suo ‘fulcro’ nell’applicazione della dialettica ai dati della rivelazione e trova la sua ‘spinta propulsiva’ nella deducibilità dei capisaldi della dottrina cristiana sola ratione, per utilizzare la fortunata espressione di Anselmo d’Aosta, quindi a prescindere dalla Rivelazione, a partire dall’intuizione del principio dell’essere 11, mentre per Ugo è  la più ‘alta’ tra le  scienze teoretiche, che ha il  compito di  inquadrare la  rivelazione in  un paradigma razionale e  sistematico, secondo l’agostiniano credi9  Cfr. D. Poirel, Ugo di S. Vittore cit., pp. 11-12; Id., Livre de la nature cit., pp. 5-9. 10 Cfr.  Petrus Abaelardus, Theologia christiana, 3, PL 178, [11131330], 1241BD, ed.  E.  M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 12), 116, pp. 236, 1346 - 237, 1371; Id., Theologia ‘Summi Boni’, 2, 64, ed. Buytaert – Mews cit., p. 135, 546-571. 11 Cfr. Martello, La dottrina dei teologi cit., pp. 177-198.

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mus ut cognoscamus e l’analogo credo ut intelligam anselmiano 12. Non meno interessante è la convergenza su quelli che da lì a poco diventano, e oggi riteniamo, i temi classici, e classicamente anselmiani, della teologia razionale: la Trinità e l’onnipotenza. Dio, in  quanto eterno e  immutabile, è  uno; ma in  quanto potenza generatrice, sapienza onnicomprensiva generata dalla potenza e  amore paterno per la  sua sapienza, è  nel contempo trino. Entrambi i filosofi ricorrono alla ‘triade’ potentia – sapientia  –  amor (o  bonitas) per esprimere la  trinità, e  questo, a  prescindere dal problema storiografico di chi ha preceduto l’altro 13, è segno di oggettiva sintonia, se non di affinità, tra i due, tenuto anche conto che Ugo si uniforma a tale uso linguistico, ricavandolo dalla Theologia summi boni o  reiterandolo dopo la  diffusione di tale prima ‘edizione’, per così dire, del Tractatus theologiae del Palatino, nel caso ne sia stato il  promotore, nonostante il discredito di quest’ultimo presso gli ambienti ecclesiastici più influenti. Certo Abelardo inquadra la  sua riflessione sulla trinità nel contesto del suo ‘uso teologico’ delle arti, in particolare di quelle logico–linguistiche, mentre l’autore del De sacramentis christianae fidei, pur non essendo ostile né estraneo al paradigma 12 Cfr.  D. Poirel, Ugo di  S.  Vittore cit., pp.  47-59,  75-101; della presa di coscienza di una parte consistente della generazione di uomini di cultura attivi nella prima metà del secolo xii, presa di coscienza che può fare legittimamente parlare di  ‘riscoperta’ della filosofia come sapere razionale, mi sono occupato in C. Martello, Il risveglio di Mnêmosunê. La filosofia e la sua divisione nel xii secolo, in Neoplatonismo pagano vs. neoplatonismo cristiano. Identità e intersezioni, Atti del Seminario (Catania, 24-28 settembre 2004), a c. di M. Di Pasquale Barbanti – C. Martello, Catania 2006, [pp. 131-170], pp. 131-141. 13 Cfr.  Petrus Abaelardus, Theologia Summi boni, 1,  2, ed.  Buytaert  –  Mews cit., p.  87,  21-24; Id.,  Theologia christiana, 1, PL 178,  1125CD, ed.  Buytaert, 4, p.  73,  49-55; Id.,  Expositio in  Hexameron, 259-262, PL 178, [729-784], 761AB, ed.  M.  Romig  –  D.  Luscombe, Turnhout 2004 (CCCM, 15), pp.  60,  1548  -  61,  1567; Hugo de  Sancto Victore, De tribus diebus, 6-15, 35-36, ed. D. Poirel, Turnhout 2002 (CCCM, 177), p. 34, 549-551, pp. 60-70, 1060-1250; Id., De sacramentis christianae fidei, 1, 2, 1, PL 176, [173618], 205B-216D; 3, 17, 223B-231C; cfr. E. M. Buytaert, Abelard’s Expositio in Hexaemeron, in «Antonianum», 43 (1968), pp. 163-194; P. L. Reynolds, The Essence, Power and Presence of  God: Fragments of  the History of  an Idea, from Neopythagoreanism to Peter Abelard, in From Athens to Chartres. Neoplatonism and Medieval Thought, Studies in Honour of  É. Jeauneau, ed. H. J. Westra, Leiden 1992, [pp. 351-380], pp. 367-368; Poirel, Ugo di S. Vittore cit., p. 84; Id., Livre de la nature cit., pp. 379-383; C. Martello, Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia cit., pp. 44-74 e 184-186.

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razionalizzante in funzione dell’approfondimento del dato rivelato, àncora più cautamente la  sua giustificazione della Trinità al rapporto analogico intercorrente tra l’anima dell’uomo e Dio, secondo l’orientamento del De Trinitate agostiniano; ma in ogni caso l’uno e  l’altro mostrano di  non temere, anzi di  perseguire, l’applicazione al mistero trinitario degli strumenti razionali, dialettici, grammaticali e retorici, ma anche ‘matematici’ e  ricavati dall’osservazione sistematica della realtà naturale. Lo stesso atteggiamento essi manifestano a proposito dell’onnipotenza, in  chiaro riferimento alla replica di  Anselmo nel II libro del Cur Deus homo alla posizione ‘antidialettica’, per così dire, di Pier Damiani, obiezione basata sulla distinzione tra necessitas praecedens, riguardante la  natura necessitante, e  necessitas sequens, che concerne la natura necessitata, e sulla consapevolezza della non contraddittorietà di entrambe e di conseguenza sull’‘impossibilità’, in un certo senso, che Dio faccia ciò che non vuole. Anche in questo caso sono individuabili differenze di sensibilità e interpretazione tra Abelardo e Ugo, anche in virtù dell’esigenza di quest’ultimo di mantenere le distanze dalla sententia che il contesto culturale cui appartengono entrambi attribuisce ad Abelardo e secondo cui Dio può fare solo ciò che effettivamente fa, dato che in lui potenza e volontà si identificano, per cui si sente di ribadire con chiarezza che il creatore, in quanto principio di ogni necessità e impossibilità, è assolutamente libero nell’ambito di ciò che egli stesso fonda come possibile e non contraddittorio. Resta il fatto che nel V libro della Theologia christiana e  nel III libro della Theologia scholarium di Abelardo e nelle Sententiae de divinitate, nel De  sacramentis chhristianae fidei, nel commento al  Magnificat e nel De potestate et voluptate di Ugo l’idea di onnipotenza è ricavata dalla rigorosa analisi delle relazioni logiche intercorrenti tra le persone trinitarie, e in particolare tra potentia e voluntas 14.  Cfr.  Petrus Abaelardus, Theologia scholarium, 3, PL 178, [9791114], 1093D-1094B, 1095C-1101D, ed. Buytaert – Mews cit., 27-29, pp. 511, 375  -  512,  399; 35–54, pp.  514,  472  -  524,  761; Id., Theologia christiana, 5, 1324AC, 1323D-1324B, ed. Buytaert cit., 29-30, pp. 358, 421 - 359, 426; 35, p. 363, 48-55; Hugo de Sancto Victore, Sententiae de divinitate, ed. A. M. Piazzoni, in A. M. Piazzoni, Ugo di S. Vittore auctor delle Sententiae de divinitate, in «Studi Medievali» 3a S., 23 (1982), pp. 861-956; Hugo de Sancto Victore, De sacramentis christianae fidei, 1,  2, 22, PL 176,  214B-215C; Id.,  Ex­planatio (explicatio) in  Canticum beatae Mariae, PL 175,  424D-427C; 14

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Il  rischio per entrambi i  filosofi è  quello di  pregiudicare l’unità e la semplicità del principio divino, ma essi allontanano tale insidia ‘trasferendo’ alla ‘teologia divina’, nel caso del Vittorino, e  al silenzio mistico, da  parte del Palatino, il  compito di  unificare le proprietà e gli attributi dell’essere nell’intuizione di Dio. In questo senso la teologia razionale, lungi dall’essere il ‘terreno’ di una corruzione dell’unità e della semplicità divine, è da considerare strumento di omogeneizzazione delle molteplici percezioni e quindi di avanzamento lungo il percorso che conduce all’esperienza del divino. Alla luce di tutto ciò si coglie il motivo per cui l’opera teologica di Pietro Abelardo e gli scritti di Ugo di S. Vittore costituiscono un unico ‘materiale’ fonte di ispirazione per almeno un paio delle generazioni di  uomini colti successive ai due filosofi. Infatti dei temi su cui essi incentrano la  loro attenzione e  dell’impostazione metodologica con cui li affrontano si trova traccia in testi di un certo rilievo riconducibili ad autori che operano tra gli anni Q uaranta e almeno il penultimo decennio del xii secolo, i quali in  genere privilegiano il, o  dichiarano la  dipendenza dal, Vittorino ma non possono, e il più delle volte non vogliono, rinunciare all’influenza e alle suggestioni abelardiane; tra tali testi, la Summa sententiarum, attribuita a Ottone da Lucca in ragione dell’indicazione del nome dell’autore contenuta in ben nove manoscritti, tre dei quali aggiungono anche la precisazione riguardante la funzione episcopale e la provenienza dello stesso, a fronte dei sei che attribuiscono l’opera a un indeterminato magister Hugo, in cui tre di  essi individuano Ugo di  S.  Vittore, peraltro senza alcun fondamento perché si tratta di un’attribuzione, per un certo tempo suffragata dall’edizione nella Patrologia di J. P. Migne tra le opere del Vittorino, che anticiperebbe troppo la sua stesura, mentre gli altri tre riconoscono Ugo di Mortagne, la cui paternità la sposterebbe troppo in  avanti e  farebbe di  essa un’‘emanazione’ delle Sententiae di Pietro Lombardo, di cui invece è certamente fonte 15. L’ipotesi secondo cui la Summa sententiarum è da attribuire ad cfr.  Poirel, Ugo di  S.  Vittore cit., pp.  83-86; Martello, Pietro Abelardo e  la riscoperta della filosofia cit., pp. 74-112 e 186-189. 15 Cfr. F. Gastaldelli, Scritti di letteratura, filologia e teologia medievali, Spoleto 2000, pp. 165-174 e 337-347; Martello, Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia cit., pp. 169-177.

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Ottone da Lucca rimane quindi la più attendibile e induce a collocarla tra il 1138, anno in cui è certamente concluso il De sacramentis christianae fidei di Ugo di S. Vittore, sua fonte privilegiata, e il 1141, anno in cui si collocherebbe la redazione dell’Harmonia di Viviano di Premontré, che contiene otto passi identici ad altrettanti di essa e che quindi sembra subirne l’influenza 16.

2. Pensiero cristiano e filosofia L’autore della Summa chiarisce all’inizio dell’opera il suo punto di vista in ordine al metodo, definendo la fede come «certitudo absentium supra opinionem et infra scientia constituta» 17, quindi condizione e sottoinsieme della scienza, che non è solo la sapienza cristiana ma anche il sapere razionale. In quanto mediana e mediatrice tra l’opinione e  la scienza, essa si configura come certezza soggettiva, che orienta e fornisce di senso la conoscenza razionale, che è  certezza oggettiva, oltre che soggettiva. Ma anche i  saperi mondani sono in grado di rinsaldare la fede; infatti, se è necessario e prioritario credere per conoscere, in quanto Dio non è esperibile attraverso la facoltà sensitiva e di conseguenza la sua idea non può raggiungere la chiarezza e la distinzione tramite le procedure razionali, l’oggetto della fede non è del tutto celato alle facoltà epistemiche e la conoscenza umana è in grado di supportare la rivelazione in  alcuni importanti aspetti del pensiero cristiano, che può quindi legittimamente proporsi come ‘dottrina’, nel senso di  scienza, teologica 18. Oltre all’esegesi, che nella prospettiva 16   Su questo particolare aspetto, oltre ai lavori citati nella precedente nota, cfr.  D. van  den  Eynde, Précisions chronologiques sur quelques ouvrages théologiques du xiie siècle, in «Antonianum», 26 (1951), pp. 223-229; Id., Nouvelles precisions chronologiques sur quelques oeuvres theologiques du xiie siecle, in «Franciscan Studies», 13 (1953), pp. 83-86; Id., Essai chronologique sur l’oeuvre littéraire de  Pierre Lombard, in  Miscellanea Lombardiana, a  cura del Pontificio Ateneo Salesiano di Torino, Novara 1957, pp. 53-55. 17  Summa sententiarum, 1,  1, 43B; cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 1,  1068B-1069A. Sul metodo teologico dell’autore della Summa sententiarum, cfr. Martello, La dottrina dei teologi cit., pp. 123-128; Id., Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia cit., pp. 190-201. 18 Cfr.  Summa sententiarum, 1,  1, 43BC: «‘Est’ itaque ‘fides substantia rerum sperandarum’, quantum ad nos; ‘argumentum non apparentium’ (Heb. 11, 1), quantum ad alios. Sed hac diffinitione magis ostenditur effectus fidei quam quid ipsa sit; nec etiam omnes partes fidei comprehendit, cum speranda non prae-

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dell’autore della Summa rimane il ‘cardine’ della sapienza e che, attraverso il  privilegiamento dei facta narrati dagli autori sacri come terreno di  approfondimento del significato letterale e  di scoperta di quelli spirituali, è in continuità con la tradizione culturale del cristianesimo ma nel contempo, nella misura in cui tali facta determinano la natura del mondo sensibile, si pone in linea con i processi di razionalizzazione che segnano la fioritura di esperienze intellettuali nella civiltà urbana francese del secolo xii, nell’opera attribuita a Ottone da Lucca sono curati i temi legati al dibattito teologico–razionale che ha impegnato le ultime generazioni: l’esistenza di Dio e la creazione, la Trinità e il governo del mondo, l’onnipotenza e i sacramenti. L’argomentazione che sorregge la certezza dell’esistenza di Dio collega il  richiamo agostiniano all’interiorità e  l’applicazione anselmiana della razionalità ai dogmi: la ragione, in quanto parte integrante dell’anima, prende atto della coscienza di quest’ultima della propria ‘parzialità’ e  di conseguenza della propria dipendenza da  un essere necessario, causa incausata di  tutte le cose 19. Il  legame con Agostino attraverso Anselmo si riscontra, unitamente all’influenza del dibattito teologico di cui Pietro Abelardo e Ugo di S. Vittore sono i principali protagonisti, anche nella trattazione del mistero trinitario, cui sono dedicati ben sei capitoli, dal VI all’XI, del primo dei sette trattati in cui è articolato il lungo frammento edito tra le opere del Vittorino col titolo di Summa sententiarum. L’impostazione anselmiana, secondo cui la  razionalità ha la  funzione di  chiarire e  svolgere ciò che è  dato come oggetto di fede, si concretizza nella riproposizione del principale modello argomentativo del De Trinitate di  Agostino, cioè della terita, sed futura tantum contineat: Q uare sic diffiniri potest. Fides est voluntaria certitudo absentium supra opinionem et infra scientiam constituta. Voluntaria; quia non cogitur, absentium, id est sensibus corporis non subjacentium; supra opinionem, quia plus est credere quam opinari; infra scientiam, quia minus est credere quam scire». Cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 1, 1068A-1069A. 19 Cfr.  Summa sententiarum, 1,  3, 46A: «Humana ratione poterant scire Deum esse. Cum enim humana mens se non possit ignorare, scit se aliquando coepisse. Nec hoc ignorare potest, quoniam cum non fuit, sibi ut esset, substantiam dare non potuit. Ut ergo esset, ab alio facta est, quem idcirco non coepisse constat; quia, si ab alio coepisset, primus omnibus existendi auctor esse non posset». Cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 2, 1071C.

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‘coscienza’ che l’uomo ha della propria anima come mens, sapientia e amor e della conoscenza da lui acquisita della potenza, della bellezza e  dell’utilità della natura sensibile come condizioni per ritrovare nell’una e nell’altra l’impronta di Dio e scoprirne l’essenza trinitaria 20; ma si concretizza anche nell’analisi del linguaggio teologico, attraverso cui Padre, Figlio e Spirito santo si rivelano identici secondo la sostanza ma distinti secondo la proprietà, cioè la  relazione intercorrente tra essi, per cui è  solo del Padre essere principio non generato, è  solo del Figlio essere generato, è  solo dello Spirito procedere da  entrambi 21. Si tratta dell’esito di un ‘percorso’ attraverso cui gli ambienti teologici, non solo scolastici ma anche monastici, partecipano al soddisfacimento della domanda di razionalità che cresce tra gli uomini di cultura e nella società; in questo senso l’autore della Summa si mantiene qualche ‘passo’ indietro, per così dire, dall’Anselmo del Monologion, che fa a meno della, o mantiene implicito ogni riferimento alla, Rivelazione, citando, prima e a fondamento di ogni spiegazione, le fonti scritturali della fede nella Trinità, da  Genesi 1,  26 all’incipit del Vangelo di Giovanni, ai Salmi 2 e 45 22, ma nel contempo si mostra 20 Cfr.  Summa sententiarum, 1,  7-12,  53A-61C; [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 5-9,  1079A-1088A, e  Augustinus Hipponensis, De Trinitate, 15,  22,  42, PL 42, [819-1098], 1089-1090, ed.  W.  J. Mountain – F. Glorie, Turnhout 1968 (CCSL, 50), pp. 519, 47 - 520, 27. Sul metodo del De Trinitae agostiniano cfr. B. Studer, Augustin et la foi de Nicée, in  «Recherches Augustiniennes», 19  (1984), pp.  133-154; R.  Williams, Sapientia and the Trinity: Reflections on De Trinitate, in  Collectanea Augustiniana. Melanges  T.  J. Van Bavel, ed.  B.  Bruning, Leuven 1990, pp.  317-332; J. Cavadini, The Structure and Intention of  Augustine’s De Trinitate, in «Augustinian Studies», 23 (1992), pp. 103-123 (e in Christianity in Relation to Jews, Greeks, and Romans. Recent Studies in  Early Christianity, ed.  E.  Ferguson, New  York  –  London 1999, pp.  231-252); M.  R. Barnes, Re-reading Augustine’s Theology of   the Trinity, in  The Trinity. An Interdisciplinary Symposium on the Doctrine of   the Trinity, ed. S. T. Davis – D. Kendall – G. O’Collins, Oxford 1999, pp. 145-176; L. Ayres, The Fundamental Grammar of   Augustine’s Trinitarian Theology, in Augustine and his Critics. Essays in Honour of   Gerald Bonner, ed.  R.  Dodaro  –  G.  Lawless, New York 2000, pp.  51-76 (e  in Id.,  Nicaea and its Legacy. An Approach to Fourth-Century Trinitarian Theology, Oxford 2004, pp. 364-383). 21 Cfr. Summa sententiarum, 1, 7, 52D-53A; cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 5, 1078D-1079A; Epistola de incarnatione Verbi, posterior recensio, 274C-275C, pp. 11, 20 - 12, 15. 22 Cfr. Summa sententiarum, 1, 6, 50D-51A: «His consideratis restat de iis videre quae pertinent ad dictinctionem personarum Trinitatis; et prius testimonia auctoritatis inducamus. In Genesi dicitur: ‘Faciamus hominem ad imaginern

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‘più avanti’, cioè più radicalmente coinvolto nei processi di razionalizzazione in  atto, rispetto ai due interpreti dell’Aostano che con maggiore coerenza hanno sviluppato il  suo metoodo teologico, Ugo di S. Vittore e Pietro Abelardo, identificando le personae trinitarie con le proprietates divine, esito da cui i due maestri si tengono a  distanza, ben consapevoli, in  questo caso entrambi sulla scia della tradizione, che affermare che in Dio le persone si distinguono tramite le proprietà non significa e non implica che esse non sono altro che le proprietà, e quindi in ultima analisi Dio stesso in virtù della sua semplicità, in quanto, ferma restando l’impenetrabilità del mistero, la ragione distingue, nella realtà del creatore come nella sostanza creata, l’essere e i modi dell’essere, cioè le  sue proprietà. Inoltre per l’autore della Summa sententiarum si può avere piena e lucida consapevolezza del governo delle cose create da parte del loro creatore proprio a partire dall’‘inquadramento’ razionale della trinità: la potenza, la sapienza e la bontà diffuse nel mondo non solo sono ‘veicolo’ di riconoscimento della natura del suo principio ma anche manifestano l’impronta e l’ordine di Dio in ciò che da lui dipende e di lui partecipa 23. L’altro ‘versante’ della riflessione teologico–razionale dell’autore della Summa riguarda il ‘riverbero’ dei dibattiti e degli scontri teologici che si attuano nella seconda metà dell’xi secolo e che vedono protagonisti, tra gli altri, Pier Damiani, Berengario di  Tours, Lanfranco di  Pavia e  Anselmo d’Aosta, cioè attiene al tema dell’onnipotenza e a quello della natura dei sacramenti. Anche in questo caso le fonti prossime sono da individuare nella Theologia di Abelardo e nel De sacramentis, ma anche nelle Sententiae de divinitate e nell’Explanatio in Canticum beatae Mariae, di  Ugo di  S.  Vittore, che, come ho già ricordato, sviluppano e aggiornano le risultanti delle diverse tendenze culturali attive tra gli uomini di cultura delle due generazioni che li precedono; in tal et similitudinem nostram’ (Gen 1, 26). Per numerum pluralem, Trinitatem ostendit. Et Psalmista: ‘Dominus dixit ad me: Filius meus es tu’ (Ps 2, 7). Et Joannes: ‘In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum’ (Ioh. 1, 1)»; cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 4, 1076D. 23 Cfr. Summa sententiarum, 1, 10, 53A: «In creaturis hujus sanctae et individuae Trinitatis signa apparent. Signum potentiae est rerum immensitas; sapientiae pulchritudo; bonitatis utilitas. Et ita per haec quae foris sunt, invisibilia Dei cognoscuntur a  creatura rationali»; cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 7, 1084B.

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senso l’opinione de omnipotentia espressa dall’autore dell’enigmatico testo di cui qui mi occupo non è una pura e semplice riproposizione delle soluzioni del Cur Deus homo e  del De potestate et impotentia anselmiani alle ‘aporie’ poste da Pier Damiani nel De divina omnipotentia, ma con tutta evidenza assume il pensiero dell’Aostano come punto di partenza di una riflessione che tenga soprattutto conto del successivo dibattito, incentrato sul rapporto tra volontà e verità, cioè tra libertà e necessità, in Dio. Nella Summa sententiarum nessun autore è citato esplicitamente ma si può dire che l’opera di Ugo è la sua fonte privilegiata e l’influsso della teologia di Abelardo, cui pure il suo autore sembra affidarsi in quanto probabilmente è da lui assimilata al radicalismo dialettico, è rilevabile nell’integrazione della posizione anselmiana, consistente nell’identificazione di necessità e volontà divine, con gli esiti più aggiornati della ricerca filosofica, in particolare con l’analisi logico-linguistica e con l’interpretazione del Timeo platonico e  delle altre ‘testimonianze’ profane disponibili. Il  legame con Ugo appare chiaro nella ricerca di un’interpretazione dell’onnipotenza che si mantenga parimenti distante dall’assolutismo del tradizionalismo monastico, secondo cui Dio può fare tutto senza alcuna limitazione, e dal necessitarismo dei dialettici radicali, per i  quali Dio può e  vuole fare ciò che effettivamente fa, quindi un’interpretazione secondo cui Dio può fare tutto nell’ambito del possibile e  del non contraddittorio, in  quanto da  lui stesso liberamente determinati come tali in modo immutabile. In altri termini, a giudizio dell’autore della Summa, Dio è nelle condizioni di fare molte più cose rispetto a quello che non vuole fare e di conseguenza non fa 24, non nel senso che sic et simpliciter e in assoluto può volere ciò che non vuole, manifestando quindi una natura mutevole e  addirittura contraddittoria, ma in  quanto la volontà di Dio può essere assunta secondo l’effetto, oltre che in  sé. Infatti nel primo caso rappresenta la  possibilità che un 24 Cfr.  Summa sententiarum, 1,  14,  68C: «Omnipotens voluntas multa facere potest quae nec vult nec facit. Potuit enim efficere ut duodecim legiones angelorum pugnarent contra illos qui eum ceperunt. In Evangelio Mattheus: ‘An putas quia non possum rogare Patrem meum, et exhibebit mihi plus quam duodecim legiones angelorum?’ (Mt 26, 53)»; cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 11, 1094CD; Augustinus Hipponensis, Enchiridion de fide, spe et charitate liber unus, 24, 96, PL 40, [231-290], 276, ed. E. Evans, Turnhout 1969 (CCSL 46), pp. 99, 30 - 100, 42.

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evento contingente conforme a  essa effettivamente si verifichi o meno, o si verifichi in modo diverso da come è voluto da Dio, per cui paradossalmente si può dire, solo relativamente a questa ‘prospettiva’, che egli può volere ciò che non vuole; nel secondo caso invece la volontà divina è considerata come principio incondizionato di  ogni necessità e  possibilità, e  quindi identica alla potenza e all’essere stesso di Dio 25. Q uesta posizione intermedia tra innovazione razionalizzante e  tradizionalismo riguarda anche la  riflessione sulla natura dei sacramenti, che nella Summa sono intesi come ‘figure’ visibili della grazia, secondo la formulazione di Agostino nei Libri quaestionum in Heptateuchum 26 ripresa da Berengario nel Rescriptum contra Lanfrancum 27. A  fronte di  ciò i  sacramenti, per l’autore della Summa, sono reali 28, cioè esprimono una presenza reale di Dio tra i fedeli che presenziano alla loro celebrazione. In questo senso l’opera partecipa al rigetto dell’‘ideologia’, per così dire, dei dialettici radicali del secolo precedente, ma anche al recupero della loro istanza metodologica di  fondo, consistente nell’esigenza di  ‘omogeneizzare’ le  ragioni filosofiche e  le motivazioni spirituali, in  quanto basata sulla consapevolezza che la  libertà incondizionata del creatore si integra con la  determinatezza del necessitato. Insomma i  sacramenti si discostano dalle consuete norme che regolano le necessità e le impossibilità della natura ma non ne compromettono l’uniformità, garantita dalla coerenza dell’ordine divino in quanto fondativo del principio di non contraddizione; ritenere che essi siano una deroga arbitraria all’organica processualità fenomenica è un ‘effetto’ fallace causato dalla 25  Cfr. Summa sententiarum, 1, 14, 68D–69A: «Item opponitur: Q uidquid potest Deus facere, potest velle; sed quiddam potest facere quod non vult; potest igitur velle quod non vult; et si potest velle quod non vult, mutabilis est voluntas ejus, nec est eterna; sed incipit aliquid velle quod prius non volebat»; e [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 11, 1095A. 26 Cfr.  Summa sententiarum, 4,  1, 117AB; e  Augustinus Hipponensis, Q uaestionum in  Heptateuchum libri VII, III (Q uaestiones in  Leviticum), q. 84, 21, 15, PL 34, [547-824], 712-713, ed. I. Fraipont, Turnhout 1958 (CCSL, 33), pp. 227, 1880 - 228, 1919. 27 Cfr.  Berengarius Turonensis, Rescriptum contra Lanfrannum, II, ed.  R.  B.  C. Huygens, Turnhout 1988 (CCCM, 84), p.  146,  1642-1643. Cfr. C. Sheedy, The Eucharistic Controversy of   the Eleventh Century against the Background of  Pre-Scholastic Theology, New York 1980, p. 100. 28 Cfr. Summa sententiarum, 4, 117A-120A.

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limitatezza della conoscenza umana, che, come alla luce di  una sorta di regula fidei, è chiamata a trovare le ragioni oggettive, non occasionali, dell’‘incontro’, nella sostanza del sacramento, della volontà del creatore e della natura creaturale, e quindi a riformulare il ‘quadro’ delle condizioni logico–ontologiche così dei saperi sacri come degli eventi ‘miracolosi’.

3. Lo sfondo culturale L’estrazione della Summa sententiarum è indubbiamente ‘scolastica’, non solo perché lo è quella del suo presunto autore, Ottone, vescovo di Lucca dal 1138 al 1146, appellato magister, come ho ricordato sopra, da alcuni manoscritti dell’opera, frutto probabilmente di un precedente insegnamento presso la scuola cattedrale della città toscana, ma anche in quanto la sua struttura e il genere cui inerisce e  che promuove è  espressione di  una pratica scolastica. Infatti, di volta in volta, in primo luogo è posto il problema, il tema della quaestio, per così dire, intorno alla quale sviluppare una riflessione sulla base di  una lectio comparata di  testi sacri e  autorevoli; dopo una prima spiegazione di  questi ultimi, sono introdotte le interpretazioni contrarie, mediante forme o espressioni verbali come quaeritur, solet quaeri, opponitur; in  ultimo è  elaborata la  soluzione definitiva del problema posto all’inizio, quasi sempre tramite il  ricorso a  ulteriori citazioni patristiche e a un approfondimento ermeneutico di esse. Si tratta di un’esposizione che evidentemente riproduce i tre momenti fondamentali del metodo scolastico, almeno così come esso è praticato dai maestri tra gli ultimi decenni dell’xi secolo e la prima metà del xii: enunciazione e spiegazione del tema e citazioni autorevoli; obiezioni e  relative argomentazioni; risposte alle obiezioni e  rigetto di  esse. Tale struttura costituisce una ‘versione’ semplificata del più articolato schema della quaestio praticata nelle più tarde università, e tuttavia ne presenta già gli aspetti salienti, riconducibili all’impianto triadico della disputa. Peraltro la  Summa sententiarum non è  testimonianza isolata di  questo livello di  maturazione del metodo scolastico; prima di essa il già citato Rescriptum berengariano e  le opere abelardiane risalenti al  secondo decennio del xii secolo portano inequivocabilmente i segni del tentativo di trasporre le modalità delle lectiones condotte nelle scuole 386

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e basate sulla collazione dei testi e delle sententiae nella scrittura filosofica. A proposito di quest’ultimo, mi riferisco in particolare al Sic et non e soprattutto alla Theologia Summi boni, prima delle tre ‘edizioni’ del trattato sulla Trinità del Palatino e unica a essere completata e a presentare quindi una forma compiuta, in quanto le  successive, la  Theologia christiana e  la Theologia scholarium, costantemente riviste, non hanno mai avuto una redazione definitiva. Non per nulla è stato rilevato che i tre libri della Summi boni riguardano rispettivamente le auctoritates e le testimonianze filosofiche a sostegno della dottrina trinitaria fissata dal concilio di Nicea del 325, le tesi contrarie formulate a confutazione di tale dottrina, unitamente a una riflessione sul metodo e a una delineazione ulteriore del tema, e  la dimostrazione dell’inconsistenza logica, cioè dialettica e grammaticale, delle obiezioni 29. Anche alla luce di  questi autorevoli antecedenti, la  Summa sententiarum appare come una diretta filiazione della cultura e  della teologia scolastiche; e  tuttavia è  innegabile il  suo legame con la  tradizione culturale monastica, per l’attenzione privilegiata che esprime nei confronti della sua spiritualità, culminante nella riflessione e nell’atteggiamento mistico di Ugo di S. Vittore, per la  palese acquiescenza del suo autore alla politica culturale dei Cisterciensi e  per lo sfondo tematico e  problematico in  cui si colloca e che rimanda al dibattito che nella seconda metà dell’xi secolo vede i monaci colti contrapposti ai dialettici radicali, ma anche e  soprattutto interno alla stessa teologia monastica. Di tale sfondo è parte integrante, e direi preponderante, l’opera di Anselmo d’Aosta, per la ‘sintesi’ che esprime tra imprescindibilità del dato di fede e il suo approfondimento razionale, tra il senso di appartenenza alla tradizione spirituale cristiana e la partecipazione alla riscoperta e alla rivalutazione della filosofia come sapere vitale, non solo logico e  fisico–metafisico ma anche teologico 30. 29 Cfr. M. Rossini, Introduzione, in Abelardo, Teologia del sommo bene, a c. di M. Rossini, Milano 2003, pp. 14-16. 30  Sul rapporto di  Anselmo con la  teologia monastica, cfr.  J.  Leclercq, Une doctrine de la  vie monastique dans l’école du Bec, in  Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec (Abbaye Notre-Dame du Bec), Paris 1959, pp. 477-488; A. Cantin, Fede e dialettica nell’xi secolo, Milano 1996, pp.  36-43; R.  Grégoire, Il  problema trinitario nella teologia altomedievale occidentale, in Il Concilio di Bari del 1098, Atti del Congresso Storico Internazionale e  Celebrazioni del IX Centenario del Concilio,

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Mi riferisco innanzitutto al Monologion, concepito dall’Aostano come un’indagine meramente razionale sull’esistenza e  sulla natura di  Dio, per cui la  ratio è  vista come una sorta di  rivelazione ‘di terzo livello’, per così dire, che cioè si aggiunge alla Scrittura e all’agostiniano ‘libro della natura’ 31. Ora una consistente porzione della prima opera anselmiana, corrispondente a  oltre un terzo del suo sviluppo complessivo, è  incentrata sulla deduzione, a  partire dalla determinazione di  un quiddam optimum et maximum 32, della pluralità nell’unità di tale ‘ente’ sommo 33. Il suo linguaggio, consistente in un’unica parola, è identico alla sua essenza, in quanto egli non ha fatto nulla se non per sé e tutto ciò che ha fatto è stato fatto tramite la sua parola 34; è dunque una sola sostanza, e tuttavia in lui sono distinti, ed è necessario che lo siano, il sommo spirito e la sua parola, in modo che ciascuno singulatim è in sé somma verità e in relazione alla creatura natura creatrice; ma proprio per questo non costituiscono due verità e due creatori 35. Inoltre entrambi amano pari amore sé e l’altro, in  quanto nella somma sostanza l’amare e  l’essere amato sono identici, la sua potenza memore di sé, la sua sapienza per cui riconosce e conosce l’altro e l’amore di entrambi sono identici, tre in uno e sostanza unica e semplice 36. Infine, in quanto la parola deriva dalla potenza dello spirito, quest’ultimo è  Padre mentre il Verbo è Figlio 37 e l’amore che procede da entrambi può essere detto spiritus utriusque 38. Dal punto di vista di chi voglia approfondire i legami oggettivi e soggettivi tra gli epigoni del dibattito teologico della prima a  c.  di  S.  Palese  –  G.  Locatelli, Bari 1999, pp.  169-186; A.  Milano, Anselmo d’Aosta e il problema trinitario, ibid., pp. 187-229. 31  Cfr.  la metafora del ‘libro della natura’ in  Augustinus Hipponensis, Contra Faustum, XXXII, 20, PL 42, [207-518], 509; ed.  J.  Zicha, Praha – Wien – Leipzig 1891 (CSEL 25), pp. 781, 22 - 782, 14; Id., Confessiones, XIII, 15, 16-18, PL 32, [657-868], 851-852, ed. L. Verheijen, Turnhout 1981 (CCSL 27), pp. 250, 4 - 252, 50. 32 Cfr. Monologion, 1, 144B-146B, pp. 13, 3 - 15, 12. 33 Cfr. ibid., 29-63, 182B-210A, pp. 47, 2 - 74, 27. 34 Cfr. ibid., 29-31, 182B-185C, pp. 47, 2 - 50, 13. 35  Cfr. ibid., 37-43, 190B-195C, pp. 55, 12 - 60, 11. 36 Cfr. ibid., 50-54, 200C-202C, pp. 65, 2 - 66, 29. 37 Cfr. ibid. 48, 199A-200A, pp. 63, 9 - 64, 13. 38 Cfr. ibid. 57, 204A-205A, pp. 68, 11 - 69, 13.

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metà del xii secolo nella Francia centro-settentrionale, tra i quali è  da annoverare l’autore della Summa sententiarum, e  la riflessione di Anselmo d’Aosta, vanno tenuti in considerazione anche il II libro del Cur Deus homo, ultima sua grande opera teologica, e l’incompiuto De potestate et impotentia, probabilmente ultimo suo scritto in assoluto, incentrato sul tema dell’onnipotenza alla luce dell’approfondimento delle ‘aporie’ riguardanti il rapporto tra libertà e necessità in Dio, in risposta alle posizioni ‘antidialettiche’, per così dire, di Pier Damiani. A questo proposito il nucleo del pensiero anselmiano consiste nella tesi secondo cui la natura di  Dio, in  quanto egli è  fondatore delle necessità e  della impossibilità creaturali e garante della loro non contraddittorietà, può essere indagata tramite le  procedure di  riconoscimento di  tali necessità e impossibilità, pur non essendo a esse soggetto. Affermare che Dio fa qualcosa o non la fa per necessità è improprio ma non è corretto pensare che una cosa fatta da lui può non essere stata mai fatta, cioè che dopo che fa qualcosa può non essere sempre vero che l’ha fatta, non perché sia subordinato a  una necessitas non faciendi o  a  una impossibilitas faciendi ma in  quanto la volontà di Dio è verità immutabile 39. E nel fissare in tal modo le coordinate logico–ontologiche dell’idea di Dio come volontà necessitante, Anselmo pone le  basi della riflessione che le  due generazioni di teologi a lui successive elaborano sul rapporto tra libertà e necessità in Dio e, di conseguenza, sull’applicabilità della ragione dialettica alla scienza del divino. Ma è egli stesso che dà avvio a tali sviluppi della sua posizione riguardo all’onnipotenza nel postremo e incompleto De potestate, in cui in modo chiaro, seppure non ‘diretto’, afferma che il linguaggio che significa il potere e l’impotenza, la possibilità e l’impossibilità, la necessità e la libertà, non si riferisce a un’area semantica univoca, in quanto esprime debolezza, e quindi stato di subordinazione a una rete di condizioni oggettive del pensare e dell’essere e, in ultima analisi a una volontà altra, se ha la creatura come proprio referente; significa altresì una fortitudo insuperabilis, infinita e libera, potenza necessitante in quanto fondativa di ogni necessità e impossibilità, se si riferisce a Dio 40. In questo senso Anselmo  Cfr. Cur Deus homo, II, 17, 421C-425C, pp. 122, 23 - 126, 19.  Cfr. De potestate, pp. 24, 16 - 25, 6.

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qui mostra di voler estendere ai verbi facere e velle e ai sostantivi voluntas, causa, aliquid e potestas lo schema interpretativo applicato nel De grammatico ai ‘paronimi’, in base al quale la significazione di un termine può essere per se, cioè propria, o per aliud, manifestando in questo caso un uso improprio. In altri termini, allo stesso modo in cui con ‘bianco’ o ‘grammatico’ ci si può riferire propriamente a  una qualità ovvero impropriamente a  una sostanza, in  modo da  giustificare, in  quest’ultimo caso, una funzione appellativa 41, il  lessico della potestas come aptitudo ad faciendum è riferito in senso proprio, o ancora più precisamente più o meno proprio, alla realtà esperibile, all’artefice umano che agisce o alla cosa fatta, e solo del tutto impropriamente a Dio 42. Si può dire quindi che il filosofo nel De postestate ribadisce la parziale eterogeneità ontologica e la distanza infinita di Dio rispetto alla sua creatura, già evidenziate sin dai suoi primi scritti negli anni Settanta, per cui gli strumenti della scienza risultano inadeguati alla determinazione della natura dell’essere sommo, principio del reale; ma nel contempo sembra consapevole che tale inadeguatezza è  parziale, e  di conseguenza non delegittima un approccio teologico-razionale, cioè l’applicazione al divino degli strumenti logico-linguistici e  inferenziali della dialettica, che anzi rimangono unica e insostituibile risorsa ermeneutica attraverso cui ‘penetrare’ razionalmente, e  quindi scientificamente, la natura di Dio. Alla luce di tutto ciò appare evidente che la Summa sententiarum recepisce molteplici influssi, che in  essa si integrano dando forma a una sintesi originale, offerta al dibattito teologico e agli ambienti culturali più ‘avanzati’; tra questi apporti non è marginale quello della teologia monastica, soprattutto attraverso l’influenza che il pensiero di Anselmo esercita sulla riscoperta della filosofia come sapere attuale da parte di maestri e monaci delle due 41 Cfr. De grammatico, 12, 270D-271A, p. 157, 1-8: «Grammaticus vero non significat hominem et grammaticam ut unum sed grammaticam per se et hominem per aliud significat. Et hoc nomen quamvis sit appellatiuum hominis, non tamen proprie dicitur eius significativum; et licet sit significativum grammaticae, non tamen est eius appellativum. Appellativum autem nomen cuiuslibet rei nunc dico, quo res ipsa usu loquendi appellatur. Nullo enim usu loquendi dicitur: grammatica est grammaticus, aut: grammaticus est grammatica; sed: homo est grammaticus, et grammaticus homo». 42 Cfr. De potestate, Appendix, pp. 44-45.

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generazioni a  lui successive 43. In  questo senso l’opera attribuita a Ottone da Lucca assume una funzione emblematica, in quanto è espressione e dà testimonianza del processo di convergenza e di ‘omogeneizzazione’, ancorché parziale, dei due fondamentali filoni di pensiero teologico, quello di matrice monastica e lo ‘scolastico’, tra la seconda metà dell’xi secolo e la prima del successivo, in virtù delle innovazioni teoriche e metodologiche promosse dalla riflessione anselmiana. Intendo sostenere che la Summa, nel proporre un’integrazione dell’analisi concettuale e della trattazione sistematica con la lectio sacra, così come dei temi che vanno configurandosi come classicamente teologico-razionali con il retaggio della letteratura spirituale e  morale e  della tradizione sacramentale, è  caso esemplare della tendenza all’unificazione delle esperienze e dei metodi della teologia; processo cui dà avvio Anselmo d’Aosta, recependo da un lato il ‘desiderio di Dio’ 44 che permea diffusamente, seppure non esclusivamente, la cultura monastica, cui appartiene, ma anche accogliendo dall’altro lato l’istanza razionalizzante di maestri di dialettica 45. Certo nella cultura monastica di norma si integrano contemplazione, intesa come attenzione all’interiorità, e  prassi, vissuta come propensione a ogni esperienza di comunità; e in ogni caso tale tradizione culturale si differenzia dalla ‘moderna’ teologia delle scuole, dove va definendosi il metodo della quaestio e della disputatio, per la  centralità nell’ambito della prima della lectio sacra, su cui si incentrano le  più diverse pratiche culturali, dalla meditatio all’oratio fino al trattato teologico. Ma, se l’esperienza spirituale è  la ‘cifra’ peculiare della cultura della vita del monastero, il pensiero teologico la avvicina, e talvolta la accomuna, nella Francia della prima metà del xii secolo, alla teologia ‘scolastica’. Infatti nelle sue manifestazioni più ‘alte’ la spiritualità monastica è vera e propria teologia, non riducibile ad atteggiamento mistico  Cfr. Martello, La dottrina dei teologi cit., pp. 111-253.   La felice espressione in J. Leclercq, L’amour des lettres et le désir de Dieu. Initiation aux auteurs monastiques du Moyen-Age, Paris 1983; sulle scuole monastiche cfr.  P.  Riché, Écoles et enseignement dans le  Haut Moyen Age.  Les écoles et   l’enseignement dans l’Occident chrétien de la  fin du ve siecle au milieu du xie siecle, Paris 1979, pp. 137-161. 45  Sulle scuole urbane in Francia cfr. ibid., pp. 162-186; sul ruolo dei maestri di dialettica, cfr. Cantin, Fede e dialettica cit., pp. 31-43. 43 44

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o a pratiche culturali di altra natura, perfettamente in linea, pur nella condivisione delle istanze facenti capo al patrimonio sapienziale del cristianesimo, con le ‘prospettive’ teoriche e metodologiche, e perfino con le scelte lessicali, degli ‘scolastici’. Tutto questo evidentemente non deve indurci a pensare, nel segno di un malinteso e postumo ossequio alle esigenze concordistiche, se non unanimistiche, delle comunità ecclesiastiche, che non ci siano incomprensioni o contrasti tra posizioni e ‘filoni’ teorici diversi, in una fase matura del dibattito teologico in Francia che precede immediatamente la definizione di una ‘ortodossia’ del cristianesimo occidentale a partire dal IV concilio ecumenico lateranense del 1215. Piuttosto si rileva che il principale discrimine, che attraversa trasversalmente gli ambienti culturali, sia monastici sia ‘scolastici’, è  tra innovazione e  tradizionalismo: l’iniziativa dei novatores, da Abelardo agli Chartriani, dai maestri di dialettica a Ugo di S. Vittore, impone l’‘agenda teologica’, per così dire, e la direzione del movimento delle idee filosofiche; i tradizionalisti, dalla scuola di Laon ai monaci di Citeaux, oppongono a tale movimento una vigile e  rigorosa resistenza, che sfocia non solo e non tanto nell’attività censoria, attuata in occasione dei sinodi convocati nel xii secolo dall’inizio degli anni Venti alla fine dei Q uaranta e praticata nei confronti di tutto ciò che a loro giudizio si mostri in contrasto con il patrimonio dogmatico fondato sulla Scrittura, sulla Patristica e sui quattro grandi concili fondativi della sapienza cristiana tra il secolo iv e il successivo o confligga oggettivamente col ruolo magisteriale della Chiesa, ma anche, e in modo più fecondo, nell’istanza di restaurazione dello spirito evangelico che caratterizza la seconda e ultima fase della riforma ecclesiastica. Dal nostro punto di vista quel che conta è la possibilità di evidenziare, alla luce di tale conflitto, il contributo della cultura monastica alla costituzione e allo sviluppo di una vera e propria scienza filosofica del divino, di  cui è  espressione e  modello influente la Summa sententiarum attribuita a Ottone da Lucca, lo sfondo anselmiano di questa scienza e la successiva enucleazione di una teologia mondana e razionale in quanto fondata sull’applicazione della dialettica allo ‘svolgimento’ dei temi della fede.

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LOGICA ED ERMENEUTICA: LA PARAFRASI SILLOGISTICA COME STRUMENTO DI INTERPRETAZIONE DI TESTI FILOSOFICI NEL DODICESIMO SECOLO*

Il Medioevo era un’epoca legata alla tradizione. Il progresso era visto non tanto nell’invenzione di  qualcosa di  nuovo, quanto in  una più profonda comprensione di  una tradizione religiosa, filosofica e letteraria riconosciuta come vincolante. Per l’investigazione della storia intellettuale del Medioevo, la puntuale analisi dei processi di appropriazione e ricezione in essa implicati assume dunque un’eccezionale importanza. Una fonte irrinunciabile per tale analisi è rappresentata dai commenti di epoca medievale, poiché in essi il confronto con le auctoritates è evidentemente riscontrabile. Allo stesso tempo essi sono lo specchio delle condizioni intellettuali e  istituzionali in  cui si svolgeva questo dialogo con la tradizione 1. Q ui non conta soltanto quali fossero i testi solitamente scelti per essere interpretati e quali fossero i contenuti concreti della loro interpretazione, ma meritano di essere analizzate anche le tecniche *  Ringrazio la dr.ssa Corinna Bottiglieri per la traduzione italiana. 1  Per un panorama recente degli studi sui commenti medievali cfr. Le commentaire entre tradition et innovation, Actes du colloque international de l’Institut des traditions textuelles, éd. M. O. Goulet-Cazé, Paris 2000, e N. M. Häring, Commentary and hermeneutics, in Renaissance and renewal in the twelfth Century, eds. R. L. Benson – G. Constable, Oxford 1982, pp. 173-200. In particolare sul commento ai testi filosofici cfr. Il commento filosofico nell’Occidente latino (secoli XIII-XV), Atti del Colloquio organizzato dalla SISMEL e dalla SISPM (Firenze – Pisa, 19-22 Ottobre 2000), a  c. di  G.  Fioravanti  –  C.  Leonardi  –  S.  Perfetti, Turnhout 2002; È.  Jeauneau, Gloses et commentaires de textes philosophiques (ixe-xiiie siècle), in Les genres littéraires dans les sources théologiques et philosophiques médiévales. Définition, critique et exploitation, Actes du Colloque international (Louvain-la-Neuve, 25-27 mai 1981), éd. par R. Bultot, Louvain-la-Neuve 1982, pp. 117-131. Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 393-421 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112927

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e le strategie ermeneutiche utilizzate. Q ueste ultime, infatti, non solo anticipavano in qualche modo i risultati del commento, dal momento che sottomettevano anticipatamente l’interpretazione ad un determinato paradigma, ma mostravano anche la comprensione di testo, teoria e realtà sottesa all’interpretazione stessa. Una di queste tecniche è il tentativo di trasformare in sillogismi le argomentazioni che necessitano spiegazione: nulla di  inconsueto, in sostanza, poiché la logica non è mai unicamente uno strumento per formulare conclusioni corrette, ma essa serve ugualmente all’analisi, e talvolta anche alla confutazione di argomenti già proposti. La traduzione della prosa filosofica consueta in linguaggio logico formale è uno strumento di interpretazione noto dall’antichità fino alla filosofia moderna (soprattutto analitica). Tuttavia, per quanto scontato possa apparire questo procedimento, le sue concrete manifestazioni nella storia della filosofia necessitano di  un’osservazione più approfondita. Per questo motivo, nelle pagine che seguono, vorrei presentare due fonti della prima metà del dodicesimo secolo (vale a dire dell’epoca in cui la logica cominciò a diventare la metodologia scientifica e filosofica preminente). Si tratta di due commenti anonimi alla Logica vetus, in cui la tecnica interpretativa sillogistico-parafrastica viene applicata con un rigore altrimenti sconosciuto, per quanto almeno l’ancora incompleta conoscenza delle fonti permetta di giudicare. Il primo proviene da Echternach, il secondo probabilmente dall’abbazia benedettina belga di Saint-Trond 2. L’indagine è divisa in tre sezioni: innanzitutto sarà necessario illustrare lo sfondo storico, per mezzo  Sul commento di  Echternach cfr. B. Hollick, Anonymi Epternacensis Glossae in logicam. Studie mit kritischer Edition der Texte (Rarissima Mediaevalia, 5), Münster 2015; sul commento alla logica antica nel Medioevo alto e centrale, cfr. J. Marenbon, Medieval Latin Commentaries and Glosses on Aristotelian logical texts, before c. 1150 A.D., in Id., Aristotelian logic, platonism, and the context of   early medieval philosophy in  the West, Aldershot 2000, II, originariamente in Glosses and Commentaries on aristotelian logical texts. The Syriac, Arabic and Medieval Latin traditions, ed.  Ch.  Burnett, London 1993, pp.  77-122; e  Id.,  Glosses and commentaries on the «Categories» and «De interpretatione» before Abelard, in ibid., VIII (originariamente in Dialektik und Rhetorik im frühen und hohen Mittelalter. Rezeption, Überlieferung und gesellschaftliche Wirkung antiker Gelehrsamkeit vornehmlich im 9. und 12. Jahrhundert, Hrsg. v. J. Fried, Oldenburg 1997, pp. 21-49); S. Ebbesen, Medieval latin glosses and commentaries on aristotelian logical texts of   the twelfth and thirteenth centuries, in  Glosses and commentaries cit., pp. 129-177. 2

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LOGICA ED ERMENEUTICA

di  alcune osservazioni sul ruolo della logica nell’ermeneutica antica e altomedievale; in secondo luogo, esaminerò gli stessi commentari, mettendo a fuoco gli aspetti logico-tecnici, nella fattispecie la sillogistica e la topica (si tratterà di mostrare quali strumenti avesse a disposizione la logica del tempo e fino a che punto fosse possibile, con il  loro aiuto, ricostruire argomentazioni filosofiche complesse); infine, sulla scorta di queste fondamenta, vorrei tratteggiare quale trasformazione abbia compiuto la prassi interpretativa sotto l’impronta della logica rispetto all’età tardoantica e altomedievale, e in tal modo definire la collocazione di entrambi i commenti nel quadro dell’evo­luzione intellettuale del secolo xii.

1. La parafrasi sillogistica nell’antichità e nell’alto Medioevo Non fu soltanto nel dodicesimo secolo che per la  prima volta la  logica fu messa al  servizio dell’ermeneutica: già nell’antichità si era tentato di  renderla proficua per l’interpretazione di  testi per lo più filosofici 3. Non soltanto era impiegata la terminologia logica (e anche quella grammaticale e retorica) per spiegare argomentazioni complicate, ma anche alcune argomentazioni selezionate venivano tradotte in forma sillogistica per illustrarne la struttura, il che era ovvio per un’epoca in cui si propendeva comunque per il  procedimento parafrastico (come mostrano, ad esempio, le Categoriae decem) 4: ne è chiaro esempio il commento del neoplatonico Simplicio allo scritto aristotelico De caelo 5. L’esegesi patristica era orientata secondo questi modelli pagani, come è fortemente evidente nella Expositio Psalmorum di Cassiodoro, dove il richiamo alle artes – e tra queste anche la logica – è continuo 6. 3  Cfr.  Simplicius, In  Aristotelis De caelo commentaria, ed.  J.  L. Heiberg, Berlin 1894 (CAG, 7). 4 Cfr. S. Ebbesen, Greek and Latin Medieval Logic, in «Cahiers de l’Institut du Moyen-Age grec et latin», 66 (1996), pp. 67-95, qui p. 88. 5 Cfr.  C. Dalimer, Les enjeux de la  reformulation syllogistique chez les commentaires grecs du «De caelo» d’Aristote, in  Le commentaire entre tradition et innovation cit., pp. 387-395. 6  Cfr. Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus, Expositio psalmorum, In psalmum XVII, 11, PL 70, [9-1056], 126D, ed. M. Adriaen, 2 voll., Turnhout 1958 (CCSL 97-98), I, p. 155: «Haec figura dicitur hyperthesis, i.e. superlatio»; ibid., In psalmum XXII, 6, 171B, I, p. 214: «Q uae figura dicitur epitrochamos, i.e. dicti rotatio». Q uesta integrazione delle artes va di pari passo con l’esigenza di un

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Tale adozione delle tecniche interpretative della filosofia da parte dei cristiani comportò uno slittamento non irrilevante: nei commenti al Corpus Aristotelicum l’obiettivo dell’analisi logica è evidente, ma bisogna supporre che lo Stagirita applicasse anche nei suoi scritti filosofici la dottrina metodologica che aveva elaborato nell’Organon. Tuttavia gli esegeti cristiani cominciarono a  trattare i  Salmi e  gli altri libri biblici come testi filosofici razionalmente argomentanti: nel fare questo non avevano la  sensazione di apportare alla Sacra Scrittura un qualcosa di estraneo, ma erano convinti di  mettere in  luce una logica in  essa immanente, come Cassiodoro sottolinea espressamente nelle sue Institutiones 7. Egli non era il solo: già Girolamo si era espresso in tal senso 8. Forse, a  incidere in  modo più durevole sulla diffusione e  l’attecchimento di queste posizioni fu Agostino: nel De doctrina christiana, il vescovo di Ippona elaborò un programma educativo di  orientamento esegetico, in cui sottolineava l’importanza delle scienze profane per lo studio della Sacra Scrittura 9. Alla logica veniva indirizzamento religioso dell’istruzione secolare: cfr. ibid., In psalmum LXXXVIII, Conclusio, 650AB, II, p. 829: «Hanc auctores saecularium litterarum diligentius perscrutantes in multis partibus diviserunt, id est in pari et impari, in perfecto et imperfecto, in superfluo et imminuto, et ceteras quae in ipsis auctoribus evidentissime continentur; quas studiosis legere et sana mente tractare nostri quoque permisere maiores. Deum tamen in omnibus rogemus ut sensus nostros aperiat et ad veram sapientiam sua nos illuminatione perducat. Q uidquid enim legeris, quidquid excogitaveris, ita dulcescere poterit tibi, si sapore superni muneris condiaris». È proprio questo intento religioso che sta anche alla base della parte delle sue Institutiones divinarum et saecularium litterarum, PL 70,  1105-1220, ed. R. A. B. Mynors, Oxford 1937 (19612), dedicata agli studi profani. 7  Cfr. ibid., I, 6, 2, 1118A, pp. 25, 24 - 26, 5: «Q uanta enim liber ille ‹Iob› continet suavia sacramenta verborum, sicut beatus Hieronymus dicit in epistula quam dirigit ad Paulinum: ‘Prosa incipit, versu labitur, pedestri sermone finitur, omniaque legis dialecticae propositione, assumptione, confirmatione, conclusione determinat’. Q uod si ita est, – nec aliter esse potest quam quod tanti viri celebrat auctoritas, – ubi sunt qui dicunt artem dialecticam ab Scripturis sanctissimis non coepisse?». 8 Cfr.  Eusebius Sophronius Hieronymus, In  Epistolam ad Galatas, PL 26, [331-468], 371C: «Sed quamvis sind hebetes, dicere non audebunt Christum sine causa mortuum. Ad particulam itaque sillogismi, quae hic proponitur, id est ‘si enim per legem iustitia, ergo Christus gratis mortuus est’ (Gal, 17, 21), debemus illud assumere quod consequenter infertur et negari non potest ‘Christus autem non gratis mortuus’ et concludere ‘non igitur per legem iustitia’». 9 Cfr. Aurelius Augustinus, De doctrina christiana, II, 18, 42 - 42, 63, PL 34, [15-122], 55-66, ed. J. Martin, Turnhout 1962 (CCSL, 32), [pp. 1-167], pp. 62-77, in cui egli spiega l’utilità delle singole discipline dell’antichità (storia,

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assegnata una posizione-chiave 10 e la sua utilità era illustrata sulla scorta di un’interpretazione esemplare delle parole di Paolo dalla Prima lettera ai Corinzi («Si autem resurrectio mortuorum non est, neque Christus resurrexit. Si autem Christus non resurrexit, inanis est ergo praedicatio nostra, inanis est et fides vestra»), di cui Agostino evidenziava la struttura condizionale alla base 11: in questo modo sottolineava il valore della logica in un’opera che come nessun’altra ha influenzato non solo l’esegesi, ma l’intero ideale pedagogico dei secoli successivi. Tuttavia, il  margine d’azione di  queste riflessioni nell’alto Medioevo rimase limitato, cosa dovuta anche al fatto che le fonti greche e arabe importanti per la parafrasi sillogistica furono tradotte in latino soltanto nel tredicesimo secolo 12. Benché Alcuino abbia inserito nuovamente lo studio della logica nel curriculum di studi carolingio, ciò influì ben poco sulle glosse ed i commenti dell’epoca 13; un’eccezione è  Godescalco di  Orbais (†  869), che dialettica, retorica, matematica ed etica – egli dunque non segue lo schema delle septem artes liberales) per i cristiani, ma mette in guardia contro la superbia che a esse è associata. 10  Riguardo alla logica, egli scrive in ibid, II, 48, 58, 62, p. 72: «Sed disputationis disciplina ad omnia genera quaestionum, quae in litteris sanctis sint, penetranda et dissolvanda, plurimum valet; tantum tibi cavenda est libido rixandi et puerilis quaedam ostentatio decipiendi adversarium». Un possibile abuso non è quindi da imputare alla stessa logica, ma all’immaturità personale di colui che se ne serve. In tal senso si esprime anche Martianus Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii, IV, 423-424, ed. J. Willis, Leipzig 1983, p. 145, 26 - 147, 11, che rinuncia a una trattazione dei sofismi, ossia dell’uso fraudolento della logica. Il  fatto che Marziano (presumibilmente pagano) assuma una posizione affine a quella agostiniana mostra che nella scepsi cristiana nei confronti dell’educazione antica continua a vivere un conflitto filosofico molto più antico, che si incontrava già nella critica di Platone alla sofistica. 11  1Cor 15,  13-14. L’interpretazione agostiniana si legge in  Aurelius Augustinus, De doctrina christiana, II, 49, 58, 62, ed. Martin cit., pp. 72-73. 12  Il commentario al De caelo di Simplicio fu tradotto nel 1271 da Guglielmo di Moerbeke (cfr. Simplicius, Commentaire sur les catègories d’Aristote. Traduction de Guillaume de Moerbeke, ed. A. Pattin, Louvain – Paris 1971), mentre già tra il 1220 e il 1231 Michele Scoto tradusse in latino il commentario medio di Averroè allo stesso scritto aristotelico: cfr.  Averrois Cordubensis, Commentum magnum super libro De celo et mundo Aristotelis, edd. F. J. Carmody – R. Arnzen, 2 voll., Leuven 2003 (Recherches de théologie et philosophie médiévales. Bibliotheca, 4.1.1-2). 13  Su Alcuino e la logica carolingia cfr. J. Marenbon, The Latin Tradition of  Logic to 1100, in Handbook of  the History of  Logic, II: Mediaeval and Renaissance Logic, ed. by D. M. Gabbay – J. Woods, Amsterdam 2008, [pp. 1-63], pp. 22-25.

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non soltanto nella questione della predestinazione si dimostra fedele allievo di  Agostino: sia nel De praedestinatione che nei Responsa de diversis egli fa riferimento alla sillogistica contenuta nella Bibbia. Tuttavia la dubbia reputazione – per esprimersi cautamente – di Godescalco impedì che egli potesse influenzare maggiormente l’esegesi carolingia ed ottoniana 14. Nella produzione dei commenti fino alla fine del primo millennio la logica non ha affatto un ruolo significativo: ciò vale tanto per l’esegesi quanto per l’interpretazione (per lo più in forma di glosse) di opere filosofiche, la quale, quando non si limitava a mettere insieme excerpta di  Boezio, era orientata piuttosto verso la  speculazione, sotto l’influsso di Eriugena 15. Lanfranco del Bec fu il primo a rendere la logica nuovamente proficua per l’ermeneutica in maniera significativa; il contesto era favorevole: Lanfranco sperimentò l’inizio di una nuova fioritura della logica, in cui egli stesso ebbe una parte non marginale. Il fatto che abbia avuto una formazione di giurista e non di monaco potrebbe aver giovato alla sua apertura nei confronti delle artes liberales 16. Nel suo commento alle lettere paoline 17 la logica viene impiegata insieme alle altre discipline del  Cfr. Godescalcus Orbacensis, De praedestinatione, ed. D. C. Lambot, in Oeuvres théologiques et grammaticales de Godescalc d’Orbais, éd. D. C. Lambot, Louvain 1945, [pp. 180-258], p. 206 e Id., Responsa ad diversis, in ibid., [pp. 130179], pp. 155-157. 15 Cfr. Marenbon, The Latin tradition of  logic cit., p. 37. 16  Cfr. G. d’Onofrio, Lanfranco teologo e la storia della filosofia, in Lanfranco di Pavia e l’Europa del secolo xi, nel IX centenario della morte (1089-1989), Atti del convegno internazionale di studi (Pavia, Almo Collegio Borromeo, 21-24 Settembre 1989), Roma 1993, [pp. 189-228], p. 214. L’opinione che talvolta si legge, secondo la quale Lanfranco sarebbe diventato antidialettico dopo il suo ingresso in monastero (così in K. Flasch, Das philosophische Denken im Mittelalter. Von Augustin bis Machiavelli, Stuttgart 20002, p. 202) non è difendibile (il che vale del resto in generale per la contrapposizione di dialettici e antidialettici): tanto il suo insegnamento al Bec, quanto le sue opere ne sono la prova. Q uesta errata percezione è dovuta in non esigua misura alla polemica di Lanfranco contro Berengario; tuttavia non bisogna dimenticare che oggetto del loro conflitto erano enunciati teologici e non il metodo usato per la loro giustificazione. Cfr. M. Gibson, Lanfranc of  Bec, Oxford 1978, pp. 63-67. 17 Cfr.  Lanfrancus Cantuariensis archiepiscopus, Commentarius in Epistolas Pauli, PL 150, 101-406. Sul commentario a Paolo di Lanfranco cfr.  inoltre I.  Biffi, Lanfranco esegeta di  san Paolo, in  Lanfranco di  Pavia cit., pp.  167-187; M.  Gibson, Lanfranc’s «Commentary on the Pauline epistles», in «Journal of   theological studies», N.S., 32.1 (1971), pp. 86-112; Ead., Lanfranc’s Notes on Patristic Texts, ibid.,  N.S., 32.2  (1971), pp.  435-450, e  anche Ead., Lanfranc of  Bec cit., pp. 50-61. 14

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trivio per spiegare il  pensiero dell’Apostolo: in  alcuni casi Lanfranco cerca di  tradurlo in  forma sillogistica 18. Il  pericolo che in questo modo articoli di fede possano essere messi in discussione è  certo presente a  Lanfranco, tuttavia egli vede questo pericolo non nella logica in sé, ma nel suo uso errato 19. Lanfranco è tuttavia ancora molto lontano da  un’analisi logica sistematica, sia perché è ancora troppo ancorato ad un sistema di pensiero di tipo benedettino-prescolastico, sia perché le  lettere paoline venivano meno incontro a questo tipo di metodo rispetto all’Isagoge e alle Categorie. Tuttavia nella sua opera si esprime una nuova coscienza per il potenziale ermeneutico della logica, cui le generazioni posteriori sapranno attingere pienamente. L’influsso di  Lanfranco non rimase confinato all’esegesi biblica, ma si rese percepibile anche nell’interpretazione di testi 18  Ad esempio 1Cor 3,  17 («Templum dei sanctum est, quod estis vos») viene spiegato con un sillogismo: «Item omne sanctum est templum Dei. Sed vos estis sanctum. Ergo Dei templum»: Lanfrancus Cantuariensis archiepiscopus, Commentarius in Epistolas Pauli, 166A. Inoltre egli ricorre di continuo a topoi per descrivere argomentazioni, ad esempio a simili (cfr. ibid., 197A); a relatione e a pari (cfr. ibid., 273C). 19  Un ottimo esempio di ciò viene fornito dalla sua interpretazione di 1Cor 1, 17 («Non enim misit me Christus baptizare sed evangelizare, non in sapientia verbi, ut non evacuetur crux Christi»), in cui egli annota quanto segue: cfr. Lanfrancus Cantuariensis archiepiscopus, ibid.,  157B: «Sapientiam, ubi dialecticam dicit, per quam crux (id est mors) Christi eam simpliciter intellegentibus evacuari videtur, quia: Deus immortalis; Christus autem Deus; Christus igitur immortalis; si autem immortalis, mori non potuit». Tuttavia egli mette subito in chiaro che qui la logica è stata usata erroneamente (ibid., 157BC): «Perspicaciter tamen intuentibus dialectica sacramenta Dei non impugnat, sed cum res exigit, si rectissime teneatur, astruit et confirmat». Cfr. Gibson, Lanfranc’s Commentary cit., pp. 103-104. Giacché essa non è qualcosa che venga applicato al  testo dall’esterno. Come i  Padri della Chiesa, Lanfranco attribuisce anche a Paolo il ricorso alla logica e alla retorica (cfr. Lanfrancus Cantuariensis archiepiscopus, ibid.,  163B): «In doctis humanae scientiae verbis se loqui abnegat. Et tamen in Scripturis eius tanta locorum disputationum subtilitas, tanta et tam subtilis benevolentiae captatio, cum res exigit, invenitur, ut tanta vel ea maior in  nullo scripturarum genere reperiatur. Unde procul dubio credendum est non eum regulas artium saecularium in scribendo vel loquendo cogitasse. Sed per doctrinam sancti Spiritus, a quo et per quem est omnis utilis peritia, talia et taliter dixisse, quae per singula exponerem, nisi imperitorum talium doctrinarum murmur timeretur». Soltanto l’uso sbagliato delle artes viene criticato da Paolo secondo Lanfranco (cfr. ibid., 323B): «Non artem disputandi vituperat, sed perversum disputantium usum». Nel momento in cui il dialettico si serve dei suoi strumenti solo per capire la logica già di per sé presente nel testo biblico non vi sono più pericoli per la retta fede, al contrario si trovano strumenti effettivi per combattere l’eresia. Cfr. d’Onofrio, Lanfranco teologo cit., p. 202.

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profani. Q ui la logica ritrovava il suo cammino nel genere letterario nel quale in origine era stata messa al servizio dell’ermeneutica: i  commenti agli scritti filosofici. Testimonianza di  questo sono le due opere al centro del presente lavoro, cosa che diventa ancor più significativa per il  fatto che in  una di  esse Lanfranco viene menzionato come fonte 20.

2. I commenti di Echternach e Saint-Trond Nei due commenti anonimi alla Logica vetus, che presumibilmente risalgono agli anni 1100-1150, la  logica, cui Lanfranco e i suoi modelli antichi ricorrono soltanto occasionalmente, trova un impiego addirittura eccessivo. Con il suo aiuto i testi oggetto di  interpretazione vengono sistematicamente spiegati e  riformulati in forma di sillogismi. In entrambi i casi si tratta di commenti, che sono trasmessi separatamente dai testi da  interpretare, cui si rinvia mediante l’indicazione di lemmi. Il primo dei due testi è la raccolta di  glosse contenuta nel ms. Luxembourg, Bibliothèque nationale de  Luxembourg 9, che in  origine apparteneva al  patrimonio di Echternach 21. Si tratta di un codice di piccolo formato (12,5 × 9 cm), di pergamena di bassa qualità, che consiste di 113 fogli, scritti in  una minuscola carolina rozza con una quantità di abbreviazioni insolitamente massiccia 22: in esso sono commentati alcuni estratti delle Institutiones grammaticae di  Prisciano, 20  Cfr.  ms. Luxembourg, Bibliothèque nationale de  Luxembourg (d’ora in poi: BNL) 9, ff. 6r, 6v, 13r. 21  Q uesto commento per lungo tempo ignorato è stato riportato alla luce nel suo valore da Michele C. Ferrari e presentato al pubblico scientifico nel saggio M. C. Ferrari, Schulfragmente. Text und Glosse in Echternach, in Die Abtei Echternach 698-1998, hrsg. von M.  C. Ferrari  –  J.  Schroeder  –  H.  Trauffler, Luxembourg 1999, pp. 123-164. Descrizioni del manoscritto si leggono in N. Van Werveke, Catalogue descriptif  des manuscrits de  Bibliothèque de  Luxembourg, Luxemburg 1894, p. 15, e in Die Echternacher Handschriften bis zum Jahr 1628 in den Beständen der Bibliothèque nationale de  Luxembourg sowie des «Archives diocésaines de Luxembourg», der «Archives nationale», der «Section historique de l’Institut grand-ducal» und des «Grand Séminaire de  Luxemburg», 2: Beschreibung und Register, hrsg. von Th. Falmagne – L. Deitz, Wiesbaden 2009, pp. 56-58. 22 Q  ui non si tratta soltanto delle abbreviazioni usuali. Laddove il  testo è facile da completare, o perché corrisponde al modello, o perché determinati concetti o formulazioni vengono ripetute, l’Anonimo scrive soltanto le lettere iniziali, il che rende la lettura faticosa. L’Anonimo non sembra essersi dato molti pensieri per altri lettori.

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l’Isagoge di  Porfirio e  il trattato aristotelico sulle Categorie 23. Le  glosse cominciano senza introduzione all’inizio del prologo delle Institutiones e  finiscono ugualmente all’improvviso al  capitolo 9 del trattato sulle Categorie; un ultimo lemma e  diverso è ancora segnato, ma la relativa annotazione manca 24. Non si individua una ricerca di letterarietà: il ductus linguistico sovente ellittico fa pensare più a degli appunti che a una normale prosa latina. Si possono distinguere tre tipi di glosse: accanto alle parafrasi sillogistiche e alle occasionali annotazioni lessicali e sintattiche, vi sono spiegazioni filosofiche; queste ultime sono rare e, a causa della loro brevità, non sempre comprensibili. Q uesto è un peccato, poiché nei passaggi dove l’Anonimo disvela così tanto le sue opinioni da renderle comprensibili, egli mostra di essere ai vertici della sua epoca come rappresentante di teorie filosofiche approfondite. In alcuni passaggi sono inseriti dei brani in  cui l’Ano­nimo di  Echternach si affranca dal testo commentato, ad esempio in un breve excursus grammaticale nelle glosse a Prisciano o in una nota introduttiva alla sistematica delle scienze prima dell’interpretazione dell’Isagoge 25. Sia il  linguaggio non raffinato, che le  osservazioni paleografiche e codicologiche lasciano ipotizzare che si tratti di un vademecum personale, non indirizzato a un pubblico più vasto 26. Il secondo commento è  tràdito nel manoscritto miscellaneo Cambridge, Fitzwilliam Museum, McClean 165, proveniente dal monastero benedettino belga di  Saint-Trond 27. Nel codice 23  Può sembrare inusuale che un grammatico venga commentato insieme a due scritti (onto)logici; tuttavia, uno sguardo più attento ai passaggi selezionati delle Institutiones grammaticae e ai temi centrali, dal punto di vista del contenuto, delle glosse, rende evidenti i collegamenti; si tratta di questioni acustiche e fonetiche (soprattutto sulla vox), che spesso venivano discusse all’inizio dei manuali medievali di logica. 24  Cfr.  Aristoteles, Categoriae (editio composita), ed.  L.  Minio Paluello, Bruges  –  Paris 1961 (Aristoteles Latinus I, 1-5), [pp.  47-79], p.  77,  4 (14b30). Aristotele e  Porfirio erano letti ovviamente non nell’originale greco, ma nelle traduzioni di  Boezio, edite da  Lorenzo Minio Paluello nell’Aristoteles Latinus. Nel  presente lavoro vengono citate in  base a  questa edizione, con indicazione di pagina e riga. 25  Cfr. ms. Luxembourg, BNL 9, ff. 18r - 19v; 21v. 26 Cfr. Ferrari, Schulfragmente cit., p. 139. 27 Cfr.  M.  R. James, A  Descriptive Catalogue of    the MacClean Collection of   Manuscripts in  the Fitzwilliam Museum, Cambridge 1912, pp.  316-319; Marenbon, Medieval Latin Commentaries cit., p. 103 (P6) e p. 111 (C6).

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