This volume collects the papers read by more than twenty Italian and German scholars at the eighteenth congress of the S
198 106 3MB
English Pages 650 [588] Year 2018
NUTRI X
STUDIES IN LATE ANTIQ UE MEDIEVAL AND RENAISSANCE THOUGHT STUDI SUL PENSIERO TARDOANTICO MEDIEVALE E UMANISTICO
Directed by Giulio d’Onofrio Assistant director Renato de Filippis
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Ubi in eam deduxi oculos intuitumque defixi respicio nutricem meam cuius ab adulescentia laribus obversatus fueram Philosophiam Boethius Consolatio Philosophiae, I, 3
© 2017 Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium
Nutrix is a peer-reviewed Series. The content of each volume is assessed by specialists chosen by the Direction of the Series. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without prior permission of the publisher. The logo of the series Nutrix – a miniature from Ms. New York, Pierpont Morgan Library, M. 302 (Ramsey Psalter), f. 2v – portrays the Christ Child among the Doctors in the Temple. Photographic credit: The Pierpont Morgan Library, New York.
D/2017/0095/147 ISBN 978-2-503-54840-1 Printed on acid-free paper
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale Atti del XVIII Convegno internazionale di studi della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (SISPM) (Cava de’ Tirreni – Fisciano, 5-8 dicembre 2009)
a cura di Luigi Catalani Renato de Filippis
F
Anselmo d’Aosta, Orationes vel meditationes Oratio ad sanctum Petrum, iniziale miniata ms. Bodleian Library, Oxford, Auct. D. 2. 6, f. 169r Photographic credit: © Bodleian Libraries, University of Oxford
INDICE DEL VOLUME
INDICE DEL VOLUME
Avvertenza
13 Parte prima ANSELMIANA
Giulio d’Onofrio Leggere Anselmo
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Alessandro Ghisalberti La nuova frontiera ermeneutica delle opere speculative di Anselmo. Problemi e prospettive
77
Inos Biffi Le rationes necessariae di Anselmo d’Aosta: audacia o utopia?
107
Armando Bisogno Si vis, quaeramus quod sit veritas. Anselmo e il modello pedagogico monastico
123
Italo Sciuto Significato e valore del mondo laico nel pensiero di Anselmo d’Aosta
137
Matteo Zoppi Tra il chiostro e il mondo: linee del pensiero ‘politico’ anselmiano
161
Pietro Palmeri Ricerca della verità, volontà di giustizia e desiderio di felicità nel monachesimo di Anselmo d’Aosta
191
Silvio Tafuri Il problema della significazione nel pensiero di Anselmo
211
9
INDICE DEL VOLUME
Carlo Chiurco Anselmo filosofo dell’infinito: la natura elenctica dell’unum argumentum
237
Roberto Nardin Una lettura monastica del Cur Deus homo: indagine sui presupposti del metodo anselmiano
249
Marcella Serafini Una ‘rilettura’ del Cur Deus homo in prospettiva cristocentrica
265
Romana Martorelli Vico Il ‘quadrato’ di Anselmo (dal Cur Deus homo): dalla generazione divina alla generazione biologica. Significato simbolico e storico-dottrinale di uno schema dialettico
293
Luigi Catalani La ragione monastica nell’epistolario di Anselmo d’Aosta
301
Parte seconda CONTESTO E FORTUNA Fabio Cusimano Benedetto di Aniane e la legislazione monastica carolingia attraverso i capitularia
327
Pierfrancesco De Feo L’eredità cristologica anselmiana in Ugo di San Vittore e in Abelardo
359
Concetto Martello Influenze anselmiane nel secolo xii. Il caso della Summa sententiarum attribuita a Ottone da Lucca
371
Bernhard Hollick Logica ed ermeneutica: la parafrasi sillogistica come strumento di interpretazione di testi filosofici nel dodicesimo secolo
393
Maria Borriello Il monachesimo e le scuole nel passaggio tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo
423
Alessandro Pertosa L’influenza di Anselmo d’Aosta nella letteratura controversistica dei Correctoria
449
10
INDICE DEL VOLUME
Luca Parisoli La non-universalità del principio di contraddizione: un’ipotesi su un approccio filosofico da Anselmo d’Aosta a Duns Scoto
463
Davide Monaco Maius quam cogitari possit. Anselmo e Cusano
497
Angelo Maria Vitale Il ruolo del monachesimo benedettino nel platonismo cristiano del Rinascimento
505
Luigi Della Monica L’argomento ontologico nell’apologetica cristiana di Ralph Cudworth
525
Abstracts – Summaries
541
Indice dei nomi 565 Indice biblico 583
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INDICE DEL VOLUME
AVVERTENZA
Le opere di Anselmo sono citate con riferimento alle coll. nel volume 158 (e, nel caso delle Epistolae, anche nel volume 159) della Patrologia Latina e alle pagine dell’edizione Schmitt: S. Anselmi Cantuariensis Archiepiscopi Opera Omnia, ad fidem codicum recensuit Franciscus Salesius Schmitt, 6 voll., Edinburgh 1946-1961 (ed. preced. dei soli voll. 1-2, Seckau 1938 e Roma 1940; ripr. anast. integrale, 6 voll., Stuttgart – Bad Cannstatt 19681, 19842). In generale, nelle note, le citazioni dalle opere di Anselmo sono prive di riferimento al nome dell’autore. Titoli e riferimenti alle coll. in PL 158-159 e alle pp. nell’ed. Schmitt (con indicaz. del volume): Cur Deus homo: 359C-432B, II, pp. 39-133 De casu diaboli: 325C-360C, I, pp. 231-276 De conceptu virginali et de peccato originali (De conceptu virginali): 431C-464A, II, pp. 137-173 De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio (De concordia): 507A-542A, II, pp. 245-288 De grammatico: 561A-582A, I, pp. 145-168 De libertate arbitrii: 489A-506C, I, pp. 205-226 De processione Spiritus Sancti: 285A-326B, II, pp. 177-219 De veritate: 467B-486C, I, pp. 173-199 Epistola de incarnatione Verbi: 259C-284C, II, pp. 3-35 (Prior recensio: I, pp. 281-290) Monologion: 142-224A, I, pp. 5-87 Proslogion: 223B-242C, I, pp. 93-122 [Gaunilo Maioris Monasterii], Q uid ad haec respondeat quidam pro insipiente: 241C-248C, I, pp. 125-129 13
AVVERTENZA
Responsio (Quid ad haec respondeat editor ipsius libelli): 247C-260B, I, pp. 130-139 I titoli delle Orationes sive Meditationes (PL 158, 709A-1016A, ed. Schmitt, III, pp. 3-91) e delle Epistolae (PL 158, 1059A-1208A, PL 159, 9A-272A, ed. Schmitt, II, pp. 223-242, III, pp. 97-294, IV, pp. 3-232 e V, pp. 233-423) sono indicati per esteso Altre opere: De potestate = De potestate et impotentia, possibilitate et impossibilitate, necessitate et libertate, ed. F. S. Schmitt, Ein neues unvollendetes Werk des hl. Anselms von Canterbury, Münster 1936 (BGPTMA, 33/3) Memorials = Memorials of St. Anselm, ed. by R. W. Southern – F. S. Schmitt, London 1969 (rist. Oxford 1991; Auctores Britannici Medii Aevi, 1)
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PARTE PRIMA
ANSELMIANA
GIULIO D’ONOFRIO
LEGGERE ANSELMO
1. Leggere, tradurre, intendere La percezione che il lettore di oggi riesce ad avere di natura ed esiti dei procedimenti argomentativi di filosofi antichi e medievali è condizionata dal sedimentarsi secolare di conoscenze, istruzioni e precomprensioni di ordine teoretico che possono alterare, come uno schermo deformante, la comprensione della coerenza originaria che l’autore riteneva di avere assicurato fra le sue parole e la nozione interiore che esse dovevano comunicare. Di questa problematicità deve tenere conto chiunque intenda oggi ricostruire la storia di forme di pensiero sviluppatesi in mondi culturali lontani e su fondamenti teoretici che non godono più, nelle nostre menti, della piena condivisione che caratterizzava gli abitanti di altre ere speculative. Innanzi tutto, quasi per l’intero panorama delle produzioni teoretiche provenienti dall’àmbito che noi definiamo ‘medievale’, un filtro determinante di cui deve tenere conto lo storico, per essere realmente storico del pensiero, è costituito dall’uso, nel testo originale, del latino: impiegato in modo artificioso già dallo scrivente, che di solito si esprime e pensa in una lingua diversa, il lessico filosofico latino è tendenzialmente molto ‘tecnico’, in quanto caratterizzato da espressioni, formule e argomentazioni che si ricollegano a una tradizione didattica (quella delle sette arti liberali) congelata e a noi ormai estranea. Alla luce di questa situazione, poco produttivo appare oggi il moltiplicarsi di traduzioni il cui fine immediato è produrre una leggibilità moderna, pratica e fruibile dei testi speculativi medievali, ma non Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 17-76 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112911
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GIULIO D’ONOFRIO
fondata sulla difficile e tuttavia indispensabile contestualizzazione storica di parole e immagini formalmente dipendenti da un patrimonio culturale ormai lontano da noi e dai nostri linguaggi. L’espressione del ragionamento filosofico, nella produzione medievale, non corrisponde quasi mai pienamente alla libertà espressiva del linguaggio interiore; né, di solito, vi sono contemplati modi, sia pure inconsueti ed eccezionali, di rottura delle rigide regole strutturali della grammatica, della logica o della retorica per dare libera espressione a contenuti intuitivi del pensiero. Da tale costrizione non sono esenti neanche gli autori più ispirati, come i poeti teologi o i contemplativi. Scaturisce inoltre da tale situazione una valorizzazione piena e specifica di ogni singola parola inserita nel testo: ogni termine, anche nelle ripetizioni apparentemente ridondanti di parole simili, è scelto dall’autore con somma attenzione al peso che esso deve assumere nel suo discorso; cosicché – come regola generalizzata – non c’è alcuna parola, in un testo filosofico medievale, che possa essere considerata superflua. È infine importante anche tenere conto dell’utilizzazione tacita e frequente, da parte dello scrittore medievale, di forme espressive che egli mutua da documenti con i quali la sua cultura di base ha una familiarità diffusa e sottoposta a continuo incremento: reminiscenze da testi classici in prosa o in poesia, e poi, soprattutto, l’influenza di un ricco apparato espressivo dedotto dai testi della Scrittura (nel latino della Vulgata, soprattutto). Al di là di ogni intenzionale frettolosità interpretativa – che certo favorisce la divulgazione, ma tutela assai poco la corretta comprensione – è allora opportuno per lo storico dotarsi di una ponderata metodologia per il corretto recupero dell’originaria valenza espressiva dei testi: riposizionando innanzi tutto la propria attenzione sulla corretta ricerca etimologica e precisazione semantica delle parole; indagando, classificando, riconoscendo e considerando i tecnicismi del linguaggio e i procedimenti propri delle sette arti liberali; e operando un confronto approfondito – oggi reso possibile e veloce anche dall’uso di funzionali repertori informatici – tra il patrimonio espressivo dell’autore medievale e quello delle sue fonti, classiche, bibliche o patristiche, e di altri scrittori suoi contemporanei con i quali, direttamente o no, egli ha dialogato. 18
LEGGERE ANSELMO
Le opere teologiche di Anselmo d’Aosta costituiscono un caso esemplare per la verifica dell’opportunità di questo richiamo generale al corretto impegno metodologico che deve caratterizzare lo storico del pensiero medievale. Originale ed elegante, la prosa di Anselmo ci offre uno dei più raffinati prodotti letterari dell’alto Medioevo, anche se – incomprensibilmente – viene solo di rado presa in considerazione con un adeguato apprezzamento dagli storici della letteratura medio-latina. D’altra parte anche gli storici della filosofia sembrano spesso essersi preoccupati assai più di individuare, sciogliere e valutare a-storicamente la validità e l’eventuale attualità dei suoi percorsi argomentativi, che di apprezzare nel modo adeguato provenienza, natura e significato autentico del linguaggio con cui sono espressi. Non sarà dunque fuori luogo tentare nelle pagine seguenti, almeno quale modello di base per ulteriori approfondimenti, una verifica articolata della possibilità di tornare a leggere Anselmo così come lo avrebbe letto un intellettuale suo contemporaneo, cercando di rintracciare nelle sue pagine lo spessore e la presenza operante del bagaglio culturale e del lessico speculativo propri di un pensatore vissuto a cavallo tra i secoli xi e xii.
2. I quattro modi del Monologion: dalla pensabilità del vero alla verità dell’esistenza di Dio Nei primi quattro capitoli del Monologion Anselmo argomenta la ‘verità’ dell’esistenza della summa substantia muovendo, come è noto, dal riconoscimento della ‘verità’ di taluni fondamentali caratteri delle cose che sono oggetto consueto della conoscenza naturale. In quanto tali caratteri sono ‘conoscibili’ – anzi sono essi stessi condizione della conoscibilità delle cose naturali, e quindi del riconoscimento di verità del loro esistere –, la ragione umana è invitata ad accogliere come indubitabile, al di sopra di essi, la realtà di ciò che le consente di ri-conoscerli come veri: di qualcosa, quindi, che essendo principio della vera conoscibilità, ossia della ‘verità’, di cose vere, a sua volta necessariamente è vero, e quindi esiste. Una diffusa tradizione storiografica ha accolto i quattro percorsi delineati da Anselmo in questi capitoli iniziali della sua prima opera speculativa come descrittivi di paralleli procedimen19
GIULIO D’ONOFRIO
ti ascensivi della mente, dall’esistenza delle cose finite alla causa di tale loro esistere, per evitare una regressio ad infinitum: e quindi come prove a posteriori della necessità dell’esistenza di Dio, esplicitamente contrapposte alla natura di dimostrazione a priori propria dell’argomento del Proslogion 1. Ad una attenta lettura di questi capitoli si comprende tuttavia con chiarezza che l’impostazione delle quattro dimostrazioni non rientra assolutamente in quelle che Immanuel Kant classifica come prove fisico-teologiche dell’esistenza di Dio: che «fangen […] von der bestimmten Erfahrung und der dadurch erkannten besonderen Beschaffenheit unserer Sinnenwelt an und steigen von ihr nach Gesetzen der Causalität bis zur höchsten Ursache außer der Welt hinauf» 2; né in quella che egli cataloga come prova cosmologica, che induce a ritenere necessaria l’esistenza di Dio a partire dalla semplice ammissione dell’esistenza di qualcosa di limitato e finito, perché «wenn etwas existiert, so muß auch ein schlechterdings nothwendiges Wesen existieren» 3. Le parole di Anselmo non intendono, di fatto, né delineare un processo di ascesa dalla relatività di un certo modo particolare di essere delle cose particolari a un principio (non relativo, ma assoluto) che determini sia tale loro particolarità, sia l’ordine complessivo in cui si incastonano le loro relazioni; né tanto meno suggerire l’individuazione di una concatenazione causale che proceda da realtà effettuali, limitate e contingenti, 1 Cfr. P. Gilbert, s. v. Anselmo, in Enciclopedia Filosofica, a c. della Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, 12 voll., Milano 2006, I, pp. 492b497b, in partic. p. 494ab; G. d’Onofrio, La storia del pensiero altomedievale. Modelli tradizionali e nuove chiavi di lettura, in Scientia, Fides, Theologia. Studi di filosofia medievale in onore di Gianfranco Fioravanti, a c. di S. Perfetti, Pisa 2011, [pp. 49-87], pp. 65-66. 2 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, II Abt. (Die trascendentale Dialektik), Buch II, Hauptstück 3, Abschn. 3, 618-619, in Kants gesammelte Schriften, hrsg. von der königl. Preußischen Akademie der Wissenschaften, III, Berlin 1904, p. 396, 22-30: «Alle Wege, die man in dieser Absicht einschlagen mag, fangen entweder von der bestimmten Erfahrung und der dadurch erkannten besonderen Beschaffenheit unserer Sinnenwelt an und steigen von ihr nach Gesetzen der Causalität bis zur höchsten Ursache außer der Welt hinauf; oder sie legen nur unbestimmte Erfahrung, d. i. irgend ein Dasein, empirisch zum Grunde; oder sie abstrahieren endlich von aller Erfahrung und schließen gänzlich a priori aus bloßen Begriffen auf das Dasein einer höchsten Ursache. Der erste Beweis ist der physikotheologische, der zweite ist der kosmologische, der dritte der ontologische Beweis». 3 Cfr. ibid., Abschn. 5, 633, p. 404, 30-31. Secondo Kant questo è il procedimento che Leibniz denomina a contingentia mundi: cfr. ibid., p. 404, 27-29.
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LEGGERE ANSELMO
all’ammissione dell’esistenza (necessaria per evitare il regresso all’infinito) di un principio che le faccia essere tali, non limitato, e quindi esistente senza essere causato da altro. Il linguaggio dei primi capitoli del Monologion è, invece, chiaro e inequivocabile nel descrivere la necessaria sussistenza del principio divino come una conseguenza non dell’esistenza effettuale, ma, propriamente, della conoscibilità delle cose finite. Se si accosta a queste pagine astenendosi dalla ricerca di formalismi argomentativi che sono ad esse estranei, il lettore moderno non può non cogliere in effetti – sotto un linguaggio elegante, regolato dal rispetto di procedure retoriche elementari – la ‘novità’ formale di una diretta, immediata chiarificazione dei concetti presi in considerazione e della loro possibile connessione, orientata a documentare, perché sia inequivocabile, la possibilità di ‘conoscere’ (ossia di cessare di ‘ignorare’ come sia possibile ‘conoscere’) modi di ‘essere’ e di ‘essere vero’ che appaiono predicabili della creatura solo perché sono predicati, al massimo grado, del principio creatore: Si quis unam naturam summam omnium quae sunt solam sibi in aeterna sua beatitudine sufficientem omnibusque rebus aliis hoc ipsum quod aliquid sunt aut quod aliquomodo bene sunt per omnipotentem bonitatem suam dantem et facientem aliaque perplura quae de Deo sive de eius creatura necessarie credimus aut non audiendo aut non credendo ignorat, puto quia ea ipsa ex magna parte, si vel mediocris ingenii est, potest ipse sibi saltem sola ratione persuadere 4.
La ratio, inequivocabilmente intesa come capacità di giudizio dell’intelligenza umana, è introdotta in questo brano iniziale quale soggetto esclusivo e autonomo («sola ratione») di un persuadere efficiente, che la conduce ad accogliere come certezza, anche in caso di ignoranza o rigetto pregiudiziale dei contenuti della fede («si quis… aut non audiendo aut non credendo ignorat»), la conoscibilità dell’esistere di una natura superiore a tutte le altre («summa»), che per essere tale è inevitabilmente unica («una»), dotata di autosufficienza («sola… sibi… sufficiens»), 4 Monologion, 1, 144C-145A, p. 13, 5-11. Nelle citazioni di testi anselmiani dall’ed. Schmitt correggo talvolta la punteggiatura; in tutte le citazioni, nel testo e nelle note, i corsivi sono miei, e sono finalizzati ad evidenziare i termini sui quali mi soffermo nel mio commento.
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GIULIO D’ONOFRIO
onnipotenza e bontà («per omnipotentem bonitatem»): attributi elencati come solo le prime tra altre sue caratteristiche, tutte evidenti per il giudizio dell’intelletto e pienamente coincidenti con i contenuti della fede («pluraque alia quae de Deo credimus»). Q uesto medesimo piglio diretto, questo ricorso a espressioni rigorosamente pesate e inequivocabili, o almeno tali per un orecchio sensibile alla competenza nella dottrina delle arti liberali, si mantiene inalterato nello sviluppo delle quattro dimostrazioni, tutte fondate sulla persuasione che se è vera la conoscibilità di determinazioni relative nelle cose finite, è inevitabile che la mente prenda atto della determinazione assoluta di un principio originario da cui scaturisce tale conoscibilità, del quale deve quindi essere riconosciuta la necessaria esistenza. È allora evidente il radicarsi di questo procedimento su una profonda condivisione, da parte di Anselmo, della concezione agostiniana della realtà cosmica e del suo ordinamento: non è possibile, per esempio, secondo una meditazione di Agostino nel De musica che esplicita lo sfondo speculativo su cui si fonda questo modo di ragionare, conoscere le determinazioni numeriche molteplici e particolari se non applicando alla loro conoscibilità la verità formale e primordiale dell’uno, in sé non numerabile ma principio di ogni numerabilità 5; e non è possibile, come si legge in una pagina dominante delle Confessioni, conoscere la verità relativa di qualsiasi cosa vera se non applicando alla sua veridicità il principio del vero in sé, non verificabile ma principio di ogni verificabilità 6. 5 Cfr. Aurelius Augustinus, De musica, I, 11, PL 32, [1079-1194], 1094: «Ergo ab ipso, si videtur, principio numerorum capiamus considerationis huius exordium et videamus, quantum pro viribus mentis nostrae talia valemus intueri, quaenam sit ratio, ut quamvis per infinitum, ut dictum est, numerus progrediatur, articulos quosdam homines in numerando fecerint; a quibus ad unum rursus redeant, quod est principium numerorum». 6 Cfr. Id., Confessiones, XI, 8, 10, PL 32, [657-868], 813, ed. L. Verheijen, Turnhout 1981 (CCSL, 27), p. 119, 11-18: «Q uis porro nos docet, nisi stabilis veritas? Q uia et per creaturam mutabilem cum admonemur, ad veritatem stabilem ducimur; ubi vere discimus, cum stamus et audimus eum et gaudio gaudemus propter vocem sponsi (cfr. Jo 3, 29), reddentes nos unde sumus. Et ideo principium, quia nisi maneret, cum erraremus non esset quo rediremus. Cum autem redimus ab errore, cognoscendo utique redimus; ut autem cognoscamus, docet nos, quia principium est et loquitur nobis». E ancora cfr. Id., Enarrationes in Psalmos, Ps. 118, Sermo 30, 8, PL 37, [1033-1967], 1590, edd. E. Dekkers – J. Fraipont, 3 voll., Turnhout 1956 (CCSL, 38-39-40), III, p. 1769, 13-16: «‘Principium’, inquit, ‘verborum tuorum veritas, et in aeternum omnia iudicia iustitiae
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LEGGERE ANSELMO
Anselmo sceglie nel Monologion di sottoporre a questo procedimento le nozioni di bontà, di grandezza e di essere, ma avrebbe potuto optare anche per altri percorsi, mantenendosi comunque nell’alveo della generale intuitività del principio agostiniano secondo cui ciò che è vero è tale perché la verità in sé lo fa essere vero, e dunque la verità (relativa) di qualsiasi cosa è prova dell’esistenza della verità in sé (assoluta), ossia della Verità divina. Che questa sia la corretta interpretazione della metodologia anselmiana, è un’evidenza che può essere confermata da una esplicita, e precisa, indicazione di Tommaso d’Aquino – che pure è stato spesso invocato come garante di una lettura dei quattro modi del Monologion come prove cosmologiche – in un accenno alla metodologia della ricerca anselmiana della verità, nella ventunesima Q uaestio de veritate: secondo cui per Anselmo tutte le cose sono ‘vere’ in ragione di una verità prima, nella misura in cui ogni cosa reale è commisurata all’intelletto divino e sussiste quale compimento di un progetto finalistico della provvidenza divina. Il che, dunque, conferma come per Anselmo la conoscibilità della nozione particolare evidenzia il sussistere, come realtà necessaria e assoluta, del principio che la rende conoscibile, e dunque ‘vera’ secondo una certa modalità 7. Nell’introdurre il primo percorso, nel quale il processo di ascesa conoscitiva verso la verità è esplicitato in base all’evidenza della conoscibilità della bontà delle cose finite, egli stesso parla in effetti di ‘innumerevoli modi’ («quod cum multis modis facere possit»), tra i quali sceglie questo perché ‘particolarmente evidente’ alla ratio («illi», che fa riferimento alla «sola ratio» della proposizione precedente) e ‘facilmente condivisituae’ (Ps 118, 160). A veritate, inquit, tua verba procedunt, et ideo veracia sunt, et neminem fallunt, quibus praenuntiatur vita iusto, poena impio». 7 Cfr. Thomas Aq uinas, Q uaestiones disputatae de veritate, q. 21, a. 4, ad 5, ed. cura et studio Fratrum Praedicatorum, 3 voll., Roma 1970-1975 (ed. Leonina, XXII), III, pp. 603, 305 - 604, 319: «Ad quintum dicendum, quod similiter etiam distinguendum est de veritate, scilicet quod omnia sunt vera veritate prima sicut exemplari primo, cum tamen sint vera veritate creata sicut forma inhaerente. (…) Ipsa enim ratio veritatis in quadam adaequatione sive commensuratione consistit. Denominatur autem aliquid mensuratum vel commensuratum ab aliquo exteriori, sicut pannus ab ulna; et per hunc modum intelligit Anselmus omnia esse vera veritate prima, in quantum scilicet unumquodque est commensuratum divino intellectui implendo illud ad quod divina providentia ipsum ordinavit vel praescivit».
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GIULIO D’ONOFRIO
bile’ da tutti i soggetti che sanno esercitarla («in promptu», «promptissimum»): Q uod cum multis modis facere possit, unum ponam, quem illi aestimo esse promptissimum. Etenim cum omnes frui soliis iis appetant quae bona putant, in promptu est ut aliquando mentis oculum convertat ad investigandum illud, unde sunt bona ea ipsa, quae non appetit nisi quia iudicat esse bona, ut deinde ratione ducente et illo prosequente ad ea quae irrationabiliter ignorat, rationabiliter proficiat. (…) Certissimum quidem et omnibus est volentibus advertere perspicuum quia quaecumque dicuntur aliquid, ita ut ad invicem magis vel minus aut aequaliter dicantur, per aliquid dicuntur quod non aliud et aliud se idem intelligitur in diversis, sive in illis aequaliter, sive inaequaliter consideretur. (…) Ergo cum certum sit quod omnia bona, si ad invicem conferantur, aut aequaliter aut inaequaliter sint bona, necesse est ut omnia sint per aliquid bona, quod intelligitur idem in diversis bonis (…). Q uis autem dubitet illud ipsum, per quod cuncta sunt bona, esse magnum bonum? Illud igitur est bonum per seipsum, quoniam omne bonum est per ipsum. (…) Sed quod est summe bonum, est etiam summe magnum. Est igitur unum aliquid summe bonum et summe magnum, id est summum omnium quae sunt 8.
L’espressione, «in promptu» rimanda di fatto ad alcuni significativi testi agostiniani, nei quali è utilizzata per designare una verità immediatamente evidente alla ragione umana e condivisibile da tutti: proprio il genere di verità per la quale Agostino ha condotto dapprima la battaglia contro lo scetticismo accademico, che rifiuta qualsiasi riconoscimento di evidenza del vero da parte dell’intelletto umano 9, e poi quella contro l’immaginifico materialismo dei Manichei, che svilisce l’evidenza fondativa dei carat Monologion, ibid., 145A-146B, pp. 13, 11 - 15, 12. Cfr. Aurelius Augustinus, Contra Academicos, III, 4, 8, PL 32, [903958], 937, ed. W. M. Green, Turnhout 1970 (CCSL, 29), p. 39, 23-31: «Intentis omnibus, sic coepi: Itane est, Alypi, ut inter nos de re iam, ut mihi videtur, manifestissima non conveniat? – Non mirum est, inquit, si quod tibi in promptu esse asseris, mihi obscurum sit, si quidem pleraque manifesta possunt aliis manifestiora et item obscura quaedam nonnullis obscuriora esse. Nam si et hoc tibi vere manifestum est, mihi crede esse alium quemquam, cui et hoc manifestum tuum manifestius sit, et item alium, cui meum obscurum sit obscurius». 8 9
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LEGGERE ANSELMO
teri di immutabilità, perfezione e autosufficienza del divino 10. Con questo solenne esordio della presentazione dei «modi» di riflessione razionale sulla realtà di Dio, Anselmo recupera dunque in modo significativo la terminologia agostiniana relativa all’evidenza, per sottolineare la natura non articolata, non discorsiva, ma intuitiva e immediata del riconoscimento della bontà relativa in tutte le cose, tale proprio perché è assicurato dalla certezza superiore, ancor meno eludibile, della verità del buono per se. Se dunque il punto di partenza è una innegabile evidenza razionale, ciò che ne scaturisce sarà una indubitabile consequenziarietà razionale. È prima di tutto evidente che le cose sono conosciute («dicuntur») come determinate in un certo modo («aliquid», ossia come ‘buone’), secondo una scala di gradi corrispondenti ad altri modi dello stesso genere (la bontà), di pari o di diversa intensità («ita ut ad invicem magis aut minus aut aequaliter dicantur»). Tale prima evidenza invita la ragione a indagare («ad investigandum») l’altrettanto evidente verità della determinazione delle cose come buone secondo un solo e medesimo principio buono, dal quale scaturisce il riconoscimento della loro bontà («unde sunt bona»). È allora necessario – quale esito di tale «investigatio» – che sia riconosciuto come vero, e dunque che esista, il termine di confronto conoscitivo che è identico in tutte le cose che sono ri-conoscibili secondo tale determinazione, e in base al quale (per con l’accusativo), e soltanto sulla base del quale, è possibile conoscerle in questo modo («per aliquid… quod intelligitur idem in diversis bonis»). Il principio grazie al quale («per quod») è possibile argomentare che tutte le cose sono buone è accolto come indubitabile («quis… dubitet») tanto quanto è indubitabile che esse siano buone; e in ragione dell’univocità di questo comune riconoscimento, esso è necessariamente uno («unum aliquid»), ed è buono per seipsum, perché Cfr. Id., De moribus Ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum, II, 11, 20, PL 32, [1309-1378], 1354, ed. J. B. Bauer, Wien 1992 (CSEL, 90), p. 106, 7-15: «Si ergo ratio convicerit, neminem de Deo peiora dicere quam vos, ubi erit memorabile oris signaculum? Docet enim ratio, nec sane recondita, sed in promptu sita et exposita omnium intellectui, sed invicta et eo invictior quod eam nemo ignorare permittitur, Deum esse incorruptibilem, incommutabilem, inviolabilem, in quem nulla indigentia, nulla imbecillitas, nulla miseria cadere possit. Usque adeo autem ista omnis anima rationalis communiter sentit, ut etiam vos cum dicuntur, annuatis». 10
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la sua bontà è senza principio, in quanto trascende il confronto con altre bontà che sono tali solo in quanto confrontate con essa. Sicché a tale principio può essere riservato in modo pieno il nome di bonum, perché è «summe bonum»; in quanto tale, è anche superiore a ogni altra cosa («summe magnum»); e dunque («igitur», formula che introduce sempre in queste pagine il concludersi di una argomentazione dialettica), poiché è presupposto dalla verità di ogni altra cosa che è, non può non esistere («est»). Il secondo capitolo ripropone stringatamente la medesima articolazione, con lo stesso linguaggio, in riferimento a una diversa connotazione delle cose finite, ossia il loro essere caratterizzate da una certa (maggiore, minore o pari) grandezza. Poiché tutte le cose sono conoscibili come grandi, esiste ciò in ragione di cui (per e l’accusativo) sono grandi: questo principio del loro essere grandi è uno («unum aliquid») ed è grande «per seipsum», in quanto è tale in ragione solo del proprio compiuto autodeterminarsi come grande. Non è dunque grande in quanto è più grande di altro, ma è grande in sé, perché conoscibile come tale per sé: la sua grandezza trascende il confronto con altre grandezze ed è un connotato assoluto del suo essere. Di tale principio può dunque in modo pieno essere predicato il nome di magnum, in quanto summe magnum, e come tale non può non esistere («necesse est… esse»), perché non è qualcosa che sia fatto essere grande dal confronto con altro, ma è grande in quanto esiste; e dunque esiste in quanto è grande. Nella stringatezza dell’esposizione, in questo secondo caso, il linguaggio anselmiano sembra ormai proporre un condensato della terminologia argomentativa emersa già nella prima argomentazione, che appariva più dettagliata anche se non meno rigorosamente ‘tecnica’: Sic ex necessitate colligitur aliquid esse summe magnum, quoniam quaecumque magna sunt, per unum aliquid magna sunt, quod magnum est per se ipsum. (…) Et quoniam non potest esse summe magnum nisi id quod est summe bonum, necesse est aliquid esse maximum et optimum, id est summum omnium quae sunt 11.
Monologion, 2, 146C-147A, p. 15, 17-22.
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Pur nella maggiore essenzialità, è opportuno notare in questo secondo percorso l’aperta inversione del confluire veritativo della nozione di grandezza somma in quella di somma bontà, rispetto al procedimento opposto in conclusione del primo passaggio: lì l’esistere del principio scaturiva dal fatto che, conoscibile in quanto sommamente buono, cioè buono in sé, non può non essere anche il più grande («sed quod est summe bonum, est etiam summe magnum»); qui si argomenta inversamente che il più grande, ossia ciò che è conoscibile come grande in sé, non può non essere anche il più buono («non potest esse summe magnum nisi id quod est summe bonum»), e quindi esistere come grande in sé («maximum») e come bene in sé («optimum»). Ma tra queste parole emerge in forma chiara e distinta il ricorso a un sintagma specifico e importante, la cui efficacia semantica non va sottovalutata: è sommamente grande solo «id quod est» sommamente buono. Nel bagaglio intellettuale dell’alto Medioevo il ricorso alla formula id quod est è facilmente riconducibile alla teologia degli Opuscula sacra di Boezio, alla cui fondazione metodologica risale probabilmente l’idea speculativa di fondo da cui Anselmo ha preso le mosse: l’idea, cioè, che il principio divino sia concepibile solo come forma pura, non semplicemente separata strumentalmente (mediante il pensiero) dalla materia, ma pensabile solo come forma assoluta, e quindi come autentico e puro «id quod est», non congiungibile ad alcuna determinazione (cioè non come ‘forma di qualcosa’), se non alla purezza della sua originaria unità e identità, e principio di ogni determinazione di tutte le cose che da essa sono derivate 12; e la famosa, primordiale divisione, nel terzo degli opuscoli boeziani noto con il titolo di De hebdomadibus, tra «esse» e «id quod est», ossia tra la condizione pura dell’essere senza alcuna altra deter Cfr. Severinus Boethius, De sancta Trinitate, PL 64, [1247-1256], 1250C-1251A, ed. C. Moreschini, München – Leipzig 2000, p. 170, 92 - 171, 120: «Sed divina substantia sine materia forma est atque ideo unum est, et est id quod est: reliqua enim non sunt id quod sunt. Unumquodque enim habet esse suum ex his ex quibus est, id est ex partibus suis (…). Q uod vero non est ex hoc atque hoc, sed tantum est hoc, illud vere est id quod est; et est pulcherrimum fortissimumque, quia nullo nititur. Q uocirca hoc vere unum, in quo nullus numerus, nullum in eo aliud praeterquam id quod est. (…) Nulla igitur in eo diversitas, nulla ex diversitate pluralitas, nulla ex accidentibus multitudo atque idcirco nec numerus». 12
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minazione e l’essere che è, ossia esiste, in quanto è determinato da una qualche modalità che non è semplicemente il suo essere. Il che comporta, secondo Boezio, una distinzione specifica, fondamentale per il sapere teologico, anche tra l’essere di ciò che è in quanto è soltanto l’«esse» (ossia «id quod est esse») e ciò che è in quanto partecipa dell’essere per essere qualcosa che è qualcosa (ossia «id quod est» altro dal puro essere) 13. Ne risulta che la somma bontà e la somma grandezza si sostengono reciprocamente, in uno strettissimo circolo ermeneutico di identità esistenziale, palesato da Anselmo con parole inequivocabili, secondo cui «id quod est per se ipsum bonum» è anche «id quod est per se ipsum magnum». Da tale identità scaturisce quindi, necessariamente, come un terzo identico, un nuovo termine indicativo di una determinazione conoscibile, che sarà riconosciuto in «id quod est per se ipsum esse»: perché la congiunzione e sovrapposizione di bontà e grandezza è indicativa di un’identità esistenziale, che appare subito essere, essa stessa, in modo evidente, un terzo connotato significativo della realtà del principio. Q uesto nuovo connotato viene quindi immediatamente sottoposto ad analisi nei due passaggi successivi. Innanzi tutto il principio che è sommamente buono e sommamente grande non può che essere colto anche come «summum omnium quae sunt»; ossia come l’essere sommamente vero, ri-conoscibile quale ‘essere in sé’ solo in quanto è, e non per altre connotazioni che ne esplichino l’esistere; e del quale dunque l’essere è predicabile in modo più diretto e autentico di quanto non lo sia di tutte le altre cose che sono, perché queste sono in ragione dell’essere che le fa essere (e dunque non sono pienamente «id quod sunt», ma sono qualcosa che è e che è insieme qualcosa di altro dal proprio essere), mentre l’essere in sé è in ragione soltanto di se stesso (e dunque è «id quod est esse»). La stringatezza dell’argomentazione evidenzia il ridursi di tutto all’affermazione per cui il principio è «id quod est»:
Cfr. Id., Q uomodo substantiae… [De Hebdomadibus], PL 64, [1311-1314], 1311B, ed. Moreschini, p. 187, 26-28: «Diversum est esse et id quod est; ipsum vero esse nondum est, at vero quod est, accepta essendi forma, est atque consistit». 13
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Denique non solum omnia bona per idem aliquid sunt bona, et omnia magna per idem aliquid sunt magna, sed quidquid est per unum aliquid videtur esse 14.
La terza articolazione del procedimento che evidenzia l’esistenza di Dio scaturisce dunque senza soluzione di continuità dalle due precedenti. Poiché le cose che sono, già conoscibili come buone e come grandi, sono senz’altro conoscibili anche come cose che sono, e dunque come cose che esistono 15, allora, così come la loro ri-conoscibilità quali buone e grandi è rispettivamente resa possibile dall’individuare la loro ragione di esser buone e grandi in qualcosa («per aliquid») che esiste in quanto principio della conoscibilità del bene in sé e della grandezza in sé, allo stesso modo la loro ri-conoscibilità come cose che sono («quidquid est»), ma che non sono semplicemente il loro stesso essere puro, è resa possibile dall’individuare la loro ragione di essere in quanto cose che sono in qualcosa («per aliquid») che è come tale in ragione solo del proprio compiuto autodeterminarsi come esistente, ed è dunque ragione di ogni essere (il proprio, e quello delle cose che sono soltanto in quanto sono in relazione con esso): Omne namque quod est aut est per aliquid aut per nihil. Sed nihil est per nihil. Non enim vel cogitari potest, ut sit aliquid non per aliquid. Q uidquid est igitur, non nisi per aliquid est. Q uod cum ita sit, aut est unum, aut sunt plura, per quae sunt cuncta quae sunt. Sed si sunt plura, aut ipsa referuntur ad unum aliquid per quod sunt, aut eadem plura singula sunt per se, aut ipsa per se invicem sunt: at si plura ipsa sunt per unum, iam non sunt omnia per plura, sed potius per illud unum per quod haec plura sunt; si vero ipsa plura singula sunt per se, utique est una aliqua vis vel natura existendi per se quam habent ut per se sint: non autem est dubium quod per id ipsum unum sint, per quod habent ut sint per se. (…) Ut vero plura per se invicem sint, nulla patitur ratio, quoniam irrationabilis cogitatio est, ut aliqua res sit per illud cui dat esse. (…) Cum itaque veritas omnimodo excludat plura esse per quae cuncta sint, necesse est unum illud esse per quod sunt cuncta Monologion, 3, 147B, p. 15, 27-29. L’argomentazione si fonda infatti sulla valenza esistenziale (come ‘esistere’) che ha in latino il verbo esse quando è assoluto, ossia quando non introduce un predicato. 14
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quae sunt. Q uoniam ergo cuncta quae sunt sunt per ipsum unum, proculdubio et ipsum unum est per seipsum 16.
Se le cose non fossero «per aliquid», allora sarebbero «per nihil»: ma non può neanche essere pensato («non vel cogitari potest») 17, ossia non può essere conosciuto, qualcosa che (non) abbia in ‘nulla’ la sua ragione di essere. Tutte le cose sono dunque in ragione di qualcosa. Immediatamente si palesa allora che questo qualcosa non può che essere uno («unum aliquid»): perché le molteplici ragioni dell’essere delle cose o sono tali «per illud unum» oppure «per se»; ma anche in questo secondo caso l’efficacia che le fa essere «per se» si riconoscerebbe come uguale in tutte («utique est una aliqua vis vel natura existendi per se»), e sarebbe questa efficacia quel qualcosa di unitario in ragione di cui («per quod») tali ragioni dell’essere delle cose molteplici troverebbero a loro volta la ragione del loro essere («habent ut sint per se»). Escluso anche che possano essere reciprocamente le une ragione dell’altra, altrimenti si entrerebbe in un inefficace circolo vizioso («irrationabilis cogitatio»), per cui una cosa troverebbe la propria ragione di essere in ciò di cui è essa stessa ragione di essere, allora è certo che tutte le cose sono in ragione di qualcosa di unico («per ipsum unum»), che è soltanto in ragione del proprio essere se stesso e del proprio assoluto autodeterminarsi come esistente («et ipsum unum est per seipsum»). Di esso, in quanto «unum», si può dunque predicare in modo pieno il nome «est», perché solamente in ragione di se medesimo («per se») è illud quod est, ed è quindi ciò che maxime omnium est, in ragione del quale («per quod») esiste tutto ciò che esiste come determinato nella bontà, nella grandezza e nell’essere stesso («est quidquid est bonum vel magnum et omnino quidquid aliquid est»): e dunque non può che essere (cioè esistere), come era stato anticipato al termine dell’argomentazione precedente, ed essere il summe bonum
Ibid., 147B-148A, pp. 15, 29 - 16, 19. Nel linguaggio anselmiano la particella vel, in accordo con l’uso tardoantico, ha talvolta valore avverbiale (‘almeno’, ‘se non altro’, saltem, o – nelle negative – ‘neanche’, ‘nemmeno’); cfr. J. B. Hoffmann – A. Szantyr, Lateinische Syntax und Stilistik, München 1965 (19722) (Handbuch der Altertumswissenschaft, 2.2.2), p. 502e. 16
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e quindi l’optimum, il summe magnum e quindi il maximum, e il summum omnium quae sunt e quindi l’esse per se. Il quarto capitolo, innestandosi sull’imbastitura argomentativa che ha appena congiunto concettualmente bontà, grandezza ed essere, procede osservando che se tutte le cose sono più o meno buone in varia relazione a quel principio in ragione del quale sono determinate come diverse bontà; e se sono più o meno grandi in varia relazione a quel principio in ragione del quale sono determinate come diverse grandezze; e se sono più o meno qualcosa che è in varia relazione a quel principio in ragione del quale sono determinate come cose che sono in modo diverso; è allora inevitabile ammettere, e non si può negare, che le cose sono tutte conoscibili come collocate in una variata graduazione di perfezione. Ma questa graduazione di perfezioni non sarebbe tale se fosse infinita e se non fosse invece chiusa al suo vertice da un grado superiore che è la ragione stessa per cui vengono determinati i gradi inferiori. Al grado superiore, perché sia veramente tale, non può che collocarsi una natura unica che non ammette confronti con altre nature, e che è dunque ciò per quod tutte le altre nature sono più o meno graduate in dignità. Poiché le cose sono collocate in diversi gradi di dignità, ossia come dotate di dignità maggiore o minore le une rispetto alle altre, proprio in quanto sono buone, o grandi, o comunque in quanto sono qualcosa (aliquid) di diverso dalle altre, è vero ed esiste ciò in ragione di cui le cose sono riconoscibili come dotate di maggiore o minore dignità le une rispetto alle altre: e ciò che è tale, ancora una volta deve essere riconosciuto come coincidente con il «maximum» e «optimum», per la sua collocazione al vertice della graduazione ontologica universale: Restat igitur unam et solam aliquam naturam esse, quae sic est aliis superior ut nullo sit inferior. Sed quod tale est, maximum et optimum est omnium quae sunt. Est igitur quaedam natura quae est summum omnium quae sunt. Hoc autem esse non potest nisi ipsa sit per se id quod est et cuncta quae sunt sint per ipsam id quod sunt 18.
Monologion, 4, 149BC, p. 17, 18-29.
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Con ciò anche la prova fondata sulla graduazione rientra nella perfetta e circolare triadicità delle determinazioni perfette del principio assoluto, convergenti tutte verso l’identità e l’assolutezza della sua perfezione. Riassumendo i quattro percorsi, distinti ma paralleli e tra loro saldati, quasi diverse modulazioni di un’unica esperienza concettuale 19, verso la fine del quarto capitolo Anselmo dà corpo all’esito unitario e coeso della riflessione in essi descritta mediante una rapida sintesi, la cui essenzialità lessicale è palese effetto di un intenzionale tecnicismo: Q uare est quaedam natura vel substantia vel essentia quae per se est bona, et magna, et per se est hoc quod est, et per quam est quidquid vere aut bonum aut magnum aut aliquid est, et quae est summum bonum, summum magnum, summum ens sive subsistens, id est summum omnium quae sunt 20.
3. Il Monologion e i princìpi della dialettica Del procedimento sviluppato nei quattro ‘modi’ che conducono nel Monologion al ri-conoscimento dell’esistenza del summum omnium quae sunt Anselmo poteva trovare illustri precedenti nella letteratura teologica di età patristica e alto-medievale. In generale, però, è quanto mai evidente il debito che egli ha contratto, come fondamento ideale della sua metodologia, con la concezione agostiniana della conoscenza come ascesa del pensiero dalla determinazione particolare del sensibile alla perfezione dell’intelligibile corrispondente, «per visibilia ad invisibilia» 21. In una interessante pagina dalla ventitreesima delle Diversae quaestiones LXXXIII, mirante ad argomentare la plausibilità razionale delle relazioni trinitarie in Dio, Agostino afferma l’opportunità 19 Cfr. P. Gilbert, «Id est summum omnium quae sunt» (Saint Anselme, «Monologion», chap. I-IV), in «Revue philosophique de Louvain», 82 (1984), pp. 199-223. 20 Monologion, ibid., 150A, pp. 17, 32 - 18, 3. 21 Cfr. il famoso passaggio in Aurelius Augustinus, Retractationes, I, 5, 6, PL 32, [581-656], 591, ed. A. Mutzenbecher, Turnhout 1984 (CCSL, 57), p. 17, 40-44: «Per idem tempus, quo Mediolani fui baptismum percepturus, etiam disciplinarum libros conatus sum scribere (…), per corporalia cupiens ad incorporalia quibusdam quasi passibus certis vel pervenire vel ducere».
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del prendere le mosse dalla constatazione di come tutto ciò che è significato mediante una determinazione positiva (casto, eterno, bello, buono, sapiente) sia conoscibile come tale in ragione dello stabilirsi di una sua relazione con il principio da cui tali determinazioni derivano (la castità, l’eternità, la bellezza, la bontà, la sapienza). Mentre però le cose particolari per essere determinate partecipano in modo sempre imperfetto del principio che assicura la loro determinazione, ossia attraverso varie gradazioni, limitazioni e anche eventuali privazioni di essa, il principio della determinazione è tale perché è a sua volta determinato in modo non imperfetto, ma sostanziale e assoluto. Perciò, conclude Agostino, mentre tutte le creature sono determinate (come caste, eterne, belle, buone, sapienti) per via di partecipazione (participatio) e quindi in modo imperfetto, Dio è perfettamente determinato proprio in quanto in quanto è il principio determinante stesso (e quindi è la castità, l’eternità, la bellezza, la bontà, la sapienza) 22.
Cfr. Id., De diversis quaestionibus octoginta tribus, 23, PL 40, [11-100], 16-17, ed. A. Mutzenbecher, Turnhout 1975 (CCSL, 44A), p. 27, 2 - 28, 35: «Omne castum castitate castum est, et omne aeternum aeternitate aeternum est, et omne pulchrum pulchritudine, et omne bonum bonitate; ergo et omne sapiens sapientia, et omne simile similitudine. Sed duobus modis castum castitate dicitur: vel quod eam gignat, ut ea sit castum castitate quam gignit et cui principium atque causa est ut sit; aliter autem cum participatione castitatis quidque castum est, quod potest aliquando esse non castum; atque ita de caeteris intelligendum. Nam et anima aeternitatem vel intelligitur vel creditur consequi, sed aeterna aeternitatis participatione fit. Non autem ita aeternus Deus, sed quod ipsius aeternitatis est auctor. Hoc et de pulchritudine et de bonitate licet intelligi. Q uamobrem cum sapiens Deus dicitur et ea sapientia sapiens dicitur, sine qua eum vel fuisse aliquando vel esse posse nefas est credere, non participatione sapientiae sapiens dicitur sicuti anima, quae et esse et non esse sapiens potest, sed quod eam ipse genuerit qua sapiens dicitur sapientiam. Item illa quae participatione sunt vel casta vel aeterna vel pulchra vel bona vel sapientia recipiunt, ut dictum est, ut possint nec casta esse nec aeterna nec pulchra nec bona nec sapientia: at ipsa castitas, aeternitas, pulchritudo, bonitas, sapientia, nullo modo recipiunt aut corruptionem, aut, ut ita dicam, temporalitatem aut turpitudinem aut malitiam. Ergo etiam illa quae participatione similia sunt recipiunt dissimilitudinem. At ipsa similitudo nullo modo ex aliqua parte potest esse dissimilis. Unde fit ut cum similitudo Patris Filius dicitur – quia eius participatione similia sunt quaecumque sunt vel inter se vel Deo similia (ipsa est enim species prima, qua sunt, ut ita dicam, speciata, et forma qua formata sunt omnia), ex nulla parte Patri potest esse dissimilis. Idem igitur quod Pater, ita ut iste Filius sit ille Pater, id est iste similitudo ille cuius similitudo est, ex quo una substantia. Nam si non una, recipit similitudinem similitudo, quod fieri posse omnis verissima negat ratio». 22
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Ora, che Anselmo abbia effettivamente utilizzato questo precedente agostiniano oppure no, è evidente come nel comporre i primi capitoli del Monologion egli abbia spinto proprio questa tipologia di processo argomentativo fino a incontrarsi con l’evidenza del fatto che il principio determinante, se veramente è tale in base ad una riflessione sull’esistenza delle cose create, non può non esistere realmente. Cosicché, una volta acquisito che esiste ciò in ragione di cui («per quod») le cose, secondo verità («vere»), sono determinate come bontà, quantità, essere, e sono esistenti, e chiarito che tale principio è per se ciascuna di queste determinazioni, Anselmo può facilmente lasciarsi guidare dal principio della aequivocitas logica, fino a riconoscere come del principio possano legittimamente essere predicati tutti i singoli nomi corrispondenti a tali determinazioni, subordinandoli però ad una comune connotazione medante l’aggettivo «summus», che indica la pienezza e l’assolutezza di tale predicazione: summum bonum, summum magnum, summum ens, summum subsistens 23. Cosicché i quattro nomi di Dio sono fatti confluire in un ultimo nome, comprensivo di tutte le determinazioni implicite in essi, che esprime con pienezza la trascendenza rispetto a ogni determinazione: summum omnium quae sunt. Tutti questi nomi del principio, i primi quattro e l’ultimo in cui i primi convergono, sono in effetti dei ‘predicati’, la cui adeguata utilizzazione è subordinata alle regole della dialectica, la seconda delle arti del trivium, che governa le modalità del linguaggio veridico 24. Prima di tutto, perciò, perché essi, in quanto 23 Il principio dell’aequivocitas (o ‘omonimia’) è una delle regole degli antepraedicamenta, che sono le regole introduttive alla dottrina delle categoriae, e quindi una delle premesse costitutive dell’intero sapere dialettico, e consiste nella possibilità di ricomprendere i singoli termini significanti entro famiglie di maggiore estensione semantica (come quando le specie vengono fatte rientrare nel genere superiore ad esse corrispondente); cfr. G. d’Onofrio, Fons scientiae. La dialettica nell’Occidente tardo-antico, Napoli 1986 (Nuovo Medioevo, 31), pp. 165-168. I principali testi di riferimento per tale dottrina sono il primo capitolo delle Categoriae aristoteliche e il corrispondente commento di Boezio (in PL 64, 163B-168D). 24 Sulla dialettica in Anselmo, cfr. G. d’Onofrio, «Respondeant pro me». La dialectique anselmienne et les dialecticiens du Haut Moyen âge, in Saint Anselm – A Thinker for Yesterday and Today. Anselm’s Thought Viewed by our Contemporaries, Proceedings of the International Anselm Conference (Centre National de Recherche Scientifique, Paris), ed. by C. Viola – F. Van Fleteren,
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tutti comunemente connotati dall’aggettivo «summus», possano essere riconosciuti ‘veri’, è necessario che al soggetto logico di cui sono predicati corrisponda un ambito semantico massimamente esteso, tale da poter accogliere la massima predicabilità dei termini bonum, magnum, ens e subsistens. Dovrà cioè essere un ‘soggetto sommo’: e proprio questo è il senso del ricorso anselmiano, fin dal primo capitolo dell’opera, alla circolare equivocità delle parole natura, substantia e essentia, tutte utilizzate nell’alto Medioevo dai teologi esperti di terminologia dialettica per designare il soggetto più universale possibile di qualsiasi predicazione determinata 25: ossia la prima delle dieci categorie aristoteliche, di cui sono predicate tutte le altre. E per potere accogliere in sé la massima estensione del significato dei predicati bonum, magnum, ens e subsistens, questo soggetto dovrà essere designato come summa natura, summa substantia, summa essentia, ancora una volta non in ragione di altro (non per aliud), ma solo per se: l’«essentia, sive substantia, sive natura» che «per se est bona, et magna, et per se est hoc quod est» 26. Non sarà allora sbagliato riconoscere nelle quattro determinazioni che rimandano all’esistenza di Dio come principio della loro verità e della loro conoscibilità una applicazione distinta ed ordinata dei processi conoscitivi che i maestri di dialettica hanno fatto corrispondere alle prime fra le nove categorie che seguono la substantia, ossia quelle che della substantia determinano nel primo possibile modo conoscitivo la realtà in sé: qualità, quantità e relazione. Lewiston – Q ueenston – Lampeter 2002, pp. 29-49 [parzialmente ripreso e rielaborato nel capitolo 4 («The divine logic») di Id., Vera philosophia. Studies in Late Antique, Early Medieval and Renaissance Christian Thought, Turnhout 2008 (Nutrix, 1), pp. 209-264 (vers. it., Roma 2013, pp. 193-242)]. 25 Cfr. Alcuinus Eboracensis, Epistola ad Arnonem, PL 100, 418A-418C, in Id., Epistolae, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, IV (Epistolae Karolini aevi, II), Berlin 1895, pp. 426, 30 - 427, 9: «Q uod vero me interrogare vestram sanctitatem placuit, quid sit inter substantiam, essentiam, et subsistentiam (…), sciendum est quod essentia proprie de Deo dicitur, qui semper est quod est; (…) substantia vero commune est nomen omnium rerum quae sunt (…): Deus igitur substantia est, et summa substantia et prima substantia, et omnium substantiarum causa; (…) naturam vero Dei libera voce dicimus, quia omnis natura natura est, et maxime illa quae sola vera est natura, quia semper est quod est, quia nullatenus de ea natura, qua semper est, mutabilis est in aliam quamlibet naturam». 26 Monologion, 3, 148B, p. 16, 26-27.
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È infatti evidentemente implicata nel primo percorso la predicazione della categoria qualitas, riconoscibile nella più generica e significante forma di qualità, quella della bontà: Cum tam innumerabilia bona sint, quorum tam multam diversitatem et sensibus corporeis experimur et ratione mentis discernimus, estne credendum esse unum aliquid, per quod unum sint bona quaecumque bona sunt, an sunt bona alia per aliud 27?
La quantitas è facilmente riconoscibile nella nozione di grandezza: Sic ex necessitate colligitur aliquid esse summe magnum, quoniam quaecumque magna sunt, per unum aliquid magna sunt, quod magnum est per seipsum 28.
La relazione, infine, viene messa in campo da Anselmo con il medesimo procedimento, ma tenendo conto di due possibili forme di predicazione che questa categoria può assumere, ossia fra due sostanze o tra due accidenti dello stesso genere. Per prima la relatio tra substantiae, riconoscibile nella predicazione dell’esistere in base a condizionamenti reciproci, è esplicitamente evocata da Anselmo nel capitolo terzo con l’esempio classico della relazione tra padrone e servo: Cum enim dominus et servus referantur ad invicem, et ipsi homines qui referuntur non omnino sunt per invicem, et ipsae relationes quibus referuntur non omnino sunt per invicem, quia eaedem sunt per subiecta. Cum itaque veritas omnimodo excludat plura esse per quae cuncta sint, necesse est unum illud esse, per quod sunt cuncta quae sunt. Q uoniam ergo cuncta quae sunt, sunt per ipsum unum, proculdubio et ipsum unum est per seipsum 29.
Nella relatio tra le qualitates e le quantitates, ossia tra le prime determinazioni categoriali-accidentali delle substantiae, emerge 27 Ibid., 1, 145B, p. 14, 5-9. Nel corso del capitolo, Anselmo illustra ulteriormente la nozione di ‘bontà’ rifacendosi a qualità positive, come la giustizia (145C, p. 14, 13-15), oppure la forza e la velocità del cavallo (145D-146A, p. 14, 19-22), ecc. 28 Ibid., 2, 146C, p. 15, 17-19. 29 Ibid., 3, 147C, p. 16, 12-19.
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invece la possibilità della predicazione di gradi di dignità, maggiore o minore nel rapporto tra le cose finite, su cui è fondato il quarto processo argomentativo del Monologion: Q uidquid enim per aliud est magnum, minus est quam id, per quod est magnum. Q uare non sic sunt magnae, ut illis nihil sit maius aliud. Q uod si nec per hoc quod sunt, nec per aliud possibile est tales esse plures naturas quibus nihil sit praestantius, nullo modo possunt esse naturae plures huiusmodi. Restat igitur unam et solam aliquam naturam esse, quae sic est aliis superior, ut nullo sit inferior. Sed quod tale est, maximum et optimum est omnium quae sunt 30.
4. Dalla pensabilità del divino alla creazione, dall’unità alla trinità: Anselmo e la triade neoplatonica Nel quinto capitolo del Monologion Anselmo passa a chiedersi se, come è assolutamente evidente che tutte le cose sono «per summam substantiam», non sia lecito, conseguentemente, dedurne che tutte le cose siano anche «ex illa». Poiché infatti le cose finite sono vere solo in ragione della verità di Dio, è anche necessario ammettere che esse esistono perché sono causate dall’esistenza di Dio, causa prima e incausata, perché proprio la sua assoluta causalità è ragione della loro partecipazione (accidentale) ai caratteri (sostanziali) della sua substantia o natura: Iuvat indagare utrum haec ipsa natura et cuncta quae aliquid sunt non sint nisi ex ipsa, quemadmodum non sunt nisi per ipsam. Sed liquet posse dici quia quod est ex aliquo, est etiam per id ipsum, et quod est per aliquid, est etiam ex eo ipso, quemadmodum quod est ex materia et per artificem, potest etiam dici esse per materiam et ex artifice, quoniam per utrumque et ex utroque id est ab utroque habet ut sit, quamvis aliter sit per materiam et ex materia, quam per artificem et ex artifice 31.
30 Ibid., 4, 149BC, p. 17, 20-26. E cfr. ibid., 15, 163C-164A, p. 29, 21-26: «[Deus] non est igitur corpus vel aliquid eorum, quae corporei sensus discernunt. Q uippe his omnibus melius est aliquid, quod non est quod ipsa sunt. Mens enim rationalis, quae nullo corporeo sensu quid vel qualis vel quanta sit percipitur, quanto minor esset, si esset aliquid eorum quae corporei sensibus subiecent, tanto maior est quam quodlibet eorum». 31 Ibid., 5, 150AB, p. 18, 7-14.
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Essendo stato accertato che tutte le cose, e la stessa summa natura o substantia, sono tutte quello che sono (e non sono altro) per ipsam, ossia in ragione del modo di essere pieno e perfetto di essa, allora è anche possibile riconoscere che tutte le cose e la stessa summa natura o substantia sono ex illa, ossia sono perché sono causate dalla perfetta causalità produttrice di essa, la sola ad essere ex se. È infatti evidente («liquet posse dici») che l’essere ex qualcosa implica necessariamente anche l’essere per questo qualcosa, e che questo rapporto si può pienamente convertire, per cui l’essere per qualcosa equivale necessariamente all’essere ex qualcosa. Ciò che è ragione (per) dell’essere di qualcosa in un certo modo è evidentemente anche la causa produttiva (ex) del suo essere. Tra questi due termini (ex aliquo e per aliquid) sussiste infatti una reciprocità totale, come è evidente dall’esempio che Anselmo introduce immediatamente dopo: ciò che è, è in un certo modo in ragione sia di come lo determina il pensiero dell’artefice che lo produce (per), sia di come lo condiziona la materia dalla quale l’artefice lo produce (ex); ma è inversamente vero anche che la cosa medesima è in ragione sia di come lo determina la materia (per), sia di come lo condiziona l’intervento dell’artefice (ex). Q uesto linguaggio è esito di un artificio intenzionale, con il quale Anselmo si impegna tecnicamente a distinguere l’idea di partecipazione (per ipsam) da quella di causalità produttiva (ex ipsa). A un orecchio assuefatto con il linguaggio teologico latino tardo-antico e alto-medievale appare però con chiarezza anche il connettersi di tali espressioni con il linguaggio paolino – che si sofferma su formule come «quoniam ex ipso et per ipsum et in ipso sunt omnia» (Rm 11, 36), oppure «ex quo omnia, et nos in ipso, et unus Dominus Iesus Christus, per quem omnia et nos per ipsum» (1Cor 8, 6) – ampiamente evocato, in riferimento anche al mistero trinitario, negli scritti dei Padri della Chiesa 32. Ma l’efficace pregnanza teologica di queste sintesi pronominali è frequente anche presso gli autori dell’alto Medioevo. Anselmo le apprezza in modo particolare per la loro capacità di esprime Cfr. Ambrosiaster, In Epistolam ad Romanos, 11, 36, 1-2, PL 17, [45184], 155CD, ed. H. J. Vogels, 3 voll., Wien 1966-1969 (CSEL, 81/1-3), I, p. 390, 22-26: «Q uia enim omnium creator est Deus – fecit enim ea quae non erant, ut essent –, ideo ex ipso sunt omnia. […] Q uia ergo ipse operatur per Filium, per ipsum sunt omnia». 32
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re, sotto l’egida della Rivelazione, la purezza metafisica di quanto la ragione umana può intendere del rapporto tra l’opera creatrice divina e la sua efficacia nell’esistere delle creature. In questo il suo stile è stato modello per le successive generazioni di teologi 33, fino a un primo delinearsi, presso in particolare alcuni testimoni della scuola porretana, della teoria teologica degli attributi divini come trascendentalia 34. Tornando alle pagine iniziali del Monologion, è evidente come solo una reciproca interazione tra linguaggio divino e umano (tra i tecnicismi dell’argomentazione filosofica e la densità delle formule scritturali) consenta di capovolgere l’argomentazione sull’esistenza di Dio come principio della conoscibilità delle modalità relative nelle cose (nei primi quattro capitoli) in una (successiva) argomentazione sull’esistenza causata delle cose come effetto dell’esistenza causante di Dio (nel quinto). Il che conferma ulteriormente che l’esistenza di Dio non è dimostrata da Anselmo in ragione della sua causalità; al contrario, una volta ammessa come principio dell’intelligibilità della vera esistenza degli esseri creati, l’esistenza necessaria di Dio porta come conseguenza logica all’ammissione della sua causalità creatrice: Consequitur ergo ut quomodo cuncta quae sunt per summam sunt naturam id quod sunt, et ideo illa est per seipsam, alia vero per aliud, ita omnia quae sunt sint ex eadem summa natura, et idcirco sit illa ex seipsa, alia autem ex alio 35.
Cosciente della distanza che in questo modo viene a delinearsi tra due diverse prospettive aperte dalla logica umana sul divino – Dio come ragione per cui le cose sono nei modi in cui sono 33 Cfr. per esempio in Guiberto di Nogent, l’idea che la verginità conduce il monaco ad assimilarsi alla condizione di stabilità e immutabilità dell’essere originario, concepibile come uno stato nel quale sussiste solo ciò che è «per se et ex se et in se existens», e non è affetto da nulla di tutto ciò che è «per aliquid aut ex aliquo»; cfr. Guibertus Novigentensis, De virginitate, 2, PL 156, [579-608], 582CD. Su Guiberto cfr. C. Marabelli, Ricordi di Guiberto di Nogent, in Eadmero e Giovanni di Salisbury, Vite di Anselmo d’Aosta, a c. di I. Biffi – A. Granata – S. M. Malaspina – C. Marabelli, Milano 2009, pp. 459-473. 34 Su questa tematica rimando al mio studio Q uando la metafisica tornò in Occidente. Ugo Eteriano e la nascita della theologia, in «Aquinas», 55.1-2 (2012), pp. 67-106. 35 Monologion, 5, 150AB, p. 18, 14-17.
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e Dio come causa da cui deriva che le cose siano quello che sono – nel sesto capitolo Anselmo sente il dovere di conciliarle, mostrando che sono due momenti complementari di un’unica riflessione sulla natura divina, perché in sé unico e identico è il principio per quem ed ex quo le cose sono 36. Ma non è cosa facile, per la mente umana, distinguere ciò che è in sé indistinguibile, mantenendone, come è doveroso, l’assolutà identità. E come spesso accade in casi di questo genere, in cui l’intelligenza è portata a toccare e a non poter oltrepassare i limiti che essa stessa si è posta, lo scrivente cede volentieri al soccorso di una similitudine attinta al mondo naturale: Q uomodo ergo tandem [scil. summa substantia] esse intelligenda est per se et ex se, si nec ipsa se fecit, nec ipsa sibi materia extitit, nec ipsa se quolibet modo, ut quod non erat esset, adiuvit? Nisi forte eo modo intelligendum videtur, quo dicitur quia lux lucet vel lucens est per seipsam et ex seipsa. Q uemadmodum enim sese habent ad invicem lux, et lucere, et lucens, sic sunt ad se invicem essentia, et esse, et ens (hoc est existens sive subsistens). Ergo summa essentia, et summe esse, et summe ens id est summe existens sive summe subsistens, non dissimiliter sibi convenient, quam lux et lucere et lucens 37.
Per aiutare la mente a intendere l’identità, in un soggetto unico, della sua assoluta sussistenza per se ed ex se, Anselmo suggerisce come percorso mentale possibile – introducendolo con la formula «nisi forte», che evidenzia una svolta mentale, una marcata alternativa –, il ricorso a una similitudine con la natura della luce: a proposito della quale – sottacendo il fatto che è presentata dalla Scrittura come prima tra le creature (Gn 1, 3-4), e dunque come la più vicina alla sussistenza originaria del Creatore – è facile osservare che è anch’essa qualcosa che è, e che è per seipsam e che è ex seipsa. Q uesta vivace somiglianza di una creatura con il modo di sussistere del principio consente all’intelligenza di accostarsi («intelligendum videtur»), mediante la comprensione di un ‘modo’ determinato («eo modo»), all’intuizione del ‘modo’ superiore e ineffabile del principio divino («quo-modo»). 36 Cfr. ibid., 6, 151B, p. 18, 22-23: «Q uaerendum est diligentius quomodo per summam naturam vel ex ipsa sint omnia quae sunt». 37 Ibid., 152CD, p. 20, 11-19.
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Così, infatti, si dice che la «lux» illumina («lucet») ed è luminosa («lucens est»): un soggetto unico è illuminante ed è lucente, e il suo essere non è diverso dall’essere illuminante e dall’essere lucente. La luce è infatti luce in sé; ma è anche il principio che consente di riconoscere la luce in essa stessa e nelle cose illuminate, cioè che partecipano della luce, grazie ad essa, «per seipsam»; ed è causa dell’essere luce di se stessa e delle altre cose lucenti, «ex seipsa». Q ueste tre distinte connotazioni della creatura ‘luce’ non possono però essere disgiunte tra loro, perché solo nella loro triplice convergenza e coerenza la complessiva realtà ontologica del soggetto (ciò che la luce veramente è) viene compiutamente espressa: Anselmo dice «sibi conveniunt». Ma allora, se è possibile coglierla in una creatura, nella più semplice e più intelligibile fra le creature, questa relazione interna e circolare fra tre condizioni fondative del suo essere potrà essere ricercata e ritrovata anche in altre creature, inferiori; e, in consonanza con il fondamentale modello teologico del De Trinitate agostiniano, diventa un grimaldello per scoprire tra le creature, che recano nelle pieghe più profonde del loro esistere le tracce visibili della causa divina, un indizio ragionevole delle condizioni di essere del divino stesso. Con una rapida, ma decisiva precisazione, Anselmo evidenzia quanto sia utile, per intuire la verità della natura divina, il riflesso di tale rapporto, intelligibile nelle creature, tra il soggetto, la sua capacità e la sua efficacia: «Q uemadmodum enim sese habent ad invicem lux, et lucere, et lucens, sic sunt ad se invicem essentia, et esse, et ens (hoc est existens sive subsistens)» 38. La grammatica sostiene con le sue regole l’immagine anselmiana, suggerendo tre momenti rigorosamente scanditi da: un sostantivo («lux», soggetto); un verbo connesso alla radice di tale sostantivo e predicato all’infinito presente, per indicare l’apertura a tutte le possibili concretizzazioni particolari del suo significato («lucere»); e lo stesso verbo al participio presente, per esprime invece l’attuazio38 Ho precisato con virgole e parentesi in questa proposizione comparativa la punteggiatura dell’edizione Schmitt in modo da consentire meglio nelle due serie la distinzione dei tre elementi di questa triade concettuale, e la coincidenza nel terzo della serie di concetti («ens», «existens» e «subsistens») che documentano la sovrapponibilità di funzione predicativa e sostantiva nel verbo esse (su cui cfr. supra, alla nota 15).
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ne operante di tale significato in effettive determinazioni concrete («lucens»). E così, nello stesso modo in cui «sibi conveniunt» nella luce il soggetto, la capacità e l’efficacia dell’illuminare, così in Dio, nel quale tutto ciò che è un valore nelle creature non può non essere riconosciuto al sommo grado («summe»), convergono in perfetta simmetria («sibi conveniunt») il soggetto, che è principio di tutte le cose, la capacità, di essere principio di tutte le cose, e l’efficacia, con cui effettivamente è principio di tutte le cose. La «summa essentia» è dunque al tempo stesso, in sé come nel rapporto con qualsiasi altra cosa, un «summe esse» (la possibilità piena di essere e di far essere tutto ciò che è, «per seipsum» e «per ipsum») e un «summe ens» o «existens» o «subsistens» (l’efficacia piena nell’essere e far essere tutto ciò che è, «ex seipso» e «ex ipso»). Varie giustificazioni di questa terminologia possono venire in mente allo storico della filosofia, nella ricerca di fonti che supportino adeguate interpretazioni per comprenderne la complessità. La sola corretta metodologia è tuttavia quella che si fonda su una valutazione storico-linguistica diretta e autosufficiente (cioè esente da paragoni arrischiati) del linguaggio messo in opera dall’autore in questi primi capitoli del Monologion. Sarebbe insoddisfacente, in questo caso, riproporre il confronto con la composizione binaria di esse e id quod est enunciata negli Opuscula sacra boeziani 39, e tanto meno con l’interpretazione che ne ha poi proposto Tommaso d’Aquino 40. La terminologia qui evocata Cfr. supra, alle note 12 e 13. Cfr. Thomas Aq uinas, Expositio libri Boetii de hebdomadibus, II, ed. cura et studio Fratrum Praedicatorum (ed. Leonina, L), Roma 1992, pp. 270b, 36 - 271a, 45: «Dicit ergo primo quod ‘diversum est esse et id quod est’, quae quidem diversitas non est hic referenda ad res de quibus adhuc non loquitur, sed ad ipsas rationes seu intentiones. Aliud autem significamus per hoc quod dicimus esse et aliud per id quod dicimus id quod est, sicut et aliud significamus cum dicimus currere et aliud per hoc quod dicitur currens. Nam currere et esse significatur in abstracto, sicut et albedo; sed quod est, id est ens et currens, significatur in concreto velut album». Nonostante l’apparente vicinanza terminologica, sarebbe fuorviante, tenendo conto della diversità di prospettiva metafisica che le ispira, avvicinare la formula anselmiana, come se ne fosse una anticipazione, alla coppia tommasiana di essentia ed esse, secondo cui l’ens è ciò che ha l’esse quando partecipa dell’essentia; cfr. Id., De ente et essentia, 1, ed. cura et studio Fratrum Praedicatorum (ed. Leonina, XLIII), Roma 1976, pp. 369b, 22-26 e 370a, 50-52: «Oportet ut essentia significet aliquid commune omnibus naturis, per quas diversa entia in diversis generibus et speciebus collocantur, sicut huma39
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da Anselmo ha invece un’origine assai più vicina al suo mondo culturale: il ricorso alla relazione grammaticale di soggetto, infinito e participio, costituisce infatti un indizio prezioso che consente di riconoscere la radice di questa dinamica trinitaria dell’essere in una dottrina ontologica di origine neoplatonica, documentabile in fonti patristiche greche e introdotta solo a partire dalla tarda età carolingia, in modo più o meno visibile, nei percorsi della sapienza teologica latina. Secondo tale concezione, in ogni cosa reale è opportuno riconoscere una composizione triadica: 1) la essentia (in greco usia), soggetto primordiale del determinarsi di ciascun essere; 2) una sua vis o potentia (o dynamis) in cui sono riconoscibili tutte le potenziali capacità di determinazione dell’essenza; 3) e una sua operatio o actus (o energeia), effettiva attuazione nella concretezza del particolare di tali capacità. Nella terminologia del sesto capitolo del Monologion non è difficile riconoscere un preciso riferimento proprio a triplice composizione ontologica, con la distinzione del soggetto in sé (l’essentia, ossia, nella metafora, la lux) dalla sua capacità, piena ma ancora indefinita, di essere e di produrre essere, secondo le sue possibili modalità (l’esse, e quindi il lucere), e dalla sua effettiva attuazione e produzione di essere in atto (l’ens, ovvero l’essere lucens): in se - lux esse - lucere ens vel subsistens vel existens - lucens essentia - substantia - usia vis - potentia - dynamis operatio - actus - energeia ipsa est per ipsam cuncta habent esse ex ipsa cuncta habent esse
Originatasi e sviluppatasi nella tradizione tardo-neoplatonica greca, da Giamblico a Proclo, questa scansione triadica della composizione dell’essere è sinteticamente evocata nel De divinis nominibus dello pseudo-Dionigi Areopagita, con solo un rapido accenno, in un passo sul tema della caduta degli angeli malvagi, in cui ci si domanda se in essi il peccato abbia determinato una corruzione dell’essenza, della potenza oppure del l’atto 41. A questa sintetica formulazione si riferisce, in area latina, nitas est essentia hominis, et sic de aliis. (…) Sed essentia dicitur secundum quod per eam et in ea ens habet esse». 41 Cfr. pseudo-Dionysius Areopagita, De divinis nominibus, 4, tr. lat. di Iohannes Scotus Eriugena, PL 122, [1023-1194], 1142AB: «Sed neque daemones natura mali. Etenim si natura mali (…), quomodo corrumpunt aut quid corrumpunt, essentiam, an virtutem, an actionem (οὐσιαν ἢ δύναμιν ἢ ἐνέργειαν)?».
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Giovanni Scoto Eriugena, traduttore del corpus areopagiticum, che pone l’universale composizione triadica del reale alla base del sistema speculativo del Periphyseon, quale traccia indelebile nelle creature della dinamica interna alla Trinità: tutte le essenze creaturali vi sono infatti descritte come fecondissime sorgenti di potenzialità, eternamente pensate dal Padre nel proprio Verbo, che scorrono, nella dinamica spazio-temporale del creato, attraverso infinite attuazioni particolari tendendo sempre alla finale ricomposizione piena, nella conclusione dei tempi storici, del l’identità triadica originaria nella perfezione della recuperata similitudine con il pensiero divino 42. È probabile però che Giovanni Scoto, anche se cita solo Dionigi come fonte di tale dottrina, sia debitore di altre fonti patristiche greche che gli consentono una più approfondita conoscenza delle sue implicazioni ontologiche e escatologiche: in particolare, probabilmente, di Massimo il Confessore, che ne parla in più pagine e, in modo specifico, negli Ambigua ad Iohannem, che l’Eriugena ha tradotto in latino 43; 42 Cfr. Iohannes Scotus Eriugena, Periphyseon, I, PL 122, [439-1022], 486BC, ed. É. Jeauneau, 5 voll., Turnhout 1996-2003 (CCCM, 161-165), I, p. 62, 1883-1889: «In omni rationabili intellectualique natura tria inseparabilia semperque incorruptibiliterque manentia considerantur, οὐσία dico, et δὐναμις, ἐνεργειάνque, hoc est, essentiam, virtutem, operationem; haec enim teste sancto Dionysio inseparabiliter sibimet adhaerent, ac veluti unum sunt, et nec augeri nec minui possunt, quoniam immortalia sunt atque immutabilia». Su questa dottrina cfr. anche ibid., II, 568A-570C, ed. Jeauneau cit., II, pp. 57, 1319 - 61, 1399; e, sul confronto tra questa triade e quella agostiniana di esse-velle-scire, cfr. ibid., V, 941D-942B, ed. Jeauneau cit., V, p. 115, 3665-3683. Per una interessante discussione sulle testimonianze antiche di questa dottrina si veda quanto scrive I. P. Sheldon-Williams alla nota 144 dell’ed. del primo volume del Periphyseon eriugeniano da lui curata, Dublin 1968 (Scriptores Latini Hiberniae, 7), pp. 237238. Prima di Giovanni Scoto, in area latina, la dottrina della triade appare rappresentata solo da testimonianze episodiche: cfr. Pelagius I papa, Epistolae, PL 69, [393-422], 408D: «Hoc est tres personas, sive tres subsistentias unius essentiae sive naturae, unius virtutis, unius operationis, unius beatitudinis atque unius potestatis; ut trina sit unitas, et una sit Trinitas»; Agatho papa, Epistola ad Augustos imperatores, PL 87, [1161-1258], 1165D: «Ut confitentes sanctam et inseparabilem Trinitatem, id est, Patrem et Filium et sanctum Spiritum, unius esse deitatis, unius naturae et substantiae sive essentiae, unius eam praedicemus et naturalis voluntatis, virtutis, operationis, dominationis, majestatis, potestatis et gloriae»; Alcuinus Eboracensis, Professio fidei, PL 101, 1027-1098 (con una pura ripresa delle parole di papa Pelagio). 43 Cfr. Maximus Confessor, Ambigua, VI, 41, PG 91, [1031-1418], 1184D: «Τὸ γὰρ ἄπειρον κατὰ πάντα καὶ λὀγον καὶ τρόπον ἐστὶν ἄπειρον, κατ᾽οὐσίαν, κατὰ δύναμιν, κατ᾽ἐνέργειαν» (lat. interpr. Iohannis Scotti Eriugenae, ed. É. Jeauneau, Turnhout – Leuven 1988 [CCSG, 18], p. 97, 1539-1540:
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ma forse anche a Giovanni di Scitopoli, il quale in una delle sue glosse al corpus areopagiticum, proprio in riferimento al passaggio sopra ricordato, illustra la dottrina della triade neoplatonica con l’esempio del fuoco, la cui ousia passa dalla capacità o dynamis di ‘illuminare’ all’effettivo atto o energeia dell’‘illuminazione’ 44: un’immagine che è dunque, con probabilità, la fonte cui Anselmo ha attinto la similitudine della luce su cui è fondata la sua illustrazione della dinamica trinitaria tra essentia, esse e ens (e dunque tra «in ipso», «per ipsum» ed «ex ipso»). Anselmo non ha mai dichiarato apertamente un proprio debito intellettuale con le dottrine dello pseudo-Dionigi o con i suoi commentatori; ma è abbastanza evidente che almeno la distinzione fra la via affermativa e quella negativa abbia funzionato nel suo pensiero come uno degli schemi dominanti che rendono efficace il discorso teologico. Per quanto riguarda la triade neoplatonica è chiaro come, evocandola in modo tacito ma incontestabile in questo passaggio cruciale del Monologion, egli mostri di apprezzarne la funzionalità ermeneutica per la comprensione dei rapporti intra-trinitari, quali si evidenziano nella sua riflessione sulla realtà in sé indicibile e inintelligibile della «summa natura» o «summa essentia». Del resto nell’intero Monologion non sono mai teorizzati preliminarmente, ma senz’altro messi direttamente in opera gli strumenti speculativi che (come la separazione procedurale delle dieci categorie o la distinzione di esse e id quod est) assicurano il progresso della mente verso la verità del divino. È però fuori di dubbio che l’evocazione della similitudine con la natura della luce acquista il suo autentico significato solo se viene intesa, in armonia con l’orientamento neoplatonico della tradizione pseudo-dionisiana, come un tentativo di illustrare «Q uod enim infinitum est omni ratione et modo infinitum est, per essentiam, per virtutem, per operationem»). 44 Cfr. Iohannes Scythopolitanus, Scholia in librum De coelesti Hierarchia, PG 4 (sotto l’erronea attribuzione a Massimo il Confessore), [13-1115], 93A: «Ὡς ἐν ὑποδείγματι ῥητέον οὐσίαν μὲν εἰπεῖν τὴν πυρὸς φύσιν· δύναμιν δὲ ταύτης τὸ φωτιστικόν· ἐνέργειαν δὲ τὸ τῆς δυνάμεως ἀποτέλεσμα, ἥγουν τὸ φωτίζειν καὶ καίειν» [«Come se si dicesse per esempio che si chiama essenza la natura del fuoco; potenza la sua capacità di illuminare; atto, invece, l’effetto della potenza, ossia l’effettivo illuminare e bruciare»]. – Su Giovanni di Scitopoli cfr. P. Podolak, Giovanni di Scitopoli interprete del Corpus Dionysiacum, in «Augustinianum», 47.2 (2007), pp. 335-386.
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la natura causativa del principio quale effettivo agire, nell’efficacia del processo creativo, di una pura sostanza necessaria, eterna e incorruttibile, veramente ‘esistente’, veramente ‘potente’ e veramente ‘operante’. In questo modo, dopo avere accertata nella natura divina la piena identità di essere (Dio), di potere (poter essere Dio e poter far essere le cose), e di efficacia operante (effettivamente essere Dio e far essere le cose), la mente umana si inoltra, con esiti sottili e sempre coerentemente concatenati, nel progresso conoscitivo della realtà più profonda della natura divina, a un tempo unitaria e triadica.
5. Verità ed essentia: la logica della locutio e la sua rectitudo L’utilizzo attento – non esplicitamente dichiarato – di terminologia e norme legate agli insegnamenti delle arti liberali, e in particolare della dialettica, è un connotato abituale dei testi speculativi altomedievali, non esclusi quelli dei più radicali difensori della superiorità dei contenuti spirituali della fede sui formalismi che regolano l’autonomia indagativa della razionalità, come Manegoldo di Lautenbach, Otlone di Sant’Emmeram, Gerardo di Cszanad o Pier Damiani 45. Come è già emerso fin qui con chiarezza, l’opera di Anselmo non fa eccezione, anche se le tracce che tali strutture intellettuali hanno lasciato nella sua scrittura non sono sempre esplicite e non sempre immediatamente riconoscibili da parte di un lettore moderno 46.
45 Cfr. G. d’Onofrio, La crisi dell’equilibrio teologico altomedievale (10301095), in Storia della Teologia nel Medioevo, 3 voll., dir. di G. d’Onofrio, Casale Monferrato 1996, I, pp. 435-480. 46 Solo nel De grammatico Anselmo ostenta un ricorso esplicito e metodico a termini dialettici come syllogismus, sophisma, conclusio, probatio e così via, in obbedienza alla presentazione formale di questo testo come una exercitatio disputandi, ossia un esercizio di logica; cfr. De grammatico, 582A, p. 168, 8-12: «Magister. Tamen quoniam scis quantum nostris temporibus dialectici certent de quaestione a te proposita, noto te sic iis quae diximus inhaerere, ut ea pertinaciter teneas, si quis validioribus argumentis haec destruere et diversa valuerit astruere. Q uod si contigerit, saltem ad exercitationem disputandi nobis haec profecisse non negabis». E cfr. De veritate, Praefatio, 467B, p. 173, 6-7: «[Tractatum] (…) edidi, non inutilem ut puto introducendis ad dialecticam, cuius initium est De grammatico».
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Tale costante e metodica applicazione delle regole grammaticali, dialettiche e retoriche, è in effetti universalmente alimentata, nella civiltà teologica alto-medievale, da una consolidata e condivisa concezione esemplaristica della verità: ossia dal postulato metafisico di una coerenza assoluta vigente nell’universo tra ordo rerum (la creazione, e le leggi per essa eternamente fissate da Dio), ordo verborum (linguaggio delle scienze umane) e ordo idearum (modelli eterni di tutto il reale, coincidenti con le immutabili divine volontà). Come è evidente, in particolare, nelle ragioni che lo guidano nella vivace polemica contro il nominalismo di Roscellino 47, Anselmo è stato un sostenitore importante di questa visione del reale, che egli difende apertamente fin dalle prime pagine del De veritate, escogitando il ricorso alla nozione di «rectitudo» per designare in assoluto la cosmica coerenza di parole, cose e idee 48. 47 Cfr. G. d’Onofrio, Anselmo e i teologi «moderni», in Cur Deus homo, Atti del Congresso Anselmiano internazionale (Roma, 21-23 maggio 1998), a c. di P. Gilbert – H. Kohlenberger – E. Salmann (Studia Anselmiana, 128), Roma 1999, pp. 87-146; Id., Tra antiqui e moderni. Parole e cose nel dibattito teologico altomedievale, in Comunicare e significare nell’Alto Medioevo, LII Settimana di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto, 15-20 aprile 2004), 2 voll., Spoleto 2005, II, pp. 821-886; Id., s. v. Roscellino di Compiègne, in Enciclopedia Filosofica, Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, 12 voll., Milano 2006, X, pp. 9844-9847. 48 La prima utilizzazione metodica del concetto di rectidudo da parte di Anselmo concerne l’ambito etico e l’orientamento della volontà libera; cfr. De casu diaboli, 9, 337B, pp. 246, 26 - 247, 1: «Q uandiu enim voluntas primum data rationali naturae et simul in ipsa datione ab ipso datore conversa, imo non conversa, sed facta recta ad hoc quod velle debuit, stetit in ipsa rectitudine, quam dicimus veritatem, sive in iustitiam, in qua facta est, iusta fuit. Cum vero avertit se ab eo quod debuit, et convertit se ad id quod non debuit, non stetit in originali (ut ita dicam) rectitudine, in qua facta est». Con questa stessa valenza («rectitudo voluntatis») il concetto ricorre con frequenza nel De conceptu virginali e soprattutto nel De libero arbitrio. È però in particolare nel De veritate che l’estensione di questo concetto al contesto logico-epistemologico si compie in modo persuasivo, individuando il principio di verità dell’enunciato nella sua capacità di corrispondere ‘correttamente’ tanto alla realtà della cosa significata quanto alla sua vera definizione; cfr. De veritate, 2, 470AB, p. 178, 14-26: «Magister. Cum significat quod debet, [enuntiatio] recte significat. Discipulus. Ita est. Mag. Cum autem recte significat, recta est significatio. Disc. Non est dubium. Mag. Cum ergo significat esse quod est, recta est significatio. Disc. Ita sequitur. Mag. Item cum significat esse quod est, vera est significatio. Disc. Vere et recta et vera est, cum significat esse quod est. Mag. Idem igitur est illi, et rectam, et veram esse, id est significare esse quod est. Disc. Vere idem. Mag. Ergo non est illi aliud veritas, quam rectitudo. Disc. Aperte nunc video veritatem hanc esse rectitudinem».
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In quanto comprensione della rectitudo delle cose vere, la veritas è qui da lui apertamente identificata con l’eterna contemplazione della loro essentia da parte di Dio nella propria immutabile e legislatrice mente («intelligentia» o «ratio»): Est igitur veritas in omnium quae sunt essentia, quia hoc sunt quod in summa veritate sunt 49. (…) Si ergo veritas et rectitudo idcirco sunt in rerum essentia, quia hoc sunt quod sunt in summa veritate, certum est veritatem rerum esse rectitudinem 50.
Il sostantivo essentia risolve la veritas di tutte le cose nella loro partecipazione a un genere che tutte le comprende: tale nome, infatti, è un nome ‘universale’, formato dalla comune connotazione che caratterizza tutte le cose vere in quanto sono vere, ossia quella di «essere», espressa con la sostantivizzazione del participio presente del verbo esse (che sarebbe, se la grammatica consentisse di formularlo, «essens» 51): ogni cosa è una «essentia» non perché semplicemente esiste, ma perché è qualcosa che è, secondo una certa modalità dell’essere, in quanto è «id quod est»; ma ogni cosa è «id quod est» quando è nel modo in cui il principio vero di tutte le cose la fa essere come deve essere; e quindi ogni cosa è «id quod est» in quanto «est in summa veritate», cioè nel pensiero e nella volontà del principio che le fa essere. Cosicché ogni cosa trova la propria vera «essentia» nell’essere ‘come deve essere’: e quindi nella propria «rectitudo». Nel nono capitolo del Monologion la medesima dottrina, così sintetizzata nel De veritate, era annunciata a coronamento della determinazione della natura divina come unica realtà che è «id quod est», perché «per se est id quod est» 52, mentre tutte le altre realtà, che sono «per aliud», sono «ea quae facta sunt»: De veritate, 77, 475B, p. 195, 18-19. Ibid., 475C, p. 196, 1-3. 51 Cfr. Augustinus Hipponensis, Locutiones in Heptateucum, in Leviticum, 32 (Lv 45, 46), PL 34, [485-546], 519-520, edd. J. Fraipont – D. De Bruyne, Turnhout 1958 (CCSL, 33), p. 428, 169-174: «Item paulo post dicit, ‘Cum sit immundus, immundus erit’; quod in latinum de graeco non sicut positum est exprimi potuit. Ait enim Graecus, ἀκάθαρτος ὢν ἀκάθαρτος ἔσται: quasi diceret, immundus existens, immundus erit: sed non hoc est existens, quod graecus dicit ὢν, sed si dici posset, essens, ab eo quod est esse, non ab eo quod est existere». 52 Cfr. supra, testo corrisp. alla nota 18. 49 50
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Patet itaque quoniam priusquam fierent universa erat in ratione summae naturae quid aut qualia aut quomodo futura essent. (…) Q uare cum ea quae facta sunt clarum sit nihil fuisse antequam fierent, (…) non tamen nihil erant quantum ad rationem facientis per quam et secundum quam fierent 53.
Solo la natura divina ‘è’ sempre. Tutte le cose create e determinate, ossia tutte le cose diverse da essa («universa»), invece non ‘erano’, cioè ‘non erano ancora nulla’, prima di venire all’essere («nihil fuisse»). Esse non hanno in sé la «ratio» del loro essere; il che significa che nel loro essere vere, ossia nella loro verità, non è compreso anche l’esistere. E tuttavia, proprio in quanto erano destinate ad essere determinate secondo la verità di come dovevano essere, la loro essenza veramente ‘era’, ed è sempre stata vera nella verità della natura divina, che è la «ratio facientis», causa del loro essere esistenti («per quam») e del loro essere esistenti come dovevano essere («secundum quam»). Non solo dunque era la loro essenza pura, destinata dalla volontà divina ad esistere («quid futura essent»), ma anche la loro capacità di essere determinate («qualia futura essent») nonché, ancora, l’attuazione di tale loro determinazione («quomodo futura essent»): quid, qualia, quomodo, ossia, ancora una volta, la triadicità unitaria della loro essenza (quali sono, nella mente divina), articolata tra potenza (quali potevano essere) ed atto (in che modo effettivamente si sarebbero realizzate). Tale triadicità costituisce allora, nella sua unitaria identità, la «ratio» vera dell’esistere di ciascuna cosa creata. La formula «ratio facientis» non vale nel linguaggio anselmiano come espressione di uno specifico principio formale (come potrebbe apparire, invece, nel contesto linguistico della tarda scolastica). Più semplicemente, se è vero che le cose finite sono ‘vere’ in quanto sono tutte «ea quae facta sunt», ossia se è vero che la loro connotazione veritativa viene dalla predicabilità in esse del verbo facere in forma passiva («priusquam» o «antequam fierent», «per quam» e «secundum quam fierent», «factae sunt»), la connotazione della loro verità, prima e dopo il loro
Monologion, 9, 157C, p. 24, 14-20.
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venire all’esistenza, è quella dell’essere determinate in ragione del soggetto (grammaticale e logico) di questo stesso verbo facere predicato in forma attiva: la «ratio» della «summa natura» è dunque la ‘ragione’ o il ‘pensiero’ divino, ossia il Logos, nel quale è eternamente sussistente la verità di tutte le cose ‘che sono state fatte’ in quanto sono state fatte, e del quale soltanto, invece, si predica veritativamente l’essere «faciens». La verità, tanto del divino quanto delle cose finite, è allora nella sola «ratio facientis», la ragione logico-veritativa per cui e secondo cui Dio è creatore e tutte le cose sono create. Procedendo nella precisazione di questo ri-conoscimento della ‘verità’ (sia della verità del divino, sia del rapporto delle cose finite con il divino), Anselmo evidenzia, nel decimo capitolo, come nella «ratio» o ‘pensiero’ del fare di Dio sia riconoscibile una «forma» ideale delle «res», che precede la loro esistenza. E percorrendo fino in fondo la similitudine con i procedimenti del pensiero umano – similitudine che è alla base della stessa denominazione teologica del pensiero divino come Logos o Verbum –, si può affermare che tale «forma» divina di tutte le cose è come una «locutio», formulata da Dio nella propria «ratio» («in eius ratione locutio»), così come un artefice prima di produrre un oggetto secondo le regole della sua arte pronuncia dapprima nella propria «mens» l’espressione di un pensiero progettuale («mentis conceptio»), in cui tale oggetto è già ‘vero’ prima ancora di essere ‘reale’: Illa autem rerum forma, quae in eius ratione res creandas praecedebat, quid aliud est quam rerum quaedam in ipsa ratione locutio, veluti cum faber facturus aliquod suae artis opus prius illud intra se dicit mentis conceptione? Mentis autem sive rationis locutionem hic intelligo, non cum voces rerum significativae cogitantur, sed cum res ipsae vel futurae vel iam existentes acie cogitationis in mente conspiciuntur 54.
Come Anselmo dichiara qui esplicitamente, conceptio mentis o conceptio rationis designano, in base al vocabolario delle arti del trivio – in accordo, in particolare, con chiare indicazioni fornite da Boezio –, la riproduzione interiore del significato di ciò che Ibid., 10, 158B, p. 24, 24-29.
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il pensiero coglie quando considera direttamente (con l’«acies», l’immediato contatto, della «contemplatio») il modo determinato di essere della «res» a tale significato corrispondente, tanto se essa è già esistente, quanto anche se deve ancora venire all’essere 55. Le conseguenze teologiche di queste premesse, intuitivamente chiare e condivisibili da qualsiasi razionalità capace di intendere («ratio docens»), sono esplicitate da Anselmo poco più avanti, nel dodicesimo capitolo: Sed cum pariter ratione docente certum sit, quia quidquid summa substantia fecit, non fecit per aliud quam per semetipsam, et quidquid fecit, per suam intimam locutionem fecit, sive singula singulis verbis, sive potius uno verbo simul omnia dicendo, quid magis necessarium videri potest, quam hanc summae essentiae locutionem non esse aliud quam summam essentiam 56?
Nella perfezione unitaria della somma natura divina non è lecito ammettere che diverse «locutiones» abbiano anticipato il significato formale dei molteplici effetti della sua creazione, perché il suo pensare-fare non dipende da una causa esterna ma solo dalla sua stessa identità essenziale («per semetipsam»), ossia dalla sua parola interiore («intima locutio»). È allora necessario concludere che questa eterna «locutio» non è altro che la somma sostanza divina, in sé e per sé esistente. Per la mente umana, invece, acquisire una conoscenza vera, e dunque avere scienza di qualcosa, significa, come è stato chiarito, cogliere non l’essenza, ma la rectitudo o verità della parola che la esprime. Q uesto significa che l’uomo conosce la verità delle cose solo nella misura in cui la «locutio» o la «conceptio» che egli
55 Cfr. Severinus Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, III, PL 64, [1039-1174], 1106AB: «Notio vero intellectus est quidam et simplex mentis conceptio, quae ad res plures pertineat a se invicem differentes». Id., Consolatio Philosophiae, V, 5, 5-6, PL 63, [579-870], 855A, ed. Moreschini cit. (alla nota 12), p. 153, 21-29: «Q uid igitur, si ratiocinationi sensus imaginatioque refragentur, nihil esse illud universale dicentes, quod sese intueri ratio putet? Q uod enim sensibile, vel imaginabile est, id universum esse non posse: aut igitur rationis verum esse iudicium nec quicquam esse sensibile aut quoniam sibi notum sit plura sensibus et imaginationi esse subiecta, inanem conceptionem esse rationis, quae quod sensibile sit ac singulare quasi quiddam universale consideret». 56 Monologion, 12, 160BC, p. 26, 26-31.
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sarà capace di formulare nella propria finita «mens» o «ratio» sia coerente e armonica con l’originaria locutio divina: cogliere il vero, per l’intelligenza creaturale, significa cioè – nella misura in cui ciò è possibile – accostarsi alla somma e perfecta Intelligenza divina che pensa e conosce la verità di tutte le cose pensando e conoscendo la verità della propria «perfecta» capacità di ‘essere’, ossia della propria perfecta essentia (parola che, come osservava Agostino, è la sostantivizzazione del participio presente del verbo ‘essere’). Anselmo perviene così, procedendo nelle argomentazioni del Monologion, a formulare in termini inequivocabili la necessità razionale di una compiuta teoria del Verbo, seconda persona di una Trinità divina scaturita dal riconoscimento inevitabile del coincidere dell’essere divino con il pensiero perfetto che pensa se stesso per pensare la verità assoluta di tutto ciò che è vero: Liquet enim Filium esse verum Verbum, id est perfectam intelligentiam, sive perfectam totius paternae substantiae cognitionem, et scientiam, et sapientiam, id est quae ipsam Patris essentiam intelligit et cognoscit et scit et sapit. Si igitur hoc sensu Filius dicatur Patris intelligentia et sapientia et scientia et cognitio sive notitia, quoniam intelligit, sapit, scit et novit Patrem, nequaquam a veritate disceditur 57.
In obbedienza al principio (poi riformulato, come abbiamo visto, nel De veritate) secondo cui la ‘verità’, in tutte le cose che sono vere, è la loro essentia conoscibile come tale da una perfetta mente, anche Dio è ‘vero’ per la ragione umana in quanto essa, fin dai primi passi del suo itinerario verso la sua verità, lo riconosce come somma essentia. Q uale esito della dimostrazione necessaria della sua esistenza, lungo i quattro diversi «modi» evidenziati all’inizio dell’opera, Dio appare dunque ad Anselmo come soggetto («subiectum», e quindi «substantia») di una perfetta conoscenza e predicazione dell’essere («perfecta cognitio totius substantiae»), che però, proprio in quanto perfetta, non può non essere anch’essa, reciprocamente, soggetto della medesima predicazione dell’essere divino. Ne risulta perciò convalidata la terminologia teologica cristiana, che distingue e mantiene unite a un Ibid., 46, 198BC, p. 62, 17-22.
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tempo la «substantia» conoscente, che può essere chiamata Padre («paterna substantia»), e la «substantia» conosciuta, ossia il Figlio. Per esprimere la sostanzialità del Figlio distinguendola da quella del Padre è in effetti possibile predicare di essa i sostantivi esprimenti la piena attuazione dei verbi che denotano un pensiero che conosce il proprio oggetto: «intelligentia», in quanto capacità di «intelligere» il proprio oggetto (l’«essentia» divina); «cognitio», ossia pieno possesso della «notio» o «notitia» (esito in atto del «noscere»), conoscenza esauriente della «veritas» di una «res» 58; e quindi «scientia» (esito dello «scire»), quale risultato incontrovertibile di tale acquisizione; nonché «sapientia» (esito del «sapere»). Il vocabolario anselmiano, pur incardinato su alcune pregnanti formule paoline 59, affonda evidentemente qui le proprie radici in quello di Agostino, alla luce delle cui precisazioni terminologiche è indispensabile valutarlo per comprenderlo 60: solo in tale prospettiva, infatti, si capisce che la scientia (o il sermo scientiae, secondo Paolo) è la somma dei risultati progressivi conseguiti dall’intelligenza dell’uomo nel suo esplorare l’universo alla ricerca di verità parziali, di ordine sia teoretico, sia pratico; mentre è sapientia (o sermo sapientiae) l’esito di una contemplazione esauriente e compiuta della verità assoluta, in cui il versante teoretico e quello pratico convergono in unità, e che coincide con il fine del conoscere e il conseguimento della
Sul significato tecnico di «notio» o «notitia», cfr. infra, alla nota 68. Cfr. Col 2, 3: «In quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae absconditi»; 1Cor 12, 8: «Alii quidem per Spiritum datur sermo sapientiae, alii autem sermo scientiae secundum eundem Spiritum». 60 Si confronti per esempio la coerenza del testo del Monologion che stiamo esaminando con le seguenti chiarificazioni terminologiche nel De Trinitate agostiniano; cfr. Augustinus Hipponensis, De Trinitate, V, 2, 3, PL 42, [8191098], 912, ed. W. J. Mountain, 2 voll., Turnhout 1968 (CCSL, 50-50A), I, pp. 207, 1 - 208, 12: «Est tamen sine dubitatione substantia, vel, si melius hoc appellatur, essentia, quam Graeci οὐσίαν vocant. Sicut enim ab eo quod est sapere dicta est sapientia, et ab eo quod est scire dicta est scientia, ita ab eo quod est esse dicta est essentia. Et quis magis est, quam ille qui dixit famulo suo Moysi, ‘Ego sum qui sum’, et ‘Dices filiis Israel: Q ui est, misit me ad vos’ (Ex 3, 14)? Sed aliae quae dicuntur essentiae sive substantiae, capiunt accidentia, quibus in eis fiat vel magna vel quantacumque mutatio; Deo autem aliquid eiusmodi accidere non potest. Et ideo sola est incommutabilis substantia vel essentia, quae Deus est, cui profectio ipsum esse, unde essentia nominata est, maxime ac verissime competit». 58
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felicità (o beatitudo) 61. Secondo il linguaggio delle discipline profane, allora, è scientia la «philo-sophia» o «studium sapientiae», acquisizione e progressivo incremento di passi sempre incompleti, ma via via accertati, lungo il percorso dell’uomo verso la verità e la felicità; mentre è sapientia (ovvero «sophia») l’esito definitivo e compiuto di tale processo. È allora evidente come in Dio, e soltanto in Dio, cognitio, scientia e sapientia del proprio ‘essere’ perfettamente compiuto o essentia, coincidano perfettamente 62. Solo qui, infatti, la distinzione di un ‘conoscente’ da un ‘conosciuto’ si annulla nella perfetta identità dell’unica veritas della sostanza divina, come perentoriamente è stabilito da Anselmo, con un rapidissimo tratto conclusivo dell’esposizione di questa tematica, nel capitolo successivo: At si ipsa substantia Patris est intelligentia et scientia et sapientia et veritas, consequenter colligitur quia sicut Filius est intelligentia et scientia et sapientia et veritas paternae substantiae,
61 Cfr. ibid., XII, 14, 22-23, 1009-1010, ed. Mountain, I, pp. 357, 7-22 e 376, 44-48: «Distat tamen ab aeternorum contemplatione actio qua bene utimur temporalibus rebus, et illa sapientiae, haec scientiae deputatur. (…) In hac differentia intellegendum est ad contemplationem sapientiam, ad actionem scientiam pertinere. (…) De his ergo sermo cum fit, eum scientiae sermonem puto discernendum a sermone sapientiae ad quam pertinent ea quae nec fuerunt nec futura sunt sed sunt, et propter eam aeternitatem in qua sunt et fuisse et esse et futura esse dicuntur sine ulla mutabilitate temporum». Ibid., XIII, 19, 24, 1033-1034, I, pp. 415, 1-23 e 416, 50 - 417, 57: «Haec autem omnia quae pro nobis Verbum caro factum temporaliter et localiter fecit et pertulit secundum distinctionem quam demonstrare suscepimus ad scientiam pertinent non ad sapientiam. Q uod autem Verbum est sine tempore et sine loco, est Patri coaeternum et ubique totum, de quo si quisquam potest quantum potest veracem proferre sermonem, sermo ille erit sapientiae. (…) Ego tamen (…), si ita inter se distant haec duo ut sapientia divinis, scientia humanis attributa sit rebus, utrumque agnosco in Christo, et mecum omnis eius fidelis. (…) Scientia ergo nostra Christus est, sapientia quoque nostra idem Christus est. Ipse nobis fidem de rebus temporalibus inserit; ipse de sempiternis exhibet veritatem. Per ipsum pergimus ad ipsum, tendimus per scientiam ad sapientiam. (…) Sed nunc de scientia loquimur, post de sapientia, quantum ipse donaverit, locuturi». Ancora, cfr. Id., De sermone Domini in monte, I, 4, 12, PL 34, [1229-1307], 1235, ed. A. Mutzenbecher, Turnhout 1967 (CCSL, 35), p. 11, 224-225: «Regnum coelorum (…) est perfecta summaque sapientia animae rationalis». 62 Cfr. Id., De diversis quaestionibus ad Simplicianum, q. 2, 3, PL 40, [101148], 140, ed. A. Mutzenbecher, Turnhout 1970 (CCSL, 44), p. 78, 101-104: «Q uanquam et in ipsis hominibus solet discerni a sapientia scientia, (…) in Deo autem nimirum non sunt haec duo, sed unum».
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ita est intelligentia intelligentiae, scientia scientiae, sapientia sapientiae, veritas veritatis 63.
La verità, o conoscenza definitoria perfetta della somma natura, cioè la conoscenza che Dio ha di se stesso, è la definizione della verità: ossia la verità della verità stessa. Nella misura in cui è cosa possibile a una creatura, il reperimento della verità deve dunque corrispondere anche per l’uomo a un accostamento alla verità dell’essentia di Dio. Ma poiché tale verità può essere colta solo per via di una sapientia piena dell’essere, che sia assoluta conoscenza e assoluto amore del suo oggetto (e quindi vera cognitio, o notio, o scientia), essa non può che identificarsi con l’intelligentia divina stessa, che conosce e vuole tutto ciò che crea. La conoscenza divina non è dunque diversa dall’eterna superiore locutio tramite la quale il Figlio coglie la propria identità essenziale con il Padre. Solo Dio può godere di tale sapientia, o ratio dell’essenza divina, o perfetta locutio della verità in sé. La creatura umana potrà invece parlare in questa vita solo il sermo scientiae, imperfetto ma costante avvicinamento alla locutio divina, non il sermo sapientiae che assicura la perfetta contemplazione e comprensione della sua verità.
6. La locutio del Proslogion e la rectitudo della notitia di Dio L’analisi dei primi capitoli del Monologion ha evidenziato l’importanza che riveste per Anselmo, rispetto alla argomentazione proposizionale e sillogistica, l’applicazione critica delle regole della ‘logica del termine’, che fondano l’efficacia del processo argomentativo sulla predicazione delle singole parti del discorso (predicabili, categorie, elementi della proposizione apofantica o proloquium, ecc.) e la cui massima espressione si risolve in una rigorosa dottrina della definizione 64. Il lungo tessuto argomen Monologion, 47, 198D-199A, p. 63, 4-7. Cfr. Severinus Boethius, In Isagogen Porphyrii commenta, ed. prima, I, 1, PL 64, [9-70], 12C, ed. S. Brandt, Wien – Leipzig 1906 (CSEL, 48), pp. 10, 25 - 11, 1: «Definitionum quoque quae ad logicam pertinent magna atque utilis uberrimaque cognitio est». E cfr. d’Onofrio, Fons scientiae cit. (alla nota 23), pp. 183-186. 63
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tativo che, tanto nel Monologion, quanto nel Proslogion, segue alle prime pagine dedicate all’accertamento dell’esistenza di ciò che corrisponde alla pensabilità della natura divina appare allora l’esito articolato di un unitario processo di esplicitazione della verità della ‘definizione’ corrispondente all’essentia divina, che deve poi coincidere in tutto e per tutto con la notio che il pensiero divino stesso, qualificato solo da massima rectitudo, concepisce nella propria intelligentia pensandosi secondo verità. È come se Anselmo si fosse impegnato, in entrambi gli scritti, nel portare la propria comprensione dei processi conoscitivi umani, regolamentati dalla dialettica e dalle altre arti liberali, fino alla più alta attuazione possibile: ossia alla partecipazione alla piena e veritativa conoscenza, altissima e perfetta (e quindi comprensiva necessariamente anche dell’esistenza reale) che Dio ha di sé quando pensa se stesso. A conferma di ciò, la conclusione del Proslogion esprime mirabilmente in forma di preghiera e di ringraziamento insieme («alloquium», e quindi, appunto, «pros-logion»), il senso di questo pieno ‘conoscere’ Dio (con la filosofia o scientia teoretica), ‘amarlo’ (con la filosofia o scientia pratica), ‘godendo’, per quanto possibile, di tale comprensione (che anticipa la sapientia promessa con la beatitudine), attraverso un perfezionamento massimo dei processi che consentono al linguaggio umano di ‘parlare’ di Lui: Oro, Deus, cognoscam te, amem te, ut gaudeam de te. Et si non possum in hac vita ad plenum, vel 65 proficiam in dies usque dum veniat illud ad plenum. Proficiat hic in me notitia tui, et ibi fiat plena; crescat amor tuus, et ibi sit plenus, ut hic gaudium meum sit in spe magnum et ibi sit in re plenum. Domine, per Filium tuum iubes, immo consulis petere et promittis accipere, «ut gaudium» nostrum «plenum sit» (Jo 16, 24). Peto, Domine, quod consulis per admirabilem consiliarium nostrum; accipiam quod promittis per veritatem tuam, «ut gaudium» meum «plenum sit». Deus verax, peto, accipiam «ut gaudium» meum «plenum sit». Meditetur interim inde mens mea, loquatur inde lingua mea, amet illud cor meum, sermocinetur os meum. Esuriat illud anima mea, sitiat caro mea, desideret tota substantia mea, donec intrem
Per il senso di questo «vel» cfr. supra, alla nota 17.
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in gaudium Domini, qui es trinus et unus Deus, benedictus in saecula. Amen 66.
La ‘conoscenza’ compiuta o ‘comprensione’ che l’uomo può avere in questa vita della verità (o rectitudo) dell’essentia di Dio, in attesa di poterne godere «ad plenum» in quella futura, è assicurata dalla mediazione – quasi dal ‘suggerimento’ – del Figlio («consiliarius» dell’umanità), parola eterna con cui Dio propone all’intelletto dell’uomo di accogliere e prendere in considerazione («con sulis») il senso della parola terrena che parla di Lui. Accettando questa parola («accipere»), l’uomo potrà meditare con la mente («meditari», per la conquista di una scienza teoretica), formulare con la lingua («loqui», «sermocinari», secondo le norme della logica) e amare con il cuore («amare», per ottenere la sapienza pratica) la stessa piena e perfetta connotazione di verità che contempla e di cui gode ciascuna persona trinitaria nel contemplare la propria identità con le altre due. Appare perciò evidente, e proprio dall’efficacia riepilogativa del linguaggio messo in campo in questa conclusione, come l’intero sviluppo del trattato sia orientato dalla ricerca, dal reperimento e dalla intensa e ribadita considerazione della rectitudo di una locutio definitoria, individuabile solo a prezzo di un supremo sforzo dell’intelligenza creaturale e riconoscibile – almeno in principio, in quanto presente nell’intelletto («vel in intellectu») – come la più adeguata a rendere conto della realtà di tale essentia: Convincitur ergo etiam insipiens esse vel in intellectu aliquid quo nihil maius cogitari potest, quia hoc cum audit intelligit, et quidquid intelligitur in intellectu est 67.
L’espressione quo nihil maius cogitari potest (o quo maius cogitari nequit) emerge dunque dal tentativo massimo compiuto dall’intelletto creato di pervenire a una «definizione» dell’essentia divina. Non si tratta però di una definitio logica di tipo porfiriano (genere superiore determinato da differenza specifica), perché è impossibile far rientrare il significato del nome corrispondente Proslogion, 26, 242BC, pp. 121, 14 - 122, 2. Ibid., 2, 228A, p. 101, 13-15. Anche qui, per il significato che va riconosciuto al «vel», cfr. supra, alla nota 17. 66
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a tale essentia in alcun genere superiore, conoscibile per via comparativa nel confronto con altri ambiti significanti di pari grado. La sola differentia che possa caratterizzare la somma natura, e che possa essere riconosciuta «in intellectu», si individua infatti proprio nel suo non poter essere comparata con altre nature: né su un piano di pensabilità ontologica superiore («quo maius cogitari nequit»); né su un piano di parità di significato, che potrebbe essere conoscibile dalla nostra mente, secondo il principio già evidenziato nel Monologion, solo quale esito della partecipazione a una perfezione superiore («maius»). La definitio porfiriana, chiamata anche «definizione sostanziale», nei compendi di logica diffusi tra il sesto e l’undicesimo secolo è presentata come la più rigorosa, ma non l’unica forma di determinazione del significato di una res, al cui conseguimento è invece possibile per l’intellectus umano aspirare mediante molteplici forme di descriptiones: ossia di determinazioni denotative in senso lato, secondo le molteplici variabili previste dal De definitionibus liber, opera di Mario Vittorino ma ritenuto in questi secoli opera di Boezio, e dallo stesso Boezio nel suo commento ai Topica di Cicerone. Subito dopo la presentazione della «definitio» porfiriana, Mario Vittorino vi invita il lettore a valutare l’importanza di ogni possibile forma di illustrazione del termine da definire, anche intuitiva e non logicamente rigorosa, raggiungibile mediante connotazioni che ne caratterizzino in modo peculiare la distinguibilità da altri oggetti conosciuti o conoscibili. In particolare, tra le molteplici forme di «descriptio» possibili, particolare impostanza viene attribuita a quella che è propriamente denominata appunto «notio», o «notitia», e che produce una «cognitio» illustrativa e orientativa della natura o maniera di essere della cosa, ossia di ciò che essa ha in comune con altre conoscenze, presente in forma immediata nell’animo come esito di una illustrazione («enodatio») sufficientemente atta a renderne conto 68. 68 All’origine di tale dottrina si pone un passaggio da Marcus Tullius Cicero, Topica, 7, 31 in Id., Opera rhetorica, ed. G. Friedrich, I/2, Leipzig 1891, p. 431, 29-31: «Notionem appello quod Graeci tum ἔννοιαν tum πρόλεψιν. Ea est insita et animo praecepta cuiusque formae cognitio, enodationis indigens». Cfr. anche Marius Victorinus, De definitionibus, PL 64, [891-910], 902AB, ed. in T. Stangl, Tulliana et Mario Victoriniana, München 1888, [pp. 17-48],
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È allora significativo il fatto che, nella conclusione del Proslogion sopra ricordata, per designare la conoscibilità della verità della locutio su cui si fonda tutto il trattato, lo stesso Anselmo abbia utilizzato esplicitamente il termine notitia. Recepibile in questa vita come anticipazione della contemplazione beatifica, il quo maius assicura una notitia che è puro riflesso dell’azione del Figlio, quando suggerisce alla mente umana la verità su Dio, come l’amore è riflesso dell’azione dello Spirito, quando incendia il cuore umano di trasporto per questa medesima verità: «Proficiat hic in me notitia tui, et ibi fiat plena» 69. Logicamente corretta e semanticamente feconda, la formula «Deus est quo maius cogitari nequit», pur non potendo essere proposta come una definizione logicamente rigorosa, è comunque capace di produrre, nell’animo dell’uomo che la considera, una designazione autentica, rispondente al vero, della suprema natu-
p. 33, 6-19: «De prima diffinitione plenius in superioribus sermo confectus est, cum substantialis quae sit diffinitio quibusque partibus compleatur ostendimus. Secunda [definitio] est quae dicitur ἐννοηματικὴ, quam notionem communi non proprio nomen possumus dicere. In omnibus enim reliquis diffinitionibus notio rei profertur, non substantia explicatione declaratur; verum haec quae secunda est hoc modo semper efficitur, cum proposito eo quod diffiniendum est, neque dicto eius genere, verbis in rei sensum ducentibus audientem, quid illud sit de quo quaeritur explicatur: (…) ut si dicam ‘homo est quod rationali conceptione et exercitio praeest animalibus cunctis’, hic non quidem ipsum quod sit dixi, sed, dicendo quid agat, quasi quodam signo in notitiam devocavi». E cfr. Severinus Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, III, PL 64, 1106C-1107A: «Haec vero definitio hinc tracta est, quod Plato ideas quasdam esse ponebat, id est species incorporeas substantiasque constantes, et per se ab aliis naturae ratione separatas, ut hoc ipsum homo, quibus participantes caeterae res homines vel animalia fierent. At vero Aristoteles nullas putat extra esse substantias, sed intellectam similitudinem plurimorum inter se differentium substantialem genus putat esse, vel speciem. Nam cum homo atque equus differant rationabilitate atque irrationabilitate, horum intellecta similitudo efficit genus. Nam similitudo equi et hominis substantialis in eo est, quod uterque substantia est, uterque animatus, uterque sensibilis, quae iuncta efficiunt animal, est animal namque substantia animata sensibilis. Igitur hominis atque equi similitudo est animal, quod est genus. Rursus cum Plato atque Cicero numero accidentibusque distarent, horum similitudo, quae est humanitas intellecta atque animo formata, species est. Ergo communitas quaedam et plurimorum inter se differentium similitudo notio est, cuius notionis aliud genus est, aliud forma». 69 Cfr. supra, testo citato in corrisp. alla nota 66. E cfr. nel brano dal Monologion citato sopra in corrisp. alla nota 57, il riconoscimento della seconda persona della Trinità come notitia della verità del Padre.
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ra. Cosicché, in quanto corrisponde adeguatamente al significato della parola «Deus», essa vale come una notio o notitia adeguatamente dotata di rectitudo. Non include infatti in sé né più né meno di quanto sia indispensabile e proficuo alla corretta conoscenza dell’essentia divina ricercata, proprio secondo la regola che viene esplicitata nel De veritate a proposito della definizione di «veritas»: Magister. Possumus igitur, nisi fallor, definire quia veritas est rectitudo mente sola perceptibilis. Discipulus. Nullo modo hoc dicentem falli video. Nempe nec plus nec minus continet ista definitio quam expediat, quoniam nomen ‘rectitudinis’ dividit eam ab omne re quae ‘rectitudo’ non vocatur 70.
Viene spontaneo rievocare a questo punto le simili parole con cui anche all’inizio del Proslogion – nella ispirata invocazione a Dio perché conceda la grazia di cogliere la verità del suo stesso nome – Anselmo chiede di riuscire a congegnare una definizione della nozione corrispondente a Dio che sia adeguata, ossia che «expediat» (che sia favorevole) ad una comprensione adeguata dell’oggetto («quia es sicut credimus et hoc est quod credimus»); perché è evidente che tale formulazione sarà ‘utile’, e potrà ‘giovare’ all’uomo, solo se riesce ad esprimere la notitia di cui Dio stesso ha conoscenza («quantum scis») quando conosce in sé l’essere qualcosa che è Dio (cioè la propria essentia): Ergo Domine, qui das fidei intellectum, da mihi ut quantum scis expedire intelligam, quia es sicut credimus et hoc es quod credimus. Et quidem credimus te esse aliquid quo nihil maius cogitari possit 71.
Come soggetto di una formula che deve ‘denotare’ ciò che ‘giova’ a comprenderne il significato, la parola «Deus» è ‘suggerita’ dalla fede, che ne legge l’enunciato fin dalle prime righe della Scrittura: «In principio creavit Deus caelum et terram» (Gn 1, 1). De veritate, 11, 480A, p. 191, 19-24. Proslogion, 2, 227C, p. 101, 3-5. Per quella che è a mio parere la corretta interpretazione dell’espressione «intellectus fidei dare», secondo cui «fidei» va inteso come un dativo di vantaggio e non come un genitivo, mi limito a rimandare a d’Onofrio, Vera philosophia cit. (alla nota 24), p. 244, nota 61 (tr. it., pp. 224225, nota 61). 70
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La razionalità, considerando il contenuto di questa fede, si sforza di attingere una precisazione della predicazione di «essentia» ad essa corrispondente («quia es sicut credimus», «hoc es quod credimus», «credimus te esse»), capace di produrre un intellectus (participio passato del verbo «intelligere»): una precisazione che si attesta dunque come «intellectus fidei», atto di intelligenza il cui oggetto è il medesimo che viene espresso della parole della fede. Il significato della formula «aliquid quo nihil maius cogitari possit» è in tutto e per tutto corrispondente a quello del sintagma «summa substantia» nel Monologion, ma diametralmente inversa è la forma dell’espressione, lì pienamente affermativa, qui assolutamente negativa. Solo in Dio, nella mente di Dio, l’«intellectus» ad essa corrispondente è in atto, e quindi è concretamente operante in forma di «scientia» («quantum scis»); nell’uomo esso deve ancora compiersi in atto («ut intelligam»), e dare così vita a una «intelligentia» autentica: e quindi a una «scientia», secondo le aspettative della logica definitoria vittoriniano-boeziana.
7. L’inventio dell’argumentum Boezio, illustrando nel commento ai Topica di Cicerone la funzionalità logica della notio (o notitia, o, ancora, nota oppure notatio), informa che essa deve essere sufficiente per sostenere un processo logico di ricerca del significato della realtà, acquisito mediante il suo puro enunciato 72. Q uesto consente di considerarla come uno dei primi loci o tópoi elencati da Cicerone come fonti degli argumenta («argumenti sedes»), ossia come gli ambiti più generali che raccolgono i procedimenti dimostrativi finalizzati a evidenziare in modo risolutivo le connotazioni di verità di una cosa che viene sottoposta al «quaerere» dell’intelligenza 73: 72 Cfr. Severinus Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, III, PL 64, 1083D: «Notatio vero, eodem modo illud ipsum est quod in quaestione proponitur. Rem enim unamquamque omne vocabulum designat in quaestione ac denotat». 73 Le prime tre classi di loci, che sono anche le più produttive di conoscenza in quanto descrittive della natura in sé della cosa indagata («id de quo agitur» o «de quo quaeritur»), sono: quella che genera l’argumentum ex toto, ossia che dimostra la verità della cosa a partire dal ‘tutto’, da una esplicazione completa
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gli «argumenta» sono infatti le operazioni mentali con cui la mente affronta o risolve tutte le «quaestiones», ossia ogni «dubitabilis propositio» o enunciato in forma di domanda alla quale è possibile rispondere con un sì o con un no; e i primi tre sono i più capaci di produrre una descrizione della cosa indagata quanto più possibile coerente con la sua realtà 74. Q uesto ‘apparire’ della verità è l’esito corretto di quella disciplina che, in quanto fondata sull’impiego dei loci communes o tópoi della mente, si chiama τοπική e consiste appunto nella «argumentorum inventio» 75: la chiarificazione della «res dubia» operata dall’«argumentum» è, secondo una fondamentale indicazione di Cicerone, la regolamentazione del pensiero («ratio») finalizzata alla produzione di una «fides» che scioglie ogni dubbio nei confronti della cosa indagata: «Itaque licet definire locum esse argumenti sedem, argumentum autem rationem quae rei dubiae faciat fidem» 76. ed esauriente della realtà della cosa; quella che scaturisce da una enumerazione e descrizione delle sue ‘parti’, o argumentum ex partibus totius; e infine quella, appunto, che viene dalla precisazione del nome con cui la cosa è correttamente designata, ossia l’argumentum ex nota (o notatio). 74 Cfr. Severinus Boethius, ibid., I, 1048B: «Necesse est ut ubi dubitatur aliquid, ibi sit quaestio: quod si argumentum praeter rem dubiam esse non poterit, nullo modo esse praeter quaestionem potest. Q uaestio vero est dubitabilis propositio. (…) Ad quaestionem igitur, id est ad dubitabilem propositionem, omnis intentio dirigitur argumenti». Cfr. d’Onofrio, Fons scientiae cit. (alla nota 23), pp. 260-261; e cfr. Id., Topica e sapere teologico nell’alto Medioevo, in Les lieux de l’argumentation. Histoire du syllogisme topique d’Aristote à Leibniz, éd. par J. Biard – F. Mariani Zini, Turnhout 2009 (Studia Artistarum. Études sur la Faculté des arts dans les Universités médiévales, 22) pp. 141-170. 75 Cfr. Severinus Boethius, ibid., I, 1148A: «Est enim topices intentio, argumentorum facilis inventio». 76 Marcus Tullius Cicero, Topica 2, 8, ed. Friedrich cit. (alla nota 68), p. 426, 8-10. Cicerone precisa che le parti della logica (ratio disserendi) sono due, l’inventio e lo iudicium, cui corrispondono rispettivamente la disciplina topica e la disciplina chiamata, in senso stretto, dialectica. Aristotele è stato maestro in entrambi i campi, gli Stoici invece si sono limitati alla dialectica mediante la quale hanno soprattutto valutato la correttezza formale dei procedimenti logici, in quanto hanno considerato inutile l’inventio, ossia la fase di reperimento dei fondamenti da cui trae veridicità il ragionamento, in quanto secondo la loro concezione la verità di una affermazione logicamente corretta dipende solo dall’evidenza (empiricamente accertabile) dei termini che la compongono. Aristotele ha invece assicurato, sempre secondo Cicerone, l’importanza della fase inventiva, in quanto la sola correttezza dialettica, ossia formale, dei ragionamenti (per esempio ‘gli uomini hanno le ali, i greci sono uomini, dunque i greci hanno le ali’) deve
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Q uando, nel quinto capitolo del Monologion, raccoglie l’esito del complesso argomentativo dei primi quattro, Anselmo lo definisce «quod inventum est» presupponendo che «placet», che appaga le aspettative interiori di verità di colui che ne ha seguito lo svolgimento 77. L’impiego del verbo invenire, non risponde qui, dunque, a un intento genericamente descrittivo (avere ‘trovato’ una soluzione adeguata per il quesito proposto), ma evidenzia, con preciso valore tecnico, la dipendenza metodologica dello scrivente dall’insegnamento della topica ciceroniano-boeziana. Con ciò si evidenzia, in maniera inequivocabile, il fatto che quattro procedimenti dimostrativi del Monologion sono elaborati, secondo tale impostazione metodologica, quale esito di una precomprensione intuitiva della verità da argomentare, anteriore all’articolazione delle determinazioni particolari del pensiero che la esplicitano. Ma in modo ancora più palmare, è soprattutto l’avvio del Proslogion ad essere connotato in modo insistente, quasi osses sivo, dallo scandirsi, fondato sulla medesima terminologia tecni-
essere innestata su un possesso di certezze argomentative di partenza, che sono esattamente quello che Cicerone si propone di elencare come topoi o luoghi (loci) in cui è nascosta la radice originaria della verità. Tra questi topoi si trovano naturalmente anche le definizioni (per cui per esempio non rientra nella definizione degli uomini l’avere le ali), e quindi la notitia o conoscenza adeguatamente informativa sulla vera realtà di una res. Q uesto significa che per risolvere una quaestio è necessario prendere le mosse dalla inventio di un luogo originario della verità, sul quale si fonda l’argumentum, ossia una ratio che risolve la quaestio, e a partire dal quale possono dipanarsi le indagini della dialectica, ossia la formulazione dello iudicium con il quale si verifica la correttezza della conclusione deducibile dall’argumentum mediante un’operazione dimostrativa che si chiama argumentatio. Cfr. ibid., p. 426, 20-34: «Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat partis, unam inveniendi alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem videtur, Aristoteles fuit. Stoici autem in altera elaboraverunt; iudicandi enim vias diligenter persecuti sunt ea scientia quam διαλεκτικὴν appellant, inveniendi artem, quae τοπικὴ dicitur, quae et ad usum potior erat et ordine naturae certe prior, totam reliquerunt. Nos autem, quoniam in utraque summa utilitas est, et utramque, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prior est ordiemur. Ut igitur earum rerum quae absconditae sunt demonstrato et notato loco facilis inventio est, sic eum pervestigare argumentum aliquod volumus, locos nosse debemus. Sic enim appellatae sunt ab Aristotele hae quasi sedes, e quibus argumenta promuntur». Su questa dottrina, cfr. d’Onofrio, Fons scientiae cit. (alla nota 23), pp. 94-96. 77 Cfr. Monologion, 5, 150A, p. 18, 7: «Q uoniam itaque placet quod inventum est».
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ca, di passaggi argomentativi in base all’evocazione delle regole dei «topica», che li rendono operanti: una serrata alternanza di quaerere, invenire; un allusione al locus dove è collocata la verità di Dio; fino all’esplicito – e ormai inequivocabile – ricorso al termine argumentum 78: Considerans illud [sc. Monologion] esse multorum concatenatione contextum argumentorum, coepi mecum quaerere si forte posset inveniri unum argumentum, quod nullo alio ad se probandum, quam se solo indigeret, et solum ad astruendum quia Deus vere est, et quia est summum bonum nullo alio indigens, et quo omnia indigent ut sint et bene sint; et quaecunque credimus de divina substantia, sufficeret. Ad quod cum saepe studioseque cogitationem converterem (…) desperans volui cessare, velut ab inquisitione rei, quam inveniri esset impossibile 79. «Intra in cubiculum» mentis tuae (cfr. Mt 6, 6), exclude omnia praeter Deum et quae te iuvent ad quaerendum eum. (…) Dic nunc Deo: «Q uaero vultum tuum, vultum tuum Domine requiro». Eia nunc ergo tu, Domine meus, doce cor meum ubi et quomodo te quaerat, ubi et quomodo te inveniat. (…) Deinde, quibus signis, qua facie te quaeram? (…) Q uid faciet servus tuus? (…) Invenire te cupit, et nescit locum tuum. Q uaerere te affectat, et ignorat vultum tuum 80. Doce me quaerere te, et ostende te quaerenti; quia nec quaerere te possum, nisi tu doceas, nec invenire, nisi te ostendas. Q uaeram te desiderando, desiderem quaerendo, inveniam amando, amem inveniendo 81.
È cosa degna di nota il fatto che, anche se proprio nel proemio del Proslogion Anselmo allude ai multa argumenta dai quali risulta intessuto il testo del Monologion, l’uso del termine argumentum in questo senso tecnico sia del tutto assente nel primo opuscolo, tanto quanto invece è metodicamente frequente nelle pagine del secondo. È soltanto in senso generico, senza alcun riferimento al lessico della topica ciceroniano-boeziana, che «argumenta», al plurale, appare nel Prologo del Monologion, testo cit. supra in corrisp. della nota 6; e ibid., 19, 168D, p. 34, 8-9: «Q uid ergo molita est tanta moles argumentorum, si tam facile demolitur nihilum molimina eorum?». 79 Proslogion, Prooem., 223BC, p. 93, 4-10. 80 Ibid., 1, 225B-226A, pp. 97, 7 - 98, 12. 81 Ibid., 226B, p. 100, 8-11. Ho lievemente corretto la punteggiatura dell’ed. Schmitt. 78
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La stessa, esclusiva e precisa designazione di unum argumentum per quello che i moderni – con terminologia estranea e impropria – hanno l’abitudine di chiamare ‘dimostrazione a priori’ dell’esistenza di Dio o ‘argomento ontologico’, ne evidenzia l’appartenenza a una tipologia di procedimenti mentali riconducibili alla disciplina «topica», come era praticata nell’alto Medioevo: procedimenti tra i quali esso viene presentato da Anselmo come ‘il solo’, l’unico capace di essere applicato con necessità inderogabile e inequivocabile alla ‘nozione’ dell’esistenza di Dio, ed è l’unico capace di funzionare ‘da solo’, ossia autonomamente («quod… sufficeret»). L’aggettivo «unus» indica in effetti non la semplice singolarità fra altri singoli identici all’interno di una molteplicità, ma l’unicità assoluta all’interno del genere di appartenenza 82: l’argumentum è unum perché, mentre in generale è possibile (come è risultato chiaro nel Monologion) che da un medesimo locus mentale scaturiscano molteplici argumenta relativi allo stesso oggetto (l’esistenza di Dio), in questo caso la riflessione umana prende le mosse da un tópos dal quale, relativamente a tale oggetto, può prendere corpo un argumentum unico, il solo che sia possibile trarre da esso. Una volta cioè enunciato il tópos, la pura introduzione al suo interno della definizione del soggetto «Deus» come «aliquid quo maius cogitari non potest» appare sufficiente per assicurare una incontestabile risposta affermativa alla quaestio sulla necessità della sua esistenza reale. Il locus che Anselmo tacitamente introduce, in quanto dotato in modo peculiare di tale immediata efficacia, è il più prezioso e apprezzato, nella storia del pensiero logico tardo-antico e altomedievale, tra i tópoi dell’elenco ciceroniano-boeziano: il locus a repugnantibus, ossia che «ex contrariis efficitur» e che accerta 82 Cfr. Hoffmann – Szantyr, Lateinische Syntax und Stilistik cit. (alla nota 17), p. 193: «Unus bedeutete zunächst stark isolierend ‘allein’». Esemplificazioni frequenti di questa utilizzazione dell’aggettivo «unus» in contesti particolarmente significativi sul piano teologico si trovano nell’opera di Anselmo; cfr. Monologion, 1, 144C, p. 13, 5-6: «…unam naturam summam omnium quae sunt…»; ibid., 145B, p. 14, 7-9: «Estne credendum esse unum aliquid, per quod unum sint bona quaecunque bona sunt, an sunt bona alia per aliud?»; Epistola de incarnatione Verbi, prior recensio, 1, 265B, p. 10, 8-9: «Q ualiter discernet inter unum Deum et plures relationes eius?»; De casu diaboli, 12, 343AB, p. 253, 29-30: «Beatitudo et iustitia non sunt illo diversa, sed unum bonum».
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l’impossibilità che siano contemporaneamente vere due affermazioni contraddittorie. Cicerone, evocando la testimonianza della tradizione retorica antica, afferma che questo tópos è talmente apprezzato dagli studiosi da avere meritato in modo specifico di essere denominato enthymema (ἐνθύμημα), anche se questo nome è comunemente utilizzato per designare tutte le dimostrazioni (cioè tutte le «inventiones» di verità), così come Omero è detto ‘il poeta’ per eccellenza 83. Boezio, commentando Cicerone, dichiara che questo tópos si esprime esaustivamente nella formulazione del terzo modo del sillogismo ipotetico («non et primum et non secundum, primum autem, igitur et secundum»), con cui si dichiara l’impossibilità che siano contemporaneamente negate due affermazioni la cui portata significante è identica, come se si dicesse ‘non è possibile che sia uomo e che non sia animale’: Tertium vero modum ait esse Cicero cum ea quae coniuncta sunt, denegantur, et his alia negatio rursus adiungitur, ut quia ‘animal’ ‘homini’ coniunctum est, ita dicamus: «non et homo et non animal est», atque ex his unum ponitur, ut quod relinquitur auferatur, hoc modo: ponimus hominem esse, dicentes: «atqui homo est»; quod ergo relinquitur, «non est animal», aufertur, atque concluditur, «animal igitur est». Fit argumentatio hoc modo: «non et homo est, et non animal, atqui homo est, animal igitur est». Ex his nasci dicit enthymemata ex contrariis conclusa, quibus plurimum rhetores uti solent; atque haec enthymemata nuncupantur, non quod eodem nomine omnis inventio nuncupari non possit (enthymema namque est mentis conceptio, quod potest omnibus inventionibus convenire), sed quia haec inventa, quae breviter ex contrariis colliguntur, maxime acuta sunt, propter excellentiam speciemque inventionis commune enthymematis nomen proprium factum est, ut haec a rhetoribus quasi proprio nomine enthymemata vocentur 84. 83 Cfr. Marcus Tullius Cicero, Topica, 13, 55, ed. Friedrich cit. (alla nota 68), p. 437, 19-26: «Ex hoc illa rhetorum sunt ex contrariis conclusa, quae ipsi ἐνθυμήματα appellant; non quod omnis sententia proprio nomine ἐνθύμημα non dicatur, sed, ut Homerus propter excellentiam commune poetarum nomen efficit apud Graecos suum, sic, cum omnis sententia ἐνθύμημα dicatur, quia videtur ea quae ex contrariis conficitur acutissima, sola proprie nomen commune possedit». 84 Severinus Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, V, PL 64, 1142C-1143A. Boezio stesso e altre fonti tardo antiche confermano ulterior-
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Nella letteratura teologica dell’alto Medioevo l’efficacia dimostrativa di questo procedimento gode di ampio riconoscimento. Ne è attento testimone Giovanni Scoto Eriugena, che raccomanda l’uso dell’enthymema in più di una occasione nel trattato polemico De praedestinatione, per la sua feconda capacità di produrre argomenti a favore dell’unitarietà sostanziale del divino 85. In un commento anonimo alla Consolatio Philosophiae del secolo xii, noto come l’Anonimo di Erfurt, le parole con cui Boezio definisce il divino come «quo nihil melius excogitari potest» sono senz’altro rivestite della forza argomentativa del procedimento anselmiano, designato come come «argumentum ab immediato» e formulabile proprio nella struttura formale di un sillogismo
mente il collegamento, qui suggerito, dell’enthymema con il sillogismo retorico, ossia con il sillogismo ‘imperfetto’ nel quale viene omessa la seconda premessa, per la sua implicita evidenza, e si passa direttamente dalla formulazione della prima alla conclusione: cfr. ibid., I, 1050BC: «Enthymema vero est imperfectus syllogismus, cujus aliquae partes, vel propter brevitatem, vel propter notitiam, praetermissae sunt. Itaque haec quoque argumentatio a syllogismi genere non recedit. Q uoniam igitur syllogismus omnis propositionibus constat, propositiones vero terminis, terminique inter se differunt, eo quod unus maior est, alter minor, fieri non potest ut ex propositionibus conclusio nascatur, nisi per terminos progressae propositiones extremos terminos alicuius tertii medietate coniunxerint». Cfr. anche Id., De differentiis topicis, II, 1184BC; Cassiodorus Senator, Expositio Psalmorum, 20, PL 70, [9-1056], 149D, ed. M. Adriaen, 2 voll., Turnhout 1958 (CC, 97-98), p. 185, 124-132: «Enthymema, quod Latine interpretatur mentis conceptio, syllogismus est constans ex una propositione et conclusione, quem dialectici dicunt rhetoricum syllogismum, quia eo frequenter utuntur oratores pro compendio suo. (…) Ista est tertia species syllogismorum per quos dialectici subtilissimis disputationibus quae probare nituntur ostendunt». 85 Cfr. Iohannes Scotus Eriugena, De praedestinatione, 3, PL 122, [347440], 366B, ed. E. Mainoldi, Firenze 2003 (Per verba, 18), p. 28, 8-13: «Q uae ratio enthymematis argumento concluditur, quod semper est a contrario, cuius propositio talis est: ‘non et Deus summa essentia sit, et eorum tantum, quae ab eo sunt, causa non sit’; ‘est autem Deus summa essentia’; ‘est igitur eorum tantum, quae ab eo sunt, causa’. ‘Peccatum, mors, miseria a Deo non sunt’; ‘eorum igitur causa Deus non est’». Q uindi con una importante sottolineatura del riconoscimento boeziano della posizione privilegiata che spetta all’enthymematis argumentum tra tutte alle «conceptiones mentis», cfr. ibid., 9, 3, 391B, p. 92, 11-18: «Restant ea, quae contrarietatis loco sumuntur, quibus tanta vis inest significandi, ut quodam privilegio excellentiae suae merito a Graecis enthymemata dicantur, hoc est, conceptiones mentis. Q uamvis enim omne, quod voce profertur prius mente concipiatur, non tamen omne quod mente concipitur, eandem vim significationis, dum sensibus fervore infunditur, habere videtur. Sicut ergo argumentorum omnium fortissimum est illud, quod sumitur a contrario, ita omnium signorum vocalium aptissimum est, quod ducitur ab eodem contrarietatis loco».
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ipotetico 86. Più tardi sarà Bonaventura di Bagnoregio a coniare la migliore sintesi possibile dell’argumentum anselmiano, con una serratissima conclusione per impossibile: «Si Deus est Deus, Deus est» 87. Anselmo non esplicita invece in questa forma articolata l’evidenza dimostrativa dell’argumentum, perché è palese che nei primi capitoli del Proslogion egli si vuole limitare, in armonia con le istruzioni di Cicerone e Boezio, a utilizzarne in modo immediato e diretto la capacità di svelare l’evidenza della verità in esso implicata: senza cioè svilupparla – come è del resto sempre possibile nei confronti di ogni formulazione di argumenta topici – in una o più argumentationes che esplicitino e consolidino attraverso una mediazione di passaggi sillogistici la concatenazione tra le premesse (‘se aliquid è concepibile come quo maius cogitari nequit non può non esse’ e ‘Dio è aliquid quo maius cogitari nequit’) e la conclusione (‘dunque Dio est’). Nel Proslogion si limita a sottolineare l’esito dell’inventio dell’argumentum, e non ritiene necessario il passaggio ad uno iudicium per confermarne, mediante una collatio di passaggi logici, l’efficacia dimostrativa: tale passaggio viene anzi da lui tacitamente rifiutato come un ostacolo alla stringente correttezza dell’intuizione topica, sufficientemente fondata sul riconoscimento del fatto che la proprie-
86 Cfr. Anonymus Erfurtensis, Commentarius in Boethii Consolationem Philosophiae, ed. in E. T. Silk, Saeculi noni auctoris in Boetii Consolationem Philosophiae commentarius, Roma 1935 (Papers and Monographs of the American Academy in Rome, 9), pp. 191, 19 - 192, 13: «Nam cum Deus sit quo nihil melius excogitari possit, is Deus erit summum bonum, scilicet perfectum bonum; sicut humana ratio probat taliter: quia si Deus non erit tale, scilicet summum bonum, non poterit esse princeps omnium, quia oportebit esse alium Deo praestantiorem in quo sit summum bonum. Sic argumentaberis: ‘aut Deus est summum bonum aut aliud quod sit Deo praestantius et antiquius, id est dignius’. (…) ‘Sed non est aliud Deo scilicet praestantius quod sit summum bonum’, (…) ‘ergo Deus tantum est summum bonum’ (ab inmediato)». Sull’ipotesi (non più sostenibile) dell’editore Edmund T. Silk che il testo sia opera di un anonimo del nono secolo (a suo parere identificabile con Giovanni Scoto stesso), cfr. il mio studio Giovanni Scoto e Remigio di Auxerre: a proposito di alcuni commenti altomedievali a Boezio, in «Studi medievali», 3a Ser., 22/2 (1981), pp. 587-693. 87 Cfr. Bonaventura de Balneoregio, Q uaestiones disputatae de Mysterio Trinitatis, q. 1, a. 1., 29, ed. studio et cura PP. Collegii a S. Bonaventura, in Id., Opera, V, Q uaracchi 1891, p. 48a: «Similiter argui potest: si Deus est Deus, Deus est; sed antecedens est adeo verum, quod non potest cogitari non esse; ergo Deum esse est verum indubitabile».
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tà dell’esistenza è implicita nella veritas della notitia di Dio come quo maius. Perciò Anselmo vieta all’insipiens – o comunque a chi non condivide la piena identità di quo maius e summa natura – di presumere l’esercizio di un giudizio logico sull’enunciato, intuitivo e indubitabile, di tale identità: Si enim aliqua mens posset cogitare aliquid melius te, ascenderet creatura super Creatorem, et iudicaret de Creatore: quod valde est absurdum 88.
Non è poco significativo, del resto, il fatto che, viceversa, nella stesura della Responsio a Gaunilone, obbligato dall’avversario a scendere sul piano della verifica dei passaggi logici successivi all’immediata evidenza dell’argumentum, egli proceda proprio ad evidenziare le successive conexiones (o collationes, o conclusiones) di asserzioni delucidatorie dell’inventio (cioè di successive forme di iudicium), introducendo apertamente la nozione di argumentatio per indicarne ogni successivo sviluppo mediato e discorsivo 89.
8. Il sistema teologico anselmiano, tra lectio scritturale e ratio necessaria È ormai evidente come nel tessuto scrittorio di un intellettuale del mondo monastico alto-medievale, che fin da fanciullo si è eserci88 Proslogion, 3, 228BC, p. 103, 4-6. Cfr. anche De processione Spiritus sancti, 14, 320C, p. 214, 19-22: «Sicut igitur intellectus noster non potest transire ultra aeternitatem, ut quasi de principio eius iudicet, sic non potest de hac nativitate vel processione nec debet ad similitudinem creaturae sentire vel iudicare». 89 Cfr. Responsio, 2, 251AB, p. 132, 10-11: «Dixi itaque in argumentatione quam reprehendis quia cum insipiens audit proferri ‘quo maius cogitari non potest’, intelligit quod audit»; ibid., 3, 252B, p. 133, 6-9: «Fidens loquor, quia si quis invenerit mihi aliquid aut reipsa, aut sola cogitatione existens, praeter ‘quo maius cogitari non possit’, cui aptare valeat connexionem huius meae argumentationis, inveniam et dabo illi perditam insulam amplius non perdendam»; ibid., 10, 260A, p. 138, 28-30: «Puto quia monstravi me non infirma, sed satis necessaria argumentatione probasse in praefato libello reipsa existere aliquid, quo maius cogitari non possit». Cfr. il mio saggio «Respondeant pro me» cit. (alla nota 24). Sulla distinzione di argumentum e argumentatio, cfr. Severinus Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, I, 1050B: «Argumentum vero nisi sit oratione prolatum, et propositionum contexione dispositum, fidem facere dubitationi non poterit. Ergo illa per propositiones prolatio ac dispositio argumenti, argumentatio nuncupatur».
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tato su regole e terminologia della disciplina dialectica, la ricorrente precisione terminologica fin qui riscontrata non possa essere considerata casuale, né episodica: in quanto loqui divino, la Rivelazione è meglio compresa grazie a una corretta applicazione degli strumenti di indagine elaborati dalla scienza umana per analizzare, classificare e comprendere i procedimenti di ogni discorso dotato di senso. Cosciente e intenzionale deve allora essere considerato l’uso di questo linguaggio anche quando ritorna in altri scritti di Anselmo, come le sue meditazioni e preghiere, apparentemente decontestualizzato da intenti argomentativi, per essere agganciato a prescrizioni e immagini significanti incontrate nel testo sacro. Così, per esempio, nella Oratio a San Pietro, pastore di anime, non è né casuale né semplicemente metaforico l’emergere della successione tecnica di quaestio, inventio e collectio per descrivere la ricerca, il reperimento e la raccolta di anime, sulla cui coerente concatenazione si fonda la realtà meta-storica della Chiesa di Cristo: Petre, pastor Christi, recollige ovem Christi. Dominus tuus imposuit in humeros suos gaudens quaesitam et inventam, ne repellas redeuntem et supplicantem 90.
Il sillogismo è spesso definito dalle fonti dialettiche tardo-antiche come collectio, e il verbo colligere è con frequenza utilizzato per indicare le conclusioni necessarie che derivano da due premesse: perché la collectio è sempre lo sviluppo dimostrativo dell’inventio topica 91. La congiunzione tra l’immagine del pastore in cerca della pecora smarrita e la costruzione tecnica dell’argumentatio, scandita dall’apertura di una quaestio e dell’attuarsi di una inventio, è dunque qui finalizzata a illustrare, come esito del reperimento di un corretto locus argomentativo, il passaggio alla verace conclusione, che in questo caso è la possibilità della redenzione dal peccato. A conferma di questa lettura, possiamo porre a confronto altri due passaggi nei quali la stessa terminologia è utilizzata con Oratio ad sanctum Petrum, 973C, p. 31, 43-45. Cfr. Severinus Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, I, PL 64, 1046A: «Iam vero si absit inventio, nequit esse collectio. Non erit igitur necessaria, nec verisimilis, nec sophistica argumentatio». 90
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la stessa struttura formale del discorso, anche se per finalità poste su piani ben distinti: ancora la ricerca del peccatore nell’Oratio a San Nicola, e l’evidenziarsi della stringata tecnica dell’indagine dimostrativa nel Monologion. Reduc de abysso peccatorum, quem quaesitum invenisti perditum tuum, ne perdas amplius inventum tuum 92. Summum bonum, quod lucerna veritatis quaesitum et inventum est 93.
L’utilizzo, anche in contesti non specificamente ‘argomentativi’, di queste linee portanti che guidano l’espressione e l’organizzazione del sapere teologico evidenzia, in ultima analisi, il fatto che ciò che ‘è detto’ nella Scrittura non soltanto può, secondo Anselmo, ma deve essere oggetto di conoscenza razionale da parte del credente. Proprio in questo modo, infatti, dalla comprensione di ciò che ‘è detto’ nella Scrittura potrà sprigionarsi anche la comprensione di quanto ‘non vi è detto’, ma che è intimamente collegato e conseguente alle sue parole, secondo la valutazione di una ragione capace di seguire le implicazioni necessarie della verità. Così, come Anselmo chiarisce nel De processione Spiritus sancti, la Bibbia non dice mai apertamente («his verbis») che Dio sia uno e trino, né mai vi si legge alcun riferimento a termini come «Trinitas» o «persona»; e tuttavia la verità del mistero trinitario è rigorosamente conseguente alla verità di altre cose che vi sono scritte. La fede dell’uomo deve dunque credere sia alle parole esplicite della rivelazione, sia a quelle implicite nella rivelazione ma deducibili mediante la ragione: Potius docemur per haec quae sic dicta sunt, ea, quae in similibus dictis tacentur similiter intelligere, praesertim cum ex his quae dicuntur, nulla ratione contradicente ea quae non dicuntur rationabili necessitate consequi apertissime viderimus. (…) Denique ubi legimus in propheta aut evangelista aut apostolo his verbis deum unum esse tres personas, aut unum deum esse trinitatem, aut deum de deo? Sed neque in illo symbolo, in quo non est prolata processio sancti Spiritus de Filio, invenimus nomen personae vel trinitatis. Q uoniam tamen ex iis Oratio ad sanctum Nicolaum, 1004A, p. 60, 167-168. Monologion, 19, 169A, p. 34, 13-14.
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quae legimus haec apertissime sequuntur, constanter ea et corde credimus et ore confitemur. Q uare non tantum suscipere cum certitudine debemus quae in Sacra Scriptura leguntur, sed etiam ea quae ex his nulla alia contradicente ratione rationabili necessitate sequuntur 94.
A questo genere di verità, inespresse nella Scrittura ma necessariamente deducibili da essa, e quindi credibili, appartiene appunto l’opportuna affermazione nella liturgia trinitaria latina della partecipazione del Figlio alla processione dello Spirito santo, espressa dalla formula filioque che i Greci rifiutano. Ma tale deducibilità, fra altri processi argomentativi intrecciati nello stesso trattato, appare anche come una immediata consequenza della medesima, centrale meditazione sull’identità assoluta in Dio di verità e di conoscenza della verità che ha sostenuto e alimentato nel Monologion le molteplici articolazioni della intelligibilità della «summa substantia» divina da parte della mente umana. Le parole di Cristo stesso, nel Vangelo di Matteo, proclamano infatti che la piena e vera conoscenza (notitia, da «noscere») della ‘sostanza’ del Padre compete al Figlio e a quanti il Figlio la vuole rivelare. Ma da questo enunciato di fede la ragione umana deve dedurre che tale notitia non può competere solo al Padre e al Figlio e non allo Spirito, perché questo implicherebbe nella terza persona una differenza e una minorazione rispetto alle prime due. Siccome invece è certo che l’«essentia» dello Spirito è proprio la «notitia» o conoscenza amorosa reciproca che lega il Padre al Figlio, restano solo due conclusioni possibili: o lo Spirito ‘ha’ tale notitia o scientia perché gli è rivelata dal Figlio; oppure lo Spirito ‘è’ tale notitia, perché la perfetta conoscenza reciproca è proprio ciò che assicura l’identità di Padre e Figlio tra loro e di entrambi con lo Spirito. I Greci sono liberi di scegliere tra queste due possibilità, perché da entrambe, secondo Anselmo, scaturisce per necessità logica la verità del Filioque. Poiché infatti la notitia è l’«essentia» divina, se essi ammettono che lo Spirito conosce il Padre grazie alla rivelazione del Figlio, devono riconoscere che lo Spirito riceve dal Figlio il conoscere e l’essere: e quindi, poiché la fede afferma che procede dal Padre, De processione Spiritus sancti, 11, 314B-315B, pp. 208, 8-11 e 209, 9-16.
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è necessario concludere che procede anche dal Figlio. Se invece ammettono che lo Spirito è la conoscenza reciproca del Padre e del Figlio, è evidente che anche la terza persona partecipa di tale conoscenza in modo eguale alle altre due persone: è poiché il Padre è identico al Figlio, e la fede afferma che lo Spirito procede dal Padre, allora è necessario credere che lo Spirito procede anche dal Figlio 95. Con questa articolata dimostrazione, Anselmo si inoltra arditamente, una volta di più, nell’illustrazione della perfetta univocità tra il linguaggio della confessione di fede e quello della dimostrazione razionale applicata ai contenuti della rivelazione. Ai Greci che fondano la loro polemica sull’osservazione che nei testi sacri (Scrittura e tradizione conciliare) non si trova alcuna esplicita indicazione sulla legittimità del Filioque, egli oppone la forza con cui la razionalità, applicata a quei medesimi testi, deduce con correttezza, e senza contraddittorietà («nulla ratione contradicente») la rationabilis necessitas di una migliore comprensione, e quindi di una più precisa formulazione, della confessione di fede su essi fondata. Con l’aggiunta del Filioque i Latini non hanno fatto altro, rispetto ai Greci, se non esplicitare qualcosa la cui verità, in quanto coerentemente congiunta con la verità della fede condivisa, viene fatta a sua volta oggetto di fede («credere et confiteri»):
95 Cfr. ibid., 7, 305A-306B, pp. 198, 5 - 199, 23: «Audimus quia ‘nemo novit Patrem’, aut Filium, nisi Pater, aut Filius, et cui ‘revelat Filius’ (cfr. Mt 11, 27). (…) Omnino igitur nullus habet hanc notitiam, nisi Pater et Filius, et cui Filius idem revelat. Aut itaque Spiritus sanctus non cognoscit Patrem et Filium, quod impium est opinari; aut Filius revelat ei sui et Patris scientiam, quae non est aliud quam eiusdem Spiritus sancti essentia. (…) Eligant itaque Graeci unum de duobus, si aperte veritati nolunt resistere: aut scilicet Spiritum sanctum non nosse Patrem et Filium nisi revelante Filio; aut propterea, quia in hoc per quod se cognoscunt Pater et Filius unum sunt cum Spiritu sancto, quando ipsi dicuntur se nosse, consequi ex necessitate ut in eadem notitia intelligatur Spiritus sanctus. (…) Si quidem eligunt Spiritum sanctum nosse Patrem et Filium per revelationem Filii, habet a Filio nosse, quod non est aliud illi quam esse; est igitur et procedit a Filio, quoniam ab illo procedit a quo est. Si autem dicunt, cum Pater et Filius dicuntur nosse se, quia essentia, per quam se noscunt, eadem est Spiritui sancto, consequi Spiritum sanctum eiusdem esse consortem notitiae, cum legunt illum ‘a Patre procedere’ (Jo 15, 26), de quo ait Filius ‘Ego et Pater unum sumus’ (Jo 10, 30), confiteantur nobiscum, propter essentialem identitatem Patris et Filii, illum a Filio quoque proculdubio procedere».
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Q uod quam necessarium fuerit, per illos qui hoc negant quia in illo Symbolo positum non est, cognoscimus. Q uoniam igitur et necessitas cogebat et ratio nulla prohibebat et vera fides hoc admittebat, fiducialiter asseruit Latinitas quod credendum et confitendum esse cognoscebat. Scimus enim quod non omnia quae credere et confiteri debemus ibi dicta sunt, nec illi qui symbolum illud dictaverunt, voluerunt fidem Christianam esse contentam ea tantummodo credere et confiteri quae ibi posuerunt 96.
È dunque evidente come – pur in assenza, ancora, del nome che comincerà a caratterizzarla solo a partire dalle generazioni di intellettuali a lui posteriori – la theologia cristiana (o sacra doctrina) sia nelle opere anselmiane già evidentemente operante con legittimità di metodo e nell’ottica di conseguire una produttiva chiarificazione di qualsiasi incertezza nei confronti della verità di fede. La razionalità creata vi appare pienamente capace di ‘dire’ tutto ciò che è necessariamente contenuto nelle formula della fede, sia in modo esplicito, sia in modo non esplicito. Il lettore dei tempi di Anselmo comprendeva con chiarezza quali parole della filosofia, e con quali esiti, egli avesse introdotto nei propri testi per chiarire, estendere e consolidare il significato delle parole della fede: con esiti radicalmente diversi, dunque, da quelli degli interventi abusivi degli eretici o dei miscredenti, che si addentrano, facendosi largo con strumenti inadeguati e senza correttezza logico-scientifica, tra le verità enunciate dalla Scrittura e già correttamente illustrate e interpretate dai Padri. L’obiettivo unico della meditazione teologica di Anselmo – come egli affermava programmaticamente contro la vanificazione del sapere razionale promossa da Roscellino – rimane infatti «intelligere» a vantaggio della fede («pro fide nostra») ciò che già è oggetto indiscutibile di un «firmissime credere»: In quibus, si aliquid quod alibi aut non legi aut non memini me legisse – non quasi docendo quod doctores nostri nescierunt, aut corrigendo quod non bene dixerunt, sed dicendo forsitan quod tacuerunt, quod tamen ab eorum dictis non discordet, sed illis cohaereat –, posui ad respondendum pro fide nostra contra eos, qui nolentes credere quod non intelligunt Ibid., 317BC, p. 211, 14-20.
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derident credentes, sive ad adiuvandum religiosum studium eorum, qui humiliter quaerunt intelligere quod firmissime credunt, nequaquam ob hoc me redarguendum existimo 97.
Elaborata nel corso dei secoli dall’intelligenza umana per fissare elementi sicuri e fermi nel processo conoscitivo che la accosta alla rectitudo eterna delle realtà universali nel Pensiero divino, la lingua della filosofia (ossia delle arti liberali) è un supporto talmente indispensabile al credente medievale che è necessario da parte dei lettori moderni sforzarsi di coglierla, per intendere il loro pensare, nella sua autentica efficacia, storicamente determinata, ossia adeguatamente contestualizzata nel panorama mentale e educativo in cui è operante. Non è legittimo, inversamente, mettere in campo, per entrare nell’ordito speculativo del testo di Anselmo, strumenti o processi mentali estranei alla sua competenza e che, trapiantati in un contesto cui non appartengono, non possono che alterarne la sincera omogeneità argomentativa originale della sua prosa. Tanto meno è legittimo isolare le sue argomentazioni dalle esigenze speculative da cui scaturiscono, perché proprio tali esigenze ne giustificano e ne guidano la genesi e i processi. Come sarebbe assurdo argomentare sulla correttezza o meno del Filioque in un contesto di disinteresse o di mancata comprensione per il significato della dottrina trinitaria cristiana, allo stesso modo per nessuna delle procedure dimostrative messe in atto nelle opere anselmiane avrebbe alcun senso deviarle dall’intenzione fondamentale della sua scrittura: che è quella di rielaborare in forma di linguaggio umano l’univocità certa ma non evidente del discorso con cui Dio parla agli uomini e li informa. Il che significa che tutte le molteplici e tra loro concatenate argomentazioni contenute nel corpus dei suoi scritti speculativi sono finalizzate al sostegno documentario e alla autentica finalizzazione, come si legge nel passaggio appena ricordato dalla requisitoria contro Roscellino, di un «religiosum studium» da parte dei credenti: espressione che non può non apparire indicativa di un vero e proprio programma speculativo, che doveva ricalcare, come già nel nome anche nelle forme e nelle attuazioni concrete, gli insegnamenti di quello «studium sapientiae» (o filosofia) che Epistola de incarnatione Verbi, 273A, pp. 20, 21 - 21, 4.
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coincideva per gli intellettuali dell’alto Medioevo con l’esercizio e la pratica delle arti liberali. Ci sono state epoche nella storia dell’umanità in cui i movimenti di pensiero più complessi e arditi hanno trovato adeguata possibilità e capacità di esprimersi, oltre che nelle forme letterarie ritenute tradizionalmente più adatte come quella del trattato o anche del dialogo, anche mettendo a frutto il ricorso al linguaggio meno diretto ma più espressivo della letteratura e della poesia 98. Nella più recente fase della civiltà medievale è forse difficile incontrare nel contesto della produzione scolastica adeguate concretizzazioni di questa generale potenzialità: a parte alcune, quanto mai significative eccezioni (Dante, prima di chiunque altro), la speculazione filosofica e teologica dei secoli xiii e xiv si esprime mettendo in opera un tecnicismo puro ed essenziale, regolamentato da formalismi ricorrenti e condivisi. Q uasi cent’anni prima della nascita delle università, l’opera di Anselmo d’Aosta offre invece una significativa testimonianza inversa. Pensatore e, insieme, poeta (poiché prodotti di squisita raffinatezza poetica sono le sue Orationes e Meditationes), egli non è meno poeta quando si investe rigorosamente del compito del pensatore di quanto non sia pensatore quando canta da poeta. Una rara sintesi di abilità tecnica ed elegante ricercatezza formale lo impone senza dubbio come uno dei più grandi scrittori dell’alto Medioevo occidentale. E tuttavia, assai elevato è il rischio di compromettere la valutazione di questa sua grandezza, se si perde di vista quanto la lucida intensità dei suoi pensieri prenda vita dalla perfezione tecnica che dà forma alla loro espressione.
98 Cfr. G. Gentile, Dante nella storia del pensiero italiano (1905), in Id., Studi su Dante, a c. di V. C. Bellezza, Firenze 1965 (nuova ed. 2004), [pp. 3-52], p. 3-5; e E. Paratore, La letteratura latina dell’età imperiale, Milano 1969 (Le letterature del mondo, 47), p. 241.
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LA NUOVA FRONTIERA ERMENEUTICA DELLE OPERE SPECULATIVE DI ANSELMO. PROBLEMI E PROSPETTIVE
La ricorrenza del nono centenario della morte di Anselmo d’Aosta (1033-1109) offre l’occasione, oltre che di fare un bilancio della rinnovata ermeneutica dei testi anselmiani, prodotta internazionalmente a partire dagli anni sessanta del ventesimo secolo, di affrontare in modo più consapevole e maturo alcuni nodi interpretativi del suo pensiero filosofico e teologico. Non intendo affrontare in questa sede la mappatura della vasta bibliografia, per la quale rinvio alle principali opere più recenti 1; intendo piuttosto affrontare problemi ermeneutici antichi ed ancora oggi sottoposti a discussione, incominciando dall’annosa disputa sulla possibilità di distinguere in modo netto tra opere filosofiche e opere teologiche nella produzione di Anselmo, disputa riconducibile ad una mancata collocazione contestuale dell’accezione dei termini filosofia e teologia alla fine del secolo xi. Di una mancanza di prospetticità è frutto la contrapposta accusa, ora di razionalismo, ora di fideismo, ripetutamente rivolta ad Anselmo dalla tradizione storiografica. 1 Ho deliberatamente escluso, nei singoli passaggi esegetici dei testi di Anselmo, il richiamo della bibliografia specifica, anche perché, essendo molto ampia, avrebbe molto appesantito il presente saggio. Si tratta di una bibliografia continuamente e massicciamente riprodotta negli studi su Anselmo, e dunque facilmente reperibile da tutti. Mi limito, in base a una scelta soggettivamente mirata, a rinviare ai seguenti volumi: B. Goebel, Rectitudo. Wahreit und Freiheit bei Anselm von Canterbury. Eine philosophische Untersuchung seines Denkenansatzes, Münster 2001 (BGPTMA, N. F., 56); M. Leonor Xavier, Razào e ser. Tres questioes de ontologia em Santo Anselmo, Porto 1999; N. Albanesi, Cur Deus homo: la logica della redenzione. Studio sulla teoria della soddisfazione di S. Anselmo arcivescovo di Canterbury, Roma 2002; A. Luiso, Il grande koan. Le disavventure dell’argomento ontologico, Napoli 2007.
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 77-105 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112912
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Una querelle temporalmente distesa riguarda poi la corretta accezione di espressioni come sola ratione, rationes necessariae, rationis necessitas, coinvolgente l’ermeneutica di termini come fides, ratio, intellectus, necessitas. Resta altresì aperta la discussione circa l’interrogativo se la speculazione anselmiana possa essere proiettata in direzione della teologia speculativa, che ha avuto la sua espansione prima nelle opere teologiche di suoi immediati successori, come Pietro Abelardo, Pietro Lombardo, Alano di Lilla, e che venne successivamente ripresa nella linea più strutturata epistemologicamente della sacra doctrina del secolo xiii, quella della grande fioritura della scolastica medievale; oppure se non si debba pensare ad Anselmo come coinvolto in una linea di teologia contemplativa, talora sbrigativamente connotata come mistica, nella direzione delle opere dei maestri delle scuole monastiche del secolo xii, in particolare delle scuole dei Cisterciensi o dei Vittorini.
1. Introduzione: le principali emergenze ermeneutiche L’impegno di questa riflessione è quello di offrire un contributo volto a dirimere in parte alcuni dei punti controversi, senza pretesa di chiudere il dibattito. Si cercherà così di mostrare, attraverso una puntualizzazione critica relativa ad alcuni passaggi dei testi anselmiani, la necessità di superare la richiesta di distinzione tra opere caratterizzabili come opere di pura filosofia e opere qualificabili come strettamente teologiche, poiché tale distinzione netta è legata ad una forzatura nell’accezione dei termini filosofia e teologia: la storiografia più recente ha infatti riconosciuto come essi siano assunti nel secolo di Anselmo con una valenza ben diversa da quella che i due termini riceveranno a partire dal secolo xiii. Trattando del celebre unum argumentum, noto nella storiografia filosofica come ‘argomento ontologico’, vedremo emergere come l’affermazione del capitolo 4 della Risposta di Anselmo a Gaunilone, per cui l’esistenza dell’«id quo maius cogitari nequit» non può essere pensata negativamente nemmeno dal solo pensiero 2, Cfr. Responsio, 4, 253B, p. 134, 4-6: «Illud vero solum non potest cogitari non esse, in quo nec initium nec finem nec partium coniunctionem, et quod non nisi semper et ubique totum ulla invenit cogitatio». 2
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raggiunga il risultato della definitiva esclusione, per via di confutazione o elenchos, di ogni istanza riconducibile all’atteggiamento dell’insipiens, allorquando questi volesse negare la costituzione del principio del cogitare e dell’intelligere della mente. Nel libro IV della Metafisica Aristotele mostra che chiunque pretende di negare il valore del principio di non contraddizione, lo afferma, diversamente la sua negazione non potrebbe consistere, non potrebbe stare, perché non si concede la stabilità dei significati di qualsiasi affermazione 3; analogamente nella prospettiva di Anselmo l’insipiente che volesse sostenere che l’«id quo maius cogitari nequit» non solo non sussiste nella realtà, ma che non si dà nemmeno nel pensiero, finisce col negare che si costituisca alcun significato delle parole che pensa. Per Anselmo infatti il negatore non può pensare che Dio non esista, anche se può materialmente dire queste parole, perché esse non possono avere alcun significato, ossia si annulla la loro portata significativa, come nel caso di uno che dicesse che ‘il nulla esiste’: due parole che si autoelidono, non potendo assurgere ad un significato congiunto. Una ulteriore anticipazione di emergenza ermeneutica riguarda la dialettica anselmiana: affiora con chiarezza l’istanza della ratio anselmiana come veicolatrice di una riformulazione dei compiti della teologia, attraverso un programma teologico che si distacca dal modello dionisiano: la teologia non viene più protesa unidirezionalmente al superamento della negazione per lasciare spazio alla superlativa ‘tenebra luminosissima’, ma si assesta con molta lucidità nell’ammissione delle affermazioni antitetiche. Anselmo accoglie il paradosso come benefico e ne fa l’insostituibile punto di approdo per caratterizzare l’essere di cui non si può pensare il maggiore. Si tratta della «necessità ellittica», come la chiama Nicola Albanesi, riprendendo la formula della «logica dei doppi pensieri», felicemente illustrata da Italo Mancini qualche decennio fa 4; e a me sembra rinvenibile chiaramente nei capitoli 5-15 Aristoteles, Metaphysica, IV, 4, 1006a11-28. Cfr. Albanesi, Cur Deus homo: la logica cit., pp. 147-148: «Il pensiero di Anselmo è dunque un pensiero ellittico, con due fuochi che non si fondono mai, ma che stanno in tensione polare permanente (…). Anselmo non arriva mai alla sintesi dialettica o all’unione sovraeminente dei contrari. Il movimento del suo pensiero si muove nella tradizione di Calcedonia della conciliazione degli opposti senza fusione né separazione dell’unità polare». Cfr. I. Mancini, 3 4
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del Proslogion, nei quali Anselmo mette in atto una circolarità ternaria tra «id quo maius cogitari nequit», «quiddam maius» e «summum omnium». Il Dio che viene alla prova è identico al «quiddam maius», è infatti qualcosa di più grande di quanto si possa pensare, e perciò qualificabile come il sommo di tutti, ossia, in termini nostri, è la perfezione somma o assoluta, ovvero la totalità dell’essere. Da qui il carattere ellittico o antinomico di ogni comprensione positiva di Dio: lo sforzo del pensiero è quello di portare alla luce l’inesprimibile, mediante antinomie che non comportano l’elisione reciproca: Dio è sensibile e senza sensi; Dio è onnipotente e non può fare certe cose; è misericordioso e impassibile; buono con i buoni e buono con i malvagi; è illimitato ed è ovunque; è giusto e misericordioso. Sono antinomie che pongono e depongono all’interno di un rapporto non distruttivo, bensì dotato di capacità contentiva absque contradictione, perché in tutti e due i poli, dell’affermazione e della negazione, il referente accogliente è ‘maggiore di ciò che noi possiamo pensare’, e dunque la contraddizione è sospesa dalla distanza tra la condizione in cui Dio è (Anselmo dice che Dio abita una luce inaccessibile) e la condizione in cui si trova a pensare la nostra mente, che si assesta sempre in un minus quam, per rapporto a ciò che è maius quam, eccedente la possibilità del pensare.
2. La dialettica di ragione e autorità nel Monologion Nel Prologo del Monologion, opera composta nel 1076 mentre era priore del monastero del Bec, Anselmo racconta l’occasione della composizione del trattato e ne articola il contenuto: Q uidam fratres saepe studioseque precati sunt ut quaedam qua illis de meditanda divinitatis essentia et quibusdam aliis huiusmodi meditationi cohaerentibus usitato sermone colloquendo protuleram, sub quodam eis meditationis exemplo describerem 5.
A una prima lettura il Monologion sembra essere un’opera di filosofia; Anselmo illustra con chiarezza il metodo dell’indagine: Teologia e filosofia. I doppi pensieri e la logica della fede, in «Asprenas», 36 (1989), pp. 5-21. 5 Monologion, Prol., 142C-143A, p. 7, 2-5.
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Cuius scilicet scribendae meditationis, magis secundum suam voluntatem quam secundum rei facilitatem aut meam possibilitatem, hanc mihi formam praestituerunt: quatenus auctoritate scripturae penitus nihil in ea persuaderetur, sed quidquid per singulas investigationes finis assereret, id ita esse plano stilo et vulgaribus argumentis simplicique disputatione et rationis necessitas breviter cogeret et veritatis claritas patenter ostenderet 6.
Il nostro autore indica con precisione ciò cui la mens è capace di giungere: Si quis unam naturam, summam omnium quae sunt, solam sibi in aeterna sua beatitudine sufficientem, omnibusque rebus aliis hoc ipsum quod aliquid sunt aut quod aliquomodo bene sunt per omnipotentem bonitatem suam dantem et facientem (…) ignorat, puto quia ea ipsa ex magna parte, si vel mediocris ingenii est, potest ipse sibi saltem sola ratione persuadere 7.
Lo sviluppo del Monologion avviene in modo conforme al metodo enunciato: nei capitoli 1-4 Anselmo dimostra che vi è una somma essenza; nei capitoli 7-8 prova che le cose altre dalla somma essenza sono state fatte dal nulla; nel capitolo 9 che prima di essere create, esse erano già qualcosa nella mente del creatore; nel capitolo 10, proprio quest’ultimo dato gli permette di dimostrare che si dà una locutio mentis del creatore 8; nel capitolo 15 l’indagine su quali predicati possano convenire alla sostanza increata è condotta dalla ratio 9; e di seguito Anselmo prova che la somma natura è la sola «qua penitus nihil est melius» 10. Certo egli non nega che la ragione abbia dei limiti: nel capitolo 36 scrive che se è vero che le sostanze create sono più in se stesse che nella nostra conoscenza, è però anche vero che esse sono più nella conoscenza del Creatore che in se stesse; dunque, conclude,
6 Ibid., 143A, p. 7, 5-11. Si noti che le espressioni «rationis necessitas» e «veritatis claritas» sono riferite a «quidquid per singulas investigationes finis», ossia a «qualunque conclusione di ogni singola riflessione». 7 Ibid., 1, 144C-145A, p. 13, 5-11. 8 Cfr. ibid., 10, 158B, p. 24, 24-29. 9 Cfr. ibid., 15, 162A-163B, pp. 28, 3 - 29, 9. 10 Ibid., 163C, p. 29, 20.
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è chiaro che la scienza umana non può conoscere come sono le cose così come sono nella conoscenza del Creatore 11. Nel capitolo 64, poi, distingue la conoscenza del fatto che la somma essenza è dalla conoscenza del come essa è: Videtur mihi huius tam sublimis rei secretum transcendere omnem intellectus aciem humani, et idcirco conatum explicandi qualiter hoc sit continendum puto. Sufficere namque debere existimo rem incomprehensibilem indaganti, si ad hoc ratiocinando pervenerit ut eam certissime esse cognoscat, etiamsi penetrare nequeat intellectu quomodo ita sit. (…) Q uapropter si ea quae de summa essentia hactenus disputata sunt necessariis rationibus sunt asserta, quamvis sic intellectu penetrari non possint ut et verbis valeant explicari, nullatenus tamen certitudinis eorum nutat soliditas 12.
I limiti ora esplicitati sono fissati e spiegati dalla ratio stessa: nel primo caso si tratta di un limite che «manifestissime comprehendi potest»; circa il secondo caso, il nostro autore si premura di illustrare nel capitolo successivo per quale ragione accada che benché le caratteristiche della somma essenza (quanto al suo essere trinitario) siano state spiegate con ragioni vere, essa resta ineffabile: perché, scrive Anselmo, qualunque nome possa essere detto di quella natura, esso non tanto la manifesta («ostendere») per mezzo di una proprietà a lei propria, bensì l’accenna («innuere») tramite qualche similitudine 13. Se ne deve concludere che la ragione ha la capacità di condurre sia l’indagine su quali predicati possono convenire alla somma essenza, sia l’indagine su quale sia il limite e dell’indagine predetta, e del convenire alla somma essenza di tali predicati. Ciononostante, non mancano passaggi che sollevano dubbi sulla tesi secondo cui il Monologion sarebbe un trattato puramente filosofico. 11 Cfr. ibid., 36, 190A, p. 54, 16-18: «Manifestissime comprehendi potest, quomodo dicat idem spiritus vel quomodo sciat ea quae facta sunt, ab humana scientia comprehendi non posse». 12 Ibid., 64, 210BC, pp. 74, 30 - 75, 10. 13 Cfr. ibid., 65, 211D-212A, p. 76, 19-24: «Hac itaque ratione nihil prohibet et verum esse quod disputatum est hactenus de summa natura, et ipsam tamen nihilominus ineffabilem persistere: si nequaquam illa putetur per essentiae suae proprietatem expressa, sed utcumque per aliud designata. Nam quaecumque nomina de illa natura dici posse videntur, non tam mihi eam ostendunt per proprietatem quam per aliquam innuunt similitudinem».
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Un primo aspetto del problema consiste nel rapporto che Anselmo pone tra ratio e auctoritas. Nel prologo all’opera il priore del Bec afferma che, in seguito alle richieste dei suoi confratelli, egli avrà l’obbligo di parlare di Dio e della Trinità senza appoggiarsi all’autorità della sacra Scrittura. Così dicendo, egli stabilisce una distinzione tra il sostenere una tesi invocando l’autorità della Scrittura e il sostenere la stessa tesi per mezzo di argomenti la cui forza sta nella necessitas rationis e nella veritatis claritas. Nel Monologion tuttavia l’auctoritas è tutt’altro che accantonata: al termine del prologo lo stesso Anselmo si propone al lettore come rispettoso dell’autorità dei Padri, e dichiara di non aver scritto nulla che non si trovi negli scritti dei Padri e di Agostino in particolare; invita pertanto chi vedesse nelle sue tesi dottrine troppo nuove a confrontarle con quelle espresse da Agostino nel De Trinitate 14. Poche righe più avanti scrive che qualora egli abbia affermato qualcosa che non sia sostenuto da una più grande autorità, ciò che ha detto dev’essere inteso non come assolutamente necessario, bensì come provvisoriamente necessario 15. Va inoltre evidenziato il fatto che Anselmo utilizza talvolta il termine ‘credere’ in riferimento a verità che egli ha dimostrato a prescindere dai contenuti della religione cristiana. Abbiamo sopra ricordato la tesi per cui colui che indaga razionalmente la natura trinitaria può giungere a determinare con certezza che essa è, ma non può giungere a determinare come essa sia. L’esposizione di quella posizione è seguita da queste parole: Nec idcirco minus iis adhibendam ‹sit› fidei certitudinem quae probationibus necessariis nulla alia repugnante ratione asseruntur si suae naturalis altitudinis incomprehensibilitate explicari non patiantur 16.
La domanda che sorge è: perché Anselmo introduce la figura della fede? Abbiamo visto che la certezza su ciò che può essere conosciuto è stata conseguita da Anselmo tramite argomentazioni necessarie («probationibus necessariis»), senza alcun ricorso all’autorità della Scrittura. Perché ora il nostro autore afferma che Cfr. ibid., Prol., 143C-144A, p. 8, 8-20. Cfr. ibid., 1, 145AB, p. 14, 1-4. 16 Ibid., 64, 210BC, p. 75, 3-6. 14 15
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se anche vi sono nella Trinità aspetti per l’uomo strutturalmente ignoti, nondimeno a quelle cose che sono state dimostrate con argomentazioni necessarie va applicata la certezza della fede? Se quelle cose sono certe perché sono state provate con argomentazioni necessarie, come si può dire che ad esse va applicata la certezza della fede? Come può qualcosa essere certo sia per argomentazione necessaria, sia per fede? Si potrebbe rispondere a questa domanda dicendo che tra le cose certe per fede ve ne sono alcune certe anche per via argomentativa. Una tale risposta solleva due difficoltà: in primo luogo ci si può chiedere se, una volta che una verità creduta fosse stata dimostrata, questa sarebbe ancora creduta? In secondo luogo, nelle pagine del Monologion non è in questione solo l’esistenza di Dio, o la sua eternità; è in questione la natura della Trinità, circa la quale Anselmo ritiene di poter mostrare che è una, che è trina e in qual modo è una, ma di non poter mostrare in qual modo sia trina. La medesima posizione è rinvenibile nel capitolo 79, dove si legge: «Ecce patet omni homini expedire, ut credat in quandam ineffabilem trinam unitatem et unam trinitatem. Unam quidem et unitatem propter unam essentiam, trinam vero et trinitatem propter tres nescio quid» 17. Va dunque ribadita la conclusione vista: Anselmo afferma che, circa la Trinità, è bene credere a tutto ciò che egli ha razionalmente argomentato. Un modo per risolvere la difficoltà ora incontrata potrebbe essere il seguente: il Monologion è un trattato di teologia sacra, positiva; è, cioè, una riflessione condotta a partire da dati di fede e del tutto interna alla religione; la ratio, in quest’ottica, sarebbe solo uno strumento, tramite il quale esplicitare i contenuti della religione cristiana. Q uesta interpretazione, tuttavia, contrasta con l’ipotesi di lettura precedentemente formulata e, come si è visto, ben supportata dal testo: quella per cui il Monologion è un trattato di filosofia o di teologia razionale. Il conflitto tra le due interpretazioni richiede pertanto un approfondimento. Ciò su cui occorre innanzi tutto fare chiarezza è che cosa Anselmo intenda per ratio e per fides. Il primo termine ha almeno due significati, non sempre ben distinguibili. Il primo è quello di ‘ciò in forza di cui si giunge a una certa conclusione’; se ne trova Ibid., 79, 221C, p. 85, 12-14.
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un esempio nell’espressione «hac itaque ratione» 18. Il secondo è quello di ‘capacità della mente di conoscere le cose’; prove della sua presenza nel Monologion sono il fatto che Anselmo usa come equivalenti le espressioni «locutionem mentis» e «locutionem rationis» 19 e utilizza il sintagma «mens rationalis» 20. Tale capacità, poi, ha due caratteristiche: innanzitutto è capacità dialettica, capacità di argomentare; in secondo luogo, ma anteriore per importanza, è la capacità della mente o dello spirito dell’uomo di far presa sul conosciuto sia a livello di conclusione del ragionamento, sia a livello di presupposti dello stesso: lo dimostra l’intero Monologion e, in particolare, ciò che Anselmo scrive nel capitolo 65 a proposito del modo in cui i nomi tratti dalle creature possono essere utilizzati per indicare la natura della Trinità. Ha dunque colto nel segno Hans Urs von Balthasar, quando scrive che «diese Vernunft [scil. di Anselmo] hat sosehr Eigencharakter, daß sie weder durch Rückbeziehung auf den intellectus der Patristik noch durch Vorausdeutung auf die hochscholastiche ratio festgelegt warden kann. Vernunft ist für Anselm das Sehvermögen des Geistes in einem ursprünglichsten Sinn. Denken heißt, eine Sache geistig schaubar machen» 21. Più complesso è il discorso sui significati di fides. Q uesto termine compare raramente nel Monologion, mentre molto diffuso è il verbo credere, ed i termini credere e fides sono connessi dallo stesso Anselmo. Nel capitolo 78 egli scrive: «per quanta sia la certezza con cui si crede a una realtà tanto grande», ossia alla Trinità, «la fede sarà inutile e qualcosa di pressoché morto se non ha forza e vive in virtù dell’amore» 22. Parrebbe, dunque, che gli ambiti del credere e della fede siano equivalenti; dunque è possibile chiarire i significati del raro fides esaminando i significati del più frequente credere, che sono fondamentalmente tre. Ibid., 65, 211D, p. 76, 19. Ibid., 10, 158B, p. 24, 27. 20 Ibid., 15, 163CD, p. 29, 23. 21 H.-U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik, 7 Bde., II, Fächer der Stile: Klerikale Stile, Einsiedeln 1962, p. 226 (tr. it., Gloria. Una estetica teologica. II, Stili ecclesiastici, Milano 1978, p. 199). 22 Monologion, 78, 220C, p. 84, 16-17: «Q uantacumque certitudine credatur tanta res, inutilis erit fides et quasi mortuum aliquid nisi dilectione valeat et vivat». 18 19
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Il primo di essi è desumibile dal prologo del Monologion, dove si pone una distinzione tra il sostenere una tesi basandosi sull’autorità della Scrittura e il sostenere la stessa tesi perché se ne ha conoscenza dimostrativa e chiara 23. L’importanza del passo sta nel fatto che esso suggerisce che il Monologion sia un’opera di filosofia pura, di teologia razionale, ma si deve aggiungere che proprio il medesimo passo rende problematica questa interpretazione. Il fatto è che il prologo del Monologion non contiene né il sostantivo fides, né il verbo credere, pertanto esso non permette di stabilire che Anselmo ritenga equivalenti il sostenere una tesi basandosi sull’autorità della Scrittura e il sostenere una tesi per fede, credendola. Vengono in nostro parziale aiuto le prime righe del primo capitolo: Anselmo scrive che se qualcuno ignora la realtà della natura somma e le altre verità relative ad essa e alla creazione, costui ha comunque la possibilità di giungere alla conoscenza della maggior parte di esse. Il nostro autore si preoccupa di indicare le ragioni di tale ignoranza: «aut non audiendo, aut non credendo ignorat» 24. Anselmo lega audire e credere con la formula disgiuntiva «aut… aut»; se ne deduce che egli pensa a queste due attività come alternative l’una dell’altra. Ciò implica da un lato che l’audire non può significare genericamente ‘aver sentito dire che le cose stanno così’, ma esso dovrà significare ‘aver avuto spiegazione del fatto che le cose stanno così’; dall’altro lato che credere significa un aderire senza aver avuto spiegazione, senza aver avuto prove razionali del fatto che le cose stanno così. In conclusione, in questo contesto credere parrebbe avere il significato di ‘affermare qualcosa senza averne conoscenza evidente direttamente o per via di argomentazione’. Pur non pretendendo di aver esaurito l’intera estensione del significato di credere, tuttavia riceve una qualche spiegazione l’espressione di Anselmo per cui colui che ignora le cose precedentemente elencate «per quanto sia di ingegno mediocre possa persuadere se stesso di gran parte di queste almeno
23 Cfr. ibid., Prol., 143A, p. 7, 7-11: «Q uatenus auctoritate scripturae penitus nihil in ea persuaderetur, sed quidquid per singulas investigationes finis assereret, id ita esse plano stilo et vulgaribus argumentis simplicique disputatione et rationis necessitas breviter cogeret et veritatis claritas patenter ostenderet». 24 Ibid., 1, 145A, p. 13, 9-10.
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con la sola ragione» 25. Ora, quel «gran parte» potrebbe essere così inteso: «sola ratione» l’uomo può giungere a gran parte di ciò che crede, dunque, non a tutto. In realtà, a ben riflettere, il significato di quell’espressione va ricercato in altra direzione: Anselmo ci pone di fronte all’ipotesi di un uomo, ossia di un individuo, che si trovi nella situazione di dover riflettere sulla natura delle cose e sul loro fondamento senza aver alcun aiuto. Ebbene, è di fronte a un tale uomo, e non a un uomo istruito (che cioè abbia udito, o indirizzato, che cioè abbia creduto), che il nostro autore dice: ‘egli potrebbe raggiungerne gran parte’; infatti un uomo istruito o indirizzato avrà la possibilità di comprendere tutte, e non solo gran parte, delle cose di cui poi il Monologion tratta. Il secondo significato di credere è illustrato in modo esplicito dallo stesso Anselmo, che dedica i capitoli 74-76 del Monologion rispettivamente alla carità, alla speranza e alla fede. Nel primo di essi vi si legge, però, che «ogni uomo deve tendere verso quello stesso bene», ossia la somma essenza, «amandolo e desiderandolo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente» 26. Nel secondo, si legge che l’uomo può impegnarsi in questa tensione solo se spera di poter giungere a ciò cui tende; dunque a lui «necessaria est spes pertingendi» 27. Infine, nel terzo dei tre capitoli ricordati Anselmo scrive che l’uomo «non può amare o sperare ciò che non crede»; dunque, prosegue, «expedit itaque eidem humanae animae summam essentiam, et ea sine quibus illa amari non potest, credere, ut illa credendo tendat in illam» 28. Nella parte centrale del capitolo si afferma che il credere, e la fides, nella somma essenza, è già un tendere ad essa e, viceversa, che il tendere ad essa è già un credere in essa 29. Si affaccia così un secondo signi-
25 Ibid., 145A, p. 13, 10-11: «Puto quia ea ipsa ex magna parte, si vel mediocris ingenii est, potest ipse sibi saltem sola ratione persuadere». 26 Ibid., 74, 219A, p. 83, 7-8: «Ad idem ipsum bonum est omni homini toto corde, tota anima, tota mente amando et desiderando nitendum». 27 Ibid., 75, 219A, p. 83, 13. 28 Ibid., 76, 219BC, p. 83, 16-18. 29 Cfr. ibid., 219C, p. 83, 18-25: «Q uod idem apte breviusque significari posse puto si pro eo quod est credendo tendere in summam essentiam, dicatur credere in summam essentiam. Nam si quis dicat se credere in illam, satis videtur ostendere et per fidem quam profitetur ad summam se tendere essentiam, et illa se credere quae ad hanc pertinent intentionem. Nam non videtur credere in illam
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ficato di credere e, questa volta esplicitamente, di fides: affermare qualcosa tendendo in esso, tendere a qualcosa affermandolo. Vi è tuttavia un significato di credere più radicale, sebbene meno evidente, dei due visti in precedenza: il primo di questi vede nel credere l’affermare qualcosa in forza dell’autorità, cioè a prescindere dall’evidenza, immediata o argomentativa, di ciò che è affermato; il secondo riconduce il credere all’affermare qualcosa tendendovi. Essi hanno dunque qualcosa in comune: l’affermare qualcosa. E questo è precisamente il terzo significato di credere: affermare qualcosa come vero sulla base del fatto che è vero, pensare una verità acconsentendovi. Anselmo non esplicita in alcun luogo questo significato di credere; nondimeno troviamo elementi a sostegno di questa ipotesi di lettura. Nel primo capitolo del Monologion si parla di cose che «necessarie credimus» 30; al termine del capitolo 78 si dice che la fede è credere ciò «quod credi debet» 31. Alcune di queste espressioni, di cui l’opera abbonda, possono essere intese moralmente, cioè condizionatamente, e dando a credere il senso di ‘tendere’: se vuoi essere beato, argomenta Anselmo, devi ammettere il darsi della Trinità e tendere in essa. Altre potrebbero, forse, essere intese anche in un senso confacente alla teologia moderna: la coerenza tra dogmi, direbbe il nostro autore, richiede che se credi in un certo dogma, tu debba credere anche agli altri. Ma almeno alcuni dei passi in cui Anselmo usa espressioni come ‘credere necessariamente’, o equivalenti, hanno un unico possibile senso: devi assentire, fare una certa affermazione, perché le cose stanno così e non altrimenti. Q uasi che, esprimendoci con termini più recenti, l’affermare che certe cose stanno in un certo modo sulla base del fatto che stanno effettivamente in quel certo modo richieda una decisione, postuli un intervento della volontà. Ancora, nel capitolo 78 Anselmo affronta la distinzione tra fede viva e fede morta: la fede viva consiste nel «credere in ciò che dev’essere creduto»; è, cioè, un credere tendendo. La fede
sive qui credit quod ad tendendum in illam non pertinet, sive qui per hoc quod credit non ad illam tendit». 30 Ibid., 1, 145A, p. 13, 9. 31 Ibid., 75, 221A, p. 85, 9.
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morta consiste nel «solo credere ciò che dev’essere creduto» 32. In questo passo il nostro autore esplicita in modo netto la propria nozione fondamentale di fede, secondo cui essa equivale a ‘affermare ciò che va affermato’ 33. Un affermare che si presenta come doveroso in relazione al fatto che si riferisce a un effettivo stato di cose, ma che non dice nulla circa la via attraverso la quale tale stato di cose è reso presente alla mente e certificato. Non dice nulla, cioè, sul fatto che tale presenza e tale certificazione debbano essere frutto di un’evidenza, immediata o argomentativa, oppure di un’autorità presa nella sua autorevolezza 34. Siamo ora in grado di dire qualcosa di più preciso sui rapporti tra fides e ratio nel Monologion. Se prendiamo fides nel secondo e nel terzo dei sensi prima considerati, e ratio nel senso di capacità di far presa conoscitivamente sulle realtà create in modo diretto e sulla realtà increata in modo indiretto, comprendiamo che per Anselmo la prima non si oppone in alcun modo alla seconda. Anche ciò che diviene chiaro dimostrativamente dev’essere accolto, giudicato nella sua veridicità; dunque è creduto. Anzi: dev’essere certissimamente, necessariamente creduto. E anche ciò che è colto argomentativamente si presenta alla mente come desiderabile, sia che lo sia per se stesso, sia che lo sia in vista di altro. Anzi, la mente agisce conformemente alla propria natura solo allorché lo desidera. Se invece prendiamo fides nel senso di assentire al vero reso noto e certificato da un’autorità, è chiaro che essa si oppone, in qualche modo, alla ratio. Si tratta però di un’opposizione relativa, poiché nel primo capitolo del Monologion Anselmo afferma che se ciò che concluderà non sarà suffragato da un’autorità più grande, esso dovrà essere inteso non come assolutamente neces32 Cfr. ibid., 78, 221A, p. 85, 7-9: «Satis itaque convenienter dici potest viva fides credere in id in quod credi debet, mortua vero fides credere tantum id quod credi debet». 33 Non si tratta, ovviamente, di un ‘affermare’ inteso come lo potrebbe intendere Tommaso d’Aquino, ossia come atto formale dell’intelletto; qui ‘affermare’ vale ‘assentire’, ossia ‘dare un consenso e tenerlo per fermo’. 34 Un’ultima osservazione, estrinseca al testo di Anselmo. Ancora nel secolo xiii Pietro Ispano denomina la seconda operazione della mente credulitas, fides e iudicium. Cfr. G. Nuchelmans, Theories of the proposition. Ancient and medieval conceptions of the bearers of truth and falsity, Amsterdam – London 1973 (North-Holland linguistic series, 8), p. 191.
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sario, bensì come provvisoriamente necessario. Con ciò il nostro autore non si limita a respingere la possibilità che si possa dare una doppia verità, una per la ragione e una per l’autorità, ma rende manifesta anche una precisa concezione della auctoritas e della veritas. La verità è innanzitutto qualcosa che qualcuno, cioè Dio, originariamente possiede; solo in seguito essa si identifica con la realtà creata, e solo in ultimo diviene acquisizione umana 35. La manifestazione della verità, dunque, è innanzitutto proclamazione di essa da parte di chi la possiede, il quale proprio perché la possiede è auctoritas. Solo in seguito la verità, in virtù di tale proclamazione, giunge all’uomo; e solo in ultimo è conquista possibile, sul fondamento delle cose create, da parte di un uomo che la ignora o perché non è stato istruito in essa, o perché non l’ha creduta. Nella prospettiva del nostro autore nulla è più razionale, in senso moderno, dell’accettare la vera auctoritas, che egli identifica con la Scrittura, senza problematizzazioni di alcun genere. Ne viene che l’operazione di mettere tra parentesi i dati scritturistici non ha per Anselmo il senso di percorrere la via della ragione a prescindere da quella della fede; ha, invece, il senso di percorrere una delle due vie attraverso le quali giunge all’uomo la conoscenza, vie che per il priore del Bec sono entrambe possibili e, per chi ha la possibilità di percorrerle, doverose. Il medesimo orientamento può essere ulteriormente messo in risalto prestando attenzione al fatto che il Monologion affronta, percorrendo il cammino della ratio, l’intero spettro del dogma trinitario. Q uesto non significa che Anselmo abbia la pretesa di cogliere pienamente ogni realtà: la mens rationalis, infatti, non può superare il limite a lei connaturato di parlare per immagini, facendo uso di vocaboli che indicano la creatura più facilmente di quanto indichino le proprietà della somma essenza. Significa piuttosto, in primo luogo, che ciò che l’autorità rende manifesto all’uomo è dall’uomo conoscibile altresì seguendo il nesso che lega le creature al creatore; in secondo luogo, e più radicalmente, che ciò che l’autorità rende manifesto all’uomo è del tutto comprensibile. Certamente non è noto alla mens rationalis il modo in cui Padre, Figlio e Spirito Santo differiscono; ma per essa non 35 Cfr., ad esempio, Monologion, 31, 183C-185C, pp. 48, 13 - 50, 13; 36, 189C-190B, pp. 54, 14 - 55, 10.
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vi è oscurità nell’affermazione che differiscono pur essendo uno solo. Ed è questa affermazione che l’autorità manifesta, ed è ad essa, e non all’incomprensibile modalità di distinguersi delle tre persone, che l’autorità sollecita il consenso umano.
3. Ragione, fede, intelletto: per una rinnovata ermeneutica dell’argomento del Proslogion Diversamente da quanto accade nel caso del Monologion, il Proslogion, scritto da Anselmo nel 1077, sembra presupporre la fede. Ed è sull’interpretazione di questo atteggiamento che si sono diversificate, sino alla contrapposizione, le ermeneutiche, in particolare in relazione all’unum argumentum trattato nei ben noti primi capitoli del testo. Prima di avanzare una nostra ipotesi di lettura dell’unico argomento, è opportuno riflettere su alcuni passaggi, a cominciare dal proemio dell’opera, dove Anselmo afferma di assumere «il punto di vista di colui che desidera elevare la propria mente a contemplare Dio e che aspira a comprendere intellettivamente (intelligere) ciò che crede» 36. Poco oltre scrive che il primo titolo dell’opera era Fides quaerens intellectum: la fede che aspira alla comprensione dell’intelletto. Nel primo capitolo, poi, espone con nitore il proprio atteggiamento: non «cerco di comprendere intellettivamente al fine di credere, bensì credo al fine di comprendere intellettivamente» 37. Q uesti passi sono suscettibili di due possibili letture: la prima è che Anselmo intenda sì scrivere un’opera di filosofia, ma che sia mosso dalla convinzione di poter e dover giungere, al termine della sua ricerca, alle medesime posizioni professate per fede. La seconda lettura è che egli intenda scrivere un’opera in cui indagare i vincoli che uniscono i contenuti della fede. Nel primo caso la fede rivestirebbe la funzione di guida del filosofare, ma non fornirebbe i presupposti delle argomentazioni e delle riflessioni; nel secondo caso la fede fornirebbe tali presup36 Proslogion, Prooem., 224BC, pp. 93, 21 - 94, 2: «Sub persona conantis erigere mentem suam ad contemplandum Deum et quaerentis intelligere quod credit». 37 Ibid., 1, 227BC, p. 100, 18: «[Non] quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam».
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posti, così che l’esercizio speculativo su di essi non avrebbe altro scopo che mostrarne l’unità ed esplicitarne l’ordine. Delle due interpretazioni, l’unica corretta parrebbe la seconda. Infatti, nei capitoli 2 e 3 del Proslogion Anselmo elabora il celebre unum argumentum, cui assegna un ruolo fondamentale: nel proemio scrive che dovrebbe essere l’unico argomento «quod nullo alio ad se probandum quam se solo indigeret, et solum ad astruendum quia Deus vere est, et quia est summum bonum nullo alio indigens, et quo omnia indigent ut sint et ut bene sint, et quaecumque de divina credimus substantia, sufficeret» 38. Si tratta del fulcro della costruzione speculativa anselmiana relativa all’esistenza e alla natura di Dio. Ora ci si chiede se il fondamento di tale argomento sia un dato colto osservativamente, razionalmente, oppure un dato di fede. La risposta del priore del Bec è apparentemente inequivocabile: il fondamento dell’intero argomento, e dunque dell’intera costruzione speculativa del Proslogion, è una precisa nozione di Dio: quella di ‘ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore’, e, nel secondo capitolo dell’opera, questa nozione si presenta come fornita dalla fede: «certamente noi crediamo che tu sei qualcosa di cui non si può pensare nulla di maggiore» 39. È opportuno anticipare brevemente qui un dato, ossia che nella risposta alle critiche mossegli da Gaunilone, Anselmo presenterà la medesima prospettiva: «poiché mi contesta in ciò che ho detto non quell’insipiente contro il quale mi sono espresso nel mio piccolo lavoro», cioè nel Proslogion, «bensì qualcuno che, cattolico e non insipiente, prende le difese dell’insipiente, allora mi può bastare rispondere al cattolico» 40. Ora, che cosa Anselmo intenda con ‘cattolico’ è desumibile dal capitolo 8 della risposta a Gaunilone: il cattolico è colui che accetta l’autorità della Scrittura 41; Ibid., Prooem., 223BC, p. 93, 6-10. Ibid., 2, 227C, p. 101, 5: «Q uidem credimus te esse aliquid quo nihil maius cogitari possit». 40 Responsio, Prol., 247C-248C, p. 130, 3-5: «Q uoniam non me reprehendit in his dictis ille ‘insipiens’ contra quem sum locutus in meo opuscolo, sed quiddam non insipiens et catholicus pro insipiente, sufficere mihi potest respondere catholico». 41 Cfr. ibid., 8, 258B, pp. 137, 28 - 138, 2: «Sic itaque facile refelli potest insipiens qui sacram auctoritatem non recipit, si negat ‘quo maius cogitari non valet’ ex aliis rebus conici posse. At si quis catholicus hoc neget, meminerit quia 38 39
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da ciò si può anche dedurre che, viceversa, l’insipiente è, in ultima analisi, colui che non accetta tale autorità, non accetta in particolare l’asserto della Scrittura secondo cui è proclamato insipiente colui che dice che Dio non esiste. Altro elemento: Gaunilone sostiene che la nozione di Dio inteso come «id quo maius» può non essere «in intellectu vel cogitatione»; e Anselmo risponde: «per mostrare che ciò è falso, uso come solidissimo argomento la tua fede e la tua coscienza» 42. Tuttavia, diversi passaggi mettono in dubbio la tesi per cui il Proslogion sarebbe un trattato di teologia dogmatica nel senso moderno dell’espressione. Nel secondo capitolo dell’opera Anselmo eleva la seguente invocazione: «Domine, qui das fidei intellectum, da mihi ut, quantum scis expedire, intelligam quia es sicut credimus et hoc es quod credimus» 43. Ora, se l’intellectus, o l’intelligere, fosse qualcosa oltre la fede ma pur sempre interno ad essa, se cioè fosse un approfondimento della fede a partire dalla fede, ci si aspetterebbe che il nostro autore scrivesse ‘concedimi di comprendere intellettivamente ciò che crediamo’, e non «da mihi ut, quantum scis expedire, intelligam quia es sicut credimus et hoc es quod credimus». In effetti, l’espressione di Anselmo non spinge a ritenere che l’intellectus sia un approfondimento della fede; spinge a ritenere che sia un’acquisizione per altre vie di quelle stesse verità che sono professate per fede. Q uesta interpretazione trova conferma nel ringraziamento che il priore del Bec pone al termine dell’esposizione dell’unum argumentum: nel quarto capitolo egli scrive: «Gratias tibi, bone domine, gratias tibi, quia quod prius credidi te donante, iam sic intelligo te illuminante, ut si te esse nolim credere, non possim non intelligere» 44. Di fronte a questa dichiarazione è difficile pensare che la comprensione intellettuale sia un’esplicitazione dei contenuti della fede. Se così fosse, infatti, tolta la fede, avrebbe dovuto venir meno anche la comprensione intellettuale della stessa, mentre Anselmo afferma che, se anche non volesse credere che Dio esi‘invisibilia’ Dei ‘a creatura mundi per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur’ (Rm 1, 20)». 42 Responsio, 1, 249B, p. 130, 15-16: «Q uod falsum sit, fide et conscientia tua pro firmissimo utor argumento». 43 Proslogion, 2, 227C, p. 101, 3-4. 44 Ibid., 4, 229B, p. 104, 5-7.
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ste, non potrebbe non comprenderlo intellettivamente. Certamente, dunque, il Proslogion è una chiarificazione dei contenuti della fede; ma lo è nel senso che in esso quei contenuti vengono compresi in modo tale da dover essere affermati a prescindere dal fatto che essi siano stati proclamati da un’autorità. La stessa risposta di Anselmo a Gaunilone, a dispetto dell’indole della formula introduttiva, costituisce una prova del carattere razionale dell’unum argumentum. In linea di massima la Responsio anselmiana è una chiarificazione condotta su un piano essenzialmente razionale, filosofico; al capitolo 9 di questo scritto leggiamo: Etsi quisquam est tam insipiens ut dicat non esse aliquid quo maius non posse cogitari, non tamen ita erit impudens ut dicat se non posse intelligere aut cogitare quid dicat. Aut si quis talis invenitur, non modo sermo eius est respuendus, sed et ipse conspuendus 45.
Anche in questo caso la prospettiva del nostro autore sembra chiara: l’insipiente non è tale solo perché rifiuta l’autorità della Scrittura; è tale in ultima analisi soprattutto perché nega un’evidenza. Ne viene che se è possibile che nel proprio procedere Anselmo faccia dipendere di fatto dalla fede la nozione di «id quo maius cogitari nequit» quanto alla sua enunciazione, è tuttavia certo che egli non fa dipendere tale nozione dalla fede quanto alla comprensione del suo contenuto; la fede ha dunque solo il compito di richiamare l’attenzione su di un’evidenza. Una proposta di ermeneutica coerente con tutti i richiami evidenziati potrebbe perciò essere questa: di fronte alla nominazione di Dio come «id quo maius cogitari nequit», Anselmo passa a valutare la posizione dell’insipiente – desunta da un passaggio del Salmo 13 – il quale afferma che Dio non esiste, e si domanda che cosa può significare l’affermazione ‘Dio non esiste’, e perché la Bibbia, che non erra, l’attribuisca ad uno qualificato insipiens, ossia ad un uomo che non sa quello che dice. Sviluppando la propria valutazione, Anselmo incomincia con l’osservare che l’affermazione ‘Dio non esiste’ raggiunge un livello significativo per l’intelletto solamente se l’insipiente si riferisce al termine Dio intendendolo come ciò di cui non si può pensare il maggiore; Responsio, 9, 259A, p. 138, 11-15.
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così facendo, il senso del suo dire si traduce nell’affermazione che Dio esiste solo nell’intelletto: infatti, se di esso negasse l’esistenza anche nell’intelletto, l’insipiente non potrebbe attribuire più alcun significato alla parola Dio, né alla sua negazione. In questa direzione circoscritta, Anselmo osserva che la negazione dell’esistenza di Dio – riportata, in positivo, all’affermazione che Dio esiste solo nell’intelletto e non nella realtà – implica una contraddizione: è contraddittorio dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore sia ciò che esiste solo nell’intelletto, poiché io posso pensarlo esistente anche nella realtà, e così facendo penso qualcosa di ‘maggiore’. Non resta perciò che respingere la posizione dell’insipiente perché inficiata da manifesta contraddizione. Anselmo si appella all’evidenza: non siamo di fronte ad una dimostrazione vera e propria, articolata in premessa maggiore e minore; l’esistenza nella realtà («in re») non significa esistenza empirica, ma esistenza in generale o esistenza reale, e la forza probativa della conclusione è demandata al principio di non-contraddizione, ossia è immediatamente evidente l’aporeticità della tesi dell’insipiente, il quale, confinando l’esistenza di ciò di cui non si può pensare il maggiore nel solo intelletto, finisce con affermare che non è ciò di cui non si può pensare il maggiore. La contraddizione è tolta solo affermando che ciò di cui non si può pensare il maggiore deve essere pensato esistente e nel pensiero e nella realtà. Nel successivo terzo capitolo Anselmo presenta una seconda argomentazione, volta a rafforzare la conclusione precedente, facendo vedere che, in ultima istanza, si deve concludere che Dio esiste in modo così vero che non può nemmeno essere pensato non esistente, sia per cogenza della ragione dialettica, sia secondando l’istanza teologica, connessa con la ‘logica della rivelazione’: dire che Dio non esiste significa dire – senza poterlo pensare – che ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore, ossia equivale a dire: Dio non è Dio; Dio è un idolo; Dio è pari a una qualsiasi cosa creata, di cui si può pensare il maggiore. Ancora una volta, ed in una modalità ancora più evidente, la parola di Dio rivelata afferma che colui che in cuor suo pensa di poter dire Deus non est non può che essere qualificato insipiens. L’ultimo interrogativo del terzo capitolo, apparentemente retorico, è assai importante: se è così evidente alla mente razionale che Dio esiste più di ogni altra cosa, perché accade che l’insipiente 95
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possa dire che Dio non esiste? In realtà, precisa Anselmo, lo dice a parole, ma non può pensarlo, e quindi l’insipiente è realmente uno stolto, che non sa quello che dice, e che vorrebbe negare la struttura originaria della mente, ossia la sua capacità di pensare il massimo del pensabile, un massimo che non può essere trasceso né da altro essere, né dal pensiero. Anselmo si assesta in una posizione teoretica che proclama l’evidenza della coincidenza di ‘ciò di cui non si può pensare il maggiore’ con l’essere che non può non essere pensato esistente, e ciò vale solo per la formula dell’unico argomento; è altresì evidente che esso è più grande di tutto quanto si possa pensare, ossia che deve essere pensato come impensabile. La formulazione dell’unico argomento attesta cioè l’evidenza dell’esistenza di Dio, provando paradossalmente che essa non deve essere ‘dimostrata’, dal momento che si ‘prova’ con evidenza che colui che la nega, l’‘insipiente’, si assesta nell’impossibilità di pensare.
4. Gli sviluppi della speculazione anselmiana: dalla verità all’Incarnazione del Verbo Le costruzioni speculative del Monologion e del Proslogion non discutono tutti i presupposti su cui si reggono, né illustrano tutti i contenuti della religione cattolica. Ci si può chiedere che cosa sia la verità di cui la ratio e l’intellectus sono capaci, e perché l’anima umana non sia in grado di mantenere da sé il proprio sguardo fisso in Dio; ma ci si può anche chiedere se si possa illustrare l’Incarnazione, su cui le opere menzionate tacciono, con i medesimi metodi con cui sono stati illustrati la Trinità, la natura dell’anima e i suoi destini. Ai primi due quesiti Anselmo risponde con due opere composte tra il 1080 e il 1085: il De veritate e il De libertate arbitrii, al terzo con il Cur Deus homo, ultimato nel 1098. Il De veritate e il De libertate arbitrii gravitano intorno alla nozione di rectitudo, ossia di giusta conformità. La verità è la «rettitudine percepibile dalla sola mente» 46; la moralità è la «rettitudine della volontà conservata per se stessa» 47; il libero arbitrio è il
De veritate, 11, 480A, p. 191, 19-20: «Rectitudo mente sola perceptibilis». Ibid., 12, 482B, p. 194, 26: «Rectitudo voluntatis propter se servata».
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«potere di conservare la rettitudine per la rettitudine stessa» 48, ma non è il potere di acquisirla; il peccato è l’atto con cui si perde tale rettitudine. La ragione per cui l’anima, senza l’aiuto di Dio, non può essere fedele a se stessa, giusta, tendente a Dio è data dal peccato, che ha tolto la rettitudine, e la volontà, che può conservarla, non può però acquisirla. Dell’Incarnazione, come dicevamo, Anselmo si occupa con maturità speculativa nel Cur Deus homo. Chi legge questo testo potrebbe essere tentato di pensare di trovarsi di fronte a un’opera di teologia nel senso moderno del termine. Nella prefazione l’autore enuncia lo scopo dell’opera: «Remoto Christo, quasi numquam aliquid fuerit de illo, probat rationibus necessariis esse impossibile ullum hominem salvari sine illo» 49. Ove, si noti, «remoto Christo» non significa ‘prescindendo dall’autorità delle Scritture’; significa, invece, ‘premesso a titolo di ipotesi che Cristo non esista in alcun modo’, cioè ‘in alcun tempo e in alcuna forma’. Nel capitolo 25 del I libro, inoltre, si legge che le argomentazioni proposte sono addotte «ut rationabili necessitate intelligam esse oportere omnia illa quae nobis fides catholica de Christo credere praecipit si salvari volumus» 50. Infine, si consideri la stessa argomentazione che il nostro autore dispiega per illustrare la ragione dell’Incarnazione, che può essere così riassunta: gli uomini desiderano la beatitudine e la beatitudine può essere ottenuta solo con una restaurazione della capacità dell’uomo di tenere fermo il proprio amore per Dio. Ora, una tale restaurazione è sicuramente in potere di Dio; la giustizia di Dio tuttavia non è compatibile con un’azione unilaterale di condono da parte di Dio stesso: il riscatto dell’offesa prodotta dal peccato deve contemplare la restituzione dell’onore connesso con l’ordine voluto da Dio creatore; pertanto la giustizia impone che sia l’uomo a riscattare questa offesa. Se Dio semplicemente perdonasse l’uomo, egli andrebbe contro la giustizia, riconoscendo al peccato una impunità sostanziale; dunque non è ammissibile la restaurazione attraverso una remissione unilaterale del debito da parte di Dio. Siccome la valuta48 De libertate arbitrii, 3, 494B, p. 212, 20: «Potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem». 49 Cur Deus homo, I, Praefatio, 361A-362A, p. 42, 12-13. 50 Ibid., I, 25, 400B, p. 96, 10-11.
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zione razionale mostra come l’uomo a sua volta non abbia alcuna possibilità di restituire con le proprie azioni l’onore tolto a Dio, non si presenta una soluzione del problema escogitabile dalla ragione umana. L’unico che può escogitare una soluzione è Dio, e, dalla Rivelazione, sappiamo che Dio l’ha individuata attraverso il percorso dell’Incarnazione del Verbo, una via che soddisfa la giustizia: un vero uomo, Gesù di Nazareth, che è anche vero Dio, offre la propria passione e morte a riscatto dell’offesa. Con la giustizia viene soddisfatta anche la misericordia: Gesù, detentore anche della natura divina, ottiene dal Padre che la sua vita, offerta come riscatto del peccato dell’uomo, si permuti in donoperdono e ottenga il ristabilimento dell’ordine di familiarità della vita umana con Dio, come stava inscritto nel piano originario della creazione. Dunque l’Incarnazione risulta l’unico evento che permette agli uomini, posti nella condizione in cui di fatto si trovano dopo la caduta, di divenire beati. Una conclusione questa che si appoggia sulla necessità dell’Incarnazione come via alla salvezza dell’uomo decaduto, dunque chiaramente una necessità ‘conseguente’, ‘conseguenza’ che noi possiamo correttamente intendere come una una ragione di ‘convenienza’, poiché fonda la propria stringenza su una premessa che Anselmo chiama ‘necessità antecedente’, la quale non è stabilita sulla base di ragionamenti, ma si rifà alla dichiarazione della Rivelazione: Dio ha deciso di percorrere la via dell’Incarnazione e della Redenzione (che nessuna ragione umana avrebbe mai escogitato), e questa è la premessa necessaria metarazionale, alla quale consegue la conclusione ricordata, che tiene discorsivamente in forza di tale premessa e che contrae caratteri di necessità solo in conseguenza di essa. Non penso che sia improprio allora qualificare le ragioni necessarie, che l’opera anselmiana giudica tali sulla base di necessità conseguenti, come ‘argomenti di convenienza’, e forse questo può essere un elemento utile per dirimere la disputa annosa su che cosa intenda Anselmo con «rationis necessitas» o con «ratio necessaria». Se il programma di Anselmo nelle opere speculative è sempre quello di assestare la ragione sui contenuti della fede, della quale cerca l’intrinseca permeabilità da parte dell’intelligenza, credo che le argomentazioni qualificate come necessarie alla radice esibiscano il carattere di necessità conseguenti, supportato da quanto scrive Anselmo: 98
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Est namque necessitas praecedens, quae causa est ut sit res; et est necessitas sequens, quam res facit. Praecedens et efficiens necessitas est, cum dicitur caelum volvi, quia necesse est ut volvatur; sequens vero et quae nihil efficit sed fit, est cum dico te ex necessitate loqui, quia loqueris. Cum enim hoc dico, significo nihil facere posse, ut dum loqueris non loquaris, non quod aliquid te cogat ad loquendum 51.
L’esito del ragionamento complessivo del Cur Deus homo può essere compendiato così: Anselmo non dimostra che si è data, o si deve dare, l’Incarnazione; dimostra che se non si dà Incarnazione, allora l’uomo non può conseguire la beatitudine: «Si ponimus Christum non esse, nullo modo potest inveniri salus hominis» 52. Il fondamento di questa prospettiva è chiaro: è falso che l’Incarnazione sia necessaria sulla base di dati reperibili dalla sola dialettica razionale; dunque il dialettico non può dimostrare che lo è, ma la necessità è tutta nella necessità antecedente della premessa. In altri termini: l’Incarnazione non è necessaria nello stesso modo in cui è necessaria la generazione del Figlio da parte del Padre, secondo la prospettiva del Monologion, dato che il Padre genera il Figlio per una necessità interna alla natura divina; la necessità della generazione è dunque, per così dire, metafisica. Al contrario, l’Incarnazione del Figlio nasce dalla libera volontà di Dio, mossa dalla duplice istanza di giustizia e misericordia, di ridare la felicità piena all’uomo, e ciò costituisce la necessità antecedente; la necessità conseguente dell’Incarnazione è di convenienza o morale, e non è possibile stabilire per via di ragionamento che l’Incarnazione si dà di fatto. Ancora una volta è chiaro che il discorso di Anselmo non si presenta come un tentativo né di mostrare la concatenazione dei dogmi, né di esplicitare le conseguenze dei dati rivelati; è, invece, il tentativo di acquisire i contenuti della religione cristiana per vie diverse (la via della ratio e la via dell’intellectus) da quella che si limita a fare appello all’autorità. Trova ora una spiegazione quanto il nostro autore scrive nella Epistola de incarnatione Verbi: «Monologion (…) et Proslogion (…) ad hoc maxime facta sunt, ut quod fide tenemus de divina natura et eius personis praeter incarnationem, necessariis rationibus sine Ibid., II, 17, 424A, p. 125, 8-13. Ibid., I, 25, 399B, p. 95, 11-12.
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scripturae auctoritate probari possit» 53. Q uesta dichiarazione potrebbe essere interpretata nel modo seguente: il Monologion e il Proslogion non trattano dell’Incarnazione perché non si può dar ragione di essa facendo a meno dell’autorità delle Scritture. In altre parole, Anselmo riterrebbe che l’esistenza di Dio e il fatto che egli è uno e trino siano alla portata della teologia razionale, mentre l’Incarnazione sarebbe di competenza della teologia sacra. In realtà, in sede di bilancio complessivo del programma speculativo del teologo Anselmo d’Aosta, è possibile assestarsi su di un’altra interpretazione del testo, del tutto elementare ed insieme coerente: «con l’eccezione dell’Incarnazione» allude semplicemente al fatto che né il Monologion, né il Proslogion trattano dell’Incarnazione, tema che sarà affrontato in altro momento.
5. Conclusioni Per avviare un bilancio conclusivo, occorre richiamare i significati con cui Anselmo usa i termini fides, ratio e intellectus. Fides ha tre significati: in primo luogo è il semplice affermare e tener per fermo qualcosa perché è vero, comunque esso e la sua veridicità siano noti. In secondo luogo è l’affermare e il tener per fermo qualcosa perché è vero, ove però esso e la sua veridicità sono noti in quanto proclamati da un’autorità. Infine è l’affermare e il tener per fermo qualcosa tendendovi. Ratio a sua volta ha due significati: è il fondamento di un certo fatto o di una certa affermazione, oppure è la capacità della mente di cogliere la natura delle creature che essa constata e di giungere, per nessi necessari, a conoscere ciò che non le è immediatamente noto. Intellectus infine ha due significati: è la capacità della mente di cogliere ogni realtà nella sua fonte e la fonte stessa di ogni realtà e conoscibilità, oppure è il contenuto intellettuale, è ciò che viene intellettualmente colto. Chiarito il posizionamento semantico e non univoco dei termini, una prima serie di possibili considerazioni concerne la collocazione della fede nell’ambito del sapere e la natura della fede stessa. Per alcuni aspetti, la posizione di Anselmo può essere
Epistola de incarnatione Verbi, 6, 272CD, p. 20, 17-19.
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riassunta nel modo seguente: l’uomo ha la capacità di affermare per vero, cioè di assentire e tenere per fermo, ciò che sa essere vero; si dà allora la fides che potremmo chiamare ‘fede in senso lato’. Ciò che sa essere vero e la veridicità di questo possono essere noti in quanto comunicati da un’autorità; è questa la fides che potremmo chiamare ‘fede in senso stretto’. Esiste tuttavia la possibilità che queste verità divengano note all’uomo, e certificate, in forza della capacità di conoscere che è propria della sua mente, nelle due modalità d’azione di ratio e di intellectus. Come si vede, in questo schema nulla è al di fuori di quella che potremmo chiamare genericamente ‘razionalità’: non lo sono né la ratio, né l’intellectus; ma non lo è neppure la fede presa in senso lato, cioè intesa come capacità di assentire. L’assenso a qualcosa come vero, infatti, per Anselmo è la giusta, doverosa, azione della mente di fronte a una verità. Infine non lo è neppure la fede presa in senso stretto: colui che possiede in proprio la verità, e dunque non può mentire, è fonte sicura di verità; dunque riconoscere come vero ciò che è proclamato da tale autorità è, nuovamente, azione del tutto doverosa. Si potrebbe obiettare che la difficoltà del credere, o almeno una delle difficoltà del credere, non sta nell’assentire a una certa autorità; sta nell’ammettere che quell’autorità è veramente tale, ossia possiede realmente la verità. Detto in altri termini: se vi fosse la certezza che la rivelazione cristiana ha veramente origine divina, non vi sarebbe motivo per dichiarare falsi i suoi contenuti; ma è certo che essa abbia origine divina? La fede, in definitiva, non consiste forse nell’ammettere che quella rivelazione ha precisamente quell’origine? Anselmo non affronta mai tematicamente la questione, e, quando egli parla del non credente, parla di qualcuno che nega che la dottrina cattolica abbia origine divina, mentre, quando parla del credente, non parla di qualcuno che ripone la propria fiducia in una certa autorità senza aver prova che essa sia autenticamente tale; parla di qualcuno che dà il proprio assenso a quanto proclamato da un’autorità che è certamente tale. Se ne può concludere che dal punto di vista del nostro autore il momento irrazionale non sta nell’affermare che la dottrina cattolica ha origine divina; sta nel negare tale origine. Detto in altri termini, Anselmo non ha una nozione di fede intesa come salto in un vuoto di razio101
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nalità, poiché la fede, presa in senso stretto, ha un fondamento certo, che il cristiano, il monaco in particolare, constata essere qualcosa che gli è quotidianamente tramandato e che egli a sua volta quotidianamente tramanda. Non è questo, tuttavia, l’unico senso in cui si può dire che la fede, presa sempre in senso stretto, è razionale. Il Monologion, il Proslogion e il Cur Deus homo hanno un preciso intento e un preciso metodo; l’intento è quello di mostrare ai credenti che i non credenti hanno torto quando pensano che i credenti sostengono falsità, mentre il metodo consiste nell’esibire la stringenza razionale delle verità accolte dal credente prescindendo dall’autorità della Scrittura. Anselmo segue il metodo enunciato in modo rigoroso: in nessuna delle opere ricordate egli fa uso di presupposti tratti dalla Rivelazione, ed abbiamo visto che egli intende mostrare la veridicità di tutte le verità di fede; di conseguenza, nessuno dei tre scritti opera una esplicitazione dei contenuti della fede, o un’esibizione della loro coerenza a partire da dati di fede. Q uesto non implica, però, che le tre opere non esplicitino i contenuti della fede o non ne esibiscano la coerenza, semplicemente attestano che tale esplicitazione ed esibizione è condotta sulla base di dati evidenti e di ragioni qualificate necessarie. I contenuti dottrinali della fede godono di razionalità perché sono proclamati da un’autorità autentica, e perché sono acquisibili tramite un procedimento razionale, in un senso da circoscrivere e da interpretare con molta acribia. La fede è un assenso a un vero reso noto, e certificato come tale, da un’autorità; l’assenso dato in forza dell’autorità presuppone che si conosca, in qualche modo, che l’autorità è tale, tuttavia non poggia su una conoscenza diretta della veridicità delle verità proclamate. È l’intelletto, nell’opera di Anselmo, che ha un contatto diretto con la fonte delle verità, per cui esso può pervenire a conoscere in modo immediato la veridicità di tali verità. A tanto, tuttavia, il solo intelletto non basta: nel Monologion, colui che compie la ricerca, e nei cui panni Anselmo si è calato, espande le proprie conoscenze spinto da un’esigenza che sembra nascere dalla ratio stessa: l’esigenza di dare risposta alla domanda ‘cosa fa sì che le cose buone siano buone?’. Nel Proslogion il motore della ricerca è esplicitamente la fides, la quale genera comprensione 102
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intellettuale (intelligere) innanzi tutto nel senso che il credente desidera contemplare ciò che crede. La dichiarazione programmatica che leggiamo nel proemio dice che Anselmo assume qui «il punto di vista di colui che desidera elevare la propria mente a contemplare Dio e che aspira a comprendere intellettivamente (intelligere) ciò che crede» 54. Si tratta, ormai è chiaro, di un approfondimento dei contenuti della dottrina cattolica non sulla base di alcuni di questi stessi contenuti presi in quanto certificati da un’autorità, bensì di una riacquisizione di essi per altra e più potente via. In effetti, si è visto che ciò vale, in qualche modo, anche per l’opera della ratio, nondimeno è chiaro che il credente nutre per la conoscenza intellettuale un desiderio maggiore di quello che nutre per la conoscenza razionale, e ciò proprio in quanto credente: le verità colte intellettivamente, infatti, hanno un grado di certezza, di forza d’evidenza, superiore a quello delle verità viste come tali solo in forza di un’autorità; inoltre riguardano direttamente la somma essenza. Circa la capacità della fides di generare conoscenza intellettiva 55, ci si potrebbe chiedere se l’aspirazione a contemplare, a comprendere intellettivamente, la somma essenza e ogni altra realtà possa nascere nell’anima del non credente. Può l’intelletto stesso essere spinto, così come la ratio, da un semplice desiderio di sapere? La risposta di Anselmo è sostanzialmente, sebbene non totalmente, negativa. L’intelletto può efficacemente tendere alla somma essenza solo se l’anima stessa tende efficacemente, stabilmente, alla somma essenza; anzi, il tendere dell’intelletto alla conoscenza della fonte di ogni realtà e conoscibilità fa tutt’uno con il tendere a Dio di tutta l’anima. Ma l’anima non può tendere efficacemente a Dio se non si conforma moralmente ai suoi comandi; anzi, l’agire conformemente ai comandi 54 Proslogion, Prooem., 224BC, pp. 93, 21 - 94, 2: «Sub persona conantis erigere mentem suam ad contemplandum deum et quaerentis intelligere quod credit». 55 Ho trattato più distesamente questo argomento altrove: cfr. A. Ghisalberti, Il compito dell’intelligere e la figura dell’intelletto nel Cur Deus homo, in Cur Deus homo, Atti del Congresso anselmiano internazionale (Roma, 21-23 maggio 1998), a c. di P. Gilbert – H. Kohlenberger – E. Salmann, Roma 1999 (Studia anselmiana, 128), pp. 311-331; Id., Anselmo: la fede genera intelligenza, in Il risveglio della ragione. Proposte per un pensiero credente, a c. di G. Sgubbi – P. Coda, Roma 2000 (Contributi di teologia, 29), pp. 137-168.
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di Dio fa tutt’uno con il tendere a lui e con l’essere simili a lui. Dunque l’esercizio dell’intelletto presuppone la fede: presuppone sia l’accettazione di tutto ciò che è necessario per convertirsi e tendere a Dio, sia la conversione stessa. Pertanto presuppone che Dio intervenga per restituire all’uomo la rettitudine, mediante la grazia. Ne concludiamo che in Anselmo non vi è una nozione di fede intesa come salto nell’irrazionalità, mentre si può forse affermare che vi è una nozione di fede intesa come salto nella moralità, come conversione; la fede non è presupposta all’intelletto quanto alle premesse delle argomentazioni, nondimeno è presupposta all’intelletto quanto all’esercizio efficace dell’intellezione. Agostino, Boezio e Dionigi da un lato, e i teologi del monachesimo benedettino altomedievale dall’altro lato, hanno avuto nel monaco del Bec un acuto discepolo. Le tre opere principali esaminate (il Monologion, il Proslogion e il Cur Deus homo) non sono atte di per sé a generare la fede; possono solo rimuovere ostacoli alla sua generazione. Il senso più profondo del celebre «[non] quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam» 56 va pertanto in questa direzione: la comprensione intellettuale non genera la fede; viceversa la fede genera, nel senso che ne è condizione fondamentale, la comprensione intellettuale. C’è tuttavia un margine di apertura di credito all’intelletto in sé: nel paragrafo dedicato al Proslogion ho fatto osservare che, nell’ottica di Anselmo, la nozione di ‘ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore’ forse presuppone la fede di fatto, ma certo non la presuppone di diritto. Colui che nega che l’«id quo maius» sia o esista, è un insipiente; ma colui che nega di avere questa nozione nel pensiero è degno di essere dileggiato come uomo: nega, infatti, un’evidenza presente in ogni mente, che vale cioè non solo per il credente, ma anche per il non credente. Ecco allora che intercettiamo una misura dell’apertura minima dell’intellectus a Dio; un’apertura che è costitutiva dell’intelletto e sotto la quale è impossibile andare, se non configurando la cessazione dello stesso intelletto. Si tratta della nozione di id quo maius cogitari nequit, dalla quale si genera ogni conoscenza Proslogion, 1, 227BC, p. 100, 18.
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intellettiva e, indirettamente, anche ogni conoscenza razionale. Ci si potrebbe chiedere se non sia essa ciò che, posto al fondo di ogni capacità umana di conoscere, permette di riconoscere un’autorità autentica. Resta, nonostante tutto, che anche in questa occasione la moralità, la rectitudo, non è del tutto esclusa: per ammettere di avere quella nozione nel pensiero occorre una accoglienza minima della verità, cioè occorre non essere protervo, piegato solo su se stesso.
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LE RATIONES NECESSARIAE DI ANSELMO D’AOSTA: AUDACIA O UTOPIA?
1. Avvicinarsi al mistero accolto nella fede al fine di comprenderlo: è certamente l’intento esplicito di Anselmo, il suo modo di concepire e di fare teologia. Ma si avverte esattamente il senso e lo spirito di questo accesso, se, da un lato, si tiene presente la premessa o il fondamento della fede, e, dall’altro, la struttura mentale di Anselmo, dominata da una profonda esigenza logica e quindi dalla passione dell’evidenza; o, si potrebbe dire, da una tale confidenza nella logica da essere inclinato a ritenere che in certo modo essa coincida con la realtà. Q uasi in una trasposizione ‘dalla parte di Dio’, dove logica e realtà risultano coincidenti. Sofia Vanni Rovighi osserva che «l’atteggiamento di fondo del suo spirito» è «la ricerca della chiarezza, dell’evidenza intellettuale su quello che è l’oggetto della sua più profonda aspirazione, Dio e l’esperienza dolorosa di non poter raggiungere questa chiarezza», ma è quanto, in realtà, vale per tutto il mistero cristiano: è di tutto il mistero cristiano che Anselmo ricerca instancabilmente la «chiarezza» e l’«evidenza intellettuale» 1. D’altra parte, Anselmo fu attratto al monastero di Le Bec non dall’intenzione di farsi monaco, ma per il magistero che vi impartiva Lanfranco 2, certamente «inferiore a lui sul piano specula S. Vanni Rovighi, Introduzione, in Anselmo d’Aosta, Opere filosofiche, Bari 1969 (20082), p. xxxvii. Nelle note seguenti le citazioni in traduzione italiana delle opere di Anselmo saranno tratte da questo volume, con indicazione delle pagine. 2 Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, 1, 5, PL 158, [49-118], 52C, ed. R. W. Southern, Edinburgh 1962 (Nelson’s Medieval Texts) (repr. Oxford 1972), pp. 8-10 (tr. it., Milano 2009, pp. 25-29). 1
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 107-121 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112913
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tivo», ma che «si presentava ai contemporanei specialmente come un maestro di logica», e «per questo deve aver soddisfatto il gusto per la logica, così vivo e radicato in Anselmo» 3. E, forse, si potrebbe più radicalmente dire: siccome per Anselmo il mistero è in sé, ossia intrinsecamente, evidente, logico, ‘razionale’, questa dimensione di evidenza può essere resa trasparente esattamente col procedimento della razionalità e della logica applicata all’oggetto della fede. Ed è ciò che crea, in certo senso, la peripezia e quasi il dramma interiore di Anselmo, e che alimenta e sostiene la sua ricerca, dove inscindibilmente e contemporaneamente sono compresenti e strettamente legati la fede e l’intelletto – fides, intellectus – intenti al raggiungimento della visione – species –, che in qualche misura l’intellectus mira ad anticipare. Nella realtà – va chiaramente osservato – la fides non è mai esclusa. Nel suo procedere dal profilo dell’intellectus, nel suo sforzo di far salire e di provare la ratio necessaria 4, Anselmo non cessa di essere appassionatamente credente: si direbbe che lo sia ancora di più. Il registro o il metodo è mutato, ma ciò che si tende a manifestare al livello dell’evidenza ‘razionale’ appartiene all’Oggetto, alla res, sempre creduta. Anselmo mira all’intelligenza della fede. Proprio perché crede, aspira a vedere Dio. Egli elabora l’intellectus, nella persuasione che in quel momento, dal profilo della ratio, o della capacità di ‘evidenza’, riesca a vedere intellettivamente la necessità del suo Oggetto. Nasce, così, la domanda: si tratta di un’audacia, di un’utopia, o di una reale possibilità? 2. Anselmo, com’è noto, prima di arrivare alla stesura del Monologion – e del Proslogion –, vive un periodo importante per la sua maturità spirituale. Egli arriva, infatti, a Le Bec nel 1059 e scrive il Monologion solo nel 1076. Nella sua vita di fede, aderisce a Dio in ogni istante della sua vita monastica, mentre svolge contemporaneamente la sua attività intellettuale (studio, scuola), per poi diventare monaco, giungendo allo ‘stato perfetto di vita’. Il clima in cui nasce il Monologion è un clima d’orazione e di contemplazione: è un’intuizione orante che si trasforma in un’af Vanni Rovighi, Introduzione cit., p. xii. Sul significato di ratio in Anselmo cfr. Ead., Ratio in Anselmo d’Aosta, in Ead., Studi di Filosofia medioevale, 2 voll., I, Milano 1978, pp. 22-36. 3 4
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fermazione ragionante. Le meditazioni, le preghiere vi sono caratterizzate però dall’intensità e dalla forma del procedimento dialettico. Anselmo non intende, con ciò, scoprire qualcosa di assolutamente nuovo. Vuole, invece, rendere più immediata, o più trasparente e più incisiva, esattamente la verità della fede che egli ‘spiega’ e che possiede già all’inizio del suo discorso: essa vi è implicata fin dal principio dell’opera. E, d’altra parte, egli vuole portare il suo discepolo (o il lettore) alla contemplazione della claritas veritatis. Anselmo è pienamente consapevole dell’ori ginalità del suo metodo, consenziente alla domanda dei discepoli – e, in fondo, di se stesso –, che gli chiedono di prescindere dalla Scrittura. E proprio questa credo sia una delle caratteristiche che distinguono Anselmo da Agostino, per il quale invece l’intellectus sale dalla fede attestata dall’autorità biblica. Eadmero ha descritto perfettamente la struttura, lo spirito e l’intento della speculazione di Anselmo: Factumque est ut soli Deo caelestibusque disciplinis iugiter occupatus, in tantum divinae speculationis culmen ascenderit, ut obscurissimas et ante suum tempus insolutas de divinitate Dei et nostra fide quaestiones Deo reserante perspiceret ac perspectas enodaret, apertisque rationibus quae dicebat rata et catholica esse probaret. Divinis nanque scripturis tantam fidem habebat, ut indissolubili firmitate cordis crederet nichil in eis esse quod solidae veritatis tramitem ullo modo exiret. Q uapropter summo studio animum ad hoc intenderat, quatinus juxta fidem suam mentis ratione mereretur percipere, quae in ipsis sensit multa caligine tecta latere 5.
Il proposito anselmiano nella composizione del Monologion è l’applicazione di quanto Eadmero ha appena menzionato 6: Q uidam fratres saepe me studioseque precati sunt, ut quaedam, quae illis de meditanda divinitatis essentia et quibusdam aliis huiusmodi meditationi cohaerentibus usitato sermone 5 Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, I, 7, 54D-55A, ed. Southern cit., p. 12 (tr. it., p. 33). Come si vede, Eadmero descrive esattamente l’intenzione e la forma del metodo di Anselmo nel Monologion, nel Proslogion e nel Cur Deus homo. 6 Cfr. R. W. Southern, Saint Anselm. A portrait in a landscape, Cambridge 1990, pp. 118-127 (tr. it., Milano 1998, pp. 124-133); S. Vanni Rovighi, Introduzione a Anselmo d’Aosta, Bari 1987 (19992), pp. 20-44.
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colloquendo protuleram, sub quodam eis meditationis exemplo describerem. Cuius scilicet scribendae meditationis magis secundum suam voluntatem quam secundum rei facilitatem aut meam possibilitatem hanc mihi formam praestituerunt: quatenus auctoritate scripturae penitus nihil in ea persuaderetur, sed quidquid per singulas investigationes finis assereret, id ita esse plano stilo et vulgaribus argumentis simplicique disputatione et rationis necessitas breviter cogeret et veritatis claritas patenter ostenderet. […] Q uam [scil. scripturam] ego saepe retractans nihil potui invenire me in ea dixisse, quod non catholicorum patrum et maxime beati Augustini scriptis cohaereat 7.
In realtà, osserva Southern, «although from the moment when he first began to write Anselm’s words and programme were wholly Augustinian, a closer inspection reveals some quite fundamental divergencies between the two men in their attitudes to the world, in the range and spirit of their theological inquiry, and in their personalities». L’opera di Anselmo appare caratterizzata da «a logical drive which was entirely his own: his programme was Augustinian, his operating system was Aristotelian» 8 – o, forse sarebbe meglio dire, più generalmente, ‘dialettico’. Con questa sua intenzione Anselmo si pone certamente, dal punto di vista del metodo, al di fuori della prospettiva della teologia, se questa si definisce come un ‘esplicito’ pensare nella fede, quale essa è attestata esattamente dall’«autorità della Scrittura» (auctoritas Scripturae) 9. La teologia è, infatti, un pensare metodologicamente ‘inclusivo’ della Scrittura, a cui si aderisce. La stessa espressione anselmiana «fides quaerens intellectum» 10 delinea l’intento della teologia, se veramente essa significa ricerca dell’intelligenza del contenuto della fede, e, quindi, una forma di comprensione che non solo non abbandona la fonte scritturistica, ma vi si riferisce in maniera programmatica. D’altra parte, appare pienamente legittima una «meditatio de ratione fidei» – come Anselmo definisce il Monologion 11 –, Monologion, Prol., 142D-143C, pp. 7, 2 - 8, 9 (tr. it., pp. 4-5). Southern, Saint Anselm cit., p. 82 (tr. it., pp. 86-87). 9 Monologion, Prol., 143A, p. 7, 7-8. 10 Proslogion, Prooem., 225A, p. 94, 7. 11 Ibid., p. 94, 6-7. 7 8
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quando del contenuto della fede si intenda rilevare quanto vi si trova di adeguato alla ragione e che emerge in virtù della riflessione della ratio, nel caso nostro quanto concerne l’«essenza di Dio» e «alcuni altri argomenti connessi» 12. È esatto, cioè, ritenere che la fides contenga una dimensione di dimostrabilità, che appartiene e che appare necessariamente alla ratio. Anselmo, però, mettendola in luce, mentre non fa della teologia (almeno secondo il senso tecnico del termine, che abbiamo indicato), ma fa legittimamente, nella misura della bontà del suo modo di procedere, della valida filosofia. C’è solo da osservare che, con la scelta programmatica di procedere e di concludere in forza della dimostrazione con argomenti necessari («quatenus… rationis necessitas cogeret»), e quindi inducenti alla convinzione con la luce della verità proveniente intrinsecamente dall’evidenza («et veritatis claritas patenter ostenderet»), non si potrà coerentemente pretendere una «veritatis claritas» relativa a contenuti unicamente attestati dalla Scrittura, come la Trinità, tanto più dopo l’enunciazione di principio che si intende prescindere dall’«autorità della Scrittura» 13. È dunque significativa, da parte di Anselmo, l’esplicita formulazione del proprio metodo: da un lato, non prendere in considerazione la Scrittura, ossia la fonte stessa della teologia; dall’altro, prendere in considerazione la fides nella sua ratio. Ma se nel Monologion il porsi programmaticamente sul piano della necessitas rationis, inducente l’adesione razionale per evidenza, fino a un certo punto (ossia fino a che non si tratti della Trinità, tema che esce dall’àmbito della necessitas e claritas della ratio), non suscita per sé nessuna questione, il problema si solleverebbe nel caso in cui il medesimo progetto si applicasse a un dato assolutamente e imprescindibilmente ‘teologico’, come il mistero dell’Incarnazione, dove la veritatis claritas e la ‘ostensione’ patenter non appaiono proponibili, o dove è arduo affermare che nella fides sia ‘evidentemente’ rilevabile una ratio, come la intende Anselmo. E non mi sembra pertinente equiparare le riflessioni anselmiane con quelle del De Trinitate di Agostino – come lo 12 Monologion, Prol., 143A, p. 7, 3-4: «(…) de meditanda Divinitatis essentia, et quibusdam aliis huic meditationi cohaerentibus». 13 Cfr. supra, testo cit. in corrisp. alla nota 6.
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stesso Anselmo fa nel Prologo a propria giustificazione 14 –: il procedimento metodologico di Agostino non equivale a quello di Anselmo, che non programma la messa in parentesi della Scrittura. «Anselmo – afferma la Vanni Rovighi – è un contemplativo in cerca delle ragioni della fede» 15. A proposito della relazione ragione-fede in Anselmo, Southern insiste sul «suo sviluppare il pensiero in discorso», ossia, il suo incoercibile «gusto dell’indagine intellettuale», la sua passione per l’‘evidenza’ 16. Il che non impedisce, d’altronde, di distinguere l’avvento delle ‘ragioni necessarie’ quando si tratti della prospettiva effettivamente ‘filosofica’ – come in certa misura si può osservare nel caso del Monologion – dall’avvento delle stesse ragioni quando invece si tratta della prospettiva formalmente teologica. Notiamo subito che il credente come credente, e quindi il teologo come teologo, è sempre inserito nell’area della fede, nel senso che egli non cessa mai di affidarsi in maniera esplicita, senza che venga posta neppure metodologicamente tra parentesi, alla Rivelazione: ma gli è possibile, sotto queste stesse condizioni, giungere a una vera evidenza prima di essere giunto a godere della visione beatifica, ossia permanendo nella condizione della fede, che è «prova di ciò che non si vede» («argumentum non apparentium», Heb 11, 1)? Il traguardo a cui mira Anselmo, e di cui il Monologion vale come un pre-sentimento, è quello di un intelligere la fede a prescindere dalla Scrittura: una meditazione che sorga dalla verità stessa che si manifesta, e che si impone («rationis necessitas»), per la sua stessa forza in quanto «veritas». Perché se qualcosa è vero, la sua verità deve possedere la forza per manifestarsi, e l’uomo deve poterla cogliere. Anselmo vuole far vedere la verità, a partire dalla sua stessa intrinseca forza di automanifestazione, proprio in quanto essa è vera. Procedendo così – pur senza fare direttamente riferi14 Cfr. Monologion, Prol., 143C-144A, p. 8, 10-14: «Q uapropter, si cui videbitur quod in eodem opusculo aliquid protulerim, quod aut nimis novum sit, aut a veritate dissentiat, rogo ne statim me aut praesumptorem novitatum, aut falsitatis assertorem exclamet; sed prius libros praefati doctoris Augustini de Trinitate diligenter perspiciat, deinde secundum eos opusculum meum diiudicet». 15 Vanni Rovighi, Introduzione a Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 6), p. 21. 16 Southern, Saint Anselm cit. (alla nota 6), pp. 120-121 (tr. it., p. 125). E cfr. ibid., pp. 126-127 (tr. it., p. 133).
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mento alla Scrittura – non si perde la fede. Si vuole piuttosto far esplodere la verità – presente evidentemente anche a livello della fides – nella sua intrinseca necessità, nella sua intrinseca evidenza. Ma tutto questo è possibile? Le investigationes di Anselmo svolte per manifestare la claritas veritatis, non finiscono per razionalizzare, o naturalizzare la fede? Non viene, in tal modo, ridotta la verità delle Scritture, proprio come esito di una pretesa, un’illusione di ‘vedere’ razionalmente il mistero, in quanto si presuppone che esso possa apparire nella sua luce, a prescindere dal dato scritturistico? Si noti bene: Anselmo non cessa mai di essere credente, e anzi vive nel clima della preghiera, e proprio perché si lascia penetrare, si lascia attrarre dalla verità cioè da Dio. Egli continua a ricercare con ansia il volto di Dio, e proprio in questo non viene a mutarsi mai l’oggetto reale della sua riflessione, che rimane l’Oggetto professato dalle Scritture. Ma questa claritas della verità è ancora la claritas teologica o è la claritas apparente, cioè che appare, come esito di un procedimento logico? Chi legga i testi di Anselmo avverte sempre in essi come due dimensioni: quella orante (affidantesi), e quella contemplante, che ritiene d’essere già in grado di unificare. Prescindendo dal caso del Monologion, questo stesso sarà l’interrogativo cruciale a proposito del Cur Deus homo. È possibile una meditatio che concluda al possesso di una ‘ragione (ratio) della fede’, senza ridurre – e preciso: da questa esatta prospettiva – la fides alla ratio o, se vogliamo, senza l’acquisizione di un contenuto nella forma del mistero o della fede e di un contenuto nella forma della ragione o ‘evidenza’? O della verità della fede nella sua ‘evidenzialità’, già posseduta come se si fosse già nella visione beatifica? È nell’indole di Anselmo essere un appassionato delle essenze delle verità atemporali immutabili, quindi della visione di ciò che è assolutamente vero, secondo la forma dei procedimenti logici stringenti e costringenti. Egli cerca delle conclusioni che si reggano da sé, e che egli brama contemplare. 3. In base al profilo della ricerca qui avviata, si rende indispensabile anche una breve analisi del Proslogion. Se nel Monologion Anselmo descrive, mostrandosi ‘parzialmente’ filosofo, le prerogative (qualità) di Dio come bontà, giustizia ecc., nel Proslogion parla del soggetto portatore di queste qualità. Vuole descrivere l’esistenza 113
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che si impone necessariamente dell’unico Dio che possiede tutte queste qualità: Ergo, Domine, qui das fidei intellectum, da mihi, ut quantum scis expedire intelligam, quia es sicut credimus, et hoc es quod credimus. Et quidem credimus te esse aliquid quo nihil maius cogitari possit. Si ergo id quo maius cogitari non potest, est in solo intellectu: id ipsum quo maius cogitari non potest, est quo maius cogitari potest. […] Et certe id quo maius cogitari nequit, non potest esse in solo intellectu. Si enim vel in solo intellectu est, potest cogitari esse et in re, quod maius est. Si ergo id quo maius cogitari non potest, est in solo intellectu: id ipsum quo maius cogitari non potest. Sed certe hoc esse non potest. Existit ergo procul dubio aliquid quo magis cogitari non valet, et in intellectu et in re 17.
Eadmero ci fa sapere quanto Anselmo si sentisse assillato da questa sua ricerca. A volte gli sembrava addirittura che si trattasse di una tentazione demoniaca. Infine, un giorno – scrive Eadmero – «la grazia di Dio brillò nel suo cuore» 18. Potremmo dire: la grazia del Signore rende Anselmo metodologicamente filosofo, logico, o meglio uno che non solo crede, ma ‘capisce’ (intelligit). Nell’itinerario del monaco beccense troviamo due momenti: quello orante, sostanziato dalla preghiera e dalla fede, e quello logico con la struttura stessa dell’argomentazione e la conclusione dell’evidenza. L’intera questione – scrive Eadmero – «apparve evidente al suo intelletto» 19. Vediamo, così, che non si può parlare di un argomento puramente teologico 20, anche se si deve riconoscere che il Dio a cui conclude la sua riflessione e la sua logica è lo stesso Dio della sua fede e della sua ardente e appassionata preghiera. In lui i due livelli si unificano ‘realmente’, ma si distinguono dal profilo formale o metodologico.
Proslogion, 2, 227C-228A, p. 101, 4 - 102, 3. Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, I, 19, ed. Southern cit. (alla nota 1), p. 30 (tr. it., p. 57): «Et ecce quadam nocte inter nocturnas vigilias Dei gratia illuxit in corde eius…». 19 Ibidem: «…et res patuit intellectui eius». 20 Un argomento teologico è infatti finalizzato a giustificare un’accoglienza della non-evidenza (di un atto di affidamento); qui invece Anselmo è preoccupato di far apparire la verità nella sua evidenza. 17 18
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In altri termini, Anselmo, già persuaso come credente che Dio esista, cerca un argomento chiaro e semplice che dimostri, o meglio che mostri, in modo evidente questa sua esistenza. Egli brama di poter ‘vedere’ Dio, nel quale egli già crede. Una tale ‘visione’ o ‘contemplazione’ di Dio non verrebbe ad annullare la fede in Lui, e neppure ne rappresenterebbe solo un’‘aggiunta’; e, tuttavia, pur sopravvenendo come una illuminazione che si accende nella preghiera – si potrebbe dire: come grazia –, nella misura in cui essa è frutto di argomentazione, il suo statuto specifico è di natura filosofica e come tale va giudicato. Il che vuol dire che, se l’evidenza di Dio è intrinseca all’oggetto della fede, tuttavia, in quanto viene sostenuta con un’argomentazione, pur restando senza dubbio ancora intrinseca al medesimo oggetto, dal punto di vista metodologico viene ad assumere uno status filosofico. Si tratta di una «meditazione» (meditatio) che in sé consiste in un’attività logica, filosofica che, generata nel credente, gli permette di appagare il suo desiderio di contemplare Dio. Diciamo meglio: Anselmo è convinto che tale meditazione gli permetta di «capire» (intelligere) ciò che accetta con la «fede» (fides). Non quindi: una fides, da un lato, e, contrapposta o giustapposta, un’«intelligenza» (intellectus), dall’altro. Ma una «fede» dentro la quale matura o si esercita una ‘logica’, che fa vedere: ma, in ogni caso appunto come ‘logica’ filosofica. Se questa possiede una claritas maggiore rispetto alla pura fides, tale claritas, raggiunta con il ragionamento, non coincide in ogni caso con la species o con la ‘visione’ beatifica di Dio. Se ad essa si avvicina in quanto claritas, se ne distingue in quanto propriamente filosofica e non teologica. Il volto di Dio qui finalmente contemplato e sommamente desiderato dal suo cuore che crede e ama è quello che ad Anselmo appare in virtù di questa ‘grazia’ di natura filosofica. Egli parte da teologo e da credente e non pone la ‘visione’ come condizione per credere: «Non cerco infatti – dichiara Anselmo – di capire per credere, ma credo per capire (non enim quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam)». E aggiunge: «Poiché credo anche questo: che ‘se non avrò creduto, non potrò capire’ (nam et hoc credo: quia ‘nisi credidero, non intelligam’)» 21. Solo che il tra Proslogion, 1, 227BC, p. 100, 18-19.
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guardo di questo capire raggiunto da Anselmo è d’altra natura rispetto alla fede, rispetto alla teologia, che è sì «intelligenza della fede», ma non ‘evidenza razionale’ della fede, come già abbiamo osservato, rispetto alla visione e a una ‘intuizione mistica’. Va senza dubbio sottolineato con chiarezza che Anselmo è assolutamente consapevole dei limiti della ragione e della irraggiungibilità di Dio e che conosce l’esercizio propriamente teologico della ratio, dove la Scrittura e la fede sono in maniera espressa e metodologica poste a fondamento della sua speculazione. Basta leggere il capitolo 14 del Proslogion, in cui Anselmo ripete che Dio è «altro» (aliud) rispetto a quello che l’anima ha veduto; che essa «si sforza di vedere di più, e non vede nulla oltre ciò che ha veduto (intendit se ut plus videat, et nihil videt ultra hoc quod vidit nisi tenebras)»; «il suo occhio è schiacciato» dalla immensità di Dio (obruitur tua immensitate) 22. Ma nello stesso Proslogion Anselmo, partito da teologo, diventa ‘contemplativo’ unicamente a condizione di essere ‘filosofo’. 4. Indagando sulle «ragioni della fede», Anselmo intende mostrare nel Cur Deus homo la necessità ‘logica’ e ‘deduttiva’ dell’Incarnazione del Verbo. Anche grazie a un procedimento di ricerca ‘razionale’, egli conclude che il «Dio uomo» è ‘necessario’. Ma ecco la questione: da questo profilo, risulterebbe ancora, in base a tale procedimento, la gratuità dell’Incarnazione? E, dalla prospettiva del metodo teologico, questa sarebbe ancora un’operazione di ‘teologia’? Il proposito di Anselmo è esplicito: partendo dal fondamento (o dal presupposto) della fede, esercitarsi a indagarne le «ragioni». Q uamvis post apostolos sancti patres et doctores nostri multi tot et tanta de fidei nostrae ratione dicant ad confu22 Cfr. ibid., 14, 235AB, pp. 111, 22 - 112, 4: «Domine Deus meus, formator et reformator meus, dic desideranti animae meae, quid aliud es, quam quod vidit, ut pure videat, quod desiderat. Intendit se ut plus videat, et nihil videt ultra hoc quod vidit nisi tenebras; immo non videt tenebras, quae nullae sunt in te, sed videt se non plus posse videre propter tenebras suas. Cur hoc, domine, cur hoc? Tenebratur oculus eius infirmitate sua, aut reverberatur fulgore tuo? Sed certe et tenebratur in se, et reverberatur a te. Utique et obscuratur sua brevitate, et obtruitur tua immesintate». E cfr. H. de Lubac, Sur le chapitre xiv du Proslogion, in Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec (Abbaye Notre-Dame du Bec), Paris 1959, pp. 295-312.
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tandum insipientiam et frangendum duritiam infidelium, et ad pascendum eos qui iam corde fide mundato eiusdem fidei ratione, quam post eius certitudinem debemus esurire, delectantur, ut nec nostris nec futuris temporibus ullum illis parem in veritatis contemplatione speremus: nullum tamen reprehendendum arbitror, si fide stabilitus in rationis eius indagine se voluerit exercere. Nam et illi, quia ‘breves dies hominis sunt’ (Jb 14,5), non omnia quae possent, si diutius vixissent, dicere potuerunt; et veritatis ratio tam ampla tamque profunda est, ut a mortalibus nequeat exhauriri; et dominus in ecclesia sua, cum qua se esse ‘usque ad consummationem saeculi’ (Mt 28, 20) promittit, gratiae suae dona non desinit impertiri. Et ut alia taceam quibus sacra pagina nos ad investigandam rationem invitat: ubi dicit: ‘nisi credideritis, non intelligetis’ (Is 7, 9 sec. LXX), aperte nos monet intentionem ad intellectum extendere, cum docet qualiter ad illum debeamus proficere. Denique quoniam inter fidem et speciem intellectum quem in hac vita capimus esse medium intelligo: quanto aliquis ad illum proficit, tanto eum propinquare speciei, ad quam omnes anhelamus, existimo. Hac igitur ego consideratione […] confortatus, ad eorum quae credimus rationem intuendam […] aliquantum conor assurgere 23.
L’obiettivo di Anselmo appare chiaro: elevarsi alla «intelligenza» delle «realtà», che sono il contenuto della sua fede. E in tali termini è racchiusa perfettamente la finalità e la natura della teologia. Ma la singolarità di Anselmo nel Cur Deus homo si delinea, ancora una volta, quando egli determina più precisamente il suo intento: quello cioè di mostrare l’inconsistenza delle obiezioni di quelli che non hanno la fede e la rigettano, giudicandola contro la ragione. «Facendo astrazione da Cristo (remoto Christo), come se nulla fosse avvenuto a suo riguardo», Anselmo si prefigge di «provare con ragioni necessarie (rationibus necessariis)» l’impossibilità della salvezza senza di lui. In altre parole, egli si propone, «come se non si sapesse nulla di Cristo» (quasi nihil sciatur de Christo), di «dimostrare con evidenti ragioni e verità» (aperta ratione et veritate) la necessità dell’«homo-Deus». Per cui «bisogna che
23 Cur Deus homo, Commendatio operis ad Urbanum Papam II, 260B-261B, pp. 39, 2 - 40, 15.
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avvenga necessariamente (ex necessitate fieri) tutto quanto crediamo riguardo a Cristo» 24. Anselmo, quindi, esattamente nell’ambito dell’inesauribile ratio veritatis, di cui ha parlato, assegna alla sua ricerca, per parte sua – e questa è la sua originalità e la sua avventura –, un compito e un senso ben preciso: si tratta, anche in questo caso, di una ratio o di una contemplatio il cui contenuto non domanda, o non include e non presuppone, metodologicamente, la fede e la Scrittura, l’evento storico, senza alcun dubbio creduto da Anselmo, ma di cui, in ogni caso, è affermata l’evidente necessità in base a un procedimento logico. Il Dottore magnifico crede però di poter far ‘apparire’ le ragioni del ‘Deus-homo’. Q ueste ragioni possono, a suo giudizio, emergere nella loro necessità, grazie al suo ‘ragionare’ e quindi grazie al ragionare dell’intellectus. Si tratta di un’evidenza costringente della verità dell’Incarnazione per la ratio stessa. L’intento è, cioè, comprendere con l’intellectus – e quindi con una scienza ‘assoluta’ a prescindere dal regime della fides – il perché, anzi la necessità ‘logica’ dell’Incarnazione del Verbo. Q uesto intuitus, come egli lo chiama («ad eorum quae credimus rationem intuendam» 25), nella sua natura di ‘visione’, equivale alla species (da «spectare») beatifica, almeno dal profilo razionale: ma una tale ‘visione’, dalla prospettiva del metodo, è saldata – a parte la sua validità – con l’assunzione del puro punto di vista della razionalità logica. Si potrebbe dire che Anselmo è persuaso che nella fides sia incluso uno «splendor veritatis» che fa irradiare la verità stessa. Di questo splendore – egli ritiene –, grazie alla ‘logica’, possiamo fruire già nello stato presente come, in certa maniera, prevenendo lo stato della visione. Ma in tal modo, con la prevalenza della ratio, si passa dall’auctoritas (accettazione della verità in quanto Dio l’attesta e la rivela) a quello che è già una ‘visione razionale’ di ciò che la fides anticipava o assicurava in anticipo. 24 Cfr. ibid., Praefatio, 361A-362A, pp. 42, 11 - 43, 3: «Ac tandem remoto Christo, quasi numquam aliquid fuerit de illo, probat rationibus necessariis esse impossibile ullum hominem salvari sine illo. In secundo autem libro similiter quasi nihil sciatur de Christo, monstratur non minus aperta ratione et veritate naturam humanam ad hoc institutam esse, ut aliquando immortalitate beata totus homo, id est in corpore et anima, frueretur; ac necesse esse ut hoc fiat de homine propter quod factus est, sed non nisi per hominem-deum; atque ex necessitate omnia quae de Christo credimus fieri oportere». 25 Cfr. supra, nota 23.
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Anche Tommaso è appassionato di lumen, e parla di «lumen fidei» 26, di «novum lumen» e di «nova lux intelligibilis» 27: ma tale lumen è nel suo linguaggio quello che irradia dalla fede e dalla Rivelazione, che stanno oltre i «confini della filosofia (metae philosophiae)» 28 e di cui unicamente possiamo affermare la possibilità. La fides possiede per Tommaso uno splendor veritatis in sé: è caratterizzata da una visibilità, è comprensibile, è evidenziabile in sé: il problema è però nel fatto che il mistero di Dio è evidente in sé ma non lo è per noi. Esiste un’affinità profonda tra il desiderio di vedere il mistero e la sua visibilità, la sua conoscibilità. Ma dal punto di vista di Tommaso, se per noi il mistero è reso evidente in base a un procedimento logico, razionale, non ci è garantito che esso sia il contenuto della fede, o quell’«excessus» del soprannaturale, come lo chiama Tommaso, del quale egli ritiene che la ragione possa vedere solo delle similitudines: «In ipsis que per naturalem rationem cognoscuntur sunt quedam similitudines eorum que per fidem sunt tradita» 29. In altre parole, la fides certamente possiede la dimensione dello splendor veritatis, ma si tratta di uno splendore occulto, velato, che non appare necessariamente nella sua evidenza: c’è, ma non appare ancora. Il credente si trova, così, in una situazione singolare, potremmo dire di ‘sofferenza’. Con la res della fede il credente possiede già lo splendor, ma non è ancora capace di vedere. Ancora il Dottore angelico scrive: «Fit nobis in statu vie quedam illius cognitionis [scil. secundum modum ipsorum divinorum] participatio et assimilatio ad cognitionem divinam, in quantum per fidem nobis infusam inheremus ipsi prime veritati propter
Cfr. Thomas Aq uinas, Super Boetium de Trinitate, q. 2, a. 3, resp., ed. cura et studio Fratrum Praedicatorum (ed. Leonina, L), Roma 1992, p. 99a, 131-133: «Sicut autem sacra doctrina fundatur supra lumen fidei, ita philosophia fundatur supra lumen naturale rationis». 27 Cfr. ibid., q. 1, a. 1, resp., p. 82a, 147-158: «Sic ergo sunt quaedam intelligibiles veritates (…) et ad haec cognoscenda non requiritur nova lux intelligibilis (…). Q uaedam vero sunt ad quae praedicta principa non se extendunt, sicut sunt ea quae sunt fidei (…); et haec cognoscere mens humana non potest nisi divinitus novo lumine illustretur, superaddito lumini naturali». 28 Cfr. ibid., q. 2, a. 3, ad 3, p. 99b, 193-196: «Sacramentum fidei pro tanto dicitur liberum a philosophicis argumentis, quia sub metis philosophiae non coartatur, ut dictum est». 29 Ibid., q. 2, a. 3, resp., p. 99a, 128-130. 26
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se ipsam» 30. L’intellectus fa avanzare la fides e, al tempo stesso, anticipa la species. Ma quale intellectus? Q uello che metodologicamente si affida alla logica, per percepire la ‘logica’ del mistero, o quello che viene via via raggiunto per l’irraggiarsi del lumen fidei nella ragione esplicitamente e metodologicamente credente? Anselmo, che non cessa mai di credere, ritiene che l’intelletto, posta in parentesi la fede, già possa vedere: ma con questa visione egli fa un ingresso metodologico dal mondo della stessa fede a quello della logica, che certo non obietta alla fede, ma sicuramente ne prescinde. Ma allora il teologo nel suo metodo è diventato (dal punto di vista di Tommaso) filosofo. Giustamente René Roques osserva: Plus strictement philosophique et spéculative dans le Proslogion, plus théologique et plus engagée dans l’histoire religieuse de l’humanité dans le Cur Deus homo, la démonstration anselmienne garde, de part et d’autre, un caractère systématiquement déductif. C’est la logique et la nécessité interne d’un donné qui font preuve ici et là: l’idée de Dieu entraîne sa nécessité; la destination de l’humanité pécheresse et le dessein de Dieu sur sa création, radicalement compromis l’une et l’autre et absolument impossibles sans le Christ, rendent le Christ ‘nécessaire’. A sa manière, le Cur Deus homo présente, lui aussi, une espèce d’argument ‘ontologique’ 31.
5. Non era mia intenzione valutare in sé la dottrina di Anselmo sulla redenzione ottenuta con il metodo delle ‘ragioni necessarie’, ma mettere in luce che il suo apporto proprio è quello dell’elaborazione di una impossibile ‘filosofia’ del mistero, inaccettabile dai filosofi e dai teologi, accanto a una teologia felicemente esercitata e a una fede non mai ‘realmente’ e soggettivamente abbandonata, ma a cui, per esplicita scelta metodologica, in quel preciso momento elaborativo, applica un’epochè. Tale ‘filosofia’ del mistero offre sicuramente ad Anselmo un intellectus, una visione, che egli ritiene lo avvicini alla species beatifica, ma si tratta di una visione della ratio. Da qui l’interrogativo critico: può veramente questa ‘visione’ dirsi un intellectus Ibid., q. 2, a. 2, resp., p. 95b, 73-77. R. Roq ues, Introduction, in Anselme di Cantorbéry, Pourquoi Dieu s’est fait homme, Paris 1959, [pp. 9-192], p. 181. 30 31
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del mistero, per sua natura definibile come soprannaturale, ‘eccedente’, gratuito e incommensurabile alla ratio e alla sua necessità (ratio necessaria)? È il motivo per cui parlerei di ‘audacia’, anzi di ‘utopia’ di Anselmo. Egli ritiene di offrire una forma di visione del mistero stesso; in verità vi riesce, abbassandolo – insisto: sempre dal punto di vista del metodo – al livello della razionalità, la quale è pure intrinseca e necessaria al mistero stesso, ma è la scientia Dei et beatorum che ne ha la percezione immediata e ‘logica’. Anselmo, credente, assetato di species, ha come aspirato a porsi quasi già dalla parte di quella scientia, anticipandone i tempi: un anticipo appunto audace e utopico. «Chiedo – egli pregava – non di venir confermato nella fede ma, già confermato in essa, di godere dell’intelligenza della verità (ut veritatis intellectu laetifices)» 32. Viene da pensare a una ‘visione’ gioiosa sì, ma nel desiderio.
32 Cur Deus homo, II, 15, 416B, p. 116, 9-12: «Hoc postulo (…) non ut me in fide confirmes, sed ut confirmatum veritatis ipsius intellectu laetifices».
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SI VIS, Q UAERAMUS Q UOD SIT VERITAS. ANSELMO E IL MODELLO PEDAGOGICO MONASTICO
Nel cantare le lodi di Anselmo, tanto dal punto di vista religioso che da quello umano e culturale, il suo biografo Eadmero di Canterbury si sofferma più volte e con particolare enfasi sui talenti magistrali dell’arcivescovo. Dovendo relazionarsi a interlocutori di volta in volta diversi in quanto a prestigio e formazione, Anselmo mostrava infatti una naturale capacità di adattare le sue parole a ciascuno di essi, generando una «famelica aviditas» di ascoltarlo in chiunque lo incontrasse. Tramite una paziente ma insistente opera di persuasione riusciva dunque a indirizzare i monaci a una vita che non esondasse dagli argini della moralità monastica, i chierici a conservarsi nella pratica del Signore, i coniugi alla fedeltà matrimoniale 1. Q uesta capacità di dialogare con tutti e di fornire, nel modo più appropriato a ciascuno, un consiglio esaustivo, un ammonimento o una parola di conforto esemplifica perfettamente, secondo Eadmero, la particolare attenzione del magister nei confronti dei problemi della comunicazione interpersonale e, nello specifico, della pratica didattica. L’essere umano appare a Anselmo come cera, che può presentarsi, a chi la debba lavorare, tanto resistente alle modificazioni quanto a esse cedevole. Entrambi gli eccessi, in quanto tali, sono dannosi: nel primo caso, uomini vissuti nella corruzione del mondo («in vanitate huius saeculi») sono dive1 Cfr. Eadmerus Cantuarensis, Vita Anselmi, 31, PL 158, [49-118], 76C-77A, ed. R.W. Southern, in The Life of St Anselm Archibishop of Canterbury by Eadmer. Introduction, Notes and Translation, London – Edinburgh – Paris – Melbourne – Toronto – New York 1962, p. 54.
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 123-135 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112914
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nuti sordi alle verità spirituali; nel secondo caso, invece, fanciulli, ancora non temprati dall’età e dalla conoscenza («aetate ac scientia teneri») risultano incapaci di discernere il bene dal male e dunque ancora inadatti a ricevere il sigillo della formazione. Negli adolescenti e nei giovani, invece, nei quali teneritudo e duritia sono ben contemperati dall’età mediana, appare ad Anselmo più concreta la possibilità del magister di imprimere il proprio segno 2. Lo stesso Anselmo, quando descrive le linee generali di un modello di formazione, pensa certamente alla educazione dei monaci e dei novizi. A un abate, che si lamentava di non riuscire ad ottenere risultati dai più giovani tra i suoi confratelli, pur avendoli frustati più volte e con costanza («die ac nocte»), Anselmo indica come il maestro, prima ancora della competenza e di una disciplina imposta con tanta violenza, debba saper trasmettere al discepolo la certezza di star lavorando per il suo bene. Il suggerimento che Anselmo fornisce, al fine, all’abate non è certamente di usare solo le blandizie, ma di convincersi dell’inutilità della sola disciplina. A differenza dell’artigiano mediocre che sa solo picchiare senza criterio sulla materia informe, l’artista esperto alterna colpi e levigature, sbalzi e pressioni. Parimenti, l’educatore dovrà essere severo ma disponibile, fornendo ai suoi discepoli quanto occorre loro, volta per volta, per crescere, in una lenta e ragionata progressione di nutrimenti via via più ricchi e complessi. Il maestro otterrà dai suoi discepoli solo ciò che riuscirà a dare loro: laddove essi non avvertano amor, pietas, benevolentia e dulcedo nel parole e nelle azioni di chi deve guidarli, non potranno che generare odium e invidia e ricurvarsi ad vitia come alberi mal cresciuti 3. La figura di maestro di Anselmo appare in queste parole chiaramente delineata e fa eco al topos, frequentissimo lungo tutto l’alto Medioevo, del magister sensibile alle esigenze e alle richieste esplicite dei suoi discepoli e, in special modo, del monaco erudito che cede alle insistenti preghiere dei fratres che si appellano alla sua capacità teoretica e divulgativa perché lasci loro traccia delle conversazioni tenute assieme, affinché essi possano individualmente riprenderle per meditarne le conclusioni.
Cfr. ibid., 11, 59AC, pp. 20-21. Cfr. ibid., 67C-68D, 22, pp. 37-40.
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Già Benedetto aveva indicato, in diversi punti della Regula, quali fossero i doveri legati al docere. Chi insegna, e nello specifico l’abate, deve sempre mostrare una totale omogeneità tra ciò che esprime e i suoi comportamenti, per non rischiare di denunciare, laddove emergessero incoerenze, l’infondatezza del suo messaggio 4. Da parte sua, il monaco discepolo deve accettare con umiltà gli insegnamenti ricevuti e, soprattutto, deve tacere dinanzi al magistero che riceve. Anche ai discipuli perfecti va concessa infatti raramente la licentia loquendi, perché è dato ai maestri parlare ed insegnare, e ai discepoli tacere ed ascoltare («nam loqui et docere magistrum condecet, tacere et audire discipulum convenit») 5. Negli stessi anni, sempre in una ottica di convivenza comunitaria tra magistri e discipuli ma nell’ambito di una esperienza monastica distinta e parallela rispetto a quella benedettina, Cassiodoro esprime, nella prefazione al primo libro delle sue Institutiones, la necessità di una ordinata prassi didattica all’interno dell’esperienza comunitaria. Lo stesso carisma fondativo di Vivarium lo esige. Verificata la presenza soltanto di scuole utili allo studio delle lettere profane, Cassiodoro decide infatti di impegnarsi («nisus sum») per fondare a Roma una schola Christiana. L’imperversare della guerra greco-gotica impedisce però la buona riuscita del progetto, che troverà realizzazione altrove, nella fondazione di un orto dello spirito, funzionale alla crescita dei più giovani tra i credenti. A loro, Cassiodoro indirizza dei libri come se fosse per loro un maestro («ad vicem magistri»). Le Institutiones, che danno il titolo all’opera, sono i due corni della formazione del buon cristiano: le Scritture e le arti liberali. È infatti compito del maestro serio («magister gravis») interrogare spesso («frequenter») gli antichi («prisci»), tanto gli interpreti del testo sacro quanto gli autori di testi sulle artes 6. Agli studiosi 4 Cfr. Benedictus Nursinus, Regula, 2, PL 66, [215-932], 263CD, ed. R. Hanslik, Wien 1960 (19772) (CSEL, 75), p. 23. 5 Cfr. ibid., 6, 356C, p. 42. 6 Cfr. Cassiodorus Senator, Institutiones, Praefatio, PL 70, 1106D-1107A, ed. R. A. B. Mynors, Oxford, 1937, p. 37: «Sed cum per bella ferventia et turbulenta nimis in Italico regno certamina, desiderium meum nullatenus valuisset impleri, quoniam non habet locum res pacis temporibus inquietis; ad hoc divina charitate probor esse compulsus, ut ad vicem magistri introductorios vobis libros istos, Domino praestante, conficerem; per quos (sicut aestimo) et Scripturarum divinarum series, et saecularium litterarum compendiosa notitia Domini munere
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fratres Cassiodoro indica dunque una scala ascensiva, simile in forma e funzione a quella apparsa in sogno al patriarca Giacobbe, grazie alla quale, procedendo nella lettura ordinata e ragionata dei testi sacri, dei loro interpreti e dei migliori rappresentanti della tradizione pagana, è possibile giungere, in una progressiva ascesa legata all’insegnamento religioso («religiosa doctrina»), alla contemplatio di Dio 7. La costruzione del monastero in una posizione geografica utile a sostentarsi e ad aiutare i più poveri; l’utilizzo, mutuato da Girolamo, di cola e commata per distinguere nei testi termini e proposizioni; la presenza, nelle mura del monastero, di esperti artifices abili nelle rilegature; l’acquisto di mechanicae lucernae per le veglie notturne; la realizzazione di un horologium che indicasse lo scorrere del tempo sono tutti elementi che, anche nella loro concretezza, permettono a Cassiodoro di facilitare, materialmente, un processo di formazione complessiva che coinvolge tutti gli aspetti della vita comunitaria in una completa e circolare osmosi didattico-spirituale tra il magister ed i suoi discipuli 8. panderetur. Minus fortasse disertos, quoniam in eis non affectata eloquentia, sed relatio necessaria reperitur; utilitas vero magna inesse cognoscitur, quando et per eos discitur, unde et salus animae, et saecularis eruditio provenire monstratur. In quibus non propriam doctrinam, sed priscorum dicta commendo, quae posteris laudare fas est, et praedicare gloriosum: quoniam quidquid de priscis sub laude Domini dicitur, odiosa iactantia non putatur. Huc accedit quod magistrum gravem pateris, si frequenter interroges; ad istos autem quoties redire volueris, nulla asperitate morderis». 7 Cfr. ibid., 1108B, p. 39: «Moderamini ergo, studiosi fratres, sapienter desideria vestra, per ordinem quae sunt legenda discentes, imitantes scilicet eos qui corpoream desiderant habere sospitatem»; ibid., 1110A, p. 40: «Instituti operis ordine celebrato, nunc tempus est ut veniamus ad religiosae doctrinae saluberrimum decus, devotarum lumen animarum, coeleste donum, et gaudium sine fine mansurum. Q uod, ut ego arbitror, duobus libris qui sequuntur, est breviter intimatum»; ibid., 1107AB, p. 35: «Q uapropter, dilectissimi fratres, indubitanter ascendamus ad divinam Scripturam per expositiones probabiles Patrum, velut per quamdam scalam visionis; ut eorum sensibus provecti, ad contemplationem Domini efficaciter pervenire mereamur. Ista est enim fortasse scala Iacob per quam angeli ascendunt atque descendunt (cfr. Gn 28, 12), cui Dominus innititur, lassis porrigens manum, et fessos ascendentium gressus sui contemplatione sustentans». 8 Cfr. ibid., I, 33, 4, 1150BC, p. 70: «Eia nunc, charissimi fratres, festinate in Scripturis sanctis proficere, quando me cognoscitis pro doctrinae vestrae copia, adiutorio dominicae gratiae, tanta vobis et talia congregasse. Conferte nunc legentes vicissitudinem rerum, ut pro me iugiter Domino supplicare dignemini: quoniam scriptum est; ‘Orate pro invicem, ut salvemini’ (Iac 5, 16). O inaestimabilis
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Le due esperienze monastiche, cronologicamente parallele ma tra di loro indipendenti, di Cassiodoro e Benedetto descrivono dunque la pratica didattica come una necessità direttamente derivante dalla scelta della vita comunitaria. Tanto Benedetto quanto Cassiodoro avvertono infatti l’esigenza personale di declinare il fervore della propria fede nella attività di diffusione dei suoi principi. Nella stessa ottica di aderenza tra habitus spirituale e magistero sociale, nella stesura dei suoi Moralia in Iob Gregorio Magno ricorda a quei doctori che osano insegnare ciò che trascurano di praticare che non soltanto smarriscono in ciò la regola di una vita corretta (l’ordo bene vivendi) ma soprattutto infrangono la superiore correttezza di ciò che affermano (la rectitudo loquendi) 9. È invece, afferma autobiograficamente Gregorio, la sua sofferenza individuale, la sua irripetibile cifra personale a renderlo interprete plausibile di Giobbe 10, perché il maestro che tratta di argomenti religiosi non può affidarsi alla semplice tecnica, all’ars loquendi, che si rivela sempre essere una disciplina legata all’apparenza, all’exterioritas 11. È in virtù di tale timore che Gregorio rifiuta di ingabbiare («restringo») le parole della Scrittura («verba celesti oraculi») sotto le regole del grammatico pietas virtusque Creatoris, quando in commune utile esse promittitur, si pro nobis invicem pio Domino supplicemus!». 9 Cfr. Gregorius I papa [Magnus], Moralia in Iob, XI, 15, 23, PL 75-76, 75, 964BC, ed. M. Adriaen, 3 voll., Turnhout 1979-1985 (CCSL, 143-143A-143B), II, p. 599, 1318: «Et plerumque doctor qui docere audet quod negligit agere, cum desierit bona loqui quae operari contempsit, docere subiectos incipit prava quae agit, ut iusto omnipotentis Dei iudicio, in bono iam nec linguam habeat, qui habere bonam vitam recusat; quatenus cum mens eius terrenarum rerum amore incenditur, de terrenis rebus semper loquatur». 10 Cfr. ibid., VI, 11, 13, 763CD, I, p. 293, 1-10: «Idcirco enim saepe et desidiosus ingenium accepit, ut de negligentia iustius puniatur, quia quod sine labore assequi potuit, scire contemnit. Et idcirco nonnunquam studiosus tarditate intelligentiae premitur, ut eo maiora praemia retributionis inveniat, quo magis in studio inventionis elaborat. Nihil ergo est in terra sine causa, quando et studioso tarditas ad praemium proficit et desidioso velocitas ad supplicium crescit. Ad intelligenda autem quae recta sunt, aliquando laboris studio, aliquando vero dolore percussionis erudimur». 11 Cfr. ibid., ep. praef. ad Leandrum, 5, 516B, p. 7, 215-222: «Unde et ipsam loquendi artem, quam magisteria disciplinae exterioris insinuant, servare despexi. Nam sicut huius quoque epistolae tenor enuntiat, non metacismi collisionem fugio, non barbarismi confusionem devito, situs modosque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum vehementer existimo, ut verba coelestis oraculi restringam sub regulis Donati».
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Donato («sub regulis Donati»). Insegnare non è infatti semplicemente veicolare un contenuto. Tutti gli uomini tendono per natura a trascendere se stessi, ma l’amor che spinge a meditare spesso non è sufficiente nemmeno a dare inizio al proprio percorso di ricerca 12. È qui che acquisisce significato l’opera magistrale dei confratelli che hanno già superato tali difficoltà ma non ne hanno cancellato il ricordo e che in nome della comune fede si volgono indietro a guardare chi è in ambasce. Q uando si parla di Dio agli uomini, dunque, l’ordo docendi, il metodo cioè con il quale si sceglie cosa dire e come dirlo, non può che nascere ex propria infirmitate, dalla coscienza cioè di essere o di esser stati nella stessa, incerta condizione dei propri allievi. Il magistero appare così, nelle parole di Gregorio, una operazione circolare, nella quale ci si rivolge, indietro, ai parvuli, bisognosi di apprendere, e ci si affida, guardando avanti, ai magni, che hanno già percorso quel cammino 13. L’insegnare è dunque condividere con una comunità una tensione alla verità, vale a dire una filosofia, che rigetti i beni terreni, senza ignorare la finitezza umana, e tenda ai beni celesti, senza lasciar dietro i più deboli. Per questo, chi rimane legato alla sensibilità e non supera tale oscurità è incapace di impartire qualsivoglia insegnamento: quando Giobbe afferma che Dio sottrae 12 Cfr. ibid., VI, 10, 12, 735-736A, pp. 291, 4 - 292, 16: «Saepe stultus habet interni liquoris fontem, sed non bibit, quia ingenium quidem intelligentiae accipit, sed tamen veritatis sententias cognoscere legendo contemnit; scit quia intelligere studendo praevaleat, sed ab omni doctrinae studio fastidiosus cessat. Divitiae quoque mentis, sunt verba sacrae locutionis; sed has divitias stultus oculis aspicit, et in ornamenti sui usum minime assumit, quia verba legis audiens, magna quidem esse considerat, sed ad comprehendenda haec nullo studio amoris elaborat. At contra alius sitim habet, ingenium non habet; amor ad meditandum pertrahit, sensus hebetudo contradicit; et saepe hoc in divinae legis eruditione quandoque studendo intelligit, quod per negligentiam ingeniosus nescit. Huius ergo stulti divitias sitientes bibunt, dum praecepta Dei, quae ingeniosi fastidientes nesciunt, hebetes amantes assequuntur». 13 Cfr. ibid., XXXV, 20, 49, 781A-782A, III, p. 1811, 115-127: «Et quia in hoc tam magno humano genere, nec parvi desunt qui dictis meis debeant instrui; nec magni desunt qui cognitae meae valeant infirmitati misereri, per haec utraque aliis fratribus quantum possum curam confero, ab aliis spero. Illis dixi exponendo quod faciant, istis aperio confitendo quod parcant. Illis verborum medicamenta non subtraho, istis lacerationem vulnerum non abscondo. Igitur quaeso ut quisquis haec legerit, apud districtum iudicem solatium mihi suae orationis impendat, et omne quod in me sordidum deprehendit fletibus diluat. Orationis autem atque expositionis virtute collata, lector meus in recompensatione me superat, si cum per me verba accipit, pro me lacrymas reddit».
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il contenuto del docere, vale a dire la doctrina, agli anziani, Gregorio non esita a individuare e stigmatizzare in essi coloro i quali, rapiti dall’amore delle cose terrene, hanno dimenticato di cercare quelle celesti. La loro condizione è dunque simile a quella degli eretici, che sono incapaci di comprendere, tramite i sensi, unica forma di conoscenza per loro accettabile, il vero («per experimentum ignorant quae vident») 14. Invece, la comprensione della verità è stimolata dall’apparente incomprensibilità superficiale («exterius rationabile») che spinge allo sforzo di comprensione di un senso più profondo («ad studium interioris intellectus») 15. Giobbe fu dunque veramente prototipo magistrale, rispettoso della regola della vera filosofia, quando, subite le sofferenze, si stracciò le vesti ma al contempo adorò 16: è infatti della vera philosophia non solo evitare gli eccessi ma unire la sofferente ignoranza del mondo alla devozione per la trascendenza. Q uesto ideale di una comunione monastica nella quale l’erudizione del frater più colto diviene stimolo e viatico di promozione di tutta la comunità, attraversa tutti i secoli dell’alto Medioevo, giungendo sino ai decenni dell’età carolingia. Epoca di ulteriore sviluppo delle realtà monastiche, il secolo nono fu percorso da una riflessione continua e profonda sul senso del magistero teologico e spirituale. Così, il celebre magister della corte di Carlo Magno, Alcuino, riassume in modo perfetto il modello di tale relazione 14 Cfr. ibid, III, 24, 47, 623B, I, p. 145, 2-13: «Haeretici quippe cum sanctae Ecclesiae facta considerant, oculos levant, quia videlicet ipsi in immo positi sunt et cum eius opera respiciunt, in alto sunt sita quae cernunt; sed tamen hanc in dolore positam non cognoscunt. Ipsa quippe appetit hic mala recipere, ut possit ad aeternae remunerationis praemium purgata pervenire. Plerumque prospera metuit, et disciplina eruditionis hilarescit. Haeretici igitur, quia pro magno praesentia appetunt, eam in vulneribus positam non cognoscunt. Hoc namque quod in illa cernunt, in suorum cordium cognitione non relegunt. Cum ergo haec et adversitatibus proficit, ipsi suo stupori inhaerent, quia per experimentum ignorant quae vident». 15 Cfr. ibid., IV, Praefatio, 4, 637A, p. 162, 139-140: «Nam si quid exterius rationabile fortasse sonuisset, nequaquam nos ad studium interioris intellectus accenderet». 16 Cfr. ibid., II, 16, 28, 569B, p. 77, 3-8: «Nonnulli magnae constantiae philosophiam putant, si disciplinae asperitate correpti, ictus verberum doloresque non sentiant. Nonnulli vero tam nimis percussionum flagella sentiunt, ut immoderato dolore commoti, etiam in excessu linguae dilabantur. Sed quisquis veram tenere philosophiam nititur, necesse est ut inter utraque gradiatur».
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didattica quando, da S. Martino, dichiara al suo sovrano di esser diventato, nella sua vita, molte cose per molti («plurima plurimis») proprio per realizzare a pieno il proprio magistero 17. La filosofia, come il maestro Alcuino rivela ai suoi discipuli nella breve Disputatio de vera philosophia, è magistra di ogni virtù, unica tra le ricchezze mondane a non lasciare mai in miseria chi la possiede. È dunque compito di chi ha già colto i vertici di tale magistero invogliare a una gerarchica indagatio coloro i quali desiderino («cupientes») ascendere alle sue vette. Il maestro dovrà, in relazione alla giovane età degli aspiranti filosofi, concedere loro un supporto («dans dexteram»), facilitarli nei passaggi più complessi, in modo tale che il naturale lumen presente latentemente in ogni uomo, come la scintilla è presente nella selce, possa emergere grazie alla sua insistente tenacia («crebra intentio»). Fonte della conoscenza è dunque soltanto Dio, che concede doni con abbondanza («qui dat affluenter»), ma compito del doctor è guidare e corregere, come un ductor, i suoi allievi lungo i sentieri della ragione divina («per divinae vias rationis»). Nella stessa ottica, pochi anni più tardi, Benedetto di Aniane, incaricato di realizzare una Concordia regularum che mettesse ordine tra le diverse versioni della Regula di Benedetto all’epoca circolanti, afferma con forza che la vita in comune è ben più degna della vita solitaria perché permette una piena condivisione di valori e saperi tra chi vi partecipa. Gli uomini sono infatti come membra del corpo della Chiesa; se vengono separati, il corpo non può che morire. Essi sono destinatari, continua Benedetto, di diversi doni, come indica S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi. Se dunque a qualcuno è data la scientia e ad altri la sapientia, solo nella vita comunitaria e nella sua quotidiana condivisione circolare è possibile far sì che questi talenti esprimano pienamente e diffusamente il loro potenziale 18. 17 Cfr. Alcuinus Eboracensis, Epistola CXXI ad Carolum, PL 100, [207A-210A], 208B, in Epistolae, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 4 (Karolini aevi, 2), Hannover 1895, pp. 175-178. 18 Cfr. Benedictus Anianensis, Concordia regularum, 3, 3, PL 103, 741BC, ed. P. Bonnerue, Turnhout 1999 (CCCM, 168), p. 37, 254-264: «Tunc deinde nec sufficere potest unus ad suscipienda omnia dona spiritus sancti, quia secundum uniuscuiusque mensuram fidei et donorum spiritalium distributio celebratur, ut id quod per partes unicuique distributum est, rursum tamquam membra ad aedificationem unius corporis coeat et conspiret: ‘Alii enim
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È nella scia di questa tipologia di relazione didattica che sembra immettersi Anselmo nel disegnare la sua figura di magister, fornendo però, di tale tradizione, una interpretazione personale e originale legata alla sua peculiare vis speculativa. L’intento evidentemente encomiastico della biografia di Eadmero, infatti, interessato a sottolineare i meriti dell’Anselmo magister capace di conversare con chiunque e di fornire a ciascuno conforto e insegnamento, trova conferma diretta nell’impostazione didattica che Anselmo manifesta sin dalle prime righe del Monologion. È noto come il movente dell’opera sia la preghiera, mossa ad Anselmo dai suoi fratres, affinché desse forma scritta («describere») ad alcune meditazioni sull’essenza divina esposte, sino a quel momento, in un linguaggio colloquiale (un usitatus sermo). Dinanzi a questa richiesta, Anselmo appare estremamente arrendevole. Nel confezionare l’opera, infatti, il magister non ignora le difficoltà dell’impresa e dichiara la sua conseguente scarsa fiducia nel poterla realizzare al meglio; ciononostante, il magister si piega alla volontà dei discepoli, che non esitano a imporgli precise precondizioni in relazione alle quali dar vita al testo. I fratres chiedono e ottengono, infatti, che non venga in alcun modo sfruttata l’auctoritas scritturale; che il linguaggio e lo stile siano plani; che la dimostrazione sia condotta con argomenti semplici («vulgari»); che tutto sembri derivare naturalmente dalla forza della ragione, in modo tale che il procedere degli argomenti quasi costringa il lettore ad ammettere la claritas della veritas così individuata. Per timore, infine, che, nonostante tutte queste accortezze, fosse per loro ancora difficile comprendere le parole del magister, i fratres chiedono e ottengono da Anselmo la possibilità di muovere obiezioni di qualsiasi genere, anche quelle più semplici o banali. L’ampiezza delle concessioni è giustificata dallo stesso Anselmo in virtù della loro modesta importunitas e soprattutto della loro honestas; i fratres non si sono infatti dimostrati né invadenti né falsi, tanto che, pur avendo dato inizio alla sua esposizione controvoglia, Anselmo dichiara di averne concluso la stesura libenter perché era riuscito a rielabo-
datur sermo sapientiae, alii sermo scientiae, alii fides, alii prophetia, alii gratia sanitatum’ (1Cor 12, 8) et cetera, quae singula utique non tam pro se unusquisque quam pro aliis suscipit ab Spiritu sancto. Et ideo necesse est uniuscuiusque gratiam quam susceperit ab Spiritu Dei in commune prodesse».
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rarla proprio secondo i desideri espressi dai suoi confratelli («sicut sciebam eos velle quorum petitioni obsequi intendebam») 19. Q uesta descrizione, fornita dallo stesso autore, dell’attenzione posta nel voler proporre la propria riflessione nella forma che meglio si adatta alla petitio dell’uditorio, riassume perfettamente il sentimento che guida l’approccio di Anselmo al magistero. Al di là del semplice desiderio di assecondare le richieste dei propri fratres, Anselmo concede ai suoi interlocutori un amplissimo spazio di movimento iniziale, che li rassicuri e li renda ben disposti a seguirlo lungo i percorsi, talvolta tortuosi, delle sue argumentationes. Così, nelle righe iniziali del primo capitolo del Monologion, forte delle facilitazioni concesse al suo uditorio, Anselmo può pretendere che anche chi si reputi dotato di un ingegno mediocris si faccia persuadere dalla sola ratio, e che dunque ceda all’evidenza di un argomento strutturato in modo tale da essere, per chiunque, il più evidente possibile («promptissimus») 20. Il magister ha dunque il compito di rendere tale cammino meno tortuoso, ben predisponendo l’animo di chi lo ascolterà grazie a una disponibilità massima nei confronti delle sue richieste; l’impegno di Anselmo è di rendere talmente privo di ostacoli il procede dell’argomentazione da mostrarlo come necessariamente autoevidente («perspecta ratio nullo potest dissolvi pacto») 21. Proprio nell’ottica di questa aspirazione a rendere i contenuti della fede intellegibili a qualsivoglia interlocutore, Anselmo si impegna a trasformare le multae argumentationes del Monologion in un intuitivo argumentum unico. Al mutare del procedimento individuato, muta in parallelo, necessariamente, il contesto narrativo e didattico; se nel Monologion infatti la tensione alla formazione dei suoi fratres era massima, tanto da indurre Anselmo a rispondere a tutte le obiezioni per evitare che una qualsivoglia incertezza minasse il percorso del suo argomentare, nel Proslogion l’azione sembra svolgersi nel chiuso dell’animo dell’autore, che nel proemio si descrive in preda a un tormentato conflitto inte Cfr. Monologion, Prol., 144A, p. 8, 20. Cfr. ibid., 1, 1, 145A, p. 13, 10-12: «Puto quia ea ipsa ex magna parte, si vel mediocris ingenii est, potest ipse sibi saltem sola ratione persuadere. Q uod cum multis modis facere possit, unum ponam, quem illi aestimo esse promptissimum». 21 Cfr. ibid., 146A, pp. 14, 28 - 15, 1. 19
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riore tra il desiderio di giungere all’argumentum e la difficoltà nell’individuarlo. Anche nella solitudine di tale sforzo, disperato prima e dopo gioioso, Anselmo sembra non poter dimenticare la sua funzione magistrale e da essa è spinto, immedesimandosi nei panni di un uditore spaesato («sub persona conantis et quaerentis»), a metter per iscritto le sue riflessioni, come guida, esempio, paradigma di meditazione 22. Anselmo, che da magister aveva prima acconsentito a ogni richiesta dei suoi fratres per poi poter imporre loro una fitta serie di ragionamenti, richiamandone la naturale capacità, in quanto uomini, di acconsentire alle evidenze della verità, sembra ritrarsi, nel Proslogion, da una condizione sociale di magistero a una più intima e personale consapevolezza che la formazione di se stesso può diventare, se condivisa, un magistero universale grazie al legame tra la costituzione razionale dell’uomo e il manifestarsi autoevidente della verità: «sono stato fatto per vederti, ma non ho ancora fatto ciò per cui sono stato fatto» 23. Anselmo offre cioè ai suoi lettori, nel Proslogion, i risultati di un travaglio personale, un percorso di formazione interiore che dunque è solo apparentemente individuale e senza precipitati didattici esterni. Il Salmo che, infatti, suggerisce ad Anselmo la celeberrima figura dell’insipiens, centrale per la drammatizzazione dell’unum argumentum, descrive, nei versetti successivi non citati nel Proslogion, la condizione tormentata del requirens: «Il Signore dal cielo si china sugli uomini per vedere se esista un saggio: se c’è uno che cerchi Dio» 24. L’insipiens è dunque l’uomo che, pur avendo in sé il concetto di Dio, ciò cioè che gli permette di dire «Dio non esiste», non coglie spontaneamente l’evidenza della verità che gli si mostra nel pensiero; Anselmo, come ha chiaramente espresso nel Proemio, se ne può fare magister in quanto requirens sofferente lui stesso, alla ricerca di quella intelligenza della fede che è condizione 22 Cfr. Id., Proslogion, Prooem., 224BC, pp. 93, 20 - 94, 2: «Aestimans igitur quod me gaudebam invenisse, si scriptum esset, alicui legenti placiturum: de hoc ipso et de quibusdam aliis sub persona conantis erigere mentem suam ad contemplandum Deum et quaerentis intelligere quod credit, subditum scripsi opusculum». 23 Cfr. ibid., 1, 226A, p. 98, 14-15: «Denique ad te videndum factus sum; et nondum feci propter quod factus sum». 24 Cfr. Ps 13, 2: «Dominus de caelo prospexit super filios hominum ut videret si esset intellegens requirens Deum».
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essenziale per guidare chi, come l’insipiens appunto, ha la verità in sé, come ogni altro uomo, ma non sa riconoscerla. Protagonista in prima persona della ricerca, maestro di se stesso, Anselmo mostra nel Proslogion la cogente autoevidenza che, dalla presenza nella mente dell’insipiens del solo nome di Dio, conduce all’affermazione positiva della sua esistenza: «chi dunque comprende che Dio è così, non può pensarlo non esistente» 25. Tale conclusione, che sembrerebbe rivolta direttamente all’insipiens, viene da Anselmo invece estesa a tutti gli uomini, e a lui stesso in primo luogo: Gratias tibi, bone Domine, gratias tibi, quia quod prius credidi te donante, iam sic intelligo te illuminante, ut si te esse nolim credere, non possim non intelligere 26.
Si evidenzia così una completa e in ciò straordinaria inversione e sovrapposizione dei ruoli tra l’Anselmo-magister e guida sicura e l’Anselmo-requirens in continua ricerca, nella quale l’autore ringrazia Dio non per averne guidato il magistero nei confronti dell’insipiens, ma per avere illuminato la sua personale ricerca, affinché la ragione indagatrice inquieta si facesse, al fine, maestra di se stessa. Se dunque nel Monologion il magister Anselmo ha quasi accompagnato i suoi lettori in aula, sforzandosi di costruire per loro il più funzionale dei teatri didattici, nel Proslogion apre le porte del suo studio interiore, attraverso l’andito della ineludibile ricerca personale che, sola, prelude al momento della formazione. L’impegno didattico di Anselmo si rivela, nelle ansie del Proslogion, innanzitutto come un magistero del requirere individuale e preventivo, di quella inquieta ricerca che permette al magister di accogliere i timori dei suoi alunni perché in essi egli riconosce gli aneliti del suo stesso animo. Se Anselmo si mostra dunque impegnato a creare, nel Monologion, un ambiente formativo adatto alla miglior comprensione dei fratres, nel Proslogion propone una intensa riflessione sulla necessità, per il magister, di una indagine pre25 Cfr. Proslogion, 4, 229A, p. 104, 4 : «Q ui ergo intelligit sic esse Deum, nequit eum non esse cogitare». 26 Ibid., 229B, p. 104, 5-7.
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liminare che chiarisca prima a se stesso i temi del proprio magistero. L’opera di formazione è dunque un intersecarsi continuo tra il desiderio del discepolo di apprendere e la ricerca personale del maestro, impegnato nella definizione di una dottrina che sia stabile dimora per lui in prima istanza e, solo a questa condizione, accogliente ambiente di formazione per i suoi seguaci. La conoscenza appare dunque, in Anselmo, un percorso da compiersi nella ricerca comune e parallela, quella stessa che, nelle pagine del De veritate, conduce l’allievo a chiedere «aspetto di imparare da te la definizione della verità», ed il maestro a rispondere «non ricordo di aver trovato una definizione della verità; ma, se vuoi, cerchiamo (quaeramus) cosa sia la verità attraverso le diverse realtà nelle quali essa si trova» 27.
De veritate, 1, 469B, pp. 176, 21 - 177, 2: «Non memini me invenisse diffinitionem veritatis: sed si vis quaeramus per rerum diversitates in quibus veritatem dicimus esse, quid sit veritas». 27
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1. La questione della laicità nel Medioevo e la posizione di Anselmo Per lungo tempo, l’attenzione al mondo laico medievale è stata coltivata soprattutto da storici della Chiesa, della cultura e della società, secondo un’ottica essenzialmente ecclesiastica, socio-politica e di storia delle idee 1. Solo recentemente, ma in modo ancora Cfr. Y. Congar, Jalons pour une théologie du laïcat, Paris 1953; G. de Lagarde, La naissance de l’esprit laïque au déclin du moyen Âge, 5 voll., Louvain – Paris 1956-19683; H. Grundmann, Litteratus-illitteratus. Der Wandel einer Bildungsnorm vom Altertum zum Mittelalter, in «Archiv für Kulturgeschichte», 40 (1958), pp. 1-65 (e in Id., Ausgewählte Aufsätze, 3 voll., Stuttgart 1976-1978, III, 1978, pp. 1-66); P. Riché, Recherches sur l’instruction des laïcs au Moyen Âge, in «Cahiers de civilisation médiévale», 5 (1962), pp. 175-182; L. Prosdocimi, Chierici e laici nella società occidentale del sec. xii, in «Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Genova», 3 (1965), pp. 241-262; Id., Chierici e laici nella società occidentale del secolo xii. A proposito di Decr. Grat. C. 12, q. 1, c. 7: «Duo sunt genera christianorum», in Proceedings of the Second International Congress of Medieval Canon Law (Boston College, 12-16 August 1963), edd. S. Kuttner – J. J. Ryan, Città del Vaticano 1965, pp. 105-122; I laici nella societas christiana dei secoli xi e xii, Atti della terza Settimana internazionale di studio (Mendola 1965), Milano 1968; Y. Congar, Clercs et laïcs au point de vue de la culture au Moyen Âge: laicus = sans lettres, in Studia mediaevalia et mariologica P. Carolo Balic OFM septuagesimum explenti annum dicata, Roma 1971, pp. 309-332 (e in Id., Études d’ecclésiologie médiévale, London 1983); Ilarino da Milano, La spiritualità dei laici nei secoli viii-x, in Problemi di storia della chiesa. L’alto medioevo, II Corso di aggiornamento per professori di storia ecclesiastica dei seminari d’Italia (Passo della Mendola, 30 agosto – 4 settembre 1970), Milano 1973, pp. 139-300; J. le Goff, s. v. Chierico/laico, in Enciclopedia Einaudi, 14 voll., II, Torino 1977, pp. 1066-1086; G. G. Meersseman, Ordo laicorum nel secolo xi, in Id., Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, 3 voll., I, Roma 1977 (Italia sacra, 24), pp. 217-245; G. Picasso, 1
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 137-159 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112915
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limitato, anche gli storici della filosofia medievale hanno iniziato a interessarsi di questo tema, specialmente a partire da una importante iniziativa di Ruedi Imbach, con esiti estesi e approfonditi per quanto limitati prevalentemente agli autori del tardo Medioevo, dal dodicesimo al quattordicesimo e quindicesimo secolo 2. Naturalmente, è inevitabile che l’attenzione venga catturata innanzitutto da personaggi come Lullo, Dante, Eckhart, Boccaccio, Petrarca 3, anche in relazione al tema strettamente connesso della ‘filosofia in volgare’ 4. Da parte nostra, abbiamo cercato di mostrare l’importanza e la ricchezza anche dell’alto Medioevo 5, il che ci permette di entrare meglio nel discorso che riguarda Anselmo. La ricorrenza del termine laicus non è molto frequente nell’opera di Anselmo, tuttavia è significativa per cogliere aspetti rilevanti dell’antropologia, della spiritualità e della visione del mondo coltivate dal grande pensatore. Secondo la Concordance di Gillian Rosemary Evans, in tutto si trovano soltanto diciannove occorrenze, di cui una sola nelle Orationes (la XVII) e tutte le altre nelle Epistolae, che dunque per il nostro tema sono fonLaici e laicità nel Medioevo, in Laicità: problemi e prospettive, Atti del XLVII corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica, Milano 1977, pp. 84-99 (e in Id., Sacri canones et monastica regula. Disciplina canonica e vita monastica nella società medievale, Milano 2006 [Bibliotheca erudita, 27]), pp. 327-344; K. Mordsdorf, s. v. Laie, Laienstand, in Lexikon für Theologie und Kirche, hrsg. von J. Hofer – K. Rahner, 14 voll., VI, Freiburg 19862, pp. 733-741; A. Vauchez, Les laïcs au Moyen Âge. Pratiques et expériences religieuses, Paris 1987; G. Lobrichon, La religion des laïcs en Occident: xi-xv siècle, Paris 1994; J.-C. Schmitt, Clercs et laïcs, in J. Le Goff – J.-C. Schmitt, Dictionnaire raisonné de l’Occident médiéval, Paris 1999, pp. 214-229 (tr. it., 2 voll., II, Torino 2003, pp. 197-212). 2 Cfr. R. Imbach, Laien in der Philosophie des Mittelalters. Hinweise und Anregungen zu einem vernachlässigten Thema, Amsterdam 1989; Id., Dante, la philosophie et les laïcs. Initiations à la philosophie médiévale, Fribourg – Paris 1996. 3 Cfr. Laicità e Medioevo, numero monografico di «Doctor Virtualis», 9 (2009), in cui C. König-Pralong, Les laïcs dans l’histoire de la philosophie médiévale. Note historiographique, pp. 169-197 traccia una sintesi complessiva del nuovo interesse per questo tema, con l’indicazione degli autori e delle questioni più importanti, specialmente in relazione al basso Medioevo. 4 Su cui cfr. Filosofia in volgare nel Medioevo, Atti del Convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (Lecce, 27-29 settembre 2002), a c. di N. Bray – L. Sturlese, Louvain-la-Neuve 2003. 5 Cfr. I. Sciuto, Significato e posizione del laico nell’alto Medioevo, in Laicità e Medioevo cit., pp. 11-43.
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damentali, mentre dobbiamo quindi ritenere del tutto secondarie le opere principali di Anselmo, in quanto appunto ignorano il tema 6. Nei pochi ma validi studi che hanno esplorato questo tema, in effetti, la maggiore attenzione si è appunto concentrata sulle Lettere, in cui peraltro il tema non viene trattato sistematicamente, ma solo incidentalmente citato 7. Il che non vuol dire, però, che nel contesto dell’opera anselmiana e più in generale del clima culturale del suo secolo sia irrilevante; anzi, è importante per capire molti aspetti del pensiero e dell’azione di Anselmo, per cui è sorprendente che solo raramente sia stato «l’object de l’étude approfondie que son intérêt réclamait» 8. Si tratta dunque di interpretare alcune sparse valutazioni, dalle quali emergono una prospettiva antropologica e una visione del mondo che sembrano oscillare tra il tradizionale deprezzamento del saeculum tipico del monachesimo alla Pier Damiani e il nuovo apprezzamento che, già presente in autori come Ivo di Chartres, porterà nel dodicesimo secolo a ‘scoprire’ il valore intrinseco dell’individuo, valorizzato prescindendo dal suo particolare ‘stato di vita’ o dall’ordine di appartenenza. Anselmo, in effetti, usa espressioni che prese alla lettera si possono collocare in entrambe le posizioni, ma si tratta appunto di chiarirle e soprattutto di interpretarle.
2. Chi e cosa è ‘laico’ per Anselmo Il punto cruciale è costituito, in ogni caso, dalla prospettiva essenzialmente e radicalmente monastica in cui si pongono tanto il pensiero quanto l’azione di Anselmo, e quindi dalla stretta relazione che spesso egli istituisce tra la realtà del mondo laico e la tradizionale dottrina, coltivata specialmente in ambito monastico, del contemptus mundi, spesso citata in molte lettere. Ma prima di ciò, è necessario chiarire cosa e chi sia, per Anselmo, il vasto e incerto 6 Cfr. G. R. Evans, A Concordance to the Works of St. Anselm, 4 voll., Milwood (N.Y.) 1984, vol. II, p. 790. 7 Cfr. J. F. A. Mason, St. Anselm’s relations with Laymen: selected Letters, in Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec (Abbaye Notre-Dame du Bec), Paris 1959, pp. 547-560; M. Grandjean, Laïcs dans l’église. Regards de Pierre Damien, Anselme de Cantorbéry, Yves de Chartres, Paris 1994, pp. 171-292. 8 Ibid., p. 185.
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ambito del mondo umano che viene qualificato come ‘laico’. Soltanto in seguito potremo rispondere alla domanda che ci interessa: quale consistenza e quale valore vengono attribuiti, da parte di Anselmo, al mondo profano? Infine, può risultare molto significativo esaminare un ambito specifico di questo mondo: non tanto quello politico, ampiamente studiato, quanto piuttosto quello religioso-ideologico della prima crociata, che per certi aspetti è anche stata una grande ‘occasione’ per il mondo laico, ma sulla quale Anselmo assume una posizione distaccata fortemente originale e per nulla consonante con la comune percezione che vede in essa un evento epocale. Riflettere su questo tema, quindi, può consentire di cogliere meglio la complessa figura intellettuale di Anselmo. Ponendosi decisamente nella prospettiva monastica più rigida e intransigente, secondo esigenze della rectitudo fatte valere in modo assoluto, Anselmo vede innanzitutto il mondo laico in termini essenzialmente negativi: la figura del laico viene cioè definita non in sé, ma in termini relativi-negativi, ossia viene individuata come la condizione del non-chierico e del non-monaco. D’altra parte, la specificità dello stato di vita laico viene anche riconosciuta e apprezzata, per cui Anselmo ripete spesso il suo principio etico generale secondo il quale agisce bene moralmente chi fa ciò che deve, ma secondo lo stato di vita cui appartiene: che uno sia monaco, chierico o ammogliato, ciò che importa è che egli faccia sempre ‘ciò che deve’ in relazione alla specificità della sua condizione, dell’ordo cui appartiene. In Anselmo, la distinzione tra i vari ordines che in seguito sarà prevalente (secondo la triade monaci – chierici – laici, oppure secondo le coppie chierici – laici e chierici – coniugati), non è ancora codificata e neppure chiaramente concettualizzata, ma non è del tutto assente. Egli la usa di fatto in varie lettere, per dire appunto che il fine dell’uomo consiste nel diventare degno di venire considerato buono dal Giudice supremo, e «bonus autem quisque fidelis ab eo iudicatur, qui in suo ordine perfectionem attingere conatur (…). Conentur igitur laici in suo ordine, clerici in suo, monachi in suo viriliter semper proficere» 9. Per Anselmo la figura del laico, dunque, va individuata all’interno e non all’esterno della dimensione di fede: essa Epistola ad Willelmum monachum Cestrensem, 65CD, 189, p. 75, 24-30.
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costituisce il primo grado, a partire dal basso, della categoria del fidelis terreno, che ha nel clericus la figura intermedia e nel monachus il vertice. Le ulteriori specificazioni della figura laica non interessano affatto, essendo accidentale, dal punto di vista dell’ideale di perfezione, che si tratti di nobili potenti o di umili contadini e semplici servi: la prevalenza dei primi, quali destinatari privilegiati delle Lettere anselmiane, si giustifica solo con l’alta posizione politica di Anselmo, già come priore ma poi specialmente come abate del Bec e ancor più come arcivescovo di Canterbury, e quindi con le sue più consuete frequentazioni, e certamente non per giudizi o pre-giudizi di valore. Ad Anselmo interessa invece impegnarsi piuttosto nella valutazione ontologica e morale di questa figura, che pertanto viene presa globalmente, in opposizione a quella suprema del monaco. Dal punto di vista ontologico, naturalmente, nessun ente appartenente all’ordine della realtà può essere valutato come non buono, per il principio di creazione; dunque, nella prospettiva di Anselmo la figura del laico è certamente in sé positiva, anche semplicemente perché appartiene alla dimensione umana. A questo proposito, anzi, Anselmo sviluppa un’antropologia decisamente positiva in cui si può dire che venga esaltata l’alta «dignità dell’uomo» 10. In questa sua disposizione che si potrebbe considerare già pre-umanistica, infatti, Anselmo sostiene che l’uomo non è stato creato solamente per colmare il vuoto lasciato in cielo dagli angeli decaduti, secondo quanto afferma la dottrina corrente 11, ma anche per se stesso, in quanto la sua natura contribuisce a compiere la perfezione della creazione 12, idea che verrà poi ripresa da autori come Ruperto di Deutz e specialmente da Onorio di Autun e da Alano di Lilla, dopo i quali l’idea dell’uomo come creatura supplente
10 Bene argomentata in M. Zoppi, La verità sull’uomo. L’antropologia di Anselmo d’Aosta, Roma 2009, in partic. pp. 165-181. 11 Sulla base dell’autorità, specialmente, di Agostino e Gregorio Magno: cfr. Augustinus Hipponensis, De civitate Dei, XXII, 1, 2, PL 41, [13-804], 752, edd. B. Dombart – A. Kalb, 2 voll., Turnhout 1955 (CCSL, 48), II, p. 807, 52-55; Gregorius Magnus, Homiliarum in Evangelia libri duo, II, 34, 6, PL 76, [1075-1312], 1249C-1249D, ed. R. Étaix, Tournhout 1999 (CCSL, 141), p. 304, 144-145: «Ut compleretur electorum numerus, homo decimus est creatus». 12 Cfr. Cur Deus homo, I, 16-18, 381B-389C, pp. 74-84.
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o angelo di rimpiazzo diviene un che di valde absurdum e quindi scompare dall’orizzonte teologico 13. Per questo aspetto, si può dire che la coraggiosa e originale risposta anselmiana a ciò che si potrebbe definire come la questione del cur homo apre la strada, sia pure forse inconsapevolmente, alla direzione fondamentale del dodicesimo secolo che fonda un’antropologia nuova e autonoma, non più misurata solamente e totalmente sull’assimilazione alla vita angelica. Tuttavia, non ci sono dubbi che per Anselmo l’uomo realizzi veramente e nel migliore dei modi se stesso facendo proprio il modello di vita monastico, perché solo in questo modello si può vacare Deo, vivere interamente in Dio. E se in Dio si trova, nel modo sommo e perfetto, ogni bene degno di essere desiderato, è del tutto vano e insensato ricercare beni terreni. Oltre a essere imperfetti, i beni terreni sono anche occasione di peccato; quindi vanno ‘disprezzati’, come accade nel modello di vita monastico. Anselmo, così, tende chiaramente a identificare vita cristiana e vita monastica, secondo il modello di una contraddittoria «anthropologie angélique» che si può accostare forse all’uomo spirituale e a-cosmico di Pier Damiani 14. In effetti, sono molti i luoghi anselmiani che, presi alla lettera, conducono in questa direzione di un chiaro deprezzamento, o addirittura disprezzo, del mondo laico, più o meno esplicitamente espresso, o sottinteso, quando vengono usati termini come saeculum, saeculariter, saecularis, mundus, mundanus. Nella contrapposizione tra la vita dei saeculares homines e quella dell’ordo monachorum, sembra implicita la convinzione che la vita ‘secolare’ e ‘nel mondo’, cioè la vita dei laici, sia per sé la più prossima al peccato. In molte lettere, effettivamente, il reiterato invito che Anselmo rivolge ai suoi interlocutori laici a ‘lasciare il mondo’ per 13 Cfr. M.-D. Chenu, Cur homo? Le sous-sol d’une controverse au xii siècle, in «Mélanges de science religieuse», 10 (1953), pp. 195-204 (tr. it. in Id., La teologia nel xii secolo, Milano 1986, pp. 59-69). 14 Cfr. R. Bultot, Christianisme et valeurs humaines. A. La doctrine du mépris du monde, en Occident, de S. Ambroise à Innocent III, IV: Le xi siècle, 1: Pierre Damien, Louvain – Paris 1963, p. 40. Per contro, Grandjean, Laïcs dans l’église cit. (alla nota 7), pp. 257-285, s’impegna a fondo, e con successo, nel dimostrare che Bultot «exagère» (p. 269, nota 43) e che sia possibile parlare almeno di «reconnaissance d’une certaine consistance à la vie laïque» (p. 288) nel pensiero di Anselmo.
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entrare nel monastero significa ‘lasciare il peccato’, in evidente tensione, se non contraddizione, con la tesi precedentemente ricordata secondo cui ciascuno può tendere alla perfezione all’interno del proprio ‘ordine’. Nettamente prevalente, comunque, è la tesi che vede nel mondo presente un ‘esilio’ anche rispetto alla vita monastica, intesa, al modo tradizionale, come anticipazione del paradiso. Rivolgendosi a un abate di nome Lamberto, a proposito di un monaco fuggito dal suo monastero e poi pentito (evento per nulla raro), Anselmo difende la pecora momentaneamente fuggita dall’ovile e osserva che si tratta di farle capire la questione essenziale, per dare il giusto senso alla vita umana e agire di conseguenza, cosa possibile dato che per esperienza diretta ha potuto fare conoscenza dell’albero del bene e del male, e cioè riconoscere «quanta sit differentia inter delicias paradisi claustralis et exilium vitae saecularis» 15. E anche quando si deve pur ammettere la bontà ontologica della saecularis vita, va ribadito che tale vita non si deve apprezzare in sé ma soltanto in termini strumentali, cioè in vista della vita eterna: con una forte sentenza degna delle più memorabili massime di Agostino e con il consueto ricorso alla figura dell’antitesi tra tempo ed eternità, Anselmo afferma che si deve «sic in temporalibus velle aeternitatem, ut in aeternis noli temporalitatem» 16. Per volgere autenticamente lo sguardo alle realtà eterne e spirituali, si deve dis-volere e quindi anche togliere valore, dis-prezzare, le realtà terrene, temporali e materiali. Per capire il significato dell’antropologia di Anselmo, non è dunque sufficiente rifarsi alla classica dualità agostiniana che vive nella dialettica tra uti e frui, ma è necessario chiarire il suo modo d’intendere la diffusa dottrina monastica del ‘disprezzo del mondo’, proprio perché Anselmo riesce a parlare del mondo laico solo negativamente, cioè in relazione/opposizione al mondo monastico. Infatti, «il est impossible de comprendre l’image qu’il a du laïc sans évoquer sa conception de la vie monastique» 17, di cui la dottrina del contemptus mundi è appunto elemento essenziale. Su questa figura tipicamente Epistola ad Lambertum abbatem, 72C, 197, p. 87, 5-6. Epistola ad Robertum monachum, 1067A, 3, p. 102, 2-3. 17 Grandjean, Laïcs dans l’église cit. (alla nota 7), p. 187. 15 16
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monastica del disprezzo del mondo, quindi, è opportuno sostare, per comprendere meglio il pensiero anselmiano circa la posizione dell’uomo nel mondo.
3. Senso e scopo del contemptus mundi In varie occasioni, come testimoniano molte lettere specialmente del periodo episcopale e diverse citazioni della Vita Anselmi di Eadmero, Anselmo esprime un vero disgusto per gli ‘affari mondani’, i saecularia negotia che in genere sono per lui come un incubo non solo perché lo costringono a commerciare con uomini malvagi, prepotenti e immorali, ma anche per il fatto che in essi egli vede la pura e semplice vanitas, cioè l’opposto e la negazione più radicale dell’autenticità cristiana che si manifesta nel modello di vita monastico. Il dovere dell’obbedienza, il senso di responsabilità e la norma universale dell’amore non sono sufficienti a dissipare questo disgusto, perché al fondo della sensibilità di Anselmo agisce l’idea del contemptus mundi come istanza altrettanto forte, se non superiore. Non si tratta dunque, soltanto, della difficoltà e del disagio che uno spirito così acutamente speculativo come quello di Anselmo prova nell’esser costretto ad affrontare questioni ‘pratiche’, ma anche del fatto che il principio di disprezzo del mondo, così diffuso nella spiritualità monastica, in Anselmo «n’est pas seulement aspiration mystique, mais jugement de valeur» 18. Tra i molti testi significativi in tal senso, è particolarmente efficace il passo di un’epistola in cui Anselmo cerca di opporsi alla propria elezione episcopale, definendosi come servitore di Dio e quindi spregiatore del mondo: «servus tuus, contemptor mundi» 19. Nella frequente e fondamentale opposizione tra vanitas e veritas da lui sostenuta, Anselmo afferma che si può raggiungere la verità soltanto praticando il contemptus mundi, come dice in molti luoghi e incisivamente nelle due lettere (168 e 169) scritte alla nobile Gunnilda, per indurla alla professione 18 Bultot, Christianisme et valeurs humaines cit. (alla nota 14), 2: Jean de Fécamp, Hermann Contract, Roger de Caen, Anselme de Canterbury, Louvain – Paris 1964, p. 102. 19 Epistola ad Baldricum priorem ceterosque monachos Beccenses, 21D, 156, p. 19, 50-51: «(…) Amor alicuius rei quam servus tuus, contemptor mundi, debeat contemnere».
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monastica anziché vivere con l’uomo che ama. Sorprendentemente, Anselmo rinuncia in questo caso alla sua consueta finezza psicologica e ricorre a toni aggressivi e addirittura violenti, per lui del tutto inusuali, per opporre la veritas e la salvezza del monastero alla vanitas e alla perdizione del mondo secolare. Si può forse dire che queste lettere testimoniano, come afferma Richard Southern, «an extraordinary conflict between contradictory passions» degno di essere accostato a quello che, venti anni dopo, animerà l’acceso e celeberrimo epistolario di Abelardo ed Eloisa 20. Tuttavia, in opposizione a questa interpretazione, che vede nel contemptus mundi anselmiano non soltanto una inevitabile e quindi ben comprensibile e non enfatizzabile concessione a un topos universalmente diffuso nel suo ambiente, ma anche una vera e propria concezione del mondo, si è giustamente sostenuto che bisogna pensare al contesto in cui Anselmo esprime giudizi così negativi sul mondo laico, cioè in definitiva sul mondo non monastico. Trattandosi di lettere d’ammonizione o esortazione alla vita spirituale, in realtà, le frequenti professioni di disprezzo del mondo andrebbero forse lette non come dichiarazioni teoriche, ma come indicazioni pratiche. Andrebbero intese cioè sul piano morale, come raccomandazioni di «pratica ascetica» mosse da un intendimento «propriamente pedagogico-strumentale» 21. A parte il fatto che i due aspetti, quello teorico e quello pratico, non sono necessariamente in contraddizione, e che il secondo si può e anzi direi che si deve leggere come conseguenza del primo, è opportuno notare che il contemptus mundi viene raccomandato, da Anselmo, soprattutto nelle lettere indirizzate non a monaci, ma a laici o chierici secolari, per indurli più efficacemente al desiderio della felicità eterna 22. Riducendo però, d’altra parte, il discorso al semplice esercizio ascetico, si corre il rischio d’intendere le forti, nette e chiare affermazioni di Anselmo come espressioni retoriche; ma il linguaggio anselmiano, come dice l’autore della biografia intellettuale più bella, informata e acuta scritta sinora su Anselmo, «may be fervent, but it is never rhetorical: that is to say, 20 Cfr. R. W. Southern, Saint Anselm: a portrait in a landscape, Cambridge 1990, p. 264 (tr. it., Milano 1998, p. 279). 21 Zoppi, La verità sull’uomo cit. (alla nota 10), p. 193. 22 Cfr. ibid., pp. 198-199.
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he never used language to evoke an emotional response» 23. Lo usa infatti, quasi esclusivamente, per sollecitare innanzitutto la riflessione e, poi, una conseguente prassi razionale. Q uindi, è opportuno leggere le adesioni anselmiane alla dottrina del contemptus mundi alla lettera, come appunto professioni dottrinali rispondenti alla sua visione del mondo, senza edulcorarle per non falsificarle 24. Sullo sfondo di tale concezione, perciò, va letto e valutato il debole apprezzamento che Anselmo coltiva per il mondo laico, inteso come espressivo della prevalente realtà presente.
4. Eloquenti silenzi D’altra parte, per comprendere l’atteggiamento di Anselmo verso il mondo e la sua storia presente, è importante interrogarsi anche intorno ai suoi silenzi circa fatti che, nel suo tempo, avevano coinvolto emotivamente o intellettualmente, se non praticamente, quasi tutti. Per comprendere un autore, infatti, bisogna tener presente anche ciò che egli non dice, e non soltanto nel senso della ben nota teoria delle «dottrine non scritte», che qualcuno ritiene di dover applicare anche ad Anselmo per suggestione forse del modello platonico 25, ma anche semplicemente nel senso del tacere intorno a fatti particolarmente rilevanti e circa i quali una esplicita presa di posizione parrebbe obbligatoria. A mio avviso, in Anselmo c’è proprio un silenzio di questo tipo, un silenzio cioè che non intende nascondere vere e proprie dottrine non destinate ai profani, ma che rivela ugualmente una presa di posizione teorica, da collegare a impliciti princìpi che si trovano in evidente contrasto col modo comune o prevalente di pensare. Southern, Saint Anselm cit., p. 170 (tr. it., p. 179). Si può citare qui un solo esempio, ma significativo: la forte massima che apre l’Epistola ad Odonem et Lanzonem, 1063A, 2, p. 98, 2-3, «pro aeternis temporalia despicere, pro temporalibus aeterna percipere», viene tradotta da Aldo Granata, in Anselmo d’Aosta, Lettere, 1, Milano 1988, p. 109, con «per i beni eterni disprezzare quelli temporali, per i temporali gustare gli eterni», ma è chiaro che la seconda preposizione pro va intesa in senso contrario: «invece dei beni temporali gustare gli eterni». 25 Cfr. L. Catalani, Variazioni sul tema della beatitudo nelle «dottrine nonscritte» di Anselmo d’Aosta, in Le felicità nel Medioevo, Atti del Convegno della Società italiana per lo studio del pensiero medievale (Milano, 12-13 settembre 2003), a c. di M. Bettetini – F. Paparella, Louvain-la-Neuve 2005, pp. 217-239. 23 24
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A mio avviso, questi fatti sono soprattutto tre, di peso teologico-filosofico assai diverso ma ugualmente significativi dal punto di vista pratico, che in un pensatore come Anselmo significa dal punto di vista decisivo della rectitudo: la disputa eucaristica tra Berengario e Lanfranco, la predicazione e la conseguente esecuzione della prima crociata, le prime ferocissime prove di un antigiudaismo che sarebbe diventato sempre più tragicamente aggressivo e spietato. Per economia, e per coerenza col nostro tema, ci limitiamo nella presente occasione alla questione della crociata, in quanto coinvolge direttamente e direi essenzialmente la visione anselmiana del mondo laico. Come è noto da varie fonti, Anselmo non nutre alcuna simpatia né per le spedizioni militari che in quel tempo venivano condotte in aiuto dei cristiani d’Oriente minacciati dai Turchi, né per la prima crociata condotta dopo il 1095 per sollecitazione papale, dei cui concili, a quanto pare, egli disattende o ignora i testi 26. Non si tratta, però, soltanto di coerenza con l’evangelica non-violenza, ma anche e forse soprattutto di coerenza con un fondamentale principio di valore seguito da Anselmo, di chiara derivazione paolino-agostiniana, secondo il quale alla realtà spirituale/interiore va subordinato qualsiasi beneficio materiale/ esteriore. Ad Anselmo non interessa infatti la libertà esteriore, ma quella interiore. Si potrebbe forse dire che la sua opposizione alle guerre di ‘pseudo-liberazione’ della Terra Santa o di aiuto ai cristiani minacciati non è tanto dovuta all’orrore per le terribili stragi e le intollerabili ingiustizie che tali guerre inevitabilmente comportano, quanto piuttosto all’errore che si commette impegnandosi in temporalibus, mentre l’unum necessarium deve consistere nel volgere l’anima sempre e soltanto alle res aeternae. Anselmo avrebbe quindi potuto ammettere, forse, che tali guerre siano ‘giuste’, ma in nessun modo che siano anche ‘sante’ e cioè rispondenti al suo concetto di rectitudo; quindi non vanno perseguite, perché il valore morale/spirituale si pone al di là di quello meramente legale e, in caso di conflitto, deve prevalere. L’eloquente testimonianza che, di questo atteggiamento anselmiano, offrono alcune celebri lettere non può lasciare dubbi. 26 Cfr. Southern, Saint Anselm cit., pp. 169-170 e 255-256 (tr. it., pp. 179180 e 270-271).
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In una di queste, Anselmo vuole dissuadere un giovane monaco dal recarsi in Italia per aiutare la sorella, ridotta in servitù dalle prepotenze di un ricco signore. Per convincerlo a non impegnarsi in tale ‘inutile’ impresa, Anselmo usa un argomento coerente con la sua prospettiva del contemptus mundi, ma non meno sorprendentemente spietato nei confronti della vittima di tanto sopruso: «Q uid enim, dilectissime, monachorum interest et eorum qui se profitentur velle fugere mundum, qui quibus vel quo nomine serviant in mundo?» 27. Neppure una parola in difesa della vittima innocente, ma il massimo e totalmente anaffettivo impegno meramente logico per difendere l’argomento che assicura la superiorità del bene supremo e fondamentale, oggi si direbbe ‘indisponibile’, della vita monastico-spirituale rispetto al bene ‘inferiore’ della semplice e accidentale libertà fisica. Sembra che a parlare non sia più il priore del Bec animato da zelo ma anche da profondo affectus per i suoi giovani monaci, ma un freddo e spietato stoico antico: se in qualche modo ogni uomo è costretto a servire, se ogni uomo nasce per il dolore come l’uccello per il volo, allora «quid refert, excepta superbia, quantum vel ad mundum vel ad deum quis vocetur servus vel liber?» 28. Poiché, anzi, l’impresa pensata dal giovane monaco è piena di pericoli (soprattutto spirituali, naturalmente), «quis intelligens illud bonum, ac non potius non bonum vel magis malum dixerit?» 29. Al posto della dolcezza nei modi sostenuta dal naturale affectus unita alla severa e austera rigorosità di un pensiero volto alle rationes necessariae che di solito caratterizza, in omaggio al sapienziale fortiter et suaviter, la prassi etico-politica e spiritualepastorale di Anselmo, in questo caso possiamo constatare come l’assolutistica rigidezza dei princìpi lo porti a esercitare una dura severità che appare spietata e irritante, in quanto si accompagna «with a strange acquiescence in lay violence» 30, esercitata peraltro da un laico. In termini attuali, si potrebbe dire che Anselmo segue nel modo più rigido l’astratta e ideologica etica della convinzione, ignorando completamente e deliberatamente le esigenze di una più umana e concreta etica della responsabilità. 29 30 27 28
Epistola ad Henricum monachum, 1081A, 17, p. 123, 18-20. Ibid., 1081B, p. 123, 23-25. Ibid., 1081C, p. 123, 37-38. Southern, Saint Anselm cit., p. 182 (tr. it., p. 192).
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Il secondo esempio, tratto dalla Epistola ad Willelmum adolescentem, è ancora più rilevante, perché il protagonista non è un monaco ma un laico: un giovane nobile italiano che intende imbarcarsi per la crociata, rinunciando all’idea prima coltivata di recarsi al Bec per farsi monaco. In questo caso, la lettera è introdotta da una delle tipiche, forti massime di Anselmo, costruita sulla opposizione per lui sempre decisiva tra vanitas e veritas: in tutte le nostre decisioni, dobbiamo sempre e soltanto «periculosam et aerumnosam contemnere vanitatem et securam atque beatam quaerere veritatem» 31. Il disegno del giovane è ‘iniquo’, dice Anselmo, perché iniquitas è il feroce turbine della guerra stessa («cruenta bellorum confusio»), così come lo è la superba e sterile ambizione della mundana vanitas, nonché l’insaziabile avidità di falsi onori e false ricchezze 32. La triplice ripetizione del termine iniquitas, in questo forte passaggio, serve appunto a scolpire un concetto per Anselmo fondamentale, ossia l’idea che perseguire cose vane non comporta soltanto una perdita di tempo, come potrebbe suggerire il termine vanitas, ma anche l’esecuzione di un atto intrinsecamente immorale e perciò da respingere in ogni caso, non avendo attenuanti o scusanti: una iniquitas, appunto. Il vero motivo della opposizione di Anselmo all’idea di ‘guerra santa’, o meglio ‘giusta’, non è perciò di natura etico-politica, ma innanzitutto e fondamentalmente di natura ontologico-metafisica: se il mondo è essenzialmente vanitas, non giova impegnarsi per giovargli, neppure quando si trattasse di salvare dai suoi nemici la Gerusalemme terrena, che in quanto terrena non differisce sostanzialmente da una metaforica ‘Babilonia’. Bisogna invece impegnarsi per la Gerusalemme celeste, in virtù della quale soltanto si può entrare nella vera libertà, o meglio nella libertà della verità: in libertatem veritatis. Al fondo sta sempre il disprezzo del mondo esteriore, che non può giustificare alcuna impresa in suo favore, se compiuta in alternativa a un sia pur piccolo bene spirituale, perché tra i due beni vi è una differenza qualitativa incolmabile da una eventuale compensazione quantitativa. Al giovane Epistola ad Willelmum adolescentem, 1167C, 117, p. 252, 2-3. Cfr. ibid., 1168B, pp. 252-253, 18-21: «Iniquitas enim est cruenta bellorum confusio. Iniquitas est superba mundanae vanitatis ambitio. Iniquitas est insatiabilis falsorum honorum et falsarum divitiarum aviditas». 31 32
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Guglielmo, destinatario della lettera, Anselmo addita l’esempio di un altro giovane che, pur in possesso di tutti i beni di questo mondo, e cioè bellezza, ricchezza e nobiltà, e pur essendo stato smoderatamente mondano (immoderatus amator saeculi), ha trovato la sua felicità facendosi monaco al Bec, perché «non dedecus, sed honor est transire in libertatem veritatis» 33. Di fronte al generale fanatismo che circonda la prima crociata Anselmo tace, o addirittura la condanna esplicitamente, contro l’universale consenso, perché secondo lui essa mette in primo piano l’elemento esteriore, cioè si configura in sostanza e nonostante le apparenze come frivola preoccupazione terrena, ma per un uomo che aspira veramente alla vita spirituale «ce pélerinage purement géographique est sans intérêt en regard du pélerinage céleste» 34, con cui si perviene alla ‘libertà della verità’. Anselmo ne è così convinto, che non riesce a capire come il suo giovane interlocutore possa ancora tergiversare; quindi non soltanto lo esorta, consiglia, supplica e scongiura di seguire la via monastica, ma si ritiene legittimato addirittura a obbligarlo, con un argomento che per noi risulta molto illuminante. Si tratta, infatti, di rinunciare non soltanto a quella Gerusalemme «che ora non è visione di pace ma di tribolazione», ma anche «ai tesori di Costantinopoli e di Babilonia, al saccheggio di mani lorde di sangue» 35: un passo che appare dotato di preveggenza e realismo impressionanti, se collegato al saccheggio di Costantinopoli compiuto dai crociati latini nel 1204, in occasione della quarta crociata. La conclusione, quindi, consiste nel sollecitare il giovane a prendere la via della Gerusalemme celeste, cioè della vera visio pacis, ove troverà tesori che «solo chi disprezza quelli presenti potrà cogliere» 36. Q uindi, al mondo spirituale della salvezza e della vera libertà, su questa terra, si può veramente accedere, secondo una testimo-
Ibid., 1169B, p. 254, 55-56. Grandjean, Laïcs dans l’église cit. (alla nota 7), p. 277. 35 Cfr. Epistola ad Willelmum adolescentem, 1169C, 117, p. 254, 66-69: «Moneo, consulo, precor, obsecro, praecipio ut dilectissimo, ut dimittas illam Ierusalem, quae nunc non est visio pacis sed tribulationis, et thesauros Constantinopolitanos et Babylonios cruentatis manibus diripiendos». 36 Cfr. ibid., 1169C, p. 254, 69-71: «Et incipe viam ad caelestem Ierusalem, quae est visio pacis, ubi invenies thesauros non nisi istos contemnentibus suscipiendos». 33 34
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nianza fedele riportata dai Memoriali, soltanto per la via monastica: «Aut ergo monachus salvabitur, aut aliter non salvabitur» 37. Soltanto nella vita monastica, infatti, si può effettivamente evitare ogni compromissione col mondo terreno che, in realtà, comporta sempre qualche colpa; e per uno strenuo difensore dell’etica della convinzione come Anselmo vale il principio fiat iustitia pereat mundus, perché il più piccolo peccato non va commesso, egli dice coerentemente, anche se con ciò si potesse, appunto, salvare il mondo intero: si tratta certo di una sententia gravis, ma se il peccato consiste nell’agire contro la volontà divina, la coerenza impone che anche una parva res contro tale volontà vada evitata, persino se con ciò avvenisse la fine del mondo: se accadesse che «totum mundum (…) perire et in nihilum redigi» 38. L’osservanza della rectitudo, infatti, ha per Anselmo un valore assoluto e implica un obbligo incondizionato: si agisce in modo ‘giusto’, come dice il celeberrimo passo del De veritate, quando si attua l’idea stessa di giustizia, che consiste nel praticare la rettitudine della volontà per se stessa e non in vista di uno scopo esterno alla rettitudine stessa. Consiste nel coltivare la «rectitudo voluntatis propter se servata» 39. Tuttavia, benché si possa forse parlare, nel caso del principio fiat iustitia pereat mundus cui si attiene implicitamente la riflessione sopra citata del Cur Deus homo, di ‘spietata coerenza’, si deve anche osservare un tratto notevole, e cioè l’assenza, in tutto questo discorso, di ogni traccia di legittimazione della coercizione e della violenza e, quindi, l’implicito riconoscimento del valore supremo della libertà. Infatti, manca in tutta l’opera di Anselmo la formula decisiva che può giustificare la violenza, spirituale o materiale, esercitata contro coloro che vengono accusati di eresia, formula che si trova nel Vangelo di Luca, nella celebre parabola del convito in cui il signore ordina al servo di «costringere a entrare» tutti coloro che incontra (Lc 14, 23), ma della cui applicazione violenta Agostino sembra portare la gravissima responsabilità: si tratta del più prezioso dei ‘silenzi’ anselmiani, quello che lo ha condotto a ignorare il famigerato e nefasto compelle intrare, principio car Id., De humanis moribus, 73, in Memorials, p. 65, 6-7. Cur Deus homo, I, 21, 394A, p. 89, 2. 39 De veritate, 12, 482B, p. 194, 26. 37 38
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dine, peraltro, della futura inquisizione. Come è noto, il senso del passo evangelico non va per nulla inteso come incitamento alla coercizione violenta, ma semplicemente come sollecitazione a una insistente ma dolce esortazione; quindi, non autorizza la formulazione di una ‘dottrina’ o di un ‘principio’ di legittimità dell’uso della violenza per convincere chi si oppone a un comando proveniente dall’autorità costituita. Agostino, tuttavia, nel suo contrasto con gli eretici e soprattutto con i Donatisti si muove proprio in questa direzione, interpretando il compelle intrare come la giustificazione evangelica della legittimità, e anzi del dovere, di adottare misure di coercizione violenta per convincere gli eretici a rientrare nella Chiesa, distinguendo perciò la ‘persecuzione ingiusta’ di cui sono vittime i cattolici dalla iusta persecutio esercitata da questi contro gli ‘empi’ eretici Donatisti, persecuzione ‘giusta’ sia perché motivata dalla difesa della verità sia perché condotta «con amore» 40. In effetti, questo è il caso in cui «chi subisce la persecuzione è ingiusto e chi la esercita è giusto», essendo chiaro che i cattivi hanno sempre perseguitato i buoni e i buoni hanno sempre perseguitato i cattivi: ma i primi agendo con ingiustizia, cupidigia e iniquità, i secondi con giustizia, amore e verità 41. Non si tratta, infatti, di considerare se uno sia costretto, ma se ciò cui è costretto sia bene o male 42. Di fronte a un tema così imbarazzante, reperibile in un dossier veramente impressionante per quantità e qualità, il cui significato quindi non è facilmente riducibile a unità e di fatto è tuttora controverso 43 – anche perché in genere gli studiosi filo-agostiniani Cfr. Augustinus Hipponensis, De correctione Donatistarum liber (Epistola ad Bonifacium), 2, 11, PL 33, [792-815], 797, ed. A. Goldbacher, Wien – Leipzig 1911 (CSEL, 57), 185, p. 10, 7-13: «Si ergo verum dicere vel agnoscere volumus, est persecutio iniusta quam faciunt impii Ecclesiae Christi; et est iusta persecutio quam faciunt impiis Ecclesiae Christi (…). Proinde ista persequitur diligendo, illi saeviendo». 41 Cfr. Id., Epistola ad Vincentium, 2, 8, PL 33, [321-347], 325, ed. A. Goldbacher, Wien 1898 (CSEL, 34), 93, p. 452, 20-23: «Sed plane semper et mali persecuti sunt bonos et boni persecuti sunt malos, illi nocendo per iniustitiam, illi consulendo per disciplinam; illi immaniter, illi temperanter; illi servientes cupiditati, illi caritati». 42 Cfr. ibid., 5, 16, 329, p. 461, 3-5: «Non esse considerandum quod quisque cogitur, sed quale sit illud quo cogitur, utrum bonum an malum». 43 Cfr. A. Mandouze, Saint Augustin. L’aventure de la raison et de la grâce, Paris 1966, cap. VII, pp. 331-390 (in partic. pp. 383-390); P. Brown, Saint Augu40
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sottolineano il fatto che, in ogni caso, pur essendo evidente l’interpretazione aggressiva e «intransigente» del compelle intrare, Agostino ha «jamais soutenu l’assurdité révoltante de la validità d’une conversion obtenue par la violence e maintenue par la contrainte» 44 – si rimane perplessi e sconcertati. Si deve infatti riconoscere che, per evitare l’inquietante imbarazzo di vedere in Agostino il primo e principale teorizzatore delle conversioni forzate, «il principe e patriarca dei persecutori», queste affermazioni attestano un indiscutibile e certamente censurabile «atteggiamento», ma non una vera e propria «dottrina» di Agostino 45. In quest’ultimo caso, infatti, non si potrebbe evitare di considerare correttamente e coerentemente Agostino «als Urbild der bluttriefenden Inquisitoren so vieler Jahrhunderte» 46. In ogni caso, non è sufficiente limitarsi a dire che la teoria agostiniana della coercizione si caratterizza per lo spirito di carità che la anima, avendo essenzialmente un ‘carattere medicinale’ 47. Effettivamente, la posizione di Agostino circa il tema della coercizione verso gli eretici, di cui è particolarmente rappresentativa la polemica sempre più violenta contro i Donatisti, è assai complessa. All’inizio, come egli stesso dichiara, non è favorevole all’uso della forza, ma poi cambia idea e ritiene giusto che degli ‘scismatici’ siano ricondotti alla comunione violenter, con l’aiuto anche della saecularis potestas, in vista ovviamente del loro stesso bene: avendo sperimentato quanto male avrebbero compiuto mantenendo l’impunitas e quanto sarebbero migliorati con l’aiuto stine’s attitude to religious coercion, in «Journal of Roman Studies», 54 (1964), pp. 107-116 (e in Id., Religion and society in the age of saint Augustine, London 1972, pp. 260-278; tr. it., Torino 1975, pp. 245-263); Id., Religious coercion in the later Roman Empire: the case of North Africa, in «History», 48 (1963), pp. 283305 (e in Id., Religion and society cit., pp. 301-331; tr. it., pp. 287-316); E. Lamirande, Church, State and toleration. An intriguing change of mind in Augustine, Villanova (Pa.) 1975; R. A. Markus, Saeculum. History and Society in the theology of St. Augustine, Cambridge 1988², pp. 133-153; Id., Introduzione generale, in Sant’Agostino, Polemica con i Donatisti, Roma 1998 (Opere di Sant’Agostino, XV/1), pp. VII-XXXVIII. 44 Mandouze, Saint Augustin cit., pp. 384-385. 45 Cfr. Brown, Religion and society cit., pp. 260-261 (tr. it., p. 245). 46 K. Deschner, Kriminalgeschichte des Christentums, 1: Die Frühzeit, Reinbek bei Hamburg 1986, p. 487 (tr. it., Milano 2000, p. 418). 47 H. Maisonneuve, Croyance religieuse et contrainte: la doctrine de saint Augustin, in «Mélanges de science religieuse», 19 (1962), [pp. 49-68], p. 67.
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di una severa disciplina 48. Dopo questa decisione, le sue espressioni circa l’interpretazione del compelle intrare evangelico sono decisamente forti e non equivocabili. Da questo momento, infatti, Agostino pensa costantemente che i Donatisti vadano trattati come i «pastori di anime» devono trattare le «pecorelle smarrite», che vanno ricondotte all’ovile con la forza e flagellorum terroribus, proprio come il Signore ha fatto con gli invitati al suo grande banchetto: «prima li ha fatti invitare, poi li ha costretti a entrare» 49. E non è il caso di appellarsi, come fanno i Donatisti, al principio di libertà, perché non è questo che ha ordinato il Signore, bensì di costringerli a entrare. Del resto, Agostino è convinto che dalla costrizione esteriore possa derivare la volontà interiore: «Foris inveniatur necessitas, nascetur intus voluntas» 50. Per ottenere questo effetto, è opportuno mettere in atto una sorta di pedagogia della paura, con cui si può portare l’eretico a ripudiare il falso cui tendeva e cercare il vero che ignorava, giungendo infine «a tenere volentieri ciò che prima non voleva» 51. Da cui la formula conclusiva e perfetta di tutto il discorso agostiniano, una formula che presa alla lettera e fuori dal suo contesto può diventare, effettivamente, la falsa e atroce giustificazione di ogni violenza e sopraffazione; a un prete donatista che rifiuta la forzata permanenza nella Chiesa cattolica appellandosi alla libertà del credente, Agostino risponde infatti col fatale argomento: lo facciamo «contro la tua volontà, ma per la tua salvezza» 52. 48 Cfr. Augustinus Hipponensis, Retractationes, II, 5, PL 32, [581-656], 632, ed. A. Mutzenbecher, Turnhout 1984 (CC, 57), pp. 93, 3 - 94, 7: «Dixi non mihi placere ullius saecularis potestatis impetu schismaticos ad communionem violenter arctari. Et vere mihi tunc non placebat, quoniam nondum expertus eram, vel quantum mali eorum auderet impunitas, vel quantum eis in melius mutandis conferre posset diligentia disciplinae». Cfr. anche Id., Epistola ad Vincentium, 5, 17, 330, ed. Goldbacher cit. (alla nota 41), pp. 461-462. 49 Id., De correctione Donatistarum liber, 6, 23-24, 803-804, ed. Goldbacher cit. (alla nota 40), pp. 21-23. 50 Id., Sermo habitus in Basilica restituta de invitatis ad coenam, 8, PL 38, [643-648], 647-648, ed. P. P. Verbraken, in «Révue Bénédictine», 76 (1966), [pp. 41-58], p. 54. 51 Id., Epistola ad Vincentium, 5, 16, 329, ed. Goldbacher cit. (alla nota 41), p. 461, 9: «Et volens iam teneat, quod nolebat». 52 Id., Epistola ad Donatum presbyterum, 4, PL 33, [753-757], 755, ed. A. Goldbacher, Wien – Leipzig 1904 (CSEL, 44), 173, p. 643, 3-4: «Contra voluntatem tuam, sed propter salutem tuam».
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A sostegno di questa sua ‘attitudine’, ma secondo chi scrive in questo caso e a questo punto dovremmo forse considerarla una vera e propria dottrina, Agostino richiama anche l’utilità, o meglio la necessità, della coercizione anche in ambito educativo. Pur ammettendo che è certo meglio condurre gli uomini a coltivare l’amore divino con la forza della doctrina, egli rileva però che l’esperienza dimostra l’utilità del timore e del dolore, perché «sono migliori quelli che si lasciano dirigere dall’amore, ma sono più numerosi quelli che si possono correggere col timore», e infatti la Scrittura dice che «non solo il servo, ma anche il figlio indisciplinato va corretto con la verga, e con vantaggio»; afferma infatti che «odia il proprio figlio, chi risparmia il bastone» (Pv 13, 24), quindi molti, per diventare boni filii, devono prima essere condotti al Signore, in qualità di mali servi e improbi fugitivi, «con la verga delle pene temporali» 53. Per Agostino, l’eretico è come il servus durus di cui la Scrittura dice che «non può venire corretto a parole, perché se anche comprende, non obbedisce» (Pv 29, 19), perciò va costretto col «terrore delle leggi» 54. Per la sua netta distanza da questo atteggiamento, o meglio dottrina, che legittima la pratica della coercizione anche violenta, e nonostante ciò che s’è detto prima a proposito della ‘spietata coerenza’ intorno al principio della rectitudo, Anselmo si colloca in una dimensione di estraneità rispetto a un clima di violenza e di intolleranza che caratterizza il suo tempo e, in buona parte, l’intero Medioevo. Alla dottrina agostiniana del compelle intrare, infatti, farà essenziale riferimento l’Inquisizione, ma essa è ampiamente condivisa in ogni periodo, anche fuori da tale contesto. Basti pensare, per limitarci a due soli esempi molto significativi, a quanto affermano Graziano e Tommaso d’Aquino. Il primo elogia lungamente, nel suo Decretum, il principio dell’amore e della moderazione, ma riguardo agli eretici condivide la dottrina 53 Id., De correctione Donatistarum liber, 6, 21, 802, ed. Goldbacher cit. (alla nota 40), pp. 19, 18 - 20, 21: «Sicut meliores sunt quos dirigit amor, ita plures sunt quos corrigit timor. (…) Alio quippe loco [scil. Scripturae divinae] dicit non solum servum sed etiam filium indisciplinatum plagis esse coercendum; et magno fructu; nam (…) multi prius, tamquam mali servi et quodammodo improbi fugitivi, ad Dominum suum temporalium flagellorum verbere revocantur». 54 Id., Epistola ad Vincentium, 5, 18, 330, ed. Goldbacher cit. (alla nota 41), pp. 462, 25 - 463, 1: «His omnibus harum legum terror (…) ita profuit, ut nunc alii dicant: Iam hoc volebamus».
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di Agostino: essi vanno condotti alla salvezza anche contro la loro volontà 55. Per Tommaso, non è lecito usare la costrizione verso gentili ed ebrei, perché l’accesso alla fede riguarda la volontà che è libera, ma il mantenere la fede già professata è un dovere, quindi nei confronti degli eretici (che per definizione hanno abbandonato la vera fede in cui prima si trovavano) l’esercizio della coercizione è pienamente legittimo, è anzi doveroso perché essi devono mantenere ciò che hanno promesso; li si può costringere, perciò, anche mediante la violenza fisica: «etiam corporaliter» 56. Infatti, ricevere la fede riguarda la volontà, che è libera, ma tenerla è una vera e propria necessitas 57. Di fronte a un simile massiccio bombardamento, è veramente notevole che Anselmo riesca a mantenere una sobria e ferma distanza. Circa le principali occasioni di ricorrere all’autorità di Agostino per almeno giustificare, se non promuovere, azioni coercitive, e cioè i movimenti ereticali, la crociata e l’atteggiamento ostile verso gli Ebrei, Anselmo infatti rimane essenzialmente in silenzio. Della crociata abbiamo già detto, sugli altri due aspetti non possiamo sostare a lungo, ma per il nostro discorso è sufficiente rilevare due semplici fatti. Da una parte, per quanto riguarda la posizione di Anselmo verso gli eretici, basta rilevare la scarsissima presenza del termine stesso ‘eresia’, di cui appaiono in tutto solo tre occorrenze, oltretutto concentrate in un solo testo di cui possediamo due versioni, la Epistola de incarnatione Verbi, e assai poco significative. Infatti, le prime due sono rivolte sobriamente contro l’eresia di Sabellio 58, la terza si riferisce
55 Cfr. Gratianus Bononiensis, Decretum, II, causa XXIII, q. IV, cap. 38, PL 187, 1198A, ed. A Friedberg, Graz 1959, p. 917: «Haeretici ad salutem etiam inviti sunt trahendi». 56 Cfr. Thomas Aq uinas, Summa Theologiae, IIa IIae, q. 10, a. 8, ed. cura et studio Fratrum Praedicatorum (ed. Leonina, VIII), Torino – Roma 1956, pp. 58-59: «Gentiles et Iudaei (…) nullo modo sunt ad fidem compellendi, ut ipsi credant: quia credere voluntatis est (…). Haeretici vel quicumque apostatae (…) sunt etiam corporaliter compellendi ut impleant quod promiserunt et teneant quod semel susceperunt». 57 Cfr. ibid., ad tertium, ed. Leonina cit., p. 59: «Accipere fidem est voluntatis, sed tenere iam acceptam est necessitatis. Et ideo haeretici sunt compellendi ut fidem teneant». 58 Cfr. Epistola de incarnatione Verbi, 269B, I, p. 287, 24 e II, p. 15, 13: «Sed haec ratiocinatio si rata est, vera est haeresis Sabellii».
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a chi usa male o ignora le regole della dialettica 59. Su tutta l’enorme macchina polemica messa in atto da Agostino, dunque, neppure una parola. Per quanto riguarda il tema dell’antigiudaismo, anche in ciò l’attitudine di Anselmo si distanzia nettamente da quella di Agostino, il quale in molte occasioni, pur non giustificando mai l’uso della violenza contro gli Ebrei che ritiene tuttavia responsabili della morte di Cristo, critica nel suo complesso il mondo ebraico e scrive un Tractatus adversus Iudaeos che non è violentemente negativo, tuttavia ha certamente un significato aprioristicamente antiebraico. Pur lontano dagli smodati eccessi, per esempio, di Giovanni Crisostomo in età patristica e di moltissimi autori medievali, questo trattato è pieno dei consueti stereotipi che attribuiscono agli Ebrei le ben note nefandezze: hanno ucciso Cristo, della cui Chiesa sono nemici, sono affetti da cecità e durezza di cuore, nella lettura della Bibbia si attengono alla lettera contro lo spirito, eccetera 60. Anselmo, invece, non scrive alcun trattato pregiudiziale contro gli ebrei, verso i quali esercita una critica puntuale su questioni teologiche rilevanti, in primo luogo l’Incarnazione, mantenendo sempre un atteggiamento di studio rigoroso e di serio rispetto 61. Non a caso, infatti, uno dei testi medievali di più serio e rispettoso confronto tra cristiani ed ebrei è stato composto da un allievo di Anselmo, il monaco del Bec e poi abate di Westminster Gilberto Crispino 62. Inoltre, a quanto pare la controversia con gli Ebrei sembra essere stata una delle più importanti sollecitazioni alla composizione del Cur Deus homo, che è appunto un rigoroso trattato teologico condotto rationibus necessariis e non un’opera apologetica mossa da intenti denigratori. Lo stesso atteggiamento rispettoso, e dunque il medesimo allontanamento dai violenti toni agostiniani, è ben evidente anche Cfr. ibid., 265A, II, p. 9, 21: «Dialecticae haeretici». Cfr. B. Blumenkranz, Augustin et les juifs, Augustin et le judaïsme, in «Recherches Augustiniennes», 1 (1958), pp. 225-241; G. G. Stroumsa, Dall’antigiudaismo all’antisemitismo nel cristianesimo primitivo?, in «Cristianesimo nella storia», 17 (1996), pp. 13-45 (e in Id., La formazione dell’identità cristiana, a c. di P. Capelli, Brescia 1999, pp. 85-117). 61 Cfr. Southern, Saint Anselm cit., pp. 198-202 (tr. it., pp. 208-212). 62 Cfr. Gilbertus Westmonasterii, Disputatio Iudei cum Christiano de fide christiana, PL 159, 1006-1036, edd. A. Sapir Abulafia – G. R. Evans, in The Works of Gilbert Crispin Abbot of Westminster, London 1986, pp. 8-53. 59 60
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intorno a ciò che abbiamo definito la ‘pedagogia della paura’ che Agostino adotta per convertire la voluntas male orientata. Per cogliere bene questa differenza veramente impressionante, basta leggere un celebre episodio della Vita Anselmi, nel quale il fedele biografo Eadmero riferisce il dialogo avvenuto tra Anselmo e un abate intorno alla disciplina della vita monastica, in particolare nei confronti dei giovani; l’abate si lamenta dei fanciulli educati nel monastero che, benché frustati giorno e notte, rimangono cattivi e anzi peggiorano: «Perversi sunt et incorrigibiles, die ac nocte non cessamus eos verberantes, et semper fiunt sibi ipsis deteriores» 63. Anselmo gli risponde mostrando l’assurdità e l’ineffi cacia di una tale pedagogia del terrore, cui oppone la contraria dottrina dell’amore e della pia discretio, ben più giusta ed efficace. Tra l’altro, Anselmo afferma che i giovani, se oppressi da paure e percosse, inevitabilmente «pravas et spinarum more perplexas intra se cogitationes congerunt, fovent, nutriunt» 64; cioè dice il contrario di Agostino, il quale afferma, nella sua difesa dell’idea di coercizione, che sterpi e spine sono ciò da cui la coercizione libera, mentre per Anselmo sono ciò che la coercizione provoca. Per tutti questi aspetti, e particolarmente nel confronto con Agostino, si può forse azzardare un anacronismo, cioè un’attualizzazione che non è tuttavia del tutto fuori luogo e consente di apprezzare meglio il peculiare spirito anselmiano. Si può dire, infatti, che Anselmo, pur appartenendo compiutamente all’età monastica in cui vive, e della quale condivide anche, come abbiamo visto, il tratto forse più inattualizzabile e cioè l’idea del contemptus mundi, sviluppa un pensiero che è mosso da un atteggiamento laico, se questo significa un pensiero libero, condotto sola ratione e quindi non bisognoso del soccorso di autorità esterne alla ragione stessa. Perciò, si può ben dire anche in riferimento ad 63 Eadmerus Cantuariensis, Vita Sancti Anselmi, I, 30, PL 158, [49-118], 67C, ed. R. W. Southern, Edinburgh 1962 (Nelson’s Medieval Texts) (repr. Oxford 1972), pp. 58-59. Su Anselmo accorto e fine educatore, fermo e risoluto ma rispettoso e umano, cfr. Anselmo d’Aosta educatore europeo, Atti del Convegno di Studi (Saint-Vincent, 7-8 maggio 2002), a c. di I. Biffi – C. Marabelli – S. M. Malaspina, Milano 2003 (Biblioteca di Cultura Medievale. Di fronte e attraverso, 624). 64 Cfr. Eadmerus Cantuariensis, ibid., ed. Southern cit., p. 59.
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Anselmo che il termine ‘laico’ indica «quella qualità che contraddistingue la figura che nasce all’interno della cristianità ben prima dell’età moderna e dell’Illuminismo» 65. Per altri aspetti del pensiero anselmiano questa idea può certamente suonare strana e forse anche stonata, ma per il tema che abbiamo toccato si può allora concludere che Anselmo è nella sua essenza, e sia pure in un suo modo peculiare che andrebbe ulteriormente esaminato nei suoi elementi costitutivi e particolari ma che ritengo risulti chiaro da ciò che abbiamo detto, un eminente filosofo della libertà. Per questo motivo e in questo senso possiamo fare nostra la conclusione della magnifica biografia intellettuale anselmiana di Richard William Southern, quando afferma che benché Agostino sia vissuto «in a world in which the world outside Christendom was seen to be much larger than the world of Christians», mentre i pensieri di Anselmo «are those of the cloister» e alla fine della sua vita erano già fuori moda, a differenza di quelli agostiniani i migliori pensieri di Anselmo «are above fashion, and they can be taken up at any time and found to be as fresh as ever» 66.
65 M. Fumagalli Beonio Brocchieri, Storia della filosofia medievale e laicità, in Laicità e Medioevo cit. (alla nota 3), [pp. 5-10], p. 5. 66 Southern, Saint Anselm cit., p. 457 (tr. it., p. 480).
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1. Considerazioni preliminari Vi sono due modi possibili di affrontare lo studio del pensiero ‘politico’ anselmiano: il primo, invero il più seguito, si realizza quando, a partire da un esame dettagliato della vita di Anselmo, si ricercano nelle sue opere i criteri ispiratori del suo agire come autorità pubblica. Il secondo, invece, ha luogo quando, a partire da una lettura immanente dei suoi scritti, si cerca di ricomprendere la stessa mens di Anselmo circa questo aspetto: come ai suoi occhi doveva apparire il mondo in cui viveva, quali fossero i principi ispiratori del suo agire all’interno della comunità umana, come intendesse la vita associata. Il primo modo si pone, per così dire, sub specie temporis, ed è più immediatamente accessibile allo storico: le prospettive di studio di Michel Grandjean e di Richard William Southern, in tal senso, hanno fatto scuola e hanno, in qualche modo, orientato gli studi finora pubblicati su questo tema 1. Il secondo modo, al contrario, si pone sub specie aeternitatis, 1 Cfr. M. Grandjean, Laïcs dans l’Église. Regards de Pierre Damien, Anselme de Cantorbéry, Yves de Chartres, Paris 1994 (Théologie historique, 97), pp. 171-292; R. W. Southern, Saint Anselm: a portrait in a landscape, Cambridge 1990 (tr. it., Milano 1998); W. Frölich, Regere secundum voluntatem Dei. Rex iustus et rex malus sive tyrannus as perceived by Saint Anselm of Canterbury, in Cur Deus homo, Atti del Congresso Anselmiano Internazionale (Roma, 21-23 maggio 1998), a c. di P. Gilbert – H. Kohlenberger – E. Salmann, Roma 1999 (Studia Anselmiana, 128), pp. 261-284. Si vedano anche, più profilati dal punto di vista teoretico, gli studi di R. Foreville, L’ultime ratio de la morale politique de saint Anselme: rectitudo voluntatis propter se servata, in Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec (Abbaye Notre-Dame du Bec), Paris 1959, pp. 423-438; J. F. A.
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 161-190 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112916
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ed è per sua natura accessibile a chi guarda ad Anselmo, prediligendo la dimensione speculativa a quella storica, il pensiero all’azione, la riflessione alla prassi. Senza operare assurde opposizioni il filosofo, attraverso lo studio delle opere disponibili, cerca di porsi in quella particolare prospettiva che fu alla base della visione politica maturata da Anselmo nell’arco della sua vita, e di renderla accessibile, dandone, per quanto è possibile, una puntuale descrizione. Q uest’ultima non ignora affatto gli aspetti biografici e le altre informazioni di eventi storici a disposizione, oltre agli scritti anselmiani, ma li acquisisce già a partire da una consapevolezza teoretica, che può fare sua solo alla luce degli opera omnia di Anselmo. Da un lato gli eventi storici, per dir così gli acta di Anselmo, possono creare le premesse per una prima comprensione del suo pensiero, ma soltanto lo studio dei suoi dicta e, ancor più, dei suoi scripta ne permette una ricognizione realmente esaustiva. La prospettiva sub specie temporis rischia, in tal senso, di non cogliere il cuore del pensiero di Anselmo, limitandosi a gettare un po’ di luce semplicemente su alcuni aspetti di esso, a partire da eventi che restano pur sempre frammentari rispetto al complesso della sua vita. Anselmo, infatti, fa sua una prospettiva di valutazione della vita comunitaria che affonda le radici al di qua del tempo, a cominciare appunto dall’eternità, e la estende per giunta al di là di esso, risolvendola nuovamente nell’eternità. Inoltre, egli assume come criteri di valutazione e di giudizio per le sue scelte politiche valori che, nei loro fondamenti, si configurano trascendenti il tempo e la storia, benché siano poi in parte realizzabili già nel tempo e nella storia. È questa la prospettiva monastica, propria di uomini e donne che, pur vivendo nella dimensione del tempo, si pongono nondimeno in quella dell’eternità, scegliendo quest’ultima come criterio di orientamento per le loro vite. Il chiostro è per essi, dunque, polo prospettico per comprendere
Mason, Saint Anselm relations with laymen: selected letters, ibid., pp. 547-560; C.-É. Viola, Anselmo di fronte ai re e ai papi: coscienza e politica, in Anselmo d’Aosta educatore europeo, Atti del Convegno di studi (Saint-Vincent, 7-8 maggio 2002), a cura di I. Biffi – C. Marabelli – S. M. Malaspina, Milano 2003, pp. 157190; I. Sciuto, L’etica nel Medioevo. Protagonisti e percorsi (v-xiv secolo), Torino 2007, pp. 95-105; I. Biffi, Anselmo d’Aosta e dintorni. Lanfranco, Guitmondo, Urbano II, Milano 2007, in partic. pp. 115-210.
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se stessi e la realtà che li circonda, punto di riferimento verticale per operare nell’orizzonte del mondo temporale. La comprensione anselmiana della vita politica è stata spesso oggetto di grossolani fraintendimenti. L’idea di fondo, peraltro fortemente suggerita e alimentata da alcune inveterate interpretazioni del Cur Deus homo, riconosce nel pensiero di Anselmo e, massimamente, nella sua ermeneutica della Redenzione, la legittimazione teologica del sistema feudale, che sarebbe stato da lui assunto quale criterio di comprensione del rapporto che lega gli uomini a Dio. Q uesta discutibile conclusione trova comunque riscontro, oltre che in alcuni passi del corpus Anselmianum, in quella corrente teologica che da esso è scaturita e che prese poi il nome di ‘teologia giuridica’, secondo la quale è possibile, nel solco di Anselmo, argomentare e giustificare la morte del Redentore come soddisfazione vicaria. In effetti, come si è detto, vi sono alcuni testi del corpus Anselmianum, che comprende non solo gli scritti di Anselmo, ma anche altre opere a lui attribuite, testimonianze e scritti biografici, riportati da discepoli, come i Memoriali, la Vita sancti Anselmi e l’Historia novorum in Anglia di Eadmero di Canterbury, dove l’immaginario politico-feudale del tempo è utilizzato per spiegare aspetti e contenuti della vita umana, sia individuale che collettiva, in ordine alla fede. È importante, prima di considerare alcuni contributi salienti di questi testi, che come è noto sono per lo più reportazioni o rielaborazioni di insegnamenti anselmiani ad opera dei discepoli, cercare di ricostruire, per quanto è possibile, il quadro genuino del pensiero ‘politico’ che Anselmo stesso lascia intravedere nei suoi scritti.
2. Il Cur Deus homo Il testo fondamentale di riferimento per ricostruire questo quadro è il Cur Deus homo, soprattutto nei capitoli XVI-XVIII del libro primo, dove Anselmo, nel solco dei libri XI e XII del De civitate Dei di Agostino 2, espone alcune importanti considerazioni sulla Cfr. Augustinus Hipponensis, De civitate Dei, XI, 9-21; XII, 1, 1 - 27, 2, PL 41, 327-335; 347-376, ed. B. Dombart – A. Kalb, 2 voll., Turnhout 1955 (CC, 47-48), II, pp. 328-340, 355-384 (tr. it., Roma 1988, pp. 9-21; 80-107). Cfr. anche F. van Fleteren, Traces of Augustine’s De Trinitate XIII in Anselm’s Cur Deus Homo, in Cur Deus homo cit., pp. 165-178. 2
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caelestis civitas. L’aspetto saliente di questa parte dell’opera consiste nel passaggio appunto dall’immaginario feudale dei capitoli precedenti e seguenti, incentrato sul concetto di debitum, per spiegare la necessità dell’Incarnazione, a quello urbano di matrice agostiniana, qui utilizzato per chiarire una questione correlata sull’origine e sulla dignità dell’angelo e dell’uomo 3: Anselmus. Deum constat proposuisse, ut de humana natura quam fecit sine peccato, numerum angelorum qui ceciderant restitueret. (…) Rationalem naturam, quae dei contemplatione beata vel est vel futura est, in quodam rationabili et perfecto numero prescitam esse a deo, ita ut nec maiorem nec minorem illum esse deceat, non est dubitandum. (…) Necesse est ergo eos de humana, quoniam non est alia de qua possint, natura restaurari 4.
Una complessa analisi circa le modalità di intendere la creazione degli uomini e degli angeli conduce Anselmo alla seguente conclusione: Sed et si perfectio mundanae creaturae non tantum est intelligenda in numero individuorum quantum in numero naturarum, necesse est humanam naturam aut ad complementum eiusdem perfectionis esse factam, aut illi superabundare, quod de minimi vermiculi natura dicere non audemus. Q uare pro se ipsa ibi facta est, et non solum pro restaurandis individuis alterius naturae. Unde palam est quia, etiam si angelus nullus perisset, homines tamen in caelesti civitate suum locum habuissent. Sequitur itaque quia in angelis, antequam quidam illorum caderent, non erat ille perfectus numerus. Alioquin necesse erat, ut aut homines aut angeli aliqui caderent, quoniam extra numerum perfectum ibi nullus manere poterat 5.
Uno degli aspetti più interessanti è, senz’altro, questo singolare rapporto di familiarità e di concittadinanza tra angeli e uomini, che, secondo Anselmo, caratterizza la vita della città celeste. 3 Cfr. D. P. Henry, Numerically definitive reasoning in the Cur Deus Homo, in «Dominican studies», 6 (1953), pp. 48-55. Più in generale, si vedano: C.-É. Viola, Le «Sitz im Leben» du Cur Deus homo, in Cur Deus homo cit., pp. 515-559; K. Kienzler, Zur Struktur von Cur Deus homo, ibid., pp. 597-608. 4 Cur Deus homo, I, 16, 381B-382A, pp. 74, 4 - 75, 12 (tr. it., Roma 2007, pp. 109-110). 5 Ibid., 18, 384AB, pp. 77, 20 - 78, 9 (tr. it., pp. 112-113).
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Secondo una prospettiva inclusiva, nella città di Dio vi è posto per tutte le creature razionali che intendono restarvi. Q uesta considerazione è tale da avere decisive ripercussioni persino nella valutazione di alcune importanti questioni di carattere interreligioso, rispetto alle quali Anselmo lascia intendere un’apertura davvero straordinaria per il suo tempo 6. Alla domanda di Bosone circa la possibile estensione del numero degli eletti, Anselmo risponde proponendo un esempio in cui associa gli ebrei che respinsero la Rivelazione cristiana agli angeli decaduti, e i pagani divenuti cristiani agli uomini santi, citando a conferma gli Atti degli Apostoli (10, 35): Nam si Iudei omnes credidissent, gentes tamen vocarentur, quia ‘in omni gente qui timet deum et operatur iustitiam, acceptus est illi’. Sed quoniam Iudei apostolos contempserunt, ea tunc fuit occasio, ut ad gentes illi converterentur 7.
Q uella che Anselmo rivendica con forza, mediante l’affermazione che gli uomini beati saranno maggiori degli angeli, è l’idea di una città celeste aperta, spaziosa, in cui vi è posto per tutti gli uomini, purché giusti. Operare la giustizia, infatti, è il requisito richiesto a quanti sono chiamati ad abitare questa singolare città, come il godere della beatitudine è, al contempo, la condizione che caratterizzerà la loro vita in essa. Può essere utile qui ricordare l’argomentazione fornita da Anselmo a Lanfranco a sostegno del discusso martirio dell’arcivescovo cantuariense Elfego, riferita da Eadmero nella Vita sancti Anselmi: Q uid distat inter mori pro justitia, et mori pro veritate? Amplius. Cum testante sacro eloquio ut vestra paternitas optime novit Christus veritas (cfr. Jo 14, 16) et justitia sit, qui pro veritate et justitia moritur, pro Christo moritur. 6 Sul tema, mi permetto di reinviare ai seguenti lavori: M. Zoppi, Le potenzialità dialogiche della ratio in Anselmo d’Aosta, in Dialogus. Il dialogo filosofico fra le religioni nel pensiero tardo-antico, medievale e umanistico, a cura di M. Coppola – G. Fernicola – L. Pappalardo, Roma 2014 (Institutiones, 4), pp. 183-217; Id., Anselmo e la grandezza di Dio: una via cristiana di dialogo con ebrei, musulmani e non credenti, in Anselmo e la ‘nuova’ Europa, Atti del Congresso internazionale La partecipazione di Anselmo al processo di costruzione della ‘nuova’ Europa (Roma, 25-27 novembre 2010), a cura di G. Cipollone, Roma 2014 (Miscellanea Historiae Pontificiae, 70), pp. 305-335. 7 Cur Deus homo, I, 18, 385A, p. 78, 29-32 (tr. it., pp. 113-115).
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Q ui autem pro Christo moritur aecclesia teste martyr habetur. Beatus vero Aelfegus, aeque pro justitia, ut beatus Johannes passus est pro veritate. Cur ergo magis de unius quam de alterius vero sanctoque martyrio quisquam ambigat, cum par causa in mortis perpessione utrunque detineat? Haec me quidem reverende pater in quantum perspicere possum rata esse ipsa ratio docet 8.
Come si vede, la ragione permette ad Anselmo di cogliere la portata salvifica, universale del «fare la verità», giacché «chi muore per la verità e la giustizia muore per Cristo». Il De veritate offre le opportune giustificazioni di questa conclusione, e permette di comprendere meglio quale sia la tipologia del cittadino della città celeste. D’altra parte, Anselmo stesso scrive nel Cur Deus homo che «coloro che vivono con giustizia sono angeli di Dio, cosa che li fa chiamare ‘confessori’ e ‘martiri’» 9. In tal senso, si comprende che la prospettiva entro cui Anselmo lascia emergere le linee del suo pensiero politico fa perno su valori eterni e assoluti verso i quali l’uomo nel corso del pellegrinaggio della vita è chiamato a tendere, realizzandoli, a differenza dell’angelo chiamato a farli suoi da subito irrevocabilmente. Secondo Anselmo, il diritto di cittadinanza nella città celeste, proprio ab origine di tutti gli angeli e di tutti gli uomini, è condizionato dal rispetto della giustizia, irrimediabilmente perduta dagli angeli ribelli e abbandonata, in Adamo ed Eva, dal genere umano. La Redenzione operata dal Dio-uomo si prospetta, pertanto, necessaria per sanare il debito dell’uomo, permettendogli di riabitare e di popolare finalmente la città celeste. Q uest’ultima, in tal modo, diventa di nuovo accessibile a tutti gli uomini e a tutte le donne che fanno la verità. È anche la convinzione di questa apertura universalistica alla salvezza dischiusa dalla Redenzione, probabilmente, una delle motivazioni alla base della netta presa di distanza da parte di Anselmo rispetto alla prima crociata e alla forte condanna degli eccidi da essa perpetrati 10. 8 Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, I, 30, PL 158, [49-118], 75CD, ed. R. W. Southern, Edinburgh 1962 (Nelson’s Medieval Texts) (repr. Oxford 1972), p. 53 (tr. it., Milano 2009, pp. 89-91). 9 Cur Deus homo, I, 18, 388C, p. 83, 7-8 (tr. it., p. 118): «Q uia omnes iuste viventes angeli sunt dei; unde ipsi ‘confessores’ aut ‘martyres’ dicuntur». 10 Cfr. Epistola ad Willelmum adolescentem, 1167C-1170A, 117, pp. 252, 1 - 255, 79 (tr. it. in Lettere, 3 voll., Milano 1988-1993, I, Priore e Abate del Bec,
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Nel cap. XVIII del primo libro del Cur Deus homo, Anselmo fa riferimento al fatto che la città celeste attende un compimento e che questo coinciderà con la promozione degli uomini all’uguaglianza con gli angeli: Q uamvis enim nondum proveherentur ad illam aequalitatem angelorum, ad quam perventuri erant homines, cum perfectus esset numerus de illis assumendus: in illa tamen iustitia in qua erant videtur quia, si vicissent, ut tentati non peccarent, ita confirmarentur cum omni propagine sua, ut ultra peccare non possent 11.
Lo sguardo di Anselmo è pertanto universale. Decadono qui i confini politici, culturali e religiosi, in forza della ratio stessa, che rende accessibile a ogni creatura razionale, nella dimensione della giustizia, l’adesione al mistero di Gesù Cristo redentore: Adamo, Eva e tutta la loro discendenza, ogni uomo e ogni donna, nonostante il peccato, restano potenziali cittadini della città celeste. L’uguaglianza con gli angeli e il conseguente appello all’imitazione della loro vita, proposti da Anselmo nel solco di alcune espressioni evangeliche 12, implicano, in tal senso, non tanto una disincarnazione dell’uomo di matrice spiritualistica, né una negazione della corporeità o un giudizio negativo su di essa, dal momento che è proprio questa dimensione a differenziare la natura umana da quella angelica. L’uguaglianza con gli angeli, al contrario, orienta l’uomo, per natura, al pieno radicamento nella giustizia e all’abitazione della città celeste, similmente a quanto avvenuto agli angeli buoni, rimasti fedeli: Q ui enim confitetur et testatur veritatem dei, nuntius, id est angelus eius est. (…) Tam diu erunt populi et erit hominum in hoc mundo procreatio donec numerus eorundem electorum compleatur; et eo completo cessabit esse hominum generatio, quae fit in hac vita. (…) Tam diu erunt populi in hoc saeculo, donec numerus hominum sanctorum assumatur 13. Milano 1988, pp. 355-359); Epistola ad Osmundum episcopum Serisberiensem, 195, pp. 85, 1 - 86, 25 (tr. it. in Lettere cit., II/1, Arcivescovo di Canterbury, Milano 1990, pp. 241-243). Cfr. F. B. A. Asiedu, Anselm, the ethics of solidarity, and the ideology of crusade, in «The American Benedictine review», 53 (2002), pp. 42-59; Sciuto, L’etica nel Medioevo cit. (alla nota 1), pp. 103-105. 11 Cur Deus homo, ibid., 387A, p. 81, 14-19 (tr. it., p. 116). 12 Cfr. Lc 20, 34-36; Mt 22, 30; Mc 12, 25. 13 Cur Deus homo, ibid., 388C-389B, p. 83, 8-25 (tr. it., pp. 118-119).
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In questa prospettiva, si comprende che il fine fondamentale della vita politica è il rispetto della giustizia, inteso però come obiettivo personale, prima ancora che comunitario. In tal senso comprendiamo che valore potesse avere tanto nella vita di Anselmo, quanto in ordine a queste linee di pensiero politico, la missione del monachesimo. Essa anzitutto assume un compito esemplare dinanzi al mondo e ad ogni uomo, raccogliendo assieme persone che accettano di vivere nella città terrena come cittadini della città celeste. Mediante il cammino di ascesi personale, i monaci aderiscono al mistero di Cristo, danno assieme testimonianza alla verità, praticano la giustizia e anticipano l’esperienza della beatitudine della vita perenne. Essi, in tal modo, richiamano ogni uomo a questa fondamentale meta e offrono, a quanti li accolgono, tutti gli insegnamenti e gli strumenti necessari per poterla conseguire. Eppure, il monachesimo non ha solo un valore esemplare, dischiudendo a ogni uomo il mistero della caelestis civitas, la città degli eletti di cui è segno sulla terra la Chiesa, comunità dei redenti da Cristo. Secondo Anselmo, è quest’ultima l’istituzione a servizio della quale va sottoposto il potere politico, il quale comunque trae pur sempre la sua legittimità dalla volontà di Dio. Fra la fine del 1100 e gli inizi del 1101 egli scrive a Baldovino, re di Gerusalemme: Precor vos, moneo, obsecro et deum oro, quatenus sub lege dei vivendo voluntatem vestram voluntati dei per omnia subdatis. Tunc enim vere regnatis ad vestram utilitatem, si regnatis secundum dei voluntatem. Ne putetis vos, sicut multi mali reges faciunt, ecclesiam dei quasi domino ad serviendum esse datam, sed sicut advocato et defensori esse commendatam. Nihil magis diligit deus in hoc mundo quam libertatem ecclesiae suae. Q ui ei volunt non tam prodesse quam dominari, procul dubio deo probantur adversari. Liberam vult deus esse sponsam suam, non ancillam. Q ui eam sicut filii matrem tractant, et honorant, vere se filios eius et filios dei esse probant. Q ui vero illi quasi subditae dominantur, non filios sed alienos se faciunt, et ideo iuste ab haereditate et dote illi promissa exhaeredantur 14.
14 Epistola ad Baldewinum regem Hierosolymorum, 206BC, 295, pp. 142, 16 - 143, 27 (tr. it. in Lettere cit., II/1, pp. 338-339).
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Anselmo, in piena sintonia con i principi ispiratori della riforma gregoriana, sostiene che interprete della volontà di Dio è anzitutto la Chiesa, in particolare l’Apostolico, cioè il romano pontefice, come risulta da questa lettera indirizzata a Urbano II: Novimus, domine reverende et pater diligende, quod dominus noster Iesus Christus sublimavit sanctitatem vestram in ecclesia sua ad consulendum et subveniendum iis, qui ad supernae patriae requiem anhelantes in huius saeculi exsilio diversis fatigantur tribulationibus 15.
Da questa premessa consegue che le tutte le consuetudini, comprese quelle giuridiche, politiche e religiose, possono e debbono essere disattese e cambiate, qualora un decreto papale lo prescriva, come avvenne per l’omaggio feudale, proibito da papa Urbano II, pena la scomunica, in aggiunta alla proibizione dell’investitura a ecclesiastici data da papa Gregorio VII. Secondo Anselmo, così, la legge di Dio interseca tutti i vincoli di obbedienza e gli accordi che vigono tra gli uomini, regolando la vita di essi, e limita o addirittura annulla ipso facto il potere delle prescrizioni incongruenti rispetto a essa, per coloro che sono e intendono essere cristiani. Sempre nella citata lettera a papa Urbano II, inviata da Lione, Anselmo nel suo primo esilio riferisce così circa la situazione politica in Inghilterra e l’operato illegittimo del re: Videbam enim multa mala in terra illa, quae nec tolerare debebam nec episcopali libertate corrigere poteram. Ipse quoque rex faciebat quaedam quae facienda non videbantur de ecclesiis, quas post obitum praelatorum aliter quam oporteret tractabat. Me etiam et ecclesiam Cantuariensem multis modis gravabat. Terras namque ipsius ecclesiae, quas post mortem archiepiscopi Lanfranci, cum in manu sua archiepiscopatum teneret, militibus suis dederat, mihi, sicut eas idem archiepiscopus tenuerat, non reddebat, sed insuper alias secundum libitum suum me nolente dabat. Servitia gravia et antecessoribus meis inusitata, ultra quam ferre possem aut pati deberem, a me exigebat. Legem autem dei et canonicas et apostolicas auctoritates voluntariis consuetudinibus obrui videbam.
15 Epistola ad Urbanum papam, 199A, 206, p. 99, 4-7 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 265).
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De his omnibus, cum loquebar, nihil efficiebam, et non tam simplex rectitudo quam voluntariae consuetudines obtendebantur 16.
Lo stesso sistema feudale ne risulta, così, pesantemente condizionato ed è definitivamente messo in scacco qualsiasi tentativo di cesaropapismo. Scrive al riguardo Coloman Viola: Anselmo apporta un correttivo essenziale al sistema feudale, relativizzandolo, sottomettendolo al «volere di Dio». Non accetta di essere vassallo del re senza riserve, ma nella misura in cui il re garantisce la sua libertà nell’amicizia, non secondo gli usus atque leges, ma secondo le promesse fatte all’epoca del battesimo e della sua ordinazione. Non accetta di divenire uomo del re, a meno che questi non garantisca l’osservanza della legge divina. Con il suo atteggiamento e in tutti i suoi modi di procedere con dei re, Anselmo nega e respinge il valore assoluto del sistema feudale stabilito esigendo la sottomissione del sistema da parte dei suoi rappresentanti alla legge divina 17.
Ma questo principio vale anche, paradossalmente, per la legge ecclesiastica, giacché essa stessa non si configura come assoluta, ma sempre subordinata alla legge di Dio, di cui è a servizio e che la recta ratio può riconoscere e discernere, come afferma il Cur Deus homo: Boso. Nam cum deus sic sit liber ut nulli legi, nullius subiaceat iudicio, et ita sit benignus, ut nihil benignius cogitari nequeat, et nihil sit rectum aut decens nisi quod ipse vult (…). Anselmus. Verum est quod dicis de libertate et voluntate et benignitate illius, sed sic eas debemus rationabiliter intelligere, ut dignitati eius non videamur repugnare. Libertas enim non est nisi ad hoc quod expedit aut quod decet, nec benignitas dicenda est quae aliquid deo indecens operatur 18.
Q ueste parole sono ancora più perspicue se considerate alla luce di alcune affermazioni contenute nell’Epistola 329, indirizzata alla regina d’Inghilterra Matilde: Ibid., p. 100, 31-43 (tr. it., pp. 265-267). Viola, Anselmo di fronte ai re e ai papi cit. (alla nota 1), p. 189. 18 Cur Deus homo, I, 12, 337D-378A, p. 70, 6-14 (tr. it., p. 104). 16 17
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Nihil enim adversus patrem regis et archiepiscopum Lanfrancum, viros magnae et religiosae famae, protuli, cum me in baptismo et in ordinationibus meis legem et consuetudines illorum non promisisse monstravi, et legem dei me non abnegaturum significavi. Nam quod a me nunc requiritur idcirco, quia illi fecerunt: ego propter hoc quod auribus meis Romae audivi, facere nequeo absque gravissima offensione. Q uam si contemnerem, utique contra legem dei facerem. Ut ergo ostenderem quam rationabiliter recusem facere hoc quod a me requiritur secundum illorum consuetudinem, ostendi quomodo potius debitor sim apostolicam et ecclesiasticam cunctis notam servare constitutionem. In qua lex dei sine dubio intelligitur, cum ad Christianae religionis firmamentum promulgatur. Q uanto autem periculo contemnatur, supersedeo nunc dicere, quia cotidie Christiani, qui habent aures audiendi, ex divinis dictis possunt cognoscere 19.
Anselmo, sempre in esilio, ripropone queste considerazioni in un’altra lettera, risalente al 1100 circa e destinata al nuovo papa Pasquale II, succeduto a Urbano II nel 1099: Videbam in Anglia multa mala, quorum ad me pertinebat correctio, quae nec corrigere nec sine peccato meo tolerare poteram. Exigebat enim a me rex, ut voluntatibus suis, quae contra legem et voluntatem dei erant, sub nomine rectitudinis assensum praeberem 20.
Al cuore di questo discorso, si ripresenta l’incoercibile legame personale sussistente tra ogni uomo e Dio, summa veritas, accessibile mediante la ratio e tale da non permettere che alcuna autorità vi si possa frapporre, se non in modo vicario, come per esempio può avvenire nel caso dell’insegnamento del papa o, per quanto riguarda il potere temporale, nel giusto compito di amministrare la giustizia: Anselmus. Deus hoc nobis praecipit, ut non praesumamus quod solius dei est. Ad nullum enim pertinet vindictam 19 Epistola ad Mathildem reginam Anglorum, 226AB, 329, pp. 261, 17 - 262, 29 (tr. it. in Lettere cit., II/2, Arcivescovo di Canterbury, Milano 1993, p. 213). Cfr. anche Epistola ad Henricum regem Anglorum, 74BC, 319, pp. 247, 1 - 248, 36 (tr. it., ibid., pp. 183-185). 20 Epistola ad Paschalem papam, 74BC, 210, p. 106, 14-17 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 277).
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facere, nisi ad illum qui dominus est omnium. Nam cum terrenae potestates hoc recte faciunt, ipse facit, a quo ad hoc ipsum sunt ordinatae 21.
Come attesta il De veritate, infatti, esiste un ordine di verità, a cui fa riferimento la citata lettera a Pasquale II con il termine «rectitudo», che la ragione umana può solo accogliere e che non può essere contraddetto, né modificato da nessuno, perché radicato nell’essere stesso di Dio, sul quale si fonda l’esistenza di ogni essere e la possibilità di ogni azione 22. Grazie a questa considerazione Anselmo, prendendo le distanze da ogni forma di fondamentalismo, entra di fatto nel dibattito a lui coevo sulla onnipotenza di Dio, tutelandosi dalle secche tanto dell’arbitrarismo giuridico, quanto del volontarismo fideistico, per potersi spingere fino a formulare, sempre nel Cur Deus homo, affermazioni tanto ardite quanto illuminanti, capaci di onorare le istanze della razionalità, senza scadere però in prospettive razionalistiche o volontaristiche: Boso. Nam cum deus sit sic liber ut nulli legi, nullius subiaceat iudicio, et ita sit benignus, ut nihil benignus cogitari queat, et nihil rectum aut decens nisi quod ipse vult: mirum videtur si dicimus quia nullatenus vult aut non ei licet suam iniuriam dimittere, a quo etiam de iis quas aliis facimus solemus indulgentiam petere. Anselmus. Verum est quod dicis de libertate et voluntate et benignitate illius; sed sic eas debemus rationabiliter intelligere, ut dignitati eius non videamur repugnare. Libertas enim non est nisi ad hoc quod expedit aut quod decet, nec benignitas dicenda est quae aliquid deo indecens operatur. Q uod autem dicitur quia quod vult iustum est, et quod non vult non est iustum, non ita intelligendum est ut, si deus velit quodlibet inconveniens, iustum sit, quia ipse vult. Non enim sequitur: si deus vult mentiri, iustum esse mentiri; sed potium deum illum non esse. Nam nequaquam potest velle mentiri voluntas, nisi in qua corrupta est veritas, immo quae deserendo veritatem corrupta est. Cum ergo dicitur: si deus vult mentiri, non est aliud quam: si deus est talis natura quae velit mentiri; et idcirco non sequitur iustum esse Cur Deus homo, ibid., 377CD, p. 70, 1-4 (tr. it., p. 104). Cfr. De veritate, X-XIII, 478C-486C, pp. 189, 29 - 199, 29 (tr. it., Bari 1969 [ripr. Roma – Bari 2008], [pp. 133-157], pp. 148-157). 21 22
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mendacium. Nisi ita intelligatur, sicut cum de duobus impossibilibus dicimus: si hoc est, illud est; quia nec hoc nec illud est. Ut si quis dicat: si aqua est sicca, et ignis est humidus; neutrum enim verum est. Itaque de illis tantum verum est dicere: si deus hoc vult, iustum est, quae deum velle non est inconveniens. Si enim deus vult ut pluat, iustum est ut pluat; et si vult ut homo aliquis occidatur, iustum est ut occidatur. Q uapropter si non decet deum aliquid iniuste aut inordinate facere, non pertinet ad eius libertatem aut benignitatem aut voluntatem, peccantem qui non solvit deo quod abstulit impunitum dimittere 23.
3. Un confronto con altri scritti del corpus Anselmianum Nella Vita sancti Anselmi, Eadmero offre una puntuale descrizione dell’immaginario religioso infantile di Anselmo, che dischiude anche quello politico, da lui appreso dalla madre Ermenberga e dal contesto aostano in cui visse fino alla giovinezza: Et [scil. Anselmus puer parvulus] audito unum deum sursum in caelo esse, omnia regentem, omnia continentem, suspicatus est utpote puer inter montes nutritus caelum montibus incumbere, in quo et aulam dei esse, eamque per montes adiri posse. Cunque hoc sepius animo volveret, contigit ut quadam nocte per visum videret se debere montis cacumen ascendere, et ad aulam magni regis Dei properare. Verum priusquam montem coepisse ascendere, vidit in planitie qua pergebat ad pedem montis mulieres quae regis erant ancillae segetes metere, sed hoc nimis negligenter faciebant et desidiose. Q uarum puer desidiam dolens atque redarguens, proposuit animo se apud dominum regem ipsas accusaturum. Dehinc monte trascenso, regiam aulam subit, Deum cum solo suo dapifero invenit. Nam familiam suam ut sibi videbatur quoniam autumnus erat ad colligendas messes miserat. Ingrediens itaque puer a domino vocatur. Accedit, atque ad pedes ejus sedet. Interrogatur jocunda affabilitate quis sit vel unde, quidque velit. Respondet illa ad interrogata, juxta quod rem esse sciebat. Tunc ad imperium Dei panis ei nitidissimus per dapiferum affertur, eoque coram ipso reficitur. Cur Deus homo, ibid., 377D-378C, p. 70, 6-30 (tr. it., pp. 104-105).
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Mane igitur, cum quid viderit ante oculos mentis reduceret, sicut puer simplex et innocens se veraciter in caelo, et ex pane Dei refectum fuisse credebat, hocque coram aliis ita esse publice asserebat 24.
Q uesto brano, che giustamente è riferito dagli studiosi ai celebri argomenti sull’esistenza di Dio del Monologion e del Proslogion 25, offre spunti interessanti anche per la nostra ricerca: in particolare, l’immaginario di Dio come gran re, del maggiordomo, della corte celeste, dei servi e, soprattutto, il particolare del pane bianco, di cui Anselmo riferisce di essere stato nutrito nel suo sogno da parte del maggiordomo, per comando di Dio. Sono qui compresenti, infatti, a livello metaforico gli elementi fondamentali della sua comprensione tanto dell’ordine politico, quanto della vita monastica. L’immagine del pane bianco, per giunta, ritornerà ancora nell’immediato prosieguo del racconto di Eadmero. Anselmo, infatti, maturò a quindici anni la decisione di farsi monaco, in seguito alla considerazione che «non ci fosse nulla di più eccellente dello stato monastico» 26, ma in seguito all’opposizione del padre, cambiò il suo proposito e, con la crescita, optò probabilmente per la carriera ecclesiastica, fino poi ad accantonare del tutto la prospettiva dello stato clericale: Exinde cum corporis sanitas, juvenilis aetas, seculi prosperitas ei arrideret, coepit paulatim fervor animi ejus a religioso proposito tepescere, in tantum ut seculi vias magis ingredi, quam relictis eis monachus fieri cuperet. Studium quoque litterarum in quo se magnopere solebat exercere, sensim postponere, ac juvenilibus ludis coepit operam dare. Veruntamen pia dilectio et diligens pietas quas in matrem suam habebat, nonnichil eum ab istis restringebant. Defuncta vero illa, ilico navis cordis ejus quasi perdita anchora in fluctus seculi pene tota dilapsa est 27.
Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, I, 2, 50B-51B, ed. Southern cit., pp. 4-5 (tr. it., p. 21). 25 Cfr. Biffi, Anselmo d’Aosta e dintorni cit., pp. 365-368. 26 Eadmerus Cantuariensis, ibid., I, 3, 51B, ed. Southern cit., p. 5 (tr. it., p. 23): «(…) Nichil in hominum conversatione monachorum vita praestantius esse». 27 Ibid., 4, 51D-52A, p. 6 (tr. it., pp. 23-25). 24
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In questo contesto, l’ostilità del padre Gondulfo lo indusse a lasciare Aosta e ad andare oltralpe, per evadere da un ambiente ormai per lui opprimente e intraprendere una qualificante esperienza di studio in qualche rinomata scuola dell’Europa settentrionale. Valicando il Moncenisio, fu nuovamente un pane bianchissimo, miracolosamente trovato dal servo nel sacco, a ridargli forza e a salvarlo 28. Che cosa rappresenta questo pane per Anselmo? Esso è una chiara metafora della vita monastica, e il maggiordomo della corte celeste, molto probabilmente, va identificato con lo stesso san Benedetto da Norcia, fondatore dell’omonimo ordine. Nell’Oratio ad sanctum Benedictum a lui dedicata troviamo scritto: Sancte et beate Benedicte, quem tam opulenta benedictione virtutum superna gratia ditavit, ut non solum te ad desideratam gloriam, ad beatam requiem, ad caelestem sedem sublimaret, sed et alios innumerabiles ad eandem beatitudinem tua admirabilis vita attrahaeret, dulcis admonitio incitaret, suavis doctrina instrueret, miracula provocarent (…). Utique o preclare dux inter magnos duces exercituum Christi, tuo me addixi ducatui, quamvis imbecillem militem, tuo me subdidi magisterio, licet ignavum discipulum; secundum tuam regulam devovi me vivere, quamquam carnalem monachum. (…) Ecce beate Benedicte, quam strenue pugnat hic miles Christi sub tuo ducatu! Ecce quam efficaciter proficit hic tuus discipulus in tua schola! Ecce bonum monachum, qui sic mortificatis vitiis et voluptatibus carnis, sic fervet et vivit solis virtutibus! Immo ecce falsum monachum, cui sic extinctis virtutibus, sic turba dominatur vitiorum, premit moles peccatorum! Pro pudor! O impudens monache, qua fronte audis dici miles Christi, discipulus sancti Benedicti? False professor, qua impudentia potes pati videri in te tonsuram et vestem professionis, cuius non habes vitam? Heu dolor, o ‘angustiae, quae mihi sunt undique’ (cfr. Dn 13, 22)! Si enim summum regem meum et bonum magistrum meum et professionem factam nego: mors mihi est. (…) Iesu, bone Domine, ‘vide humilitatem meam et laborem meum, et dimitte universa delicta mea’ (cfr. Ps 24, 18). ‘Adiutor meus esto’, domine, ‘ne derelinquas me neque despicias me’ (Ps 26, 9); sed ‘doce et adiuva me facere voluntatem tuam’ (cfr. Ps 142, 10), ut vita mea testetur quod cor et os libenter confitentur. ‘Intende voci Cfr. ibid., 52BC, pp. 24-25.
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orationis meae, rex meus et deus meus’ (Ps 5, 3), per merita et intercessionem pii Benedicti, dilecti tui, ducis mei et magistri mei. (…) Age, advocate monachorum, per caritatem qua sollicitus fuisti quomodo vivere deberemus, esto sollicitus, ut sufficienter velimus et efficaciter possimus quemadmodum debemus, ut et tu de nostro discipulatu et nos de tuo magisterio gloriemur coram deo, qui vivit et regnat per omnia saecula saeculorum, amen 29.
Come si vede, l’Orazione ripropone le due figure del sogno riferito da Eadmero: Dio, re e signore, qui identificato direttamente con Gesù Cristo, e il suo maggiordomo Benedetto, da lui posto come guida e maestro dei propri soldati, i monaci. Benedetto insegna a essi il modo giusto di vivere, che consiste nel compiere il volere di Dio. Q uesto è per Anselmo il pane bianchissimo, nutrimento spirituale che permette di sopravvivere nel mondo. Il Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines ripropone questa metafora, ampliandola, nella Similitudo inter diversa alimenta et praecepta: Sicut enim alimentis diversis ad perfectam corporis aetatem, sic praeceptis dissimilibus ad spiritalem perducitur vitam. Ut enim prius educatur simplici lacte matris, dehinc alio aliquo, deinde farinae commixto, postea micis panis, postmodum etiam crustis, donec quolibet solido cibo valeat uti, sic ei primum iubetur in deum credere, dehinc eum diligere, deinde timere, postea bene operari, postmodum etiam adversa pati, quoadusque sibi praeceptum quodlibet secure possit iniungi 30.
Il monaco è pertanto colui che, divenuto capace di accogliere e di rispettare qualsiasi precetto, ha raggiunto lo stato di maturità spirituale proprio dell’adulto. Tale capacità lo investe nel consesso degli uomini di una specifica responsabilità, all’origine di una triplice distinzione di genere all’interno dell’umana famiglia, di cui il Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines ci fornisce una icastica descrizione: 29 Oratio ad sanctum Benedictum, 1005A-1007B, pp. 61, 3 - 64, 63 (tr. it., Milano 1997, [pp. 366-377], pp. 368-377). 30 Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, 141, 684AB, pp. 91, 32 - 92, 4 (tr. it., Milano 2009, p. 137).
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Tres quippe sunt hominum ordines, videlicet orantes, agricultores, defensores. Hos autem ordines sic ad diversa deus officia in hoc mundo disposuit, quomodo quidam paterfamilias oves et boves canesque maximos sua in domo distribuit. (…) Oves namque ad hoc habet, ut lac sibi ferant et lanam; boves vero, ut terram exerceant; canes autem, ut tam oves quam boves a lupis defendant. (…) Q uosdam namque, ut clericos monachosque, ad hoc [scil. deus] disposuit ut pro aliis orent, mitesque ut oves lacte praedicationis eos imbuant, lanaque sui boni exempli ferventes in dei amore faciant. Alios vero, ut agricultores, ad hoc disposuit ut de suo velut boum labore ipsi vivant et alii. Q uosdam etiam, ut milites, ad hoc ut asperitatem ostendant tamque orantes quam agricultores ab adversis gentibus velut a lupis defendant. Si ergo sui quisque officium impleat, longam promeretur vitam, quia ceterorum vivit ad utilitatem. (…) Unusquisque ergo sui ordinis gerat officium, ne et totum quod vivit deputetur mendacium 31.
Nella già citata Orazione a san Benedetto, si è visto che Anselmo definisce il monaco «miles Christi» 32, attribuendogli un appellativo che non gli si addice nella metafora or ora considerata. Esso ci permette di sviluppare una riflessione sul suo personale modo di intendere l’identità e la missione del monaco nel mondo, con un’attenzione particolare appunto alle linee del suo pensiero politico. Effettivamente, in un altro testo del Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus, troviamo un opportuno approfondimento della metafora del miles Christi, ma senza il riferimento esclusivo alla figura del monaco. Soldato di Cristo è l’uomo interiore che deve in ogni tempo militare per il suo Creatore, avendo come cavallo, «suo fidatissimo compagno», il suo corpo, cioè l’uomo esteriore. Anselmo è risoluto nell’affermare che le armi proprie di questa singolare battaglia non sono temporali, ma spirituali, dando luogo così ad una ricca e dettagliata rassegna delle virtù necessarie per compiere questa impresa, con cui ripropone e rielabora liberamente quanto è scritto nella Lettera agli Efesini (6, 16): la giustizia e le sue opere, la retta intenzione, come fondamento di ogni virtù, la beata speranza, che solleva alla gloria eterna, la fede, la pazienza, la previdenza e, infine, la Parola di Dio, Ibid., 127-128, 679A-680A, p. 87, 1-33 (tr. it., pp. 126-129). Oratio ad sanctum Benedictum, 1006A, p. 63, 32 (tr. it., pp. 372-373).
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come spada che permette di vincere e di porre fine alla battaglia, sgozzando il nemico. Appunto con la presentazione di quest’ultima arma Anselmo conclude la similitudine, dedicando a essa molto più spazio che alle altre. In effetti quello dell’ascolto della Parola di Dio è uno dei temi a lui più cari, su cui fonda tutta la vita spirituale. Conferma questa considerazione il fatto che la similitudine del cellerario, che segue immediatamente quest’ultima e che affronta appunto il tema dell’ascolto della Parola di Dio, è quella conclusiva del Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus: il cellerario accorto è quello che colloca nell’angolo più remoto della cantina il vino migliore, sicché non vada sprecato. Si enim bonum vinum esset iuxta ostium, ipse cellerarius non minimum inde ab ingredientibus sive egredientibus incurreret damnum. Citius namque diripitur quidquid prope manus invenitur. Et ideo viliorem potum anteponit, potiorem vero postponit 33.
La cella dei diversi vini è, per Anselmo, similitudine della Bibbia, cui tutti possono accedere, sebbene con gradi di comprensione diversi, mediante i quattro generi letterari: storico, morale, allegorico e anagogico. L’ultimo di questi rappresenta l’intelligenza della fede e la contemplazione, ed è accessibile solo a chi coltiva un grande desiderio di Dio. Il messaggio è chiaro: vi è un primato dell’ascolto della Parola di Dio – la stessa Regula di Benedetto inizia con questo severo monito 34 – che è variamente accessibile all’uomo. Realizzare questo ascolto è il fine della vita terrena di tutti e di ciascuno, come goderne appieno i frutti nella beatitudine della patria celeste è il fine ultimo. Anselmo non destina espressamente ai monaci questo insegnamento, ma anche ai laici; non associando direttamente il vino più buono al monaco, egli lascia, per così dire, aperto il problema di un’eventuale scelta personale, non essendo per giunta scontato che il monaco, benché si trovi nelle condizioni ottimali per farlo, faccia tesoro di questa possibilità di scelta. È interessante notare che queste considerazioni sono sviluppate a chiusura di un’opera in cui la vita del 33 Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, 194, 707C, p. 103, 12-15 (tr. it., p. 161). 34 Cfr. Benedictus Nursinus, Regula, Prol., PL 66, [215C-246A], 215C (tr. it., Verona 1995, p. 118).
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monastero è proposta chiaramente quale via più sicura e adatta, in talune similitudini addirittura l’unica, per realizzare e conseguire il fine della vita umana: appunto la beatitudine 35. Motivo per cui si è avanzata l’ipotesi che queste similitudini conclusive siano spurie. Ma è chiaro che, in tal senso, la vita monastica offre le possibilità di realizzare tutto questo, senza al contempo poterle garantire, lasciando alla responsabilità individuale l’ultima parola. Nessuna istituzione religiosa o politica può essere, di conseguenza, garanzia di salvezza personale, dal momento che fare la verità comporta assieme alla coerenza della vita esteriore quella della vita interiore. Q uest’ultima dipende sempre, in ultima istanza, dalla libera risposta dell’uomo, che si esprime anzitutto con la scelta dello stato di vita, secondo quanto considerato precedentemente, e successivamente con un’adesione ferma e costante ai compiti assunti. Tra quelli dei monaci e dei chierici vi sono, appunto, nutrire e scaldare tutti gli uomini con la forza della Parola di Dio, mediante l’insegnamento e la testimonianza evangelici, armandoli così alla vera battaglia, quella interiore contro le forze del male. Vi è però una condizione necessaria perché tutto questo abbia efficacia: occorrono la retta fede e l’umiltà. Occorre cioè credere nella Sacra Scrittura e nel suo messaggio, per non restare disarmati ed essere sopraffatti: Habet autem istud cellarium in se quoddam ostium. In isto vero ostio quaedam clavis habetur, per quam infidelibus clauditur et fidelibus aperitur. Ostium huius cellarii, id est sanctae scripturae, est recta fides 36.
La vita monastica in modo particolare alimenta la fede e allena all’umiltà, mettendo nelle condizioni ottimali per conoscere la Sacra Scrittura e comprovando, come fa il fuoco con i metalli preziosi, la moralità di chi vi si applica 37. In ultima analisi, la principale missione del monaco non si realizza fuori dal monastero, ma dentro di esso; nella misura, infatti, in cui egli accoglie la Parola di Dio e gusta la beatitudine dell’incontro con Lui, rende questo 35 Cfr. Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, 73 e 75-76, 644A-645B e 647A-648B, pp. 64, 3-37 e 66, 14 - 67, 17 (tr. it., pp. 73-75 e 79-81). 36 Ibid., 194, 708C, p. 104, 21-23 (tr. it., p. 163). 37 Cfr. ibid., 95, 662BC, p. 79, 4-15 (tr. it., p. 107).
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luogo un bastione della città celeste sulla terra. Nel monastero si realizza, così, veramente quanto insegna Benedetto all’inizio della Regula, e le comunità degli uomini e delle donne che abbracciano la vita monastica si possono, in tal senso, configurare e associare già sulla terra all’ordine degli angeli in cielo, appunto in forza di una vita radicalmente vissuta, sia personalmente che comunitariamente, all’insegna dell’ascolto radicale della Parola di Dio e del suo diretto servizio. Nella presentazione della vita monastica e nei frequenti appelli che destina a chi ancora non l’ha abbracciata, Anselmo sottolinea sempre l’incomparabile soavità che essa riserva, quasi come uno status che realizza davvero pienamente la vita umana, anticipando nel tempo il suo compimento escatologico: Frater iste comedens de ligno ‘scientiae boni et mali’ (Gn 2, 17) experimento didicit, quanta sit differentia inter delicias paradisi claustralis et exilium vitae saecularis 38.
Secondo Anselmo, solo la vita monastica può dare l’accesso al grado massimo possibile di anticipazione della felicità perenne del cielo nel corso della vita terrena. A chi non è monaco – laico o chierico che sia –, infatti, sono preclusi, per indubbi limiti, tanto la possibilità di vivere la pace del chiostro e della contemplazione di Dio, nutrita dalla Sacra Scrittura, quanto il necessario distacco dagli affanni del mondo – che travolgono inevitabilmente persino abati e vescovi –, quanto quella libertà interiore che può scaturire solo da un affidamento indiscusso e irrevocabile di sé e della propria volontà al fondamento stesso dell’essere e della libertà umani: Dio onnipotente e misericordioso, somma verità e somma beatitudine. Il Cur Deus homo offre, in tal senso, uno spaccato illuminante di questa disposizione interiore: Boso. An non honoro deum, quando propter timorem eius et amorem in cordis contritione laetitiam temporalem abicio, in abstinentiis et laboribus delectationes et quietem huius vitae calco, in dando et dimittendo quae mea sunt largior, in oboedientia me ipsum illi subicio? Anselmus. Cum reddis aliquid quod debes deo, etiam si non peccasti, non debes hoc computare pro debito quod debes pro peccato. Omnia autem 38 Epistola ad Lambertum abbatem, 72C, 197, p. 87, 4-6 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 245).
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ista debes deo quae dicis. Tantus namque debet esse in hac mortali vita amor, et – ad quod pertinet oratio – desiderium perveniendi ad id ad quod factus es, et dolor quia nondum ibi es, et timor ne non pervenias, ut nullam laetitiam sentire debeas, nisi de iis quae tibi aut auxilium aut spem dant perveniendi. Non enim mereris habere quod non, secundum quod est, amas et desideras, et de quo, quia nondum habes, et adhuc utrum habiturus sis an non in tanto es periculo, non doles. Ad quod etiam pertinet quietem et delectationes mundanas, quae animum ab illa vera quiete et delectationes revocant, fugere, nisi quantum ad intentionem illuc perveniendi cognoscis sufficere. Dationem vero ita considerare debes te facere ex debito, sicut intelligis quia quod das non a te habes, sed ab illo, cuius servus es tu et ille cui das. Et natura te docet, ut conservo tuo, id est homo homini, facias, quod tibi ab illo vis fieri; et quia qui non vult dare quod habet, non debet accipere quod non habet. De dimissione vero breviter dico quia nullatenus pertinet ad te vindicta, sicut supra diximus; quoniam nec tu tuus es, nec ille tuus aut suus qui tibi fecit iniuriam, sed unius domini servi facti ab illo de nihilo estis; et si de conservo tuo te vindicas, iudicium quod proprium domini et iudicis omnium est, super illum superbe praesumis. In oboedientia vero quid das deo quod non debes, cui iubenti totum quod es et quod habes et quod potes debes 39?
Effettivamente, come si evince dal testo, ogni uomo è chiamato per sua natura a soddisfare questo suo singolare ‘debito’ a Dio, conseguendo così la pace della beatitudine della vita perenne. Ma tale obiettivo può essere soddisfatto secondo tre precise modalità di vita. Anselmo le descrive puntualmente nell’Epistola 189, secondo una tripartizione non pienamente congruente rispetto alla suddivisione in chierici e monaci, agricoltori e cavalieri contenuta nel Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, precedentemente considerata. Q uest’ultima infatti ha una valenza, per così dire, sociale e suddivide gli uomini per ordine di produzione e di funzione pubblica: i primi procurano il bene spirituale, i secondi quello materiale, i terzi la sicurezza di tutti. Nell’epistolario, invece, emerge un punto della comprensione anselmiana del mondo più genuina, perché la scansione in ordines è originalmente pensata appunto nella prospettiva della perfezione Cur Deus homo, I, 20, 392B-393A, pp. 86, 28 - 87, 24 (tr. it., pp. 122-123).
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personale, cioè del desiderio di giungere a ciò per cui l’uomo è stato fatto: la beatitudine eterna. Q uest’ultima nel corso della vita può essere in vario modo esperita, può addirittura essere in una certa misura anticipata. In tal senso, lo schema tradizionale degli ordines, poi mantenuto nel Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, salta: se a procurare il bene spirituale dei fedeli sono sia i chierici che i monaci, secondo Anselmo a fruirne appieno i frutti nel corso della vita terrena è il solo monaco, che occupa per questo il primo grado nella gerarchia degli ordines di uomini: proprio perché assorto nella vita contemplativa, il monaco è l’uomo a cui, sulla terra, si dischiude il grado massimo di felicità. Al secondo ordo si collocano poi i chierici, sempre contesi tra una dedizione assorta alle cose di Dio e la vita nel secolo, al terzo i laici, che raramente dispongono dei mezzi e dei tempi necessari per perseguire la pace della contemplazione e del servizio diretto di Dio previsto da Benedetto nella Regula. È illuminante, in tal senso, quanto Anselmo scrive al monaco Guglielmo di Chester: Bonus autem quisque fidelis ab eo iudicatur, qui in suo ordine perfectionem attingere conatur. Nam etsi omnes ad perfectionis summam pariter pervenire non possimus, non tamen erimus extra numerum bonorum, sicut scriptum est: ‘Imperfectum meum viderunt oculi tui, et in libro tuo omnes scribentur’ (Ps 138, 16), si ad eandem perfectionem incessanter et fortiter conari velimus. Conentur igitur laici in suo ordine, clerici in suo, monachi in suo viriliter semper proficere, ut illi qui superioris propositi sunt, eos qui inferiori sunt, humilitate – in qua quantum homo magis proficit, tanto magis sublimatur – et aliis virtutibus excellere. Q uapropter, fili carissime, semper memor esto cuius propositi gradum ascenderis, nec umquam tibi vitae tuae sanctitas sufficiat, nisi eas illos qui inferiorum graduum sunt transcenderis. Sicut enim illi qui inferioris propositi sunt, laudabiliter ad virtutes superioris ascendunt: ita illi qui maiora sectari proposuerunt, vituperabiles sunt, si ad aequalitatem minora eligentium descendunt. Q uoniam ergo monachum te habitu profiteris: hortor, precor, consulo, ut semper in conspectu dei intus studeas esse quod foris in conspectu hominum videris 40. Epistola ad Willelmum monachum, 65C-66A, 189, p. 75, 24-40 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 227). La stessa tripartizione di ordines è già presente in Epistola ad Baldricum priorem ceterosque monachos Beccenses, 20C-26A, 156, p. 21, 110-111 40
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Occorre notare che Anselmo, in tale progresso di virtù in virtù, che trova nel proposito monastico il punto di slancio più alto, più che sulle rinunce effettuate per realizzarlo, focalizza l’attenzione sulla dimensione della perfezione, a cui comunque in ogni ordo si può accedere. In tal senso, si comprende che la prospettiva ascetica di fondo lascia, alla fine, il posto a quella eudemonistica del fine ultimo: la felicità, appunto. Nel citato brano del Cur Deus homo, si è visto che Anselmo traccia una sorta di climax della felicità: si va dalla «tranquillità e dai piaceri del mondo, cose che allontanano lo spirito dalla vera pace e gioia», fino a «ciò per cui siamo fatti», appunto «l’amore» e la «vera pace e gioia», finalmente raggiunti e goduti in pienezza. Il paradigma filosofico su cui si fonda questa climax è chiaramente neoplatonico, si va dai gradi inferiori ai gradi superiori, dalla penombra alla luce, dalla copia all’archetipo di cui essa partecipa. Da questa ascesa alla perfezione chi vive fuori dal chiostro non è escluso, benché non sempre le sue scelte colgano l’essenziale, nel pur naturale tentativo di conseguire la felicità: spesso infatti la vita nel mondo porta a confondere le felicità terrene con quella celeste, l’amore per le cose create con quello per il Creatore. Per giunta, una tale tentazione può, inevitabilmente, mettere in difficoltà anche il monaco nel suo percorso personale di ascesi, benché la vita del monastero come un bastione ben munito tuteli da tali errori. La Similitudo inter Deum et quemlibet regem raccontata nei capitoli 75 e 76 del Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines illustra molto bene questo aspetto: vi è una lotta tra Dio e il diavolo, che ha come campo di battaglia il mondo. L’aspetto stupefacente di questa metafora è che il mondo è fatto coincidere interamente con il dominio di Dio, senza alcun territorio proprio del diavolo, e che di tale dominio divino fanno parte anche gli ebrei e i pagani, non solo i cristiani: Dio ha tutto questo in suo potere. All’interno di tale regno vi è un grande borgo, con molte case indifese e alcune case fortificate, in esso si erge un castello solidissimo in cui torreggia un maschio: Itaque rex ille deus est, qui cum diabolo bellum habet. Hic in suo regno habet Christianismum, in Christianismo vero (tr. it., ibid., p. 131), ma stavolta secondo il criterio di governo ecclesiastico, per cui troviamo prima i chierici, poi i monaci e infine i laici «di entrambi i sessi».
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monachatum, supra monachatum autem conversationem angelorum. In Christianismo quidam in virtutibus sunt validi, plures vero invalidi. In monachatu autem firmitas est tanta, ut, si quis illuc confugiens monachus effectus fuerit, nisi inde paenitendo redierit, a diabolo laedi non possit. In angelorum vero conversatione gaudium est securitas tantae, ut quisquis illuc ascenderit, nolit umquam redire. Haec autem omnia rex, id est deus, habet in potestate sua. Inimicus vero eius, id est diabolus, tantae est potestatis, quod omnes Iudaeos atque paganos, quos extra Christianismum reperit, nullo obsistente rapit et in infernum demergit. In ipsum quoque Christianismum saepius intrat et eos quos debiles invenit tentando violat, animasque corporibus inhabitantes captivas asportat. Illos vero quos fortes invenit, postquam eos superare nequit, tandem, licet tristis, dimittit. In monachatum quoque non valet irrumpere, nec his qui monachi effecti sunt quicquam mali facere, nisi ad saeculum redierint corpore vel corde 41.
Il pericolo più grande, per Anselmo, non è tanto vivere nel mondo fisicamente, ma «con il cuore», cioè agire con criteri di vita che non permettono di realizzare l’umanità propria di ogni uomo – cristiano, ebreo o pagano che sia – e il fine della sua esistenza, la felicità della vita perenne. Da quest’ultima, che si raggiunge mediante la pratica delle virtù, il mondo tende a distrarre, offuscando i beni imperituri con quelli caduchi, mentre orienta con sicurezza ad essa solo la fede cristiana vissuta nella fedele appartenenza ad una comunità monastica. Per questo, chi non ne fa parte deve essere particolarmente forte, capace cioè di anteporre sempre ai beni immediati e molteplici che la vita del mondo offre, quello imperituro che la vita perenne promette. Nella Meditatio ad concitandum timorem e nella Deploratio virginitatis male amissae, Anselmo dà uno spaccato efficace di tale dramma, logicamente rigoroso e retoricamente suggestivo 42. La Vita sancti Anselmi, inoltre, riferisce un paragone tra vita nel mondo e vita claustrale particolarmente icastico: 41 Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, 76, De regno et villa et castello et dungione, 647C-648A, p. 67, 1-17 (tr. it., pp. 79-81). 42 Cfr. Meditatio ad concitandum timorem, 722A-725B, pp. 76, 2 - 79, 99 (tr. it., Milano 1997, pp. 429-441); Id., Deploratio virginitatis male amissae, 725B-729C, pp. 80, 2 - 83, 116 (tr. it., Milano 1997, pp. 447-461).
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[Anselmus] vidit fluvium unum rapidum atque praecipitem, in quem confluebant omnium fluxuum purgaturae, et quarunque rerum terrae lavaturae. Videbatur itaque aqua ipsa nimis turbida et immunda, et omni spurciciarum sorde horrida. Rapiebat igitur in se quicquid attingere poterat, et devolvebat tam viros quam mulieres, divites et inopes simul. Q uod cum Anselmus vidisset, et tam obscenam revolutionem illorum miseratus unde viveret, aut unde sitim suam refocillarent qui sic ferebantur inquireret, accepissetque responsum eos ea qua trahebantur aqua vivere delectarique, indignantis voce ‘Fi[t]’ inquit ‘quomodo? Taline aliquis caeno potus vel pro ipso hominum pudore se ferret?’ Ad haec ille qui eum comitabatur, ‘Ne mireris’ ait. ‘Torrens mundi est quod vides, quo rapiuntur et involvuntur homines mundi.’ Et adjecit, ‘Visne videre quid sit verus monachatus?’ Respondit, ‘Volo’. Duxit ergo illum quasi in conspectum cujusdam magni et ampli claustri, et dixit ei, ‘Circumspice.’ Aspexit, et ecce parietes claustri illius obducti erant argento purissimo et candidissimo. Herba quoque mediae planitiei virens erat et ipsa argentea, mollis quidem et ultra humana opinionem delectabilis. Haec more alterius herbae sub iis qui in ea pausabant leniter flectebatur, et surgentibus ipsis et ipsa erigebatur. Itaque locus ille totus erat amoenus, et praecipua jocunditate repletus. Hunc ergo ad inhabitandum sibi elegit Anselmus 43.
Il Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus dedica molto spazio a questo aspetto, associando di fatto ogni forma di piacere (delectatio), soprattutto quelle dei sensi corporei, a qualcosa di pericoloso e di contrario al cammino ascetico. La delectatio, infatti è considerata assieme alla exaltatio e alla curiositas, una delle tre esplicazioni possibili dell’attività della voluntas propria. Q uando l’uomo non abbraccia con la sua volontà quella di Dio, l’unica ad avere la prerogativa di poter essere propria, si originano in lui i vizi, dei quali il piacere occuperebbe il primo posto, seguito appunto dall’esaltazione e dalla curiosità 44. La conclusione contenuta in questa reportatio non è del tutto congruente con 43 Eadmerus Cantuariensis, Vita sancti Anselmi, I, 21, 66C-67A, ed. Southern cit., pp. 35-36 (tr. it., pp. 65-67). 44 Cfr. Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, in partic., 11-29, 40, 608A-615B, 620AD, pp. 41, 21 - 48, 16; 53, 4-32 (tr. it., pp. 21-37; 47-49).
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la prospettiva che Anselmo lascia emergere nei testi di sua indiscussa paternità. Come è noto infatti, i suoi persistenti richiami, nell’epistolario, alla pratica del contemptus mundi non vanno recepiti come giudizio negativo sulle realtà terrene e sulla vita del mondo, ma come un monito pedagogico a non anteporre i beni minori della vita secolare al bene maggiore che solo il monastero può riservare in pienezza 45. Il Monologion esordisce affermando la sussistenza di «una natura, summa omnium quae sunt, sola sibi in aeternam beatitudinem suam sufficientem, omnibusque rebus aliis hoc ipsum quod aliquid sunt aut quod aliquomodo bene sunt, per omnipotentem bonitatem suam dans et faciens» 46; nell’economia dell’opera, poi, il mondo, fatto di realtà buone, diventa via a Dio, sommamente buono, sommamente grande, essere per sé, per il quale sono tutte le cose 47. Il Proslogion, inoltre, si conclude prospettando una lista di beni – che possono diventare viatico a Dio, il quale è «id quo maius cogitari nequit» 48, «quidquid melius est esse quam non esse» 49 e «quiddam maius quam cogitari possit» 50 –, che sarà alla base delle successive rielaborazioni presenti tanto nelle tre redazioni 51 del De beatitudine perennis vitae 52, quanto nei Dicta Anselmi 53, nei Miscellanea Anselmiana 54 45 Cfr. M. Zoppi, La verità sull’uomo. L’antropologia di Anselmo d’Aosta, Roma 2009 (Collana di teologia, 62), pp. 182-218. 46 Monologion, 1, 144C-145A, p. 13, 5-8 (tr. it., Milano 1995, p. 49). 47 Cfr. ibid., 1-4, 144B-150A, pp. 13, 1 - 18, 3 (tr. it., pp. 49-59). 48 Proslogion, 2, 227C-228A, p. 101, 15-16 (tr. it., Milano 1995, p. 97). 49 Ibid., 5, 229BC, p. 104, 16 (tr. it., p. 103). 50 Ibid., 15, 235C, p. 112, 14-15 (tr. it., p. 121). 51 La prima redazione, contenuta nel manoscritto Chambéry (France), Mediathèque ‘J. J. Rousseau’ 24, 107v-111r, fu scoperta da Jean Leclercq e studiata nel suo saggio J. Leclercq , Sur la transmission d’un opuscule anselmien, in Cultura e società nell’Italia medievale. Studi per Paolo Brezzi, 2 voll., II, Roma 1988, pp. 449-455, vent’anni dopo la pubblicazione dell’edizione critica: Memorials, pp. 271-291. Il testo della prima redazione, contenuto nel manoscritto di Chambéry, è stato interamente trascritto e pubblicato in Zoppi, La verità sull’uomo cit., pp. 219-233. 52 Cfr. Eadmerus Cantuariensis, Scriptum de beatitudine perennis vitae sumptum de verbis beati Anselmi, PL 159, 587A-606A, in Meditationes et orationes, pp. 271-291 (tr. it., Milano 2009, pp. 479-531). 53 Cfr. Alexander Cantuariensis, Liber ex dictis beati Anselmi, PL 159, 605A-708D, in Meditationes et orationes, pp. 105-195, in partic. cap. V, pp. 127, 16 - 141, 11 (tr. it., Milano 2009, pp. 165-325, in partic. pp. 205-229). 54 Cfr. Miscellanea Anselmiana, in Meditationes et orationes, pp. 293-360,
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e nel Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines 55. Tra i beni che comportano la fruizione di questo singolare Bene, si annovera a chiare lettere anche la «munda voluptas», menzionata al termine di una sequenza di qualità che ineriscono inequivocabilmente alla dimensione fisica: pulchritudo, velocitas, fortitudo, libertas corporis, longa et salubris vita, satietas, ebrietas, melodia 56, seguite poi da quelle proprie della dimensione spirituale: sapientia, amicitia, concordia, potestas, honor et divitiae, vera securitas; per giunta tutte sono introdotte inequivocabilmente dal seguente monito: O qui hoc bono fruetur: quid illi erit, et quid illi non erit! Certe quidquid volet erit, et quod nolet non erit. Ibi quippe erunt bona corporis et animae, qualia ‘nec oculus vidit nec auris audivit nec cor hominis cogitavit’ (1Cor 2, 9). Cur ergo per multa vagaris, homuncio, quaerendo bona animae tuae et corporis tui? Ama unum bonum, in quo sunt omnia bona, et sufficit. Desidera simplex bonum, quod est omne bonum, et satis est. Q uid enim amas, caro mea, quid desideras, anima mea? Ibi est, ibi est quidquid amatis, quidquid desideratis 57.
Si comprende così che fuori dal monastero non c’è l’inferno, ma un mondo bisognoso di ordine e di ordinatori, che permettano a chi vi abita di orientarsi ad un ideale di vita veramente umano, realizzando quindi, per quanto è possibile, anche nel mondo, il fine per cui l’uomo è stato fatto: la felicità. La vita associata e le sue istituzioni, in tal senso, sono positivamente accolte e sostenute da Anselmo quali mezzi per realizzare tale fine. Scrive, al riguardo Southern: Clearly he [scil. Anselm] was not an opponent of royal authority, or of secural policies, or of the warlike activities that these policies required, or even of Rufus himself. Despite his severe view of the temptations of the world, his spirituality allowed a very large place for the physical world and for the in partic. The Anselmian miscellany in Bodleian ms. Digby 158, 3. De octo beatitudinibus, pp. 327, 13 - 333, 11 (tr. it., Milano 2009, pp. 533-721, in partic. pp. 635-653). 55 Cfr. Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similitudines, 48-71, 627C-643B, pp. 57, 20 - 63, 9 (tr. it., Milano 2009, pp. 57-73). 56 Cfr. Proslogion, 25, 240A-241C, pp. 118, 20 - 119, 3 (tr. it., p. 137). 57 Ibid., 25, 240AB, p. 118, 12-19 (tr. it., pp. 135-137).
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rights of those to whom the administration of this world had been committed. It was against self-will and worldy desires that he set his face; and these could only be overcome by personal conversion. They could not be overcome by altering the organization of the world 58.
In tal senso, le reticenze di Anselmo ad accettare l’elezione abbaziale al Bec, e successivamente la sua vigorosa opposizione alla nomina ad arcivescovo di Canterbury e primate d’Anglia, più che essere ascritte alla sua indubbia umiltà, vanno ricomprese alla luce della sua autoconsapevolezza di essere monaco, cioè uomo chiamato a vivere nel riposo del chiostro le prerogative di quanti sono già cittadini del cielo, e anticipare così, in parte, l’esperienza della felicità eterna. Egli si riteneva, pertanto, ormai libero dalle fatiche, dai legami oppressivi e dalle pene che la vita del mondo tristemente riserva. È significativa, al riguardo, la testimonianza che riporta Eadmero nella Historia novorum in Anglia, dove Anselmo giustifica le sue reticenze a diventare arcivescovo: Conversusque [scil. Anselmus] ad eos [scil. episcopos] in haec verba sciscitatus est, ‘Intelligitis quid molimini? Indomitum taurum et vetulam ac debilem ovem in aratro conjungere sub uno jugo disponitis. Et quid inde proveniet? Indomabilis utique feritas tauri sic ovem lanae, lactis et agnorum fertilem per spinas ac tribulos hac et illac raptam, si jugo se non excusserit, dilacerabit, ut nec ipsa sibi nec alicui, dum nihil horum ministrare valebit, utilis existat. Q uid ita? Inconsiderate ovem tauro copulastis. Aratrum ecclesiam perpendite juxta apostolum dicentem, «Dei agricoltura estis, Dei aedificatio estis» (1Cor 3, 9). Hoc aratrum in Anglia duo boves caeteris praecellentes regendo trahunt et trahendo regunt, rex videlicet et archiepiscopus Cantuariensis. Iste saeculari justitia et imperio, ille divina doctrina et magisterio. Horum boum unus, scilicet Lanfrancus archiepiscopus, mortuus est, et alius ferocitatem indomabilis tauri obtinens jam juvenis aratro praelatus; et vos loco mortui bovis me vetulam ac debilem ovem cum indomito tauro conjungere vultis? Q uae dico satis intelligitis; et ea re quid cui velitis associare vellem consideraretis, considerantes ab incoepto desisteretis. Q uod si non desistitis;
58 Southern, Saint Anselm: a portrait in a landscape cit., p. 273 (tr. it., p. 289).
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en praedico vobis quia me, de quo lanam et lac verbi Dei et agnos in sevitium ejus nonnulli possent habere, extra quam modo putetis regia feritas, diversis a se fatigatum injuriis, opprimet, et gaudium, quod nunc de me quasi pro revelationis vestrae spe vos tenet, multos, cum nil consueti consilii aut sperati auxilii per me habere potuerint, versum in moestitiam dolentes efficiet 59.
Secondo Anselmo, le autorità politiche e religiose sono chiamate a collaborare alla medesima causa: il bene del popolo che devono servire. Q uesto ufficio, benché distinto nei ruoli, associa re e principi, papa e vescovi in una comune responsabilità e obiettivo di fondo: unico è il giogo che essi sono chiamati a portare senza poter fare a meno gli uni degli altri. In particolare, per mandato divino, vi sono laici ed ecclesiastici deputati al governo temporale e spirituale della comunità umana: è compito delle autorità politiche laiche governare e difendere il popolo secondo giustizia, mentre è compito di quelle religiose provvedere alla cura spirituale tanto di chi governa quanto del popolo 60. Sempre la Historia novorum in Anglia riporta queste parole, rivolte da Anselmo, una volta divenuto arcivescovo di Canterbury, al re d’Inghilterra Guglielmo Rufo: Volo ut in iis quae ad Deum et Christianitatem pertinent te meo prae ceteris consilio credas, ac, sicut ego te volo terrenum habere dominum et defensorem, ita et tu me spiritualem habeas patrem et animae tuae provisorem 61.
Si comprende, pertanto, che il fermo rifiuto di Anselmo ad accettare la carica arcivescovile e primaziale di Canterbury non si fondava tanto su una sua preconcetta condanna del servizio dell’autorità politica e religiosa, quanto piuttosto sulla sua radicata identità monastica, del tutto avversa alle responsabilità di potere, giudicate difficilmente compatibili con la vita del chiostro. In tal 59 Eadmerus Cantuariensis, Historia novorum in Anglia, I, PL 159, [347-524], 368AC, ed. M. Rule, London 1884 (ripr. 1965) (Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores, 81), pp. 36-37 (tr. it., Milano 2009, pp. 91-93). 60 Su questo aspetto, mi permetto di reinviare a M. Zoppi, La posizione di Anselmo nel dibattito politico medievale, in «Bulletin. Académie Saint-Anselme d’Aoste», N. S. 15 (2014), [pp. 159-168], in part. pp. 162-168. 61 Eadmerus Cantuariensis, Historia novorum in Anglia, I, PL 159, 370D-371A, ed. Rule cit., p. 40 (tr. it., p. 99).
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senso, persino la sua elezione alla carica abbaziale fu da lui inizialmente rigettata, dal momento che anche questo ufficio, con i suoi negozi secolari legati all’amministrazione di terre e di beni, minava l’otium monasticum, comportando inesorabilmente una perdita di pace, nefasta per un monaco, nonostante comportasse la cura dei propri fratelli («suscipere curam in spe auxilii dei, postponens requiem, pro fratrum utilitate» 62). Al riguardo, la Historia novorum in Anglia riporta le parole rivolte da Anselmo ai vescovi inglesi, per dissuaderli dal loro proposito di fargli ricevere dal re l’investitura ad arcivescovo di Canterbury: Ex quo monachus fui saecularia negotia fugi, nec unquam eis ex voto intendere potui, quia nihil in eis esse constat quod me in amorem aut delectationem sui flectere queat. Q uare sinite me pacem habere, et negotio quod numquam amavi, ne non expediat, implicare nolite 63.
Si può meglio comprendere, così, anche il senso di quanto Anselmo scrisse a papa Urbano II, fornendogli un suggestivo bilancio dei suoi primi quattro anni di episcopato: Notum est multis, mi pie pater, qua violentia et quam invitus et quam contradicens captus sim et detentus ad episcopatum in Anglia, et quomodo obtenderim repugnantiam ad huiusmodi officium naturae, aetatis, imbecillitatis et ignorantiae meae, quae omnino omnes saeculi actiones fugiunt et inconsolabiliter exsecrantur, ut nullatenus illas tolerare possim cum salute animae meae. In quo archiepiscopatu iam per quatuor annos manens nullum fructum feci, sed immensis et exsecrabilibus tribulationibus animae meae inutiliter vixi, ut cotidie magis desiderarem mori extra Angliam quam ibi vivere 64.
62 Epistola ad Baldricum priorem ceterosque monachos Beccenses, 26B-27A, 157, p. 24, 13-15 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 137). 63 Eadmerus Cantuariensis, Historia novorum in Anglia, I, 366B, ed. Rule cit., p. 33 (tr. it., p. 87). 64 Epistola ad Urbanum papam, 405D-406A, 206, pp. 99, 22 - 100, 30 (tr. it. in Lettere cit., II/1, p. 265).
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RICERCA DELLA VERITÀ, VOLONTÀ DI GIUSTIZIA E DESIDERIO DI FELICITÀ NEL MONACHESIMO DI ANSELMO D’AOSTA
L’itinerario teoretico di Anselmo è sensibilmente influenzato da quello esistenziale e costituisce con esso un unico intreccio, nel quale il secondo genera e motiva il primo e questo, a sua volta, fornisce alla sua vita le risposte che rinforzano e irrobustiscono le scelte e i passi da lui compiuti. La scelta di essere monaco è stata quella decisiva ed ha costituito la cifra di tutta la vita di Anselmo. Da allora egli è stato sempre e soprattutto un monaco 1. La vita monastica è stata da lui considerata la maniera migliore e più alta di vivere la vita cristiana e la sua attività di insegnante e di scrittore teologico e filosofico, e, in particolare, i suoi scritti di filosofia morale, costituiscono nel loro insieme un tentativo unitario di fondazione e giustificazione argomentata e razionale del significato e della forma di vita monastica 2 e, più specificamente, di ciò che per Anselmo è il cuore di essa e cioè dell’obbedienza. Dopo aver abbandonato Aosta, Anselmo peregrina per la Borgogna e la Francia 3 per circa tre anni prima di approdare al Bec e compiervi poi la scelta di diventare monaco. Q uei tre anni sono 1 Cfr. P. Grammont, Sant’Anselmo: un’esperienza monastica, in Anselmo d’Aosta figura europea, Atti del Convegno di Studi (Aosta, 1-2 marzo 1988), a c. di I. Biffi – C. Marabelli, Milano 1989 (Biblioteca di Cultura Medievale. Di fronte e attraverso, 231), pp. 63-71. 2 Cfr. R. W. Southern, Saint Anselm. A Portrait in a Landscape, Cambridge 1990, p. 217: «His monastic commitment was total, because he believed that a total commitment was the only acceptable relationship between Man and God. This aspect of Anselm’s thought is fundamental to the understanding of his practical life as well as his theology». 3 Cfr. ibid., pp. 11-13.
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 191-209 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112917
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un tempo di inquietudine e di ricerca, durante il quale Anselmo si interroga su che cosa debba fare della sua vita e sulle diverse possibilità di condurla. In questi tre anni egli cerca di venire in chiaro con se stesso e di trovare una verità soddisfacente, che gli permetta di stare al mondo con piena convinzione. Sin da quegli anni, anche se ancora in modo incerto e confuso, la ricerca della verità diventa elemento centrale della sua esistenza e del suo modo di stare al mondo. Senza di questa egli non potrà più vivere. Ed è una ricerca di verità che è prima di tutto un bisogno esistenziale, ma nello stesso tempo si va sempre più definendo come un bisogno intellettuale. A partire da questa condizione l’arrivo al Bec diventa decisivo, anche e soprattutto per l’incontro con Lanfranco, come ha saputo ben mettere in luce Southern: «Lanfranc took him in hand, and in the course of a year he had given him a direction that would last his whole life. Within four years he had given him all the intellectual equipment necessary for his future» 4. A questo proposito, mi sembra particolarmente importante, per le riflessioni che sto per sviluppare, sottolineare l’identificazione di verità e giustizia, compiuta da Lanfranco commentando la Lettera ai Romani (Rm 3, 4), evidenziata da Richard Southern 5, perché essa era destinata ad avere un’influenza di grande portata in Anselmo, diventando uno dei cardini su cui si regge in lui la relazione tra vita monastica e vita teoretica. Nella Lettera, Paolo scrive: «Est autem Deus verax, ‘omnis autem homo mendax’, sicut scriptum est: ‘Ut justificeris in sermonibus tuis, et vincas cum judicaris’», citando il Salmo 115, 11 e il Salmo 50, 6, nel quale Davide si rivolge a Dio dopo aver peccato con Betsabea e aver fatto morire in guerra il marito di lei, Uria l’Hittita 6. Commentando questo punto della Lettera ai Romani, precisamente in riferimento alle parole «Ut justificeris», Lan4 Ibid., p. 14; per il rapporto tra Anselmo e Lanfranco cfr. ibid., pp. 14-66 e Id., The Relationship between Anselm’s Thought and His Life at Bec and Canterbury, in Saint Anselm – A Thinker for Yesterday and Today. Anselm’s Thought Viewed by Our Contemporaries, Proceedings of the International Anselm Conference (Centre National de Recherche Scientifique, Paris), ed. by C. Viola – F. Van Fleteren, Lewiston – Q ueenston – Lampeter 2002 (Texts and Studies in Religion, 90; Anselm Studies, 5), [pp. 9-26], pp. 12-17. 5 Cfr. Id., Saint Anselm cit., pp. 41-42 e Id., The Relationship between Anselm’s Thought and His Life cit., pp. 14-15. 6 Cfr. 2Rg 11.
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franco scrive: «Probatio quod Deus verax est; justitia enim sermonum, est veritas» 7. Southern nota che questo commento non è di immediata interpretazione e che per essere reso più chiaro può essere riferito ad un sillogismo in cui la premessa maggiore affermi che Dio è giustizia, la minore che la verità è la giustizia nelle parole e la conclusione che Dio è verità 8. Risulta compiuta così l’identificazione tra giustizia e verità. Essa è importante in se stessa, ed avrà un’enorme portata nella vita e nell’opera di Anselmo, ma è anche significativo il modo in cui è realizzata ed il luogo da cui proviene. Infatti l’operazione logica di articolazione sillogistica, che in questo caso non è compiuta direttamente da Lanfranco, è però il modello che egli propone, mettendolo di fatto in pratica ripetutamente nel commento all’epistolario paolino 9. Si tratta di una legittimazione dell’utilizzo della dialettica come strumento di comprensione del testo sacro e del dato di fede, che sarà proseguita dal discepolo Anselmo, che ne farà un programma di ricerca e di vita. In questo modo anche l’identificazione di giustizia e verità, che sarà sviluppata più tardi da Anselmo ed avrà nella sua opera un ruolo decisivo, trae origine da una analisi, messa in atto con strumenti razionali, di un punto della sacra Scrittura, quindi da un tentativo di comprendere il dato di fede. Inoltre dicevo che è da segnalare il luogo, nel senso che il passo commentato è tratto dalla Lettera ai Romani di Paolo. Appunto Lanfranco, esperto maestro nelle arti del trivio, fattosi monaco, si dedicò all’insegnamento e commentò le lettere di Paolo, 7 Lanfrancus Cantuariensis, Commentarius in Epistolam Pauli ad Romanos, 3, 4, PL 150, [105D-156B], 115B. 8 Cfr. Southern, Saint Anselm cit., p. 42. 9 Cfr. G. d’Onofrio, Lanfranco teologo e la storia della filosofia, in Lanfranco di Pavia e l’Europa del secolo xi, nel IX centenario della morte (1089-1989), Atti del Convegno Internazionale di Studi (Pavia, Almo Collegio Borromeo, 21-24 settembre 1989), a c. di G. d’Onofrio, Roma 1993 (Italia Sacra, 51), pp. 189228, in partic. pp. 216-217: «Una volta rintracciati i procedimenti topici, è più facile sciogliere il discorso paolino in una serie di sillogismi che soggiacciono all’andamento narrativo del testo. Lanfranco lo sa bene, e in più occasioni egli traduce apertamente in sillogismi gli argomenti topici da lui individuati nel testo di Paolo. Procedendo in questo modo, Lanfranco si abbandona quindi ad una vera e propria ricostruzione sillogistica dell’intero testo paolino, moltiplicando vistosamente (…) l’evidenziazione della struttura rigorosamente deduttiva delle argomentazioni che lo percorrono». Cfr. anche I. Biffi, Lanfranco esegeta di san Paolo, ibid., pp. 167-187, in partic. pp. 179-182, in cui l’autore si sofferma specificamente sul metodo retorico-dialettico dell’esegesi di Lanfranco.
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e Anselmo, divenuto monaco e suo discepolo, conosceva certamente questo lavoro di Lanfranco, se non era stato direttamente ad ascoltarne la lectio 10 ed era consapevole del valore che Lanfranco attribuiva alle lettere paoline; esse erano per il pavese un modello teologico, in quanto mostravano la necessità e dunque anche la legittimità dei tentativi di fornire nuove interpretazioni a questioni di carattere dottrinale originate dai testi sacri 11. In queste considerazioni non è difficile scorgere le radici dello stile che Anselmo, proprio in quanto monaco, vorrà dare alla sua presenza al Bec e ai suoi studi: un’appassionata ed inesausta ricerca di conoscenza, comprensione e assimilazione delle sacre Scritture, condotta attraverso il pieno dispiegamento delle proprie facoltà e delle proprie dimensioni, certamente di quelle affettive e mistiche, ma altrettanto certamente di quelle razionali. Nell’abbracciare e vivere la scelta monastica, Anselmo è animato dal vivo senso del peccato e da una sensibilità acutissima nei confronti della condizione di colpa che riguarda lui direttamente e la specie umana in generale. In particolare, nelle orazioni e meditazioni che ci sono giunte, il tema del peccato emerge con forza. Nella prima – secondo l’edizione Schmitt – delle preghiere raccolte insieme dallo stesso Anselmo, l’Oratio ad deum, la richiesta iniziale che egli rivolge a Dio è: «Miserere mihi peccatori. Da mihi veniam peccatorum meorum. Cavere, vincere omnes insidias et tentationes et delectationes noxias; perfecte mente et actu vitare quae prohibes» 12. L’Oratio ad sanctam Mariam cum mens gravatur torpore è uno degli esempi più evidenti e forti di come il monachesimo di Anselmo fosse segnato e determinato dalla coscienza del peccato. Il torpor, di cui si fa menzione nel sottotitolo della preghiera in questione, è lo stato di aridità spirituale e di insensibilità al bene causato dal peccato. L’orante, proprio in quanto perfettamente consapevole – di una consapevolezza non solo teorica, ma anche esistenziale e quasi fisica – dei propri peccati, sa di avere bisogno di un grande aiuto per superare la situazione paralizzante in cui si trova. Egli presenta la propria Cfr. ibid., p. 183. Cfr. d’Onofrio, Lanfranco teologo cit., pp. 207-209. 12 Oratio ad deum, 876CD, p. 5, 3-6. 10 11
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anima come «morbis vitiorum languida, vulneribus facinorum scissa» 13, caratterizzata da sporcizia, orrore, fetore, turbamento, confusione, provocati dai peccati, i quali strappano, corrodono, tormentano, bruciano, atterriscono, opprimono, schiacciano, sfigurano 14. Anche l’Oratio ad sanctam Mariam cum mens est sollicita timore 15 è la preghiera di un peccatore – «ad te, (…) ego peccator et utique nimis peccator anxius confugio» – che ha presente l’enormità dei propri peccati e teme il conseguente giudizio divino, pur sperando nell’intercessione di Maria e nel perdono di Dio 16. La coscienza del peccato e il sentimento della colpa generano uno stato di inquietudine e di peso che spingono a cercare una via d’uscita e di sollievo. L’ansietà che tormenta l’animo del peccatore si ripresenta ripetutamente. Nell’Oratio ad sanctum Iohan-
Oratio ad sanctam Mariam cum mens gravatur torpore, 948C, p. 13, 10. Cfr. ibid., 949AB, p. 13, 14-23: «Sic sordibus et foetore foedatur [scil. anima mea], ut timeat ne ab ipsa misericors vultus tuus avertatur. Sic tabescit desperando respectus tui conversionem, ut etiam os obtumescat ad orationem. Peccata mea, nequitiae meae, si habetis animam meam vestro veneno peremptam: vel cur sic facitis eam vestra foeditate horrendam, ut miseratio non possit aspicere illam? Si obruitis ei spem exauditionis vestra mole: vel cur obstruitis illi vocem orationis vestri pudore? Si mentem eius vestri fecistis amore dementem: vel cur sensum eius vestro redditis torpore non sentientem? Heu pudor sordentis iniquitatis, in praesentia nitentis sanctitatis! Heu confusio immundae conscientiae, in conspectu fulgentis munditiae!»; e ibid., 949BC, p. 14, 26-37: «Rogare enim te, domina, desidero, ut miserationis tuae respectu cures plagas et ulcera peccatorum meorum, sed confundor coram te ob foetorem et sordes eorum. Horreo, domina, parere tibi in immunditiis et horroribus meis, ne tu horreas me pro eis, et non possum – vae mihi! – videri sine eis. O perturbata, o confusa peccandi conditio! En quippe vos, peccata mea, quomodo discerpendo distrahitis, distrahendo corroditis, corrodendo torquetis praecordia mea. Eadem enim peccata mea, o domina, cognosci a te cupiunt propter curationem, parere tibi fugiunt propter execrationem. Non sanantur sine confessione, nec produntur sine confusione. Si celantur, sunt insanabilia; si videntur, sunt detestabilia. Urunt me dolore, terrent me timore. Mole me obruunt, pondere me premunt, pudore me confundunt». 15 Cfr. Oratio ad sanctam Mariam cum mens est sollicita timore, 950B-952C, pp. 15-17. 16 Cfr. ibid., 950BC, p. 15, 7-14: «Ad te, praepotens et misericors domina, ego peccator et utique nimis peccator anxius confugio. Videns enim me, domina, ante districti iudicis omnipotentem iustitiam, et considerans irae eius intolerabilem vehementiam, perpendo peccatorum meorum enormitatem et condignam tormentorum immanitatem. Tanto igitur, domina clementissima, horrore turbatus, tanto pavore perterritus: cuius enixius implorabo interventionem, quam cuius uterus mundi fovit reconciliationem?». 13 14
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nem Baptistam 17, lo «scelerosus vermis» 18 carico della sua grande colpa è angosciato per i peccati 19 di cui sente la piena responsabilità 20. Ancora «anxius» è il peccatore che si rifugia da santo Stefano impetrando intercessione 21 nell’Oratio ad sanctum Stephanum 22. Egli è il colpevole e la sua coscienza lo accusa al cospetto di un giudice tremendo 23. Ancora, l’inquietudine è degna del monaco che con i suoi peccati ha tradito l’impegno che si era assunto 24 e, nell’Oratio ad sanctum Benedictum 25, chiede aiuto al fondatore dell’ordine. E l’ansietà è, di nuovo, il sentimento che pervade l’animo di chi, essendo consapevole delle proprie colpe, ha paura di non trovare un intercessore che lo difenda e si chiede con quale coerenza e con quale credibilità possa chiedere lui il perdono per i propri amici 26. La mancanza di sicurezza è, dunque, una cifra esistenziale di Anselmo, che ancora Richard Southern ha ben messo in rilievo 27. Essa è una ragione precisa della ricerca di pace e di sal Cfr. Oratio ad sanctum Iohannem Baptistam, 969A-972B, pp. 26-29. Ibid., 969A, p. 26, 8. 19 Cfr. ibid., 969AB, p. 26, 10-15: «Ad te, tam magne amice dei, valde timens venit dubius de salute sua, quia certus de magna culpa sua, sed sperans de maiori gratia tua. Maior enim est, domine, gratia tua quam culpa mea, quia plus potes apud deum, quam delere scelera mea. Ad te, ergo, domine, quem gratia fecit tam amicum dei, ad te fugit anxius, quem iniquitas fecit tam reum dei; ad te quem tam beatum fecit gratia, ego quem tam miserum fecit nequitia». 20 Cfr. ibid., 969B-970B, pp. 26, 19 - 27, 43. 21 Cfr. Oratio ad sanctum Stephanum, 993AB, p. 50, 16-18: «Anxius itaque et tremens refugit ad te male conscius sibi peccator. Vide ergo, pie Stephane, angustiam meam et dilata super eam caritatem tuam». 22 Cfr. ibid., 992C-997A, pp. 50-54. 23 Cfr. ibid., 993B, p. 50, 19-21: «Ecce enim astat reus ante tremendum iudicem. Accusatur multis et magnis offensis. Convincitur teste propria conscientia et testibus oculis ipsius iudicis». Sul ruolo della coscienza in Anselmo cfr. I. Biffi, La coscienza e la libertà nell’Epistolario di Sant’Anselmo, in Saint Anselm – A Thinker for Yesterday and Today cit. (alla nota 4), pp. 395-408. 24 Cfr. Oratio ad sanctum Benedictum, 1006B, p. 63, 43-44: «Anxiare in me, spiritus meus, turbare in me, cor meum, erumpe et clama, anima mea». 25 Cfr. ibid., 1005A-1007B, pp. 61-64. 26 Cfr. Oratio pro amicis, 907C, p. 72, 30-34: «Et qui anxius intercessores quaero: qua fiducia pro aliis intercedo? Q uid faciam, domine deus, quid faciam? Tu iubes me orare pro illis et dilectio concupiscit, sed clamante mihi conscientia ut pro meis peccatis sollicitus sim, pro alienis loqui contremisco». 27 Cfr. Southern, Saint Anselm cit. (alla nota 2), pp. 84-87, in partic. pp. 84-85: «In turning inwards he found no grounds for satisfaction. Self-abasement in the presence of God was the only appropriate human response. Apart 17 18
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vezza che Anselmo conduce da monaco 28 ed è collegata al senso di inadeguatezza, di insoddisfazione di sé e di colpa per i propri peccati 29 e del terrore di doverne rispondere. Nel Cur Deus homo Anselmo spiega quanto sia motivato questo sentimento, chiarendo che anche il più piccolo atto di volontà contrario alla volontà di Dio non è paragonabile ad alcun altro tipo di danno ed è in ogni caso più grave, al punto che bisognerebbe evitarlo a qualunque costo, anche se ciò comportasse la distruzione del mondo intero: «Q uid si necesse esset aut totum mundum et quidquid deus non est perire et in nihilum redigi, aut te facere tam parvam rem contra voluntatem dei? (…) Fateri me necesse est quia pro conservanda tota creatura nihil deberem facere contra voluntatem dei» 30. Non è sorprendente, di conseguenza, l’interesse teorico nutrito da Anselmo nei confronti dei temi etici del male, della volontà, della responsabilità e della giustizia e non è un caso che nella prefazione al De veritate l’autore spieghi che obiettivo della ricerca è capire cos’è la giustizia 31. È dal cuore di un monachesimo profondamente vissuto come rimedio al pericolo della perdizione e come via migliore per dirigersi verso la perfezione 32, allontananfrom the bare scaffolding of rational argument pointing towards God, he found within himself only sin and insecurity. Anselmian introspection led to increased anxiety, not to an increased understanding of human powers. Anxiety was the constant refrain of his earliest spiritual writings»; e p. 85: «There was no moderation, no sense of security in Anselm’s thought». 28 Cfr. ibid., p. 84: «It was only in the narrow stream of monastic life that safety lay». 29 Cfr. Id., The Relationship between Anselm’s Thought and His Life cit. (alla nota 4), p. 17: «The grievousness of sin was a main subject of Anselm’s earliest monastic thoughts». 30 Cur Deus homo, I, 21, 394AB, p. 89, 1-13. 31 Cfr. De veritate, Praefatio, 467B, p. 173, 9-10: «Unus horum trium est De veritate: quid scilicet sit veritas, et in quibus rebus soleat dici; et quid sit iustitia». 32 Cfr. Epistola ad Albertum medicum, 1091A-1092A, 36, p. 144, 18-21, dove Anselmo prospetta e augura l’ingresso nella comunità monastica come la scelta che permette di cogliere i veri ed eterni beni ed incamminarsi verso l’incorruttibilità beata; Epistola ad Lambertum et Folceraldum avunculos, 1116BC, 54, p. 168, 15-17, in cui esorta i destinatari ad abbandonare la vita secolare, paragonata ad un sonno infruttifero, e ad entrare in monastero, per ottenere i veri beni della vita; Epistola ad Petrum consobrinum, 1118B, 56, p. 171, 15-19, in cui la vita monastica è indicata come il percorso più adatto verso la vita eterna; Epistola ad Helinandum, 1162AB, 101, pp. 233, 43 - 234, 55, in partic. p. 234, 49-55: «Valde difficilius est inter saeculares per liberam voluntatem, quam intra claustrum
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dosi quanto più possibile dalla strada del peccato, che sgorga l’indagine speculativa tesa a dare una giustificazione razionale a ciò che è creduto per fede e che urge dal punto di vista esistenziale 33. Tale atmosfera spirituale e tali sentimenti agiscono, inoltre, all’interno delle relazioni con gli altri monaci, ed in particolare con i suoi amici monaci, e sono condivisi con loro in un comune orizzonte di vita e di preoccupazioni, il quale è, anch’esso, terreno fertile da cui si alimenta la pianta della riflessione etica anselmiana. Ciò risulta ulteriormente determinante, se si tiene presente la convinzione nutrita da Anselmo, secondo la quale all’interno della comunità benedettina l’amicizia deve svolgere un compito preciso e centrale per realizzare in concreto il processo di salvezza 34 e contemporaneamente rispondere alla destinazione metafisica alla quale sono chiamati gli esseri razionali sulla terra. I suoi rapporti di amicizia, come emergono dalle sue lettere, sono sempre interni ad un comune impegno terreno, in vista di un bene e di un compimento ultraterreni ed eterni 35, e possono sussistere soltanto sulla base di questa comune tensione etica e religiosa, in quanto essi trovano la loro ragion d’essere monachorum sub disciplina custodire vitae sanctitatem. Non dico nunc quod propositum vitae inter omnes vitas altiorem gradum contingat humilitatis, quem altior sequitur exaltatio, nisi quia nullus, ut melius vivat, monachi propositum deserit, et omne genus hominum ad monachicam vitam ut magis deo propinquet concurrit». 33 Cfr. Southern, Saint Anselm cit. (alla nota 2), p. 106: «We can see the origins of his theological system in an intense horror of sin operating on a mind of exceptional power and precision». 34 Cfr. ibid., cap. 7: The nature and importance of friendship, pp. 138-165 e Id., The Relationship between Anselm’s Thought and His Life cit. (alla nota 4), pp. 17-21. 35 Cfr. Epistola ad Haimonem et Rainaldum consanguineos, 1180A, 120, p. 258, 10-12: «Desiderat conversationem vestram quidquid restat de vita mea, ut in pleno gaudio futurae vitae vobiscum gaudeat anima mea»; e 1180BC, p. 259, 25-32: «Sed quid cunctor aperte dicere desiderium cordis mei? Dicam ego, persuadeat deus. Desiderati mei, nihil tam bene potestis, quam monasticae vitae propositum arripere; nusquam melius hoc potestis quam cum illo, qui vobis in hoc desiderat et potest deo dante servire et consulere. Utique non fallo, quia amicus sum; certe nec fallor, quia expertus sum. Simus ergo monachi simul, serviamus deo simul, ut de invicem nunc et in futuro gaudeamus simul. Una caro, unus sanguis sumus; una anima, unus spiritus simus». Cfr. inoltre Southern, Saint Anselm cit., p. 158: «When he [scil. Anselm] spoke in ecstatic terms about friendship, he was thinking of individuals, not primarily on earth, but in Heaven» e p. 159: «In speaking of friendship, he was making statements about eternity».
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nel fine che li trascende e li completa, che è l’amore del sommo bene 36 e la conformità alla volontà divina; per questo motivo «the softest words of friendship are associated with the harshest requirements of obedience and self-abnegation in a complete dedication to the monastic life» 37. Da questi rapporti e dall’ambiente monastico in genere sorgono le questioni, che sono poi trattate teoreticamente, e ai membri di questa cerchia in primo luogo sono destinate le opere che ne fissano i contenuti, per irrobustire la scelta già intrapresa. Ricercare la verità per Anselmo è sempre ricercare Dio, ma questa ricerca monastica trova nel tentativo di comprensione razionale un motivo di forza e di incoraggiamento sul percorso intrapreso. Per questa ragione, atto del credere e interrogazione intellettuale si compenetrano così profondamente in lui e, a partire dall’atto di fede iniziale, si alimentano reciprocamente 38. La ricerca della verità diventa allora il tentativo di rispondere all’interrogativo sulla propria collocazione nel mondo e nella realtà e di inquadrare metafisicamente e teologicamente la propria vita e le sue possibilità. In questo modo la domanda sulla verità si trasforma nella domanda sul senso dell’agire e dell’essere, sulla sua finalità e sul suo perché. Così nel De veritate, a partire dalla domanda sulla verità dell’enunciazione, l’indagine viene rivolta alla finalità intrinseca che dà senso all’oratio e la costituisce come tale: «Ad quid facta est affirmatio?» 39. Allo stesso modo la domanda si ripropone per gli altri ambiti ai quali si attribuisce un rapporto con la verità Cfr. Monologion, 68, 213C-214C, pp. 78, 12 - 79, 9 e Cur Deus homo, II, 1, 399C-401C, pp. 97, 1 - 98, 5. 37 Southern, Saint Anselm cit., p. 147. 38 Cfr. C. E. Viola, Saint Anselme, ses historiens et les théologiens: Critique de quelques vues récentes, in Twenty-Five Years (1969-1994) of Anselm Studies. Review and Critique of Recent Scholarly Views, ed. by F. Van Fleteren – J. C. Schnaubelt, Lewiston – Q ueenston – Lampeter 1996 (Anselm Studies, 3), [pp. 1-27], p. 15: «Son point de départ comme son point d’aboutissement sont également la foi chrétienne»; e p. 16: «Ce qui est identique, dans l’esprit d’Anselme, c’est l’objet visé par l’acte de penser et l’acte de croire, mais la manière dont chacun de ces actes atteint l’objet est radicalement différent: l’acte de penser sera toujours un acte qui s’appuie sur des raisons et qui atteint directement son objet qui est ‘rationnel’ tandis que l’acte de croire est un acte qui n’atteint pas directement son objet, mais par le biais d’une autorité». 39 De veritate, 2, 470A, p. 178, 8. 36
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e sempre la finalità, in vista della quale qualcosa è fatto o esiste, è il criterio a partire dal quale si può trovare la definizione ricercata. Infatti il fine del dire, del pensare, del volere, del fare e dell’essere è ciò che determina il suo dover essere e quindi la sua rectitudo, che viene quindi identificata con la veritas. È vero ciò che risponde e si conforma al fine per il quale esiste o viene posto in essere e così fa o è ciò che deve. Il linguaggio 40, il pensiero 41, la volontà 42, l’azione 43, l’essere delle cose 44 trovano la loro verità nella loro rettitudine, perché allora sono veri, quando sono come devono essere e sono come devono quando compiono e realizzano la finalità per la quale esistono e che dà loro senso 45. È importante rilevare sia la riflessione anselmiana secondo la quale va ricompreso nel fare e nell’azione qualunque tipo di attività, compresa quella di volere 46, sia l’attribuzione di un valore veritativo di significazione e di espressione comunicativa ad ogni tipo di azione e di esistenza 47. Attraverso tale movimento teorico, risulta in modo più chiaramente fondato la presenza della verità in un ambito che non sia quello logico-linguistico – in cui è comunemente collocata –, quale è l’ambito etico. Da un lato l’azione guidata dalla conoscenza e dalla volontà e dall’altro l’azione che avviene per natura e ciò che esiste in natura in conformità al piano creativo divino sono i due ambiti che riassumono in sé tutte le diverse possibilità di esprimere e comunicare il proprio rapporto con il fine, che corrisponde al rapporto con la verità. Nel primo di questi due ambiti, tale rapporto non è necessariamente determinato e può quindi sussistere o meno, generando verità o falsità. Nel secondo dei due ambiti, invece, è la natura che determina in modo necessario la relazione con il fine, producendo immancabilmente una situazione di verità 48. Ciò esprime filosoficamente Cfr. ibid., 2, 469B-471B, pp. 177, 4 - 180, 4. Cfr. ibid., 3, 471BD, p. 180, 4-18. 42 Cfr. ibid., 4, 471D-472A, pp. 180, 19 - 181, 9. 43 Cfr. ibid., 5, 472A-473C, pp. 181, 10 - 183, 7. 44 Cfr. ibid., 7, 475AC, pp. 185, 6 - 186, 4. 45 Per quanto riguarda l’essere delle cose, la loro finalità è già compiuta nella loro essenza, che risponde intrinsecamente alla volontà creatrice di Dio. 46 Cfr. ibid., 5, 472D-473B, p. 182, 10-23. 47 Cfr. ibid., 9, 477D-478C, pp. 188, 25 - 189, 28. 48 Cfr. ibid., 5, 472D, p. 182, 6-10: «Animadverti potest rectitudinem seu 40 41
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quell’ordine divino del tutto che ha in Dio il proprio principio e che viene teologicamente descritto nel Cur Deus homo 49. In questo contesto, il compito del monaco è quello di comunicare la verità con la propria vita, in conformità con quanto prescrive la Regula di Benedetto: «Veritatem ex corde et ore proferre» 50. Dire la verità con il cuore significa viverla interiormente, aderirvi totalmente, in modo che ogni moto della volontà ed ogni atto siano espressione di essa. Il monachesimo di Anselmo poggia su queste parole e si interroga sul senso più profondo di esse. A partire dall’atto di fede con cui crede che la verità sia Dio, Anselmo conduce una ricerca intellettuale, tesa alla comprensione più piena della via attraverso la quale possa incarnare monasticamente la propria tensione di ricerca verso Dio. Cercare la verità è cercare Dio e questa ricerca, per essere gustata e vissuta integralmente, ha bisogno di una comprensione intellettuale che possa poi essere tradotta in chiave esistenziale. Da qui si genera la scrittura del De veritate, che conseguentemente è un’indagine sulla iustitia, ovvero sulla virtù e la moralità. Con quest’opera Anselmo inizia a chiarire a sé ed ai suoi monaci l’importanza dell’esercizio della volontà nella loro vita ascetica e continua a farlo nel De libertate arbitrii, nel De casu diaboli e nel De concordia. La verità è «rectitudo mente sola perceptibilis» 51. Q uesta definizione implica il rimando al debere, all’essere come si deve. Esso è posseduto da ogni essere che è o agisce per natura, in quanto compie il fine intrinseco che ha ricevuto come realtà creata, che è parte di un ordine armonico e bello 52. Le creature razionali, invece, hanno ricevuto il fine di conformare pienamente il loro veritatem actionis aliam esse necessariam, aliam non necessariam. Ex necessitate namque ignis facit rectitudinem et veritatem, cum calefacit; et non ex necessitate facit homo rectitudinem et veritatem, cum bene facit»; e ibid., 7, 475B, p. 185, 18-21: «M. Est igitur veritas in omnium quae sunt essentia, quia hoc sunt quod in summa veritate sunt. D. Video ita ibi esse veritatem, ut nulla ibi possit esse falsitas; quoniam quod falso est, non est». 49 In riferimento in particolare alla volontà e all’azione delle creature razionali all’interno dell’ordine delle cose cfr. Cur Deus homo, I, 11-15, 376A-381B, pp. 68, 1 - 74, 7. 50 Benedictus Nursinus, Regula, 4, 28, PL 66, [215D-932D], 295D, ed. G. Penco, Firenze 1970 (Biblioteca di studi superiori, 39), p. 38. 51 De veritate, 11, 480A, p. 191, 19-20. 52 Cfr. Cur Deus homo, I, 15, 380B e 381A, p. 73, 5-24, dove Anselmo usa la parola pulchritudo in riferimento all’universo e al suo ordine.
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essere al dover essere attraverso la volontà. Tale è il compimento della «iustitia cui laus debetur» 53, cioè della virtù morale, che costituisce la realizzazione della verità per le creature razionali ed è loro esclusiva prerogativa. Infatti la giustizia si definisce come «rectitudo voluntatis propter se servata» 54, ed implica come condizione indispensabile la conoscenza di ciò che è retto 55, ovvero dovuto, e la volontà di esso, in quanto tale. E la ratio, intesa come facoltà intellettiva, e la voluntas, intesa come capacità di autodeterminazione guidata dall’intelligenza, appartengono esclusivamente agli esseri razionali. Ricercare il vero, nel senso di conoscere il piano divino all’interno del quale ogni cosa ha una sua propria verità ed un suo significato, si manifesta come compito ineludibile per chi deve farne oggetto di scelta consapevole. Nello stesso tempo la sede propria della giustizia non può che essere ravvisata nella volontà, perché non può dirsi giusto chi conosce la rettitudine, ma non la vuole; nemmeno può dirsi giusto chi agisce rettamente, ma non vuole rettamente 56, perché ciò che conta non è un’adesione esteriore e formale alla rettitudine, ovvero alla volontà divina, ma un’adesione intima e totale ad essa, che non può non dipendere da una decisione della volontà. Essa è lo strumento su cui il monaco deve continuamente lavorare per assoggettarla completamente alla volontà di Dio. L’indagine sulla rettitudine si rivela come uno dei modi possibili per aprire una comprensione razionale su ciò che è creduto in merito all’infinità di Dio, alla natura creata e al destino dell’uomo. Dio è la somma rettitudine verso la quale tutte le cose sono in debito 57, perché sono l’estrinsecazione e l’oggettivazione della sua volontà, che le ha create finalizzandole e destinandole a sé. Ogni cosa è retta e vera, perché creata, De veritate, 12, 481A, p. 192, 27. Ibid., 482B, p. 194, 26. 55 Cfr. ibid., 481A, p. 192, 30-31: «Constat quia illa iustitia non est in ulla natura quae rectitudinem non agnoscit». 56 Cfr. ibid., 481B, p. 193, 9-13: «M. Q uid si quis recte intelligit aut recte operatur, non autem recte velit: laudabit eum quisquam de iustitia? D. Non. M. Ergo non est ista iustitia rectitudo scientiae aut rectitudo actionis, sed rectitudo voluntatis». 57 Cfr. ibid., 10, 478D, p. 190, 2-4. 53 54
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e quindi detta e voluta, da Dio e necessariamente e intrinsecamente corrispondente a ciò che deve essere. Il De veritate – come pure il Monologion – illustra l’ordine ontologico che il Cur Deus homo spiega in chiave teologica. Il creato è strutturato secondo un ordine razionale 58, in cui ogni elemento ha la sua ragion d’essere ed il suo posto preciso 59. Il De libertate arbitrii e il De casu diaboli, insieme al De concordia, completano la riflessione filosofica di natura etica iniziata nel De veritate e trovano anch’essi nel Cur Deus homo la lettura soteriologica della visione morale che presentano. Infatti, a loro volta, le creature razionali sono state create tali per discernere tra bene e male e per scegliere il bene, e tra i beni, il migliore e poter essere conseguentemente beate, secondo il piano della giustizia divina. In questo quadro, nel monachesimo anselmiano, ricerca della verità e volontà di giustizia convergono nella modalità fondamentale e propria della vita monastica, cioè l’obbedienza. Il Prologo della Regula di Benedetto indica proprio nella fatica dell’obbedienza lo strumento decisivo di cui servirsi per superare l’allontanamento da Dio dovuto alla disobbedienza 60. L’oboedientiae labor implica la rinunzia alla propria volontà 61, rinunzia che va intesa anselmianamente come l’adeguamento più perfetto possibile della propria volontà a quella divina, che nel chiostro è rappresentata dalle disposizioni dell’abate. «Abnegare semetipsum sibi, ut sequatur Christum; corpus castigare, delicias non amplecti, ieiunium amare» 62 sono alcuni degli strumenti che la Regula indica e che servono per esercitare la propria volontà a liberarsi da tutto 58 Cfr. Cur Deus homo, I, 8, 369A, p. 59, 11: «Voluntas namque dei numquam est irrationabilis». 59 Cfr. ibid., I, 12, 377B, p. 69, 15: «Deum vero non decet aliquid inordinatum in suo regno dimittere». 60 Cfr. Benedictus Nursinus, Regula, Prol., 1-2, PL 66, 215D, ed. Penco cit. (alla nota 50), p. 2: «Obsculta, o fili, praecepta magistri et inclina aurem cordis tui et admonitionem pii patris libenter excipe et efficaciter comple, ut ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras». 61 Cfr. ibid., 3, 215D-216D, p. 2: «Ad te ergo nunc mihi sermo dirigitur, quisquis abrenuntians propriis voluntatibus Domino Christo vero regi militaturus, oboedientiae fortissima atque praeclara arma sumis»; ibid., 3, 8, 288A, p. 36: «Nullus in monasterio proprii sequatur cordis voluntatem»; ibid., 4, 60, 297A, p. 40: «Voluntatem propriam odire» e ibid., 5, 7, 349B, p. 44: «(…) Voluntatem propriam deserentes (…)». 62 Ibid., 4, 10-13, 295C, p. 38.
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ciò che potrebbe dirigerla o attrarla in una direzione contraria alla volontà divina. In linea di continuità con questi consigli e coerentemente con essi, nella riflessione etica anselmiana è molto forte l’interesse per la definizione delle condizioni e dell’esercizio della volontà. Tale indagine fornisce le basi teoriche per comprendere le modalità di attuazione dell’ascesi monastica e del cammino di perfezione del monaco. La volontà è considerata come una vis, allo stesso livello e distinta dalla ratio. Da questa prospettiva voluntas e ratio sono due facoltà dell’anima che fungono da strumenti per effettuare concrete volizioni, la prima, e per produrre ragionamenti, la seconda. Ma la volontà è caratterizzata anche dalle affectiones o aptitudines 63, che sono le due tendenze fondamentali secondo le quali si muove la volontà-strumento. L’affectio è una disposizione abituale della volontà, che essa possiede anche quando non sta attualmente dirigendosi verso un oggetto – anche quando si dorme, dice Anselmo – ma che porta a volere in una determinata direzione non appena si è coscienti e si esercita la volontà. Due sono le affectiones della volontà individuate da Anselmo. Una è quella che vuole la iustitia, l’altra è quella che vuole la commoditas, intesa come tutto ciò che è utile, vantaggioso o piacevole. Q uest’ultima è sempre presente nella volontà 64, perché ogni creatura razionale vuole sempre la propria felicità, anche quando crede di raggiungerla secondo modalità o con strumenti che non la procurano. Invece l’affezione per la giustizia non è inseparabile dalla volontà 65, ma può essere perduta a causa del peccato e riacquistata con l’aiuto della grazia e l’accettazione di essa da parte della volontà stessa. È l’affezione per la felicità che deve essere disciplinata e sottomessa da quella per la giustizia e l’uso degli strumenti di mortificazione, anche corporale, indicati dalla Regula, serve proprio a questo scopo. Anselmo non nega mai il valore e l’importanza della tendenza e del desiderio di felicità 66, che anzi reputa connaturato
Cfr. De concordia, q. 3, 11, 534B, p. 279, 6-12. Cfr. ibid., 12, 537B, p. 284, 10-12. 65 Cfr. ibid., 12-14, 537B-542A, pp. 284, 8 - 288, 19. 66 Cfr. E. Recktenwald, Die ethische Struktur des Denkens von Anselm von Canterbury, Heidelberg 1998 (Philosophie und realistische Phänomenologie, 8), 63 64
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alla creatura razionale ed espressione di quella struttura ontologica finalistica che destina a Dio come pienezza di beatitudine. Si vede qui come la visione monastica dell’esercizio ascetico, della pratica della carità e del desiderio di felicità eterna riceva una spiegazione filosofica etica ed antropologica, imperniata sulla riflessione sulla volontà. Il monaco desidera Dio ed in ciò l’affezione per la giustizia e quella per la felicità trovano una conciliazione ed una composizione suprema e la vita del monaco che vive pienamente la sua vocazione è a questo punto la vita perfetta, perché realizza compiutamente il fine per il quale la creatura razionale è stata fatta. Come accennato, l’affezione per la giustizia può essere perduta nel momento in cui viene abbandonata la rettitudine, cioè con il peccato. Ciò avviene per l’esclusiva responsabilità della creatura razionale, mentre il recupero della rettitudine può avvenire soltanto perché quest’ultima è offerta dalla grazia divina e accettata dalla volontà di chi la riceve 67. Q uesto vuol dire che l’unica causa del male morale è la creatura colpevole, mentre il bene viene sempre da Dio. Rispetto ad esso la volontà può comportarsi in due modi: o rifiutarlo o accettarlo e conservarlo. Q uesta dottrina anselmiana è perfettamente coerente con quanto dichiarato dalla Regula di Benedetto, là dove afferma: «Bonum aliquid in se cum viderit, Deo adplicet, non sibi; malum vero semper a se factum sciat et sibi reputet» 68. Ciò che è sostenuto nelle opere teoretiche riceve una traduzione pastorale e di orientamento monastico nelle lettere. Per esempio, in un’Epistola indirizzata ai monaci del cenobio di Santa Werburga in Chester, si legge: «Cum enim dei sit sua gratia semper nos praevenire, nostrum est quod accipimus eius auxilio studiose custodire» 69; Anselmo ricorda ai monaci che è sempre la grazia divina che ha l’iniziativa della salvezza e va incontro agli uomini, ai quali tocca di custodire con estrema cura ciò che viene ricevuto p. 29: «Innerhalb des Horizontes der Entscheidung für die rectitudo bleibt nun das Streben nach Glückseligkeit durchaus legitim». 67 Cfr. De casu diaboli, 3, 328C-332A, pp. 236, 10 - 240, 13; e De concordia, q. 3, 3-4, 523C-525D, pp. 265, 25 - 268, 25. 68 Benedictus Nursinus, Regula, 4, 42-43, PL 66, 296C, ed. Penco cit. (alla nota 50), p. 40. Cfr. anche ibid., Prol., 29-30, 218A, p. 8. 69 Epistola ad monachos coenobii Cestrensis S. Werburgae, 80B, 231, p. 136, 15-16.
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grazie all’aiuto soprannaturale. Il dono grande elargito dalla grazia divina è la rettitudine della volontà ed è quest’ultima che ha la responsabilità di non sciupare e perdere il bene ricevuto, come dice il seguito immediato della lettera: «Nam quamvis nec habere nec servare possimus aliquid nisi per illum [scil. auxilium], perdere tamen et deficere non est nisi ex nostra negligentia» 70. Nell’Epistola ad Robertum eiusque moniales, rivolgendosi ad un gruppo di persone che vivono un’esperienza di vita comunitaria e gli chiedono un’esortazione «ad bene vivendum» 71, Anselmo risponde indicando nella volontà l’origine e l’essenza della vita morale: «Omnis actio laudabilis sive reprehensibilis ex voluntate habet laudem vel reprehensionem. Ex voluntate namque est radix et principium omnium actionum, quae sunt in nostra potestate» 72. È dalla volontà e dal modo in cui si vuole che dipendono il merito ed il biasimo, è sulla base dell’atto di volontà che le azioni acquisiscono un determinato valore, perché è l’intenzione con la quale vengono compiute ciò che conta veramente e questa è sempre presente dinanzi a Dio ed alla propria coscienza, anche se non è visibile agli occhi degli uomini. Infatti, la posizione teoretica di Anselmo sostiene che la rettitudine della volontà deve essere conservata propter se e viene tradotta in chiave pastorale, mettendo l’accento sull’interiorità dell’intenzione alla quale viene subordinato il valore dell’azione. Inoltre, Anselmo sottolinea che non è decisivo dal punto di vista morale riuscire a portare a compimento quanto intrapreso secondo giustizia, se si è in ciò impediti da forze esterne contro la propria volontà, perché la vita morale riguarda soltanto ciò che è in nostro possesso e dipende da noi ed è di ciò che siamo chiamati a rendere conto davanti a Dio 73. La responsabilità emerge, quindi, con veemenza come la chiave di interpretazione deter Ibid., 80B, p. 136, 16-18. Epistola ad Robertum eiusque moniales, 167B, 414, p. 360, 8. 72 Ibid., 167B, p. 360, 13-15. 73 Cfr. ibid., 167BC, p. 360, 15-23: «Si non possumus quod volumus, iudicatur tamen coram deo unusquisque de propria voluntate. Nolite igitur considerare tantum quid faciatis, sed quid velitis; non tantum quae sint opera vestra, quantum quae sit voluntas vestra. Omnis enim actio quae fit recta, id est iusta voluntate, recta est; et quae fit non recta voluntate, recta non est. Iusta voluntate dicitur homo iustus; et iniusta voluntate dicitur iniustus. Si ergo bene vultis vivere, voluntatem vestram indesinenter custodite, in magnis et in minimis, in iis 70 71
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minante che attribuisce alla volontà il ruolo di protagonista che essa riveste: solo della volontà siamo pienamente padroni e conseguentemente solo di essa siamo totalmente responsabili. Per quanto riguarda la sfera dell’esteriorità, ciò che importa è l’intenzione con la quale si interviene in essa, non il potere di riuscita o l’effettivo successo. Per questo motivo la coscienza 74 assurge a luogo privilegiato in cui la moralità si rivela ed accade, perché solo la coscienza custodisce in tutta la sua nudità, purezza ed essenzialità l’atto del volere e ne è testimone. Inoltre è alla coscienza che si manifesta la volontà di Dio ed è quindi la coscienza stessa a poter giudicare se la volontà del soggetto si uniforma ed aderisce a quella divina e in qual misura. Così Anselmo può consigliare le monache della comunità guidata da Roberto di misurare la rettitudine della loro volontà chiedendosi se il loro volere è sottomesso a quello divino; la risposta potrà fornirla soltanto la loro coscienza e se sarà affermativa, dovranno conservare quell’atto volontario e perseverare in esso, a prescindere dal fatto che sia possibile metterlo in pratica 75.
quae potestati vestrae subiacent et in iis quae non potestis, ne aliquatenus a rectitudine declinet». 74 Sul tema della coscienza in Anselmo ha scritto riflessioni particolarmente incisive e penetranti Biffi, La Coscienza e la Libertà cit. (alla nota 23), pp. 395-408; tutto l’articolo è estremamente interessante, ma, per quel che qui interessa più da vicino, cfr. in partic. p. 396: «La coscienza è in Anselmo esattamente la mediazione per il compimento dell’atto vero e retto – o giusto (…). La coscienza è quindi la mediazione per il compimento dell’atto libero»; ibidem: «La coscienza permette il discernimento dell’atto retto e libero e ne offre la testimonianza»; ibid., p. 402: «Il ricorso del tema della coscienza, connesso intrinsecamente ai temi della verità, della rettitudine e della libertà (…) non è considerato astrattamente da Anselmo; non è da lui teorizzato, ma risalta nel suo contenuto dottrinale nel richiamo alla sua applicazione. In altri termini: ci è dato di constatare la traduzione della teoria sulla coscienza nelle situazioni complesse di cui l’Epistolario anselmiano è descrizione e testimonianza»; e ibid., p. 407: «Essa (scil. la coscienza) è il luogo della consapevolezza e dell’emergenza della volontà di Dio». 75 Cfr. Epistola ad Robertum eiusque monalies, 167CD, p. 360, 24-33: «Si autem vultis cognoscere quae vestra voluntas sit recta: illa pro certo est recta, quae subiacet voluntati dei. Cum ergo aliquid magnum vel parvum facere disponitis vel cogitatis, ita dicite in cordibus vestris: Vult deus ut hoc velim, an non? Si vobis respondet conscientia vestra: vere vult deus ut hoc velim, et placet illi talis voluntas: tunc, sive possitis sive non possitis quod vultis, voluntatem tamen amate. Si autem conscientia vestra vobis testatur quia deus non vult vos illam habere voluntatem: tunc toto conatu avertite ab illa cor vestrum; et si bene illam
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Accettare la rettitudine che Dio dà significa realizzare la libertà, mettendo in opera quella «potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem» 76 in cui consiste la libertas arbitrii, potestas che è stata data alla creatura razionale proprio in vista della sua messa in atto. La rettitudine della volontà che Dio dà e che l’essere razionale riceve coincide con il volere la rettitudine per se stessa e non per altri scopi ed è la giustizia stessa. Essa, infatti, concerne direttamente la volontà in quanto tale che sceglie come proprio contenuto la rettitudine per se stessa e non subordinandola ad altri fini, con una purezza d’intenzione totale e tutta interiore, non visibile dall’esterno. Ciò non significa che la volontà della giustizia sia incompatibile ed escluda la volontà della felicità, che, essendo inseparabile dalla volontà stessa, non viene mai meno e non può mancare in nessun atto volontario; ma è essenziale che l’affectio commoditatis sia subordinata all’affectio iustitiae e che la seconda detti sempre la misura e i limiti alla prima. In tal modo Anselmo legittima da un punto di vista filosofico la compatibilità e la compresenza nell’itinerario monastico di desiderio di felicità e di rettitudine di vita; infatti la tensione verso la beatitudine non è altro che il desiderio di Dio e della sua giustizia, in modo tale che la pratica monastica finisce con il trasformarsi in un anticipo di paradiso sulla terra. La sottomissione alla volontà di Dio e l’uniformità della propria alla Sua volontà sono la realizzazione della giustizia ed il compimento della libertà. Lungi dall’essere una forma di alienazione umana, la rinunzia alla propria volontà, di cui parla la Regula, si manifesta come il massimo di esercizio di libertà da parte dell’uomo, perché volere ciò che Dio vuole che l’uomo voglia è il raggiungimento del fine al quale l’essere razionale è destinato. Ma si tratta di un destino che non si compie necessariamente ed indipendentemente dall’uomo, ma esige l’intervento da protagonista della volontà, che è la forza grazie alla quale il piano divino può giungere a perfezione in quell’essere che è imago dei. Per questo si deve rinnovare in lui lo stesso movimento che si realizza nella vita trinitaria 77. a vobis vultis expellere, in quamtum potestis, eius cogitationem et memoriam a corde excludite». 76 De libertate arbitrii, 3, 494B, p. 212, 20. 77 Cfr. Proslogion, 1, 227B, p. 100, 12-13: «Fateor, domine, et gratias ago, quia creasti in me hanc imaginem tuam, ut tui memor te cogitem, te amem».
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L’esercizio dell’obbedienza così realizza e ricapitola in sé verità, libertà, giustizia e felicità. L’obbedienza è la libera scelta di incardinarsi nell’ordine razionale e retto, che la sapienza divina ha creato, pronunciandolo con parola di verità, e che la giustizia di Dio ha disposto, in modo che anche l’uomo possa goderne. È la scelta che realizza l’umanità del monaco in quanto essere razionale, che opta senza costrizione per quel bene che gli permette di conseguire la beatitudine desiderata 78.
78 Cfr. Southern, Saint Anselm cit. (alla nota 2), pp. 216-227 e p. 288, dove si descrive l’idea anselmiana di libertà come «perfect obedience to the will of God: an obedience of a will so attuned to the source of order in the universe that there has ceased to be any constraint in obeying». Cfr. ancora B. Goebel, Rectitudo. Wahrheit und Freiheit bei Anselm von Canterbury. Eine philosophische Untersuchung seines Denkansatzes, Münster 2001 (BGPTMA, 56), pp. 234250 e I. Sciuto, La ragione della fede. Il Monologion e il programma filosofico di Anselmo d’Aosta, Genova 1991, pp. 303 e 305.
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IL PROBLEMA DELLA SIGNIFICAZIONE NEL PENSIERO DI ANSELMO
1. Anselmo filosofo del linguaggio? Dopo i pioneristici lavori di Desmond P. Henry è divenuta sempre più diffusa l’interpretazione del pensiero anselmiano da un punto di vista generalmente logico e specificatamente linguistico 1. Se fino a un certo punto gli studiosi avevano attribuito al pensiero anselmiano una componente eminentemente teologica, oppure avevano visto nelle frequenti riflessioni sul linguaggio dell’arcivescovo di Canterbury un momento di passaggio utile e funzionale alla sua speculazione teologica, con il passare degli anni, soprattutto in area anglosassone 2, gli approcci interpretativi al pensiero 1 Cfr. in particolare D. P. Henry, Why grammaticus?, in «Archivum Latinitatis Medii Aevi», 28 (1958), pp. 165-180; Id., The De grammatico of St. Anselm. The theory of paronymy, Notre Dame (Ind.) 1964; Id., The logic of saint Anselm, Oxford 1967; Id., St. Anselm and the linguistic disciplines, in «Anselm Studies», 2 (1988), pp. 319-322. 2 Oltre ai succitati lavori di Henry si vedano: M. L. Colish, The mirror of language: a study in the medieval theory of knowledge, New Haven 1968; Ead., St. Anselm’s philosophy of language reconsidered, in «Anselm Studies», 1 (1983), pp. 113-123; W. J. Courtenay, On the eve of Nominalism: consignification in Anselm, in «Rivista di Storia della Filosofia», 3 (1993) (= Anselmo d’Aosta: logica e dottrina), pp. 561-567; M. dal Pra, Logica e realtà. Momenti del pensiero medievale, Bari 1974; W. L. Gombocz, Über E! Zur Semantik der Existenzprädikates und des ontologischen Arguments für Gottes Existenz von Anselm von Canterbury, Wien 1974; Id., Anselm über Sinn und Bedeutung, in «Anselm Studies», 1 (1983), pp. 125-141; I. Sciuto, La semantica del nulla in Anselmo d’Aosta, in «Medioevo», 15 (1989), pp. 39-66; M. McCord Adams, Re-reading De grammatico or Anselm’s introduction to Aristotle’s «Categories», in «Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale», 11 (2000), pp. 83-114; J. Marenbon, Some semanticproblems in Anselm’s De grammatico, in Latin culture in the eleventh century, ed. by M. W. Herren – C. J. McDonough –
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 211-235 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112918
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di Anselmo si caricano di una valenza eminentemente logicolinguistica, fino a vedere una connessione tra la sua speculazione filosofica sul linguaggio non solo con il pensiero logico-linguistico della tarda scolastica, ma anche con i moderni approcci della logica. Voler interpretare un pensatore come Anselmo d’Aosta privilegiando l’uno o l’altro aspetto del suo pensiero sembra, però, alquanto limitativo: innanzitutto non si può dimenticare che il pensiero anselmiano, nella sua interezza, è connotato dalla profonda esigenza di approfondire, da un punto di vista razionale, gli argomenti di fede e dunque sempre orientato, anche quando oggetto di riflessione è il linguaggio, all’approfondimento di tali argomenti. Non si può trascurare, inoltre, il fatto che Anselmo scriva le sue maggiori opere rivolgendosi a una platea di lettori operante all’interno di un contesto ben definito e specificato da alcune caratteristiche: l’ambiente monastico. Tali caratteristiche hanno avuto un’importanza decisiva sia nella sua formazione iniziale, sia nel momento in cui Anselmo farà sua l’esigenza, apparentemente lontana dal procedere mistico della teologia monastica, di rendere intelligibili alla mente umana gli argomenti di fede 3. Ciò significa che, anche quando si valuta l’Anselmo logico, o l’Anselmo filosofo del linguaggio, vanno tenuti presenti alcuni aspetti: innanzitutto R. G. Arthur, Turnhout 2002; P. King, Anselm’s philosophy of language, in The Cambridge companion to Anselm, a c. di B. Davies – B. Leftow, Cambridge 2004, pp. 84-110. 3 A testimoniare e documentare una diversità di principi metodologici, più che altro formali, tra il metodo anselmiano e il metodo monastico, vi è lo scambio epistolare tra Anselmo e il suo maestro del Bec, Lanfranco di Pavia: tali documenti ci mostrano tutta la perplessità del vecchio maestro di fronte alla forma e al procedere metodologico con cui Anselmo aveva proposto la sua meditazione religiosa, senza mai ricorrere all’autorità dei Padri e senza alcun riferimento esplicito alla Scrittura, in particolare in occasione della pubblicazione del Monologion. Una perplessità, quella di Lanfranco, ancora più accentuata dal fatto che egli si era già reso protagonista, in tempi non troppo lontani, di un ulteriore dissidio, dovuto a medesime ragioni, con l’eretico Berengario di Tours. Il testo delle lettere anselmiane è in Epistolae ad Lanfrancum, 1134C-1135E e 1138D-1139C, 63 e 68, pp. 193-194 e 199-200. Una puntuale e precisa analisi del dibattito tra Lanfranco e Anselmo è fornita in C. Viola, Lanfranc de Pavie et Anselme d’Aosta, in Lanfranco di Pavia e l’Europa del secolo xi, nel IX centenario della morte (1089-1989), Atti del Convegno internazionale di studi (Pavia, 21-24 settembre 1989), a c. di G. d’Onofrio, Roma 1993, pp. 542-547; G. d’Onofrio, Anselmo d’Aosta, in Storia della Teologia nel Medioevo, dir. di G. d’Onofrio, 3 voll., Casale Monferrato 1996, I, I princìpi, [pp. 481-553], p. 487.
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è da considerare il ruolo giocato da alcuni argomenti teologici nella strutturazione complessiva della sua teoria del linguaggio; va poi posta nel giusto rilievo l’importanza di una particolare concezione della significazione linguistica operante all’interno del contesto monastico; e infine non si può trascurare quanto una concezione del linguaggio di tipo mistico-monastico, proveniente da un particolare sfondo teologico, possa rappresentare un limite alla volontà di chiarificazione razionale degli argomenti di fede. Tenendo presenti questi aspetti, con il presente scritto ci proponiamo di indagare innanzitutto il contesto dal quale emerge la strategia logico-linguistica anselmiana. Una tale indagine non è un problema di poco conto: nella formazione della linguistica medievale tout court si assiste allo scontro, e all’incontro, di due paradigmi o modelli filosofici che potremmo definire aristotelismo linguistico e platonismo linguistico 4; la posizione di Anselmo sembra collocarsi proprio al centro di questo incontro-scontro, assorbendo diverse caratteristiche e problematiche (dell’uno e dell’altro paradigma), delle quali, naturalmente, dovremo dar conto 5. Inoltre, come già osservato, il pensiero di Anselmo, dun4 Era stato Jean Jolivet, in un saggio del 1966, a usare per la prima volta l’espressione «platonisme grammatical», volendo significare con tale espressione una tendenza, presente in alcuni autori operanti tra il secolo vi e il secolo xii, soprattutto in un contesto grammaticale, a calare la strategia metafisica dei dialoghi platonici in tale contesto; cfr. J. Jolivet, Q uelques cas de «platonisme grammatical» du vie au xiie siècle, in Mélanges offerts à René Crozet, Poitiers 1966, pp. 93-99. Anche in un successivo lavoro, lo stesso Jolivet tornava su questa strategia platonica, caratteristica, secondo lo studioso francese, della speculazione grammaticale dei secoli vii-xii, conducendo in questo caso un’approfondita analisi della tematica grammaticale dei paronimi, proveniente dalle Categorie aristoteliche, ma oggetto di una trattazione tipicamente platonizzante negli autori da lui studiati; cfr. Id., Vues médiévales sur les paronymes, in «Revue internationale de philosophie», 113 (1975), pp. 222-242. Chi legge l’intera linguistica medievale in termini di influenza ora aristotelica, ora platonica è A. Maierù, Filosofia del linguaggio, in Storia della linguistica medievale, a cura di G. C. Lepschy, 3 voll., Bologna 1990, II, pp. 101-137. 5 Jan Pinborg, in un cruciale passo del suo testo più celebre (J. Pinborg, Logik und Semantik im Mittelalter, Stuttgart – Bad Cannstatt 1972, p. 43 [tr. it., Torino 1984, p. 48]), affermava: «Die Logik Anselms kann gewissermaßen als Beispiel für die ganze mittelalterliche Logik gelten. 1. Sie zeigt, wie die mittelalterliche Logik aus der Arbeit mit der Logica Vetus, vor allem mit den Kategorien und mit Perihermeneias, herauswächst. 2. Es begegnet uns bei ihm ein Beispiel der Verschmelzung von Grammatik und Logik, die für das 12. Jahrhundert typisch ist». Ora, è da notare che questi aspetti su cui Pinborg richiama l’attenzione, in particolare la logica vetus, sono dei temi di derivazione aristotelica, ma
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que anche la sua filosofia del linguaggio, ha sempre uno sfondo teologico; oggetto e scopo del suo pensiero è sempre il Sommo Essere, o summa natura, come viene indicata nel Monologion 6. E allora è imprescindibile un ulteriore quesito circa la portata effettiva di una strategia logico-semantica in Anselmo: che ruolo gioca la teologia anselmiana nella strutturazione di una riflessione logico-linguistica? Cosa accade quando oggetto di denotazione linguistica non è un ente semplice, ma il Sommo Ente, non una natura semplice, ma la summa natura?
2. Il problema della significazione «Tantam enim vim huius probationis in se continet significatio, ut hoc ipsum quod dicitur, ex necessitate, eo ipso quod intelligitur vel cogitatur (…) revera probetur existere» 7. Con queste parole Anselmo si sta avviando alla conclusione della sua Risposta alle obiezioni di Gaunilone; e proprio in questo modo Anselmo ribadisce il nucleo centrale non solo del suo argomento, ma dell’intero Proslogion 8. Proviamo a seguire il ragionamento di Anselmo: il significato di quell’enunciato, o meglio ciò che è significato dall’enunciato è l’«aliquid quo maius nihil cogitari potest», ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore; che per essere ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore deve necessariamente essere, perché se non fosse non sarebbe ciò di cui non si può pensare nulla Anselmo, come ogni logico dell’undicesimo secolo, non può non confrontarsi con altre tematiche di derivazione platonica che solo indirettamente rientrano nella speculazione logico-linguistica, essendo primariamente di derivazione teologica, ma che finiscono poi per caratterizzare l’intera tradizione linguistica successiva: ci riferiamo in particolare al problema dell’origine dei nomi e della nominazione/ creazione divina, di derivazione biblica, e all’interpretazione linguistico-grammaticale degli Opuscula sacra di Boezio. 6 Il riconoscimento, secondo Anselmo, dell’esserci necessario di una natura superiore a tutte le altre è il presupposto e punto di partenza del Monologion (cfr. Monologion, 1, 144 BC, pp. 13, 5 - 15, 4). 7 Responsio, 10, 260A, pp. 138, 31 - 139, 3. 8 Scopo del Proslogion, come si sa, è sondare la possibilità, da parte dell’intelletto, di penetrare direttamente i contenuti della fede. Ma questo tentativo dovrà essere, per Anselmo, condotto a partire dalla fede; è la fede che si mette in cammino per cercare intelligenza e dovrà farlo nella immediatezza della realtà del pensiero che si produce in essa quando la fede pronuncia la parola «Deus». Ecco perché il titolo primitivo del Pros-logion era Fides quaerens intellectum. Su questo si veda G. d’Onofrio, Anselmo d’Aosta cit., pp. 502-503.
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di maggiore o, per esprimerci con le parole di Anselmo, ciò di cui non si può pensare il maggiore sarebbe ‘ciò di cui si può pensare il maggiore’ 9. L’enunciato, riguardante Dio, che è esprimibile da un parlante, tramite espressioni significative, è compreso dal parlante e dall’uditore e dunque, per il fatto di essere espresso e compreso, ciò che si esprime è. Ossia esiste, è presente o per lo meno rappresentabile. Ma, seguendo la logica di Anselmo, se è rappresentabile è 10. Ora, tutto questo varrebbe solo per la parola che significa Dio, o per l’enunciato che vuole caratterizzare Dio come ciò di cui non si può pensare il maggiore, e questo perché, sempre seguendo il ragionamento anselmiano, Dio è il solo ente da cui è possibile ricavare l’esistenza dalla semplice comprensione della parola che lo significa o dall’enunciato che lo definisce 11. Cfr. Proslogion, 2, 228A, pp. 101, 12 - 102, 3. Q uest’aspetto sarà una costante soprattutto nelle riformulazioni moderne dell’argomento ontologico, in particolare in Cartesio e Leibniz, nei cui sistemi è cruciale la deduzione dell’esistenza di Dio dalla semplice posizione del giudizio circa la sua esistenza: il giudizio «Dio esiste» è necessariamente vero perché, in Cartesio, si può separare tanto poco l’esistenza dall’essenza di Dio quanto poco è possibile scindere dall’essenza del triangolo il fatto che la grandezza dei suoi tre angoli corrisponda a due retti. Mentre in Leibniz, invece, è la pura possibilità logica del giudizio su Dio a mostrarne la verità, poiché non vi è contraddizione tra l’essenza di Dio, in quanto comprende tutte le perfezioni, e la sua esistenza. Per la discussione di queste posizioni cfr. D. Heinrich, Der ontologische Gottesbeweis, Tübingen 1967, pp. 10-22 und 45-55 (tr. it., Napoli 1983, pp. 29-43 e pp. 69-80). Ciò che ci sembra di poter rilevare è come in queste posizioni ci si muova in un contesto di logica degli enunciati, all’interno dei quali si pone il problema della verità o della falsità. Il contesto particolare del pensiero anselmiano che vorremmo prendere in considerazione è quello riguardante il rapporto tra il nome, la cosa e la loro rispettiva corrispondenza; ci troviamo, dunque, in un contesto di logica del termine, all’interno del quale non si pone il problema della verità o della falsità: una cosa significata da un termine può semplicemente essere, ma non essere vera (in senso stretto). Ora, si tratta di capire se, in Anselmo, un’operazione di tal genere è possibile, ossia se è possibile parlare di significazione senza che sia implicato, necessariamente, un valore veritativo di questa significazione e quanto questo valore veritativo imponga un rispettivo, correlato, valore ontologico. 11 Andrebbe nuovamente posta, come abbiamo già fatto nella nota precedente, la differenza tra la semplice parola che significa e l’enunciato che è anche vero o falso; ma nel costruire la sua strategia significativa, Anselmo non ha in mente un unico criterio di validità, sia nella logica del termine, sia in quella degli enunciati? E questo criterio non è lo stesso, dal punto di vista logico (e non dal punto di vista, diremmo così, ontoteologico), sia nella parola/enunciato che significa Dio, sia nella parola/enunciato che significa una qualsiasi entità? In questa direzione va, in fondo, anche il magistrale studio di M. Dal Pra, Discorso, concetto e realtà nel pensiero di Anselmo, in Id., Logica e realtà cit., [pp. 3-44], p. 21. 9
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Senza voler fare della prova ontologica un paradigma per ogni forma di significazione o un modello esemplare di come funzioni la corrispondenza tra parole e cose, c’è quantomeno da chiedersi (premesso che la prova ontologica sarebbe valida per alcune peculiarità attribuite a Dio e alla Sua natura e non per le regole della semantica) se il cardine di tale prova non sia appunto di natura semantica 12. Non vi deve essere una strategia semantica complessiva per rendere funzionante l’intera prova? E se tale strategia è effettivamente presente in Anselmo, non c’è il rischio che essa diventi operativa sia nella prova, sia nella significazione di un’entità qualsiasi? E allora, per poter dare, non una risposta, ma una caratterizzazione più precisa a tali quesiti, si impone un’analisi generale di ciò che per Anselmo è la significazione. Molti autorevoli studiosi della filosofia del linguaggio anselmiana hanno fatto notare come l’impianto generale della teoria della significazione in Anselmo sia essenzialmente di derivazione agostiniana 13. Va però notato come, anche per apportare al dibattito scientifico su questi temi un diverso contributo, nel voler precisare la teoria del significato in Anselmo non è solo ad Agostino che si debba far riferimento, ma a un contesto più vario (quello che più sopra abbiamo definito lo scontro, e l’incontro, del platonismo linguistico e dell’aristotelismo linguistico); e, parallelamente, non è solo alla storia della semantica che dobbiamo guardare, quando si cerca di dare una caratterizzazione precisa dei fenomeni linguistici in ambito medievale, ma anche a quelle che sono le influenze provenienti dalla teologia. 12 La bibliografia sull’argomento ontologico è sconfinata; per i fini del presente lavoro ci sembra utile rimandare, da un lato, a trattazioni di carattere generale: K. Barth, Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenz Gottes, München 1931 (Zollikon 19582) (tr. it., Milano 1965); L’argomento ontologico, a c. di M. M. Olivetti (= «Archivio di Filosofia», 58 [1990]); Dio e la ragione. Anselmo d’Aosta, l’argomento ontologico e la filosofia, a c. di L. Perissinotto, Genova 1993 (Dipartimento di filosofia dell’Università di Genova, Annuario, 1992); dall’altro, a quelle opere che, pur non dedicate espressamente e interamente ad Anselmo, cercano di cogliere la logica sottesa all’argomento, analizzando anche gli sviluppi successivi della sua fortuna, in particolare in epoca moderna: Heinrich, Der ontologische Gottesbeweis cit. (alla nota 10); E. Scribano, L’esi stenza di Dio. Storia della prova ontologica. Da Descartes a Kant, Bari 1994; V. Vitiello, Cristianesimo senza redenzione, Roma – Bari 1995, in partic. pp. 5-33. 13 Lo studio più esplicito e completo su questa prospettiva interpretativa è sicuramente King, Anselm’s philosophy of language cit. (alla nota 2), pp. 84-110.
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Innanzitutto c’è da dire che la posizione logico-linguistica e teologica di Anselmo si comprendono meglio tenendo presente non solo la forte incidenza della prospettiva platonico-agostiniana sul suo pensiero, ma anche ciò che si presenta come una compiuta riformulazione di tale prospettiva da parte dell’arcivescovo di Canterbury: l’innovazione anselmiana consiste «nell’avere immediatamente posto, come oggetto primo (…) la ricerca di una rectitudo nell’idea in cui l’uomo cerca di rappresentare Dio stesso» e dunque la verità, che è indagabile, e dunque rappresentabile, solo tentando di ricostruire e descrivere «nella misura possibile, la corrispondenza tra l’ordo verborum del pensiero-linguaggio umano e l’oggettività dell’ordo rerum pensato-pronunciato da Dio» 14. La corrispondenza tra questi piani è la rectitudo di cui parlavamo prima, e recta deve essere la scienza che permette all’uomo di conoscere il rapporto sussistente tra il piano delle parole e il piano delle cose, ossia la dialettica; ora, per Anselmo la correlazione tra parole e cose ha un nome: significatio 15. Ma, per far sì che tutto ciò 14 d’Onofrio, Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 4), pp. 488-490. Cfr. inoltre Id., Tra antiqui e moderni. Parole e cose nel dibattito teologico altomedievale, in Comunicare e significare nell’Alto Medioevo, 2 voll., Spoleto 2005 (Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 52), II, pp. 821-886; e Id., Q uando la metafisica non c’era. Vera philosophia nell’Occidente latino ‘pre-aristotelico’, in Metaphysica – sapientia – scientia divina. Soggetto e statuto della filosofia prima nel Medioevo, Atti del Convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (Bari, 9-12 giugno 2004), a c. di P. Porro, Turnhout – Bari 2005 [=Q uaestio», 5 (2005)], pp. 103-144. 15 Il termine significatio per indicare la corrispondenza tra parole e cose è naturalmente problematico: infatti con significatio si intende, almeno da Agostino a Tommaso, non il rapporto diretto tra vox e res, ma quello tra il correlato mentale di un’espressione linguistica (definito di volta in volta: cogitatio, intellectus, species), secondo la nota definizione di Agostino (Augustinus Hipponensis, De doctrina cristiana, II, 1, 1, PL 34, 35-36, ed. J. Martin, Turnhout 1981 [CCSL, 32], p. 32): «Signum est enim res praeter speciem, quam ingerit sensibus, aliud aliquid ex se faciens in cogitationem venire»; mentre per il rapporto diretto tra vox e res si usavano, preferibilmente, in questi autori espressioni come designatio, nominatio, denotatio, appellatio. Per la discussione di questi temi e per le occorrenze terminologiche si veda lo studio di U. Eco, Denotation, in On the medieval theory of signs, a c. di U. Eco – C. Marmo, Amsterdam – Philadelphia 1989, [pp. 43-77], pp. 49-56. In questo studio Eco mostra anche come, con il nascere e il diffondersi dell’idea di suppositio, molti autori, a cominciare da Bacone e Ockham, vadano a intendere il termine significatio come il rapporto diretto, senza la mediazione di ulteriori operazioni o enti mentali, tra la parola e la cosa. Ora, Anselmo apparterrebbe, secondo Eco, al gruppo che vede la significazione come il rapporto non diretto tra nome e cosa, dove questo rapporto, di referenza, sarebbe indicato dal termine appellatio; ma a ben vedere, e lo faremo seguendo
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funzioni, c’è bisogno che vi sia una particolare concezione della significazione linguistica; non è, infatti, grazie a questa particolare concezione che è possibile ad Anselmo apportare le novità, sopra ricordate, allo schema platonico-agostiniano del quale anch’egli si fa portavoce? E non è sempre una particolare concezione della significazione linguistica che gli permette di tenere insieme quella che è stata definita «una delle produzioni teologiche più compatte e omogenee dell’intera età medievale» 16? E infine, non è ancora una particolare concezione della significazione linguistica che permette ad Anselmo di formulare la sua prova ontologica per dimostrare l’esistenza di Dio? Nella vasta produzione teologico-filosofica dell’arcivescovo di Canterbury vi è solo una piccola opera dedicata alla significazione linguistica o più in generale alla problematica del segno, mentre vi sono numerosissimi cenni e riferimenti sparsi in quasi tutti i suoi scritti. Q uest’ultimo aspetto non è un fatto privo di importanza; infatti, come rilevato più sopra, il tema della significazione in generale, e quello della significazione linguistica in particolare, è ciò che permette ad Anselmo non solo di apportare novità fondamentali al sapere teologico, ma anche di distrile varie occorrenze in diverse opere anselmiane del termine significatio, vi è un utilizzo più vario e complesso del termine, e proprio questa varietà e complessità di utilizzi fa della significazione una questione problematica. Per il momento, basta accennare al fatto che nello studio di Eco il solo riferimento testuale è al De grammatico, all’interno del quale effettivamente vengono posti la differenza tra appellatio e significatio e il rispettivo modo di riferirsi a una sostanza o a una qualità; non viene però, in tale testo, posta la problematica del riferimento diretto a una res o ad una conceptio mentis. Q uesto avviene in altri testi, che rendono più vario e complicato il quadro, a cui facciamo riferimento ora velocemente, per poi rimandare a una loro approfondita analisi più avanti: nel De potestate si discute dell’aliquid che rende significativa una vox, individuando quattro diversi modi di essere di questo aliquid di cui uno solo è proprio; nel De grammatico è posta la differenza tra significato diretto e indiretto, ma solo le parole che hanno significato diretto sono propriamente parole con significato; nel De veritate un enunciato significa rettamente quando significa ciò che deve, ma significa ciò che deve quando significa come stanno le cose; e infine nel Monologion sono tre i modi di significare di cui uno solo è utile a mostrare come stanno le cose. Ora, ciò che rende problematica la tematica della significazione in Anselmo è sì la questione del rapporto tra vox, res e la mediazione di una conceptio mentis (o passio animae), ma anche, e soprattutto, questo differente modo di darsi della significazione: propria, diretta, retta, utile. Per la discussione di questi temi, con le opportune citazioni, si veda infra. 16 d’Onofrio, Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 3), p. 486.
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care le più intricate e complesse questioni teologiche: è la problematica del segno e della significazione, in particolare linguistica, infatti, che permette la corretta meditazione sulle ragioni della fede o che consente alla fede di mettersi in cammino per cercare l’intelligenza. Ed è la significazione che entra in gioco ancora nella disputa trinitaria o in quella sugli universali con Roscellino. Ed è ancora questa tematica ad avere un peso notevole nelle questioni riguardanti il male, la volontà e il libero arbitrio 17. Giunti a questo punto, però, non possiamo eludere alcuni quesiti: un utilizzo tanto diffuso di questo particolare dispositivo che è la significazione, anzi di una particolare concezione della significazione, non pone dei problemi alla strategia filosofica anselmiana? Ossia, dove il problema del segno linguistico incontra il problema teologico, non si pongono delle questioni difficilmente eludibili con la semplice posizione di una teoria piuttosto che un’altra? Detto diversamente: non ne va della stessa teo-logia, ossia del logos che vuole significare Dio, in questa teoria linguistica di Anselmo? Tali questioni vanno senz’altro approfondite e meglio specificate, ma prima dovremo meglio precisare cosa intende Anselmo per significatio.
3. Platonismo linguistico e aristotelismo linguistico Alla base di ogni forma di teorizzazione e interpretazione dei fenomeni del segno e del linguaggio, gli studiosi moderni hanno individuato due modelli filosofici, che andrebbero a creare due concezioni della significazione (talora interpretate come alternative). Vi è innanzitutto una concezione della significazione linguistica di tipo platonizzante, in cui esiste un forte isomorfismo tra linguaggio e realtà, tra parole e cose 18. Ora, una tale elaborazione concettuale giungeva ai primi autori medievali attraverso la mediazione dello stoicismo, del neoplatonismo e dell’aristotelismo adottati dalla tradizione latina tardoantica. Ma senz’altro 17 Su questi ultimi aspetti cfr. Sciuto, La semantica del nulla in Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 2); G. d’Onofrio, «Q uod est et non est». Ricerche logicoontologiche sul problema del male nel Medioevo pre-aristotelico, in «Doctor Seraphicus», 39 (1991), pp. 13-35. 18 Cfr. Jolivet, Q uelques cas de «platonisme grammatical» cit. (alla nota 4), p. 93; Maierù, Filosofia del linguaggio cit. (alla nota 4), pp. 101-108.
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l’aspetto che contribuisce a diffondere e radicare nei primi autori cristiani un tale punto di vista sul linguaggio di stampo platonizzante è il fatto che essa potesse sposarsi perfettamente con quanto i suddetti autori trovavano scritto nella Bibbia: nel Genesi, Dio crea le cose dicendole e nominandole; e nominandole, o meglio appellandole, le fa essere. Innanzitutto le cose sono perché dette e nominate da Dio; ma, ancora, dopo aver detto/creato la luce, il giorno e la notte, il cielo e la terra, le acque brulicanti di esseri viventi e gli uccelli che volano nei cieli, Dio fa l’uomo a sua immagine e somiglianza, ossia dotato di linguaggio, e lo fa insufflando nelle sue narici il suo flatus, ossia la materia con cui è fatta la sua voce creatrice. E all’uomo dona tutto il creato affinché ne possa disporre, ma il creato è esperibile, e a disposizione dell’uomo, solo attraverso un successivo atto di imposizione dei nomi alle cose da parte dell’uomo stesso 19. È questo uno dei motivi per cui una tale concezione di tipo platonizzante, agli albori del Medioevo, venne fatta propria da quegli autori che pur trovandosi a operare avendo a disposizione un patrimonio di testi di origine pagana, dovevano, in quanto cristiani, basarsi innanzitutto sul dettato biblico. Isidoro di Siviglia fu senz’altro un esempio di questa tendenza. All’interno della sua trattazione enciclopedica egli caratterizza la grammatica come la prima delle arti liberali, che sta a fondamento di tutta la successiva acquisizione del sapere, in quanto mette in opera le quattro componenti (analogia, etimologia, glossa e differenza) che definiscono, appunto, il carattere totalizzante della grammatica. Infatti, come scrive Alfonso Maierù, «se la differenza mira ad individuare il significato di una parola distinguendolo da quello di altra di senso opposto (re, tiranno), l’etimologia dà accesso al senso profondo della parola e in definitiva all’essenza delle cose significate (…), mentre l’analogia ricompone la conoscenza in una sintesi strutturata seguendo il filo delle somiglianze con un processo dal 19 Cfr. Gn 1-2. Sulla concezione di Adamo come primo impositore della parola vi è una tradizione lunghissima che dura tutto il Medioevo (da Varrone ad Agostino, da Prisciano fino alla Grammatica speculativa) e che culmina nell’interpretazione dantesca nel quarto capitolo del primo libro del De vulgari eloquentia, la dottrina del cosiddetto primiloquium; cfr. a tal proposito A. Raffi, La gloria del volgare. Ontologia e semiotica in Dante. Dal «Convivio» al «De vulgari eloquentia», Soveria Mannelli, pp. 160-177; M. Corti, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Torino 1993, pp. 87-95.
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noto all’ignoto, e la glossa mette a frutto, per l’esplicazione di un termine difficile, la conoscenza già acquisita fornendo il sinonimo di esso» 20. Q uesta prospettiva isidoriana, come non hanno mancato di rilevare Maierù e Jolivet, è platonizzante proprio perché caratterizzata da un forte isomorfismo tra linguaggio e realtà, dove i nomi rimandano, e hanno sempre la capacità di rimandare, all’essenza delle cose 21. Nella lettera di Fridugiso di Tours De substantia nihili et tenebrarum tale concezione assume il valore di un vero e proprio paradigma, perché con questo autore inizia una tendenza fondamentale per la successiva riflessione: quella di vedere innanzitutto l’origine dell’universo dei nomi nella stessa iniziativa divina che istituisce l’universo delle cose, ma anche la volontà di Dio di far corrispondere l’uno all’altro e la necessità di tale corrispondenza 22. Q uesto platonismo grammaticale, definito da Jolivet «ignorant de Platon» 23, raggiunge il suo culmine con Teodorico di Chartres. Con questo autore, secondo gli studiosi 24, si colmano delle lacune importanti: innanzitutto, da un punto di vista testuale, fa la sua comparsa nella speculazione medievale il vero Platone. Inoltre si colma una lacuna tematica: se fino a ora il rapporto di significazione era stato inteso come un rapporto diretto 20 Maierù, Filosofia del linguaggio cit. (alla nota 4), p. 102; e cfr. Isidorus Hispalensis, Etymologiarum sive originum libri XX, I, PL 82, [73-728], 73A-124C, ed. W. M. Lindsay, 2 voll., Oxford 1911, I, pp. 2-31. 21 Jolivet usa l’espressione «similitude entre le noms et les choses»: cfr. Jolivet, Q uelques cas de «platonisme grammatical» cit. (alla nota 4), p. 95; mentre Alfonso Maierù parla di una «densità ontologica», riconosciuta ai nomi, che li eguaglierebbe alle cose: cfr. Maierù, Filosofia del linguaggio cit. (alla nota 4), p. 102. 22 È questo il motivo di fondo che il ragionamento di Fridugiso lascia intendere. Cfr. Fredegisus Turonensis, De substantia nihili et tenebrarum, PL 105, [731-756], 752B, ed. E. Dümmler, in MGH, Epistolae, 4, Epistolae Karolini Aevi, 2, Berlin 1985, [pp. 552-555], p. 553, 8-22: «Omne itaque nomen finitum aliquid significat, ut homo, lapis, lignum. Haec enim uti dicta fuerint, simul res, qua significant intellegimus (…). Omnis significatio eius significatio est, quod est»; ma il tutto è sostenuto dall’autorità divina: «Q uoniam vero ad demostrandum, quod non solum aliquid sit nihil, sed etiam magnum quiddam, paucis actum est ratione, cum tamen possint huiusmodi exempla innumera proferri in medium, ad divinam auctoritatem recurrere libet, quae est rationis munimen et stabile firmamentum». 23 Jolivet, Q uelques cas de «platonisme grammatical» cit. (alla nota 4), p. 98. 24 Cfr. Maierù, Filosofia del linguaggio cit. (alla nota 4), p. 103.
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tra nome e cosa, un rapporto che aveva la garanzia di una densità ontologica proveniente dall’iniziativa divina, con Teodorico fa la sua comparsa, accanto al nome e alla cosa, la forma 25. I nomi, per Teodorico, non solo esprimono l’essenza della cosa, ma in qualche modo la fondano, tutto questo perché nomi e cose sono eternamente uniti nella mente divina 26. Ora, è possibile far risalire anche la teoria della significazione di Anselmo a questa linea di tendenza? È caratterizzabile, una tale speculazione linguistica, come semplicemente platonica? Prima di soffermarci, con più precisione, sui riferimenti anselmiani alle problematiche del segno e del linguaggio, c’è da fare ancora qualche considerazione preliminare sulla linea platonizzante della linguistica medievale. Q uali che siano l’origine, le influenze, gli esiti di questo platonismo linguistico o grammaticale, possiamo ritenerlo un platonismo ignorante di Platone, forse perché ignora il testo che ha contribuito a fondare tale tendenza: il Cratilo. Senza entrare troppo nel merito, è sufficiente dire che in questo dialogo ciò che viene discusso è l’ὀρθότης τῶν ὀνομάτων, la correttezza dei nomi, e tale ὀρθότης è ricercata tramite la preliminare confutazione di due tesi sull’origine e il funzionamento, contro le quali Platone prende decisamente posizione: quella convenzionalistica e quella naturalistica. L’intervento di Socrate, che è come al solito innanzitutto elenctico, ossia confutativo delle due tesi, non mira però a dire cosa siano le parole o in cosa consista la loro correttezza, ma sposta il focus della questione dal contrasto natura/convenzione alla ricerca della natura della relazione significativa fra la voce e la cosa. Dall’analisi platonica emerge che tale funzione referenziale è attuata dal nome inteso come δήλωμα, come atto ostensivo. Nell’ambito del Cratilo il verbo δηλόω (mostrare) e i sostantivi da esso derivati hanno la funzione di specificare il tipo di azione 25 In questi primi autori è totalmente ignorato il ruolo delle idee o delle forme; il loro ruolo è tenuto da forme non ontologiche, ma grammaticali. Inoltre, se nel Sofista era il dialettico a orientarsi nel mondo delle forme, in questi autori è il grammatico che assume questa funzione. Sul ruolo del dialettico in Platone, e sui risvolti ontologici di tale arte, cfr. le illuminanti pagine di F. Fronterotta, Introduzione, in Platone, Sofista, Milano 2007, [pp. 3-74], pp. 60-74. 26 Theodoricus Carnotensis, Lectiones in Boethii librum De trinitate, II, 52-53, ed. N. M. Häring, in Commentaries on Boethius, a c. di N. M. Häring, Toronto 1971, [pp. 125-402], p. 172: «Unde patet quod nomina res essentiant. (…) Per quod notatur quod rebus vocabula unita sunt in mente divina».
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che si compie nominando: quando si nomina si mostra una cosa. L’utilizzo di questi termini è fondamentale: Platone non vuole dirci che il nome indica la cosa, ma che la mostra 27. L’altro modello è quello aristotelico del De interpretatione, modello che viene ricordato come il cosiddetto triangolo semantico 28. Aristotele, anche in maniera critica nei confronti di Platone, cerca decisamente di spostare l’asse dell’analisi dalla funzione rivelativa del linguaggio a quella più pragmatica, o se vogliamo funzionale; in tal modo, secondo lo Stagirita il significato o la funzione dei nomi deve essere inquadrata come quella che Bottin ha definito «una buona tecnica del rapporto tra voci, concetti, o meglio affezioni dell’anima, e cose» 29. Il passo del De interpetatione lascia però irrisolti alcuni problemi: la questione del rapporto naturale sussistente tra affezioni dell’anima (παθήματα τῆς ψυχής) e cose (πράγματα) o il problema di come le parole (φώναι) simbolizzino le affezioni 30. Ora, questo punto di partenza già complesso viene L’intenzione platonica di accentuare la differenza tra ‘indicare’ e ‘mostrare’, quest’ultimo con valore di ‘svelare’ o ‘rivelare’, è data, nel Cratilo, dall’utilizzo di due verbi differenti: quando all’interno del dialogo Socrate ironizza sulle teorie dei suoi avversari, Platone utilizza, nel dire che il nome indica la cosa quale è, il verbo ενδείκνυμι (ad esempio in Plato, Cratilus, 428e), mentre δηλόω per ‘mostrare’ l’essenza della cosa (ad esempio in ibid., 423a-b oppure 433b). Ma la differenza tra indicare e mostrare è data anche dalla valenza semantica differente che c’è tra le prime occorrenze di δηλόω (in ibid., 393d-e) e l’utilizzo di δήλωσιν (in ibid., 435b) alla fine del dialogo, dopo che Socrate ha guadagnato una posizione più solida circa la dimostrabilità dell’essenza delle cose. Per la caratterizzazione di queste differenze terminologiche e le relative occorrenze si veda F. Aronadio, Introduzione, in Platone, Cratilo, Roma – Bari 1996, pp. V-XLV. A insistere sulla funzione rivelativa del nome nel Cratilo è G. Manetti, Le teorie del segno nell’antichità classica, Milano 1987, pp. 92-97. 28 Cfr. Aristoteles, De interpretatione, 1, 16a, 3-8: «Ora, i suoni che sono nella voce sono simboli delle affezioni che sono nell’anima, e i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce. E come neppure le lettere dell’alfabeto sono identiche per tutti, neppure le voci sono identiche. Tuttavia ciò di cui queste sono segni, come di termini primi, sono affezioni dell’anima identiche per tutti, e ciò di cui queste sono immagini sono le cose, già identiche». Una interpretazione di questo passo è fornita da D. Charles, Aristotle on names and their signification, in Companions to ancient thought. 3: Language, ed. S. Everson, Cambridge – New York 1994, pp. 37-73. 29 F. Bottin, Filosofia medievale della mente, Padova 2005, pp. 21-22. 30 Se le voci sono segni delle affezioni e non sono identiche presso tutti i popoli, questo significa che tra voci e affezioni vi è un rapporto di convenzionalità stabilito arbitrariamente dai parlanti, laddove tra affezioni e cose vi è un rapporto di naturalità, essendo le affezioni immagini delle cose, e dunque uguali presso tutti 27
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ulteriormente complicato dalla lettura boeziana del De interpretatione 31. La traduzione/mediazione di Boezio 32, che nelle intenzioni dell’autore voleva «sciogliere, se non eliminare le possibili ambiguità latenti del testo greco (…), ha finito per rendere irrisolvibili alcune di tali ambiguità» 33. Un ulteriore livello di complicazione del già di per sé complesso quadro semantico del De interpretatione proviene dalle letture più tarde di questo passo aristotelico 34, nonché dall’acceso dibattito tra i maestri parigini del secolo xiii sul problema della significazione in Aristotele 35. Scendere nelle abissali profondità di queste interpretazioni e delle problematiche che esse hanno sollevato è impossibile in questa sede: ricordare questo modello aristotelico significa, però, richiamare la sua influenza, la sua capacità di creare un orizzonte di rifei popoli. Che cos’è questa supposta naturalità? In relazione a quest’ultima c’è anche da tener presente un’ulteriore complicazione proveniente da un passo aristotelico (Aristoteles, De anima, I, 1, 403a, 17-29): «Le affezioni dell’anima hanno tutte un legame con il corpo», quando invece nel De interpretatione ci si muoveva decisamente in un contesto concettuale che faceva usare indifferentemente, ad Aristotele, come sinonimi i termini πάθημα e νοθήμα. Per la discussione di tali problemi il rimando è alla querelle sulla natura della sensazione in Aristotele, sorta tra Richard Sorabji e Myles F. Burnyeat: cfr. R. Sorabji, From Aristotle to Brentano: the development of the concept of intentionality, in «Oxford studies in ancient philosophy», 9 (1991), pp. 227-259; M. F. Burnyeat, Aquinas on ‘spiritual change’ in perception, in Ancient and medieval theories of intentionality, ed. D. Perler, Leiden – Boston – Köln, pp. 129-154. 31 Anicius Manlius Torq uatus Severinus Boethius (d’ora in poi: Boethius), In Aristotelis Periermeneias, editio prima, I, 1, PL 64, [293640], 297A-299C, ed. C. Meiser, in Commentarii in librum Aristotelis ΠΕΡΙ ΕΡΜΗΝΕΙΑΣ, I, Leipzig 1877, pp. 36, 22 - 38, 24. 32 La traduzione di Boezio (in Aristoteles, De interpretatione vel ΠΕΡΙ ΕΡΜΗΝΕΙΑΣ , ed. L. Minio-Paluello, Bruges – Paris 1965 [AL, 2], p. 5, 3-9) è la seguente: «Sunt ergo ea quaesunt in voce eorum quae sunt in anima passionum notae, et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. Et quaemadmodum nec litterae omnibus eadem, sic nec eadem voces; quorum autem haec primo earum notae, eadem omnibus passiones animae sunt, et quorum haec similitudines, res etiam eaedem». 33 Bottin, Filosofia medievale della mente, Padova 2005, p. 32. I punti controversi, nella traduzione di Boezio, che poi assumeranno la valenza di vere e proprie controversie tematiche, possono ridursi ai seguenti due: la traduzione di entrambi i termini συμβόλα e σημεῖα con il solo termine latino «notae»; e il trascurare un’ambiguità che era presente nell’originale testo aristotelico, ossia l’uti lizzo come sinonimi, da parte dello Stagirita, dei termini πάθημαe νοθήμα. 34 Cfr. ibid., pp. 27-35. 35 Cfr. C. Marmo, Semiotica e linguaggio nella scolastica: Parigi, Bologna, Erfurt 1270-1330. La semiotica dei Modisti, Roma 1994, pp. 64-73.
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rimento teorico (come è stato per il platonismo linguistico) non solo rispetto alla riflessione grammaticale, che ha il suo avvio nel secolo xii, ma anche per l’intero alto Medioevo, attraverso la lettura boeziana, tenendo conto però che quando si fa riferimento a un orizzonte teorico si fa riferimento anche ai suoi problemi irrisolti.
4. Anselmo sulla significatio Per Anselmo, come si diceva all’inizio, significatio è la correlazione tra le parole e le cose. Cos’è che fonda questo rapporto? Vi deve essere per l’arcivescovo di Canterbury, nel significare, innanzitutto un qualcosa che sia oggetto di significazione. Nel De potestate et impotentia, questo qualcosa, o aliquid, si può dire in quattro modi, dei quali però uno soltanto è proprio e vige quando si verifica una piena corrispondenza tra gli ordini del linguaggio, del pensiero e della realtà extramentale 36. Tra questi ordini, per Anselmo, sussiste un rapporto di necessaria corrispondenza «che parte dal presupposto teologico dell’esistenza eterna di un modello ideale del vero e dell’essere» 37; in sostanza vi deve essere una rectitudo che l’espressione significante deve rispettare per essere vera: «Q uando un’enunciazione dice come stanno le cose, allora c’è in essa verità ed è vera (…) quando dunque significa come stanno le cose, quando significa ciò che deve. (…) Ma quando significa ciò che deve, rettamente significa» 38. Ora, causa della verità e dell’esistenza delle cose vere, secondo l’arcivescovo di Canterbury, è la Somma verità che è anch’essa rettitudine e garanzia della rettitu36 Cfr. De potestate, pp. 336-337: «Q uattuor modis dicimus ‘aliquid’. 1. Dicimus enim ‘aliquid’ proprie, quod suo nomine profertur et mente concipitur et est in re (…). 2. Dicitur etiam ‘aliquid’ quod et nomen habet et mentis conceptionem, sed non est in veritate, ut chimera (…). 3. Solemus quoque dicere ‘aliquid’, quod solum nomen habet sine ulla eiusdem nominis in mente conceptione et est absque omni essentia, ut est iniustitia et nihil. (…) Nullam tamen habent in mente conceptionem iniustitia et nihil, quam vis constituant intellectum, sicut infinita nomina (…). Ita ‘iniustitia’ removet debitam iustitiam nec ponit aliud, et ‘nihil’ removet aliquid et non ponit aliquid in intellectu. 4. Nominamus etiam ‘aliquid’, quod nec suum nomen habet nec conceptionem nec ullam existentiam (…). Cum igitur quattuor rmodis dicatur aliquid, unum proprie dicitur, alia vero non aliquid sed quasi aliquid, quia ita loquimur de illis, quasi sint aliquid». 37 d’Onofrio, Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 4), p. 489. 38 De veritate, 2, 479AB, p. 178, 6-14.
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dine dell’enunciazione 39. Q ueste considerazioni presenti nel De veritate, che sembrano dire tutto sulla questione che stiamo cercando di indagare e che sembrano risolvere definitivamente il problema, in verità riguardano l’enunciazione o la proposizione e non i singoli termini o parole e il loro rapporto con la cosa. In Anselmo non c’è una differenza nell’analisi della complexio e dei termini sine complexione 40, ma quando si passa all’analisi dei termini sine complexione in altre opere e alla loro funzione significante, o meglio al fondamento del loro significato, emerge il vero problema della significazione. È con un tema aristotelico che Anselmo si confronta nella sua opera espressamente dedicata alla significazione: il De grammatico, avente per oggetto l’analisi dei paronimi. Aristotele aveva scritto nelle Categorie che accanto ai sinonimi e agli omonimi vi sono i paronimi, ossia quei termini che pur derivando da un certo nome ne modificano il caso, come ad esempio da grammatica deriva grammatico 41. Il tema dei paronimi ha una storia lunga nel Medioevo 42, essendo una questione che già dal quarto secolo si muoveva su due fronti: quello grammaticale, con Prisciano e Donato, e quello logico-filosofico con Boezio; ed è in particolare alla tradizione grammaticale che fa riferimento Anselmo quando affronta la questione nel De grammatico. Prisciano sosteneva che un nome, nel significare, svolge sempre una duplice funzione: quella di indicare una sostanza, ossia una realtà corrispondente al nome, e quella di indicare una qualità, ossia uno o più modi di essere di tale sostanza. I grammatici danno a queste due funzioni della significazione, rispettivamente, il nome di significatio e quello di appellatio 43. Ora, è vero che Anselmo avvia la sua indagine chiedendosi «se grammatico sia sostanza o qualità» (ossia Cfr. ibid., 10, 478C-479C, pp. 189, 31 - 190, 26. Cfr. Dal Pra, Discorso, concetto e realtà cit. (alla nota 11), p. 21. 41 Cfr. Aristoteles, Categoriae (translatio Boethii), I, 1a 13-15, ed. L. MinioPaluello, Bruges – Paris 1961 (AL I, 1-5), [pp. 1-51], p. 5, 15-17: «Denominativa vero dicuntur quaecumque ab aliquo, solo differentia casu, secundum nomen habent appellationem ut a grammatica grammaticus et a fortitudine fortis». 42 Cfr. Henry, The De grammatico of St. Anselm cit. (alla nota 1), passim; Jolivet, Vues Médiévales sur le paronymes cit. (alla nota 4). 43 Cfr. Priscianus Caesariensis, Institutiones grammaticae, II, 18, ed. M. J. Hertz, 2 voll., Leipzig 1855-1859, II, p. 55, 6: «Proprium est nominis substantiam et qualitatem significare». 39 40
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se il termine ‘grammatico’, che deriva da ‘grammatica’, faccia riferimento, nel significare, a una sostanza oppure a una qualità), interrogandosi quindi sul significato dei paronimi, ma per comprendere tale significato bisogna sapere come funzioni la significazione di un termine qualsiasi. Un termine come ‘grammatico’ ha una duplice significazione, diretta e indiretta; ‘grammatico’ significa direttamente la grammatica e indirettamente, appellandolo, diciamo così, l’uomo 44. Ora però, come Anselmo dice poco più avanti, «il significato diretto è essenziale alle parole con significato, l’altro è accidentale. Q uando infatti definendo il nome o il verbo, si dice che è parola con significato, si deve intendere con significato diretto» 45. Sempre secondo Anselmo, Aristotele nelle Categorie non ha voluto mostrare cosa siano le realtà, ma come le parole significhino le cose 46. Possiamo concludere dunque che il vero problema, anche di Anselmo, è quello di come le parole, tout court, facciano riferimento alle cose e del tipo di relazione che sussiste tra la parola e la cosa; e da quello che si è fin qui detto tale relazione non può che essere diretta ed essenziale. Come ha ben mostrato Jolivet, Anselmo si muove lungo una tradizione interpretativa che va da Boezio ai Modisti e che fa intervenire delle tematiche metafisiche e teologiche, all’interno della trattazione grammaticale dei paronimi, portando questo tema di derivazione aristotelica in un campo fortemente contaminato dal platonismo 47. Ora, al di là di quelle che possono essere delle contami44 Cfr. De grammatico, 12, 570CD, p. 157, 1-8: «Grammaticus vero non significat homine et grammaticam ut unum, sed grammaticam per se et hominem per aliud significat. Et hoc nomen quamvis sit appellativum hominis, non tamen proprie dicitur eius significativum; et licet sit significativum grammaticae, non tamen est eius appellativum. Appellativum autem nomen cuiuslibet rei nunc dico, quo res ipsa usu loquendi appellatur. Nullo enim usu loquendi dicitur: grammatica est grammaticus, aut: grammaticus est grammatica; sed: homo est grammaticus, et grammaticus homo». 45 Ibid., 15, 574BC, p. 161, 14-18: «Considera etiam, quoniam harum duarum significationum illa quae per se est, ipsis vocibus significativis est substantialis, altera vero accidentalis. Cum enim in definitione nominis vel verbi dicitur quia est, vox significativa, intelligendum est non alia significatione quam ea quae per se est». 46 Cfr. ibid., 17, 575CD, p. 162, 20-23. 47 Cfr. Jolivet, Vues Médiévales sur le paronymes cit. (alla nota 4), pp. 226232. Una tale linea di tendenza sarebbe fortemente debitrice a Boezio e alla sua riformulazione del lessico delle Categorie, in particolare quando introduce il concetto di partecipatio nella discussione dei paronimi.
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nazioni o delle scelte dottrinali, ciò che interessa in questa sede è capire come e se Anselmo utilizzi questo sfondo platonizzante per inquadrare la sua dottrina della significazione. Bisogna riferirsi a un altro testo per meglio comprendere come il dispositivo anselmiano della significazione assuma in pieno una valenza platonica. Nel capitolo X del Monologion, un piccolo trattato di linguistica anselmiana, il quadro della significazione si arricchisce di un elemento che precedentemente, anche se sottointeso, non era esplicitamente formulato; in tale contesto Anselmo sembra fornirci una sorta di tripartizione delle facoltà sensitive, alla maniera agostiniana, ma a ben vedere, e usando una terminologia più tarda, si tratta di una sorta di tripartizione dei modi di significare e non dei modi di intelligere. L’arcivescovo di Canterbury dice che noi parlanti possiamo dire una cosa in tre modi: Aut enim res loquimur signis sensibilibus, id est quae sensibus corporeis sentiri possunt sensibiliter utendo; aut eadem signis, quae foris sensibilia sunt, intra nos insensibiliter cogitando; aut nec sensibiliter nec insensibiliter his signis utendo, sed res ipsas vel corporum imaginatione vel rationis intellectu pro rerum ipsarum diversitate intus in nostra mente dicendo 48.
In un caso ci troviamo, dunque, di fronte alla significazione di una cosa tramite un segno sensibile, ossia tramite una vox o un segno scritto, come quando dico o scrivo ‘uomo’ significo col nome ‘uomo’ la cosa o la sostanza (‘uomo’); nel secondo caso, invece, la significazione avviene facendo in qualche modo risuonare nella propria mente, senza pronunciarlo o scriverlo, il termine ‘uomo’; infine, nel terzo caso, la significazione avviene quando la mente vede l’uomo tramite un’immagine corporea, rappresentandosene la figura, oppure tramite la ragione nel pensare all’essenza universale dell’uomo che è animale razionale mortale. È Anselmo a dirci che a ognuno di questi tre modi corrisponde una parola, ma sono le parole del terzo modo a essere naturali e identiche presso tutti i popoli. Non è però semplice intendere di che tipo di parole si tratti, né tantomeno capire in che modo queste parole del terzo tipo siano uguali presso tutti i popoli. È forse ad Aristotele, e ai παθήματα τῆς ψυχής del De interpretatione, che Anselmo sta Monologion, 10, 158BC, pp. 24, 30 - 25, 4.
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facendo riferimento parlando di questi verba naturalia? In effetti questa sarebbe l’ipotesi interpretativa più ragionevole, anche alla luce del fatto che erano i παθήματα τῆς ψυχής ad avere un rapporto naturale con la cosa 49. E per Anselmo nessun altro tipo di parola è necessario per conoscere le cose, perché sono queste parole, che si colgono in una sorta di discorso essenziale interiore, che ci fanno conoscere la cosa. Ma perché sono parole naturali e perché questa supposta naturalità sarebbe necessaria per farci conoscere le cose? Q ueste parole sono naturali perché «nullum aliud est utile ad rem ostendendam» 50, nessun’altra parola è utile per mostrare la cosa. Eccoci giunti a un punto cruciale: è con questa affermazione che la teoria della significazione anselmiana si fa davvero platonica; e diventa platonica proprio perché la sua posizione sul rapporto tra parola e cosa diventa sostanzialmente simile a quella del Cfr. il passo del De interpretatione cit. alla nota 28. Monologion, 10, 159A, p. 25, 15. Con questa perentoria affermazione Anselmo sembra tagliare con ogni forma di semantica rigorosamente aristotelica; una semantica, insomma, che pensi l’intero processo di significazione nei termini del triangolo semantico (voces – passiones animae – res). Ragionare nei termini di una semantica aristotelica, dove appunto c’è un rapporto naturale o non convenzionale tra passiones animae e cose, significa anche farsi carico della natura di queste passiones, un problema enorme su cui gli autori dei secoli xiii e xiv non hanno smesso di interrogarsi (cfr. R. Pasnau, Theories of cognition in the later Middle Ages, Cambridge – New York 1997 e K. H. Tachau, Vision and certitude in the age of Ockham. Epistemology, optics and the foundation of semantics, Leiden 1988) e su cui è impossibile in questa sede soffermarsi, data la vastità della questione. C’è solo però da fare un’osservazione, che testimonia di alcune ambiguità presenti nella semantica anselmiana, che diventano, forse, più evidenti nel meccanismo della prova ontologica: per Anselmo c’è significazione quando c’è un aliquid che viene significato, e questo aliquid (cfr. il passo del De potestate cit. alla nota 36) è detto proprio quando «suo nomine profertur et mente concipitur et est in re», dunque vi è significazione propria quando il meccanismo della significazione funziona esattamente come lo stesso triangolo semantico aristotelico; mentre, quando uno degli elementi del triangolo manca, abbiamo una significazione difettiva o impropria. L’obiezione, o meglio, la provocazione di Gaunilone sulle isole beate sembrerebbe essere condotta proprio a partire da queste premesse semantiche: se quell’ente, di cui predico la necessaria esistenza, non posso significarlo attraverso un processo di significazione che rispetti la regola del triangolo semantico, perché difettivo di almeno un elemento ossia dell’esistenza in re (in sostanza non posso stabilire un rapporto di corrispondenza tra passiones animae e res), posso appunto calare nel meccanismo della prova anche un’isola perduta e beata. Ma è chiaro che per Anselmo la necessaria corrispondenza, nel caso di Dio, e solo nel caso di Dio, di vox – passiones animae – res, può avvenire a priori, non per ragioni semantiche, ma perché lo impone la fede. In tal senso va visto il preventivo richiamo al catholicus nel momento in cui Anselmo si avvia a rispondere alle obiezioni di Gaunilone (cfr. Responsio, 247C, p. 130, 4-5). 49
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Cratilo, nel quale la parola non era più un segno naturale o convenzionale, ma era δήλωμα: una manifestazione, un ordine, una proclamazione 51.
5. Il problema della significatio nel Proslogion È il Proslogion però a costituire il testo in cui la teoria della significatio anselmiana trova la sua più esplicita formulazione portando alla luce le molteplici problematiche di cui si è nutrita, nonché venendo a costituirsi come paradigma e modello di un modo di intendere la funzione significativa del linguaggio nel suo far riferimento alle cose (o, volendo esprimerci in termini platonico-anselmiani: nella sua capacità rivelativa delle cose). Una tale ipotesi interpretativa è anche alla base di numerosi tentativi di portare la logica sottesa alla prova ontologica a costituirsi come «il principale exemplum di corrispondenza tra parole e cose, un modello normativo di denotazione, l’inesauribile repertorio tematico cui attinge ogni meditazione sul potere referenziale del linguaggio» 52. Senza riformulare ancora una volta la prova ontologica, possiamo dire che essa funziona, secondo Anselmo, perché l’esistenza dell’oggetto designato è attestata dallo stesso contenuto semantico della designazione. Alla base di tutto questo vi è una differenza fondamentale tra il pensare una cosa, quando si pensa la parola che la significa e comprendere ciò che la cosa è. Se ci si ferma al piano delle voces, a una mera cogitatio secundum vocem 53, senza comprendere la res che è significata dalla vox, sarà anche possibile affermare che tale res non sia; ma quando si avrà una cogitatio rerum e dunque ci si sforzerà di comprendere ciò che la cosa è, non si potrà fare a meno di affermare che il sintagma aliquid quo nihil maιus cogitari potest ha un referente realmente esistente 54. E da questo ne consegue che la parola Deus sarà δήλωμα Cfr. supra, alla nota 27. P. Virno, Parole con parole. Poteri e limiti del linguaggio, Roma 1995, p. 52. 53 Cfr. Dal Pra, Discorso, concetto e realtà cit. (alla nota 11), pp. 41-44. 54 Cfr. Proslogion, 4, 229AB, pp. 103, 18 - 104, 4: «Aliter enim cogitatur res cum vox eam significans cogitatur, aliter cum id ipsum quod res est intelligitur. Illo itaque modo potest cogitari deus non esse, isto vero minime. Nullus quippe intelligens id quod deus est, potest cogitare quia deus non est, licet haec verba dicat in corde, aut sine ulla aut cum aliqua extranea significatione. Deus enim est 51
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di Dio, sarà parola che svela e rivela Dio. Ora, assumere la prova ontologica come modello di ogni forma di significazione espone il nostro discorso a una serie di possibili obiezioni. La principale è che la parola ‘Dio’ o l’enunciato ‘aliquid quod nihil maius cogitari potest’, entrambi con valore o potere rivelativo dell’essenza divina, varrebbero, naturalmente, solo per Dio, e se venissero assunti come modelli o exempla di ogni forma di significazione si arriverebbe al paradosso di rendere ogni referente (esistente o possibile) necessario. Inoltre, è lo stesso Anselmo a negare vigorosamente, di fronte alle obiezioni di Gaunilone, l’esemplarità della prova per ogni forma di referenza significativa, insistendo sul fatto che il meccanismo della prova vale solo per Dio, ossia solo per quell’ente che si identifica, ipso facto, con il sintagma ‘aliquid quod nihil maius cogitari potest’ e dichiarando che la necessità della sua dimostrazione, o l’impossibilità della sua confutazione, impone necessariamente la conferma dell’esistenza di Dio (in base a tutta la logica dimostrativa della prova). Molta della filosofia e parte della teologia successive ad Anselmo ha cercato, in vari modi, di smontare e di confutare l’argomento ontologico, ma è nel Novecento e con la filosofia analitica che si comincia ad affrontare l’argomento ontologico da un punto di vista eminentemente linguistico, trascurando, però, il fatto che per Anselmo «l’esistenza di Dio non è un caso particolare dell’esistenza di qualcosa proprio in quanto il pensare a Dio – e il parlare di Dio – non è un caso particolare del pensare a qualcosa – del parlare a qualcosa» 55. Per filosofia analitica, naturalmente, non si può intendere un unico blocco, con una visione del problema univoca e con una soluzione condivisa: c’è chi, ispirandosi alla sezione della Dialettica trascendentale di Kant, Dell’impossibilità di una prova ontologica dell’esistenza di Dio, e in particolare alla distinzione dei giudizi analitici/sintetici 56, ne trae conseguenze id quod maius cogitari non potest. Q uod qui bene intelligit, utique intelligit id ipsum sic esse, ut nec cogitatione queat non esse. Q ui ergo intelligit sic esse deum, nequit eum non esse cogitare». 55 L. Perissinotto, Grammatica e esistenza. L’argomento ontologico e la filosofia analitica, in Dio e la ragione cit. (alla nota 12), [pp. 83-109], p. 94. 56 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, 29 voll., III, Berlin 1911, pp. 398-400 (tr. it., Roma – Bari 1981, pp. 379-381). La distinzione, fondamentale, tra giudizi sintetici e analitici non è presente nella sezione dove Kant
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generali di natura semantica (Frege, Russell, Wittgenstein) 57; ma c’è anche una componente, più o meno recente, che si esercita nella formalizzazione della prova in termini di logica matematica o addirittura in riformulazioni creative dell’argomento, sempre in termini di logica formale 58. Non è possibile, in questa sede, soffermarsi in un’analisi puntuale delle posizioni dei filosofi analitici; si può però notare che, quando Russell nel saggio Sulla denotazione utilizza la prova ontologica per condurre il suo discorso sulla denotazione 59, o quando Frege nel § 53 de I fondamenti dell’aritmetica discute di esistenza a partire dalla distinzione tra note caratteristiche (Merkmale) e proprietà (Eigenschaften) di un concetto 60, richiamando esplicitamente la prova di Anselmo, lo fanno entrambi con l’obiettivo sì di confutare la prova, ma anche con quello di salvare la pura denotazione logica (come per altro ammetteva lo stesso Kant, nella sua confutazione dell’argomento) 61, senza la necessità di inferire l’esistenza dalla posizione di un concetto. Se però adesso ci rivolgiamo a un testo anselmiano, non espressamente dedicato al tema della significazione, ma riguardante essenzialmente questioni teologiche, l’accettazione da parte di Anselmo di un mero utilizzo logico dei concetti logici risulta quantomeno problematico; ci riferiamo all’Epistola de incarnatione Verbi 62, ossia il testo che documenta la polemica tra l’arcidimostra l’impossibilità della prova ontologica, essendo essa formulata all’inizio della Critica, ma una tale distinzione costituisce l’elemento che premette la confutazione. 57 Cfr. Perissinotto, Grammatica e esistenza cit., p. 84. 58 Per una visione d’insieme di questa componente si veda G. Oppy, Ontological arguments and belief in God, Cambridge 1995. 59 Cfr. B. Russell, On Denoting, in «Mind», 14 (1905), [pp. 479-493], p. 490 (tr. it., Sulla denotazione, in La struttura logica del linguaggio, a c. di A. Bonomi, Milano 1973, pp. 181-195, in partic. p. 193). 60 Cfr. G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik. Eine logisch-matematische Untersuchung über den Begriff der Zahl, Breslau 1884, pp. 64-65 (tr. it., I fondamenti dell’aritmetica, in Id., Logica e aritmetica, Torino 1977, p. 288). 61 Cfr. Kant, Kritik der reinen Vernunft cit. (alla nota 56), p. 401 (tr. it., p. 382). 62 Cfr. Epistola de incarnatione Verbi, prior recensio, 259C-284C, pp. 281290. Per il confronto di Anselmo con Roscellino cfr. G. d’Onofrio, Anselmo e i teologi «moderni», in Cur Deus homo, Atti del Congresso Anselmiano internazionale (Roma, 21-23 maggio 1998), a c. di P. Gilbert – H. Kohlenberger – E. Salmann (Studia Anselmiana, 128), Roma 1999, pp. 87-146.
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vescovo di Canterbury e il suo altro grande avversario, Roscellino di Compiègne: ammettere un mero darsi degli enti della logica, senza che a essi corrisponda una qualche consistenza ontologica, significava che quegli stessi enti della logica fossero una mera emissione di suono dalla bocca (flatus vocis). Alla base di tutto, per ritornare al tema della significazione, vi può essere solo un tipo di significazione diretta ed essenziale. Il meccanismo che permette di tenere insieme il funzionamento della prova ontologica e di garantire al contempo una significazione realistica, ovvero che sia garante del realismo delle essenze, non può che essere una parola che sia rivelativa delle essenze alla maniera platonica. Ma una domanda resta: in una strategia semantica di questo tipo, che ne è del meccanismo di significazione aristotelico? Ovvero, cercando di articolare meglio questa domanda: in un meccanismo di significazione di tipo realistico ed essenzialistico, alla maniera platonica, che ruolo giocano le passiones animae, dal momento che, come abbiamo visto nel De potestate, in un processo di significazione proprio è l’aspetto mentale a ricoprire un ruolo fondamentale e inoltre è proprio questo correlato mentale a costituire il vero arco di volta della prova ontologica 63? Non ci sembra che in Anselmo, in tutte le sue opere, la natura e il funzionamento delle passiones/conceptiones sia esplicitato o almeno affrontato, ma è questo un argomento che resta costantemente all’orizzonte della speculazione, non solo semantica, dell’arcivescovo di Canterbury; la presenza di questa tematica in diversi luoghi dell’opera anselmiana, senza però una sua trattazione esplicita, non permette, a nostro avviso, ad Anselmo di sviluppare una strategia, relativa alla problematica della signifi-
Il momento dell’intellezione o, come dice Anselmo, dell’esse in intellectu, come si sa, è il momento cruciale della prova, ed è proprio il punto che Gaunilone contesterà con più energia, negando che si possa avere intellezione di una cosa che non è stata prima percepita dai sensi; ma quando Gaunilone afferma (Gaunilo Maioris Monasterii, Q uid ad haec respondeat quidam pro insipiente, 2, 243B, pp. 125, 19 - 126, 1): «Et ideo non dicor illud auditum cogitare vel in cogitatione habere, sed intelligere et in intellectu habere; quia scilicet non possim hoc aliter cogitare, nisi intelligendo id est scientia comprehendendo re ipsa illud existere», ci sta fornendo una spiegazione sul funzionamento del triangolo semantico aristotelico: posso comprendere una parola perché mi sono formato una corretta concezione mentale di una cosa, che dovrà prima essere stata percepita. 63
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cazione, che sia funzionale al suo disegno teologico prima ancora che a quello semantico.
6. Conclusioni All’inizio delle risposte di Anselmo a Gaunilone, l’arcivescovo di Canterbury ammette di trovarsi innanzi a un interlocutore tutt’altro che insipiente; un interlocutore non insipiente e cattolico. E sottolinea la necessità di doversi rivolgere al catholicus 64. Tale appello al credente, posto in quel luogo particolare, non è un aspetto di poca importanza. Infatti, sembra che Anselmo, con un simile procedere, voglia in qualche modo prevenire quella che è stata l’obiezione più forte di Gaunilone: per parlare di Dio, come ente senza dubbio esistente, devo significarlo e, per avere una significazione propria, deve sussistere una piena corrispondenza tra voce, concetto e cosa (realmente esistente). Ma non potendo avere di questa cosa particolare che è Dio una qualche esperienza, non me ne potrò formare un’adeguata concezione (la mia anima non potrà essere affetta da una qualche passione) e dunque non lo potrò significare in quanto esistente. Per Anselmo, invece, la garanzia della necessaria corrispondenza dei tre piani (voci – concetti – cose) non è data dalla semantica, ma dalla fede: per il catholicus la parola Dio sarà sempre una parola che significherà rettamente, perché sempre avrà la garanzia di far corrispondere il piano delle parole a quello dei concetti e quello delle cose. Il richiamo al catholicus sembra però invitarci a un’ulteriore riflessione. Il confronto tra Gaunilone e Anselmo è, prima di tutto, un dialogo spirituale tra monaci. Ora, quando si fa riferimento a una teoria del linguaggio in ambito monastico, si sta facendo riferimento fondamentalmente a una concezione apofatica 65: come alcuni suoi predecessori, che hanno cercato di razionalizzare in maniera più o meno sistematica i contenuti della fede, anche Anselmo trova nel monaco Gaunilone quel concentrato di intensa spiritualità che ha rappresentato un grosso problema Cfr. Responsio, 248C, p. 130, 1. Cfr. J. Leclercq , L’amour des lettres et le désir de Dieu: initiation aux auteurs monastiques du Moyen âge, Paris, 1957, p. 59 (tr. it., Cultura umanistica e desiderio di dio, Firenze 1983, p. 65). 64
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per coloro che cercarono di condurre delle indagini razionali in teologia. Un problema, ma anche una sfida per la teologia, per il logos che vuole significare Dio. Se però i tentativi (cui abbiamo brevemente accennato), presenti nella storia dell’interpretazione dell’argomento ontologico, di creare una sorta di analogia tra la parola che significa Dio e la significazione tout court (in particolare quello della filosofia analitica) possono avere una certa rilevanza speculativa, dall’altro lato non possiamo ignorare la provocazione della teologia negativa: l’incombere dell’απόφασις, anche innanzi a un discorso su Dio che vuole essere razionale, smette di avere valore solo per la teologia, creando sconcerto e inquietudine, perché rischia di mettere in discussione non solo la parola che vuole significare Dio, ma ogni forma di significazione.
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1. Come è noto, Anselmo chiama argumentum il celebre ragionamento del Proslogion. L’uso di questo termine vanta numerosi antecedenti illustri. In primo luogo, naturalmente, occorre citare la Lettera agli Ebrei, 11, 1 («Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium») e Cicerone 1; ma qui ci si vorrebbe soffermare in particolare sul rapporto tra l’uso e il significato dell’argumentum come appare in Boezio e come invece appare in Anselmo in quanto, ad avviso di chi scrive, paradigmatici di due concezioni di fondo assai diverse nonostante presentino un numero considerevole di affinità. La differenza consisterebbe in questo: Boezio (ma in realtà anche Agostino) struttura la propria idea di argumentum in consonanza con un’idea del reale e del pensiero come ‘sistema’ chiuso e gerarchico, il cui culmine – vale a dire Dio – viene compreso principalmente nel senso di essere l’ultimo elemento della serie degli enti, della quale costituisce il vertice ed il coronamento in quanto la chiude, mentre Anselmo, che pure non è affatto estraneo a tale impostazione, ma anzi la porta a livelli di sviluppo elevati nel Monologion, si avvede che, se si vuole realmente parlare di Dio secondo una necessità che sia veramente assoluta, tale concezione è insufficiente. Pertanto, affinché possa esservi qualcosa come l’unum argumentum, occorre invece partire dall’idea di Dio come unum Principium, elemento 1 Cfr. Marcus Tullius Cicero, Topica, 2, 8, ed. T. Reinhardt, Oxford 2006, p. 118, 27-28: «Itaque licet definire locum esse argumenti sedem, argumentum autem rationem quae rei dubiae faciat fidem». La definizione ciceroniana verrà ripresa oltre, al § 3.
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 237-248 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112919
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che fonda la serie (degli enti, dunque delle condizionatezze) ma che proprio per questo (in quanto è l’assolutamente incondizionato) è al di fuori della serie stessa, e attenervisi strenuamente. Ma a sua volta tale idea di Dio visto nella sua irriducibile infinità, come id quo maius che è anche un quiddam maius quam cogitari possit, non comporta affatto una condanna della ragione, perché è vera anche l’idea contraria: l’unum argumentum esclude, infatti, che l’unum Principium non manifesti pienamente la propria natura nella sfera logico-discorsiva, ma solo, semmai, che la ragione possa esaurirne l’infinità semantica, la quale viene pertanto nuovamente e autorevolmente confermata. 2. Il limite della prima concezione, che è quella agostiniana, boeziana e del Monologion, potrebbe essere ravvisato nella dipendenza dell’idea di argumentum da una metafisica di tipo partecipativo. Così, la celebre ‘prova’ agostiniana ex veritate presente nel De libero arbitrio 2, in un contesto di ascesa dal mondo della sensibilità a quello delle idee più astratte, fa dipendere in ultima istanza la capacità della ragione umana di cogliere una verità immutabile (il verum) dall’esistenza di una veritas immutabile in se stessa, sì che mostrando l’esistenza di «una realtà superiore alla ragione» si può quindi «concludere che allora l’esistenza di Dio è qualcosa di manifestum» 3. In Boezio quest’impostazione è sviluppata in modo estremamente dettagliato e raffinato, attraverso una riflessione che mette costantemente in rapporto il piano gnoseologico con l’articolazione dei vari piani della realtà. Che Boezio utilizzi una metafisica di tipo partecipativo è, naturalmente, fuori discussione: basti pensare al celeberrimo metro 9 del libro III del De consolatione. Grosso modo, lo schema boeziano si può riassumere in questi termini: la realtà non è nient’altro che l’insieme dei diversi gradi di manifestazione della forma, e tali gradi esistono in virtù del loro partecipare in misura maggiore o minore, e più o meno 2 Cfr. Aurelius Augustinus, De libero arbitrio, II, 5, 11, 42 - 14, 57, PL 32 [1221-1310], 1246-1248, edd. W. M. Green – K.-D. Daur, Turnhout 1970 (CCSL, 29), pp. 239-247. 3 I. Sciuto, Genesi e struttura dell’argomento anselmiano, in L’argomento ontologico, a c. di M. M. Olivetti, (= «Archivio di Filosofia», 58 [1990]), [pp. 19-42], p. 19.
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diretta, al mondo delle forme pure, situate nella mente di Dio 4. A ciascuno di tali gradi – essendo che, per quanto detto, la forma è evidentemente anche l’unico oggetto possibile di ogni conoscenza 5 – corrispondono poi diverse facoltà conoscitive dell’anima umana: avremo pertanto che alla forma «così come essa è incarnata nella materia» corrisponde la sensibilità, alla forma «priva della materia» ma ancora singola e individuata (cioè la singola forma astratta da un singolo individuo) corrisponde l’immaginazione, alla forma come «la specie stessa che si trova nei singoli individui» (cioè la forma astratta e quindi già non più individuata che può incarnarsi «nei singoli individui», intesi però a loro volta come un insieme, una pluralità) la ragione, mentre «la forma stessa nella sua semplicità», intesa come puro archetipo, è l’oggetto della coppia di facoltà conoscitive formata da intelligenza e intelletto 6. Il testo boeziano si presenta quindi come una raffinata evoluzione dell’impostazione anagogica presente nell’argumentum agostiniano. Come in quello, la solidità dell’intera costruzione riposa sulla verità dell’oggetto della conoscenza: a oggetto sempre vero corrisponde una conoscenza necessariamente vera. Q uesto è il senso dell’affermazione contenuta nella prosa 5 del libro V della Consolatio, dove Boezio afferma che la ragione è soltanto umana, laddove l’intelletto è solo divino 7. Cfr. Anicius Manlius Severinus Boethius (d’ora in poi: Boethius), De consolatione philosophiae, III, ix, PL 63 [547A-862C], 758A-759A, ed. C. Moreschini, München – Leipzig 2005, pp. 79, 1 - 80, 9: «O qui perpetua mundum ratione gubernas / terrarum caelique sator, qui tempus ab aevo / ire iubes stabilisque manens das cuncta moveri / quem non externae pepulerunt fingere causae / materiae fluitantis opus, verum insita summi / forma boni livore carens; tu cuncta superno / ducis ab exemplo, pulchrum pulcherrimus ipse / mundum mente gerens similique in imagine formans / perfectasque iubens perfectum absolvere partes». Si veda anche Id., De sancta Trinitate, 2, PL 64 [1247A-1256A], 1250BD, ed. Moreschini cit., pp. 168, 68 - 171, 120. 5 Cfr. G. d’Onofrio, Fons scientiae. La dialettica nell’Occidente tardoantico, Napoli 19862 (Nuovo Medioevo, 31), p. 131. 6 Cfr. Boethius, De consolatione philosophiae, V, 4, 28-30, PL 63, 849AB, ed. Moreschini cit., p. 149, 81-88: «Sensus enim figuram in subiecta materia constitutam, imaginatio vero solam sine materia iudicat figuram; ratio vero hanc quoque transcendit speciemque ipsam, quae singularibus inest, universali consideratione perpendit. Intellegentiae vero celsior oculus exsistit; supergressa namque universitatis ambitum, ipsam illam simplicem formam pura mentis acie contuetur». 7 Cfr. ibid., 5, 4, 854B, ed. Moreschini cit., p. 153, 16-18: «Ratio vero humani tantum generis est, sicut intellegentia sola divini». 4
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Già qui, però, si coglie la novità del percorso boeziano rispetto ad Agostino: l’intelletto, infatti, vien detto divino non perché tale, ma perché coglie solo e sempre un unico tipo di oggetti, vale a dire le forme come puri archetipi. La differenza con Agostino è evidente. Nel De libero arbitrio, il ragionamento conduce sì a un unico oggetto – il quale è immutabile –, ma giunge a questo risultato solo in quanto, in realtà, esso anche si fonda su tale oggetto. La dimostrazione attraverso la quale la ragione coglie quella veritas che è Dio può essere a sua volta un autentico verum solo in quanto la relazione partecipativa tra la ragione e quella veritas sia già presupposta. Benché Agostino parli di demonstratio, pertanto, il ragionamento del De libero arbitrio a rigore non ‘dimostra’ Dio, ma piuttosto lo ‘mostra’. La complessità dell’argomentazione boeziana invece è maggiore. Boezio infatti non lega il valore della conoscenza, ratio o intellectus che sia, al loro rapporto a un oggetto, bensì fa riferimento ad una classe di oggetti, le forme pure, della quale anche Dio fa parte, sia pure in modo unico e perfettissimo. Detto altrimenti: ciò che conta nell’impostazione boeziana non è tanto che l’essere venga dalla forma, quanto la tendenza da parte di quest’ultima, a dispetto del principio di partecipazione, a restare in se stessa, a non comunicarsi. Come afferma il De trinitate, sono piuttosto le imagines (cioè le forme considerate nella loro unione alla materia) che non le vere formae a dare vita alle realtà di questo mondo 8: ma le forme non sono le immagini, giacché queste ultime, considerate nella loro vera natura di ‘forme improprie’, sono soggette al mutamento (Boezio dice: «soggette agli accidenti»), trovandosi incarnate nella materia, laddove la forma propriamente considerata è assolutamente immutabile ed eternamente identica a sé 9. È per questo che Boe8 Cfr. Id., De sancta Trinitate, 2, 1250B, ed. Moreschini cit., p. 169, 79-83: «In divinis intellectualiter versari opertebit neque diduci ad imaginationes, sed potius ipsam inspicere formam, quae vere forma neque imago est et quae esse ipsum est et ex qua esse est. Omne namque esse ex forma est»; ibid., 1250BC, pp. 169, 89 - 170, 94: «Nihil igitur secundum materiam esse dicitur sed secundum propriam formam. Sed divina substantia sine materia forma est atque ideo unum est, et est id quo est: reliqua enim non sunt id quod sunt»; ibid., 1250D, p. 171, 113-117: «Ex his enim formis quae praeter materiam sunt, istae formae venerunt quae sunt in materia et corpus efficiunt. Nam ceteras quae in corporibus sunt abutimur formas vocantes, dum imagines sint: adsimulantur enim formis his quae non sunt in materia constitutae». 9 Cfr. ibid., 1250CD, p. 170, 100-108: «Q uod vero non est ex hoc atque
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zio può affermare che solo le forme veramente sono, sì che è corretto, a questo punto del ragionamento, dedurre – in base a quello che Boezio stesso, nel De hebdomadibus, pone al primo posto tra i nove principî più importanti del pensiero, vale a dire l’arcinoto «diverso è l’essere da ciò che è» 10 – che la stessa divinità di Dio sia tale proprio perché Dio è l’unico ente ad essere purissima forma senza alcuna relazione ad altro, una sorta di super-archetipo per così dire, dove il motore e il fondamento dell’intera argomentazione è, di nuovo, la natura della forma correttamente intesa, non la specialissima natura di Dio. Se, come affermano i Commenti all’Isagoge di Porfirio, ognuno degli intellectibilia (termine che traduce il greco νοετά) è tale «perché è uno ed identico, consistente per sé nella propria divinità, e mai si può cogliere con alcun senso, ma unicamente con la mente sola e l’intelletto» 11, allora è chiaro che Dio, in questa impostazione di pensiero, è soltanto, per così dire, l’intellettibile supremo, il vertice di questo sistema del reale fondato sulla gerarchia delle forme 12: l’ultimo elemento della serie che chiude, coronandola, la serie stessa degli enti. Lo status dell’intellectus, come quello di Dio, dipendono dalla relazione esclusiva che intrattengono con la forma, sì che l’intellectus è tale, e quindi sempre vero e divino, perché in primo luogo ha a che fare con la forma in generale, e non con quella forma speciale che è Dio.
hoc, sed tantum est hoc, illud vere est id quod est; (…) Neque enim subiectum fieri potest: forma enim est, formae vero subiectae esse non possunt. Nam quod ceterae formae subiectae accidentibus sunt, ut humanitas, non ita accidentia suscipit eo quod ipsa est, sed eo quod materia ei subiecta est». Cfr. anche d’Onofrio, Fons scientiae cit. (alla nota 5), p. 142. 10 Boethius, Q uomodo substantiae in eo quod sint bonae sint cum non sint substantialia bona (De hebdomadibus), PL 64, [1311A-1314C], 1311B, ed. Moreschini cit. p. 187, 26: «Diversum est esse et id quod est». 11 Id., In Isagogen Porphyrii Commenta, I, 3, PL 64, [9A-158D], 11BC, edd. G. Schepss – S. Brandt, Wien – Leipzig 1906, p. 8, 13-21: «Est enim intellectibile quod unum atque idem per se in propria semper divinitate consistens nullis umquam sensibus, sed sola tantum mente intellectuque capitur. Q uae res ad speculationem dei atque ad animi incorporalitate considerationemque vere philosophiae indagatione componitur: quam partem Graeci θεολογίαν nominant. Secunda vero est pars intellegibilis, quae primam intellectibililem cogitatione atque intellegentia comprehendit». 12 Cfr. d’Onofrio, Fons scientiae cit. (alla nota 5), p. 142: «Forma suprema in cui tutte trovano il vero essere».
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3. Per Anselmo, invece, lo status dell’intellectus e quello di Dio hanno un diverso fondamento, e quindi un diverso significato. Volendo riassumerlo in una formula, lo si potrebbe esprimere così: l’unum argumentum non scatta in quanto si applichi a Dio in quanto ente, ma perché si applica a quell’ente che è Dio. Se il paradigma boeziano si potrebbe definire in certo qual modo di tipo ontico, in quanto la divinità di Dio è subordinata al suo essere forma, per quanto assolutamente pura – «forma formalissima», come assai felicemente diranno gli epigoni di Boezio del secolo xii 13 –, in Anselmo, al contrario, l’esser-ente da parte di Dio è subordinato alla sua infinità, da intendersi nel duplice senso di totalità dell’Essere e trascendenza. La saldezza dell’edificio della metafisica boeziana della forma, così come l’argumentum agostiniano del De libero arbitrio, riposavano su di una concezione dell’essere di tipo partecipativo. Del resto, lo stesso Monologion anselmiano, che riprende uno schema in qualche modo anagogico, deduce l’essere summum di Dio «come il grado massimo e primo dell’ordine, ma non fuori dell’ordine» 14. Spetta appunto all’argumentum del Proslogion sganciare l’idea di Dio da quella di ordine (in termini agostiniani; dalla classe degli oggetti che sono forme, in termini boeziani) e porla nella sua assoluta specialità e infinità in quanto Principio. Non si tratta di una semplice modifica esteriore: senza questo cambio di prospettiva non si avrebbe l’unum argumentum, e l’affermazione dell’esistenza necessaria di Dio non sarebbe un’evidenza originaria, ma una verità derivata, destinata perciò a rifarsi sempre ad altri principî, situazione della quale Anselmo, nel prologo al Proslogion, si dichiara esplicitamente insoddisfatto 15 (è lo scopo dell’opera, nonché della necessità, così acutamente 13 Cfr. Alanus de Insulis, Regulae caelestis iuris (Regulae theologicae), 16, PL 210, [617C-684C], 629D, ed. N. M. Häring, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen-Age», 48 (1981), [pp. 121-226], p. 136: «Sola forma informis est q via forme non est forma. Divina enim forma a nullo informatur ut cum sit forma formalissima». 14 Sciuto, Genesi e struttura dell’argomento anselmiano cit. (alla nota 3), p. 23. 15 Cfr. Proslogion, Prooem., 223BC, p. 93, 4-7: «Considerans illud [scil. il Monologion] esse multorum concatenatione contextum argumentorum, quod nullo alio ad se probandum quam se solo indigeret, et solum ad astruendum quia deus vere est».
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sentita dall’autore, del superamento del programma del Monologion). Porre Dio come il Principio significa porlo come omnitudo realitatis: non semplicemente come il maius nell’ordine dell’esse (e del bonum, e del magnum), il summum omnium quae sunt – ciò che ancora fa dipendere Dio, e quindi la validità dell’argumentum, dal rapporto col finito, il mutevole ecc. 16 – ma per se, indipendentemente da ogni legame alla finitezza, e quindi unicamente in rapporto alla sua infinità 17. Al contrario degli assiomi presenti all’inizio del De hebdomadibus, dai quali si possono comunque dedurre altre conclusioni, l’argumentum non è un principio indimostrato perché immediatamente evidente, ma (a) un principio la cui negazione è autocontraddittoria in quanto quest’ultima presuppone ciò che intende negare, e (b) un principio che, rispecchiando fedelmente, nella sua ‘perseità’, la ‘perseità’ assoluta del suo Oggetto, afferma unicamente se stesso, al contrario di altri tipi di argomentazione, come ad esempio l’entimema, cui l’argumentum anselmiano è talvolta 16 Caratteri che sono ancora ravvisabili nella definizione, così simile a quelle del Monologion, presente nella Consolatio: Boethius, De consolatione philosophiae, III, 10, 7, 765A, ed. Moreschini cit., p. 81, 24-25: «Nam cum nihil deo melius excogitari queat, id quo melius nihil est bonum esse quis dubitet?». Il senso profondo di questa frase è che Dio non è superabile, essendo l’ultimo termine nella serie gerarchica degli enti, ciò che è ben lontano dall’affermare, come fa l’unum argumentum, che, se si può pensare l’id quo maius cogitari nequit, allora non lo si possa neppure pensare non esistente. Si veda Proslogion, 3, 228B, p. 102, 7: «Potest cogitari esse aliquid, quod non possit cogitari non esse»; ibid., 228B, p. 103, 1-2: «Sic ergo vere est aliquid quo maius cogitari non potest, ut nec cogitari possit non esse». Come ha felicemente notato P. Gilbert, Unum Argumentum et Unum Necessarium, in L’argomento ontologico cit. (alla nota 3), [pp. 81-94], p. 91, il pensiero della trascendenza correttamente inteso (cioè come ciò che è totalmente al di là di ogni possibile serie di enti, non essendone il termine ultimo e Sommo) esclude ogni negazione da Dio: «L’altérité ou la négation appartiennent au crée et non au Créateur qui n’est pas simplement ‘plus grand’ que l’esprit». Paradigmatica, in tal senso, l’opposizione a questa impostazione che fa da sfondo alla lettura di G. d’Onofrio, Chi è l’insipiens? L’argomento di Anselmo e la dialettica dell’Alto Medioevo, ibid., [pp. 95-109], p. 101: «Se qualcosa c’è, c’è qualcosa di Sommo rispetto a ciò che non lo è». 17 Ciò accade anche se già nel Monologion Anselmo notava come il summum omnium quae sunt sia talmente superiore agli altri enti, da non poter costituire in alcun modo un termine di paragone: Monologion, 1, 146B, p. 15, 10-12: «Id enim summum est, quod sic supereminet aliis, ut nec par habeat nec praestantius. Sed quod est summe bonum, est etiam summe magnum. Est igitur unum aliquid summe bonum et summe magnum, id est summum omnium quae sunt».
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accostato, a mio avviso a torto. D’altronde, lo stesso dettato ciceroniano dei Topica non deve essere letto in senso depotenziato. Già per Boezio il «togliere un dubbio» che è proprio all’argumentum 18 non è una mera ‘chiarificazione’, ma l’eliminazione di una contraddizione rilevata all’interno di una quaestio 19. Anselmo si ispira a questo significato dell’argumentum, derivante dalla topica ciceroniana, che è quello che storicamente egli conosceva, ma ne amplia la portata al punto di creare – si perdoni il gioco di parole – uno dei più famosi topoi del pensiero occidentale. E ciò accade non tanto in virtù di quel segmento dell’argumentum, certamente il più problematico e il più studiato e criticato, che vuol dedurre necessariamente l’esistenza di Dio dalla sua essenza 20, ma di quell’altro segmento, solitamente lasciato più in ombra, per il quale la negazione dell’argumentum è autocontraddittoria. Se si dà la priorità al momento elenctico dell’argumentum, più che alla complessa deduzione dell’esistenza di Dio dalla sua essenza, ci si avvede allora di come l’argumentum non intenda, né possa, essere un semplice entimema, tale per cui «se le cose di cui tale aliquid è maius esistono, anche esso, per essere in questo medesimo ambito o luogo significativo accolto come maius, certamente esiste» 21. Né è possibile pensare l’argumentum come appartenente ad una classe di «verità […] non dialettiche ma predialettiche, anteriori rispetto ad ogni mediazione formale perché oggetto di un’intuizione noetica e riconoscibili come vere dalla
Si veda supra, alla nota 1. Cfr. Boethius, In Topica Ciceronis commentaria, I, PL 64, [1039A-1174A], 1048B-1049A. Dopo aver ripreso la definizione di Cicerone («Argumentum autem ratio est quae rei dubiae faciat fidem»), Boezio afferma il legame necessario tra argumentum e res dubiae: «Argumentum namque est quod rem arguit, id est probat, nihil vero probari, nisi dubium, potest. Nisi ergo sit res ambigua, et ad eam ratio fidem facies afferatur, argumentum esse non poterit». Ma «ubi dubitatur aliquid, ibi sit quaestio», al punto che «si argumentum praeter rem dubiam esse non poterit, nullo modo esse praeter quaestionem potest». E, per la sua natura di dubitabilis propositio, la quaestio, e di conseguenza anche l’argumentum, è intimamente legata alla contraddizione: «Omnis enim quaestio contradictionibus constat». 20 Anche in questo caso l’ispirazione è agostiniana: cfr. Aurelius Augustinus, De libero arbitrio, II, 5, 11, 43, PL 32, 1247, edd. Green – Daur cit. (alla nota 2), p. 244, 20-21: «Melius est quod etiam vivit quam id quod tantum est». 21 d’Onofrio, Chi è l’insipiens? cit. (alla nota 16), p. 101. 18
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ragione per il solo fatto di essere pensate o enunciate» 22, quali erano appunto le communes animi conceptiones di Boezio. Se infatti così fosse, e se quindi l’argumentum non fosse che l’entimema supremo, non scatterebbe, per l’insipiens, quella condizione di autocontraddittorietà necessaria, la quale è propria solo al negatore del principio di non contraddizione. Non è che l’insipiens si autocontraddica, in quanto capisca il significato ma seguiti a negarlo, né l’id quo maius può essere immediatamente capito solo che lo si pensi o lo si affermi (ciò che vale per tutte le forme di evidenza immediata, come gli hebdomada boeziani): questo modo interpretativo sarebbe infatti un fraintendimento della natura dell’ἔλεγχος, e quindi della natura elenctica dell’argumentum. Il quale, al contrario, ed esattamente come il principio aristotelico, è un’evidenza non assiomatica. Ciò che conta, in esso, non è l’immediatezza pura (com’è per gli hebdomada boeziani), ma il riconoscimento della sua natura principiale. Infatti l’insipiens, dice Anselmo, non deve intelligere l’id quo maius – come invece occorre fare per gli hebdomada boeziani, legati per essenza all’intellectus e al mondo delle forme pure – ma lo deve cogitare 23. Occorre cioè una mediazione, e non una comprensione intui tiva, e questa è a sua volta articolata: anzitutto si deve comprendere la definizione dell’id quo maius, e solo in un secondo tempo l’argumentatio contro l’insipiens ci conduce a cogliere appieno il senso dell’argumentum, esattamente come è solo attraverso la concreta azione discorsiva portata avanti dal negatore della βεβαιοτάτη ἀρχὴ πασῶν che di quest’ultima si coglie, grazie all’ἔλεγχος, tutta l’enorme portata logico-semantica. L’insipiens, come già il negatore di Metafisica IV 24, deve articolare, esprimendolo (se solo nel suo cuore o anche nel linguaggio concretamente parlato, non importa), il pensiero della negazione Ibid., p. 100. Cfr. Responsio, 4, 253A, p. 133, 21-24: «Q uod autem dicis, quia cum dicitur, quod summa res ista non esse nequeat cogitari, melius fortasse diceretur quod non esse aut etiam posse non esse non possit intelligi: potius dicendum fuit non posse cogitari». 24 Alla confutazione della possibilità di negare il principio d’identità e di noncontraddizione è, come noto, dedicato il paragrafo 4 del IV libro della Metafisica aristotelica. Cfr. Aristoteles, Metaphysica, IV, 4, 1005b35 e seqq.; cfr. anche la nota successiva. 22
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di quella verità – e non, semplicemente, articolare quella negazione stessa: ché anzi tale negazione è sempre articolabile senza che in ciò vi sia in sé necessariamente contraddizione 25 – che è l’esistenza necessaria di Dio 26. Purché abbia espresso qualcosa e non il niente, purché abbia articolato quel pensiero della negazione della verità, egli, come il negatore del principio aristotelico, sarà subito preda della potenza dell’ἔλεγχος; e, se non avrà inteso dire nulla, egli sarà allora «simile ad una pianta», ὅμοιος φυτῷ 27. Nessuna altra forma del ragionare, eccetto l’ἔλεγχος, ha questo potere. Se invece l’argumentum fosse unicamente l’entimema supremo, allora, per riprendere i termini cari alla topica ciceroniana e boeziana, esso non sarebbe risolutivo, bensì occorrerebbe fare appello ad un’ulteriore – e stavolta estrinseca – argumentatio per far sì che la controversia possa trovare il suo possibile sfogo: che è quanto Anselmo cerca programmaticamente di evitare nel suo capolavoro. 25 Come afferma Aristotele, infatti, «Non è necessario che uno ammetta veramente tutto ciò che dice»: cfr. ibid., IV, 3, 1005b25-26. 26 Cfr. F. Tomatis, L’argomento ontologico. L’esistenza di Dio da Anselmo a Schelling, Roma 1997 (Idee, 111), p. 24: «L’insipiente pensa Dio come non esistente; quindi, pur come non esistente, lo pensa. Ma, pensando Dio, non può non pensarlo esistente, quindi lo ha già pensato come esistente nel momento stesso in cui lo pensa come non esistente. Per questo costui è un insipiente, poiché nel pensare a qualcosa non pensa davvero a quel qualcosa a cui pensa. L’insipiente ha l’idea di Dio nel proprio intelletto, ma ce l’ha come una mera parola scritta o pronunciata che non viene compresa nel suo significato effettivo, altrimenti dovrebbe pensarlo come esistente. L’insipiente, quando pronuncia la parola Dio, difatti usa un semplice termine, emette un suono, ma non intellige davvero quella che è l’idea di Dio, vale a dire ciò che non può essere pensato come non esistente». 27 Cfr. Aristoteles, Metaphysica, IV, 4, 1006a14-15. È anche il caso di ricordare come Aristotele, con felicissima prossimità semantica rispetto ad Anselmo, indichi proprio nell’ἀπαιδευσία la causa principale dell’ignoranza del negatore del principio di non contraddizione: cfr. ibid., 1006a5-8. L’insipiens non è «lo stolto», come troppo spesso si tende a tradurre, ma «colui che non sa». A riprova, il termine stultus viene esplicitamente usato nella risposta a Gaunilone, riferito a colui che, solo per il fatto di aver compreso la definizione (descriptio) di «isola perduta», passasse senz’altro ad affermarne l’esistenza in re. Cfr. Responsio, 5, 256A, pp. 135, 31 - 136, 2: «Vides ergo, quam recte me comparasti stulto illi, qui hoc solo quod descripta intelligeretur, perditam insulam esse vellet asserere?», dove la stultitia è implicitamente tripla: oltre a pensare l’assertio esplicitata nel testo, essa consta nel pensare che Dio sia sullo stesso piano degli enti, compreso ovviamente l’ente maius omnibus, e che l’argumentum scatti appunto in considerazione del semplice essere, da parte di Dio, maius omnibus, e non già id quo maius cogitari nequit.
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Ricapitolando: l’infinità di Dio è richiesta, da un lato, dalla stessa definizione di omnitudo realitatis presente nell’elencticità dell’argumentum – non è infatti possibile che questo possegga tale proprietà, se non vi fosse in gioco al suo interno l’idea del verum esse di Dio intesa come la totalità dell’Essere – e, dall’altro, dalla stessa necessità di superare l’impostazione agostiniana, boeziana e già dello stesso Monologion, nelle quali Dio, in qualità di summum omnium quae sunt, era visto fondamentalmente come l’ultimo e non più superabile termine della serie degli enti 28. Q uesta articolazione del senso dell’infinità, la quale è insieme totalità del l’Essere 29 e trascendenza (cioè superamento dell’ordine e fuoriuscita dalla serie), si ritrova massimamente esplicitata nel decisivo capitolo XV del Proslogion, là dove Anselmo mostra che l’esi stenza necessaria dell’id quo maius implica che tale ente sia anche il quiddam maius. Se è possibile pensare che vi sia un ente di cui non si può pensare il maggiore, allora esso è anche ciò che è maggiore di ogni pensabile, altrimenti la prima proposizione – che noi sappiamo però essere necessaria – non sarebbe realmente posta 30. 28 È facile vedere come le obiezioni di Gaunilone ricadano ancora all’interno di un equivoco di questo tipo: egli infatti obietta, cosa peraltro in sé del tutto corretta, che la posizione, all’interno di una serie, di un termine x come termine ultimo della serie stessa non conduce in alcun modo all’affermazione necessaria dell’insuperabilità di quel termine in quella serie, e quindi all’esistenza necessaria di x. Anselmo ribatte con degli esempi volti a mostrare come Dio sia totalità, intesa non come mera sommatoria di parti (nel tempo e non): cfr. Responsio, 1, 250A-251A, pp. 131, 18 - 132, 2. La confutazione decisiva, stavolta condotta direttamente e senza l’ausilio di esempi, arriva al § 5, allorquando Anselmo esclude apertis verbis che l’id quo maius sia il maius omnibus quae sunt: cfr. ibid., 5, 254BC, p. 134, 24-30: «Saepe repetis me dicere, quia quod est maius omnibus est in intellectu, si est in intellectu est et in re – aliter enim omnibus maius non esset omnibus maius –: nusquam in omnibus dictis meis invenitur talis probatio. Non enim idem valet quod dicitur ‘maius omnibus’ et ‘quo maius cogitari nequit’, ad probandum quia est in re quod dicitur. Si quis enim dicat ‘quo maius cogitari non possit’ non esse aliquid in re aut posse non esse aut vel non esse posse cogitari, facile refelli potest». 29 Cfr. Proslogion, 5, 229C, p. 104, 16: «Tu [Deus] es itaque iustus, verax, beatus, et quidquid melius est esse quam non esse»; ibid., 11, 234A, p. 110, 1-3: «Sic ergo vere es sensibilis, omnipotens, misericors et impassibilis, quemadmodum vivens, sapiens, bonus, beatus, aeternus, et quidquid melius est esse quam non esse». Dio è tutto ciò che è meglio essere che non essere, ossia è la totalità del positivo. 30 Cfr. ibid., 15, 235C, p. 112, 14-17: «Ergo domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit. Q uoniam namque
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È in questo modo soltanto che si realizza «la cifra più autentica» del Proslogion: l’affermazione della «fiducia più completa nella assolutezza degli argomenti, accompagnata dalla convinzione che la verità è inesauribile» 31.
valet cogitari esse aliquid hiuiusmodi: si tu non es hoc ipsum, potest cogitari aliquid maius te; quod fieri nequit». 31 I. Sciuto, Introduzione al Proslogion, in Anselmo d’Aosta, Monologio e Proslogio, a c. di I. Sciuto, Milano 2002 (Testi a fronte, 56), [pp. 233-302], p. 247.
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UNA LETTURA MONASTICA DEL CUR DEUS HOMO: INDAGINE SUI PRESUPPOSTI DEL METODO ANSELMIANO
1. L’orizzonte metodologico e una lettura monastica del Cur Deus homo La prospettiva ermeneutica entro cui collocare la ricerca per poter descrivere una lettura monastica del Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta potrebbe svolgersi in vari orizzonti, dal metodologico al tematico, dal lessicale al semantico. Focalizzerò l’attenzione sulla prima prospettiva evocata, ritenendola fondamentale, lasciando sullo sfondo le altre tre. Per comprendere il metodo anselmiano nel Cur Deus homo certamente la Praefatio dell’opera costituisce una chiave di lettura significativa. Ne cito un momento saliente: Q uorum [scil. duos libellos] prior quidem infidelium Christianam fidem, quia rationi putat illam repugnare respuentium continet obiectiones et fidelium responsiones. Ac tandem remoto Christo, quasi numquam aliquid fuerit de illo, probat rationibus necessariis esse impossibile ullum hominem salvari sine illo. In secundo autem libro similiter quasi nihil sciatur de Christo, monstratur non minus aperta ratione et veritate naturam humanam ad hoc institutam esse, ut aliquando immortalitate beata totus homo, id est in corpore et anima, frueretur; ac necesse esse ut fiat de homine propter quod factus est, sed non nisi per hominem-deum; atque ex necessitate omnia quae de Christo credimus fieri oportere 1.
1 Cur Deus homo, Praefatio, 361A-362A, pp. 42, 9 - 43, 3 (tr. it., Roma 2007, p. 77).
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 249-264 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112920
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L’orizzonte metodologico a livello teologico scelto da Anselmo si pone nell’esplicita astrazione da Cristo («remoto Christo, quasi numquam aliquid fuerit de illo») per poi provarne la necessità attraverso cui poter rendere possibile la salvezza dell’uomo, altrimenti impossibile («probat rationibus necessariis esse impossibile ullum hominem salvari sine illo»). Da questa breve ma incisiva premessa metodologica, perseguita in tutto lo scritto anselmiano, discendono due ulteriori e fondamentali considerazioni che non giustificherebbero alcuna lettura monastica del Cur Deus homo. Infatti, la struttura complessiva dell’argomentazione – oltre al metodo teologico di astrazione dall’evento di Cristo (remoto Christo) – rivela, necessariamente legato alla premessa metodologico-teologica, un sistema logico stringente (ratio necessaria), come in tutti i trattati dell’autore. I due versanti metodologici del Cur Deus homo, l’astrazione teologica da Cristo (remoto Christo) e l’indagine strettamente logico-razionale (ratio necessaria), non costituiscono due prospettive entro cui collocare una sensibilità monastica, specie benedettina 2 – esplicitamente cristocentrica e fondata sulla fede – a cui Anselmo appartiene 3. Si rende necessaria, quindi, una lettura articolata dell’opera anselmiana in questione per individuarne aspetti che rimandino a uno sfondo monastico.
2. La premessa teologica e metodologica del Cur Deus homo 2.1. Il percorso anselmiano nell’opera e la portata della premessa teologica del remoto Christo. – La domanda a cui si intende rispondere è la seguente: quale portata ha la premessa teologica del remoto Christo? Guardando più da vicino l’articolazione del percorso anselmiano, il nostro autore, schematicamente, propone un’argomentazione in due momenti: il primo antropologico e il secondo cristologico. 2 Per una sintesi in chiave storica della sensibilità monastica, rimando a R. Nardin, s. v. La spiritualità monastica, in Dizionario critico di teologica, éd. J.-Y. Lacoste, ed. it. a c. di P. Coda, Roma 2005, coll. 876-882, poi in R. Nardin – A. Simón, La vita benedettina, Roma 2009, pp. 141-168. 3 Cfr. J. Leclerq , Regards monastiques sur le Christ au Moyen Âge, Paris 1993, su Anselmo in partic. pp. 178-182 (tr. it., Cinisello Balsamo 1994, pp. 152-155).
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Nel primo momento possiamo individuare due sezioni: una antropologico-analitica e una sintetica. In quella analitica (capitoli 11-25 del primo libro) Anselmo analizza la condizione dell’umanità peccatrice davanti a Dio. L’aspirazione naturale dell’uomo alla beatitudine (beatitudo) trova nel peccato – paragonato a un furto (rapere, auferre) – il limite invalicabile che impedisce, alla radice, la realizzazione di quell’aspirazione. Il peccato è un’ingiuria (iniuria et contumelia) con cui si offende Dio, che altera l’ordine (ordo) dell’universo voluto da Dio stesso, e solo Dio può ricostituire quell’ordine. L’uomo dovrebbe restituire (reddere) a Dio ciò che gli ha tolto (debitum) e così ristabilire il suo onore (honor). Astraendo da Cristo (remoto Christo), il duplice problema dell’aspirazione alla beatitudine intrinsecamente legata all’umanità, come suo fine voluto da Dio, ma irrealizzabile, e la ricostituzione dell’ordine dell’universo, non trova soluzione. È da questa analisi che conduce a un vicolo chiuso che il nostro autore propone l’ipotesi della salvezza in Cristo (capitolo 25 del primo libro). Nella sezione antropologico-sintetica (capitoli 1-5 del secondo libro) Anselmo ricorda la destinazione umana alla beatitudine e, da un lato, come il peccato dell’uomo abbia reso impossibile questo piano divino originario, dall’altro, come Dio stesso non lascerà che il suo piano non si realizzi. Anche nel secondo momento possiamo individuare due sezioni: una cristologica ed una soteriologica. Nella prima sezione del secondo momento (capitoli 6-13 del secondo libro) Anselmo coglie con quale modalità Dio potrà realizzare la beatitudine per l’uomo e al tempo stesso mantenere le esigenze della giustizia (iustitia) per le quali si invoca una soddisfazione (satisfactio) proporzionale al peccato. L’opera del Dio-uomo (Deus-homo) sarà la soddisfazione perfetta richiesta. Nella seconda sezione (capitoli 14-21 del secondo libro) il nostro autore descrive gli effetti della morte redentrice del Dio-uomo. Si tratta della soteriologia o dell’antropologia colta nell’orizzonte di Cristo, che ci contrappone all’antropologia senza Cristo del primo momento. Alla conclusione dell’opera, Anselmo ribadisce che la verità della dottrina cristiana è fondata sulla totalità della Scrittura, e quanto detto sul perché del Dio-uomo attraverso un’impostazione di sola ratio, corrisponde a quanto la fides rivela su Cristo, Verbo incarnato (capitolo 22 del secondo libro). 251
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La struttura del Cur Deus homo che è stata appena presentata rivela una chiave di lettura fondamentale nel dialogo che Anselmo instaura con il suo discepolo Bosone, figura costantemente presente in tutta l’opera. Infatti, in un primo tempo (capitoli 1-10 del primo libro), a detta del discepolo, Anselmo descrive ma non prova la libertà (sponte) del Figlio di fronte alla croce. Bosone, quindi, nel suo dialogo serrato con il maestro, non accoglie le conclusioni di questa prima parte proprio perché non sono argomentate ma solo descritte, attraverso il semplice utilizzo della sacra Scrittura. Per il discepolo l’argomentazione di Anselmo è valida solo nella misura in cui è mostrata quella morte in croce attraverso la ratio e la necessitas 4. In altri termini, l’istanza del discepolo richiede che il maestro elabori un pensiero che non solo derivi e sia in armonia con la sacra Scrittura, ma mediante una riflessione (ratio), derivi e sia coerente a un percorso rigorosamente posto da argomentazioni dettate dalla logica (necessitas). Bosone, tuttavia, alla fine del primo libro, in un punto di svolta dell’opera, pone in evidenza che non intende stabilire la ratio come base della fides – togliendo le perplessità precedentemente avanzate solo attraverso una dimostrazione razionale – ma mostrare (ostendere) con la ratio la certezza che deriva dalla fides 5. Sono le osservazioni critiche del discepolo che inducono Anselmo ad assumere come premessa fondamentale l’impostazione metodologica nella quale porre come dato previo e assoluto l’astrazione dall’evento di Cristo (remoto Christo), in una duplice prospettiva, ossia sia l’Incarnazione di Dio (Dei incarnatio) sia ciò che viene detto di quell’uomo (quae de illo dicimus homine) 6. Potremmo dire, con una terminologia contemporanea, la messa tra parentesi sia della cristologia dall’alto (Dei incarnatio), sia di quella dal basso (assumpto homine). La fondamentale premessa metodologico-teologica del remoto Christo è, quindi, la risposta anselmiana in chiave epistemologica all’istanza del discepolo, colta come pertinente. 4 Cfr. Cur Deus Homo, I, 10, 375B, p. 66, 19-20: «Mors illa rationabilis et necessaria monstrari possit». 5 Cfr. ibid., I, 25, 400B, p. 96, 6-7: «Non ad hoc veni ut auferas mihi fidei dubitationem, sed ut ostendas mihi certitudinis meae rationem». 6 Cfr. ibid., I, 10, 376A, p. 67, 12-13: «Ponamus ergo Dei incarnationem et quae de illo dicimus homine numquam fuisse; et constet inter nos hominem esse factum ad beatitudinem».
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Ci potremmo chiedere se tale risposta sia un acconsentire poco convinto e quasi obbligato dall’incalzare delle richieste del discepolo, oppure se corrisponda alla mens anselmiana. La seconda domanda a cui dobbiamo rispondere, come già rilevato, è se una simile premessa di carattere epistemologico sia ancora inquadrabile in un orizzonte monastico. Alla prima domanda ho già cercato di rispondere altrove 7. Ora, riprendendo brevemente quelle considerazioni, senza entrare nelle osservazioni di carattere metodologico relative al senso dell’espressione anselmiana «remoto Christo» e sui destinatari dell’opera che ne orientano tale impostazione metodologica 8, basti qui ricordare che si tratta di un’astrazione che si potrebbe chiamare logica e non ontologica, nel senso che il nostro autore intende ignorare completamente l’evento cristologico come previa ipotesi di lavoro, quindi sul piano delle premesse logiche, ma non in riferimento alla personale adesione di fede a Cristo (fides ueste premesse metodologiche, inoltre, giustificano qua) 9. Q in Anselmo la presenza di una mistica cristiana senza Cristo, perché si tratterebbe di un’assenza solo ipotetica e logica 10. 2.2. La portata della premessa metodologica della ratio necessaria. – Un’ulteriore analisi relativa al metodo del Cur Deus homo è offerta dall’utilizzo della logica nella riflessione sulla fides. Come è stato opportunamente osservato «i due scogli che in teologia Anselmo vuole evitare sono rappresentati dal giuoco intellettualistico (dialectici sophismata) e dall’artificio retorico (rethorici colores)» 11. Il primo è stato evidenziato a proposito di Roscellino, in cui l’uso errato della dialettica portava a conclusioni teologiche non in armonia con la fides. Il secondo è colto nel dialogo con 7 Cfr. R. Nardin, Metafisica e rivelazione in Sant’Anselmo, in «Pontificia Academia Theologica», 5 (2006), pp. 341-363. 8 Ho già trattato del metodo di Anselmo nel Cur Deus homo in Id., Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta. Indagine storico-ermeneutica e orizzonte tri-prospettico di una cristologia, Roma 2002, pp. 213-246. 9 Cfr. Id., Metafisica e rivelazione cit., pp. 355-356. 10 Cfr. Id., Anselmo d’Aosta: una mistica senza Cristo?, in «Filosofia e teologia», 20 (2006), pp. 366-384. 11 C. Marabelli, Anselmo d’Aosta. Imago e ragione teologica nel De beatitudine perennis vitae, in Id., Medievali & Medievisti. Saggi su aspetti del Medioevo teologico e della sua interpretazione, Milano 2000, p. 49.
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Bosone, il quale non riteneva valide le iniziali argomentazioni del Cur Deus homo – definendole picturae – perché basate su parallelismi retorici 12 anche se fondate sulla sacra Scrittura e sui Padri 13. Da qui la necessità di un rigore logico nell’argomentare anselmiano in cui la valenza metafisica della ratio 14 garantisce una necessitas logica all’intelligere anche astraendo da un presupposto esplicitamente biblico-patristico (rispondendo all’obiezione di Bosone). Q uesta ‘messa tra parentesi’ è legittima sul piano teologico in quanto da un lato la dialectica appartiene allo statuto formale della teologia (contro la prospettiva di Roscellino), e dall’altro l’astrazione è collocata solo sul piano logico e non ontologico, come già rilevato. Il metodo di Anselmo nel Cur Deus homo, in estrema sintesi, consiste nella deduzione di prove attraverso l’indagine della ratio, in cui il punto di partenza è costituito da assiomi variabili, i quali sono assiomi della fede. Infatti, partendo dal contenuto della fede, Anselmo verifica, con la ratio, che esso è legato da una coerenza logica intrinseca; oppure partendo dalla situazione dell’umanità peccatrice, ma destinata alla beatitudine, mostra attraverso un procedimento razionale che, senza Cristo, la salvezza è impossibile. Inoltre, per Anselmo, la coerenza interna della fede cristiana non solo esprime la possibilità logica dell’Incarnazione, ma la sua necessità 15, per cui l’Incarnazione del Figlio di Dio non è solo possibile come ipotesi perché rispetta le esigenze logiche della ratio, ma è necessaria perché si possa realizzare la salvezza dell’uomo 16. 12 È una questione sollevata da Bosone nel quarto capitolo del libro I, in cui esordisce affermando (Cur Deus Homo, I, 4, 365A, p. 51, 16): «Omnia haec pulchra et quasi picturae suscipienda sunt». «Picturae» è da intendersi qui come realtà non solida, infatti Bosone poco oltre afferma (ibid., 365A, p. 51, 20-21): «Nemo enim pingit in aqua vel in aëre, quia nulla ibi manent picturae vestigia». 13 Come rivela l’edizione critica di Schmitt (cfr. ibid., p. 51), il riferimento biblico posto qui da Anselmo è Rm 5, 12-19, mentre quelli patristici sono testi di Tertulliano, Ambrogio, Agostino e Leone Magno. 14 Sulla valenza metafisica della ratio in Anselmo rimando ancora a Nardin, Metafisica e rivelazione cit., in partic. pp. 356-360. 15 Cfr. R. Roq ues, La méthode de saint Anselme dans le Cur Deus homo, in «Aquinas», 5 (1962), pp. 3-57, in partic. p. 52: «La fécondité logique de tels axiomes ne doit pas seulement ‘prouver’ leur possibilité, c’est-à-dire leur noncontradiction, mais bien leur réalité et leur nécessité». 16 Si tratta della necessitas non cogens o necessitas sequens; cfr. Cur Deus homo, II, 17, 421C-425B, pp. 122, 22 - 126, 19.
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La ragione, comunque, non aggiunge nulla alla fede, non la dimostra, ma la analizza e la mostra. René Roques ha trovato un suggestivo gioco linguistico per esprimere l’azione dell’intelligenza sulla fede nel Cur Deus homo in quanto «l’intelligence ne démontre pas la foi, mais seulement la démonte» 17. Così Yves Cattin parla di un processo di «monstration» e non di «démonstration» 18. La ragione, allora, non è il fondamento della teologia di Anselmo, ma la sua esposizione. L’argomentazione di Anselmo consiste nell’analisi della fede per trovare, attraverso delle categorie teologiche, l’unità organica della fede stessa nel suo contenuto. Non la ratio ma la fides fonda l’intellectus fidei.
3. Una ratio monastica 3.1. Remoto Christo e ratio: una correlazione monastica. – La premessa teologica (remoto Christo) e quella metodologica (ratio necessaria) sono correlate in quanto la prima determina la seconda. Ad una astrazione assoluta (remoto) da Cristo (ascendente e discendente sul piano logico, non ontologico, dei contenuti) corrisponde una valenza della ratio assoluta (necessaria). L’ampiezza del remoto Christo, però, non è costante e univoca, ma varia a seconda del destinatario con cui Anselmo si trova a dialogare. In un interlocutore non credente l’astrazione da Cristo sarà assoluta, non solo logica, ma anche ontologica, per usare la terminologia precedente, e di conseguenza la ratio dovrà essere solamente una concatenazione estremamente rigorosa di argomentazioni (ratio necessaria) la cui conclusione cristologica può essere accolta anche dal non credente come necessità o almeno come ipotesi logica. Nel caso in cui l’interlocutore sia un credente, invece, l’astrazione da Cristo dovrà essere solo logica (astrazione dalla fides quae), non sarà ontologica (fede teologale), né esistenziale (fides qua), ossia avrà ricevuto in dono la fede in Cristo (fede teologale) ed essa diventerà adesione cosciente del soggetto (fides Roq ues, La méthode de saint Anselme cit., p. 53. Cfr. Y. Cattin, La preuve de Dieu. Introduction à la lecture du Proslogion de Anselme de Canterbury, Paris 1986, p. 207, espressione ripresa anche da I. Biffi, Preghiera e teologia nelle «orazioni meditative» di sant’Anselmo, in Anselmo d’Aosta, Orazioni e meditazioni, introd. di B. Ward – I. Biffi – A. Granata, Milano 1997, [pp. 31-64], p. 43. 17 18
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qua). Nel credente la ratio non potrà essere solo una concatenazione logica di argomentazioni, perché esse non dovranno servire solo a ‘soddisfare’ l’astrazione logica da Cristo, ma dovrà ‘soddisfare’ l’adesione cosciente a Cristo attraverso la fede ‘esistenziale’. La riduzione dell’ampiezza del remoto Christo (da logico e ontologico del non credente al solo logico del credente) ha portato come conseguenza l’ampiezza della ratio in rapporto alla fides (da una semplice concatenazione logica all’adesione dell’io). Potremmo dire che il remoto Christo e la ratio sono direttamente proporzionali o, similmente, che l’astrazione dall’evento di Cristo si coniuga con la sottolineatura della ratio necessaria (logica) quale lettura della fede, che diviene solo un contenuto (fides quae). Q uesta dinamica in cui si viene a modificare l’ampiezza del remoto Cristo è dovuta alla pluralità degli interlocutori del Cur Deus homo: dai monaci agli ebrei, fino ai musulmani 19. Il metodo di Anselmo nel Cur Deus homo, quindi, si potrebbe descrivere secondo l’espressione di René Roques «méthode axiomatique» 20, nella duplice prospettiva ipotetico-deduttiva e categorico-deduttiva. Anselmo, infatti, inizia l’argomentazione da assiomi che sono comuni ai suoi interlocutori, ma senza esaurire l’ampiezza del credo. In un primo momento astrae da Cristo: l’argomentazione diviene così ipotetica per il credente, il quale crede in Cristo, e categorica per il non credente, il quale non ci crede. Nel secondo momento il Cur Deus homo ammette Cristo ma l’argomentazione diviene ipotetica per il non credente, il quale non ci crede, e categorica per il credente, il quale invece ci crede. Da queste premesse comuni scaturisce il percorso con cui mostrare, attraverso l’indagine della ratio, la necessità del Cristo della fede. In questo modo, partendo dal contenuto della fides, anche se parziale, Anselmo verifica, con la ratio, che tale contenuto è legato da una coerenza logica intrinseca. Da quanto rilevato sino a ora si pone una prima conclusione in ordine alla comprensione della valenza monastica del Cur Deus homo. Il remoto Christo, che costituisce la maggiore obiezione 19 Sui destinatari del Cur Deus homo ho già trattato in Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta cit., pp. 81-107. 20 R. Roq ues, Introduction, in Anselme de Canterbury, Pourquoi Dieu s’est fait homme, a c. di R. Roques, Paris 1963 (Sources chrétiennes, 91), [pp. 9-192], p. 84.
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a una prospettiva monastica dell’opera anselmiana, non solo non esprime l’annullamento della tematica cristologica, chiaramente evocata da Anselmo già nello stesso titolo dell’opera, ma nemmeno diviene la messa tra parentesi della prospettiva cristologica esistenziale – in cui Anselmo aderisce a Cristo con la fede (fides qua) – pur astraendone logicamente nella prima parte del suo lavoro. Anche per i destinatari dell’opera anselmiana, siano essi credenti o non credenti, l’orizzonte cristologico è esplicito dal punto di vista tematico, pur divenendo una semplice ipotesi previa e, successivamente, una conclusione logica per i non credenti. A questo proposito, diversa è la situazione nei precedenti due trattati ‘maggiori’ di Anselmo, il Monologion e il Proslogion, nei quali l’astrazione da Cristo non solo era metodologica, come per il Cur Deus homo, ma anche contenutistica. Dopo avere verificato che la premessa teologica (remoto Christo) non compromette l’orizzonte monastico (ossia cristologico-esistenziale) del Cur Deus homo, occorre ora analizzare l’altra premessa, quella metodologica (ratio necessaria). 3.2. L’intellectus nel Cur Deus homo. – La ratio necessaria, come osservato, è caratterizzata dall’indagine logica sul contenuto della fede. Si tratta dello strumento comune tra credenti e non credenti e permette di mostrare in modo rigoroso la fondatezza delle argomentazioni teologiche anche astraendo dall’evento di Cristo (remoto Christo). Anselmo, però, nella sua indagine, non si limita alla ratio necessaria. È lo stesso arcivescovo di Canterbury che lo rileva nella lettera di presentazione del Cur Deus homo inviata al Papa Urbano II. Ne riporto un passo significativo: Denique quoniam inter fidem et speciem, intellectum quem in hac vita capimus esse medium intelligo: quanto aliquis ad illum proficit, tanto eum propinquare speciei, ad quam omnes anhelamus, existimo 21.
Nella prospettiva enunciata programmaticamente da Anselmo, l’intellectus occupa un posto intermedio tra la fede e la visione (inter fidem et speciem) e quanto più il soggetto progredisce (proficit) 21 Cur Deus homo, Commendatio operis ad Urbanum papam 261A, p. 40, 10-12 (tr. it., p. 76).
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tanto più si avvicina (propinquare) alla visione (species). L’intellectus è quindi descritto attraverso un dinamismo di progressivo avvicinamento alla visio 22. Proseguendo le intuizioni di Henri de Lubac 23 e di Hans Urs von Balthasar 24 – per i quali si descrivono due orizzonti di lettura dell’intellectus, identificato con la ratio se considera la fede nel suo contenuto oggettivo, oppure con la contemplatio se si pone sul piano esistenziale – è possibile comprendere l’intellectus anselmiano in un triplice livello che schematicamente propongo. Il primo livello è caratterizzato dal rapporto tra l’intellectus e la fides nel suo contenuto oggettivo (fides quae). L’intellectus è identificato con la ratio necessaria (indagine logica) e la fede diventa un semplice ‘dato’. In questo livello l’intellectus ha come unica legge la dialectica (logica) di cui Anselmo è stato maestro nella scuola del Bec. Il secondo livello considera l’intellectus in cui il soggetto si pone sulla prospettiva esistenziale in rapporto alla fede (fides qua). In questo livello la ratio chiede l’adesione alla fede da parte del soggetto che crede. È questa propriamente la ratio monastica. Il remoto Christo, come rilevato, per Anselmo e per il credente a cui si rivolge, astrae l’evento di Cristo a livello logico, ossia al primo livello dell’intellectus, non al secondo, al piano esistenziale. Il terzo livello considera l’intellectus in rapporto con la species, ossia con il compimento della fides. Si tratta della Veritas, scorta dal credente che vive intensamente l’esperienza della fede nell’appartenenza a Cristo e la ratio, nell’accostarsi alla Veritas, diventa mistica ed escatologica. A questo livello, sul piano storico, appartiene propriamente ciò che ho descritto come fede ontologica. 22 Q uesto dinamismo di continua crescita verso la pienezza, si trova espresso in una forma intensa alla fine del Proslogion, 26, 242B, p. 121, 14-18: «Oro, deus, cognoscam te, amen te, ut gaudeam de te. Et si non possum in hac vita ad plenum, vel proficiam in dies usque dum veniat illud ad plenum. Proficiat hic in me notitia tui, et ibi fiat plena; crescat amor tuus, et ibi sit plenus: ut hic gaudium meum sit in spe magnum, et ibi sit in re plenum» (tr. it., Milano 2002, p. 359). 23 Cfr. H. de Lubac, Sur le chapitre XIVe du Proslogion, in Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec (Abbaye Notre-Dame du Bec), Paris 1959, pp. 295-312, qui p. 307. 24 Cfr. H. U. von Balthasar, Anselm, in Herrlichkeit. Eine Theologische Ästhetik, II.1, Fächer der stile: Klerikale stile, Einsiedeln 1962, pp. 213-263, qui p. 221 (tr. it., Anselmo, in Id., Gloria. Una estetica teologica, vol. 2, Stili ecclesiastici, Milano 1971, pp. 189-234, qui p. 195).
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I tre livelli dell’intellectus potremmo chiamarli: ratio necessaria, ratio contemplationis e ratio veritatis 25 a cui corrisponde la fede logica (come contenuto, fides quae), la fede esistenziale (come adesione, fides qua) e la fede ontologica (come appartenenza radicale a Dio che avrà il suo compimento nell’ἔσχατον). 3.3. Una ratio monastica nell’orizzonte della communio. – Lo studio dell’intellectus in Anselmo porta alla conclusione che nel monaco del Bec, poi arcivescovo di Canterbury, convivono due valenze dipendenti, naturalmente, dalla sua formazione umana, spirituale e intellettuale: l’orizzonte monastico e la dimensione dialettica. La valenza logica o dialettica del Cur Deus homo coincide con la ratio necessaria, già illustrata. Si tratta ora di focalizzare ulteriormente la dimensione monastica. Una lettura attenta del testo anselmiano rivela un ventaglio molteplice di aspetti che risentono della sensibilità tipica della tradizione monastica, ampiamente presenti anche nella Regula Sancti Benedicti. Possiamo evidenziare schematicamente tre aspetti monastici del Cur Deus homo che sono già stati evocati: la priorità della fede in un quadro cristologico, l’importanza della sacra Scrittura e quella dei Padri. L’attenzione all’orizzonte della fede in chiave cristologica, come visto, è dato in quanto punto di partenza dell’indagine della ratio. Si tratta di una prospettiva mai abbandonata da Anselmo, anche quando astrae dall’evento di Cristo, perché viene posto tra parentesi solo logicamente. La rilevanza biblica è riscontrabile per la presenza di abbondanti riferimenti scritturistici nei primi dieci capitoli del primo libro. Ne risulta l’orizzonte implicito del trattato in quanto è dalla sacra Scrittura che Anselmo trae i presupposti tematici comuni ai suoi interlocutori, presupposti che saranno oggetto della ratio. La rilevanza dei Padri, soprattutto Agostino, è ben evidenziata dall’edizione critica. Dal testo emergono anche atteggiamenti vitali che caratterizzano una sensibilità che potremmo descrivere come monastica. In particolare: il valore della communio, l’importanza della preghiera e dell’invocazione di Dio, l’obbedienza e l’umiltà 26. 25 Ho proposto più distesamente i tre livelli in Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 8), pp. 249-287. 26 Si tratta di aspetti ampiamente presenti nella Regula Sancti Benedicti; la preghiera, l’obbedienza e l’umiltà, anche con capitoli specifici. Inoltre, nell’impor-
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Per la communio è significativo rilevare che sono multi a chiedere con insistenza ad Anselmo il trattato riguardante una certa questione della fede e alla quale il nostro autore è solito offrire una risposta, come lo stesso Anselmo rileva all’inizio dell’opera: Saepe et studiosissime a multis rogatus sum et verbis et litteris, quatenus cuiusdam de fide nostra quaestionis rationes, quas soleo respondere quaerentibus, memoriae scribendo commendem 27.
Il Cur Deus homo, quindi, nasce a seguito di una esplicita e insistente richiesta dei primi interlocutori, con ogni probabilità gli studenti frequentanti la scuola teologica del Bec, soprattutto monaci e chierici, per cui la communio segna, in questo modo, la genesi dell’opera. Inoltre, con la presenza dialogica di Bosone lungo tutto il trattato e con il quale si determina la fondamentale svolta ermeneutica, come visto, del remoto Christo, la communio diviene un elemento centrale nell’ambito del metodo perseguito dal nostro autore. Occorre rilevare che Bosone non è solamente l’interlocutore privilegiato di Anselmo, ma, in qualche modo, il rappresentante dei multi che chiedono il trattato 28. Una communio, quindi, non declinata in senso duale ma come espressione di una communitas, in primis quella della schola monastica di cui Anselmo fa parte quale magister. Non solo. Già nel secondo capitolo del libro I, dal titolo «Q uomodo accipienda sint quae dicenda sunt», quindi un luogo in cui si tratta una questione fondamentale, il nostro autore afferma un importante principio: Q uoniam video importunitatem tuam et illorum qui hoc tecum ex caritate et religioso studio petunt, tentabo pro mea possibilitate, Deo adiuvante et vestris orationibus, quas hoc
tante capitolo 58 della Regula, nel descrivere i criteri che il maestro deve seguire nel discernimento per l’ammissione al noviziato monastico, vi è la significativa terna opus Dei (ossia la preghiera liturgica), oboedientia, opprobria (quest’ultima strettamente legata all’umiltà che la rende possibile). Cfr. Benedictus Nursinus, Regula, 58, PL 66, [215-932], 803D-804C, ed. R. Hanslik, Wien 1960 (19772) (CSEL, 75), p. 147: il candidato alla vita monastica, sia ammesso «si revera deum quaerit, si sollicitus est ad opus dei, ad oboedientiam, ad opprobria». 27 Cur Deus homo, I, 1, 361B, p. 47, 5-7 (tr. it., p. 81). 28 Bosone in più occasioni afferma di chiedere delle spiegazioni «mihi et hoc ipsum mecum petentibus»: cfr. ibid., I, 1, 363C, p. 49, 26; II, 16, 421B, p. 122, 19.
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postulantes saepe mihi petenti ad hoc ipsum promisistis, quod quaeritis non tam ostendere quam tecum quaerere 29.
Q uesto passo del Cur Deus homo racchiude una densa valenza metodologica che ben sintetizza l’impostazione che potremmo chiamare monastica, caratterizzata dalla communio nel senso orizzontale (con i fratelli) e verticale (con Dio) e dall’umile obbedienza (potremmo chiamarla rectitudo o debere). Il primo elemento che emerge nella communio descritta da Anselmo, è che essa ha ancora in Bosone il suo rappresentante concreto ed è caratterizzata dall’insistenza (importunitas) e dallo zelo (studium) con cui si reclama lo scritto anselmiano. Non una communio neutra e distaccata, quindi, ma coinvolta e sollecita. Dal punto di vista di Anselmo si evidenzia l’impegno con cui il nostro autore intende assolvere alla richiesta, ossia utilizzando appieno le proprie capacità (pro mea possibilitate). Tuttavia, lo stesso autore ha l’umile consapevolezza di essere inadeguato al compito (tentabo), la cui riuscita è condizionata dall’aiuto divino (Deo adiuvante) e dalle preghiere (orationes) della communio. Le preghiere furono promesse proprio perché Anselmo potesse argomentare sulla necessità dell’Incarnazione (ad hoc ipsum promisistis). È il nostro autore che chiese l’aiuto della preghiera a coloro i quali spesso gli domandavano chiarificazioni su questo argomento (quas hoc postulantes saepe mihi petenti). L’ultima osservazione è ancora su Anselmo, sulla modalità interiore con cui si accinge all’impresa: egli non pretende di mostrare (non tam ostendere) ciò che gli viene richiesto (quod quaeritis), ma di cercare la verità nella communio con il discepolo (tecum quaerere). Si tratta di una communio, quindi, che non solo propone la tematica da affrontare (de fide nostra quaestionis) e ne definisce la metodologia (remoto Christo), ma accompagna lo sviluppo della stessa ricerca. La communio, tuttavia, non sarebbe sufficiente se non vi fosse una fondazione teologica in cui Dio non è un semplice oggetto della Rivelazione, la quale, a sua volta, verrebbe indagata dalla ratio, ma è il soggetto che si rivela, è la Rivelazione, per cui Anselmo Ibid., I, 2, 363C, p. 50, 3-6 (tr. it., p. 84).
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potrà dire sinteticamente «quod Deus mihi dignabitur aperire, petentibus ostendere» 30. Sul versante ‘verticale’ della communio, ossia sull’importanza della preghiera e dell’aiuto di Dio nel Cur Deus homo ho già riferito altrove 31, basti qui rilevare che nei passaggi fondamentali del procedere dell’argomentazione Anselmo invoca l’aiuto di Dio e chiede esplicitamente preghiere ai suoi interlocutori. Sull’obbedienza, infine, un passo del Cur Deus homo ci permette di chiarirne i risvolti: Q uae cum vult quod debet, Deum honorat; non quia illi aliquid confert, sed quia sponte se eius voluntati et dispositioni subdit, et in rerum universitate ordinem suum et eiusdem universitatis pulchritudinem, quantum in ipsa est, servat 32.
Il debere della natura razionale, potremmo dire la sua rectitudo, consiste nell’onorare Dio. Si tratta, però, non semplicemente nel dargli ciò che gli si deve, ma nel voler dargli ciò che gli si deve. Da questo volere della creatura discendono due importanti conseguenze: la creatura si sottomette (subdit) a Dio in modo libero (sponte) e mantiene (servat) il proprio posto all’interno dell’armonia e della bellezza dell’universo (in rerum universitate ordinem suum et eiusdem universitatis pulchritudinem). L’obbedienza monastica descritta dalla Regula Sancti Benedicti si configura, analogamente ad Anselmo, nella prospettiva della spontaneità (evidenziata dall’immediatezza dell’esecuzione) del monaco, coinvolgente la volontà libera del soggetto (sottolineata dall’assenza di mormorazioni del cuore) 33 e non la forzata coercizione, come del resto Anselmo ha mostrato nel suo servizio abbaziale 34. Ibid., I, 1, 362B, p. 48, 10-11 (tr. it., p. 82). Cfr. R. Nardin, L’aiuto divino e la preghiera in Anselmo d’Aosta. La prospettiva del Cur Deus homo, in Sanctitatis Causae. Motivi di santità e cause di canonizzazione di alcuni maestri medioevali, ed. M. M. Rossi – T. Rossi, Roma 2009, pp. 83-97. 32 Cur Deus homo, I, 15, 380B, p. 73, 3-6 (tr. it., p. 107). 33 Si veda in proposito il capitolo 5, (in particolare i versetti 1, 4, 8, 14, 16-19) dal titolo De oboedientia, della Regula Sancti Benedicti: Benedictus Nursinus, Regula, 5, 349B-350C, ed. R. Hanslik cit., pp. 38-41. 34 È stato posto in luce, in un significativo convegno anselmiano, che l’abate di Bec si è caratterizzato per una impostazione educativa in cui la personale modalità formatrice era centrata nella dolcezza e non nella forza. Per una sintesi sul convegno sopra citato, cfr. R. Nardin, Anselmo d’Aosta educatore 30 31
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4. Conclusione L’indagine appena conclusa è stata segnata da tre ordini di domande, così sintetizzabili: quale valore ha la premessa teologica, ossia l’astrazione definita come remoto Christo? Q uale portata presenta la premessa metodologica, ossia l’indagine attraverso la ratio necessaria? Q uale rilevanza offre il contesto esistenziale di Anselmo la cui eco è presente nel suo scritto? La prima domanda ha permesso, innanzitutto e preliminarmente, di evidenziare come l’esplicita premessa teologica del remoto Christo non costituisca, come potrebbe sembrare, una evidente negazione, in radice, di qualunque prospettiva monastica, vista l’essenziale ed esplicita dimensione cristologica di quest’ultima. Lo studio del metodo del Cur Deus homo, infatti, ha mostrato come Anselmo ponga una astrazione da Cristo logica e non ontologica, in cui è ignorato completamente l’evento cristologico come previa ipotesi di lavoro, quindi sul piano delle premesse logiche, ma non in riferimento alla personale adesione di fede a Cristo. Q uesta impostazione permette che sia rimossa, in un primo tempo, la valenza cristologica solo dal punto di vista logico (come ipotesi), rimanendo, però, nella realtà esperienziale e radicale (ontologica) in rapporto all’autore e ai destinatari (principali). Una volta appurato il permanere dell’orizzonte cristologico, elemento fondante del monachesimo cristiano e benedettino in particolare, a cui Anselmo appartiene, la successiva ricerca ha cercato di rispondere alla seconda domanda, la valenza della premessa metodologica, la ratio necessaria. Ne è emersa non solo la piena legittimità della ratio in ordine all’indagine sulla fides, ma l’inclusione della ratio nello statuto formale della teologia. Inoltre, l’indagine sulla ratio ha mostrato come essa si debba comprendere all’interno di un continuo dinamismo di avvicinamento alla veritas, in una visione triprospettica in cui dalla dimensione strettamente ‘razionale’, logica, si passa a una valenza contemeuropeo. Nota in margine al Convegno Internazionale di Studi anselmiani svoltosi a Saint-Vincent il 7-8 maggio 2002, in «Rassegna di Teologia», 44/4 (2003/4), pp. 591-600. Rimando soprattutto agli Atti del convegno: Anselmo d’Aosta educatore europeo, Convegno di studi (Saint-Vincent, 7-8 Maggio 2002), a cura di I. Biffi – C. Marabelli – S. M. Malaspina, Milano 2003.
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plativa e sapienziale fino a quella mistica ed escatologica. La ratio contemplationis così evidenziata esprime propriamente ciò che potremmo chiamare ratio monastica. La risposta alla terza domanda ha cercato di individuare alcuni aspetti descrivibili come appartenenti ad una sensibilità monastica a partire da delimitati passi del Cur Deus homo. Sono emersi la communio (i multi e Bosone) la preghiera e l’invocazione di Dio, l’obbedienza e l’umiltà. In una prospettiva sintetica, si tratta della communio (orizzontale, con gli uomini, e verticale, da/con Dio) e del debere (rectitudo), entrambi descrivibili come aspetti che presentano il loro retroterra monastico, in particolare nella Regula Sancti Benedicti, ben conosciuta dal monaco e abate Anselmo. Le tre domande iniziali, in definitiva, mostrano come una lettura monastica del Cur Deus homo sia non solo legittima, ma anche proficua e inaspettatamente ricca.
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UNA ‘RILETTURA’ DEL CUR DEUS HOMO IN PROSPETTIVA CRISTOCENTRICA
Vorrei introdurre questa mia riflessione richiamando un episodio, particolarmente significativo, avvenuto nella vita di Anselmo e tramandato dal biografo Eadmero. Si tratta di un sogno, che Anselmo stesso amava raccontare, fatto da bambino, in cui doveva salire sulla cima di una montagna e affrettarsi verso la corte del gran re 1. Eadmero introduce l’episodio in termini alquanto suggestivi: siccome era un fanciullo cresciuto tra le montagne, «audito unum Deum sursum in caelo esse, omnia regentem, omnia continentem, suspicatus est caelum montibus incumbere, in quo et aulam Dei esse, eamque per montes adiri posse» 2. Q uesto sogno, commenta la studiosa Benedicta Ward, getta una luce particolare sul pensiero e sull’esperienza spirituale di Anselmo: Il sincero desiderio di Dio, che informa il successivo pensiero di Anselmo, è chiaramente già qui. (…) L’immagine del l’ascesa, dello sforzo verso l’alto, del desiderio di un altro regno non è semplicemente un’immagine naturale, ma un’immagine amplificata e dilatata dalla Bibbia e dai Padri della Chiesa. Essa rimase nella teologia di Anselmo e nella sua devozione, ma mutò col suo pensiero, le sue letture, la sua crescita 3.
1 Cfr. Eadmerus Cantuariensis, Vita Sancti Anselmi archiepiscopi Cantuariensis, I, 1, PL 158, [49-118], 50B-51B, ed. R. W. Southern, Edinburgh 1962 (Nelson’s Medieval Texts) (repr. Oxford 1972), p. 4 (tr. it., Milano 2009, p. 21). 2 Ibidem. 3 B. Ward, Le ‘Orazioni e Meditazioni’ di Sant’Anselmo, in Anselmo d’Aosta figura europea, Atti del Convegno di Studi (Aosta, 1-2 marzo 1988), a c. di
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 265-292 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112921
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C’è infatti, in Anselmo, uno stretto legame tra teologia e devozione, riflessione ed esperienza spirituale: lo sfondo su cui la riflessione teologica si innalza è l’esperienza spirituale; vita e preghiera per Anselmo erano una cosa sola, tanto che ci si può accostare alla sua teologia anche attraverso le Orationes sive Meditationes 4. In particolare, la sintesi più compiuta della sua riflessione su Cristo si trova nella Meditatio redemptionis humanae 5, che traduce in preghiera la teologia della redenzione elaborata concettualmente nel Cur Deus homo 6. Nella storia della teologia si è comunemente portati a contrapporre, sul piano della riflessione sull’Incarnazione, due orientamenti: quello che mette al centro il peccato, considerato il motivo di fondo dell’Incarnazione, e quello cristocentrico, secondo cui Cristo si sarebbe incarnato ugualmente, essendo stato comunque predestinato. I teologi fanno risalire l’articolazione più compiuta della prima tesi ad Anselmo d’Aosta, l’elaborazione della seconda al francescano Giovanni Duns Scoto (1265/66-1308), nella convinzione che tra le due prospettive non possa esserci incontro e integrazione 7. Q uesto mio intervento propone una sintesi interpretativa che tenta di considerare il trattato cristologico di Anselmo, il Cur Deus homo, in un’ottica più ampia, cercando di individuare un punto di incontro con la prospettiva cristocentrica. In pratica metterò a confronto l’opuscolo anselmiano con alcune tesi di Duns Scoto, significativo interprete del cristocentrismo 8: I. Biffi – C. Marabelli, Milano 1989 (Di fronte e attraverso. Biblioteca di cultura medievale, 231), [pp. 93-101], pp. 94-96. 4 Sul rapporto tra preghiera e speculazione, cfr. Ead., Anselmo di Canterbury: maestro di preghiera, in Anselmo d’Aosta educatore europeo, Atti del Convegno di Studi (Saint-Vincent, 7-8 maggio 2002), a c. di I. Biffi – C. Marabelli – S. M. Malaspina, Milano 2003 (Di fronte e attraverso. Biblioteca di Cultura Medievale, 624), pp. 135-155. 5 Cfr. Meditatio redemptionis humanae, 762C-769B, pp. 84-91 (tr. it., Milano 1997, pp. 462-493). 6 Cfr. Cur Deus homo, pp. 37-133 (tr. it. a c. di A. Orazzo, Roma 2007 [Fonti medievali, 27]). 7 Cfr. M. Serenthà, Gesù Cristo ieri, oggi e sempre. Saggio di cristologia, Torino 1982 (20056), pp. 256-259, 293-294, 348-350. 8 Secondo il dizionario teologico di Karl Rahner, ‘cristocentrismo’ significa porre Cristo al centro della storia, della creazione e della salvezza come condizione dell’essere e dell’ordine di ogni realtà: cfr. K. Rahner – H. Vorgrimler, Kleines theologisches Worterbuch, Freiburg i. Br. 1961, p. 75 (tr. it. a c. di G. Ghi-
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dopo una sintesi di entrambe le argomentazioni, cercherò di individuare alcuni elementi di riflessione a partire dai quali è possibile un incontro.
1. Credere e intelligere: una fede intelligente Uno studio analitico delle interpretazioni del Cur Deus homo mostra valutazioni contrastanti riconducibili a due orientamenti di fondo: un primo orientamento tende a evidenziare la forte connotazione giuridica dell’opuscolo, riducendone la portata teologica, con la conseguenza di rendere quest’opera difficilmente conciliabile con l’annuncio di Dio come amore, proprio della rivelazione cristiana. Un’altra linea interpretativa, invece, sottolinea la priorità della prospettiva teologica, in cui l’amore libero di Dio per l’uomo è la coordinata di fondo attraverso cui leggere l’opuscolo, in armonia con l’eredità biblico-patristica 9. Effettivamente, nel confronto diretto con il testo, ciò che immediatamente attira l’attenzione è l’utilizzo di categorie che oggi sarebbero del tutto improponibili: l’ordine della giustizia, l’onore feudale, lo stretto formalismo giuridico, l’inesorabile necessità di una riparazione dell’offesa provocata dal peccato; tale orizzonte semantico contrasta con la nostra sensibilità e non rispecchia il cuore del l’insegnamento biblico. Tuttavia, andando oltre questo primo e immediato livello di approccio, si possono individuare aspetti più positivi e fecondi: la dimensione giuridico-penale, retaggio di una cultura e di un contesto storico ben preciso, risulta funzionale a una grande ricchezza teologica e morale, legata all’annuncio pasquale del mistero di Cristo 10. A partire da tale problematicità, è necessario precisare, prima di ogni altra considerazione, il senso dell’intelligere e della ratio: berti – G. Ferretti, Roma – Brescia 1968, p. 165). Cfr. anche G. Moioli, s. v. Cristocentrismo, in Nuovo Dizionario di Teologia, a c. di G. Barbaglio – S. Dianich, Alba 1977, pp. 210-222. Sull’impostazione cristocentrica di Duns Scoto e sui limiti di tale identificazione aggettivo e definizione, cfr. G. Iammarrone, La cristologia francescana. Impulsi per il presente, Padova 1997, pp. 271-279. 9 Un’accurata ricognizione di tali interpretazioni si trova in R. Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta. Indagine storico-ermeneutica e orizzonte tri-prospettico di una cristologia, Roma 2002, pp. 31-39. 10 Cfr. ibid., p. 39.
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Anselmo considera l’intelligere come un’attività che non si oppone alla fede ma corrisponde all’autocomprendersi della fede stessa e fa parte della condizione storica dell’uomo 11. Il pensare del credente scaturisce dalla dinamica stessa della fede nella misura in cui questa viene accolta in maniera autenticamente umana, passando attraverso il confronto con l’intelligenza 12. Solo a partire da questo livello di comprensione il credente può aprirsi a un dialogo costruttivo con i non credenti 13. In tale contesto, anche l’ipotesi temeraria e azzardata, presente nel Cur Deus homo, di fare a meno della rivelazione storica su Cristo (remoto Christo) 14, è una condizione che consente all’intelligenza di percorrere un cammino, autonomo e rigoroso, di razionalità. L’assurdità cui conduce tale ipotesi, infatti, mette in luce che la salvezza offerta dal Dio-uomo risponde a criteri di razionalità, cioè di coerenza 15; nello stesso tempo, però, mostra l’eccedenza della salvezza rispetto alla logica umana, facendo emergere il carattere totalmente gratuito della Redenzione. La ragione riconosce infatti la convenienza e la necessità dell’Incarnazione, tuttavia l’evento storico di Cristo rimane indeducibile per via puramente razio11 Cfr. A. Orazzo, Introduzione, in Anselmo d’Aosta, Perché un Dio uomo? cit. (alla nota 6), [pp. 5-61], p. 27. 12 Cfr. Cur Deus homo, I, 1, 361B-363C, pp. 47-49 (tr. it., pp. 81-83). 13 Cfr. ibid., 4, 365AB, pp. 51-52 (tr. it., p. 86). 14 Cfr. ibid., 10, 376A, p. 67, 12-13 (tr. it., p. 101). 15 Cfr. ibid., 8, 369B, p. 59, 25 (tr. it., p. 93): «Et sic nostrae fidei nulla ratio obviare cognoscitur». La razionalità dell’Incarnazione deve essere tale che, anche a prescindere inizialmente dalla realtà storica di Cristo (remoto Christo), la ragione arriva a riconoscerne la necessità e convenienza attraverso un procedimento razionale. Secondo C. É. Viola, Anselmo d’Aosta. Fede e ricerca del l’intelligenza, Milano 2000 (Eredità Medievale 16), p. 118, «questa formulazione metodologica è senza dubbio la più ardita della storia della teologia cristiana». Per essere correttamente compresa, spiega lo studioso, deve essere interpretata nel contesto e secondo l’intenzione profonda di Anselmo: anche se si ammettesse (per absurdum) che Cristo non sia venuto, è possibile mostrare la necessità (convenienza, razionalità) della sua venuta. Tale procedimento è conseguenza logica del metodo sola ratione, che passa sotto silenzio ogni autorità per procedere con le sole forze della ragione. Cfr. ibidem: «Naturalmente la venuta di Cristo dipendeva dalla volontà divina sommamente libera, dunque da una decisione divina sommamente libera. Tuttavia, secondo Anselmo, in Dio tutto è ragionevole, ogni decisione della volontà divina è ragionevole al sommo grado e, di conseguenza, noi possiamo percepirla come una necessità nella misura in cui esiste una certa coincidenza tra ‘razionalità’ e ‘necessità’. È dunque la razionalità divina che fonda in ultima analisi la necessità dell’Incarnazione».
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nale e circondato dal mistero, oltrepassa la ragione allargandone i confini e si pone come iniziativa sovranamente libera di Dio, misericordioso e giusto; richiede pertanto l’obbedienza della fede 16. L’intelletto diventa così il luogo in cui la verità si manifesta: «Ad eorum quae credimus rationem intuendam, quantum superna gratia mihi dare dignatur – scrive Anselmo nell’epistola di raccomandazione dell’opera al papa Urbano II – aliquantum conor assurgere; et cum aliquid quod prius non videbam reperio, id aliis libenter aperio, quatenus quid secure tenere debam, alienum discam» 17. La ragione umana risulta pertanto al servizio di una verità che essa stessa non si è data, dinanzi alla quale tutte le argomentazioni razionali rimangono soltanto deboli premesse, annunciatrici di uno splendore che proviene da altra fonte, la fonte dell’amore.
2. Volontà, ordine e rettitudine nella prospettiva anselmiana Nel Cur Deus homo sono richiamate una serie di nozioni antropologiche e teologiche – peccato, soddisfazione, giustizia, rettitudine, onore di Dio, volontà – elaborate da Anselmo in opere precedenti e tra loro in stretta relazione. Anselmo aveva definito la libertà di arbitrio come «potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem» 18; la giustizia invece era 16 Cfr. Cur Deus homo, I, 2, 364A, p. 50, 12-13 (tr. it., p. 84). Per approfondire il ruolo della ragione nel Cur Deus homo, cfr. A. Ghisalberti, Il compito dell’intelligere e la figura dell’intelletto nel Cur Deus homo, in Cur Deus homo, Atti del Congresso Anselmiano Internazionale (Roma, 21-23 maggio 1998), a c. di P. Gilbert – H. Kohlenberger – E. Salmann, Roma 1999 (Studia Anselmiana, 128), pp. 311-331. 17 Cur Deus homo, Commendatio operis ad Urbanum Papam II, 261AB, p. 40, 14-17 (tr. it., p. 76). Sulla teologia di Anselmo, in particolare sulla terminologia usata in riferimento alla ragione e sulla specificità del campo semantico, è molto bello e suggestivo quanto scrive H. U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik. II: Fächer der Stile: Klerikale Stile, Einsiedeln 1962, p. 226: «Vernuft ist für Anselm das Sehvermögen des Geistes in einem ursprünglichsten Sinn. Denken heisst eine Sache geistig schaubar machen» (tr. it. Gloria. Un’estetica teologica, II, Stili ecclesiastici. Ireneo, Agostino, Dionigi, Anselmo, Bonaventura, Milano 1978, p. 199). 18 De libertate arbitrii, I, 494B, p. 212, 19-20: «Ergo quoniam omnis libertas est potestas, illa libertas arbitrii est potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem».
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stata definita come «rectitudo voluntatis propter se servata» 19. In entrambi i casi si presuppone che l’uomo abbia ricevuto con la creazione una comunione di volontà con Dio, con il compito di custodirla, cosa che invece non si è verificata a causa di un’opzione morale contraria, il peccato, che ha turbato l’ordine a livello individuale e cosmico. Onorare Dio, osserva Anselmo, significa proclamarlo Signore 20, riconoscerne la sovranità, la signoria, la maestà assoluta, universale e incomparabile con altra signoria (Anselmo confuta la teoria dei diritti del diavolo). Anselmo distingue tra onore di Dio intrinseco (ontologico) e onore estrinseco; quest’ultimo è dato dal rispetto, da parte dalle creature, del l’ordo universi stabilito da Dio stesso: osservare l’ordine significa obbedire a Dio e onorarlo. Il peccato è l’alterazione di questo ordine universale con la conseguenza di non poter più conseguire il fine della propria vita, cioè la beatitudine eterna. L’onore di Dio, pertanto, coinvolge gli ambiti dell’interiorità e della relazione. Anche il concetto di ordine, riferito all’uomo, va inteso in senso relazionale, quale rettitudine interiore e conformità alla volontà di Dio; coinvolge la libertà della creatura razionale nel suo rapporto con il Creatore: Verum quando unaquaeque creatura suum et quasi sibi praeceptum ordinem sive naturaliter sive rationabiliter servat, Deo oboedire et eum honorare dicitur, et hoc maxime rationalis natura, cui datum est intelligere quid debeat. Q uae cum vult quod debet, Deum honorat; non quia illi aliquid confert, sed quia sponte se eius voluntati et dispositioni subdit, et in rerum universitate ordinem suum et eiusdem universitatis pulchritudinem, quantum in ipsa est, servat. Cum vero non vult quod debet, Deum, quantum ad illam pertinet, inhonorat, quoniam non se sponte subdit illius dispositioni, et universitatis ordinem et pulchritudinem, quantum in se est, perturbat, licet potestatem aut dignitatem Dei nullatenus laedat aut decoloret 21. 19 De veritate, I, 482B, p. 194, 26. È un significato presente nella Sacra Scrittura (cfr. Sap 1, 1). Anselmo perviene a tale definizione di giustizia attraverso una puntuale argomentazione, al termine della quale conclude (De veritate, I, 484A, p. 196, 20-23): «Et hinc est quod iusti dicuntur aliquando ‘recti corde’, id est recti voluntate; aliquando ‘recti’ sine adiectione ‘cordis’, quoniam nullus alius intelligitur rectus nisi ille qui rectam habet voluntatem». 20 Cfr. Cur Deus homo, I, 14, 379BC, p. 72, 8-12 (tr. it., p. 106). 21 Ibid., 15, 380B, pp. 72-73 (tr. it., p. 107).
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Il cardine della relazione tra ordine, rettitudine e giustizia consiste nel compito, assegnato all’uomo, di custodire l’ordine secondo la modalità a lui propria, cioè la rettitudine della volontà; tale custodia è l’obbedienza. Con il peccato, la libertà umana è venuta meno alla vocazione di alleanza e al compito di conservarsi giusta nella relazione con il Creatore, turbando l’ordine universale e sottraendo a Dio l’onore dovuto. In tale contesto vanno interpretate le nozioni di offesa a Dio, sottrazione al Creatore dell’onore dovuto, riparazione e soddisfazione, nozioni che a prima vista assumerebbero un significato esclusivamente giuridico-penale: Occorre non lasciarsi fuorviare dall’uso di tali categorie, che potrebbero proiettare su Dio l’ombra minacciosa di un giudice severo che esige la soddisfazione di un debito contratto dalla creatura razionale ed estinguibile solo con la morte del Figlio. Esse devono essere interpretate piuttosto all’interno di una visione in cui occupa il posto centrale la creatura razionale vista nella sua capacità originaria di agire liberamente e di riconoscere una verità oggettiva – ordine esterno e interno al tempo stesso – messa da Dio nelle creature 22.
Poste tali premesse, la riparazione deve essere considerata in senso relazionale, come ristabilimento dell’alleanza e della comunione con Dio. Per tale motivo, osserva Anselmo, se Dio rimettesse il peccato dell’uomo in virtù della sola misericordia, sarebbe un intervento solo esteriore che escluderebbe la dimensione della giustizia, intesa come rettitudine della volontà. L’Incarnazione invece permette al Figlio di Dio di comunicare la pienezza della sua libertà all’umanità assunta, cosicché il Figlio può offrirsi al Padre in totale e sovrana libertà, anche come Figlio dell’uomo. Da ciò nasce il significato ‘redentivo’ della Croce, che assume valore infinito – perché è l’offerta del Figlio al Padre – ed efficacia salvifica per l’umanità intera, perché è un’offerta che proviene da ‘qualcuno’ che appartiene alla stessa umanità: La volontà del Figlio, nulla perdendo della pienezza della propria libertà, accetta di entrare, per così dire, in un regime Orazzo, Introduzione cit. (alla nota 11), p. 33.
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di necessità, per amore dei ‘suoi parenti e fratelli’. Il piano della ratio argomentativa e quello dell’economia storico-salvifica trovano qui il punto nodale di convergenza. Nella libertà trascendente e sovrana dell’offerta sacrificale del Figlio, le rationes necessariae della Incarnazione e della morte redentrice incrociano la novità unica e indeducibile dell’evento storico di Gesù di Nazareth 23.
L’offerta di Cristo al Padre comporta l’esercizio pieno della sua libertà di uomo. Tale gesto assume un significato salvifico: radicato e appoggiato in Lui, ogni uomo potrà fare della propria esistenza un’offerta a Dio, fino al dono della vita. A questo punto la riflessione di Anselmo assume una tonalità nuova, passando gradualmente dal procedimento deduttivo delle rationes necessariae a modalità espressive diverse, finalizzate a motivare la libertà del credente ad accogliere e imitare l’esempio di Cristo. Anselmo abbandona il metodo della sola ratio per lasciarsi interrogare dalla vicenda storica del Verbo Incarnato, mettendo in luce il valore di esemplarità del Dio-uomo per ogni uomo; adotta così il criterio della convenienza, applicato al contesto dell’economia storico-salvifica 24. L’esercizio della ragione è perciò rivolto a rafforzare la libertà del credente, presentando tutti i motivi di convenienza, affinché la volontà si decida a imitare il Dio-uomo nell’opzione morale per quella beatitudine che si ottiene offrendo spontaneamente la propria vita a Dio per amore. Il Dio-uomo, pagando per l’uomo, non ne limita la libertà e la responsabilità, ma le rende possibili per grazia, restituendo all’uomo la possibilità di vivere secondo giustizia, cioè in quella rettitudine e comunione con Dio che con il peccato originale erano state perdute.
3. Volontà, libertà e necessità nella riflessione di Anselmo L’Incarnazione, osserva Anselmo, è l’espressione più alta della misericordia di Dio per gli uomini, contrariamente a quanto pensano gli infedeles, che la ritengono un’offesa a Dio: Ibid., p. 40. Cfr. ibid., p. 41. Cfr. Cur Deus homo, II, 11, 410C-412B, pp. 109-111 (tr. it., pp. 149-152). 23 24
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Nos non facimus Deo iniuriam ullam aut contumeliam, sed toto corde gratias agentes laudamus et praedicamus ineffabilem altitudinem misericordiae illius, quia quanto nos mirabilius et praeter opinionem de tantis tam debitis malis in quibus eramus, ad tanta et tam indebita bona quae perdideramus, restituit, tanto maiorem dilectionem erga nos et pietatem monstravit 25.
L’amore per gli uomini, radice e fondamento dell’Incarnazione, emerge anche nella risposta all’obiezione, che gli infedeli rivolgono ai cristiani, secondo cui lo spirito umano avrebbe accolto con minore difficoltà questa liberazione se fosse stata realizzata da una persona diversa da quella divina. A tale osservazione infatti Anselmo replica che se l’uomo non fosse stato liberato da Dio, sarebbe diventato servo di colui che l’aveva liberato; di conseguenza, per tutelare la massima dignità dell’uomo, è più ragionevole pensare che sia stato personalmente Dio a realizzare la redenzione 26. Un’altra frequente obiezione riguarda la scelta della croce, disdicevole a un Dio onnipotente, poiché porrebbe limiti alla stessa onnipotenza 27. A motivo di tali osservazioni, Anselmo si propone di argomentare la necessità della croce, espressione dell’amore infinito di Dio, quale unica via per salvare l’uomo. Il suo obiettivo è dunque il tentativo di chiarire, in modo comprensibile per il credente, l’efficacia salvifica della morte di Cristo, che tuttavia rimane indescrivibile e ineffabile, perché partecipa della profondità del mistero. Presupposto di tutta l’argomentazione è il significato del peccato, inteso da Anselmo come furto a Dio dell’onore a Lui dovuto e violazione dell’ordine 28. Dare onore a Dio comporta volergli dare ciò che a Lui è dovuto, cioè la sottomissione libera della volontà, riconoscendo la strutturale relazione di dipendenza. Signoria e ordine sono fissi e immutabili sul piano oggettivo, ma sul piano soggettivo è possibile rifiutarli, con gravi conseguenze: tale è il peccato. L’indagine sola ratione evidenzia la gravità del peccato e la difficoltà nel trovare una soddisfazione adeguata: «Cum intueor Ibid., I, 3, 364BC, pp. 50 -51 (tr. it., p. 85). Cfr. ibid., 5, 365CD, p. 52, 19-24 (tr. it., p. 87). 27 Cfr. ibid., 6, 366C, p. 54, 12-17 (tr. it., p. 88). 28 Cfr. ibid., 11, 376B-377A, pp. 68-69 (tr. it., pp. 102-103). 25 26
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quid sit contra voluntatem Dei, gravissimum quiddam et nulli damno comparabile intelligo» 29. Peccando, l’uomo si è messo in una situazione di grave e insuperabile impossibilità: è necessario che a Dio venga ‘pagato’ qualcosa che sia più grande di tutto ciò che esiste all’infuori di Dio, ma ciò non può farlo se non Dio stesso, in quanto più grande di tutto ciò che non è Dio; tuttavia deve farlo l’uomo, in quanto è l’uomo che ha peccato; è dunque necessario che la soddisfazione provenga da un Dio-uomo e che un unico e medesimo soggetto sia perfetto Dio e perfetto uomo 30. Anselmo descrive questa situazione in termini alquanto efficaci: «Deus non faciet, quia non debebit; et homo non faciet, quia non poterit» 31. Il punto di incontro tra la giustizia e la misericordia, e dunque la salvezza da tale situazione altrimenti insuperabile, è il senso della risposta alla domanda posta dal trattato. L’argomento che ha condotto a tale conclusione è basato sulla necessità e sulla grandezza; la ratio si collega all’ambito della necessità, come evidenzia l’analisi del campo semantico e la presenza di espressioni come «inevitabiliter oportet esse» 32, «ratio inevitabilis» 33; «Deus nihil sine ratione facit» 34, «rationabiliter conveniat» 35. Il Dio-uomo assume la morte liberamente, per l’onore di Dio; la morte infatti non appartiene alla natura umana originaria, ma è conseguenza del peccato 36. Il poter morire è segno della sua onnipotenza e volontà: «Si ergo volet, poterit animam suam ponere et iterum sumere (…). Si igitur voluerit permettere, poterit occidi; et si noluerit, non poterit» 37. Egli infatti disponendo di un bene più grande di ciò che non è Dio, può offrirlo a Dio liberamente e non a titolo di debito; per tale motivo, Ibid., 21, 394A, p. 89, 4-6 (tr. it., p. 125). Cfr. ibid., II, 7, 404BC, pp. 101-102 (tr. it., p. 140). La salvezza dell’uma nità è assicurata unicamente se le due nature si trovano integralmente nello stesso soggetto; Anselmo intende pervenire a questa conclusione non in base all’autorità delle formule di fede fissate dalla Chiesa, ma solo tramite argomentazioni di tipo razionale. 31 Ibid., 7, 404D-405A, p. 102, 13-14 (tr. it., p. 141). 32 Ibid., 8, 406A, p. 103, 20 (tr. it., p. 142). 33 Ibid., 9, 408A, pp. 105-106 (tr. it., p. 145). 34 Ibid., 10, 410B, p. 108, 23-24 (tr. it., p. 149). 35 Ibid., 11, 411D, p. 111, 6 (tr. it., p. 151). 36 Cfr. ibid., 11, 410C, p. 109, 11-13 (tr. it., p. 149). 37 Ibid., 411AB, p. 110, 1-7 (tr. it., p. 150). 29
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«aut igitur se ipsum aut aliquid de se dabit» 38. Q uesta offerta è un sottomettersi a Dio, alla sua volontà, custodendo con perseveranza la giustizia, a livello ontologico e assiologico: ogni creatura razionale infatti deve a Dio ciò che possiede per il solo fatto di essere creatura 39. Tali conclusioni sono conformi alla ragione: poiché l’uomo ha peccato con una facilità tale che non se ne potrebbe pensare una più grande 40, obbedendo al diavolo e disonorando Dio, è necessario che colui che soddisfa vinca il diavolo, in vista dell’onore di Dio, offrendosi a Dio in modo tale da non poterlo fare più pienamente. Come nel Proslogion, Anselmo adotta lo stile dell’eminenza, parlando di facilità, o difficoltà, tale che non se possa pensare una più grande 41. L’offerta totale di sé consiste nel consegnarsi alla morte per l’onore di Dio. È quanto riconosce e conclude Bosone: «Video hominum illum plane, quem quaerimus, talem esse oportere qui nec ex necessitate moriatur, quia omnipotens erit, nec ex debito, quia numquam peccator erit, et mori possit ex libera voluntate, quia necessarium erit» 42. Per tale motivo, la sua vita e la sua morte superano tutti i peccati, se offerte per essi; la sua vita infatti è tanto più amabile quanto più è buona, è degna di amore più di quanto i peccati siano degni di odio. Pertanto, un bene così grande e amabile può pagare a sufficienza quanto è dovuto per i peccati del mondo, e anzi ‘può infinitamente di più’ 43. Attraverso una complessa e rigorosa argomentazione, Anselmo conduce alla consapevolezza che la remissione dei peccati è possibile solo per mezzo di un uomo che sia anche Dio, che con la sua morte riconcilia con Dio gli uomini peccatori. La ratio pertanto mostra la necessità di Cristo pur non comprendendone la modalità: Ibid., 411B, p. 110, 16 (tr. it., p. 150). Cfr. ibid., I, 20, 392CD, p. 87, 5-7 (tr. it., p. 123). 40 Cfr. ibid., II, 11, 412A, p. 111, 10 (tr. it., p. 151). 41 Cfr. ibid., p. 111, 9-14 (tr. it., pp. 151-152). 42 Ibid., 412B, p. 111, 22-25 (tr. it., p. 152). 43 Cfr. ibid., 14, 415A, p. 114, 31 (tr. it., p. 156): «Imo, plus potest in infinitum». Tale espressione si trova anche in ibid., II, 18, 425C, p. 127, 8 (tr. it., p. 170): «Et plus in infinitum»; richiama Eph 3, 20 e si accorda con gli attributi di Dio presenti nel Proslogion (summum omnium e quiddam maius), mostrando che la salvezza procurata dall’offerta libera del Dio-uomo è a misura di Dio, cioè senza misura. 38 39
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Hoc debes ab illis nunc exigere, qui Christum non esse credunt necessarium ad illam salutem hominis, quorum vice loqueris, ut dicant qualiter homo salvari possit sine Christo. Q uod si non possunt ullo modo, desinant nos irridere, et accedant et iungant se nobis, qui non dubitamus hominem per Christum posse salvari, aut desperent hoc ullo modo fieri posse. Q uod si horrent, credant nobiscum in Christum, ut possint salvari 44.
4. Dall’antropologia alla cristologia Il Cur Deus homo si costruisce su una premessa antropologica: l’uomo è stato creato razionale e giusto, ma il peccato ha alterato il progetto originario di Dio. «Rationalem naturam a Deo factam esse iustam, ut illo fruendo beata esset, dubitari non debet» 45; questa l’affermazione principale, che Anselmo dimostra in vari passaggi: è stata creata razionale per discernere tra bene e male, giusto e ingiusto; la razionalità infatti comporta capacità di discernimento e di scelte corrette. Niente nella natura razionale è stato fatto invano, nulla va perso, pertanto tutto deve conseguire il proprio fine. Di conseguenza, finché l’uomo non avrà scelto Dio come sommo bene, sarà sempre infelice, perché sarà nell’indigenza suo malgrado, non possedendo quanto desidera nel profondo del suo cuore. E questo, conclude Anselmo, «nimis absurdum est» 46. Da tali premesse Anselmo deduce che Dio stesso avrebbe portato a compimento quanto iniziato nella natura umana, altrimenti avrebbe creato invano una natura così sublime che ha il proprio fine in un bene così grande: poiché Dio non ha creato nulla di più prezioso (nihil pretiosus), è molto lontano da lui lasciare che tale natura perisca completamente 47. L’esigenza di realizzare tale progetto si fonda sulla fedeltà di Dio alle sue promesse; Dio non fa nulla per necessità, perché in alcun modo è costretto Cur Deus homo, I, 24, 399A, p. 95, 1-5 (tr. it., p. 132). Ibid., II, 1, 399C-400C, p. 97, 4-5 (tr. it., p. 135). Sul rapporto fra cristologia e antropologia, cfr. N. Varisco, Dal cur homo al cur Deus homo: un percorso sulla via della consapevolezza, in Cur Deus homo cit. (alla nota 16), pp. 561-572. 46 Cur Deus homo, II, 1, 401B, p. 98, 2-3 (tr. it., p. 136). 47 Cfr. ibid., 4, 402B, p. 99, 5-7 (tr. it., p. 137). 44
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o impedito: in lui la necessità «non est aliud quam immutabilitas honestatis eius» 48; pertanto non dovrebbe chiamarsi necessità, bensì gratuità, e merita una riconoscenza maggiore 49. Libertà e necessità convergono, anche se il linguaggio spesso non sembra tener conto di tale rapporto. Se Dio completa il bene iniziato nel l’uomo, tutto va attribuito alla sua grazia: «Non enim illum latuit quid homo facturus erat, cum illum fecit, et tamen bonitate sua illum creando, sponte se ut perficeret incoeptum bonum quasi obligavit» 50. La cristologia è dunque condizione di possibilità dell’an tropologia, la necessità del Dio-uomo è argomentata con rigore e coerenza logica; Anselmo dimostra che l’unità delle due nature nell’unica persona è condizione necessaria per garantire la soddisfazione: è infatti necessario che il Redentore sia perfetto Dio e perfetto uomo e che la natura umana sia assunta integralmente, perché integralmente possa essere ‘restaurata’. Anselmo utilizza espressioni linguistiche che fanno riferimento all’Incarnazione di Dio e all’assunzione dell’uomo, accostando così due prospettive cristologiche complementari: la prima sottolinea la preesistenza del Verbo, che entra nella storia attraverso l’Incarnazione; la seconda, partendo dalla vicenda storica di Gesù, evidenzia come Dio lo abbia costituito Signore e Cristo attraverso il mistero pasquale. Parla comunque con più frequenza di ‘assunzione’ che di ‘Incarnazione’, attingendo da Agostino: con l’Incarnazione, il Verbo ha assunto la totalità dell’uomo, la vera e integra natura umana 51. Del resto, Anselmo era monaco e l’umanità di Cristo era, nella spiritualità monastica, oggetto privilegiato di meditazione, strumento di ascesi e crescita nell’itinerario spirituale 52. 48 Ibid., 5, 403C, p. 100, 24-25 (tr. it., p. 139). Nella traduzione italiana, ‘honestas’ viene tradotto con ‘fedeltà’: è proprio in virtù della immutabile fedeltà a se stesso e alle sue promesse, infatti, e non per qualche necessità esterna, che Dio porta a compimento nell’uomo il fine che si era prefisso. 49 Cfr. ibid., 403A, p. 100, 3 (tr. it., p. 138). 50 Ibid., 403BC, p. 100, 18-20 (tr. it., p. 139). 51 Cfr. Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 9), pp. 167-172. 52 Cfr. I. Biffi, La filosofia monastica: ‘sapere Gesù’, Milano 2008 (Di fronte e attraverso. Biblioteca di cultura medievale, 859).
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5. Dalla cristologia all’antropologia Anselmo imposta la sua riflessione a partire da una prospettiva antropologica realista, concreta, che tiene conto della frattura, presente nella natura umana, tra il progetto originario di Dio (ciò per cui l’essere umano era stato pensato e creato) e la condizione storica (l’uomo in statu viae, l’impossibilità dovuta al peccato, alla disobbedienza). L’uomo è fatto per la beatitudine ma, dopo il peccato di Adamo, non può più conseguirla: la remissione dei peccati è necessaria per ottenere la salvezza e quindi la beatitudine. È una prospettiva che parte dal basso, dalla natura umana ferita, segnata dal peccato. Anselmo sottolinea la gravità del peccato non soltanto dal punto di vista individuale, ma anche cosmico e relazionale. In questo senso il peccato è rottura dell’ordine (dell’armonia nelle relazioni) e furto nei confronti di Dio, in quanto privazione dell’onore a Lui dovuto: «Non est itaque aliud peccare quam non reddere Deo debitum (…). Omnis voluntas rationalis creaturae subiecta debet esse voluntati Dei» 53. Pertanto il debito che l’angelo e l’uomo devono a Dio e con cui lo onorano è la sottomissione di tutta la volontà alla volontà di Dio: Haec est iustitia sive rectitudo voluntatis, quae iustos facit sive rectos corde, id est voluntate. Hic est solus et totus honor, quem debemus Deo et a nobis exigit Deus. Sola namque talis voluntas opera facit placita Deo, cum potest operari; (…) nullum opus sine illa placet. Hunc honorem debitum qui Deo non reddit, aufert Deo quod suum est, et Deum exhonorat; et hoc est peccare 54.
La nozione di ordine richiama quella di giustizia, che Anselmo definisce in prospettiva dinamica, ovvero come rispetto e reciprocità delle relazioni; la rectitudo è considerata in rapporto alla verità e indica ‘ciò che è come deve essere’. Nel De veritate Anselmo aveva analizzato la rectitudo in rapporto alla volontà, la quale, scriveva, è retta quando vuole ciò che deve 55. L’uomo, per essere giusto, deve volere quello che deve e deve volerlo volontariamente, Cur Deus homo, I, 11, 376B, p. 68, 10-12 (tr. it., p. 102). Ibid. 376BC, p. 68, 15-21 (tr. it., p. 102). 55 Cfr. De veritate, 472A, p. 181, 4. 53 54
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perché il dovere, per essere retto, deve essere volontario 56. Il concetto di ordine assume una connotazione ontologica, in quanto si fonda sul riconoscimento del primato di Dio, e relazionale, a motivo dell’esigenza che ne deriva di rendere a lui l’onore, ossia di sottomettere a lui la volontà. A partire dal riconoscimento della maestà divina, Anselmo sottolinea la gravità del peccato e lo stretto legame tra Incarnazione e Redenzione: dal momento che l’onore reso a Dio è sottomissione della volontà, è necessario che la riparazione avvenga attraverso un atto di perfetta e totale sottomissione della volontà. A motivo del peccato, la condizione umana è gravemente compromessa: la salvezza è necessaria perché l’uomo raggiunga il proprio fine e non sia stato creato invano, ma è altrettanto necessario che essa venga da Dio; l’uomo da solo è condannato, è perciò indispensabile che, per salvarlo, Dio stesso si faccia uomo. Non era conveniente rimettere il peccato per sola misericordia per due motivi: in primo luogo perché avrebbe lasciato il disordine della volontà, in secondo luogo perché sarebbero stati trattati ugualmente il peccatore e il giusto; la sola misericordia avrebbe perciò lasciato spazio all’ingiustizia. Anche se l’impostazione assume un tono prevalentemente giuridico che sembra limitare la gratuità della salvezza, Anselmo in realtà mette in risalto la grandezza del l’amore di Dio e della sua misericordia: sottolineando il dramma della condizione umana e l’insufficienza della sola misericordia rispetto alla giustizia, mostra infatti che la misericordia è veramente tale proprio nel momento in cui comprende la giustizia e, restaurando l’ordine, ristabilisce l’armonia originaria 57. 56 Cfr. ibid., 480B-483D, pp. 192-194. Cfr. Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta cit. (alla nota 9), pp. 126-129. 57 Significative a tale proposito le affermazioni di M. Serenthà, Gesù Cristo ieri, oggi e sempre cit. (alla nota 7), p. 366: «Il ‘sacrificio’ di Cristo libera, ‘redime’ l’uomo non solo negativamente, cancellando il peccato, ma positivamente, rinnovando l’alleanza dell’uomo con il Padre, non solo assumendo il passato di peccato e di morte dell’umanità, ma aprendo a un futuro rinnovato di resurrezione, di vita nuova». Nella Bibbia infatti la nozione di ‘giustizia’, come anche l’aggettivo ‘giusto’, richiamano una fedeltà: «Giusto è colui che mantiene le sue promesse, gli impegni presi. Dio ha promesso di salvare l’uomo, di non lasciarlo in balia della morte e del peccato (‘Io non voglio la morte del peccatore – dice il Signore – ma che si converta e viva’: Ez 18, 23): in Cristo, in particolare nella sua Pasqua, Dio ha definitivamente realizzato la sua promessa. In questo senso, nella croce si manifesta massimamente la giustizia di Dio»
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Partendo da presupposti diversi rispetto a Duns Scoto, anche Anselmo fa emergere la centralità di Cristo e lo stretto legame – il particolarissimo ‘debito’ – che l’uomo ha nei suoi confronti: tutto gli deve perché gli ha restituito la vita. Tale centralità emerge soprattutto laddove Anselmo approfondisce la libertà e la gratuità con cui Cristo ha dato la vita per gli uomini: il Dio-uomo non è stato obbligato a obbedire a un ordine del Padre, ma ha inteso liberamente osservare la giustizia con tanta perseveranza e determinazione da affrontare persino la morte. Il Verbo Incarnato è il solo vero adoratore e perfetto glorificatore del Padre; ciò che gli è stato inflitto dagli uomini è conseguenza della sua libera decisione di custodire la giustizia, cioè di mantenersi in perfetta comunione con la volontà del Padre. Non c’è pertanto una necessità violenta, ma la perseveranza spontanea e tenace della volontà: in questo senso, obbedienza al Padre significa custodire la volontà che Egli ha dato 58. Dalla ferma volontà da parte di Cristo di soffrire la morte, Anselmo deduce che il genere umano non poteva essere salvato diversamente; era necessaria la remissione dei peccati perché l’uomo potesse conseguire la beatitudine 59.
6. Il cristocentrismo di Duns Scoto La riflessione di Duns Scoto sull’Incarnazione parte da presupposti diversi: Dicitur quod lapsus hominis est ratio necessaria huius (scil. Christi) praedestinationis (…). Dico tamen quod lapsus non fuit causa praedestinationis Christi, imo si nec fuisset angelus lapsus, nec homo, adhuc fuisset Christus sic praedestinatus, imo, et si non fuissent creandi alii quam solus Christus 60. (ibid., p. 367). Cfr. anche M. Serenthà, La discussione più recente sulla teoria anselmiana della soddisfazione. Attuale status quaestionis, in «La Scuola Cattolica», 108 (1980), pp. 344-393. 58 Cfr. Cur Deus homo, I, 10, 374BC, p. 65, 6-7 (tr. it., p. 99). 59 Cfr. ibid., 374D-375A, p. 66, 2-4 (tr. it., p. 100): «Mundum erat aliter impossibile salvari; et ipse indeclinabiliter volebat potius mortem pati, quam ut mundus non salvaretur». Cfr. O. Rossi, L’aliquid maius e la riparazione, in Cur Deus homo cit. (alla nota 16), pp. 641-657. 60 Iohannes Duns Scotus (d’ora in poi: Duns Scotus), Reportata Parisiensia, III, d. 7, q. 4, n. 4, éd. L. Vivès, XXIII, Paris 1894, p. 303a. Duns
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Duns Scoto non medita sull’infinito a partire dal finito, ma intraprende il percorso inverso, persuaso che il significato del finito si possa intuire soltanto a partire dall’infinito: là dove le creature hanno inizio è custodita la chiave del loro essere 61. Per tale motivo, medita l’Incarnazione non a partire dal peccato, quasi che tale ‘capolavoro divino’ (summum opus Dei) sia subordinato alla colpa dell’uomo, ma, al contrario, alla luce del primato di Cristo: Dio ha voluto da sempre l’Incarnazione del Verbo, e, in Lui, l’uomo e il mondo. La riflessione cristologica di Scoto si collega pertanto alla riflessione sulla creazione: Dio ha creato per amore di sé e per la propria gloria. Di conseguenza, la prima ragione dell’Incarnazione è il desiderio di poter ricevere dalla creatura un amore infinito e una gloria infinita: Cristo è il perfetto adoratore, la ragione e il fine della creazione 62. Il cristocentrismo di Scoto tuttavia non si esaurisce nell’affermazione del motivo dell’Incarnazione, ma condiziona tutta la sua teologia dell’uomo e della creazione: quest’ultima infatti è ordinata a Cristo e, per mezzo di Lui, a Dio; l’uomo stesso è stato creato a immagine di Dio perché destinato, per mezzo di Cristo, a partecipare alla vita intima di Dio nel tempo e per l’eternità 63. Scoto sottolinea la radicale gratuità del l’Incarnazione, indipendentemente da ogni peccato dell’uomo. Per le citazioni delle opere di Duns Scoto, faccio riferimento all’edizione critica Vaticana ancora in corso di pubblicazione a c. della Commissione Scotista Internazionale, Città del Vaticano 1950ss. Laddove questa non fosse ancora disponibile, utilizzo la precedente edizione Vivès (Opera Omnia, 26 voll., Paris 1891-1895). Per il De primo Principio faccio riferimento all’edizione critica: Duns Scotus, Tractatus de primo Principio, Hrsg. M. Müller, Freiburg i. Br. 1941 (Bücher Augustinischer und Franziskanischer Geistigkeit, 1; Reihe: Texte und Forschungen, Abteilung A, Band 1), (tr. it. a c. di P. Scapin, Padova 1973 [Testi e saggi, 4]). 61 Cfr. O. Todisco, Libertà e bontà chiave di lettura del III libro del l’Ordinatio di Duns Scoto, in Giovanni Duns Scoto. Studi e ricerche nel VII centenario della sua morte, ed. M. Carbajo Nuñez, 2 voll., Roma 2008 (Medioevo, 15), II, pp. 133-152, in partic. p. 135: «Scoto non parte dalla creazione, di cui cogliere la forza ascensiva che, inceppandosi a causa del peccato, sarebbe la ragione del l’Incarnazione del Verbo, in vista della sua ascesa a Dio. Egli non condivide questa lettura, non degna di Dio, non perché misconosca l’importanza redentiva di Cristo o la gravità della frattura tra l’uomo e Dio, a cui l’Incarnazione porrà rimedio. Egli non ritiene degna di Dio una lettura che fa pensare all’orologiaio riparatore, con cui Leibniz stigmatizzerà il Dio di Newton». 62 Cfr. L. Veuthey, Giovanni Duns Scoto tra aristotelismo e agostinismo, a c. di O. Todisco, Roma 1996 (I maestri francescani, 6), p. 9. 63 Cfr. Duns Scotus, Ordinatio, I, d. 1, p. 1, q. 1, n. 14, ed. Vaticana, II, Ordinatio. Liber primus, distinctio prima et secunda, Città del Vaticano 1950,
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Alla domanda sul motivo della creazione, Bonaventura aveva risposto: l’amore; Dio è amore, bene, bontà, e la bontà tende a espandersi («bonum est diffusivum sui») 64. Alla medesima domanda Duns Scoto, volendo salvaguardare la libertà della creazione, che gli sembrava compromessa dal principio neoplatonico del bene che tende necessariamente alla propria diffusione, risponde: la causa della creazione è il volere stesso di Dio, che vuole un determinato effetto e lo produce in un preciso momento 65. Con tali parole intende affermare la libertà assoluta di Dio. Tuttavia Dio agisce, secondo il nostro modo di esprimerci, «rationabiliter» 66, cioè con un obiettivo e secondo un preciso ordine di motivi. La ragione della creazione è la gloria di Dio: Dio ha creato il mondo per essere amato e glorificato ‘dalle’ e ‘nelle’ sue creature, ha costituito un monumento nel quale si rispecchia la propria bontà, grandezza e gloria: «Deus universum propter se creavit, unde Deus diligens se fecit haec» 67, «propter bonitatem suam communicandam, ut propter suam beatitudinem, plura in eadem specie produxit» 68. Per tale motivo, crep. 9, 9-10: «(…) sensitiva nostra, quae a Deo creatur secundum unam opinionem, non posset perfecte quietari, nisi in Deo». 64 Cfr. Bonaventura de Balneoregio, In Primum Librum Sententiarum, d. 45, a. 2, q. 1, in Id., Commentaria in quatuor libros Sententiarum, I, In primum librum Sententiarum, Q uaracchi 1882, p. 804: «Ratio causandi est bonitas, et in ratione effectivi et in ratione finis. Nam ‘bonum dicitur diffusivum’, ‘et bonum est propter quod omnia’». 65 Cfr. Duns Scotus, Ordinatio, II, d. 1, q. 2, n. 91, ed. Vaticana, VII, Ordinatio. Liber secundus a distinctione prima ad tertiam, Città del Vaticano 1973, p. 48, 4-9: «Et ideo ista voluntas Dei – quae vult hoc et pro nunc – est immediata et prima causa, cuius non est aliqua alia causa quaerenda: sicut enim non est ratio quare voluit naturam humanam esse in hoc individuo et esse possibile et contingens, ita non est ratio quare hoc voluit nunc et non tunc, sed tantum ‘quia voluit hoc esse, ideo bonum fuit illud esse’». Cfr. ibid., p. 48, 9-11: «Et quaerere huius propositionis – licet contingentis immediatae – aliam rationem, est quaerere rationem cuius non est ratio quaerenda». Poco più avanti Scoto aggiunge che la volontà divina «nec suam bonitatem habet a volito, sed e converso»: cfr. ibid., n. 92, p. 48, 18-19. 66 Ibid., I, d. 35, n. 39, ed. Vaticana, VI, Ordinatio. Liber primus a distinctione vigesima sexta ad quadragesimam octavam, Città del Vaticano 1963, p. 261, 2. L’agire ordinato è l’agire razionale, cioè secondo un ordine nei fini. Cfr. anche Id., De primo Principio, Capitulum secundum, quarta conclusio, probatur, Hrsg. Müller cit. (alla nota 61), p. 13-14: «Finis est prima causa in causando» (tr. it., p. 88). 67 Id., Reportata Parisiensia, IV, d. 49, q. 7, n. 10, éd. Vivès, XXIV, Paris 1894, p. 657b. 68 Id., Ordinatio, II, d. 3, p. 1, q. 7, n. 251, ed. Vaticana, VII, Ordinatio. Liber
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ando ha comunicato ad altri il suo amore, affinché a loro volta lo amino; vuole cioè che siano a lui uniti in un vincolo d’amore. Il movente fondamentale è dunque l’amore, che Dio vuole condividere con altri: Q ui enim primo se amat ordinate (et per consequens non inordinate, zelando vel invidendo), secundo vult alios habere condiligentes, et hoc est velle alios habere amorem suum in se – et hoc est praedestinare eos, si velit eos habere huius modi bonum finaliter; tertio autem vult illa quae sunt necessaria ad attingendum hunc finem, scilicet bona gratiae; quarto vult – propter ista – alia quae sunt remotiora, puta hunc mundum sensibilem pro aliis ut serviant eis 69.
La ragione della creazione include, secondo Scoto, la ragione del l’Incarnazione, in un atto di perfetta libertà da parte di Dio, ma in un piano razionale nel quale Cristo è il centro, l’alfa e l’omega, la ragione e il fine di tutto, in un primato assoluto, come l’‘amante’ supremo destinato a ricondurre tutto il divenire alla sua origine, in un atto d’amore infinito: Primo Deus diligit se; secundo diligit se aliis, et iste est amor castus; tertio vult se diligi ab alio, qui potest eum summe diligere, loquendo de amore alicuius estrinseci; et quarto praevidit unionem illius naturae, quae debet eum summe diligere, etsi nullus cecidisset 70.
In tale contesto, Duns Scoto reinterpreta anche l’idea anselmiana della ‘somma soddisfazione’: secundus a distinctione prima ad tertiam cit., p. 514, 11-13. Cfr. anche Id., Reportata Parisiensia, II, d. 1, q. 3, n. 14, éd. Vivès, XXII, Paris 1894, p. 538b: «Propter suam bonitatem vult et propter obiectum primum». 69 Id., Ordinatio, III, d. 32, q. un., n. 6, ed. Vaticana, X, Ordinatio, Liber tertius a distinctione vigesima sexta ad quadragesimam, Città del Vaticano 2007, pp. 136-137, 141-148. 70 Id., Reportata Parisiensia, III, d. 7, q. 4, éd. Vivès, XXIII, Paris 1894, p. 303a. Scoto interpreta l’agire di Dio alla luce dell’ordo amoris, che non è vincolato al determinismo causale, ma non per questo è privo di ratio, di ragioni e quindi di ragionevolezza; cfr. Todisco, Libertà e bontà cit. (alla nota 62), p. 150: «La tesi di Scoto è che l’operare di Dio non va agganciato a una causa, quasi che la causa potesse determinarlo. Il che non significa che non vi sia una ratio o che non abbia un senso. Ratio e causa non si identificano. La predestinazione è la ratio o anche il senso del grande evento dell’Incarnazione».
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Dicitur quod non potest satisfieri Deo nisi aliquid formaliter maius omni creatura sibi offeratur quam sit illud pro quo peccare non debuerat, quod est tota creatura. Credo quod, salva gratia sua, hoc non est verum, quia non oportuit satisfactionem pro peccato primi hominis excedere totam creaturam in magnitudine et perfectione: suffecisset enim obtulisse maius bonum Deo quam fuit malum huius hominis peccantis tantum; unde si Adam per gratiam datam et caritatem habuisset unum vel multos actus diligendi Deum propter se, ex maiore conatu liberi arbitrii quam fuit conatus in peccando, talis dilectio suffecisset pro peccato suo redimendo et remittendo, et fuisset satisfactio 71.
La vera soddisfazione per il peccato, osserva Scoto, consiste in un atto della volontà che liberamente sceglie Dio e lo ama: è dunque un atto di amore – prerogativa della volontà libera – e si concretizza nella decisione, nella scelta. In tale contesto di amore totale e totalizzante, Scoto contempla il mistero dell’Incarnazione e dell’umanità rinnovata, compiuta, beatificata. Volendo liberamente essere amato da un altro, Dio prevede Colui che avrebbe potuto amarlo supremamente, cioè Cristo, il Verbo di Dio, che assume la natura umana e con essa tutti gli uomini, predestinati a condividere la sua gloria in cielo. Da ciò deriva il primato di Cristo e la convinzione che l’Incarnazione sia indipendente dal peccato di Adamo. La causa finale della creazione è Cristo, voluto per se stesso in vista del più grande amore, in un primato assoluto, essendo tutto ordinato a Lui: Egli è il primo inteso e il primo voluto 72. La natura umana è stata costituita, nella mente eterna di Dio, come la più nobile fin dall’eternità, quale 71 Duns Scotus, Lectura, III, d. 20, n. 31, ed. Vaticana, XXI, Lectura in librum tertium sententiarum, a distinctione decima octava ad quadragesimam, Città del Vaticano 2004, p. 49, 225-236. 72 Cfr. Id., Ordinatio, III, d. 7, q. 3, n. 61, ed. Vaticana, IX, Ordinatio, Liber tertius a distinctione prima ad decimam septimam, Città del Vaticano 2006, p. 287, 426-430: «Ordinate volens prius videtur velle hoc quod est fini propinquius, et ita, sicut prius vult gloriam alicui quam gratiam, ita etiam inter praedestinatos – quibus vult gloriam – ordinate prius videtur velle gloriam illi quem vult esse proximum fini, et ita huic animae». Interessante il textus interpolatus riportato in nota: «Deus prius vult gloriam quam alicui alteri animae velit gloriam, et prius cuilibet alteri gloriam et gratiam quam praevideat illi opposita istorum habituum; ergo a primo, prius vult animae Christi gloriam quam praevideat Adam casurum». Cfr. anche Id., Reportata Parisiensia, III, d. 7, q. 4, n. 5, éd. Vivès, XXIII, Paris 1894, p. 302.
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strumento per attuare il fine supremo della creazione 73. Il Figlio di Dio l’ha assunta integralmente, senza variazioni o miglioramenti; così facendo, Dio ha mostrato di amare e approvare pienamente la sua opera: «In ista passiva assumptione naturae humanae ad Verbum, nullum fuit medium ‘quod’ inter Verbum et totam naturam, sed tota natura fuit immediate assumpta» 74. Dal momento che è stata assunta dal Figlio di Dio, l’intera natura umana verrà anche glorificata in ciascun uomo 75. Cristo è l’uomo perfetto: potenzialità e aspirazioni umane naturali e soprannaturali sono pienamente attuate in Lui, nella sua volontà, nella sua intelligenza, nella sua capacità di Dio. La predestinazione di Cristo è come la prima ondata di amore e libertà che Dio riversa nel tempo e nella storia: Egli è voluto indipendentemente dal peccato, uomini e angeli sono in funzione di lui, essendo egli «fini propinquior» 76, archetipo e mediatore tra l’uomo e Dio. Sciendum ergo est quod anima Christi praedestinata fuit ab aeterno ad maximam gloriam, non quia alii praevisi erant cadere, sed ut frueretur Deo; immo prius erat Christus – secundum modum intelligendi nostrum – praedestinatus ad gloriam, quam fuerit praevisus a Deo casus et lapsus humani generis, quia omnes praedestinati prius sunt praedestinati quam praevisus sit eis illud quod est ad finem, quia primo volitum volitione ordinata omnibus est finis; et ideo passio Christi, quae est ad finem ordinata, ut ad salutem animarum, posterius ordinabatur quam praedestinatio animarum. Et 73 Cfr. Id., De primo Principio, Capitulum quartum, octava conclusio, Hrsg. Müller cit. (alla nota 61), p. 87-88 (tr. it., p. 212): «Intellectus Primi intelligit actu semper et necessario et distincte, quodcumque intelligibile prius naturaliter quam illud sit in se». Q uesta conoscenza previa di Dio è perfettamente chiara e distinta; cfr. Id., Ordinatio, I, d. 2, n. 105, ed. Vaticana, II, Ordinatio, Liber primus, distinctio prima et secunda cit., p. 187. 74 Ibid., III, d. 2, q. 2, n. 66, ed. Vaticana, IX, Ordinatio, Liber tertius a distinctione prima ad decimam septimam cit., p. 146, 502-504. 75 Cristo è dunque pienamente uomo e pienamente Dio; cfr. ibid., d. 17, q. un., n. 5, ed. Vaticana, IX, Ordinatio, Liber tertius a distinctione prima ad decimam septimam cit., p. 564, 25-30: «Sicut secundum fidem firmiter tenendum est in Christo esse duas naturas et unam hypostasim, ita oportet concedere – sicut consequens ex illo – quod in ipso sint naturales proprietates et potentiae utriusque naturae; sed potentiae perfectissimae rationalis naturae sunt intellectus et voluntas; quare in ipso sunt intellectus creatus et voluntas creata». 76 Ibid., d. 2, q. 2, n. 61, p. 287, 427.
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ideo Christus non fuit praedestinatus propter casum aliorum, sed omnes praedestinati prius erant praedestinati quam praevisa et ordinata fuerit passio Christi 77.
A un ordine nell’amore corrisponde un ordine nella previsione: partendo da sé quale sommo bene, Dio conosce tutte le creature possibili; solo successivamente prevede che gli uomini sarebbero caduti con il peccato di Adamo e, di conseguenza, prevede e stabilisce il rimedio, cioè il modo attraverso cui gli uomini sarebbero stati redenti per mezzo della Passione di suo Figlio. Anche la redenzione è un dono gratuito, contingente: l’uomo infatti, argomenta Scoto, poteva essere redento diversamente che per mezzo della morte di Cristo. Non c’è alcuna necessità che Cristo redima l’uomo per mezzo della sua morte, se non una ‘necessità di conseguenza’, cioè il fatto che Dio stesso abbia deciso che così Egli lo redimesse. La necessità di conseguenza è di questo tipo: se corro, mi muovo; il muovermi è una conseguenza del mio correre, ma il correre è, senza dubbio, contingente; perciò sia il correre che il muovermi sono contingenti. Similmente, la morte di Cristo fu un atto contingente come la previsione della sua Passione; poiché fu previsto che Cristo doveva patire, di fatto ha patito, ma sia la previsione che l’esecuzione sono contingenti, cioè libere, per amore: Omnia haec quae facta sunt a Christo circa redemptionem nostram, non fuerunt necessaria nisi praesupposita ordinatione divina qua sic ordinavit facere; et tunc tantum necessitate consequentiae necessarium fuit Christum pati – sed tamen totum fuit contingens, et antecedens et consequens 78.
Tutto l’evento di Gesù, l’Incarnazione, la vita pubblica, la Passione e la morte, fino alla sua Resurrezione, è illuminato dalla gratuità e dal dono. Scoto afferma che Cristo avrebbe potuto redimerci in modo diverso da come ha fatto, tuttavia ha scelto la morte in croce per attirarci maggiormente nel suo amore. Tale consapevolezza non può che suscitare una risposta d’amore, alimentando sentimenti di profonda gratitudine, devozione e adorazione: 77 Id., Lectura, III, d. 19, n. 20, ed. Vaticana, XXI, Lectura in librum tertium sententiarum, a distinctione decima octava ad quadragesimam cit., p. 32, 160-171. 78 Ibid., d. 20, n. 36, p. 51, 279-284.
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De facto libere, sui gratia, passionem suam ordinavit et obtulit Patri pro nobis. Et ideo multum tenemur ei: ex quo enim homo aliter potuit fuisse redemptus, et tamen ex libera voluntate redemit sic, multum ei tenemur, et amplius quam si sic necessario – et non aliter – potuissemus fuisse redempti. Ideo ad alliciendum nos ad amorem sui, hoc praecipue (ut credo) fecit et quia hominem voluit magis Deo teneri 79.
Q uesto il cuore di tutta la cristologia di Duns Scoto; questo, secondo Scoto, il cuore del mistero di Cristo e del mistero di Dio.
7. Dal maius al summum: due prospettive a confronto Anselmo e Duns Scoto riflettono sull’Incarnazione secondo impostazioni diverse: Anselmo si interroga sulle rationes necessariae della fede, sulla coerenza logica del progetto divino (la storia della salvezza); per tale motivo si muove sul piano ipotetico della sola ratio, indipendentemente dall’evento storico di Cristo, per evidenziare il bisogno umano di Cristo. Duns Scoto, al contrario, adotta la prospettiva, tipica dello stile francescano, che privilegia la libertà quale fondo dell’essere, la gratuità, che è senza una ragione (nel senso della logica razionale) ma non per questo senza uno scopo, che segue una logica che va oltre la logica umana. È un altro livello di coerenza, quello della volontà, che oltrepassa la mera consequenzialità logica della ragione umana, per inabissarsi nella logica e nella ratio dell’infinito amore di Dio. Tuttavia, è proprio nell’amore, quale summa ratio e suprema lex, che è possibile l’incontro. È quanto emerge nel finale del Cur Deus homo, dove giustizia e misericordia trovano una sintesi nella misericordia più grande: Nel Cur Deus Homo Anselmo scruta con la sua mente sottile e profonda e con tutte le capacità della sua ragione i motivi del l’Incarnazione. Anselmo vuole vedere nel l’opera della Redenzione, il cui centro è l’Incarnazione, un’opera suprema dell’amore divino. Egli applica qui il principio che aveva già utilizzato nel Proslogion per dimostrare che Dio esiste vera-
Ibid., n. 38, pp. 51-52, 293-299.
79
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mente. Sfruttando lo stesso principio, tenta di stabilire che l’Incarnazione è il vertice della manifestazione dell’amore di Dio verso l’umanità, amore ‘di cui la ragione umana non può pensare nulla di più grande’. Q ui dunque il pensiero di Anselmo gravita intorno alla nozione d’amore, intorno al più alto grado d’amore che l’uomo possa concepire 80.
Da parte sua, Duns Scoto, partendo dalla consapevolezza che Dio è libero di fare ciò che vuole, si domanda quale posto abbia Cristo nella creazione per come essa è. Così facendo, contempla il piano di Dio alla luce dell’ordine dell’amore – Cristo è il primo voluto in quanto amante perfetto – e in virtù del principio metafisico secondo cui la causa finale è la ‘causa delle cause’, e ciò che è più perfetto non può essere in funzione di mezzo relativamente a quanto è meno perfetto 81. Se Cristo è voluto per se stesso, il peccato non può essere il motivo dell’Incarnazione; infatti, se la caduta fosse causa della predestinazione di Cristo, ne seguirebbe che l’opera suprema di Dio (summum Opus Dei) sarebbe stata solo occasionale, e il fatto che Dio avesse rinunciato a un bene così grande se Adamo non avesse peccato sarebbe molto irrazionale 82. Tuttavia, storicamente parlando, l’uomo ha peccato; perciò Dio, avendo previsto la caduta di Adamo, previde la redenzione per mezzo di Cristo come scopo ulteriore dell’Incarnazione: «Christus non venisset ut redemptor, nisi homo cecidisset – nec forte ut passibilis, quia nec fuit aliqua necessitas» 83. Scoto osserva che, di fatto, Cristo è venuto anche per la Redenzione, ma non solamente per essa, perché la sua gloria da sola supera infinitamente tutta la gloria dei beati riuniti 84. 80 Viola, Fede e ricerca dell’intelligenza cit. (alla nota 15), p. 115. Cfr. anche ibid., p. 125: «Figlio del suo tempo, sant’Anselmo tenta di utilizzare nella sua riflessione teologica tutte le risorse della ratio fino ad allora conosciute, con una coscienza metodologica che gli è propria. Infatti Anselmo è forse il primo teologo che applica coscientemente un metodo preciso in teologia». 81 Cfr. Duns Scotus, De primo Principio, Capitulum secundum, quinta conclusio, corollarium, Hrsg. Müller cit. (alla nota 61), p. 16 (tr. it., p. 68): «Illud, propter quod amatum ab efficiente, efficiens facit aliquid esse, quia ordinatum ad amatum in quantum amatum, est causa finali facti». 82 Cfr. Id., Reportata Parisiensia, III, d. 7, q. 4, n. 4, éd. Vivès, XXIII, Paris 1894, p. 303a. 83 Id., Ordinatio, III, d. 7, q. 3, n. 62, ed. Vaticana, IX, Ordinatio, Liber tertius a distinctione prima ad decimam septimam cit., p. 287, 431-433. 84 Cfr. ibid., pp. 287-288, 433-434.
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Il primato di Cristo è dunque assoluto: Egli è il primogenito di ogni creatura, l’alfa e l’omega, il capolavoro di Dio, ragione e causa finale della creazione, previsto assolutamente e indipendentemente da qualsiasi merito o caduta. Il peccato è solo un ‘accidente’, al quale la redenzione porterà rimedio con una Incarnazione ‘passibile’; anzi, in questo contesto, il peccato diventa occasione per un amore più grande: «Q uod ergo Christus voluit sic pati, processit ex amore intenso finis et nostri amoris quo dilexit nos propter Deum» 85. Cristo è il dono supremo da parte dell’Amore infinito di Dio; la predestinazione e l’elevazione dell’uomo e di tutta la creazione a Lui sono il dono più grande che Dio abbia potuto fare alle sue creature. A motivo della assunzione da parte del Figlio di Dio, la creatura razionale può essere personalmente elevata alla comunione beatificante con Dio. Anche Anselmo perviene a conclusioni analoghe: grazie al principio dialettico della grandezza, già sperimentato nel Proslogion, mette in evidenza che il gesto d’amore divino, quale appare nell’Incarnazione, è il gesto più grandioso, del quale non se ne può pensare uno maggiore 86. Il riconoscimento dell’amore di Dio avviene pertanto per mezzo della ragione umana, in una prospettiva analoga a quella del Proslogion – la grandezza – che si misura in rapporto alla capacità di comprendere dell’uomo, ma che va oltre la stessa capacità di comprensione, come era stato dichiarato nel Proslogion: «Ergo, Domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit» 87. Anselmo riconosce che il mistero di Dio e il significato dell’Incarnazione possono essere intuiti e comunicati dall’uomo, in modo meno inadeguato, con il linguaggio superlativo, o dell’eminentia: questo è il culmine e il punto di arrivo del suo linguaggio teologico. Il dinamismo dello spirito umano, partendo da un’affermazione positiva su Dio, trascende se stesso, consapevole dei limiti, oltre che delle possibilità, di ogni umano parlare su Dio. Con tale percorso, risalendo il dramma dell’uomo peccatore e redento, 85 Id., Lectura, III, d. 20, n. 43, ed. Vaticana, XXI, Lectura in librum tertium sententiarum, a distinctione decima octava ad quadragesimam cit., p. 53, 343-345. 86 Cfr. Cur Deus homo, II, 20, 430B, p. 131, 29 (tr. it., p. 176). 87 Proslogion, 1, 235C, p. 112, 14-15.
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la riflessione conduce alle soglie del mistero di Dio, nel cuore della vita trinitaria, dove la restaurazione dell’umanità è pensata e voluta al di là dei limiti della originaria ‘instaurazione’: «Mirabilius Deus restauravit humanam naturam quam instauravit (…) Tanto ergo mirabilius Deus illum restituit quam instituit, quanto hoc de peccatore contra meritum, illud non de peccatore nec contra meritum fecit» 88. Si tratta di una vittoria di Dio sul peccato pensata a misura di Dio, cioè senza misura, in vista di un perfezionamento ulteriore della natura umana: «Non ergo in Incarnatione Dei ulla eius humilitas intelligitur facta, sed natura hominis creditur exaltata» 89. Anche la terminologia usata (satisfactio, restauratio, conciliatio) richiama tale dinamismo salvifico, che supera i limiti delle rationes necessariae e rimanda all’infinità dell’amore e della misericordia. È quanto riconosce Bosone: «Vitam autem huius hominis tam sublimem, tam pretiosa apertissime probasti, ut sufficere possit ad solvendum quod pro peccatis totius mundi debetur, et plus in infinitum» 90. E Anselmo replica: «Misericordiam vero Dei quae tibi perire videbatur, cum iustitiam Dei et peccatum hominis considerabamus, tam magnam tamque concordem iustitiae invenimus, ut nec maior nec iustior cogitari possit» 91. Comune tra Anselmo e Scoto è dunque il criterio metodologico adottato nell’accostarsi al mistero di Dio: il metodo del l’eminenza, del maius come eccedenza, poiché lo stile proprio di Dio è quello della grandezza senza misura. Su questo punto la prospettiva anselmiana si incontra e converge con il cristocentrismo: l’aggettivo maius, che Anselmo usa costantemente e ripetutamente nel suo riferirsi a Dio, converge nell’eccesso di stupore e gratitudine con cui Scoto definisce l’Incarnazione «summum Opus Dei». E di fronte all’eccesso senza misura di Dio, anche la risposta dell’uomo non può che essere nei termini della ‘smisuratezza’, della lode senza misura, oltre ogni misura: «In commendando Christum – scrive Duns Scoto – malo excedere laudando quam deficere in laude sibi debita» 92. È la stessa attitudine di Anselmo: 90 91 92 88 89
Cur Deus homo, II, 16, 417A, p. 117, 6-13 (tr. it., p. 159). Ibid., I, 8, 369C, p. 59, 27-28 (tr. it., p. 93). Ibid., II, 18, 425C, p. 127, 6-8 (tr. it., p. 170). Ibid., 20, 430AB, p. 131, 27-29 (tr. it., p. 176). Duns Scotus, Ordinatio, III, d. 13, q. 4, n. 53, ed. Vaticana, IX, Ordi-
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Toto corde gratias agentes laudamus et praedicamus ineffabilem altitudinem misericordiae illius, quia quanto nos mirabilius et praeter opinionem de tantis et tam debitis malis in quibus erramus, ad tanta et tam indebita bona quae perdideramus, restituit, tanto maiorem dilectionem erga nos et pietatem monstravit 93.
8. Il cuore dell’Incarnazione è l’amore «Mirabilius Deus restauravit humanam naturam quam instauravit» 94: la fedeltà di Dio, la stabilità nell’amore, che Anselmo esprime nei termini di giustizia e necessità, è espressione di grande misericordia. L’Incarnazione rappresenta il punto più alto di incontro tra Dio e l’uomo: si tratta di un mistero inaccessibile alla sola ragione, di un prodigio impenetrabile, di fronte al quale l’intelligenza è costretta al silenzio e si apre allo stupore; senza l’intervento diretto di Dio, ogni uomo sarebbe stato creato invano. Con una sottilissima analisi logica e linguistica, Anselmo dimostra che, parlando di necessità o immutabilità riferiti a Dio, si intende «immutabilitas voluntatis eius, qua se sponte fecit hominem ad hoc ut in eadem voluntate perseverans moreretur, et quia nulla res potuit illam voluntatem mutare» 95. Per questa necessità, la volontà di amore al Padre e agli uomini, Egli divenne uomo: «Scito omnia ex necessitate fuisse, quia ipse voluit. Voluntatem vero eius nulla praecessit necessitas. Q uare si non fuerunt, nisi quia ipse voluit: si non evoluisse, non fuissent» 96. Egli offrì liberamente al Padre la propria vita, ciò che per nessuna necessità avrebbe mai perduto, e pagò per i peccatori quanto non doveva per se stesso. Pertanto ha dato un esempio, perché nessuno esiti nel rendere a Dio ciò che anche la ragione riconosce che gli è dovuto: «Tam pretiosam vitam, immo se ipsum, tantam scilicet personam tanta voluntate dedit» 97. natio, Liber tertius a distinctione prima ad decimam septimam cit., p. 406, 369-371. 93 Cur Deus homo, I, 3, 364BC, p. 51, 50-51 (tr. it., p. 85). 94 Ibid., II, 16, 417A, p. 117, 6-7 (tr. it., p. 159). 95 Ibid., 17, 423A, p. 124, 7-9 (tr. it., p. 166). 96 Ibid., 424C, p. 125, 29-31 (tr. it., p. 168). 97 Ibid., 18, 426C, p. 128, 1-2 (tr. it., p. 171).
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L’esempio di Cristo che dona al Padre quanto non avrebbe ‘dovuto’, cioè la vita, e vive costantemente nella dimensione del ‘di più’, insegna all’uomo ad andare al di là del dovuto, nello spazio del ‘di più’, a superare l’ambito del dovere e della legge per entrare nella logica esistenziale della gratuità e dell’amore: viene in soccorso alla libertà umana per aiutarla a liberarsi e rieducarsi dopo l’esperienza del peccato. L’uomo usa bene la propria libertà quando va oltre il dovuto, oltre la logica del calcolo e della misura. L’esclamazione di Bosone è un crescendo di gratitudine, meraviglia e stupore: «Nihil rationabilius, nihil dulcis, nihil desiderabilius mundus audire potest. Ego quidem tantam fiduciam ex hoc concipio, ut iam dicere non possim quanto gaudio evulse cor meum. Videtur enim mihi quod nullum hominem reiciat Deus ad se sub hoc nomine accedentem» 98. La categoria del dono è il punto in cui si accordano giustizia e misericordia che, pensate alla maniera umana, sembravano escludersi a vicenda; il loro incontro avviene su un piano più elevato, quello dell’amore, la cui misura supera ogni umano pensare. Il procedimento razionale, adottato da Anselmo e perfezionato nel corso dell’opuscolo, mostra la verità dell’Antico e del Nuovo Testamento: il cammino della ragione incontra il linguaggio storico-narrativo della Parola rivelata, pur senza esaurirne la ricchezza; punto di arrivo di tale percorso è l’Incarnazione del Verbo, intesa come evento, con tutte le dimensioni e lo spessore della storia. La necessità che Dio si faccia uomo, riconosciuta dalla ragione con un procedimento coerente, corrisponde al grido del l’umanità ferita e lacerata in attesa della salvezza. È la via ‘negativa’ del bisogno, della indigenza, della non-autosufficienza l’unica strada attraverso cui la ragione umana può aprirsi all’intervento di Dio nella storia; è la via che apre lo spazio all’unico evento che porta a compimento le attese, le esigenze e i desideri più profondi dell’umanità.
Ibid., 19, 429B, p. 131, 3-6 (tr. it., p. 175).
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IL ‘Q UADRATO’ DI ANSELMO (DAL CUR DEUS HOMO): DALLA GENERAZIONE DIVINA ALLA GENERAZIONE BIOLOGICA. SIGNIFICATO SIMBOLICO E STORICO-DOTTRINALE DI UNO SCHEMA DIALETTICO L’opuscolo Cur Deus homo, insieme al Monologion e al Proslogion, è tra le più celebri opere di Anselmo d’Aosta. Fu iniziato in Inghilterra tra il 1094 e il 1095, nel corso delle persecuzioni attuate in quel regno contro la Chiesa, e fu terminato dall’autore nel 1098 in Italia, durante il suo esilio nel monastero campano di Liberi. Redatto in forma dialogica, esso sviluppa un programma di chiarificazione razionale del dogma cristiano dell’Incarnazione di Cristo, argomentando le rationes necessariae, ovvero presentando gli argomenti di ragione in grado di dimostrare la razionalità del l’Incarnazione, utili nelle controversie con l’ebraismo e l’Islam ma anche, sul fronte cristiano, utilizzabili nelle dispute contro coloro che, come Roscellino di Compiègne, propugnavano l’estensione dell’Incarnazione anche alle altre Persone della Trinità 1. Il significato teologico e metafisico di questo programma anselmiano è stato ampiamente indagato 2. Parimenti, è stato fatto * Si pubblica qui l’ultimo saggio scritto da Romana Martorelli Vico, compianta studiosa della storia della medicina e dell’embriologia nel Medioevo, scomparsa a Macerata il 2 gennaio del 2011. 1 Scrive a questo proposito A. Ghisalberti, Il compito dell’intelligere e la figura dell’intelletto nel Cur Deus homo, in Cur Deus homo, Atti del Congresso Anselmiano Internazionale (Roma, 21-23 Maggio 1998), a c. di P. Gilbert – H. Kohlenberger – E. Salmann, Roma 1999, [pp. 311-331], p. 312: «Bosone, interlocutore vivo e non accomodante, si fa interprete dei plures, dei molti che si interrogano su quale sia la necessità o la ragione per cui Dio onnipotente ha assunto la natura umana debole e inferma per restaurarla». Cfr. anche C. É. Viola, Anselmo d’Aosta. Fede e ricerca dell’intelligenza, Milano 2000, pp. 103-105. 2 Le voci bibliografiche relative al pensiero del l’arcivescovo di Canterbury sono molto numerose. Per questo motivo rimando all’utile sintesi di G. d’Ono Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 293-300 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112922
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opportunamente notare come la mancanza di un sistema filosofico dominante nel pensiero di Anselmo d’Aosta abbia di fatto lasciato spazio nella sua ricerca a una purificazione e precisazione del linguaggio del senso comune 3. Q uesta strategia dialettico-razionale può essere ravvisata in forma esemplare nel capitolo 8 del libro II del Cur Deus homo dove si trova, come è noto, un singolare esercizio logico che può essere considerato anche come una particolare estensione all’ambito teologico di una categoria concettuale fisico-biologica, enunciata attraverso l’uso di una forma linguistica apparentemente generica perché presupposta dall’introduzione del verbo facere, in realtà fortemente allusiva dell’idea di ‘generazione’ 4. Il contenuto di questo capitolo è stato analizzato e approfondito, nei suoi aspetti direttamente connessi all’uso da parte di Anselmo d’Aosta del metodo dialettico, da Giulio d’Onofrio, nel suo contributo al Congresso romano del 1998 dedicato proprio a quest’opera del Doctor magnificus 5. Più recentemente e da una diversa angolatura, questo capitolo è stato preso in esame anche nello studio antropologico di Maaika Van der Lugt dedicato alle teorie medievali della generazione straordinaria, proprio per queste sue implicazioni extra-teologiche 6. Tenuto conto di questi autorevoli e fondamentali studi, riproporre di nuovo all’attenzione queste poche pagine anselmiane ha il solo scopo di chiarire ulteriormente i nessi impliciti tra le diverse generationes a cui il discorso di Anselmo d’Aosta sembra alludere, riprenfrio, Anselmo d’Aosta, in Storia della Teologia nel Medioevo, 3 voll., Casale Monferrato 1996, I, I princìpi, pp. 481-533 e alla bibliografia contenuta nella recente edizione italiana del Cur Deus homo: Anselmo d’Aosta, Perché un Dio uomo?; Lettera sull’incarnazione del Verbo, a c. di A. Orazzo, Roma 2007, pp. 63-71. Sulla teologia e l’antropologia anselmiane e il Cur Deus homo in particolare, si vedano, oltre al già citato volume relativo al Congresso romano del 1998, i recenti studi: N. Albanesi, Cur Deus homo: la logica della redenzione. Studio sulla teoria della soddisfazione di S. Anselmo arcivescovo di Canterbury, Roma 2002; R. Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta, Roma 2003; M. Zoppi, La verità sul l’uomo. L’antropologia di Anselmo d’Aosta, Roma 2009. 3 Cfr. Viola, Anselmo d’Aosta cit., p. 126. 4 Cfr. Cur Deus homo, II, 8, 405-407, pp. 102-104. 5 Cfr. G. d’Onofrio, Anselmo e i teologi moderni, in Cur Deus homo cit. (alla nota 2), [pp. 87-146], pp. 125-130. 6 Cfr. M. Van der Lugt, Le ver, le démon et la Vierge. Les théories médiévales de la génération extraordinaire, Paris 2004, pp. 33-41.
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dendo a tal fine alcune idee generali già formulate da Van der Lugt e sostanzialmente condivisibili, in particolare i diversi significati del concetto di generatio, rintracciabili nella tradizione testuale del Medioevo latino. Tra gli argomenti necessari a dare corpo a questa complessa impresa dottrinale, pedagogica e apologetica, introdotti da Anselmo nella sua opera c’è ovviamente il tema della riparazione del debito contratto dall’uomo con Dio a causa del peccato originale. Tale riparazione, e la conseguente salvezza dell’umanità, è resa possibile, sostiene l’autore, dall’offerta libera che Cristo, Dio-uomo, fa di sé stesso al Padre. Il tema della trasmissione del peccato originale da Adamo a tutto il genere umano sembra avere qui un prevalente significato giuridico-penale, espresso in particolare dal linguaggio di Anselmo che si serve delle categorie del rapporto feudale servosignore 7. La questione del rapporto peccato originale/generazione umana è profondamente radicata nella riflessione cristiana occidentale, a partire da Agostino, il quale identifica il peccato originale con la concupiscenza, cioè con l’imperfezione morale della natura umana che è conseguita alla disobbedienza di Adamo. Da quel momento l’uomo, secondo Agostino, si volge spontaneamente verso il suo bene individuale e temporale e questo dominio della concupiscenza implica un disordine della natura e uno stato di peccato in ogni uomo, anche prima di ogni atto personale. Del male di Adamo sono responsabili anche i suoi posteri, in quanto si trovano virtualmente e materialmente contenuti in lui, che è il loro progenitore. Infatti è attraverso la generazione, sempre sottomessa alla concupiscenza attuale, che il peccato personale di Adamo è imputato come colpa ai suoi discendenti 8. Anselmo rielabora in vari testi tale dottrina dandole un significato nuovo rispetto a questa tradizionale visione agostiniana ancora dominante agli inizi del dodicesimo secolo. Egli infatti non identifica il peccato originale con la concupiscenza ma lo 7 Si veda in particolare il libro II del Cur Deus homo. Cfr. a questo proposito l’Introduzione di Antonio Orazzo alla già citata edizione italiana: A. Orazzo, Introduzione, in Anselmo d’Aosta, Perché un Dio uomo? cit., [pp. 5-61], pp. 26 e 32-33. 8 Cfr. J. B. Kors, La justice primitive et le péché original d’après S. Thomas. Les sources. La doctrine, Paris 1922, pp. 3-22.
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definisce come la perdita di quella rettitudine della volontà (o giustizia originale) che l’uomo possedeva prima della caduta. Tutti gli uomini dunque partecipano di una stessa natura reale che fu creata in Adamo e che si propaga nell’atto della generazione. Non è dunque a causa della concupiscenza che essi sono resi colpevoli, ma per questa unità della natura di ogni uomo con quella del suo progenitore 9. Q uesta idea anselmiana sul peccato originale rappresenta un presupposto fondamentale della descrizione delle modalità della generazione, umana e divina, così come sono illustrate in questo breve capitolo. Infatti con essa Anselmo d’Aosta pone l’accento sull’unità della natura di ogni uomo con quella di Adamo, ricevuta attraverso la generazione 10. Un altro presupposto fondamentale della riflessione anselmiana nel Cur Deus homo è di tipo dogmatico e riguarda l’assunzione da parte di Cristo della natura umana nell’unità della persona, secondo il pronunciamento del concilio di Calcedonia. Come segnala Van der Lugt 11, una significativa menzione di questo capitolo del Cur Deus homo si trova, fra le altre, anche nel dizionario Catholicon, del domenicano genovese Giovanni Balbi, della seconda metà del tredicesimo secolo, che per primo lo pone in relazione con il concetto di generazione, utilizzandolo proprio all’interno della voce «genero», dove viene attribuita appunto ad Anselmo d’Aosta l’invenzione del modello concettuale di una generazione ‘quadruplice’, quindi di un punto di vista senz’altro originale sulla relazione tra generazione divina e generazione umana 12. Cfr. ibid., pp. 23-35. Cfr. Cur Deus homo, II, 8, 405A, p. 102. Cfr. ibid., II, 8, 405B, p. 103, 1-5: «Sicut enim rectum est, ut pro culpa hominis homo satisfaciat, ita necesse est, ut satisfaciens idem sit qui peccator aut eiusdem generis. Aliter namque nec Adam nec genus eius satisfaciet pro se. Ergo sicut de Adam et Eva peccatum in omnes homines propagatum est, ita nullus nisi vel ipsi vel qui de illis nascitur, pro peccato hominum satisfacere debet». 11 Cfr. Van der Lugt, Le ver cit. (alla nota 7), p. 38. 12 Cfr. Johannes Balbus, s.v. Genero, in Id., Catholicon, Mainz 1460, senza foliazione (rist. an. Westmead – Farnborough – Hants 1971): «Et invenitur quadruplex generacio quia ut dicitur Anshelmus, Deus quatuor modis hominem fecit scilicet sine viro et femina, sicut patet in generacione Ade (…). Item de viro sine femina sicut fuit generacio Eve que est facta de costa viri dormientis, sicut dicam in mulier. Item de viro et femina sicut patet in generacione Seth et communiter aliorum hominum. Item de femina sine viro sicut fuit in generacione 9
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Come è stato bene messo in evidenza dalla studiosa olandese, gran parte degli autori medievali che si sono confrontati con il tema della generazione, in genere filosofi e teologi successivi ad Anselmo d’Aosta, hanno inteso il termine generatio in un senso molto ampio, che è in relazione con oggetti molto diversi tra loro: uomini, animali, piante, minerali, e anche Dio. Pur nella consapevolezza dell’esistenza di precise distinzioni concettuali tra la generazione come movimento, la generazione animale e umana come riproduzione e la generazione divina, essi colgono tra queste differenti accezioni o significati interessanti analogie. Una prima accezione del concetto di generatio, così come è inteso dagli autori medievali, rimanda alla generazione fisica, che riguarda essenzialmente gli elementi e i corpi misti e che ha sullo sfondo la teoria aristotelica del movimento, sviluppata soprattutto nel De generatione et corruptione, dove Aristotele descrive la generazione come movimento di crescita, decrescita, spostamento nello spazio e in generale come cambiamento delle qualità accidentali e sostanziali dei corpi. Una seconda e più propria accezione è la generazione intesa come atto biologico, che riguarda la riproduzione degli esseri viventi più complessi, l’uomo e gli animali, ma che presuppone anche la precedente definizione di generazione come movimento. In questa seconda accezione, generatio fa riferimento propriamente ed essenzialmente al passaggio dal non-essere all’essere, attraverso l’unione di un maschio e di una femmina, dove l’essere generato è della stessa natura o sostanza di ciò che lo genera. Sullo sfondo di queste constatazioni esperienziali si colloca il principio aristotelico della generazione come ‘replica formale’: l’uomo genera l’uomo, così come un cavallo genera un cavallo 13. Una terza accezione di generatio si riferisce propriamente alla generazione divina, annoverabile tra le generazioni cosiddette ‘straordinarie’ e che ha a che fare quasi sempre con un significato Christi qui singulariter natus est de virgine Maria. Hec generacio figurata fuit Gen. XV ubi dicitur generacione quarta revertentur huc. Q uia scilicet in Christi generatione exules ad patriam celestem revertuntur». 13 Cfr. Aristoteles, Metaphysica, XII, 3. A partire dal sec. xiii, quando inizieranno a essere disponibili le traduzioni delle opere biologiche aristoteliche, questo principio verrà ribadito anche sulla base delle dottrine embriologiche del De generatione animalium.
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analogico o metaforico. ‘Generare’ in senso metaforico o analogico appartiene soprattutto al vocabolario della teologia, come viene bene esplicitato ad esempio nell’idea della relazione trinitaria del Padre che genera il Figlio e nell’idea della generazione o ri-generazione spirituale attraverso il sacramento del battesimo. Infatti in generale in ambito teologico ‘generazione’ si dice per significare il modo in cui il Figlio procede dal Padre nella sua natura divina, nel senso che l’intelletto divino produce un termine simile a sé nella natura, in quanto il Figlio è l’immagine della sua sostanza o del suo essere. Il significato analogico con la generazione parentale è evidente, perché proprio della generazione è produrre qualcosa di simile a colui che genera, come nella generazione biologica dove il padre generante comunica al figlio parte della sua sostanza specifica 14. Inoltre, nel più specifico contesto sacramentale, l’idea della generazione è afferente, nel suo significato metaforico, alla funzione ri-generativa del battesimo: come vi è una parentela biologica relativa alla generazione fisica, così vi è una parentela spirituale relativa alla generazione spirituale 15. Anche Anselmo d’Aosta in questo breve capitolo del libro II del Cur Deus homo, intitolato Q uod ex genere Adae et de virginefemina Deum oporteat assumere hominem, tratta della generazione divina, ma la considera in un modo diverso e più ampio rispetto alle consuete accezioni teologiche di tipo analogico e metaforico. Pur operando infatti in un contesto culturale pre-aristotelico, almeno per quanto riguarda le nuove acquisizioni relative ai contenuti dottrinali delle scienze naturali, egli non considera la generazione della natura umana di Cristo, pur essendo di origine divina, come una metafora o un’analogia della generazione biologica, ma la ritiene una generazione a tutti gli effetti. Q uesto breve capitolo presenta dunque almeno due diversi piani di lettura, intimamente correlati: un piano strettamente teologico, nella sua parte iniziale, che introduce l’argomento che 14 Cfr. P. Dell’Aq uila, s. v. Generazione, in Dizionario portatile della teolo gia, II, Venezia 1768, pp. 95-97. 15 Cfr. Thomas de Aq uino, Summa theologiae, Suppl., q. 56, a. 2, ed. P. Caramello, Torino 1956, p. 186: «Sicut enim se habet corporalis cognatio ad corporalem generationem, ita spiritualis ad spiritualem. Sed solum baptismus dicitur spiritualis generatio. Ergo per solum baptismum contrahitur spiritualis cognatio: sicut et per solam generationem carnalem carnalis cognatio».
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verrà trattato, cioè l’indagine sulla ragione o necessità e sul modo in cui Dio, che è onnipotente, ha assunto la bassezza e la debolezza della natura umana per restaurarla, ovvero l’Incarnazione, dove è necessario presupporre la dottrina anselmiana sulla giustizia originale e sul peccato originale; e un piano logico-razionale, nella parte centrale del capitolo, che vede il trionfo del metodo dialettico, dove viene data indirettamente la definizione di ‘generazione’ attraverso uno schema linguistico-formale introdotto per rispondere al problema posto. Vi sono due condizioni poste da Anselmo in questo capitolo affinché abbia senso l’attuazione del piano salvifico, cioè la reintegrazione in tutti gli uomini della natura umana corrotta a causa del peccato originale ed ereditata da Adamo: la prima, realistica, richiede che il Dio-uomo debba appartenere al genere umano, quindi debba discendere da Adamo; la seconda, estetico-teologica, suggerisce come sia più bello e più degno (ma forse anche logicamente necessario) che quest’Uomo sia procreato o dal solo uomo o dalla sola donna, piuttosto che dall’unione dei due, come per tutti gli altri figli di Adamo e come suggerisce il parallelismo logico con Adamo stesso, creato e non generato secondo una generazione carnale. Va aggiunta ancora una postilla per chiarire che il punto di vista di Anselmo d’Aosta è sostanzialmente il punto di vista di Dio, il quale non ‘genera’ l’uomo, ma lo ‘crea’ o lo ‘fa’. Essendo Dio l’artefice dell’essere nella sua totalità, il suo atto non può essere completamente descritto dal realistico generare o dal l’ancor più biologico gignere. Scrive dunque Anselmo che Dio può ‘fare’ (facere) l’uomo in quattro modi: dall’uomo e dalla donna, come mostra continuamente l’esperienza; senza uomo e senza donna, come fu per la ‘creazione’ di Adamo; dall’uomo senza la donna, come ‘fece’ Eva (sicut fecit Evam); dalla donna senza l’uomo, come non aveva ancora fatto, prima dell’Incarnazione di Cristo 16. Per provare che anche questa quarta modalità non è solo una conseguenza necessaria dopo le prime tre ma è sottomessa al potere divino,
16 Cfr. Cur Deus homo, II, 8, 406A, p. 104, 3-6: «Q uatuor modis potest deus hominem facere. Videlicet aut de viro et femina, sicut assiduus monstrat usus; aut nec de viro nec de femina, sicut creavit Adam; aut de viro sine femina, sicut fecit Evam; aut de femina sine viro, quod nondum fecit».
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cioè è una «scelta libera e tenace della volontà divina» 17, che è stata solo cronologicamente differita, niente è più conveniente, sostiene Anselmo d’Aosta, che assumere che Cristo provenga da una donna senza l’uomo 18. La quarta modalità completa dunque, in modo coerente anche dal punto di vista logico, la rosa delle intersezioni possibili tra agire umano e agire divino. Lo schema dialettico ‘generativo’ che Anselmo d’Aosta descrive è dunque sintetizzabile in un quadrato logico 19, suddiviso in quattro sezioni, in ciascuna delle quali si può collocare una delle quattro opzioni possibili della generazione, tre delle quali appartengono alla generazione sovrannaturale o miracolosa. Tale quadrato dimostra così che l’Incarnazione di Cristo completa la serie delle possibilità che Dio ha stabilito nell’universo creato per generare un uomo e riunifica in un significato unitario creazione e generazione, l’eccezionale e l’abituale. Per concludere, da un punto di vista strettamente antropologico, si può affermare che in questo particolare capitolo del Cur Deus homo alla generazione divina, intesa in questo caso come generazione della natura umana di Cristo, viene attribuito da Anselmo d’Aosta un significato analogico reale che la mette in corrispondenza con la generazione biologica. Di conseguenza, la generazione divina attraverso l’Incarnazione non risulta essere una generazione virtuale (spirituale) ma una generazione concreta (sostanziale) come la generazione biologica dei discendenti di Adamo, la quale a sua volta, proprio in virtù delle intersezioni logicamente possibili, non è prerogativa esclusiva dell’uomo ma compete a ed è resa possibile da Dio stesso.
Ghisalberti, Il compito cit. (alla nota 2), p. 323. Cfr. Cur Deus homo, ibid., 406B, p. 104, 6-8: «Ut igitur hunc quoque modum probet suae subiacere potestati et ad hoc ipsum opus dilatatum esse, nil convenientius, quam ut de femina sine viro assumat illum hominem quem quaerimus». 19 Cfr. Van der Lugt, Le ver cit. (alla nota 6), p. 39. 17
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1. Satietas mentis Nella lettera in cui intercede a favore del monaco Mosè, che ha abbandonato il monastero di Canterbury e che, pentito, vuole farci ritorno, Anselmo lo descrive come un figliol prodigo da riaccogliere con gioia, poiché non ha dissipato del tutto il tesoro ricevuto in monastero, ossia la satietas mentis, un concetto che pare difficile ricondurre ad una matrice esclusivamente intellettuale, ma che piuttosto esprime al meglio la completa soddisfazione, razionale e spirituale, derivante dalla condizione di monaco 1. La vocazione monastica di Anselmo – il quale molto spesso nell’epistolario ricorda quanto sia gratificante l’esperienza della vita cenobitica – non è mossa dal desiderio di esibire il proprio sapere, quanto dalla ferma volontà di scegliere Dio quale unico scopo dell’anima e della mente 2. In effetti, uno dei tratti peculiari dell’esperienza monastica di Anselmo d’Aosta è la compresenza dello slancio spirituale e della dimensione intellettuale, esemplificata dai frequenti riferimenti alla ragione e al metodo razionale, non solo nelle opere
1 Cfr. Epistola ad Henricum priorem ceterosque fratres Cantuarienses, PL 158, 1201A, 140, pp. 285, 5 - 286, 12: «Moyses, carissimus frater noster (…) nondum exhausta mentis satietate, quam de spirituali mensa vestra acceperat, ad nostrum monasterium, quasi ad notum portum post multos mundani maris discursus tandem applicuit». 2 Cfr. P. Salmon, L’ascèse monastique dans les lettres de saint Anselme de Cantorbéry, in Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec, Abbaye Notre-Dame du Bec, Paris 1959, pp. 509-519.
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 301-323 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112923
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più celebri ma anche nelle pagine dell’epistolario, che di quel l’esperienza rappresenta la fonte più ricca e preziosa. Se in passato le lettere, che pure rappresentano la parte più consistente del corpus anselmiano, non divennero mai parte integrante della sua opera – motivo per cui ebbero un’eco assai più limitata rispetto ad altri epistolari, come quello di Bernardo di Clairvaux 3 – oggi, alla luce dei risultati della lunga e difficile opera di ricostruzione della complessa tradizione epistolare anselmiana, esse hanno finalmente conquistato, agli occhi della storiografia più avveduta, un posto di rilievo accanto ai più noti opuscoli teologici e filosofici, di cui rappresentano, nell’unica e inscindibile visione di Anselmo, una sorta di necessario completamento affettivo e spirituale 4. L’omo3 Cfr. R. W. Southern, Verso una storia della corrispondenza di Anselmo, in Anselmo d’Aosta figura europea, Atti del convegno di studi (Aosta, 1-2 marzo 1988), a c. di I. Biffi – C. Marabelli, Milano 1989 (Biblioteca di cultura medie vale. Di fronte e attraverso, 231), pp. 269-289. 4 L’edizione critica del l’epistolario di Anselmo è in Sancti Anselmi Opera Omnia, ed. F. S. Schmitt, voll. III-V, Edinburgh 1946-1951. In particolare, il volume III contiene le Epistolae 1-147, il volume IV le Epistolae 148-309 e il volume V le Epistolae 310-475. Le lettere scritte quale priore del Bec sono le prime 87, le lettere dalla 88 alla 147 sono scritte in qualità di abate del Bec, mentre le successive sono scritte in quanto arcivescovo di Canterbury. L’edi zione Schmitt ha completamente ridefinito il corpus epistolare anselmiano rispetto all’edizione seicentesca del benedettino Gabriel Gerberon, poi confluita in PL 158, 1059A-1208A e PL 159, 9A-272A. Per le corrispondenze delle lettere fra le due edizioni, cfr. Sancti Anselmi Opera Omnia, ed. Schmitt cit., III, pp. 95-96; V, pp. XV-XVII. Per la ricostruzione della tradizione epistolare anselmiana, cfr. F. S. Schmitt, Zur Überlieferung des Korrespondenz Anselms von Canterbury. Neue Briefe, in «Revue Bénédictine», 43 (1931), pp. 224238; Id., Zur Entstehungsgeschichte der handschriftlichen Sammlungen der Briefe des hl. Anselm von Canterbury, in «Revue Bénédictine», 48 (1936), pp. 300317; Id., Die Cronologie der Briefe des hl. Anselm, in «Revue Bénédictine», 64 (1954), pp. 176-207; A. Wilmart, La tradition des lettres de S. Anselme. Lettres inédites de S. Anselme et de ses correspondants, in «Revue Bénédictine», 43 (1931), pp. 38-54; W. Fröhlich, Die Entstehung der Briefsammlung Anselms von Canterbury, in «Historisches Jahrbuch», 100 (1970), pp. 457-466, poi con il titolo The Genesis of the Collections of St. Anselm’s Letters in «The American Benedicine Review», 35 (1984), pp. 249-266; R. W. Southern, La trasmissione delle prime lettere di Anselmo, in Anselmo d’Aosta figura europea cit., pp. 133-143. Cfr. inoltre i preziosi saggi introduttivi ai tre volumi della traduzione italiana, Anselmo d’Aosta, Lettere, in Id., Opere, a c. di I Biffi – C. Marabelli, 3 voll., Milano 1988-1990-1993 (Di fronte e attraverso), che riproducono il testo latino critico dell’edizione Schmitt: I. Biffi, Anselmo al Bec. Amabilità e rettitudine di un monaco riuscito, in Anselmo d’Aosta, Lettere, 1: Priore e abate del Bec, Milano 1988, pp. 43-88; R. W. Southern, La tradizione delle Lettere di Anselmo, priore e abate del Bec, ibid., pp. 89-98;
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geneità della produzione anselmiana suggerisce, infatti, di sfumare la distinzione tra le sue opere rivolte a indagare le più importanti questioni teoretiche e la sua corposa raccolta di missive, suscitate spesso da motivazioni di ordine pratico, ma non per questo prive di spunti intellettuali. Scritte per i motivi più diversi (un legame di amicizia, un richiamo alla responsabilità, una richiesta di intercessione, una questione ecclesiastica), le lettere trattano tutti gli aspetti della vita monastica con uno slancio spirituale che non è mai scevro da una vigile tensione speculativa e da una speciale cura nella scelta delle argomentazioni. D’altro canto, il presupposto dei superbi sforzi razionali che sono alla base di opere come il Monologion o il Cur Deus homo è rappresentato dall’adesione piena e convinta al contenuto della rivelazione, per cui non stupisce che tra le pagine dell’epistolario si scoprano con una certa frequenza tracce di un utilizzo del termine ratio coerente con i presupposti gnoseologici ed epistemologici enucleati nei suoi trattati, e potenziato, per così dire, dal calore dell’esperienza monastica, vissuta in prima persona e trasmessa come modello di vita. Può dunque essere utile provare a definire i contorni di questa ‘ragione monastica’, da intendersi non come una comoda formula di sintesi, ma piuttosto come una categoria – insieme teologica, filosofica e spirituale – dotata di una sua specificità all’interno del pensiero di Anselmo. Il presupposto epistemico della ragione anselmiana può essere individuato in una concezione del sapere che pone in intima relazione la scientia nella quale eccelleva il maestro Lanfranco con la sanctitas: il sapere anselmiano riconosce se stesso come riflesso della sapientia divina, per cui la conoscenza di sé e del mondo
G. Picasso, La Chiesa anglo-normanna nella seconda metà del secolo XI, in Anselmo d’Aosta, Lettere, 2.1: Arcivescovo di Canterbury, Milano 1990 (Di fronte e attraverso, 212), pp. 15-37; I. Biffi, Anselmo dal Bec a Canterbury: riluttanza e coscienza episcopale. Gli inizi, ibid., pp. 39-83; R. W. Southern, Trasmissione della corrispondenza arcivescovile di Anselmo, ibid., pp. 85-96; I. Biffi, Anselmo arcivescovo e monaco: le tribolazioni per la «libertas ecclesiae». L’azione pastorale. Il tramonto a Canterbury, in Anselmo d’Aosta, Lettere, 2.2: Arcivescovo di Canterbury, Milano 1993 (Di fronte e attraverso, 296), pp. 17-108; A. Granata, L’epistolario anselmiano: un monumento di vita e di letteratura, ibid., pp. 109-154.
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è anche conoscenza di Dio 5. Rivolgendosi al pontefice Urbano II, Anselmo scrive che Dio opera più spesso attraverso la vita di illetterati che ricercano le cose di Dio, che non attraverso l’abilità di sapienti che cercano il proprio interesse: il sapere, la conoscenza sono valori da perseguire se sono rivolti a Dio, se in Dio trovano il loro senso più profondo e più vero 6.
2. Apertis rationis Per valutare la reale portata della ratio anselmiana, ovvero la misura del contributo razionale all’indagine sul divino, non si può fare a meno di evidenziare il frequente richiamo di Anselmo al l’efficacia dell’argomentazione razionale, in qualsivoglia contesto. Descrivendo il metodo dell’intellectus fidei, Eadmero sottolinea che Anselmo si dedicò costantemente a Dio e agli studi teologici («caelestibusque disciplinis»), così da raggiungere un livello talmente alto nella speculazione divina («divinae speculatonis culmen») che con l’aiuto dell’illuminazione di Dio riuscì a risolvere questioni estremamente complesse circa la natura di Dio e la fede cristiana, non risolte prima di lui, e a dimostrare con ragionamenti evidenti («apertis rationibus») che quanto asseriva era conforme alla dottrina cattolica. L’intenso studio di Anselmo mirava dunque, secondo il suo biografo, all’acquisizione della capacità di afferrare col suo intelletto, in accordo con la fede, quanto appariva ancora nebuloso ed irrisolto 7. 5 Cfr. Eadmerus Cantuariensis, Vita Sancti Anselmi, I, 30, PL 158, [49-118], 74B, ed. R. W. Southern, in The Life of St. Anselm Archbishop of Canterbury by Eadmer, Edinburgh 1962 (ripr. Oxford 1972), p. 50: «Q ui vero non noverunt, ex eo intelligant, quod in quantum nostra et multorum fert opinio, non erat eo tempore ullus qui aut Lanfranco in auctoritate vel multiplici rerum scientia, aut Anselmo praestaret in sanctitate vel Dei sapientia». 6 Cfr. Epistola ad Urbanum papam, 1187BC, 127, p. 263, 30-32: «Ingerebat se etiam hoc menti meae quia saepe deus magis operatur per vitam illitteratorum quaerentium quae dei sunt, quam per astutiam litteratorum quaerentium quae sua sunt». 7 Cfr. Eadmerus Cantuariensis, Vita Sancti Anselmi, I, 7, 55A, ed. Southern cit., p. 12: «Factumque est ut soli Deo caelestibusque disciplinis jugiter occupatus, in tantum divinae speculationis culmen ascenderit, ut obscurissimas et ante suum tempus insolutas de divinitate Dei et nostra fide quaestiones Deo reserante perspiceret ac perspectas enodaret, apertisque rationibus quae dicebat rata et catholica esse probaret. Divinis namque scripturis tantam fidem habebat,
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Colui che nel Cur Deus homo ha spinto l’uso della ragione fin dove forse nessuno aveva osato nei secoli precedenti (la sfida sola ratione del remoto Christo) è lo stesso autore che, nella lettera indirizzata a Odone e Lanzone, dichiara di voler aggiungere pochi concetti rispetto a quanto è affermato nella stessa Scrittura 8, e che al perplesso Lanfranco scrive che ogni concetto espresso nel Monologion è stato sottoposto all’azione del discernimento spirituale e al giudizio dei biblisti più esperti: solo laddove la ragione non ha potuto procedere con le proprie forze («ubi ratio deficit»), si è cercato conforto e conferma nell’autorità divina 9. Non c’è nell’opuscolo alcuna affermazione che non trovi la sua fondazione nella Bibbia e nel De Trinitate di Agostino: nessun ragionamento («nulla ratiocinatio mea»), per quanto necessario, avrebbe legittimato Anselmo ad appropriarsi delle verità desunte dalle auctoritates, che egli si è limitato a sintetizzare mediante un’argomentazione più stringata («quasi mea breviori ratiocinatione») 10. Nonostante si mostri piuttosto riluttante a donare una copia dell’opuscolo all’abate Rainaldo, che ne aveva fatto esplicita richiesta, Anselmo è convinto della coerenza logica della sua opera, che la pone al riparo dalle critiche affrettate: in ogni caso, egli si dice disponibile ad ascoltare e ad approfondire ut indissolubili firmitate cordis crederet nichil in eis esse quod solidae veritatis tramitem ullo modo exiret. Q uapropter summo studio animum ad hoc intenderat, quatinus juxta fidem suam mentis ratione mereretur percipere, quae in ipsis sensit multa caligiine tecta latere». 8 Cfr. Epistola ad Odonem et Lanzonem, 1064B-1065A, 2, p. 99, 25-30: «Q uapropter cum hoc quod a me poscis, ubique in sacris paginis multo melius possis invenire, et mansuetae gravitati tuae velim ob sui reverentiam, quantum in me est, libenter oboedire: sic inter utrumque incedam, ut primum studendi in sacra scriptura tibi curam iniungam; deinde in mea persona non ex mea, sed ex eiusdem scripturae sententia pauca subiungam». 9 Cfr. Epistola ad Lanfrancum archiepiscopum Cantuariensem, 1139A, 77, p. 199, 13-17: «De illis quidem, quae in illo opusculo dicta sunt, quae salubri sapientique consilio monetis in statera mentis sollertius appendenda et cum eruditis in sacris codicibus conferenda, et ubi ratio deficit, divinis auctoritatibus accingenda: hoc et post paternam amabilemque vestram admonitionem et ante feci, quantum potui». 10 Cfr. ibid., 1139AB, p. 199, 21-26: «Etenim ea quae ex eodem opusculo vestris litteris inservistis et quaedam alia quae non inservistis, nulla mihi ratiocinatio mea, quantumlibet videretur necessaria, persuasisset, ut primus dicere praesumerem. Ea enim ipsa sic beatus Augustinus in libro De Trinitate suis magnis disputationibus probat, ut eadem quasi mea breviori ratiocinatione inveniens eius confisus auctoritate dicerem».
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ogni rettifica per l’amore della verità («amore veritatis servato»), purché espressa da parte di uomini ragionevoli e ben disposti sulla base di un’argomentazione condivisibile 11. A coloro i quali non condividono la decisione di reintegrare i ministri della fede che abbiano confessato il completo pentimento per i propri errori, a meno che non si adduca a sostegno di tale concessione un’auctoritas scritturale, Anselmo ricorda che le argomentazioni esposte da papa Callisto e da Gregorio Magno sono così solide e convincenti da non lasciare dubbi in proposito: le spiegazioni razionali possono dunque supplire pienamente alla Scrittura laddove in essa non sia possibile trovare una risposta precisa ad una questione religiosa 12. La ragione discorsiva, la ratio intesa come ragionamento, è evocata anche nella lunga lettera indirizzata al monaco Maurizio, verso il quale Anselmo dimostra una speciale inclinazione anche a motivo della sua spiccata attitudine metafisica. Discutendo del significato dei termini «malum» e «nihil», anticipando nella sostanza quanto andrà esplicitando nel capitolo XI del De casu diaboli, l’abate sottolinea dapprima le «opposte ragioni» in forza delle quali l’espressione «non aliquid» indica qualcosa per via di negazione 13, per poi concludere che se in base al ragionamento precedente 11 Cfr. Epistola ad Rainaldum abbatem, 1144C, 83, p. 208, 21-27: «Q uapropter vestram vehementer efflagito sanctitatem, ut idem opusculum non verbosis et litigiosis hominibus, sed rationabilibus et quietis ostendat. Q uod si contigerit ut aliquis sic aliquid ibi reprehendat, ut eius ratio digna vobis cui responderi debeat videatur: rogo ut mihi quid quave ratione reprehendat, caritative aut eius aut vestris litteris mandetis. Q uatenus, caritatis pace et amore veritatis utrimque servato, aut me illius reprehensio aut illum mea corrigat responsio». 12 Cfr. Epistola ad Willelmum abbatem, 1127BC, 65, p. 183, 57-63: «Q ui autem huic sententiae, quae ad sacri ordinis officium reditum post lapsum concedit, nequaquam alia ratione, nisi auctoritate fulciatur scripturarum, vult consensum attribuere: legat epistolam beati Calixti papae directam universis episcopis per Galliam constitutis et beati Gregorii ad Secundinum inclusum, ubi ipsi hanc sententiam sic firmis et paene eisdem rationibus et auctoritatibus confirmant, ut nullatenus aliorum probatione indigeat». Poco prima, Anselmo aveva ricordato all’abate Guglielmo che le ragioni del conte che pretendeva di partecipare alle liturgie nonostante avesse subìto una scomunica potevano essere accolte solo se accompagnate dal rispetto della sentenza emanata dalla Sede Apostolica: cfr. ibid., 1126B, p. 182, 26-27: «Facilius quoque atque benignius apostolicum eius rationes suscepterum, si suam illum sententiam cognoverit reveritum». 13 Cfr. Epistola ad Mauritium monachum, 1157B, p. 227, 56-58: «Igitur haec vox ‘non-aliquid’ his diversis rationibus aliquatenus significat rem et aliquid, et nullatenus significat rem aut aliquid».
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(«hac ratione») i termini «malum» e «nihil» significano un qualcosa che però non è né il male né il niente, si dà un’altra argomentazione («alia ratio») per cui tali voci significano invece proprio ciò che viene significato 14. In una lunga lettera indirizzata al cardinale legato Gualtiero, vescovo di Albano, Anselmo replica alla calunnia secondo cui i vescovi inglesi avrebbero dichiarato la loro fedeltà a Canterbury dietro l’assicurazione che il nuovo arcivescovo avrebbe abbandonato la Chiesa cattolica a favore degli scismatici: un semplice ragionamento basterebbe a smontare quest’accusa dinanzi ai suoi sostenitori 15. È sempre con la forza dell’argomentazione che l’abate del Bec risponde all’inaccettabile richiesta dell’abate Pietro, che aveva attirato un novizio presso la propria abbazia nonostante questi avesse già fatto domanda e voto al Bec, e ora minaccia di ripiudarlo e chiede ad Anselmo di fare altrettanto 16. Anselmo si dichiara altresì pronto ad argomentare («rationabiliter ostendere») ad Enrico I la ragione per cui la consacrazione episcopale del vescovo di Winchester spetta a lui e non all’arcivescovo di York 17. Per quanto concerne il ricorso alla ratio, dunque, ciò che emerge è una sostanziale continuità fra le lettere scritte al Bec, dove Anselmo trova la pace spirituale e la quiete mentale, frutto della convergenza della «vera fides» e della «invincibilis ratio» Cfr. ibid., 1157BC, p. 227, 66-68: «Sed cum hac ratione malum et nihil vere significent aliquid, et tamen quod sic significatur non est malum vel nihil, est tamen et alia ratio qua significant aliquid et quod significatur est aliquid; sed non vere aliquid, sed quasi aliquid». Sulla molteplicità delle argomentazioni addotte da Anselmo in un’opera a torto considerata minore, cfr. L. Catalani, L’estensione della ragione teologica: plures rationes e altiores rationes nel De conceptu virginali di Anselmo d’Aosta, in Rationality from Saint Augustine to Saint Anselm. Proceedings of the International Anselm Conference (Piliscsaba, Hungary, 20-23 giugno 2002), ed. by C. Viola – J. Kormos, Piliscsaba 2005, pp. 231-242. 15 Cfr. Epistola ad Walterum legatum cardinalem episcopum, 68C, 192, p. 80, 43-45: «Certe nec sciebam nec scio eos scismaticos aut sic divisos ab ecclesia fuisse, ut dicunt. Et si aliquis eorum qui hoc vobis dicunt me praesente hoc diceret, ostenderem rationabiliter non ita esse». 16 Cfr. Epistola ad Petrum abbatem, 1174AB, 113, p. 248, 34-35: «Ad calumniam vestram quam dicitis rationem excusationis nostrae exposuimus». 17 Cfr. Epistola ad Henricum regem Anglorum, 268D, 265, p. 180, 8-10: «Nam satis est notum quia ad me pertinet eius consecratio, nec alius eam debet facere nisi per me. Q uod paratus sum, si necesse fuerit, rationabiliter ostendere, sicut talis res ostendi debet». 14
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che gli consente di elaborare il Monologion e il Proslogion 18, e le lettere composte in qualità di arcivescovo di Canterbury, nelle quali il riferimento a un quadro di assoluta coerenza razionale appare spesso più urgente, ma non meno necessario.
3. Iusta ratione La portata della ragione anselmiana va oltre la dimensione del l’efficacia argomentativa, configurandosi essa anche come criterio di condotta, misura della giustezza e della convenienza delle proprie azioni. Al monaco Enrico che nel suo tragitto dal l’Inghilterra a Roma non si è fermato al Bec, Anselmo scrive con malcelato risentimento dicendosi convinto che la mancata sosta sia stata dovuta ad un motivo ragionevole 19. Anselmo non dubita invece della bontà del sentimento di Lanfranco, il quale avrà avuto i suoi buoni motivi per non aver accompagnato la sua missiva con qualche dono prezioso: le scuse dell’arcivescovo non sono assolutamente necessarie, ma confermano l’opinione del priore 20. Al monaco Roberto che ha lasciato volontariamente la sua abbazia, Anselmo dall’Inghilterra ricorda che questo è un comportamento intollerabile, se non è motivato da un’intenzione buona e da un motivo ragionevole 21. Ragionevole è anche il motivo per cui l’arcivescovo non ha potuto esaudire la richiesta di un colloquio da parte del cardinale legato Gualtiero, vescovo di Albano, inviato da Urbano II in Inghilterra per trattare direttamente con
18 Cfr. Eadmerus Cantuariensis, Vita Sancti Anselmi, 1, 19, 60AC, ed. Southern cit., p. 29. 19 Cfr. Epistola ad Henricum monachum, 267D, 24, p. 131, 7-8: «Q uod quamquam ego non sine aliqua rationabili causa factum esse, si bene vestram novi dilectionem, non credam». 20 Cfr. Epistola ad Lanfrancum archiepiscopum Cantuariensem, 1112C, 49, p. 162, 15-19: «Neque enim cum vestra suscipio dona, opus habeo eorum commendatione, quae nullatenus dubito vera mei dilectione fieri; neque cum non affluunt, indigeo excusatione, quia certus sum ea cessare aliqua iusta ratione, quam si vobiscum intelligerem, eligerem vobiscum». 21 Cfr. Epistola ad Robertum monachum, 1179AB, 119, p. 257, 3-6: «Dictum est mihi quia, postquam ivi in Angliam, noluistis in monasterio vestro conversari. Q uod si factum est bono animo et propter rationabilem causam utcumque potest tolerari; si vero aliquo rancore factum est, scitote me multum mirari».
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Guglielmo il Rosso e poi per impostare con lo stesso Anselmo la riforma della Chiesa anglosassone 22. Se ragionevoli gli appaiono i consigli dei suoi monaci, come quello di rinunciare ad intraprendere un lungo e stancante viaggio verso Roma nel periodo più caldo dell’anno 23, e i motivi per cui i canonici regolari di Saint-Q uentin desiderano rimuovere dalla carica l’abate Odone e sostituirlo con Gunterio 24, Anselmo fa fatica a comprendere il motivo («nescio quo consilio quave ratione») per cui Enrico I non ha ancora provveduto ad inviare un legato presso il papa per informarlo dell’esito del colloquio fra l’arcivescovo e il sovrano svoltosi a Laigle 25. Si capisce come per Anselmo non si tratti di una mera questione di opportunità, quanto piuttosto di un problema di coscienza che rischia di incrinare il rapporto di fiducia con il pontefice. Rientrato in Inghilterra, Anselmo dà immediatamente seguito alle istruzioni impartite da papa Pasquale II, che gli aveva ordinato di assolvere e benedire quanti avevano ricevuto investiture 26. Se in questo caso la ratio non ha un mero valore procedurale, poiché esprime la doverosa obbedienza al pontefice, in una lettera indirizzata a Muirchertach, re d’Ibernia, essa assume il significato di norma, di regolarità dei 22 Cfr. Epistola ad Walterum legatum cardinalem episcopum, 68A, 192, p. 79, 20-25: «Tunc monitus ut vobis occurrerem, quatenus colloqueremur de iis quae corrigenda sunt in hoc regno, rationabilem et susceptibilem reddidi causam: quia propter praedictum periculum et praeceptum regis venire non poteram, et nihil efficeremus nos duo absente rege et aliis, quorum assensu et consilio et operatione ad effectum duci posset colloquium nostrum». 23 Cfr. Epistola ad Ernulfum priorem et monachos Cantuariensis, 113C, 286, p. 205, 15-20: «Sciens enim scripturam divinam dicere: ‘Omnia fac cum consilio et post factum non paenitebis’ (Sir 32, 24), timui ne, si tam rationabili et amico consilio non acquiescerem, paenitentia sequeretur. Hac ergo ratione, quamvis praedicta comitissa me in terra sua retinere et omnia necessaria libentissime vellet impendere, reversus sum in Normanniam». 24 Cfr. Epistola ad G(unterium) canonicum S. Q uintini Belvacensis, 143B, 345, p. 282, 3-6: «Sicut audio, confratres vestri Belvacenses, canonici ecclesiae Sancti Q uintini, non temere, sed ob multas rationes domnum O(donem), qui modo vester abbas dicitur, volunt ab hac praelatione removere et vestram fraternitatem loco eius substituere». 25 Cfr. Epistola ad Henricum regem Anglorum, 150A, 368, p. 312, 26. 26 Cfr. Epistola ad Elferum priorem et monachos S. Eadmundi, 241A, 408, pp. 353, 4 - 354, 7: «Q uod hactenus me subtraxi a communione domni Roberti, feci propter praeceptum et oboedientiam domini papae. Nunc autem iubente eodem domino papa, ea ratione qua ipse mihi praecepit, eum in pacem et communionem suscepi».
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legami coniugali, sulle cui condizioni il sovrano irlandese è esortato a vigilare 27. Al monaco Maurizio che aveva espresso il desiderio di ritornare al Bec, Anselmo risponde dicendo che occorre attendere il momento favorevole per inoltrare la richiesta all’arcivescovo Lanfranco 28. Invitato a raccomandare il monaco Gunfrido presso Elgoto, priore di Saint-Etienne a Caen, Anselmo precisa di non voler chiedere un trattamento di favore che esoneri il suo assistito da una parte dei suoi doveri, bensì la concessione di un affetto familiare dettato dalla convenienza del suo comportamento e quindi da quella che può definirsi una giusta ragione 29. Similmente, raccomandando a Gondulfo, vescovo di Rochester, alcuni monaci provenienti dal Bec, Anselmo confida nel sentimento familiare di amicizia reciproca, in nome della quale chiede – «ubi ratio exiget» – una generosità commisurata alla disponibilità di beni materiali e spirituali del suo scrupoloso interlocu tore 30. Per rassicurare Ernulfo, appena eletto abate di Troarn, Anselmo ricorda che non c’è ragione per cui il vescovo di Bayeux debba pretendere dal neoabate un atto formale di obbedienza per impartirgli la benedizione abbaziale, giacché appare del tutto superfluo richiedere una nuova professione monastica, dal momento che essa non è stata mai rinnegata bensì rinforzata dalla recente
Cfr. Epistola ad Muriardachum regem Hiberniae, 174B, 427, p. 374, 25-26: «Auditur apud nos quia coniugia in regno vestro sine omni ratione dissolvuntur et commutantur». Cfr. anche Epistola ad Muriardachum regem Hiberniae, 178C - 179A, 435, p. 382, 16-19. 28 Cfr. Epistola ad Mauritium monachum, 1106BC, 42, p. 154, 28-31: «De reditu tuo quod te desiderare significas, sub silentio adhuc decrevi supprimere, donec tempore opportuniori reverendo domino et patri nostro archiepiscopo Lanfranco, cuius voluntati nos oboedire oportet, desiderium nostrum rationabiliter valeamus suggerere». 29 Cfr. Epistola ad Helgotum priorem, 1111CD, 48, p. 161, 4-12: «Domnus abbas Rogerus, certus de vobis et de me (…) petiit a me quatenus eius frater Gunfridus, qui Cadumi moratur, vestrae sanctitati commendaretur per me. Non ut aliquando aut eius iniustitiae in aliqua causa a vobis faveatur (…) sed ut caritatem quam vos omni proximo scitis debere, familiarius illi, cum id ratio videbitur exigere, propter amorem nostrum dignemini exhibere». 30 Cfr. Epistola ad Gondulfum episcopum Roffensem, 1151A, 91, p. 218, 9-14: «Q uapropter numquam minus praesumam de vobis propter vestrum episcopatum (…), immo tanto magis – ubi ratio exiget –, quanto magis vobis suppetit et in terrenis facultas ex dignitate et in spiritualibus opportunitas ex sanctitate». 27
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elezione 31. Alla nobile signora Ermengarda, riluttante alla decisione del marito di farsi monaco, Anselmo ricorda che non ci sono argomenti validi per anteporre i beni del suo corpo ai beni del l’anima del marito 32. Non stupisce che nella lettera a Folco, vescovo di Beauvais, che ruota intorno alle teorie di Roscellino, Anselmo ricorra più di una volta al termine ratio, con una diversità di sfumature, per giustificare alcuni dei passaggi più significativi. È in primo luogo una ragione di opportunità quella cui l’abate richiama l’attenzione del suo interlocutore: se sussisteranno le giuste ragioni, Folco potrà esibire, in occasione del concilio che l’arcivescovo di Reims intende convocare per discutere le dottrine trinitarie del maestro di Compiègne, la breve memoria difensiva contenuta nella lettera 33. Entrando nel merito, Anselmo afferma che al sedicente cristiano il quale nega anche solo uno dei capisaldi della professione di fede non si dovrà chiedere spiegazione («ulla ratio») della sua malafede, né gli si dovrà mostrare spiegazione della verità, che gli risulterà manifesta naturalmente 34. Q uesto perché, chiarisce subito dopo Anselmo, è da insipienti accendere una discussione su ciò che è indiscutibilmente vero, mentre le argomentazioni razionali sono opportune e necessarie nei confronti degli empi 35.
31 Cfr. Epistola ad Ernulfum abbatem Troarnensem, 1206D, 123, p. 264, 9-11: «Ad quod si quis nos vult cogere, cum ad abbatiae praelationem promovemur, sine ulla ratione fieri videtur». 32 Cfr. Epistola ad Ermengardam, 1192A, 134, p. 277, 27-29: «Aut qua ratione potes ab eo exigere, ut ipse aeterna bona animae suae postponat temporalibus bonis corporis tui, si tu bona corporis tui praeponis bonis animae illius?». 33 Cfr. Epistola ad Fulconem episcopum Belvacensem, 1193A, 136, pp. 279, 10 - 280, 12: «Q uoniam ergo puto reverentiam vestram ibi praesentem futuram, volo ut instructa sit quid pro me respondere debeat, si ratio exegerit». Cfr. ibid., 1194A, 281, 44-45: «Si ratio nominis mei exegerit, in totius conventus audientia legantur; sin autem, non erit opus ut ostendantur». 34 Cfr. ibid., 1193B, p. 280, 26-28: «Q uod si baptizatus et inter Christianos est nutritus, nullo modo audiendus est, nec ulla ratio aut sui erroris est ab illo exigenda aut nostrae veritatis illi est exhibenda». 35 Cfr. ibid., 1193C, pp. 280, 34 - 281, 38: «Fides enim nostra contra impios ratione defendenda est, non contra eos qui se Christiani nominis honore gaudere fatentur. Ab iis enim iuste exigendum est ut cautionem in baptismate factam inconcusse teneant; illis vero rationabiliter ostendendum est, quam irrationabiliter nos contemnant».
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In un’altra lettera scritta dall’esilio, Anselmo invita Gondulfo vescovo di Rochester a comprendere le ragioni del suo non ritorno in Inghilterra, ragioni – puntualizza Anselmo – che non sono insignificanti parole di un chierico, bensì motivi ragionevoli («rationabiles causae») e sui quali egli chiede sia mantenuto il riserbo 36, peraltro già spiegate al priore di Canterbury in un’altra epistola, nella quale si augura che la sua assenza forzata non comprometta i rapporti della Chiesa di Canterbury con il regno 37. Anselmo riconosce la giustezza dei molti e ragionevoli motivi enunciati da Ernulfo, priore di Canterbury, a sostegno della sua volontà di ammettere i giovani alla sua comunità monastica: una delle tante questioni pratiche sulle quali il premuroso priore sollecita un parere dell’arcivescovo 38. Altrettanto giusti sono i motivi per cui almeno tre vescovi debbano partecipare all’ordinazione di un nuovo vescovo 39. Se Anselmo ha deciso di rivolgersi a papa Pasquale II, lo ha fatto solo dopo aver valutato attentamente l’opportunità della richiesta: l’aspirazione al pallio da parte di Tommaso II di York e il timore di una ripresa della lotta per le investiture gli impongono di interpellare il pontefice per avvertirlo dei rischi che corre la Chiesa inglese 40. In una lettera indirizzata ad Ugo, arcivescovo di Lione, Anselmo chiarisce la sua posizione circa i ruoli dell’arcivescovo di Canterbury e del re, chiedendo al suo interlocutore una conferma o una 36 Cfr. Epistola ad Gundulfum episcopum Rofensem, 227A, 330, p. 263, 14-16: «Ibi, ut puto, legetis rationabiles causas quare nec debui, nec debeo, secundum quod res nunc est, redire in Angliam. Q uas tamen causas nolo publicari». 37 Cfr. Epistola ad Ernulfum priorem Cantuariensem, 127B, 311, pp. 235, 3 - 236, 6: «Q uod vos et amici nostri doletis quia rediens Roma in Angliam non veni, hoc facit dilectio; sed quod pastoralem curam sine ulla ratione relinquere videor, non hoc aestimant sapientes religiosi, quibus rem ostendo, neque ego intelligo». 38 Cfr. Epistola ad Ernulfum priorem Cantuariensem, 224A, 331, p. 265, 31-33: «De pueris et iuvenibus suscipiendis propter multas rationabiles causas, quas scripsistis, consilio vestro faveo, donec deo disponente redeam et haec et alia communi agamus consilio». 39 Cfr. Epistola ad Muriardachum regem Hiberniae, 179B, 435, p. 383, 7-9: «Minus quoque quam a tribus episcopis episcopus ordinari non debet, cum propter multas alias et rationabiles causas». 40 Cfr. Epistola ad Paschalem papam, 184C - 185A, 451, p. 398, 4-6: «Q uoniam fortitudo et directio ecclesiarum dei maxime post deum pendet ex auctoritate paternitatis vestrae: quando ratio exigit, ad eius libenter recurrimus auxilium et consilium».
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smentita alla sua cogitatio, purché accompagnata da una chiara motivazione («ostensa ratione») 41. Q uest’ampia casistica dimostra come per Anselmo ogni azione debba essere ispirata da una giusta ed evidente ragione, ossia da un motivo di opportunità, di convenienza, di adesione ad uno stile comportamentale.
4. Rationabiliter Se in una lettera indirizzata a Bosone, la ratio è intesa ancora come criterio di misura e di valutazione dell’opportunità di un’azio ne 42, in un’epistola indirizzata a papa Urbano essa sembra indicare un’esigenza più profonda, ovvero la comprensione dei compiti e dei doveri che spettano a ciascuno secondo il proprio grado: Anselmo esprime il ringraziamento per l’invio della delegazione che gli ha portato il pallio, anche se egli avrebbe desiderato rendergli visita personalmente, sia perché così era giusto fare («ratio id fieri postulabat»), sia per il bisogno di un consiglio e di un colloquio su argomenti di grave importanza 43. Nella celebre Epistola 156, indirizzata al priore Baldrico e agli altri monaci del Bec, Anselmo spiega che non avrebbe potuto rationabiliter resistere all’elezione a motivo del suo impegno abbaziale, perché questo è da intendersi come un atto di offerta dell’abate non solo ai monaci ma in primo luogo a Dio, è cioè la disponibilità, che non può conoscere eccezioni, a compiere sempre la sua volontà 44. Cfr. Epistola ad Hugonem archiepiscopum Lugdunensem, 55AB, 176, p. 59, 48-51: «Intendat igitur prudentia vestra et consideret quid ex praedictis sentiam, quatenus sententiam meam litteris vestris aut approbetis aut ostensa ratione infirmetis, et me in eo quod magis tenendum est confirmetis». 42 Cfr. Epistola ad Bosonem monachum Beccensem, 49A - 50A, 174, p. 56, 8-11: «Si autem deus pacem et opportunitatem mihi dare dignabitur, ut tuae dilectionis mihi liceat frui praesentia: scito quia hoc ut fiat curabo libentissime, et si non semper, vel tantum quantum permittet ratio». 43 Cfr. Epistola ad Urbanum papam, 71AB, 193, p. 82, 7-11: «Nostri quippe, fateor, ordinis et officii intererat et praesentiam vestram ex more visitare, et eam, ut fieri decet, condigna reverentia honorare. Et id quidem, ex quo gradum episcopalem suscepi, summo desiderio fecere concupivi, cum quia ratio id fieri postulabat, tum quia consilio et alloquio vestro frui desiderabam». 44 Cfr. Epistola ad Baldricum priorem ceterosque monachos Beccenses, 22C, 156, p. 20, 75-76: «Ad ea vero quibus vestrum putant me potuisse rationabiliter electioni praedictae resistere, breviter respondeo». In effetti, l’elezione alla sede arcivescovile di Canterbury aveva provocato ad Anselmo molti sentimenti con41
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In questa lettera, che esordisce con un tono da orazione, Anselmo applica tutta la sua raffinata e rigorosa dialettica per discutere e ribattere uno dopo l’altro gli argomenti dei monaci beccensi, facendo risaltare alla fine la coerenza della sua posizione e delle sue scelte, pure tanto sofferte. Il rationabiliter con cui Anselmo spiega il suo cedimento dopo le iniziali, sincere resistenze all’elezione al l’arciepiscopato, non è l’espressione di una mera ragionevolezza, bensì di una più profonda razionalità, poiché l’accettazione si configura come sottomissione piena, volontaria e convinta non ad un equilibrio di poteri ecclesiastici o tantomeno alla soddisfazione di ambizioni personali, bensì direttamente al volere di Dio che, per il monaco-arcivescovo, si manifesta nell’autorità del papa e nella regola benedettina. Rifiutando con fermezza la richiesta del cardinale legato Gualtiero di programmare un incontro in cui trattare «degli affari concernenti le Chiese di Dio», Anselmo afferma di non poter lasciare Canterbury, auspicando che il legato accolga serenamente queste scuse («nostras rationabiles excusationes») che sono tanto ragionevoli quanto vere 45. La volontà di Anselmo si adegua, in maniera libera e convinta, alla razionalità e alla verità che la presiede: il suo codice etico non è opinabile poiché è ancorato ad un principio di verità indissolubile, ossia alla giustizia divina. Il dovere di Anselmo è quello di suggerire al re, d’accordo con i vescovi e i nobili, in maniera conveniente e ragionevole (opportune et rationabiliter) il da farsi, e affidarsi per il resto all’aiuto di Dio, affinché i desideri comuni possano esaudirsi 46. Avvertendo in pieno la responsabilità della sua carica, in quanto garante della collegialità episcopale, Anselmo si rifiuta di introdurre nel sinodo aggiunte o cambiamenti «non nisi consensu coepiscopo-
trastanti, tanto che il dolore per il distacco dai suoi monaci aveva prevalso sulla ragione: cfr. Epistola ad monachos Beccenses, 9C, 148, p. 4, 20: «Dolore rationem superante». 45 Cfr. Epistola ad Walterum legatum cardinalem episcopum, 66D - 67A, 191, p. 78, 20-22: «Precor igitur sanctitatis vestrae discretionem, quatenus aequo et pacato animo suscipiat has nostras rationabiles et quae infirmari nequeunt, quoniam verae sunt, excusationes». 46 Cfr. ibid., 67A, p. 78, 23-25: «Exspecto reditum domini mei regis et episcoporum et principum qui cum eo sunt, quatenus illi quae agenda sunt opportune et rationabiliter suggeramus».
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rum nostrorum» 47: mentre i vescovi erano favorevoli alla ricerca di un compromesso per motivi di ragionevolezza, Anselmo appare sordo a qualsiasi appello di moderazione e contrario ad ogni atteggiamento accondiscendente nei confronti delle esigenze mondane, che devono cedere il passo alla ragione incontrovertibile nella sua idealità. In una lettera indirizzata a Matilde, regina d’Anglia, che lo aveva rimproverato di aver suscitato con il suo comportamento l’ira del re, compromettendo l’esito dei suoi sforzi per farlo tornare in Inghilterra, Anselmo difende con una presa di posizione netta e con stile apologetico la sua condotta, nella quale non si può scorgere nulla di opaco e di inopportuno, né tantomeno di assurdo, poiché è stata sempre ispirata alla ragione, ossia alla legge divina, in virtù del battesimo e dell’ordinazione sacerdotale: in questo senso, Anselmo non poté che opporre un ragionevole rifiuto alla richiesta di infrangere le disposizioni apostoliche ed ecclesiastiche e di adeguarsi alla volontà del sovrano 48. Una conferma emerge dalla lettera a Ordwio, monaco di Canterbury, il quale gli aveva riportato l’accusa di non impegnarsi sufficientemente per ritornare nella sua arcidiocesi: lo farà, risponde Anselmo, quando si presenteranno le giuste condizioni (rationabiliter) 49. Lo stesso pensiero rivolge anche ad un altro monaco di nome Guarnerio: egli farà ritorno in Inghilterra appena avrà compreso la giusta maniera per farlo secondo il volere divino 50. Anselmo si rivolge anche a Roberto, conte di Meulan ed influente consigliere di Enrico I, affinché solleciti il sovrano a risolvere il problema del suo ritorno in Anglia: un ulteriore ed ingiustificato rinvio della soluzione attirerebbe sul re Epistola ad Willelmum archidiaconum Cantuariensem, 94D, 257, p. 169,
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48 Cfr. Epistola ad Mathildem reginam Anglorum, 226B, 329, p. 262, 23-26: «Ut ergo ostenderem quam rationabiliter recusem facere hoc quod a me requiritur secundum illorum consuetudinem, ostendi quomodo potius debitor sim apostolicam et ecclesiasticam cunctis notam servare constitutionem». 49 Cfr. Epistola ad Ordwium monachum Cantuariensem, 228B, 336, p. 273, 22-23: «Postquam de Anglia exivi, numquam intellexi quomodo rationabiliter redire possem». 50 Epistola ad Guarnerium monachum novitum, 151A, 375, p. 319, 4-6: «Reditum quidem meum deo annuente non differam, quando ipso disponente intelligam me illud posse rationabiliter facere».
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l’ira divina poiché ostacolerebbe l’esito necessario e ragionevole della vicenda 51.
5. Intelligentia veritatis L’impressione che si deriva dalla lettura di questi passi è che attorno al concetto di ratio si coagulino alcune fra gli assi portanti del pensiero anselmiano, ossia la rectitudo, la verità e l’ordine. La ratio è l’espressione, soddisfacente ma sempre parziale, di una più ampia e completa intelligenza della verità, missione di ogni uomo di fede, che può ottenersi solo grazie all’integrità morale e al l’adesione libera e convinta alla verità, all’obbedienza e all’odine, in una parola alla rectitudo. In più di un’occasione, Anselmo invita i suoi monaci a «non deflettere mai dalla rettitudine», a non cedere alle suggestioni diaboliche di chi li vorrebbe distogliere dalla «sinceritas honestatis et iustitiae» 52. Non è un appello convenzionale al rispetto della regula, ma una raccomandazione più incisiva, proveniente da un monaco che, anche da arcivescovo, affronta tutte le questioni da un punto di vista esclusivamente monastico, rivolto con indefettibile coerenza alla ricerca della verità e della giustizia. L’obbedienza è il presupposto della rettitudine, che a sua volta è la chiave di accesso alla verità. Rimproverando severamente il monaco Lanfranco, responsabile di gravi atti di insubordinazione, Anselmo lo ammonisce scrivendo che solo entrando in monastero per l’obbedienza e la retta via, ossia per Cristo, si può accedere alla verità 53. Rivolgendosi al maestro Unfrido affinché impartisca la sua dottrina a un giovane bisognoso, Anselmo ricorda che se l’istruzione umana può essere ricompensata, Dio apre il cuore 51 Cfr. Epistola ad Robertum comitem de Mellento, 369, p. 313, 15-17: «Q uapropter dico vobis quia valde timeo, ne ipse super se provocet iram dei et super eos, quorum consilio differt tam necessariae rei, tam rationabili succurrere». 52 Epistola ad Willelmum electum episcopum Wintoniensem, 142D, 344, p. 281, 7. 53 Cfr. Epistola ad Lanfrancum monachum, 1195B - 1196A, 137, p. 283, 43-46: «Fili mi, non intrasti per ostium, quia non intrasti per Christum. Non intrasti per Christum, quia non per veritatem. Non per veritatem, quia non per rectitudinem. Non enim intrat monachus in abbatiam per rectitudinem, qui non intrat per regularem electionem et per oboediantiam».
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degli uomini all’intelligenza della verità (intelligentia veritatis), senza chiedere nulla in cambio 54. Tuttavia, il dovere del cristiano è quello di confermare la rettitudine del proprio comportamento operando sempre secondo la legge della propria Chiesa. La travagliata elezione ad arcivescovo di Canterbury è per Anselmo l’occasione per accentuare l’atteggiamento di sottomissione alla volontà divina. Egli ha cercato di opporsi con tutte le sue forze all’elezione a successore di Lanfranco, vissuta come una vera e propria violenza; tale resistenza è stata però esercitata «servata veritate», ossia in conformità alla volontà di Dio 55. Scrivendo a Fulcone, vescovo di Beauvais, Anselmo precisa il senso della sua obbedienza («servata oboedientia»), che non è il frutto di un comportamento virtuoso, bensì della consapevolezza di dover servire Dio e la sua Chiesa 56. In una lettera indirizzata a Ugo, arcivescovo di Lione, Anselmo accenna alle multae rationes per le quali, spinto dal timore di Dio, acconsentì dopo mesi di resistenza all’ordine dell’arcivescovo di Rouen che lo spingeva ad accettare la nomina ad arcivescovo di Canterbury 57. Di tenore opposto sono le rationes consolatorie sulle quali Anselmo invita Lanfrido, abate di San Vulmaro, a riflettere affinché gli appaia meno gravoso il compito di guidare le sorti dei recalciranti monaci a lui sottoposti 58. I motivi di tribolazione devono dunque trasformarsi in motivi di letizia giacché ogni sofferenza patita è sostenuta per il timore di Dio. Sono infine le ragioni della tradizione ecclesiastica a sostenere Anselmo nella sua richiesta a papa Pasquale II di confermare l’antico privilegio riservato agli 54 Cfr. Epistola ad Hunfridum, 1142D - 1143A, 81, p. 205, 14-18: «Nam etsi ab homine forsitan ut vos doceret emistis, auribus quidem instrepere ille potuit, sed cor ad intelligendum aperire non potuit nisi deus, cui nullus ‘prior dedit’ ut ‘retribueretur ei’. Si enim amicos qui nos ‘recipiant in aeterna tabernacula’, facere iubemur ‘de mammona iniquitatis’: quanto magis de intelligentia veritatis?». 55 Cfr. Epistola ad monachos beccenses, 10B, 148, p. 4, 37-38: «Huic autem de me electioni immo violentiae hactenus quantum potui, servata veritate, reluctatus sum». 56 Cfr. Epistola ad Fulconem episcopum Belvacensem, 34BC, 160, p. 31, 48-59. 57 Cfr. Epistola ad Hugonem archiepiscopum Lugdunensem, 54A, 176, p. 58, 11-13: «Tandem timore dei ob multas rationes coactus, subdidi me dolens praecepto archiepiscopi mei et electioni totius Angliae, et sacratus sum». 58 Cfr. Epistola ad Lanfridum abbatem S. Wilmari, 63B, p. 72, 23-25: «Certe ubi tot rationes sunt consolationis et spiritualis laetitiae, non magnum pondus habere debet amaritudo tristitiae».
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arcivescovi di Canterbury di rappresentare in Anglia la Chiesa di Roma 59. La ricerca continua di un ordine incrollabile di verità e giustizia si riflette con nettezza anche nella ‘politica’ ecclesiastica anselmiana. In una lettera indirizzata a Sansone, vescovo di Worcester, Anselmo censura duramente l’insubordinazione della Chiesa di York alla Chiesa di Canterbury; ma nulla tralascerà, di quanto sia in suo potere presso Dio o presso gli uomini, pur di eliminare questa intollerabile e disordinata temerarietà («inordinata praesumptio») 60. Al che Sansone risponde cercando di stemperare l’ira di Anselmo e adducendo motivi di semplice e pratico buon senso, che però non hanno nulla a che vedere con i rigorosi ideali anselmiani, con la costante e ostinata rivendicazione dei diritti della sua Chiesa e delle sue tradizoni, riflessi dell’inalterabile ordine eterno voluto da Dio. In una lettera indirizzata a tre monaci di Canterbury, spaventati dalle difficoltà provenienti dall’assenza del loro arcivescovo e desiderosi di abbandonare l’Inghilterra per raggiungerlo, Anselmo descrive i rischi derivanti dal loro proposito: ad uno di loro, di nome Beniamino, che si era detto sicuro di raggiungere la salvezza solo accanto alla sua guida spirituale, ricorda che la responsabilità della salvezza è individuale e che occorre evitare ogni disordinata avventatezza («indiscreta et inordinata temeritas»), e abbandonarsi alla disposizione divina, insistendo affinché i sentimenti di ciascuno di loro rientrino nei confini del rationabile e della discretio, come freno a ogni impetus animi 61. Per l’arcivescovo non sussistono le condizioni per ritornare dall’esilio senza compromettere l’osservanza di una condizione imprescindibile, 59 Cfr. Epistola ad Paschalem papam, 201BC, 214, p. 112, 17-22: «Q uando Romae fui, ostendi praefato domino papae de legatione Romana super regnum Angliae, quam ipsius regni homines asseverant ab antiquis temporibus usque ad nostrum tempus ecclesiam Cantuariensem tenuisse, quam necessarie ita esse oporteat, nec aliter nisi contra utilitatem ecclesiae Romanae et Anglicae fieri possit. Rei autem huius rationes praesenti nuntio ex quadam parte, ut vobis referat, iniunximus». 60 Cfr. Epistola ad Samsonem episcopum Wigornensem, 248D, 464, pp. 413, 18 - 414, 20. 61 Cfr. Epistola ad Farmannum Ordwium Beniamin monachos Cantuarienses, 145C - 146A, 355, p. 296, 36-39: «Q uod petis, nulla ratione fieri potest. Indiscreta et inordinata temeritate forsitan fieri posset. Non enim est rationabile sequi, quocumque nos impetus animi, etiam bona intentione, impellit sine discretione».
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ossia la liceità morale della sua azione: il desiderio per il suo ritorno non è «secundum scientiam» (Rm 10, 2), per cui non può essere gradito a Dio 62. L’unica soluzione è che il re riconosca la propria colpa e la ripari di fronte a Dio: fuori da questa circostanza non data, egli non concepisce – né potrebbe concepirlo «aliquis rationalis intellectus» – un ritorno che sia onorifico per Dio e per la Chiesa cantuariense 63. E così in un’altra epistola il richiamo al «recte et ordinate facere», al comportamento limpido e retto, appare come l’unica via perseguibile e consigliabile ad Ernulfo, priore di Canterbury, e ai suoi monaci 64. I molteplici riferimenti alla divina dispositio, ai mandata dei e alla religiosa necessitas raccontano di una ragione per certi versi disarmante nella sua coerenza di fondo, al pari della definizione anselmiana di libertà come rinuncia alla scelta libera e adesione incondizionata alla volontà di Dio: la resistenza all’elezione al l’episcopato era condizionata alla verità, senza la quale lo stesso rifiuto non sarebbe più stato un comportamento dotato della necessaria rettitudine. Anselmo non cede alle pressioni degli uomini ma alla volontà di Dio fatta propria: sottrarsi vorrebbe dire opporre un’ingiusta resistenza a una disposizione divina che, in quanto tale, non può conoscere altra risposta adeguata che l’atto di obbedienza senza riserva, frutto dell’intima e profonda comprensione di ciò che è giusto fare per il bene generale della Chiesa. Il timor Dei e l’oboedientia sacra appaiono in questi e in altri frangenti le condizioni imprescindibili della condotta anselmiana: è soltanto a Dio che dovremo reddere rationem di ogni momento della nostra vita 65. 62 Cfr. ibid., 144D - 145A, p. 295, 5-7: «Q uamvis bonum sit habere bonum zelum et laudabile, tamen, si non est secundum scientiam, non est deo acceptabile». 63 Cfr. ibid, 146B, p. 297, 55-57: «Nullatenus intelligo, neque aliquis rationabilis intellectus, quomodo ei concordare aut ad eum redire possim ad honorem dei et ecclesiae nostrae et salutem animae meae. Si fit mihi quod fieri debet, faciam quod debeo ad honorem dei». 64 Cfr. Epistola ad Ernulfum priorem et monachos Cantuarienses, 218B, 292, p. 212, 13. 65 Cfr. Epistola ad monachos coenobii Cestrensis S. Werburgae, 81A, 231, p. 137, 41-42: «Unusquisque consideret quia de singulis momentis vitae nostrae reddituri sumus deo rationem»; Epistola ad Burgundium eiusque uxorem Ricezam sororem suam, 104B - 105A, 264, p. 179, 16-18: «Disponite totam rem vestram, sicuti faceretis, si in praesenti vos moriturum et deo redditurum rationem de tota
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6. De vera ratione dilectio La ratio che appare dalle lettere del monaco Anselmo, che resta tale anche quando diventa abate e arcivescovo, è dunque un principio di condotta morale che giudica l’opportunità e la rettitudine di ciascuna azione, è la misura incompromissoria e intransigente della propria adesione incondizionata alla volontà e alla giustizia di Dio. È un concetto di ragione che, pur accordandosi con il metodo sola ratione, applicato con esiti assai soddisfacenti alle più impegnative questioni teologiche e perfino ai misteri della fede, e con il corollario, potenzialmente infinito, di argomentazioni (plures rationes, rationes necessariae 66) che l’intellettuale cristiano può escogitare a sostegno della propria fede (la «veritatis ratio tam ampla tamque profunda» 67), non è ad essi completamente assimilabile. È una ratio che rimanda piuttosto all’idea di ordine, o meglio ad una delle dimensioni dell’ordine rintracciabili lungo tutta l’opera di Anselmo, ossia la dimensione interiore, morale, che rinvia alla possibilità che l’uomo ha di scegliere fra la rectitudo e la tortitudo, ovvero tra la sottomissione al l’ordine divino (l’ordine della rettitudine) e la disobbedienza alla volontà di Dio (il disordine del peccato) 68. È in definitiva una vita vestra sciretis»; Epistola ad Guarnerium monachum novitum, 151B, 375, p. 319, 11-13: «Q ualem igitur te desideras inveniri in die obitus tui: talem te cotidie stude exhibere, et semper quasi cras moriturus hodie te praepara ad reddendam rationem vitae tuae». 66 Cfr. G. d’Onofrio, Anselmo d’Aosta, in Storia della Teologia nel Medioevo, I. I princìpi, dir. di G. d’Onofrio, Casale Monferrato 1996, pp. 481-533, in partic. pp. 521-533; C. É. Viola, Anselmo d’Aosta. Fede e ricerca dell’intelligenza, Milano 2000 (Eredità medievale, 16). 67 Cur Deus homo, Commendatio operis ad Urbanum Papam II, 260C - 261A, p. 40, 4. 68 Cfr. Epistola ad Ricardum aliosque monachos, 1154A, 96, p. 222, 5-9: «Testis enim est mihi conscientia mea quia nihil me tantum laetificat, quantum eorum, qui meae parvitati nescio quo divino iudicio commissi sunt, prosperitas et rectitudo; nihil me tantum maestificat, quantum eorumdem adversitas et tortitudo»; ibid., 1154AB, p. 223, 14-15: «Morum compositio in qualibet rerum perturbatione secundum rerum congruentiam ordinata queat consistere». Le altre dimensioni dell’ordine sono quella ontologica, che rimanda all’ordine della realtà creata, all’ordinata varietà del molteplice (l’ordine dell’essere inteso in senso gerarchico), quella escatologica, che riflette la corrispondenza tra l’originario piano della creazione divina e la perfetta realizzazione della città di Dio (l’ordine storico della provvidenza), e quella estetica, che coglie la manifestazione della pulchritudo e dell’armonia del creato (l’ordine della bellezza). Cfr. L. Catalani,
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ragione che, nel particolare contesto letterario dell’epistolario, può definirsi squisitamente monastica, veramente monastica, ossia legata e motivata dall’esperienza di Anselmo monaco (anche quando monaco non è più) più di quanto possa dirsi logicofilosofica in senso stretto o teologica nel senso tradizionale del l’intellectus fidei. In virtù della ragione ogni gesto si giustifica e si legittima solo se ricompreso all’interno del più ampio disegno divino. L’ostinata intransigenza della ragione monastica, espressa con disarmante coerenza da Anselmo, è la conferma, ogni giorno dovuta, dell’indissolubile rapporto che lega il monaco al suo Dio. A coloro i quali credono che la vita monastica rappresenti un intollerabile fardello Anselmo ricorda che tale condizione è da celebrarsi con gioia 69 giacché, se va riconosciuto il bene che può derivare dal mondo secolare, l’uomo, in quanto creatura razionale, dovrebbe comprendere senza difficoltà l’opportunità e il vantaggio derivante dalla vita monastica: non è ragionevole, infatti, credere che la via più sicura per la salvezza sia quella di coniugare l’amore di Dio con l’amore del secolo 70. Al novizio Lanzone che Anselmo aveva spinto verso la condizione monastica, il priore del Bec ricorda che il raggiungimento della virtù passa attraverso la costanza, la mansuetudine e l’osservanza delle usanze del proprio monastero, anche se non se ne comprende pienamente il senso 71. Lo scrupoloso rispetto delle regole parrebbe dunque Il postulato dell’ordine in Anselmo d’Aosta, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du moyen-age», 71 (2004), pp. 7-33. 69 Cfr. Epistola ad Helinandum, 1162A, 101, p. 233, 46 - 234, 49: «Q ui putat melius sibi esse in habitu clericali religiose vivere quam subire monachicae vitae pondus importabile: consideret per totum mundum quanta hilaritate utrique sexui, omni aetati, omni generi hominum sit pondus illud cantabile». 70 Cfr. Epistola ad Henricum, 1182A, 121, p. 261, 22-28: «Si dicis: non soli monachi ad salutem perveniunt: verum est. Sed qui certius, qui altius: illi qui solum deum conantur amare, an illi qui amorem dei et amorem saeculi simul volunt copulare? Sed forsitan dicet aliquis quia et in ordine monachorum est periculum. O homo qui hoc dicit, quare non considerat quid dicit! O rationalis natura, an est hoc rationabile consilium ut, quia ubique est periculum, ibi eligas manere, ubi maius est periculum?». 71 Cfr. Epistola ad Lanzonem novitium, 1101CD, 37, p. 147, 87-91: «Ad hanc vero monachus qui in monasterio conversatur, pertingere nullatenus valet sine constantia et mansuetudine, quae manuetudo indissolubilis comes est patientiae; et nisi monasterii sui instituta, quae divinis non prohibenter mandatis – etiam si rationem eorum non perviderit – ut religiosa studuerit observare».
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prevalere sull’esigenza della loro chiarificazione razionale. Tuttavia, poco prima, Anselmo aveva da un lato messo in guardia dal veleno del ragionamento capzioso che seduce le reclute di Cristo 72, dall’altro ricordato l’esistenza di molteplici mezzi (rationes) attraverso i quali il monaco può sconfiggere le tentazioni del male 73. In un’altra lettera indirizzata al medico Alberto, Anselmo suggerisce l’idea che il criterio di condotta della vita monastica vada individuato nel sentimento dell’amore 74, che appare anch’esso dotato di una sua imprescindibile dimensione intellettuale, come si evince dalle parole rivolte al priore Enrico sul fondamento ragionevole dell’amore: «Q uando l’amore tra esseri razionali nasce da una ragione autentica (Postquam enim de vera ratione dilectio inter rationabiles nascitur), esso non si estingue assolutamente fin che la radice vive» 75. Ratio e delectatio appaiono inestricabilmente legate, anche con una certa efficacia retorica, come indica il chiasmo «rationabili delectatione (…) delectabili ratione», nella lettera indirizzata al monaco beccense Enrico – basata fin dall’inizio sulla reciprocità dei sentimenti e sulla somiglianza dell’affetto dell’uno per l’altro – nella quale Ansel72 Cfr. ibid., 1095B, p. 145, 23-25: «Saepe namque dum tironem Christi vulnere malae voluntatis aperte malivolus non valet perimere, sitientem eum poculo venenosae rationis malivole callidus tentat extinguere». 73 Cfr. ibid., 1101B, p. 147, 73-76: «Scio quia haec maiorem aut scribendi aut colloquendi exigunt amplitudinem, ut plenius intelligatur, quibus scilicet dolis antiquus serpens ignarum monachum in hoc genere tentationis illaqueet, et econtra quibus rationibus prudens monachus eius callidas persuasiones dissolvat et annihilet». 74 Cfr. Epistola ad Albertum medicum, 1108D, 74, p. 157, 26-29: «Q uapropter si vobis consulo quod me mihi, cum sic essem, sicut vos nunc estis, singulariter consuluisse, consulendo tenuisse, tenendo amare, amando habitu profiteri et tota vita niti cogniscitis: vos ipsi iudicate si illud respuere debeatis». 75 Cfr. Epistola ad Henricum (priorem), 1152B, 93, p. 220, 3-5: «Postquam enim de vera ratione dilectio inter rationabiles nascitur, nequaquam ipsa, quamdiu radix vivit, extinguitur». Non è l’unico caso in cui Anselmo fa riferimento agli uomini in quanto esseri razionali. L’amico Gualeranno, per esempio, è chiamato in causa in quanto uomo colto e riflessivo: cfr. Epistola ad Walerannum, olim cantorem ecclesiae Parisiensis, 38B, 162, p. 388, 11-14: «Amice carissime, si multa non legisses et rationabilis ingenii non esses, multa tibi dicerem». I rationabiles et religiosi viri fanno parte del ristretto consesso di persone preposte a decidere circa il destino della vasta diocesi di Lincoln: cfr. Epistola ad Paschalem papam, 441, p. 388, 11-14: «Q uod cum consideraret rex et episcopi et principes et alii rationabiles et religiosi viri regni Anglorum: ad utilitatem ecclesiae consilium visum est episcopatum praefatum in duos dividere».
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mo pone il desiderio della carità fraterna in diretta relazione con il comando della volontà divina 76. Come si è cercato di mostrare finora, l’amore di Dio si traduce per Anselmo prima di ogni cosa nell’amore della giustizia divina («amore dei iustitiae») 77. Ogni gesto, consiglio, decisione di Anselmo appare guidato da una linea di condotta coerente nella sua inflessibilità e nel suo richiamo costante alla verità intesa come l’unica ragione discriminante delle azioni dell’uomo e del monaco in particolare. Non stupisce quindi che al monaco Gualtiero, Anselmo ricordi che si deve amare di più la carità della scienza («plus debet amari caritas quam scientia») giacché ogni scienza deriva dalla carità («omnis utilis scientia pendet a caritate») e chi è spinto dalla carità accederà alla conoscenza della verità 78. Colui che cerca con amore sincero la scienza della verità, sazierà allo stesso tempo il desiderio spirituale e quello intellettuale.
76 Cfr. Epistola ad Henricum monachum, 1069D - 1070A, 5, p. 106, 14-20: «Non enim melius dei ordinationem nostrae utilitati valebimus contemperare, quam si in nostra dispositione eius voluntati voluerimus obtemperare. Denique quoniam utrique plures praesentes, quos ab iis dilecti pariter diligimus, habemus: ipsis cum rationabili delectatione fruentes, eisdem nos cum delectabili ratione fruendos aptemus, et ut quandoque cum praesentibus et absentibus amicis simul praesentes ipso deo confrui possimus instanter oremus». 77 Cfr. Epistola ad Mathildem reginam Anglorum, 137B, 321, p. 251, 27. 78 Cfr. Epistola ad Walterum monachum, 1146B, 85, pp. 210, 26 - 211, 32.
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PARTE SECONDA
CONTESTO E FORTUNA
FABIO CUSIMANO
BENEDETTO DI ANIANE E LA LEGISLAZIONE MONASTICA CAROLINGIA ATTRAVERSO I CAPITULARIA
1. Introduzione La personalità di Benedetto di Aniane si colloca pienamente all’interno del clima di riordinamento ecclesiale e politico promosso da Carlomagno, prima, e da Ludovico il Pio, poi: egli, infatti, ha dato vita ad un vasto movimento riformatore ed unificatore delle norme alla base del cenobitismo benedettino nel l’Europa carolingia. Il dominio della Regula di Benedetto nel monachesimo della tradizione latina occidentale fu per lungo tempo meno assoluto di quanto generalmente si possa pensare. In realtà, oltre naturalmente al suo innegabile pregio intrinseco (già riconosciuto da Gregorio Magno, che ne elogia la discretio 1), la Regula ha dovuto fronteggiare, per così dire, un’agguerrita concorrenza, attraversando un vero e proprio processo di selezione naturale. Affrontando la storia del monachesimo latino medievale, specialmente nell’arco cronologico che precede lo sviluppo dei movimenti cluniacensi e cisterciensi (il cosiddetto ‘rinascimento monastico’ dei secoli x-xi), un elemento da tenere in considerazione è la primigenia assenza di unità: ogni monastero possiede, infatti, una propria identità. Come è noto, la Regula Sancti Benedicti non fu la prima ed unica regola monastica affermatasi in Gallia Cfr. Gregorius Magnus, Dialogi, II, 36 (Q uod regulam monachorum scripserit), 4-8, PL 66, [125-240], 200C, ed. S. Pricoco – M. Simonetti, I, Milano 2010, pp. 210-212: «Hoc autem nolo te lateat, quod vir Dei inter tot miracula quibus in mundo claruit, doctrinae quoque verbo non mediocriter fulsit. Nam scripsit monachorum regulam discretione praecipuam, sermone luculentam». 1
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 327-358 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112924
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e successivamente nel regno dei Franchi, anche se col tempo essa soppiantò via via tutti gli altri ordinamenti fino a diventare, sul finire dell’ottavo secolo, praticamente l’unico e decisivo regolamento monastico. Le più antiche regole monastiche potevano ormai a quel tempo essere già qualificate come storiche, tanto che lo stesso Carlomagno, in un’assemblea svoltasi ad Aquisgrana nell’811, ebbe a proporre la domanda su quali fossero le radici pre-benedettine del monachesimo gallico a partire da Martino di Tours: Q ua regula monachi vixissent in Gallia, priusquam regula sancti Benedicti in ea tradita fuisset, cum legamus sanctum Martinum et monachum fuisse et sub se monachos habuisse, qui multo ante sanctum Benedictum fuit 2.
L’importante quesito dell’imperatore (anch’esso pervenutoci, insieme ad altre testimonianze, grazie alle raccolte dei documenti politici ed amministrativi) faceva riferimento ad una cultura monastica della Gallia e del regno merovingio molto ricca e fiorente, che nell’811 doveva essere già abbondantemente scomparsa dalla coscienza collettiva, non da ultimo grazie alla nascita del cosiddetto monachesimo d’Impero di stampo benedettino, nel periodo compreso tra Bonifacio e Benedetto di Aniane. L’operato dell’abate di Aniane, dunque, si pone come elemento di rottura in questo clima di disordine normativo all’interno del mondo monastico occidentale. La fonte principale cui ricorrere per delineare la biografia di Benedetto di Aniane 3 (e grazie 2 L’edizione di riferimento per i capitularia è quella curata da Alfred Boretius, in MGH, Leges, II, Capitularia Regum Francorum, I, Hannover 1883. Il passo citato, tratto da tale edizione, riguarda il capitolare Capitula de causis cum episcopis et abbatibus tractandis, 12, p. 164, 16-18. I prossimi riferimenti ai capitolari del l’edizione del Boretius saranno citati unicamente attraverso titolo, numero del capitolare e pagine e righe di riferimento. 3 Cfr. J. Besse, s. v. Benoît d’Aniane (saint), in Dictionnaire de Théologie catholique, II.1, Paris 1910, coll. 708-709; J. Semmler, s. v. Benedikt von Aniane, in Lexikon für Theologie und Kirche, II, Freiburg im Breisgau 1931 (19582), coll. 179-190; Benedetto di Aniane, vita e riforma monastica, a c. di G. Andenna – C. Bonetti, Cinisello Balsamo 1993; R. Grégoire, Il monachesimo carolingio dopo Benedetto di Aniane († 821), in «Studia Monastica», 24 (1982), pp. 349388; Id., Benedetto di Aniane nella riforma monastica carolingia, in «Studi Medievali», N.S., 26.2 (1985), pp. 573-610; L. Bergeron, s. v. Benoît d’Aniane (Saint, abbé bénédictin), in Dictionnaire de spiritualité, Paris 1937, I, coll. 14381442; Benedictus ab. Anianensis, in Bibliotheca Hagiografica Latina Antiquae
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alla quale possiamo seguire, passo dopo passo, anche l’evolversi di tale cammino riformatore) è il racconto agiografico 4 redatto da Ardone Smaragdo 5 negli anni 822-823, a soli cinque anni dalla morte di Benedetto di Aniane († 817): a dimostrazione del carisma del personaggio e dell’importanza del suo operato riformatore, alcuni riferimenti contenuti nel testo agiografico ci permettono di affermare, citando Réginald Grégoire, che «se ‘Benedetto è il padre di tutti i monaci’, Aniane è ‘la testa dei cenobi’» 6.
2. Le attenzioni della politica carolingia rivolte al monachesimo: i capitularia come fonti privilegiate È interessante ripercorrere le tappe principali di questa riforma proprio attraverso l’analisi delle fonti che meglio ne descrivono et Mediae Aetatis, I, Bruxelles 1898-1899, coll. 1095-1096; Benedictus ab. Anianensis, in Bibliotheca Hagiografica Latina Antiquae et Mediae Aetatis, Novum Supplementum, ed. E. Fros, Bruxelles 1986, p. 130; D. Iogna-Prat, s. v. Benedetto di Aniane (santo), in Dizionario Enciclopedico del Medio Evo, I, Roma – Paris – Cambridge 1998, p. 224; I. Mannocci, s. v. Benedetto d’Aniane, santo, in Bibliotheca Sanctorum, II, Roma 1962, coll. 1093-1096; G. Picasso, s. v. Benedetto d’Aniane, santo, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, I, Roma 1983, coll. 1357-1359; Ph. Schmitz, s. v. Benoît d’Aniane, in Dictionnaire d’Histoire et de Géographie ecclésiastiques, VIII, Paris 1935, coll. 177-188; H. Tribout de Morembert, s. v. Aniane, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, I, Roma 1983, coll. 653-654; M. Dell’Omo, Storia del monachesimo occidentale dal Medioevo all’età contemporanea. Il carisma di san Benedetto tra vi e xx secolo, Jaca Book, Milano 2011, pp. 91-110. 4 Disponiamo di due differenti edizioni del testo agiografico: una in PL 103, 353-384, con il titolo di Ardo Smaragdus, Vita S. Benedicti Anianensis; l’altra, con il titolo di Id., Vita Benedicti Abbatis Anianensis et Indensis (d’ora in poi: Vita Benedicti Anianensis), è inserita in MGH, Scriptores, XV, 1, Hrsg. G. Waitz, Hannover 1887, pp. 198-220. Saranno di seguito citate solo col titolo abbreviato. 5 Di questo autore non conosciamo quasi nulla; il suo secondo nome, Smaragdo, ha fatto in modo che venisse spesso confuso con Smaragdo di Saint-Mihiel, autore dell’Expositio in Regulam Sancti Benedicti. Per approfondimenti sulla sua biografia cfr. G. Mathon, s. v. Ardone, in Bibliotheca Sanctorum, II, Roma 1962, col. 386; Ardone, santo, in Grande dizionario illustrato dei santi, Casale Monferrato 1990, p. 90; Ardo Smaragdus, in Repertorium fontium historiae Medii Aevi, II, Fontes A-B, Roma 1967. 6 R. Grégoire, Benedetto di Aniane cit., p. 576; cfr. Vita S. Benedicti Anianensis, 365B; Vita Benedicti Abbatis, 18 (27), p. 206, 35-38: «Cognoscat, quisquis ille est qui hanc cupit legere vel audire vitam, cunctorum hoc capud esse coenobiorum, non solum quae Gotiae in partibus constructa esse videntur, verum etiam et illorum quae aliis in regionibus ea tempestate et deincebs (sic) per huius exempla hedificata atque de thesauris illius ditata, sicut inantea narratura est scedula».
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la politica monastica: i capitularia compresi tra la metà dell’ottavo e la metà del nono secolo. Innanzitutto un breve accenno tecnico per meglio comprendere le caratteristiche di simili documenti: i capitolari possono essere definiti come atti del potere che i sovrani carolingi adottavano per rendere valide le diverse misure di ordine legislativo o amministrativo e il cui testo è generalmente diviso in articoli. Così definiti, i capitolari indicano essenzialmente i documenti promulgati dai sovrani e dagli imperatori carolingi nel corso dei placiti, cioè le assemblee che vedevano riuniti con il sovrano i grandi dell’Impero, sia laici che ecclesiastici. Durante queste sedute al sovrano erano sottoposti problemi di natura e di carattere molto diverso, per i quali si aspettava una pronta risoluzione. Al termine del placito l’imperatore procedeva alla promulgazione della legge, che avveniva per verbum regis, atto considerato come l’attributo necessario per una regolare accettazione della legge: tale adnuntiatio rappresenta, però, con buona probabilità, solo una breve sintesi finale di tutte le disposizioni prese durante il placito. Le leggi, nella loro forma completa, subivano infatti una redazione per capitula da un’apposita commissione di esperti. Q uesti articoli erano poi affidati a missi e a comites affinché si preoccupassero della loro diffusione nei territori del regno. Il profilo dei capitolari che emerge da tale descrizione è rappresentativo di un’epoca e di una particolare visione che personaggi del calibro di Carlomagno e Ludovico il Pio cercheranno di trasmettere al proprio Impero, sotto molteplici punti di vista: dall’unità politico-amministrativa alla crescita culturale, al l’unificazione religiosa dei monasteri sotto la Regula di san Benedetto. E proprio tale percorso di unificazione religiosa, oggetto del nostro intervento, rivela – a partire dall’analisi della suddetta documentazione amministrativa – il palesarsi di un disegno unificatore che affonda (come vedremo più avanti) le proprie origini già prima dell’avvento al potere di Carlomagno. Nell’802 Carlomagno promulgò una legislazione ad hoc per fare in modo che tutti i monasteri del suo regno fossero accomunati, nella vita monastica, dall’osservanza di un unico testo normativo, la Regula Sancti Benedicti. Tale legge anticipa una nuova e più efficace legislazione promulgata negli anni 816-817 da Ludovico il Pio, a seguito della quale la Regula Sancti Benedicti 330
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sarebbe stata posta a fondamento della vita monastica europea. In precedenza si è fatto riferimento al cosiddetto monachesimo d’Impero: proprio questa definizione inquadra perfettamente quanto avvenne in quegli anni. È indubbio, infatti, che i monasteri giocarono un ruolo politico fondamentale all’interno delle dinamiche del potere carolingio, in quanto essi divennero anche importanti centri del potere economico e terriero; i carolingi utilizzarono le ingenti risorse monastiche per elevare se stessi alla leadership dell’Impero, ed in seguito proprio tali possedimenti monastici fornirono un supporto-chiave nell’affermazione della dinastia carolingia. Tali monasteri fornirono anche l’immancabile apporto del proprio sostegno spirituale. In più, i centri monastici espansero in maniera sempre crescente le aree della propria influenza sul territorio, sulla popolazione, sulla cultura, sulla vita quotidiana della società carolingia. L’adozione di una singola regola monastica, dunque, divenne un passo di fondamentale importanza per il mantenimento del controllo: solitamente le spiegazioni addotte dalla storiografia sono state che Carlomagno fosse motivato da finalità religiose, oppure da un approccio umanistico all’interno del clima della renovatio imperii 7. Tuttavia, pur non abbandonando tali considerazioni, si porrà l’accento sul peso politico di simili scelte, mettendo in evidenza la stretta connessione tra la sfera politica e la sfera monastica. Joseph Semmler, a proposito della politica monastica, identifica principalmente quattro obiettivi perseguiti da Carlomagno: innanzitutto egli sfruttò tutta la ben nota pervasività monastica per diffondere la cultura franca nei territori dell’Impero attraverso la cosiddetta rinascita carolingia; in secondo luogo i monasteri si mostrarono fin da subito utilissimi per rafforzare l’influenza politica del governo franco; ancora, i monasteri, con il loro portato 7 Dal punto di vista della storiografia i temi della rinascenza carolingia, della renovatio imperii e della genesi – proprio nel contesto carolingio – di una cultura unitaria europea sono vastissimi e molto dibattuti. Tra i tanti riferimenti bibliografici cfr. Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare, 2 voll., Spoleto 1981 (Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 27). Cfr. anche F. Cardini, Carlomagno. Un padre della patria europea, Bompiani, Milano 2002; A. Bisogno, Il metodo carolingio. Identità cuturale e dibattito teologico nel secolo ix, Brepols, Turnhout 2008 (Nutrix, 3).
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di opere edilizie e di bonifica, di attività economiche, agricole e commerciali, furono preziosi alleati della politica per colonizzare e sviluppare i confini dell’Impero, anche come supporto indispensabile a seguito delle conquiste militari di Carlomagno; infine, i monasteri agirono come basi per la conversione dei pagani, specialmente ad est del Reno 8. Per ciò che riguarda la Regula Sancti Benedicti sempre il Semmler identifica quattro date-cardine per descrivere l’importanza politica dell’adozione universale della Regula nei monasteri del l’Impero 9; partendo da questi riferimenti cronologici possiamo reperire le fonti che documentano l’attenzione rivolta dalla politica carolingia alle questioni monastiche. La prima data significativa che egli individua è l’anno 782, quando Benedetto di Aniane edifica «ex precepto Karoli» un monastero esclusivamente votato all’osservanza della Regula di Benedetto e dedicato alla Trinità 10: per documentare questa fondazione ad opera dell’abate di Aniane riteniamo opportuno e molto significativo per la nostra ricerca citare di seguito un brano tratto dalla biografia di Benedetto d’Aniane scritta da Ardone Smaragdo: Nunc opitulante Christo, ex precepto Karoli quibus modis aliud in eodem loco coenobium hedificaverit, evidenti ratione pandamus. Anno igitur 782, Karoli vero Magni regis 14, adiuvantibus eum ducibus, comitibus, aliam rursus in honore domini et Salvatoris nostri aecclesiam pregrandem construere coepit; set et claustra novo opere alia cum columnis marmoreis quam plurimis, quae sitae sunt in porticibus; non iam stramine domos, set tegulis cooperuit. Tanta autem sanctitate hisdem locus est preditus, ut, quisquis fideliter petiturus advenerit et non esitaverit in corde suo, set crediderit, statim quod poposcerit impetrare licebit. Q uia ergo mira religiositate prefulget, ratum ducimus, si de positione eiusdem loci aliquid post futuris pandamus. Siquidem venerabilis pater Benedictus
8 Cfr. J. Semmler, Karl der Grosse und das Fränkische Mönchtum, in Karl der Grosse: Lebenswerk und Nachleben, unter Mitwirkung von W. Braunfels, 4 voll., II, Das geistige Leben, hrsg. von B. Bischoff, Düsseldorf 1967, pp. 255-289. 9 Cfr. ibid. 10 Cfr. Vita S. Benedicti Anianensis, 363C-364A; Vita Benedicti Abbatis, 17 (25), p. 206, 3-5.
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pia consideratione preventus, non in alicuius sanctorum pretitulatione, set in deificae Trinitatis, uti iam diximus, nomine prefatam aecclesiam consecrare disposuit 11.
Altro riferimento cronologico individuato dal Semmler è l’anno 789, data a partire dalla quale l’osservanza della Regula Sancti Benedicti sarà l’unica forma di ordinamento monastico ammessa e riconosciuta e si diffonderà verso il sud della Loira e nel cuore della Neustria 12. Riportiamo alcuni brani tratti dall’Admonitio generalis del 23 Marzo 789: Monachis et omni clero. Item in eodem concilio, ut clerici et monachi in suo proposito et voto quod Deo promiserunt permaneant. Sacerdotibus. Item in decretis Innocenti papae de eadem re, ut monachus, si ad clericatum proveatur, propositum monachicae professionis non ammittat. Episcopis, monachis, virginibus. Item eiusdem, ut monachi et virgines suum propositum omnimodis observent. Sacerdotibus. Sed et hoc flagitamus vestram almitatem, ut ministri altaris Dei suum ministerium bonis moribus ornent, seu alii canonice observantiae ordines vel monachici propositi congregationes; obsecramus, ut bonam et probabilem habeant conversationem, sicut ipse Dominus in evangelio praecipit: ‘Sic luceat lux vestra coram hominibus, ut videant opera vestra bona et glorificent patrem vestrum qui in celis est’ (Mt 5, 16), ut eorum bona conversatione multi protrahantur ad servitium Dei, et non solum servilis conditionis infantes, sed etiam ingenuorum filios adgregent sibique socient. Et ut scolae legentium puerorum fiant. Psalmos, notas, cantus, compotum, grammaticam per singula monasteria vel episcopia et libros catholicos bene emendate; quia saepe, dum bene aliqui Deum rogare cupiunt, sed per inemendatos libros male rogant. Et pueros vestros non sinite eos vel legendo vel scribendo corrumpere; et si opus est evangelium, psalterium et missale scribere, perfectae aetatis homines scribant cum omni diligentia.
Vita Benedicti Abbatis, 17 (25-26), pp. 205, 49 - 206, 5. Cfr. J. Semmler, Karl der Grosse und das Fränkische Mönchtum cit., p. 264. 11
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Sacerdotibus. Simul et hoc rogare curavimus, ut omnes ubicumque qui se voto monachicae vitae constrinxerunt monachice et regulariter omnimodis secundum votum suum vivant, secundum quod scriptum est: ‘Vota vestra reddite domino Deo vestro’ (Eccle 5, 4), et iterum: ‘Melius est non vovere, quam non reddere’(ibid.). Et ut ad monasteria venientes secundum regularem ordinem primo in pulsatorio probentur et sic accipiantur. Et qui ex seculari habitu in monasterio veniunt, non statim foras ad ministeria monasterii mittantur antequam intus bene erudiantur. Et ut monachi ad secularia placita non vadant. Similiter qui ad clericatum accedunt, quod nos nominamus canonicam vitam, volumus ut illi canonice secundum suam regulam omnimodis vivant, et episcopus eorum regat vitam, sict abbas monachorum 13.
Riportiamo anche alcuni brani tratti dal Duplex legationis edictum del 23 Marzo 789, i cui punti da 1 a 16 forniscono precisi riferimenti normativi su diversi aspetti della vita monastica ispirati ai capitula della Regula Sancti Benedicti: De monachis gyrovagis vel sarabaitis. De anachoritis: melius est ut hortentur in congregatione permanere, quam animus eorum aliubi ambulare temptet. Ut non parvipendentes sint pastores animarum sibi commissarum, nec maiorem curam habeant de lucris terrenis quam de animabus sibi commissis. De oboedentia quae abbati exhiberi debet, et ut absque murmuratione fiat. De decanis et praepositis: ut eorum mutatio secundum regulam fiat. De cellelariis monasterii: ut non avari mittantur, sed tales quales regula praecipit. Ut ubi corpora sanctorum requiescunt aliud oratorium habeatur, ubi fratres secrete possint orare. De eulogiis. De susceptione hospitum: sicut regula continet. De vestimentis monachorum: ubi superfluum est, abscidatur; et ubi minus, augeatur. De noviter venientibus ad conversationem: ut secundum regulam probentur, et non antea suscipiantur nisi sicut regula 13 Admonitio generalis, 26-27, p. 56, 1-4; 52, p. 57, 17-18; 72, pp. 59, 40 60, 7; 73, p. 60, 8-17.
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iubet; et nullus cogatur invitus promittere. Et de oboedentia et de stabilitate permanendi, sicut regula habet. De filiis nobilium qui offeruntur. De ordinando abbate. De fratribus in via directis. Ut nullus abbas pro susceptione monachi praemium non quaerat. Ut disciplina monachis regularis imponatur non secularis, id est non orbentur nec mancationes alias habeant nisi ex auctoritate regulae. De monasteriis minutis ubi nonnanes sine regula sedent, volumus ut in unum locum congregatio fiat regularis, et episcopus praevideat ubi fieri possint. Et ut nulla abbatissa foras monasterio exire non praesumat sine nostra iussione nec sibi subditas facere permittat; et earum claustra sint bene firmata, et nullatenus ibi winileodos scribere vel mittere praesumant: et de pallore earum propter sanguinis minuationem 14.
Il successivo riferimento cronologico è l’anno 802, data decisiva, perché da quel momento in poi la Regula Sancti Benedicti diverrà l’unico standard monastico ammesso nell’Impero. Riportiamo alcuni brani tratti da diversi capitularia dell’anno 802: il Capitulare missorum generale; il Capitulare missorum specialia; il Capitulare missorum item specialem; i Capitula ad lectionem canonum et regulae S. Benedicti pertinentia. Ut abbate, ubi monaci sunt, pleniter cum monachis secundum regula vibant (sic) adque canones diligenter discant et observent; similiter abbatissae faciant. Ut episcopi, abbates adque abbatissae advocatos adque vicedomini centenariosque legem scientes et iustitiam diligentes pacificosque et mansuetus habeant, qualiter per illosque sanctae Dei ecclesiae magis profectum vel merces adcrescat; quia nullatenus neque praepositos neque advocatos damnosus et cupidus in monasteria habere volumus, a quibus magis non blasphemia vel detrimenta oriantur. Sed tales sint, quale eos canonica vel regularis institutio fieri iubet, voluntati Dei subditos et ad omnes iustitia perficiendi semper paratos, legem pleniter observantes absque fraude maligno, iustum semper iudicium in omnibus exercentes, praepositus vero tales, qua Duplex legationis edictum, 1-16, p. 63, 1-24; 19, p. 63, 31-36.
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les sancta regula fieri docet. Et hoc omnino observent, ut nullatenus a quibus magis nobis a canonica vel regulari norma discendant sed humilitatem in omnibus habeant. Si autem aliter praesumserint, regulare disciplina sentiant; et si se emendare noluerit, a praepositum removeantur, et qui digni sunt in loca eorum subrogentur. Monachi autem, ut firmiter ac fortiter secundum regula vivant, quia displicere Deo novimus quisquis in sua voluntate tepidus est, testante Iohanne in Apocalypsin: ‘Utinam calidus esse aut frigidus: sed quia tepidus es, incipian te evomere ex ore meo’ (Ap 3, 15). Seculare sibi negotium nullatenus usurpent. Foris monasterio nequaquam progrediendi licentiam habeant, nisi maxima cogente necessitatem: quod tamen episcopus, in cuius diocese erunt, omnino praecuret, ne foris monasterio vagandi usum habeant. Sed si necessitas sit ad aliquam obhedientiam aliquis foris pergere, et hoc cum consilio et consensum episcopi fiat, et tales personae cum testimonium foris mittantur in quibus nulla sit suspitio mala vel a quibus nulla oppinio mala oriatur. Foris vero peculium vel res monasterii abbas cum episcopi sui licentiam et consilium ordinet qui praevideat, non monachum, nisi alium fidelem. Q uaestum verum seculare vel concupiscentia mundanarum rerum omnismodis devitent; quia avaritia vel concupiscentia huius mundi omnibus est devetanda christiani, maxime tamen in his qui mundo et concupiscentiis abrenuntiasse videtur. Lites et contentiones nequaquam, neque infra neque foris monasterio, movere presumat. Q ui autem presumserit, gravissima disciplina regulari corripiantur, et taliter caeteri metum habeant talia perpetranda. Ebrietatem et commessationem omnino fugiant, quia inde libidine maxime polluari omnibus notum est. Nam pervenit ad aures nostras oppinio perniciosissima, fornicationes et in habhominatione et inmunditia multas iam in monasteriis esse deprehensos. Maxime contristat et conturbat, quod sine errore magno dici potest, ut unde maxima spe salutis omnibus christianis orriri crederent, id est de vita et castitate monachorum, inde detrimentum, ut aliquis ex monachus sodomitas esse auditum. Unde etiam rogamus et contextamur, ut certissime amplius ex his diebus omni custodia se ex his malis conservare studeant, ut numquam amplius tale quid aures nostras perveniat. Et hoc omnibus notum sit, quia nullatenus in ista mala in nullo loco amplius in toto regno nostro consentire audeamus: quanto minus quidem inter eos qui castitatis et sanctimoniae emendatiores esse 336
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cupimus. Certe si amplius quid tale ad aures nostras pervenerit, non solum in eos, sed etiam et in ceteris, qui in talia consentiant, talem ultionem facimus, ut nullus christianus qui hoc audierit, nullatenus tale quid perpetrare amplius presumserit. 18. Monasteria puellarum firmiter observata sint, et nequaquam vagare sinantur, sed cum omni diligentia conserventur, neque litigationes vel contentione inter se movere praesumat, neque in nullo magistris et abbatissis inhobedientes vel contrariae fieri audeant. Ubi autem regulares sunt, omnino secundum regula observent, ne fornicatione deditae, non ebrietatis, non cupiditati servientes, sed omnimodis iuste et sobrie vivant. Et ut in claustra vel monasterium earum vir nullus intret, nisi presbiter propter visitationem infirmarum cum testimonio intret, vel ad missam tantum, et statim exeat. Et ut nemo alterius filiam suam in congregationem sanctemonialium recipiat absque notitia vel consideratione episcopi ad cuius diocense pertinet locus ille; et ut ipse diligenter exquirat, qualiter in sancto ad Dei servitio permanere cupiat, et stabilitatem suam ibidem firmare vel professionem. Ancilla autem aliorum hominum, vel tales feminas quae secundum more conversationis in sancta congregatione vivere volunt, omnes pleniter de congregatione eiciantur. Ut episcopi, abbates, presbiteri, diaconus nullusque ex omni clero canes ad venandum aut acceptores, falcones seu sparvarios habere presumant, sed pleniter se unusquisque in ordine suo canonice vel regulariter custodiant. Q ui autem presumserit, sciat unusquisque honorem suum perdere. Caeteri vero tale exinde damnum patiatur, ut reliqui metum habeant talia sibi usurpare 15. De abbatibus, utrum secundum regulam an canonice vivant, et si regulam aut canones bene intellegant. De monasteriis virorum ubi monachi sunt, si secundum regulam vivant ubi promissa est. De monasteria puellarum, utrum secundum regulam an canonice vivant, et de claustra earum 16. Ut clerici et monachi in suo proposito permaneant.
15 Capitulare missorum generale, 12-13, p. 93, 31-44; 17-19, pp. 94, 24 95, 27. 16 Capitulare missorum specialia, 3-5, p. 100, 18-23.
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Ut abbates regulares et monachi regulam intelligant et secundum regulam vivant. Ut abbatissae canonicae et sanctimoniales canonice secundum canones vivant, et claustra earum ordinabiliter composita sint. Ut abbatissae regulares et sanctimomales in monachico proposito existentes regulam inteitigant et regulariter vivant, et claustra earum rationabiliter disposita sint 17. Si placet domno meo, legatur capitula VII. III. VI. VIII. LIX. LX et LXI id est ‘De generibus monachorum’, ‘Q ualis debeat esse abba’, ‘De obedientia discipulorum’, ‘De disciplina suscipiendorum novitiorum’, ‘De filiis nobilitun vel pauperum qui offeruntur’, ‘De sacerdotibus qui voluerint in monasterio habitare’, et ‘De clericis seu et de monachis peregrinis’. Continentur in his definiciones quae sufficiunt ad numerum XX abbatum. Insuper etiam questiones quaedam eis familiarum obponi possunt, ut queratur ab eis in quo capitula scriptum vel quomodo intellegendum est: ‘Nullus in monasterium proprii sequatur cordis voluntatem’. Similiter ubi vel quid sit sinaxis. Ubi vel quid sit senpectas. Ubi etiam vel qui sit ‘non super sanas tyrannidem’, vel ubi legitur in scriptura ‘voluptas habet poenam et necessitas parit coronam’ (loc. inc.). Vel si secundum regulam legitur evaugelium dominicis noctibus, vel ubi praeceptum sit tundere monachum, vel si dormiantur fratres post nocturnas, et ubi hoc praeceptum sit. Haec omnia in secundo humilitatis gradu, et in tertio capitulo, et in XI. et in XVII. et in XXVIII. continentur; et quid singulos biberes vel mixtum accipere 18.
Infine l’ultimo riferimento cronologico: l’anno 806, data dopo la quale Carlomagno abbandonerà il suo programma monastico, impegnandosi nella suddivisione dell’Impero fra i suoi tre figli Ludovico, Pipino e Carlomanno, come si evince chiaramente dal capitulare Divisio regnorum datato 6 febbraio 806 19. Un primo sguardo alle fonti narrative del periodo preso in esame mostra che non ci sono pervenute chiare espressioni che Capitualre missorum item specialem, 12, p. 102, 38; 33-35, p. 103, 32-37. Capitula ad lectionem canonum et regulae S. Benedicti pertinentia, 23-24, pp. 108, 34 - 109, 8. 19 Cfr. Divisio regnorum, pp. 126-129. 17
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possano descrivere la politica monastica di Carlomagno: non disponiamo, infatti, di lettere, trattati o cronache che ne descrivano nel dettaglio le inizitive, né il posto di rilevanza occupato dalla Regula Sancti Benedicti. A dispetto della mancanza di esplicite fonti narrative che descrivano simili dinamiche, i capitolari oggetto del nostro intervento giocano un ruolo molto importante. Ed è proprio nei capitolari che possiamo incontrare esattamente le azioni effettive e gli obiettivi dichiarati o impliciti del potere reale. Bisogna precisare che gli estremi cronologici individuati per la nostra ricerca (dal 742 all’813) precedono di ventisei anni l’avvento di Carlomagno al potere (768): questo sia perché la politica di Carlomagno fu profondamente influenzata da quella dei suoi predecessori, sia a causa della scarsità di capitolari disponibili per i suoi primi anni al potere. Solo cinque, infatti, sono i capitolari, rilevanti per la politica monastica, antecedenti al regno di Carlomagno: questi vanno a integrare i sedici documenti inerenti ai primi anni di regno prima dell’800, poco documentati; dall’800 all’813 i capitolari saranno, invece, trentaquattro. Dall’814 succederà al regno Ludovico il Pio. Dei centoventiquattro documenti inerenti il regno di Carlomagno e dei suoi predecessori contenuti nell’edizione del Boretius, sessantuno contengono informazioni rilevanti: trentotto di questi formano il corpus principale dei capitolari monastici; otto sono capitolari italiani; altri undici non sono datati con precisione, ma compaiono dall’anno 800 in poi; ulteriori quattro capitolari, infine, non sono datati.
3. Alcune tematiche generali individuabili all’interno dei capitularia Tutta questa documentazione che affronta le problematiche connesse alla legislazione monastica è pervasa da riferimenti che possono essere a loro volta inglobati – a posteriori – all’interno di tre gruppi tematici più ampi, delle vere e proprie macro-aree. All’interno della prima macro-area individuata possiamo riscontrare cinque tematiche. La tematica che maggiormente spicca sulle altre, per l’ampiezza dei riferimenti e per l’importanza delle sue ricadute in termini di applicazione normativa, 339
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è quella che possiamo definire del Tema della Regola: essa racchiude al suo interno tutte le problematiche e i provvedimenti messi in atto per l’applicazione della Regula benedettina da parte dei monaci. Una seconda tematica è quella che possiamo definire Tema del vescovo e dell’abate: essa racchiude in sé la problematica delle relazioni tra vescovi e abati, specialmente per ciò che riguarda la predominanza dell’autorità vescovile sul l’abate; questo tema è strettamente correlato al precedente Tema della Regola. La terza tematica è quella che possiamo definire Tema del monaco e del canonico: essa pone in evidenza tutti gli sforzi normativi che sono stati fatti per marcare la distinzione tra monaci e canonici. La quarta tematica, che possiamo identificare come Tema della giustizia, racchiude riferimenti alla separazione da mettere in atto tra mondo ecclesiastico e secolare, anche a livello di provvedimenti disciplinari e della loro conseguente gestione. Chiude questo primo gruppo il Tema del novizio, che possiamo denominare in questo modo in quanto si riferisce all’ammissione nell’ordine monastico di nuovi membri, da distinguere (con tutte le differenze del caso) tra bambini e adulti. All’interno del presente contributo ci limiteremo a trattare (per motivi redazionali) delle suddette cinque tematiche afferenti alla prima macro-area. Tutti i riferimenti presi in esame si prestano già ad un congruo numero di spunti critici. Forniamo comunque, per completare il quadro della nostra analisi, l’elenco delle restanti macro-aree in cui è possibile suddividere tematicamente tutti i capitularia a nostra disposizione. La seconda macro-area, dunque, è formata da quattro tematiche, tutte concentrate sulla condotta individuale di ogni singolo monaco e abate; affrontare l’analisi di tale documentazione è molto interessante perché si ha la possibilità di comprendere quali fossero le reali difficoltà che si dovevano affrontare per fare in modo che si riuscisse a realizzare una reale separazione dei monaci dal mondo secolare. Il Tema dei monaci girovaghi, il Tema della caccia, il Tema della fornicazione e del bere e il Tema della simonia (che include tutti i riferimenti all’estorsione, alla corruzione e al pettegolezzo) ci forniscono, con un buon margine di realismo, un’idea circa la mancanza di disciplina che doveva riscontrarsi all’interno dei monasteri. 340
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La terza ed ultima macro-area è formata, infine, da tre tematiche, tutte concentrate sulla connessione tra i monasteri e il mondo reale. Nel Tema degli affari secolari ritroviamo ripetute ammonizioni rivolte ai monasteri che bloccano ogni genere di affare o che limitano gli affari in diversi modi, mentre nel Tema della proprietà possiamo trovarci di fronte ad una realtà ben differente: quella del sovrano che considera i monasteri alla stessa stregua di centri di amministrazione delle terre reali. Allo stesso modo, nel Tema dei vari utilizzi, possiamo trovare alcune delle funzioni che i monasteri mettevano in atto per operare in favore del l’impero carolingio, incluso il funzionamento di strutture come scuole, punti d’accoglienza, prigioni e centri per il reclutamento militare. 3.1. Il Tema della Regola. – Di fondamentale importanza per il nostro intervento è l’analisi della documentazione inerente alla più importante tematica compresa all’interno della prima macroarea che abbiamo creato, e di cui precedentemente abbiamo esposto le principali caratteristiche. Analizzando tale documentazione emerge immediatamente che il Tema della Regola rappresenta un punto di fondamentale interesse nella politica di Carlomagno e dei suoi predecessori: riferimenti al termine regula (sia nell’accezione della Regula Sancti Benedicti, che in altre accezioni non meglio specificate) sono presenti ben centoventitrè volte. Il concetto di vivere secondo la Regola è espresso sotto molte forme diverse: molto presente è la frase «secundum regulam», come nel caso dell’espressione «de monasteriis qui regulares fuerunt, ut secundum regulam vivant»; riportiamo il passo completo nella forma communis: De monasteriis qui regulares fuerunt, ut secundum regulam vivant; necnon et monasteria puellarum ordinem sanctum custodiant, et unaquaeque abbatissa in suo monasterio sine intermissione resedeat 20.
Un gruppo di espressioni leggermente più ampio, ma meno uniforme nella costruzione, è quello che vede l’utilizzo di termini Capitulare Haristallense, 3, p. 47, 31-35.
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derivati, come l’espressione «ad restaurandam normam regularis vitae», tratta dal seguente passo: Modo autem in hoc synodali conventu, qui congregatus est ad Kalendas Martias in loco qui dicitur Liftinas, omnes venerabiles sacerdotes Dei et comites et praefecti prioris synodus decreta consentientes firmaverunt, se implere velle et observare promiserunt. Et omnis aecclesiastici ordinis clerus, episcopi et presbyteri et diaconi cum clericis, suscipientes antiquorum patrum canones, promiserunt se velle ecclesiastica iura moribus et doctrinis et ministerio recuperare. Abbates et monachi receperunt sancti patris Benedicti [regulam] ad restaurandam normam regularis vitae. Fornicatores et adulteros clericos, qui sancta loca vel monasteria ante tenentes coinquinaverunt, praecipimus inde tollere et ad poenitentiam redigere. Et si post hanc definitionem in crimen fornicationis vel adulterii ceciderunt, prioris synodus iudicium sustineant. Similiter et monachi et nonnae 21.
Oppure ancora l’espressione «secudum regularem ordinem», tratta dal già citato passo dell’Admonitio generalis 22. Nel seguente passo si registra anche l’uso dell’avverbio regulariter: Ut monachi, qui veraciter regulariter vivunt, ad Romam vel aliubi vagandi non permittantur, nisi oboedientiam abbatis sui exerceant. Et si talis causa evenerit, quod absit, quod ille abbas sic remissus vel neglegens inveniatur aut in manus laicorum ipsum monasterium veniat, et hoc episcopus emendare non potuerit, et aliqui tales monachi ibidem fuerint qui propter Deum de ipso monasterio in alterum migrare vellent propter eorum animas salvandas, hoc per consensum episcopi sui licentiam habeant, qualiter eorum animas possint salvare 23.
Alcune costruzioni, poi, esprimono concetti simili, ma attraverso l’uso di perifrasi quali «Monachi (…) regula memoriter teneat et firmiter custodiat»: Monachi quod Deo promiserunt custodiant, nichil extra abbati sui preceptum faciat; turpi lucrum non faciant; regula Karlmanni principis capitulare Liptinense, 1, pp. 27, 42 - 28, 7. Cfr. Admonitio generalis, 73, p. 60, 11; cfr. supra, nota 13. 23 Concilium Vernense, 10, p. 35, 19-25. 21 22
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memoriter teneat et firmiter custodiat, scientes preceptum ‘quod multis melius est non votum vobere quam post votum non reddere’ (Ec 5, 4-5) 24.
Altre volte si ricorre all’uso di termini specifici del monachesimo: nel seguente passo tratto dal Duplex legationis edictum viene utilizzato, ad esempio, il vocabolo conversatio. De noviter venientibus ad conversationem: ut secundum regulam probentur, et non antea suscipiantur nisi sicut regula iubet; et nullus cogatur invitus promittere. Et de oboedientia et de stabilitate permanendi, sicut regula habet 25.
Altre volte si ricorre all’utilizzo del termine propositum: Sacerdotibus. Item in decretis Innocenti papae de eadem re, ut monachus, si ad clericatum provocatur, propositum monachicae professionis non ammittat 26.
Naturalmente la questione-chiave di una simile analisi va ben oltre il mero studio semantico dei termini utilizzati: essa punta principalmente a individuare quali e quante, tra queste espressioni, facciano precisamente riferimento alla Regula Sancti Benedicti; in frasi come «secundum regulam» la differenza tra la Regola ed una regola è di fondamentale importanza. Per rispondere ad un simile interrogativo i capitolari possono essere ulteriormente suddivisi in tre gruppi: un primo gruppo che raccoglie casi in cui il linguaggio adottato è chiaro oppure in cui il contesto ci suggerisce che la Regula Sancti Benedicti è specificatamente indicata; un secondo che raccoglie casi in cui è indicato un riferimento a qualche altra regola diversa dalla Regula Sancti Benedicti; e un terzo che raccoglie altri casi che non possono essere determinati con precisione. Come abbiamo già accennato, sono presenti centoventitre riferimenti al termine regula (all’interno di trentuno capitolari), e di questi ventinove menzionano la Regula per nome o in modo inequivocabile in nove capitolari. Possiamo rintracciare questi Missi cuisdam admonitio, p. 240, 15-17. Duplex legationis edictum, 11, p. 63, 16-18. 26 Admonitio generalis, 27, p. 56, 3-4. 24 25
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riferimenti nei documenti di diversi anni. Nell’anno 742, nel Karlmanni principis capitulare, si legge: Decrevimus quoque, ut presbiteri vel diaconi non sagis, laicorum more, sed casulis utantur, ritu servorum Dei. Et nullus in sua domu mulierem habitare permittat. Et ut monachi et ancillae Dei monasteriales iuxta regulam sancti Benedicti ordinare et vivere, vitam propriam gubernare studeant 27.
Rimandiamo inoltre al già citato passo del Karlmanni principis capitulare Liptinense dell’anno 744 in cui possiamo leggere il chiaro riferimento alla Regula 28. Ancora nel Karlmanni principis capitulare possiamo leggere: Clerici qui monachorum nomine non pleniter conversare videntur et ubi regula sancti Benedicti secundum ordinem tenent, ipsi in verbum tantum et in veritate promittant, de quibus specialiter abbates adducant domno nostro 29.
Nel Synodus Franconofurtensis del 794 leggiamo: Ut abbas cum suis dormiat monachis secundum regulam sancti Benedicti. Ut cellerarii in monasteriis avari non elegantur, sed tales electi sint quales regula sancti Benedicti docet. Audivimus enim, quod quidam abbates cupiditate ducti praemia pro introeuntibus in monasterio requirunt. Ideo placuit nobis et sancta synodo: pro suscipiendis in sancto ordine fratribus nequaquam pecunia requirantur, sed secundum regulam sancti Benedicti suscipiantur 30.
Negli Statuta Rhispacensia, Frisingensia, Salisburgensia degli anni 799-800 si legge: Ut novatiani qui veniunt in monasterio non recipiantur in ordine congregationis, antequam secundum regulam pleniter examinentur, et non preponantur ceteris in monasterio, Karlmanni principis capitulare, 7, p. 26, 6-9. Cfr. Karlmanni principis capitulare Liptinense, 1, pp. 27, 42 - 28, 7; cfr. supra, nota 21. 29 Capitulare missorum, 3, p. 67, 1-3. 30 Synodus Franconofurtensis, 13-14, pp. 75, 36 - 76, 6. 27
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antequam regularis vitae ordinem pleniter edoceantur, sicut in regula sancti Benedicti continetur. Ut abbatissae nullatenus exeant de monasteriis suis nisi per consensum atque licentiam episcoporum suorum, ipsique episcopi prevideantur eis non negentur quando egredi debent de monasteriis pro utilitate sua. Talesque ipse abbatissae secum assumant, de quibus nullatenus redeuntes recitare praesummant ceteris sanctimonialibus, ‘quia plurima destructio est’ 31, sicut in sancta regula continetur 32.
Richiamiamo inoltre il già citato passo dei Capitula ad lectionem canonum et regulae Sancti Benedicti pertinentia dell’anno 802, in cui ritroviamo l’esplicito riferimento ad alcuni capitoli della Regula Sancti Benedicti 33. Nei Capitula tractanda cum comitibus, episcopis, et abbatibus degli anni 810-811 possiamo invece leggere: De conversatione monachorum, et utrum aliqui monachi esse possint praeter eos qui regulam sancti Benedicti observant. Inquirendum etiam, si in Gallia monachi fuissent, priusquam traditio regulae sancti Benedicti in has parroechias pervenisset 34.
Sempre relativamente agli anni 810-811, richiamiamo il già citato passo 12 dei Capitula de causis cum episcopis et abbatibus tractandis 35, e completiamo la rassegna di riferimenti al termine regula riportando quanto contenuto in un passo nel capitolare Interrogationes examinationis, databile all’incirca intorno all’803-813: Vos autem, abbates, interrogo, si regulam scitis vel intelligitis, et qui sub regimine vestro sunt secundum regulam beatissimi Benedicti vivant an non, vel quanti illorum regulam sciant aut intellegant 36. 31 Cfr. Benedictus Nursinus, Regula, 67, PL 66, [215-932], 914C, ed. S. Pricoco, Milano 2006, p. 264: «Nec presumat quisquam aliis referre quaecumque viderit aut audierit, quia plurima destructio est». 32 Statuta Rhispacensia, Frisingensia, Salisburgensia, 19, pp. 228, 26 - 229, 7. 33 Cfr. Capitula ad lectionem canonum et regulae Sancti Benedicti pertinentia, 23-24, pp. 108, 34 - 109, 8; e cfr. supra, nota 18. 34 Capitula tractanda cum comitibus, episcopis, et abbatibus, 12, pp. 161, 38 162, 2. 35 Cfr. Capitula de causis cum episcopis et abbatibus tractandis, 12, p. 164, 16-18; e cfr. supra, nota 2. 36 Interrogationes examinationis, 10, p. 234, 38-40.
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È molto importante notare che il primo riferimento diretto al nome della Regula Sancti Benedicti nel regno di Carlomagno appare circa ventisette anni dopo il suo avvento al potere, in un passo del già citato Capitolare missorum 37. Gli unici due riferimenti espliciti precedenti risalgono a due capitolari del breve regno di Carlomanno (che regna dal 768 al 771), fratello minore di Carlomagno 38. Andando ancora a ritroso, al tempo del regno di Pipino III il Breve (Re dei Franchi dal 751 al 768), non troviamo riferimenti precisi alla Regula Sancti Benedicti: va sottolineato, però, che per tale periodo la documentazione è molto lacunosa (rimangono, infatti, solo sei capitolari). Un altro punto importante da sottolineare è quello della grande abbondanza di riferimenti relativi all’anno 802, l’anno in cui Carlomagno apportò il suo maggiore impegno per fare in modo che la Regula fosse adottata per legge. Passando in rassegna la documentazione inerente al regno di Carlomagno e dei suoi predecessori, abbiamo avuto modo di constatare come la riflessione sull’esigenza dell’adozione di un unico testo che regolamentasse la vita monastica fosse particolarmente sentita. Dall’anno 814 succederà al governo dell’Impero il figlio di Carlomagno, Ludovico il Pio: egli sarà un personaggio di fondamentale importanza, perché strettamente connesso all’operato riformatore di Benedetto di Aniane. Il sodalizio tra Ludovico e l’abate di Aniane risale, infatti, al periodo in cui il sovrano, allora re d’Aquitania (consacrato dal papa Adriano I nel 781), affidò a Benedetto la riforma dei monasteri del regno: questo avvenimento può essere identificato come il primo tassello del processo di riforma. Dopo la morte di Carlomagno, Ludovico assunse la pienezza del potere imperiale: egli richiamò vicino a sé, alla corte di Aquisgrana, Benedetto d’Aniane. Q uesto ulteriore avvenimento può essere identificato come il secondo e decisivo tassello del processo di riforma monastica. A seguito di questa importante decisione, Ludovico pose sotto la direzione dell’abate di Aniane Cfr. Capitolare missorum, 3, p. 67, 1-3; e cfr. supra, nota 29. Cfr. Karlmanni principis capitulare, pp. 24-26; Karlmanni principis capitulare Liptinense, pp. 26-28. 37
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tutti i monasteri dell’Impero, per fare in modo che egli creasse un clima di uniformità nell’osservanza. Tra l’816 e l’817, ad Aquisgrana, due concili segnarono il cammino della riforma: Benedetto d’Aniane, per ordine imperiale, convocò gli abati, insieme a molti monaci, e con loro discusse della Regula. L’intenzione è chiara: vengono abolite tutte le altre osservanze, le altre tradizioni. A testimonianza di ciò, possiamo rintracciare – all’interno di un significativo passo tratto dalla biografia di Benedetto di Aniane redatta da Ardone Smaragdo – una testimonianza che bene fotografa l’importanza dell’operato dell’abate di Aniane a sostegno dell’unificazione monastica del l’Impero: Et una cunctis generaliter posita observatur Regula, cunctaque monasteria ita ad formam unitatis redacta sunt, ac si ab uno magistro et in uno imbuerentur loco. Uniformis mensura in potu, in cibo, in vigiliis, in modulationibus cunctis observanda est tradita. Et quoniam alia per monasteria ut observaretur instituit regula, suos in Inda degentibus ita omni intentione instruxit, ut ex diversis regionibus adventantes monachi non, ut ita dixerim, perstrepentia, ut imbuerentur, indigerent verba, quia in singulorum moribus, in incessu habituque formam disciplinamque regularem pictam cernerent 39.
3.2. Il Tema del vescovo dell’abate. – Q uello che abbiamo definito come Tema del vescovo e dell’abate è il secondo tra i temi inerenti la legislazione monastica carolingia. Esso appare in trentuno diversi capitolari, per un totale di settantatre riferimenti. Q uesto importante tema può essere suddiviso a sua volta in due parti: una parte che raccoglie trentatre provvedimenti che legiferano in merito all’autorità del vescovo sull’abate e che possiamo chiamare Riferimenti al vescovo; un’altra parte che raccoglie trentuno provvedimenti in cui si fa riferimento a una certa equivalenza di status tra l’autorità del vescovo e quella del l’abate: possiamo definire questi riferimenti come Riferimenti all’equivalenza. Dal punto di vista della mera autorità, gli abati 39 Vita S. Benedicti Anianensis, 377D-378A; Vita Benedicti Abbatis, 36 (50), pp. 215, 48 - 216, 5.
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non saranno mai ufficialmente equivalenti ad un vescovo: questi riferimenti ci mostrano semplicemente la superiorità gerarchica del vescovo, oppure passano in rassegna un’equivalenza de facto, legata a certe occorrenze oppure giustificata da finalità specifiche. In aggiunta a quanto accennato finora possiamo identificare altre due sotto-parti: una che raccoglie tutte le testimonianze (tre riferimenti) di una pacifica convivenza tra vescovi ed abati, senza la necessità di dover fare ricorso ognuno alla propria autorità; un’altra parte che richiama i cambiamenti che sono intercorsi nelle relazioni tra vescovi ed abati in circostanze diverse (sei riferimenti). I cosiddetti Riferimenti al vescovo tendono a essere l’insieme più semplice e più uniforme, e appaiono in gruppi cronologici ben definiti. Sotto Pipino possiamo rintracciare nella documentazione a nostra disposizione sei Riferimenti al vescovo ed un solo Riferimento all’equivalenza. Un passo tratto dal Concilium Vernense dell’anno 755 può essere un buon esempio del primo tipo di riferimento: Ut unusquisque episcoporum potestatem habeat in sua parrochia, tam de clero quam de regularibus vel secularibus, ad corregendum et emendandum secundum ordinem canonicam spiritale, ut sic vivant qualiter Deo placere possint 40.
C’è una distribuzione abbastanza uniforme nella successiva decade fino all’anno 789, quando domineranno i Riferimenti all’equi valenza. Nel 794 i Riferimenti al vescovo tornano nuovamente alla ribalta, e i poteri dei vescovi si estendono, come si evince da un passo tratto dal Synodus Franconofurtensis: Statutum est a domno rege et sancta synodo, ut episcopi iustitias faciant in suis parroechiis. Si non oboedierit aliqua persona episcopo suo de abbatitus, presbiteris, diaconibus, subdiaconibus, monachis et caeteris clericis vel etiam aliis in eius parrochia, venient ad metropolitanum suum, et ille diiudicet causam cum suffraganeis suis. Comites quoque nostri veniant ad iudicium episcoporum (…) 41. Concilium Vernense, 3, p. 33, 41-43. Synodus Franconofurtensis, 6, p. 74, 39-43.
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I Riferimenti al vescovo rimangono di gran lunga i riferimenti più comuni fino all’anno 802 incluso, quando troviamo la più forte affermazione di questo principio, come si evince da un passo tratto dal Capitulare Missorum Generale: Abbates autem et monachis omnis modis volumus et precipimus, ut episcopis suis omni humilitate et hobhedientia sint subiecti, sicut canonica constitutione mandat. Et omnis eclesiae adque basilicae in eclesiastica defensione et potestatem permaneat. Et de rebus ipse basilicae nemo ausus sit in divisione aut in sorte mittere. Et quod semel offeritur, non revolvatur et sanctificetur et vindicetur. Et si autem aliter praesumpserit, presolvatur et bannum nostrum conponat. Et monachi ab episcopo provinciae ipsius corripiantur; quod si se non emendent, tunc archiepiscopus eos ad sinodum convocet; et si neque sic se correxerint, tunc ad nostra praesentiam simul cum episcopo suo veniant 42.
Indicazioni dell’equivalenza di status tra un vescovo e un abate non sono così semplici. Specialmente nel periodo precedente l’anno 802, i Riferimenti all’equivalenza risultano essere posti in relazione ad altre motivazioni dall’importanza secondaria se riferite alla nostra ricerca. Essi tendono a rivelare i modi in cui l’effettiva autorità degli abati, in opposizione al loro potere legale, era comparabile a quella dei vescovi. Negli esempi seguenti troviamo abati posti al fianco di vescovi e di altre importanti figure che entrano in scena quando Carlomagno avverte la necessità di ricostruire chiese o di governare monasteri femminili: Ut illas eclesias Dei qui deserti sunt restaurentur tam episcopi quam abates vel illi laici homines qui exinde benefitium habent 43. Episcopis, abbatibus. Auditum est, aliquas abbatissas contra morem sanctae Dei ecclesiae benedictionis cum manus inpositione et signaculo sanctae crucis super capita virorum dare, necnon et velare virgines eum benedictione sacerdotali. Q uod
Capitulare Missorum generale, 15, p. 94, 7-15. Pippini Capitulare Aquitanicum, 1, p. 42, 33-34.
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omnino vobis, sanctissimi patres, in vestris parrochiis interdicendum esse scitote 44.
I cosiddetti Riferimenti all’equivalenza diventano ancora più difficili da interpretare dopo l’anno 794, quando la categoria dei Riferimenti al vescovo torna nuovamente a essere predominante. In questi passaggi possiamo facilmente supporre una turbolenta equivalenza di autorità e di status tra abati e vescovi quando sia gli abati che i vescovi vengono puniti per la stessa tipologia di reati burocratici: Ut nullus episcopus vel abbas atrahere audeat res nobilium causa ambitionis sicut in canone Cartaginensi continetur cap. V 45. Ut nullus episcopus neque abbas sibi atrahere audeat res tributalium domni regis, id est basilicas eorum benedicere vel quicquid a tali conditione pertinere videtur, antequam domnus rex hoc pleniter definiatur 46.
Dopo l’anno 802 c’è un chiaro declino dei Riferimenti al vescovo e, di conseguenza, i Riferimenti all’equivalenza si fanno un po’ più espliciti, spesso utilizzando l’espressione «episcopi, abbates, et comites» oppure una variante, come nell’esempio seguente che riguarda questioni militari, tratto dal Capitulare Aquisgranense: Et episcopi, comites, abbates hos homines habeant qui hoc bene praevideant et ad diem denuntiati placiti veniant et ibi ostendant quomodo sint parati. Habeant loricas vel galeas et temporalem hostem, id est aestivo tempore 47.
Un solo riferimento, sempre all’interno del Capitulare Aquisgranense, chiarisce che a livello locale può giocare un ruolo importante il modo in cui l’autorità è condivisa e il modo in cui un monaco deve comportarsi per vivere regulariter 48. Admonitio generalis, 76, p. 60, 27-30. Statuta Rhispacensia, Frisingensia, Salisburgensia, 11, p. 227, 41-42. 46 Ibid., 30, p. 229, 18-20. 47 Capitulare Aquisgranense, 9, p. 171, 26-28. 48 Cfr. ibid., 1, p. 170, 38-39. 44 45
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Riferimenti a una reale equivalenza tra i poteri di un vescovo e di un abate persistono dopo l’anno 802: ciò non deve sorprendere, considerato l’ampio numero di documenti in cui abati e vescovi vengono chiamati in causa. Q uesta persistenza è probabilmente un buon indicatore delle reali relazioni tra vescovi ed abati, in opposizione allo stato legale e politico del governo sul l’argomento. Tuttavia Carlomagno avrebbe potuto cambiare la sua politica, provando a inasprire la legislazione inerente le loro relazioni; riferimenti alla realtà di tale situazione potrebbero continuare ad apparire incidentalmente. Abbiamo già avuto modo di riscontrare una simile persistenza con i riferimenti al Tema della Regola dopo l’anno 802. Riepilogando, dunque, il Tema del vescovo e dell’abate condivide con il Tema della Regola un generale inasprimento del l’atteggiamento dal 794 e, allo stesso modo, un allentamento dal l’anno 802. Q uesta corrispondenza suggerisce uno sforzo da parte di Carlomagno nel 794 di incrementare l’effettiva validità della sua regolamentazione dei monasteri rendendo chiara la subordinazione dell’abate al vescovo e applicando standard più rigorosi per la vita dei monaci. 3.3. Il Tema del monaco e del canonico. – Il cosiddetto Tema del monaco e del canonico, terza tematica della nostra prima macroarea, pone in evidenza tutti gli sforzi normativi che sono stati messi in atto dall’entourage carolingio per marcare la distinzione tra monaci e canonici. Q uesto tema raccoglie quindici riferimenti all’interno di un arco cronologico compreso tra l’anno 755 e l’anno 810-811. Il primo riferimento, sotto Pipino, è datato 755, in occasione del Concilium Vernense: De illis hominibus, qui se dicunt propter Deum quod se tonsorassent, et modo res eorum vel pecunias habent et nec sub manu episcopi sunt nec in monasterium regulariter vivunt, placuit ut in monasterio sint sub ordine regulari aut sub manu episcopi sub ordine canonica; et si aliter fecerint, et correpti ab episcopo suo se emendare noluerint, excommunicentur. Et de ancillis Dei velatis eadem forma servetur 49. Concilium Vernense, 11, p. 35, 26-30.
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L’ultimo riferimento databile con certezza si riferisce a un passo tratto dai Capitula de causis cum episcopis set abbatibus tractandis dell’anno 810-811: In quo canonum vel in cuius sancti patris regula constitutum sit, ut invitus quislibet aut clericus aut monachus fiat, aut ubi Christus praecepisset aut quis apostolus praedicasset, ut de nolentibus et invitis et vilibus personis congregatio fieret in ecclesia vel canonicorum vel monachorum 50.
I riferimenti che abbiamo appena citato esprimono quasi simili preoccupazioni: che i monaci ed i canonici devono essere ben distinti, e che coloro i quali vorranno intraprendere la vita religiosa in uno dei due ordini dovranno scegliere categoricamente tra l’uno e l’altro. Q uesto messaggio rimane costante in tutta la legislazione. Siccome questo tema si estende oltre i limiti cronologici delle riforme di Carlomagno, e siccome rimane così costante, esso potrebbe essere preso in considerazione quasi autonomamente tra tutti gli sforzi compiuti ai fini della riforma. Esso rappresenta un impegno di lunga durata che non è stato influenzato dal valore della regola che veniva utilizzata. 3.4. Il Tema della giustizia. – Il Tema della giustizia rappresenta solo un aspetto della politica monastica e riflette soltanto una piccola porzione delle politiche riguardanti la giustizia attuate dai sovrani carolingi. Ai fini della nostra ricerca gli aspetti maggiormente salienti riguardo a questo tema sono gli sforzi intrapresi per riformare il processo d’appello delle corti ecclesiastiche e per attuare la Regula Sancti Benedicti, il testo che diverrà anche il punto di riferimento legale per la vita dei monaci, oltre a essere già la guida spirituale dei monasteri. Q uesti sforzi diverranno più forti dall’anno 794 e costituiranno una fondamentale base per i cambiamenti in atto in quel tempo nella politica monastica e che abbiamo già osservato. Il Tema della giustizia è presente trentasette volte all’interno di quindici capitolari. Alcuni elementi si presentano costante Capitula de causis cum epicopis et abbatibus tractandis, 10, p. 163, 40-43.
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mente nel corso dell’arco cronologico a cui ci riferiamo. Gli abusi a cui si fa riferimento sono diversi e tutti molto gravi: in un passo del Karlmanni principis capitulare del 742 possiamo leggere a proposito della fornicazione e delle relative pene da comminare: Statuimus similiter, ut post hanc synodum, quae fuit XI. Kalendas Maias, ut quisquis servorum Dei vel ancillarum Christi in crimen fornicationis lapsus fuerit, quod in carcere poenitenciam faciat in pane et aqua. Et si ordinatus presbiter fuisset, duos annos in carcere permaneat, et antea flagellatus et scorticatus videatur, et post episcopus adaugeat. Si autem clericus vel monachus in hoc peccatum ceciderit, post tertiam verberationem in carcerem missus, vertentem annum ibi paenitenciam agat. Similiter et nonnae velatae eadem penitencia conteneantur, et radantur omnes capilli capitis eius 51.
Nel passo 17 52 del Capitulare Missorum generale dell’anno 802 si fa riferimento alla disapprovazione di vari comportamenti che certamente non si addicono ai buoni cristiani e ai monaci. Altro grave reato è quello delle ordinazioni dietro compenso economico: possiamo leggere a proposito in un passo dell’Admonitio generalis del 789: Clericis et monachis. In concilio Calcidonense, ut non oporteat episcopos aut quemlibet ex clero per pecunias ordinari: quia utrique deponendi sunt, et qui ordinat et qui ordinatur, necnon et qui mediator est inter eos 53.
Si registra anche uno sforzo per assicurare che monaci e chierici non siano giudicati da corti secolari, ma dalla giustizia ecclesiastica: troviamo chiari riferimenti a questa restrizione nel Concilium Vernense del 755: Ut nullus clericus ad iudicia laicorum publica non conveniat nisi per iussionem episcopi sui vel abbatis, iuxta canones Cartaginensis, capitulo IX. ut ibi scriptum est: ‘Q ui relicto ecclesiastico iudicio publicis iudiciis se purgare voluerit, etiamsi pro illo fuerit prolata sententia, locum suum amittat. Hoc Karlmanni principis capitulare, 6, pp. 25, 38 - 26, 5. Cfr. Capitulare Missorum generale, 17, pp. 94, 24 - 95, 9; e cfr. supra, nota 15. 53 Admonitio generalis, 21, p. 55, 28-30. 51
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in criminale iudicio. In civili vero perdat quod evicit, si locum suum obtenere voluerit. Cui enim ad elegendos iudices undique ecclesiae patet auctoritas, ipse se indignum fraterno consortio iudicat qui, de universa ecclesia male sentendio (sic), seculare de iudicio poscit auxilium, cum privatorum christianorum causas apostolus ad ecclesiam deferri atque ibidem terminare praecipiat’. Et maxime, ne in talibus causis inquietudine domno rege faciant 54.
Anche nel passo 73 dell’Admonitio generalis del 789 si trovano riferimenti a proposito 55. È possibile ritrovare ulteriori riferimenti alla questione nel Synodus Franconofurtensis del 794: Ut monachi ad saecularia negotia neque ad placita exercenda non exeant, nisi ita faciant sicut ipsa regula praecepit 56.
Concludiamo la trattazione dell’argomento relativo alla competenza di giudicare chierici e monaci con la citazione di due passi tratti dagli Statuta Rhispacensia, Frisingensia, Salisburgensia del 799-800: Statuerunt, ut nullus inter aeclesiasticos ordines pro qualibet causa absque iuditio episcopi sui vel etiam metropolitani consensu ad iuditia secularia minime audeat accedere. Sed si qualibet causa intra sanctas eclesias contigisset adquirere, cum omni caritate et concordia in invicem conservata requiratur. Si episcopus vel abbas vel etiam presbiter inter se aliquam habuissent secularis rei altercationem, cum moderamine caritatis et insolubili vinculo pacis cum consilio episcopi sui in invicem sibi ea quae in causa essent absque iniuria vel damnatis iuramentis fideliter et devote, iustitia inter eos peracta, cum timore Domini essent consentientes. Si vero cum consilio episcopi iustitia inter eos minime potuisset peragi, tunc ad metropolitanum episcopum causa deferatur, et cum ipsius consilio vel voluntate necnon et iussu omnia perficerentur.
54 Concilium Vernense, 18, p. 36, 24-32. La citazione infratestuale fa riferimento al cap. IX del terzo Concilium Carthaginense (384-399 ca.), dal titolo Ut clerici publica judicia non appellent. Cfr. J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio, III, Firenze 1849, col. 882. 55 Cfr. Admonitio generalis, 73, p. 60, 14-17; e cfr. supra, nota 13. 56 Synodus Franconofurtensis, 11, p. 75, 32-33.
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Ut qui monachico voto est constitutus nullo modo parroechiam teneat nec ad iuditia secularia accedere praesummat 57.
La legislazione di Carlomagno non fa alcun riferimento al processo d’appello, ma si concentra sul fatto che la legge della Chiesa venga applicata più fedelmente, e questo dovrebbe rinforzare l’autorità del vescovo sull’abate. Nella prima sezione del suo Karlmanni principis capitulare Liptinense del 744 Carlomanno decreta: Et omnis aecclesiastici ordinis clerus, episcopi et presbyteri et diaconi cum clericis, suscipientes antiquorum patrum canones, promiserunt se velle ecclesiastica iura moribus et doctrinis et ministerio recuperare. Abbates et monachi receperunt sancti patris Benedicti [regulam] ad restaurandam normam regularis vitae 58.
Anche Carlomanno ha raccomandato la Regula Sancti Benedicti, non soltanto come strumento di riforma del monachesimo, ma come legge per i monaci. Sotto Pipino, specialmente nei primi anni del suo governo, non c’è una sostanziale iniziativa di riforma giuridica. Lo scenario muta nel 755, quando viene intrapresa una significativa riforma della Chiesa. Tra le altre cose, viene messo a punto un processo d’appello per i monasteri: Ut monasteria, tam virorum quam puellarum, secundum ordinem regulariter vivant; et si hoc facere contempserint, episcopus in cuius parrochia esse videntur hoc emendare debeat. Q uod si non potuerit, hoc quem metropolitanum constituimus innotescat et ipse hoc emendare faciat. Q uod si hoc nec ipse emendare potuerit, ad sinodum publicum exinde veniant, et ibidem canonicam sententiam accipiat. Et si publicum sinodum contempserit, aut honorem suum perdat aut excommunicetur ab omnibus episcopis, et talis in eius locum in ipso sinodo constituatur per verbum et voluntatem domno rege vel consensu servorum Dei, qui secundum ordinem sanctam ipsam gregem regat 59.
57 Statuta Rhispacensia, Frisingensia, Salisburgensia, 3, p. 226, 27-36; 25, p. 228, 39-40. 58 Karlmanni principis capitulare Liptinense, 1, pp. 27, 45 - 28, 3. 59 Concilium Vernense, 5, p. 34, 7-15.
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Q uesto processo include il vescovo, il metropolita, ed il sinodo pubblico. I monaci devono vivere «secondo la regola», ma, come abbiamo visto, Pipino non specifica il nome della regola da utilizzare. Carlomagno conferma l’ultimo capitulum di Pipino emettendolo di nuovo una volta salito al trono, ma fino al Pippini capitulare papiense dell’Ottobre 787 non sono presenti riferimenti alla legislazione ecclesiastica 60. Tuttavia, tra il 789 e l’808, l’argomento ricorre con una certa frequenza 61. Come si evince da un passo del Duplex legationis edictum del 789 e da un passo del Synodus Franconofurtensis del 794, la Regula viene raccomandata due volte, specialmente nel contesto giuridico, rendendola a tutti gli effetti la legge a cui fare appello per le decisioni inerenti 62. Nel 794, in un passo che abbiamo già preso in considerazione per la sua rilevanza nelle relazioni vescovo-abate 63, viene istituita una decisiva riforma del processo d’appello, in cui gli abati e tutte le leggi ecclesiastiche sono poste sotto l’autorità giuridica del vescovo. Ulteriori appelli si possono rivolgere al metropolita; l’appello finale si rivolge direttamente al re. Ma nell’anno 802 entrano in vigore importanti variazioni. I vescovi hanno adesso il completo controllo sulle punizioni dei monaci e sugli appelli all’arcivescovo ed al re: Et monachi ab episcopo provinciae ipsius corripiantur; quod si se non emendent, tunc archiepiscopus eos ad sinodum convocet; et si neque sic se correxerint, tunc ad nostra praesentiam simul cum episcopo suo veniant 64.
Q uesto è un altro sforzo messo in atto per porre gli abati sotto l’autorità del vescovo nel contesto giuridico: in questo modo si 60 Cfr. Pippini capitulare papiense, pp. 198-200. Nel l’edizione del Boretius questo capitulare riporta il n. 94. 61 Cfr. Admonitio generalis, pp. 52-62; Capiturale missorum de exercitu promovendo, pp. 136-138. 62 Cfr. Duplex legationis edictum, 16, p. 63, 23-24: «16. Ut disciplina monachis regularis imponatur non secularis, id est non orbentur nec mancationes alias habeant nisi ex auctoritate regulae»; Synodus Franconofurtensis, 18, p. 76, 9-10: «18. Ut abbates, qualibet culpa a monachis commissa, nequaquam permittimus coecare aut membrorum debilitate ingerere, nisi regularis disciplina subiaceat». 63 Cfr. supra, nota 45. 64 Capitulare missorum generale, 15, p. 94, 12-15.
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lede chiaramente l’esclusiva giurisdizione degli abati nei loro rispettivi monasteri. Altre iniziative dell’epoca, come mandare nuovi funzionari nei monasteri per ridurre l’appropriazione indebita verso il re, oppure per far applicare la Regula Sancti Benedicti, rafforzano queste limitazioni verso i poteri degli abati. Dall’anno 802 non si farà più riferimento a simili interessi, però continueranno ad apparire altri provvedimenti concernenti la giustizia monastica. Il Tema della giustizia esprime alcuni interessi che non mutano nel corso del periodo preso in esame, ma dall’anno 794 possiamo notare una maggiore attenzione dedicata sia alla riforma del processo d’appello che all’applicazione della Regula Sancti Benedicti come legge per i monaci. Ciò costituisce il necessario supporto legale per le altre modifiche che abbiamo visto essere state messe in atto nello stesso tempo all’interno del Tema del Vescovo e del l’Abate e del Tema della Regola. Cioè il nuovo processo d’appello che supporta l’autorità del vescovo sui monasteri, ma soprattutto l’importanza della Regula Sancti Benedicti come regola osservata dai monaci.
4. Conclusione Possiamo concludere affermando che il processo di riforma del monachesimo venne intensificato e messo in atto da Benedetto di Aniane, ma esso aveva già avuto, come si evince dalla documentazione, vari precedenti. Se il nono secolo, con l’abate di Aniane, rappresenta il momento di maggiore slancio riformatore, sappiamo che tale articolato processo affonda le sue radici già nel settimo secolo: i concili regionali svolti in quegli anni hanno emanato alcune disposizioni relative ai monaci. Con l’ottavo secolo, come abbiamo avuto modo di constatare, si apre un secondo periodo molto importante per il cammino di riforma del monachesimo: attraverso i capitolari analizzati si è potuto verificare un processo di maturazione della legislazione civile, insieme ad una maggiore ingerenza del mondo laico negli affari ecclesiastici e religiosi. Con Carlomagno e Ludovico il Pio si raggiunge la massima concentrazione di interventi a favore di un monachesimo unificato sotto la Regula Sancti Benedicti: l’elemento basilare è, 357
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appunto, la scelta di una regola unica; essa, poi, sarà fiancheggiata da un codice disciplinare e liturgico, che ne precisa gli aspetti più contingenti. Si realizzerà, in questo modo, un’uniformità materiale, rituale, formale, ma anche un’identità pedagogica e ideologica.
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PIERFRANCESCO DE FEO
L’EREDITÀ CRISTOLOGICA ANSELMIANA IN UGO DI SAN VITTORE E IN ABELARDO
1. Ugo di San Vittore Il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta, opera terminata nel 1098, è l’irrinunciabile termine di confronto della produzione soteriologica del secolo xii 1. Anselmo, ormai arcivescovo di Canterbury, dimostra perché, pur prescindendo da Cristo, un credente in Dio sia portato dalla ragione ad ammettere necessariamente che soltanto un Dio-uomo possa essere l’artefice della salvezza del genere umano. La ratio teologica è dunque necessaria, perché, pur partendo da una preliminare accettazione di dati di fede, conduce ad avvalorare in modo inoppugnabile la veridicità del dogma cristologico. Ugo di San Vittore, esponente di spicco della scuola parigina di San Vittore, recepisce l’opera anselmiana alla luce di una sensibilità precipuamente caratterizzata da un approccio storico al mistero della salvezza, che si evidenzia in particolar modo nelle Sententiae de divinitate, nel De Sacramentis christianae fidei e in alcune Q uaestiones pubblicate da Odo Lottin 2. La contemplazione dello splendore di gloria del Verbo si accompagna ad una costante meditazione del conflitto drammatico che 1 La soteriologia è quel ramo della cristologia che analizza le cause, il fine e gli effetti della redenzione del genere umano operata da Gesù Cristo. Q uesto breve articolo vuole fornire qualche spunto supplementare a quanto già analizzato in un mio volume sulla cristologia della prima metà del secolo xii; cfr. P. De Feo, Il Cristo delle scuole. Il dibattito cristologico nella prima metà del secolo xii, Roma 2012 (Collationes, 3), p. 147. 2 Per la figura e le opere di Ugo, cfr. Ugo di San Vittore. Atti del XLVII Convegno del Centro di studi del Basso Medioevo, Accademia Tudertina (Todi, 10-12 settembre 2010), Spoleto 2011.
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 359-370 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112925
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si è consumato sul palcoscenico della storia umana tra il Figlio di Dio e il suo antico avversario, Satana. Da questo punto di vista, gli autori monastici si preoccupano di evidenziare il ruolo rivestito dal diavolo nella vicenda della redenzione operata da Cristo. Anselmo diventa punto di riferimento obbligato perché, opponendosi a un filone della tradizione patristica che attribuiva al diavolo il diritto di esercitare un potere sull’uomo, acquisito dopo che l’uomo aveva liberamente scelto di peccare, ritiene che nessun diritto possa essere riconosciuto a chi per primo aveva gravemente offeso Dio. Se è evidente l’esistenza di uno iugum diaboli, il potere che il diavolo esercita non può trovare a suo fondamento alcuno ius. Il diavolo, seducendo l’uomo, lo aveva conquistato con l’inganno, per cui l’uomo non poteva essere considerato una legittima proprietà di Satana. L’uomo è stato sempre suddito di Dio e Satana non aveva alcun diritto di rendere l’uomo schiavo del peccato. Se Dio ha permesso l’azione tentatrice del diavolo è soltanto perché l’uomo, affrontando la tentazione, potesse assumersi la responsabilità del peccato e riscattarsi dalla sua schiavitù, non certo perché il diavolo avesse diritto a un risarcimento. L’Incarnazione e il sacrificio di Cristo non costituiscono, dunque, un riscatto da un preteso ius diaboli. Ugo esprime la sua vicinanza a questa posizione nella sua summa teologica, il De sacramentis christianae fidei: Iniuste ergo diabolus tenet hominem. Sed homo iuste tenetur, quia diabolus numquam meruit, ut hominem sibi subiectum premeret, sed homo meruit per culpam suam, ut ab eo premi permitteretur 3.
Certamente l’uomo ha meritato un castigo per la sua disonestà nei confronti di Dio, perché è possibile che l’uomo ignorasse la natura ingannatrice del diavolo, ma non che l’azione a cui lo incitava Satana fosse contraria al volere di Dio. Tuttavia, anche per Ugo, lo ius che il diavolo esercita sull’uomo è uno ius tyrannicum, quindi, in realtà, non è uno ius ma uno iugum. Il diavolo è un involontario strumento del castigo divino, in quanto eser Hugo de Sancto Victore, De Sacramentis christianae fidei (in seguito: De Sacramentis), I, 8, 4, PL 176, [173-618], 308A, ed. R. Berndt, Achendorff 2008 (Corpus Victorinum. Textus historici, 1), p. 196, 16-18. 3
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cita la sua malefica azione sull’uomo non certo per assecondare la volontà di Dio, ma perché è malvagio e desidera che l’uomo rovini nella dannazione eterna. Q uesto significa, però, che Dio è capace di reintegrare il male nel bene ordinandolo a un fine armonizzabile col suo disegno provvidenziale. Anselmo aveva scritto nel Cur Deus homo: Nam hoc non faciebat Deo iubente, sed incomprehensibili sapientia sua, qua etiam mala bene ordinat, permittente 4.
Per Ugo, la volontà di Dio è un beneplacito immutabile: da essa discende la volontà come operatio, che compie sempre il bene, e la volontà come permissio, che permette anche il male. Ed è un bene che vi siano stati, nella storia della salvezza, sia il bene che il male, non perché il male in sé possa diventare bene, ma perché dal male Dio ha tratto un bene: «Malarum voluntatum ordinator est Deus, non Creator» 5. Ma l’uomo, contratto il peccato, è diventato incapace di liberarsi dallo iugum diaboli. Se l’uomo avesse beneficiato di un patronus non soggetto a nessuno e superiore alle parti, a cui affidare la sua causa contro il diavolo, certamente avrebbe vinto, proprio perché avrebbe avuto buon gioco nel dimostrare che non esisteva alcuna motivazione in grado di legittimare il legame tra il giusto castigo patito e la tirannia esercitata dal diavolo nei suoi confronti: Si ergo homo talem patronum haberet, cuius potentia diabolus in causam adduci posset, iuste dominio eius homo contradiceret, quia diabolus nullam iustam causam habuit, quare sibi ius in homine vindicaret 6.
Solo Dio poteva fungere da patrono; Ugo riprende il motivo paolino dell’ỏργή θεοῦ (cfr. Rm 1, 18) per giustificare il rifiuto di Dio di esercitare questo patronato: Patronus autem nullus talis inveniri poterat nisi solus Deus, si Deus causam hominis suscipere noluit, quia homini adhuc pro culpa sua iratus fuit 7. Cfr. Cur Deus homo, I, 7, 367C, p. 57, 12-13. Hugo de Sancto Victore, ibid., 5, 27, 258C, p. 128, 24-25. 6 Ibid., 8, 4, 308AB, p. 196, 21-24. 7 Ibid., 308B, p. 196, 24-25. 4 5
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La soddisfazione necessitava la riparazione del danno, azione impossibile all’uomo. Dio, avendo consapevolezza che non avrebbe potuto richiedere dal peccatore un risarcimento che l’uomo non era in grado di procurarsi, ebbe misericordia di lui. Si fece uomo per amore dell’uomo e lo liberò, giustificandolo non dal diavolo, ma dal peccato di cui si era reso colpevole soltanto di fronte a Dio stesso: Videns ergo Deus hominem sua virtute iugum damnationis non posse evadere, misertus est eius (…). Dedit igitur homini hominem quem homo pro homine redderet, qui ut digna recompensatio fieret priori non solum aequalis sed maior esset. Ut ergo pro homine redderetur homo, maior homine factus est Deus homo pro homine 8.
Solo Dio, infatti, è giusto, per cui, anteriormente alla causa tra l’uomo e il diavolo, esiste il debito contratto da entrambe le creature nei confronti di Dio. La causa tra Dio e il diavolo è stata risolta fin da prima della creazione dell’uomo, con la cacciata definitiva di Lucifero dal Paradiso. La causa tra l’uomo e Dio è stata differita alla fine dei tempi, perché il sacrificio di Cristo ha dilatato i tempi della pazienza divina fino al giorno del Giudizio. La causa tra il diavolo e l’uomo è stata risolta con la passione di Cristo, centro della storia, che ha apportato la liberazione dell’uomo dal destino di dannazione. Se l’uomo, infatti, avrà voluto riconciliarsi con Dio tramite Cristo, aspetterà il giudizio senza timore di condanna 9. La ratio necessaria dell’Incarnazione si comprende nell’autoconsapevolezza che l’uomo acquisisce della necessità di un Redentore. Tale autoconsapevolezza coincide, nella longitudo del tempo subtractae servitutis dell’uomo nei confronti di Dio, con l’imprescindibilità oggettiva, a parte hominis, della riparazione e dunque dell’Incarnazione. In questo senso, dunque, tale rivisitazione in chiave temporale-economica delle rationes necessariae anselmiane dell’Incarnazione pone Ugo in un atteggiamento tipicamente monastico del quaerere Deum: è un affidarsi completamente a Dio nell’autoconsapevolezza della necessità di Dio stesso per la propria redenzione. Ibid., 308CD, p. 197, 7-17. Cfr. ibid., 309C, p. 198, 12-16.
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Proprio a partire da quest’ottica, l’originalità di Ugo nel ripensare Anselmo produce un distacco del vittorino dall’arcivescovo di Canterbury in merito alla tematica della giustizia. Ugo introduce la distinzione tra iustitia patiens e iustitia cogens che richiama un’altra distinzione, tra iustitia aequitatis e iustitia potestatis. La iustitia patiens è quella per la quale, se un evento si realizza, è giusto che ciò accada, senza che questo implichi che, qualora quell’evento non si realizzi, ciò provochi un’ingiustizia. La iustitia patiens è, dunque, sempre possibilità di concepire un’alternativa da parte di Dio 10. La iustitia cogens è, invece, quella per la quale qualcosa accade giustamente, ma, se non accadesse, ciò provocherebbe un’ingiustizia. La iustitia potestatis, connessa alla iustitia patiens, è quel potere di giustizia che Dio esercita in modo assoluto, per cui qualunque cosa Egli compie è giusta, mentre la iustitia aequitatis riguarda, nella questione della salvezza degli uomini, il merito umano, perché tale giustizia retribuisce gli esseri umani secondo i meriti da essi acquisiti. Partendo dal presupposto che nessun uomo merita di essere salvato, si può affermare che quando Dio salva i peccatori, agisce per potere di giustizia. Se non salvasse coloro che invece salva, i reprobi sarebbero comunque condannati per giustizia di equità, proprio perché nessuno è giustificato di fronte a Dio 11. Se invece Dio salvasse coloro che condanna, si servirebbe nuovamente del potere di giustizia. In ogni caso, dannati ed eletti vengono giudicati in base a una giustizia patiens, in cui a una determinata potestas corrisponde una determinata aequitas: Sive in his igitur qui salvantur, sive in his qui dampnantur, iustitia paciens est, per quam illud quod fit sic iustum est, ut etiam si aliter fieret iniustum non esset 12.
Ugo rifiuta decisamente di aderire alla posizione di Anselmo, secondo la quale Dio compie solo ciò che è oggettivamente buono. Per Anselmo, la libertà divina non si rivolge se non a ciò che è lecito o decoroso, né deve essere reputata benevolenza 10 Cfr. C. Martello, Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia, Roma 2008, p. 187. 11 Cfr. Hugo de Sancto Victore, De sacramentis, I, 8, 7, 310C-310D, ed. Berndt cit. (alla nota 3), pp. 199, 24 - 200, 7. 12 Ibid., 9, 311C, p. 201, 6-8.
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quella che opera qualcosa di sconveniente per Dio. Q uando poi si dice che ciò che Dio vuole è giusto e che ciò che non vuole non è giusto, questa affermazione non va interpretata nel senso che, se Dio vuole qualunque cosa, anche sconveniente, ciò che è ingiusto diventerà giusto per il fatto che Dio lo vuole. Perciò se non conviene alla natura divina operare qualcosa in modo ingiusto o disordinato, non pertiene alla sua libertà o benevolenza assolvere senza punizione il peccatore che non restituisce a Dio quanto gli ha sottratto 13. Per Ugo, invece, qualunque cosa Dio abbia voluto o avrebbe voluto è comunque giusta per la giustizia di potere, che ha radice nella sua volontà 14. Il peculiare apporto del vittorino alla tematica si comprende anche alla luce della sua concezione dell’essere di Cristo. Per Ugo, il Verbo ha una tale capacità di attrarre a sé e di assumere in sé l’altro da sé, che l’altro da sé, l’uomo assunto, diventa lo stesso Verbum. La distinzione tra iustitia potestatis e iustitia aequitatis consente di salvaguardare la teodicea divina senza sconfinare né nell’arbitrarietà dell’agire rispetto all’uomo né in una dipendenza di Dio da una bontà essenziale a Lui esterna, perché tale distinzione è un aspetto di quel rapporto tra misericordia e giustizia che si risolve nel radicalismo dell’identificazione di Dio e uomo in Cristo. La coincidenza tra Verbum in se e Verbum pro nobis è l’esito mistico-monastico ugoniano della libertà amante di Dio esaltata dal Cur Deus homo.
2. Abelardo Mentre Anselmo costruisce sistematicamente l’edificio della sacra doctrina, il lavoro di quanti, tra i teologi posteriori, si segnalano per un’accentuata propensione ad applicare la dialettica al dato rivelato, consiste nella rigorosa analisi logica degli enunciati di fede 15. Q uesto sforzo caratterizza in modo particolare la teologia di Abelardo; il maestro di Le Pallet prosegue il cammino anselmiano di una teologia filosofica come svolgimento della fede e adegua Cfr Cur Deus homo, I, 12, 378AC, p. 70, 13-30. Cfr. Hugo de Sancto Victore, De Sacramentis, I, 8, 9, 311CD, ed. Berndt cit. (alla nota 3), p. 201, 10-13. 15 Cfr. Martello, Pietro Abelardo cit. (alla nota 10), p. 33. 13 14
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zione della ratio ad essa 16. Com’è noto, per Abelardo la fede è existimatio, assenso dato alla verità rivelata, e dunque è un atto che si esercita su intellezioni di un contenuto che non può mai essere colto dalla conoscenza umana in modo esaustivo 17. Compito del teologo è allora quello di cercare delle rationes honestae che, anche se non incontrovertibili, costituiscano una valida risposta alle obiezioni dei non credenti: Expeditis his quae ad singularem christianae fidei professionem attinere videntur, de discretione videlicet trium personarum in una eademque penitus ac simplici divinitatis substantia, iuvat in huius summi boni perfectioni contemplanda mentis aciem altius imprimere, ac diligentius singula replicando quaecumque aliquid questionis habere videntur, verisimilis ac honestissimis rationibus definire, ut quo amplius innotuerit huius summi boni perfectio, maiori unumquemque ad se trahat desiderio 18.
Tali argomentazioni vengono esplicitamente contrapposte alle necessariae rationes, in quanto ciò che è verosimile, non costringendo all’assenso, è preferito dagli uomini retti, che intendono operare, in materia di fede, una scelta libera e ragionevole 19. Abelardo si discosta dal piano anselmiano di una dimostrazione cogente dei contenuti della fede. La teologia abelardiana è indebolita sul piano epistemico perché la ragione, per poter analizzare i dati di fede, deve adoperare un linguaggio congetturale e translato, oltre a fare uso di similitudini 20. Ciò non implica che l’uomo sia del tutto incapace di argomentare in rapporto a Dio; le rationes 16 Le opere teologiche abelardiane cui si farà riferimento sono le tre Theologiae (Theologia Summi Boni, Theologia christiana e Theologia Scholarium), composte tra il 1118 e il 1125, e i Commentaria in Epistulam Pauli ad Romanos. 17 Cfr. S. Vanni Rovighi, Introduzione, in L. Urbani Ulivi, La psicologia di Abelardo e il Tractatus de intellectibus, Roma 1976, [pp. 11-83], pp. 37-38. 18 Abaelardus, Theologia scholarium, III, 1, PL 178, [979-1114], 1085C, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1987 (CCCM 13), [pp. 203-549], p. 499, 1-9. L’edizione della patrologia si ferma al libro III, cap. 102, nell’ed. Buytaert a p. 542, 1338. 19 Cfr. ibid., 15, 1090C, p. 506, 217-223: «Magis autem honestis quam necessariis rationibus nitimur, quoniam apud bonos id semper precipuum statuitur quod ex honestate amplius commendatur, et ea semper potior est ratio quae ad honestatem amplius quam ad necessitatem vergit, presertim cum, quae honesta sunt, per se placeant atque nos statim ad se sua vi quadam alliciant». 20 Cfr. Martello, Pietro Abelardo cit. (alla nota 10), p. 39.
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honestae conservano parzialmente la capacità di spiegare la rettitudine dell’agire divino nell’economia salvifica. Nella Theologia scholarium, il filosofo francese cerca una risposta a quel quesito che, formulato negli stessi anni da Ugo, fa segnare una distanza del Vittorino rispetto ad Anselmo: si tratta del tentativo di illustrare l’opportunità dei criteri con i quali Dio decreta la salvezza e la dannazione degli uomini. Q uando ci si chiede se Dio abbia voluto o potrebbe voler salvare coloro qui minime salvandi sunt, Abelardo risponde che questa opzione ripugna alla dignità divina: Cum autem dicimus Deum posse illum salvare qui minime salvandus est, ad ipsam divinitatis naturam possibilitatem reducimus, ut videlicet naturae divinae repugnet quin eum salvet. Q uod omnino falsum est. Prorsus quippe naturae divinae repugnat id eum facere quod eius derogat dignitati, et quod eum facere minime convenit 21.
Abelardo si rivela su questo punto vicino ad Anselmo. È evidente che la dignitas di cui parla il Maestro Palatino richiama l’honor del Cur Deus homo: Dio non può volere ciò che ne lederebbe la dignità. In Abelardo questo dato si lega ad un progetto trinitario: Dio è onnipotente, sapiente e buono nelle sue tre persone e, in quanto tale, non può non volere ciò che a Lui conviene, non può volere qualcosa di indecens 22. L’onnipotenza divina fornisce alle creature, per Abelardo, il paradigma perfetto del rapporto tra libertà e necessità. Diversamente dalle creature, in Dio necessità e libertà coincidono perché Dio è perfetto e può tutto quello che vuole e ciò che vuole merita di essere; ma, come per le creature, la libertà deve volere il bene scelto con la ragione, perché ne va della stessa dignitas divina 23. Sviluppando il concetto di necessità, Anselmo elabora una distinzione tra necessitas praecedens e necessitas sequens che è fondamentale per comprendere la coincidenza di necessità e libertà nel Dio che si fa uomo. La necessitas antecedens obbliga una causa a determinare la realtà in un certo modo, mentre la necessitas sequens segue a un atto deliberativo di una volontà che ha la capa21 Abaelardus, Theologia scholarium, III, 49, 1099D-1100A, ed. Buytaert cit., p. 521, 674-679. 22 Cfr. Martello, Pietro Abelardo cit. (alla nota 10), p. 89. 23 Cfr. ibid., p. 92.
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cità di attuarsi 24. In modo simile, Abelardo distingue il significato dei termini possibile e necessario, a seconda che siano utilizzati in senso relativo o assoluto. In senso assoluto, era possibile che Cristo, come ogni uomo, peccasse. Ma non appena tale assoluta possibilità venne determinata, ne conseguì l’impossibilità che Cristo peccasse. Infatti, proprium dell’umanità di Cristo è la congiunzione alla divinità. Cristo non è soltanto uomo, ma unione di uomo e Dio, per cui non può peccare. Allo stesso modo, per un cieco è possibile, in assoluto, vedere, perché è un uomo, e l’uomo è dotato di sua natura della facoltà visiva. Ma, quando un uomo è diventato cieco, è impossibile che veda: Videtur itaque nobis ut in hac quoque sicut in ceteris rebus vires propositionum diligenter attendamus, quando videlicet cum determinatione ‘possibile’ aut ‘necesse’ ponitur, et quando simpliciter praedicatur, id est sine apposita determinatione (…). Eum qui curtatus est possibile est habere duos pedes, cum sit omnis homo bipes, et eum qui caecus est possibile est videre; non tamen possibile est postquam curtatus est vel postquam caecus est (…). Sic et fortasse non est absurdum nos concedere simpliciter quod eum hominem, qui Deo unitus est, possibile sit peccare, non tamen postquam unitus vel dum unitus est. Christum vero, id est Deum simul et hominem, modis omnibus impossibile est peccare 25.
D’altro canto, se, diversamente dalla teologia, la scienza naturale può arrivare a comprendere la verità delle cose, questo non implica, all’interno dell’orizzonte speculativo abelardiano, la conoscenza delle essenze universali della realtà. Abelardo nega che l’universale sia reale, per quanto abbia un fondamento nella realtà. Di qui l’importanza del contesto proposizionale, che individua il senso di una parola in relazione alle altre, e il riconoscimento di una precarietà relativa anche alla conoscenza della realtà naturale 26. Cfr. Cur Deus homo, II, 17, 421C-424A, pp. 122, 25 – 125, 7. Abaelardus, Commentaria in Epistulam Pauli ad Romanos, I, (3, 4), [783-978], 824AC, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 11), [pp. 3-340], p. 99, 97-115. 26 Cfr. Abaelardus, Logica ingredientibus, in B. Geyer, Peter Abaelards philosophische Schriften, I, Die logica ingredientibus, 1, Die Glossen zu Porphyrius, Münster 1919 (BGPTM, 21), [pp. 1-109], p. 16, 39-40: «Est praedicari coniungibile esse alicui veraciter vi enuntiationis verbi substantivi praesentis». Cfr. R. Pinzani, The Logical Grammar of Abelard, Dordrecht 2003, in partic. pp. 165-167. 24 25
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Il discorso teologico, al contrario, può giovarsi di una univoca corrispondenza tra la vox e il sensus dei termini adoperati dalla Scrittura, assicurata dal fatto che la realtà creata, dal punto di vista di Dio, sussiste nella perfezione archetipa delle idee del Verbo. Anche se la stessa Parola di Dio è oggetto di un’ermeneutica necessaria a mostrarne la ricchezza plurisemantica e a suggerirne l’adeguata contestualizzazione, la componente gnoseologica si situa in un diverso orizzonte ontologico: nel De intellectibus Abelardo sostiene che le idee divine colgono l’intima natura della cosa, perché ne sono il modello, mentre la conoscenza umana ricostruisce faticosamente dai dati dei sensi uno status comune tra realtà dotate di caratteristiche condivise 27. Se dunque, sul piano della cogenza della dimostrazione dei contenuti di fede, Abelardo si allontana dalle rationes necessariae, condivide con Anselmo l’univocità del senso delle affermazioni teologiche, fondata sull’immediata corrispondenza del pensiero e della realtà nel Verbo di Dio. Così, quando la stessa Sapienza incarnata rivela che Dio è spirito, la conoscenza umana può senza alcun dubbio cogliere l’assoluta distanza che intercorre tra Dio e le realtà corporee: Ad quod illum primum respondendum esse arbitror quod mirabile non debet videri, si illa divinitatis natura, sicut singularis est, ita singularem modum loquendi habeat (…). Hoc enim docere recte sophiae incarnandae reservandum erat, ut ipse per se ipsum sui notitia afferret Deus, cum ad eius notitia nulla assurgere creatura sufficiat. Ipse itaque solus quid ipse sit manifeste aperuit, cum gentili illi et Samaritanae mulier ait: Il denotato di un nome comune è uno status o esse rei. Abelardo vuole rifiutare ogni analisi del nesso predicativo tale da postulare una relazione di entità di tipo differente; riducendo ogni predicato verbale a predicato nominale, il soggetto non predica un oggetto entitativamente differente. I termini universali denotano status, denotano le cose significate dai nomi propri e contribuiscono a formare enunciati veri quando vengono uniti in modo congruo agli stessi nomi. Se i verbi sono tutti riconducibili alla formula copula + predicato nominale, i nomi comuni hanno lo stesso significato dei verbi. L’universale è quod de pluribus natum aptum est praedicari. Il dictum propositionis, come lo status, rientra tra le entità che non sono aliquae de rebus existentibus. Le varie componenti logiche che Abelardo desume dall’analisi atomica delle espressioni non hanno di per sé alcun ruolo diversificante: il loro presentarsi in combinazione con le altre fa la differenza tra i diversi oggetti semantici. 27 Cfr. Vanni Rovighi, Introduzione cit. (alla nota 17), p. 8.
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«Spiritus est Deus» (Gv 4, 24), hoc est divinitas spiritualis substantia et non corporalis. At vero sicut in corporibus alia aliis subtiliora sunt, utpote aqua quam terra, et aer quam aqua, et ignis quam aer, ita longe et inexcogitabili modo omnium spirituum naturam ita propriae sinceritatis subtilitate divinitas transcendit, ut in comparatione eius omnes alii spiritus quasi corpulenti seu corpora quaedam dicendi sint 28.
Ma la distanza e l’incomunicabilità tra la dimensione spirituale e quella corporea sono sottolineate con tale vigore da Abelardo, da creare a volte un certo affanno concettuale nel dover rendere ragione della loro coesistenza in Cristo. Il Maestro Palatino, in questo senso, deve costantemente adeguare le espressioni cristologiche a questo fondamentale presupposto ontologico. Va inoltre aggiunto che anche il linguaggio teologico non può essere considerato nella sua purezza, per lo meno quando non si esprima direttamente in termini scritturistici, ma tenti di inferire a partire dalla Scrittura conseguenze logiche. La teologia, infatti, quando deve allontanarsi dall’univocità del sensus per adeguarsi alle strutture inferenziali desunte dalla scienze naturali, sarebbe ridotta al silenzio dalla radicale diversità tra il bagaglio concettuale e linguistico umano e l’oggetto divino, se non ricorresse ad una traslazione di significato delle proprie voces. Certamente tale difficoltà si acuisce in ambito cristologico, nel quale il pensiero e il linguaggio si trovano al crocevia di una formidabile distanza ontologica. La cristologia dogmatica abelardiana propone un separatismo ontologico che è anche impossibilità di omogeneizzare le rationes honestae della teologia con le ragioni della scienza naturale; ma è proprio l’eredità soteriologica anselmiana che consente ad Abelardo un superamento della radicalità di questa prospettiva. Dio sceglie, nella lettura anselmiana dell’Incarnazione, di vincolarsi liberamente al progetto d’amore pensato per l’uomo, fino al punto di morire per lui senza venir meno, ma anzi nel rispetto necessario della propria dignitas. Abelardo interpreta questa necessità-libertà di Dio nel senso del primato assoluto dell’amore, in particolar modo nel Commento alla Lettera ai Romani. Sembrerebbe impossibile e inaccettabile che un male, la crocifis28 Abaelardus, Theologia christiana, III, 116, PL 178, [1123-1330], 1241BD, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 12), pp. 236, 1346 - 237, 1371.
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sione dell’unico giusto, possa servire alla salvezza. Abelardo tuttavia, come Anselmo e Ugo, ritiene che Dio sia in grado di riordinare il male e dunque di trasformarlo in bene 29. Ma, diversamente da Anselmo, l’aspetto espiatorio del sacrificio di Cristo non costituisce la motivazione più profonda dell’Incarnazione e della passione. Dio ha sofferto per l’uomo perché l’uomo, conquistato dall’immenso amore del suo Creatore e Redentore, si convertisse. Dall’amore di Cristo è scaturita una sorgente di grazia qua maior inveniri non potest. L’assonanza con la definizione anselmiana di Dio non è casuale. Nell’orizzonte onto-gnoseologico anselmiano della condizione limite come orizzonte necessario di ogni possibile, la soteriologia abelardiana dell’amore si pone quale ‘onesta’ soluzione di percorrenza dell’infinita via che unisce il divino all’umano. L’onnipotenza della grazia divina si sottopone ad una exinaninatio (cfr. Phil 2, 7). Q uesta chenosi per amore rivela l’incommensurabilità della benignitas divina, che per Abelardo si manifesta nella rinuncia a esercitare un potere: è la nulla potentia dell’autoumiliazione del Verbo disceso nel grembo della Vergine 30.
29 Cfr. Id., Theologia Scholarium, III, 118, pp. 548, 1593 - 549, 1601: «Q uomodo divinae congruit bonitati ut nos velle vel poscere aliquid precipiat, quod a rectissima eius ordinatione seiunctum est quod nequaquam decreverit esse faciendum? Nec id utique sine causa. Non enim his tantum quae fiunt, sed in his etiam quae fieri non permittit, causa ei rationabilis deest, sed tam haec quam illa cur fieri vel non fieri conveniat, nobis ignorantibus, pensat, qui mala etiam ita bene ordinat ut etiam bonum sit mala esse, et quicquid evenit, bonum sit evenire». 30 Cfr. Abaelardus, Apologia contra Bernardum, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 11), [pp. 359-368], pp. 362, 106 - 363, 113: «Amor itaque Dei, sive bonitas, optima eius est voluntas faciendi optime sive disponendi omnia, ut diximus, non potentia faciendi sive disponendi illa. Numquam enim, sive in nobis sive in Deo, amor vel benignitas dici debet ‘potentia’, cum nequaquam amare vel benignum esse sit aliquid posse, cum saepe hi qui magis diligunt vel benigniores sunt, minus possunt implere quod volunt, et minus sunt potentes qui plus sunt benevoli».
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INFLUENZE ANSELMIANE NEL SECOLO XII. IL CASO DELLA SUMMA SENTENTIARUM ATTRIBUITA A OTTONE DA LUCCA
1. La Summa sententiarum e il dibattito teologico L’istanza razionalizzante che permea il pensiero di Anselmo d’Aosta, cui attribuisce un carattere e uno spessore peculiarmente filosofici, costituisce il punto di riferimento delle generazioni a lui successive in ordine al metodo e ad alcuni fondamentali contenuti, come la Trinità e l’onnipotenza divine, della teologia. Si tratta inequivocabilmente del contributo più rilevante del pensiero cristiano alla crescita dei saperi prima dell’ingresso e della diffusione, tra la seconda metà del xii secolo e la prima del successivo, dei libri naturales e della Metafisica di Aristotele; un contributo che matura e si realizza dentro la ‘cornice’ neoplatonizzante frutto delle trasformazioni della filosofia nell’Occidente latino tra tarda Antichità e alto Medioevo 1. La Summa sententiarum attribuita a Ottone da Lucca costituisce una testimonianza particolarmente significativa dell’influenza anselmiana, quanto meno fino ai primi anni Q uaranta del xii secolo; non per nulla, in ragione delle affinità tematiche tra essa e l’opera dell’aostano, tra le sue false attribuzioni ha suscitato qualche credito nel passato quella, pur destituita del tutto di fondamento, secondo la quale essa andrebbe ricondotta proprio all’autore del Monologion 2. In ogni caso nella 1 Sulla ricezione della tradizione filosofica da parte della cultura latina, cfr. C. Martello, Tradizione senza continuità. Le trasformazioni della filosofia nell’alto Medioevo, in «Mediaeval Sophia», 7 (2010), pp. 33-49. 2 Cfr. J. J. Bourassé, In tractatum sequentem monitum, PL 171, 1065-1068: si tratta della breve introduzione alla riproduzione di Hildebertus Cenomanensis, Opera tam edita quam inedita, ed. A. Beaugendre, Apud Laurentium
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 371-392 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112926
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Summa si riscontra la capacità dell’autore di coniugare l’esigenza di rimanere nell’‘alveo’ della tradizione del pensiero cristiano e, in tale contesto, il desiderio di ripercorrere a ritroso il suo ‘asse’ filosofico, per poter attingere, attraverso Anselmo, alla sua origine patristica e agostiniana, con l’attenzione al dibattito teologico contemporaneo, incentrato sulla comprensibilità, più che sulla mera pensabilità, dei misteri 3. I principali protagonisti di tale dibattito sono almeno quattro. Innanzitutto i Cisterciensi, e tra essi Bernardo di Clairvaux ma anche Guglielmo di Saint Thierry, che con personalità diverse dominano la seconda fase della riforma ecclesiastica che culmina nel compromesso tra impero e papato sui conferimenti delle cariche religiose, dopo oltre mezzo secolo di conflittualità, e ne rappresentano il progetto culturale, costituito da una forte spinta alla ‘restaurazione’ dell’originaria purezza spirituale dei cristiani unitamente a un’intensa attività censoria sulle innovazioni teologiche, un controllo delle idee che si focalizza sui processi di razionalizzazione dei dogmi e dei sacramenti 4. In secondo Le Conte, Paris 1708, che comprende il testo della Summa sententiarum col titolo di Tractatus theologicus, opera peraltro inserita, questa volta in una versione più completa, seppure anch’essa tronca (il Tractatus theologicus è costituito dei primi tre dei sette trattati, e parte del quarto, in cui essa è articolata), e col titolo con cui oggi la conosciamo di Summa sententiarum septem tractatibus distincta (d’ora in poi: Summa sententiarum), tra le opere di Ugo di S. Vittore, PL 176, 41B-174A; ho fatto cenno al problema dell’attribuzione della Summa in C. Martello, La dottrina dei teologi. Ragione e dialettica nei secoli xi-xii, Catania 20082, pp. 118120, e in Id., Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia. Percorsi intellettuali nel xii secolo tra teologia e cosmologia, Roma 2008, pp. 169-177. 3 L’autore della Summa cita il credimus ut cognoscamus agostiniano con la chiara finalità di riprendere anche il credo ut intelligam di Anselmo. Cfr. Summa sententiarum, 44C; [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 1070A: «Credimus ut cognoscamus; non cognoscimus, ut credamus. Q uid est enim fides, nisi credere quod non vides? Fides ergo est quod non vides credere; veritas quod credidisti videre». Cfr. Augustinus Hipponensis, In Iohannis evangelium tractatus CXXIV, 40, 9, PL 35, [1375-1976], 1690, ed. R. Willems, Turnhout 1954 (CCSL 36), p. 355, 5-6; Proslogion, 1, 227BC, p. 100, 18-19. 4 Su Bernardo di Clairvaux e il suo ruolo culturale cfr. Saint Bernard of Clairvaux. Studies commemorating the eighth centenary of his canonization, ed. M. B. Pennington, Kalamazoo (Mich.) 1977; R. Klibansky, Peter Abailard and Bernard of Clairvaux. A Letter by Abailard, in «Medieval and Renaissance Studies», 5 (1961), pp. 1-27; A. V. Murray, Abelard and St. Bernard. A Study in 12th century ‘Modernism’, Manchester – New York 1967; J. Verger – J. Jolivet, Bernard–Abelard ou le clôitre et l’école, Paris 1982 (tr. it., Milano 1989); su Guglielmo di St. Thierry cfr. M. M. Davy, Guillaume de Saint-Thierry. Deux traités sur
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luogo Anselmo di Laon, che, mediante l’attività della sua scuola e le sue raccolte di Sententiae, introduce negli ambienti culturali il metodo teologico costituito dalla selezione e dalla suddivisione per aree tematiche – Dio, creazione, Trinità, ecc. – di testi autorevoli su cui basare la pensabilità e l’esprimibilità della natura e delle operazioni divine; metodo peraltro non solo influente sulle generazioni immediatamente a lui successive ma anche tale da diventare, attraverso i contributi forniti alla sua maturazione da Abelardo e Pietro Lombardo, modello di procedura teorica per i commentatori scolastici del xiii secolo 5. In terzo luogo proprio Pietro Abelardo, che, in conflitto sia, da ex allievo, con la scuola del maestro di Laon, sia con le guide, la spirituale e la teorica, dei Cisterciensi, si orienta con coraggio e ostinazione sulla via della razionalizzazione dei contenuti della fede, individuando nelle discipline logico–linguistiche gli strumenti privilegiati, ancorché impropri, per ‘penetrare’, nella misura del possibile, la natura del creatore di tutte le cose, uno e trino, libero e necessario, per realizzare integralmente il destino dell’uomo, creato superiore a tutti gli altri animali e ‘a immagine e somiglianza’ di Dio proprio in quanto capace di astrarre, dedurre e intuire, cioè in quanto dotato della funzione razionale e dell’intellettuale 6. Infine Ugo la foi: le miroir de la foi, l’énigme de la foi, Paris 1959; M. Lemoine, Introduction, in Guillelmus de Sancto Theodorico, De natura corporis et animae, Paris 1988, pp. 3-56. 5 Su Anselmo di Laon e la sua scuola cfr. F. P. Bliemetzrieder, Einleitung, in Anselmus Laudunensis, Systematische Sentenzen, I. Teil: Texte, hrsg. von F. P. Bliemetzrieder, Münster i. W., 1919, pp. 1-37. 6 Oltre ai miei studi già citati (Martello, La dottrina dei teologi cit., pp. 177-222, e Id., Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia cit., pp. 21-165), cfr. D. E. Luscombe, Nature in the Thought of Peter Abelard, in La filosofia della natura nel medioevo, Atti del III Congresso Internazionale di Filosofia Medioevale (Passo della Mendola, 31 agosto – 5 settembre 1964), Milano 1966, pp. 314-319; Murray, Abelard and St. Bernard cit.; E. Luscombe, The School of Peter Abelard. The Influence of Abelard’s Thought in the Early Scholastic Period, Cambridge 1969; M. M. McLaughlin, Abelard’s Conception of the Liberal Arts and Philosophy, in Arts libéraux et philosophie au Moyen Âge, Actes du IVe Congrès International de Philosophie Médiévale, Paris 1969, pp. 523550; L. Grane, Peter Abelard. Philosophy and Christianity in the Middle Ages, London 1970; Peter Abelard, Proceedings of the International Conference (Leuven, may 10-12, 1971), ed. E. M. Buytaert, Leuven 1974; Pierre Abélard. Pierre le Vénérable. Les courants philosophiques, littéraires et artistiques en Occident au milieu du xiie siècle, Actes du Colloque International du CNRS n° 546 (Abbaye de Cluny, 2-9 juillet 1972), éd. par R. Louis – J. Jolivet – J. Châtillon, Paris 1975;
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di S. Vittore, che considera la teologia ‘umana’ o ‘mondana’ la più ‘alta’ tra le scienze, e quindi assimilabile ai saperi razionali riguardo al metodo, distinguendola tuttavia dalla ‘divina’, che alla prima contrappone la rivelazione come contenuto esclusivo e l’umiltà come metodo 7. Sono soprattutto gli ultimi due, Abelardo e Ugo, a ‘segnare’ la loro epoca, per lo ‘spessore’ teorico della riflessione di cui si mostrano capaci e per l’innovatività della loro proposta culturale. Il primo, che prosegue nel ‘percorso’ avviato un paio di generazioni prima di lui da Berengario di Tours, completandolo, sulla scia di Anselmo d’Aosta, attraverso il superamento dell’esegesi come prospettiva esclusiva della teologia, pur subendo gli attacchi concentrici da parte degli ambienti culturali tradizionalisti per M. Dal Pra, Introduzione, in Pietro Abelardo, Conosci te stesso o Etica, Firenze 1976, pp. iii-lvii; E. Little, Relations between St. Bernard and Abelard Before 1139, in Saint Bernard of Clairvaux cit., pp. 155-168; A. Crocco, Abelardo. L’altro versante del Medioevo, Napoli 1979; Verger – Jolivet, Bernard–Abelard cit.; C. J. Mews, General Introduction, in Petrus Abaelardus, Opera theologica III: Theologia summi boni, Theologia scholarium, ed. E. M. Buytaert – C. J. Mews, Turnhout 1987 (CCCM, 13), pp. 15-37; D. F. Blackwell, Non–Ontological Constructs. The Effects of Abelard’s Logical and Ethical Theories on his Theology. A Study in Meaning and Verification, Bern 1988; M. T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Introduzione a Abelardo, Bari 1988; Ead., Introduzione, in Pietro Abelardo, Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, Milano 1992, pp. 5-27; S. P. Bonanni, Parlare della Trinità. Lettura della Theologia Scholarium di Abelardo, Roma 1996; J. Jolivet, Abelardo. Dialettica e mistero, Milano 1996; M. T. Clanchy, Abelard. A Medieval Life, Oxford 1997; J. Marenbon, The Philosophy of Peter Abelard, Cambridge 1997; Id., The Platonisms of Peter Abelard, in Neoplatonisme et philosophie médiévale, Actes du Colloque international (Corfou, 6-8 octobre 1995), éd. L. B. Benakis, Turnhout 1997, pp. 109-129; M. Parodi – M. Rossini, Introduzione, in Fra le due rupi. La logica della Trinità nella discussione tra Roscellino, Anselmo e Abelardo, Milano 2000, pp. 7-58; S. P. Bonanni, Introduzione, in Pietro Abelardo, Teologia ‘Degli scolastici’. Libro III, Roma 2004, pp. 1-26; Id., Postfazione, ibid., pp. 139188; The Cambridge Companion to Abelard, ed. J. E. Brown – K. Guilfoy, Cambridge 2004; Anselm and Abelard. Investigation and Juxtapositions, ed. G. E. M. Gasper – H. Kohlenberger, Toronto 2006 (Turnhout 20072). 7 Cfr. A. Mignon, Les Origines de la scholastique et Hugues de St. Victor, Paris 1895; R. Baron, Science et sagesse chez Hugues de Saint-Victor, Paris 1957; Id., Études sur Hugues de Saint-Victor, Bruges 1963; V. Liccaro, L’uomo e la natura nel pensiero di Ugo di S. Vittore, in La filosofia della natura nel Medioevo cit., pp. 305-313; D. Poirel, Ugo di S. Vittore. Storia, scienza, contemplazione, Milano 1997; Id., Livre de la nature et débat trinitaire au xiie siècle. Le De tribus diebus de Hugues de Saint-Victor, Turnhout 2002; Martello, La dottrina dei teologi cit., pp. 145-176; Id., Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia cit., pp. 177-190.
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il credito teologico che attribuisce alla sapienza antica e pagana, anzi anche in virtù di tali attacchi e contestualmente a essi orienta gli interessi e le opinioni di molti teologi, in un certo senso ‘detta’ buona parte dell’‘ordine del giorno’ del dibattito culturale; dal canto suo Ugo partecipa, dal ‘versante moderato’, allo ‘scontro teologico’ che oppone ad Abelardo i suoi maestri, da Anselmo di Laon a Roscellino di Compiègne a Guglielmo di Champeaux, e chi s’è assunto il compito di fissare una sorta di ortodossia e, alla luce di essa, di ‘arginare’ le devianze dottrinali e determinarne le chiamate in giudizio da parte delle comunità ecclesiastiche della Francia centro–settentrionale, e tuttavia si mostra coinvolto nei processi di crescita della dimensione filosofica del pensiero cristiano ‘messi in moto’, per così dire, dall’attitudine di Anselmo d’Aosta alla teoresi e partecipa alla conseguente affermazione di nuovi generi filosofici, quali il tractatus e la summa. Abelardo e il Vittorino possono essere considerati, e lo sono anche da parte dei contemporanei 8, gli esponenti più rappresentativi dei due atteggiamenti più diffusi, e tra essi divergenti, negli ambienti teologici gravitanti intorno a Parigi tra gli anni Venti e Q uaranta del xii secolo: da un lato l’impegno abelardiano ad accogliere la domanda di razionalità con cui ampi strati della società ‘borghese’ si ricollegano oggettivamente al ‘filone filosofico’ del cristianesimo; dall’altro lato la tradizionale ricerca della purezza spirituale come base imprescindibile della fede e della stessa sapienza cristiana. E tuttavia non mancano tra i due le affinità, rivelatrici della comune ascendenza anselmiana della loro riflessione, e quindi della comune esigenza di accostarsi ai contenuti della fede tramite un’attrezzatura concettuale atta alla loro piena, ancorché impropria o parziale, chiarificazione. Si può dire anzi che i due atteggiamenti culturali di cui sono considerati rappresentanti sono compresenti, seppure in modo diverso e corrispondente alla peculiare personalità di ciascuno, sia nel pensiero Sull’immagine di Ugo cfr. R. Baron, Étude sur l’authenticité de l’oeuvre de Hugues de Saint-Victor d’après les manuscrits, in «Scriptorium», 10 (1956), p. 220; D. E. Luscombe, The School of Peter Abelard cit., pp. 183-185; M. Dal Pra, Introduzione cit., pp. xxiv-xxxv; sull’influenza del pensiero abelardiano cfr. in particolare J.-P. Letort-Trégaro, Pierre Abélard, Paris 2002, pp. 126132; Y. Iwakuma, Influence, in The Cambridge Companion to Abelard cit., pp. 305-335. 8
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del Palatino sia in quello di Ugo; infatti entrambi distinguono il livello razionale della conoscenza del divino dal superiore e ultrarazionale, che nel Vittorino è costituito dall’approccio intellettuale alla verità, intuitivo e sorretto dalla Rivelazione, secondo l’analisi delle facoltà dell’anima e dei gradi della conoscenza che Agostino e Boezio mutuano dalla tradizione platonica e Anselmo d’Aosta ripropone all’attenzione dei contemporanei 9. In Abelardo l’intuizione intellettuale è un tutt’uno con i saperi razionali, probabilmente a partire da un’interpretazione razionalizzante dell’opera anselmiana, incentrata sul Monologion, anche se dall’una e dagli altri resta fuori il Vero in sé, che rimane longe remotus rispetto alle capacità epistemiche dell’uomo, create per comprendere e rappresentare le possibilità e le necessità della natura sensibile, di cui l’uomo stesso fa parte 10. Un interessante indizio del comune ruolo innovatore dei due filosofi nel dibattito teologico della prima metà del xii secolo nella Francia centro-settentrionale, al di là della loro disponibilità a palesarlo e della stessa consapevolezza che ne hanno, è costituito dall’uso dei termini philosophia e theologia dopo un paio di secoli di discredito per la chiara riconducibilità di essi alla lingua greca e alla sapienza pagana, in un significato sostanzialmente univoco, seppure con accenti e sfumature diversificate tra i due. Infatti, anche in questo caso sulla scia di Agostino e Boezio, philosophia esprime il sapere razionale e theologia significa ‘scienza filosofica di Dio’, che per Abelardo ha il suo ‘fulcro’ nell’applicazione della dialettica ai dati della rivelazione e trova la sua ‘spinta propulsiva’ nella deducibilità dei capisaldi della dottrina cristiana sola ratione, per utilizzare la fortunata espressione di Anselmo d’Aosta, quindi a prescindere dalla Rivelazione, a partire dall’intuizione del principio dell’essere 11, mentre per Ugo è la più ‘alta’ tra le scienze teoretiche, che ha il compito di inquadrare la rivelazione in un paradigma razionale e sistematico, secondo l’agostiniano credi9 Cfr. D. Poirel, Ugo di S. Vittore cit., pp. 11-12; Id., Livre de la nature cit., pp. 5-9. 10 Cfr. Petrus Abaelardus, Theologia christiana, 3, PL 178, [11131330], 1241BD, ed. E. M. Buytaert, Turnhout 1969 (CCCM, 12), 116, pp. 236, 1346 - 237, 1371; Id., Theologia ‘Summi Boni’, 2, 64, ed. Buytaert – Mews cit., p. 135, 546-571. 11 Cfr. Martello, La dottrina dei teologi cit., pp. 177-198.
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mus ut cognoscamus e l’analogo credo ut intelligam anselmiano 12. Non meno interessante è la convergenza su quelli che da lì a poco diventano, e oggi riteniamo, i temi classici, e classicamente anselmiani, della teologia razionale: la Trinità e l’onnipotenza. Dio, in quanto eterno e immutabile, è uno; ma in quanto potenza generatrice, sapienza onnicomprensiva generata dalla potenza e amore paterno per la sua sapienza, è nel contempo trino. Entrambi i filosofi ricorrono alla ‘triade’ potentia – sapientia – amor (o bonitas) per esprimere la trinità, e questo, a prescindere dal problema storiografico di chi ha preceduto l’altro 13, è segno di oggettiva sintonia, se non di affinità, tra i due, tenuto anche conto che Ugo si uniforma a tale uso linguistico, ricavandolo dalla Theologia summi boni o reiterandolo dopo la diffusione di tale prima ‘edizione’, per così dire, del Tractatus theologiae del Palatino, nel caso ne sia stato il promotore, nonostante il discredito di quest’ultimo presso gli ambienti ecclesiastici più influenti. Certo Abelardo inquadra la sua riflessione sulla trinità nel contesto del suo ‘uso teologico’ delle arti, in particolare di quelle logico–linguistiche, mentre l’autore del De sacramentis christianae fidei, pur non essendo ostile né estraneo al paradigma 12 Cfr. D. Poirel, Ugo di S. Vittore cit., pp. 47-59, 75-101; della presa di coscienza di una parte consistente della generazione di uomini di cultura attivi nella prima metà del secolo xii, presa di coscienza che può fare legittimamente parlare di ‘riscoperta’ della filosofia come sapere razionale, mi sono occupato in C. Martello, Il risveglio di Mnêmosunê. La filosofia e la sua divisione nel xii secolo, in Neoplatonismo pagano vs. neoplatonismo cristiano. Identità e intersezioni, Atti del Seminario (Catania, 24-28 settembre 2004), a c. di M. Di Pasquale Barbanti – C. Martello, Catania 2006, [pp. 131-170], pp. 131-141. 13 Cfr. Petrus Abaelardus, Theologia Summi boni, 1, 2, ed. Buytaert – Mews cit., p. 87, 21-24; Id., Theologia christiana, 1, PL 178, 1125CD, ed. Buytaert, 4, p. 73, 49-55; Id., Expositio in Hexameron, 259-262, PL 178, [729-784], 761AB, ed. M. Romig – D. Luscombe, Turnhout 2004 (CCCM, 15), pp. 60, 1548 - 61, 1567; Hugo de Sancto Victore, De tribus diebus, 6-15, 35-36, ed. D. Poirel, Turnhout 2002 (CCCM, 177), p. 34, 549-551, pp. 60-70, 1060-1250; Id., De sacramentis christianae fidei, 1, 2, 1, PL 176, [173618], 205B-216D; 3, 17, 223B-231C; cfr. E. M. Buytaert, Abelard’s Expositio in Hexaemeron, in «Antonianum», 43 (1968), pp. 163-194; P. L. Reynolds, The Essence, Power and Presence of God: Fragments of the History of an Idea, from Neopythagoreanism to Peter Abelard, in From Athens to Chartres. Neoplatonism and Medieval Thought, Studies in Honour of É. Jeauneau, ed. H. J. Westra, Leiden 1992, [pp. 351-380], pp. 367-368; Poirel, Ugo di S. Vittore cit., p. 84; Id., Livre de la nature cit., pp. 379-383; C. Martello, Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia cit., pp. 44-74 e 184-186.
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razionalizzante in funzione dell’approfondimento del dato rivelato, àncora più cautamente la sua giustificazione della Trinità al rapporto analogico intercorrente tra l’anima dell’uomo e Dio, secondo l’orientamento del De Trinitate agostiniano; ma in ogni caso l’uno e l’altro mostrano di non temere, anzi di perseguire, l’applicazione al mistero trinitario degli strumenti razionali, dialettici, grammaticali e retorici, ma anche ‘matematici’ e ricavati dall’osservazione sistematica della realtà naturale. Lo stesso atteggiamento essi manifestano a proposito dell’onnipotenza, in chiaro riferimento alla replica di Anselmo nel II libro del Cur Deus homo alla posizione ‘antidialettica’, per così dire, di Pier Damiani, obiezione basata sulla distinzione tra necessitas praecedens, riguardante la natura necessitante, e necessitas sequens, che concerne la natura necessitata, e sulla consapevolezza della non contraddittorietà di entrambe e di conseguenza sull’‘impossibilità’, in un certo senso, che Dio faccia ciò che non vuole. Anche in questo caso sono individuabili differenze di sensibilità e interpretazione tra Abelardo e Ugo, anche in virtù dell’esigenza di quest’ultimo di mantenere le distanze dalla sententia che il contesto culturale cui appartengono entrambi attribuisce ad Abelardo e secondo cui Dio può fare solo ciò che effettivamente fa, dato che in lui potenza e volontà si identificano, per cui si sente di ribadire con chiarezza che il creatore, in quanto principio di ogni necessità e impossibilità, è assolutamente libero nell’ambito di ciò che egli stesso fonda come possibile e non contraddittorio. Resta il fatto che nel V libro della Theologia christiana e nel III libro della Theologia scholarium di Abelardo e nelle Sententiae de divinitate, nel De sacramentis chhristianae fidei, nel commento al Magnificat e nel De potestate et voluptate di Ugo l’idea di onnipotenza è ricavata dalla rigorosa analisi delle relazioni logiche intercorrenti tra le persone trinitarie, e in particolare tra potentia e voluntas 14. Cfr. Petrus Abaelardus, Theologia scholarium, 3, PL 178, [9791114], 1093D-1094B, 1095C-1101D, ed. Buytaert – Mews cit., 27-29, pp. 511, 375 - 512, 399; 35–54, pp. 514, 472 - 524, 761; Id., Theologia christiana, 5, 1324AC, 1323D-1324B, ed. Buytaert cit., 29-30, pp. 358, 421 - 359, 426; 35, p. 363, 48-55; Hugo de Sancto Victore, Sententiae de divinitate, ed. A. M. Piazzoni, in A. M. Piazzoni, Ugo di S. Vittore auctor delle Sententiae de divinitate, in «Studi Medievali» 3a S., 23 (1982), pp. 861-956; Hugo de Sancto Victore, De sacramentis christianae fidei, 1, 2, 22, PL 176, 214B-215C; Id., Explanatio (explicatio) in Canticum beatae Mariae, PL 175, 424D-427C; 14
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Il rischio per entrambi i filosofi è quello di pregiudicare l’unità e la semplicità del principio divino, ma essi allontanano tale insidia ‘trasferendo’ alla ‘teologia divina’, nel caso del Vittorino, e al silenzio mistico, da parte del Palatino, il compito di unificare le proprietà e gli attributi dell’essere nell’intuizione di Dio. In questo senso la teologia razionale, lungi dall’essere il ‘terreno’ di una corruzione dell’unità e della semplicità divine, è da considerare strumento di omogeneizzazione delle molteplici percezioni e quindi di avanzamento lungo il percorso che conduce all’esperienza del divino. Alla luce di tutto ciò si coglie il motivo per cui l’opera teologica di Pietro Abelardo e gli scritti di Ugo di S. Vittore costituiscono un unico ‘materiale’ fonte di ispirazione per almeno un paio delle generazioni di uomini colti successive ai due filosofi. Infatti dei temi su cui essi incentrano la loro attenzione e dell’impostazione metodologica con cui li affrontano si trova traccia in testi di un certo rilievo riconducibili ad autori che operano tra gli anni Q uaranta e almeno il penultimo decennio del xii secolo, i quali in genere privilegiano il, o dichiarano la dipendenza dal, Vittorino ma non possono, e il più delle volte non vogliono, rinunciare all’influenza e alle suggestioni abelardiane; tra tali testi, la Summa sententiarum, attribuita a Ottone da Lucca in ragione dell’indicazione del nome dell’autore contenuta in ben nove manoscritti, tre dei quali aggiungono anche la precisazione riguardante la funzione episcopale e la provenienza dello stesso, a fronte dei sei che attribuiscono l’opera a un indeterminato magister Hugo, in cui tre di essi individuano Ugo di S. Vittore, peraltro senza alcun fondamento perché si tratta di un’attribuzione, per un certo tempo suffragata dall’edizione nella Patrologia di J. P. Migne tra le opere del Vittorino, che anticiperebbe troppo la sua stesura, mentre gli altri tre riconoscono Ugo di Mortagne, la cui paternità la sposterebbe troppo in avanti e farebbe di essa un’‘emanazione’ delle Sententiae di Pietro Lombardo, di cui invece è certamente fonte 15. L’ipotesi secondo cui la Summa sententiarum è da attribuire ad cfr. Poirel, Ugo di S. Vittore cit., pp. 83-86; Martello, Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia cit., pp. 74-112 e 186-189. 15 Cfr. F. Gastaldelli, Scritti di letteratura, filologia e teologia medievali, Spoleto 2000, pp. 165-174 e 337-347; Martello, Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia cit., pp. 169-177.
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Ottone da Lucca rimane quindi la più attendibile e induce a collocarla tra il 1138, anno in cui è certamente concluso il De sacramentis christianae fidei di Ugo di S. Vittore, sua fonte privilegiata, e il 1141, anno in cui si collocherebbe la redazione dell’Harmonia di Viviano di Premontré, che contiene otto passi identici ad altrettanti di essa e che quindi sembra subirne l’influenza 16.
2. Pensiero cristiano e filosofia L’autore della Summa chiarisce all’inizio dell’opera il suo punto di vista in ordine al metodo, definendo la fede come «certitudo absentium supra opinionem et infra scientia constituta» 17, quindi condizione e sottoinsieme della scienza, che non è solo la sapienza cristiana ma anche il sapere razionale. In quanto mediana e mediatrice tra l’opinione e la scienza, essa si configura come certezza soggettiva, che orienta e fornisce di senso la conoscenza razionale, che è certezza oggettiva, oltre che soggettiva. Ma anche i saperi mondani sono in grado di rinsaldare la fede; infatti, se è necessario e prioritario credere per conoscere, in quanto Dio non è esperibile attraverso la facoltà sensitiva e di conseguenza la sua idea non può raggiungere la chiarezza e la distinzione tramite le procedure razionali, l’oggetto della fede non è del tutto celato alle facoltà epistemiche e la conoscenza umana è in grado di supportare la rivelazione in alcuni importanti aspetti del pensiero cristiano, che può quindi legittimamente proporsi come ‘dottrina’, nel senso di scienza, teologica 18. Oltre all’esegesi, che nella prospettiva 16 Su questo particolare aspetto, oltre ai lavori citati nella precedente nota, cfr. D. van den Eynde, Précisions chronologiques sur quelques ouvrages théologiques du xiie siècle, in «Antonianum», 26 (1951), pp. 223-229; Id., Nouvelles precisions chronologiques sur quelques oeuvres theologiques du xiie siecle, in «Franciscan Studies», 13 (1953), pp. 83-86; Id., Essai chronologique sur l’oeuvre littéraire de Pierre Lombard, in Miscellanea Lombardiana, a cura del Pontificio Ateneo Salesiano di Torino, Novara 1957, pp. 53-55. 17 Summa sententiarum, 1, 1, 43B; cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 1, 1068B-1069A. Sul metodo teologico dell’autore della Summa sententiarum, cfr. Martello, La dottrina dei teologi cit., pp. 123-128; Id., Pietro Abelardo e la riscoperta della filosofia cit., pp. 190-201. 18 Cfr. Summa sententiarum, 1, 1, 43BC: «‘Est’ itaque ‘fides substantia rerum sperandarum’, quantum ad nos; ‘argumentum non apparentium’ (Heb. 11, 1), quantum ad alios. Sed hac diffinitione magis ostenditur effectus fidei quam quid ipsa sit; nec etiam omnes partes fidei comprehendit, cum speranda non prae-
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dell’autore della Summa rimane il ‘cardine’ della sapienza e che, attraverso il privilegiamento dei facta narrati dagli autori sacri come terreno di approfondimento del significato letterale e di scoperta di quelli spirituali, è in continuità con la tradizione culturale del cristianesimo ma nel contempo, nella misura in cui tali facta determinano la natura del mondo sensibile, si pone in linea con i processi di razionalizzazione che segnano la fioritura di esperienze intellettuali nella civiltà urbana francese del secolo xii, nell’opera attribuita a Ottone da Lucca sono curati i temi legati al dibattito teologico–razionale che ha impegnato le ultime generazioni: l’esistenza di Dio e la creazione, la Trinità e il governo del mondo, l’onnipotenza e i sacramenti. L’argomentazione che sorregge la certezza dell’esistenza di Dio collega il richiamo agostiniano all’interiorità e l’applicazione anselmiana della razionalità ai dogmi: la ragione, in quanto parte integrante dell’anima, prende atto della coscienza di quest’ultima della propria ‘parzialità’ e di conseguenza della propria dipendenza da un essere necessario, causa incausata di tutte le cose 19. Il legame con Agostino attraverso Anselmo si riscontra, unitamente all’influenza del dibattito teologico di cui Pietro Abelardo e Ugo di S. Vittore sono i principali protagonisti, anche nella trattazione del mistero trinitario, cui sono dedicati ben sei capitoli, dal VI all’XI, del primo dei sette trattati in cui è articolato il lungo frammento edito tra le opere del Vittorino col titolo di Summa sententiarum. L’impostazione anselmiana, secondo cui la razionalità ha la funzione di chiarire e svolgere ciò che è dato come oggetto di fede, si concretizza nella riproposizione del principale modello argomentativo del De Trinitate di Agostino, cioè della terita, sed futura tantum contineat: Q uare sic diffiniri potest. Fides est voluntaria certitudo absentium supra opinionem et infra scientiam constituta. Voluntaria; quia non cogitur, absentium, id est sensibus corporis non subjacentium; supra opinionem, quia plus est credere quam opinari; infra scientiam, quia minus est credere quam scire». Cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 1, 1068A-1069A. 19 Cfr. Summa sententiarum, 1, 3, 46A: «Humana ratione poterant scire Deum esse. Cum enim humana mens se non possit ignorare, scit se aliquando coepisse. Nec hoc ignorare potest, quoniam cum non fuit, sibi ut esset, substantiam dare non potuit. Ut ergo esset, ab alio facta est, quem idcirco non coepisse constat; quia, si ab alio coepisset, primus omnibus existendi auctor esse non posset». Cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 2, 1071C.
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‘coscienza’ che l’uomo ha della propria anima come mens, sapientia e amor e della conoscenza da lui acquisita della potenza, della bellezza e dell’utilità della natura sensibile come condizioni per ritrovare nell’una e nell’altra l’impronta di Dio e scoprirne l’essenza trinitaria 20; ma si concretizza anche nell’analisi del linguaggio teologico, attraverso cui Padre, Figlio e Spirito santo si rivelano identici secondo la sostanza ma distinti secondo la proprietà, cioè la relazione intercorrente tra essi, per cui è solo del Padre essere principio non generato, è solo del Figlio essere generato, è solo dello Spirito procedere da entrambi 21. Si tratta dell’esito di un ‘percorso’ attraverso cui gli ambienti teologici, non solo scolastici ma anche monastici, partecipano al soddisfacimento della domanda di razionalità che cresce tra gli uomini di cultura e nella società; in questo senso l’autore della Summa si mantiene qualche ‘passo’ indietro, per così dire, dall’Anselmo del Monologion, che fa a meno della, o mantiene implicito ogni riferimento alla, Rivelazione, citando, prima e a fondamento di ogni spiegazione, le fonti scritturali della fede nella Trinità, da Genesi 1, 26 all’incipit del Vangelo di Giovanni, ai Salmi 2 e 45 22, ma nel contempo si mostra 20 Cfr. Summa sententiarum, 1, 7-12, 53A-61C; [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 5-9, 1079A-1088A, e Augustinus Hipponensis, De Trinitate, 15, 22, 42, PL 42, [819-1098], 1089-1090, ed. W. J. Mountain – F. Glorie, Turnhout 1968 (CCSL, 50), pp. 519, 47 - 520, 27. Sul metodo del De Trinitae agostiniano cfr. B. Studer, Augustin et la foi de Nicée, in «Recherches Augustiniennes», 19 (1984), pp. 133-154; R. Williams, Sapientia and the Trinity: Reflections on De Trinitate, in Collectanea Augustiniana. Melanges T. J. Van Bavel, ed. B. Bruning, Leuven 1990, pp. 317-332; J. Cavadini, The Structure and Intention of Augustine’s De Trinitate, in «Augustinian Studies», 23 (1992), pp. 103-123 (e in Christianity in Relation to Jews, Greeks, and Romans. Recent Studies in Early Christianity, ed. E. Ferguson, New York – London 1999, pp. 231-252); M. R. Barnes, Re-reading Augustine’s Theology of the Trinity, in The Trinity. An Interdisciplinary Symposium on the Doctrine of the Trinity, ed. S. T. Davis – D. Kendall – G. O’Collins, Oxford 1999, pp. 145-176; L. Ayres, The Fundamental Grammar of Augustine’s Trinitarian Theology, in Augustine and his Critics. Essays in Honour of Gerald Bonner, ed. R. Dodaro – G. Lawless, New York 2000, pp. 51-76 (e in Id., Nicaea and its Legacy. An Approach to Fourth-Century Trinitarian Theology, Oxford 2004, pp. 364-383). 21 Cfr. Summa sententiarum, 1, 7, 52D-53A; cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 5, 1078D-1079A; Epistola de incarnatione Verbi, posterior recensio, 274C-275C, pp. 11, 20 - 12, 15. 22 Cfr. Summa sententiarum, 1, 6, 50D-51A: «His consideratis restat de iis videre quae pertinent ad dictinctionem personarum Trinitatis; et prius testimonia auctoritatis inducamus. In Genesi dicitur: ‘Faciamus hominem ad imaginern
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‘più avanti’, cioè più radicalmente coinvolto nei processi di razionalizzazione in atto, rispetto ai due interpreti dell’Aostano che con maggiore coerenza hanno sviluppato il suo metoodo teologico, Ugo di S. Vittore e Pietro Abelardo, identificando le personae trinitarie con le proprietates divine, esito da cui i due maestri si tengono a distanza, ben consapevoli, in questo caso entrambi sulla scia della tradizione, che affermare che in Dio le persone si distinguono tramite le proprietà non significa e non implica che esse non sono altro che le proprietà, e quindi in ultima analisi Dio stesso in virtù della sua semplicità, in quanto, ferma restando l’impenetrabilità del mistero, la ragione distingue, nella realtà del creatore come nella sostanza creata, l’essere e i modi dell’essere, cioè le sue proprietà. Inoltre per l’autore della Summa sententiarum si può avere piena e lucida consapevolezza del governo delle cose create da parte del loro creatore proprio a partire dall’‘inquadramento’ razionale della trinità: la potenza, la sapienza e la bontà diffuse nel mondo non solo sono ‘veicolo’ di riconoscimento della natura del suo principio ma anche manifestano l’impronta e l’ordine di Dio in ciò che da lui dipende e di lui partecipa 23. L’altro ‘versante’ della riflessione teologico–razionale dell’autore della Summa riguarda il ‘riverbero’ dei dibattiti e degli scontri teologici che si attuano nella seconda metà dell’xi secolo e che vedono protagonisti, tra gli altri, Pier Damiani, Berengario di Tours, Lanfranco di Pavia e Anselmo d’Aosta, cioè attiene al tema dell’onnipotenza e a quello della natura dei sacramenti. Anche in questo caso le fonti prossime sono da individuare nella Theologia di Abelardo e nel De sacramentis, ma anche nelle Sententiae de divinitate e nell’Explanatio in Canticum beatae Mariae, di Ugo di S. Vittore, che, come ho già ricordato, sviluppano e aggiornano le risultanti delle diverse tendenze culturali attive tra gli uomini di cultura delle due generazioni che li precedono; in tal et similitudinem nostram’ (Gen 1, 26). Per numerum pluralem, Trinitatem ostendit. Et Psalmista: ‘Dominus dixit ad me: Filius meus es tu’ (Ps 2, 7). Et Joannes: ‘In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum’ (Ioh. 1, 1)»; cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 4, 1076D. 23 Cfr. Summa sententiarum, 1, 10, 53A: «In creaturis hujus sanctae et individuae Trinitatis signa apparent. Signum potentiae est rerum immensitas; sapientiae pulchritudo; bonitatis utilitas. Et ita per haec quae foris sunt, invisibilia Dei cognoscuntur a creatura rationali»; cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 7, 1084B.
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senso l’opinione de omnipotentia espressa dall’autore dell’enigmatico testo di cui qui mi occupo non è una pura e semplice riproposizione delle soluzioni del Cur Deus homo e del De potestate et impotentia anselmiani alle ‘aporie’ poste da Pier Damiani nel De divina omnipotentia, ma con tutta evidenza assume il pensiero dell’Aostano come punto di partenza di una riflessione che tenga soprattutto conto del successivo dibattito, incentrato sul rapporto tra volontà e verità, cioè tra libertà e necessità, in Dio. Nella Summa sententiarum nessun autore è citato esplicitamente ma si può dire che l’opera di Ugo è la sua fonte privilegiata e l’influsso della teologia di Abelardo, cui pure il suo autore sembra affidarsi in quanto probabilmente è da lui assimilata al radicalismo dialettico, è rilevabile nell’integrazione della posizione anselmiana, consistente nell’identificazione di necessità e volontà divine, con gli esiti più aggiornati della ricerca filosofica, in particolare con l’analisi logico-linguistica e con l’interpretazione del Timeo platonico e delle altre ‘testimonianze’ profane disponibili. Il legame con Ugo appare chiaro nella ricerca di un’interpretazione dell’onnipotenza che si mantenga parimenti distante dall’assolutismo del tradizionalismo monastico, secondo cui Dio può fare tutto senza alcuna limitazione, e dal necessitarismo dei dialettici radicali, per i quali Dio può e vuole fare ciò che effettivamente fa, quindi un’interpretazione secondo cui Dio può fare tutto nell’ambito del possibile e del non contraddittorio, in quanto da lui stesso liberamente determinati come tali in modo immutabile. In altri termini, a giudizio dell’autore della Summa, Dio è nelle condizioni di fare molte più cose rispetto a quello che non vuole fare e di conseguenza non fa 24, non nel senso che sic et simpliciter e in assoluto può volere ciò che non vuole, manifestando quindi una natura mutevole e addirittura contraddittoria, ma in quanto la volontà di Dio può essere assunta secondo l’effetto, oltre che in sé. Infatti nel primo caso rappresenta la possibilità che un 24 Cfr. Summa sententiarum, 1, 14, 68C: «Omnipotens voluntas multa facere potest quae nec vult nec facit. Potuit enim efficere ut duodecim legiones angelorum pugnarent contra illos qui eum ceperunt. In Evangelio Mattheus: ‘An putas quia non possum rogare Patrem meum, et exhibebit mihi plus quam duodecim legiones angelorum?’ (Mt 26, 53)»; cfr. [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 11, 1094CD; Augustinus Hipponensis, Enchiridion de fide, spe et charitate liber unus, 24, 96, PL 40, [231-290], 276, ed. E. Evans, Turnhout 1969 (CCSL 46), pp. 99, 30 - 100, 42.
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evento contingente conforme a essa effettivamente si verifichi o meno, o si verifichi in modo diverso da come è voluto da Dio, per cui paradossalmente si può dire, solo relativamente a questa ‘prospettiva’, che egli può volere ciò che non vuole; nel secondo caso invece la volontà divina è considerata come principio incondizionato di ogni necessità e possibilità, e quindi identica alla potenza e all’essere stesso di Dio 25. Q uesta posizione intermedia tra innovazione razionalizzante e tradizionalismo riguarda anche la riflessione sulla natura dei sacramenti, che nella Summa sono intesi come ‘figure’ visibili della grazia, secondo la formulazione di Agostino nei Libri quaestionum in Heptateuchum 26 ripresa da Berengario nel Rescriptum contra Lanfrancum 27. A fronte di ciò i sacramenti, per l’autore della Summa, sono reali 28, cioè esprimono una presenza reale di Dio tra i fedeli che presenziano alla loro celebrazione. In questo senso l’opera partecipa al rigetto dell’‘ideologia’, per così dire, dei dialettici radicali del secolo precedente, ma anche al recupero della loro istanza metodologica di fondo, consistente nell’esigenza di ‘omogeneizzare’ le ragioni filosofiche e le motivazioni spirituali, in quanto basata sulla consapevolezza che la libertà incondizionata del creatore si integra con la determinatezza del necessitato. Insomma i sacramenti si discostano dalle consuete norme che regolano le necessità e le impossibilità della natura ma non ne compromettono l’uniformità, garantita dalla coerenza dell’ordine divino in quanto fondativo del principio di non contraddizione; ritenere che essi siano una deroga arbitraria all’organica processualità fenomenica è un ‘effetto’ fallace causato dalla 25 Cfr. Summa sententiarum, 1, 14, 68D–69A: «Item opponitur: Q uidquid potest Deus facere, potest velle; sed quiddam potest facere quod non vult; potest igitur velle quod non vult; et si potest velle quod non vult, mutabilis est voluntas ejus, nec est eterna; sed incipit aliquid velle quod prius non volebat»; e [Hildebertus Cenomanensis], Tractatus theologicus, 11, 1095A. 26 Cfr. Summa sententiarum, 4, 1, 117AB; e Augustinus Hipponensis, Q uaestionum in Heptateuchum libri VII, III (Q uaestiones in Leviticum), q. 84, 21, 15, PL 34, [547-824], 712-713, ed. I. Fraipont, Turnhout 1958 (CCSL, 33), pp. 227, 1880 - 228, 1919. 27 Cfr. Berengarius Turonensis, Rescriptum contra Lanfrannum, II, ed. R. B. C. Huygens, Turnhout 1988 (CCCM, 84), p. 146, 1642-1643. Cfr. C. Sheedy, The Eucharistic Controversy of the Eleventh Century against the Background of Pre-Scholastic Theology, New York 1980, p. 100. 28 Cfr. Summa sententiarum, 4, 117A-120A.
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limitatezza della conoscenza umana, che, come alla luce di una sorta di regula fidei, è chiamata a trovare le ragioni oggettive, non occasionali, dell’‘incontro’, nella sostanza del sacramento, della volontà del creatore e della natura creaturale, e quindi a riformulare il ‘quadro’ delle condizioni logico–ontologiche così dei saperi sacri come degli eventi ‘miracolosi’.
3. Lo sfondo culturale L’estrazione della Summa sententiarum è indubbiamente ‘scolastica’, non solo perché lo è quella del suo presunto autore, Ottone, vescovo di Lucca dal 1138 al 1146, appellato magister, come ho ricordato sopra, da alcuni manoscritti dell’opera, frutto probabilmente di un precedente insegnamento presso la scuola cattedrale della città toscana, ma anche in quanto la sua struttura e il genere cui inerisce e che promuove è espressione di una pratica scolastica. Infatti, di volta in volta, in primo luogo è posto il problema, il tema della quaestio, per così dire, intorno alla quale sviluppare una riflessione sulla base di una lectio comparata di testi sacri e autorevoli; dopo una prima spiegazione di questi ultimi, sono introdotte le interpretazioni contrarie, mediante forme o espressioni verbali come quaeritur, solet quaeri, opponitur; in ultimo è elaborata la soluzione definitiva del problema posto all’inizio, quasi sempre tramite il ricorso a ulteriori citazioni patristiche e a un approfondimento ermeneutico di esse. Si tratta di un’esposizione che evidentemente riproduce i tre momenti fondamentali del metodo scolastico, almeno così come esso è praticato dai maestri tra gli ultimi decenni dell’xi secolo e la prima metà del xii: enunciazione e spiegazione del tema e citazioni autorevoli; obiezioni e relative argomentazioni; risposte alle obiezioni e rigetto di esse. Tale struttura costituisce una ‘versione’ semplificata del più articolato schema della quaestio praticata nelle più tarde università, e tuttavia ne presenta già gli aspetti salienti, riconducibili all’impianto triadico della disputa. Peraltro la Summa sententiarum non è testimonianza isolata di questo livello di maturazione del metodo scolastico; prima di essa il già citato Rescriptum berengariano e le opere abelardiane risalenti al secondo decennio del xii secolo portano inequivocabilmente i segni del tentativo di trasporre le modalità delle lectiones condotte nelle scuole 386
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e basate sulla collazione dei testi e delle sententiae nella scrittura filosofica. A proposito di quest’ultimo, mi riferisco in particolare al Sic et non e soprattutto alla Theologia Summi boni, prima delle tre ‘edizioni’ del trattato sulla Trinità del Palatino e unica a essere completata e a presentare quindi una forma compiuta, in quanto le successive, la Theologia christiana e la Theologia scholarium, costantemente riviste, non hanno mai avuto una redazione definitiva. Non per nulla è stato rilevato che i tre libri della Summi boni riguardano rispettivamente le auctoritates e le testimonianze filosofiche a sostegno della dottrina trinitaria fissata dal concilio di Nicea del 325, le tesi contrarie formulate a confutazione di tale dottrina, unitamente a una riflessione sul metodo e a una delineazione ulteriore del tema, e la dimostrazione dell’inconsistenza logica, cioè dialettica e grammaticale, delle obiezioni 29. Anche alla luce di questi autorevoli antecedenti, la Summa sententiarum appare come una diretta filiazione della cultura e della teologia scolastiche; e tuttavia è innegabile il suo legame con la tradizione culturale monastica, per l’attenzione privilegiata che esprime nei confronti della sua spiritualità, culminante nella riflessione e nell’atteggiamento mistico di Ugo di S. Vittore, per la palese acquiescenza del suo autore alla politica culturale dei Cisterciensi e per lo sfondo tematico e problematico in cui si colloca e che rimanda al dibattito che nella seconda metà dell’xi secolo vede i monaci colti contrapposti ai dialettici radicali, ma anche e soprattutto interno alla stessa teologia monastica. Di tale sfondo è parte integrante, e direi preponderante, l’opera di Anselmo d’Aosta, per la ‘sintesi’ che esprime tra imprescindibilità del dato di fede e il suo approfondimento razionale, tra il senso di appartenenza alla tradizione spirituale cristiana e la partecipazione alla riscoperta e alla rivalutazione della filosofia come sapere vitale, non solo logico e fisico–metafisico ma anche teologico 30. 29 Cfr. M. Rossini, Introduzione, in Abelardo, Teologia del sommo bene, a c. di M. Rossini, Milano 2003, pp. 14-16. 30 Sul rapporto di Anselmo con la teologia monastica, cfr. J. Leclercq, Une doctrine de la vie monastique dans l’école du Bec, in Spicilegium Beccense, I, Congrès International du IXe Centenaire de l’arrivée d’Anselme au Bec (Abbaye Notre-Dame du Bec), Paris 1959, pp. 477-488; A. Cantin, Fede e dialettica nell’xi secolo, Milano 1996, pp. 36-43; R. Grégoire, Il problema trinitario nella teologia altomedievale occidentale, in Il Concilio di Bari del 1098, Atti del Congresso Storico Internazionale e Celebrazioni del IX Centenario del Concilio,
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Mi riferisco innanzitutto al Monologion, concepito dall’Aostano come un’indagine meramente razionale sull’esistenza e sulla natura di Dio, per cui la ratio è vista come una sorta di rivelazione ‘di terzo livello’, per così dire, che cioè si aggiunge alla Scrittura e all’agostiniano ‘libro della natura’ 31. Ora una consistente porzione della prima opera anselmiana, corrispondente a oltre un terzo del suo sviluppo complessivo, è incentrata sulla deduzione, a partire dalla determinazione di un quiddam optimum et maximum 32, della pluralità nell’unità di tale ‘ente’ sommo 33. Il suo linguaggio, consistente in un’unica parola, è identico alla sua essenza, in quanto egli non ha fatto nulla se non per sé e tutto ciò che ha fatto è stato fatto tramite la sua parola 34; è dunque una sola sostanza, e tuttavia in lui sono distinti, ed è necessario che lo siano, il sommo spirito e la sua parola, in modo che ciascuno singulatim è in sé somma verità e in relazione alla creatura natura creatrice; ma proprio per questo non costituiscono due verità e due creatori 35. Inoltre entrambi amano pari amore sé e l’altro, in quanto nella somma sostanza l’amare e l’essere amato sono identici, la sua potenza memore di sé, la sua sapienza per cui riconosce e conosce l’altro e l’amore di entrambi sono identici, tre in uno e sostanza unica e semplice 36. Infine, in quanto la parola deriva dalla potenza dello spirito, quest’ultimo è Padre mentre il Verbo è Figlio 37 e l’amore che procede da entrambi può essere detto spiritus utriusque 38. Dal punto di vista di chi voglia approfondire i legami oggettivi e soggettivi tra gli epigoni del dibattito teologico della prima a c. di S. Palese – G. Locatelli, Bari 1999, pp. 169-186; A. Milano, Anselmo d’Aosta e il problema trinitario, ibid., pp. 187-229. 31 Cfr. la metafora del ‘libro della natura’ in Augustinus Hipponensis, Contra Faustum, XXXII, 20, PL 42, [207-518], 509; ed. J. Zicha, Praha – Wien – Leipzig 1891 (CSEL 25), pp. 781, 22 - 782, 14; Id., Confessiones, XIII, 15, 16-18, PL 32, [657-868], 851-852, ed. L. Verheijen, Turnhout 1981 (CCSL 27), pp. 250, 4 - 252, 50. 32 Cfr. Monologion, 1, 144B-146B, pp. 13, 3 - 15, 12. 33 Cfr. ibid., 29-63, 182B-210A, pp. 47, 2 - 74, 27. 34 Cfr. ibid., 29-31, 182B-185C, pp. 47, 2 - 50, 13. 35 Cfr. ibid., 37-43, 190B-195C, pp. 55, 12 - 60, 11. 36 Cfr. ibid., 50-54, 200C-202C, pp. 65, 2 - 66, 29. 37 Cfr. ibid. 48, 199A-200A, pp. 63, 9 - 64, 13. 38 Cfr. ibid. 57, 204A-205A, pp. 68, 11 - 69, 13.
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metà del xii secolo nella Francia centro-settentrionale, tra i quali è da annoverare l’autore della Summa sententiarum, e la riflessione di Anselmo d’Aosta, vanno tenuti in considerazione anche il II libro del Cur Deus homo, ultima sua grande opera teologica, e l’incompiuto De potestate et impotentia, probabilmente ultimo suo scritto in assoluto, incentrato sul tema dell’onnipotenza alla luce dell’approfondimento delle ‘aporie’ riguardanti il rapporto tra libertà e necessità in Dio, in risposta alle posizioni ‘antidialettiche’, per così dire, di Pier Damiani. A questo proposito il nucleo del pensiero anselmiano consiste nella tesi secondo cui la natura di Dio, in quanto egli è fondatore delle necessità e della impossibilità creaturali e garante della loro non contraddittorietà, può essere indagata tramite le procedure di riconoscimento di tali necessità e impossibilità, pur non essendo a esse soggetto. Affermare che Dio fa qualcosa o non la fa per necessità è improprio ma non è corretto pensare che una cosa fatta da lui può non essere stata mai fatta, cioè che dopo che fa qualcosa può non essere sempre vero che l’ha fatta, non perché sia subordinato a una necessitas non faciendi o a una impossibilitas faciendi ma in quanto la volontà di Dio è verità immutabile 39. E nel fissare in tal modo le coordinate logico–ontologiche dell’idea di Dio come volontà necessitante, Anselmo pone le basi della riflessione che le due generazioni di teologi a lui successive elaborano sul rapporto tra libertà e necessità in Dio e, di conseguenza, sull’applicabilità della ragione dialettica alla scienza del divino. Ma è egli stesso che dà avvio a tali sviluppi della sua posizione riguardo all’onnipotenza nel postremo e incompleto De potestate, in cui in modo chiaro, seppure non ‘diretto’, afferma che il linguaggio che significa il potere e l’impotenza, la possibilità e l’impossibilità, la necessità e la libertà, non si riferisce a un’area semantica univoca, in quanto esprime debolezza, e quindi stato di subordinazione a una rete di condizioni oggettive del pensare e dell’essere e, in ultima analisi a una volontà altra, se ha la creatura come proprio referente; significa altresì una fortitudo insuperabilis, infinita e libera, potenza necessitante in quanto fondativa di ogni necessità e impossibilità, se si riferisce a Dio 40. In questo senso Anselmo Cfr. Cur Deus homo, II, 17, 421C-425C, pp. 122, 23 - 126, 19. Cfr. De potestate, pp. 24, 16 - 25, 6.
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qui mostra di voler estendere ai verbi facere e velle e ai sostantivi voluntas, causa, aliquid e potestas lo schema interpretativo applicato nel De grammatico ai ‘paronimi’, in base al quale la significazione di un termine può essere per se, cioè propria, o per aliud, manifestando in questo caso un uso improprio. In altri termini, allo stesso modo in cui con ‘bianco’ o ‘grammatico’ ci si può riferire propriamente a una qualità ovvero impropriamente a una sostanza, in modo da giustificare, in quest’ultimo caso, una funzione appellativa 41, il lessico della potestas come aptitudo ad faciendum è riferito in senso proprio, o ancora più precisamente più o meno proprio, alla realtà esperibile, all’artefice umano che agisce o alla cosa fatta, e solo del tutto impropriamente a Dio 42. Si può dire quindi che il filosofo nel De postestate ribadisce la parziale eterogeneità ontologica e la distanza infinita di Dio rispetto alla sua creatura, già evidenziate sin dai suoi primi scritti negli anni Settanta, per cui gli strumenti della scienza risultano inadeguati alla determinazione della natura dell’essere sommo, principio del reale; ma nel contempo sembra consapevole che tale inadeguatezza è parziale, e di conseguenza non delegittima un approccio teologico-razionale, cioè l’applicazione al divino degli strumenti logico-linguistici e inferenziali della dialettica, che anzi rimangono unica e insostituibile risorsa ermeneutica attraverso cui ‘penetrare’ razionalmente, e quindi scientificamente, la natura di Dio. Alla luce di tutto ciò appare evidente che la Summa sententiarum recepisce molteplici influssi, che in essa si integrano dando forma a una sintesi originale, offerta al dibattito teologico e agli ambienti culturali più ‘avanzati’; tra questi apporti non è marginale quello della teologia monastica, soprattutto attraverso l’influenza che il pensiero di Anselmo esercita sulla riscoperta della filosofia come sapere attuale da parte di maestri e monaci delle due 41 Cfr. De grammatico, 12, 270D-271A, p. 157, 1-8: «Grammaticus vero non significat hominem et grammaticam ut unum sed grammaticam per se et hominem per aliud significat. Et hoc nomen quamvis sit appellatiuum hominis, non tamen proprie dicitur eius significativum; et licet sit significativum grammaticae, non tamen est eius appellativum. Appellativum autem nomen cuiuslibet rei nunc dico, quo res ipsa usu loquendi appellatur. Nullo enim usu loquendi dicitur: grammatica est grammaticus, aut: grammaticus est grammatica; sed: homo est grammaticus, et grammaticus homo». 42 Cfr. De potestate, Appendix, pp. 44-45.
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INFLUENZE ANSELMIANE NEL SECOLO XII
generazioni a lui successive 43. In questo senso l’opera attribuita a Ottone da Lucca assume una funzione emblematica, in quanto è espressione e dà testimonianza del processo di convergenza e di ‘omogeneizzazione’, ancorché parziale, dei due fondamentali filoni di pensiero teologico, quello di matrice monastica e lo ‘scolastico’, tra la seconda metà dell’xi secolo e la prima del successivo, in virtù delle innovazioni teoriche e metodologiche promosse dalla riflessione anselmiana. Intendo sostenere che la Summa, nel proporre un’integrazione dell’analisi concettuale e della trattazione sistematica con la lectio sacra, così come dei temi che vanno configurandosi come classicamente teologico-razionali con il retaggio della letteratura spirituale e morale e della tradizione sacramentale, è caso esemplare della tendenza all’unificazione delle esperienze e dei metodi della teologia; processo cui dà avvio Anselmo d’Aosta, recependo da un lato il ‘desiderio di Dio’ 44 che permea diffusamente, seppure non esclusivamente, la cultura monastica, cui appartiene, ma anche accogliendo dall’altro lato l’istanza razionalizzante di maestri di dialettica 45. Certo nella cultura monastica di norma si integrano contemplazione, intesa come attenzione all’interiorità, e prassi, vissuta come propensione a ogni esperienza di comunità; e in ogni caso tale tradizione culturale si differenzia dalla ‘moderna’ teologia delle scuole, dove va definendosi il metodo della quaestio e della disputatio, per la centralità nell’ambito della prima della lectio sacra, su cui si incentrano le più diverse pratiche culturali, dalla meditatio all’oratio fino al trattato teologico. Ma, se l’esperienza spirituale è la ‘cifra’ peculiare della cultura della vita del monastero, il pensiero teologico la avvicina, e talvolta la accomuna, nella Francia della prima metà del xii secolo, alla teologia ‘scolastica’. Infatti nelle sue manifestazioni più ‘alte’ la spiritualità monastica è vera e propria teologia, non riducibile ad atteggiamento mistico Cfr. Martello, La dottrina dei teologi cit., pp. 111-253. La felice espressione in J. Leclercq, L’amour des lettres et le désir de Dieu. Initiation aux auteurs monastiques du Moyen-Age, Paris 1983; sulle scuole monastiche cfr. P. Riché, Écoles et enseignement dans le Haut Moyen Age. Les écoles et l’enseignement dans l’Occident chrétien de la fin du ve siecle au milieu du xie siecle, Paris 1979, pp. 137-161. 45 Sulle scuole urbane in Francia cfr. ibid., pp. 162-186; sul ruolo dei maestri di dialettica, cfr. Cantin, Fede e dialettica cit., pp. 31-43. 43 44
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o a pratiche culturali di altra natura, perfettamente in linea, pur nella condivisione delle istanze facenti capo al patrimonio sapienziale del cristianesimo, con le ‘prospettive’ teoriche e metodologiche, e perfino con le scelte lessicali, degli ‘scolastici’. Tutto questo evidentemente non deve indurci a pensare, nel segno di un malinteso e postumo ossequio alle esigenze concordistiche, se non unanimistiche, delle comunità ecclesiastiche, che non ci siano incomprensioni o contrasti tra posizioni e ‘filoni’ teorici diversi, in una fase matura del dibattito teologico in Francia che precede immediatamente la definizione di una ‘ortodossia’ del cristianesimo occidentale a partire dal IV concilio ecumenico lateranense del 1215. Piuttosto si rileva che il principale discrimine, che attraversa trasversalmente gli ambienti culturali, sia monastici sia ‘scolastici’, è tra innovazione e tradizionalismo: l’iniziativa dei novatores, da Abelardo agli Chartriani, dai maestri di dialettica a Ugo di S. Vittore, impone l’‘agenda teologica’, per così dire, e la direzione del movimento delle idee filosofiche; i tradizionalisti, dalla scuola di Laon ai monaci di Citeaux, oppongono a tale movimento una vigile e rigorosa resistenza, che sfocia non solo e non tanto nell’attività censoria, attuata in occasione dei sinodi convocati nel xii secolo dall’inizio degli anni Venti alla fine dei Q uaranta e praticata nei confronti di tutto ciò che a loro giudizio si mostri in contrasto con il patrimonio dogmatico fondato sulla Scrittura, sulla Patristica e sui quattro grandi concili fondativi della sapienza cristiana tra il secolo iv e il successivo o confligga oggettivamente col ruolo magisteriale della Chiesa, ma anche, e in modo più fecondo, nell’istanza di restaurazione dello spirito evangelico che caratterizza la seconda e ultima fase della riforma ecclesiastica. Dal nostro punto di vista quel che conta è la possibilità di evidenziare, alla luce di tale conflitto, il contributo della cultura monastica alla costituzione e allo sviluppo di una vera e propria scienza filosofica del divino, di cui è espressione e modello influente la Summa sententiarum attribuita a Ottone da Lucca, lo sfondo anselmiano di questa scienza e la successiva enucleazione di una teologia mondana e razionale in quanto fondata sull’applicazione della dialettica allo ‘svolgimento’ dei temi della fede.
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LOGICA ED ERMENEUTICA: LA PARAFRASI SILLOGISTICA COME STRUMENTO DI INTERPRETAZIONE DI TESTI FILOSOFICI NEL DODICESIMO SECOLO*
Il Medioevo era un’epoca legata alla tradizione. Il progresso era visto non tanto nell’invenzione di qualcosa di nuovo, quanto in una più profonda comprensione di una tradizione religiosa, filosofica e letteraria riconosciuta come vincolante. Per l’investigazione della storia intellettuale del Medioevo, la puntuale analisi dei processi di appropriazione e ricezione in essa implicati assume dunque un’eccezionale importanza. Una fonte irrinunciabile per tale analisi è rappresentata dai commenti di epoca medievale, poiché in essi il confronto con le auctoritates è evidentemente riscontrabile. Allo stesso tempo essi sono lo specchio delle condizioni intellettuali e istituzionali in cui si svolgeva questo dialogo con la tradizione 1. Q ui non conta soltanto quali fossero i testi solitamente scelti per essere interpretati e quali fossero i contenuti concreti della loro interpretazione, ma meritano di essere analizzate anche le tecniche * Ringrazio la dr.ssa Corinna Bottiglieri per la traduzione italiana. 1 Per un panorama recente degli studi sui commenti medievali cfr. Le commentaire entre tradition et innovation, Actes du colloque international de l’Institut des traditions textuelles, éd. M. O. Goulet-Cazé, Paris 2000, e N. M. Häring, Commentary and hermeneutics, in Renaissance and renewal in the twelfth Century, eds. R. L. Benson – G. Constable, Oxford 1982, pp. 173-200. In particolare sul commento ai testi filosofici cfr. Il commento filosofico nell’Occidente latino (secoli XIII-XV), Atti del Colloquio organizzato dalla SISMEL e dalla SISPM (Firenze – Pisa, 19-22 Ottobre 2000), a c. di G. Fioravanti – C. Leonardi – S. Perfetti, Turnhout 2002; È. Jeauneau, Gloses et commentaires de textes philosophiques (ixe-xiiie siècle), in Les genres littéraires dans les sources théologiques et philosophiques médiévales. Définition, critique et exploitation, Actes du Colloque international (Louvain-la-Neuve, 25-27 mai 1981), éd. par R. Bultot, Louvain-la-Neuve 1982, pp. 117-131. Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 393-421 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112927
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e le strategie ermeneutiche utilizzate. Q ueste ultime, infatti, non solo anticipavano in qualche modo i risultati del commento, dal momento che sottomettevano anticipatamente l’interpretazione ad un determinato paradigma, ma mostravano anche la comprensione di testo, teoria e realtà sottesa all’interpretazione stessa. Una di queste tecniche è il tentativo di trasformare in sillogismi le argomentazioni che necessitano spiegazione: nulla di inconsueto, in sostanza, poiché la logica non è mai unicamente uno strumento per formulare conclusioni corrette, ma essa serve ugualmente all’analisi, e talvolta anche alla confutazione di argomenti già proposti. La traduzione della prosa filosofica consueta in linguaggio logico formale è uno strumento di interpretazione noto dall’antichità fino alla filosofia moderna (soprattutto analitica). Tuttavia, per quanto scontato possa apparire questo procedimento, le sue concrete manifestazioni nella storia della filosofia necessitano di un’osservazione più approfondita. Per questo motivo, nelle pagine che seguono, vorrei presentare due fonti della prima metà del dodicesimo secolo (vale a dire dell’epoca in cui la logica cominciò a diventare la metodologia scientifica e filosofica preminente). Si tratta di due commenti anonimi alla Logica vetus, in cui la tecnica interpretativa sillogistico-parafrastica viene applicata con un rigore altrimenti sconosciuto, per quanto almeno l’ancora incompleta conoscenza delle fonti permetta di giudicare. Il primo proviene da Echternach, il secondo probabilmente dall’abbazia benedettina belga di Saint-Trond 2. L’indagine è divisa in tre sezioni: innanzitutto sarà necessario illustrare lo sfondo storico, per mezzo Sul commento di Echternach cfr. B. Hollick, Anonymi Epternacensis Glossae in logicam. Studie mit kritischer Edition der Texte (Rarissima Mediaevalia, 5), Münster 2015; sul commento alla logica antica nel Medioevo alto e centrale, cfr. J. Marenbon, Medieval Latin Commentaries and Glosses on Aristotelian logical texts, before c. 1150 A.D., in Id., Aristotelian logic, platonism, and the context of early medieval philosophy in the West, Aldershot 2000, II, originariamente in Glosses and Commentaries on aristotelian logical texts. The Syriac, Arabic and Medieval Latin traditions, ed. Ch. Burnett, London 1993, pp. 77-122; e Id., Glosses and commentaries on the «Categories» and «De interpretatione» before Abelard, in ibid., VIII (originariamente in Dialektik und Rhetorik im frühen und hohen Mittelalter. Rezeption, Überlieferung und gesellschaftliche Wirkung antiker Gelehrsamkeit vornehmlich im 9. und 12. Jahrhundert, Hrsg. v. J. Fried, Oldenburg 1997, pp. 21-49); S. Ebbesen, Medieval latin glosses and commentaries on aristotelian logical texts of the twelfth and thirteenth centuries, in Glosses and commentaries cit., pp. 129-177. 2
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LOGICA ED ERMENEUTICA
di alcune osservazioni sul ruolo della logica nell’ermeneutica antica e altomedievale; in secondo luogo, esaminerò gli stessi commentari, mettendo a fuoco gli aspetti logico-tecnici, nella fattispecie la sillogistica e la topica (si tratterà di mostrare quali strumenti avesse a disposizione la logica del tempo e fino a che punto fosse possibile, con il loro aiuto, ricostruire argomentazioni filosofiche complesse); infine, sulla scorta di queste fondamenta, vorrei tratteggiare quale trasformazione abbia compiuto la prassi interpretativa sotto l’impronta della logica rispetto all’età tardoantica e altomedievale, e in tal modo definire la collocazione di entrambi i commenti nel quadro dell’evoluzione intellettuale del secolo xii.
1. La parafrasi sillogistica nell’antichità e nell’alto Medioevo Non fu soltanto nel dodicesimo secolo che per la prima volta la logica fu messa al servizio dell’ermeneutica: già nell’antichità si era tentato di renderla proficua per l’interpretazione di testi per lo più filosofici 3. Non soltanto era impiegata la terminologia logica (e anche quella grammaticale e retorica) per spiegare argomentazioni complicate, ma anche alcune argomentazioni selezionate venivano tradotte in forma sillogistica per illustrarne la struttura, il che era ovvio per un’epoca in cui si propendeva comunque per il procedimento parafrastico (come mostrano, ad esempio, le Categoriae decem) 4: ne è chiaro esempio il commento del neoplatonico Simplicio allo scritto aristotelico De caelo 5. L’esegesi patristica era orientata secondo questi modelli pagani, come è fortemente evidente nella Expositio Psalmorum di Cassiodoro, dove il richiamo alle artes – e tra queste anche la logica – è continuo 6. 3 Cfr. Simplicius, In Aristotelis De caelo commentaria, ed. J. L. Heiberg, Berlin 1894 (CAG, 7). 4 Cfr. S. Ebbesen, Greek and Latin Medieval Logic, in «Cahiers de l’Institut du Moyen-Age grec et latin», 66 (1996), pp. 67-95, qui p. 88. 5 Cfr. C. Dalimer, Les enjeux de la reformulation syllogistique chez les commentaires grecs du «De caelo» d’Aristote, in Le commentaire entre tradition et innovation cit., pp. 387-395. 6 Cfr. Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus, Expositio psalmorum, In psalmum XVII, 11, PL 70, [9-1056], 126D, ed. M. Adriaen, 2 voll., Turnhout 1958 (CCSL 97-98), I, p. 155: «Haec figura dicitur hyperthesis, i.e. superlatio»; ibid., In psalmum XXII, 6, 171B, I, p. 214: «Q uae figura dicitur epitrochamos, i.e. dicti rotatio». Q uesta integrazione delle artes va di pari passo con l’esigenza di un
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Tale adozione delle tecniche interpretative della filosofia da parte dei cristiani comportò uno slittamento non irrilevante: nei commenti al Corpus Aristotelicum l’obiettivo dell’analisi logica è evidente, ma bisogna supporre che lo Stagirita applicasse anche nei suoi scritti filosofici la dottrina metodologica che aveva elaborato nell’Organon. Tuttavia gli esegeti cristiani cominciarono a trattare i Salmi e gli altri libri biblici come testi filosofici razionalmente argomentanti: nel fare questo non avevano la sensazione di apportare alla Sacra Scrittura un qualcosa di estraneo, ma erano convinti di mettere in luce una logica in essa immanente, come Cassiodoro sottolinea espressamente nelle sue Institutiones 7. Egli non era il solo: già Girolamo si era espresso in tal senso 8. Forse, a incidere in modo più durevole sulla diffusione e l’attecchimento di queste posizioni fu Agostino: nel De doctrina christiana, il vescovo di Ippona elaborò un programma educativo di orientamento esegetico, in cui sottolineava l’importanza delle scienze profane per lo studio della Sacra Scrittura 9. Alla logica veniva indirizzamento religioso dell’istruzione secolare: cfr. ibid., In psalmum LXXXVIII, Conclusio, 650AB, II, p. 829: «Hanc auctores saecularium litterarum diligentius perscrutantes in multis partibus diviserunt, id est in pari et impari, in perfecto et imperfecto, in superfluo et imminuto, et ceteras quae in ipsis auctoribus evidentissime continentur; quas studiosis legere et sana mente tractare nostri quoque permisere maiores. Deum tamen in omnibus rogemus ut sensus nostros aperiat et ad veram sapientiam sua nos illuminatione perducat. Q uidquid enim legeris, quidquid excogitaveris, ita dulcescere poterit tibi, si sapore superni muneris condiaris». È proprio questo intento religioso che sta anche alla base della parte delle sue Institutiones divinarum et saecularium litterarum, PL 70, 1105-1220, ed. R. A. B. Mynors, Oxford 1937 (19612), dedicata agli studi profani. 7 Cfr. ibid., I, 6, 2, 1118A, pp. 25, 24 - 26, 5: «Q uanta enim liber ille ‹Iob› continet suavia sacramenta verborum, sicut beatus Hieronymus dicit in epistula quam dirigit ad Paulinum: ‘Prosa incipit, versu labitur, pedestri sermone finitur, omniaque legis dialecticae propositione, assumptione, confirmatione, conclusione determinat’. Q uod si ita est, – nec aliter esse potest quam quod tanti viri celebrat auctoritas, – ubi sunt qui dicunt artem dialecticam ab Scripturis sanctissimis non coepisse?». 8 Cfr. Eusebius Sophronius Hieronymus, In Epistolam ad Galatas, PL 26, [331-468], 371C: «Sed quamvis sind hebetes, dicere non audebunt Christum sine causa mortuum. Ad particulam itaque sillogismi, quae hic proponitur, id est ‘si enim per legem iustitia, ergo Christus gratis mortuus est’ (Gal, 17, 21), debemus illud assumere quod consequenter infertur et negari non potest ‘Christus autem non gratis mortuus’ et concludere ‘non igitur per legem iustitia’». 9 Cfr. Aurelius Augustinus, De doctrina christiana, II, 18, 42 - 42, 63, PL 34, [15-122], 55-66, ed. J. Martin, Turnhout 1962 (CCSL, 32), [pp. 1-167], pp. 62-77, in cui egli spiega l’utilità delle singole discipline dell’antichità (storia,
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assegnata una posizione-chiave 10 e la sua utilità era illustrata sulla scorta di un’interpretazione esemplare delle parole di Paolo dalla Prima lettera ai Corinzi («Si autem resurrectio mortuorum non est, neque Christus resurrexit. Si autem Christus non resurrexit, inanis est ergo praedicatio nostra, inanis est et fides vestra»), di cui Agostino evidenziava la struttura condizionale alla base 11: in questo modo sottolineava il valore della logica in un’opera che come nessun’altra ha influenzato non solo l’esegesi, ma l’intero ideale pedagogico dei secoli successivi. Tuttavia, il margine d’azione di queste riflessioni nell’alto Medioevo rimase limitato, cosa dovuta anche al fatto che le fonti greche e arabe importanti per la parafrasi sillogistica furono tradotte in latino soltanto nel tredicesimo secolo 12. Benché Alcuino abbia inserito nuovamente lo studio della logica nel curriculum di studi carolingio, ciò influì ben poco sulle glosse ed i commenti dell’epoca 13; un’eccezione è Godescalco di Orbais († 869), che dialettica, retorica, matematica ed etica – egli dunque non segue lo schema delle septem artes liberales) per i cristiani, ma mette in guardia contro la superbia che a esse è associata. 10 Riguardo alla logica, egli scrive in ibid, II, 48, 58, 62, p. 72: «Sed disputationis disciplina ad omnia genera quaestionum, quae in litteris sanctis sint, penetranda et dissolvanda, plurimum valet; tantum tibi cavenda est libido rixandi et puerilis quaedam ostentatio decipiendi adversarium». Un possibile abuso non è quindi da imputare alla stessa logica, ma all’immaturità personale di colui che se ne serve. In tal senso si esprime anche Martianus Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii, IV, 423-424, ed. J. Willis, Leipzig 1983, p. 145, 26 - 147, 11, che rinuncia a una trattazione dei sofismi, ossia dell’uso fraudolento della logica. Il fatto che Marziano (presumibilmente pagano) assuma una posizione affine a quella agostiniana mostra che nella scepsi cristiana nei confronti dell’educazione antica continua a vivere un conflitto filosofico molto più antico, che si incontrava già nella critica di Platone alla sofistica. 11 1Cor 15, 13-14. L’interpretazione agostiniana si legge in Aurelius Augustinus, De doctrina christiana, II, 49, 58, 62, ed. Martin cit., pp. 72-73. 12 Il commentario al De caelo di Simplicio fu tradotto nel 1271 da Guglielmo di Moerbeke (cfr. Simplicius, Commentaire sur les catègories d’Aristote. Traduction de Guillaume de Moerbeke, ed. A. Pattin, Louvain – Paris 1971), mentre già tra il 1220 e il 1231 Michele Scoto tradusse in latino il commentario medio di Averroè allo stesso scritto aristotelico: cfr. Averrois Cordubensis, Commentum magnum super libro De celo et mundo Aristotelis, edd. F. J. Carmody – R. Arnzen, 2 voll., Leuven 2003 (Recherches de théologie et philosophie médiévales. Bibliotheca, 4.1.1-2). 13 Su Alcuino e la logica carolingia cfr. J. Marenbon, The Latin Tradition of Logic to 1100, in Handbook of the History of Logic, II: Mediaeval and Renaissance Logic, ed. by D. M. Gabbay – J. Woods, Amsterdam 2008, [pp. 1-63], pp. 22-25.
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non soltanto nella questione della predestinazione si dimostra fedele allievo di Agostino: sia nel De praedestinatione che nei Responsa de diversis egli fa riferimento alla sillogistica contenuta nella Bibbia. Tuttavia la dubbia reputazione – per esprimersi cautamente – di Godescalco impedì che egli potesse influenzare maggiormente l’esegesi carolingia ed ottoniana 14. Nella produzione dei commenti fino alla fine del primo millennio la logica non ha affatto un ruolo significativo: ciò vale tanto per l’esegesi quanto per l’interpretazione (per lo più in forma di glosse) di opere filosofiche, la quale, quando non si limitava a mettere insieme excerpta di Boezio, era orientata piuttosto verso la speculazione, sotto l’influsso di Eriugena 15. Lanfranco del Bec fu il primo a rendere la logica nuovamente proficua per l’ermeneutica in maniera significativa; il contesto era favorevole: Lanfranco sperimentò l’inizio di una nuova fioritura della logica, in cui egli stesso ebbe una parte non marginale. Il fatto che abbia avuto una formazione di giurista e non di monaco potrebbe aver giovato alla sua apertura nei confronti delle artes liberales 16. Nel suo commento alle lettere paoline 17 la logica viene impiegata insieme alle altre discipline del Cfr. Godescalcus Orbacensis, De praedestinatione, ed. D. C. Lambot, in Oeuvres théologiques et grammaticales de Godescalc d’Orbais, éd. D. C. Lambot, Louvain 1945, [pp. 180-258], p. 206 e Id., Responsa ad diversis, in ibid., [pp. 130179], pp. 155-157. 15 Cfr. Marenbon, The Latin tradition of logic cit., p. 37. 16 Cfr. G. d’Onofrio, Lanfranco teologo e la storia della filosofia, in Lanfranco di Pavia e l’Europa del secolo xi, nel IX centenario della morte (1089-1989), Atti del convegno internazionale di studi (Pavia, Almo Collegio Borromeo, 21-24 Settembre 1989), Roma 1993, [pp. 189-228], p. 214. L’opinione che talvolta si legge, secondo la quale Lanfranco sarebbe diventato antidialettico dopo il suo ingresso in monastero (così in K. Flasch, Das philosophische Denken im Mittelalter. Von Augustin bis Machiavelli, Stuttgart 20002, p. 202) non è difendibile (il che vale del resto in generale per la contrapposizione di dialettici e antidialettici): tanto il suo insegnamento al Bec, quanto le sue opere ne sono la prova. Q uesta errata percezione è dovuta in non esigua misura alla polemica di Lanfranco contro Berengario; tuttavia non bisogna dimenticare che oggetto del loro conflitto erano enunciati teologici e non il metodo usato per la loro giustificazione. Cfr. M. Gibson, Lanfranc of Bec, Oxford 1978, pp. 63-67. 17 Cfr. Lanfrancus Cantuariensis archiepiscopus, Commentarius in Epistolas Pauli, PL 150, 101-406. Sul commentario a Paolo di Lanfranco cfr. inoltre I. Biffi, Lanfranco esegeta di san Paolo, in Lanfranco di Pavia cit., pp. 167-187; M. Gibson, Lanfranc’s «Commentary on the Pauline epistles», in «Journal of theological studies», N.S., 32.1 (1971), pp. 86-112; Ead., Lanfranc’s Notes on Patristic Texts, ibid., N.S., 32.2 (1971), pp. 435-450, e anche Ead., Lanfranc of Bec cit., pp. 50-61. 14
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trivio per spiegare il pensiero dell’Apostolo: in alcuni casi Lanfranco cerca di tradurlo in forma sillogistica 18. Il pericolo che in questo modo articoli di fede possano essere messi in discussione è certo presente a Lanfranco, tuttavia egli vede questo pericolo non nella logica in sé, ma nel suo uso errato 19. Lanfranco è tuttavia ancora molto lontano da un’analisi logica sistematica, sia perché è ancora troppo ancorato ad un sistema di pensiero di tipo benedettino-prescolastico, sia perché le lettere paoline venivano meno incontro a questo tipo di metodo rispetto all’Isagoge e alle Categorie. Tuttavia nella sua opera si esprime una nuova coscienza per il potenziale ermeneutico della logica, cui le generazioni posteriori sapranno attingere pienamente. L’influsso di Lanfranco non rimase confinato all’esegesi biblica, ma si rese percepibile anche nell’interpretazione di testi 18 Ad esempio 1Cor 3, 17 («Templum dei sanctum est, quod estis vos») viene spiegato con un sillogismo: «Item omne sanctum est templum Dei. Sed vos estis sanctum. Ergo Dei templum»: Lanfrancus Cantuariensis archiepiscopus, Commentarius in Epistolas Pauli, 166A. Inoltre egli ricorre di continuo a topoi per descrivere argomentazioni, ad esempio a simili (cfr. ibid., 197A); a relatione e a pari (cfr. ibid., 273C). 19 Un ottimo esempio di ciò viene fornito dalla sua interpretazione di 1Cor 1, 17 («Non enim misit me Christus baptizare sed evangelizare, non in sapientia verbi, ut non evacuetur crux Christi»), in cui egli annota quanto segue: cfr. Lanfrancus Cantuariensis archiepiscopus, ibid., 157B: «Sapientiam, ubi dialecticam dicit, per quam crux (id est mors) Christi eam simpliciter intellegentibus evacuari videtur, quia: Deus immortalis; Christus autem Deus; Christus igitur immortalis; si autem immortalis, mori non potuit». Tuttavia egli mette subito in chiaro che qui la logica è stata usata erroneamente (ibid., 157BC): «Perspicaciter tamen intuentibus dialectica sacramenta Dei non impugnat, sed cum res exigit, si rectissime teneatur, astruit et confirmat». Cfr. Gibson, Lanfranc’s Commentary cit., pp. 103-104. Giacché essa non è qualcosa che venga applicato al testo dall’esterno. Come i Padri della Chiesa, Lanfranco attribuisce anche a Paolo il ricorso alla logica e alla retorica (cfr. Lanfrancus Cantuariensis archiepiscopus, ibid., 163B): «In doctis humanae scientiae verbis se loqui abnegat. Et tamen in Scripturis eius tanta locorum disputationum subtilitas, tanta et tam subtilis benevolentiae captatio, cum res exigit, invenitur, ut tanta vel ea maior in nullo scripturarum genere reperiatur. Unde procul dubio credendum est non eum regulas artium saecularium in scribendo vel loquendo cogitasse. Sed per doctrinam sancti Spiritus, a quo et per quem est omnis utilis peritia, talia et taliter dixisse, quae per singula exponerem, nisi imperitorum talium doctrinarum murmur timeretur». Soltanto l’uso sbagliato delle artes viene criticato da Paolo secondo Lanfranco (cfr. ibid., 323B): «Non artem disputandi vituperat, sed perversum disputantium usum». Nel momento in cui il dialettico si serve dei suoi strumenti solo per capire la logica già di per sé presente nel testo biblico non vi sono più pericoli per la retta fede, al contrario si trovano strumenti effettivi per combattere l’eresia. Cfr. d’Onofrio, Lanfranco teologo cit., p. 202.
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profani. Q ui la logica ritrovava il suo cammino nel genere letterario nel quale in origine era stata messa al servizio dell’ermeneutica: i commenti agli scritti filosofici. Testimonianza di questo sono le due opere al centro del presente lavoro, cosa che diventa ancor più significativa per il fatto che in una di esse Lanfranco viene menzionato come fonte 20.
2. I commenti di Echternach e Saint-Trond Nei due commenti anonimi alla Logica vetus, che presumibilmente risalgono agli anni 1100-1150, la logica, cui Lanfranco e i suoi modelli antichi ricorrono soltanto occasionalmente, trova un impiego addirittura eccessivo. Con il suo aiuto i testi oggetto di interpretazione vengono sistematicamente spiegati e riformulati in forma di sillogismi. In entrambi i casi si tratta di commenti, che sono trasmessi separatamente dai testi da interpretare, cui si rinvia mediante l’indicazione di lemmi. Il primo dei due testi è la raccolta di glosse contenuta nel ms. Luxembourg, Bibliothèque nationale de Luxembourg 9, che in origine apparteneva al patrimonio di Echternach 21. Si tratta di un codice di piccolo formato (12,5 × 9 cm), di pergamena di bassa qualità, che consiste di 113 fogli, scritti in una minuscola carolina rozza con una quantità di abbreviazioni insolitamente massiccia 22: in esso sono commentati alcuni estratti delle Institutiones grammaticae di Prisciano, 20 Cfr. ms. Luxembourg, Bibliothèque nationale de Luxembourg (d’ora in poi: BNL) 9, ff. 6r, 6v, 13r. 21 Q uesto commento per lungo tempo ignorato è stato riportato alla luce nel suo valore da Michele C. Ferrari e presentato al pubblico scientifico nel saggio M. C. Ferrari, Schulfragmente. Text und Glosse in Echternach, in Die Abtei Echternach 698-1998, hrsg. von M. C. Ferrari – J. Schroeder – H. Trauffler, Luxembourg 1999, pp. 123-164. Descrizioni del manoscritto si leggono in N. Van Werveke, Catalogue descriptif des manuscrits de Bibliothèque de Luxembourg, Luxemburg 1894, p. 15, e in Die Echternacher Handschriften bis zum Jahr 1628 in den Beständen der Bibliothèque nationale de Luxembourg sowie des «Archives diocésaines de Luxembourg», der «Archives nationale», der «Section historique de l’Institut grand-ducal» und des «Grand Séminaire de Luxemburg», 2: Beschreibung und Register, hrsg. von Th. Falmagne – L. Deitz, Wiesbaden 2009, pp. 56-58. 22 Q ui non si tratta soltanto delle abbreviazioni usuali. Laddove il testo è facile da completare, o perché corrisponde al modello, o perché determinati concetti o formulazioni vengono ripetute, l’Anonimo scrive soltanto le lettere iniziali, il che rende la lettura faticosa. L’Anonimo non sembra essersi dato molti pensieri per altri lettori.
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l’Isagoge di Porfirio e il trattato aristotelico sulle Categorie 23. Le glosse cominciano senza introduzione all’inizio del prologo delle Institutiones e finiscono ugualmente all’improvviso al capitolo 9 del trattato sulle Categorie; un ultimo lemma e diverso è ancora segnato, ma la relativa annotazione manca 24. Non si individua una ricerca di letterarietà: il ductus linguistico sovente ellittico fa pensare più a degli appunti che a una normale prosa latina. Si possono distinguere tre tipi di glosse: accanto alle parafrasi sillogistiche e alle occasionali annotazioni lessicali e sintattiche, vi sono spiegazioni filosofiche; queste ultime sono rare e, a causa della loro brevità, non sempre comprensibili. Q uesto è un peccato, poiché nei passaggi dove l’Anonimo disvela così tanto le sue opinioni da renderle comprensibili, egli mostra di essere ai vertici della sua epoca come rappresentante di teorie filosofiche approfondite. In alcuni passaggi sono inseriti dei brani in cui l’Anonimo di Echternach si affranca dal testo commentato, ad esempio in un breve excursus grammaticale nelle glosse a Prisciano o in una nota introduttiva alla sistematica delle scienze prima dell’interpretazione dell’Isagoge 25. Sia il linguaggio non raffinato, che le osservazioni paleografiche e codicologiche lasciano ipotizzare che si tratti di un vademecum personale, non indirizzato a un pubblico più vasto 26. Il secondo commento è tràdito nel manoscritto miscellaneo Cambridge, Fitzwilliam Museum, McClean 165, proveniente dal monastero benedettino belga di Saint-Trond 27. Nel codice 23 Può sembrare inusuale che un grammatico venga commentato insieme a due scritti (onto)logici; tuttavia, uno sguardo più attento ai passaggi selezionati delle Institutiones grammaticae e ai temi centrali, dal punto di vista del contenuto, delle glosse, rende evidenti i collegamenti; si tratta di questioni acustiche e fonetiche (soprattutto sulla vox), che spesso venivano discusse all’inizio dei manuali medievali di logica. 24 Cfr. Aristoteles, Categoriae (editio composita), ed. L. Minio Paluello, Bruges – Paris 1961 (Aristoteles Latinus I, 1-5), [pp. 47-79], p. 77, 4 (14b30). Aristotele e Porfirio erano letti ovviamente non nell’originale greco, ma nelle traduzioni di Boezio, edite da Lorenzo Minio Paluello nell’Aristoteles Latinus. Nel presente lavoro vengono citate in base a questa edizione, con indicazione di pagina e riga. 25 Cfr. ms. Luxembourg, BNL 9, ff. 18r - 19v; 21v. 26 Cfr. Ferrari, Schulfragmente cit., p. 139. 27 Cfr. M. R. James, A Descriptive Catalogue of the MacClean Collection of Manuscripts in the Fitzwilliam Museum, Cambridge 1912, pp. 316-319; Marenbon, Medieval Latin Commentaries cit., p. 103 (P6) e p. 111 (C6).
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di 139 fogli, di formato 22,5-23,8 × 15,5 cm, i fogli da 89r a 102r contengono l’interpretazione dell’Isagoge e i fogli da 102v a 116v quella del trattato sulle Categorie. Q uesto commento è elaborato in modo più approfondito rispetto alle glosse di Echternach, come appare già nell’aspetto esteriore. La scrittura è una minuscola carolina accurata, che si limita alle abbreviazioni consuete. Il linguaggio non ha certo pregio estetico, ma è pur sempre più scorrevole e curato che nel commento di Echternach. Gli estratti dedicati a Porfirio e Aristotele sono preceduti ogni volta da una rapida annotazione introduttiva; la sezione sull’Isagoge si chiude con una breve nota. L’interpretazione del trattato sulle Categorie si interrompe al lemma habitudines enim et dispositiones 28. L’orientamento delle glosse è uniforme, dato che esse si concentrano esclusivamente sulla parafrasi logica: il rovescio della medaglia della loro coerenza di elaborazione è tuttavia un impoverimento tematico, poiché le riflessioni linguistiche e ontologiche, che fanno del commento di Echternach una preziosa fonte per la filosofia del dodicesimo secolo, mancano nel manoscritto di Saint-Trond. Sulla scorta dei paralleli geografici, cronologici e metodologici tra i due commenti, si è orientati ad attribuirli alla stessa scuola, ma questo non è dimostrabile 29. Tra i due commenti non c’è nessuna somiglianza che non si possa spiegare mediante la stessa metodologia e anche se questa è evidente, di fronte ai modelli antichi e medievali del calibro di Agostino e di Lanfranco, non si può escludere che due commentatori, indipendentemente l’uno dall’altro, li abbiano utilizzati quale fondamento della loro interpretazione.
3. Sillogistica e topica Attraverso i loro tentativi di parafrasi spesso di breve respiro i due commenti offrono un repertorio dell’ars nobilissima all’inizio 28 Cfr. Aristoteles, Categoriae (translatio Boethii), ed. L. Minio-Paluello, Bruges – Paris 1961 (Aristoteles Latinus I, 1-5), [pp. 4-51], pp. 29, 23-25. (11a20). 29 L’autore del commento di Echternach cita più volte il nome del suo magister Thietboldus, in ogni caso non è chiaro di chi si tratti: nel ms. di Saint-Trond non ci sono informazioni di questo tipo.
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del dodicesimo secolo 30. Sillogistica e topica non vengono presentate nell’ambito controllato di un manuale, cioè articolate sistematicamente e con esempi ben ponderati. Vengono invece utilizzate per analizzare veri testi filosofici, la cui complessa struttura argomentativa rischia di sorpassare le possibilità della logica dell’epoca. Non voglio nascondermi dietro una neutralità di facciata: entrambi i commenti sono spesso testimonianze di un fallimento. Tuttavia questo non diminusice il loro valore storico: le argomentazioni non riuscite e i punti deboli contribuiscono alla comprensione della logica basso medievale in misura non minore rispetto alla sua riuscita applicazione. Una grossa difficoltà che s’incontra nell’analisi dei due commenti è rappresentata dal fatto che entrambi evitano completamente di descrivere il loro modo di procedere. Né giustificano l’uso della logica in generale, né si sforzano di spiegare alcuni processi problematici, come l’induzione. I presupposti teorici della loro tecnica di parafrasi rimangono dunque celati. Per comprendere il loro modo di procedere è dunque necessaria una precisa analisi dell’applicazione pratica di tali presupposti. 3.1. Parafrasi sillogistica. – Passiamo ad analizzare più da vicino i due commenti. Entrambi seguono un semplice schema di base: un’argomentazione viene trasformata in un sillogismo categorico oppure, più spesso, ipotetico, a cui viene anteposta una domanda introdotta da utrum, in cui viene presentata la tesi da dimostrare o da confutare 31. La figura dell’argomentazione che è alla base di una tale quaestio in miniatura viene descritta mediante un topos. Non sorprende che le glosse siano elaborate nei due commenti con un diverso grado di approfondimento: il manoscritto di Saint-Trond contiene quasi soltanto sillogismi completi; nelle glosse di Echternach mancano conclusioni spesso facili da completare, nei sillogismi ipotetici talvolta è scritta soltanto la premessa 30 Sulla logica intorno al 1100-1150 cfr. J. Marenbon, Logic at the Turn of the Twelfth Century, in Handbook of the History of Logic cit. (alla nota 13), pp. 65-81, e M. M. Tweedale, Logic (i): From the Late Eleventh Century to the Time of Abelard, in A History of Twelfth-Century Western Philosophy, ed. by P. Dronke, Cambridge 1988, pp. 196-226. 31 Tali domande o obiezioni anteposte sono tipiche per il milieu scolastico di quest’epoca: cfr. J. Marenbon, The philosophy of Peter Abelard, Cambridge 1997, p. 76.
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condizionale. Di tanto in tanto manca completamente la parafrasi e soltanto il topos è segnato. Un esempio tipico di un sillogismo ipotetico nel commento di Echternach è il seguente: «Vtrum accidentia participent ęqualiter. Si participant inęqualiter, non participant ęqualiter. Sed participant inęqualiter. A contrario argumentum» 32. L’Anonimo di Saint-Trond cerca spesso di accrescere la forza dimostrativa di tali conclusioni, dimostrando la seconda premessa, che di fatto contiene soltanto una conferma o negazione dell’antecedens della prima premessa (condizionale), attraverso il rinvio al testo: Vtrum autem dicitur dupliciter. A repugnanti sic probatur: Si species dicitur de forma uniuscuiusque et dicitur de ea quae sunt sub philosophico genere, tunc dicitur dupliciter. Sed dicitur de uniuscuiusque forma et dicitur de ea quae est sub eodem genere. Q uod sic dicitur: Species autem dicitur quidem et de forma, dicitur autem species quae est sub assignata genere. Ergo species dicitur dupliciter 33.
In entrambi i commenti si tratta quasi sempre di sillogismi ipotetici con una semplice premessa condizionale nella forma «se A, allora B» (la logica antica e medievale intendeva come ipotetici oltre a questi anche i sillogismi con una premessa congiuntiva o disgiuntiva). Le forme più complesse, che Boezio descrive nel De syllogismo hypothetico, si trovano solo raramente. Nel commento di Echternach si coglie un’evoluzione sorprendente: le premesse complesse si trovano concentrate nell’ultima parte del commento. A quanto pare l’autore sviluppò le sue abilità logiche durante la scrittura. Q uesta evidente preferenza dei sillogismi ipotetici, di cui lo stesso Aristotele non aveva grande considerazione rispetto a quelli categorici, è in parte dovuta a un condizionamento storico: si osserva sin dall’età carolingia 34. Soltanto la nuova uti32 Ms. Luxembourg, BNL 9, f. 76r. Riferito a Isagoge, 25, 16-18: «Et genere quidem quae participant aequliter participant, accidente vero non aequaliter». 33 Ms. Cambridge, Fitzwilliam Museum, McClean 165, f. 91v. 34 Eriugena formula ciò nelle sue Adnotationes in Martianum alla maniera seguente: «Omnis syllogismus aut condicionalis est aut predicativus, sed condicionales praeposuit quia maioris virtutis sunt. Praedicativos autem quamvis plures sint, quoniam minoris virtutis sunt, supposuit (…). Omnis praedicativus syllogismus, adiecta si, transfertur ad hypoteticum». Cfr. Iohannes Scottus Eriugena, Annotationes in Marcianum, ed. C. E. Lutz, Cambridge (Mass.) 1939, p. 81.
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lizzazione dell’intero Organon, che comincia a partire dal 1150 circa, mise fine a questa evoluzione. Tuttavia, anche motivazioni pragmatiche hanno avuto una certa importanza per i commentatori: le tre figure e i 19 modi del sillogismo categorico hanno regole ferree, cosa che rende più difficile parafrasare gli argomenti in questione nella loro forma. Invece, per costruire un sillogismo ipotetico basta formulare una frase condizionale a piacimento, i cui criteri di validità venivano continuamente dibattuti. Eppure nei commenti, anche se più rari, i sillogismi categorici si trovano abbastanza di frequente; inoltre, l’Anonymus Epternacensis distingue tra la forma boeziana e quella apuleiana 35. La preminenza dei sillogismi ipotetici venne talvolta sottolineata esplicitamente: «Potest concedi quia sillogismus est ypothetica propositio in hoc sensu, id est composita, sed non est hypothetica, i.e. condicionalis, quamvis Magister Guillelmus Capellensis constituens in syllogismo quendam sensum diceret syllogismum omnem esse raciocinativam propositionem» (Introductiones Montanae maiores, ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 15141, f. 51r, citato in S. Ebbesen, Porretaneans on Propositions, in Id., Topics in Latin Philosophy from the 12th14th Centuries, Farnham – Burlington 2009, [pp. 85-94], p. 86). Spesso questa preminenza si manifestava anche nell’estensione della sua presentazione nei coevi manuali di logica, ad esempio Gerlandus de Besançon (= ps. Garlandus Compotista), Dialectica, ed. L. M. de Rijk, Assen 1959: i sillogismi categorici sono descritti alle pp. 115-126 (liber V), quelli ipotetici alle pp. 127-190 (liber VI). 35 Le due varianti nacquero con la trasformazione della formulazione aristotelica col verbo «essere affermati» nella forma poi divenuta più comune con la copula «essere». Aristoteles, Analytica priora (translatio Boethii), ed. L. Minio-Paluello, Bruges – Paris 1962 (Aristoteles Latinus, III 1+2), p. 9, 18-21 (25b35), descrive il primo modo della prima figura (Barbara) alla maniera seguente: «Si enim A de omni B et B de omni C, necesse est A de omni C praedicari». Boezio cita come esempio: «Omne iustum bonum est, omnis virtus iustum est, omnis igitur virtus bonum est» (Anicius Manlius Torq uatus Severinus Boethius, De syllogismo cathegorico, PL 64, [761-832], 822D, ed. Ch. Thomsen Thornquist, Goteborg 2008 [Studia Graeca et Latina Gothoburgensia, 68], p. 72, 16), restando aderente alla formulazione aristotelica. Invece Apuleio – e con lui la maggior parte dei logici tardoantichi – inverte le premesse: «Omne iustum honestum, omne honestum bonum, omne igitur bonum iustum est» (Lucius Apuleius, De interpretatione, IX, 10, ed. C. Moreschini, in Id., Opera quae supersunt III: De philosophia libri, Stuttgart – Leipzig 1991, [pp. 189-215], p. 203, 13-15); in questo modo, mediante la collocazione del terminus medius assicura l’evidenza del sillogismo. Cfr. G. Patzig, Die aristotelische Syllogistik, Göttingen 1959, pp. 52-70. L’acuta critica espressa da C. von Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande, 2 voll., I, Leipzig 1927, pp. 578-591, si può ritenere intanto superata. Cfr. anche G. d’Onofrio, Fons scientiae. La dialettica nell’Occidente tardo-antico, Napoli 19862, pp. 223224, e M. W. Sullivan, Apuleian Logic. The Nature, Sources and Influence of Apuleius’s «Peri hermeneias», Amsterdam 1967, che alle pp. 209-227 mette a confronto la forma boeziana e quella apuleiana del sillogismo categorico.
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Non è l’unico nel Medioevo a fare questo: già Abbone di Fleury li confronta nella sua Syllogismorum categoricorum et hypotheticorum enodatio, ma, in ogni caso, soltanto pochissimi logici medievali si sono sobbarcati tale fatica, poiché la validità delle conclusioni non è toccata 36. Ciò è tuttavia d’aiuto nell’ambito della parafrasi sillogistica: la quantità raddoppiata di schemi sillogistici rende più facile una ricostruzione fedele al testo. Tale esigenza di una riproduzione il più possibile esatta della struttura argomentativa costringe entrambi i commentatori a orientarsi in maniera aderente ai testi da interpretare: essi non cercano di far discendere, per mezzo della logica, nuove nozioni dalle idee che sono espresse nei testi da interpretare, ma si limitano a spiegare le argomentazioni nel modo più preciso possibile. In generale, i due anonimi glossatori si discostano dai loro testi soltanto qualora la parafrasi non illustri sempre perfettamente proprio queste strutture argomentative, oppure crei nuovi nessi logici che non si trovano nei testi di partenza. Sarebbe inadeguato voler vedere in questo soltanto un’imprecisione nella ricostruzione logica. Alcune osservazioni occasionali dell’Anonimo di Echternach mostrano che il glossatore è completamente consapevole di tale evidenza 37. Q ueste modifiche apparentemente insignificanti non sono rimaste senza conseguenze filosofiche. Un esempio si trova nella parte priscianea del manoscritto di Echternach; nelle Institutiones Grammaticae Prisciano, dopo aver esaminato l’uso del digamma come consonante doppia (duplex consonans) nel dialetto eolico, parla di un fenomeno simile in latino: «Nos quoque videmur hoc sequi praeterito perfecto et plusquamperfecto tertiae et quartae coniugationis, in quibus i ante u consonantem posita producitur eademque subtracta corripitur» 38. L’Anonymus 36 Cfr. Abbo Floriacensis, Syllogismorum categoricorum et hypotheticorum enodatio, in Id., Opera inedita, ed. A. Van der Vyver, Brugge 1966, pp. 52-57. Una nuova edizione parziale è stata pubblicata da F. Schupp, Abbo von Fleury De syllogismis hypotheticis, Leiden 1997. 37 In alcune glosse egli afferma esplicitamente di addurre egli stesso la prova (per esempio: «volumus compositum syllogismum facere», ms. Luxembourg, BNL 9, f. 40v). La differenza qui può stare in un’altra disposizione delle fasi del ragionamento, ma anche in un cambiamento della forma sillogistica. 38 Priscianus Caesariensis, Institutiones grammaticae, II, 4, ed. M. J. Hertz, 2 voll., in Grammatici Latini, ed. H. Keil, Leipzig 1855-1859 (2-3), I, pp. 15, 17 - 16, 2.
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Epternacensis motiva un elemento di questa affermazione con un sillogismo, di cui omette la conclusione: «Vtrum u consonans posita producat i. Si subtracta corripit, posita producit» 39. Attraverso la forma sillogistica viene alterata l’argomentazione: Prisciano solamente descrive che la ‘i’ in alcune terminazioni è lunga, quando viene seguita da una u consonans (quella che viene resa con una ‘v’ nella moderna trascrizione latina), mentre è corta quando questo caso non si verifica. In questo modo egli vuole mostrare che la u consonans è una consonante doppia. L’Anonymus Epternacensis invece afferma che una ‘i’ davanti ad una u consonans è lunga perché senza di questa è corta. Al posto della pura osservazione di fenomeni linguistici è subentrata la loro deduzione logica: così la glossa illustra in che modo si trasforma la comprensione della lingua – e pure della grammatica come teoria della lingua – sotto l’influsso della logica: lasciato alle spalle l’esame puramente descrittivo delle norme linguistiche, procede verso la grammatica speculativa, la teoria filosofica della lingua del Medioevo centrale e tardo 40. Il procedimento parafrastico si dimostra quindi particolarmente efficace quando ai commentatori riesce di seguire un ragionamento lungo un percorso di una certa estensione e di presentarlo passo dopo passo in forma sillogistica. Q ui i sillogismi sono per lo più in un certo nesso contenutistico, talvolta si tratta di veri e propri sillogismi a catena (sorites): di siffatti passaggi se ne trovano in entrambi i commenti, ma non in uguale quantità. Nel commento di Echternach lo svolgimento dell’interpretazione è frequentemente interrotto: l’autore si sofferma su aspetti secondari o tralascia alcune riflessioni, talvolta non si occupa della sillogistica, ma di problemi grammaticali o filosofici. In tal modo, le glosse perdono la loro connessione interna e di conseguenza il commento in generale perde coerenza. Invece, l’autore di Saint-Trond riesce a evitare la frammentazione: egli si concentra interamente sulla descrizione il più possibile esatta del ragionamento alla base dell’Isagoge e del Trattato sulle Categorie, lasciando da parte tutte le altre questioni. In questo Ms. Luxemburg, BNL 9, f. 10v. Sulla grammatica speculativa cfr. J. Pinborg, Die Entwicklung der Sprachtheorie im Mittelalter, Münster 1967 e I. Rosier, La grammaire spéculative des Modistes, Lille 1983. 39 40
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modo, la suddivisione in glosse viene almeno attenuata; certo, è sempre per mezzo di lemmi che si rinvia al modello, ma questi costituiscono rimandi incrociati all’interno di una parafrasi continua piuttosto che sottolineature all’inizio di glosse autonome. Nell’Appendice a questo studio si trova l’esposizione dello stesso passaggio dell’Isagoge nel commento di Echternach e in quello di Saint-Trond. Il commento di Echternach qui è relativamente coerente, tuttavia non segue precisamente lo svolgimento dell’argomentazione e inserisce un’osservazione sulla dottrina degli universali. Il commento di Saint-Trond parafrasa in maniera molto più precisa, ma non va mai al di là del suo modello. Q ueste osservazioni non sono trascurabili nel momento in cui si voglia comprendere lo sviluppo della letteratura di commento medievale. Il confronto tra l’organizzazione abbastanza libera del commento di Echternach ed il più sistematico commento di SaintTrond, ma anche tra annotazioni isolate e più grandi unità all’interno dello stesso commento di Echternach, mostra come il passaggio da una raccolta di glosse ad un commento continuo non avvenne come un improvviso cambiamento di forma letteraria, ma fu raggiunto alla fine di un processo. Come esattamente questo avvenne nel caso dei due nostri commenti è incerto, data la mancanza di indizi che facciano luce sul loro contesto. Tuttavia un tale fenomeno si può osservare anche in altre fonti. Talvolta in opere del medesimo autore, come nel caso di Abelardo 41. Talvolta questo processo giunse a compimento solo dopo generazioni, come si può osservare nelle Glosule in Priscianum. Q uesto Stellenkommentar strutturato anch’esso in lemmi, che a sua volta si basava su glosse altomedievali, subì una serie di redazioni e rielaborazioni, finché alla fine Pietro Elia compose basandosi su di esso la sua Summa super Priscianum, la quale si liberava completamente della struttura a glosse e poteva essere letta indipendentemente dalle Institutiones Grammaticae 42. Tuttavia in entrambi i casi lo sviluppo 41 Q uesto passaggio dalla raccolta di glosse al commento continuo si può osservare nelle opere logiche di Abelardo: la Logica «Nostrorum petitioni sociorum» contiene degli svolgimenti lunghi e coerenti, sul problema degli universali inserisce un suo proprio trattato. La Dialectica abbandona completamente la struttura di glosse, anche se segue sempre i testi scolastici consueti: cfr. Marenbon, The philosophy of Peter Abelard cit. (alla nota 31), p. 43. 42 Un’evoluzione simile si può osservare nella grammatica: la tradizione
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della forma letteraria fu il risultato di una continua rielaborazione e revisione. Proprio l’instabilità di questo tipo di testo contribuì dunque in maniera decisiva alla sua dinamicità. 3.2. La funzione dei topoi. – Come si è già detto, per la maggior parte dei sillogismi del commento di Echternach e per quasi tutti quelli del commento di Saint-Trond vengono segnati i relativi loci. Si tratta quasi esclusivamente del genere di topoi che Boezio contraddistingue come differenze topiche (differentiae topicae), ad esempio a genere oppure a parte. Con il loro aiuto i glossatori descrivono la figura argomentativa che è alla base dei sillogismi: le massime (maximae propositiones), cioè i principi come «contrariorum inmediatorum ablato uno, ponitur alterum» 43, sono estremamente rare 44. Parafrasi sillogistica e descrizione topica sono tra loro complementari: i sillogismi si collocano sul piano formale, in quanto offrono una versione ben formata degli argomenti da esporre; i topoi, invece, si sviluppano sul piano del contenuto, in quanto spiegano la relazione che sussiste tra i singoli elementi del sillogismo e quindi descrivono il meccanismo logico che agisce all’interno della conclusione. Anche più topoi possono essere impiegati per descrivere un unico sillogismo, per cui la funzione di ogni termine viene determinata precisamente nella sua interezza 45. Perciò non stupisce il fatto che la descrizione topica delle Glosule in Priscianum sfocia nella Summa super Priscianum di Pietro Elia, un’opera continua, costruita secondo punti di vista sistematici. Cfr. M. Gibson, Milestones in the Study of Priscian, circa 800 – circa 1200, in «Viator. Medieval and Renaissance Studies», 23 (1992), pp. 17-33, in partic. pp. 28-33, C. H. Kneepkens, The Priscianic Tradition, in Sprachtheorien in Spätantike und Mittelalter, ed. S. Ebbesen, Tübingen 1995 (Geschichte der Sprachtheorie, 3), pp. 239264, in partic. pp. 242-247. 43 Ms. Luxemburg, BNL 9, f. 56r. 44 Sulla concezione boeziana del topos cfr. N. J. Green-Pedersen, The Tradition of the Topics in the Middle Ages, München 1984, pp. 60-65. 45 Così l’Anonimo di Echternach (Ms. Luxemburg, BNL 9, f. 56r) al lemma: «Differentia est qua abundat species a genere» (Isagoge, 17, 16) annota quanto segue: «Vtrum species abundet a genere differentiis. A parte speciei, a parte differentię, a parte generis, a diffinitione ‘abundat’, probat sic: Si homo ab animali plus habet rationale et mortale, species abundat a genere differentiis. Sed homo ab animali plus habet rationale et mortale». L’autore di Saint-Trond, sullo stesso passaggio (Ms. Cambridge, Fitzwilliam Museum, McClean 165, f. 96r), scrive similmente: «Vtrum species habundet a genere differentia. A parte speciei et genere et differencię. Si homo habundat ‹corr. ex habundet› ab animali ratio-
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molto spesso aiuti più della parafrasi sillogistica alla comprensione. Proprio nel caso delle conclusioni ipotetiche è il topos a risolvere per primo l’effettiva difficoltà: il passaggio dall’antecedens al consequens nella premessa condizionale 46. Tuttavia entrambi i commentatori sembrano attribuire ai topoi più di una funzione meramente descrittiva: in essi vedono il fondamento effettivo del dedurre, di fronte al quale la forma logica passa in secondo piano 47. Mediante il richiamo a essi, in determinate circostanze, si possono addirittura sostenere sillogismi non conclusivi. Anche tale idea non è completamente nuova, ma si trova già in Boezio 48; tuttavia, su questa idea è basato il procedimento di induzione sviluppato da entrambi i commentatori, procedimento che va molto al di là delle intenzioni originarie del filosofo tardoantico: mentre l’induzione generale nella pratica si può non eseguire, all’induzione esemplare manca un carattere vincolante; per conferire a quest’ultima una forma cogente, nei commenti di Echternach e Saint-Trond vengono composti nali mortali tunc species a genere differentia. Sed haec est. Ergo species habundat a genere differencia. Et utrum homo habundet. A diffinicione. Si plus habet, habundat. Sed plus habet». 46 Lo stesso Aristotele non istituì nessun nesso esplicito tra topoi e frasi condizionali. Boezio non lo fece esplicitamente ma i suoi scritti logici offrono spunti per quest’idea molto diffusa nel dodicesimo secolo, di cui fu sostenitore, fra gli altri, Abelardo: cfr. Green-Pedersen, The Tradition of the Topics cit., pp. 78-81 e pp. 203-210. 47 In molti passi del commento di Echternach l’azione dei topoi nelle conclusioni viene descritto in questo senso, laddove l’autore insiste a spiegare il mos aristotelicus (cfr. ms. Luxembourg, BNL 9, f. 84r). 48 Boezio dice spesso che i topoi rinforzano i sillogismi, senza però motivare questa sua affermazione. Sembra pensare a due possibilità: cfr. Anicius Manlius Torq uatus Severinus Boethius, De differentis topicis, II, PL 64, [1173-126], 1185D, ed. Z. Nikitas, Paris – Bruxelles – Athens 1990, p. 26, 2-4: «Sed huiusmodi propositio aliquotiens quidem intra argumenti ambitum continatur, aliquotiens vero extra posita argumenti vires supplet et perficit». Affermazioni simili si trovano più volte nei suoi scritti sulla topica. Le massime vengono integrate direttamente nei sillogismi (sostituendo così premesse mancanti) oppure sostengono dall’esterno sillogismi non validi. Come ciò accada non viene da Boezio spiegato in dettaglio: i suoi esempi lasciano supporre che egli non pensasse a un unico meccanismo, ma a un rapporto tra massima e sillogismo diverso da un caso all’altro. Cfr. E. Stump, Dialectic and its place in the development of Medieval Logic, Ithaca (N.Y.) 1989, pp. 33-41; Green-Pedersen, The tradition of the topics cit., pp. 66-71; R. Pinzani, Prove e sillogismi topici in Boezio, in Les lieux de l’argumenation. Histoire du syllogisme topique d’Aristote à Leibniz, éd. J. Biard – F. M. Zini, Turnhout 2009, pp. 119-140, in partic. pp. 130-136.
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dei «sillogismi induttivi» garantiti mediante il rinvio al topos a parte – il che è ovviamente una contradictio in adiecto 49. Per lo più si tratta qui di sillogismi ipotetici: «Vtrum ‹species› specialissima melius assignet quam genus. A partibus. Si homo melius assignat aliquem hominem quam animal, tunc specialissima melius assignat quam genus. Sed hoc est ut ‹Aristoteles› ait» 50 . Molto raramente si trova anche la variante categorica 51, che è particolarmente appariscente: mentre i sillogismi ipotetici si fondano sì su una premessa dubbia, ma hanno una conclusione come tale formalmente giusta, la variante categorica contravviene a tutti e 19 i modi validi 52. Il procedimento di induzione topico-sillogistico in entrambi i commenti lascia un’impressione duplice: nel contesto della logica altomedievale, in cui spesso veniva assegnato ai topoi un ruolo portante, offre una soluzione non priva di senso per un problema filosofico fondamentale, laddove, tuttavia, non è ben chiaro quando un siffatto ricorso alla topica sia possibile. In entrambi i commenti l’induzione non sembra essere stata applicata arbitrariamente (cosa che avrebbe portato con sé tutta una serie di conclusioni insensate), ma soltanto allorché i singoli casi sono effettivamente rappresentativi. Tuttavia, non viene mai formulato un criterio per questo, nonostante si possa percepire una coscienza di questa mancanza. Ma proprio questa sarebbe la questione decisiva: la limitata diffusione di tale procedimento di induzione dimostra che esso non è discutibile soltanto dalla prospettiva attuale, ma incontrò la critica anche dei logici coevi come Gerlando di Besançon 53. 49 La parola greca syllogismós nell’Organon aristotelico sta per ‘deduzione’ in generale, non per sillogismo in senso più stretto: come seconda forma principale di argomenti viene contrapposta all’induzione (epagóge). 50 Ms. Cambridge, Fitzwilliam Museum, McClean 165, f. 104r. 51 Cfr. ms. Luxembourg, BNL 9, f. 85v: «Vtrum secundę substantię significant hoc aliquid. Homo et animal secundę substantię sunt. Homo et animal non significant hoc aliquid». 52 Alcuni casi non sono univoci linguisticamente, poiché l’Anonimo, come la maggior parte dei logici coevi, non ricorre coerentemente a quidam e omnis per distinguere tra affermazioni particolari e universali. Tuttavia, spesso è accertato, per motivi di contenuto, che si tratta di induzioni. Diverse espressioni nel commento di Echternach mostrano che il suo autore sapeva distinguere chiaramente tra affermazioni particolari e universali. 53 Gerlandus de Besançon, Dialectica, V, ed. de Rijk cit., p. 99: «Parum igitur valet quod quidam volunt probare inductionem esse sillogismum sic argu-
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La topica sperimenta così un’enorme rivalutazione: non è più una mera ars inveniendi, ma serve anche all’analisi di argomentazioni presentate. Molto più rilevante è il fatto che essa perda il rapporto con la dialettica in senso aristotelico. Il suo ambito di validità si estende a tutta la sillogistica (anche assertoria), con cui contrae una stretta relazione. Allo stesso tempo il suo posizionamento si sposta: la topica diventa fondamento della logica. Entrambi i commentatori si inseriscono in un’evoluzione le cui radici affondano nell’antichità e che però nel dodicesimo secolo arrivò alla piena maturazione. La logica antica, cioè soprattutto i trattati e commenti boeziani, serve qui in un certo modo come raccolta di materiale, da cui singoli elementi vengono estrapolati e ulteriormente sviluppati sullo sfondo di mutate questioni filosofiche e teologiche 54. Nella loro fusione di ossequio alla mentantes: ‘si diffinitio sillogismi convenit ei, scilicet inductioni, et est sillogismus; sed convenit ei’. In hoc dicunt diffinitionem sillogismi convenire inductioni quia interdum consistit inductio veritati. Sed nichil est, quia, tametsi veritatem interdum habent, tamen collecta particularis nullam ex necessitate infert conclusionem et sic nullo modo convenit ei diffinitio sillogismi». 54 La rottura con la topica classico-aristotelica è evidente già nel Commento ai Salmi di Cassiodoro: se egli usa dei topoi per spiegare singoli passaggi, questi palesemente non servono più soltanto al reperimento, ma alla descrizione e all’analisi; tanto meno hanno un rapporto con le conclusioni dialettiche. Ciò che in Cassiodoro si esprime nella pratica nei compendi di logica tardoantichi è almeno contemplato: la determinazione della topica come ars inveniendi viene sì ripetuta – come pure nel Medioevo –, ma al di là di questo ha ben poca importanza. Cfr. Anicius Manlius Torq uatus Severinus Boethius, De differentis topicis, I, PL 64, 1173C, ed. Nikitas cit., p. 1, 1-4. In ciò che segue, egli si affranca tuttavia tacitamente da essa. Il vincolo con la dialettica (che già nella Topica di Cicerone rimane taciuta) viene per lo meno relativizzato da Boezio, se egli ammette che alcuni topoi sarebbero utili anche al «demonstrator et verae argumentationis effector» (ibid., I, 1182B, ed. Nikitas cit., p. 19, 16). Anche l’idea che i topoi possano avvalorare i sillogismi non è sconosciuta a Boezio, come già segnalato alla nota 48. La svolta decisiva, che rompe l’inquadramento specifico, è il radicamento dell’intera logica nella topica: questo passo venne compiuto per la prima volta da Abbone di Fleury, cfr. Abbonis Floriacensis, Syllogismorum categoricorum et hypotheticorum enodatio, ed. A. Van de Vyver, Brugge 1966, p. 64: «XV diffinitionum species et totidem argumentorum sedes non neglegendas censemus, sine quibus syllogismi sunt et omnes consequentiae quasi corpus exanime». Nel dodicesimo secolo questa posizione fu rappresentata ad esempio da Gerlando di Besançon e nell’ambiente di Alberico di Parigi, a cui i commenti di Echternach e Saint-Trond sono vistosamente affini già nella predilezione per i sillogismi ipotetici. Sull’evoluzione della topica medievale fino a circa il 1150, cfr. Stump, Dialectic cit., pp. 67-134, e Green-Pedersen, The tradition of the Topics cit., pp. 135-221.
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tradizione e forza innovativa entrambi i commenti si dimostrano paradigmatici per la costruzione della teoria filosofica del loro tempo.
4. La svolta dell’ermeneutica nel secolo xii I metodi parafrastici appena descritti sono importanti non solo per la storia della logica. La loro applicazione ha conseguenze di ampio respiro sull’ermeneutica. Un procedimento che nei Padri della Chiesa e ancora in Lanfranco era soltanto uno fra i tanti viene fatto avanzare fino a una radicalità fino ad allora sconosciuta. I due commenti lo fanno diventare il metodo ermeneutico predominante 55. Anche se essi, con il loro limitarsi alla parafrasi sillogistica, rappresentarono un’eccezione, tutavia si può notare una tendenza alla standardizzazione che caratterizzò la scienza medievale. Particolarmente a partire dal 1100 gli approcci sparsi e legati a determinati contesti, che si potevano trovare nelle fonti antiche, furono sviluppati fino a diventare tecniche generali che si potevano studiare, così da essere trasmesse a grosse masse di studenti ed applicate con estremo rigore 56. Dunque non è un caso che uno scolastico come Tommaso d’Aquino argomentasse più aristotelicamente dello stesso Aristotele. I due commentatori anonimi mostrano che questa forma mentis era già diffusa 55 Tale orientamento logico dell’ermeneutica non restò un intermezzo medievale, ma continuò a esercitare il suo influsso per lungo tempo nell’età moderna: cfr. L. Danneberg, Logik und Hermeneutik im 17. Jahrhundert, in Theorie der Interpretation vom Humanismus bis zur Romantik. Rechtswissenschaft, Philosophie, Theologie, hrsg. von J. Schröder, Stuttgart 2001, pp. 75-131. 56 Cfr. S. Ebbesen, Late-ancient Ancestors of Medieval Philosophical Commentaries, in Il commento filosofico nell’occidente latino cit. (alla nota 1), [pp. 1-15], p. 12: «Most of the techniques used by Western scholastic commentators are closely akin to ancient techniques, and many can be traced back to ancient practice via Boethius and other sources. Typically, however, the old techniques are developed into standard routines that can be used at a conveyor-belt, so that every part of the texts receives the same thorough sort of treatment with the same tools. The medieval Latin proceed with the rigour and ruthless efficiency of standardization so characteristic of later western culture, whereas the ancients are much more like old-fashioned craftsmen who never produce two identical pieces of work». Un altro esempio di questo si trova nella parte del commento di Echternach dedicata a Prisciano, dove i fenomeni linguistici vengono analizzati sistematicamente sulla scorta dei criteri di usus e analogia. Entrambi non sono estranei alla grammatica antica, nuova è la coerenza della loro applicazione.
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all’inizio del dodicesimo secolo. La loro rigorosa attenzione all’analisi logica trasforma dalle fondamenta il carattere dei commenti rispetto a Boezio e rispetto alle glosse altomedievali, per i quali si trattava per lo più di una approfondita discussione dei testi da interpretare e dei loro problemi, cosa ben visibile nelle lunghe spiegazioni di Boezio riguardo al problema degli Universali, solamente posto, restando senza risposta, nell’Isagoge 57. Molto diversamente operano i due glossatori di Echternach e Saint-Trond: il loro obiettivo non è un’interpretazione di vasta portata, ma nei testi da interpretare sono perfettamente concentrati sull’andamento dell’argomentazione, che ricostruiscono passo dopo passo: un tale modo di procedere è dovuto in non piccola parte al cambiato constesto istituzionale. Le scuole del xii secolo, diversamente dai monasteri carolingi, istruivano grandi masse di studenti. Q uesti non disponevano più delle basi filosofiche e logiche che per esempio Boezio poteva supporre. Era dunque per loro necessaria un’interpretazione che fosse vicina al testo e precisa 58. Tuttavia, anche se questi motivi didattici erano determinanti per il lavoro dei due commentatori (o dei maestri, di cui i commentatori annotavano le spiegazioni), un tale ricorso dell’ermeneutica alla grammatica ed alla logica ebbe conseguenze che non solo riguardavano le forme della trasmissione del sapere, ma che anche spostavano i fondamenti dell’attività di interpretazione. Infatti attraverso questa concentrazione sulla struttura logica non solo passa in secondo piano la dimensione speculativa, che era ancora ben presente in Eriugena, ma cambia anche il modo di leggere il testo. Per il logico le frasi sono idealmente affermazioni univoche con termini ben definiti, mentre l’allegoresi, che dominava nell’alto Medioevo e non scomparì completamente neanche dopo, si basava sulla presupposizione di polisemicità e trasferibilità. Si potrebbe ora obiettare che le interpretazioni allegoriche nelle glosse all’Isagoge e alle Categorie non ricoprivano comunque un ruolo importante. Tuttavia l’attenzione al senso let57 Cfr. Anicius Manlius Torq uatus Severinus Boethius, In Porphyrium Dialogi, PL 64, [9-70], 18D-22B, ed. S. Brandt, in Id., In Isagogen Porphyrii Commenta, Wien 1906 (CSEL, 48), [pp. 3-132], pp. 24-32; Id., In Porphyrium Commentaria, PL 64, [71-158], 82A-86A, ed. S. Brandt, ibid. [pp. 135-348], pp. 159-167. 58 Cfr. Marenbon, Medieval Latin Commentaries cit. (alla nota 2), p. 86.
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terale dettata dalla logica si può osservare anche nell’esegesi biblica dell’epoca (e non solo nei commentari di ambiente scolastico, ma anche nella pur tendenzialmente conservatrice scuola di S. Vittore) 59. Nello stesso tempo la tradizione non è più così vincolante: decisiva non è più la garanzia data dalle auctoritates, ma la riuscita applicazione di metodi razionali. Q uesto risulterà particolarmente chiaro dal confronto dei due commenti presentati qui con i loro predecessori. Si prenda come termine di paragone un qualsivoglia esempio dall’esegesi altomedievale della Logica vetus, ad esempio le glosse all’Isagoge di Israel di St. Massimino o gli anonimi Excerpta isagogarum et categoriarum, entrambi del secolo decimo 60. Q ueste opere sono in larga misura dipendenti da Boezio; Israel mette insieme excerpta spesso letterali del suo testo 61. Molto diversamente si comportano i due Anonimi: le auctoritates tradoantiche e la tradizione glossatoria altomedievale sono quasi invisibili nel commento di Saint-Trond, sono regredite alle poche annotazioni filosofiche nel commento di Echternach, anch’esse tuttavia non rappresentate da lunghi excerpta di Boezio o di altri filosofi antichi. Si trovano invece, oltre ad un’unica citazione di Cicerone 62, Cfr. Häring, Commentary and Hermeneutics cit. (alla nota 1), p. 195. Q uesto è dovuto anche all’influsso diretto di Abelardo, al quale presto si aprì la scuola di San Vittore: cfr. D. E. Luscombe, The School of Peter Abelard, Cambridge 1970, pp. 224-260. Ciò vale particolarmente per Riccardo di San Vittore: cfr. ibid., pp. 299-307. 60 Cfr. Excerpta isagogarum et categoriarum, ed. G. d’Onofrio, Turnhout 1995 (CCCM, 120); Frühmittelalterliche Glossen des angeblichen Jepa zur «Isagoge» des Porphyrius. Nach einer Pariser Handschrift, hrsg. von C. Baeumker – B. S. Freih von Walterhausen, Münster i. W. 1924. 61 Nella prefazione alla sua edizione, Baeumker tende a sminuire la portata dell’opera di Israhel (cfr. ibid., p. 6: «Kein großartiges Bild hoher Wissenschaft, was die vorliegenden Glossen uns bieten»). Q uesta disistima nei confronti della letteratura altomedievale spesso fortemente influenzata da fonti antiche non è rara, basti ricordare Ernst Roberts Curtius, che liquidava Rabano come «öden Kompilator» (E. R. Curtius, Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Basel – Tübingen 199311, p. 95). Alla base di tali valutazioni vi è un anacronistico concetto di originalità che è inadeguato non solo a opere altomedievali. Ciò vale ancora di più per i testi di scuola, in cui l’unica cosa importante era la trasmissione del sapere. 62 Cfr. Ms. Luxembourg, BNL 9, f. 25v: «Et secundum quosdam est simile illi in Topicis: ‘In ipsum tum ex toto’, id est totum, ‘tum ex partibus’, id est pars». Cfr. Marcus Tullius Cicero, Topica, II, 8, ed. T. Reinhardt, Oxford 2006, p. 118, 29-30. 59
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solo poche frasi che in una forma simile erano diffuse nella traduzione glossatoria, e che probabilmente sono state trasmesse all’Anonymus Epternacensis attraverso le Glosule in Priscianum. Bisogna però per correttezza dire, che l’ingente mole di glosse e commentari prodotta dal Medioevo già prima del 1100 non ci è giunta nella sua interezza, né ciò che ci è giunto è stato studiato fino in fondo. Un giudizio definitivo è perciò difficile da dare. L’oggetto dei due commentari viene senz’altro incontro ad una tale tendenza alla razionalizzazione. Dal momento che vengono spiegati solamente testi legati alle scienze secolari, i due anonimi non si impegolano in questioni di fede, né devono mettere in discussione auctoritates religiose. È sempre stato meno problematico criticare (o anche ignorare) gli scritti logici di Boezio che l’opera esegetica di Agostino o Gregorio Magno. Tuttavia lo status di sacralità non protesse affatto l’esegesi biblica dagli influssi di questa nuova razionalità. Il cauto tentativo di Lanfranco di avvicinarsi alla sacra Scrittura con l’aiuto della logica incontrò nelle scuole del dodicesimo secolo ferventi imitatori. Il più famoso di questi, Pietro Abelardo, espresse apertamente il proprio disprezzo per quei contemporanei che per lo studio della Bibbia non si affidavano al proprio intelletto, quando afferma «quod his qui litterati sunt ad expositiones sanctorum intelligendas ipsa eorum scripta vel glossae non sufficiunt, ut alio videlicet non egeant magisterio» 63. La sua richiesta di un’esegesi guidata dalla ragione rimase inascoltata. Sia lo stesso Abelardo che molti suoi contemporanei cercarono di soddisfarla nei propri commenti alla Bibbia 64. 63 Petrus Abaelardus, Historia Calamitatum, 3, PL 178, [113-182], 124B, ed. D. N. Hasse, Berlin – New York 2002, p. 12. 64 Sui commenti biblici di Abelardo cfr. J. Jolivet, Abelardo, in Figure del pensiero medievale. Storia della teologia e della filosofia dalla tarda Antichità alle soglie dell’Umanesimo, II, La fioritura della dialettica. x-xii secolo, a c. di I. Biffi – C. Marabelli, Milano 2008, pp. 374-381; il significato delle artes viene spiegato in ibid., p. 378: «La grammatica dunque con la spiegazione di termini e le briciole di filologia ebraica; la dialettica con la pratica della quaestio; ora la retorica: tutte le arti del trivium concorrono a questo commento dell’Hexaemeron. Abelardo non è l’unico, ovviamente, ad averle impiegate; ma dato che qui di lui si tratta, bisogna far notare questa costante della sua elaborazione teologica, quali che siano i metodi e i generi». Sull’opera esegetica di Abelardo cfr. S. Ernst, Petrus Abaelardus, Münster 2003, pp. 87-105. Cfr. C. J. Mews, Orality, literacy, and authority in the twelfth-century schools, in Id., Reason and
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Tale modo di procedere non era privo di pericoli. Abelardo non fu il solo ad attirare su di sè l’ira dell’ortodossia. La critica ad Agostino si rivelò quasi fatale perfino per un autore relativamente conservatore come Ruperto di Deutz 65. Tuttavia i limiti alla razionalizzazione non furono posti solo da zelanti tradizionalisti, bensì erano già presenti e motivati all’interno del genere letterario (e di fatto nella percezione medievale della scienza, legata a doppio filo con l‘attività di commento). Le strategie ermeneutiche possono anche orientarsi maggiormente alla ratio rispetto all’auctoritas, il loro fine rimane tuttavia l’interpretazione di un corpus testuale riconosciuto come autoritativo. Q uesta continuità deve essere tenuta presente tanto quanto le differenze, nel momento in cui si vuole giudicare correttamente il significato della logica per l’ermeneutica del dodicesimo secolo. Bisogna dunque stare attenti a non coltivare un’immagine troppo semplificata del Medioevo. Il successo di tecniche logico-razionali nella letteratutra di commento non significa ancora un ‘illuminismo nel Medioevo’. Tuttavia è segno di un cambiamento che non rimase confinato alla letteratura di commento, ma sfociò in un nuovo concetto di sapere e di scienza.
Appendice Attraverso le parafrasi di un passo dell’Isagoge verranno di seguito illustrate le differenze tra il commento di Echternach e quello di Saint-Trond. Entrambi i commentatori trattano molto dettagliatamente questo passo, che riveste un ruolo importante nella filosofia del xii secolo. In esso Porfirio spiega come la differenza specifica viene enunciata riguardo a qualcosa. In questo contesto egli formula un’analogia tra genere/differenza e materia/forma, che è di eccezionale importanza per l’organizzazione parallela di logica ed ontologia in quest’epoca. belief in the age of Roscelin and Abelard, Aldershot – Burlington 2002 (originariamente in «Exemplaria», 2 [1990], pp. 475-500), pp. 486-491. 65 Cfr. Mews, Orality cit., p. 478. Molto più spesso ci si limitava tacitamente a interpretare diversamente o a correggere (si pensi alla posizione di Eriugena nella contesa sulla predestinazione). Dalla prospettiva attuale si può comprendere solo con difficoltà se si sia trattato di interventi consapevoli oppure se gli autori interessati effettivamente pensavano di interpretare in maniera adeguata le auctoritates.
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Porph., Isag. 18, 3-15: Definiunt autem eam et hoc modo: ‘differentia est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quale sit praedicatur’; rationale enim et mortale de homine praedicatum in eo quod quale quiddam est homo dicitur, sed non in eo quod quid est; ‘quid est’ enim ‘homo’ interrogatis nobis conveniens est dicere ‘animal’; quale autem animal inquisisti, quoniam rationale et mortale est convenienter adsignabimus. Rebus enim ex materia et forma constantibus vel ad similitudinem materiae specieique constitutionem habentibus (quemadmodum statua ex materia est aeris, forma autem figura), sic et homo communis et specialis ex materia quidem similiter consistit genere, ex forma autem differentia, totum autem hoc animal rationale mortale homo est quemadmodum illic statua.
La parafrasi dell’Anonymus Epternacensis si svolge in quattro sezioni. [1] è dedicata alla differenza, [2] al genere; in [3] e [4] invece vengono introdotti argomenti per l’analogia genere/differenza e materia/forma. All’interno di queste grosse unità viene a volte fatto riferimento all’Isagoge attraverso dei rimandi (come «hoc est ibi» e simili). Se è pur vero che all’inizio di [4] ci si riferisce alla sezione precedente attraverso il pronome eandem, tuttavia a parte questo riferimento le sezioni rimangono come singole glosse chiuse in se stesse. La loro coesione viene assicurata solamente dalla congruenza del testo da interpretare. Risaltano particolarmente le domande e le obiezioni inserite fra i sillogismi. Si tratta probabilmente non tanto di un tentativo di rendere il testo più leggibile attraverso inserzioni dialogiche, quanto di tracce dell’insegnamento orale che si sono fatte strada all’interno delle glosse. Ci si può in questi casi facilmente immaginare una vera e propria ora di lezione in cui il più volte nel commento di Echternach citato Magister Thietboldus mette alla prova il sapere e la comprensione dei suoi studenti e ne affronta le critiche. Il valore storico di questo commento risiede in non minima parte nel fatto che in questo modo ci offre degli spaccati di prassi scolastica dell’inizio del xii secolo. Ms. Luxemburg, BNL 9, ff. 62r-63v: [1] Rationale enim: Vtrum differentia predicetur de pluribus et differentibus specie in eo quod quale. Si rationale et mortale predicatur de homine, in eo quod quale differentia predicatur in eo quod quale. / Sed rationale et mortale predicantur in eo 418
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quod quale. [2] Sed non in eo: Remotiva antipofora. Diceret 66 enim aliquis: ‹Q uid est quod predicatur in eo quod quid?› Responsio: ‹Genus.› Et hoc probat: Vtrum genus predicetur in eo quod quid. Si animal predicatur in eo quod quid, genus predicatur in eo quod quid. Sed animal predicatur in eo quod quid. Vnde hoc? Q uia dicimus. Et hoc totum simul ponit ibi: ‹Q uid est› enim ‹homo› 67 interrogatis. Propter seriem vero predicationis repetit de differentia sic: Q uale autem animal. [3] Rebus autem: Vtrum genus predicetur in quid et differentia in quale. Si materia predicatur in quid et forma in quale, genus predicatur in quid et differentia in quale. Vnde hoc consequitur? A simili. Sunt enim similia. Vtrum sint similia. Si quemadmodum materia et forma constituunt unum totum sic genus et differentia, constituunt unum totum. Sunt similia. Sed quemadmodum materia et forma constituunt unum totum. Sic genus et differentia constitu|unt unum totum. Hoc est ibi: Q uemadmodum statua. Q uę materia? Aes. Q uę forma? Figura. Hoc est ibi: Ex forma autem figura. Q uod totum? Statua. Q uod totum constituunt genus et differentia? Hominem. Hoc est ibi: Sic et homo. Diceret aliquis: ‹Vbi videre possum quod statua constet ex materia et figura?› Responsio: ‹In rebus ex materia et forma constantibus, id est in individuis statuis.› Hoc est ibi: Rebus autem. ‹Et ubi videre possum, quod ex genere et differentia constet homo?› Responsio: ‹In rebus ad similitudinem proportionemque materię et formę constitutionem habentibus, id est in universalibus.› [4] Totum autem: Eandem questionem probat, id est utrum sint similia. Si quemadmodum materia, id est aes, et forma, id est figura, sunt unum quid sic genus et differentia 68, id est animal et rationale et mortale, sunt unum quid, id est homo, sunt simila. Sed / quemadmodum materia, id est aes, et forma, id est figura, sunt unum quid, id est statua. Sic genus, id est animal, et differentia, id est rationale et mortale, sunt unum quid, id est homo. Hoc est ibi: Totum autem hoc, id est animal rationale mortale.
Il commento di Saint-Trond evita un’ulteriore suddivisione della parafrasi in sezioni. Una definizione posta all’inizio viene seguita da un’argomentazione in nove passaggi, dei quali ciascuno conti dicoret cod. homo supr. lin. cod. 68 post. differentia expung. sunt unum quid cod.
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nua il precedente. Nel centro vi è spesso un sillogismo. Le affermazioni messe in discussione e le conclusioni sono sistematicamente introdotte rispettivamente da utrum ed ergo, cosicché l’impianto argomentativo risulta immediatamente visibile. Solamente l’ultimo quarto della parafrasi non rispetta questo schema. Il sillogismo viene occasionalmente completato da annotazioni che chiariscono l’intenzione od il contenuto dell’argomentazione. Un ottimo esempio ne è [4], in cui viene motivata la seconda premessa del sillogismo ipotetico. Anche la più regolare – in confronto al commento di Echternach – integrazione dei loci dialectici risulta evidente. Riferimenti incrociati all’Isagoge sono presenti anche qui, tuttavi ogni traccia di insegnamento orale è scomparsa. Ciò che rimane è un’accurata analisi della struttura logica. Ms. Cambridge, Fitzwilliam Museum, McClean 165, ff. 96v-97r: [1] Diffiniunt autem eam ‹i.e. differentiam› et hoc modo: Differentia est et cetera. [2] Vnde sic est questio: Vtrum differencia predicetur in eo quod quale. Q uę sic probatur a partibus: Si ‹racionale› et ‹mortale› predicatur de homine in eo quod quale, tunc differunt. Sed hoc est quod sic ait: Racionale animal et mortale et cetera. Ergo differencia predicatur in eo quod quale, sed non in eo quod quid est tantum ostensio diuersitatis generis et ipsius. [3] Q uod sic probat de genere a parte: Si animal, tunc genus. Sed animal predicatur in eo quod quid. Ergo genus predicatur in eo quod quid. [4] Et utrum animal. Si conuenienter dicitur, tunc predicatur. Sed conuenienter dicitur quod sic ait: Q uid est enim interrogatis nobis. Conueniens est dicere animal. Ergo animal predicatur in eo quod quid. A causa, est enim conuenientia predicandi causa, uel a specie, est enim conuenienter dici species predicandi; eorum enim quę predicantur alia conuenienter alia non. [5] Et utrum racionale et mortale predicentur in eo quod quale. Ab auctoritate confirmat quę, quia conuenienter esse ostenditur. Validior sit ita: Q uale autem animal inquisisti et cetera. [6] Probato itaque quod animal in eo quod quid et racionale et mortale in eo quod quale predicantur, probat id idem rursus a toto: Omnis materia predicatur in eo quod quid et omnis forma in eo quod quale. Sed animal est materia hominis et racionale et mortale forma. Ergo animal predicatur de homine in eo quod quid et racionale et mortale in eo quod quale. [7] Et utrum animal sit materia hominis, 420
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et racionale et mortale forma. A simili per proporcionem: Q uemadmodum se habet ęs ad statuam 69 et figura, sic animal et racionale et mortale ad hominem. Sed aes est materia statuę et figura forma. Ergo animal est materia hominis et rationale et mortale forma. Q uę duo id est assumpcionem et conclusionem per ‹quemadmodum› iuncta sic ponit: Q uemadmodum statua constat ex materia ęris et cetera. [8] Statua uero constare ex materia ęris est dicere aes esse materiam statuę et sic equipollenter intelliges et cetera. Cum uero dixerit statuam ex aere esse materia, figura forma, hominem quoque ex animali et ex rationale et mortale, quamuis ex aliquam materia uel forma non sunt probata constare, nunc demum sic probat a toto: Si omnes res constant ex materia et forma uel ad similitudinem, tunc statua et homo. Sed inquit omnes res constant ex materia et forma uel habent constitucionem ad similitudinem materię et formę. Q uam quia oracionem unam cum sequenti uoluit facere per ablatiuos absolutos sic continuat 70 dicens: Rebus enim et cetera. Ergo statua constat ex materia et forma et homo ad similitudinem materię et formę. [9] Superiorem uero similitudinem ad hominem factam a statua, alia tali / corroborat similitudine. Totum autem hoc animal racionale mortale homo est, quemadmodum illic statua.
Perfino ad un osservatore superficiale risulta subito evidente quanto più accuratamente e sistematicamente proceda il commento di Saint-Trond. La sua parafrasi non ha quasi più l’effetto di una congerie di annotazioni disparate. Ciò che è stato qui mostrato attraverso due passi scelti, è caratteristico per i due commentari nella loro interezza.
staturam cod. continuaū cod.
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IL MONACHESIMO E LE SCUOLE NEL PASSAGGIO TRA IL DODICESIMO E IL TREDICESIMO SECOLO
Il panorama della vita culturale del secolo xii è percorso dalla presenza del modello speculativo di Anselmo d’Aosta, basato sulla combinazione tra l’intensità del sentimento e la ricerca di una chiarezza del pensiero e dell’espressione. Il mutuo integrarsi di tecnica e meditazione introduce a una conoscenza del divino che non solo è esperibile nell’interiorità dell’animo, ma diviene oggetto di indagine da parte della ratio. L’esperienza di Dio vissuta nella fede, dunque, è la condizione fondante la validità dell’operare della ragione nel perseguire una chiarificazione e una sistemazione organica dei contenuti della Rivelazione. Il principio «fides quaerens intellectum» 1 che guida l’intero pensiero anselmiano è ereditato, seppure con diverse sfumature, dai magistri e dai claustrales del secolo xii al punto da costituire la cifra comune sulla quale è articolato il diverso alternarsi dello sviluppo della disputatio scolastica e della lectio monastica. Nelle scuole magistrali l’applicazione dei procedimenti razionali alla comprensione delle verità di fede conduce alla sperimentazione di differenti strumentazioni, metodologie e generi letterari come la fioritura di sententiae, summae e regulae ordinate ad assicurare, attraverso l’esercizio della quaestio, coerenza e sistematicità al discorso su Dio, la proposta porretana di una organizzazione assiomaticodeduttiva della scienza de divinis e ancora la teoria porretana della transumptio dei nomi dal linguaggio naturale a quello teologico 2. Proslogion, Prooem., 227C, p. 94, 2-13. Cfr. G. d’Onofrio, Gli studi teologici e il progresso culturale dell’Occidente, in Storia della Teologia nel Medioevo, dir. di G. d’Onofrio, 3 voll., Casale 1 2
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 423-447 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112928
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Il processo avviato da questo complesso ritmo dottrinale si allarga progressivamente sino a giungere nel secolo xiii, in area universitaria, alla statuizione scientifica della teologia. In questo ampio ventaglio di crescita di esperienze intellettuali si inserisce la produzione teologica dei claustrali, in cui è manifesta una concezione della vita come pratica ascetica nella ricerca di un contatto con il divino acquisibile grazie all’azione congiunta della cognitio e dell’affectio 3. La meditazione teologica, dunque, è orientata a compenetrare tra loro il pensiero religioso e la vita spirituale, la ricerca di Dio e la perfezione interiore 4. In particolare la teologia praticata dai Cisterciensi, incentrata sulla lettura mistico-sapienziale della Scrittura e volta al riconoscimento del valore esperienziale della sapientia Dei, si apre a un confronto costruttivo con le risorse filosofico-scientifiche dell’epoca. In tale direzione l’impostazione razionale e insieme emozionale dell’indagine teologica anselmiana è accolta e utilizzata dai Cisterciensi al fine di procedere a una realizzabilità della sintesi di intelligere e credere che dà luogo a diversificate proposte speculative. Nello specifico la riflessione di Alano di Lilla e Garnerio di Rochefort, autori entrambi legati all’ordine cisterciense, permette di verificare in che modo il comune tentativo di attuare una positiva convergenza tra le esigenze spirituali del monachesimo e il progresso scientifico delle scholae conduca all’elaborazione di due modelli teologici differenti. La valorizzazione dell’istanza razionale, compiuta da Alano nel rispetto della fede, è la condizione che presiede alla genesi di un discorso teologico regolamentato da una serie di leggi, che operano sul piano epistemologico-semantico, e finalizzato a un esito conoscitivo di ordine mistico. Diversamente la ricerca garneriana di una feconda collaborazione tra la fede e la maturazione tecnica che contraddistingue, nel corso del secolo xii, le discipline liberali deve risultare funzionale a un consolidamento dell’ideale Monferrato 1996, II: La grande fioritura, pp. 9-51; Id., L’eta boeziana della teologia, ibid., pp. 283-391, in partic. pp. 330-332. 3 Cfr. J. de Ghellinck, Le mouvement théologique du xiie siécle, Bruges – Bruxelles – Paris 19482; V. Cilento, Medio Evo monastico e scolastico, Milano – Napoli 1961; J. Leclercq, L’amour des lettres et le désir de Dieu. Initiation aux auteurs monastiques du Moyen Âge, Paris 1957 (tr. it., Firenze 1965); G. Penco, La teologia monastica: bilancio di un dibattito, in «Benedictina», 26 (1979), pp. 189-198. 4 Cfr. Leclercq, L’amour des lettres cit., pp. 15-32 (tr. it., pp. 12-29).
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teologico monastico ancorato alla definizione di una sapientia culminante nella visione estatica del divino.
1. Alano di Lilla. Prospettive epistemologiche e finalità mistica del discorso teologico La comprensione intellettuale delle verità di fede insegnata da Anselmo d’Aosta è recepita da Alano di Lilla e da lui proseguita nel tentativo di giungere a riconoscere dignità di scienza alla teologia. Alano è un personaggio significativo del mondo intellettuale del secolo xii. La professione del magister, svolta tra il 1160 e il 1180, che lo porta ad accogliere il rinnovamento dei metodi e delle scienze operanti nelle scuole del tempo e la sua adesione, negli anni della maturità, al monachesimo cisterciense, fautore di una teologia spirituale, costituiscono le linee direttrici che consentono di leggere in una direzione unitaria il suo percorso di ricerca 5. Nel suo complesso l’intero progetto speculativo di Alano appare fondato sulla costruzione di una visione gerarchica della realtà, di matrice dionisiano-eriugeniana, che è proiettata a riflettersi in una successione graduale dei saperi al cui vertice risiede la teologia, concepita come regina delle forme di conoscenza e punto d’arrivo dell’ascesa conoscitiva dell’anima 6. Nella Summa «Q uoniam homines», il tema neoplatonico-dionisiano della processione del molteplice dall’Uno e del ritorno di tutte le cose al Principio originario è lo sfondo cosmologico a partire dal quale Alano struttura un’accezione della teologia intesa come il dispiegarsi di un movimento gnoseologico-ascensivo che muove 5 Un’ampia ricostruzione delle testimonianze legate alla vita di Alano è stata elaborata da Marie-Thérese d’Alverny. Cfr. M.-Th. d’Alverny, Alain de Lille. Textes inédits avec une introduction sur sa vie et ses œuvres, Paris 1965, pp. 11-29. Inoltre John Moore Trout, nel suo breve studio sulla vocazione monastica di Alano, propone un’attenta riflessione sul ritiro di Alano a Cîteaux, avvenuto intorno al 1194. Cfr. J. M. Trout, The monastic vocation of Alain of Lille, in «Analecta Cisterciensia», 30 (1974), pp. 46-53. 6 Cfr. Alanus ab Insulis, Summa «Q uoniam homines», Prol., ed. P. Glorieux, in Id., La Somme «Q uoniam homines» d’Alain de Lille, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 20 (1953), [pp. 113-364], p. 119: «(…) Cumque liberalium artium ponte introductorio in imperialem theologice facultatis regiam intruduntur».
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dal piano delle realtà terrene per concludersi nell’apotheosis finale della creatura a Dio 7. Poiché l’ordine cosmico è unico, allora una sarà la progettualità che presiede alla sua creazione, come unica sarà la finalità cui tutte le creature tendono. L’uomo, in quanto essere composto di corpo e anima, è il punto di incontro tra la forma più bassa di partecipazione alla verità e la più alta 8. Riproducendo nella sua struttura ontologica l’intero universo, egli è il solo in grado di risalire dalla conoscenza delle realtà visibili a quella delle res divine. A tale proposito Giulio d’Onofrio, in uno studio dedicato alla teologia di Alano, ha ricondotto il vario articolarsi della concezione psicologica alaniana a un comune modello di ispirazione platonico-boeziana, pervenendo a individuare nella successione graduale delle facoltà dell’anima l’asse portante di un percorso di perfezionamento ontologico-conoscitivo che porta il soggetto conoscente ad adeguare, in maniera progressiva, la propria natura a quella dell’oggetto conosciuto fino ad assimilarla e a ricomprenderla in se stesso 9. In particolare, nella Summa «Q uoniam homines» e nelle Regulae caelestis iuris, la teoria secondo cui le diverse potentiae dell’anima articolano una divisione gerarchico-ascensiva dei vari ambiti conoscitivi è strettamente combinata all’esigenza di precisare un adeguato assetto epistemologico e linguistico della teologia. Theologia in duas distinguitur species: supercelestem et subcelestem, sive apotheticam et ypotheticam […]. Istae autem due species originem habent ex duabus potentiis animae. Anime enim variae sunt potentie: una que dicitur thesis, scilicet ratio, secundum quam potentiam homo in suo statu consideratur, 7 Cfr. ibid., p. 120: «Nos ergo rerum ordini tractatus ordinem conformantes, primo ad creatorem, secundo ad creaturae creationem, tertio ad eiusdem recreationem styli vertamus officium; et ita nostri operis integritas trina librorum distinctione complebitur». 8 Cfr. Id., Liber in distinctionibus dictionum theologicalium sive Summa «Q uot modis», PL 210, [685A-1012D], 867A: «Homo etiam habet similitudinem cum omni creatura, cum lapidibus in essendo, cum arboribus in vivendo, cum brutis animalibus in sentiendo, cum angelis in discernendo». 9 Cfr. G. d’Onofrio, Alano di Lilla e la teologia, in Alain de Lille, le docteur universel. Philosophie, théologie et littérature au xiie siécle, Actes du XIe Colloque International de la Société Internationale pour l’Étude de la Philosophie Médiévale (Paris, 23-25 octobre 2003), éd. par J.-L. Solère – A. Vasiliu – A. Galonnier, Turnhout 2005 (Rencontres de Philosophie Médievale, 12), pp. 289-337, in partic. pp. 305-314.
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nec suum statum egreditur, quia ea humana et terrena considerat; alia est quae extasis nuncupatur, cuius speculatione homo extra se constituitur. Extaseos autem due sunt species: una inferior, qua homo infra se est, alia superior, qua rapitur supra se. Sed superioris due sunt species: una que dicitur intellectus, qua homo considerat spiritualia, id est angelos et animas; secundum quam homo fit spiritus, et ita supra se fit. Alia est que intelligentia dicitur, qua homo trinitatem intuetur; secundum quam homo fit deus, quia per hanc speculationem quodammodo deificatur. Unde et illa speculatio apotheosis, quasi divina censetur. Ex thesi vero nascitur naturalis philosophia, que circa terrena vertitur. Ex intellectu subcelestis sive ypothetica theologia, que circa spirituales creaturas intenditur, unde ypothetica, ab ypo quod est sub, et thesis quod est positio, nuncupatur, quia de his que divine auctoritati subposita sunt, in ea agitur. Ex intelligentia vero supercelestis sive apothetica oritur qua divina considerantur; unde supercelestis sive apothetica, quasi superposita, appellatur. Inferioris vero extaseos due sunt species: una que dicitur sensualitas, secundum quam per luxuriam, gulositatem et cetera carnalia vitia homo degenerat in adulterinos mores; et hec dicitur metamorfosis, quasi transmutatio, a meta quod est trans et morfos quod est mutatio; secundum quam philosophi dixerunt quosdam mutatos in lupos et porcos, alios in leones. […] Alia species extaseos dicitur obstinatio in malitiam, que maxime fit per contemptum et superbiam; per predicta homo fit pecus, quia bestialibus indulget; per reliqua fit homo diabolus; in hoc enim homo maxime imitatur diabolum quia se reddit in malitia obstinatum 10.
Nei passaggi iniziali della Summa, Alano distingue una teologia sopraceleste da una subceleste. La prima riguarda la natura della Trinità, la seconda, invece, è relativa agli angeli e agli uomini. A ognuna di queste due specie di teologia appartiene una diversa facoltà conoscitiva dell’anima: una è detta thesis, l’altra extasis. La prima corrisponde alla ratio, che considera nell’uomo le realtà terrene e produce la philosophia naturalis; l’extasis, al contrario, conduce l’uomo al di fuori di se stesso, in senso ascensivo o discensivo. L’extasis superior induce l’uomo a trascendere se stesso, 10 Alanus ab Insulis, Summa «Q uoniam homines», I, 2, ed. Glorieux cit. (alla nota 6), pp. 121-122.
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sia attraverso l’intellectus che produce l’ypothetica theologia a cui spetta la conoscenza degli oggetti spirituali inferiori, angeli e anime; sia con l’intelligentia che genera l’apothetica theologia, che porta l’uomo alla deificatio, cioè alla similitudine con l’oggetto divino. Infine, l’extasis inferior degrada l’uomo al rango di bestia. La gerarchia delle potenze dell’anima, dunque, conduce a una definizione del sapere teologico come disciplina, il cui oggetto, cioè Dio, può essere compreso dall’uomo solo con l’utilizzo di facoltà superiori, l’intellectus e l’intelligentia, che sono capaci di elevarlo al di sopra della sua condizione naturale, deificandolo. La coelestis scientia può giungere a tale esito conoscitivo solo se è sottoposta a una rigorosa determinazione metodologica. A tale scopo, Alano individua nella teoria porretana della transumptio, che implica un trasferimento di tipo apofatico della griglia semantica operante sul piano logico e grammaticale a quello teologico, il principio epistemologico capace di fornire uno strumentario espressivo adeguato alla scienza de divinis 11. Da questo punto di vista, l’apporto tecnico-scientifico fornito dagli insegnamenti delle arti liberali è posto al servizio della teologia per consolidare i suoi contenuti conoscitivi e sostenerla nel perseguimento del suo fine, che secondo la strada tracciata dal monachesimo consiste nel dirigere l’anima all’unione estatica con Dio. Nelle Regulae, invece, la dottrina della corrispondenza tra le facoltà dell’anima e la distinzione delle scienze si inserisce sul programmatico intento di fondare scientificamente il discorso su Dio, mediante l’introduzione della metodologia assiomatica. Allineandosi all’orientamento speculativo di Gilberto Porretano 12, 11 Cfr. ibid., Prol., p. 119: «Q uoniam homines a vera sue rationis dignitate degeneres letheo ignorantie poculo debriati, retento hominis nomine, amisso numine debacchantur oculis orbati mentalibus ab orbita veritatis exorbitant, nec solum liberalium artium injurantes honori in eis sui erroris imaginantur figmenta, verum etiam infra celestem scientiam suae temeritatis supercilium erigentes theologice facultatis derogant dignitati, qui dum in theologicis divinorum verborum miraculosas significationes obstupescunt, in eis miraculosas configunt mostruosa; (…) dum illi in theologicorum scientia deficiunt, diversas erroris imposturas conficiunt, ignorantes quod sicut res divine natura preeminentes miraculose sunt, ita et eas nomina non naturaliter sed miraculose significant (…): cum enim termini a naturalibus ad theologica transferentur, novas significationes admirantur et antiquas exposcere videntur». 12 Cfr. Gilbertus Pictaviensis, Expositio in Boethii De bonorum ebdomade, Prol., 1, ed. N. M. Häring, in N. M. Häring, The Commentary of Gilbert
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che seguendo le indicazioni offerte da Boezio nel suo terzo opuscolo, il De hebdomadibus 13, fissa i lineamenti di un’indagine teologica rigorosa basandola sul criterio di immediata intelligibilità dei principi assiomatici, Alano è condotto a sostenere che la teologia, come le altre scienze, ha le sue regole intrinsecamente necessarie, a partire dalle quali può dedurre le proprie argomentazioni 14. Il preminente valore degli assiomi teologici rispetto alle altre forme di conoscenza dipende dall’assoluta trascendenza dell’oggetto divino. Da tali verità universalmente valide colte, in maniera diretta, solo dall’intuizione noetica, discendono le regole propeof Poitiers on Boethius De Hebdomadibus, in «Traditio», 9 (1953), [pp. 177191], pp. 189, 67 - 190, 76: «Prima quam ponit regula omnium quae secuntur immo omnium, cuiuscumque facultatis sint, generalium sententiarium – quas etiam hoc loco conceptiones vocat – est locus. Ut enim de positivis grammaticae facultatis regulis taceamus, certum est quod et qui vocantur communes loci rethorum et maxime propositiones dialecticorum et theoremata geometrarum et axiomata musicorum et generales sententiae ethicorum seu philosophorum continentur universalitate huius regulae qua dicitur: Commmunis animi conceptio est enuntiatio q uam quisq ue probat auditam». 13 Cfr. Anicius Manlius Severinus Boethius, Q uomodo substantiae in eo quod sunt bonae sint cum non sint substantialia bona (De hebdomadibus), PL 64, [1311-1314C], 1311B, ed. C. Moreschini, München – Leipzig 2000, p. 187, 17-25: «Communis animi conceptio est enuntiatio q uam q uisq ue probat auditam. Harum duplex modus est. Nam una ita communis est, ut omnium sit hominum, veluti si hanc proponas: ‘si duobus aequalibus aequalia auferas, quae relinquantur aequalia esse’, nullus id intellegens neget. Alia vero est doctorum tantum, quae tamen ex talibus communibus animi conceptionibus venit, ut est: ‘quae incorporalia sunt, in loco non esse’, et cetera; quae non vulgus sed docti comprobant». 14 Cfr. Alanus ab Insulis, Regulae caelestis iuris (Regulae theologicae), Prol., 1-7, PL 210, [617C-684C], 621A-622A, ed. N. M. Häring, in N. M. Häring, Magister Alani Regulae caelestis iuris, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 48 (1981), [pp. 121-226], pp. 121-123: «Omnis scientia suis nititur regulis velut propriis fundamentis (…). Supercoelestis vero scientia, id est theologia, suis non fraudatur maximis. Habet enim regulas digniores sui obscuritate et subtilitate caeteris praeminentes. Et cum caeterarum regularum tota necessitas nutet, quia in consuetudine sola est consistens penes consuetum naturae decursum, necessitas theologicarum maximarum absoluta est et irrefragabilis, quia de his fidem faciunt quae actu vel natura mutari non possunt. Unde propter immutabilem sui necessitatem et gloriosam sui subtilitatem, a philosophis paradoxa dicuntur, quasi recte gloriose propter sui obscuritatem; aenigmata, propter internum intelligentiae splendorem dicuntur; emblemata, quia puriore mentis acumine comprehenduntur; entimemata, quasi intus in mente latentia, ab en quod est intus et time, vel timos quod est mens; propter sui auctoritatem ebdomades, id est dignitates dicuntur; ebda enim graece, latine dignitas dicitur. Unde Boethius librum inscripsit De ebdomadibus, quasi de subtilissimis theologorum propositionibus».
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deutiche alla scienza de divinis. Inoltre, la superiorità della verità intelligibile, corrispondente alle maximae teologiche, esige che queste siano comprese da un peritus auditor, reso capace di ascendere muovendo da esse alla visione dell’Ineffabile 15. La progettazione alaniana di una scientia fidei, dunque, conserva la finalità sapienziale di portare ad atto l’aspirazione della creatura alla deificatio, ovvero alla fusione estatico-conoscitiva dell’intelligenza umana con l’Intelletto divino. In particolare nell’Elucidatio in Cantica Canticorum, Alano mette in relazione la nozione di apotheosis-deificatio con quella di teophania per descrivere il cammino del sapere teologico, simboleggiato dalla figura della Vergine Maria, verso la comunione dell’anima con il Verbo. Introduxit me rex in cellam vinariam […]. Vel per cellam vinariam intelligitur mentis excessus, qui et extasis dicitur, quo Virgo ad coelestium contemplatione rapiebatur, quae et apotheosis, id est deificatio vel theophania, divina apparitio, nuncupatur: in hanc Virgo ab amore terrenorum suspensa rapiebatur. Q uae contemplatio recte cella vinaria dicitur, quia ex ea spiritualia vina, id est arcana coelestia propinabantur, quae ideo animam ebriam faciunt, quae sobriam reddunt 16.
Con una terminologia tipica della tradizione mistica cisterciense, il concepimento di Maria è interpretato come l’effetto di un mentis excessus, rappresentato dall’immagine della cella vinaria, per cui l’anima umana ebbra dell’apparizione di Dio è come rapita e assorbita dalla contemplazione delle verità eterne.
2. Garnerio di Rochefort. La maturazione dell’ideale teologico monastico alla fine del secolo xii La ricostruzione dell’organizzazione del sapere teologico negli scritti di Garnerio di Rochefort, con particolare attenzione alla sua
15 Cfr. ibid., 7-8, 622B, p. 123: «Istae propositiones, quanto intelligentiam habent altiorem, tanto magis peritum exigunt auditorem. Unde non sunt rudibus proponendae et introducendis, qui solis sensuum dediti sunt speculis, sed illis qui ductu purioris mentis ad ineffabilia conscendunt et puriori oculo philosophiae secreta perspiciunt. Hae enim propositiones in peritiori sinu theologiae absconduntur et solis sapientibus colloquuntur». 16 Id., Elucidatio in Cantica Canticorum, II, PL 210, [51-110B], 66C-67A.
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produzione sermocinale, consente di individuare come caratteristica principale della sua riflessione il tentativo costante di accordare insieme la lezione delle scholae e l’atteggiamento mistico, proprio del monachesimo, ma con modalità differenti da quelle proposte da Alano di Lilla. Garnerio è un interprete qualificato della teologia coltivata nel chiostro ma anche un autore che vive il suo tempo, e lo esprime mediante una conoscenza pluridirezionata ai differenti aspetti che sostanziano il mondo e le figure intellettuali alla fine del secolo xii 17. La sua raccolta di Sermones in festa Domini et sanctorum 18, composta tra il 1180 e il 1192, si presenta come una traduzione in schema omiletico di una visione dottrinale elaborata sul presupposto di incanalare le nuove tendenze affermatesi sul piano teologico, in ambito magistrale, all’interno della tradizione di pensiero cisterciense, dove la ricerca della verità non va disgiunta dal cammino di perfezione spirituale per approdare a un esito mistico. L’impiego nei Sermones di questo metodo sintetico è volto principalmente alla teorizzazione di una concezione teologica costruita attorno a due criteri basilari: la vita activa e la vita contemplativa. Ambedue, rispettivamente simboleggiate dai personaggi biblici di Lia e Rachele nel Vecchio Testamento e da Marta e Maria nel Nuovo, rappresentano le vie che orientano a riscoprire l’originaria similitudo dell’uomo con Dio, nell’attuazione dell’unione conoscitiva e affettiva con Cristo 19. 17 Garnerio di Rochefort è un personaggio attivo e influente nell’ambiente religioso del suo tempo. Dal 1180 al 1192 ricopre la carica di abate prima ad Auberive e successivamente a Clairvaux. Nel 1193 viene nominato vescovo di Langres. Infine, nel 1199 si dimette dall’episcopato per far ritorno a Clairvaux dove morirà dopo il 1216. Sulla vita e le opere di Garnerio cfr. J.-C. Didier, s. v. Garnier de Rochefort, in Dictionnaire de Théologie Catholique, XVI, Paris 1953, col. 1775; Id., Garnier de Rochefort, sa vie et son oeuvre. État des questions, in «Collectanea Ordinis Cisterciensium Reformatorum», 17 (1955), pp. 145-158; Id., Q uelques precisions sur Garnier de Rochefort, in «Les Cahiers haut-marnais», 46 (1956), pp. 164-166; A. Hoste, s. v. Garnier de Rochefort, in Dictionnaire de Spiritualité, VI, Paris 1967, coll. 125-128. 18 I Sermones in festa Domini et sanctorum, mss. Troyes, Bibliothèque Municipale 970, ff. 1r-147v e 1301, ff. 1r-140v, sono stati dapprima editi da Bertrand Tissier, in Bibliotheca Patrum Cisterciensium, 6 voll., Bonofonte 1660, III, pp. 75-192. Q uesta edizione è stata integralmente ripresa in PL 205, coll. 560-828. 19 Cfr. Garnerius Lingonensis, Sermones, 28, 751D: «Nam istis duabus sororibus, illae duae vitae significantur, sub Novo Testamento, sicut in illis duabus, Lia videlicet et Rachele, in Veteri Testamento. Q uod enim Lia in Veteri, hoc
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Tale modello conoscitivo è l’ordito teso a sostanziare la trama dei Sermones che è incentrata, a partire dal racconto storico della Rivelazione, sulla creazione dell’uomo, sulla sua caduta e sul suo ritorno all’origine 20. Inoltre, l’intero impianto narrativo è incastonato da Garnerio sullo sfondo della visione cosmologica dionisiano-eriugeniana, da cui è ricalcata l’idea dell’essenza teofanica dell’universo e delle sue creature. Sic Deus omnipotens, qui se primo angelis, secundo ab angelis se manifestari voluit hominibus, ita etiam manifestari se voluit hominibus. Ad hoc enim duas fecit rationales creaturas, angelos scilicet et homines, ut is qui in sua natura incomprehensibilis erat, ex operibus suis ipsis et ab ipsis quoquomodo manifestaretur, et in ipsis, et per ipsos cognitus laudaretur: et sic auctor et creator coeli et terrae crederetur, qui in coelis angelis, et in terris hominibus venerabilis appareret 21.
A tale proposito, Garnerio spiega che al vertice dell’ordine delle manifestazioni divine disposto da Dio nella creazione, vi sono gli angeli, pure essenze immateriali, e gli uomini, esseri composti di carne e spirito. Q ueste due creature razionali, essendo nelle loro nature simili a Dio, possiedono entrambe la capacità di conoscerlo. Nell’ordine delle teofanie, quella angelica è la più alta e contempla, in maniera diretta, la verità 22. Al contrario, la conoMartha in Novo; et quod Rachel ibi, hic Maria significat; sed alia, et alia de causa. Martha enim activam, propter officium charitatis; Lia vero propter exercitium laboris; unde et laboriosa interpretatur. Maria contemplativam designat, propter altitudinem contemplationis; Rachel vero propter simplicitatem mentis». E cfr. Id., Sermones, 23, 725B: «Sed ecce vir oriens nomen eius, cuius domus est Ecclesia, habebat in vestibulo puteum, id est profunda mysteria Scripturarum, ubi ea quae vel activae vel contemplativae conveniunt, sub velamine litterae occulta sunt». Nelle note seguenti i Sermones di Garnerio sono citati con l’indicazione del numero del Sermo secondo l’edizione Migne e senza il riferimento al nome dell’autore. 20 Cfr. Sermones, 34, 790AB: «Nam quamvis in initio suae narrationis Moyses tractet de operibus conditionis; principalis tamen eius intentio fuit, informare lapsos de operibus restaurationis. Non enim convenienter ostendere posset qualiter homo fuerit reparatus, nisi prius ostenderet qualiter fuerit lapsus. Lapsum vero ejus convenienter non ostenderet, nisi prius qualiter fuit conditus, explicaret». 21 Sermones, 9, 631AB. 22 Nel Sermone trentacinquesimo, dedicato all’esame della natura ontologica e gnoseologica degli angeli, Garnerio muove dalla concezione di ordo angelicus, di ascendenza alaniana, per spiegare che col nome di angelo è designata la moltitu-
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scenza del divino possibile all’uomo nella sua condizione lapsaria è imaginaria, perché ha luogo attraverso la mediazione delle figure e delle similitudini mondane ed è conseguibile solo a posteriora, ossia a partire dagli effetti prodotti dall’attività creatrice di Dio 23. Q uesto vuol dire che la natura insieme alla Scriptura, nel loro essere manifestazioni e segni del divino, divengono i sentieri attraverso i quali la creatura intraprende la sua ascesa conoscitiva dalla molteplicità delle teofanie alla visione unitiva dell’assoluta semplicità divina. Tale architettura speculativa è tesa a riflettere una precisa teologia del Verbo incarnato in cui si realizza la promessa della salvezza dell’uomo 24. L’incarnazione di Cristo si configura come il più alto esempio di teofania, poiché la natura divina, in sé indefinibile e trascendente, si unisce manifestandosi alla realtà umana soggetta a limitazioni e definizioni, allo scopo di riaprire alla dine degli spiriti celesti che con un’intuizione uniforme contemplano in maniera semplice e non composta il mistero della divinità. Diversamente dalla theophania angelica quella umana, invece, è caratterizzata da una conoscenza della realtà spirituale diversificata e multiforme. Cfr. Sermones, 35, 794A: «Ergo iuxta prophetae testimonium statuit in terris dignitates hominum Dominus, secundum ordines angelorum, ut sicut in coelis character est coelestis theophaniae uniformis beatorum spirituum multitudo; ita in terris eiusdem theophaniae character esset multiformis spiritualium virorum unio». Per quanto concerne la nozione di ordo angelicus con la quale Alano introduce lo studio della seconda gerarchia cosmica, cfr. Alanus ab Insulis, Expositio prosae de angelis, ed. in D’Alverny, Alain de Lille. Textes inédits cit. (alla nota 5), [pp. 194-217], p. 203: «Ordo angelicus est, ut testatur Johannes Scotus super Ierarchiam, caractere theophanie simplicis et non ymaginarie et reciproce uniformis spirituum multitudo»; Id., Hierarchia, ed. D’Alverny, ibid. [Hierarchia Alani], [pp. 223235], p. 226: «Ordo angelicus est caractere theophanie simplicis et non imaginarie uniformis celestium spirituum multitudo»; Id., Summa «Q uoniam homines», II, 1, ed. Glorieux cit. (alla nota 6), p. 281: «Ordo angelicus est caractere theophanie simplicis et non imaginarie uniformis spirituum multitudo». 23 Cfr. Sermones, 2, 571B: «Faciem ergo Dei, id est majestatem divinitatis, videre, id est intelligere in hac vita, ubi corpus mortuum propter peccatum corrumpitur, et aggravat animam, nemo potest». E cfr. ibid., 20, 703B: «(…) Nihil verum, sed totum fragile et imaginarium est, quidquid de Deo animus comprehendit. (…) In nullo horum Dominum esse cognovit, quia non veritatem imaginis, sed veritatis imaginem esse cognovit». 24 Cfr. Sermones, 1, 561B: «Factum quippe creaturam eum, per quem facta est omnis creatura, iustum est habere testem omnem suae creationis creaturam. Initio igitur viarum Dei, id est initio viarum quibus ad Deum reditur, manifestavit Deus creationis, vel, ut expressius dicam, incarnationis mysterium: et hoc a saeculo, id est ab initio saeculi, quia redeundi ad Deum nulla aptior via inventa est, quam Creatoris creatio, id est incarnatio Salvatoris».
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creatura la via della sapientia salutaris 25. Rifacendosi alla dottrina neoplatonico-cristiana dell’esemplarismo teologico, Garnerio afferma che il Verbo incarnato riunendo in se stesso la Sapienza divina, cioè la conoscenza perfetta dell’eterna verità di tutte le res, e la scientia umana, ossia l’imperfetta razionalità finita, risana la frattura conoscitiva apertasi tra la natura umana e la divina in seguito alla colpa originaria, avviando la reintegrazione dell’alleanza tra uomo e Dio 26. Cristo, dunque, non è solo il mediatore e il modello da seguire ma anche il teologo per eccellenza, ovvero la Sapientia, che si apre all’uomo istruendolo e guidandolo alla sua intelligenza 27. Espressa in termini di conoscenza, la mediazione operata da Cristo, si traduce nello sforzo compiuto dall’anima umana di risalire da un’apprensione enigmatica e immaginaria della verità a una dimensione cognitiva elevata, di natura anagogica, nella quale sarà nuovamente capace di intuire le essenze originarie di tutte le cose pensate e ordinate da Dio Padre nel Verbo 28. Nella contemplazione anagogica l’intellectus, ovvero la facoltà sovra-razionale partecipabile dall’uomo ma peculiare 25 Cfr. Sermones, 9, 631B: «Nam sicut in coelis describit Joannes, cognomento Scotus, quatuor manifestatiotens id est Theophaniam, Ephiphaniam, Hyperphaniam, Hypophaniam de quibus alibi disseruisse me memini, quibus se angelis manifestat: ita quatuor se manifestationibus aequa lance supradictis respondentibus mirabilis in terris hominibus voluit apparere; et his quidem post nativitatem, et ante passionem». 26 Cfr. Sermones, 40, 827B: «Nota, quod dicitur arca Dei quadrupliciter. Est enim arca conservationis, arca conversationis, arca significationis, arca sanctificationis. (…) De tertia dictum est ad Moysem: ‘Fac tibi arcam de lignis setim’ (Es 25, 10). In his omnibus mens sancta figuratur, in qua reservamus thesaurum, quem habemus in Christo, ‘in quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae absconditi’ (Col 2, 3), sapientiae per divinitatem, scientiae per humanitatem». 27 Cfr. Sermones, 11, 641AB: «Attendite ad Petram (Is 51, 1). Petra autem erat Christus. Attendite in divinitate potentiam, in humilitate subiectionem, in moribus disciplinam, in doctrina scientiam, in omnibus charitatem. Potentiam, qua vos sibi subiecit, subiectionem, qua vos in altum elevavit; disciplinam, qua vos mirabiliter docuit; scientiam, qua vos verbo erudivit; charitatem, qua dilexit». 28 Cfr. Sermones, 3, 583C-586A: «Tria siquidem visionum genera teste sacro eloquia didicimus: corporale, spirituale, intellectuale. (…) Tertium vero est quod mente concipitur, ita secreta et remota, et omnino arrepta a sensibus carnis atque mundata, ut ea quae in illo coelo sunt, et ipsam Dei substantiam, Verbumque Deum per quod facta sunt omnia, in charitate Spiritus sancti ineffabiliter valeat videre et audire. Ad illud Apostulum (cfr. 2Cor 12, 3), ad illud raptos prophetas, non incongruenter arbitramur. (…) In intellectuali visione mens non fallitur, quia aut intelligit, et verum est; aut si verum non est, non intelligit».
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delle essenze angeliche, comprenderà non più attraverso l’effetto, ossia mediante una ricerca delle tracce di Dio nelle creature, ma con l’affetto, poiché sarà in grado di penetrare in forma intima la stessa sostanza di Dio, e quindi il Verbo per mezzo del quale tutto è stato creato e portato a essere, grazie all’opera fecondatrice dello Spirito santo 29. In questa direzione il concetto di theophania costituisce il fondamento su cui Garnerio edifica il suo discorso teologico. La trattazione garneriana del tema delle teofanie, sebbene ricondotta in diversi luoghi dei Sermones al nome di Giovanni Scoto Eriugena, in realtà è plasmata sul tentativo di attuare una conciliazione tra le posizioni espresse in questo campo da Alano di Lilla, Ugo di San Vittore e Giovanni di Beleth e la sfera misticocontemplativa, tipica della tradizione monastica 30. Il risultato di tale operazione sintetica risiede nell’elaborazione di una teoria contemplativa, intesa come il punto terminale di un gradua29 Cfr. Sermones, 33, 780B: «Si videritis (Jd 21, 21), non corporeis oculis, sed intellectu mentis; non effectu, sed magis affectu cognoscatis». 30 Il tema delle teofanie, veicolato attraverso le opere di Giovanni Scoto Eriugena, è oggetto di una positiva ricezione nei principali ambienti di riflessione teologica del secolo xii, quali i cisterciensi, i vittorini e i porretani. Alla fine del secolo la lettura delle manifestazioni divine proposta da Garnerio rivela l’influsso esercitato da varie accezioni dottrinali, quali la concezione di Ugo di San Vittore di una doppia rivelazione delle realtà divine, una teofanica e l’altra anagogica; l’accoglimento delle tre specie pseudo-dionisiane di teofania (l’epiphania, l’yperphania e l’ipophania) attinte dagli scritti di Alano di Lilla; e infine l’aggiunta di ulteriori tipi di teofania mutuati dalla Summa de ecclesiasticis officiis di Giovanni di Beleth, maestro appartenente alla corrente porretana. L’intermediazione di questi diversi fattori è utilizzata da Garnerio per conferire al dato teofanico un valore gnoseologico-ascensivo. Il risultato è la formulazione di una dottrina epistemologica basata su un’accezione scalare della conoscenza in cui ogni forma di sapere costituisce un passaggio verso un grado superiore di verità, sino a risolversi nell’adesione estatico-conoscitiva alla verità. Sulla diffusione della dottrina eriugeniana delle teofanie nel secolo xii cfr. P. Lucentini, Platonismo medievale. Contributi per la storia dell’eriugenismo, Firenze 1979, pp. 5-75; É. Jeauneau, Le renouveau érigénien du xiie siècle, in Eriugena redivivus. Zur Wirkungsgeschichte seines Denkens im Mittelalter und im Übergang zur Neuzeit, Vorträge des V. Internationalen Eriugena-Colloquiums (Bad Homburg, 26-30 August 1985), hrsg. von W. Beierwaltes, Heidelberg 1987 (Abhandlungen der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Klasse, Jahrg. 1987, 1), pp. 26-46; E. S. N. Mainoldi, L’influenza eriugeniana sulla dottrina della beatitudo nel xii secolo, in La felicità nel Medioevo, Atti del Convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (Milano, 12-13 settembre 2003), a c. di M. Bettetini – F. D. Paparella, Louvain-La-Neuve 2005 (Textes et Études du Moyen Âge, 31), pp. 123-201.
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lismo conoscitivo e insieme di un perfezionamento spirituale che «in hac vita incipitur, sed in aeterna perficitur» 31. In particolare l’accezione dell’essenza teofanica del cosmo e del testo scritturale è iscritta da Garnerio in una prospettiva gnoseologica legata all’idea, di matrice platonizzante, dell’anima come la struttura portante di diverse facoltà distribuite in ordine scalare e funzionali all’attuazione di un percorso conoscitivo ascensionale culminante in un esito di ordine mistico 32. Q uesto modello psicologico-conoscitivo è orientato da Garnerio a dispiegarsi in un’ermeneutica progressiva che scandisce l’ascesa dell’anima dall’apprensione dei visibilia al riconoscimento della verità in essi nascosta sino ad approdare alla pura e diretta intuizione del divino. A tale scopo l’ordine delle manifestazioni divine, vale a dire le voces, le res, l’imaginatio, la ratio e l’anagogia 33, che definisce la teofania umana, viene fatto corrispondere a una suddivisione gerarchica delle diverse scientiae. La costruzione garneriana di un quadro epistemologico, sebbene variamente articolata all’interno dei Sermones, appare ricalcata e modellata sulla tripartizione della filosofia teoretica (mathematica, physica, theologia), di origine boeziana, teorizzata da Ugo di San Vittore nel Commentarius in Hierarchiam coelestem 34. In particolare la classificazione ugoniana delle varie discipline viene ulteriormente ampliata da Garnerio attra Sermones, 31, 765B. Nel corso del dodicesimo secolo la gnoseologia polipartita delle potenze psichiche, di matrice platonica, acquista una particolare accentazione all’interno degli ambienti monastici, giungendo a costituire l’impianto fondante del progressivo articolarsi del processo di ascesi interiore verso l’assimilazione anagogica al divino. Cfr. G. d’Onofrio, L’anima dei platonici. Per una storia del paradigma gnoseologico platonico-cristiano fra Rinascimento, tarda-antichità e alto Medioevo, in Ratio et superstitio. Essays in Honor of Graziella Federici Vescovini, ed. by G. Marchetti – O. Rignani – V. Sorge, Louvain-La-Neuve 2003 (Textes et Études du Moyen Âge, 24), pp. 421-482, in partic. p. 452. 33 Cfr. Sermones, 35, 794B: «Sciendum igitur quod quinque modis Deus manifestatur, videlicet voce, re, imaginatione, ratione, et anagogica contemplatione». 34 Cfr. Hugo de Sancto Victore, Commentarius in Hierarchiam coelestem, I, 1, PL 175, [923-1154C], 927A-928A: «Philosophia omnis in tres principales partes secatur: Logicam, ethicam, theoricam. (…) Tertiam vero, id est theoricam, quae sola verum in omni, quod est, et non est scrutari eligit. Hujus, id est, theoricae tres partes sunt: Prima, mathematica; secunda, physica, tertia, theologia, in quibus contemplatio veritatis, quasi quibusdam contemplationum gradibus ad summum conscendit. Prima enim, id est mathematica, speculatur visibiles rerum visibilium formas. Secunda autem, id est physica, scrutatur invisibiles rerum visibi31 32
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verso l’inserimento della scientia symbolica concepita come grado intermedio tra la fisica e la teologia (mathematica, physica, symbolica, theologia) 35. Nella partizione dei vari ambiti conoscitivi, la teologia è collocata al vertice ed è definita come «arte delle arti e governo delle anime» da cui tutte le altre dipendono e a cui sono subordinate 36. La teologia essendo la scienza che contempla «le sostanze invisibili e la loro natura», ovvero Dio in quanto principio e causa di tutte le essenze create, ha come sua sfera di indagine la Bibbia 37. La Sapienza divina, infatti, si rivela sia nell’opera della creazione sia in quella della restaurazione che formano l’oggetto della Scrittura 38. Il testo sacro in quanto autorivelazione di Dio comunicata all’uomo è la più compiuta della teofanie e il veicolo essenziale per condurre la creatura al Creatore. Di qui l’importanza riservata da Garnerio alla sua lettura e interpretazione. In questo percorso di discernimento della verità il teologo si avvale della cooperazione delle discipline liberali, che è consentita a partire da una radicale subordinazione di tali strumentazioni all’acquisizione dell’intelligenza del testo sacro 39. Allineandosi alla metodologia esegelium causas. Tertia vero sola, id est theologia, contemplatur invisibiles substantias, et invisibilium substantiarum invisibiles naturas». 35 Cfr. Sermones, 23, 730A: «Nam cum secundum theoriam verum in omni quod est, et quod non est, scrutari eligit, quibusdam gradibus contemplationum ad summum ascendit. Nam vel mathematice speculatur visibiles rerum visibilium formas, vel physice invisibiles rerum visibilium causas, vel symbolice colligit et coaptat formas visibiles ad invisibilium demonstrationem, vel theologice contemplatur invisibiles substantias et invisibilium substantiarum invisibiles naturas». 36 Cfr. ibid., 23, 726BC: «Tanto tamen excellentius et evidentius, quanto caeteras artes ars artium et regimen animarum theologia praecellit». 37 La definizione garneriana del sapere teologico è riportata supra, alla nota 35. 38 Cfr. Sermones, 6, 609D: «Olim librum scripsit nobis Deus, in quo sub multis verbis unum comprehendit: hodie librum nobis aperuit, in quo multa sub uno verbo conclusit. Q uidquid enim per integumenta verborum in libris antiquis de Filio Dei scriptum erat, totum in hujus libri verbo explanatum est. ‘Multifarie enim multisque modis olim Deus locutus est patribus in prophetis, novissime diebus istis locutus est nobis in Filio’ (Heb 1, 1), hoc est in Verbo suo». 39 Cfr. Sermones, 23, 723CD: «Ad hoc enim liberales artes inventae sunt, ut theologiae deserviant. Nam cum in quibusdam earum vel res sine vocibus, vel voces sine rebus significativae sint, tanto eorum indiget theologia ministerio, quanto res et voces in ea significant. Ubi enim magis indigemus verbo, quam cum loquimur de Verbo? Ubi magis indigemus ornatu verbi, quam cum de Verbo loquimur specioso forma prae filiis hominum; quod splendor est Patris, et figura substantiae eius? Unde et plerumque amborum figura. Ubi magis indigemus rationali verbo,
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tica proposta da Ugo di San Vittore nel De sacramentis christianae fidei 40, Garnerio precisa che le arti prodotte dalla ratio, ossia dalla facoltà dell’anima preposta alla conoscenza delle forme del discorso e della realtà delle cose, forniscono alla teologia un sostegno ermeneutico indispensabile, perché sono gli strumenti in base ai quali i sensi scritturali attuano la redenzione dell’uomo 41. L’argomentazione garneriana prosegue incentrandosi sulla delineazione del procedimento conoscitivo proprio della ratio che appare filtrato dalla lettura degli scritti alaniani. Nella Hierarchia Alani e nella Summa «Q uoniam homines» Alano presenta la distinzione tra la teofania e la fisica ricorrendo ai due diversi modi desunti dall’epistemologia aristotelica, mediante i quali la ragione umana perviene alla comprensione di una res 42. Il primo, quam cum loquimur sapientiam? Ergo tanquam pedissequa grammatica deserviat verbo, ornatui verborum rhetorica, logica rationi. Rerum autem significatio vel circa formam, vel circa naturam consistit. Nam pro sui rapacitate quam habet a natura, lupus diabolum, pro sui simplicitate, agnus Christum insinuat. Et in hoc quasi pedissequa dominae physica deservit theologiae. Forma vero consistit in numero, mensura, et proportione et motu. Igitur in numeris deservit theologiae arithmetica, in mensuris geometria, in proportione musica, in motu astronomia». 40 Cfr. Hugo de Sancto Victore, De sacramentis christianae fidei, I, Prol., 6, PL 176, [173-618A], 185C: «(…) Ex quo constat quod omnes artes naturales divinae scientiae famulantur; et inferior sapientia recte ordinata ad superiorem ad superiorem conducit. Sub eo igitur sensu qui est in significatione vocum ad res, continetur historia; cui famulantur tres scientiae sicut dictum est, id est grammatica, dialectica, rhetorica. Sub eo autem sensu qui est in significatione rerum ad facta mystica, continetur allegoria. Et sub eo sensu qui est in significatione rerum ad facienda mystica, continetur tropologia; et his duobus famulantur arithmetica, musica, geometria, astronomia et physica». 41 Cfr. Sermones, 34, 789D-790A: «Nam cum illarum septem liberalium artium aliae de vocibus, aliae de rebus nos aedificent. (…) Nam sub eo vero sensu, qui est in significatione vocum ad res, historia continetur, cui tres scientiae famulantur, grammatica, dialectica, rhetorica. Sub eo vero sensu, qui est rerum ad facta mystica, continetur allegoria. Et sub eo sensu, qui est in rerum significatione ad facienda mystica, continetur tropologia. Et his duobus deserviunt arithmetica, geometria, musica, astronomia et physica. Q uidquid vero vel sub historia, vel allegoria, sive sub tropologia docetur, causa hujus pacti, id est nostrae restaurationis edocetur». 42 Cfr. Alanus ab Insulis, Hierarchia, ed. d’Alverny cit. (alla nota 22), p. 228: «Est autem theophania ex conseq uentibus signis, non ex substantificis geniis, mentibus ab imaginibus defecatis superessentialis et diffinitive originis simpla et reciproca manifestatio. Et notandum quod aliquando per causam notitia comparatur de effectu, aliquando notitia effectus cause prestat notitiam, ut per hoc quod luna obicitur soli, notificatur solis eclipsis, et sic per causam probatur effectus; a simili per hoc quod videmus solem pati eclipsim, scimus lunam obiectam soli; et sic per effectum
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essendo il processo che conduce dalla causa all’effetto, costituisce la modalità di conoscenza propria della physica; il secondo, al contrario, muovendo dall’effetto alla causa, caratterizza il sapere teofanico. Sulla falsariga dell’insegnamento alaniano, Garnerio si rifà al principio della trascendente causalità divina 43 per sostenere che probatur causa; ergo, probante effectu, notitia habetur de re. Per substantificos genios, id est per substantiales naturas. Genius enim natura vel Deus nature dicitur. Hec autem manifestatio pertinet ad naturalem philosophiam que de rerum natura pertractat. Scientia autem non habetur de Deo per substantiales naturas, quia cause causalissime nulla est causa, sed per signa consequentia, id est, per effectus supreme cause, qui ex suprema causa consequntur, de Deo notitia habetur. Hanc manifestationem habet theophania, unde in fronte descriptionis ponitur: ex conseq uentibus signis, non ex substantificis geniis». Cfr. inoltre Id., Summa «Q uoniam homines», II, 1, ed. Glorieux cit. (alla nota 6), p. 282: «theophania autem est ex conseq uentibus signis, non ex substantificis geniis, mentibus ab ymaginibus defecatis superessentialis et diffinitive originis simpla et reciproca manifestatio. Duplex habetur de re cognitio: aliquando enim per causam habemus notitiam de effectu, ut si luna ponitur inter nos et solem, scimus solem pati eclipsim; per effectum habemus notitiam de causa, ut si sol patitur eclipsim scimus lunam interponi inter nos et solem. Unde aliquando effectus causam, aliquando causa probat effectum. Unde Alexander in commento super librum elencorum ait quod demonstrationum alia quid, alia quoniam; demonstrationem quid vocans quando causa probat effectum, demonstrationem quoniam quando effectus causam. Set non per effectum semper necessario probatur causa set, aliquando sunt quedam signa consequentia ad rem ut probabiliter rem inferunt, non necessario; ut si video hic cineres, coniecto fuisse hic ignem; si video pulverem in calceis eius, coniecto eum fuisse itinerarium. De Deo autem non habetur cognitio per causam; quia cum ipse sit causa causalissima, nulla eius est causa; et ita per substantialia nichil probamus de Deo cum nichil sit proprie substantiale vel accidentale ei; set per effectus consequentes ad causam aliquid probamus de Deo; per rerum essentiam, probamus Dei potentiam, per rerum pulcritudinem sapientiam, per ordinem benevolentiam. Et ita theophania est manifestatio de Deo proveniens ex consequentibus signis, id est effectibus qui tam quam signa consequentia consecuntur ad causam; et non ex substantificis geniis, id est non ex substantialibus naturis; genius enim interpretatur natura». Secondo la proposta interpretativa di Ernesto Mainoldi, un rigoroso raffronto testuale tra la definizione alaniana di teofania e le opere di Giovanni Scoto, da un lato conduce a evidenziare l’assenza di una concordanza di tipo letterale, dall’altro, invece, permette di attestare, sul piano teofanico, la presenza di una dipendenza dottrinale e terminologica tra i due autori. Cfr. Mainoldi, L’influenza eriugeniana cit. (alla nota 30), pp. 159-177. 43 Cfr. Sermones, 35, 795C: «Sciendum ergo, quod Deus semper subsequentibus signis cognoscitur, quia Deum nihil praecedit. Propter hoc dicit Joannes: Theophania est, subseq uentibus signis, etc. Sequitur: Non substantificis geniis. Substantifica genia sunt subsistentes causae: et nulla causa subsistit, quare Deus sit. Q uia si hoc esset, oporteret, quod causatum causam suam praecederet: quod fieri non potest, maxime cum ipse Deus sit omnium causa, et causa causalissima».
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la ragione umana è incapace di conseguire una cognizione per causam del divino ed è in grado di approssimarsi alla Causa suprema solo a partire dai segni o effetti che da essa procedono, i quali si suddividono in «antecedenti, concomitanti e conseguenti» 44. Nel primo caso la conoscenza avviene quando da un segno precedente si comprende qualcosa che è successivo, per esempio il medico inferisce dal controllo del polso o dell’urina l’imminente morte del malato; nel secondo, invece, l’antecedente si accompagna al conseguente, come nel caso del cerchio di botte che è un segno istituito a esprimere come proprio significato il vino posto in vendita; nel terzo, infine, la causa antecedente è desunta dall’effetto che consegue, come il fuoco a partire dalla cenere nel camino. Il conferimento all’indagine razionale di una valenza teofanica conduce a una determinazione delle arti del trivio e del quadrivio come discipline cui spetta la funzione di decifrare, all’interno delle voces e delle realtà fisiche, gli effetti che spingono a risalire al non-visibile implicato nel visibile. In particolare Garnerio fissa la sua attenzione sul rigore formale delle scienze del quadrivio, intese come uno strumento alternativo ma non escludente la validità della logica e della grammatica. L’accoglimento dell’idea cosmologico-sapienziale, secondo cui ogni entità creata risponde a un preciso ordine gerarchico e ontologico dispiegato da Dio nell’universo secondo «numero, misura e peso» (Sap 11, 21) 45, 44 Cfr. ibid., 795BC: «Ratione manifestatur Deus. Sed hic notandum quod res ratione manifestatur tribus modis, scilicet praecedentibus, comitantibus et subsequentibus signis. Praecedentibus, sicut medicus ex pulsu vel urina vicinum morti cognoscit aegrotum. Comitantibus, sicut per circulum vinum vaenale ostenditur; subsequentibus, sicut per cinerem ignis in camino fuisse probatori». 45 Cfr. ibid., 794CD-795A: «Re duobus modis manifestatur, scilicet secundum naturam et formam. Secundum naturam, ut cum lego: Vicit Leo de tribu Juda (Ap 5, 5), Christum intelligo. Similiter cum lego: Ecce Agnus Dei (Io 1, 29), per naturam agni Christum intelligo. Leo dicitur Christus propter fortitudinem; agnus propter simplicitatem vel mansuetudinem. Secundum formam etiam quatuor modis manifestatur Deus. Forma enim constat numero, pondere, mensura, et motu. Per numerum Deus designatur, sicut per unitatem. Nam sicut unitas neque commistionem patitur neque divisionem, ita in unione Dei et hominis nec commistione passus est Christus, nec divisionem. Per mensuram etiam figuratur, ut in Ezechiele ‘per calamum mensurae, quo templum spirituale metitur’ (Ez 40, 5). Manifestatur etiam per pondus. Unde per stateram, quam Pater habet in manu, id est in Filio, aequitas divini iudicii figuratur. (…) Secundum motum figuratur, unde per stellam matutinam significatur. Ecce quomodo re manifestatur Deus».
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unitamente a una lettura simbolica dell’ordo rerum come traccia del proprio trascendente Principio, alimentano l’interesse garneriano verso il riconoscimento della capacità delle arti quadriviali di penetrare sotto il velo delle apparenze sensibili la verità superiore da esso nascosta. Inoltre la verifica del legame sussistente tra le cose create e la realtà soprannaturale procede da una peculiare definizione di res, come entità dotata di una forma esterna e di una natura interna, che Garnerio mutua da Ugo di San Vittore 46 inserendola in un discorso di tipo teofanico. Similiter et rerum significatio in duobus consistit, in forma scilicet et natura: forma, quantum in exteriori dispositione; natura, quantum in interiori qualitate. Forma ergo in quatuor agnoscitur, in numero, in mensura, in proportione et motu. Numerus ad arithmeticam, mensura ad geometriam, proportio ad musicam, motus ad astronomiam, nam natura spectat ad physicam 47.
Secondo tale prospettiva Dio si manifesta nelle realtà naturali in due modi, nella loro determinazione formale, cioè mediante il numero, il peso, la misura e il moto, e nella loro natura che è interna e invisibile. Il compito riservato alle scienze quadriviali, dunque, è quello di avviare un’indagine che non si arresta alla dispositio esteriore delle cose ma tenta di penetrare la loro intima verità. In questa direzione Garnerio giunge ad assegnare alla matematica il ruolo di contenitore delle arti quadriviali, che concernono lo studio delle forme delle res nella loro composizione con la materia. Diversamente la fisica considera le realtà create come effetti visibili prodotti da cause invisibili e viceversa le cause come i principi determinanti la natura delle cose 48. Come nello studio dei fenomeni naturali le discipline del quadrivio predispongono l’anima ad ascendere dalla rappresentazione quantitativo-nume46 Cfr. Hugo de Sancto Victore, De sacramentis christianae fidei, I, Prol., 5, 185B: «Cognitio rerum circa duo versatur; id est formam et naturam. Forma est in exteriori dispositione; natura in interiori qualitate. Forma rerum aut in numero consideratur ad quem pertinet arithmetica; aut in proportione ad quam pertinet musica; aut in dimensione ad quam pertinet geometria; aut in motu ad quem pertinet astronomia. Ad interiorem vero rerum naturam physica spectat». 47 Sermones, 22, 712D. 48 Per le definizioni garneriane di mathematica e physica cfr. il passo indicato supra, alla nota 35.
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rica della realtà al suo Principio originario, similmente nell’ambito dell’esegesi sacra le scienze matematiche supportano la teologia nel promuovere il passaggio dalla facies sensibile delle figure bibliche alla conoscenza-assimilazione del loro contenuto spirituale. L’attuazione di questo processo di disvelamento della verità soprannaturale celata nelle realtà naturali e nelle immagini scritturali spetta alla disciplina symbolica. In tale contesto significativa appare l’operazione gnoseologica compiuta da Garnerio, che assumendo la nozione di simbolo formulata da Ugo di San Vittore nel Commentarius in Hierarchiam coelestem procede a conferirle un valenza di ordine scientifico 49. La speculatio symbolica raccoglie e ordina le forme visibili «per similes similitudines, vel per similes dissimilitudines, vel per dissimiles similitudines» al fine di giungere a una demonstratio delle realtà invisibili in esse nascoste 50. La presenza nei Sermones garneriani della formula dionisiana della rassomiglianza del simbolismo dissomigliante è considerata da Marie-Dominique Chenu un’espressione dell’orientale lumen, che alla fine del secolo xii circola all’interno degli ambienti vittorini e cisterciensi 51. L’allitterazione verbale «dissimilis similitudo, similis dissimilitudo», secondo cui le res sono immagini simili e nel contempo dissimili rispetto al loro Principio, il quale si rivela in esse come segno, è intesa da Garnerio come una dialettica del superamento volta a individuare, attra49 Cfr. Hugo de Sancto Victore, Commentarius in Hierarchiam coelestem, III, 941B: «Symbolum est collatio formarum visibilium ad invisibilium demonstrationem». Sulla nozione garneriana di simbolo, cfr. il passo citato supra, alla nota 35. 50 Cfr. Sermones, 31, 765D: «(…) A speculo speculatio dicitur, et aenigmatica vocatur. Fit autem tribus modis. Per similes similitudines, vel per similes dissimilitudines, vel per dissimiles similitudines». E cfr. ibid., 35, 795A: «Fit autem Dei manifestatio secundum imaginationem tribus modis, videlicet per similem similitudinem, per dissimilem similitudinem, per similem dissimilitudinem». 51 Gli scritti areopagitici veicolati, soprattutto attraverso l’opera di Giovanni Scoto Eriugena, ispirano sul versante latino l’articolazione di una dottrina del simbolo, mistica e misterica, apportatrice di una teologia dell’analogia costruita sull’idea, di derivazione neoplatonica, della conoscenza divina come un itinerario di purificazione procedente dall’immagine simbolica della verità alla visione anagogica della verità in sé. A tale proposito, Chenu testimonia la presenza di un’ampia circolazione, nel corso del secolo xii, del concetto di simbolo, di ascendenza dionisiana, presso autori quali Guglielmo di Saint-Thierry, Riccardo di San Vittore e Ugo di San Vittore. Cfr. M.-D. Chenu, La théologie au XIIe siècle, Paris 1957, p. 370 (tr. it., Milano 1986, p. 363).
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verso una legge dell’analogia inversa, un’originaria somiglianza tra due realtà dissimili che diviene la condizione di apertura e di partecipazione alla verità. L’uso di concetti e di una terminologia di inequivocabile derivazione dionisiana si traduce in un’esegesi traslativa che ha per oggetto sia i simboli somiglianti sia quelli dissomiglianti. Nel primo caso Dio è conosciuto mediante qualcosa a Lui simile nella natura come l’angelo, che è invisibile e incorporeo 52. Il secondo, invece, presuppone il ricorso a un procedimento di tipo apofatico che permette di instaurare una relazione analogica tra la creatura e il Creatore. I dissimilia symbola, infatti, essendo incomparabilmente distanti e difformi dalla realtà divina manifestano, procedendo per via negativa, non ciò che Dio è, ma ciò che Dio non è. Per esempio, la miseria del diavolo mostra per converso la beatitudine di Dio. Allo stesso modo, dagli esseri inferiori e abietti quali il verme e il serpente è possibile afferrare la grandezza di Dio 53. Tuttavia il meccanismo simbolico non riesce a conseguire un’adeguata rappresentazione e comprensione della verità ma solo un suo disvelamento parziale. A tale proposito la figura biblica di Rachele che reca con sé gli idola di Labano è presentata da Garnerio come allegoria della conoscenza imaginaria o symbolica, che scorge la verità nascosta nei sensibilia senza potere accedere alla sua intelligenza, in quanto l’apprende ancora sotto la forma coprente delle similitudini mondane 54. 52 Cfr. Sermones, 31, 765D-766A: «Per similes similitudines, quando quis comprehendere Deum nititur per aliquam rem sibi valde similem, sicut per angelum. Nam sicut Deus subtilis, agilis, invisibilis, incorporeus; ita et angelus». E cfr. ibid., 35, 795A: «Per similem similitudinem, ut si comparatione angeli Deum manifesto, quia angelus qui spiritus est, et invisibilis, valde similis est spiritui et invisibili Deo». 53 Cfr. Sermones, 31, 766AB: «(…) Per similem vero dissimilitudinem, quando fit comparatio per antithesin, hoc est per contrarium, ut scriptum est, quia cognito uno contrariorum, cognoscitur et reliquum, ut si de bonitate Dei locuturus, primo malitiam diaboli describo, ut dulcius mihi in ore sapiat bonitas Dei, et clarius innotescat. (…) Per dissimiles vero similitudines, quando per aliquam rem vilem et despectam, magnitudinem Dei tam sublimem, tam arduam apprehendere conamur. Unde se vermi et serpenti comparat». E cfr. ibid., 35, 795AB: «(…) Per similem dissimilitudinem, ut si quae Dei sunt, per sui contrarium comprehendo, ut considerata miseria diaboli, quae sit beatitudo Dei, cognoscitur: cognito quippe uno contrariorum cognoscitur et reliquum, et huiusmodi similis dissimilitudo». 54 Cfr. Sermones, 35, 795D: «Rachel siquidem contemplativam designat animam, quae tunc portat idola Laban, cum secundum imagines contemplatur. Sed ea postea sibi supponit, cum imaginata credit imaginibus esse maiora; non
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Il procedere dall’imaginatio verso l’anagogia è articolato da Garnerio sullo sfondo della dottrina ugoniana di una duplice rivelazione delle realtà divine: una simbolica o teofanica, l’altra immediata e diretta, ovvero anagogica 55. Muovendo da una distinzione, che nasce dall’analisi etimologica del termine Sion, raffigurante sia l’anima sia la Chiesa, Garnerio sostiene che «Sion interpretatur speculatio» esprime due diversi significati, a seconda che derivi da «speculum» o «specula» 56. La ricerca del divino «per speculum», realizzata attraverso il medium delle similitudini terrene, rappresenta una dimensione conoscitiva imperfetta che è propria della creatura nel suo stato di viator 57. Diversamente aequalia, sed valde dissimilia. Et secundum morem mulierem accidisse sibi confitetur, quia totum humanae infirmitati deputat, quod ad illam simplicem et divinam naturam per aliquas similitudines attingere se credebat». 55 Cfr. Hugo de Sancto Victore, Commentarius in Hierarchiam coelestem, II, 941BD: «Hierarchias dico manifestatas nobis, hoc est demonstratas, vel revelatas ab ipsis, scilicet illuminationibus, id est demonstrationibus sacri eloquii symbolice et anagogice. Symbolum est collatio formarum visibilium ad invisibilium demonstrationem. Anagoge autem ascensio, sive elevatio mentis est ad superna contemplanda. Notat autem hic duplicem modum revelationis divinae, quae theologorum et prophetarum mentibus infusa est per visiones et demonstrationes, quas Graeci theophanias appellant, id est divinas apparitiones. Q uoniam aliquando per signa sensibilibus similia invisibilia demonstrata sunt, aliquando per solam anagogen id est mentis ascensum, in superna pure contemplata. Ex his vero duobus generibus visionum, duo quoque descriptionum genera in sacro eloquio sunt formata. Unum, quo formis, et figuris, et similitudinibus rerum occultarum veritas adumbratur. Alterum, quo nude et pure sicut est absque integumento exprimitur. Cum itaque formis, et signis, et similitudinibus manifestatur, quod occultum est, vel quod manifestum est, describitur, symbolica demonstratio est. Cum vero pura et nuda revelatione ostenditur, vel plana et aperta narratione docetur, anagogica». La distinzione formulata da Ugo di San Vittore tra theophania e anagogia è riportata da Garnerio nel Sermo ventitreesimo. Cfr. Sermones, 23, 730BC: «His tamen omnibus modis principalis et superprincipalis aliquatenus manifestari potest, in figuratis symbolis divini patris beatissima hierarchia, ut postmodum mens humana certae contemplationis gradibus ad summa conscendens, sacra divini eloquii inspectione coelestia secreta etiam anagogice contempletur; et sic ex duobus generibus visionum ad omnem perfectionem ascendit, quae per gratiam divinae revelationis theologorum et prophetarum mentibus fuit infusa: Unum, quo formis et figuris et similitudinibus rerum occultarum veritas obumbratur: quod genus visionis et graece theophanias, id est divinas apparitiones appellant; alterum, quo ascensu mentis et excessu nude et pure, et absque integumento; sicut est, illum coelestem sacratissimum principatum nititur contemplari, quod anagogicum nuncupatur». 56 Sermones, 31, 765D. 57 Cfr. ibidem: «Q uando enim per speculum in aenigmate, id est per similitudines et imagines rerum, Deum quis contemplatur, a speculo speculatio dicitur, et aenigmatica vocatur».
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la parola «specula», collegabile alla radice verbale di «specio» che denota l’atto di guardare lontano, designa una forma di conoscenza superiore, in cui lo sguardo dell’intellectus o mens, innalzatosi al di sopra di ogni materialità e contingenza, è condotto direttamente verso l’alto, dal mondo a Dio 58. La descrizione dell’incontro tra l’intelligenza creaturale e il Verbo, che Garnerio attinge dal Commentarius in Hierarchiam coelestem di Ugo di San Vittore 59, si apre con l’immagine della mens che circondata dall’oscurità dell’ignoranza, trema e palpita ed essendo cieca non può uscire nella luminosa verità della più autentica manifestazione del divino se non guidata per mano dalla fede. In tal modo avanza dove non vede iniziando a «liquefarsi» alla vista dell’unico amore senza potere esprimere ciò che coglie, perché la realtà divina raggiunta con l’anagogia esige la sospensione del pensiero e della parola 60. La visio intellectualis, dunque, rappresenta il momento in cui la cognitio Dei diviene esperienza mistica e la teologia si traduce nella theoria, ossia in un’anticipazione momentanea ed episodica di quell’unione con Dio che si realizzerà pienamente nella beatitudine. Q uod autem sequitur, Mentibus ab imaginibus defaecatis, dictum est, propter anagogicam contemplationem, qua Deus proprie contemplatur, quia minus proprie per imagines manifestatur. […] Tunc enim vere probatur diligere, cum in contemplatione probator deficere. Propter hoc mentes Deum contemplantes ab omni imagine debent esse 58 Cfr. ibid., 766B: «A specula vero speculatio dicitur, quando mens ita sursum ducitur, ut nullis signis praecedentibus, nullis causis subsistentibus, mens ab omni imagine defaecata, ad superessentialem et infinitivam originem simpliciter et reciproce refertur; quod in multis locis in Soliloquio, quae quidem admodum paucorum est, et anagogica dicitur; ab ana, quod est sursum, et agoge, quod est ductio». 59 Cfr. Hugo de Sancto Victore, Commentarius in Hierarchiam coelestium, II, 948B: «Mens etenim hominis tenebris ignorantiae suae obvoluta ad lumen veritatis exire non potest, nisi dirigatur, et quasi caecus manuductione, utens quod non videt incedat». 60 Cfr. Sermones, 23, 730C: «(…) In hoc ultimo genere visionis ita tremit et palpitat mens humana, ut tenebris ignorantiae suae obvoluta, ad illam claritatem et veritatis lumen, nisi dirigatur, exire non potest; sed quasi caeca et manuductione utens, quo non videt, incedit; et incipit liquefieri per visionem et visitationem dilecti; ut nec illud de Deo concipiat quod debet aut velit, nec loqui possit quod concipit, cum coelestis regni circumvelatum ultra, et divini luminis incircumscriptum adhuc investigare nititur, et deficit investigans».
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defaecatae, id est purgatae. Talium est enim theophania, id est manifestatio Dei: quam superessentialem et diffinitivam originem vocat Joannes. Superessentialem quidem, quia omnem superat essentiam, diffinitivam vero; non peremptoriam, sed constitutivam, sed diffinitivam originem, quia per eam omnis res habet suae definitionis originem. Omnis enim res habet propriam diffinitionem, per quam specifice differt a caeteris 61.
Nella vita eterna, prosegue Garnerio, l’intelletto, ormai purificato dai vincoli della sensibilità e dalle griglie concettuali della ragione, perviene a un grado di conoscibilità proprio delle realtà angeliche, attraverso l’acquisizione della capacità di contemplare, in maniera diretta l’assoluta semplicità divina, ovvero il principio superessenziale da cui ogni cosa trae la sua origine temporale e spaziale, vale a dire il Verbo che è la «Sapientia ordinans» 62 e l’artefice dell’intera creazione. Da questo punto di vista, Garnerio sembra richiamare la nozione eriugeniana di «praediffinitio» per sostenere che tutte le creature dall’inizio dei tempi sono pensate e conosciute da Dio Padre nell’Intelletto divino, mediante definizioni, che sono i principi entro i quali si realizza la creazione 63. La theophania o scientia symbolica e l’anagogia, dunque, formano rispettivamente la parte inferiore e quella superiore della disciplina teologica. Nel primo caso la realtà intelligibile è colta dall’anima ancora nella sua congiunzione con le immagini terrene; nel secondo, invece, la visione dell’Ineffabile è raggiunta dall’intellectus senza più alcuna mediazione di simboli e similitudini.
Sermones, 35, 795C-796AB. Sermones, 5, 600D-601A. 63 Cfr. Iohannes Scotus Eriugena, De praedestinatione liber, XVIII, 4, PL 122, [347-440A], 432B, ed. G. Madec, Turnhout 1978 (CCCM, 50), pp. 112, 65 - 113, 74: «Si enim in grecis codicibus invenientes προώρσεν, non dubitamus intelligere praevidit, vel praedefinivit, vel praedestinavit, quid nos prohibet audientes praedestinavit, accipire praevidit vel praedefinivit, servata illa incommutabili ratione, qua haec et huiusmodi verba in his tantum, quae Deus fecit, intelligantur inesse, in illis vero, quae Deus non fecit, e contrario dici posse, cum non sint? O aeterna veritas, et vera caritas ostende temetipsam quaerentibus te in omnibus, in quibus es. Ostende, creatix sapientissima, nihil esse extra te, et omnia, quae sunt intra te, ea tantum a te praevisa et praedestinata, praedefinita et praescita esse, illa vero, quae dicuntur esse, cum non sint, ideoque nec a te praedestinata, nec praedefinita, nec praescita, nec praevisa». 61 62
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In definitiva la dottrina teologica garneriana è nella sua essenza un sapere mistico, che fa uso della guida essenziale della fede e delle strumentazioni della ragione per trovare espressione nella costruzione di una concezione epistemologica, in cui le diverse scienze formano gli scalini di una conoscenza soggettiva e interiorizzata in cui il mistero della salvezza e dell’incarnazione diviene oggetto di unione. Il contatto mistico con Dio, raggiunto nell’anagogia, è il punto di arrivo dell’ascesa conoscitiva dell’anima, che muovendo dalla dissomiglianza esistente tra la natura umana e la divina, recupera l’originaria somiglianza con il divino, nella visione della perfetta unità di uomo e Dio in Cristo incarnato e risorto, in cui risiede la vera sapientia 64.
Cfr. Sermones, 20, 703AB: «Q uid speculatio, nisi contemplatio? Per contemplationem enim voluntas supponitur Christo. (…) ‘Aliter enim intuemur per speculum, et aenigmate; aliter facie ad faciem’ (1Cor 13, 12)». 64
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L’INFLUENZA DI ANSELMO D’AOSTA NELLA LETTERATURA CONTROVERSISTICA DEI CORRECTORIA
1. Introduzione Nell’ultimo ventennio del 1200, in un clima sempre più acceso tra le differenti scuole di pensiero francescane e domenicane, ha origine il conflitto sulla corretta interpretazione del pensiero di Tommaso d’Aquino. La controversia inizia nel 1278, e precisamente nel momento in cui il francescano Guglielmo de la Mare redige il Correctorium fratris Thomae 1, dal quale scaturisce, per 1 Il Correctorium fratris Thomae di Guglielmo de la Mare non ci è giunto come un’opera a se stante, ma è stato pubblicato, nell’edizione critica curata da Glorieux, assieme alla risposta di Riccardo Knapwell, il quale per replicare al francescano trascrive letteralmente, nel suo Correctorium, gli articoli di Guglielmo. Cfr. a tal proposito Les premières polémiques tomistes, I. Le Correctorium Corruptorii «Q uare», éd. P. Glorieux, Le Saulchoir, Kain 1927 (Bibliothèque Thomiste, 9). Per ulteriori approfondimenti sulla biografia e sulle dottrine di Guglielmo de la Mare, cfr. anche E. Longpré, Maîtres franciscains de Paris: Guillaume de la Mare O. F. M., in «La France franciscaine», 4 (1921), pp. 289306; D. Burr, The Correctorium Controversy and the Origins of the usus pauper Controversy, in «Speculum», 60 (1985), pp. 331-342; M. J. F. M. Hoenen, The literary Reception of Thomas de Aquino’s view on the Provability of the Eternity of the World in de la Mare’s Correctorium (1278-1279) and the Correctoria Corruptorii (1279-ca. 1286), in The Eternity of the Word in the Thoughts of Thomas de Aquino and his Contemporaries, ed. J. B. M. Wissink, Leiden 1990, pp. 39-86; D. Metz, Wilhelm de la Mare, in Biographisch-Bibliographisches Kirchenlexicon, XIII, Herzberg 1999, pp. 1247-1250; L. J. Bataillon, Guillaume de la Mare. Note sur sa régence parisienne et sa prédication, in «Archivum Franciscanum Historicum», 98 (2005), pp. 367-422; F. Caldera, Guglielmo de la Mare tra Bonaventura, Tommaso d’Aquino e Pietro di Tarantasia: dipendenze testuali e originalità del Commento alle Sentenze, ibid., 98 (2005), pp. 465508; A. Pertosa, La disputa sulla libertà del volere alla fine del xiii secolo: da Guglielmo de la Mare alla reazione dei Correctoria, in «Divus Thomas», 2 (2010), pp. 144-167.
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 449-462 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112929
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mano domenicana, la letteratura controversistica dei Correctoria 2, che si propagherà, con risultati teologico-filosofici alterni, fino agli anni novanta. Lo scontro, come è ormai noto, oltre che dalle differenti esigenze di carattere teoretico – relative alla problematica ricezione della dottrina di Tommaso d’Aquino – matura anche in virtù della condanna comminata nel 1277 dal vescovo di Parigi Stefano Tempier; condanna alla quale rimandano di continuo, spesso con riferimenti puntuali, sia i francescani, sia i domenicani: i primi certi di riconoscere, in alcune delle 219 tesi, attacchi e limitazioni al nascente tomismo 3; i secondi, invece, impegnati a dimostrare come la condanna di Parigi non riguardi in alcun modo il pensiero del maestro domenicano, che più e meglio di altri ha saputo coniugare la pienezza della tradizione con il vigore del rinnovamento. E i problemi più gravi sorgono per l’appunto proprio nella valutazione del rapporto fra la nuova dottrina e il pensiero dei Padri. Nel Correctorium fratris Thomae, fra le molte obiezioni avanzate a Tommaso, relative a un suo allontanamento da Agostino e al fraintendimento di Aristotele, Guglielmo de la Mare coglie nei propositi originali e al contempo rivoluzionari dell’Aquinate 2 Per la letteratura dei correctoria si faccia riferimento alle seguenti edizioni critiche: Les premières polémiques tomistes, I. Le Correctorium Corruptorii Q uare (ora in avanti Q uare), éd. Glorieux cit.; II. Le Correctorium Corruptorii Sciendum (ora in avanti Sciendum), éd. P. Glorieux, Paris 1956; Le Correctorium Corruptorii Circa de Jean Q uidort de Paris (ora in avanti Circa), ed. J. P. Müller, Roma 1941 (Studia Anselmiana, 12-13); Le Correctorium corruptorii Q uaestione (ora in avanti Q uaestione), ed. J. P. Müller, Roma 1954 (Studia Anselmiana, 35). Q uest’ultima opera è stata attribuita al domenicano inglese Guglielmo di Macklesfield. 3 La dicitura tomismo viene qui adoperata in senso esemplificativo e storicamente debole; ciò perché nonostante una certa storiografia sia tuttora convinta della precoce genesi tomista già alla fine del secolo xiii, abbiamo ormai sufficienti elementi che smentiscono una tale ricostruzione storico-filosofica. Gli ultimi studi mettono in dubbio, infatti, sia l’omogeneità, sia la precocità di quella che viene definita la prima scuola tomista. Semmai, nei decenni a cavallo tra la fine del duecento e gli inizi del trecento, più che di tomismo si può parlare di corrente tommasiana, intendendo con tale definizione tutto quel movimento, sorto intorno agli anni ottanta del secolo xiii, il cui proponimento consiste nel difendere Tommaso d’Aquino dalle accuse mosse contro i suoi insegnamenti. Per ulteriori approfondimenti in tal senso, si rimanda al pregevole lavoro di Robiglio: A. A. Robiglio, La sopravvivenza e la gloria. Appunti sulla formazione della prima scuola tomista (sec. xiv), Bologna 2008 (Bibliotheca Sacra doctrina, 1).
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l’intenzione di distanziarsi persino dalla tradizione e dall’autorità di Anselmo d’Aosta, nel tentativo di comporre le esigenze del l’insegnamento cristiano con un certo aristotelismo intellettualista e determinista che andava imponendosi proprio in quegli anni, e che agli occhi di Guglielmo è da ritenersi eterodosso rispetto ai reali intendimenti dello Stagirita. Dal canto loro i domenicani Riccardo Knapwell, Roberto di Orford, Giovanni Q uidort e Guglielmo di Macclesfield negano che fra l’Aquinate e Anselmo vi sia una reale contrapposizione, anzi sostengono strenuamente il contrario, ribattezzano il Correctorium fratris Thomae con l’appellativo di Corruptorium, e rispondono infine con la redazione di quattro Correctoria corruptorii, comunemente nominati sulla base del loro incipit: Q uare, Sciendum, Circa e Q uaestione. Prima di entrare in medias res, riteniamo sia utile notare che per tutti i protagonisti della controversia, francescani e domenicani, l’autorità e gli insegnamenti di Anselmo d’Aosta non sono messi in discussione, o perlomeno non lo sono apertamente; anzi, a ben vedere, i passi di molte sue opere vengono più volte citati a proprio favore – sia da Guglielmo de la Mare, sia dai suoi oppositori – come supporto agli argomenti addotti in relazione alle polemiche sorte su alcune problematiche questioni concernenti ad esempio l’interpretazione tomista della libertà umana, della genesi del peccato, dell’incorruttibilità degli angeli, della forma sostanziale dell’uomo, del problema della prescienza divina e della concezione trinitaria. Per Guglielmo, Tommaso si distanzia da Anselmo quando affronta i suddetti temi; è sottinteso che i seguaci dell’Aquinate ritengano invece che l’opera del maestro domenicano si innesti perfettamente nel solco della tradizione. L’attenzione che i protagonisti della disputa rivolgono ad Anselmo è sorprendente. Nella letteratura controversistica, gli insegnamenti del Doctor magnificus (così come d’altronde anche quelli di Aristotele, di Agostino e dei Padri) assumono una funzione di mero strumento commisurale con il quale valutare l’accettabilità di nuove teorie e la loro compatibilità con i sicuri insegnamenti del passato. Con questo lavoro ci proponiamo di descrivere le differenti angolature e interpretazioni del pensiero di Anselmo d’Aosta sviluppate alla fine del secolo xiii dai protagonisti della lettera451
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tura controversistica dei Correctoria. L’attenzione si focalizzerà principalmente sulla differente modalità di lettura dei testi tomisti: se Guglielmo de la Mare ritiene che il pensiero dell’Aquinate discordi talvolta dagli insegnamenti del Doctor magnificus e se ne allontani pericolosamente, gli autori dei Correctoria rispondono sostenendo che gli scritti di Tommaso sono perfettamente in linea con l’autorità della dottrina anselmiana: dottrina che, in un certo qual modo, troverebbe il suo naturale compimento proprio nel tomismo.
2. Analisi quantitativa delle citazioni anselmiane presenti nel Correctorium e nelle repliche domenicane Per l’economia del nostro discorso, prima di affrontare i nodi teoretici che emergono dalle differenti interpretazioni del pensiero anselmiano proposte da Guglielmo de la Mare, da un lato, e dagli autori dei Correctoria, dall’altro, riteniamo utile fornire un quadro completo concernente le citazioni dei testi del Doctor magnificus presenti nell’intero corpus della letteratura controversistica. Da un punto di vista meramente quantitativo, i passi riconducibili ad Anselmo, diretti o indiretti – dove per indiretto si intende non la citazione letterale del testo anselmiano, bensì la parafrasi di un passo attribuito al Doctor magnificus – sono inferiori solamente a quelli della Bibbia, di Aristotele e di Agostino: l’opera maggiormente menzionata è il Monologion (24 volte considerando complessivamente l’opera di Guglielmo de la Mare e le rispettive repliche domenicane). Seguono il De conceptu virginali et de originali peccato (10), il De casu diaboli (5), il De veritate (5), il Proslogion (4), il De concordia praescientiae et praedestinationis (3), il De processione Spiritus Sancti (3), il De similitudinibus (3) e infine il De grammatico (citato una sola volta nel Circa). Dalla lettura di questo elenco non può passare inosservata un’assenza a dir poco sorprendente: l’elenco non annovera, infatti, il De libertate arbitrii; la qual cosa è ancor più singolare se solo si considera che una sezione consistente delle citazioni anselmiane presentate da Guglielmo de la Mare contro Tommaso – e commentate anche dai domenicani – è relativa proprio alle questioni sulla libertà del volere. E così, ai fini della nostra ri452
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cerca, oltre a descrivere la differente modalità di ricezione del pensiero di Anselmo nei Correctoria, riteniamo sia anche utile tentare di comprendere le motivazioni che spingono tutti i protagonisti della controversia a ignorare l’opera che forse più di altre tratta esplicitamente la questione della libertà del volere. Procediamo con ordine lasciando al momento in sospeso quest’ultimo problema, e concentriamoci sulle interpretazioni di alcuni passi anselmiani. Da un’analisi dei testi si può notare che se Guglielmo de la Mare cita letteralmente Anselmo, i suoi antagonisti, nel difendere Tommaso, si trovano spesso in maggiore imbarazzo – tanto che pur di celare il presunto contrasto con Anselmo, parafrasano quasi sempre il testo di quest’ultimo, omettendo di trascriverlo, e talvolta tentano con difficoltà o di dimostrare l’effettiva concordanza fra l’Aquinate e Anselmo, o addirittura glissano sui concreti problemi di coesistenza teoretica tra le dottrine, evitando persino di commentare il controverso passo anselmiano. L’impressione che se ne riceve è che, quando vengono messi in difficoltà, i domenicani preferiscono passare sotto silenzio le affermazioni di Anselmo, piuttosto che contraddirle palesemente. Per fornire un quadro doverosamente completo del discorso qui affrontato, però, si tenga presente che se nelle questioni relative alla libertà del volere Guglielmo de la Mare ha buon gioco nel servirsi della dottrina anselmiana, è altrettanto vero che in altre circostanze i domenicani sembrano più a loro agio con il pensiero del Doctor magnificus: in cinque occasioni, infatti, citano letteralmente Anselmo in loro difesa, senza che in precedenza Guglielmo de la Mare abbia fatto alcuna menzione a passi o a opere anselmiane. Non è ovviamente possibile in questa sede ripercorrere l’intero processo ricettivo del pensiero di Anselmo d’Aosta nella letteratura dei Correctoria, né, d’altronde, una tale esigenza risponde agli obiettivi che ci siamo qui prefissati. La nostra indagine si limiterà pertanto a porre l’attenzione solo sulle questioni – già particolarmente problematiche – relative ai rapporti fra l’intelletto, la volontà e la libertà. E in questa prospettiva, appunto, si tratterà di capire in che modo Guglielmo de la Mare legga Anselmo contro Tommaso (mostrando come il pensiero del secondo sia 453
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in contrasto con le teorie affermate dal primo), e viceversa si dovrà comprendere la modalità con la quale gli oppositori del francescano Guglielmo de la Mare intendano comporre le presunte tensioni fra Anselmo e Tommaso denunciate nel Correctorium fratris Thomae. In questo senso, le prime difficoltà da affrontare saranno relative non tanto all’esigenza di comprendere gli autentici insegnamenti di Anselmo d’Aosta sulla volontà e sulla libertà (quasi come se il centro della questione di cui si sta qui discutendo sia effettivamente il nostro corretto intendimento della sua dottrina) 4, quanto invece alle letture e ai commenti che di quella dottrina sono stati forniti proprio dai protagonisti della controversia. Attraverso un processo di ricostruzione storica, sarà interessante chiedersi cosa Guglielmo de la Mare e i suoi antagonisti credono che Anselmo d’Aosta abbia effettivamente detto. Si comprende così anche il motivo per cui nel prosieguo del lavoro considereremo la dottrina di Anselmo indirettamente. Leggeremo cioè solo i passi delle opere anselmiane citate nei Correctoria con gli occhi e con la mente di un intellettuale di fine secolo xiii, al quale non interessa presentare alla comunità scientifica un rigoroso lavoro critico sul Doctor magnificus, bensì importa considerare il pensiero di Anselmo unicamente come un metro valutativo: dal canto loro, infatti, si tratta di capire solo se la dottrina anselmiana è conciliabile o inconciliabile con i problematici insegnamenti di Tommaso d’Aquino. Il francescano de la Mare si impegnerà a mostrare che l’inconciliabilità teoretica fra Tommaso e Anselmo costituisce l’ennesima riprova dell’errore tommasiano; al contrario, i domenicani noteranno che la conciliabilità fra le due posizioni evidenzia invece non solo la bontà simpliciter degli scritti di Tommaso, bensì anche la loro reale appartenenza a un corpus dottrinale tradizionale, che si struttura nel solco inaugurato da Agostino, ripreso successivamente da Anselmo e sviluppato infine da Tommaso.
La discussione sulla libertà e sulla volontà in Anselmo, lo sappiamo, è ormai sufficientemente nota e certamente interessante per il medievista in quanto tale, ma di scarsa utilità in questo preciso contesto in cui, come si vedrà più avanti, la sua figura cede il passo alla querelle fra domenicani e francescani concernente l’accettazione o il rifiuto degli insegnamenti di Tommaso d’Aquino. 4
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3. Intelletto, volontà e libertà. Nei confronti di Anselmo, Tommaso è un erede o un parricida? Valutiamo gli aspetti teoretici che ci interessano. A differenza di quanto sostiene l’Aquinate 5, Guglielmo de la Mare ritiene che l’intelletto non sia in assoluto una potenza migliore della volontà perché il suo oggetto è migliore, e anzi asserisce esattamente il contrario 6. A conforto della sua idea, il francescano cita un passo del De conceptu virginali et originali peccato di Anselmo d’Aosta in cui l’autore afferma chiaramente che dinanzi al comando della volontà l’uomo non può né rimanere immobile, né disobbedire 7. I movimenti umani, è questo il succo del ragionamento, sottostanno all’autorità della volontà: autorità che Dio stesso attribuisce alla volontà e non alla ragione 8. La volontà, quindi, stando a quanto affermerebbe Anselmo agli occhi di Guglielmo, muove la ragione e le altre potenze dell’anima verso l’oggetto considerato volibile, e ciò fa della volontà stessa la potenza migliore. A questa obiezione replicano solo gli autori del Q uare e dello Sciendum. La loro argomentazione, a nostro avviso, cela forse un imbarazzo teoretico, nel senso che né Riccardo Knapwell, né Roberto di Orford citano letteralmente l’affermazione di Anselmo, né la commentano, ma si limitano a parafrasare il suo pensiero e ad accettarlo solo in parte. L’autore del Q uare, infatti, ritiene che Cfr. Thomas Aq uinas, Summa theologiae, Ia, q. 82, a. 3, ed. cura et studio Fratrum Praedicatorum (ed. Leonina, V), Roma 1889, p. 306a. La questione si intitola: Utrum voluntas sit altior potentia quam intellectus. 6 Il titolo della questione discussa da Guglielmo de la Mare e riportata nel Q uare è: Q uod intellectus est simpliciter potentia altior quam voluntas. Cfr. Q uare, pp. 161-167. 7 Cfr. De conceptu virginali, 4, 438A, p. 145, 11-12. Guglielmo de la Mare riprende questa tesi varie volte. Per ulteriori approfondimenti si vedano le seguenti questioni nel Q uare: Q uod intellectus est simpliciter potentia altior quam voluntas (pp. 161-167); Q uod intellectus est optima potentia (pp. 220-222); Q uod imperare est actus rationis (pp. 233-235). 8 Cfr. Q uare, pp. 161-162: «Dicit enim Anselmus, libro de Conceptu virginali et originali peccato, capitulo 4: ‘Si de actionibus voluntariis quae iniustae sunt arguantur membra et sensus corporis quibus fiunt, respondere possunt: Deus nos et potestatem quae in nobis est subiecit voluntati ut ad eius imperium non possumus non movere nos et facere quod ipsa vult; et ita non possumus nec debemus non obedire dominae quam nobis Deus dedit’. Et infra, sequenti capitulo: ‘Voluntas cui subditi sunt omnes voluntarii motus totius hominis’. Haec auctoritas attribuit plane voluntati non rationi dominium». 5
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l’interpretazione del passo anselmiano operata nel Correctorium fratris Thomae da Guglielmo de la Mare sia senz’altro corretta, ma al contempo aggiunge che la lettura del passo di Tommaso posto sotto accusa è più complessa di quanto erroneamente ritiene il francescano, e necessita quindi di una spiegazione ulteriore. Infatti se il de la Mare considera l’azione che la volontà esercita sul l’intelletto e su tutte le altre facoltà dell’anima, allora si può convenire giustamente con lui sulla superiorità della volontà. Il problema però è che – agli occhi di Riccardo Knapwell – Guglielmo non considera la duplicità dei movimenti delle potenze interne all’anima; e così, se per un verso, con Anselmo e il de la Mare, si può affermare che la volontà muove certamente l’intelletto come causa agente a volere un certo bene determinato, si deve anche notare, al contrario, che l’intelletto muove la volontà nel modo in cui il fine muove la causa efficiente. E infatti l’intelletto, che apprende il vero e l’ente, muove la volontà perché il bene inteso (bonum intellectum) – bene che è l’oggetto della volontà – muove la volontà stessa come fine. Si può certamente dire con Anselmo, quindi, che la volontà in quanto muove è superiore all’intelletto, ma senza incorrere in errore si può affermare parimenti con Tommaso che in assoluto la volontà è meno nobile, perché è mossa dal bene inteso dall’intelletto. E così, poiché l’oggetto dell’intelletto è più perfetto di quello della volontà, perché il vero dell’intelletto è in assoluto più nobile della volontà, è chiaro il motivo per cui l’intelletto è in assoluto migliore della volontà 9. Roberto di Orford, nello Sciendum, si pone sulla medesima linea interpretativa del Q uare. La sua indagine, rispetto a quella esposta da Riccardo Knapwell, è più articolata e presenta una spiegazione meno telegrafica del motivo per cui l’intelletto si può dire superiore alla volontà. Per Roberto la volontà muove l’intelletto perché vuole intendere, e ciò avviene perché intendiamo quando vogliamo. L’intelletto, invece, muove la volontà a volere in un certo modo una cosa o un’altra: l’oggetto voluto, quindi, per essere veramente voluto, deve avere la natura (rationem) del bene e del fine, e in questo senso si dice che l’intelletto muove la volontà come fine: fine che, si noti, è la più alta delle cause. In tal modo la ragione, volendo la più alta delle cause, è anche Cfr. Q uare, pp. 163-164.
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la potenza migliore. Pertanto, quando si dice che Anselmo d’Aosta attribuisce l’autorità del comando alla volontà e non alla ragione, si deve rispondere che egli non parla in quel contesto della ragione e quindi non la esclude, perché come si è già detto – ed è questa anche la posizione di Aristotele – la volontà si trova nella ragione. Per chiarire ulteriormente il suo pensiero, Roberto fa inoltre ricorso anche alla distinzione tomista di esercizio e di determinazione del l’atto, mostrando che quanto al l’esercizio è la volontà a muovere la ragione, mentre relativamente alla determinazione – e in assoluto – è la ragione che muove la volontà. E così, a suo avviso, dopo aver chiarito la duplicità dei movimenti delle potenze dell’anima, si può ben comprendere in che senso devono essere intese le parole del Doctor magnificus. Infatti, quando Anselmo dice che noi siamo soggetti alla nostra volontà e dinanzi al suo ordine dobbiamo muoverci, in realtà non fa altro che evidenziare come la ragione che comanda compia il suo atto non senza la volontà: il primo motore quanto all’esercizio del l’atto è la volontà, e poiché il secondo motore muove solo in virtù del primo, la ragione muove comandando la volontà in virtù della volontà stessa 10. Secondo questa lettura, quindi, Anselmo con la sua affermazione avrebbe analizzato solo un aspetto della volizione umana, e precisamente quello relativo all’esercizio dell’atto; ma Tommaso, è questa l’idea di Roberto, ci ha fatto vedere che i movimenti della volontà sono due, e non uno. Pertanto, non ci si deve mai dimenticare che di fianco all’esercizio dell’atto c’è la specificazione dell’atto, e in quest’ultimo caso, di fronte al bene determinato, la volontà vuole ciò che l’intelletto ha giudicato volibile. Riccardo Knapwell e Roberto di Orford, seppur con delle sfumate differenze, sembrano fin qui aver retto il colpo. Diverso sarà 10 Cfr. Sciendum, p. 213: «Cum Anselmus dicit: Deus subiecit nos et potestatem nostra voluntati ut ad eius imperium non possumus non movere nos; et loquitur de potentia membrorum et sensum; non igitur a ratione sed a voluntate imperatur; dicendum est quod hoc ideo dicitur quia ratio imperat in virtute voluntatis; imperare enim est actus rationis cum quadam motione ordinantis ad aliquid agendum; primum autem movens quantum ad exercitium actus in viribus animae et voluntas; quia igitur secundum movens non movet nisi in virtute primi moventis, ideo quod ratio movet imperando est ei ex virtute voluntatis».
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invece il risultato che si concretizzerà dalla discussione relativa alla genesi dell’atto malvagio: discussione in cui affiora, fra l’altro, anche lo spinoso problema relativo alla libertà umana. Dal punto di vista teoretico la difficoltà consiste nel comprendere se l’origine del peccato è da rintracciare nella ragione, come vorrebbero gli intellettualisti, o nella volontà, come pensano i volontaristi. Tommaso, è argomento noto, attribuisce la responsabilità del peccato alla volontà, che secondo i suoi intendimenti si troverebbe a seguire l’intelletto, a cui in un dato momento mancherebbe la giusta regola 11. L’opposizione di Guglielmo de la Mare è netta: che l’origine del male sia la ragione – dice il francescano – è assolutamente falso, perché altrimenti si dovrebbe ammettere che il male si trova nella ragione e non nella volontà. Tale idea, fra l’altro, è in contrasto anche con quanto sostiene Anselmo sia nel De similitudinibus sia nel De casu diaboli. Nel primo di questi due scritti, infatti, il Doctor magnificus afferma che nell’uomo la volontà è l’origine di ogni male; e nel De casu diaboli aggiunge che niente è detto malvagio se non la volontà o per la volontà 12. Di fronte ad affermazioni di questo tenore si può ben comprendere l’imbarazzo nel quale si vengono a trovare i domeni11 Cfr. Thomas Aq uinas, Summa Theologiae, Ia-IIa, q. 74, a. 1, in corp., ed. Leonina, VII, Roma 1892, p. 35ab: «Peccatum quidam actus est, sicut supra [scil. q. 21, a. 1; q. 71, aa. 1, 6] dictum est. Actuum autem quidam transeunt in exteriorem materiam, ut urere et secare (…). Q uidam vero actus sunt non transeuntes in exteriorem materiam, sed manentes in agente, sicut appetere cognoscere: et tales actus sunt omnes actus morales, sive sint actus virtutum, sive peccatorum. Unde oportet quod proprium subiectum actus peccati sit potentia quae est principium actus. Cum autem proprium sit actuum moralium quod sint voluntarii, ut supra [scil. q. 1, a. 1; q. 18, aa. 6, 9] habitum est; sequitur quod voluntas, quae est principium actuum voluntariorum, sive bonorum sive malorum, quae sunt peccata, sit principium peccatorum. Et ideo sequitur quod peccatum sit in voluntate sicut in subiecto». 12 Cfr. Q uare, p. 241: «Si sic intelligatur proprium principium mali actus, illud scilicet quod proprie malum facit est ratio, falsum est et etiam videtur erroneum: tum quia ex hoc sequitur quod non sit peccatum in voluntate nisi prius fuerit error in ratione, quod reputatur erroneum ut alibi ostensum est, et est contra Augustinum (…). Q uod autem non ratio sed voluntas sit proprium principium mali actus dicit Augustinus (…). Item Anselmus, libro de Similitudinibus, capitulo 9: ‘Propria voluntas in homine est exordium omnis mali’; et idem, de Casu diaboli, 19 capitulo: ‘Nulla res dicitur mala nisi voluntas aut propter voluntatem’». Cfr. Liber Anselmi archiepiscopi de humanis moribus per similiitudines, 8, p. 41, 9-10; De casu diaboli, 351A, p. 264, 15-16.
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cani. E che i difensori di Tommaso siano in oggettiva difficoltà lo si può notare dal fatto che le citazioni di Anselmo proposte da Guglielmo de la Mare sono riportate timidamente solo dal Q uare e dal Circa (nello Sciendum e nel Q uaestione si omettono invece del tutto i riferimenti ai passi del De similitudinibus e del De casu diaboli); a ciò si aggiunga che gli stessi Riccardo Knapwell e Giovanni Q uidort replicano alle obiezioni di Guglielmo senza parafrasare, né tantomeno citare i due problematici passi di Anselmo, ma si limitano semplicemente a reinterpretare l’insegnamento di Tommaso, nel tentativo di mostrarne la sua accettabilità. Se non abbiamo inteso male, l’obiezione presentata nel Correctorium fratris Thomae, in un certo senso, colpirebbe nel segno: i domenicani, infatti, stando a quello che si vede, non forniscono alcuna risposta – né diretta, né indiretta – alle affermazioni di Anselmo riportate dal de la Mare. Non si deve però pensare che gli autori del Q uare e del Circa, benché non replichino esplicitamente al Doctor magnificus, non siano in grado di formulare complessivamente una risposta alle accuse di Guglielmo. Riccardo Knapwell e Giovanni Q uidort, infatti, reagiscono nel medesimo modo alle obiezioni mosse nel Correctorium fratris Thomae, sostenendo che per Tommaso la ragione non pecca senza la volontà, quindi l’obiezione di Guglielmo è indebita e incomprensibile 13. In ogni caso, ritornando al tema del nostro lavoro, riteniamo di aver fornito alcuni elementi utili a dimostrare come i domenicani non siano sempre in grado di giustificare la dottrina di Tommaso alla luce di Anselmo.
Cfr. Q uare, pp. 242-243: «Sic igitur duplex causa interior peccati potest assignari: una proxima a parte rationis et voluntatis; alia vero remota a parte imaginationis et appetitus sensitivi. Sed quia causa peccati est aliquod bonum apparens cum defectu debiti motivi, scilicet regulae rationis vel legis divinae, ipsum motivum quod est apparens bonum pertinet ad sensus apprehensionem et appetitum sensitivum; ipsa vero absentia regulae pertinet ad rationem quae nata est huiusmodi regulam considerare; sed ipsa perfectio actus voluntarii pertinet ad voluntatem ita quod ipse actus voluntatis, praemissis suppositis, iam est peccatum quoddam. Haec sunt verba Thomae ex quibus patet quod non ponit quod ratio, exclusa voluntate, prout isti falso imponunt sibi, sit proprium principium vel causa mali actus, cum ponat peccatum in ipso actu voluntatis consistere». Giovanni Q uidort, autore del Circa, riprende il testo del Q uare e lo fa suo, pur senza citarlo (cfr. Circa, pp. 277-278). 13
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4. De libertate arbitrii, i motivi di un’assenza Si è già notata di sfuggita la sorprendente assenza dei passi relativi al De libertate arbitrii nella letteratura controversistica dei Correctoria. A nostro avviso, è curioso che il testo anselmiano nel quale, forse più che in altri, si è discusso della libertà umana venga completamente trascurato da chi, sia in ambito francescano sia in quello domenicano, proprio relativamente alle questioni sulla libertà del volere, si impegna a mostrare la propria coerenza dottrinale con l’opera del Doctor magnificus. La domanda che ci poniamo è la seguente: quali sono i motivi che potrebbero aver indotto Guglielmo e gli autori dei Correctoria a omettere quest’opera dal dibattito? Da quest’interrogativo ne sorge subito un altro: non sarà forse il motivo di questa esclusione da ricercare nella stessa idea di libero arbitrio sostenuta da Anselmo? Prima di giungere a conclusioni affrettate cerchiamo di capire, in sintesi, qual è il concetto di libertà sviluppato da Anselmo nel De libertate arbitrii. Il dialogo in questione si apre con quella che a prima vista potrebbe sembrare una contrapposizione irredimibile: come è possibile conciliare contestualmente la libertà della creatura umana con la necessità della grazia, della predestinazione e della prescienza divina 14? L’una, infatti, sembrerebbe escludere le altre. La soluzione del problema non è immediata. Infatti, prima di risolvere questa prima difficoltà, Anselmo risponde a due ulteriori domande: cos’è il libero arbitrio? E ancora: lo possediamo sempre o solo in determinate circostanze? Per Anselmo il libero arbitrio è il potere di conservare la rettitudine della volontà per la rettitudine stessa 15. Essere liberi, quindi, non significa avere il potere di peccare o di non peccare, perché se fosse davvero così, allora saremmo anche costretti ad ammettere che Dio e gli angeli confermati nella grazia, e che non possono fare il male, non sarebbero liberi, bensì necessitati. Si noti, inoltre, che il peccare è un difetto e quindi è più libera la libertà che non può peccare di quella che invece è in grado, alternativamente, di com14 Il tema, come è noto, è sviluppato da Anselmo anche nel De concordia, 507A-542A, pp. 245, 1 - 288, 19. 15 Cfr. De libertate arbitrii, 3, 494B, p. 212, 19-20: «Libertas arbitrii est potestas servandi rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem».
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piere un atto buono o uno malvagio 16. Da ciò appare chiaro che il peccato, in quanto diminuisce la libertà, non può far parte della libertà stessa. Ora, chi pecca, pecca sì in virtù del suo libero arbitrio, ma non pecca perché il suo arbitrio è libero. Pertanto, il potere di compiere un atto malvagio non è libertà, ma è una debolezza della libertà; la libertà, infatti, è stata donata all’uomo da Dio non affinché la creatura faccia ciò che vuole, ma perché voglia ciò che è giusto volere 17: in questo senso, quindi, Anselmo afferma che la libertà è il potere di conservare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa: rettitudine che non può essere tolta neppure da Dio. Da queste premesse si coglie la ragione per cui Anselmo definisce la libertà suprema come la volontà retta: solo la volontà che vuole ciò che deve volere è pienamente libera. A questo punto, compresa seppur a grandi linee la teoria della libertà anselmiana, dovremmo tentare di capire a chi – fra i protagonisti della tenzone – conviene sottacere il De libertate arbitrii. Ma prima di proseguire nella nostra indagine, crediamo sia utile fare un piccolo passo indietro. Guglielmo de la Mare, lo si è visto, ritiene – a differenza di Tommaso d’Aquino – che la causa del peccato debba essere rintracciata nella volontà libera e non nell’intelletto. Si può notare già da questa prima considerazione come l’interesse di Guglielmo sia del tutto circoscritto alla descrizione del rapporto che insiste tra la libertà e la capacità della scelta volontaria, e quindi alla dimostrazione che l’uomo può volere qualcosa – che a sua volta potrà essergli imputato – proprio perché è libero. Sia chiaro, anche per il francescano – così come è per Anselmo – la libertà in assoluto tende al bene e fugge il male, e quindi per il semplice fatto che l’uomo compie il peccato liberamente non si intende che egli è anche in grado di scegliere liberamente il male in quanto male. Q ui l’autore del Correctorium sta dicendo semplicemente che la libertà ha la sua radice nella volontà, e che l’atto malvagio può dirsi effettivamente tale solo
Cfr. ibid., 1, 489B-491B, pp. 208, 3 - 209, 6. Cfr. ibid., 3, 493A, p. 211, 5-8: «M.: Ad quid tibi videntur angeli et homini illam habuisse libertatem arbitri: an ad assequendum quod vellent, an ad volendum quod deberent (…)? D.: Ad volendum quod deberent». 16 17
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se è volontario, e in quanto volontario anche libero 18. Guglielmo de la Mare descrive quindi il modo in cui la libertà e la capacità di scelta si integrano fra loro; Anselmo, invece, nel suo De libertate arbitrii, tende a scorporare proprio la libertà dalla capacità di scegliere il male, in quanto secondo il Doctor magnificus la fallibilità non caratterizza costitutivamente la libertà in sé. Sta forse qui la soluzione alla questione che avevamo posto. A nostro avviso, Guglielmo sceglierebbe di non citare il De libertate arbitrii semplicemente perché non gli è utile; e non gli è utile perché allontanare fra loro i concetti di libertà e di capacità di scelta, che il francescano vuole invece integrare, oltre che sviare l’attenzione dalla questione che si va discutendo, potrebbe anche prestare il fianco alla replica domenicana. Dal canto loro, però, gli autori dei Correctoria non pensano di sfruttare questo imbarazzo di Guglielmo de la Mare a proprio vantaggio, e il perché è presto detto: i domenicani si trovano spesso in difficoltà quando devono mostrare l’analogia fra la libertà del volere di Tommaso d’Aquino e di Anselmo d’Aosta; ed è chiaro, quindi, che se non sono costretti dal de la Mare a fare riferimento al Doctor magnificus si guardano bene dal citarlo. Si aggiunga, inoltre, che gli autori dei Correctoria intendono mostrare semplicemente che l’atto malvagio si genera a causa di un errore della ragione, e in virtù di una tale considerazione servirebbe forse a poco affermare – così come Anselmo fa nel De libertate arbitrii – che essere liberi non vuol dire avere la facoltà di peccare e di non peccare.
18 Cfr. Q uare, p. 241: «Q uia sic aliquid esset peccatum propter defectum rationis, non voluntatis, et sic non omne peccatum esset voluntarium».
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LA NON-UNIVERSALITÀ DEL PRINCIPIO DI CONTRADDIZIONE: UN’IPOTESI SU UN APPROCCIO FILOSOFICO DA ANSELMO D’AOSTA A DUNS SCOTO
1. Introduzione Voglio proporre in questo mio scritto due tesi principali: la prima consiste nell’affermare che vi sono buoni elementi per suggerire una lettura storiografica del pensiero di Anselmo d’Aosta come un pensiero paraconsistente, ossia un pensiero che riflette un modello di razionalità che limita la validità universale del principio di contraddizione, non già rifiutando l’approccio logico-formale a forte connotazione ontologica, bensì propugnando un modello paraconsistente (quindi, non-classico) quale migliore modello di razionalità a vocazione logico-formale ed a forte connotazione ontologica 1; la seconda consiste nel l’affermare che si può tracciare in forza dell’interpretazione storiografica paraconsistente una continuità di famiglia 2 tra 1 Sin da subito, è bene precisare che in una prospettiva paraconsistente nessun sistema logico-formale può essere dissociato da un sistema ontologico, dato che la negazione della legge ex falso sequitur quodlibet impone la necessità di un criterio ontologico, e non già combinatorio tramite le tavole di verità, per distinguere tra le contraddizioni lessicali vere e quelle false. La distinzione tra un piano logico ed un piano ontologico ha quindi nella prospettiva paraconsistente certamente un valore euristico, ma non già sostanziale. Q uesto segna una dissonanza con l’approccio dominante del ventesimo secolo in cui, sulla scorta del positivismo logico e della prospettiva riduzionistica, si è prospettata una logica formale senza impegno ontologico: vi sono state numerose eccezioni – si pensi alla feconda e plurale scuola polacca tra le due guerre mondiali, oppure ad autori come Saul Kripke oppure Alvin Plantinga –, ma certo anche un qualsivoglia approccio paraconsistente non può assumersi questo dis-impegno ontologico dell’anti-metafisica novecentesca, peraltro in corso di declino negli ultimi decenni del ventesimo secolo. 2 Uso qui ‘famiglia’ nella valenza semantica tipica del l’approccio ai giochi linguistici di Wittgenstein, che parla nell’analisi del linguaggio di ‘somiglianze
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 463-496 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112930
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le strategie filosofiche anselmiane e quelle scotiane, tanto da poter parlare – non certo sullo spettro della globalità delle loro dottrine, bensì in materia di ontologia formale – di una linea anselmiano-scotiana che confluisce nella costruzione del volontarismo come strategia filosofica 3. Ambedue queste tesi non si propongono di essere esclusive di altri approcci storiografici, che manterrebbero intatta tutta la loro validità anche se le tesi che propongo fossero accolte come almeno parzialmente persuasive. In nessun caso quindi voglio proporre che questa sia l’unica chiave di lettura corretta ed adeguata del pensiero di Anselmo, che viene qui colto nella sua specifica dimensione di filosofo analitico e di grande logico ed ontologo, sempre sotto il segno di un approccio formale. Anzi, nel di famiglia’, Familienänlichkeiten: il testo manoscritto tedesco Philosophische Untersuchungen venne riprodotto e tradotto per la prima volta da Anscombe in L. Wittgenstein, Philosophical Investigations, Oxford 1953, § 67, pp. 32-32e (tr. it. Ricerche filosofiche, Torino 1967, p. 47): per il passaggio in inglese e tedesco, si veda anche la quarta edizione dell’edizione bilingue, L. Wittgenstein, Philosophical Investigations, Oxford 2009, pp. 36-37e. Riscontrare una comunanza di air de famille non implica identità dottrinale, bensì una contiguità semantica che non è scalfita dalla distinzione semantica, nel modo in cui c’è una somiglianza di famiglia tra un padre e suo figlio anche se i loro nasi, le loro bocche oppure i loro capelli sono in fondo diversi: per altro verso, ci può essere somiglianza di famiglia anche tra un cane ed il suo padrone, anche se in questo caso nessuno può sospettare una relazione biologica – è un tema da ironia grafica alla Jean-Jacques Sempé, ma non irrilevante. 3 Per la discussione del volontarismo ontologico rinvio a L. Parisoli, Oggetti e norme: ontologia e volontà nella lettura paraconsistente di Giovanni Duns Scoto, in Giovanni Duns Scoto. Studi e ricerche nel VII Centenario della sua morte, a c. di M. N. Carbajo, 2 voll., Roma 2008, I, pp. 395-427. Mi pare opportuno precisare, attraverso delle proposte di definizioni analitiche, limitate nella speranza di non essere troppo ambigue, che la parola ‘volontarismo’ non deve caricarsi della semantica legata alla parola ‘arbitrario’: la mia idea è che la storia semantica della parola ‘volontarismo’ nella filosofia moderna, ed in particolare nel contesto ottocentesco e novecentesco tra cultura politica e scientifica, renda difficile comprendere un uso medievale della semantica di ‘volontà’ che non è affatto assimilabile alla discussione humeana della Ragione schiava delle passioni, capitale invece per comprendere il pensiero successivo anche alla luce del paradigma anti-humeano sviluppato dal suo contemporaneo Thomas Reid, autore ampiamente analizzato e sviscerato da Alvin Plantinga in una prospettiva di attualità teoretica: cfr. A. Plantinga, Warrant and Proper Function, New York 1993; Id., Warrant: the Current Debate, New York 1993; Id., Warranted Christian Beliefs, New York 2000. Ed anche gli autori non-volontaristi medievali, come Tommaso d’Aquino, mi paiono immersi in un universo semantico radicalmente pre-humeano.
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formulare le mie tesi sono consapevole che esse non risultano quasi neppure formulabili se non si ammette almeno la mera possibilità teoretica di una razionalità paraconsistente, e se pure si è compiuto questo primo passo, occorre poi mostrare che una griglia di lettura paraconsistente di Anselmo risulta appropriata, anche se magari non la si condivide poiché se ne preferisce una conforme alla logica classica, oppure un’altra ancora che non esasperi l’aspetto di ontologia formale nel suo pensiero. Il mio scopo non è quello di convincere che l’unica lettura possibile di Anselmo sia quella paraconsistente, uno scopo che sarebbe tanto ambizioso quanto folle senza una preliminare perorazione in favore della paraconsistenza tout court; mi riprometto solo di mostrare la validità storiografica di una lettura paraconsistente del suo pensiero, in linea con quello scotiano, proponendo questa griglia storiografica come una possibile opzione tra le altre largamente testimoniate nella letteratura secondaria. Se la mia proposta è chiaramente alternativa a quella di una lettura in chiave di logica classica dell’ontologia formale anselmiana, essa non è alternativa ad altre chiavi di lettura che non esasperino il tema dell’ontologia formale 4. Ad un’analisi successiva si potrebbe mostrare che da un lato la lettura paraconsistente non è per esempio identica ad una lettura anselmiana che ne esaspera gli elementi specifici – nel discorso del filosofo scanditi secondo una indubitabile funzione della retorica argomentativa – che sono portatori di una cultura tipicamente monastica; dall’altro lato, però, potrebbe essere del tutto compatibile e nondifforme da questa lettura incentrata sulla cultura monastica 5. Mi limito qui a propormi solo di mostrare che una lettura para4 Una rappresentazione equilibrata ed efficace del pensiero di Anselmo d’Aosta in chiave manualistica tale da renderne la divergenza negli approcci storiografici mi pare quella di M. Pereira, La filosofia nel Medioevo. Secoli VI-XV, Bari 2008, pp. 99-109, con la sintesi finale alle pp. 108-109. 5 Penso a letture anselmiane come quella di M. Parodi, Il conflitto dei pensieri. Studio su Anselmo d’Aosta, Milano 1988, all’agatosofia come ontologia del Bene proposta da Christian Trottmann e al lucido quadro dell’arte dialettica tratteggiato da Giulio d’Onofrio, sino alla valorizzazione della recta ratio da parte di Italo Sciuto, che mi pare del tutto compatibile con la mia tesi del volontarismo ontologico. L’elenco è puramente indicativo di un ventaglio di approcci che sono ‘classicisti’, eppure ad analisi ulteriori potrebbero rivelarsi del tutto concordi con il mio approccio paraconsistente.
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consistente delle strategie anselmiano-scotiane non è priva di utilità storiografica, e che se vi fossero ragioni teoretiche per preferire oggi la logica paraconsistente alla logica classica, allora vi sarebbero eccellenti ragioni per preferire una lettura paraconsistente di questi due autori, piuttosto che attribuire loro delle curvature aporetiche in un contesto di razionalità classica. In assenza di tali ragioni teoretiche, la mia analisi si espone ad un rischio o di contro-persuasività (se si danno buone ragioni in favore della logica classica) oppure di irrilevanza (se si considera irrilevante l’esasperazione dell’approccio ontologico-formale in Scoto). Un precedente illustre nella storiografica filosofica che prende in considerazione l’opzione paraconsistente per rendere conto di una strategia filosofica – nel caso, la dialettica – e poi ritiene tale opzione non convincente poiché fanno difetto delle buone ragioni per l’opzione teoretica paraconsistente, è quello di Enrico Berti 6. Sebbene si tratti di un documento filosofico autorevolissimo, non posso che dire a mia volta di non trovare persuasivi gli argomenti avanzati da Berti contro approcci come quello di Lukasiewicz – che riconosce solo una valenza morale, e non già ontologica, agli argomenti apportati da Aristotele all’universalità del principio di contraddizione – o come quello di Routley. In ultima analisi, il punto di dissenso cruciale è uno solo: mentre Berti ritiene che la distinzione tra una contraddizione assoluta e una relativa sia un’oscurità terminologica in Routley, a me pare che essa sia piuttosto l’idea base di ogni approccio paraconsistente, suscettibile di una soddisfacente formalizzazione 7, purché essa sia correttamente intesa come distinzione tra contraddizione lessicale e contraddizione semantica in una logica in cui l’ope6 L’opera, riferimento essenziale per chiunque voglia cimentarsi in un esercizio di storiografia paraconsistente prendendo la misura di una ponderata analisi dell’approccio classicista, è la seguente: E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Palermo 1987; si vedano anche altri saggi della sua poderosa produzione, come Id., Coincidentia oppositorum e contraddizione in Cusano, De docta ignorantia I 1-6, ora in Id., Nuovi studi aristotelici. IV/1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Brescia 2009, pp. 209-224. 7 Rinvio a quella che ne offre L. Peña, Introducción a las lógicas no clásicas, Ciudad Universitaria (México) 1993, p. 47 (due funtori di negazione, ossia due diverse tavole di verità per due negazioni diverse) e pp. 89-94 (proliferazione dei principi di contraddizione in funzione dei funtori di negazione, con una supercontraddizione che è sempre falsa ed una piccola contraddizione che a volte è vera, a volte è falsa).
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ratore formale di negazione non è monistico (come nella logica classica), bensì duale (come nel neo-platonismo e nella logica paraconsistente), tanto che le contraddizioni sempre false sono quelle lessicalmente composte con la negazione assoluta, mentre quelle a volte vere e a volte false sono quelle composte con la negazione relativa 8. Nel mio libro La contraddizione vera 9 ho proposto un’interpretazione paraconsistente (ossia, per assunzione di una logica che limita la validità universale del principio di contraddizione, il quale diviene in questa nuova prospettiva una legge locale e non già un principio universale) della filosofia di Giovanni Duns Scoto. Voglio qui proporre di applicare questa opzione storiografica ad Anselmo d’Aosta: vi è un riferimento obbligato, forse unico, ma ai miei occhi assolutamente rilevante, nel panorama storiografico. In maniera sistematica, Lorenzo Peña ha proposto una lettura paraconsistente del pensiero di Anselmo, evocando la sua posizione realista sul problema degli universali 10 ed inserendolo nella sua storia paraconsistente della filosofia 11. 8 Discuto brevemente la distinzione tra polisemia della negazione nell’ambito della logica classica e natura duale dell’operatore di negazione nella logica paraconsistente in L. Parisoli, Le dépassement de la logique classique et les paradoxes des normes fondamentales, in L’architecture du droit. Mélanges en l’honneur du Professeur Michel Troper, éd. par D. de Béchillon – P. Brunet – V. ChampeilDesplats – É. Millard, Paris 2006, pp. 763-773. Riconoscere la forma di questa strategia non significa anche condividere il fatto che la natura della negazione sia duale: a me pare, nonostante l’opinione contraria di Berti, che la strategia di Routley si basi proprio su questa idea della possibilità di una logica formale che assuma un doppio operatore di negazione. Personalmente, passando al corrispettivo ontologico, credo che la riflessione neo-platonica (Siriano, Proclo, Dionigi Aeropagita) abbia portato ampio materiale in favore di una concezione duale della negazione, che mi pare già presente, come indica Peña, nei dialoghi platonici del Sofista e del Parmenide. 9 Cfr. L. Parisoli, La contraddizione vera. Giovanni Duns Scoto tra le necessità della metafisica e il discorso della filosofia pratica, Roma 2005. 10 Cfr. L. Peña, Le sens gnoseologique de la preuve de saint Anselme, Q uito 1975. La prospettiva è più quella dell’attualità teoretica che quella della contestualizzazione storica: la fama dell’argomento anselmiano nei secoli mi pare giustifichi questo approccio in pieno, anche dopo il cambiamento radicale di scenario metafisico operato da Immanuel Kant, che nel corso della sua produzione scientifica passa dall’accettazione della persuasività dell’argomento anselmiano al suo fermo rifiuto. 11 Cfr. Id., El ente y su ser, Léon 1986. All’infuori degli articoli di autori come Priest e Routley, questo volume mi sembra l’unico ‘manuale’ di storia paraconsistente della filosofia.
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Si tratta di un approccio essenzialmente metafisico – vuoi per la scelta teoretica di Lorenzo Peña, che prospetta un impegno ontologico nella procedura di formalizzazione del discorso logico, vuoi per la scelta dell’autore di cui si tenta una ricostruzione storiografica, nel mio caso, Giovanni Duns Scoto – che, al di là di sterili discussioni verbali, è innegabilmente un autore che discute alla luce di una forte relazione tra linguaggio e mondo reale, e non già del linguaggio in quanto linguaggio. È possibile un approccio non-metafisico alla logica paraconsistente, come quello riproposto recentemente nell’ultimo volume di Nicola Grana 12. Egli si muove su un terreno di filosofia della matematica, rispetto al quale vi è accordo sostanziale sulle tesi discusse, salvo che l’approccio metafisico assume un impegno ontologico che l’approccio non-metafisico programmaticamente non mette in campo. Si pensi, per meglio rendere conto della differenza tra un approccio metafisico e uno non-metafisico alla logica (classica o paraconsistente), al caso delle geometrie noneuclidee: esse superano l’idea che il postulato euclideo dell’unicità della parallela sia dimostrabile, e lo sostituiscono con postulati che ammettono più di una, o meno di una, parallela. Se si ritiene che questi sistemi non-euclidei descrivano gli oggetti reali del mondo, si ha un impegno ontologico e quindi un approccio metafisico; se invece si ritiene che sia solo possibile considerarli validamente oppure invalidamente costruiti, si riduce l’impegno ontologico e si ha un approccio non-metafisico 13. La mia prospettiva storiografica può essere evocata richiamando una citazione da Blaise Pascal, che pone in dubbio il passaggio dalla contraddizione lessicale – la congiunzione di un enunciato e della sua negazione – alla contraddizione semantica – l’interpretazione semantica per cui la congiunzione lessicale appena evocata è sempre falsa:
12 Cfr. N. Grana – N. A. da Costa, Il recupero dell’inconsistenza, Napoli 2009; cfr. anche N. Grana, Dalla logica classica alla logica non-classica, Napoli 2006. 13 Q uesto ci fa comprendere come in un clima culturale in cui si predilige la modestia dell’impegno ontologico del discorso matematico si impongano di fatto metafisiche nominalistiche, se non reti semantiche anti-metafisiche (fine Ottocento e Novecento).
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Contradiction est une mauvaise marque de vérité. Plusieurs choses certaines sont contredites, plusieurs fausses passent sans contradiction; ni la contradiction n’est marque de fausseté, ni l’incontradiction n’est marque de vérité 14.
La prospettiva di Pascal potrebbe essere abbracciata anche da un partigiano della logica classica, anche se nelle tendenze contemporanee il nominalismo ed il riduzionismo tendono a far coincidere la non-contradditorietà con la verità: si pensi alla celebre posizione del matematico David Hilbert secondo la quale la matematica – purgata da ogni ambizione platonizzante – non deve occuparsi più della verità, bensì della validità (non-contradditorietà). Tuttavia, le osservazioni di Pascal muovono anche da una insoddisfazione generata dall’applicazione degli schemi logico-formali alla complessità del mondo, composto di oggetti reali; si può rifiutare di applicare la logica formale alla spiegazione di ciò che più conta nel mondo, come fece buona parte della filosofia moderna, oppure, se si vuole comunque applicare la logica formale alla comprensione del mondo, assunta l’osservazione di Pascal, si può lasciar cadere la logica classica in favore di una logica capace di distinguere tra contraddizioni vere e contraddizioni false perché non si dissocia mai da una adeguata ontologia 15. 14 B. Pascal, Pensées, Incertitudes des connaissances naturelles de l’homme, IV, § 14, Paris 1854, p. 158. 15 Nel contesto della logica classica, tale capacità è inconcepibile; ma una logica paraconsistente è indissociabile da una correlata ontologia, come osserva Richard Routley. Rinvio a quanto ne dico in Parisoli, La contraddizione vera cit., pp. 35-36, rifacendomi al classico volume di R. Routley, Relevant logics and their rivals. Part 1: The basic philosophical and semantical theory, Atascadero 1982. Si noti che come nei partigiani della logica classica si riscontrano ontologie radicalmente divergenti (da quelle misere di Q uine e Goodmann sino a quelle lussureggianti di Kripke e Plantinga e a quella ancora più lussureggiante di Meinong, ma con lui si entra nella paraconsistenza, almeno secondo quanto reputa lo stesso Routley, cfr. Id., Exploring Meinong’s Jungle and Beyond, Canberra 1980), allo stesso modo i partigiani della logica paraconsistente possono prediligere ontologie più o meno lussureggianti, più o meno misere. Tuttavia, i partigiani della logica paraconsistente sono in rotta di collisione con ontologie particolarmente misere, quali quelle sulla falsariga del Circolo di Vienna, dato che il partigiano della logica paraconsistente rifiuta l’idea che il discorso della logica formale sia indipendente da uno specifico discorso ontologico. In effetti quest’ultimo, per cercare di chiarire una perplessità di Berti, è lo strumento per discriminare tra contraddizioni vere e contraddizioni false.
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2. Paraconsistenza e tesi filosofiche anselmiane La chiave di lettura storiografica di Peña oppone l’essenzialismo aletico (Aristotele, per esempio: la verità si predica di enti mentali) all’essenzialismo ontico (Platone, in modo incerto, gli stoici certamente, per esempio: enti reali sono non-esistenti) 16: nella storiografia medievale, a volte si usa la locuzione ‘realismo moderato’ per indicare l’essenziale aletico, ed è il caso di Tommaso; a volte si usa la locuzione ‘realismo ingenuo’ – con connotazione dispregiativa – oppure ‘realismo estremo’ per indicare l’essenzialismo ontico, ed è il caso di Guglielmo di Champeaux, di Anselmo d’Aosta, di Giovanni Duns Scoto (anche se non è mancato chi abbia qualificato Duns Scoto come un nominalista, il che testimonia dei puzzle storiografici e semantici che si propongono nella letteratura secondaria). Pur riconoscendo la validità storiografica di tutte queste locuzioni, io parlerò di ‘realismo’ come sinonimo di ‘essenzialismo aletico’ (ossia, per stipulazione, la verità si predica di enti mentali), e lo potrò applicare tanto ad Aristotele quanto ad Hilary Putnam, e di ‘iper-realismo’ come sinonimo di ‘essenzialismo ontico’ (ossia, per stipulazione, enti reali sono non-esistenti), e mi propongo di predicarlo di Anselmo e di Giovanni Duns Scoto 17. In ogni caso, la chiave di lettura di Peña mi pare particolarmente adatta sia al progetto storiografico paraconsistente, sia ad autori come Anselmo, Giovanni Duns Scoto, Gilberto di Poitiers che producono un discorso in cui lo statuto metafisico di oggetto è concesso anche a entità non-empiriche (non spazio-temporali), laddove gli oggetti sono indipendenti dalla mente umana 18. 16 Cfr. Id., El ente y su ser cit., pp. 37-39. Peroro pro domo mea la carità interpretativa del lettore: questi non dovrebbe discostarsi dalle proposte stipulative che propongo a partire dalla letteratura che cito, in caso contrario sarebbe fin troppo facile trovare discordanze sulle base di una letteratura secondaria che non conosce un lessico di base uniforme ed omogeneo, bensì piuttosto ingannevoli sabbie mobili. 17 Una locuzione come quella di ‘realismo ingenuo’, invece, mi pare inopportuna; considero preferibile parlare di una tesi metafisica non-persuasiva, ma la valenza dispregiativa della locuzione mi pare inadeguata ad un discorso di storia delle idee che non voglia sublimarsi in una filosofia della storia. Insomma, io vorrei spezzare una lancia in favore di Guglielmo di Champeaux contro l’ironia caustica di Pietro Abelardo. 18 M. Della Serra, Non omnia potens. Spunti per una grammatica del l’onnipotenza in Anselmo d’Aosta, in «Gregorianum», 91 (2010), pp. 29-42,
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Lo storico del pensiero che si ponga una griglia paraconsistente deve stare attento a non scambiare qualunque dissonanza dal più rigido canone classicista per un segno di logica paraconsistente: vi sono approcci alla logica che innovano lo standard classico, quindi possono dirsi non-classici, senza per questo limitare la validità universale del principio di contraddizione, e dunque non possono dirsi paraconsistenti. Un caso noto nel ventesimo secolo è quello della logica intuizionistica, che rifiuta come formula tautologica quella per cui la doppia negazione di una variabile implica l’affermazione della stessa variabile: sebbene questo risultato possa essere motivato da una tensione paraconsistente, la logica intuizionistica si limita alla conseguenza formale per cui la dimostrazione per assurdo non è più una dimostrazione valida, ma senza impegnarsi in alcun modo sul terreno ontologico della natura duale dell’operatore di negazione 19. Peña evoca il caso di Avicenna, che etichetta storiograficamente come un irrealista, dato che per lui la negazione non è determinata indipendentemente dalla mente, ossia la negazione di una proprietà in una proposizione è un’operazione condotta dall’intelletto umano senza una corrispondenza biunivoca con il mondo 20; questa concezione si accorda con il monismo della logica classica, in cui la tavola di verità dell’operatore logico di negazione è un parametro combinatorio particolarmente semplice (se A è vero, allora non-A è falso, e se A è falso, allora non-A è vero). D’altro canto, l’idea che la negazione abbia anche un senso in cui è determinata indipendentemente dalla mente richiede una concezione duale non-classica della negazione, e solo essa permette la persuasività dell’argomento ontologico, ossia di collocare pienamente la tesi per cui l’esistenza di Dio è necessaria. Premessa indispensabile è che si diano due tipi di negazione realmente distinti: una afferma che il criterio dell’empirico non ha neppure un valore euristico fondante per Anselmo; la potenza divina non può essere compresa in base al criterio della rappresentabilità empirica (cfr. ibid., p. 41). 19 Agli intuizionisti premeva che ogni oggetto geometrico e matematico venisse ‘costruito’ nel corso della dimostrazione, cosa che appunto non avviene nel caso della dimostrazione per assurdo. La loro logica restava quindi sotto la vigenza universale del principio di contraddizione; il loro progetto venne accantonato dai matematici per il fatto che le dimostrazioni divenivano incredibilmente più laboriose e contorte, quindi ineleganti. 20 Cfr. Peña, El ente y su ser cit., pp. 101-102.
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è coincidente con il solo operatore classico, e la potremmo dire assoluta poiché essa nega una variabile A in modo tale che la variabile assolutamente non è; la seconda è un nuovo operatore logico, e la potremmo dire relativa poiché essa nega una proprietà di A, lasciando in sospeso se ve ne siano altre oppure nessuna, dove solo una ricognizione ontologica lo può accertare. In questa chiave, l’insipiente nega (con l’operatore relativo) Dio, ma la negazione assoluta non è praticabile, dato che la negazione della necessità di Dio non si dà indipendentemente dalla mente, essa si dà solo come costruzione intellettuale della negazione (relativa) di Dio, come possibilità meramente combinatoria del calcolo logico, dato che posto A, è ipso facto possibile non-A. D’altro lato, Avicenna è sorretto dal lessico arabo per affermare l’identità tra esistenza e verità 21, e pure questa tesi apparentemente iper-realista può essere così privata di un impegno paraconsistente; in altri termini, il lessico della lingua che utilizza non lo sospinge a pensare l’esistenza come modo contingente di una realtà necessaria, quanto ad inserirlo in una necessità che per i filosofi scolastici eredi di Anselmo appariva troppo vicina ad un necessitarismo negatore della contingenza radicale del Creatore e delle creature – contingenza che pure Avicenna non intendeva negare, tanto che è possibile interpretare questo filosofo in una falsariga molto più anselmiana di quanto non suggerisca la sua riduzione a posizioni neo-platoniche 22. Certo Avicenna esprime una tensione aristotelica quando concepisce il fatto di conoscere come la condizione di essere l’oggetto dell’atto conoscitivo – tanto che il Creatore può conoscere solo se stesso poiché non può essere una creatura –, ma la creazione del mondo (l’emanazione) è un puro atto di volontà libero. Il problema sta nel capire se l’Intelletto divino ha per Avicenna meramente pensato le possibilità logiche – le infinite combinazioni di possibili stati di cose – e ha creato poi un mondo attuale (e sarebbe qui volontarista quanto Scoto), oppure se il contenuto delle Idee divine determina il fatto che ha creato questo Cfr. ibid., pp. 112-115. G. Finianos, De l’existence à la nécessaire existence chez Avicenne, Bordeaux 2007, pp. 205-208, critica l’approccio di studiosi ben noti come Étienne Gilson e Louis Gardet; la tesi storiografica di Finianos esclude che per Avicenna l’emanazione sia un atto necessario. 21
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mondo attuale e non già un altro mondo possibile (e sarebbe qui un necessitarista agli occhi di un volontarista del tredicesimo secolo). In ogni caso, almeno secondo l’analisi di Finianos, Avicenna rifiuta che la conoscenza della necessaria esistenza di se stesso escluda la sua conoscenza del mondo, anzi la necessaria esistenza conosce attraverso se stesso tutto il creato 23, e non già in una mera forma generale, bensì nella infinità pluralità dei dettagli degli stati di cose 24; non mi paiono tesi poi tanto distanti dalla rottura gnoseologica prodotta dal peccato originale tra modi della conoscenza divina e della conoscenza umana (rottura che ruota intorno ad un dato la cui natura noetica rivelata è assai più esplicita) e dalla nozione di trascendenza che la tradizione giudaico-cristiana assegna alla relazione tra creatura e Creatore. Soprattutto sono tesi storiografiche che permettono di comprendere il ruolo non centrifugo, bensì centripeto di Avicenna nel pensiero musulmano, ruolo che una sua qualche espressione di determinismo o di emanazionismo neo-platonico metterebbe in seria discussione, data l’esaltazione della contingenza non già da parte di una scuola di pensiero musulmana, quanto da parte della stessa cultura musulmana 25. L’argomento unico di Anselmo 26 poggia su una fiducia illimitata nel parallelismo tra l’ordine della conoscenza e l’ordine dell’essere. Q uesto parallelismo ci dovrebbe spingere ad accettare l’esistenza degli universali formaliter a parte rei 27: gli oggetti universali sono richiesti dal nostro stesso fatto di parlare degli oggetti individuali – noto argomento del neo-platonico Sim-
Cfr. ibid., pp. 212-213. Cfr. ibid., p. 220. 25 Cfr. A. N. Nader, Le système philosophique des Mu’tazila (premiers penseurs de l’Islam), Beyrouth 1984; G. Makdisi, Ibn ‘Aqil. Religion and Culture in Classical Islam, Edinburgh 1997; M. Campanini, Introduzione, in Averroè, L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi, Torino 1997, p. 23. 26 Sul significato della parola latina argumentum nel l’undicesimo secolo meritano di essere ricordate le osservazioni di A. Maierù, Terminologia logica della tarda Scolastica, Roma 1972, in partic. p. 400, che lo legano all’uso boeziano che declinerà nel tredicesimo secolo. Per una pubblicazione recente, che però ignora il contributo di Maierù, cfr. T. J. Holopainen, Anselm’s Argumentum and the Early Medieval Theory of Argument, in «Vivarium», 45 (2007), pp. 1-29. 27 Cfr. Peña, Le sens gnoseologique cit., p. 45. 23 24
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plicio 28 – e gli oggetti universali stanno in qualche modo negli oggetti individuali, e se questa relazione di inerenza pone un problema logico di spiegazione fatta salva la logica classica, allora piuttosto che rinunciare alla realtà degli oggetti universali si rinuncia alla logica classica. Anselmo attacca Roscellino nella lettera De incarnatione Verbi – in cui riporta la seguente affermazione del filosofo di Compiègne: «Tres personae sunt una tantum res (…) ergo pater et spiritus sanctus cum filio est incarnatus», definendola una criminatoris assertio rispetto alla quale «nescio nec credo quod aliquis mihi hoc dialecticis sophismatibus possit concludere» –, ma anche nella sua risposta a Gaunilone, che lo accusa di una conseguenza indesiderata da Anselmo stesso – ossia quella di attribuire una realtà potenzialmente ad ogni oggetto mentale, egli mette in luce che la posta in gioco riguarda una contrapposizione tra una concezione tendenzialmente nominalista e una concezione iper-realista del rapporto linguaggio-mondo 29. In questa risposta, in cui si rivendica la pertinenza dell’uso del verbo cogitari e non già dell’alternativa gauniloniana intelligi, emerge con rinnovata forza che il lessico mentalista di Anselmo non è quello dei contenuti mentali come stati mentali fenomenologici o peggio cerebrali, bensì quello del pensiero oggettivo fre geano, quello che permette di parlare di ‘leggi del pensiero’ con un saldo anti-psicologismo nel momento della rinascita della logica formale a fine Ottocento 30. In particolare, per Anselmo ogni 28 Rinvio in modo esemplificativo a R. Sorabji, Universals Transformed: The First Thousand Years After Plato, in Universals, Concepts and Q ualities. New Essays on the Meaning of Predicates, ed. by P. F. Strawson – A. Chakrabarti, Aldershot 2006, [pp. 105-126], p. 110. 29 Cfr. Epistolae de incarnatione Verbi, prior recensio, 2-3, 266AC, p. 282, 5-8 e 25-26. La mia considerazione si riferisce al tenore generale del Liber apologeticus, ossia della Responsio, in particolare ai paragrafi 3 e 4, 252BC, p. 133, 3-20 e 253B-254A, p. 134, 7-19. 30 Si noti che nella dimensione del pensiero oggettivo anche un pensatore paraconsistente può concordare sulla validità del principio di contraddizione, mentre nella dimensione fenomenica la presenza di credenze contraddittorie non è affatto sconcertante. Così Duns Scoto può affermare in Ordinatio, I, d. 3, p. 1, q. 4, 231, ed. Vaticana, III, Ordinatio. Liber primus, distinctio tertia, Città del Vaticano 1954, p. 139: «Confirmatur ista ratio per simile, per Philosophum IV Metaphysicae, ubi vult quod oppositum primi principii non potest in intellectus alicuius venire, scilicet huius, ‘impossibile idem esse et non esse, quia tunc essent opiniones contrariae simul in mente’; quod utique verum est de
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oggetto pensato con la proprietà P può essere pensato senza la proprietà P; e questo fa la particolarità dell’oggetto pensato Dio, un oggetto cui si applicano gli schemi modali che manifestano una teoria della modalità non-aristotelica, la quale trova un ostacolo apparente solo nel mondo attuale 31. L’universale esiste ante rem, in re e post rem 32, e questo per dire che nel regno ontologico gli oggetti universali si danno in tutti i mondi possibili: prima che le cose siano create; mentre le cose sono create; dopo che le cose sono state create. Nel De conceptu virginali et originali peccato Anselmo afferma che senza questo iper-realismo il peccato originale stesso sarebbe inspiegabile, proprio perché non si può circoscrivere nella natura di Adamo o nella sua persona, ma solo in Adamo che pecca, dove il suo peccato è la realtà ontologica personale da cui discende il peccato della sua progenie 33. Restat igitur ut per hoc tantum sit debitor, quia est Adam, sed non simpliciter quia est Adam, sed quia est peccator Adam. Nempe sequeretur quia, si numquam peccasset Adam, tamen qui de illo propagarentur cum hoc debito nascerentur; quod impium est (…). Omnis igitur homo si peccatum non praecessisset, simul esset sicut Adam et iustus et rationalis. Q uoniam vero Adam subditus noluit esse dei voluntati, ipsa natura propagandi quamuis remaneret non fuit subdita eius voluntati, sicut esset si non peccasset, et gratiam quam de se propagandis servare poterat perdidit, atque omnes qui operante natura quam acceperat propagantur, eius astricti debito nascuntur 34.
opinionibus contrariis, id est repugnantibus formaliter, quia opinio opinans ‘esse’ de aliquo et opinio opinans ‘non esse’ de eodem, sunt formaliter repugnans». Se l’avverbio formaliter è preso sul serio, qui si parla della super-contraddizione, non già dell’acrasia del protagonista de La coscienza di Zeno. 31 Cfr. Responsio, 4, 254A, p. 134, 17-19. 32 Per una difesa del realismo ante rem, che mi pare riprenda sostanzialmente la tesi citata di Simplicio e la espanda nel lessico della filosofia analitica del ventesimo secolo, rinvio a G. Bealer, Universals, in «Journal of Philosophy», 90 (1993), pp. 5-32. 33 Cfr. De conceptu virginali, 27, 461A, p. 170, 11-12: «Siquidem quidquid peccati super illud additur in homine, personale est». Cfr. Peña, Le sens gnoseologique cit., p. 46. 34 De conceptu virginali, 10, 413A, pp. 151, 15 - 152, 22.
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Il tertium quid tra il singolare e l’universale – argomenta Peña – non potrebbe che essere un concetto disgiuntivo 35, una nozione che intrigò assai Duns Scoto, e che se considerata reale è concepibile solo in un alveo paraconsistente 36. È la questione teoretica della natura comune, di cui è certo possibile una lettura classicista – peraltro la più diffusa, che la inquadra come neutra nel senso di indifferente –, lettura che può condurre a negare che Scoto sia un iper-realista, lasciando a carico di chi sostiene una simile lettura la prova del suo realismo moderato (od essenzialismo aletico) oppure del suo nominalismo (tesi professata non senza sfumature dal grande filosofo del diritto Michel Villey e ripresa dal suo allievo Michel Bastit in un importante lavoro di qualche anno fa) 37. A me pare preferibile affermare che la natura comune vada compresa alla luce delle proprietà disgiuntive irriducibili di cui parla Scoto (a meno che un trascendentale sia riducibile ad una pluralità di concetti più semplici, tesi a mio parere che riduce all’assurdo il filosofo così interpretato), piuttosto che accettare che la natura comune certifichi il rifiuto dell’iper-realismo da parte di Scoto, per poi constatare che la sua posizione sugli universali è inconcludente od aporetica, oppure semplicemente nominalizzante 38. Cfr. Peña, Le sens gnoseologique cit., p. 53. Affermare che una disgiunzione è una proprietà reale significa non solo che non si può sciogliere la disgiunzione stessa nelle sue componenti (nel lessico medievale, al senso composito della disgiunzione non corrisponde nessun senso diviso della stessa), ma pure che la disgiunzione è ontologicamente reale. 37 Cfr. M. Bastit, Les principes des choses en ontologie médiévale (Thomas d’Aquin, Scot, Occam), Bièvre 1997; l’opera di riferimento è M. Villey, La Formation de la pensée juridique moderne: cours d’histoire de la philosophie du droit, Paris 1975. L’interprete deve essere attento a non confondere i giudizi radicali che Villey esprime in opere esplicitamente pamphlettistiche con quelli che esprime in opere ad esclusiva vocazione accademica, come La Formation de la pensée juridique moderne. 38 Per una lettura conforme alla logica classica dell’approccio scotiano, che sottolinea come per lui l’universale non sia una cosa e che la natura comune sia indifferente, ma che non specifica in quale senso persuasivo essa sia nondimeno per Scoto reale, rinvio a C. Tiercelin, Le problème des universaux: aspects historiques, perspectives contemporaines, in La structure du monde: objets, propriétés, états de choses; le renouveau de la métaphysique australienne, éd. J.-M. Monnoyer, Paris 2004, pp. 339-353, che segue l’autorevole linea interpretativa di Gilson. A me pare che questa strategia classica si limiti a trasferire i problemi della natura oggettuale dell’universale sulla natura comune, in cui ‘natura comune’ pare essere sinonimo perfetto di ‘universale’, e quando si introduce la distinzione formale per 35
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Una tesi che si vuole teoretica e in questo in rotta di collisione con la logica classica è quella per cui per pensare l’iperrealismo bisogna riformulare l’identità degli indiscernibili 39, che si scinde nell’indiscernibilità assoluta e quella relativa, e la collisione si concretizza nella convinzione che l’iper-realismo sia una tesi persuasiva. Tuttavia, anche se non si assume questa tesi teoretica come persuasiva, il solo fatto di riconoscerla come non-fallace ci permette di accettare la possibilità di una lettura paraconsistente dell’iper-realismo. Peña rifiuta le soluzioni meramente linguistiche, come quelle sulla sinonimia di denotazione in presenza di differenza lessicale di connotazione: Anselmo, nel De grammatico, spiega che l’enunciato «questo oggetto bianco» sarebbe semanticamente e lessicalmente ridondante se ‘bianco’ stesse sempre e solo per «questo oggetto bianco»: infatti lessicalmente la formula «questo oggetto bianco» si potrebbe ri-enunciare con la sostituzione di ‘bianco’ e la formula diverrebbe «questo oggetto (questo oggetto bianco)» con una reiterazione all’infinito della struttura dell’enunciato; semanticamente, ‘bianco’ dovrebbe significare «questo oggetto bianco», che è una tesi nominalistica, che però collide con il linguaggio ordinario in cui si enuncia con significato la proposizione «questo oggetto bianco». Prima il Magister invoca la reiterazione infinita di un linguaggio naturale ispirato da una semantica nominalistica: Si ergo albus est qui albus est, est etiam qui qui albus est est. Et si hoc est, est etiam qui qui qui albus est est est, et sic in infinitum.
Poi il Discipulus enuncia la natura non-individuale delle proprietà ad un posto (essere-bianco) senza che queste possano dirsi non-reali: spiegare la realtà della natura comune, il fatto che questa operazione violi l’indiscernibilità degli identici non viene colto come un problema per lo schema stesso della razionalità classica, né ci si interroga sul valore dell’operatore di negazione manipolato da Scoto di cui si dà comunque un resoconto dettagliato senza sottolinearne la stranezza (in un discorso logico-formale, ‘essere non-identici’ è diverso da ‘essere distinti’). Tuttavia, in quadro di razionalità classica, negare l’indiscernibilità degli identici oppure l’identità degli indiscernibili si configura come una situazione aporetica. 39 Cfr. Peña, Le sens gnoseologique cit., p. 61.
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Satis apparet, quia per album non significatur aliquid habens albedinem nec qui albedinem habet sed tantum albedinem habens, id est qualitas et habere, ex quibus solis non conficitur unum aliquid, et ideo albus est utrumque, quia pariter utrumque significat. Q uam rationem in omnibus quae sine complexione dicuntur et similiter significant quamlibet plura ex quibus non fit unum, valere video; nec aliquid iis quae in hac disputatione asservisti, obici recte posse existimo 40.
Peña ne conclude che se il principio di contraddizione non perde la sua universalità, l’identità dei diversi non è affermabile in un senso ontologicamente rilevante, e l’iper-realismo è impossibile 41. Una delle due leggi di Leibniz 42 si vede qui rifiutata al fine di potere sostenere la soluzione metafisica iper-realista: l’indiscernibilità degli identici trova un’eccezione nella discernibilità tra la cosa universale e quella individuale, che sono identica40 De grammatico, 21, 580C, pp. 167, 25 - 168, 7: su quest’opera anselmiana, successiva al 1082, rinvio a D. P. Henry, The De grammatico of St. Anselm, Notre Dame 1964, ma anche al successivo Id., Commentary on the De grammatico: The Historical-Logical Dimensions of a Dialogue of St. Anselm’s, Dordrecht 1974. Q uesto passo mostra come il realismo avicenniano abbia una sua sorgente coeva nel realismo anselmiano: questo nulla toglie alla grande influenza di Avicenna sul pensiero latino scolastico, efficacemente analizzata da autori come Pasquale Porro, ma mi pare autorizzi un interprete a parlare di una strategia filosofica anselmiano-scotiana, ed al tempo stesso permetta di comprendere come un’immagine necessitarista di Avicenna sia fruibile da parte di chi vede in Anselmo una proposta metafisica conforme a quella avicenniana, ma affatto anti-necessitarista. Mi pare che la lettura scotiana di Avicenna vada compresa in questi termini. 41 Cfr. Peña, Le sens gnoseologique cit., p. 65. 42 Nella letteratura logica ci si riferisce alle due leggi di Leibniz schematizzate come l’indiscernibilità degli identici e l’identità degli indiscernibili (a volte si indica la prima come Legge di Leibniz, la seconda, la diversità dei discernibili, come Contrapposta della Legge di Leibniz – così A. Bottani, Oggetti vaghi e identità vaghe, in Prospettive della logica e della filosofia della scienza, a c. di V. Fano – G. Tarozzi – M. Stanzione, Soveria Mannelli 2001, pp. 384-385; altre volte si parla del Principio di Leibniz dell’identità degli indiscernibili – così J. A. Lyons, Semantics, Cambridge 1977, p. 160): sebbene questa ripartizione in due leggi non sia attribuibile propriamente a Leibniz, che si limita ad associare indissolubilmente identità e indiscernibilità (per esempio, G. T. Bagni, «Eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate», in La matematica e la sua didattica: Vent’anni di impegno, a c. di S. Sbaragli, Roma 2006, p. 34, con i riferimenti alla letteratura essenziale, tra cui l’importante ricerca di Massimo Mugnai), la letteratura preferisce distinguerle perché è logicamente possibile rifiutarne una senza che questo implichi il rifiuto anche dell’altra. L’articolo appena citato di Bottani discute proprio un’istanza di quest’ultima possibilità.
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mente cose 43. La soluzione-madre della strategia paraconsistente sta in una ternarizzazione della verofunzionalità rispetto alla dualità dell’affermazione e della negazione, ternarizzazione che permette di concepire un operatore di negazione in aggiunta a quello classico 44. Tra le molte soluzioni possibili (tra cui infinite logiche polivalenti sino a quella con infiniti valori di verità) Peña considera come terzo valore di verità l’affermazione-negazione, ed enuncia un principio del quarto escluso destinato a sostituire il caduco terzo escluso: tra le tre formule A, non-A, A-e-non-A almeno una è vera, ossia vi può essere una contraddizione vera. Lo strumento scotista delle disgiunzioni non scioglibili nei loro componenti (affermazione e negazione) in forza del rifiuto della proprietà irrilevante della logica classica serve a descrivere l’ontologia di un mondo che Anselmo aveva già posto nel suo impianto formale. Essa si corrobora nella differenza fra essenza e esistenza, che rinvia alla differenza ontologica in genere (tra i precursori di Anselmo più recenti va citato Avicenna 45, tra i più lontani Gio43 La tesi della natura indifferente, oppure neutra, del concetto (‘bianchezza’) è la lettura coerente con la logica classica dell’approccio realista agli universali; Peña propone invece la natura paraconsistente del concetto (‘bianchezza’), ossia un inserimento dell’iper-realismo, anselmiano oppure avicenniano, nel quadro della razionalità paraconsistente. In ogni caso, come ho cercato di mettere in risalto nel mio La contraddizione vera cit., Scoto rifiuta la persuasività del Terzo Uomo aristotelico contro Platone avvalendosi delle sue formalitates. 44 La verofunzionalità indica la possibilità di attribuire un certo insieme di valori di verità (classicamente due, il vero ed il falso, ma anche tre o più, sino agli infiniti valori di verità delle cosiddette logiche fuzzy, valori poi definiti secondo una teoria filosofica specifica) ad un enunciato, che così interpretato diviene una proposizione; l’operatore logico indica una relazione con una variabile proposizionale a uno o più posti, come la negazione (ad un posto), oppure l’implicazione (a due posti), tale che l’operatore trasforma il valore di verità della variabile proposizionale in un altro, secondo una tabella di verità (come le presenta Wittgenstein nel suo Tractatus) la quale definisce l’operatore stesso. Per esempio, l’operatore di negazione si applica alla variabile A: se A è vera, la negazione di A è falsa; se A è falsa, la negazione di A è vera. Q uesta è la definizione classica dell’operatore di negazione, destinata a mutare se si ammettono altri valori di verità oltra al vero ed al falso, e se si associa al concetto linguistico naturale di negazione l’esistenza di due operatori distinti di negazione nel sistema logico-formale. 45 Avicenna ripercorre i sentieri di Al-Farabi, ma il suo rifiuto della crea zione divina come puro atto di volizione lo mette al di fuori della linea anselmiano-scotiana, caratterizzata da un volontarismo ontologico. In questo
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vanni Damasceno 46), in cui i gradi dell’essere non sono uno strumento euristico, bensì una mappa della realtà che corrisponde ad una mappa della verità: l’esito della dottrina creazionista volontarista verso la trascendenza assoluta 47 ne consegue linearmente, con un punto di partenza – il dato di fede della creazione dal nulla – che viene razionalmente argomentato rafforzando un dato centrale della tradizione giudaico-cristiana come quello della trascendenza assoluta di Dio. Tanto nell’argomento ontologico anselmiano, quanto nelle analisi scotiane sulla mappa ontologica prima della creazione del mondo attuale, l’essere ed il non-essere – il nulla – si implicano a vicenda 48 (se il non-essere è un qualcosa – per esempio il mondo sensibile secondo Platone –, allora l’essere lo include e ne è diverso perché ne è un sovra-insieme), perché pensando il nulla si pensa necessariamente Dio, ed il nulla si dà solo pensando Dio (uso ‘pensare’ in senso fregeano). Dio manifesta il suo tempo nelle creature, ma lui non è nel tempo 49, e così per Peña Anselmo anticiperebbe la posizione scotiana che rifiuta, per pure ragioni di eleganza metafisica, la soluzione tommasiana dei diversi ordini temporali nel contesto della discussione del problema dei futuri contingenti. Credo che Anselmo sia stato una fonte cospicua di ispirazione per la filosofia francescana, e che ne vadano considerate alcune tematiche, a partire da certi passaggi del De casu diaboli in cui una cosa buona come l’essere simili a Dio porta comunque alla rovina per una serie di volizioni disordinate. Si tratta del l’obbedienza in quanto risposta al fondamento ontologico della senso la distinzione essenza-esistenza nelle creature ricopre una funzione di giustificazione della trascendenza, dato comune nei pensatori musulmani e cristiani, ma mentre Tommaso d’Aquino discute con un Aristotele che pare quello letto da Averroé, Giovanni Duns Scoto discute con un Aristotele che è quello letto da Avicenna. Rinvio alla traduzione italiana curata da P. Porro e O. Lizzini di Avicenna, Metafisica, Milano 2002. 46 Ancora prima di lui, si può far risalire il principio, circoscritto alla sola divinità, per cui non c’è ipostasi senza natura oppure senza essenza, a Massimo il Confessore. Si veda Maximus Confessor, Opuscula theologica et polemica, XXXIII, PG 91, 264Α; Iohannes Damascenus, De fide orthodoxa, III, 9, PG 94, 1016-1017. 47 Cfr. Peña, Le sens gnoseologique cit., p. 69. 48 Cfr. ibid., p. 80. 49 Cfr. ibid., pp. 92-93.
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norma 50: esso si trova nel primato ontologico della volizione divina, dato che solo Dio può seguire liberamente la sua propria volizione, non avendo alcun essere sovraordinato a Lui; il peccato si caratterizza quindi non solo come presunzione di una autonomia della propria volontà rispetto a quella divina, ma come una difformità inevitabile rispetto a Dio dato che la crea tura ha voluto essere un soggetto di volizione sovraordinato a Dio, cosa ontologicamente falsa; e la punizione viene dal punito stesso, poiché non è Dio che priva di qualcosa, bensì la creatura che rifiuta l’ordine deontico e normativo, e quindi non può ricevere nulla dato che rifiuta la stessa possibilità di ricevere. Sebbene Anselmo affermi sia l’irreversibilità della condizione demoniaca sia l’offerta costante della grazia divina, resta solo la gratuità assoluta della volizione: «nulla causa praecessit hanc voluntatem, nisi quia velle potuit» e «non nisi qui voluit. Nam haec voluntas nullam aliam habuit causam qua impelleretur aliquatenus aut attraheretur, sed ipsa sibi efficiens causa fuit, si dici potest, et effectum» 51. Tale volizione è dunque tanto gratuita e senza 50 Cfr. De casu diaboli, 4, 332B-333D, pp. 241, 1 - 242, 23: «Solus enim dei esse debet sic voluntate propria velle aliquid, ut superiorem non sequatur voluntatem»; p. 242, 5-10: «Non solum autem voluit esse aequalis deo quia praesumpsit habere propriam voluntatem, sed etiam maior voluit esse volendo quod deus illum velle nolebat, quoniam voluntatem suam supra dei voluntatem posuit (…). Malus tamen non ideo non accepit quia deus non dedit; sed deus ideo non dedit quia ille non accepit, et ideo non accepit quia accipere noluit». Si inizia un percorso che giunge sino alla concezione scotiana delle deroghe divine al Decalogo come genuini atti normativi che derogano alla norma pre-esistente in un gioco tra la volizione divina per tutti e la volizione divina per me (se le due coincidono, non sorge problema morale; se le due differiscono, sorge un genuino dilemma morale irriducibile). Tale gioco, al di fuori di un volontarismo ontologico, sarebbe nominale: certo non è così in Duns Scoto. Uso qui il termine ‘gioco’ nella sua polisemia che va dai giochi linguistici di Wittgenstein al gioco come categoria storiografica ampiamente utilizzato da Maurizio Migliori nelle sue analisi del pensiero di Platone. 51 Ibid., 27, 360A, p. 275, 25 e 31-33. Oltre al gioco per la teologia cattolica svolto dalla Grazia che è gratuità, mi pare doveroso sottolineare il gioco che la gratuità ha nella speculazione filosofica dei pensatori cristiani medievali: giustamente, commentando una recente traduzione del De aeternitate mundi di Sigieri di Brabante (Sigieri di Brabante, L’eternità del mondo, a c. di A. Vella, Palermo 2009, p. 80), Concetto Martello si chiede «quale disciplina razionale, infatti, quale ordine uniforme, ontologico o logico, potrebbe fondarsi su una volontà gratuita?». Q uesta domanda retorica, dotata di una forza persuasiva imperiosa, nasconde un dilemma concettuale: da un lato pone autori in odore di volontarismo in un àmbito di tradizionalismo filosofico cristiano e li oppone alla laicizza-
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motivo 52 che comporta l’impossibilità assoluta, ossia ontologica, di ogni predizione 53. Intendo poi riferirmi ad altri passaggi del De libertate arbitrii, per cui «nulla autem est iusta voluntas, nisi quae vult quod zione, in quanto la manifestazione della volontà divina induce rigidità dogmatica; dall’altro ne fa degli antesignani della modernità dell’individualismo filosofico, se letti per esempio alla maniera di Georges de Lagarde (mi riferisco soprattutto alla prima redazione della celebre opera G. Lagarde, La naissance de l’esprit laïque au Moyen Age, 6 voll., Saint Paul Trois Chateaux – Wien – Paris – Louvain 19341948, la cui radicalità è poi mitigata nella revisione in 5 voll., Paris - Louvain 1956-1970), quindi araldi della laicizzazione in quanto relativizzano ante litteram la Ragione cartesiana, ossia l’uomo che comprende il mondo con gli occhi di Dio – pista di riflessione che genera molte risposte, da quella già evocata di David Hume a quella novecentesca della confutazione della possibilità di essere cervelli in una vasca formulata da Hilary Putnam (il saggio Brains in a Vat è contenuto in H. Putnam, Reason, Truth and History, Cambridge 1981, pp. 1-21 e 216-217). A mio avviso, le due conclusioni apparentemente opposte svelano la natura del volontarismo ontologico: essa non si fonda sulla volontà gratuita divina, essa svela la struttura ultima razionale di un mondo in cui Dio si è manifestato così e così gratuitamente. La metafisica della possibilità di Duns Scoto (il quale, anche su temi assolutamente teologici come l’Immacolata concezione non dimostra che Maria è stata concepita senza peccato, bensì che Maria poteva essere concepita senza peccato e che questa possibilità si può spiegare in maniera razionale) è effettivamente altra dalla metafisica della fondazione di Tommaso d’Aquino: per Scoto la filosofia rende conto della razionalità di una possibilità oppure di una proposizione vera appresa per altra via (concezione della metafisica teorizzata nel ventesimo secolo da Robin Collingwood – cfr. R. Collingwood, An Essay on Metaphysics, Oxford 1940), e in questo senso non si fonda sulla volontà gratuita divina, volontà sulla quale si fonda però tutto ciò che è reale. Non esiste un dibattito filosofico solo fra cristiani e non-cristiani, esiste un dibattito filosofico anche tra coloro che credono nello stesso deposito dogmatico della fede cattolica. C’è chi accetta l’argomento unico di Anselmo, in un discorso in cui la filosofia spiega la razionalità del cattolicesimo; c’è chi, pur essendo dogmaticamente cattolico, rifiuta tale strategia filosofica. Esaltare la potenza assoluta divina come possibilità attuale ed ontologica equivale tanto alla tesi che Dio modifichi incessantemente la struttura ultima del mondo quanto alla tesi che Dio non la modifichi mai; in realtà, in senso stretto, sono due tesi false, dato che solo affermandole entrambe come possibilità risultano essere entrambe vere. 52 La non-modernità di questa posizione non ha bisogno di essere sottolineata: se si vogliono opporre l’Illuminismo e il pensiero cristiano, come fa per esempio Richard Sylvan con l’intento di superarli entrambi, si può affermare che per il cristianesimo «the way to salvation lies not in conquering nature but in following the commandements God has revealed to us» (R. Sylvan, Transcendental Metaphysics, Cambridge 1997, p. 451). Per uno storico del pensiero mi pare decisivo non tanto assumere la persuasività di questa tesi, quanto di valutarne appieno l’impatto per una ricostruzione del pensiero medievale stesso. 53 Così mi pare si debba leggere il capitolo 21 del De casu diaboli, che peraltro afferma la più ovvia tesi che la conoscenza divina del futuro non lo determina.
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deus vult illam velle», con la più che opportuna spiegazione di un passaggio molto citato sul rapporto tra giustizia e volontà: «Servare igitur rectitudinem voluntatis propter ipsam rectitudinem est unicuique eam servanti velle, quod deus vult illum velle» 54; ancora una volta al Monologion, a quei capitoli dal 20 al 22 che mettono in mostra la contraddizione feconda nella natura del mondo e che analizzeremo nel seguito; alla teoria modale che permette di ritenere persuasiva la sua celebre prova dell’esistenza di Dio (ripresa da Alvin Plantinga nel ventesimo secolo) 55; infine, più in generale, al suo realismo platonizzante nel rapporto linguaggio-mondo (negazione della cosiddetta svolta linguistica che ha caratterizzato il ventesimo secolo). Penso che Anselmo possa essere considerato come il filosofo che ha stabilito le premesse di una razionalità che rende il principio di contraddizione una legge a validità locale. Il tema è stato ampiamente discusso da una minoritaria scuola di autori paraconsistenti nella seconda metà del ventesimo secolo, e a me pare che si 54 De libertate arbitrii, 8, 501B, pp. 220, 16 - 221, 17, in partic. p. 220, 18-19 e 21-22. 55 In una voce enciclopedica, critica verso lo stesso Plantinga, l’argomento viene formulato nella versione che rimanda ai mondi possibili: cfr. G. Oppy, Ontological Arguments, § 7, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2016 Edition), edited by E. N. Zalta, http://plato.stanford.edu/archives/spr2016/ entries/ontological-arguments/, che parafrasa dalla voce di A. Plantinga, s. v. God, arguments for the existence of, in Routledge Encyclopedia of Philosophy, ed. by E. Craig, London 1998, 10 tt., 4, [pp. 3150-3158], p. 3152: «Say that an entity possesses ‘maximal excellence’ if and only if it is omnipotent, omnscient, and morally perfect. Say, further, that an entity possesses ‘maximal greatness’ if and only if it possesses maximal excellence in every possible world – that is, if and only if it is necessarily existent and necessarily maximally excellent. Then consider the following argument: There is a possible world in which there is an entity which possesses maximal greatness. (Hence) There is an entity which possesses maximal greatness. Under suitable assumptions about the nature of accessibility relations between possible worlds, this argument is valid: from it is possible that it is necessary that p, one can infer that it is necessary that p. Setting aside the possibility that one might challenge this widely accepted modal principle, it seems that opponents of the argument are bound to challenge the acceptability of the premise». Sin dalla prima formulazione della sua versione modale del l’argomento, A. Plantinga, The Nature of Necessity, Oxford 1974, pp. 213-217, Plantinga sosteneva a conclusione, p. 221: «Our verdict on these reformulated versions of St. Anselm’s argument must be as follows. They cannot, perhaps, be said to prove or establish their conclusion. But since it is rational to accept their central premise, they do show that it is rational to accept that conclusion».
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svolga secondo una strategia che ho creduto di ritrovare in Duns Scoto e in Francesco di Meyronnes – e che si ritrova anche in altri contesti culturali non-latini, come è il caso di Al-Ghazali oppure di Rabbi ben Nachman. Si tratta di una tesi altamente controversa nel mondo moderno, quella della possibilità di una razionalità paraconsistente: credo che questo modello possa essere quello ricercato da un certo numero non-trascurabile di filosofi cristiani (ed ebrei e musulmani nel Medioevo) sostenitori, come molti altri, di una razionalità che concilia fede e ragione, ma che auspicano anche che questa razionalità sappia conciliare il credere ed il pensare in una sfera di precomprensione che li associa nella sfera dell’azione 56. Nella Commendatio a Urbano II premessa al Cur Deus homo Anselmo scrive: Ubi dicit: ‘nisi credideritis, non intelligetis’ (Is 7, 9), aperte nos monet intentionem ad intellectum extendere, cum docet qualiter ad illum debeamus proficere. Denique quoniam inter fidem et speciem intellectum quem in hac vita capimus esse medium intelligo: quanto aliquis ad illum proficit, tanto eum propinquare speciei, ad quam omnes anhelamus, existimo 57.
Non è detto che per Anselmo la fede e l’intelletto si oppongano come contradditori, ma se qualcuno lo sostenesse, Anselmo replicherebbe che tra i due si dà un medium, ossia che il principio di contraddizione non è universalmente valido; è la formula latina standard tratta dalla traduzione latina degli Analitici secondi di Aristotele: «Contradictio est oppositio, cuius non est medium secundum se» 58. Almeno la sua validità non è prima 56 Una suggestione potente in questa direzione è contenuta in L. Ruggiu, Una precomprensione ‘teologica’ dell’ontologia? Su credere e pensare, in «Giornale di Metafisica», 31 (2009), pp. 547-570, in partic. pp. 562-564. Se l’analisi di Ruggiu si muove nel solco dell’ermenuetica del ventesimo secolo, essa coglie comunque appieno la specificità della nozione medievale di persona (tra dato reale ontologico non-empirico e azione umana non-causale) e ne fa il perno essenziale del gioco tra fede e ragione, altra strategia tipicamente medievale spesso fraintesa dai pensatori moderni. 57 Cur Deus homo, Commendatio operis ad Urbanum Papam II, 261A, p. 40, 8-12. 58 Il riferimento è a Aristoteles, Analytica priora I 11, 77a 10-11, per cui il principio di non-contraddizione non è la premessa di alcuna dimostrazione,
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facie evidente quando egli afferma in un capitolo del Cur Deus homo che Gesù Cristo poteva mentire e non poteva mentire: «Sic itaque potuit, et non potuit mentiri» 59. Ma come affermerà Alessandro di Hales, la filosofia non può assumere come significante la contraddizione 60, che è invece un elemento del discorso religioso che passa per la semantica del mistero (come quello trinitario) oppure in senso lato dello scandalo (della Croce): la filosofia non può accettare la contraddizione che farebbe collassare la razionalità dell’impresa euristica, e tuttavia se vi è una strategia razionale che permette di distinguere tra la contraddizione che porta al collasso semantico e la contraddizione che porta invece alla fecondità semantica, questa strategia si presenta particolarmente attraente per un filosofo cristiano (o musulmano, oppure ebreo), che non può sottovalutare il discorso della fede. Peña legge questa nuova strategia in Anselmo, io la rivedo in Duns Scoto e ritengo le si possa associare: è la strategia della razionalità paraconsistente.
3. Il caso del Monologion Voglio qui proporre non già la lettura paraconsistente della filosofia anselmiana nel suo complesso, quanto l’analisi di pochi luoghi specifici del Monologion da considerare come tasselli di un approccio anselmiano che può dirsi paraconsistente. Il discorso verte su nozioni che bloccheranno secoli dopo la possibilità stessa della metafisica iper-realista nel criticismo kantiano. Essere in un luogo è essere in un luogo determinato: essere ovunque senza determinazione non implica essere in un luogo determinato, e si può dire essere fuori dallo spazio e dal tempo. ma la terminologia ritorna anche altrove, come in Id., Metaphysica, IX 7, 1057a, 33-35. Lo si ricolleghi a ibid., IV 3, 1005b, 33-34, in cui il principio di noncontraddizione è alla base di tutti gli assiomi, ma non è un principio delle cose. Del resto, nella cultura medievale il fatto che tra i contraddittori non vi fosse medium, al di là di ogni conoscenza puntuale del testo aristotelico, era stato consacrato da Isidoro di Siviglia, per cui rinvio a Isidorus Hispalensis, Etymologiarum sive originum libri XX, II, 31, 3, PL 82, [73-728], 153C, ed. W. M. Lindsay, 2 voll., Oxford 1911, I. 59 Cur Deus homo, II, 10, 409A, p. 107, 8-9. 60 Cfr. L. Parisoli, La Summa fratris Alexandri e la nascita della filosofia politica francescana, Palermo 2008, p. 25.
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Consumati i primi diciannove capitoli del Monologion, analisi di questo tipo sono necessarie ad Anselmo per fugare i dubbi che solleva una nozione di potenza creatrice, dubbi che si possono unire insieme e dare vita a un’accusa montante di sterilità dovuta alla contraddizione che serpreggia nella rete semantica utilizzata: «Sentio tamen quiddam contradictionis summurmurare, quod me cogit diligentius ubi et quando illa sit indagare» 61. È nei tre successivi capitoli che si gioca l’analisi semantica che deve dissipare i sospetti di contraddittorietà. L’alternativa si pone in questi termini: da un lato, la direzione classica, scandita dalla formulazione aristotelica del principio di contraddizione, di una mancanza di contraddizione quando i termini sono accuratamente posti nel loro significato impiegato e sotto il medesimo rispetto; dall’altro, nella direzione non-classica di una razionalità paraconsistente che qui prendo in considerazione, di cui si trovano tracce embrionali nello stesso Aristotele, cosa che non affermo per il mero piacere di formulare una boutade. Si tratta invece di tracce che ci devono rendere consapevoli del fatto che la logica classica non è la sola interpretazione possibile della logica aristotelica, dove l’interpretazione della logica classica enfatizza l’opera giovanile e composita che è la Metafisica (che contiene errori logici, osserva Bochenski) e trascura gli aspetti ‘paraconsistenti’ dell’Organon 62. Monologion, 20, 170A, p. 35, 9-11. Rinvio al manuale di storia della logica di J. M. Bochenski, Formale Logik, Freiburg – Munchen 1956, pp. 74-76 (tr. it. La logica formale. Dai Presocratici a Leibniz, Torino 1972, pp. 86-88): lo stesso autore aveva già espresso questa tesi nel suo precedente J. M. Bochenski, Ancient Formal Logic, Amsterdam 1951, pp. 38-40. Costituita la sillogistica come modello di validità del ragionamento, il principio di contraddizione non gode più di valore assiomatico dato che può essere violato in un sillogismo valido, ossia se ogni M è P e nessun M è P, allora nessun M è M (questo non implica ovviamente che il principio di contraddizione sia sempre falso). È quasi superfluo aggiungere che la strategia intellettuale che il grande filosofo della scienza Imre Lakatos chiamava eliminazione di mostruosità, monster-barring, si sbarazza di un’osservazione del genere catalogandola appunto nello sgabuzzino museale delle mostruosità. Q uesta idea dell’eliminazione di mostruosità è tematizzata lungo tutto il dialogo collettivo che si dipana in I. Lakatos, Proofs and Refutations: the Logic of the Mathematical Discovery, Cambridge 1976, in partic. pp. 14-23 (tr. it. Dimostrazioni e confutazioni: la logica della scoperta matematica, Milano 1979, pp. 54-63). Lo stesso Lakatos fornisce una definizione dell’atteggiamento epistemologicamente corretto verso le ‘mostruosità’, ossia quello del monster-adjustement, 61
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Anselmo afferma che la localizzazione determinata della somma natura non è enunciabile, a partire dall’idea che affermare che la somma natura non sia in nessun luogo ed in nessun tempo è sommamente ripugnante, non tanto contradditorio direi, ma come scrive Anselmo «repugnantius», dato che ciò che è sommamente reale sarebbe anche sommamente irreale, che è anche una contraddizione logica, ma in quanto assoluta impossibilità ontologica (in termini paraconsistenti, una super-contraddizione): Non potest esse summa natura alicubi vel aliquando determinate. Q uod si dicitur, quia determinate ipsa per se alicubi et aliquando est sed per potentiam suam est ubicumque vel quandocumque aliquid est: non est verum 63.
Infatti la potenza nella somma natura coincide con la somma natura stessa, e l’assenza di localizzazione determinata coincide con la presenza della somma natura in ogni luogo ed in ogni tempo, che è la conclusione ricercata nel capitolo ventesimo. Q uesto è il punto di partenza del successivo capitolo, che parte dall’idea della semplicità della somma natura, che non è scomponibile in parti più semplici dotate di consistenza ontologica, per indagare come la somma natura sia integralmente in ogni singolo luogo ed in ogni singolo tempo. Se essa fosse simultaneamente e integralmente in ogni singolo luogo, si dovrebbe pensare ad una pluralità di singoli tutti, ma questo porterebbe a pensare ad una pluralità di singole somme nature, il che è «irrationabilis». Pensarla in tutti i singoli luoghi in tempi diversi si scontra anche con la stessa difficoltà di pensare un luogo in cui non vi sia la somma natura, ed il luogo è qualcosa (negarlo è «absurdum»), quindi non vi è il nulla. Se nessuna declinazione della simultaneità e dell’ordine temporale permette di pen-
indicando come l’accomodamento di una mostruosità consista nel tramutare un controesempio in un esempio alla luce di una nuova teoria: cfr. I. Lakatos, Falsification and the methodology of scientific research programmes, in Criticism and the growth of knowledge, Proceedings of the International Colloquium in the Philosophy of Science (London, 11-17 July 1965), edd. I. Lakatos – A. Musgrave, Cambridge 1970, [pp. 91-196], p. 149. Nelle situazioni argomentative che sto affrontando in questo articolo la ‘nuova teoria’ sarebbe una teoria paraconsistente della razionalità. 63 Monologion, 20, 170C, p. 35, 26-29.
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sarla tutta in ogni singolo luogo, allora non si può affermare che la somma natura sia tutta in ogni singolo luogo. Q uomodo totum quoque est simul in alio loco, si nihil de eo potest esse in alio loco? Q uoniam igitur unum totum non potest esse simul in diversis locis totum, consequitur ut per singula loca singula sint tota, si in singulis locis simul aliquid est totum. Q uapropter si summa natura tota est uno tempore in singulis omnibus locis: quot singula loca esse possunt, tot singulae summae naturae sunt; quod irrationabile est opinari. Non est igitur tota uno tempore in singulis locis. At vero si diversis temporibus tota est in singulis locis: quando est in uno loco, nullum bonum et nulia essentia est interim in aliis locis, quia sine ea prorsus aliquid non existit. Q uod absurdum esse vel ipsa loca probant, quae non nihil sed aliquid sunt. Non est itaque summa natura tota in singulis locis diversis temporibus. Q uod si nec eodem tempore nec diversis temporibus tota est in singulis locis: liquet quia nullo modo est tota in singulis omnibus locis 64.
Anselmo passa quindi ad interrogarsi sulla presenza della singola natura in ogni singolo istante temporale (o di natura, dirà Duns Scoto), simultaneamente oppure secondo una scala ordinata. L’eternità è la somma natura stessa, ed un ordine temporale fenomenico (cui si applicano i modi verbali della lingua parlata) non può scomporla in parti dato che i tempi verbali non si danno simultaneamente. Q uomodo igitur stabit, quod supra rationabili et perspicua necessitate claruit, scilicet quia illa summa natura nullo modo composite sed summe simplex est et summe incommutabilis: si aliud et aliud est in diversis temporibus et per tempora distributes habet partes? Aut potius si illa vera sunt, immo quia liquida vera sunt: quomodo haec possibilia sunt? 65.
Non può essere neppure distintamente nei singoli istanti temporali, perché ciò che è si trova sempre immerso nel presente del verbo indicativo dell’attualità, quindi la somma natura non è tutta integralmente né simultaneamente in tutti gli istanti, Ibid., 21, 172B, p. 37, 2-15. Ibid., 173A, p. 38, 4-8.
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né ordinatamente in ciascuno istante. Alla fine del ragionamento, per l’autore bisogna tuttavia ricordare la conclusione del precedente capitolo: Sed rursus cum constet inexpugnabiliter non solum quia est per se et sine principio et sine fine sed quia aliquid sine ea nec usquam nec umquam est: necesse est illam esse ubique et semper 66.
Nel capitolo ventiduesimo Anselmo mostra un atteggiamento profondamente diverso da quello kantiano di fronte a delle apparenti antinomie. Mentre Kant considera l’esistenza di genuine antinomie della ragione, ossia la validità certa di un’argomentazione a favore di A e della sua contraddittoria non-A, come la prova dell’impossibilità dell’analisi della cosa in sé, Anselmo sembra affermare che ci troviamo di fronte ad un’antinomia della ragione, ossia ad una contraddizione lessicale (secundum prolationem) che si compone di due termini che corrispondono a tesi validamente dimostrate (secundum probationem), la cui interpretazione semantica, lungi dall’essere sterile, è invece feconda. La prima idea è che la somma natura non sia soggetta alle stesse leggi di ordine spaziale e temporale cui invece soggiacciono gli oggetti spazio-temporali dell’esperienza empirica, oggetti che formano un insieme del quale la somma natura non può fare parte, in particolare se l’insieme è definito come quello degli oggetti che sono soggetti alle leggi empiriche spazio-temporali. Nulla igitur lex loci aut temporis naturam ullam aliquomodo cogit, quam nullus locus ac tempus aliqua continentia claudit 67.
La differenza ontologica, il grado di realtà, tra l’increato ed il creato, producono una disomogeneità nella vigenza delle leggi spazio-temporali tra la somma natura ed il resto, rispetto alla quale Anselmo afferma che nessuna legge spazio-temporale la limita. Egli resta ancora lontano dall’intuizione scotiana per Ibid., 173CD, p. 38, 25-27. Ibid., 22, 174D-175A, p. 39, 23-25. Q uesto capitolo contiene un’importante difesa del creazionismo, che è anche un grand adieu allo strumento metafisico delle Idee divine archetipali. 66
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cui Dio ha una consistenza spazio-temporale paragonabile ad un infinitesimale 68, laddove il riferimento è a quegli infinitesimali che la critica storiografica gli riconosce di avere colto anticipando le discussioni della matematica seicentesca nella loro valenza ontologica 69. In illis namque duo quaedam eadem prolatio significat, id est: quia et praesentia sunt locis et temporibus in quibus esse dicuntur, et quia continentur ab ipsis; in summa vero essentia unum tantum percipitur, id est: quia praesens est, non etiam quia continetur 70.
La somma natura è con i luoghi e gli istanti temporali, ma non è nei luoghi e negli istanti temporali. La distinzione è fondamentale, certo più semplice delle elaborate distinzioni scotiane sulla fisica degli angeli, ma alla base di quelle. Il tentativo di risolvere la contraddizione è quello di intendere secondo significati diversi la coppia di contradditori: Plus enim significatur contineri aliquid cum dicitur esse in alio, quam cum dicitur esse cum alio. In nullo itaque loco vel tempore proprie dicitur esse, quia omnino a nullo alio continetur; et tamen in omni loco vel tempore suo quodam modo dici potest esse, quoniam quidquid aliud est ne in nihilum cadat ab ea praesente sustinetur. In omni loco et tempore 68 Mi riferisco alle analisi contenute in Iohannes Duns Scotus, Lectura, II, d. 2, p. 2, q. 1-2, 239-241, ed. Vaticana, XVIII, Lectura in secundum librum sententiarum, a distinctione prima ad sextam, Città del Vaticano 1983, p. 173, in cui si discute il modo in cui l’angelo occupa lo spazio, ossia un luogo puntuale, né più grande, né più piccolo. 69 Ne ha recentemente reso conto Jean-Luc Solère durante un convegno scotista, La Postérité de Duns Scot (Université de Strasbourg, 18-21 marzo 2009, incontro nel contesto del Q uadruple Congress on John Duns Scotus), con la relazione Scotus geometres: les arguments scotistes géométriques en faveur du continu et leur utilisation au XVII e siècle, poi pubblicato in La réception de Duns Scot / Die Rezeption des Duns Scotus / Scotism through the Centuries, hrsg. von M. Dreyer – E. Mehl – M. Vollet, Münster – St. Bonaventure (NY) 2013 (Archa Verbi Subsidia 6), pp. 139-154. Io stesso sono intervenuto nel giugno 2010 sul tema in un ciclo di seminari dal titolo «Filosofia e Scienza» organizzati dal compianto Mario Alcaro presso l’Università della Calabria, poi apparso come L. Parisoli, Riflessioni sullo spazio in una ontologia realista: Giovanni Duns Scoto, uno Scolastico del xiii secolo, in Oggetti e metodo, a c. di R. Cirino – A. Givigliano, Roma 2012, pp. 111-142. 70 Monologion, 22, 176A, p. 40, 29-33.
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est, quia nulli abest; et in nullo est, quia nullum locum aut tempus habet 71.
Il tentativo è ingegnoso, e grazie alla distinzione lessicale tra essere-in ed essere-con, estranea alla lingua parlata, sembrerebbe fare svanire la contraddizione, che significa rimuovere la costanza di un valore semantico di falso. Tuttavia, se seguiamo coerentemente Anselmo, una volta affermato che la somma natura è con un luogo oppure con un tempo, non possiamo riproporre la contraddizione dicendo che il capitolo ventesimo dimostra che la somma natura è con ogni luogo e con ogni tempo, mentre il capitolo ventunesimo dimostra che la somma natura non è con ogni luogo e con ogni tempo? A me pare proprio di sì, a meno che non si voglia proporre un’interpretazione per cui uno o l’altro fra i due capitoli, ma non entrambi, devono essere caricati di verofunzionalità solo in relazione all’essere-in oppure all’essere-con, ma non a entrambi. Non si tratta di giocare con l’onere della prova, ma Anselmo non ci offre una pista in questa direzione, e la lettura classicista è tanto aperta quanto quella paraconsistente. E lui stesso, nel brano precedentemente citato, non predica della somma natura il predicato essere-in proponendo una coppia contraddittoria che è giustificata da due ragioni valide, ma sempre di coppia contraddittoria si tratta? Certo, aveva appena distinto tra un senso proprio dell’essere-in, per cui la somma natura non è-in, e un senso quodam modo, per cui la somma natura è-in. Ammettiamo che questa distinzione di sensi prevalga sulla riproposizione apparente della contraddizione al rigo successivo; resta aperto il quesito per cui essere-con, di cui Anselmo quasi nulla dice, non riproporrebbe la contraddizione dei due capitoli. A me pare di no. Q uando Anselmo invoca la conclusione («patet itaque quantum sat est ad dissolvendam quae insonabat contrarietatem: qualiter summa omnium essentia ubique et semper et nusquam et numquam, id est in omni et nullo loco aut tempore sit, iuxta diversorum intellectuum concordem veritatem» 72) ha rimosso la contraddizione, oppure l’ha stabilita su una base ontologica Ibid., 176AB, p. 41, 2-8. Ibid., 176C, p. 41, 15-18.
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ancora più solida che lo conduce a dirla come vera? La concorde verità di significati diversi sembra andare nella direzione di uno svelamento di una contraddittorietà meramente prima facie, ma è anche vero che una soluzione de dicto, meramente linguistica, non è possibile per chi sta accertando lo spessore ontologico della somma natura. In assoluto, non la si può escludere, e in un approccio nominalistico oppure posteriore alla celebre svolta linguistica del ventesimo secolo, in cui fiorisce la pratica del prefisso ‘meta-’ come segno cruciale della pratica filosofica 73, una lettura esclusivamente de dicto è del tutto praticabile, auspicabile, persuasiva. Anselmo non pratica però mai nelle sue opere un tale contesto filosofico; il suo argomento a priori dell’esistenza di Dio richiede un forte sistema di logica modale, quello che si dice tecnicamente ‘S5’ 74, e tutta la sua riflessione è percorsa da un realismo radicale e senza concessioni ad alcuna tentazione riduzionistica. Il suo è un discorso in cui la realtà ultima è svelata non già da un meta-linguaggio, bensì da un linguaggio che va letto de re. Ed una soluzione de re – nella concorde verità dei significati diversi – concorre ad una contraddizione vera 75. Sin dai capitoli immediatamente successivi vi sono passaggi in cui la primazia dell’ontologico è nettamente affermata, e la dis73 Non si fa più etica, bensì meta-etica, ed i due livelli non sono contemporaneamente fruibili: Patrick Nowell-Smith ha scritto un saggio in cui la meta-etica è l’unica indagine in campo morale fruibile per il filosofo. Cfr. P. H. NowellSmith, Ethics, London 1954 (tr. it. Etica, Firenze 1974); l’edizione originale inglese si colloca nel momento storico del trionfo di un approccio analitico riduzionistico. 74 Per un recente manuale – il cui contenuto evidentemente eccede la semplicità di questo riferimento (peraltro già ampiamente sottolineato in letteratura da S. Galvan, Introduzione alle logiche filosofiche 1: Estensioni della logica proposizionale classica, Milano 1985; Id., Introduzione alle logiche filosofiche 2: Applicazioni filosofiche alla logica deontica, Milano 1987, con una precisa analisi della portata logico-ontologica dell’argomento anselmiano e infine, per un’ampia riflessione generale più recente, Id., Ontologia del possibile, Milano 2009) – rinvio a Handbook of Modal Logic, ed. by P. Blackburn – J. van Benthem – F. Wolter, Amsterdam 2003. Per un’ulteriore riflessione sulla relazione tra S5 e l’argomento anselmiano, cfr. G. Stamatios, Does the Kind of Necessity which Is Represented by S5 Capture a Theologically Defensible Notion of a Necessary Being?, in Ontological Proofs Today, editeb by M. Szatkowski, Heusenstamm 2012, pp. 309-322. 75 Q uesto mi pare plausibile se parliamo del l’autore del De veritate, in cui Anselmo si muove dalle proposizioni descrittive a quelle deontiche sotto il comune segno della verofunzionalità, e in cui la verità e la realtà sembrano godere di una relazione biunivoca.
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soluzione della contraddizione sembra essere più incamerata che rimossa. Prima per lo spazio: Solemus namque saepe localia verba irreprehensibiliter attribuere rebus, quae nec loca sunt nec circumscriptione locali continentur. Velut si dicam ibi esse intellectum in anima, ubi est rationalitas. Nam cum ‘ibi’ et ‘ubi’ localia verba sint, non tamen locali circumscriptione aut anima continet aliquid, aut intellectus vel rationalitas continentur. Q uare summa natura secundum rei veritatem aptius dicitur esse ubique secundum hanc significationem, ut intelligatur esse in omnibus quae sunt, quam si intelligitur tantum in omnibus locis. Et quoniam, sicut supra expositae rationes docent, aliter esse non potest, necesse est eam sic esse in omnibus quae sunt, ut una eademque perfecte tota simul sit in singulis 76.
Poi per il tempo: Nonne ergo ‘semper’, quod videtur designare totum tempus, multo verius si de illa dicitur, et intelligitur significare aeternitatem, qua, sibi ipsi numquam est dissimilis, quam temporum varietatem, quae sibi semper in aliquo est non similis? Q uare si dicitur semper esse: quoniam idem est illi esse et vivere, nihil melius intelligitur quam aeterne esse vel vivere, id est interminabilem vitam perfecte simul totam obtinere. Videtur enim eius aeternitas esse interminabilis vita simul perfecte tota existens 77.
Accettiamo che dire ‘ovunque’ (ubique) sia preferibile a dire ‘in ogni luogo’ (in omni loco) e che dire ‘sempre’ (semper) sia preferibile a dire ‘in ogni tempo’ (in omni tempore). Se si tratta di una cura semantica del linguaggio, come la intenderanno George E. Moore e Ludwig Wittgenstein nel ventesimo secolo, dovremmo evitare accuratamente il partitivo di luoghi e di istanti quando parliamo della somma natura. Dire che ‘nell’anima si trova conoscenza dove si trova la razionalità’ per un riduzionista è esattamente dire che il luogo spazio-temporale della razionalità nel cervello contiene anche la conoscenza; non credo che Anselmo voglia suggerirci di praticare una via che è incompatibile con tutta Monologion, 23, 177AB, pp. 41, 26 - 42, 7. Ibid., 24, 177C-178A, p. 42, 14-21.
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la sua opera. L’espressione ‘nell’anima si trova conoscenza dove si trova la razionalità’ è per Anselmo un uso improprio del linguaggio, e non patogeno, altrimenti come il riduzionista vorrebbe eliminare espressioni di questo tipo; ed è un uso improprio che non genera confusione di sorta. Tanto che chiude il capitoletto ribadendo che la somma natura gode della proprietà di esserein; ma se la predicazione di essere-in rispetto alla somma natura dovrebbe essere sottoposta a terapia filosofica, perché riutilizzarla appena dopo avere ribadito che è meglio dire essere-con? Il punto è che Anselmo pone un legame biunivoco tra linguaggio e mondo, e le proprietà del linguaggio corrispondono sempre a proprietà degli oggetti reali. Se c’è contraddizione tra uso proprio e uso improprio nel linguaggio, è proprio perché la struttura ontologica del mondo è paraconsistente. E per di più si ha l’impressione che sia proprio il predicato essere-con, proposto con la funzione di superare l’apparente contraddittorietà derivante dall’uso di essere-in, a essere quello improprio, visto che Anselmo prosegue e persiste a produrre affermazioni sulla somma natura avvalendosi del predicato essere-in, che una eventuale cura linguistica non riesce per nulla ad evitare. Un discorso simile si produce per la temporalità, dove ‘sempre’ si distingue dal sintagma avverbiale ‘in ogni istante’ poiché l’eternità è una simultaneità di presente; ma se questo presente è fatto di tanti istanti, e non solo la discussione anselmiana precedente bensì la Rivelazione stessa conducono il filosofo cristiano a pensarlo 78, la loro simultaneità non può significare ‘nello stesso istante’, anche perché ‘sempre’ si propone qui come alternativa a ‘in ogni istante’, e se ne fosse sinonimo, sarebbe un’alternativa pickwickiana. La loro simultaneità pare quindi non potere essere che assenza di tempo, quindi un ordine nontemporale 79: la somma natura appartiene ad un ordine non-tem78 Non solo questo: se si predica una simultaneità che non distingue tra istanti, in realtà si tratta di una simultaneità pickwickiana, nel senso in cui si prende a prestito in filosofia analitica il vezzo dei personaggi del celebre romanzo di Charles Dickens Il circolo Pickwick di stiracchiare il significato delle parole senza alterarne la struttura lessicale. 79 In letteratura è ampiamente studiato l’uso scotiano dell’espressione ‘istanti di natura’ in senso non-temporale, per esempio nel contesto dell’analisi del mondo prima della creazione operata da Dio, quindi il mondo senza creature e con la Trinità. Al di là delle specifiche interpretazioni, mi pare comunemente
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porale anche se si manifesta nell’ordine temporale fenomenico. La contraddizione si ripresenta, non sterile, bensì feconda, visto che si propone come atta a mostrare la razionalità del dato rivelato: il ‘sempre’ che si predica della somma natura non può essere il ‘sempre’ della frase ‘ho sempre fame’, che indica un certo numero di istanti fenomenici, altrimenti coinciderebbe con ‘in ogni istante’. Gli infiniti istanti della somma natura – senza principio, né fine – devono conoscere un ordine, diverso dalle creature che conoscono uno stato del mondo in cui esse non si danno, quello stato che precede la loro creazione dal nulla. Anselmo, ricordando espressamente la creazione ex nihilo, candida ‘sempre’ ad una predicazione a-temporale della somma natura, una linea opposta a quella tommasiana che teorizzerà la pluralità di ordini temporali tra Creatore e creature, ma in linea con quella scotiana nella discussione dei futuri contingenti. La somma natura è con il tempo, e la struttura ontologica del mondo è paraconsistente, dato che la somma natura è certamente nel tempo quando vi si manifesta 80. Essere con il tempo sembra proprio il nome della contraddizione vera; se fosse invece il nome dell’estraneità totale della somma natura con il tempo, oppure della sua incommensurabilità con il tempo umano, allora l’ontologia della somma natura sarebbe radicalmente separata da quella del creato. Almeno se usiamo l’iper-realismo anselmiano, che non usa né il principio metafisico di analogia (via tommasiana), né la nozione di noumeno (via kantiana). In questo senso credo sia lecito proporre alla discussione una proposta di lettura paraconsistente della strategia filosofica anselmiana, non perché le alternative ontologiche riduzionistiche siano incoerenti oppure incompatibili con la fede cristiana – il fideismo di Guglielmo di Ockham è una genuina filosofia cristiana nominalista –, quanto perché dal filosofo che propone l’unico argomento per l’esistenza di Dio e che difende la realtà degli universali con l’argomento del De grammatico non ci si può attendere una strategia riduzionistica. Sulla stessa falsariga, si è osservato con
accettato che questi istanti di natura non sono dicibili ‘naturali’ in senso fenomenico e quindi temporale. 80 Nel capitolo 16 del Proslogion risalta la specificità della somma natura tra tutte le realtà ultime.
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coerenza di analisi che Duns Scoto ci presenta una conoscenza divina dei futuri contingenti senza valore di verità 81; interpretazione certo possibile, ma difficilmente compatibile con il progetto di estrema razionalizzazione che Scoto conduce sul deposito della fede. L’alternativa, quella di assegnare un valore di verità ai futuri contingenti che non sia né il vero, né il falso, presenta un unico problema, specie se la parola ‘conoscenza’ non è sottoposta a processi pickwickiani: si tratta di un’alternativa paraconsistente, di un nuovo valore di verità vero-e-falso oppure di una concezione gradualista della verità. Ed è su questo terreno che io vorrei proporre un filo storiografico che da Anselmo d’Aosta conduce a Giovanni Duns Scoto.
Così R. Fedriga, Libertà e contingenza in Severino Boezio e Duns Scoto, in Conoscenza e contingenza nella tradizione aristotelica medievale, a c. di S. Perfetti, Pisa 2008, pp. 137-160. 81
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Nonostante i molti lavori scientifici sulla fortuna del pensiero di Anselmo e i molti studi volti alla ricostruzione delle fonti del pensiero di Cusano, ancora oggi il rapporto storico e speculativo tra il pensiero anselmiano e quello cusaniano non è stato sufficientemente approfondito dalla letteratura critica dedicata all’uno o all’altro autore. Tuttavia l’opera di Anselmo rappresenta una fonte molto importante del pensiero del cardinale tedesco, meritevole di essere approfondita al fine di una comprensione di alcuni momenti teorici fondamentali della speculazione cusaniana 1. Cusano aveva infatti una conoscenza diretta e non marginale del Tra di essi vanno ricordati: la concezione della verità, il rapporto federagione, la cristologia, la concezione del peccato originale. Cfr. J. Hopkins, Nicholas of Cusa’s Intellectual Relationship to Anselm of Canterbury, in Cusanus. The Legacy of Learned Ignorance, ed. P. Casarella, Washington 2006, pp. 54-73. Il lavoro di Hopkins tuttavia individua solo passi paralleli nei due autori senza alcun ulteriore approfondimento né storiografico né filosofico. Un altro momento speculativo che avvicinerebbe il pensiero di Anselmo a quello di Cusano è l’utilizzo della coppia concettuale alius/non aliud per far segno al mistero trinitario della distinzione delle tre persone e dell’unità della loro essenza secondo una tradizione che risale sino ad Agostino nel contesto latino e a Gregorio Nazianzeno per quanto riguarda la patristica greca; sul tema cfr. D. Monaco, Deus Trinitas. Dio come non altro nel pensiero di Nicolò Cusano, Roma 2010, pp. 194-195. Sul rapporto tra il pensiero di Anselmo e quello di Cusano cfr. inoltre: S. Dangelmayr, Gotteserkenntnis und Gottesbegriff in den philosophischen Schriften des Nikolaus von Kues, Meisenheim am Glan 1969, pp. 173-174; Id., Anselm und Cusanus. Prolegomena zu einem Strukturvergleich ihres Denkens, in Analecta Anselmiana, III, hrsg. von F. S. Schmitt, Frankfurt am Main 1972, pp. 112-140; Id., Maximum und cogitare bei Anselm und Cusanus. Zur Problematik des Proslogion-Arguments, in Analecta Anselmiana, IV/1, hrsg. von F. S. Schmitt, Frankfurt am Main 1975, pp. 203-210; M. Maurizi, La nostalgia del totalmente non altro. Cusano e la genesi della modernità, Soveria Mannelli 2007, pp. 203-206. 1
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 497-504 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112931
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pensiero di Anselmo e nel Codex Cusanus 61 della sua biblioteca di Bernkastel-Kues sono conservate molte opere anselmiane: gli opuscoli De veritate, De libertate arbitrii, De casu diaboli, De processione Spiritus Sancti e De conceptu virginali, la Meditatio redemptionis humanae e l’omelia Intravit Jesus in quoddam castellum 2. Nel presente contributo cercheremo di soffermarci sulla concezione del divino contenuta nel celeberrimo e cosiddetto ‘argomento ontologico’ anselmiano del Proslogion, non prendendo in considerazione il suo presunto o reale valore dimostrativo, ma l’idea di Dio in esso contenuta per vederne una possibile fortuna all’interno dell’opera del cardinale tedesco. Q uando discute il pensiero anselmiano l’attenzione di Cusano si sofferma infatti sul particolare valore apofatico delle sue riflessioni sul divino. Oggetto precipuo dell’interesse cusaniano è la specialissima rielaborazione presente in Anselmo della teologia negativa che possiamo vedere emblematicamente rappresentata nella duplice formulazione anselmiana contenuta nel capitolo XV del Proslogion: «Ergo domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit» 3. Già la prima affermazione – quo maius cogitari nequit – è infatti una affermazione negativa, una formulazione di teologia negativa, tuttavia Anselmo completa la sua formulazione con una negazione della stessa negazione – maius quam cogitari possit – in cui si esplicita o almeno si accenna allo stesso valore veritativo della prima affermazione negativa e dello stesso argomento 4. 2 Cfr. J. Marx, Verzeichnis der Handschriften-Sammlung des Hospital zu Cues bei Bernkastel a./Mosel, Trier 1905, pp. 67-68. 3 Cfr. Proslogion, 15, 235C, p. 112, 14-15. 4 Un ulteriore aspetto filosoficamente molto interessante dell’argomentazione anselmiana, su cui ha richiamato recentemente l’attenzione il filosofo napoletano Vincenzo Vitiello, è l’uso della seconda persona. Anselmo non utilizza la terza persona tipica della logica astratta aristotelica, né la logica della prima persona, del soggetto, che si affermerà nella modernità con Cartesio, ma segue la logica della seconda persona: il suo discorso è un dialogo, o meglio un’invocazione, un rivolgersi dell’io all’Altro. Si tratta di un procedimento discorsivo che si rivolge ad un tu a partire da un io, è dunque un discorso che è già relazione, il quale si sviluppa a partire da una relazione e che ricalca emblematicamente il procedimento della preghiera. Anselmo mantiene vivo il radicamento in una dimensione del finito, quella dell’io a partire dal quale il discorso si sviluppa, e allo stesso tempo apre ad una relazione con un’ulteriorità che trascende tale dimensione, il tu a cui si rivolge. Su questi temi cfr. V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Roma 2002; Id., Dire Dio in segreto, Roma 2005.
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Il tentativo di ripensare la teologia negativa concependo la negazione non come mera privazione, di tenere insieme affermazione e negazione, teologia negativa e teologia positiva è il centro del pensiero di Cusano 5. Come il cardinale tedesco più volte ribadisce nella sua opera, il suo interesse filosofico principale e per lui il compito del pensiero stesso è pensare l’Uno, Dio, il Primo 6. Un compito a cui il cardinale corrisponde ponendosi nel solco della grande tradizione del neoplatonismo cristiano che applica al medesimo ‘oggetto’ gli esiti delle prime due ipotesi – dell’Unouno e dell’Uno-che-è – del Parmenide platonico 7. Una tradizione in cui Cusano si inserisce con un elaborazione speculativa affatto singolare attraverso l’individuazione di alcuni nomi divini, tra
5 Per un approfondimento di tale aspetto del pensiero cusaniano cfr. Monaco, Deus Trinitas cit., pp. 81-162. 6 Cfr. Nicolaus Cusanus, De filiatione dei, V, 83, in Nicolai de Cusa Opera omnia (d’ora in poi Op.), IV, Hrsg. P. Wilpert, Hamburg 1959, [pp. 39-64], p. 59, 1-3: «Unum est, quod omnes theologizantes aut philophantes in varietate modorum exprimere conantur». 7 Il rapporto del pensiero cusaniano con quello neoplatonico è stato oggetto di numerosi studi, tra i quali spiccano per l’altissimo valore storico e speculativo quelli di Werner Beierwaltes. Cfr. W. Beierwaltes, Das Seiende Eine. Zur neuplatonisches Interpretation der zweiten Hypothesis des platonischen Parmenides: das Beispeiel Cusanus, in Proclus et son influence, Actes du Colloque de Neuchâtel (Juin 1985), éd. par G. Boss – G. Seel, Paris 1987, pp. 287-297 (e in Id., Procliana. Spätantikes Denken und seine Spuren, Frankfurt am Main 2007, pp. 215-222); Id., Eriugena und Cusanus, in Eriugena redivivus. Zur Wirkungsgeschichte seines Denkens im Mittelalter und im Übergang zur Neuzeit, Vorträge des V. Internationalen Eriugena-Colloquiums (Bad Homburg, 26.-30. August 1985), hrsg. von W. Beierwaltes, Heidelberg 1987, pp. 243-311 (e in Id., Eriugena. Grundzüge seines Denkens, Frankfurt am Main 1994, pp. 266-312); Id., Der verborgene Gott. Cusanus und Dionysius, in Id., Platonismus im Christentum, Frankfurt am Main 1998, pp. 130-171; Id., «Centrum tocius vite». Zur Bedeutung von Proclos’ Theologia Platonis im Denken des Cusanus, in Proclus et la Thèologie Platonicienne, Actes du Colloque International (Louvain, 13-16 mai 1998), éd. par A. Ph. Segonds – C. Steel, Louvain – Paris 2000, pp. 629-651 (e in Id., Procliana cit., pp. 191-214); Id., Nicolaus Cusanus: Innovation durch Einsicht aus der Überlieferung – Paradigmatische Gezeigt an seinem Denken des Einen, in Herbst des Mittelalters?, Hrsg. A. Aertsen – M. Pickave, Berlin – New York 2004, pp. 351370 (e in Id., Procliana cit., pp. 165-190); Id., Theophanie. Nicolaus Cusanus und Johannes Scottus Eriugena. Eine Retractatio, in «Philotheos», 6 (2006), pp. 153175. I saggi citati sono ora disponibili in traduzione spagnola raccolti nel volume Id., Cusanus. Reflexión metafísica y Espiritualidad, tr. sp. di A. Ciria, Pamplona 2005. Sull’interpretazione di Beierwaltes del pensiero cusaniano cfr. D. Monaco, Pensare l’Uno con Cusano. L’interpretazione di Werner Beierwaltes, in Cusano, a c. di D. Monaco [= «Il Pensiero», 1-2 (2009)], pp. 115-128.
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i quali per originalità e profondità spiccano quelli di non aliud, possest, posse. Come abbiamo visto nel catalogo della biblioteca di Bernkastel-Kues, il Proslogion anselmiano manca, tuttavia chiaramente il numero delle opere che Cusano conosceva e di cui era venuto in possesso nei suoi numerosi viaggi va ben al di là di quelli presenti nella sua pur molto fornita biblioteca così come ci è stata tramandata – basti pensare alla traduzione latina del Parmenide di Platone fatta da Trebisonda che, pur non essendo presente nella summenzionata biblioteca, è stata certamente tra le opere possedute e utilizzate dal cardinale 8. Come attestano le citazioni presenti nella sua opera, Cusano conosceva i contenuti del Proslogion e li utilizzava ampiamente interpretandoli e modificandone il significato originario. Il cardinale tedesco cita infatti alcuni passi del Proslogion direttamente ed esplicitamente già nei sermoni antecedenti la sua prima grande opera speculativa, il De docta ignorantia del 1440, e li riporta ricorrentemente sino alle sue ultime opere. Una prima menzione di carattere paradigmatico per comprendere l’uso cusaniano del pensiero anselmiano si ritrova nel sermone del 1° gennaio del 1439 Nomen eius Jesus, in cui Cusano esplicitamente scrive: «Nam hoc solum habemus per Anselmum, quod Deus est melius quam cogitari possit» 9. Cusano interpreta tale affermazione anselmiana come un’asserzione di teologia negativa che ci farebbe conoscere di Dio non tanto quid est, bensì quid non est, ossia come un’affermazione negativa 10. Ancora nel libro I del De docta ignorantia, al cui centro è Dio pensato come maximum simpliciter o absolutum, Cusano definisce il massimo da un lato come «quo maius esse nequit» e dall’altro, allo stesso tempo, come «super omne id est quod per nos concipi potest» 11, ossia con una duplice affermazione che non può non 8 Cfr. sul tema R. Klibansky, The continuity of the Platonic tradition during the Middle Ages, London 1939 (München 19812), pp. V-IX; I. Ruocco, Introduzione, in Id., Il Platone latino. Il Parmenide: Giorgio di Trebisonda e il cardinale Cusano, Firenze 2003, pp. 5-34. 9 Cfr. Nicolaus Cusanus, Sermo XX, in Op., XVI, fasc. 3, Hrsg. R. Haubst – M. Bodewig, Hamburg 1977, [pp. 302-317], 6, p. 304, 4-5. 10 Cfr. ibid., 6, p. 304, 9-11: «Unde secundum hoc, quia potius scimus ‘quid Deus non est’ quam ‘quid est’, Deus potius est innominabilis quam nominabilis». 11 Cfr. Id., De docta ignorantia, I, 4, in Op., I, Hrsg. E. Hofmann – R. Klibansky, Hamburg 1932, p. 10, 4-8: «Maximum, quo maius esse nequit, sim-
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richiamare la summenzionata ambigua formulazione del cap. XV del Proslogion. In un opuscolo del 1445, il De quaerendo Deum – il cui esordio sembra richiamarsi proprio al procedimento speculativo messo in atto nel Proslogion 12 – ancora una volta riferendosi a Dio utilizza l’espressione «melius quam concipi possit» di indubbio sapore anselmiano 13. Chiudendo la veloce serie di riferimenti anselmiani presenti nell’opera cusaniana si aggiunga che nel De venatione sapientiae Cusano cita esplicitamente l’arcivescovo di Canterbury dicendo che il beato Anselmo veraciter asserisce che Dio è maius quam concipi possit, dunque richiamando la seconda parte della formulazione del cap. XV del Proslogion e attribuendo tali parole direttamente ad Anselmo 14. Ricordiamo altresì che un’espressione di impronta anselmiana si ritrova ancora nel De non aliud, nel quale il cardinale tedesco scrive: «Omnes enim theologi Deum viderunt quid maius esse quam concipi posset» 15. Il portato apofatico della formulazione anselmiana è dunque ben presente in Cusano, o meglio ancora si può dire che la duplicità della formulazione anselmiana è reinterpretata e fatta propria dal cardinale che – insieme ad altre fonti – la incorpora rendendola il cardine, il fulcro, della sua concezione del divino e della sua oripliciter et absolute cum maius sit, quam comprehendi per nos possit, quia est veritas infinita, non aliter quam incomprehensibiliter attingimus. Nam cum sit de natura eorum, quae excedens admittunt et excessum, super omne id est, quod per nos concipi potest». 12 Procedimento consistente in un ascendere conoscitivo che conduce attraverso il conflictus cogitationum fino all’intuizione intellettuale più immediata e diretta del manifestarsi del vero che ha come oggetto il quo maius cogitari possit. Sull’impiego di tale procedimento speculativo in Anselmo cfr. G. d’Onofrio, «In cubiculum mentis». L’intellectus anselmiano e la gnoseologia platonica altomedievale, in Rationality from Sant Augustine to Saint Anselm, ed. by C. Viola and J. Kormos, Piliscsalba 2005, pp. 61-88; e Id., Vera Philosophia. Studies in Late Antique, Early Medieval and Renaissance Christian Thought, Turnhout 2008 (Nutrix, 1), pp. 237-264. Sul parallelo tra Anselmo e Cusano cfr. Id., Nel cuore della «rivoluzione gnoseologica»: Cusano e la dottrina della contractio fra Medioevo e Rinascimento, in Cusano cit. (alla nota 7), [pp. 7-24], pp. 12-14. 13 Cfr. Nicolaus Cusanus, De quaerendo Deum, V, in Op., IV (cit. alla nota 6), [pp. 33-35], p. 34, 9. 14 Cfr. Id., De venatione sapientiae, XXVI, 77, ibid., XII, Hrsg. R. Klibansky – H. G. Senger, Hamburg 1982, [pp. 3-113], p. 74, 4-5. 15 Cfr. Id., Directio speculantis seu de non aliud, IV, ibid., XIII, Hrsg. L. Baur – P. Wilpert, Hamburg 1944, [pp. 3-65], p. 8, 23-24.
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ginale formulazione dei nomi divini, che sono il cuore del suo pensiero, il motivo dominante della sua opera e della sua speculazione. Il comune denominatore speculativo delle immagini enigmatiche o nomi divini cusaniani è infatti la concezione di Dio esplicitata nella duplice vertiginosa formulazione del cap. XV del Proslogion, secondo la quale Anselmo pensa Dio come l’essere maggiore e più perfetto pensabile, ma allo stesso tempo anche come ulteriore rispetto ad ogni pensiero, anche al più perfetto possibile. L’incomprensibilità del divino tuttavia, come in Cusano e a differenza che in altri autori, non è scacco della conoscenza, bensì sollecitazione e misura di ogni nostro tentativo pensante di approssimarci a esso. Corrispettivamente ogni qualsivoglia nome, figura, simbolo, metafora utilizzato per esprimerlo cerca da un lato di dar voce all’essere massimo e assoluto pensabile al di là di ogni grado o ordine del finito, sebbene dall’altro non possa esaurirlo, ma solo rimandare oltre di sé e oltre il pensare stesso. Per Anselmo Dio non solo è l’essere e il pensiero massimi, ma anche ulteriore rispetto ad essi. Una concezione di matrice neoplatonico-cristiana che il cardinale tedesco ha fatto propria nel suo cammino speculativo e che rappresenta lo sfondo di ogni sua formulazione enigmatica, di ogni nome divino da lui elaborato. Per Cusano Dio non solo è il maximum absolutum o simpliciter al di là di ogni ordine e grado, non solo è l’esse, il conceptus, la ratio assoluti ma allo stesso tempo è al di là dell’essere e del pensiero. Cusano fa propria la domanda che anche Anselmo pone alla fine del Monologion circa il valore del nostro discorso sulla somma essenza visto che essa è ineffabile 16. Richiamando indirettamente Paolo (1Cor 13, 12) Anselmo risponde dicendo che non vediamo, conosciamo o parliamo di essa propriamente, ma per similitudini e immagini, per enigmi, come quando guardiamo il volto di qualcuno in uno specchio 17. Non a caso il passo di 1Cor 13, 12 Cfr. Monologion, 65, 211BC, pp. 75, 18 - 76, 9. Cfr. ibid., 211C-212B, pp. 76, 11 - 77, 3: «Saepe namque multa dicimus, quae proprie sicut sunt non exprimimus, sed per aliud significamus id quo proprie aut nolumus aut non possumus depromere; ut cum per aenigmata loquimur. Et saepe videmus aliquid non proprie, quemadmodum res ipsa est, sed per aliquam similitudinem aut imaginem; ut cum vultum alicuius consideramus in speculo. Sic quippe unam eandemque rem dicimus et non dicimus, videmus et non videmus. Dicimus et videmus per aliud, non dicimus et non videmus per suam proprietatem. Hac itaque ratione nihil prohibet et verum esse quod disputatum 16 17
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è presentissimo in Cusano 18. Se la nostra conoscenza della somma essenza secondo il Monologion è una conoscenza «per aliud velut in aenigmate» 19, in Cusano la conoscenza del divino, o meglio ogni conoscenza, è coniectura, ossia una asserzione positiva che partecipa della verità nell’alterità 20 o come scrive nel De filiatione Dei un pensare per enigmi 21. Al centro del pensiero cusaniano vi è il tentativo di pensare e parlare di Dio positivamente senza finitizzarlo, entificarlo, oggettivarlo, de-finirlo, ossia tenendo insieme la teologia positiva e l’istanza critico-negativa della teologia negativa. Ciascun nome divino cusaniano cerca pertanto di indicare il massimo grado dell’essere pensabile – la coincidentia oppositorum, maximus absolutus in quanto perfetta coincidenza di ogni opposizione dell’ambito del finito, l’idem absolutum, l’identità massima pensabile al di là di ogni finita identità sempre relativa, est hactenus de summa natura, et ipsam tamen nihilominus ineffabilem persistere: si nequaquam illa putetur per essentiae suae proprietatem expressa, sed utcumque per aliud designata. Nam quaecumque nomina de illa natura dici posse videntur: non tam mihi eam ostendunt per proprietatem, quam per aliquam innuunt similitudinem. (…) Sic igitur illa natura et ineffabilis est, quia per verba sicuti est nullatenus valet intimari; et falsum non est, si quid de illa ratione docente per aliud velut in aenigmate potest aestimari». 18 Cfr. sul tema Monaco, Deus Trinitas cit. (alla n. 1), pp. 236-250. 19 Cfr. Monologion, 65, 212B, p. 77, 3. 20 Cfr. Nicolaus Cusanus, De coniecturis, I, 11, in Op., III, Hrsg. J. Koch – K. Bormann – H. G. Senger, Hamburg 1972, [pp. 3-183] p. 58, 10-11: «Coniectura igitur est positiva assertio in alteritatem veritatem, uti est, participans». Sul concetto di coniectura cfr. J. Koch, Die ars coniecturalis des Nikolaus von Kues, Köln – Opladen 1956; Id., Der Sinn des zweiten Hauptwerkes des Nikolaus von Kues De coniecturis, in Nicolò da Cusa. Relazioni tenute al Convegno Interuniversitario di Bressanone nel 1960, a c. di G. Flores D’Arcais, Firenze 1962, pp. 101-123; S. Oide, Über die Grundlagen der cusanischen Konjecturenlehre, in «Mitteilungen und Forschungbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 8 (1970), pp. 147-178; P. Hirt, Interpretation von De coniecturis. Vom Wesen der konjekturalen Logik nach Nikolaus von Kues, ibid., pp. 179-191; M. De Gandillac, Les conjéctures de Nicolas de Cues, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 77 (1972), pp. 356-364; M. Alvarez Gómez, Der Mensch als Schopfer seiner Welt. Überlegungen zu ‘de coniecturis’, in «Mitteilungen und Forschungbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 13 (1978), pp. 160-166; D. Nardelli, Il ‘de coniecturis’ nell’epistemologia di Niccolò Cusano, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari», 25-26 (1982-1983), pp. 323-371. 21 Cfr. Nicolaus Cusanus, De filiatione Dei, II, 55, ed. Wilpert cit. (alla nota 6), [pp. 39-64], p. 42, 3-6.
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l’aequalitas, l’assoluta eguaglianza al di là delle sempre imperfette eguaglianze del mondo, il possest, compiuta coincidenza di posse ed esse al di là di ogni sempre imprecisa loro complicazione mondana, il non aliud, ossia il conceptus absolutus, il concetto di ogni concetto, sebbene al di là di ogni possibile concetto – benché Dio non sia identificabile immediatamente con nessuno di essi, ma resti sempre ulteriore, al di là di essi. La differenza tra Dio e i suoi nomi non è mai negata: le immagini-concetto sono luoghi del pensare, sentieri, vie, attraverso cui la mente può portarsi sino alle sue estreme possibilità per aprirsi ad una sua ulteriorità in un infinito e inesauribile esercizio di kenosis del logos che potrebbe accomunare l’arcivescovo di Canterbury e il cardinale tedesco.
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IL RUOLO DEL MONACHESIMO BENEDETTINO NEL PLATONISMO CRISTIANO DEL RINASCIMENTO
Q uando, nel 1970, Paul Oskar Kristeller pubblica in «The American Benedictine Review» il suo studio The Contribution of Religious Orders to Renaissance Thought and Learning, fornisce per la prima volta, attraverso un dettagliato esame delle biblioteche monastiche e delle singole personalità di monaci dediti agli studia humanitatis, gli strumenti per una valutazione generale del ruolo svolto dal monachesimo benedettino nella costruzione della nuova cultura nei secoli xv e xvi 1. Se, a partire da questo e da altri studi di Kristeller, si sono sviluppate alcune ricerche su temi o problemi particolari relativi al mondo monastico, si devono ai lavori di Gregorio Penco e Giorgio Picasso le più recenti ricostruzioni storiche complessive dei rapporti tra la tradizione monastica e l’umanesimo italiano 2. Entrambi gli studiosi benedettini, osservando il mondo monastico dall’interno, e ricostruendone la storia a partire dalla crisi del secolo xiv, hanno tentato di cogliere tanto gli aspetti particolari, quanto il senso complessivo dell’incontro tra l’antica cultura monastica e le istanze emergenti della cultura moderna. Se è vero in generale che «quanto (…) alle reciproche 1 Cfr. P. O. Kristeller, The Contribution of Religious Orders to Renaissance Thought and Learning, in «The American Benedictine Review», 21 (1970), pp. 1-55, poi riedito in Id., Medieval Aspects of Renaissance Learning. Three Essays, Durham 1974, pp. 95-114. Cfr., in particolare, le appendici A (Libraries of Religious Orders), pp. 121-125, e B (Humanists and Scholars of the Religious Orders), pp. 126-158. 2 Cfr. in particolare G. Penco, Il monachesimo fra spiritualità e cultura, Milano 1991; G. Picasso, Tra umanesimo e devotio. Studi di storia monastica, Milano 1999.
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 505-523 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112932
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relazioni e ai veri e propri influssi tra mondo monastico e mondo laico sul piano culturale, librario e scrittorio e, in genere, tra monachesimo e umanesimo, siamo ancora ben lontani dall’avere un quadro preciso sia per la dispersione del materiale sia per l’inadeguato studio del medesimo» 3, nondimeno gli studi più recenti, dedicati sia alla storia del monachesimo, sia ad aspetti particolari dell’umanesimo italiano, hanno fornito elementi ulteriori per valutare il ruolo svolto da alcuni ambienti benedettini già a partire dalla prima metà del Q uattrocento. Tanto le ricerche di Penco quanto quelle di Picasso mostrano, da una rigorosa prospettiva storica, il nesso nel secolo xiv tra «la caduta di spiritualità e di disciplina» e «la decadenza della cultura e degli studi», e dunque il significato di quell’esigenza di incrementare ed innovare gli studi tra i monaci di cui sono testimonianza le due bolle di Benedetto XII Fulgens sicut stella e Summi Magistri, risalenti rispettivamente al 1335 ed al 1336 4. In esse viene presentata una nuova legislazione monastica che tocca sia l’àmbito organizzativo e disciplinare sia, soprattutto, l’ordo studiorum. Si manifesta quindi, fin dalla prima metà del Trecento, una evidente esigenza di rinnovamento culturale proveniente anzitutto dal seno stesso del monachesimo benedettino, esigenza che finirà più tardi per incontrarsi con la nuova cultura nascente, fondata sul recupero della tradizione filosofica e patristica. Un incontro che appare storicamente decisivo per la stessa vicenda del monachesimo. Come scrive Giorgio Picasso, «è proprio durante l’umanesimo che matura quella riforma del monachesimo, e la sua stessa organizzazione, che poi si manterrà per tutto il periodo cosiddetto moderno, fino al tempo delle soppressioni alla fine del secolo xviii» 5. A questa profonda esigenza di rinnovamento spirituale e culturale avvertita all’interno Penco, Il monachesimo fra spiritualità e cultura cit., p. 292. Picasso, Tra umanesimo e devotio cit., p. 98. Devo ai preziosi suggerimenti di Nicola Russomando il riconoscimento della centralità del rapporto esistente tra gli studi e la disciplina nel mondo monastico. Per un’analisi della generale situazione di decadenza del mondo benedettino nel secolo xiv e dei tentativi di riforma intrapresi cfr. G. Spinelli, Monachesimo e società tra xiv e xv secolo nell’ambiente di Ambrogio Traversari, in Ambrogio Traversari nel vi centenario della nascita, Atti del convegno internazionale di studi (Camaldoli-Firenze, 15-18 settembre 1986), a c. di G. C. Garfagnini, Firenze 1988, pp. 49-68. 5 Picasso, Tra umanesimo e devotio cit., p. 99. 3
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dell’Ordine risponde, ad esempio, quella «riforma efficace del monachesimo» attraverso gli studi condotta da Ludovico Barbo – uno dei protagonisti del rinascimento monastico della prima metà del Q uattrocento – a S. Giustina 6. L’esigenza di un rapporto diretto con le fonti patristiche o con i testi della tradizione filosofica greca, o i modi attraverso i quali vengono affrontati i temi teologici e filosofici propri della nuova cultura assumono, in alcuni ambienti benedettini, i caratteri di una renovatio consapevolmente vissuta come ritorno alle origini autentiche della dottrina e della vita cristiane. Emerge con chiarezza, dunque, come l’elemento caratterizzante di tale renovatio non sia tanto la pur presente polemica con la tradizione scolastica, quanto piuttosto il tentativo di istituire un ‘rapporto di continuità’ fra la ‘tradizione teologica’ dei Padri ed una ritrovata identità cristiana 7. Certo, come ha avuto occasione di ricordare Kristeller, il coinvolgimento del clero, sia di quello regolare che di quello secolare, negli studia humanitatis non fu generale 8, ma l’impegno di un numero notevole di religiosi e di ambienti 6 Cfr. ibid., p. 9. Sulla figura di Ludovico Barbo e, in generale, sull’ambiente monastico veneto cfr. G. Penco, Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del medioevo, Milano 1983, pp. 309-315; Id., Vita monastica e società nel Q uattrocento italiano, in Riforma della chiesa, cultura e spiritualità nel Q uattrocento veneto, Atti del convegno per il vi centenario della nascita di Ludovico Barbo (1382-1443) (Padova – Venezia – Treviso, 19-24 settembre 1982), a c. di F. G. Trolese, Cesena 1984, pp. 3-41. Molto utile per la comprensione dello sviluppo nella prima età moderna della cultura monastica della congregazione cassinese (termine con cui viene designata, a partire dal 1505, la congregazione di S. Giustina) è il volume di B. Collett, Italian Benedictine Scholars and the Reformation: the Congregation of Santa Giustina of Padua, New York 1985. Lo studio, dedicato ai rapporti del monachesimo con la Riforma protestante, traccia in modo particolarmente efficace, anche se non privo di talune forzature, i rapporti tra il mondo benedettino rinnovato e la cultura umanistica. 7 Sui caratteri del primo umanesimo nei suoi rapporti con la tradizione scolastica, oltre che sull’eredità scolastica presente in Pico e in Ficino, si vedano le discusse ma ancora per molti versi attuali osservazioni contenute in P. O. Kristeller, Florentine Platonism and its Relations with Humanism and Scholasticism, in Id., Studies in Renaissance Thought and Letters, 4 voll., Roma 1956-1996, II, 1985, pp. 39-48. 8 Cfr. Id., The Role of Religion in Humanism and Platonism, in ibid., II, pp. 129-133. È importante notare che, a fronte del ruolo propulsivo svolto da alcuni ambienti monastici nei confronti delle istanze culturali dell’umanesimo, non poche sono state le opposizioni, soprattutto da parte degli ordini mendicanti, molto più legati alla tradizione scolastica. Sul radicale antagonismo tra i «maestri dello spirito» appartenenti agli ordini mendicanti e i «litterati»
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monastici divenne determinante per le sorti dell’umanesimo. In questo contesto, ripercorrendo le linee di ricerca tracciate dalla letteratura più recente, concentreremo l’attenzione su due temi fondamentali che testimoniano non soltanto l’integrazione del monachesimo nel più ampio processo di rinnovamento umanistico, ma anche l’esigenza profondamente avvertita di edificare un umanesimo specificamente cristiano: il tema della costruzione del ‘Platone cristiano’ e quello della dignitas hominis.
1. L’«accademia camaldolese» e il ‘Platone cristiano’ del Rinascimento Gli studi relativi alla Rezeptionsgeschichte dell’opera di Platone nel Rinascimento italiano hanno avuto negli ultimi due decenni, a partire dal monumentale lavoro di James Hankins, un significativo sviluppo 9. Essi hanno fatto emergere con dovizia di particolari il complesso processo di acquisizione dell’opera di Platone all’interno dell’orizzonte culturale umanistico. Se è indubitabile, come queste ricerche hanno ampiamente mostrato, la marginalità della cultura monastica nel processo di traduzione e trasmissione del corpus platonico, non si può tuttavia sottovalutare la posizione privilegiata di alcuni esponenti del mondo monastico nel generale sviluppo storico-speculativo del platonismo rinascimentale. La diffidenza manifestata da religiosi dinanzi ad alcuni aspetti della ‘riscoperta’ dei dialoghi platonici (esemplare l’ostilità del monaco camaldolese Ambrogio Traversari nei confronti di un protagonista della rinascita platonica nella Firenze del primo Q uattrocento come Leonardo Bruni, ostilità molto ben ricostruita da Hankins 10) non implica tuttavia che non si andasumanisti cfr. R. L. Guidi, Il dibattito sull’uomo nel Q uattrocento. Indagini e dibattiti, Roma 1999. 9 Cfr. J. Hankins, Plato in the Italian Renaissance, 2 voll., Leiden – New York 1990; tr. it. parziale, La riscoperta di Platone nel Rinascimento italiano, Pisa 2009. Per gli studi relativi alla diffusione delle opere di Platone nel Rinascimento successivi al 1990, si veda l’aggiornamento bibliografico contenuto nella traduzione italiana della monografia di Hankins (pp. 513-531). 10 Cfr. ibid., pp. 59-61; tr. it., pp. 105-107. Hankins rileva, da un lato, l’osti lità di Bruni per quel mondo religioso che nascondeva «la propria ambizione dietro un atteggiamento umile e devoto» (tr. it., p. 105), dall’altro la diffidenza manifestata da Traversari dinanzi alle versioni dei dialoghi platonici di Bruni.
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sero sviluppando parallelamente, proprio all’interno del mondo monastico, sofisticati strumenti ermeneutici che consentissero l’acquisizione e la diffusione della dottrina platonica – e, in generale, della filosofia pagana – nel mondo cristiano. Appare legittimo, proprio in questo senso, ravvisare il contributo specifico del monachesimo non nella diretta opera di traduzione del corpus platonico, ma nella trasmissione di quella tradizione platonica che non si esaurisce nella sola opera di Platone e la cui incidenza appare per molti versi decisiva per la fisionomia che più tardi assumerà, soprattutto attraverso l’opera ficiniana, il platonismo rinascimentale. È a questo proposito importante notare come sarà proprio questa tradizione a costituire, per gran parte della cultura filosofica del Rinascimento, la cornice interpretativa entro la quale collocare l’autentico messaggio platonico e attraverso la quale presentarlo come modello anche per l’uomo cristiano. In questa ottica la funzione di alcuni ambienti benedettini sembra, a nostro giudizio, svolgersi in due direzioni fondamentali: anzitutto nel senso della proposizione di temi e prospettive speculative desunti, in modo particolare, dalla tradizione patristica più legata al platonismo; in secondo luogo nel senso di una mediazione volta a correggere alcuni degli esiti più problematici della riproposizione della cultura classica e, in particolare, della filosofia platonica nell’Occidente cristiano. In un saggio relativamente recente dedicato alla «camaldolese academy», Dennis F. Lackner ha ricostruito in modo efficace (colmando peraltro una lacuna storiografica) il rapporto di dipendenza del platonismo fiorentino dei secoli xv e xvi proprio dall’opera di Traversari e dall’ambiente camaldolese attorno al quale, a partire dai primi anni del Q uattrocento, si costituisce «the core of early Florentine Platonism» 11. In questa ricostruzione ci si muoverà proprio a partire da alcune indicazioni particolarmente significative fornite dalla ricerca di Lackner per far emergere gli elementi fondamenLe riserve di Traversari in relazione ai dialoghi platonici sono desumibili anche dall’epistolario, da cui emergono, ad esempio, i pesanti rilievi nei confronti della versione del Fedro di Leonardo Bruni (cfr. p. 67; tr. it., p. 116). 11 D. F. Lackner, The Camaldolese Academy: Ambrogio Traversari, Mar silio Ficino and the Christian Platonic Tradition, in Marsilio Ficino: his Theology, his Philosophy, his Legacy, eds. M. J. B. Allen – V. Rees – M. Davies, Leiden 2002, [pp. 15-43], p. 15.
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tali del processo di costruzione di quel platonismo cristiano frutto dell’incrocio fra la tradizione monastica e la rinascita platonica del secolo xv. È largamente nota l’importanza del contributo di Traversari all’opera di traduzione e trasmissione di un patrimonio teologico ancora, nella prima metà del Q uattrocento, in gran parte inaccessibile al mondo latino; così come è nota la durevole influenza, diretta o indiretta, esercitata dal monaco benedettino su alcuni degli autori più originali del Q uattrocento 12. L’opera di Traversari non si configura peraltro come una iniziativa individuale o un’impresa confinata entro gli angusti confini del chiostro. Il significato della sua opera va còlto considerando il suo inserimento ‘organico’ nella politica culturale medicea dell’età di Cosimo, inserimento particolarmente evidente se soltanto si considera lo stretto legame tra l’azione teologico-politica del monaco camaldolese al Concilio di Firenze – momento decisivo, anche sul piano culturale, per l’incontro con la tradizione del cristianesimo orientale 13 – e il programma di traduzioni dei codici provenienti dall’Oriente cristiano concordato con lo stesso Cosimo
12 Sull’opera di Traversari e, soprattutto, sulla sua incidenza sulla vita intellettuale e religiosa del secolo xv cfr. L. Stinger, Humanism and the Church Fathers: Ambrogio Traversari (1386-1439) and Christian Antiquity in the Italian Renaissance, Albany 1977 e C. Somigli – T. Bargellini, Ambrogio Traversari monaco camaldolese. La figura e la dottrina monastica, Bologna 1986. Ancora densa di fascino per la ricostruzione dei rapporti esistenti tra il monaco camaldolese e gli esponenti delle prime generazioni di umanisti, la monumentale opera di L. Mehus, Vita Ambrosii Traversarii, 2 voll., Firenze 1759. Il secondo volume del l’opera contiene l’epistolario traversariano curato dal camaldolese Pietro Canneti (senza numerazione di pagina). Le Epistole saranno citate da questa edizione, riportando il numero del libro in cui è suddiviso l’epistolario e il numero della singola epistola. Sui caratteri e l’utilità della biografia traversariana di Lorenzo Mehus, frutto significativo dell’erudizione settecentesca cfr. A. Perosa, Sulla pubblicazione degli epistolari degli umanisti, in Id., Studi di filologia umanistica, 3 voll., III, Umanesimo italiano, a c. di P. Viti, Roma 2000, pp. 9-22; A. Campana, Intorno a Lorenzo Mehus, in «Studi Medievali e Umanistici», 2 (2004), pp. 9-23. Utili indicazioni, infine, sul ruolo svolto da Traversari nel complesso della rinascita degli studi classici in Occidente e nella trasmissione, attraverso l’intensa opera di traduzione, del patrimonio teologico greco, in N. G. Wilson, From Byzantium to Italy: Greek Studies in the Italian Renaissance, Baltimore 1992. 13 Cfr. Dotti bizantini e libri greci nel l’Italia del secolo XV, Atti del convegno internazionale (Trento, 22-23 ottobre 1990), a c. di M. Cortesi – E. V. Maltese, Napoli 1992.
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de’ Medici 14. Se si osserva nel suo complesso l’opera traversariana al fine di valutarne l’incidenza sullo sviluppo del platonismo rinascimentale, non è difficile individuare all’interno di essa due momenti, tra loro strettamente legati, che si rivelano particolarmente significativi: da una parte la versione delle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio, attraverso la quale il monaco camaldolese si confronta direttamente con la filosofia pagana, dall’altra le versioni delle opere del Padri greci. La traduzione delle Vitae laerziane, terminata nel 1433, assume un ruolo senza dubbio rilevante tanto nel complesso dell’atti vità di Traversari, quanto all’interno della cultura filosofica del Rinascimento italiano. L’aver consentito l’accesso, per la prima volta in modo completo, alla «tanta opinionum varietas» 15 delle scuole filosofiche dell’antichità, ha reso per secoli celebre questa versione 16. È stato Marcello Gigante a sottolineare in modo documentato il ruolo giocato dalle Vitae philosophorum, e segnatamente dalla versione datane dal monaco camaldolese, nella cultura europea dall’età umanistica ad oggi e «nella formazione di una coscienza storica della filosofia antica» 17. Tuttavia, come lo stesso Gigante ha mostrato con un esame accurato della versione traversariana e della sua ricezione, a quell’opera di traduzione è sottesa una inequivocabile opzione speculativa di tipo platonico 18. La dedica della versione a Cosimo de’ Medici testimonia più 14 Per una illustrazione della politica culturale medicea nell’età di Cosimo, nella quale si inserisce in modo organico l’attività di Traversari, cfr. C. Di Filippo Bareggi, In nota alla politica culturale di Cosimo I: l’Accademia Fiorentina, in «Q uaderni Storici», 7 (1973), pp. 527-574; C. Vasoli, Considerazioni sul l’Accademia Fiorentina, in «Révue des études italiennes», 25 (1979), pp. 41-73; infine il recente J. Hankins, Cosimo de’ Medici as a Patron of Humanistic Literature, in Id., Humanism and Platonism in the Italian Renaissance, 2 voll., Roma 2004, I, pp. 427-455. Sull’attività svolta da Traversari nel Concilio di Firenze sul fondamento di una solida cultura patristica cfr. C. Somigli, Un amico dei greci. Ambrogio Traversari, Arezzo 1964. 15 Ambrogio Traversari, Ep. XXIII, 10. 16 Cfr. C. Vasoli, La cultura fiorentina al tempo del Traversari, in Ambrogio Traversari nel vi centenario della nascita cit., pp. 69-93, in partic. pp. 81-85. Vasoli sottolinea come senza le Vitae «sarebbero davvero difficilmente comprensibili non poche delle vicende della riflessione filosofica rinascimentale» (p. 82). 17 M. Gigante, Per una interpretazione di Diogene Laerzio, in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Bari 1975, pp. ix-lxiv, in partic. p. liii. 18 Cfr. M. Gigante, Ambrogio Traversari interprete di Diogene Laerzio, in Ambrogio Traversari nel vi centenario della nascita cit., pp. 367-459.
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d’ogni altra circostanza quell’inserimento strutturale di Traversari e del monastero di S. Maria degli Angeli in quel programma culturale promosso da Cosimo cui si è fatto riferimento e che culminerà idealmente, circa venti anni dopo, con le traduzioni platoniche ficiniane. Agli inizi l’opera di traduzione proposta al monaco camaldolese non appare priva di insidie 19. La difficoltà di allontanarsi dagli studi delle «sacrae Litterae» cui è dedito 20, i problemi di natura lessicale derivanti da una scarsa frequentazione del vocabolario filosofico e, soprattutto, il timore che la pluralità di scuole e opinioni filosofiche «potesse alla fine disorientare le menti e fornire (…) nuove occasioni d’incredulità e ragioni di crisi per l’unità e disciplina cattolica» 21, costituiscono, per Traversari, i principali motivi di ostacolo. Soltanto le influenti pressioni ricevute e la decisiva mediazione del Niccoli, «uno dei veri grandi ‘padri’ dell’umanesimo fiorentino, dopo Petrarca e Salutati» 22, inducono il monaco a condurre in porto l’impresa. Q uella che verrà considerata per secoli come la fonte più autorevole per la conoscenza delle dottrine filosofiche dell’antichità ha, per così dire, impresso – nella traduzione latina che le consentirà la più ampia circolazione 23 – il sigillo della mediazione della tradizione monastica. 19 Per una illustrazione sintetica ed efficace delle tormentate vicende della traduzione traversariana cfr. S. Gentile, Il ritorno delle culture classiche, in Le filosofie del Rinascimento, a c. di C. Vasoli – P. C. Pissavino, Milano 2002, pp. 78-85. 20 Ambrogio Traversari, Ep. VI, 26. 21 Vasoli, La cultura fiorentina al tempo del Traversari cit., p. 87. 22 S. Gentile, Traversari e Niccoli, Pico e Ficino. Note in margine ad alcuni manoscritti dei Padri, in Tradizioni patristiche dell’Umanesimo, Atti del convegno (Firenze 6-8 febbraio 1997), a c. di M. Cortesi – C. Leonardi, Firenze 2000, pp. 81-118, in partic. p. 81. 23 Sulla diffusione delle Vitae philosophorum nella traduzione traversariana cfr. L. Malusa, Renaissance Antecedents to the Historiography of Philosophy, in Models of the History of Philosophy, I, From its Origins in the Renaissance to the ‘Historia Philosophica’, eds. G. Santinello – C. W. T. Blackwell – Ph. Weller, Dordrecht – Boston – London 1993, pp. 3-65, in partic. p. 7: «The Lives of the Philosophers of Diogenes Laertius (…) was accepted as the most authoritative starting point for any exposition of ancient thought. After being translated into latin by Traversari, Laertius’ book circulated widely». Utili indicazioni sulla diffusione delle Vitae in A. Sottili, Il Laerzio latino e greco e altri autografi di Ambrogio Traversari, in Vestigia. Studi in onore di Giuseppe Billanovich, a c. di R. Avesani – M. Ferrari – T. Foffano – G. Frasso – A. Sottili, Roma 1984, pp. 699-746.
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Se le Vitae, nel loro complesso, rappresentano un momento determinante per la conoscenza e la diffusione delle dottrine filosofiche dell’antichità greca (si pensi, ad esempio, alla incidenza della vita di Epicuro, costata a Traversari non pochi tormenti non solo per le difficoltà linguistiche incontrate, ma soprattutto per i pericolosi contenuti dottrinali 24), la Vita Platonis assume un ruolo significativo nello sviluppo del platonismo rinascimentale. Da un punto di vista storico essa costituisce il primo compendio oltre che il più accessibile strumento di conoscenza della filosofia di Platone, la cui circolazione nel corso del Medioevo era stata assai limitata 25. La dottrina platonica, nell’insieme della dossografia laerziana, occupa una posizione privilegiata; per essa Traversari «trovò modo di esprimere la sua ammirazione» 26. Il philosophus summus, espressione mediante la quale, per identificare Platone, il monaco camaldolese rende il termine φιλόςοφος utilizzato da Diogene Laerzio, rappresenta senza dubbio un modello di speculazione e di vita ascetica anche per l’uomo cristiano. Il presupposto di questo recupero della dottrina platonica entro l’orizzonte cristiano è l’idea di una fondamentale continuità tra la externa doctrina dei filosofi pagani e la sapientia cristiana, tra le verità contenute in modo ancora imperfetto nel sapere filosofico e la «evangelica perfectio» 27. È lo stesso Traversari, nella seconda delle due lettere di dedica a Cosimo che accompagnano la traduzione, «vero e proprio Proemio alla traduzione» 28, ad indicare, ben prima di Ficino, la sostanziale continuità tra le dottrine degli antichi filosofi, o di alcuni di essi, e la verità cristiana 29: Pleraque exempla huiusce pene dixerim evangelicae perfectioni proxima sunt, ut pudendum vehementer et erubescen-
Cfr. Ambrogio Traversari, Ep. VI, 27. Cfr. Lackner, The Camaldolese Academy cit., p. 18. Sulla diffusione delle dottrine platoniche durante l’epoca medievale cfr. R. Klibansky, The Continuity of the Platonic Tradition during the Middle Ages, Millwood – New York 1984. 26 Gigante, Ambrogio Traversari interprete di Diogene Laerzio cit., p. 433. 27 Ambrogio Traversari, Ep. XXIII, 10. 28 Gigante, Ambrogio Traversari interprete di Diogene Laerzio cit., p. 389. 29 Cfr. ibid., p. 394: «Il problema dell’interpretazione di Diogene Laerzio (…) viene situato [da Traversari] sul più ampio orizzonte del rapporto fra cristianesimo e paganesimo come praeparatio evangelica». 24
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dum sit, si id minus exhibeat Christi quam mundi philosophus plusque in gentili pectore possit amor gloriae inanis quam in animo christiano religiosae pietatis affectus 30.
Nel «Traversari platonico» 31, che finirà per avere una influenza di lunga durata sulla ricezione e sulla fortuna delle Vitae laer ziane, è forse possibile ravvisare le radici di quella prospettiva concordista che sarà sviluppata in modo sistematico e portata alle sue estreme conseguenze speculative da Marsilio Ficino (il quale medita intensamente sulla traversariana Vita Platonis 32) mediante il recupero di quella tradizione teologico-filosofica corrispondente alla prisca theologia. Da dove tuttavia trae origine la convinzione della continuità tra la dottrina platonica e la verità cristiana? A ben vedere (e questo consente di spiegare, anche al di là delle circostanze e delle pressioni esterne, la decisione di Traversari di accettare la traduzione) la versione del prolixum opus laerziano è parte integrante dell’ampio e coerente programma di riscoperta delle radici cristiane intrapreso dal monaco camaldolese. Programma particolarmente ambizioso, nel quale trovano significativamente posto le opere dei «padri greci più platonizzanti come Basilio, Gregorio di Nissa, Origene e Dionigi l’Areopagita, da lui considerati esempi autorevoli del valore della contemplazione monastica» 33. È in questi autori che Traversari può trovare una 30 Ambrogio Traversari, Ep. XXIII, 10. Cito il testo con le emendazioni proposte da Marcello Gigante. Cfr. Gigante, Ambrogio Traversari interprete di Diogene Laerzio cit., pp. 398-400, in partic. p. 399. 31 Ibid., p. 430. 32 Cfr. P. O. Kristeller, Marsilio Ficino and his work after five hundred years, in Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, a c. di G. C. Garfagnini, 2 voll., Firenze 1986, I, pp. 15-196, in partic. p. 89; Lackner, The camaldolese academy cit., p. 20. Lo studio di Kristeller è un utile strumento, tra l’altro, per la ricostruzione della frequentazione di Ficino con le traduzioni del Traversari. Sul rapporto di Ficino con le Vitae laerziane cfr. Th. Ricklin, Marsilio Ficino und Diogenes Laërtius. Von der mitunter beachtlichen Tragweite scheinbar banaler Neuverschriftlichungen, in Platon, Plotin und Marsilio Ficino. Studien zu den Vorläufern und zur Rezeption des Florentiner Neuplatonismus, Internationales Symposium in Wien (25.-27. Oktober 2007), hrsg. von M.-Ch. Leitgeb – S. Toussaint – H. Banner, Wien 2009, pp. 95-119. 33 J. Hankins, La riscoperta di Platone nel Rinascimento italiano cit., p. 112. Sulle versioni traversariane dei Padri cfr. A. Sottili, Griechische Kirchenväter im System der humanistischen Ethik: Ambrogio Traversaris Beitrag zur Rezep-
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sicura e autorevole conferma dell’armonia tra il Vangelo e l’antica sapienza platonica. Il monaco camaldolese, nel cui metodo è assente quel «processo di adattamento umanistico» 34 che caratterizza, ad esempio, l’opera di un Bruni, e le cui finalità sono di tipo esclusivamente religioso, ritrova dunque negli stessi Padri già inequivocabilmente impostato il rapporto di continuità tra la dottrina del philosophus summus e le verità del Cristianesimo. In questo senso non va sottovalutata, almeno per il suo valore simbolico, la circostanza – sottolineata anche da Cesare Vasoli 35 – che vede Traversari impegnato parallelamente nella versione delle Vitae philosophorum e in quella delle Vitae Patrum. La traduzione e, dunque, la trasmissione del patrimonio di testi riconducibili al platonismo finisce così per trovare una garanzia di legittimità nell’opera dei Padri della Chiesa. È in questi ultimi che il monaco camaldolese può rinvenire le coordinate essenziali di quel platonismo cristiano che Endre von Ivánka ha definito come «l’utilizzazione della filosofia platonica come forma di espressione teologica e come struttura dell’immagine del mondo in cui inserire l’annuncio delle verità rivelate» 36. Ciò che Traversari appare interessato a recuperare dai Padri greci non sono certo gli elementi teologicamente e speculativamente più problematici che caratterizzano le forme molteplici assunte dal platonismo cristiano, quanto quell’eredità spirituale del platonismo che sembra accordarsi e trovare terreno estremamente fecondo nelle istanze originarie della spiritualità benedettina 37. tion der patristischen Literatur, in Ethik im Humanismus, hrsg. von W. Rüegg – D. Wuttkel, Boppard 1979, pp. 63-85. 34 P. Viti, Bruni e Traversari lettori di San Basilio, in Tradizioni patristiche dell’Umanesimo cit., pp. 23-41, in partic. p. 35. 35 Vasoli, La cultura fiorentina al tempo del Traversari, in Ambrogio Traversari nel vi centenario della nascita cit., in partic. p. 86. 36 E. von Ivánka, Plato christianus. Übernahme und Umgestaltung des Platonismus durch die Väter, Einsiedeln 1964, p. 19; tr. it., Platonismo cristiano. Recezione e trasformazione del Platonismo nella Patristica, Milano 1992, p. 7. 37 Cfr. Lackner, The Camaldolese Academy cit., p. 17: «From their earliest years the Camaldolese thus conserved a kind of Christian-Platonic theology of the ladder, with roots in the Christian East, which propounded a model of man’s gradual divinization through celestial love». Q ueste considerazioni, e la stessa opera di Traversari, rendono assai discutibile l’opposizione tra una teologia della scala perfectionis di matrice neoplatonica e diffusa per lo più tra i rappresentanti degli ordini mendicanti e una «teologia della Croce» caratteristica
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L’assenza di una fisionomia unitaria del platonismo dei Padri greci trasmesso attraverso la mediazione traversariana, non identificabile come tale con «un sistema conchiuso ed univoco» e «già distante in modo essenziale dal platonismo originario» 38, chiarisce peraltro il carattere non univoco della tradizione platonica cui si attingerà ampiamente nel Rinascimento. Esempio significativo dell’assunzione dell’eredità del platonismo nel l’orizzonte della cultura umanistico-rinascimentale attraverso le lenti dei Padri greci, sulla base del presupposto costituito dal nesso di continuità che lega la doctrina platonica e la rivelazione cristiana, è la versione dell’opera di Dionigi Areopagita portata a termine da Traversari tra il 1436 e il 1437. Essa sembra costituire, secondo una interessante ricostruzione di Stéphane Toussaint, il punto centrale di quella «chaîne dionysienne» che ha come momenti terminali nel Rinascimento Niccolò Cusano, Marsilio Ficino e Jacques Lefèvre d’Étaples 39. In particolare, i due commenti al De mystica theologia e al De divinis nominibus composti da Ficino negli anni Novanta del Q uattrocento, testimoniano l’importanza della versione traversariana di Dionigi per lo sviluppo del platonismo rinascimentale 40. del mondo benedettino sostenuta da Collett, Italian Benedictine Scholars cit., p. 15. Sulla spiritualità monastica, in cui si radica l’opera traversariana, e le sue consonanze con la tradizione dei Padri cfr. B. Calati, La spiritualità del Q uattrocento e la tradizione camaldolese, in Ambrogio Traversari nel vi centenario della nascita cit., pp. 27-48; W. Hyland, The Climacteric of Late Medieval Camaldolese Spirituality: Ambrogio Traversari, John-Jerome of Prague, and the Linea salutis heremitarum, in Florence and Beyond. Culture, Society and Politics in Renaissance Italy, eds. D. S. Peterson – D. E. Bornstein, Toronto 2008, pp. 107-120. 38 von Ivánka, Plato christianus cit., p. 24; tr. it., p. 11. 39 Cfr. S. Toussaint, L’influence de Ficin à Paris et le Pseudo-Denys des humanistes: Traversari, Cusain, Lefèvre d’Étaples. Suivi d’un passage inédit de Marsile Ficin, in «Bruniana e Campanelliana», 2 (1999), pp. 381-414, in partic. p. 383. 40 Il commento ficiniano è ora disponibile in due edizioni critiche: Dionysius Areopagita, De mystica theologia – De divinis nominibus, interprete Marsilio Ficino, ed. P. Podolak, Napoli 2011; Marsilio Ficino, On Dionysius the Areopagite, ed. M. J. B. Allen, 2 voll. Cambridge (Mass.) – London 2015. Per un esame del commento ficiniano cfr. almeno M. Cristiani, Dionigi dionisiaco. Marsilio Ficino e il Corpus Dionysianum, in Il neoplatonismo nel Rinascimento, a c. di P. Prini, Roma 1993, pp. 185-203; C. Vasoli, L’Un-Bien dans le commentaire de Ficin à la Mystica Theologia du Pseudo-Denys, in Marsile Ficin: les Platonismes à la Renaissance, ed. P. Magnard, Paris 2001, pp. 181-93; Th. Leinkauf, Marsilio Ficino e lo Pseudo-Dionigi: ricezione e trasformazione,
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Essi rappresentano l’esito ultimo di una intensa riflessione condotta dal filosofo fiorentino sul Corpus dionysianum tradotto dal monaco camaldolese e finalizzata alla verifica della possibilità di costruire una teologia platonico-cristiana da contrapporre alla teologia degli scolastici 41. Come è possibile desumere dal l’Argumentum che Ficino premette al commento al De divinis nominibus, la translatio di Traversari costituisce per il filosofo fiorentino il punto di partenza per una nuova traduzione che colga il nucleo profondo della dottrina platonica 42. Se Traversari eredita dai Padri un Platone cristianizzato, Ficino – proprio a partire dall’insegnamento di Traversari – esplora fino alle sue estreme possibilità teologico-speculative la conciliabilità tra platonismo e cristianesimo 43. Il ‘Platone cristiano’, alla cui edificazione nella cultura umanistica Traversari contribuisce in maniera determinante, trova in un altro monaco camaldolese, Paolo Orlandini, «monaco degli Angeli e discepolo di Ficino» 44, un apologeta tardo ma non poco rappresentativo. La sua opera teologica e poetica, indagata per alcuni aspetti caratterizzanti da Kristeller e Garin 45, da un lato mostra il forte ed esplicito legame con la lezione teologica di Traversari, dall’altro costituisce una testimonianza significativa del in Le Pseudo-Denys à la Renaissance, eds. S. Toussaint – Ch. Trottmann, Paris 2014, pp. 127-142. 41 Sul tentativo ficiniano di costruzione di una teologia ‘platonica’ e sui rapporti con la tradizione scolastica cfr. J. Lauster, Marsilio Ficino as a Christian Thinker: Theological Aspects of his Platonism, in Marsilio Ficino: his Theology, his Philosophy, his Legacy cit., pp. 45-69. 42 Cfr. Toussaint, L’influence de Ficin à Paris cit., p. 396. 43 Per comprendere taluni aspetti della complessa operazione speculativa compiuta da Ficino nel tentativo di armonizzare platonismo e cristianesimo, soprattutto attraverso l’utilizzo delle fonti patristiche, sono imprescindibili le ricerche di Werner Beierwaltes. Cfr. ad es. W. Beierwaltes, Der Selbstbezug des Denkens: Plotin – Augustinus – Ficino, in Id., Platonismus im Christentum, Frankfurt am M. 1998, pp. 172-203; tr. it. in Id., Platonismo nel Cristianesimo, Milano 2000, pp. 203-241. 44 U. Fossa, La storiografia camaldolese sul Traversari dal Q uattrocento al Settecento, in Ambrogio Traversari nel vi centenario della nascita cit., [pp. 121146], p. 129. 45 Cfr. P. O. Kristeller, Supplementum ficinianum, 2 voll., Firenze 1937, I, pp. 267-268; E. Garin, P. Orlandini poeta e teologo, in «Rinascimento», 1 (1950), pp. 175-178; Id., Paolo Orlandini e il profeta Francesco da Meleto, in Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Firenze 1961, pp. 213-223.
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profondo radicamento, nell’ambiente benedettino del monastero di S. Maria degli Angeli, di quel solido movimento platonico che oramai ha in Ficino il suo punto di riferimento speculativo. La sua «voluminosa congerie di scritti, prolissi e non molto notevoli speculativamente» 46, nella quale il filosofo fiorentino è presentato come «padre» e «maestro in ogni lato» 47, rappresenta probabilmente il punto massimo di convergenza possibile tra il platonismo e la tradizione del monachesimo benedettino.
2. Una fondazione teologica della nozione di dignitas hominis Il riferimento alla tradizione dei Padri appare determinante tuttavia non soltanto – come nel caso di Traversari – per la cornice speculativa generale entro cui interpretare la filosofia platonica e, in generale, la cultura classica, ma anche per l’elaborazione di temi particolari, come ad esempio quello – assai caratterizzante per la cultura rinascimentale – della dignitas hominis. È stato Eugenio Garin, nel lontano 1938, a fornire un contributo decisivo e, per l’epoca, particolarmente innovativo sul tema dei rapporti tra la tradizione dei Padri e le elaborazioni rinascimentali del topos della dignità dell’uomo 48. Il «consapevole ritorno, non tanto alla letteratura classica, quanto alla lettera e allo spirito dei Padri della Chiesa» viene seguito da Garin negli autori principali «del gruppo fiorentino», come Giannozzo Manetti, Marsilio Ficino, Giovanni Pico 49. In questi autori sarebbe rinata, secondo lo studioso, non «la filosofia greca del periodo più tipico, per cui la storia e il dramma degli uomini hanno ben scarso valore, ma, se mai, la più tarda, in cui l’Oriente religioso già immetteva la sua profonda ispirazione nel pensiero dell’Occidente» 50. Come ha recentemente mostrato Michele Ciliberto, questa lettura di Garin Garin, Paolo Orlandini e il profeta Francesco da Meleto cit., p. 214. P. Orlandini, Le anime separate da’ corpi, in P. O. Kristeller, Supplementum ficinianum cit., I, [pp. 267-268], p. 268. 48 Cfr. E. Garin, La dignitas hominis e la letteratura patristica, in «La Rinascita», 1 (1938), pp. 102-146, ora in Id., Interpretazioni del Rinascimento, a c. di M. Ciliberto, 2 voll., Roma 2009, I, pp. 1-32. 49 Ibid., p. 1. 50 Ibidem. 46
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sarà in realtà specificata e, in qualche misura, ‘temperata’ in studi successivi, nei quali la componente propriamente ‘civile’ del l’umanesimo emergerà sempre più in primo piano 51. In Manetti, ad esempio, lo studioso riconoscerà più tardi l’autore di quella «celebrazione notissima (…) della dignità dell’uomo, la quale, ancorché ricondotta talora attraverso Lattanzio all’esaltazione ermetica del Dio Anthropos, si viene di preferenza fondando sul valore delle attività mondane» 52. Se, dunque, è necessario riconsiderare talune indicazioni fornite nel saggio del 1938 alla luce delle successive ricerche dello stesso Garin e delle indicazioni della letteratura critica più recente, è nondimeno utile in questo contesto gettar luce sulle fonti patristiche di alcuni modelli umanistici della trattazione della dignitas hominis non considerati nel saggio gariniano. Le circostanze della redazione del trattato di Manetti sono note: illustrate nel Commentario della vita di messer Giannozzo Manetti e, in forma più breve, nelle Vite di uomini illustri di Vespasiano da Bisticci, esse sono state oggetto di numerosi studi 53. Manetti compone il De dignitate et excellentia hominis facendo seguito ad una richiesta di re Alfonso d’Aragona («pregato dal re Alfonso» dice il suo biografo 54) durante una missione diplomatica a Napoli (1450-1451). Secondo questo racconto Alfonso aveva in realtà già incaricato in precedenza Bartolomeo Fazio, allievo di Guarino Veronese, di stendere un trattato sullo stesso argomento 55. Il De excellentia ac praestantia hominis di Fazio, considerata «as the earliest humanist work entirely concerned with 51 Per una accurata ricostruzione dell’evoluzione spirituale e del complesso della produzione di Garin cfr. M. Ciliberto, Una meditazione sulla condizione umana, in Garin, Interpretazioni del Rinascimento cit., I, pp. VII-LIII. 52 Id., L’umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Bari 1952 (19944), p. 72. 53 Cfr. Vespasiano da Bisticci, Commentario della vita di messer Giannozzo Manetti, Torino 1862; Id., Vite di uomini illustri del sec. xv, Lanciano 1911. Sul trattato di Manetti si veda almeno M. Schmeisser, ‘Wie ein sterblicher Gott…’. Giannozzo Manettis Konzeption der Würde des Menschen und ihre Rezeption im Zeitalter der Renaissance, München 2006, e Dignitas et excellentia hominis, Atti del convegno internazionale di studi su Giannozzo Manetti (Fiesole – Firenze 18-20 giugno 2007), a c. di S. U. Baldassarri, Firenze 2008. 54 Vespasiano da Bisticci, Commentario della vita di messer Giannozzo Manetti cit., p. 72. 55 Cfr. Garin, L’umanesimo italiano cit., pp. 72-73.
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the dignity of man» 56, ha in realtà un precedente. Sebbene nel trattato non se ne faccia menzione alcuna, a fornire l’ispirazione a Fazio e a tracciare le coordinate lungo le quali sviluppare il tema della dignità dell’uomo è infatti un monaco olivetano, Antonio da Barga. Abate di S. Miniato a Firenze, Antonio acclude alla lettera con la quale invita Fazio a discutere dell’argomento un abbozzo di trattato. Redatto probabilmente nella primavera del 1447, durante il suo lungo soggiorno napoletano, il De dignitate hominis et de excellentia humane vite viene pubblicato per la prima volta da Kristeller nel 1985 57. Dagli scritti del monaco benedettino, così come dalla sua biografia, emerge il profilo di un uomo pienamente inserito nell’ambiente umanistico a lui contemporaneo: personalmente legato a Manetti, è ammiratore di Coluccio Salutati e di Leonardo Bruni 58. Di questi umanisti egli scrive nel De magistratibus et prelatis, documento nel quale esalta l’opera di Ambrogio Traversari – del quale condivide «the taste for humanism» 59 – e in cui si sofferma, in modo assai significativo, sulla versione traversariana del «mirificum opus» laerziano De vita et moribus philosophorum 60. Mentre il trattato di Fazio contiene delle forti somiglianze con l’opera di Antonio da Barga, non si può documentare una relazione diretta tra il trattato del benedettino e il De dignitate et excellentia hominis di Manetti 61. È tuttavia possibile ipotizzare, come opportunamente nota Kristeller, che il benedettino abbia incoraggiato entrambi gli amici a scrivere intorno a quel tema, ponendosi così storicamente all’origine di uno dei filoni più fortunati della letteratura filo-
56 P. O. Kristeller, The humanist Bartolomeo Facio and his unknown correspondence, in Id., Studies in Renaissance thought and letters cit., II, 265-280, in partic. p. 278. 57 Cfr. Id., Frater Antonius Bargensis and his treatise on the dignity of man, in Id., Studies in Renaissance thought and letters cit., II, pp. 531-560. 58 Cfr. Ch. Trinkaus, In Our Image and Likeness. Humanity and Divinity in Italian Humanist Thought, 2 voll., London 1970, I, pp. 210-215. 59 Ibid., p. 211. 60 Alcuni excerpta del De magistratibus et prelatis sono editi nello studio di Kristeller. Cfr. Kristeller, Frater Antonius Bargensis and his treatise cit., pp. 554-560. 61 Cfr. ibid., p. 536.
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sofica umanistico-rinascimentale 62. Il De dignitate hominis et de excellentia humane vite di Antonio da Barga mira a fondare teologicamente la dignità dell’uomo attraverso l’insegnamento dei Padri, in particolare di quella tradizione patristica più legata al platonismo. Sepe repetendum est in libro et in conclusioni[bus]. Cognosce homo dignitatem tuam, et ne te submergas in terrenis cui parata sunt celestia et ne a cive transformeris in varias bestias. Q uia homo cum in honore esset non intellexit, comparatus est iumentis insipientibus et similis factus est illis. Item de dignitate hominis dicendum est, scilicet de inmortalitate anime et secundum Platonem et theologos. Dicendum est igitur de intelligentia et de memoria et de voluntate et secundum gentiles et secundum theologos. Item de dignitate hominis dicendum est, videlicet de opificio hominis et de decentia membrorum secundum quod scribit Lactantius 63.
Se la fondazione rigorosamente teologica della dignitas hominis colloca il benedettino lontano, anche relativamente ai modelli speculativi di riferimento, tanto dall’impostazione più mondana che caratterizza il trattato di Manetti, quanto dalla lettura della dignità dell’uomo in termini di ‘indeterminatezza ontologica’ che domina la più tarda Oratio di Giovanni Pico 64, non si possono tuttavia non notare le affinità di alcuni dei temi che caratterizzano il trattato di Antonio da Barga con quel filone speculativo che ha il punto teoreticamente più alto nella trattazione della dignitas hominis contenuta nella Theologia platonica di Ficino. Si pensi, ad esempio, alla ripresa dell’idea agostiniana di un’anima umana che riproduce la dinamica trinitaria traendo da essa la sua dignità ontologica: «Factus est ergo homo secundum animam ad imaginem et similitudinem non patris et filii et spiritus sancti, sed totius trinitatis» 65. È l’idea a fondamento dell’impostazione ficiniana del problema, per la quale la dignità dell’anima umana nell’esercizio delle sue facoltà è strettamente Cfr. ibidem. Ibid., p. 544. 64 Cfr. Schmeisser, ‘Wie ein sterblicher Gott…’ cit., pp. 142-144. 65 Kristeller, Frater Antonius Bargensis and his treatise cit., p. 543. 62 63
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connessa alla natura trinitaria di Dio 66. In Ficino, d’altra parte, si assiste alla radicalizzazione di quella impostazione dualista che lo pone in netta antitesi con la visione ‘integrale’ (corpoanima) dell’uomo delineata nel De dignitate et excellentia hominis di Manetti. Se infatti l’insistenza sul carattere creativo dell’agire dell’uomo avvicina la riflessione ficiniana a quella di Manetti e sembra attingere alle medesime fonti classiche 67, tuttavia egli identifica la dignità propria dell’uomo non nell’unione del l’anima e del corpo, ma nella sua anima immortale 68. In modo estremamente chiaro Kristeller illustra l’identificazione operata da Ficino tra uomo ed anima: «richiamandosi a una definizione plotiniana egli arriva a identificare espressamente i due termini. ‘Homo est animus’, tale è il titolo di una lettera filosofica (…). Il Ficino non dimentica la differenza reale tra uomo e anima (…), ma quando si tratta di definire l’essenza dell’uomo o dell’anima, queste differenze perdono la loro importanza. Si spiega così il fatto che egli adoperi i termini di uomo, anima e intelletto quasi senza distinzione ovunque egli non miri a separare funzioni reali, ma a definire essenze» 69. Tale radicalizzazione del dualismo anima-corpo nel trattare della dignità dell’uomo si ritroverà più tardi, proprio lungo l’asse speculativo ficiniano, in quella scuola platonico-agostiniana che, fondata da Egidio da Viterbo, durerà con Girolamo Seripando
Cfr. Ch. Trinkaus, Marsilio Ficino and the Ideal of Human Autonomy, in Marsilio Ficino e il ritorno di Platone cit., I, pp. 197-210, in partic. p. 199. Per una ricostruzione complessiva del tema della dignità del l’uomo nella riflessione ficiniana cfr. C. Vasoli, Marsile Ficin et la dignité de l’homme, in La dignité de l’homme, Actes du Colloque tenu à la Sorbonne-Paris IV en novembre 1992, éd. P. Magnard, Paris 1995, pp. 75-86. Sulla «connessione ontologica» che in Ficino lega la mens con il divino e con la sua «unità riflessivo-trinitaria» si è soffermato analiticamente Beierwaltes, Der Selbstbezug des Denkens cit., p. 192 (tr. it., p. 227). 67 Cfr. Schmeisser, ‘Wie ein sterblicher Gott…’ cit., p. 154: «Ficino hat sich hier offenkundig wie Manetti an die Rede des Stoiker Balbus in Ciceros De natura deorum erinnert und seine Argumentation is demgemäß an dieser Stelle Manettis Lobgesang des schöpferischen Menschen änlich (…)». 68 Cfr. Trinkaus, In Our Image and Likeness cit., II, p. 474: «[Ficino] thought of man (…) predominantly as a spiritual being, a rational immortal soul». 69 P. O. Kristeller, The Philosophy of Marsilio Ficino, New York 1943, p. 321 (tr. it., Firenze 19882, p. 355). 66
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fino alle soglie del Concilio di Trento 70. In questi scrittori si delinea chiaramente un’antropologia filosofica e teologica che, attingendo alle fonti del pensiero biblico-patristico e della prisca theologia, si pone in dialogo critico con le teorizzazioni coeve. Se questi sviluppi del platonismo rinascimentale sul tema specifico della dignitas hominis non testimoniano certo una fortuna di lunga durata del trattato di Antonio da Barga, che non ebbe circolazione e finì per esercitare una influenza limitata e indiretta, aiutano tuttavia a tracciare le linee essenziali di una vicenda speculativa nella quale alcuni ambienti benedettini – fedeli ad un tempo ai Padri e ai classici 71 – furono parte non marginale.
70 Sulla nozione di dignitas hominis nel pensiero del l’agostiniano Egidio da Viterbo e nella scuola da lui fondata cfr. E. Massa, I fondamenti metafisici della dignitas hominis e testi inediti di Egidio da Viterbo, Torino 1954; J. W. O’Malley, Man’s dignity, God’s love, and the destiny of Rome. A text of Giles of Viterbo, in «Viator» 3 (1972), pp. 389-416; A. M. Vitale, La nozione di dignitas hominis nella scuola platonico-agostiniana del Cinquecento, in «Persona», 2 (2011), pp. 131-143. Sulla «scolastica ficiniana» rappresentata dalla scuola platonico-agostiniana cfr. E. Garin, Storia della filosofia italiana, 3 voll., Torino 1966, I, p. 425; J. Monfasani, The Augustinian Platonists, in Marsilio Ficino. Fonti, testi, fortuna, a c. di S. Gentile – S. Toussaint, Roma 2006, pp. 319337; A. M. Vitale, A un crocevia filosofico-teologico. La scuola platonico-agostiniana del Cinquecento a ottant’anni dalle ricerche di Hubert Jedin, in Ritornare a Trento. Tracce agostiniane sulla strada del Concilio tridentino, a c. di S. Zeni – Ch. Curzel, Bologna 2016, pp. 71-85. Il Commentarium ad mentem Platonis di Egidio da Viterbo, opera di riferimento della scuola, è ora disponibile nell’edizione critica curata da Daniel Nodes: cfr. Giles of Viterbo, The Commentary on the Sentences of Petrus Lombardus, ed. D. Nodes, Leiden 2010. 71 Cfr. P. Burke, The Renaissance, London 1987, p. 38; tr. it., Bologna 1990, p. 53.
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L’ARGOMENTO ONTOLOGICO NELL’APOLOGETICA CRISTIANA DI RALPH CUDWORTH
Gli studiosi della prima età moderna sono concordi nel ritenere Ralph Cudworth (1617-1688), esponente principale dei cosiddetti ‘Platonici di Cambridge’, tra i più originali interpreti seicenteschi dell’argomento ontologico che fu sottoposto, come è noto, a una consistente rivalutazione nella riflessione filosofico-teologica tra i secoli XVII e XVIII 1. Da un punto di vista meramente 1 Per un’introduzione al pensiero di Cudworth cfr. J. A. Passmore, Ralph Cudworth. An interpretation, Cambridge 1951 (repr. Bristol 1990); L. Gysi, Platonism and Cartesianism in the philosophy of Ralph Cudworth, Bern 1962; J. Jacq uot, Le platonisme de Ralph Cudworth, in «Revue philosophique de la France et de l’Étranger», 89 (1964), pp. 29-44; B. Lotti, Ralph Cudworth e l’idea di natura plastica, Udine 2004. Per una definizione storiografica degli autori denominati ‘Platonici di Cambridge’ e una presentazione generale del loro pensiero cfr. J. Tulloch, Rational Theology and Christian Philosophy in England in the 17th Century, 2 voll., II, The Cambridge Platonists, Edinburgh – London 1874 (repr. Kila 2004); F. J. Powicke, The Cambridge Platonists. A Study, London – Toronto 1926; G. P. H. Pawson, The Cambridge Platonists and Their Place in Religious Thought, London 1930 (repr. New York 1974); E. Cassirer, Die Platonische Renaissance in England und die Schule von Cambridge, Leipzig – Berlin 1932 (tr. it., Firenze 19682); W. C. De Pauley, The Candle of the Lord. Studies in the Cambridge Platonists, London 1937; R. L. Colie, Light and Enlightenment. A study of the Cambridge Platonists and the Dutch Arminians, Cambridge 1957; G. R. Cragg, The Cambridge Platonists, New York 1968, pp. 3-31; C. A. Patrides, ‘The High and Aiery Hills of Platonisme’: An Introduction to the Cambridge Platonists, in The Cambridge Platonists, ed. by C. A. Patrides, London 1969 (repr. Cambridge 1980), pp. 1-41; M. Sina, L’avvento della ragione. «Reason» e «above Reason» dal razionalismo teologico inglese al deismo, Milano 1976, pp. 64-146; M. Micheletti, Il pensiero religioso di John Smith platonico di Cambridge, Padova 1976 (Filosofia e Religione, 12), pp. 112-206; Id., Animal capax religionis. Da Benjamin Whichcote a Shaftesbury, Perugia 1984, pp. 9-109; ‘Mind senior to the world’. Stoicismo e origenismo nella filosofia platonica del Seicento inglese, Atti del seminario internazionale di studi (Milano, 16-18
Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale, a c. di L. Catalani, R. de Filippis, Turnhout, 2017 (NUTRIX, 11), pp. 525-540 © FHG 10.1484/M.NUTRIX-EB.5.112933
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quantitativo, la discussione cudworthiana dell’argomento sembra avere un’importanza del tutto marginale nel fitto intreccio dossografico che caratterizza The True Intellectual System of the Universe, ponderoso trattato di apologetica cristiana scritto per confutare l’ateismo in tutte le sue forme. Delle circa novecento pagine di cui consta il trattato, appena sei sono dedicate a questo tema che, peraltro, è affrontato incidentalmente nel corso di una più ampia disamina sulla conoscenza umana. Nonostante ciò, la lettura della breve digressione sulla prova a priori rivela diversi aspetti utili sia ad approfondire la comprensione dell’autore sia a documentare il nuovo significato assunto dall’argomento in un contesto speculativo diverso da quello anselmiano. Già da una prima lettura, la digressione presenta, sia sul piano stilistico che su quello speculativo, alcune evidenti e significative peculiarità rispetto al resto dell’opera. Alla consueta prolissità di una prosa ricca di citazioni spesso utilizzate in modo acritico e alla mancanza di un rigoroso filo conduttore subentrano una maggiore chiarezza espositiva, un’insolita cogenza argomentativa e un periodare più snello, del tutto privo di citazioni testuali e di riferimenti a fonti. L’unico rimando ad altri interpreti dell’argomento è presente nell’incipit della disamina, dove è riassunta la tesi cartesiana esposta nella quinta meditazione: «Dio, o un essere perfetto, include l’esistenza necessaria nella sua stessa idea e perciò egli esiste» 2. Sebbene in questo contesto non siano novembre 1995), a c. di M. Baldi, Milano 1996; The Cambridge Platonist in philosophical context. Politics, metaphysics and religion, ed. by G. A. J. Rogers – J. M. Vienne – Y. C. Zarka, Dordrecth – Boston – London 1997 (Archive Internationale d’histoire des Idées, 150); S. Hutton, The Cambridge Platonists, in A Companion to Early Modern Philosophy, ed. by S. Nadler, Malden – Oxford 2002, pp. 308-319; Cambridge Platonists Spirituality, ed. by C. Taliaferro – A. J. Teply, New York 2004; The Cambridge Platonists. A Brief Introduction, With Eight Letters of Dr. Antony Tuckney and Dr. Benjamin Whichcote, ed. T. E. Jones, Lanham 2005, pp. 3-50; C. Taliaferro, Evidence and Faith. Philosophy and Religion since the Seventeenth Century, Cambridge 2005, pp. 11-56. Sulla rivalutazione dell’argomento ontologico nel Seicento cfr. R. G. Timossi, Prove logiche dell’esi stenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel. Storia critica degli argomenti ontologici, Genova 2005, pp. 121-232. 2 Cfr. R. Cudworth, The True Intellectual System of the Universe (in seguito: TIS), London 1678 (repr. 1964), p. 721: «It is well known, that Cartesius hath lately made a Pretence to do this, with Mathematical Evidence and Certainty, and he dispatches the business briefly after this manner; God or a Perfect Being, includeth Necessary Existence in his very Idea; and therefore he Is»
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citati Anselmo o altri autori medievali, è rilevante la dichiarazione di Cudworth di essere consapevole che Cartesio non è l’inventore dell’argomento, ma piuttosto «colui che ha ridato vita a ciò che in precedenza era stato usato da alcuni scolastici» 3. Non meno importante per comprendere il significato della prova nell’apologetica cudworthiana è la convinzione del filosofo inglese secondo cui «quest’argomento, finora, non si è rivelato così fortunato e vittorioso, poiché ci sono molti che non gli attribuiscono alcuna efficacia e non pochi che lo condannano come un mero sofisma» 4. L’autore del System, dunque, procede ad esporre in maniera imparziale sia le ragioni contrarie che quelle favorevoli all’argomento, lasciando ai «lettori intelligenti» la possibilità di valutare se esso sia valido oppure no 5. Le ragioni contrarie possono essere riassunte nel modo seguente. Dall’idea di un essere perfetto non si può inferire la sua esistenza poiché molte cose esistenti nel pensiero non esistono anche nella realtà. Tuttavia, se quell’idea non è in sé contraddittoria, si può solo dedurre che non è impossibile che l’essere rappresentato dall’idea esista 6. Se l’essere perfetto, in quanto tale, include l’esistenza necessaria nella sua idea, si può desumere solo (cfr. R. Descartes, Meditationes de Prima Philosophia [in seguito: MPP], in Oeuvres de Descartes, éd. par Ch. Adam – P. Tannery, Paris 1904, 11 voll., VII, pp. 65-67). 3 TIS, p. 721: «(…) rather the Reviver of that which had been before used by some Scholasticks». 4 Ibidem: «This Argument hath not hitherto proved so Fortunate and Successful, there being many who cannot be made sensible of any Efficacy therein, and not a few who Condemn it for a meer Sophism». 5 Cfr. ibidem: «As for our selves, we neither have any mind, to quarrel with other mens Arguments Pro Deo, nor yet would we be thought, to lay stress in this Cause, upon any thing which is not every way solid and Substantial. Wherefore we shall here endeavour, to set down the Utmost that Possibly we can, both Against this Argument, and For it, Impartially and Candidly; and then when we have done, leave the Intelligent Readers, to make their own Judgement concerning the Same». 6 Cfr. ibid., pp. 721-722: «Because we can Frame an Idea in our own minds, of an Absolutely Perfect Being, including Necessary Existence in it, it will not at all follow from thence, that therefore there is such a Perfect Being Really Existing without our minds; we being able to frame in our minds the Ideas of many other things, that never were, nor will be. All that can be certainly inferred from the Idea of a Perfect Being seems to be this, that if it contain nothing which is Contradictious to it, then it is Not Impossible but that there might be such a Being actually Existing».
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che tutto ciò che non ha un’esistenza necessaria non è un essere assolutamente perfetto, ma non ne consegue che tale essere perfetto debba esistere necessariamente nella realtà 7. Infatti, dalla necessità dell’esistenza compresa nell’ipotesi di un essere perfetto non è possibile dedurre in maniera apodittica l’esistenza reale di tale essere poiché da una necessità ipotetica non può essere inferita una necessità assoluta 8. Le ragioni a favore sono sintetizzate in una formulazione logica non meno articolata e coerente. La necessità dell’esistenza o l’impossibilità della non-esistenza contenute nell’idea di un essere perfetto non devono essere considerate solo come ipotesi, ma in senso assoluto di modo che se esiste l’idea di una cosa assolutamente perfetta, allora ciò che è rappresentato in tale idea dovrà esistere necessariamente. Infatti, se l’esistenza fosse solo ipotetica così che l’essere perfetto, nonostante la necessità dell’esistenza inclusa nella sua natura, potrebbe esistere o non esistere, ci si troverebbe in presenza di un’evidente contraddizione, dal momento che lo stesso essere potrebbe esistere al contempo in modo contingente e in modo necessario 9. Secondo Cudworth, questa esposizione non è «un tentativo di dimostrare l’esistenza di Dio a priori o a partire da una necessaria causa antecedente»; essa, piuttosto, cerca di dimostrare l’esistenza di un essere perfetto «dalla neces7 Cfr. ibid., p. 722: «Though it be very true, that a Perfect Being doth include Necessary Existence in it (…) yet will it not follow from hence, that therefore there is such a Perfect Being Actually Existing; but all that can be deduced from it, will be no more than this, that whatsoever hath no Necessary and Eternal Existence, is no Absolutely Perfect Being». 8 Cfr. ibidem: «It is plain, that an Absolute Necessity, is wrongly inferred in the Conclusion, from an Hypothetical one in the Premisses. In like manner, when upon supposition of an Absolutely Perfect Being, it is affirmed of it, that its Existence must not be Contingent but Necessary, and from thence the Conclusion is made Absolutely, that there Is such a Perfect Being, this seems to be the very same Fallacy». 9 Cfr. TIS, p. 723: «This Necessity of Existence or Impossibility of Non-Existence contained in the Idea of a Perfect Being, must not be taken Hypothetically only or Consequentially, after this manner, that If there be any Thing Absolutely Perfect, then its Existence both was and will be Necessary; but Absolutely; that though Contradictious things cannot Possibly Be, and things Imperfect may Possibly either Be or Not Be, yet a Perfect Being cannot But Be; or it is Impossible that it should Not Be. For otherwise (…) a Perfect Being, notwithstanding that Necessity of Existence included in its Nature, might either Be or Not Be; or were Contingent to Existence, which is a manifest Contradiction, that the same thing should Exist both Contingently and Necessarily».
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sità che è inclusa in se stesso o che è coesistente e coincidente con esso», ossia dalla necessità della sua propria natura perfetta 10. Q uesto rilievo è in continuità con un passaggio precedente di qualche pagina la digressione, in cui si afferma che «l’esistenza di Dio non può essere dimostrata a priori, dal momento che egli è la prima causa di ogni cosa» 11. Cudworth, evidentemente, era preoccupato che un lettore poco avvertito potesse fraintendere il significato della prova a priori, giudicandola come un tentativo di dimostrare l’esistenza di Dio mediante una causa precedente che ne determinasse l’origine, la qual cosa avrebbe inficiato la perfezione del creatore. Q uesto timore e la convinzione che la prova appena formulata non sarebbe stata in grado di convincere gli atei, che l’avrebbero giudicata come una petizione di principio, spingono il Cantabrigense a perfezionarne la struttura in due diverse versioni 12. Nella prima, si dichiara preliminarmente che l’idea di Dio o di un essere perfetto non è contraddittoria in quanto essa è l’idea di qualcosa avente in sé tutte le perfezioni – tra cui anche l’esistenza necessaria – che non sono in contraddizione né con se stesse né reciprocamente. Poiché l’idea di Dio che include in sé l’esistenza necessaria non è contraddittoria, è possibile che Dio esista. Ma, se l’esistenza di Dio è possibile, allora Dio esiste nella realtà poiché, in caso contrario, la sua esistenza sarebbe impossibile anche solo nel pensiero. Q uindi, o l’esistenza di Dio è assolutamente impossibile, oppure Dio esiste nella realtà. Infatti, se Dio fosse possibile, ma non esistesse, allora non sarebbe un essere necessario ma contingente, la qual cosa sarebbe in contraddizione con l’ipotesi iniziale 13. Q uesta versione della prova presenta delle 10 Ibid., p. 724: «Here is no endeavour, (as is pretended) to prove the Existence of a God or Perfect Being, A Priori neither, or from any Necessary Cause Antecedent; but only from that Necessity which is included within it self, or is Concomitant and Concurrent with it; the Necessity of its own Perfect Nature». 11 Ibid., p. 715: «The Existence of a God could not be Demonstrated A Priore, himself being the First Cause of all things». 12 Cfr. ibid., p. 724: «However it is not very Probable, that many Atheists, will be convinced thereby, but that they will rather be ready to say, that this is no Probation at all of a Deity, but only an Affirmation of the thing in Dispute, and a meer Begging of the Q uestion; that therefore God Is, because he Is, or Cannot But be». 13 Cfr. ibid., pp. 724-725: «The Idea of God or a Perfect Being, can Imply no manner of Contradiction in it, because it is only the Idea of such a thing
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affinità notevoli con la Coloratio Anselmi elaborata da Duns Scoto nel quarto capitolo del Tractatus de Primo Principio, dove l’esistenza attuale di Dio è inferita dalla possibilità e non contraddittorietà di una natura prima, incausata e incausabile dimostrata nel terzo capitolo 14. Il Cantabrigense rigetta questa nuova formulazione dell’argomento perché la sua «sottigliezza» la renderebbe di scarsa utilità o addirittura «sofistica» e si propone di presentare un’altra versione «più chiara e perfetta» 15. Q ualsiasi cosa la cui idea non è contraddittoria, o esiste attualmente o è possibile che esista. Tuttavia, se Dio non esiste, neppure la sua esistenza futura sarebbe possibile; dunque egli esiste. Infatti, se Dio non esias hath all Possible and Conceivable Perfections in it; that is, all Perfections which are neither Contradictious in them selves, nor to one another (…). And this is the First Step, that we now make in way of Argumentation, from the Idea of God or a Perfect Being, having nothing Contradictious in it, That therefore God is at least Possible (…). If God or a Perfect Being, in whose Essence is contained Necessary Existence, be Possible (…); then He is; because upon supposition of his NonExistence, it would be Absolutely Impossible, that he should ever have been (…). Wherefore God is either Impossible to have been, or else He Is. For if God were Possible, and yet be Not, then is he not a Necessary, but Contingent Being, which is contrary to the Hypothesis». 14 Cfr. Iohannes Duns Scotus, Tractatus de primo Principio, III, 40-41 e IV, 79, Hrsg. W. Kluxen, Darmstadt 1974 (Texte zur Forschung, 20), pp. 50 e 104-106 (tr. it., Milano 2008, pp. 120-123 e 192-194). È opportuno, tuttavia, evidenziare che Scoto applica la non contraddittorietà al livello quidditativo; Cudworth, invece, la attribuisce all’idea di Dio e all’ente divino. In uno studio dedicato all’argomento ontologico in Cudworth e in altri autori anglosassoni, Mario Micheletti segnala un’affinità tra il pensiero del Cantabrigense e quello formulato da Scoto in un passo del Tractatus de Primo Principio sul rapporto tra possibilità ed esistenza in Dio (cfr. M. Micheletti, La ‘logica della perfezione’: la struttura dell’argomento ontologico in Ralph Cudworth, Robert Flint e Charles Hartshorne, in Teologia filosofica e filosofia della religione, a c. di A. Babolin, 2 voll., Perugia 1987, II, p. 291, nota 14). I riferimenti al Tractatus scotiano presenti in questa nota sono stati segnalati dall’amico e collega Dott. Francesco Fiorentino, che ringrazio. 15 Cfr. TIS, p. 725: «But because this Argumentation may perhaps run the same Fate also with the former, and by reason of its Subtlety, do but little Execution neither, if not be accounted Sophistical too; men being generally prone to Distrust, the Firmness and Solidity of such Thin and Subtle Cobwebs (…) or their Ability to Support the Weight of so Great a Truth; and to suspect themselves to be Illaqueated and Circumvented in them; therefore shall we lay no stress upon this neither, but proceed to something which is yet more Plain and Downright, after this manner». La «sottigliezza» attribuita in modo negativo alla prova appena formulata, potrebbe essere un riferimento al soprannome di Scoto, Doctor Subtilis, e indicare la dipendenza del passo cudworthiano dal trattato di Scoto o, in modo più generico, dalla dottrina scotista.
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stesse e la sua esistenza futura fosse possibile, allora non sarebbe un essere eterno e necessariamente esistente, il che è in contraddizione con la sua idea. Se Dio non esistesse, non sarebbe possibile un’idea di Dio, perché non può esserci una concezione positiva di un nulla assoluto, ossia di ciò che non esiste attualmente e che non ha neppure un’esistenza possibile 16. Cudworth, pur considerando «solida» questa seconda versione della prova, il cui merito è di chiarire alcuni passaggi logici impliciti nella formulazione precedente, dubita ancora della sua capacità persuasiva nei confronti della maggior parte dei lettori. Pertanto, elabora un’ultima «più chiara dimostrazione di Dio a partire dall’idea di esso includente l’esistenza necessaria» 17. La struttura di quest’ultima formulazione è la seguente. È certo che qualcosa sia esistito senza inizio dall’eternità poiché altrimenti niente avrebbe avuto l’essere, in quanto nessun ente può venire dal nulla o essere causa di se stesso. Poiché le cose esistono, è necessario che esse derivino da un qualcosa di increato che esiste di per sé dall’eternità. Ora, ciò che esiste di per sé dall’eternità in modo necessario possiede una auto-sussistenza necessaria ed eterna. Ma non c’è nulla che contenga un’esistenza eterna e necessaria nella propria natura se non un essere assolutamente perfetto, poiché tutte le altre cose esistenti sono imperfette in quanto sono contingenti nella loro natura sia riguardo all’esistenza sia alla non esistenza 18. È evidente che quest’ultimo argo16 Cfr. ibid., p. 725: «Whatsoever we can frame an Idea of in our minds, implying no manner of Contradiction, this either Actually Is, or else If it be Not, it is Possible for it to Be. But If God be Not, He Is not Possible hereafter to Be, therefore He Is. The Reason and Necessity of the Minor is evident, because if God be not, and yet Possible hereafter to be, then would he not be an Eternal and Necessarily Existent Being, which is Contradictious to his Idea (…). If there were no God or Perfect Being, we could never have had any Conception or Idea of him in our Minds, because there can be no Positive Conception of an Absolute Nothing, that which hath neither Actual nor Possible Existence». 17 Cfr. ibid., pp. 725-726: «But perhaps this Argumentation also how firm and solid soever, may prove less Convictive of the Existence of a God to the Generality (…) shall we in the next place Form yet a Plainer Demonstration, for a God from the Idea of him, including Necessary Existence in it». 18 Cfr. ibid., p. 726: «Unquestionably Something or other, did Exist from all Eternity without beginning. For it is certain that Every thing could not be Made, because Nothing could come from Nothing, or be Made by It self (…). Whence it is undeniable, that there was always Something, and consequently that there was Something Unmade, which Existed of It self from all Eternity (…). We say
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mento non è una rielaborazione della prova a priori come avrebbe dovuto essere secondo le intenzioni di Cudworth, ma piuttosto una prova a posteriori che riassume in sé la seconda e la quarta via tomista, incentrate rispettivamente sulla causalità efficiente e sui gradi di perfezione della realtà 19. L’aver concluso la disamina riproponendo più o meno consapevolmente una dimostrazione fondata sull’esperienza sensibile è un dato che consente di formulare alcune riflessioni sulla valenza speculativa dell’argomento nel pensiero di Cudworth e in un contesto culturale diverso da quello alto-medievale in cui esso fu concepito. Sia Emanuela Scribano che Mario Micheletti hanno opportunamente evidenziato gli sviluppi dell’argomento apportati dal Cantabrigense in ambito logico 20. In particolare, Micheletti ha affermato che se le considerazioni di Cudworth fossero state più conosciute «si sarebbe potuto ravvisare propriamente in esse […] il locus classicus della discussione dell’argomento ontologico» dal momento che «sono contemplate […] pressoché tutte le principali versioni storicamente date dell’argomento» 21. Q uesto giudizio sembra tutt’altro che eccessivo e, al contrario, mette bene in evidenza l’inadeguatezza della tesi sostenuta da diversi studiosi anglosassoni secondo i quali Cudworth sarebbe stato tra i detrattori della prova a priori 22. Infatti, non si comprende pertherefore, that whatsoever Existed of It self, from Eternity, and without Beginning; did so Exist Naturally and Necessarily, or by the Necessity of its own Nature. Now nothing could Exist of It self from Eternity, Naturally and Necessarily, but that which containeth Necessary and Eternal Self Existence, in its own Nature. But there is nothing which containeth Necessary Eternal Existence, in its own Nature or Essence, but only an Absolutely Perfect Being; all other Imperfect things, being in their Nature, Contingently Possible, either to Be or Not be (…) and nothing could do this but what included Necessary Self Existence in its Nature or Essence, it is certain that it was a Perfect Being, or God». 19 Secondo Emanuela Scribano, invece, il Cantabrigense avrebbe elaborato in questo luogo del TIS una versione originale dell’argomento che si presenterebbe come «un ibrido tra prova a posteriori e prova a priori». Cfr. E. Scribano, La prova a priori dell’esistenza di Dio nel Settecento inglese da Cudworth a Hume, in «Giornale Critico della filosofia italiana», 68 (1989), [pp. 184-212], p. 187. 20 Cfr. Ead., Da Cudworth a Leibniz, in L’esistenza di Dio: Storia della prova ontologica da Descartes a Kant, Roma – Bari 1994, pp. 130-137; Micheletti, La ‘logica della perfezione’ cit., pp. 287-302. 21 Ibid., p. 297. 22 Cfr. J. B. Mullinger, Cambridge Characteristics in the Seventeenth Century, London – Cambridge 1867, pp. 162-163; J. J. De Boer, The Theory
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ché il Cantabrigense avrebbe profuso tanto impegno nel perfezionare l’argomento se non fosse stato certo del suo valore. L’unico dubbio sulla prova, peraltro ripetutamente dichiarato dall’autore stesso, riguarda la capacità di persuadere gli atei dell’esistenza di un principio creatore avente i caratteri tradizionalmente attribuitigli dal teismo cristiano che Cudworth intendeva difendere. Secondo il Cantabrigense, dimostrare l’esistenza di una causa prima da cui ha avuto origine l’universo non rappresenta il problema decisivo nella lotta all’ateismo materialista poiché anche secondo questa impostazione speculativa, di cui Hobbes è il rappresentante più temibile, esiste un principio necessario da cui scaturiscono le cose esistenti. L’opposizione fra teismo e ateismo consiste unicamente nella diversa connotazione attribuita alla causa prima: se i teisti sostengono che la causa di tutte le cose è un essere perfetto o Dio, i sostenitori dell’ateismo affermano invece che tale causa è la più imperfetta delle cose, ossia la materia inanimata e priva di intelligenza 23. Ne consegue che gli atei materialisti sono sostenitori di una metafisica rovesciata che, facendo derivare gradi di perfezione maggiori (come la vita o l’intelligenza) da un’origine meno perfetta quale la materia inanimata, sovverte la gerarchia ontologica tipica del platonismo cristiano secondo cui l’universo deriva da un principio immateriale e intelligente 24. L’assioma ex nihilo nihil, accettato anche dagli of Knowledge of the Cambridge Platonists, Madras 1931, p. 95; J. H. Muirhead, The Platonic Tradition in Anglo-Saxon Philosophy. Studies in the history of Idealism in England and America, London – New York 1931, p. 51, dove l’analisi di Cudworth sull’argomento è considerata un’anticipazione della critica distruttiva di Kant, perché il Cantabrigense giudicherebbe un sofisma il derivare dall’idea di un essere perfetto la sua esistenza reale. 23 Cfr. TIS, p. 727: «Wherefore since Something certainly Existed of It self from Eternity, but other things were Made, and had a Beginning, (which therefore must needs derive their being from that which Existed of It self Unmade) here is the State of the Controversie betwixt Theists and Atheists, Whether that which Existed of It Self from all Eternity, and was the Cause of all other things, were a Perfect Being and God, or the most Imperfect of all things whatsoever, Inanimate and Sensless matter». 24 Cfr. ibid., pp. 862-863: «Neither can Matter, (which is also but a meer Passive thing) Efficiently produce Soul, any more than Soul Matter: no Finite Imperfect Substance, being able to produce another Substance out of Nothing. Much less can such a Substance as hath a Lower Degree of Entity and Perfection in it, Create that, which hath a Higher. There is a Scale or Ladder of Entities and Perfections in the Universe, one above another, and the Production of things can-
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atei, impone di considerare corretto sul piano logico ed ontologico solo l’ordine affermato dai teisti. Infatti, se la vita e il pensiero potessero essere prodotti dalla materia, ciò significherebbe che un grado di realtà e di perfezione inesistente e irriducibile alla materia stessa sarebbe scaturito dal nulla. Cudworth ritiene evidente che se un’intelligenza perfetta può creare la materia, al contrario, dalla materia inanimata non potrebbe mai essere generato l’intelletto, neppure nella forma inferiore e imperfetta che si manifesta nell’uomo 25. Pertanto, la controversia tra teisti e atei è risolta secondo una prospettiva idealistica e spiritualistica secondo cui l’origine dell’universo è «un’intelligenza che esiste prima di tutte le cose e le governa» 26. Nel discutere le modalità con cui l’uomo può conoscere Dio, Cudworth riprende le tesi fondamentali dell’antropologia e della gnoseologia platonico-cristiana. In questa prospettiva, le categorie neoplatoniche archetipo/ectipo sono funzionali a chiarire che la conoscenza delle nozioni ideali, comprendente anche l’idea di Dio, è resa possibile dalla derivazione dell’anima intellettiva ectipica dall’intelletto divino che ne è l’archetipo 27. Tuttavia, la prenot possibly be in Way of Ascent from Lower to Higher, but must of necessity be in way of Descent from Higher to Lower. Now to produce any One Higher Rank of Being, from the Lower, as Cogitation from Magnitude and Body, is plainly to invert this Order, in the Scale of the Universe, from Downwards to Upwards; and therefore is it Atheistical». 25 Cfr. ibid., p. 728: «It being on the one hand, undenyably evident, that Lesser Perfections may Naturally Descend from Greater, or at least from that which is Absolutely Perfect, and which Vertually containeth all: but on the other hand utterly Impossible, that Greater Perfections and Higher Degrees of Being, should Rise and Ascend out of Lesser and Lower, so as that which is the most Absolutely Imperfect of all things, should be the First Fountain and Original of All. Since no Effect can possibly transcend the Power of its Cause (…). This being undeniably Demonstrable, from that very Principle of Reason, which the Atheists are so fond of, but, misunderstanding abuse, (…) that Nothing can come from Nothing. Much less could Understanding and Reason in men, ever have Emerged out of Stupid Matter, devoid of all manner of Life». 26 Ibid., p. 729: «Mind, was (…) The Oldest of all things, Senior to the World and Elements; and by Nature hath a Princely and Lordly Dominion over all». 27 Cfr. ibid., p. 737: «It is Evident also, that there can be but One only Original Mind, or no more than One Understanding Being Self Existent; all other Minds whatsoever Partaking of one Original Mind; and being as it were Stamped with the Impression or Signature of one and the same Seal. From whence it cometh to pass, that all Minds in the several Places and Ages of the World, have Ideas or Notions of Things Exactly Alike, and Truths Indivisibly the Same. Truths are not multiplied, by the Diversity of Minds that apprehend them; because they
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senza dell’idea di Dio e delle altre nozioni nell’intelletto umano non è intesa sotto forma di innatismo contenutistico – teoria avversata perché fondata sul presupposto eterodosso della preesistenza dell’anima al corpo –, ma in forma virtuale. Gli intelligibili, infatti, non sono essenze cristallizzate in una dimensione sovrasensibile, ma sono sempre vincolati all’attività dell’intelletto individuale che li pensa 28. Q uesta facoltà, sollecitata dall’esperienza sensibile, sviluppa il proprio innato potere conoscitivo da cui ricava le idee che non sono create ex nihilo dall’individuo, ma costituiscono un’immagine delle rationes rerum eterne sussistenti nell’intelletto divino. Mentre Dio ha la capacità di conoscere ogni cosa nella sua piena attuazione, l’uomo possiede la totalità delle forme ideali di tutte le cose solo in modo potenziale sotto forma di capacità conoscitiva in grado di sviluppare progressivamente are all but Ectypal Participations of one and the same Original or Archetypal Mind, and Truth». La relazione archetipo/ectipo è usata per la prima volta in un trattato teologico giovanile The Union of Christ and the Church; in a shadow per definire l’affinità esistente tra Dio e la creazione. Cudworth individua l’uso di queste categorie non solo nei platonici, ma anche nella cultura ebraica, poiché esse costituirebbero il fondamento della cabala. Cfr. R. Cudworth, The Union of Christ and the Church; in a shadow, London 1642, p. 3: «As the Platonists use to say, concerning spirituall and materiall things, (…), That materiall things are but Ectypall Resemblances and Imitations of spirituall things, which were the First, Primitive, and Archetypall Beings. (…). Neither were the ancient Hebrewes unacquainted with this Notion, which seemeth indeed to have been the true foundation of all their CABALA». 28 Cfr. R. Cudworth, A Treatise Concerning Eternal and Immutable Morality (in seguito: EIM), with A Treatise of Freewill (in seguito: TF), ed. by S. Hutton, Cambridge 1996, IV, 4, 4, p. 125: «These intelligible ideas or essences of things, those forms by which we understand all things, exist nowhere but in the mind itself (…). Wherefore to say that there are immutable natures and essences, and rationes of things, distinct from the individuals that exist without us, is all one as if one should say that there is in the universe above the orb of matter and body, another superior orb of intellectual being»; ibid., IV, 6, 2, pp. 143-144: «To prevent all mistake, I shall again remember what I have before intimated, that where it is affirmed that the essences of all things are eternal and immutable (…) this is only to be understood of the intelligible essences and rationes of things, as they are the objects of the mind (…). But not that the constitutive essences of all individual created things were eternal and uncreated, as if God in creating the world did nothing else but as some sarcastically express it‚ ‘Sartoris instar rerum essentias vestire existentia’, only clothe the eternal, increated and antecedent essences of things with a new outside garment of existence, and not create the whole of them. And as if the constitutive essences of things could exist apart separately from the things themselves, which absurd conceit Aristotle Frequently and no less deservedly chastises»; TIS, p. 731: «Which Universal Objects of our Mind (…) Exist not as such any where without it».
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le idee 29. In virtù dell’affinità ontologica esistente tra l’intelletto umano, Dio e il creato, Cudworth concepisce la conoscenza come una scoperta nell’anima umana e nella creazione dei caratteri che testimoniano tale somiglianza 30. L’intelletto umano, rinvenendo in se stesso e nel creato ordine e bontà, è incline a concepire l’esistenza di un principio trascendente che possiede in sommo grado tali caratteristiche trasmesse alla creazione. In questa prospettiva, la capacità di rappresentare il divino e le sue caratteristiche (inclusa l’esistenza) mediante l’intelletto è connaturata alla struttura antropologica dell’anima e l’ateismo non è altro che una mostruosità, poiché solo un intelletto anomalo non è in grado di concepire l’esistenza di Dio 31. Tuttavia, in conformità ai canoni più ortodossi della teologia cristiana, la conoscenza di Dio, essendo iscritta nella condizione creaturale, è pur sempre limitata. Contro la tesi hobbesiana secondo cui l’idea di infinito, caratteristica essenziale di tutti gli attributi divini, è inconcepibile 29 Cfr. TIS, pp. 735-736: «Now if there be Eternal Truths, which were never Made, and could not But Be, then must the Rationes Rerum, the Simple Reasons of things also, Or their Intelligible Natures and Essences, out of which those Truths are compounded, be of Necessity Eternal likewise (…). If therefore there be Eternal Intelligibles or Ideas, and Eternal Truths; and Necessary Existence do belong to them; then must there be an Eternal Mind Necessarily Existing, since these Truths and Intelligible Essences of Things cannot possibly be any where but in a Mind»; EIM, IV, 1, 5, p. 77: «For as the mind of God, which is the archetypal intellect, is that whereby he always actually comprehends himself, and his own fecundity, or the extent of his own infinite goodness and power – that is the possibility of all things – so all created intellects being certain ectypal models, or derivative compendiums of the same. Although they have not the actual ideas of all things, much less are the images or sculptures of all the several species of existent things fixed and engraven in a dead manner upon them, yet they have them all virtually and potentially comprehended in that one cognoscitive power of the soul, which is a potential omniformity, whereby it is enabled as occasion serves and outward objects invite, gradually and successively to unfold and display itself in a vital manner, by framing intelligible ideas or conceptions within it self of whatsoever hath any entity or cogitability». 30 Cfr. ibid., IV, 2, 16, p. 100: «But now, in the room of this artificial book in volumes, let us substitute the book of nature, the whole visible and material universe, printed all over with the passive characters and impressions of divine wisdom and goodness, but legible only to an intellectual eye». 31 Cfr. TIS, p. 634: «The Generality of Mankind in all Ages, have had a Prolepsis or Anticipation in their Minds, concerning the Real and Actual Existence of such a Being [scil. God] (…). From whence it plainly appears, that those few Atheists, that formerly have been, and still are, here and there up and down in the World, are no other than the Monsters and Anomalies of Humane Kind».
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perché non fondata su alcuna esperienza sensibile, il Cantabrigense rivendica la possibilità di una conoscenza parziale di Dio. Distinguendo il concepire – rappresentare una cosa in modo non esaustivo mediante un concetto – dal comprendere – conoscere l’essenza della cosa – Cudworth dichiara che l’uomo può concepire Dio, ma, in quanto creatura imperfetta, «non può comprenderlo pienamente» 32. Inoltre, dopo aver stabilito l’equivalenza tra il concetto di infinito e quello di perfezione, parafrasando un passo molto significativo e noto del terzo libro della Consolatio di Boezio, afferma che l’uomo può percepire l’universo strutturato secondo diversi gradi di perfezione perché possiede l’idea di ciò che è assolutamente perfetto. Essa garantisce che l’ascesa conoscitiva della mente umana non sia infinita e rende concepibile qualcosa di imperfetto in una categoria di cose poiché attesta l’esistenza di un grado di realtà massimamente perfetto da cui tale imperfezione deriva 33. Secondo la prospettiva gnoseologica plato32 Cfr. ibid., p. 639: «Truth is Bigger than our Minds, and we are not the Same with it, but have a lower Participation only of the Intellectual Nature, and are rather Apprehenders than Comprehenders thereof. This is indeed One Badge of our Creaturely State, that we have not a perfectly Comprehensive Knowledge, or such as is Adequate and Commensurate to the Essences of things; from whence we ought to be led to this acknowledgment, that there is another Perfect Mind or Understanding Being above us in the Universe, from which our Imperfect Minds were derived, and upon which they do depend (…). But though we do not Comprehend all Truth, as if our Mind were Above it, or Master of it; and cannot Penetrate into, and look quite thorough the Nature of every thing; yet may Rational Souls frame certain Ideas and Conceptions, of whatsoever is in the Orb of Being, proportionate to their own Nature, and sufficient for their purpose. And though we cannot fully Comprehend the Deity, nor Exhaust the Infiniteness of its Perfection, yet may we have an Idea or Conception of a Being Absolutely Perfect, such a one as is, Nostro modulo Conformis, agreeable and proportionate to our Measure and Scantling». Brunello Lotti ha rilevato che nella distinzione tra concepibile e comprensibile Cudworth dipende da Cartesio: cfr. Lotti, Ralph Cudworth cit., p. 105, nota 43, dove è citato MPP VII, p. 46. 33 Cfr. TIS, pp. 647-648: «Infinity of Duration or Eternity, is Really nothing else, but Perfection, as including Necessary Existence and Immutability in it (…). We perceive divers Degrees of Perfection, in the Essences of things, and consequently a Scale or Ladder of Perfections, in Nature, one above another, as of Living and Animate Things, above Sensless and Inanimate; of Rational things above Sensitive. And this by Reason of that Notion or Idea, which we first have, of that which is Absolutely Perfect; as the Standard; by comparing of things with which, and measuring of them, we take notice of their approaching more or less near thereunto. Nor indeed, could these Gradual Ascents, be Infinite, or Without End; but they must come at last, to that which is Absolutely Perfect, as the Top of them all. Lastly, we could not perceive Imperfection, in the most Perfect of all those things
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nica, la conoscenza individua le nozioni delle cose mediante una progressiva ascesa dell’intelletto dai diversi gradi di perfezione di ogni carattere presente nelle realtà mondane, fino all’archetipo di ciascuno di essi. Tale ascesa è un’indagine in cui il confronto con le cose offre l’occasione di cogliere interiormente, per quanto è possibile, l’esistenza di una perfezione assoluta in ogni ordine di realtà. Grazie a questo processo interiore e ascensivo è possibile concepire l’essenza divina, attribuendole in modo superlativo tre caratteristiche fondamentali: bontà, saggezza e amore 34. Definire la divinità con i classici attributi della teologia catafatica cristiana è funzionale a realizzare l’obiettivo principale dell’apologetica cudworthiana: respingere l’assoluta trascendenza del divino rispetto alla creazione per preservare il rapporto provvidenziale tra Dio e il mondo. Se Dio non potesse essere concepito in modo positivo dalla ragione umana, si creerebbero le condizioni per l’affermazione di «una sorta di misterioso ateismo» e, con il pretesto di magnificare la divinità considerandola totalmente altra rispetto all’uomo e alla creazione, si rischierebbe di degradarla a qualcosa di assolutamente irrazionale simile alla «materia priva di intelligenza» che gli atei pongono come origine dell’universo 35. Pertanto, discutendo la tesi plotiniana di Dio concepito come «unica e semplice monade» e quella aristotewhich we ever had Sence or Experience of in our lives, had we not a Notion or Idea of That which is Absolutely Perfect, which secretly comparing the same with, we perceive it to come short thereof. And we might add here, that it is not Conceiveable neither, how there should be any Lesser Perfection, Existent in any Kind, were there not First something Perfect in that Kind, from whence it was derived». Per il riferimento boeziano, cfr. Anicius Manlius Severinus Boethius, De consolatione philosophiae, III, pr. 10, 3-5, PL 64, 764A-765A, ed. C. Moreschini, München – Leipzig 2005, pp. 81, 9-17. 34 Cfr. TIS, p. 123: «Love is the Supreme Deity and Original of all things; namely, if by it be meant, Eternal, Self-originated, Intellectual Love, or essential and Substantial Goodness»; ibid., p. 207: «God is a Being Absolutely Perfect (…) who made all that Could be Made, and was Fit to be made, producing them according to his own Nature (his Essential Goodness and Wisdom)». 35 Cfr. ibid., p. 585: «Shall we say that the First Hypostasis or Person, in the Platonick Trinity, (if not the Christian also) is ἄνους and ἄλογος, Sensless and Irrational, and altogether devoid of Mind and Understanding? Or would not this be to introduce a certain kind of Mysterious Atheism, and under pretence of Magnifying and Advancing the Supreme Deity, Monstrously to Degrade the same? For why might not Sensless Matter, as well be supposed, to be the first Original of all things, as a Sensless Incorporeal Being?».
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lica di Dio come primo motore immobile, Cudworth rileva che in entrambi i casi viene affermata una tale distanza e separazione tra gli enti creati e Dio che quest’ultimo si trova nell’impossibilità «di avere alcuna relazione o scambio con la realtà inferiore» 36. Una simile rappresentazione del divino contraddice l’idea di Dio come è concepita dalla maggior parte degli uomini secondo gli istinti di natura e le nozioni comuni ed erode «il fondamento di ogni religione», ossia la devozione fondata sulla speranza nella provvidenza divina 37. Q uesta esigenza ‘emotiva’ è, infatti, il presupposto fondamentale della teologia del maestro cantabrigense che, riferendosi al De seipso di Marco Aurelio, afferma: God is such a Being, who if He were not, were of all things whatsoever most to be Wished for It being indeed no way desirable (as that noble Emperour concluded) for a man to live in a world, void of a God and Providence. He that believes a God, believes all that Good and Perfection in the Universe, which his Heart can possibly wish or desire. It is the Interest of none, that there should be no God, but only of such wretched Persons, as have abandoned their First and only true Interest, of being Good, and Friends to God, and are desperately resolved upon ways of Wickedness 38.
È evidente, allora, che Cudworth, pur essendo convinto della validità dell’argomento – come testimoniano gli sforzi compiuti per migliorarne la struttura e la coerenza logica – abbia considerato le prove a posteriori più utili per costruire una teologia affermativa in grado di realizzare gli obiettivi della sua apologetica. L’unum argumentum, con cui Anselmo mostrava l’esistenza 36 Cfr. ibid., p. 587: «For if the Whole Deity, were nothing but One Simple Monad, devoid of all manner of Multiplicity (…) then could it not well be conceived by us Mortals, how it should contain the Distinct Ideas of all things within it self (…). Again, were the Deity only an Immovable Mind; as Aristotle’s God (…) it would be likewise utterly unconceivable (…) How the Deity should have any Commerce or Entercourse with Lower world». 37 Cfr. ibid., pp. 587-588: «Neither can they [scil. the Instincts and Common Notions of Mankind] be denied, without rasing the very Foundations of all Religion, since it would be to no more purpose, for men to make their Devotional Address, to such an Immovable, Inflexible, and Unaffectible Deity; than to a Senless Adamantine Rock». 38 Ibid., p. 661. Il riferimento è a Marcus Aurelius Antoninus Imperator, Commentarii quos sibi ipsi scripsit, ed. J. Stich, Leipzig 1903, pp. 16, 1 17, 13.
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di Dio senza rappresentare nessun’altra caratteristica dell’essenza divina, poteva essere efficace nei confronti dell’insipiens che, ignorando i presupposti onto-teologici e dialettici che determinano il rapporto tra res, intellectus e vox, non era consapevole di affermare l’esistenza di Dio già solo pensandone l’idea e pronunciandone il nome 39. Al contrario, l’argomento che il Cantabrigense eredita da Cartesio, pur presentandosi come una formulazione in cui si inferisce l’esistenza di Dio dalla perfezione attribuitagli positivamente nella definizione, sembra insufficiente a confutare l’inversione del platonismo cristiano operata dall’ateismo materialistico secondo cui la materia inerte priva di intelligenza è l’unica origine dell’universo concepibile perché solo di essa si può avere esperienza. Contro questa posizione, Cudworth oppone una rappresentazione del divino fondata sul presupposto platonico secondo cui un’unica natura intellettuale accomuna il principio creatore all’universo creato. Sul piano squisitamente religioso, tale concezione consente di esaltare il carattere provvidenziale e la vicinanza di Dio alla creazione, aspetti fondamentali per infondere e preservare il sentimento della fede. Sul piano filosofico, garantisce la possibilità di affermare che la concezione del divino scaturisce già dalla conoscenza delle realtà mondane mediante l’esperienza sensibile. In tal modo, l’empiria, riqualificata in chiave religiosa, è sottratta alla valenza sensistica e materialistica attribuitale dal pensiero hobbesiano in forte ascesa nella cultura inglese della seconda metà del secolo xvii e dietro cui, secondo il Cantabrigense, si cela la minaccia dell’ateismo.
39 Su questa interpretazione dell’argomento anselmiano e del suo contesto speculativo cfr. G. d’Onofrio, Anselmo d’Aosta, in Storia della Teologia nel Medioevo, dir. di G. d’Onofrio, 3 voll., Casale Monferrato 1996, I: I principi, [pp. 481-553], pp. 502-508.
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Giulio d’Onofrio Leggere Anselmo (p. 17-76) L’accostamento corretto agli scritti di ambito filosofico-teologico di epoca tardo-antica o altomedievale non può prescindere da una adeguata percezione della originaria coerenza che l’autore stabiliva tra la forma delle parole e le nozioni interiori e gli effettivi procedimenti argomentativi ad esse corrispondenti. Leggendo oggi Anselmo con l’aspirazione di ricostruire e interpretare correttamente le categorie filosofico-culturali vigenti nel suo tempo, le peculiarità del suo stile e gli orientamenti linguisticoformali delle sue fonti, è possibile proporre nuove chiavi di accostamento al suo pensiero, libere da preconcetti comparativistici e da interpretazioni inadeguate, fondate su modelli di pensiero estranei al suo universo mentale. Le prove del Monologion mostrano l’utilizzo di Agostino (soprattutto della sua gnoseologia) e Boezio, nonché della teoria e della terminologia dialettica come canonizzata nel secolo xi; Anselmo appare anche chiaramente influenzato dalla dottrina della triade ontologica neoplatonica e applica, per un avvicinamento alla comprensione dei misteri trinitari, un rigoroso utilizzo della logica del termine e in particolare della definitio; inoltre, la celebre definizione di Dio su cui è fondata l’intera costruzione teoretica del Proslogion appare essere una notio, elaborata ancora secondo le regole della dialettica codificate da Boezio e Mario Vittorino. La struttura formale dell’unum argumentum, del resto, si inserisce corret541
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tamente nell’ambito della dottrina topica così come è trattata da Cicerone sulla base di Aristotele, proponendosi in particolare come una applicazione del topos ex repugnantibus, che le fonti dialettiche definiscono anche semplicemente enthymema e che ha trovato ampia utilizzazione nella letteratura filosofica altomedievale. A correct approach to the philosophical-theological writings from the late ancient or early medieval period cannot leave out an adequate overview of the original coherence that the author established among the form of the words, the interior ideas, and the effective procedures of argumentation that correspond to them. By reading Anselm today with the desire of reconstructing and interpreting correctly the philosophical-cultural categories existing in his time, the particularities of his style, and the linguisticformal directions of his sources, it is possible to propose new ways for the approach to his thought that are free of comparative preconceptions and inadequate interpretations founded on models of thought that are foreign to his mental universe. The proofs of the Monologion show the use of Augustine (above all his gnoseology) and Boethius, as well as the use of the theory and terminology of dialectic that had been canonized in the eleventh century. Anselm also appears to be clearly influenced by the doctrine of the Neo-Platonic ontological triad and applies, through an approach to the comprehension of the Trinitarian mysteries, a rigorous use of the logic of the ‘term’ and in particular of the definitio. Furthermore, the celebrated definition of God on which is founded the entire theoretical construction of the Proslogion appears to be a notio, developed again according to the rules of dialectic that had been codified by Boethius and Marius Victorinus. The formal structure of the unum argumentum, however, is correctly inserted into the doctrine of the ‘topic’, as treated by Cicero by way of Aristotle, that is proposed in particular as an application of the topos ex repugnantibus, which the sources on dialectic define simply as enthymema and which found ample use in the early medieval philosophical literature.
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Alessandro Ghisalberti La nuova frontiera ermeneutica delle opere speculative di Anselmo. Problemi e prospettive (p. 77-105) Nel classificare le opere di Anselmo è necessario prescindere dalla distinzione, storicamente successiva, fra filosofia e teologia: nel Monologion, come dimostra una analisi del significato dei termini ratio, fides e credere, ragione e fede non sono concorrenti, ma capaci entrambe di condurre l’uomo alla verità; e anche nel Proslogion, nonostante numerose letture storiografiche in senso differente, la ragione può acquisire per altra via le verità proprie della fede. Anche la Responsio a Gaunilone, che pure insiste maggiormente sul versante filosofico, si basa sulla convinzione di questo accordo. Nello stesso contesto si situa anche il Cur Deus homo (in particolare con la complessa distinzione fra ‘necessità antecedente’ e ‘necessità conseguente’). Tutto questo sistema, però, si basa sull’assunto (mai reso esplicito da Anselmo) che la Rivelazione cristiana sia un dato assolutamente certo e indubitabile. When classifying Anselm’s works, it is necessary to avoid an oftenrepeated distinction between philosophy and theology. In the Monologion, which has been shown to be an analysis of the significance of the terms ratio, fides and credere, faith and reason are not competitors, but both are capable of leading man to the Truth. Even in the Proslogion, despite numerous historiographical readings in a different sense, reason can acquire another way to the truths belonging to the faith. Even the Responsio to Gaunilo, which also leans primarily toward the philosophical side, is based on the conviction regarding this agreement. One may also situate the Cur Deus homo in the same context (in particular, with the complex distinction between ‘antecedent necessity’ and ‘consequent necessity’). Yet this entire system is based on the assumption (already made explicit by Anselm) that Christian Revelation is an absolutely certain and indubitable datum.
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Inos Biffi Le rationes necessariae di Anselmo d’Aosta: audacia o utopia? (p. 107-121) Il raggiungimento dell’intelligenza della fede è certamente l’obiettivo dell’intera speculazione di Anselmo. Tuttavia i procedimenti da lui adottati non possono essere ritenuti teologici, ma vanno invece classificati come filosofici: ciò che egli cerca è un automanifestarsi della verità nella sua evidenza razionale. Ma la comprensione logica cui egli giunge, come dimostrano il Monologion, il Proslogion e soprattutto il Cur Deus homo, è in grado di chiarire alla perfezione anche elementi di dottrina strettamente teologica: la filosofia sembra avere il potere di razionalizzare il mistero. L’intellectus che così si consegue è assimilato da Anselmo, in questo più ottimista di Tommaso, alla species beatifica; da questo punto di vista, l’atteggiamento del filosofo di Aosta può essere ritenuto utopistico, perché anticipa (anche se in forma inevitabilmente imperfetta) la comprensione ultraterrena riservata agli eletti. The attainment of the understanding of the faith is certainly the objective of Anselm’s entire speculative project. Yet he adopts procedures that cannot be considered theological, but are classified as philosophical: he seeks a self-manifestation of the Truth in its rational evidence. But the logical comprehension to which he arrives — as the Monologion, the Proslogion, and above all the Cur Deus homo show — is capable of perfectly clarifying even elements of strictly theological doctrine: philosophy seems to have the power to put the mystery in reasonable terms. The acquired intellectus is assimilated by Anselm — who is more of an optimist than Thomas — into the beatific species. From this point of view, the attitude of the philosopher from Aosta may be considered utopian, since it anticipates (even if it is in an inevitably imperfect form) the otherworldly vision that is reserved to the elect.
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Armando Bisogno Si vis, quaeramus quod sit veritas. Anselmo e il modello pedagogico monastico (p. 123-135) Il successo, in vita e nei secoli successivi, del magistero di Anselmo fu certamente dovuto alle sue straordinarie capacità speculative, ma anche alla costante abitudine di presentare i contenuti della sua riflessione teologica in una forma implicitamente o esplicitamente didattica, che colloca Anselmo in una lunga tradizione che, da Gregorio fino ad Alcuino, caratterizza il modello pedagogico sviluppato negli ambienti monastici. Il Monologion, in particolare, muove da un’esigenza espressa con chiarezza dai fratres del Bec: convertire in una forma espositiva ordinata l’usitatus sermo sull’essenza divina condiviso colloquialmente, per renderlo didatticamente fruibile. Tutte le richieste che i fratres pongono come precondizione indispensabile vengono accolte da Anselmo, che in tal modo concede ai discepoli il diritto di costruire, secondo i propri desideri, un ambiente didattico comodo e perciò funzionale ad accogliere le complesse argomentazioni che sola ratione verranno loro impartite. Una lettura comparata della struttura narrativa delle diverse opere può dunque mostrare la costanza con la quale Anselmo è riuscito sempre a porsi, nei confronti dei suoi fratres e dei posteri, come insostituibile magister. The success of Anselm’s teaching, in his lifetime and in the following centuries, was certainly due not only to his extraordinary speculative abilities, but also to the consistent practice of presenting the contents of his theological reflection in an implicit and explicit didactic form, which connects Anselm to a long tradition that, from Gregory to Alcuin, characterized the pedagogical model developed in the monasteries. The Monologion, in particular, is driven by the desire that was clearly expressed by the fratres of Bec: to convert into an ordered expositive form the usitatus sermo on the divine essence, which was colloquially shared, in order to render it didactically fruitful. Anselm gathers all the requests that the fratres put forward as an indispensable precondition and in such a way he concedes to his students the right to construct, according to their own desires, a didactic environment that is conducive 545
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to and thus functional for the reception of complex arguments that will be imparted to them sola ratione. A comparative reading of the narrative structure of the different works can therefore demonstrate the regularity with which Anselm always succeeded in presenting himself, in the encounters with his fratres and successors, as an irreplaceable magister. Italo Sciuto Significato e valore del mondo laico nel pensiero di Anselmo d’Aosta (p. 137-159) Analizzando le non frequenti occorrenze del termine laicus nell’opera di Anselmo, si evince che con questo nome viene indicato chiunque non sia né chierico né monaco. La categoria è dunque definita in negativo, ma nonostante alcuni testi che esprimono un netto contemptus mundi (testimoniato al meglio dall’ ‘eloquente silenzio’ sulla prima crociata), e il chiaro riconoscimento della perfezione dello stato monastico, Anselmo non deprezza il mondo laico in modo sostanziale, né lo ritiene ontologicamente malvagio. Di certo però ne rifiuta la violenza e le passioni; proprio il radicale rifiuto di ogni coercizione e prepotenza lo distingue dal comune sentire medievale, originato dalle riflessioni di Agostino sul «compelle intrare» e discusso pure in Tommaso d’Aquino. Tuttavia, se con ‘atteggiamento laico’ si vuole intendere, in filosofia, una speculazione libera e razionale, Anselmo può essere considerato come allineato a questo atteggiamento. By analyzing the frequent occurrences of the term laicus in the work of Anselm, one finds that this name indicates whoever is neither cleric nor monk. The category is therefore defined in the negative. Yet, though some texts express a marked contemptus mundi (better demonstrated by the ‘eloquent silence’ regarding the first crusade) and the clear recognition of the perfection of the monastic state, Anselm does not lack appreciation for the lay world in a substantial way, nor does he consider it to be ontologically evil. He certainly rejects its violence and passions; his own radical refusal of any coercion or force distinguishes him from the common medieval feeling that originated Augustine’s reflections 546
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on «compelle intrare» and also discussed in Thomas Aquinas. Nevertheless, if by ‘lay attitude’ one intends, in philosophy, a free and rational speculation, Anselm can be considered an adherent of this attitude. Matteo Zoppi Tra il chiostro e il mondo: linee del pensiero ‘politico’ anselmiano (p. 161-190) Per cogliere l’essenza del pensiero politico di Anselmo, è necessario prendere in considerazione l’intero corpus delle sue opere e trarne le opportune indicazioni teoretiche. Come dimostra il Cur Deus homo, il fine fondamentale della politica è la conservazione della giustizia (anzitutto dal punto di vista personale); depositario del potere è il papa, interprete della legge divina, e non i regnanti terreni. Tuttavia anche essi sono utili, nello specifico a governare e a difendere il popolo in accordo con i potentati ecclesiastici. Al vertice della società c’è il monaco, che persegue lo stato di vita più perfetto ed ha più facilmente la possibilità di ascendere alla beatitudine; ma questo non significa che il mondo laico sia ‘malvagio’. Di certo Anselmo, forte dell’idea della preminenza monastica, fa di tutto per distaccarsene, e accetta a malincuore gli incarichi politici della seconda parte della sua vita. In order to grasp the essence of Anselm’s political thought, it is necessary to take into consideration the entire corpus of his works and to draw from them the appropriate theoretical information. As the Cur Deus homo shows, the fundamental goal of politics is the conservation of justice (above all from a personal point of view). The depository of power is the Pope, interpreter of the divine law, and not the terrestrial kings. Yet, even these kings are useful in their role of governing and defending the people in accord with ecclesiastical powers. At the peak of society is the monk, who pursues a state of life that is the most perfect and has most easily the possibility of ascending to beatitude; but this does not mean that the lay world is ‘evil’. Certainly Anselm, strengthened by the idea of monastic preeminence, does all he can to separate himself from the lay world and he reluctantly accepts the political tasks of the second part of his life. 547
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Pietro Palmeri Ricerca della verità, volontà di giustizia e desiderio di felicità nel monachesimo di Anselmo d’Aosta (p. 191-209) Nella prospettiva di Anselmo, in questo discepolo di Lanfranco di Pavia, il bisogno di scoprire la verità è anzitutto intellettuale: ma questa esigenza ‘razionalistica’ si integra nella sua spiritualità monastica, che – come dimostrano le Orationes et meditationes – ha un vivissimo senso del peccato. Fede e ragione si compenetrano dunque anche in questo aspetto della sua speculazione. Il De veritate identifica la verità con la rectitudo, ovvero con ciò che ciascuna cosa deve essere nel piano di Dio; nel monaco, essa si esprime soprattutto nell’obbedienza, e quindi in una sottomissione della volontà umana a quella divina, per il conseguimento di una superiore giustizia. È la volontà, infatti, il vero fulcro della vita morale, il cui centro diventa la coscienza. In the perspective of Anselm, disciple of Lanfranc of Pavia, the need to discover the truth is above all intellectual; but his ‘rationalistic’ demand is integrated into the monastic spirituality that – as the Orationes et meditationes show – has a most lively sense of sin. Faith and reason however permeate even this aspect of his speculation. The De veritate identifies the truth with rectitudo, or that which each thing must be within the divine plan. In the monk, this is expressed above all in obedience and therefore in a submission of the human will to the divine for the accomplishment of a higher justice. The will in fact is the fulcrum of the moral life, whose center becomes the conscience. Silvio Tafuri Il problema della significazione nel pensiero di Anselmo (p. 211-235) Nell’intera opera teologica di Anselmo, un ruolo decisivo è giocato dalla tematica della significazione linguistica. Ma anche sotto questo aspetto non si può trascurare la componente teologica, vero motore di tutto l’operare filosofico anselmiano. Ed è proprio l’unum argumentum a rappresentare un luogo privilegiato 548
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dove poter osservare l’operare di una strategia logico-semantica. Q uest’ultima prende spunto dall’incontro di due modelli filosofici, che possono essere rispettivamente definiti ‘aristotelismo linguistico’ e ‘platonismo linguistico’: la loro interazione, nella formulazione della teoria della significatio, è operativa all’interno delle più importanti opere di Anselmo. In particolare il Proslogion rappresenta il testo in cui la strategia semantica anselmiana trova la sua più esplicita formulazione, portando alla luce alcune problematiche che inducono Anselmo a fronteggiare le possibili contraddizioni sulle quali insisterà il monaco Gaunilone. In Anselm’s entire theological work, the theme of linguistic signification plays a decisive role. Yet even under this aspect one cannot pass over the theological component, the true mover of Anselm’s entire philosophical work. And it is the very unum argumentum that represents a privileged place where one can observe the workings of a logical-semantic strategy. The latter springs from an encounter between two philosophical modes that can be respectively defined as ‘linguistic Aristotelianism’ and ‘linguistic Platonism’; their interaction in the formulation of the theory of significatio is operative within Anselm’s most important works. In particular, the Proslogion is the text in which the Anselmian semantic strategy finds its most explicit formulation, bringing to light some problems that lead Anselm to confront the possible contradictions that the monk Guanilo insists upon. Carlo Chiurco Anselmo filosofo dell’infinito: la natura elenctica dell’unum argumentum (p. 237-248) Mentre Boezio sostiene una metafisica di tipo partecipativo, in cui Dio è conosciuto secondo il principio neoplatonico di scalarità gnoseologica (prospettiva in parte comune anche al Monologion), l’unum argumentum anselmiano presuppone l’idea di Dio quale unum Principium speciale e infinito, estraneo all’idea agostiniana di ordo. In questo modo Dio è considerato come omnitudo realitatis, e la prova anselmiana, che parte dal concetto ciceroniano di argumentum, funziona anzitutto perché l’infinità di Dio rende 549
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autocontraddittoria la confutazione della prova stessa. L’argomento non rappresenta quindi una autoevidenza pura, ma un ragionamento principiale, che può essere avvicinato al concetto aristotelico di ἔλεγχος. While Boethius maintains a metaphysics of a participative type, in which God is known according to the Neo-Platonic principle of the «gnoseological ladder» (a perspective that is in part found even in the Monologion), the Anselmian unum argumentum presupposes an idea of God as a special and infinite unum Principium, which is different from the Augustinian idea of ordo. In this way God is considered to be omnitudo realitatis and the Anselmian proof, which originates from the Ciceronian concept of argumentum, functions above all because the infinity of God renders self-contradictory the confutation of the proof itself. The argument is not therefore purely self-evident, but rather it approaches the Aristotelian concept of ἔλεγχος. Roberto Nardin Una lettura monastica del Cur Deus homo: indagine sui presupposti del metodo anselmiano (p. 249-264) Del Cur Deus homo può essere offerta, contrariamente alle tendenze storiografiche attuali, anche una lettura monastica. Per quanto sia vero che l’impostazione del trattato sia razionale (le dimostrazioni di Anselmo procedono, come è noto, «remoto Christo»), la ratio ha il solo compito di spiegare e illustrare i contenuti della fede, e non di sostituirsi a essi; inoltre, il procedimento del «remoto Christo» non è assoluto, ma si adatta in qualche modo al coinvolgimento religioso del lettore. Il Cur Deus homo insiste su alcuni elementi dell’etica monastica come la communio, l’obbedienza e l’umiltà. Del trattato si può quindi dare una lettura cristologico-esistenziale che salvaguardi la dimensione spirituale del monaco che lo legge (in primis Bosone), che astrae Cristo soltanto sul piano logico ma non su quello esistenziale. Orizzonte monastico e dimensione dialettica possono dunque convivere pacificamente in questo e negli altri scritti di Anselmo. 550
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Despite actual historiographical tendencies, the Cur Deus homo may also be approached through a monastic reading. To the extent that the structure of the treatise is rational (Anselm’s proofs proceed, as noted, «remoto Christo»), the ratio has the sole role of explaining and illustrating the contents of the faith and not becoming a substitute for it. Furthermore, the procedure «remoto Christo» is not absolute, but adapts itself in some way to the religious involvement of the reader. The Cur Deus homo insists upon some elements of monastic ethics, such as communio, obedience and humility. One may therefore give the treatise a Christological-existential reading that safeguards the spiritual dimension of the monk who reads it (in primis Boso), and abstracts Christ on the logical plane and not on the existential. The monastic horizon and the dialectical dimension can therefore peacefully coexist in this and in other writings of Anselm. Marcella Serafini Una ‘rilettura’ del Cur Deus homo in prospettiva cristocentrica (p. 265-292) Nella storia della teologia si tende a distinguere la linea per cui l’Incarnazione è dovuta al peccato da quella che ritiene che Cristo si sarebbe incarnato comunque, in quanto predestinato; del primo atteggiamento si ritiene capofila Anselmo, del secondo Duns Scoto. Una approfondita analisi dei nodi centrali del Cur Deus homo mostra però che anche per Anselmo l’Incarnazione è scelta liberamente da Dio; questa prospettiva si concilia con quella di Duns Scoto, filosofo della libertà divina. Ma le due prospettive si armonizzano ancora più profondamente nel considerare l’amore divino come primo motore dell’Incarnazione, dono gratuito di Dio. Anselmo e Scoto sono inoltre accomunati dall’uti lizzo del criterio dell’eminenza: il maius con cui il primo si riferisce a Dio corrisponde al summum del secondo. In the history of theology one tends to distinguish the line of thought that maintains that the Incarnation is due to sin, from the line of thought that maintains that Christ would have become incarnate in any case, to the extent it was predestined; the first approach is considered the central position 551
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of Anselm, the second of Duns Scotus. A more in-depth analysis of the central nodes of the Cur Deus homo however shows that even for Anselm the Incarnation is freely chosen by God; this perspective is reconciled with that of Duns Scotus, the philosopher of divine liberty. But the two perspectives are harmonized even more profoundly when considering divine love as the prime mover of the Incarnation, a free gift of God. Anselm and Scotus are further united by the use of the criterion of eminence: the maius with which the first refers to God corresponds to the summum of the second. Romana Martorelli Vico Il ‘quadrato’ di Anselmo (dal Cur Deus homo): dalla generazione divina alla generazione biologica (p. 293-300) Il capitolo II, 8 del Cur Deus homo si occupa del rapporto fra peccato originale e generazione umana. Ogni uomo per natura eredita il peccato originale dal progenitore Adamo: questo però crea un problema con la natura umana di Cristo, che è libero dal peccato. La soluzione di Anselmo è elaborare un quadrato logico della generatio, dimostrando che la generazione di Cristo, da una donna ma senza un uomo, è differente da quella di tutti gli altri uomini (che nascono da un uomo e da una donna) ed è caso unico a sé anche rispetto alle altre due possibilità (generazione senza né uomo né donna, come quella di Adamo, e generazione da un uomo senza una donna, come per Eva). Chapter II, 8 of the Cur Deus homo is concerned with the relationship between original sin and human generation. Every man naturally inherits original sin from the progenitor, Adam; yet this creates a problem concerning the human nature of Christ, which is free of sin. Anselm’s solution is to develop a logical square of generatio, showing that the generation of Christ – from a woman, but without a man – is different from all other men (who are born of a man and a woman) and is a unique case in itself even in respect to two other possibilities (generation with neither a man nor a woman, as in the case of Adam, and generation from a man without a woman, as in the case of Eve). 552
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Luigi Catalani La ragione monastica nell’epistolario di Anselmo d’Aosta (p. 301-323) Non è difficile scorgere tra le pagine dell’epistolario di Anselmo d’Aosta tracce di un utilizzo del termine ratio coerente con il contenuto delle sue opere più note, e, da un certo punto di vista, addirittura potenziato, proprio in virtù dell’esperienza monastica, vissuta e raccontata in prima persona, in cui tale concetto va a inserirsi. È possibile dunque provare a definire i contorni di una ‘ragione monastica’, intesa non come una comoda formula di sintesi, ma piuttosto come una categoria spirituale dotata di una sua specificità all’interno del pensiero di Anselmo, che appare come un sistema olistico, nel quale ogni elemento (il Deus homo, l’unum argumentum, il libero arbitrio, la verità, la giustizia) non può essere chiarito fino in fondo senza fare ricorso a tutti gli altri. La ratio incompromissoria che emerge frequentemente dalle pagine dell’epistolario anselmiano non è semplicemente quella del metodo sola ratione, applicato con esiti assai soddisfacenti alle più impegnative questioni teologiche e perfino ai misteri della fede; né è la veritatis ratio tam ampla tamque profunda, ossia il corollario, potenzialmente infinito, di argomentazioni (plures rationes) che l’intellettuale cristiano può escogitare a sostegno della propria fede. La ratio cui ricorre Anselmo nelle lettere rimanda piuttosto all’idea di ordine, in particolare alla sua dimensione interiore, morale (l’ordine della rectitudo). L’ostinata intransigenza della ragione monastica, espressa con disarmante semplicità da Anselmo, appare dunque come la conferma, ogni giorno dovuta, dell’indissolubile rapporto che lega il monaco al suo Dio. It is not difficult to pick out among the pages of Anselm of Aosta’s letters traces of the use of the term ratio that is consistent with the contents of his more noted works and, from a certain point of view, it is even strengthened in virtue of the monastic experience that is lived and recounted in the first person, in which such a concept is inserted. It is possible therefore to attempt to define the contours of a ‘monastic reasoning’ that is understood not as a convenient formula of synthesis, but rather as a spiritual category endowed with its own specificity within Anselm’s thought. Thus 553
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Anselm’s work appears to be a holistic system, in which every element (the Deus homo, the unum argumentum, free will, Truth, Justice) cannot be completely clarified without recourse to all the others. The uncompromising ratio that frequently emerges from Anselm’s letters is not simply that of the method of sola ratione, applied with such satisfying results to the most demanding theological questions and even to the mysteries of the faith; nor is it the veritatis ratio tam ampla tamque profunda, or its potentially infinite corollary of argumentations (plures rationes) that the intellectual Christian can excogitate in support of the faith. The ratio that Anselm applies in the letters returns rather to the idea of order, in particular to the interior, moral dimension (the order of the rectitudo). The stubborn intransigence of monastic reasoning, which Anselm expresses with such disarming simplicity, thus appears as the confirmation, which is owed every day, of the indissoluble relationship that unites the monk to his God. Fabio Cusimano Benedetto di Aniane e la legislazione monastica carolingia attraverso i capitularia (p. 327-358) Benedetto di Aniane, in stretta collaborazione con Ludovico il Pio, attuò una importante opera di gestione normativa del monachesimo franco imponendo in tutto l’Impero l’osservanza della Regula Benedicti. I capitularia editi fra 750 e 850 descrivono bene le tappe e l’importanza di questa svolta: l’anelito uniformatore precede l’azione di Carlo Magno, ma i momenti centrali di una prima azione riformatrice si situano fra 782 e 806. Una analisi dei capitularia di questa fase mostra il ricorrere di alcune tematiche centrali relative al monachesimo: fra le più importanti, le modalità di applicazione della Regula, il rapporto fra vescovi e abati, quello fra monaci e canonici, l’applicazione della giustizia, le procedure da applicare con i novizi. Benedict of Aniane, in close collaboration with Louis the Pius, completed an important work of the normative administration of Frankish monasticism by imposing throughout the Empire the observance of the Rule of St. Benedict. The capitularia, which 554
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were edited between 750 and 850, describe well the steps and the importance of this effort; the desire for unity precedes Charlemagne’s actions, but the central moments of a first reform movement take place between 782 and 806. An analysis of the capitularia of this phase shows the recurrence of some central themes related to monasticism. Among the most important one finds: the modes of applying the Regula; the relationship between bishops and abbots, and between monks and priests; the application of justice; and the procedures to apply with novices. Pierfrancesco De Feo L’eredità cristologica anselmiana in Ugo di San Vittore e in Abelardo (p. 359-370) Ugo di San Vittore e Abelardo di Le Pallet, figure di spicco della prima metà del secolo xii, rielaborano il Cur Deus homo anselmiano, che contribuisce in modo evidente alla formulazione di una soteriologia coerentemente connessa alle premesse metafisiche dei due pensatori. Ugo declina il discorso anselmiano alla luce di una metafisica della persona che giunge ad affermare la mistica identità di Dio e uomo in Cristo. In tale ottica, il progetto di salvezza di cui Anselmo rinviene rationes necessariae diventa il luogo di un’iden tificazione tra la carità divina e le categorie mentali umane. Abelardo invece, partendo dal presupposto dell’immutabilità del divino, presenta una cristologia caratterizzata da un forte separatismo ontologico, che si radicalizza nella distinzione eterodossa tra Verbum in se e Verbum pro nobis. La soteriologia abelardiana, proponendo il dinamismo vitale dell’amore a risoluzione di questo dissidio, estende il tema onto-noetico anselmiano del divino quale limite invalicabile e necessario di ogni ente possibile al tema metaetico dell’Amore in virtù del quale soltanto è possibile per l’uomo realizzarsi come essere amante. Hugh of St. Victor and Abelard of Le Pallet, esteemed figures of the first half of the twelfth century, reworked Anselm’s Cur Deus homo, which contributes clearly to the formulation of a soteriology consistently connected to the metaphysical premises of the two thinkers. Hugh develops Anselmian discourse in the 555
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light of a metaphysics of the person that arrives at an affirmation of the mystical identity of God and man in Christ. In such a view, the project of salvation from which Anselm discovers rationes necessariae becomes the place for the identification between divine charity and human mental categories. Abelard, however, starting from the presupposition of divine immutability, presents a Christology characterized by a strong ontological separation that radicalizes itself in the heterodox distinction between the Verbum in se and Verbum pro nobis. The soteriology of Abelard, by proposing the vital dynamism of love for the resolution of this disagreement, extends Anselm’s onto-noetic theme of the divine as the untraversable and necessary limit for every possible being to the meta-ethical theme of Love, in virtue of which man finds his only possibility of realizing himself as a loving being. Concetto Martello Influenze anselmiane nel secolo xii. Il caso della Summa sententiarum attribuita a Ottone da Lucca (p. 371-392) La Summa sententiarum attribuita a Ottone da Lucca, e risalente probabilmente agli anni fra il 1138 e il 1141, rappresenta un’interessante testimonianza della prima influenza anselmiana. L’autore è inoltre ben informato sul dibattito filosofico a lui contemporaneo e in particolare sugli esiti delle riflessioni di Abelardo e di Ugo di San Vittore. Fra i principali temi discussi nell’opera, l’esistenza di Dio e la creazione, la Trinità e il governo del mondo, l’onnipotenza e i sacramenti; in linea di massima l’autore manifesta una posizione intermedia fra tradizione e innovazione. L’opera è composta con metodo confacente all’insegnamento scolastico (anzitutto attraverso l’organizzazione in quaestiones), tuttavia mostra chiari influssi monastici cisterciensi e un’alta considerazione per i temi spirituali. L’influsso di Anselmo sembra particolarmente evidente nella deduzione della natura della Trinità (ripresa dal Monologion) e nella caratterizzazione dell’onnipotenza divina (ripresa dal secondo libro del Cur Deus homo e dal De potestate). The Summa sententiarum attributed to Odo of Lucca, composed probably in the years between 1138 and 1141, is an interesting 556
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example of the early influence of Anselm. Furthermore the author is well informed on contemporary philosophical debates and in particular on the results of the reflections of Abelard and Hugh of Saint Victor. Among the main themes discussed in the work one finds: the existence of God and creation; the Trinity and the governance of the world; omnipotence and the sacraments. Overall the author shows an intermediate position between tradition and innovation. The work is composed with a method that is appropriate for scholastic teaching (above all through the organization in questiones), although it shows clear Cistercian monastic influences and a high consideration for spiritual themes. Anselm’s influence seems particularly evident in the deduction of the nature of the Trinity (taken from the Monologion) and in the characterization of divine omnipotence (taken from the second book of the Cur Deus homo and the De potestate). Bernhard Hollick Logica ed ermeneutica: la parafrasi sillogistica come strumento di interpretazione di testi filosofici nel dodicesimo secolo (p. 393-421) Attraverso l’esame di due commenti anonimi della prima metà del xii secolo alla Logica vetus, provenienti da Echternach e da SaintTrond, è possibile osservare una peculiare metodologia esegetica, che consiste nel trasformare il linguaggio filosofico delle fonti in una parafrasi logico-formale che evidenzi chiaramente le strutture dialettiche (soprattutto sillogismi e loci) contenute nei testi. È questo un metodo già sfruttato nel tardo Antico da Cassiodoro, autorizzato da Agostino nel De doctrina christiana, e che si fonda in ultima analisi sull’intima e intrinseca razionalità riconosciuta al cristianesimo e alla Bibbia. Nel secolo xi esso viene utilizzato da Lanfranco di Pavia, cui almeno il commentatore di Echternach si ispira. Assai diversi i due testi: il primo poco più che un insieme di appunti personali, il secondo forse destinato al pubblico. Entrambi i commenti pongono la topica a fondamento della logica, mostrando un fondamentale cambiamento rispetto alla teoria tardo-antica ed elevano questa metodologia sillogistica a fondamentale metodo ermeneutico. 557
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Through an examination of two anonymous commentaries on the Logica vetus from the first half of the twelfth century, composed in Echternach and Saint-Trond, it is possible to see a particular exegetical methodology that consists in the transformation of the philosophical language of the sources into a logical-formal paraphrase that clearly exhibits the dialectical structures (above all, syllogisms and loci) contained in the texts. Cassiodorus had already found fruit in this method in Late Antiquity and Augustine authorized it in his De doctrina christiana. In the final analysis, it is grounded on an intimate and intrinsic reasoning that is recognized in Christianity and the Bible. In the eleventh century it was used by Lanfranc of Pavia, who at least inspired the commentary of Echternach. There are major differences in the two texts: the first is little more than a collection of personal notes, the second perhaps was composed for the public. Both commentaries establish the ‘topic’ as the foundation for logic, showing a fundamental change in respect to late-ancient theory, and they elevate this syllogistic methodology to a fundamental hermeneutical method. Maria Borriello Il monachesimo e le scuole nel passaggio tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo (p. 423-447) Nel corso del secolo xii l’impostazione razionale e insieme emozionale dell’indagine teologica anselmiana è accolta e variamente utilizzata dai Cisterciensi al fine di procedere a una realizzabilità della sintesi di intelligere e credere. In particolare la riflessione di Alano di Lilla e Garnerio di Rochefort, autori entrambi legati all’ordine cisterciense, permette di verificare in che modo il comune tentativo di attuare una positiva convergenza tra le esigenze spirituali del monachesimo e il progresso scientifico delle scholae conduca all’elaborazione di due modelli teologici differenti. La valorizzazione dell’istanza razionale, compiuta da Alano nel rispetto della fede, è la condizione che presiede alla genesi di un discorso teologico regolamentato da una serie di leggi, che operano sul piano epistemologico-semantico, e finalizzato a un 558
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esito conoscitivo di ordine mistico. Diversamente la ricerca garneriana di una feconda collaborazione tra la fede e le risorse filosofico-scientifiche deve risultare funzionale a un consolidamento dell’ideale teologico monastico ancorato alla definizione di una sapientia culminante nella visione estatica del divino. During the twelfth century the rational structure and the general emotional effect of Anselmian theological research were received and variously used by the Cistercians in order to reach the realization of a synthesis between intelligere and credere. In particular, a consideration of Alan of Lille and Garnerius of Rochefort , authors connected to the Cistercian order, allows one to ascertain the manner in which a common attempt to achieve a positive convergence between the spiritual demands of monasticism and the scientific progress of the schools leads to the development of two different theological models. The appreciation of the moment of reason, accomplished by Alan in respect to the faith, is the condition which influences the genesis of a theological discourse that is regulated by a series of laws, which work on the epistemologicalsemantic level, and finalized in a cognitive result of the mystical order. In a different way, Garnerius’s search for a fruitful union between faith and philosophical-scientific resources must become functional in the consolidation of the theological-monasticanchoritic ideal and the definition of a sapientia in the ecstatic vision of the divine. Alessandro Pertosa L’influenza di Anselmo d’Aosta nella letteratura controversistica dei Correctoria (p. 449-462) I quattro Correctoria corruptorii fratris Thomae, che si inseriscono nell’acceso dibattito sull’ortodossia del pensiero di Tommaso d’Aquino nell’ultimo ventennio del secolo xiii, sono stati composti dai domenicani Riccardo Knapwell, Roberto di Orford, Giovanni Q uidort e Guglielmo di Macclesfield, e sorgono come risposta al Correctorium di Guglielmo de la Mare, che invece attaccava molti punti del pensiero tommasiano. In tutti questi testimoni viene esaminato anche il problema del rapporto fra il pensiero del 559
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Doctor Angelicus e quello di Anselmo d’Aosta, autorità ben nota a tutti gli attori della polemica. In generale, i domenicani si propongono di dimostrare, talora forzando leggermente l’originale pensiero di Anselmo, che quest’ultimo e Tommaso procedono in sostanziale accordo, il che diventa garanzia di ortodossia per il pensiero dell’Aquinate. Particolarmente problematico è però, per i domenicani, conciliare le posizioni dei due maestri sulla libertà e la volontà; tuttavia, né al de la Mare, né agli autori dei Correctoria risulta funzionale citare il De libertate arbitrii anselmiano, per la peculiare dottrina in esso contenuta. The four Correctoria corruptorii fratris Thomae, which belong to the debates over the orthodoxy of the thought of Thomas Aquinas in the last twenty years of the thirteenth century, were composed by the Dominicans Richard Knapwell, Robert of Orford, John of Paris and William of Macclesfield, and arises as a response to the correctorium of William de la Mare, who however was attacking many points in Thomistic thought. In addition to these authors, the problem of the relationship between the thought of the Doctor Angelicus and that of Anselm of Aosta, an authority well known by all the participants in the polemic, is examined. In general, the Dominicans seek to demonstrate, at times by forcing the original thought of Anselm, that Anselm and Thomas are in substantial agreement, which becomes the guarantee of orthodoxy for the thought of Aquinas. In particular, however, the Dominicans struggle to reconcile the positions of the two masters on liberty and the will; yet neither de la Mare nor the other authors of the Correctoria find it useful to cite the De libertate arbitrii of Anselm because of the peculiar doctrine it contained. Luca Parisoli La non-universalità del principio di contraddizione: un’ipotesi su un approccio filosofico da Anselmo d’Aosta a Duns Scoto (p. 463-496) È possibile proporre una lettura storiografica della riflessione di Anselmo d’Aosta considerandola un pensiero ‘paraconsistente’, cioè una speculazione che limita il principio di non560
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contraddizione; questo non comporta in ogni caso l’abbandono di una prospettiva fortemente ontologica. In questa lettura si individua una continuità tra il sistema filosofico anselmiano e quello di Duns Scoto, tanto da poter parlare, dal punto di vista dell’ontologia formale, di una linea anselmiano-scotiana che confluisce nella costruzione del volontarismo come strategia filosofica. Anselmo stesso, dunque, può essere considerato come il filosofo che ha stabilito le premesse di una razionalità che rende il principio di contraddizione una legge a validità locale. Sono in particolare alcuni passi del Monologion (capp. 20-22) a rendere sostenibile questa lettura. It is possible to propose a historiographical reading of the thought of Anselm of Aosta by considering a ‘para-consistent’ thought, that is, a form of speculation that limits the principle of noncontradiction; this does not in any case involve the abandonment of a strongly ontological perspective. In this reading, one finds a continuity between the Anselmian philosophical system and that of Duns Scottus, to the extent that one can speak, from the point of view of formal ontology, of a Anselmian-Scottian line that flows into the construction of voluntarism as a philosophical strategy. Anselm himself, however, may be considered to be the philosopher who established the premises of a rationality that renders the principle of non-contradiction a law with local validity. In particular, there are some passages of the Monologion (Chap. 20-22) that make this reading possible. Davide Monaco Maius quam cogitari possit. Anselmo e Cusano (p. 497-504) Nonostante non siano poche le opere di Anselmo conservate nella biblioteca di Bernkastel-Kues appartenuta al cardinale Nicolò Cusano, l’approfondimento da parte della letteratura critica del significato delle letture anselmiane nello sviluppo storico e speculativo del pensiero cusaniano non è ancora concluso. Il presente contributo intende soffermarsi su un tema specifico della relazione tra il pensiero di Anselmo e quello di Cusano: il rapporto tra la nota formulazione della cosiddetta ‘prova ontologica’ ansel561
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miana e alcuni dei Leitmotiv della filosofia e della teologia del cardinale tedesco. Si cerca di far emergere la strategia ermeneutica cusaniana tesa non tanto a riprendere il valore dimostrativo dell’argomentare anselmiano quanto il suo contenuto teologiconegativo e speculativo. Although many of Anselm’s works are preserved in the library of Bernkastel-Kues, which belonged to Cardinal Nicholas of Cusa, a more in-depth study by the critical literature of Anselmian readings in the historical and speculative development of Cusanian thought has not yet concluded. This present contribution focuses upon the well-known formulation of Anselm’s so-called ‘ontological argument’ and some Leitmotiv in the philosophy and theology of the German cardinal. It seeks to highlight Nicholas’s hermeneutical strategy that is used to recover not only the demonstrative value of Anselm’s argumentation, but also its theologicalnegative and speculative content. Angelo Maria Vitale Il ruolo del monachesimo benedettino nel platonismo cristiano del Rinascimento (p. 505-523) Muovendo dall’esame di alcune delle direttrici di ricerca più recenti intorno alla cultura filosofica umanistico-rinascimentale, lo studio esamina due temi caratterizzanti dell’intera civiltà del Rinascimento italiano che testimoniano non soltanto l’integrazione di alcuni ambienti monastici nel processo di rinnovamento umanistico, ma anche la forte esigenza avvertita all’interno di essi di edificare un umanesimo specificamente cristiano: il tema della costruzione di un ‘Platone cristiano’ e il tema della dignitas hominis. Nel caso dell’interpretazione della tradizione platonica in chiave di prefigurazione del cristianesimo un ruolo decisivo assume la versione delle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio, portata a termine nel 1433 dal monaco camaldolese Ambrogio Traversari. Significativo, a proposito dell’elaborazione in un’ottica cristiana del tema tipicamente rinascimentale della dignità dell’uomo, appare invece il contributo del monaco olivetano Antonio da Barga. 562
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Beginning with an examination of some of the most recent directions of research within the humanistic-renaissance philosophical culture, this study examines two terms that shaped the entire civilization of the Italian Renaissance. These terms reveal not only the integration of some monastic circles in the process of humanistic renewal, but also the strong demand observed within them to construct a specifically Christian humanism: the theme of constructing a ‘Christian Plato’ and the theme of dignitas hominis. In the case of interpreting the platonic tradition in a key of prefiguring Christianity, a decisive role is a assumed by the Vitae philosophorum of Diogenes Laertius, completed in 1433 by the Camal dolese monk, Ambrogio Traversari. Very important, regarding the development of a Christian view of the typical renaissance theme of the dignity of man, is the contribution of the monk of the Abbey of Monte Oliveto, Antonio da Barga. Luigi Della Monica L’argomento ontologico nell’apologetica cristiana di Ralph Cudworth (p. 525-540) Il platonico di Cambridge Ralph Cudworth è stato fra i più significativi interpreti secenteschi dell’argomento ‘ontologico’ anselmiano. Discutendone nel True Intellectual System of the Universe, pur senza un preciso riferimento ad Anselmo, Cudworth si preoccupa di confutare le principali obiezioni che potrebbero giungere soprattutto da parte di un ateo materialista, difendendo l’argomento anche attraverso le prove a posteriori di Tommaso, che gli sembrano evidentemente più funzionali al suo mirato intento apologetico. Considerazioni antropologiche spingono inoltre il filosofo secentesco a ritenere in ogni caso l’idea di Dio connaturata a quella dell’anima, per quanto all’uomo non sarà mai concesso di comprendere totalmente il Creatore, ma soltanto di poterlo concepire; nella sua ricostruzione sono inoltre esaltate la vicinanza fra Dio e la creazione e la possibilità di risalire dal sensibile all’intellegibile. The Cambridge platonist Ralph Cudworth was among the most significant seventeenth century interpreters of Anselm’s ‘onto563
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logical argument’. By discussing it in his True Intellectual System of the Universe, although without a precise reference to Anselm, Cudworth seeks to refute the principal objections that could come above all from an atheist materialist and he defends the argument even through the proofs a posteriori of Thomas, which seem to him evidently more functional in his apologetic intention. Furthermore, apologetic considerations push the seventeenth century philosopher to retain an idea of God that is congenial to that of the soul, though it will never be possible for mankind to have an exaustive understanding of the Creator. In his reconstruction he also extols the nearness between God and creation, and the possibility of rising form the sensible to the intelligible.
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INDICE DEI NOMI
I riferimenti numerici sono alle pagine del testo. Una lettera ‘n’ dopo il numero di pagina indica le ricorrenze nelle note; i numeri congiunti da un trattino indicano una ricorrenza plurima, nel testo e nelle note. I numeri in corsivo rinviano a una trattazione specifica del lemma. Tra parentesi vengono collocate eventuali varianti formali dei nomi propri e per gli autori di opere di età antica, medievale o rinascimentale, i corrispondenti nomi in lingua latina.
Abbone di Fleury (Abbo Floriacensis) 406, 406n, 412n; Syllogismorum categoricorum et hypotheticorum enodatio 406, 406n, 412n Abelardo, Pietro (Abaelardus, Petrus) 78, 145, 359, 364-370, 373-379, 381, 383-384, 386387, 392, 408, 408n, 410n, 415-417, 470n; Apologia contra Bernardum 370n; Collationes (vel Dialogus inter Philosophum, Iudaeum et Christianum) 374n; Commentaria in Epistulam Pauli ad Romanos 367n, 369; De intellectibus 368; Dialectica 408n; Expositio in Hexameron 377n; Historia calamitatum 416n; Lo gica «Ingredientibus» 367n; Logica «Nostrorum petitioni so ciorum» 408n; Scito te ipsum 374n; Sic et non 387; Theologia christiana 365n, 369n, 376-378, 387; Theologia «Scholarium» 365-366, 370n, 374n, 378, 378n, 387; Theologia «Summi boni» 365n, 374n, 376-377, 387, 387n Adam, Ch. 527n Adamo (bib.) 166-167, 220n, 278, 284, 284n, 286, 288, 295-296, 299-300, 475 Admonitio generalis, vide: Capitolari Adriaen, M. 67n, 127n, 395n Adriano I, papa 346
Aertsen, A. 499n Agatone, papa 44n; Epistola ad Augustos imperatores 44n Agostino d’Ippona (Aurelius Augustinus, Augustinus Hipponensis), 22, 22n, 24, 24n, 32-33, 48n, 5254, 83, 104, 109-112, 141n, 143, 151-159, 163, 163n, 216-217, 220n, 237, 238n, 240, 244n, 254n, 259, 277, 295, 305, 305n, 372, 372n, 376, 378, 381, 382n, 384-385, 388, 388n, 396-398, 402, 416-417, 450-452, 454, 458n, 497n, 521-523; Confessiones 22, 22n, 388n; Contra Academicos 24n; Contra Faustum 388n; De civitate Dei 141n; De correctione Donatistarum 152n, 154n, 155n; De doctrina Christiana 217n, 396-397; De diversis quaestionibus ad Simplicianum 54n; De diversis quaestionibus LXXXIII 32, 33n; De libero arbitrio 238n, 240, 242, 244n; De moribus Ecclesiae et de moribus Manicheorum 25n; De musica 22, 22n; De sermone Domini in monte 54n; De Trinitate 41, 53n, 83, 111, 112n, 240, 240n, 305, 305n, 378, 381, 382n; Enarrationes in Psalmos 22n; Enchiridion de fide, spe et charitate 384n; Epistolae 152n, 154n, 155n; In
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Iohannis Evangelium tractatus 372n; Locutiones in Heptateucum 48n; Q uaestiones in Heptateuchum 385, 385n ; Retractationes 32n, 154n; Sermo habitus in Basilica restituta de invitatis ad coenam 154n; Tractatus adversus Iudaeos 157 Aimone, parente e corrispondente di Anselmo 198n Alano di Lilla (Alanus ab Insulis, sive de Insulis) 78, 141, 242n, 424, 425-433, 435, 435n, 438-439; Distinctiones dictionum theologicarum (Liber in Distinctionibus theologicalium vel Summa «Q uot modis») 426n; Elucidatio in Cantica Canticorum 430, 430n; Expositio prosae de angelis 433n; Hierarchia (Hierarchia Alani) 433n, 438, 438n; Regulae caelestis iuris (Regulae theologiae) 242n, 426, 428-430; Summa «Q uoniam homines» 425-428, 433n, 438, 439n Albanesi, N. 77n, 79, 79n, 294n Alberico di Parigi (sive del Monte; Albericus Parisiensis) 412n Alberto, medico, corrispondente di Anselmo 197n, 322, 322n Alcaro, M. 490n Alcuino di York (Alcuinus Eboracensis) 35n, 44n, 129-130, 397, 397n; Disputatio de vera philosophia 130; Epistolae 35n, 130n; Professio fidei 44n Alessandro di Afrodisia, pseudo (Ale xander Aphrodisiensis, pseudo) 439n Alessandro di Canterbury (Alexander Cantuariensis) 186n; Liber ex dictis beati Anselmi 186, 186n Alessandro di Hales (Alexander Halensis) 485 Alfonso V, re d’Aragona 519 Alighieri, Dante vide: Dante Alighieri Allen, M. J. B. 509n, 516n
Alvarez Gómez, M. 503n Ambrogio di Milano (Ambrosius Mediolanensis) 254n Ambrosiaster (sive Ambrogio, pseudo) 38n; In Epistolam ad Romanos 38n Andenna, G. 328n Anonimo di Echternach (Anonymus Epternacensis) 400-418; Glossae in Logicam veterem 400420 Anonimo di Erfurt (Anonymus Erfurtensis) 67, 68n; Commentarius in Boethii Consolationem philosophiae 67, 68n Anonimo di Saint-Trond (Anonymus Trudonensis) 404-417; Glossae in Logicam veterem 401421 Anscombe, G. E. M. 464n Anselmo d’Aosta (del Bec, di Canterbury; Anselmus Cantuariensis) passim; Cur Deus homo 96-100, 102, 104, 109n, 113, 116-120, 141n, 151, 151n, 157, 163-173, 180, 181n, 183, 197, 197n, 199n, 201, 201n, 203, 203n, 293-300, 303, 305, 320n, 359, 361, 361n, 364, 364n, 366, 367n, 378, 384, 389, 389n, 484-485; De casu diaboli 47n, 65n, 201, 203, 205n, 306, 452, 458-459, 480-482, 498; De conceptu virginali et de peccato originali 47n, 452, 455, 455n, 475, 475n, 498; De concordia prescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio 452, 460n; De grammatico 46n, 218n, 226-227, 390, 390n, 452, 477, 478n, 495; De libertate arbitrii (De libero arbitrio) 47n, 96, 97n, 201, 203, 208n, 238, 269n, 452, 460-462, 482, 483n, 498; De octo beatitudinibus 187n; De potestate (De potestate et impotentia, possibilitate et impossibilitate, necessitate et libertate) 218n, 225, 225n, 229n,
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384, 389-390; De processione Spiritus sancti 69n, 71-74, 452, 498; De veritate 46-48, 52, 60, 60n, 96, 96n, 135, 135n, 151, 151n, 166, 172, 172n, 197, 197n, 199, 199n, 201-203, 225-226, 270n, 278, 278n, 452, 492n, 498; Epistolae 138-141, 143-144, 146n, 148150, 166-171, 180-182, 190n, 197n, 198n, 205-207, 301-323; Epistola de incarnatione Verbi 75n, 99, 100n, 156-157, 382n, 474, 474n; Epistola de incarnatione Verbi, prior recensio 65n, 156, 232, 232n; Homelia ‘Intravit Iesus in quoddam castellum’ 498; Meditationes 76, 184, 184n, 186n, 266, 266n, 498; Monologion 19-42, 43, 45, 48-52, 55-56, 58, 59n, 61, 63-65, 71-72, 8091, 96, 99-100, 102, 104, 108113, 131-132, 134, 174, 186, 186n, 199n, 203, 212n, 214, 214n, 218n, 228-229, 237-238, 242-243, 247, 257, 293, 303, 305, 308, 371, 376, 382, 388, 388n, 452, 483, 485-496, 502503n; Orationes 70-71, 76, 138, 175-177, 186n, 194-196, 266; Proslogion 20, 55-69, 80, 91-96, 99-100, 102-104, 108-110, 113116, 132-134, 174, 186-187, 208n, 214-215, 230, 230n, 237, 242-243, 247, 247n, 257, 258n, 275, 275n, 287, 289, 289n, 293, 308, 372n, 423n, 452, 495n, 498, 498n, 500-502; Responsio (Q uid ad haec respondeat editor ipsius libelli) 69, 69n, 78n, 92-94, 214, 214n, 229n, 234n, 245-248, 474n, 475n; altre opere: Liber de humanis moribus per similitudines (De humanis moribus, De similitudinibus) (attr.) 151n, 176-179, 181-185, 187, 187n, 452, 458-459; Memorials 151, 163, 186n; Miscellanea Anselmiana 186, 186n
Anselmo di Laon (Anselmus Laudunensis) 373, 373n, 375; Sententiae 373 Antonio da Barga (Antonius Bargensis) 520-521, 523; De magistris et praelatis 520-521 Apuleio di Madaura (Apuleius Ma daurensis) 405, 405n; Peri hermeneias (De interpretatione) 405n Ardone Smaragdo (Ardo Smaragdus vel Ardo Anianensis) 329, 329n, 332, 347; Vita Benedicti Abbatis Anianensis et Indensis 329n, 332n, 333n, 347n; Vita S. Benedicti Anianensis 329n, 332n, 347n Aristotele (Aristoteles), Aristote lismo 59n, 62n, 63n, 79, 79n, 213n, 216, 219-225, 226-228, 245n, 246n, 297, 297n, 371, 395397, 399, 401-402, 404, 405n, 410-413, 438, 450-452, 457, 466, 470, 472, 474n, 475, 479n, 480n, 484-486, 498n, 535n, 538539; Analytica posteriora 484; Analytica priora 405n, 484n; Categoriae 34n, 213n, 226-227, 371, 395-397, 399, 401-402, 407-414; De anima 224n; De caelo 395, 397n; De generatione animalium 297n; De generatione et corruptione 297; De interpretatione (Peri hermeneias) 213n, 223-224, 228, 229n; Metaphysica 79, 79n, 245-246, 297n, 371, 474n, 485n, 486; Organon 396, 405, 411n, 486 Arnone (Arno) di Salisburgo 35n Aronadio, F. 223n Arnzen, R. 397n Asiedu, F. B. A. 167n Averroè (Averroës Cordubensis, Ibn Rushd) 397n, 473n, 480n; Commentum magnum super libro De caelo 397n; Tahāfut at-Tahāfut 473n Avesani, R. 512n
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Avicenna (Ibn Sina) 471-473, 478480; Metaphysica 480n Ayres, L. 382n Babolin, A. 530n Bacone, Ruggero (Rogerius Bacon) 217 Baeumker, C. 415n Bagni, G. T. 478n Baldassarri, S. U. 519n Balderico (Baldrico), priore del Bec 144n, 182n, 190n, 313, 313n Baldi, M. 526n Baldovino I, re di Gerusalemme 168, 168n Balthasar, H.-U. von 85, 85n, 258, 258n, 269n Banner, H. 514n Barbaglio, G. 267n Barbo, Ludovico (Ludovicus Barbus) 507, 507n Bargellini, T. 510n Barnes, M. R. 382n Baron, R. 374n, 375n Barth, K. 216n Basilio di Cesarea (Basilius Caesariensis) 514 Bastit, M. 476, 476n Bataillon, L. J. 449n Bauer, J. B. 25n Baur, L. 501n Bealer, G. 475n Beaugendre, A. 371n Beierwaltes, W. 435n, 499n, 517n, 522n Bellezza, V. C. 76n Benakis, L. B. 374n Benedetto di Aniane (Benedictus Anianensis) 130, 130n, 327-358; Concordia regularum 130, 130n Benedetto di Norcia (Benedictus Nursinus sive Casinensis) 125, 125n, 127, 130, 175-176, 178, 178n, 180, 182, 201, 201n, 203, 203n, 205, 205n, 260n, 262n, 327-328, 330, 332, 342, 344-346, 355; Regula 125, 125n, 130, 178, 178n, 180, 182, 201, 201n, 203205, 208, 259-260, 262, 262n,
264n, 327-328, 330, 332-335, 339-347, 352, 355n, 356-357 Benedetto XII, papa (Jacques Fournier) 506; Fulgens sicut stella 506; Summi Magistri 506 Beniamino, monaco di Canterbury, corrispondente di Anselmo 318, 318n Benson, R. L. 393n Berengario di Tours (Berengarius Tu ronensis) 147, 212n, 374, 383, 385-386, 398n; Rescriptum contra Lanfrancum (vel Lanfrannum) 385-386 Bergeron, L. 328n Bernardo di Clairvaux (Bernardus Claraevallensis) 302, 372, 372n Berndt, R. 360n, 363n, 364n Berti, E. 466-467, 469n Besse, J. 328n Betsabea (bib.) 192 Bettetini, M. 146n, 435n Biard, J. 62n, 410n Biffi, I. 39n, 107-121, 158n, 162n, 174n, 191n, 193n, 196n, 207n, 255n, 263n, 266n, 277n, 302n, 303n, 398n, 416n Bischoff, B. 332n Bisogno, A. 123-135, 331n Blackburn, P. 492n Blackwell, C. W. T. 512n Blackwell, D. F. 374n Bliemetzrieder, F. P. 373n Blumenkranz, B. 157n Boccaccio, Giovanni (Iohannes Boccaccius) 138 Bochenski, J. M. 486, 486n Bodewig, M. 500n Boezio, Anicio Manlio Severino (Anicius Manlius Severinus Boethius) 27-28, 34n, 50, 51n, 55n, 58-59, 61-62, 66-70, 104, 214n, 224-227, 237-245, 376, 398, 401n, 404-405, 409-410, 412-416, 426, 429, 429n, 436, 473n, 537, 538n; Consolatio Philosophiae 51n, 238-239, 243n, 537, 538n; De hypotheticis syllogismis 404; De syllogismis catego-
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ricis 405n; De topicis differentiis 67n, 410n, 412n; De Trinitate 27n, 239n, 240n; In Aristotelis Categorias 34n; In Isagogen Porphyrii editio prima 55n, 241, 241n, 414n; In Isagogen Porphyrii editio secunda 414n; In Peri hermeneias Aristotelis, editio prima 224n; In Topica Ciceronis commentaria 51n, 59n, 61-62, 66n, 67n, 69n, 70n, 244n; Opuscula theologica (gener.) 27, 42, 214n; Q uomodo substantiae (sive De hebdomadibus) 27, 28n, 241, 241n, 243, 429, 429n Bonanni, S. P. 374n Bonaventura da Bagnoregio (Bonaventura de Balneoregio) 68, 68n, 282, 282n; Commentaria in quatuor libros Sententiarum 282n; Q uaestiones disputatae de mysterio Trinitatis 68n Bonetti, C. 328n Bonifacio (Vynfrith), santo 328 Bonnerue, P. 130n Boretius, A. 328n, 339, 356n Bormann, K. 503n Bornstein, D. E. 516n Borriello, M. 423-447 Bosone, allievo di Anselmo d’Aosta (Boso Beccensis) 165, 170, 172, 180, 252, 254, 254n, 260-261, 264, 275, 290, 292, 293n, 313, 313n Boss, G. 499n Bottani, A. 478n Bottiglieri, C. 393n Bottin, F. 223, 224n Bourassé, J. J. 371n Brandt, S. 55n, 241n, 414n Bray, N. 138n Brown, J. E. 374n Brown, P. 152n, 153n Brunet, P. 467n Bruni, Leonardo (Leonardus Brunus) 508-509, 515, 520; Platonis Phaedrus, translatio 509n Bruning, B. 382n Bultot, R. 142n, 144n, 393n
Burgundio, cognato di Anselmo 319n Burke, P. 523n Burnett, Ch. 394n Burnyeat, M. F. 224n Burr, D. 449n Buytaert, E. M. 365n, 367n, 369n, 370n, 373n, 374n, 376-378 Calati, B. 516n Caldera, F. 449n Callisto I, papa 306, 306n Campana, A. 510n Campanini, M. 473n Cantin, A. 387n, 391n Capitolari: – Admonitio generalis 333, 334n, 342-343, 350n, 353-354, 356n – Capitula ad lectionem canonum et regulae Sancti Benedicti pertinentia 335, 338n, 345, 345n – Capitula de causis cum episcopis et abbatibus tractandis 328n, 345, 345n, 352, 352n – Capitula tractanda cum comitibus, episcopis, et abbatibus 345, 345n – Capitulare Aquisgranense 350, 350n – Capitulare Haristallense 341n – Capitulare missorum 344n, 346, 346n – Capitulare missorum de exercitu promovendo 356n – Capitulare missorum generale 335, 337n, 349, 349n, 353, 353n, 356n – Capitulare missorum item specialem 335, 338n – Capitularia missorum specialia 335, 337n – Divisio regnorum 338, 338n – Duplex legationis edictum 334, 335n, 343, 343n, 356, 356n – Karlmanni principis capitulare 344, 344n, 346n, 353, 353n – Karlmanni principis capitulare Liptinense 342n, 344, 344n, 346n, 355, 355n
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INDICE DEI NOMI
– Missi cuiusdam admonitio 343n – Pippini Capitulare Aquitanicum 349n – Pippini Capitulare papiense 356, 356n – Statuta Rhispacensia, Frisingensia, Salisburgensia 344, 345n, 350n, 354, 355n Capelli, P. 157n Caramello, P. 298n Carbajo Nuñez, M. 281n, 464n Cardini, F. 331n Carlo Magno (Karolus I Magnus), re e imperatore 129-130, 327-328, 330-332, 338-339, 341, 346, 349, 351-352, 355-357 Carlomanno, re dei Franchi 338, 346, 355 Carmody, F. J. 397n Casarella, P. 497n Cassiodoro, Flavio Magno Aurelio Senatore (Cassiodorus Senator) 67n, 125-127; Expositio Psalmorum 67n, 395-396, 412n; Institutiones 125-126, 395-396, 412n Cassirer, E. 525n Catalani, L. 146n, 301-323 Categoriae decem 395 Cattin, Y. 255, 255n Cavadini, J. 382n Chakrabarti, A. 474n Champeil-Desplats, V. 467n Charles, D. 223n Châtillon, J. 373n Chenu, M.-D. 142n, 442, 442n Chiabò, M. 523n Chiurco, C. 237-248 Cicerone, Marco Tullio (Marcus Tullius Cicero) 58-59, 61-63, 66, 66n, 68, 237, 237n, 244n, 412n, 415, 415n, 522n; De natura deorum 522n; Topica 58, 58n, 6163, 66n, 237n, 244, 412n, 415n Cilento, V. 424n Ciliberto, M. 518-519 Cipollone, G. 165n Circolo di Vienna 469n Ciria, A. 499n
Cirino, R. 490n Clanchy, M. T. 374n Coda, P. 103n, 250n Colie, R. L. 525n Colish, M. L. 211n Collett, B. 507n, 516n Collingwood, R. 482n Coluccio Salutati, vide: Salutati, Coluccio Concili e sinodi: – Cartagine (Concilium carthaginense) (397) 354n – Verneuil (Concilium Vernense) (755) 342n, 348, 348n, 351, 351n, 353-355 – Francoforte (Synodus Franconofurtensis) (794) 344, 344n, 348, 348n, 354, 354n, 356, 356n Congar, Y. 137n Constable, G. 393n Coppola, M. 165n Cortesi, M. 510n, 512n Corti, M. 220n Cosimo de’ Medici (il Vecchio) 510513 Courtenay, W. J. 211n Cragg, G. R. 525n Cristiani, M. 516n Crocco, A. 374n Cudworth, Ralph 525-540; A Treatise Concerning Eternal and Immutable Morality 535-536; A Treatise of Freewill 535n; The True Intellectual System of the Universe 526-539; The Union of Christ and the Church 535n Curtius, E. R. 415n Cusano, vide: Nicolò Cusano Cusimano, F. 327-358 da Costa, N. A. 468n Dalimer, C. 395n Dal Pra, M. 211n, 215n, 226n, 230n, 374n, 375n d’Alverny, M.-Th. 425n, 433n, 438n Dangelmayr, S. 497n Danneberg, L. 413n
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Dante Alighieri (Dantes Alagherii) 76, 138, 220n; De vulgari eloquentia 220n; Convivio 220n Daur, K.-D. 238n, 244n Davide, re d’Israele (bib.) 192 Davies, M. 509n Davis, S. T. 382n Davy, M. M. 372n de Béchillon, D. 467n De Boer, J. J. 532n De Bruyne, D. 48n De Feo, P. 359-370 de Gandillac, M. 503n de Ghellinck, J. 424n Deitz, L. 400n Dekkers, E. 22n de Lagarde, G. 137n, 482n Della Monica, L. 525-540 Dell’Aquila, P. 298n Della Serra, M. 470n Dell’Omo, M. 329n de Lubac, H. 116n, 258, 258n De Pauley, W. C. 525n de Rijk, L. M. 405n, 411n Descartes, René (Cartesius) 215n, 482n, 498n, 526-527, 537n, 540; Meditationes de Prima Philosophia 527n Deschner, K. 153n Dianich, S. 267n Dickens, C. 494n Didier, J.-C. 431n Di Filippo Bareggi, C. 511n Diogene Laerzio (Diogenes Laertius) 511-514, 520; Vita Platonis 513, 514; Vitae philosophorum 511-514, 520 Dionigi Aeropagita, pseudo (Dionysius Areopagita, pseudo) 43-45, 104, 425, 432, 435n, 442-443, 467n, 514, 516; Corpus Areopagiticum (Corpus Dionysianum sive Dionysiacum) 517; De divinis nominibus 43, 43n, 516-517; De mystica theologia 516 Di Pasquale Barbanti, M. 377n Dodaro, R. 382n Dombart, B. 141n, 163n
Donato, eretico, Donatismo 152-154 Donato, Elio (Donatus Grammaticus) 127n, 128, 226 d’Onofrio, G. 17-76, 193n, 194n, 212n, 214n, 217n, 218n, 219n, 225n, 232n, 239n, 241n, 243n, 244n, 293-294, 320n, 398n, 399n, 405n, 415n, 423n, 426, 426n, 436n, 465n, 501n, 540n Dreyer, M. 490n Dronke, P. 403n Dümmler, E. 35n, 130n, 221n Duns Scoto, Giovanni (Iohannes Duns Scotus) 266, 267n, 280288, 290, 467-468, 470, 474n, 476, 480-482, 484-485, 488, 490n; De primo Principio 281n, 282n, 285n, 288n, 530, 530n; Lectura in libros Sententiarum 284n, 286n, 289n, 490n, 496, 530; Ordinatio 281-285, 288n, 290n, 474n; Reportata Parisiensia 280n, 282-284, 288n, 463468, 470, 472, 474n, 476-482n, 484-485, 488, 490, 490n, 494496, 530, 530n Eadmero di Canterbury (Eadmerus Cantuariensis) 39n, 107n, 109, 109n, 114, 114n, 123, 123n, 131, 144, 158, 158n, 163, 165, 166n, 173-174, 176, 185n, 186n, 188190, 265, 265n; Historia novorum in Anglia 188-190; Scriptum de beatitudine perennis vitae 186, 186n; Vita Anselmi 107n, 109n, 114n, 123n, 144, 158, 158n, 163, 165, 166n, 173, 174n, 184, 185n, 265n, 304, 304n, 308n Ebbesen, S. 394n, 395n, 405n, 409n, 413n Eckhart di Hochheim (Meister Eckhart) (Eckhardus de Hoheim sive Magister Eckhardus) 138 Eco, U. 217n, 218n Egidio da Viterbo (Aegidius Viterbiensis) 522, 523n; Commentarium ad mentem Platonis
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(Commentaria sententiarum ad mentem et animum Platonis, Sententiae ad mentem Platonis) 523n Elfego di Canterbury, arcivescovo 165-166 Elfero, priore di San Edmondo 309n Elgoto (Helgoth), priore di Caen 310, 310n Elinando, monaco, corrispondente di Anselmo 197n, 321n Eloisa (Heloisa de Paraclito) 145 Enrico I, re d’Inghilterra, 171n, 307, 307n, 309, 309n, 315 Enrico del Bec, monaco, corrispondente di Anselmo 148, 148n, 308, 308n, 321-323 Enrico, priore della Christ Church di Canterbury 301n, 322, 322n Epicuro di Samo (Epicurus) 513 Eriugena, vide: Giovanni Scoto Eriugena Ermenberga, madre di Anselmo 173 Ermengarda, nobile, corrispondente di Anselmo 311, 311n Ernst, S. 416n Ernulfo, abate di Troan 310-311 Ernulfo, priore di Canterbury 309n, 312n, 319, 319n Étaix, R. 141n Euclide (Euclides) 468 Eva (bib.) 166-167, 296, 299, 299n Evans, E. 384n Evans, G. R. 138, 139n, 157n Excerpta isagogarum et categoriarum 415, 415n Ezechiele, profeta (bib.) 440n Facio, Bartolomeo (Bartholomeus Facius) 519-520; De excellentia ac praestantia hominis 519n Falmagne, Th. 400n Fano, V. 478n al-Farabi (Alfarabi, Alfarabius, alFārābī) 479n Farmanno, monaco di Canterbury, corrispondente di Anselmo 318n Fedriga, R. 496n
Ferguson, E. 382n Fernicola, G. 165n Ferrari, M. 512n Ferrari, M. C. 400n, 401n Ferretti, G. 267n Ficino, Marsilio (Marsilius Ficinus) 507n, 509, 512-514, 516-518, 521-523; In Dionysium Areopagitam de Divinis nominibus 516-517; In Dionysium Areopagitam de Mystica theologia 516, 516n; Theologia platonica 521 Finianos, G. 472-473 Fioravanti, G. 393n Fiorentino, F. 530n Flasch, K. 398n Fleteren, F. van 34n, 163n, 192n, 199n Flores D’Arcais, G. 503n Foffano, T. 512n Folcerado, zio e corrispondente di Anselmo 197n Foreville, R. 161n Fossa, U. 517n Fraipont, J. 22n, 48n, 385n Francesco di Meyronnes (Franciscus de Mayronis sive de Digna; François de Meyronnes) 484 Frasso, G. 512n Frege, Gottlob 232, 232n; Die Grundlagen der Arithmetik 232, 232n Freih von Walterhausen, B. S. 415n Fridugiso di Tours (Fridegisus sive Fredegisus Turonensis) 221, 221n; De substantia nihili et tenebrarum 221, 221n Fried, J. 394n Friedrich, G. 58n, 62n, 66n Fröhlich, W. 161n, 302n Fronterotta, F. 222n Fros, E. 329n Folco, vescovo di Beauvais (Fulco Belvacensis) 311, 311n, 317, 317n Fumagalli Beonio Brocchieri, M. T. 159n, 374n Gabbai, D. M. 397n Galonnier, A. 426n
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Galvan, S. 492n Gardet, L. 472n Garfagnini, G. C. 506n, 514n Garin, E. 517-519, 523n Garnerio di Rochefort (Garnerius de Rupeforti) 424, 430-447; Sermones in festa Domini et sanctorum 431-447 Gasper, G. E. M. 374n Gastaldelli, F. 379n Gaunilone (Gaunilo Maioris Monasterii?) 69, 69n, 92-93, 214, 229n, 231, 233n, 234, 246n, 247n; Q uid ad haec respondeat quidam pro insipiente (Liber pro insipiente) 233n, 474 al-Gazali (Algazali, Abū Ḥāmid alĠazālī) 484 Gentile, Giovanni 76n Gentile, S. 512n, 523n Gerardo di Csanád (Gerardus Csanadiensis) 46 Gerberon, G. 302n Gerlando di Besançon (Gerlandus Agrigentinus episcopus) 405n, 411-412; Dialectica 405n, 411n Ghiberti, G. 266n Ghisalberti, A. 77-106, 269n, 293n, 300n Giacobbe (Israele) (bib.) 53n, 126, 126n Giamblico di Calcide (Iamblichus Chalcidensis) 43 Gibson M. 398n, 399n, 409n Gigante, M. 511, 511n, 513n, 514n Gilbert, P. 20n, 32n, 33n, 47n, 103n, 161n, 232n, 243n, 269n, 293n Gilberto Crispino (Gilbertus Crispinus sive Westmonasterii) 157, 157n; Disputatio Iudei cum christiano de fide christiana 157n Gilberto di Poitiers (Gilbertus Porreta sive Pictaviensis) 423, 428, 428n, 435n, 470; Expositio in Boethii De bonorum ebdomade 428n, 429n Gilson, É. 472n, 476n Giobbe (bib.) 127-129
Giovanni XXI, papa (Pietro Ispano, Peter Hispanus, Pedro Hispano) 89n Giovanni Balbi (Iohannes Balbus) 296, 296n; Catholicon 296, 296n Giovanni Beleth (Iohannes Beleth) 435, 435n; Summa de ecclesiasticis officiis (Rationale divinorum officiorum) 435n Giovanni Crisostomo (Iohannes Chrysostomus) 157 Giovanni Damasceno (Iohannes Damascenus) 479-480; De fide orthodoxa 480n Giovanni di Parigi (Iohannes Q uidort) 451, 459, 459n; Correctorium Corruptorii Circa 450n, 451, 459, 459n Giovanni di Salisbury (Iohannes Saresberiensis) 39n; Vita sancti Anselmi 39n Giovanni di Scitopoli (Iohannes Scythopolitanus) 45, 45n; Scholia in librum De coelesti Hierarchia 45n Giovanni Duns Scoto, vide: Duns Scoto Giovanni Evangelista, apostolo (bib.) 336, 382 Giovanni Scoto Eriugena (Iohannes Scotus Eriugena) 43-44, 67-68; Adnotationes in Marcianum 404n; De praedestinatione 67, 67n, 446n; Expositiones in ierarchiam coelestem 433n; Periphyseon 44, 44n, 398, 404n, 414, 417n, 425, 432-435, 439n, 442n, 446, 446n Girolamo di Stridone (Hieronymus Stridonius) 396, 396n; In Epistolam ad Galatas 396n Givigliano, A. 490n Glorie, F. 382n Glorieux, P. 425n, 427n, 433n, 439n, 449n, 450n Glosulae in Priscianum 408, 409n, 416 Godescalco di Orbais (Godeschalcus
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Saxonicus sive Orbacensis) 397398; De praedestinatione 398, 398n; Responsa de diversis 398, 398n Goebel, B. 77n, 209n Goldbacher, A. 152n, 154n, 155n Gombocz, W. L. 211n Gondulfo, padre di Anselmo 175 Gondulfo, vescovo di Rochester 310, 312, 312n Goodman, N. 469n Goulet-Cazé, M.-O. 393n Grammont, P. 191n Grana, N. 468, 468n Granata, A. 39n, 146n, 255n, 303n Grandjean, M. 139n, 142n, 143n, 150n, 161, 161n Grane, L. 373n Graziano di Chiusi (Gratianus de Clusio) 155-156; Decretum 155n, 156n Green, W. M. 24n, 238n, 244n Green-Pedersen, N. J. 409n, 410n, 412n Grégoire, R. 328-329, 387n Gregorio I Magno, papa (Gregorius Magnus) 127-129, 141n, 306, 306n, 327, 416; Dialogi 327n; Homiliae in Evangelia 141n; Moralia in Iob 127-129 Gregorio VII, papa (Ildebrando di Soana) 169 Gregorio di Nazianzo (Gregorius Nazianzenus) 497n Gregorio di Nissa (Gregorius Nyssenus) 514 Grundmann, H. 137n Gualeranno, monaco di Saint-Martin-des-Champs, corrispondente di Anselmo 322n Gualtiero, cardinale vescovo di Albano, legato pontificio 307-309, 314, 314n Gualtiero, monaco, corrispondente di Anselmo 323, 323n Guarini, G. 519 Guarniero, monaco, corrispondente di Anselmo 315, 315n, 320n
Guglielmo II il Rosso, re d’Inghilterra 187, 189, 309 Guglielmo, abate di Saint-Pierre di Chartres 306n Guglielmo, arcidiacono di Canterbury 315n Guglielmo de la Mare (Guillelmus Lamarensis) 449-462; Correctorium fratris Thomae 449-451, 454, 459, 461 Guglielmo di Champeaux (Guillelmus Campellensis) 375, 405n, 470, 470n Guglielmo di Macklesfield (Guillelmus de Macclesfield) 450n, 451; Correctorium Corruptorii Q uaestione 450n, 451, 459 Guglielmo di Ockham (Guillelmus de Ockham) 217n, 495 Guglielmo di Saint-Thierry (Guillelmus a Sancto Theodorico) 372373, 442n; De natura corporis et animae 373n Guglielmo, monaco di Chester 140n, 182, 182n Guglielmo, nobile, corrispondente di Anselmo 149-150, 166n Guglielmo, vescovo di Wincheter 316n Guiberto di Nogent (Guibertus Novigentensis) 39n; De virginitate 39n Guidi R. L. 508n Guilfoy, K. 374n Gunfrido, monaco di Caen 310, 310n Gunnilda, monaca, figlia di Aroldo II 144 Gunterio, canonico di Saint-Q uentin 309, 309n Gysi, L. 525n Hankins, J. 508, 508n, 511n, 514n Hanslik, R. 260n, 262n Häring, N. M. 242n, 393n, 415n, 428n, 429n Hasse, D. N. 416n Haubst, R. 500n
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Heiberg, J. L. 395n Heinrich, D. 215n, 216n Henry, D. P. 164n, 211, 211n, 226n, 478n Hertz, M. J. 406n Hilbert, D. 469 Hirt, P. 503n Hobbes, Thomas 533, 536, 540 Hoenen, M. J. F. M. 449n Hofer, J. 138n Hoffmann, J. B. 30n, 65n Hofmann, E. 500n Hollick, B. 393-421 Holopainen, T. J. 473n Hopkins, J. 497n Hoste, A. 431n Hume, David 464n, 482n Hutton, S. 526n, 535n Huygens, R. B. C. 385n Hyland, W. 516n Iammarrone, G. 267n Ilarino da Milano 137n Ildeberto di Lavardin (Hildebertus Cenomanensis sive Turonensis) 371n, 372n, 380-385; Tractatus theologicus 372n, 380-385 Imbach, R. 138, 138n Innocenzo I, papa 333, 343 Interrogationes examinationis 345, 345n Introductiones Montanae maiores 405n Iogna-Prat, D. 329n Isidoro di Siviglia (Isidorus Hispalensis) 221, 221n; Etymologiarum sive originum libri XX, 221n, 485n Israel di San Massimino (Israhel de Sanctus Maximinus) 415, 415n Ivo di Chartres (Ivo Carnotensis) 139 Iwakuma, Y. 375n Jacquot, J. 525n James, M. R. 401n Jeauneau, É. 44n, 377n, 393n, 435n
Jolivet, J. 213n, 219n, 221n, 226227, 372-374, 416n Jones, T. E. 526n Kalb, A. 141n, 163n Kant, Immanuel 20, 20n, 231-232; Kritik der reinen Vernunft 20n, 231-232, 467n, 485, 489, 495, 533n Keil, H. 406n Kendall, D. 382n Kienzler, K. 164n King, P. 212n, 216n Klibansky, R. 372n, 500n, 501n, 513n Kluxen, W. 530n Kneepkens, C. H. 409n Koch, J. 503n Kohlenberger, H. 47n, 103n, 161n, 232n, 269n, 293n, 374n König-Pralong, C. 138n Kormos, J. 307n, 501n Kors, J. B. 295n Kripke, S. 463n, 469n Kristeller, P. O. 505, 505n, 507, 507n, 514n, 517-518, 520-522 Kuttner, S. 137n Labano (bib.) 443, 443n Lackner, D. F. 509, 509n, 513-515 Lacoste, J.-Y. 250n Lakatos, I. 486n, 487n Lamberto, abate di Saint-Bertin 143, 143n, 180n Lamberto, zio e corrispondente di Anselmo 197n Lambot, D. C. 398n Lamirande, E. 153n Lanfranco di Pavia (Lanfranco del Bec, Lanfranco di Canterbury) (Lanfrancus Cantuariensis) 147, 165, 169, 171, 188, 192-194, 212n; Commentarius in Epistolas Pauli 193n, 303-305, 308, 308n, 310, 310n, 317, 383, 398-400, 402, 413, 416 Lanfranco, monaco, nipote di Lan franco di Canterbury 316, 316n
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Lanfrido (Lanfredo), monaco del Bec, abate di San Vulmaro 317, 317n Lanzone, monaco cellerario, corri spondente di Anselmo 146n, 305n Lanzone, monaco, priore di Lewes 321n, 322n Lattanzio, Lucio Celio Firmiano (Lucius Caelius Firmianus Lactantius) 519, 521 Lauster, J. 517n Lawless, G. 382n Leclercq, J. 186n, 234n, 250n, 387n, 391n, 424n Lefèvre (Le Fèvre) d’Étaples, Jacques (Jacobus Faber Stapulensis) 516 le Goff, J. 137n, 138n Leibniz, Gottfried Wilhelm von 20n, 215n, 281n, 478, 478n Leinkauf, Th. 516n Leitgeb, M.-Ch. 514n Lemoine, M. 373n Leone I Magno, papa 254n Leonardi, C. 393n, 512n Leonardo Bruni vide: Bruni, Leonardo Leonor Xavier, M. 77n Letort-Trégaro, J.-P. 375n Lia (bib.) 431-432 Liccaro, V. 374n Lindsay, W. M. 485n Little, E. 374n Lizzini, O. 480n Lobrichon, G. 138n Locatelli, G. 388n Longpré, E. 449n Lotti, B. 525n, 537n Lottin, O. 359 Louis, R. 373n Lucentini, P. 435n Ludovico I il Pio, imperatore 327, 330, 338-339, 346, 357 Luiso, A. 77n Lukasiewicz, J. 466 Lullo, Raimondo (Raimundus Lullus) 138 Luscombe, D. E. 373n, 375n, 377n, 415n
Lutz, C. E. 404n Lyons, J. A. 478n Madec, G. 446n Magnard, P. 516n, 522n Maierù, A. 213n, 219n, 221, 221n, 473n Mainoldi, E. S. 67n, 435n, 439n Maisonneuve, H. 153n Makdisi, G. 473n Malaspina, S. M. 39n, 158n, 162n, 263n, 266n Maltese, E. V. 510n Malusa, L. 512n Mancini, I. 79, 79n Mandouze, A. 152n, 153n Manegoldo di Lautenbach (Manegaldus Lautenbacensis) 46 Manetti, G. 223n Manetti, Giannozzo (Iannotius Manetius) 518-522; De dignitate et excellentia hominis 519-520, 522 Manichei 24 Mannocci, I. 329n Manoscritti: – Bernkastel-Kues, Codex Cusanus 61: 498 – Cambridge, Fitzwilliam Museum, McClean 165: 401, 403, 404n, 409n, 411n, 420 – Luxembourg, Bibliothèque nationale de Luxembourg 9: 400, 401n, 404n, 406n, 407n, 409411, 415n, 418 – Paris, Bibliothèque nationale, lat. 15141: 405n – Troyes, Bibliothèque Municipale 970: 431n – Troyes, Bibliothèque Municipale 1301: 431n Mansi, J. D. 354n Marabelli, C. 39n, 158n, 162n, 191n, 253n, 263n, 266n, 302n, 416n Marchetti, G. 436n Marco Aurelio Antonino, imperatore (Marcus Aurelius Antoninus) 539, 539n; De seipso (Com-
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mentarii quos sibi ipsi scripsit) 539, 539n Marenbon, J. 211n, 374n, 394n, 397n, 398n, 401n, 403n, 408n, 414n Maria Vergine (bib.) 430-432, 482n Mariani Zini, F. 62n Mario Vittorino (Caius Marius Victorinus Afer) 58, 58n; De definitionibus 58, 58n Markus, R. A. 153n Marmo, C. 224n Martello, C. 363-366, 371-392, 481n Marta di Betania (bib.) 431, 432n Martin, J. 396n, 397n Martino di Tours (Martinus Turonensis) 328 Martorelli Vico, R. 293-300 Marziano Capella (Martianus Minneus Felix Capella) 397n; De nuptiis Mercurii et Philologiae 397n Marx, J. 498n Massa, E. 523n Mason, J. F. A. 139n, 161n, 162n Matilde di Fiandra, regina d’Inghilterra 170, 171n, 315, 315n, 323n Mathon, G. 329n Matteo, evangelista (bib.) 384n Maurizi, M. 497n Maurizio, monaco del Bec, corrispondente di Anselmo 306-307, 310, 310n Massimo il Confessore (Maximus Confessor) 44-45; Ambigua ad Iohannem 44, 44n, 480n; Opuscula theologica et polemica 480n McCord Adams, M. 211n McLaughlin, M. M. 373n Meersseman, G. G. 137n Mehl, E. 490n Mehus, L. 510n Meinong, A. 469n Metz, D. 449n Mews, C. J. 374n, 376n, 378n, 416n, 417n Micheletti, M. 525n, 530n, 532, 532n Michele Scoto (Michael Scotus) 397n
Migliori, M. 481n Migne, J. P. 379, 432n Mignon, A. 374n Milano, A. 388n Millard, É. 467n Minio-Paluello, L. 401n, 402n, 405n Modisti 227 Moioli, G. 267n Monaco, D. 497-504 Monfasani, J. 523n Monnoyer, J.-M. 476n Moore, G. E. 493 Mordsdorf, K. 138n Moreschini, C. 27n, 28n, 51n, 239241, 243n, 405n, 429n, 538n Mountain, W. J. 53n, 54n, 382n Mosè (bib.) 53n, 432n, 434n Mosè, monaco di Canterbury 301, 301n Mugnai, M. 478n Muirchertach Ua Briain, re d’Irlanda (o del Munster) 309-310, 312n Muirhead, J. H. 533n Müller, J. P. 450n Müller, M. 281n, 282n, 288n Mullinger, J. B. 532n Murray, A. V. 372n, 373n Musgrave, A. 487n Mutzenbecher, A. 32n, 33n, 54n, 154n Mynors, R. A. B. 125n, 396n Nader, A. N. 473n Nadler, S. 526n Nardelli, D. 503n Nardin, R. 249-264, 267n, 277n, 279n, 294n Neoplatonismo 219, 467, 499, 499n, 508-509, 515, 518 Newton, Isaac 281n Niccoli, Nicolò (Nicolaus de Niccolis) 512 Nicolò Cusano (Nicholaus Cusanus sive de Cusa) 497-504, 516; De coniecturis 503n; De docta ignorantia 500, 500n; De filiatione dei 499n, 503, 503n; De quaerendo Deum 501, 501n; De
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venatione sapientiae 501, 501n; Directio speculantis seu de non aliud 501n; Sermo «Nomen eius Jesus» 500, 500n Nikitas, D. Z. 410n, 412n Nodes, D. 523n Nowell-Smith, P. H. 492n Nuchelmans, G. 89n O’Collins, G. 382n O’Malley, J. W. 523n Odone, abate di Saint-Q uentin 309, 309n Odone, monaco cellerario, corrispondente di Anselmo 146n, 305, 305n Oide, S. 503n Olivetti, M. M. 238n Omero (Homerus) 66, 66n Onorio Augustodunense (Onorius Augustodunensis) 141 Oppy, G. 232n, 483n Orazzo, A. 266n, 268n, 271n, 294n, 295n Ordwio, monaco di Canterbury, corrispondente di Anselmo 315, 315n, 318n Origene (Origenes Alexandrinus sive Origenes Adamantius) 514 Orlandini, Paolo (Paulus Orlandinus) 517, 518n Osmundo, vescovo di Canterbury 167n Otlone di Sankt Emmeram (Otlho monachus S. Emmerami) 46 Ottone, vescovo di Lucca (Otto Lucensis) 371, 379-381, 386, 391-392 Padri della Chiesa 38, 74, 83, 212n, 254, 259, 265, 399n, 413, 450, 451, 507, 511, 514-519, 521, 523 Palese, S. 388n Palmeri, P. 191-209 Paolo di Tarso (Paolo apostolo; bib.) 53, 130, 192-193, 397-399, 502 Paparella, F. D. 146n, 435n Pappalardo, L. 165n
Paratore, E. 76n Parisoli, L. 463-496 Parodi, M. 374n, 465n Pascal, B. 468-469 Pasnau, R. 229n Pasquale II, papa (Rainiero di Bleda, Rainiero Rainieri) 171-172, 309, 309n, 312, 312n, 317, 318n, 322n Passmore, J. A. 525n Patrides, C. A. 525n Pattin, A. 397n Patzig, G. 405n Pawson, G. P. H. 525n Pelagio I, papa 44n; Epistolae 44n Peña, L. 466-468, 470-473, 475-480, 485 Penco, G. 201n, 203n, 205n, 424n, 505-507 Pennington, M. B. 372n Pereira, M. 465n Perfetti, S. 20n, 393n, 496n Perissinotto, L. 231n, 232n Perosa, A. 510n Pertosa, A. 449-462 Peterson, D. S. 516n Petrarca, Francesco (Franciscus Petrarcha) 138, 512 Piazzoni, A. M. 378n Picasso, G. 137n, 303n, 329n, 505507 Pickave, M. 499n Pico della Mirandola, Giovanni (Picus e Mirandola, Iohannes) 507n, 518, 521; Oratio de hominis dignitate 521 Pier Damiani (Petrus Damianus) 46, 139, 142, 378, 383-384, 389; De divina omnipotentia 384 Pietro, abate (di Ivry?), corrispondente di Anselmo 307, 307n Pietro Abelardo vide: Abelardo, Pietro Pietro, apostolo (bib.) 70 Pietro Canneti (Petrus Canneti) 510n Pietro, cugino e corrispondente di Anselmo 197n
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Pietro Elia (Petrus Helias sive Helia) 408, 409n; Summa super Priscianum 408, 409n Pietro Lombardo (Petrus Lombardus) 78, 373, 379; Liber sententiarum (Sententiae) 379 Pinborg, J. 213n, 407n Pinzani, R. 367n, 410n Pipino il Breve (Pipino III), re dei Franchi 338, 346, 348, 351, 355356 Pissavino, P. C. 512n Plantinga, A. 463n, 464n, 469n, 483, 483n Platone (Plato), Platonismo 59n, 213, 213n, 216, 219-225, 227, 397n, 470, 479-481, 500, 505523, 525, 533, 535n, 540; Cratylus 222, 223n, 230; Parmenides 467n, 499-500; Phaedrus 509n; Sophista 222n, 467n; Timaeus 384 Plotino di Licopoli (Plotinus) 522, 538 Podolak, P. 45n, 516n Poirel, D. 374n, 376n, 377n, 379n Porfirio di Tiro (Porphyrius Tyrius) 241, 399, 401-402, 417-418; Isagoge 399, 401-402, 404n, 407-409, 414, 415n, 417-418, 420 Porro, P. 478n, 480n Powicke, F. J. 525n Pricoco, S. 327n, 345n Priest, G. 467n Prini, P. 516n Prisciano di Cesarea (Priscianus Caesariensis) 220n, 226, 226n, 400-401, 406-407, 413n; Institutiones grammaticae 226n, 400401, 406, 406n, 408 Proclo di Atene (Proclus Philosophus sive Diadochus sive Atheniensis) 43, 467n Prosdocimi, L. 137n Putnam, H. 470, 482n Q uine, W. V. O. 469n
Rabano Mauro (Hrabanus Maurus) 415n Rabbi ben Nachman 484 Rachele (bib.) 431-432, 443, 443n Raffi, A. 220n Rahner, K. 138n, 266n Rainaldo, abate di Saint-Cyprien di Poitiers 305, 306n Recktenwald, E. 204n Rees, V. 509n Reid, T. 464n Reinhardt, T. 237n, 415n Reynolds, P. L. 377n Riccardo di San Vittore (Richardus de Sancto Victore) 415n, 442n Riccardo Knapwell (Richard Knapwell, Richardus Clapwellus) 449n, 451, 456; Correctorium Corruptorii Q uare 450n, 451, 455-459, 462n Riccardo, monaco del Bec, corrispondente di Anselmo 320n Riché, P. 137n, 391n Richeza, sorella di Anselmo 319n Ricklin, Th. 514n Rignani, O. 436n Rinaldo, parente e corrispondente di Anselmo 198n Roberto, conte di Meulan 315, 316n Roberto di Orford (Robertus de Orford) 451, 456-457; Correctorium Corruptorii Sciendum 450n, 451, 455-457, 459 Roberto di Tombelaine, monaco di Mont-Saint-Michel 206-207 Roberto, monaco, corrispondente di Anselmo 143n, 308-309 Robiglio, A. A. 450n Rogero, abate di Lessay 310n Rogers, G. A. J. 526n Romig, M. 377n Roques, R., 120, 120n, 254-256 Roscellino di Compiègne (Roscellinus de Compendio) 47, 74-75, 219, 232-233, 253-254, 293, 311, 375, 474 Rosier-Catach, I. 407n Rossi, M. M. 262n
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Rossi, O. 280n Rossi, T. 262n Rossini, M. 374n, 387n Routley, R. 466, 467n, 469n Rüegg, W. 515n Ruggiu, L. 484n Ruocco, I. 500n Rule, M. 189n, 190n Ruperto di Deutz (Rupertus Tuitiensis) 141, 417 Russell, B. 232, 232n; On denoting 232, 232n Russomando, N. 506n Ryan, J. J. 137n Sabellio, eretico 156, 156n Salmann, E. 47n, 103n, 161n, 232n, 269n, 293n Salmon, P. 301n Salutati, Coluccio (Colucius Pieri de Salutati) 512, 520 Sansone, vescovo di Worcester 318, 318n Santinello, G. 512n Sapir Abulafia, A. 157n Satana (Lucifero) (bib.) 360, 362 Sbaragli, S. 478n Schepss, G. 241n Schmeisser, M. 519n, 521n, 522n Schmitt, F. S. 21n, 41n, 64n, 194, 254n, 302n, 497n Schmitt, J.-C. 138n Schmitz, Ph. 329n Schnaubelt, J. C. 199n Schröder, J. 400n, 413n Schupp, F. 406n Sciuto, I. 137-159, 162n, 167n, 209n, 211n, 219n, 238n, 242n, 248n, 465n Scribano, E. 532, 532n Seel, G. 499n Segonds, A. Ph. 499n Semmler, J. 328n, 331-333 Sempé, J.-J. 464n Senger, H. G. 501n, 503n Serafini, M. 265-292 Serenthà, M. 266n, 279n, 280n Seripando, Girolamo (Hieronymus Seripandus) 522
Seth (bib.) 296n Sgubbi, G. 103n Sheedy, C. 385n Sheldon-Williams, I. P. 44n Sigieri di Brabante (Sygerius de Brabantia) 481n; De aeternitate mundi 481n Silk, E. T. 68n Simón, A. 250n Simonetti, M. 327n Simplicio di Cilicia (Simplicius) 395, 395n, 397n, 473-475; In Aristotelis De caelo commentaria 395n, 397n Sina, M. 525n Smaragdo di Saint-Mihiel (Smaragdus Sancti Michaelis sive Smaragdus Virdunensis) 329n; Expositio in Regulam sancti Benedicti 329n Socrate di Atene (Socrates), 222, 223n Solère, J.-L. 426n, 490n Somigli, C. 510n, 511n Sorabji, R. 224n, 474n Sorge, V. 436n Sottili, A. 512n, 514n Southern, R. W. 107n, 109-110, 112, 112n, 114n, 123n, 145-148, 157-159, 161, 161n, 166n, 174n, 185n, 187, 188n, 191-193, 196199, 209n, 265n, 302n, 304n, 308n Spinelli, G. 506n Stamatios, G. 492n Stangl, T. 58n Stanzione, M. 478n Steel, C. 499n Stefano, santo 196, 196n Stefano Tempier (Stephanus Tempier) 450 Stick, J. 539n Stinger, L. 510n Stoici, 62n, 63n, 470 Strawson, P. F. 474n Stroumsa, G. G. 157n Studer, B. 382n Stump, E. 410n, 412n Sturlese, L. 138n
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Sullivan, M. W. 405n Summa sententiarum 371-392 Sylvan, R. 482n Siriano (Syrianus) 467n Szantyr, A. 30n, 65n Szatkowski, M. 492n Tachau, K. H. 229n Tafuri, S. 211-235 Taliaferro, C. 526n Tannery, P. 527n Tarozzi, G. 478n Teodorico di Chartres (Theodoricus Carnotensis) 221-222; Lectiones in Boethii librum De trinitate 222n Teply, A. J. 526n Tertulliano, Q uinto Settimo Florente (Q uintus Septimius Florens Tertullianus) 254n Tietboldo, maestro (Thietboldus magister) 402n, 418 Tommaso II di York, arcivescovo (Thoma II) 312 Tommaso d’Aquino (Thomas Aquinas), Tomismo 23, 23n, 42, 42n, 89n, 119-120, 155-156, 217n, 298n, 413, 449-459, 461-462, 464n, 470, 480, 480n, 482n, 495, 532; De ente et essentia 42n; Expositio libri Boetii de hebdomadibus 42n; Q uaestiones disputatae de veritate 23, 23n; Summa theologiae 156n, 298n, 455n, 458n; Super Boetium de Trinitate 119n Thomsen, Ch. 405n Tiercelin, C. 476n Timossi, R. G. 526n Tissier, B. 431n Todisco, O. 281n, 283n Tomatis, F. 246n Toussaint, S. 514n, 516-517, 523n Trapezunzio, Giorgio (Giorgio da Trebisonda; Georgius Trapezuntius) 500 Trauffler, H. 400n Traversari, Ambrogio (Ambrosius Traversarius) 508-517, 518, 520;
Epistolae 510-514; Versio (translatio) Vitae Platonis 514-515, 517; Versio (translatio) Vitae philosophorum 511, 515, 520 Tribout de Morembert, H. 329n Trinkaus, Ch. 520n, 522n Trolese, F. G. 507n Trottman, Ch. 465n, 517n Trout, J. M. 425n Tulloch, J. 525n Tweedale, M. M. 403n Ugo, arcivescovo di Lione (Hugo Lugdunensis) 312, 313n, 317, 317n Ugo di Mortagne (Hugo de Mauritania) 379 Ugo di San Vittore (Hugo de Sancto Victore) 359-364, 366, 370, 372-381, 383-384, 387, 392, 435-436, 438, 438n, 441-442, 444-445; Commentarius in Hierarchiam coelestem 436, 436n, 442, 442n, 444-445; De potestate et voluptate 378; De sacramentis christianae fidei 359-364, 377378, 380, 383, 438, 438n, 441n; De tribus diebus 377n; Explanatio in Canticum beatae Mariae 378, 378n, 383; Q uaestiones 359; Sententiae de divinitate 359, 378, 378n, 383 Unfrido, maestro secolare, corrispondente di Anselmo 316, 317n Urbani Ulivi, L. 365n Urbano II, papa 169, 169n, 171, 190, 190n, 257, 269, 304, 304n, 308, 313, 313n, 484 Uria Ittita (bib.) 192 van Benthem, J. 492n Van den Eynde, D. 380n Van der Lugt, M. 294-297, 300n van der Vyver, A. 406n, 412n Vanni Rovighi, S. 107-109, 112, 112n, 365n, 368n Van Werveke, N. 400n Varisco, N. 276n
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INDICE DEI NOMI
Varrone, Marco Terenzio (Marcus Terentius Varro) 220n Vasiliu, A. 426n Vasoli, C. 511n, 512n, 515-516, 522n Vauchez, A. 138n Vella, A. 481n Verbraken, P. P. 154n Verger, J. 372n, 374n Verheijen, L. 22n, 388n Vespasiano da Bisticci (Vespasianus e Bisticci) 519, 519n; Commentario della vita di messer Giannozzo Manetti 519, 519n; Vite di uomini illustri 519, 519n Veuthey, L. 281n Vienne, J. M. 526n Villey, M. 476, 476n Vincenzo, vescovo di Cartenna 154n, 155n Viola, C. É. 34n, 162n, 164n, 170, 170n, 192n, 199n, 212n, 268n, 288n, 293n, 294n, 307n, 320n, 501n Virno, P. 230n Vita Benedicti Anianensis 329n Vitale, A. M. 505-523 Viti, P. 510n, 515n Vitiello, V. 216n, 498n Vittorini, Scuola di San Vittore 415, 415n, 435n, 442 Vivès, L. 281n, 283n, 284n, 288n
Viviano di Premontrè (Vivianus Praemonstratentis) 380; Harmonia 380 Vogels, H. J. 38n Vollet, M. 490n von Ivánka, E. 515-516 von Prantl, C. 405n Vorgrimler, H. 266n Waitz, G. 329n Ward, B. 255n, 265-266 Weller, Ph. 512n Westra, H. J. 377n Willems, R. 372n Williams, R. 382n Willis, J. 397n Wilmart, A. 302n Wilpert, P. 499n, 501n, 503n Wilson, N. G. 510n Wissink, J. B. M. 449n Wittgenstein, L. 232, 463n, 464n, 479n, 481n, 493 Wolter, F. 492n Woods, J. 397n Wuttkel, D. 515n Zalta, E. N. 483n Zarka, Y. C. 526n Zicha, J. 388n Zini, F. M. 410n Zoppi, M. 161-190, 294n
582
INDICE BIBLICO
Bibbia (Scrittura sive Sacra Scrittura, Sacra pagina) 18, 40, 71-74, 81, 83, 86, 86n, 90, 92-94, 97, 100, 102, 109-113, 116-118, 125-127, 155, 155n, 157, 178-180, 193-194, 212n, 220, 251-252, 254, 259, 265, 270n, 279n, 305306, 309n, 338, 368-369, 388, 392, 396, 396n, 398, 399n, 416, 424, 432n, 433, 437, 452 Antico e Nuovo Testamento 292, 431 Vulgata 18 Hexaemeron 416n Matteo 72 Luca 151 Giovanni 382 Epistola ai Romani 192-193 Prima epistola ai Corinzi 130, 397 Apocalisse 336 Gn 1-2 220n Gn 1, 1 60 Gn 1, 3-4 40 Gn 1, 26 382, 383n Gn 2, 17 180 Gn 15 297n Gn 28, 12 126n Ex 3, 14 53n Ex 25, 10 434n 2Rg 11 192n Jb 14, 5 117 Ps 2 382 Ps 2, 7 383n Ps 5, 3 176 Ps 13 94, 133 Ps 13, 2 133n
Ps 24, 18 175 Ps 26, 9 175 Ps 45 382 Ps 50, 6 192 Ps 115, 11 192 Ps 118, 160 23n Ps 138, 16 182 Ps 142, 10 175 Pv 13, 24 155 Pv 29, 19 155 Ec 5, 4-5 343 Sap 1, 1 270n Sap 11, 21 440 Sir 5, 4 334 Sir 32, 24 309n Is 7, 9 484
583
INDICE BIBLICO
Is 51, 1 Ez 18, 23 Ez 40, 5 Dn 13, 22 Mt 5, 16 Mt 6, 6 Mt 11, 27 Mt 22, 30 Mt 26, 53 Mt 28, 20 Lc 14, 23 Lc 20, 34-36 Jo 1, 1 Jo 1, 29 Jo 3, 29 Jo 4, 24 Jo 10, 30 Jo 14, 16 Jo 15, 26 Jo 16, 24 Ac 3, 15 Ac 5, 5 Ac 10, 35 Rm 1, 18
434n 279n 440n 175 333 64 73n 167n 384n 117 151 167n 383n 440n 22n 369 73n 165 73n 56 336 440n 165 361
Rm 1, 20 Rm 3, 4 Rm 5, 12-19 Rm 10, 2 Rm 11, 36 1Cor 1, 17 1Cor 2, 9 1Cor 3, 9 1Cor 3, 17 1Cor 8, 6 1Cor 12, 8 1Cor 13, 12 1Cor 15, 13-14 2Cor 12, 3 Gal 17, 21 Eph 3, 20 Eph 6, 16 Phil 2, 7 Col 2, 3 Col 2, 3 Heb 1, 1 Heb 11, 1 Jc 5, 16
584
93n 192 254n 319 38 399n 187 188 399n 38 53n, 131n 447n, 502 397n 434n 396n 275n 177 370 434n 53n 437n 112, 237, 380n 126n
TITLES IN SERIES TITOLI DELLA COLLANA
1. Giulio d’Onofrio, Vera philosophia. Studies in Late Antique, Early Medieval and Renaissance Christian Thought (English text by John Gavin) 2. Luigi Catalani, I Porretani. Una scuola di pensiero tra alto e basso Medioevo 3. Armando Bisogno, Il metodo carolingio. Identità culturale e dibattito teologico nel secolo nono 4. The Medieval Paradigm. Religious Thought and Philosophy Papers of the International Congress (Rome, 29 october - 1 november 2005), ed. by Giulio d’Onofrio 5. Luciano Cova, Il Liber de virtutibus di Guido Vernani da Rimini. Una rivisitazione trecentesca dell’etica tomista (con l’edizione del testo) 6. Cinzia Arruzza, Les mésaventures de la Théodicée. Plotin, Origène, Grégoire de Nysse 7. Luisa Simonutti (a cura di), Religious obedience and political resistance in the early modern world. Jewish, Christian and Islamic philosophers addressing the Bible 8. Lucia Pappalardo, Gianfrancesco Pico della Mirandola: fede, immaginazione e scetticismo 9. Alain Galonnier, Le De scientiis Alfarabii de Gérard de Crémone. Contribution aux problèmes de l’acculturation au xii e siècle (édition et traduction du texte). Préface de Jean Jolivet. Postface de Max Lejbowicz
10. Claudio Moreschini, Apuleius and the Metamorphoses of Platonism 11. Anselmo d’Aosta e il pensiero monastico medievale Atti del XVIII Convegno internazionale di studi della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (SISPM) (Cava de’ Tirreni – Fisciano, 5-8 dicembre 2009) a cura di Luigi Catalani e Renato de Filippis