Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione
 9788842086598

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Storia e Società

© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008

Giovanni Romeo

Amori proibiti I concubini tra Chiesa e Inquisizione Napoli 1563-1656

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel maggio 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8659-8

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a Michelina, ai suoi incredibili 91 anni

PREMESSA

Ho studiato in questo libro due aspetti poco noti dell’intolleranza religiosa nell’Italia moderna: la lotta ingaggiata dai vescovi contro i concubini e le battaglie degli inquisitori contro chi difendeva il diritto di vivere amori proibiti. Peccatori pubblici gli uni, ‘eretici’ gli altri, finirono entrambi negli ingranaggi di due differenti meccanismi repressivi della Chiesa. I primi furono puniti con scomuniche, cartelli infamanti, multe, carcere o esilio, sia pure con un trattamento più riguardoso quando erano ecclesiastici; i secondi con processi, accompagnati nei casi più gravi da torture. Su tutti e due i piani la svolta maturò nel tardo Cinquecento, negli anni della Controriforma ruggente, quelli, per intenderci, delle brache ai nudi michelangioleschi della Cappella Sistina e delle censure alle novelle più scabrose del Decameron. Prima di allora, sia i concubini, sia gli eretici della porta accanto erano stati tollerati o ignorati. È ovvio perciò domandarsi perché per entrambi arrivò la resa dei conti. Per quanto riguarda le eresie spicciole, la risposta è facile. Finirono nel mirino degli inquisitori, insieme alle superstizioni e alle bestemmie, per una precisa strategia giudiziaria adottata dalla Congregazione del Sant’Ufficio nel corso degli anni Settanta del secolo: entrare con forza nella vita quotidiana degli italiani, combattere senza tregua tutte le idee e le pratiche ritenute lesive dell’ortodossia, anche quelle più insignificanti, da sempre trascurate o rimesse allo zelo pastorale di vescovi, curati e confessori. Non è altrettanto semplice, invece, ricostruire le tappe che condussero alla criminalizzazione del concubinato. Sul piano normativo non ci sono dubbi: lo spartiacque è il Concilio di Trento, che dettò regole severe al riguardo, soprattutto per le donne, nell’intento di favorire il radicamento di un nuovo modello di matri-

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monio, in cui il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche diventava decisivo. Ma la sua applicazione puntuale fu complicata e piena di incognite. Le coppie di fatto erano molte, in Italia come in tutta l’Europa di ancien régime, e comprendevano una quota consistente di ecclesiastici. Soprattutto, non erano sole nel ‘disordine’ delle loro scelte: la rigida etica sessuale raccomandata dalla Chiesa era diffusamente disattesa e spesso aspramente criticata. C’erano inoltre difficoltà per i vescovi. Stanare i concubini toccava a loro, non agli inquisitori. Questo risvolto istituzionale non era irrilevante, visto il forte richiamo dello stesso Concilio al rinnovato ruolo pastorale delle Chiese locali. Infatti, se si applicava rigorosamente il dettato tridentino, si rischiava di snaturare l’identità e il ruolo delle Curie vescovili, di sbilanciarle nettamente sul versante repressivo. Tra le autorità ecclesiastiche non mancarono perciò preoccupazioni e riserve. Una parte dell’episcopato italiano si interrogò apertamente, in quegli anni tempestosi, sull’opportunità dell’uso della forza nel governo delle coscienze. Non si possono guidare spiritualmente i fedeli – scriveva nel 1579 il vescovo di Ferrara al duca Alfonso II – con lo stesso metro usato dai principi nel governarli: bisogna convincerli, non costringerli1. Applicati alle tante coppie di fatto esistenti nell’Europa del tempo, quei convincimenti equilibrati si traducevano in una semplice domanda: ammesso e non concesso che fossero un grave pericolo per la convivenza civile, spettava proprio alla Chiesa riportarle all’ordine? La voce di quel prelato restò inascoltata. Con un efficace gioco di squadra, intelligentemente coordinato dalla Congregazione del Sant’Ufficio, vescovi e inquisitori italiani del tardo Cinquecento si dedicarono al ‘riordinamento’ della sessualità: gli uni a distruggere famiglie di fatto, gli altri a processare ‘teorici’ degli amori proibiti. Il dato è particolarmente rilevante per i tribunali vescovili. Di peccatori pubblici ce n’erano tanti, ma nessuno fu colpito in modo così duro: il confronto con il trattamento dell’usura è istruttivo. Legati testamentari e mediazioni dei confessori resta1 M. Marzola, Per la storia della chiesa ferrarese nel secolo XVI, II, Torino 1976, p. 166.

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no per tutta l’età moderna la strada maestra per sanare una trasgressione così odiosa: i percorsi giudiziari non si addicono agli usurai, ancor meno i cartelli infamanti. La complementarità tra lotta al concubinato e repressione delle ‘eresie’ sessuali è particolarmente evidente nell’area cui è dedicata buona parte della ricerca: Napoli, la più grande città italiana del tempo, e il suo popoloso circondario. Malgrado le resistenze iniziali dei viceré e dei loro ministri, intenzionati a delimitare le competenze della Chiesa sui concubini ai provvedimenti spirituali e a riservare a se stessi le punizioni vere e proprie, la Curia arcivescovile napoletana seppe assicurarsi, passo dopo passo, anche il monopolio della repressione. E lo fece con grande abilità. I suoi giudici avevano un grande vantaggio rispetto ai colleghi del Centro-Nord: accentravano nelle proprie mani sia i poteri ordinari di ogni foro vescovile, e quindi anche il controllo delle convivenze more uxorio, sia le leve inquisitoriali, e perciò il diritto di punire chi difendeva scelte di vita disordinate. Di quel privilegio la Curia napoletana fece un uso accorto e intelligente: nel tardo Cinquecento si comincia con la criminalizzazione delle ‘eresie’ sessuali, non con gli amori proibiti. Quella decisione, in una metropoli ribelle, inquieta e attaccata ai piaceri della vita come poche altre, nel clero come nel laicato, preparò il terreno favorevole all’offensiva in grande stile contro i concubini, che scattò molto più tardi, quando le forme più acute di dissenso erano già state cancellate. Politicamente ben gestita, la svolta repressiva del primo Seicento fu rovinosa dal punto di vista spirituale: un segnale preciso dell’incapacità di avviare quei percorsi di crescita, di educazione religiosa e di conversione che pure appartenevano all’orizzonte tridentino. I risultati delle visite pastorali mi sembrano esemplari: i collaboratori del vescovo fanno finta di niente, i parroci pure, tutto sembra andare per il meglio, ma alla fine una pioggia di scomuniche si abbatte sui conviventi laici. Fu grazie a queste discutibili scelte di politica religiosa che verso la metà del Seicento convivere senza essere sposati diventò a Napoli un peccato/delitto perseguitato con una certa asprezza e punito stabilmente dalla Chiesa, non dalle autorità statali. Nel giro di pochi anni, inoltre, furono equiparate al concubinato tutte

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le relazioni proibite: anche gli amanti subirono in misura crescente le scomuniche e i cartelli infamanti, fino al carcere (se riprendevano a frequentarsi dopo l’assoluzione). Il bilancio finale, però, non fu particolarmente positivo: poche regolarizzazioni, molte sofferenze, molte donne disonorate, molti bambini privati delle famiglie, ma anche molta indifferenza, diffusa ostilità verso l’intolleranza, indomabili resistenze. Abitualmente il clero stesso aderì con freddezza all’accresciuto rigore dei vertici diocesani. Nessun parroco, ad esempio, tenne fuori dalla Chiesa i concubini indifferenti alla scomunica, come sarebbe stato obbligato a fare. Ancor più indicativa è la soluzione del nodo della loro sepoltura. Il Rituale Romanum, che fu pubblicato nel 1614, prevedeva, per tutti gli scomunicati morti nel peccato ma con segni di pentimento, cerimonie funebri attentamente differenziate, cariche di simbolismi. I parroci di tutto il mondo avrebbero dovuto percuoterne e assolverne i corpi, se erano insepolti; riesumarli, percuoterli e seppellirli in terreno consacrato, se erano stati abbandonati in terra profana; percuotere semplicemente il sepolcro, se erano già stati illegittimamente interrati in luogo sacro2. Finora, in nessun caso, né a Napoli, né altrove, risulta che questi macabri rituali siano stati praticati sui corpi dei conviventi che morivano con la scomunica addosso. Il buonsenso e la pietas, se non una visione del cristianesimo meno avvelenata dal diritto canonico, prevalevano nettamente sull’intolleranza delle autorità ecclesiastiche. Questo, come tanti altri aspetti della ricerca, invita a riflettere sui recenti sviluppi della questione cattolica, in particolare in Italia. Il pensiero corre alla tragica odissea di Piergiorgio Welby e al fondamentalismo che sembra fiorire sempre più rigoglioso nella Chiesa romana, a pochi anni dalla richiesta di perdono rivolta da un papa a Dio, per i ‘peccati’ dell’Inquisizione. Il parroco romano che nel dicembre del 2006 ha dovuto negare la sepoltura cristiana all’‘eretico’ Welby ha valicato una frontiera che neppure i suoi colleghi napoletani del Seicento avevano mai violato. Forse nel corso del tempo ci sarà un riequilibrio, forse rivivrà lo spirito 2 Rituale Romanum Pauli V Pont. Max. iussu editum, Venetiis, apud Iuntas, 1615, pp. 48-49.

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del Concilio Vaticano II, che oggi sembra lontano anni luce, e la Chiesa tornerà a sentirsi parte della storia, non solo giudice inappellabile di essa. Intanto, però, chi studia da una vita l’Inquisizione italiana in età moderna avverte con crescente intensità la sensazione sgradevole che i suoi paladini siano ancora vivi, che un passato remoto stia tornando, talvolta con accentuazioni inquietanti. G.R.

RINGRAZIAMENTI

Alla fine di una ricerca lunga e complicata come questa, mi è impossibile ringraziare tutte le persone che in vario modo l’hanno resa più agevole, soprattutto nelle tante istituzioni culturali, statali ed ecclesiastiche, in cui ho lavorato. Avverto però il bisogno di esprimere la mia più viva gratitudine ai direttori che si sono succeduti alla guida dell’Archivio storico diocesano di Napoli, al compianto monsignor Salvatore Loffredo e ai suoi successori, monsignor Ugo Dovere e monsignor Antonio Illibato, per la competenza e la passione con cui mi hanno avviato allo studio dei tesori del prezioso istituto. Devo aggiungere però che sarei ancora in alto mare, senza la dedizione dell’impareggiabile Carmela Salomone, che dello stesso Archivio è da tanti anni il pilastro: a lei va perciò la mia profonda riconoscenza. Allo stesso modo, mi è gradito ricordare la gentilezza e la disponibilità con cui in anni lontani agevolò le mie ricerche il compianto monsignor Enzo Virgili, direttore dell’Archivio arcivescovile di Pisa. Ringrazio infine per la cortesia e la premura sempre mostrate nei miei confronti il personale tutto dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, dell’Archivio Segreto Vaticano, dell’Archivum Romanum Societatis Iesu, della Biblioteca Apostolica Vaticana, della Biblioteca Nazionale di Napoli, degli Archivi di Stato di Genova, Modena, Napoli e Roma. I rilievi degli amici e dei colleghi che hanno letto parti diverse di questo libro sono stati per me importanti. Mi è gradito perciò ringraziare Enrico Anastasio, Giovanni Barblan, Stefania Bruno, Eugenio Canone, Michele Cassese, Agata D’Aquino, Alessandro De Cesaris, Fabio De Rubertis, Massimo Firpo, Gigliola Fragnito, Girolamo Imbruglia, Daniela Lombardi, Lina Lubrano, Liliana Magnani, Michele Mancino, Peter Mazur, Giovanni Muto,

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Ringraziamenti

Gino Perrotta, Antonio Salvatore Romano, Rodolfo Savelli, Annamaria Scotto di Carlo, Grazia Sirignano, Giovanna Zavatti. Utilissime indicazioni mi sono venute da Pascal Scotto di Vettimo: grazie alla benemerita iniziativa da lui promossa nell’Archivio abbaziale di Procida ho potuto effettuare rapidamente importanti riscontri. Inoltre, suggerimenti preziosi mi sono stati forniti da tantissime persone, che mi è impossibile ringraziare qui. Ma è doveroso per me ricordare che è diventata ancora più lunga la lista dei debiti contratti con Massimo Firpo, Gigliola Fragnito, Michele Mancino, Michele Miele, Giovanni Muto, Rodolfo Savelli, Pierroberto Scaramella, Enrico Stumpo, Giovanna Zavatti, e con mio fratello Gioacchino, e che senza le stimolanti osservazioni di Margherita Rostagno il libro non sarebbe lo stesso. Un vivissimo grazie va infine a Irena Jonasz e Janina Swiok¢o, per la preziosa assistenza che hanno prestato e prestano a mia madre.

AMORI PROIBITI I CONCUBINI TRA CHIESA E INQUISIZIONE NAPOLI 1563-1656

I «SE BENE SI DICEVA CHE ERANO INNAMICATI...»: LE PREMESSE CINQUECENTESCHE

1. Si erano appena addormentati, in una camera ammobiliata della strada del Pertuso, nel cuore di Napoli. Don Colangelo Perfido Fedele, un giovane prete lucano dottore in utroque iure, che celebrava in una chiesa vicina, e Perna Monaco, una vedova, abitavano lì da poco più di un anno, ma stavano insieme da oltre due, con Tarquinia, la figlia della donna: ’nnammecate per i vicini, concubini per la Chiesa ufficiale, non avevano mai avuto fastidi per la loro relazione. Ma quella sera di aprile del 1596, nel giro di pochi minuti, furono costretti a separarsi, forse per sempre. Li svegliarono con un’irruzione le scoppettelle, cioè le guardie della Curia arcivescovile, guidate da un giudice e accompagnate dal notaio del Sant’Ufficio e da un vicino: cercavano lui per il possesso di una testa di morto, di libri e manoscritti di negromanzia, cioè per delitti contro l’ortodossia, ma anche per la convivenza – una trasgressione meno grave, in Italia di esclusiva competenza vescovile, quando riguardava degli ecclesiastici. Di quei presunti abusi don Colangelo, un sacerdote colto, venuto a Napoli nel 1593 per studiare teologia, era stato accusato poche ore prima da un prete. Il blitz riuscì: nella camera c’era un solo letto e i tre, che dormivano insieme completamente nudi, sorpresi nel sonno dal trambusto e dalla luce delle candele, erano rimasti senza parole, confusi e sbalorditi. La perquisizione confermò, almeno in parte, gli altri sospetti: niente testi negromantici, ma ossa, pezzi di calamita e la testa di morto, oltre a lettere d’amore1. 1 Archivio storico diocesano di Napoli (d’ora in avanti ASDN), Sant’Ufficio (d’ora in avanti SU), 994, cc. 1r-12v (denuncia, cattura e prime deposizioni) e

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Così, mentre le due donne furono inutilmente cercate come testimoni d’accusa, l’ecclesiastico finì in carcere. In pochi mesi l’incidente giudiziario si risolse: bene per l’addebito più pesante, quello di negromanzia, per il quale don Colangelo fu prosciolto, sia pur dopo una tortura di quasi un’ora; male per il concubinato, che gli costò cinque anni di esilio da città e diocesi2. Era una condanna dura: doveva allontanarsi da Napoli e dai paraggi, dove le possibilità di impiego erano tante, e ricominciare da zero. Provò a tornare a Ferrandina, il paese natale, ma lì era morta la madre e si trovò in difficoltà. Non sapendo come sbarcare il lunario, dopo un paio di mesi si procurò dall’arcivescovo di Matera la licenza di celebrare e confessare e la dimissoria, cioè il permesso di assentarsi dalla sua diocesi, e se ne tornò nei pressi di Napoli, nel casale di Capodimonte. Trovò presto un ottimo lavoro, un incarico di cappellano e maestro, al servizio del ricco proprietario di una delle masserie della zona, e non rinunciò a convivere con una donna. A un prete di cui si fidava aveva confidato la sua disavventura giudiziaria e la condanna all’esilio dalla diocesi, non senza aggiungere che a Capodimonte, zona piuttosto lontana dal centro di Napoli, si sentiva al sicuro: glielo aveva garantito, disse, ‘uno’ del25r-65r (il processo vero e proprio). Per le lettere d’amore, scritte ad almeno due donne diverse da Perna, vedi cc. 13r-20r. Don Colangelo era arrivato a Napoli non prima del febbraio del 1593 (ivi, cc. n.n., l’8 di quel mese il vicario capitolare di Acerenza lo aveva autorizzato a rimanere a Napoli per quattro anni per studiare teologia). Egli esibì anche (c. 23r-v) una patente annua di confessore rilasciata a Napoli il 12 novembre 1593 e prorogata il 23 dicembre 1594, che gli permetteva di assolvere anche casi gravi come la bestemmia, la sodomia e l’incesto (per la questione vedi M. Mancino, Licentia confitendi. Selezione e controllo dei confessori a Napoli in età moderna, Roma 2000, pp. 23-127). Di Perna Monaco, una donna di quarantacinque anni, sappiamo solo (c. 24r), che aveva una causa civile in Vicaria per recuperare dei soldi dal datore di lavoro della madre defunta. 2 ASDN, SU, ivi, cc. 34r (per i tentativi falliti di convocare Perna e Tarquinia, che erano scappate subito), 60r-62r (per la tortura del 2 settembre 1596) e 64r (per la sentenza del 5 settembre, emessa da un collegio di cui faceva parte, oltre all’arcivescovo, anche Roberto Bellarmino). Pesò forse sulla dura decisione il testardo rifiuto di negare l’evidenza da parte di don Colangelo: egli ripeté sempre ai giudici una versione insostenibile (secondo lui, le due donne dormivano separatamente da lui, su una cassa unita al suo letto: vedi cc. 32v-33r, costituto del 2 giugno 1596).

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la Curia arcivescovile. In quell’area appartata si fece apprezzare come sacerdote preparato e intelligente: due parroci ammisero di avergli conferito il delicato incarico di ascoltare le confessioni di precetto. Uno di loro aveva anche osservato, senza insospettirsi, presenze femminili a casa sua: una signora lentigginosa dai capelli rossi, che don Colangelo davanti agli altri chiamava ‘mamma’, due ragazzine, altre donne. Ancora una volta, però, qualcosa non andò per il verso giusto: la sua socievolezza, la vasta rete di rapporti che si era costruito e l’invidia per gli incarichi ricevuti lo misero nuovamente nei guai. Segnalato come un prete che «teneva il bordello» a casa sua, nell’estate del 1599 fu riconosciuto subito dalle scoppettelle, che gli rinfacciarono la rottura d’esilio, lo catturarono, malgrado vivacissime resistenze, gli sequestrarono delle carte magiche e lo condussero davanti al vicario, che ne ordinò l’immediata carcerazione. I giudici si soffermarono anche sulla ‘mamma’, chiedendogli a più riprese se fosse Perna, ma egli negò risolutamente, sostenendo con forza che non era la sua convivente. Di nuovo, però, fu la magia l’oggetto principale dei duri interrogatori cui fu sottoposto: si sospettò che in uno dei ‘brevi’ superstiziosi sequestrati fosse inserita un’ostia consacrata, si accertò attraverso due perizie grafiche che le scritture proibite erano di mano sua, gli furono riservate due pesanti sedute di tortura (di un’ora ciascuna), che non lo piegarono. Nel marzo del 1600 fu condannato ad abiurare un lieve sospetto d’eresia, per la trascrizione e il possesso dei testi magici, e a tre anni di carcere, per aver celebrato e confessato senza licenza. Il 9 giugno seguente, però, con un atto di clemenza, l’arcivescovo gli condonò la nuova pena, obbligandolo a completare l’esilio interrotto e vietandogli di celebrare e confessare senza la prescritta autorizzazione3. Don Colangelo non si perse d’animo. Si rifece – non sappiamo da quando – una vita in città, se è vero che nel 1603 fu sorpreso a Napoli, per strada, con il IV libro della Clavicola di Salomone e altri manoscritti magico-diabolici, e fu incarcerato per la terza vol3 ASDN, SU, 1153, passim. Lo aiutarono i parroci di Capodimonte e di Marano. Che la donna non fosse Perna è certo, perché lei e sua figlia erano bionde (ASDN, SU, 994, cc. 35r-36v, 8 giugno 1596, deposizione del suddiacono Giovanni Luise Pisa).

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ta: pagava così il pieno inserimento in una nutrita conventicola di ecclesiastici e laici impegnati nella ricerca di tesori attraverso cerimonie negromantiche. Sottoposto ancora a una pesante tortura, che gli costò un ricovero in ospedale, subì una nuova condanna, decisa dai cardinali del Sant’Ufficio e inasprita dagli stessi giudici napoletani: una seconda abiura, un anno di carcere, sospensione a divinis per tre anni, relegazione per dieci anni a Ferrandina. Stavolta ammise senza difficoltà che il prestigio indiretto legato alla seconda carcerazione aveva ampliato a dismisura il volume delle sue attività: la gente ricorreva ora a lui per pratiche magiche di ogni genere, dallo scioglimento delle legature sessuali maschili ai secreti d’amore4. Di lì a poco, dopo una riuscita controffensiva giudiziaria contro alcuni complici5, le sue tracce si perdono per sempre, proprio come, dal 1596, quelle della prima famigliola. Perna e sua figlia, pur sfuggite al blitz, non poterono più contare su don Colangelo: la donna aveva forse capito che convivere con un prete era una scelta troppo pericolosa, che i vantaggi economici non compensavano i rischi. Forse non fu così per lui: nel terzo processo, nel corso della perquisizione domiciliare, il notaio del Sant’Ufficio verificò la presenza a casa sua di due donne, una matura e una giovane, che dichiararono di essere rispettivamente sua sorella e sua nipote. La gravità degli addebiti inquisitoriali, ancora una volta, fece passare in secondo piano l’esigenza di verificare l’identità di quelle figure dubbie, non proprio sinodali. Anche per le due sconosciute, come per quelle del 1596 e del 1599, la Curia lasciò perdere. Intanto, però, per altre due donne ricominciava da zero la lotta per la sopravvivenza6. 2. Di incidenti come quelli capitati a don Colangelo e alla sua famiglia di fatto traboccano tutti gli archivi italiani, soprattutto nel Cinque/Seicento: pratiche magiche di ogni genere e vita ses4 ASDN, SU, 1413, carte parzialmente numerate. L’ammissione ricordata nel testo è ivi, c. 24v, costituto del 1° novembre 1603. Gli interventi romani sono in P. Scaramella, Le lettere della Congregazione del Sant’Ufficio ai tribunali di fede di Napoli 1563-1625, Trieste 2002, pp. 397-399. 5 Scaramella, ivi, pp. 409-410. 6 ASDN, SU, 1413, cc. n.n., verbale del notaio Prezioso del 30 ottobre 1603.

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suale in vario modo disordinata rientrano tra le trasgressioni più comuni, sanzionate per lo più dalle autorità dell’Inquisizione e della Chiesa. Si tratta di controlli che si inquadrano in una fase ben precisa della storia dell’intolleranza religiosa, quella che vede, negli ultimi decenni del Cinquecento, tutte le istituzioni ecclesiastiche, non solo il Sant’Ufficio, entrare con una determinazione sconosciuta nella vita quotidiana degli italiani. A metà del secolo, ad esempio, un blitz come quello or ora illustrato sarebbe stato impensabile, a Napoli come nel resto d’Italia. Gli inquisitori avevano altro per la testa, sparute pattuglie di vescovi e audaci avanguardie gesuite avevano cominciato a combattere ‘superstizioni’ e disordini sessuali, ma i loro erano interventi isolati, iniziative di corto respiro. Nella stessa vicenda di don Colangelo, d’altronde, impaccio dei controllori e relativa indifferenza dei vicini si toccano con mano. Una delle scoppettelle che irrompe nella stanza, un chierico di venticinque anni, dichiara ai giudici, con il vertiginoso candore del bambino de I vestiti nuovi dell’imperatore, che «se bene si diceva che erano innamicati, se ne stavano come li mariti et le mogliere»7; il giovane affittacamere, un tessitore che tante volte li ha visti insieme a letto, conferma sì che lui ‘si teneva la puttana’, ma rileva con la stessa indifferenza che anche il prete accusatore, un altro suo ex inquilino, se ne stava con ‘la puttana sua’8. Ancora più lineare e concreta la valutazione che di quel rapporto proibito dava la madre del giovane, anche lei vedova come Perna. La donna osserva che il prete ‘se la teneva’ per amica e provvedeva a tutto, mentre lei lo serviva e gli lavava i panni. Che l’uomo fosse un sacerdote e che i due – ovviamente – non fossero sposati, non aveva alcun rilievo per lei, anche se era implicito che a decidere la convivenza fosse stato don Colangelo. Era una coppia come tutte le altre, insomma, che oltre tutto non aveva alcuna difficoltà, dati i rapporti confidenziali («si fidavano di me», dichiara), a farsi vedere da lei nell’intimità, a letto: una caratteristica, quest’ultima, molto diffusa in antico regime9. Un certo imba7 ASDN, SU, 994, c. 12v, deposizione resa il 30 aprile 1596 dal chierico Ottavio Porcello (qui in Appendice, doc. 1). Per la celebre fiaba di Andersen, vedi H.C. Andersen, Fiabe, Torino 2005, pp. 73-76. 8 Ivi, c. 5r, deposizione resa il 30 aprile 1596 da Scipione Alderisio. 9 Ivi, c. 11r-v, deposizione resa il 30 aprile 1596 da Angela Palomba.

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razzo nei controllori ecclesiastici, indifferenza o valutazioni realistiche, non particolarmente prevenute, nel vicinato: verso la fine del Cinquecento, a Napoli, due conviventi dovevano solo temere vendette dai propri nemici? Vedremo tra breve come stavano le cose. Prima, però, bisogna spostare lo sguardo dall’albero alla foresta: da quando e perché in Italia la Chiesa aveva dichiarato guerra alle famiglie di fatto? 3. Il concubinato aveva goduto a lungo in Europa di un preciso riconoscimento giuridico, non solo di tolleranza. Era un’unione di dignità inferiore rispetto al matrimonio, ma ne conteneva gli stessi elementi essenziali. I problemi semmai riguardavano i figli, la loro legittimazione e i connessi problemi ereditari10. Neppure la Chiesa aveva assunto atteggiamenti particolarmente rigidi al riguardo. Se nel VI secolo un vescovo attento come Cesario di Arles aveva riconosciuto l’impossibilità di scomunicare tutti i concubini, perché erano tantissimi, e si era augurato che fossero illuminati dal Signore, nel primo Quattrocento san Bernardino da Siena motivò ben diversamente l’invito agli uomini a lasciare le concubine e a sposarsi: non conveniva tenerle in casa, perché la consapevolezza della provvisorietà del rapporto le induceva a trascurare i propri doveri. Pensavano solo ad accaparrarsi i beni del compagno/padrone prima di invecchiare, perché sapevano che a quel punto sarebbero state cacciate. Il grande predicatore non usava altre argomentazioni: di rampogne o richiami di tipo etico neppure l’ombra11. Era difficile per lui, e forse per la Chiesa tutta, combattere altrimenti pratiche diffuse, che abitualmente non erano percepite come abusi e che oltre tutto coinvolgevano parecchi ecclesiastici. Fu anche per queste radicate tradizioni che la criminalizzazione delle convivenze more uxorio si impose in Europa tardivamente, 10 Vedi J.A. Brundage, Law, Sex and Christian Society in Medieval Europe, Chicago-London 1987, passim. 11 Per Cesario vedi G. Rossetti, Il matrimonio del clero nella società altomedievale, in Il matrimonio nella società altomedievale, I, Spoleto 1977, pp. 473554, pp. 521-522. Il richiamo a san Bernardino è in L. Ferrante, «Consensus concubinarius»: un’invenzione giuridica per il principe?, in Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio, bigamia (XIV-XVIII secolo), a cura di S. Seidel Menchi e D. Quaglioni, Bologna 2004, p. 113.

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solo nel corso del Quattrocento, per sfociare nel 1514 nella costituzione Supernae dispositionis del Concilio lateranense V, la prima norma universale che proibiva il concubinato dei laici12. È impossibile per ora valutarne l’efficacia. Per quanto se ne sa, un solo vescovo italiano del primo Cinquecento sembra recepirne lo spirito, ma si tratta di una figura eccezionale: è il vescovo di Verona Gian Matteo Giberti13. La drammatica crisi che infranse l’unità religiosa dell’Occidente fece il resto. Fu allora che per le coppie di fatto, come per chiunque vivesse esperienze sessuali extraconiugali, le complicazioni aumentarono, sia nell’Europa delle nuove confessioni cristiane, sia in quella rimasta fedele a Roma. È dubbio, peraltro, che nel governo dei disordini sessuali un’attenzione particolare sia stata riservata alle convivenze more uxorio. Fa riflettere non solo la mancanza di ricerche mirate, ma anche la povertà delle fonti. Ignoriamo chi e quanti fossero i concubini; non possiamo azzardare stime, neppure approssimative, sul rapporto tra unioni di fatto e famiglie legalmente costituite; ben poco possiamo dire dei modi e dei tempi in cui si svolse la campagna di ‘moralizzazione’, e delle stesse istituzioni che la promossero14. Forse la questione continuava a rimanere controversa, forse era più sentita solo quando riguardava persone sposate. Non è sostenibile, in ogni caso, la distinzione tra un’Europa mediterranea, dominata da un’impostazione cattolica propensa ad evitare un’aperta repressione del concubinato e a combatterlo attraverso confessori e missionari, e un’Europa protestante im12 Per l’inasprimento quattrocentesco, vedi Brundage, Law, pp. 514-517; A. Esposito, Adulterio, concubinato, bigamia: testimonianze dalla normativa statutaria dello Stato pontificio (secoli XIII-XVI), in Trasgressioni, a cura di Seidel Menchi e Quaglioni, pp. 21-42; J.F. Harrington, Reordering Marriage and Society in Reformation Germany, Cambridge 1995, pp. 123-124. Per la Supernae dispositionis, vedi Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo, P.P. Joannou, C. Leonardi e P. Prodi, Basileae... 1972, p. 599. 13 Una recente ricerca ne ha ben ricostruito le strategie d’intervento: E. Eisenach, Husbands, Wives, and Concubines: Marriage, Family and Social Order in Sixteenth-Century Verona, Kirksville MO 2004. 14 Esemplare mi sembra il caso francese, dove, malgrado una ricca tradizione di studi sul matrimonio e sulla sessualità, non risultano ricerche sul concubinato (ringrazio il prof. Alain Tallon per l’indicazione).

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prontata al rigorismo. Nessuna delle due generalizzazioni regge al confronto con le più recenti ricerche15. Nella Germania del Cinquecento, ad esempio, pur in un quadro di crescente inasprimento delle misure repressive nei confronti dei disordini sessuali, che riguarda senza differenze apprezzabili cattolici e protestanti, i tentativi di combattere il concubinato dei laici fallirono16. Non furono più efficaci, a quanto sembra, i tentativi romani di distruggere le famiglie dei preti, diffusissime in tutto il mondo cattolico: le pronunce e le gride non mancarono, né in Europa, né nel Nuovo Mondo, ma senza risultati apprezzabili17. Sul versante del cattolicesimo mediterraneo, poi, le autorità secolari ed ecclesiastiche non rimasero certo a guardare. In Spagna il governo di quei disordini rientra tra i poteri di uno Stato forte e centralizzato, attentissimo alla tutela della pubblica moralità: è la Cancelleria reale di Valladolid che esercita fin dalla metà del Cinquecento una vigorosa azione di controllo sulle cause di primo grado celebrate dai tribunali secolari biscaglini18. Non mancano al riguardo, neppure in Italia, indicazioni piuttosto precise, anche se non concernono il concubinato: la situazione veneziana, pur in mancanza di una ricostruzione approfondita, è un esempio delle ampie competenze esercitate dallo Stato in materia di adulterio, bigamia e separazione19. Ma so15 Il doppio modello d’intervento è adombrato in J. Casey, La famiglia nella storia, Roma-Bari 1999, pp. 133-134. 16 Harrington, Reordering Marriage, p. 242; vedi anche U. Rublack, The Crimes of Women in Early Modern Germany, Oxford 2007. 17 Non c’è una ricostruzione moderna della questione, ma mi sembrano ancora validi i rilievi, pur datati, di H.Ch. Lea, Storia del Celibato Ecclesiastico nella Chiesa cristiana, II, Mendrisio 1911, pp. 210-234 (traduzione della III edizione, apparsa a Filadelfia nel 1907, con il titolo A History of Ecclesiastical Celibacy in Christian Church). 18 R. Barahona, Sex Crimes, Honour, and the Law in Early Modern Spain: Vizcaya, 1528-1735, Toronto 2003, in particolare il IV capitolo. 19 Si vedano i rilievi di S. Seidel Menchi, I processi matrimoniali come fonte storica, in Coniugi nemici. La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, a cura di S. Seidel Menchi e D. Quaglioni, Bologna 2000, p. 26, e di S. Chojnacki, Il divorzio di Cateruzza: rappresentazione femminile ed esito processuale (Venezia 1465), ivi, pp. 371-416, passim. Non sembrano le convivenze more uxorio, in ogni caso, le trasgressioni che preoccupano di più le autorità secolari in Italia. Era così già nel Tre/Quattrocento, se fanno testo i casi delle castellanie sabaude e di Firenze, in cui si registra, semmai, una preoccupazione

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no soprattutto i risultati delle indagini condotte recentemente in alcuni archivi vescovili italiani a smentire l’ipotesi di una moderazione cattolica verso le famiglie di fatto. Nell’Italia moderna il ricorso a confessori, direttori spirituali, predicatori e missionari non impedì alla giustizia ecclesiastica di occupare una posizione dominante nel ‘governo’ dei conviventi. Non furono le esigenze di tutela dell’ordine pubblico a dettarne i modi e tempi, come nella Spagna del Cinquecento, ma gli interventi dei tribunali vescovili, variamente legati ai duri decreti emanati al riguardo dal Concilio di Trento. 4. Nelle discussioni tridentine il concubinato aveva trovato uno spazio piuttosto limitato. Ne vedremo più avanti i dettagli. Qui basti ricordare che due scelte furono particolarmente indicative. Una prevedeva la possibilità di procedere anche d’ufficio, non solo su istanza di parte, contro quella trasgressione: segnale preciso di una ferma intenzione repressiva, della volontà di sfuggire all’alea delle denunce. L’altra era la decisione di condannare all’esilio le sole donne conviventi, considerate implicitamente le principali responsabili dell’abuso. Si cercava così di rafforzare il nuovo modello di matrimonio, centrato su una cerimonia pubblica da svolgere alla presenza del parroco, di distinguere con precisione tra il lecito e l’illecito, tra le famiglie regolarmente costituite e quelle che si spacciavano come tali, in base a usi locali o a maliziose interpretazioni estensive del consenso dato. Quell’inasprimento normativo influì pesantemente sulla vita dei conviventi italiani, anche se i vertici delle più autorevoli istituzioni romane lo adattarono molto presto alle proprie strategie di governo della penisola e le Curie diocesane si mossero con molcrescente per l’adulterio: vedi tre contributi apparsi in «Studi storici», 27, 1986: R. Comba, «Apetitus libidinis coherceatur». Strutture demografiche, reati sessuali e disciplina dei comportamenti nel Piemonte tardomedievale (pp. 529-576); P. Dubuis, Comportamenti sessuali nelle Alpi del Basso Medioevo: l’esempio della castellania di Susa (pp. 577-607); M.S. Mazzi, Cronache di periferia dello Stato fiorentino: reati contro la morale nel primo Quattrocento (pp. 609-635). Alla stessa Mazzi si deve una puntuale ricostruzione del controllo statale della sessualità a Firenze: Prostitute e lenoni nella Firenze del Quattrocento, Milano 1991.

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ta libertà nell’applicarlo20. Nell’Italia tridentina sia le autorità ecclesiastiche centrali, sia quelle locali, danno più spazio alle esigenze in senso lato politiche che alle regole – anche se è l’orizzonte della giustizia, non quello delle mediazioni di coscienza, a dettare tempi e modi dell’attacco alle convivenze –, ed è la Chiesa, non lo Stato, a promuovere quella battaglia. Questa linea è evidente già nella prima, importante distinzione che si profila nelle procedure dei tribunali diocesani finora studiati, quella tra ecclesiastici e laici. Verso questi ultimi l’intolleranza sembra più tardiva, ma anche più rigorosa, pur con sfumature differenti; nei confronti del clero l’uso dello strumento repressivo è cauto e riservato, anche se la preoccupazione è più pre20 Per questi aspetti del problema vedi qui i paragrafi 7-8. Le questioni matrimoniali sono quelle più studiate negli ultimi anni. Vedi soprattutto Storia del matrimonio, a cura di M. De Giorgio e Ch. Klapisch-Zuber, Roma-Bari 1996; Marriage in Italy, 1300-1650, a cura di T. Dean and K.J.P. Lowe, Cambridge 1998; D. Lombardi, Matrimoni di antico regime, Bologna 2001; e la serie di monografie coordinata da S. Seidel Menchi e D. Quaglioni, per la casa editrice Il Mulino (cinque volumi pubblicati tra il 2000 e il 2006). La più ricca di riferimenti al concubinato è Trasgressioni. Vedi in particolare: Ferrante, «Consensus», pp. 107-132; E. Eisenach, «Femine e zentilhomini»: concubinato d’élite nella Verona del Cinquecento, pp. 269-303; S. Luperini, Il gioco dello scandalo. Concubinato, tribunali e comunità nella diocesi di Pisa (1597), pp. 383-415; della stessa Luperini vedi anche La promessa sotto accusa (Pisa 1584), in Matrimoni in dubbio. Unioni controverse e nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, a cura di S. Seidel Menchi e D. Quaglioni, Bologna 2001, pp. 361-394); Esposito, Adulterio; della stessa Esposito vedi anche Convivenza e separazione a Roma nel primo Rinascimento, in Coniugi nemici, a cura di Seidel Menchi e Quaglioni, pp. 499-517). Nel volume figurano anche altri saggi di notevole interesse, soprattutto sull’adulterio. Indicazioni utili sulle convivenze in Italia sono altresì in A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, V, Torino 1892, pp. 522-523; A. Marongiu, Unioni e convivenze ‘more uxorio’ in Sardegna prima e dopo il concilio tridentino, in «Rivista di storia del diritto italiano», 52, 1979, pp. 5-17; O. Di Simplicio, Le perpetue (stato senese, 1600-1800), in «Quaderni storici», 68, 1988, pp. 381-412, e sempre di Di Simplicio, Peccato penitenza perdono. Siena 1575-1800, Milano 1994, passim; C. Nubola, Conoscere per governare. La diocesi di Trento nella visita pastorale di Ludovico Madruzzo (1579-1581), Bologna 1993; N. Pizzolato, Ordinarie trasgressioni. Adulterio e concubinato dal vicinato al tribunale (diocesi di Monreale, 15901680), in «Quaderni storici», 124, 2007, pp. 231-259. Ricchi elementi di valutazione sono contenuti in Gli «Stati d’anime» a Roma dalle origini al secolo XVII, a cura di C. Sbrana, R. Traina e E. Sonnino, Roma 1977. Per il concubinato nella Roma ottocentesca vedi M. Pelaja, Matrimonio e sessualità a Roma nell’Ottocento, Roma-Bari 1994, pp. 127-153 (ma tutto il libro è importante).

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coce e diffusa. Inizialmente, infatti, i vescovi postridentini sembrano concentrare le energie, com’era già capitato nel corso del Quattrocento, proprio sulle famiglie di fatto di preti e chierici. Ovviamente, governare la vita sessuale e matrimoniale degli italiani secondo i decreti tridentini diventava molto più complicato, se proprio gli uomini di Chiesa che avrebbero dovuto applicarli violavano così diffusamente l’obbligo del celibato. Un più rigoroso rispetto delle regole da parte dei sacerdoti era indispensabile per avviare in modo credibile le tante riforme programmate dai padri conciliari. Si trattava infine di evitare sgradite ingerenze statali, e quell’obiettivo fu centrato subito: sul concubinato degli uomini di Chiesa, come sulla stragrande maggioranza dei loro delitti, i tribunali ecclesiastici esercitarono in Italia, a differenza di quanto succedeva in Spagna, competenze esclusive. Indipendentemente dai riflessi giurisdizionali, l’attenzione delle Chiese locali per le convivenze dei preti appare più che giustificata. La particolare precocità delle battaglie dei vescovi sardi contro sacerdoti ‘ammogliati’ che ancora nel 1568 si sposavano con cerimonie pubbliche fastose si spiega con l’eccezionalità di quei ‘matrimoni’. Ma il problema era vivo ovunque. Nel tardo Cinquecento la presenza degli ecclesiastici nelle schiere dei conviventi è ben attestata in tutta Italia, è di pubblico dominio e abitualmente non è malvista dalle comunità. Sono indicativi i dati della diocesi di Trento, l’area finora studiata più accuratamente: da solo, il concubinato dei sacerdoti, che pure coinvolge quasi la metà del clero, non provoca reazioni particolari tra i fedeli. In alcuni casi, anzi, la comunità si fa carico del pagamento della multa inflitta al prete convivente dagli ufficiali del vescovo. È la presenza di altri comportamenti proibiti l’elemento scatenante, la circostanza che genera critiche o malcontento: dall’inadempienza della cura d’anime agli abusi sessuali. Anche altrove le dinamiche postridentine sembrano simili. A Pisa, non diversamente da ciò che succede ai laici, le denunce contro i sacerdoti che convivono arrivano puntuali solo quando ci sono altri motivi di ostilità nei loro confronti; anche a Monreale, dove pure il vicinato si mostra più pungente verso i comportamenti sessuali sospetti degli ecclesiastici, essi possono continuare le relazioni proibite per lunghi anni. Tollerati dai fedeli, i preti conviventi sanno anche di poter contare sulla solidarietà di corpo garantita loro dai superiori. La

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mobilitazione dei vescovi non si concretizza mai in misure particolarmente severe: è indicativo ancora il caso della diocesi di Trento, dove richiami e ammonizioni servono a poco e le condanne sono rarissime. L’esigenza di non infangare l’immagine del clero e della Chiesa prevale sull’applicazione delle norme. Questo aspetto della questione è stato efficacemente illustrato anche in riferimento alla Napoli postridentina, per la punizione dei sacerdoti responsabili di abusi sessuali gravi, dall’adulterio allo stupro, e lo ha recentemente sottolineato una ricerca dedicata a un caso ferrarese21. 5. Le complicazioni, sia pur di tutt’altro genere, non mancarono neanche per le convivenze more uxorio dei laici. I tempi furono molto più lenti, l’impegno della Chiesa, in tutte le sue articolazioni, discontinuo e faticoso, i risultati alterni. A tutt’oggi lo zelo dei collaboratori di Ludovico Madruzzo, principe vescovo di Trento, e di una parte del clero locale, costituisce insieme alle dure iniziative della Curia arcivescovile pisana, adeguatamente sostenute dalle guardie secolari, la più precoce testimonianza di una sensibilità attenta all’applicazione dei decreti conciliari22. Altrove gli esiti dello zelo rigorista sono più incerti. 21 Per la sessualità del clero, vedi Rossetti, Il matrimonio, e Lea, Storia del Celibato. Curiosamente c’è stata finora più attenzione per il celibato ecclesiastico nel Medioevo che per l’età moderna: vedi Medieval Purity and Piety: Essays on Medieval Clerical Celibacy and Religious Reform, edit by M. Frassetto, New York 1998; L. Wertheimer, Children of Disorder: Clerical Parentage, Illegitimacy, and Reform in the Middle Ages, in «Journal of the History of Sexuality», 15, 2006, pp. 382-407. Per i matrimoni dei preti sardi, Marongiu, Unioni, passim; per il concubinato del clero nel regno di Napoli, R. Zarro, Note sul tribunale criminale vescovile della diocesi di Telese (1579-1699), in «Campania Sacra», 25, 1994, pp. 45-54, e A. Valerio, Donne e celibato ecclesiastico: le concubine del clero, in Donne e religione a Napoli. Secoli XVI-XVIII, a cura di G. Galasso e A. Valerio, Napoli 2001, pp. 67-90; per Pisa, Luperini, Il gioco, p. 407; per Monreale, Pizzolato, Ordinarie trasgressioni, p. 241. Per il Quattrocento, vedi almeno E. Peverada, La visita pastorale del vescovo Francesco Dal Legname a Ferrara (1447-1450), Ferrara 1982, passim; per la tolleranza verso gli abusi del clero, Nubola, Conoscere, pp. 367-78; M. Mancino, Giustizia penale ecclesiastica e Controriforma. Uno sguardo sul tribunale criminale arcivescovile di Napoli, in «Campania Sacra», 23, 1992, pp. 201-228; L. Turchi, Adulterio, onere della prova e testimonianza. In margine a un processo correggese di età tridentina, in Tragressioni, a cura di Seidel Menchi e Quaglioni, pp. 305-350. 22 Vedi Nubola, ivi, pp. 432-442, e Luperini, La promessa, pp. 391-393.

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Nella stessa Milano di Carlo Borromeo, governata dal santo con una severità inusitata, poco gradita alle autorità romane e ancor meno familiare a buona parte della Chiesa italiana di quegli anni, le difficoltà sono palesi. Se è vero che si conservano numerose liste di fedeli che avevano omesso di soddisfare il precetto pasquale (inconfessi, nel linguaggio ecclesiastico del tempo), non ne sono rimaste per i concubini, malgrado le precise direttive trasmesse al riguardo ai parroci. Anche per il più determinato e severo pastore italiano di quegli anni, stanare le coppie di fatto era problematico23. D’altra parte, anche a Pisa, dove la repressione entra nel vivo abbastanza presto, e a Monreale, dove la lotta al concubinato si afferma nel corso del Seicento, pesano più le delazioni e le inimicizie legate ad altri motivi che un’intolleranza specifica o precisi piani d’azione delle autorità diocesane24. Solo il coinvolgimento delle donne maritate sembra calamitare l’interesse dei giudici, ecclesiastici e non, pur nella consapevolezza dei rischi gravissimi che la pubblicità di un processo poteva arrecare alla loro vita. Era il retaggio di un’attenzione molto più viva e radicata per quel delitto, su cui forse pesarono in qualche misura anche i contraccolpi della discussa costituzione sistina del 1586, che secondo alcuni giuristi prevedeva la pena capitale per tutti gli adulteri25. Poco si può dire, infine, sulla durata della caccia ecclesiastica alle coppie di fatto in Italia e ancor meno sui motivi dell’attenuazione degli interventi repressivi, nelle aree in cui è documentata. Bastino qui alcuni esempi. Mentre le punizioni si diradano a Siena nel corso della seconda metà del Seicento e a Monreale nel Settecento, a Roma ancora nel primo Ottocento guardie del Vicariato e concubini combattono una battaglia dura, senza esclusione di colpi, in cui le irruzioni domiciliari si incrociano con le abili strumentalizzazioni dei conviventi, che spesso utilizzavano le carcera23 W. de Boer, La conquista dell’anima. Fede, disciplina e ordine pubblico nella Milano della Controriforma, Torino 2004, pp. 183-196 e passim. 24 Vedi Luperini, Il gioco, pp. 392-393. 25 M. Bellabarba, I processi per adulterio nell’Archivio Diocesano Tridentino (XVII-XVIII secolo), in Trasgressioni, a cura di Seidel Menchi e Quaglioni, pp. 193-196. Per la costituzione sistina vedi A. Marchisello, «Alieni thori violatio»: l’adulterio come delitto carnale in Prospero Farinacci (1544-1618), ivi, pp. 133183.

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zioni come un’arma per ottenere senza spese dal Vicariato dispense altrimenti piuttosto costose e potersi così sposare26. Si dovrebbe allora ritenere il Sei/Settecento come la fase dell’esaurimento della spinta repressiva cinquecentesca e il prolungamento della lotta al concubinato a Roma come un dato atipico, un riflesso tra i tanti della sua identità di capitale dello Stato pontificio? Si direbbe di sì, anche se resta da spiegare come mai nella stessa città del papa, nel Cinque/Seicento, l’andamento della lotta alle famiglie di fatto sia piuttosto incerto, pur in presenza di precise direttive del Vicariato. Particolarmente evidente è il disagio dei parroci, alle prese con le macchinose procedure di individuazione e controllo degli inconfessi, che sono l’arma migliore per combattere i conviventi more uxorio. Insieme alle meretrici, essi costituiscono la sola tipologia di pubblici peccatori segnalata con monotona ripetitività negli stati d’anime (le liste nominative dei fedeli della parrocchia). Malgrado ciò, a Roma, ancora in pieno Seicento, ogni singolo parroco s’arrangia come può, sia nell’ammetterli ai sacramenti, sia nella decisione di denunciarne qualcuno ai superiori27. Insomma, anche nella capitale della cattolicità i piani d’intervento elaborati a Trento per combattere i concubini, quando si trattò di applicarli, posero a lungo il Vicariato e i responsabili di cura d’anime di fronte a difficoltà insormontabili. Individuare gli interessati era piuttosto complicato, persuaderli o costringerli a separarsi, per sempre o per un po’, ancora di più. Per tornare al panorama europeo delle coppie di fatto, sembra improponibile per l’Italia l’ipotesi che nella fascia mediterranea esse abbiano goduto in età moderna di una tolleranza sconosciuta a un’area centro-settentrionale che sarebbe stata governata dal rigorismo protestante. La repressione non mancò neppure in Italia, sia pure ostacolata da difficoltà di vario genere, e furono i tribunali ve26 Per Siena e Monreale, vedi rispettivamente Di Simplicio, Peccato, p. 188 e Le perpetue (per gli ecclesiastici), pp. 404-405; Pizzolato, Ordinarie trasgressioni, p. 256; per Roma, Pelaja, Matrimonio e sessualità, pp. 129-130 e, della stessa autrice, La Chiesa e i concubini (Roma, secolo XIX), in Amori e trasgressioni. Rapporti di coppia tra ’800 e ’900, a cura di A. Pasi Testa e P. Sorcinelli, Bari 1995, pp. 165-188. 27 È quanto si ricava con ampiezza di dati da Sbrana e Traina, Gli «Stati d’anime», passim.

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scovili, talvolta appoggiati da quelli statali, a garantirla. L’influenza del Concilio di Trento si fece sentire, anche se l’applicazione dei suoi decreti fu discontinua e non sempre efficace. Più di tanto però non si può dire: le ricerche compiute sono ancora poche, limitate a singole diocesi e a singoli momenti, e attente più alla vita e al radicamento delle famiglie di fatto che ai problemi istituzionali, agli atteggiamenti e alle strategie di chi le perseguitò. Ovunque, le ambiguità e i ritardi nell’azione repressiva si spiegano bene solo per quanto riguarda il concubinato degli ecclesiastici. Le Curie vescovili evitano interventi giudiziari troppo risoluti, nell’intento di difendere l’onore del clero e di tutelare l’immagine complessiva della Chiesa. Al contrario, la discontinuità delle iniziative intraprese contro i laici e i loro incerti risultati non hanno suscitato finora particolare attenzione. Né i tempi, né le procedure, né gli esiti degli interventi punitivi si rivelano omogenei, ma non si sa perché. È questo l’aspetto della questione su cui occorre riflettere di più. Alcuni elementi di debolezza dell’azione repressiva sono evidenti: la solidarietà di vicinato, la forte diffusione delle convivenze tra gli ecclesiastici che avrebbero dovuto controllare abusi praticati in prima persona, le resistenze degli interessati. Altre dimensioni del problema sono tutte da approfondire, a cominciare dall’influenza delle autorità statali e dal ruolo di indirizzo esercitato dalle più potenti Congregazioni romane. Si sconta qui la scarsità – per non dire l’inesistenza – di ricerche dedicate all’intolleranza ‘ordinaria’ della Chiesa postridentina. Un’ombra fittissima grava ad esempio sulle vigorose attività di controllo e di repressione promosse dalle Curie vescovili e dagli organismi romani che le coordinarono, in settori della vita civile tra i più disparati. Troppe generazioni di studiosi hanno identificato lo studio delle istituzioni ecclesiastiche nell’Europa della Controriforma con l’analisi dei sinodi, delle visite pastorali, dell’impegno dei parroci e dei missionari o dell’attività delle confraternite, come se la vita della Chiesa fosse incentrata esclusivamente sulle dimensioni spirituali e l’intolleranza religiosa fosse confinata nello spazio inquisitoriale28. 28 Un accurato bilancio critico degli studi sul cattolicesimo italiano della prima età moderna è lo specchio limpido di questa impostazione tradizionale, largamente insoddisfacente: è il libro di Ch.F. Black, Church, Religion and Society in Early Modern Italy, New York 2004. Un primo approfondimento nella dire-

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In questo orizzonte, grazie ad alcune recenti ricerche, un importante elemento di novità si sta imponendo all’attenzione di chi studia il tardo Cinquecento. Esso si può sintetizzare così: negli anni immediatamente successivi alla conclusione del Concilio di Trento, la Curia romana ha concentrato sull’Italia l’attività di alcuni dei più influenti dicasteri ‘universali’ nati nel corso del secolo. E se per la Congregazione dell’Indice questa delimitazione è stata il frutto delle forti resistenze incontrate, in altri casi – penso al Sant’Ufficio, ma soprattutto all’imponente azione di coordinamento e controllo della vita religiosa quotidiana svolta dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari – si è trattato soprattutto, per quanto finora risulta, di una scelta consapevole29. Bisogna allora domandarsi se la forte attenzione di autorevoli istituzioni universali per l’Italia interferì in qualche modo con il trattamento del concubinato, e in particolare se sistemi di controllo locali a prima vista così discontinui fossero il riflesso del disinteresse romano per una questione ritenuta di rilievo minore o, al contrario, il frutto di un’attenta regia centrale. Spicca, in particolare, il ruolo esercitato dall’Inquisizione romana e dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari. Fu grazie ai loro ripetuti interventi che molti degli schemi del Concilio furono aggiornati e adeguati zione indicata nel testo è nel recente saggio di E. Brambilla, La giustizia intollerante. Inquisizione e tribunali confessionali in Europa (secoli IV-XVIII), Roma 2006. 29 Vedi almeno, per la Congregazione dell’Indice, G. Fragnito, Diplomazia pontificia e censura ecclesiastica durante il regno di Enrico IV, in «Rinascimento», II s. 42, 2002, pp. 143-167 ed Ead., Per una geografia delle traduzioni bibliche nell’Europa moderna (sedicesimo e diciassettesimo secolo), in Papes, princes et savants dans l’Europe moderne. Mélanges à la mémoire de Bruno Neveu, réunis par J.-L. Quantin e J.-Cl. Waquet, Genève 2007, pp. 51-77. Per il Sant’Ufficio, vedi il mio lavoro L’Inquisizione nell’Italia moderna, Roma-Bari 20063, ma anche una relazione, in corso di stampa, da me presentata a Roma nel febbraio del 2006 al Convegno internazionale su I domenicani e l’Inquisizione romana, sul tema Inquisitori domenicani e streghe in Italia tra la metà del Cinquecento e i primi decenni del Seicento; per la Congregazione dei Vescovi e Regolari, Id., La Congregazione dei Vescovi e Regolari e i visitatori apostolici nell’Italia post-tridentina: un primo bilancio, in Per il Cinquecento religioso italiano. Clero, cultura, società, a cura di M. Sangalli, Atti del Convegno internazionale di studi, Siena 27-30 giugno 2001, II, Roma 2003, pp. 607-614 (e la bibliografia citata) e Confesseurs et inquisiteurs dans l’Italie moderne: un bilan, in «Revue de l’histoire des religions», 220/2, 2003, pp. 153-165.

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alle esigenze di governo dell’Italia. Ne risentì da svariati punti di vista anche la repressione delle coppie di fatto. Vediamo come. 6. Di sessualità i padri tridentini avevano discusso attentamente, sia in funzione della travagliata riforma matrimoniale che attribuì un ruolo decisivo al parroco e alla parrocchia, sia in rapporto alla lotta agli abusi del sacramento della penitenza. Furono questioni che li divisero come poche altre, perché riguardavano aspetti della vita civile e religiosa di grande rilievo, in cui la Chiesa era ovunque in difficoltà. I matrimoni dipendevano in Europa più dalle tradizioni locali e dalle famiglie dei promessi sposi che dalle autorità ecclesiastiche. Per gli stessi motivi, la sessualità, complessivamente considerata, era l’ambito dell’esperienza che insieme alle faide spingeva più frequentemente i fedeli a stare alla larga da confessione e comunione o a strumentalizzarle con disinvoltura. Proprio i concubini, si osservò, erano, insieme agli usurai, i peccatori pubblici più abituati ad aggirare lo sgradito ostacolo del precetto pasquale con finti pentimenti o con confessioni mendaci, per poi riprendere tranquillamente le pratiche proibite. Anche per quelle ragioni trovare soluzioni equilibrate ed efficaci non fu semplice. Ad esempio, mentre l’enfasi sul ruolo della Chiesa nella celebrazione e nella convalida dei matrimoni aprì la strada a una duratura egemonia dei tribunali ecclesiastici nel contenzioso che ne scaturì, non fu regolamentato il passaggio cruciale del fidanzamento, che continuò a lungo a essere fonte di tensioni tra i giovani, le famiglie interessate e i vescovi30. Allo stesso modo, per quanto riguarda le unioni di fatto, s’imposero nel 1563 due scelte di segno piuttosto diverso. Mentre si rinunciò ad affidare all’Inquisizione, come sospetti d’eresia, i concubini ostinati, fu decisamente inasprito e reso più severo per le donne lo schema d’intervento predisposto nel 1547 per rispondere agli abusi ‘penitenziali’ dei conviventi, considerati i più diffusi, insieme a quelli degli usurai. Il modello approvato in precedenza prevedeva di ammetterli alla comunione tutti, senza differenze, dopo sei mesi 30 Vedi almeno, oltre alla classica ricostruzione di H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, IV-2, Brescia 1981, pp. 139-173, gli ampi riferimenti contenuti nelle monografie segnalate supra, note 19 e 20.

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di astinenza dai comportamenti proibiti; per le coppie di concubini, inoltre, non c’erano distinzioni di genere31. Al contrario, il nuovo provvedimento del 1563, oltre ad introdurre la procedibilità d’ufficio contro adulteri e conviventi, stabilisce, come si è accennato, una netta differenziazione di genere nelle condanne. Ai maschi, pur confermando implicitamente che sono i principali responsabili dell’abuso (decidono loro di ‘tenere’ le concubine), consente una facile via d’uscita: se vogliono essere assolti, è sufficiente che allontanino le compagne. Inoltre, in caso di ostinazione e di scomunica, si lascia loro un anno di tempo per riflettere, prima di procedere ad iniziative giudiziarie. Invece, le donne che accondiscendono alle voglie degli uomini pagano un prezzo assai alto per lo stesso peccato/delitto: se rifiutano di obbedire alle ammonizioni che precedono la scomunica, possono essere espulse subito dalla città o dalla diocesi. Per eseguire il provvedimento, i vescovi sono autorizzati, in caso di necessità, a chiedere il sostegno del braccio secolare32. Così, a distanza di tanti anni dai primi piani d’intervento, i padri tridentini optavano per un trattamento delle convivenze piuttosto severo, nettamente sbilanciato in senso repressivo. Gli spazi di mediazione di parroci e confessori erano circoscritti agli ‘avvertimenti’ che precedevano la scomunica vera e propria, le dinamiche di coscienza erano ridimensionate, inserite com’erano in una procedura di esclusione. Anche il possibile coinvolgimento del Sant’Ufficio, a ben guardare, non era risolto definitivamente. Certo, le coppie ostinate, in quanto tali, non avrebbero più dovuto temerne i fulmini. Una volta scomunicate, però, avevano un anno di tempo per recedere dalla convivenza e farsi assolvere. Se entro quel termine non regolarizzavano la propria posizione, gli inquisitori potevano aprire indagini sul loro conto: lo consentivano le disposizioni generali del Concilio sulle scomuniche33. Infine, se si riflette sulla criminalizzazione mirata delle donne, il solo partner punibile con l’espul31 Concilium Tridentinum. Diariorum, Actorum, Epistularum, Tractatuum. Nova Collectio, VI/1, Friburgi Brisgoviae 1970, p. 406. 32 Conciliorum Oecumenicorum, a cura di Alberigo, Joannou, Leonardi e Prodi, Decreta, pp. 734-735. 33 Ivi, p. 762.

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sione immediata in caso di resistenza, il quadro è chiaro: malgrado la parziale rinuncia allo strumento inquisitoriale, lo schema d’intervento approntato nel 1563 forniva ai vescovi strumenti punitivi nuovi e di una certa efficacia per distruggere le famiglie di fatto. Tuttavia, nei decenni immediatamente successivi, come si è accennato, una forte spinta centralizzatrice modificò in profondità le strategie di governo della vita religiosa in Italia. Esigenze in senso lato politiche ebbero il sopravvento sulle regole: fu grazie a quella scelta che la lotta al concubinato assunse in Italia una flessibilità inconciliabile con i modelli tridentini. 7. In base alle decisioni conciliari del 1563, i conviventi more uxorio ostinati, restii a separarsi anche dopo la scomunica, continuavano a rischiare, in quanto tali, un processo per eresia, come tutti gli scomunicati che avessero ignorato per almeno un anno il provvedimento di esclusione dalla comunità (insordescenti, nel gergo canonistico). Ignorare un provvedimento ordinario emanato dai vescovi poteva avere insomma conseguenze molto più gravi: si finiva davanti a un tribunale dell’Inquisizione, come le streghe e i luterani. Era la stessa logica che di lì a poco avrebbe esposto ai rigori del Sant’Ufficio i bigami e i sacerdoti che adescavano le donne mentre le confessavano: entrambi sospettati pregiudizialmente, per quelle scelte, di nutrire convincimenti eterodossi sui sacramenti del matrimonio e della penitenza34. Allo stesso modo, alla base della norma tridentina sugli insordescenti c’era il presupposto che vivere così a lungo esclusi dalla comunità, adagiarsi nella scomunica subìta, potesse dipendere da un’incerta adesione all’ortodossia. Tra l’altro, prima che il Concilio chiudesse i battenti, nel corso del pontificato dell’inflessibile Paolo IV, agli inquisitori generali era effettivamente capitato di essere chiamati a 34 Per la bigamia, vedi P. Scaramella, Controllo e repressione ecclesiastica della poligamia a Napoli in età moderna: dalle cause matrimoniali al crimine di fede (1514-1799), in Trasgressioni, a cura di Seidel Menchi e Quaglioni, pp. 443-501; nello stesso volume, i rilievi di K. Siebenhüner, «M’ha mosso l’amore»: bigami e inquisitori nella documentazione del Sant’Uffizio romano (secolo XVII), ivi, pp. 503-533. Per l’adescamento in confessione, vedi G. Romeo, Esorcisti, confessori e sessualità femminile nell’Italia della Controriforma. A proposito di due casi modenesi del primo Seicento, Firenze 2003, pp. 163-166.

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decidere su arresti di concubine e su altri gravi abusi sessuali, sia pur in un ambito territoriale piuttosto ristretto, su istanza di ufficiali secolari operanti nel Lazio. Erano forse i contraccolpi del rigorismo del papa e della sua scelta, destinata a non avere seguito, di ritenere anche l’omosessualità e i rapporti sodomitici tra uomo e donna delitti contro la fede: dopo il 1559, con la fine del suo pontificato, non se ne troveranno più tracce35. Da quel momento, in Italia, solo bigamia e adescamento in confessione furono i comportamenti sessuali trasgressivi considerati di competenza del Sant’Ufficio. Quella rinuncia non deve far credere che l’Inquisizione romana non abbia influito sul governo postridentino del concubinato. Al contrario, il suo interesse per quella battaglia fu notevole, non inferiore all’attenzione che i cardinali del Sant’Ufficio ebbero per i problemi matrimoniali. Una prima decisione riguardò solo indirettamente i conviventi, ma ebbe riflessi importanti sulla loro vita. Era in gioco il trattamento degli insordescenti, cioè di tutti quei fedeli che, come si è già detto, esclusi dalla comunità per motivi tra i più vari, ignoravano la scomunica, persistendo, anche per molti anni nelle trasgressioni sanzionate. Bisognava procedere contro di loro, come la norma conciliare consentiva, con lo strumento inquisitoriale? Qualche vescovo ci provò, ma la Congregazione nel 1588 lo proibì, restringendo seccamente le possibilità di applicazione del dettato tridentino: da allora sarebbe stato possibile aprire un procedimento per sospetto d’eresia solo per le sco35 Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (d’ora in avanti ACDF), Stanza Storica, q 3 a, lettera del 1° aprile 1557 del luogotenente di Nepi al cardinale Alessandrino (ha catturato due concubine e chiede istruzioni) e del 10 giugno 1559 del podestà di Acquapendente allo stesso (su un caso gravissimo di incesto). Per l’Inquisizione romana e la sodomia, vedi Romeo, Esorcisti, p. 14; M. Cattaneo, “Vitio nefando” e Inquisizione romana, in Diversità e minoranze nel Settecento, a cura di M. Formica e A. Postigliola, Roma 2006, pp. 55-77; l’aggiornato bilancio storiografico contenuto nella ‘voce’ Sodomia curata da P. Scaramella per un Dizionario dell’Inquisizione in corso di stampa per i tipi della Scuola Normale Superiore di Pisa e la recente tesi di dottorato di M. Baldassari, La sodomia a Roma in età moderna: dinamiche sociali, culturali e giudiziarie (1650-1850), Università degli Studi di Roma La Sapienza, Dottorato di ricerca «Società, politica e culture dal tardo Medioevo all’età contemporanea», XIX Ciclo (il III capitolo è dedicato al rapporto tra Tribunale del Governatore e Sant’Ufficio).

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muniche emesse nel corso di una causa di fede. Fu una misura accorta, che impedì di trasferire nelle aule dei tribunali inquisitoriali un contenzioso diffusissimo, alimentato dalla rinnovata, combattiva presenza vescovile36. Su altri piani, però, il Sant’Ufficio influì direttamente e pesantemente sulla vita sessuale e matrimoniale in tutta la penisola. Si pensi alla decisione di punire come un delitto contro la fede l’abuso delle persone già sposate che sottoscrivessero promesse di matrimonio revocabili in qualsiasi momento: attestata nella prima metà del Seicento, essa è avallata dall’autorevole trattato dell’Albizzi37. Fu ancor più gravida di conseguenze la riconversione strategica degli uffici inquisitoriali italiani che, negli anni Settanta/Ottanta del Cinquecento, moltiplicò e banalizzò i bersagli del Sant’Ufficio. Il nuovo delitto di ‘proposizioni ereticali’ trasformò in sospetti dissenzienti migliaia di uomini e donne colpevoli solo di aver detto una parola di troppo in un’osteria, di aver espresso dubbi su qualche predica, di aver deriso l’uso delle scomuniche o di aver difeso scelte sessuali difformi dall’etica ufficiale della Chiesa. Così, mentre le pubbliche convivenze possono essere tollerate, talvolta anche per lunghi anni, rifiutarsi di riconoscere l’illiceità della propria condizione e il diritto di sanzione da parte della Chiesa può costare caro, perché integra gli estremi di un delitto contro la fede. Grazie a quella svolta, in Italia migliaia di eretici della porta accanto si apprestarono a dare il cambio, verso la fine del Cinquecento, agli eretici ‘veri’, ai tanti uomini di fede che in una stagione irripetibile avevano pagato col sangue il sogno di un altro cristianesimo38. 36 ACDF, Stanza storica, Decreta Sancti Officii (d’ora in avanti DSO), 1588, c. 382r, seduta del 12 ottobre 88, decreto generale contro gli insordescenti in sentenza di scomunica (l’Auditore della Camera Apostolica proceda nei loro confronti non citandoli a rispondere in qualità di sospetti eretici. Solo se ha dei dubbi li deve rimettere al Sant’Ufficio). 37 Per un caso passato al vaglio romano nel 1643, vedi ACDF, DSO, 1643, 143r, seduta di feria V del 1° ottobre (decisione di condanna del papa a proposito di un processo aperto dal vescovo di Veroli). Per gli aspetti dottrinali, vedi F. Albizzi, De Inconstantia in Iure admittenda vel non, Amstelaedami, sumptibus Ioannis Antonij Huguetan, 1683, p. 456. 38 Ho illustrato questa svolta in L’Inquisizione, pp. 29-62.

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8. Così, a pochi anni dalla chiusura del Concilio di Trento, la più potente Congregazione romana faceva gravare il peso della sua autorità anche su una questione di rilievo piuttosto modesto, cui i padri tridentini avevano dedicato solo una limitata attenzione. La politica prevaleva sulla legge, l’esigenza di adeguare le riforme conciliari ai concreti andamenti della vita religiosa e civile della penisola aveva la meglio sulla loro applicazione pura e semplice. È quanto si osserva con chiarezza anche nelle scelte della Congregazione dei Vescovi e Regolari, un dicastero nuovo, attivo solo dagli anni Settanta del Cinquecento, istituito per sovrintendere alla vita religiosa locale in ogni angolo del mondo, sia sul versante diocesano, sia su quello degli Ordini religiosi. Per l’Italia le linee d’intervento dettate da questo gruppo di cardinali furono forse ancora più influenti delle decisioni del Sant’Ufficio e, soprattutto, molto più attente al riequilibrio tra normativa generale e contesti locali. Basti pensare al destino di una parte dei provvedimenti ‘tridentini’ adottati da visitatori e vicari apostolici, su mandato del nuovo dicastero, in molte diocesi italiane in cui le norme conciliari sono lettera morta. Svariati decreti di questi delegati di alto profilo culturale e religioso, esecutori inflessibili degli ordini ricevuti, sono ammorbiditi dalla stessa Congregazione che li ha nominati: le proteste del clero, dei comuni, ma anche dei singoli colpiti dai loro interventi, trovano spesso benevola accoglienza nei vertici romani39. Nel complesso di questi scambi, intessuti di sanguigni conflitti periferici e di accorte mediazioni centrali, occupa uno spazio notevole, ovviamente, il governo della vita sessuale, e del concubinato in particolare. Insieme all’adulterio, alla prostituzione e ai rapporti prematrimoniali tra fidanzati, esso costituisce uno dei temi ricorrenti dei rapporti tra la Congregazione dei Vescovi e Regolari e i prelati italiani. La logica degli interventi romani non è univoca: abitualmente, come si accennava, l’attenta valutazione degli equilibri locali ha il sopravvento sulle norme, comprese quelle di forte rilievo strategico. In questo orizzonte, può capita39 Romeo, La Congregazione, pp. 612-614; M. Mancino, Tra autonomia e centralizzazione: la Congregazione dei Vescovi e Regolari e le licenze di confessione nell’Italia del tardo Cinquecento, in Per il Cinquecento, a cura di Sangalli, pp. 615-23 (in particolare pp. 620-623).

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re che anche cardinali autorevoli come Carlo Borromeo incassino secchi richiami da Roma. Nel 1580, nel corso della visita apostolica da lui condotta a Brescia, i colleghi della Congregazione gli ricordarono, a proposito di taluni suoi provvedimenti, che non ogni ‘fornicario’ o concubino era ipso facto uno scomunicato, che prima di passare alla linea dura bisognava cercare di dialogare e di persuadere40. Allo stesso modo, si cercò di temperare gli eccessi di zelo di altri prelati: dall’obbligo di denunciare i casi di concubinato, previsto dal sinodo siracusano del 1597 e ritenuto pericoloso da gentiluomini e popolo della città, in particolare quando erano coinvolte donne maritate, alla sconfessione del patriarca di Venezia, cui si ordinò di consentire la sepoltura in terra consacrata di un presunto convivente, richiesta invano per due anni dai parenti41. Non mancarono, però, richiami all’unità d’intenti tra i responsabili di diocesi contigue42, sollecitazioni a prelati indolenti43, interventi sui confessori degli Ordini religiosi che assolvevano chiunque, rendendo inutili i controlli vescovili su concubini e inconfessi44. Inoltre, un vero e proprio invito alla caccia ai conviventi, che meriterebbe più accurati riscontri, è diramato nel 1601 dalla Congregazione ai vescovi di un’ampia area dello Stato pontificio, a seguito di segnalazioni inoltrate personalmente a Clemente VIII. 40 Archivio Segreto Vaticano (d’ora in avanti ASV), Congregazione dei Vescovi e Regolari (d’ora in avanti CVR), Registra Episcoporum (d’ora in avanti RE), 6, c. 17r, lettera del 13 dicembre 1580. 41 Per Siracusa vedi ASV, CVR, Positiones (d’ora in avanti POS), 1597, R-S, esposto del 13 aprile a nome dei gentiluomini e del popolo della città; per Venezia, ASV, CVR, RE 15, c. 210r-v, 6 settembre 1588 (lettera al patriarca di Venezia). 42 Vedi la lettera spedita il 20 marzo 1596 all’arcivescovo di Capua, che, come metropolita, su istanza dei concubini scomunicati nella vicina diocesi di Caiazzo, annullava i provvedimenti del collega, vanificandone l’impegno (ASV, CVR, RE, 28, cc. 50v-51r). 43 È il caso dell’aspro rimprovero indirizzato il 10 febbraio 1599 al vescovo di Alessano (tollerava da tempo, malgrado gli ordini romani, una concubina scacciata dalla vicina diocesi di Ugento e riparata nel suo territorio: vedi ASV, CVR, RE, 32, c. 7r). 44 Capitò a Teano nel 1579: vedi ASV, CVR, POS, 1579, dossier aperto da una lettera del 18 aprile di quell’anno del vescovo di Teano al cardinale Marco Antonio Maffei.

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Esso raggiunge l’arcivescovo di Urbino, diocesi cui si riferisce la denuncia, ma è subito tramutato in una vera e propria circolare, indirizzata ai titolari di un gruppo di vescovati vicini. In condizioni particolari, insomma, anche una questione che di solito non preoccupa più di tanto i vertici romani, può metterli in allarme45. Va ricordata, infine, una distinzione importante: le convivenze prematrimoniali tra fidanzati, diffusissime in Italia, autorizzate dalle famiglie dopo la firma dei capitoli davanti al notaio, pur combattute ovunque dalla Chiesa, in questi anni non sono punite abitualmente con la scomunica, come capita nei casi di concubinato vero e proprio. La risposta più comune è l’irrogazione di sanzioni pecuniarie proporzionali al reddito degli interessati. Le comunità locali le vedono come il fumo negli occhi e se ne dolgono spesso con la Congregazione, ma ottengono solo una diminuzione degli importi delle multe: anche Roma conviene sull’opportunità di punizioni meno severe della scomunica. Sono comportamenti da condannare, ma non hanno la stessa gravità delle convivenze a tempo indeterminato46. Il senso di questi provvedimenti si comprende meglio se si esaminano le decisioni adottate dalla stessa Congregazione in margine ai casi locali di adulterio e usura, peccati/delitti più gravi, nei quali però l’eccesso di zelo di vescovi e prelati locali non è gradito alle autorità romane. Per l’adulterio esse procedono coi piedi di piombo: sono malviste anche le limitazioni che restringono i poteri ordinari dei confessori e obbligano le donne macchiatesi di quel peccato a farsi assolvere dai penitenzieri, i soli sacerdoti che ne hanno facoltà dal vescovo. I rischi di fare pubblicità a una trasgressione così grave e di spingere i mariti traditi a farsi giustizia da soli sono altissimi47. Per l’usura si va molto oltre nella cautela. Non solo si preferiscono le riservate mediazioni nel foro della co45 ASV, CVR, RE, 34, c. 148r, 27 marzo 1601, all’arcivescovo di Urbino e poi anche ai vescovi di Gubbio, Cagli, Fossombrone, Pesaro, Montefeltro, Senigallia. 46 ASV, CVR, RE, 33, c. 89r, 21 agosto 1600, lettera al vescovo di Lecce (i limiti pecuniari sono già fissati, non esageri); ASV, CVR, POS, P-T, 1602, dossier aperto il 4 settembre 1602 da un reclamo del Monte di Pietà di Taranto, che era destinatario di quei proventi. 47 ASV, CVR, POS, 1577, lettera del 23 marzo 1577 del vescovo di Gubbio al cardinale Maffei.

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scienza al ricorso alla giustizia vescovile48, ma nei casi dubbi si avocano le decisioni a Roma. Capitò così nel 1579 in merito a un processo aperto dal vescovo di Recanati contro un uomo sospettato sia di concubinato, sia di usura: proscioglimento immediato dal primo addebito, ovviamente dopo la separazione dalla convivente, invio della documentazione a Roma, per un esame più attento del secondo49. Molto dipende, però, dagli interessi delle istituzioni ecclesiastiche, dall’esigenza di tutelarle da indebite ingerenze delle autorità secolari. Nelle terre del papa re, ad esempio, nel 1588 è Sisto V in persona a mostrarsi pronto ad accogliere un ricorso della Provincia della Marca contro l’eccessivo attivismo giudiziario del vescovo di Osimo in tutti i casi di adulterio, anche in quelli in cui gli statuti locali prevedevano il ricorso alle autorità secolari50. Dove le sue istituzioni non ne ricevono danno, la Chiesa cerca di evitare sovraesposizioni giudiziarie dei vescovi: il loro ruolo pastorale potrebbe esserne offuscato. Al contrario, dove i conflitti giurisdizionali sono vivacissimi, come nell’Italia spagnola, l’attivismo dei giudici diocesani sul delicato fronte degli abusi sessuali, e negli stessi casi di adulterio, è un segno di vitalità da non scoraggiare. La sfilza di penitenze infamanti inflitte nell’estate del 1574 ad Alessandria, città dello Stato di Milano, quasi soltanto alle adultere (rasate a zero, con la testa coperta da un coperchio d’orinale, esposte la domenica mattina allo sguardo dei fedeli che andavano a messa) e, più raramente, a coppie di concubini recidivi (costretti a rimanere più volte vestiti di sacco in chiesa, durante la messa domenicale) è come un reperto che fa bella mostra di sé nell’Archivio della Congregazione. A quest’ultima fu spedita come solida prova delle competenze del foro vescovile locale, esercitate per lunghi anni senza rimostranze delle autorità secolari. Non risulta che i cardinali abbiano avuto qualcosa da ridire su pene così gravi, che in altri contesti sono invece valutate con severità. Quando 48 ASV, CVR, POS, 1578, A-P, dossier aperto da una lettera del vescovo di Chiusi al cardinale Maffei del 25 maggio 1578. 49 ASV, CVR, RE, 5, c. 5v, 1° dicembre 1579, lettera al vescovo o al vicario generale di Recanati. 50 ASV, CVR, RE, 15, c. 96r, 26 aprile 1588, lettera al vescovo di Osimo.

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c’erano da difendere gli interessi delle istituzioni della Chiesa, le regole potevano essere tranquillamente ignorate, scelte così gravi erano avallate senza difficoltà: in quei casi la vita e l’onore delle donne valevano davvero molto poco51. 9. Possiamo ora ritornare al blitz napoletano del 1596, alla distruzione della famiglia di fatto di un sacerdote intelligente e squattrinato, che per sbarcare il lunario s’arrangiava anche con scongiuri e magie. Per don Colangelo, Perna e Tarquinia, fino a quel momento, tutto era filato liscio, malgrado i decreti conciliari, l’attivismo dell’Inquisizione, gli obblighi dei parroci. Per metterli nei guai c’era voluta la vendetta di un prete sconosciuto, tra l’altro non irreprensibile. Il delatore, inoltre, aveva scommesso più sulla negromanzia che sul concubinato, e aveva visto giusto, se è vero che al centro dei successivi processi intentati a don Colangelo furono ancora una volta gli addebiti magici, di competenza inquisitoriale, non le sospette presenze femminili, abuso quest’ultimo su cui per i preti si chiudeva un occhio. A Napoli, insomma, ad oltre trent’anni dalla chiusura del Concilio di Trento, la convivenza era un’esperienza praticabile dagli stessi sacerdoti senza particolari rischi. In sé, non è un dato sorprendente: si è visto che nella stessa Roma, ancora in pieno Seicento, i meccanismi di controllo delle coppie di fatto sono lenti e incerti. Eppure da tempo la Curia romana guardava al regno di Napoli e alla sua capitale con viva preoccupazione. Nei decenni centrali del Cinquecento Napoli era stata una delle città italiane più sensibili al richiamo del dissenso religioso, dalla scuola di Valdés ai cuoiai della zona del Mercato affascinati dalle prediche di Bernardino Ochino, dal marchese di Vico ai tanti prelati ed ecclesiastici che proprio a Napoli avevano maturato l’abbandono dell’ortodossia. Inoltre, l’impossibilità di far accettare ai napoletani la presenza di inquisitori delegati con pieni poteri dai cardinali del51 ASV, CVR, POS, 1578, A-P, dossier trasmesso il 21 novembre 1578 dal vicario generale di Alessandria (contiene una nutrita lista di condanne inflitte a laici dalla Curia vescovile locale per delitti di foro misto, in piena autonomia, senza ricorso al braccio secolare, tra il 1572 e il 1578; in essa spiccano proprio le pene infamanti alle adultere ricordate nel testo).

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la Congregazione, come succedeva nel resto d’Italia, costituì a lungo un motivo di cruccio dei vertici romani del Sant’Ufficio52. Altri ostacoli non trascurabili erano rappresentati dallo zelo di autorità statali che per alcuni decenni avevano fornito ben più che il braccio secolare a un Sant’Ufficio localmente inefficiente, fedeli interpreti dello spirito della Spagna di Filippo II53, dal sovraffollamento della città, dalla natura riottosa dei suoi abitanti, maestri nelle false testimonianze e nelle delazioni. In quelle condizioni, ogni iniziativa di controllo era oltremodo faticosa. A fronte di una situazione così difficile, quasi ingovernabile, una sola, preziosa arma supplementare era a disposizione della Curia arcivescovile: nella capitale affari inquisitoriali e abusi ordinari erano concentrati nelle stesse mani, in quelle dei suoi giudici. Un assetto pressoché unico in Italia, un’occasione preziosa per il controllo del concubinato, degli altri disordini sessuali e delle idee proibite che spesso li sorreggevano: gli ufficiali che guidavano il foro criminale e collaboravano alla buona riuscita dei sinodi e delle visite pastorali erano anche i responsabili del Sant’Ufficio. Mentre nell’Italia del Centro-Nord quelle competenze erano divise tra vescovi e inquisitori che per lo più si guardavano in cagnesco e nel resto del regno gli apparati diocesani erano abitualmente più deboli, a Napoli una Curia arcivescovile ben organizzata poteva fruttuosamente coordinare entrambi i livelli repressivi: l’intercettazione dei conviventi e la punizione degli ‘ideologi’ della convivenza e degli altri disordini sessuali. Inizialmente, però, sul fronte della lotta al concubinato gli ostacoli si rivelarono più forti dello zelo. Anche i dettagli del blitz 52 La centralità di Napoli nel dissenso religioso italiano è stata ribadita negli ultimi anni dalle fondamentali ricerche di Massimo Firpo: vedi almeno Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (15091580) e il suo processo d’eresia, Brescia 2005 e Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento. Un profilo storico, Roma-Bari 20087. Quanto all’atipico assetto dell’Inquisizione napoletana, vedi G. Romeo, Una città, due Inquisizioni. L’anomalia del Sant’Ufficio a Napoli nel tardo ’500, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 24, 1988, pp. 42-67. 53 Vedi G. Romeo, L’Inquisizione a Napoli e nel Regno di Napoli nell’età di Filippo II: un bilancio, in Filippo II e il Mediterraneo, a cura di L. Lotti e R. Villari, Atti del Convegno Internazionale, Barcellona 23-27 novembre 1998, Roma 2-4 dicembre 1998, Roma-Bari 2004, pp. 629-640.

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del 1596 e dei processi successivi a don Colangelo fanno pensare che in città qualcosa non fosse andato per il verso giusto: l’indisturbata convivenza decennale di quella coppia proibita, la tolleranza, certo poco tridentina, manifestata nel 1596 nei confronti della donna, lasciata andare senza complicazioni dalle guardie della Curia arcivescovile, il disinteresse per la ‘mamma’ e le altre presenze femminili negli incidenti giudiziari del 1599 e del 1603. Alcune domande allora sono d’obbligo: perché nella più popolosa città d’Italia, in una metropoli sorvegliata con tanta premura dalla Chiesa, un prete e la sua famiglia di fatto avevano potuto tirare avanti senza fastidi per tanto tempo? C’entrava soltanto la difesa esasperata dell’onore del clero? Che ne era stato, in città, della lotta ai concubini, ad oltre trent’anni dalla conclusione del Concilio di Trento? Chi, da quando e con quali risultati la stava combattendo?

II LE FAMIGLIE DI FATTO NEI CONFLITTI TRA STATO E CHIESA (1569-1600)

1. Si sa poco della vita religiosa nella Napoli del primo Cinquecento. Le indicazioni più importanti risalgono agli anni della svolta tridentina e vanno perciò valutate con cautela. Forse, però, le sue linee essenziali erano quelle caratteristiche dell’Italia tardomedievale: l’anno liturgico gravitante attorno alla Pasqua, il tempo misurato non in base al calendario e all’orologio, ma alle cesure e alle cadenze imposte dalla Chiesa, l’ampio spazio occupato dai rituali della religione civica, il grande rilievo attribuito alle figure di Cristo, della Madonna e dei santi, nonché alle immagini sacre e alle reliquie, l’egemonia degli Ordini religiosi nella confessione e nella predicazione. Inoltre, l’organizzazione dei riti di passaggio – battesimi, matrimoni, avvicinamento alla morte – era nelle mani della famiglia, non della Chiesa1. A questi elementi se ne possono aggiungere altri, ben attestati a Napoli come in tutta la penisola. Una radicata diffusione delle pratiche magico-diaboliche, dai sortilegi amorosi alle più raffinate elaborazioni colte, caratterizza la vita quotidiana. Culto dei santi, processioni e devozionismo diffuso convivono senza difficoltà con le fatture, le invocazioni al diavolo, i voli notturni delle streghe che vanno al sabba. Ancora, la scarsissima propensione a confessarsi e l’elusione della confessione annuale di precetto in parrocchia, aggirata abitualmente grazie al ricorso a frati e preti sco1 È il quadro convincente tracciato da O. Niccoli, La vita religiosa nell’Italia moderna. Secoli XV-XVIII, Roma 1998, pp. 13-90.

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nosciuti: essa è presente ovunque in Italia, è documentata con particolare ricchezza proprio a Napoli e nel regno, sin dagli anni Venti del Cinquecento, e resterà viva a lungo, malgrado le strategie avvolgenti della Chiesa. Infine, un dato acquisito da poco, che meriterebbe ricerche sistematiche. La parrocchia, un’istituzione che sarà ampiamente coinvolta nella lotta alle coppie di fatto, occupa nella prima metà del secolo uno spazio piuttosto limitato nell’esperienza religiosa dei napoletani: è ricordata solo per la distribuzione di caraffe di greco a S. Martino e di candele benedette nel giorno della Candelora, per le cerimonie della settimana santa (benedizione delle case e di cibi pasquali, apposizione di croci), per la comunione di precetto, ma non per la confessione che la precedeva, praticata di solito nelle celle di frati e monaci. Nei battesimi e nei matrimoni i parroci contano pochissimo, nella predicazione è come se non ci fossero, nell’assistenza spirituale ai moribondi sono fortemente osteggiati dai familiari, come quasi tutti gli uomini di Chiesa. Anche nella cura delle esequie e delle sepolture i loro diritti sono pesantemente messi in discussione da Ordini religiosi, confraternite e gruppi di ecclesiastici secolari2. 2. È questo l’orizzonte in cui si devono collocare gli incerti inizi della lotta al concubinato nella Napoli del Cinquecento: una Chiesa istituzionale largamente inadeguata ai suoi compiti, una vita religiosa intensa e appassionata, ma circoscritta a pochi momenti dell’anno liturgico e sensibilmente condizionata dai laici, i passaggi fondamentali dell’esistenza controllati dalle famiglie più che dagli ecclesiastici, una credulità diffusa nella magia. In una situazione così difficile, non risulta che i decreti tridentini del 1563 sulle coppie di fatto abbiano avuto nell’immediato un qualche rilievo. Oltre tutto, non li recepì neppure il primo sinodo postri2 Per la pratica della confessione a Napoli e nel regno nel primo Cinquecento, vedi G. Romeo, Ricerche su confessione dei peccati e Inquisizione nella Napoli del Cinquecento, Napoli 1997, pp. 15-25. Un’ottima ricostruzione della storia del sacramento nell’Europa del Cinquecento è in R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra Medioevo ed età moderna, Bologna 2002. Gli altri rilievi sono il frutto di ricerche ancora in corso su un gruppo di processi civili ritrovati recentemente in ASDN.

II. Le famiglie di fatto nei conflitti tra Stato e Chiesa (1569-1600)

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dentino celebrato a Napoli, quello del 1565: un’assemblea affollata e animata, un vero e proprio evento, molto ben raccontato nel testo a stampa, vivacissimo e sanguigno. Nel trambusto di giornate così intense, i padri sinodali napoletani trovarono solo il tempo per un richiamo al concubinato degli ecclesiastici3. È ancor più improbabile, d’altra parte, che qualche iniziativa di contenimento delle convivenze fosse stata intrapresa a Napoli e nel regno nel Quattro/Cinquecento. La sola azione di disturbo finora nota risale al 1447 e riguarda la tassazione delle concubine dei preti, documentata in Calabria e Abruzzo4. Al contrario, non sono affiorate tracce dell’applicazione del divieto sancito nel 1514 dal Lateranense V. Langue il governo spirituale dell’intera diocesi, poco o nulla si sa della presenza e delle attività di arcivescovi e vicari generali, anche se il tribunale diocesano funziona, soprattutto nel ramo civile e matrimoniale5. Per il resto, si direbbe che la curia utilizzi le poche energie disponibili nella lotta all’eresia e nella riqualificazione del clero, anche se queste iniziative si svolgono sotto lo stretto controllo delle autorità romane6. La visita pastorale effettuata nel 1542 dall’arcivescovo Francesco Carafa, per quanto se ne sa la prima che si svolgeva in diocesi da secoli, è un buon esempio di questi limiti. Essa fu solo una verifica dell’assetto della Chiesa napoletana, attenta quasi esclusivamente agli aspetti istituzionali e amministrativi. Allo stesso modo, i controlli che un’iniziativa dell’arcivescovo-papa 3 Acta et Decreta Synodi Neapolitanae, Neapoli, impensis Anelli Sanviti apud Antonium Boccolum, 1568, passim. 4 Vedi G. Paladino, Alcune notizie sul concubinato degli ecclesiastici nel Regno di Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», 35, 1910, pp. 670-696. Qualche accenno al concubinato nel regno tra XI e XIII secolo è in A. Marongiu, Studi storici sulla famiglia nell’Italia meridionale, Tolentino 1940, pp. 69-76. 5 Lo hanno messo bene in evidenza le ricerche di Pierroberto Scaramella. Ad esempio, per il fondo Acta civilia, tra il 1473 e il 1563 sono stati finora schedati 1496 procedimenti. Per la bigamia e le cause matrimoniali vedi Scaramella, Controllo, e Id., insieme a U. Parente, I processi matrimoniali napoletani (secoli XVI-XVII), in I tribunali del matrimonio (secoli XV-XVIII), a cura di S. Seidel Menchi e D. Quaglioni, Bologna 2006, pp. 163-188. 6 Per la debole presenza locale dell’Inquisizione nell’Italia di questi anni vedi G. Romeo, Note sull’Inquisizione romana tra il 1557 e il 1561, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 36, 2000, pp. 115-141.

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Giampietro Carafa cercò di imporre al clero napoletano nel 1557 rivelarono scenari impietosi di ignoranza e di inadeguatezza al ruolo, gli stessi che tra il 1565 e il 1568 la visita apostolica di Tommaso Orfini avrebbe verificato in tutto il regno7. Non sorprende perciò che un’isolata testimonianza del 1549 sia per lunghi anni la sola traccia residua di un interesse giudiziario della Curia arcivescovile napoletana per vicende di concubinato. I sospetti riguardano un prete calabrese che vive nella popolarissima piazza del Lavinaro. Un uomo lo denuncia per averlo prima convinto a sposare una donna e poi espropriato dei suoi diritti coniugali, con minacce di morte. Ma ai giudici diocesani bastano un paio di giorni per scagionare il sacerdote8. Ovviamente, la Curia sapeva molto bene che, soprattutto in città, di coppie di fatto ce n’erano a bizzeffe, sia perché le scelte matrimoniali, egemonizzate dalle famiglie, erano soggette più agli usi locali che alle leggi dello Stato e della Chiesa, sia per i disordini legati all’esercizio della prostituzione, diffusissima in una metropoli come Napoli. Era implicito, inoltre, se non altro per una questione di numeri, che le convivenze proibite riguardassero soprattutto i laici, non il clero. Sicché qualsiasi intervento del tribunale arcivescovile che intendesse sindacarne i modi di vita doveva fare i conti con la giustizia secolare, che su di essi rivendicava competenze esclusive, con la sola eccezione dell’eresia. È quantomeno dubbio, però, che a Napoli verso la metà del Cinquecento le autorità diocesane avessero l’intenzione e la possibilità di colpire i conviventi laici. Non c’erano solo carenze di 7 La visita del 1542 si può consultare nell’ottima edizione critica curata da A. Illibato, cui si deve anche una solida introduzione al documento: Il «Liber Visitationis» di Francesco Carafa nella diocesi di Napoli, Roma 1983; per le verifiche di metà Cinquecento vedi: R. De Maio, Alfonso Carafa Cardinale di Napoli (15401565), Città del Vaticano 1961, pp. 157-159, nonché l’aggiornata ricostruzione di Mancino, Licentia confitendi, pp. 28-29. Per l’Orfini, vedi P. Villani, La visita apostolica di Tommaso Orfini nel regno di Napoli (1565-1568). Documenti per la storia dell’applicazione del Concilio di Trento, in «Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea», 8, 1956, pp. 3-79. 8 ASDN, Denunce di concubinato (d’ora in avanti Conc o Conc, Miscellanee, se si tratta di manoscritti reperiti tra le Miscellanee giudiziarie dell’Archivio, nei lavori di riordinamento in corso nei suoi depositi), 121, inchiesta aperta il 15 aprile sul conto di don Urbano cosentino.

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uomini e mezzi. Pesava anche la tradizionale tolleranza verso il concubinato, la consapevolezza che non si trattava di una trasgressione grave. Una traccia precisa di questa sensibilità viene da una testimonianza del 1554. Si chiude nell’aprile di quell’anno una causa matrimoniale attivata da una delle tante spose bambine della città. Persia Calabrese aveva dieci anni, quando nel 1549, nonostante la sua disperata opposizione, era stata maritata di forza, per le insistenze della madre. Nel 1551, esasperata dalle continue attività sessuali cui era costretta dall’uomo, chiese l’annullamento del matrimonio. Alcuni testimoni confermarono la sua versione, ma quando la ragazzina dichiarò che un mercante bergamasco ‘se la teneva’ come concubina e che quel sostegno le era necessario per non morire di fame, il giorno dopo il vicario generale emanò una sentenza a dir poco sorprendente: visto il suo adulterio, e quindi la colpevole violazione del vincolo coniugale, le si accordava la separazione, non l’annullamento. Era una specie di condanna trasversale, che dimenticava la trave e si soffermava sulla pagliuzza. Riconoscendole soltanto il diritto di sfuggire alle voglie del marito, il prelato negava la possibilità di rifarsi una vita alla luce del sole a una sposa bambina, contraente di un matrimonio con ogni evidenza nullo: in qualche modo si doveva punire la scelta, forse altrettanto forzata, del concubinato. Alla fine, però, Persia continuò, indisturbata, una convivenza tranquillamente ammessa davanti alle autorità che avrebbero potuto punirla. Cinquant’anni dopo non se la sarebbe certo cavata così9. Non diversi sono gli esiti dello spoglio dei procedimenti attivati dal foro criminale arcivescovile nel corso del Cinquecento. Quel ramo del tribunale, che svolgeva dalla fine del Quattrocento limitate attività di controllo sugli abusi degli ecclesiastici, fu potenziato e riorganizzato sin dai primi anni successivi al Concilio di Trento. Ma i contraccolpi sui concubini furono irrilevanti. Dopo una breve inchiesta del 1563 e una condanna a due anni d’esilio inflitta nel 1566 a un sacerdote già noto ai giudici per le sue ma9 ASDN, Cause matrimoniali, 1551, causa Calabrese/Spagnolo. Persia rivelò il concubinato il 19 aprile 1554 e la sentenza fu emessa dal vicario il giorno dopo.

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lefatte, bisogna aspettare il 1571 per trovare una nuova indagine contro un prete, anch’essa finita nel nulla. In quest’ultimo caso, è proprio un parroco, cioè un ecclesiastico che avrebbe dovuto stanare i conviventi, a essere sospettato di ‘tenersi’ una donna sposata, col consenso del marito. Il teatro del presunto abuso è Arzano, un piccolo centro rurale, e alla dura vita della campagna rimanda anche il compenso che sarebbe stato dato dal sacerdote all’uomo connivente: una scala per la vendemmia10. 3. Al di là di questi episodi isolati, fonti pastorali e giudiziarie convergono nel segnalare a lungo una sostanziale inattività della Chiesa, a tutti i livelli, sul fronte dei concubini della città e della diocesi, senza particolari distinzioni tra laici ed ecclesiastici. Sinodi e ispezioni vescovili, in particolare, segnano il passo per quasi tutta la seconda metà del Cinquecento. Il quadro che si ricava negli anni 1598-1599 dagli atti della visita del cardinal Gesualdo, il primo controllo postridentino che interessò tutto il territorio diocesano, non solo l’affollata metropoli, è chiarissimo. Negli anni precedenti la città era cresciuta vertiginosamente: contava addirittura 480.000 abitanti, secondo la stima iperbolica di un canonico della Cattedrale, ma almeno 270.000, secondo una valutazione più attendibile espressa nel 1594 dall’arcivescovo Di Capua11. 10 ASDN, Conc, Miscellanee, inchiesta su don Pasquale di Randazzo, aperta il 16 settembre 1571 dalla denuncia del marito della sua presunta convivente. La breve indagine del 1563 riguardava un cappellano, un certo don Vincenzo, e si concluse nel nulla, malgrado un vago elogio della vita dei luterani che un testimone gli attribuì. La condanna del 1566 – a due anni d’esilio – era stata inflitta a don Cosmo Volpicella, un prete non nuovo agli incidenti giudiziari, ma il fascicolo è perduto. Entrambi i documenti sono nel fondo Processi criminali, in corso di riordinamento (ringrazio Michele Mancino per avermeli segnalati). 11 La valutazione avventata è del canonico Anello Russo, che la inserì nella prima relazione ad limina nota per Napoli, quella presentata nel 1590 per conto del Di Capua assente (traggo il dato da un libro in corso di ultimazione dell’amico Michele Miele, dedicato a Le relazioni ad limina dell’archidiocesi di Napoli in età moderna, di cui gentilmente l’autore, che qui ringrazio, mi ha dato copia); il calcolo del Di Capua risale al 1594, e si ritrova in una sua lettera alla Congregazione dei Vescovi e Regolari (ASV, CVR, POS 1591, M-N, 27 maggio 1594). Secondo il prelato, «ne la città di Napoli il popolo è tanto numeroso che insieme con li borghi si fa conto vi siano più di ducento settanta mila anime». La stima del Di Capua è sostanzialmente confermata da K.J. Beloch, Storia della popolazione d’Italia, Firenze 1994, p. 122.

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In una Napoli brulicante come un formicaio, 27 parrocchie, ritenute insufficienti già nel 1576, non bastavano più. La più grande, quella di S. Giovanni Maggiore, governava – si fa per dire – un numero imprecisabile, ma spropositato, di anime: forse 80.000, scriveva il cardinale Gesualdo al papa Clemente VIII nella relazione del 1599. In un ‘Discorso’ trasmesso a Roma nel 1592 si segnalavano lucidamente le conseguenze più gravi di quello stato di cose: impossibilità di scoprire gli inconfessi, di controllare gli stranieri ‘infetti’ di eresia, di somministrare in tempo i sacramenti ai malati gravi. Di concubini in quanto tali neppure l’ombra, anche se il controllo degli inadempienti al precetto ne avrebbe potuto smascherare tanti. Non erano loro a preoccupare gli arcivescovi napoletani del tardo Cinquecento12. L’ampliamento della rete parrocchiale, autorizzato da Roma nel 1596 e realizzato nel 1597, non servì a molto, almeno nell’immediato13. I verbali della visita del 1598-1599 sono una testimonianza limpidissima dell’impotenza dei curati. Soprattutto in città, concubinato ed evasione dell’obbligo di confessione e comunione a Pasqua in parrocchia sono trasgressioni frequenti e difficilmente controllabili. Forse per questa ragione il questionario sottoposto ai parroci identifica tra i pubblici peccatori, insieme agli inconfessi e ai bestemmiatori, solo i concubini. Quasi nessuno, però, è in grado di rispondere, perché non sono state approntate le liste dei parrocchiani (gli stati d’anime), unico sicuro strumento di verifica raccomandato dalla Chiesa tridentina. Malgrado ciò, da singole ammissioni a mezza bocca appare evidente lo stretto collegamento tra concubinato e inadempienza del precetto pasquale in parrocchia. Almeno una parte dei conviventi e degli altri pubblici peccatori evade deliberatamente un obbligo religioso annuo così importante, o attraverso la scappatoia di ecclesiastici di manica larga, o per indifferenza, o per evitare sgradevoli rifiuti di assoluzione. Una cosa però è certa: anche senza registrazioni puntuali, i parroci dei piccoli centri e delle più pic12 Vedi Miele, Le relazioni. Per quanto riguarda S. Giovanni Maggiore, il dato è nella relazione ad limina del Gesualdo (1599); il Discorso sopra le reforme delle parocchie della città di Napoli è ivi, allegato a quella del Di Capua (1592). 13 Per l’intera questione, vedi F. Strazzullo, Edilizia e urbanistica a Napoli dal ’500 al ’700, Napoli 1968, pp. 135 sgg.

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cole circoscrizioni urbane sono ben informati sulle famiglie di fatto. Il problema è la denuncia. I più hanno paura di esporsi, in particolare quelli di città, ed evitano accuratamente di segnalare le pecore nere ai visitatori. Solo qualcuno s’impegna a trasmettere ai superiori comunicazioni riservate, di cui peraltro non è rimasta traccia14. D’altra parte, gli stessi ispettori diocesani sembrano poco interessati alla punizione dei pubblici peccatori: non emanano decreti ultimativi contro i curati negligenti né li richiamano al proprio dovere. È come se sapessero che quei compiti sono ingrati come pochi altri15. Infine, neppure la Curia arcivescovile è inappuntabile nell’esercizio dei poteri coattivi di cui dispone: ad esempio, il responsabile della popolosa parrocchia italo-spagnola di S. Anna di Palazzo, il solo che dice di aver avvertito in passato i superiori della presenza di parecchi conviventi e inconfessi tra le anime da lui guidate spiritualmente, dichiara che non era stato adottato alcun provvedimento. Disfunzioni del genere – era ovvio – toglievano ogni voglia di collaborare ai pochissimi sacerdoti volenterosi16. 4. L’impressione non è molto diversa se si cambia punto di osservazione, se dalla prospettiva pastorale si passa a quella giudiziaria. Una quindicina di procedimenti è tutto ciò che resta della repressione del concubinato in città e diocesi tra il 1563 e la fine del secolo. Accanto ad essi si possono ricordare soltanto le richieste di licenza matrimoniale d’urgenza presentate nel Vedi Romeo, Esorcisti, p. 145n. Una sola volta, nel corso della visita, gli ufficiali del Gesualdo mostrano uno zelo inconsueto, ma si tratta di un caso del tutto atipico. Il curato di un piccolo centro agricolo, S. Pietro a Patierno, rivela i nomi di alcuni concubini/inconfessi, i visitatori li ammoniscono bonariamente a separarsi, ne ricevono un secco rifiuto e solo a quel punto ordinano all’ecclesiastico di consegnare loro la lista dei renitenti (che peraltro non è arrivata fino a noi). È così che il sistema, a regime, avrebbe dovuto funzionare, ma i collaboratori dell’arcivescovo si guardano bene dall’intimare lo stesso precetto ai responsabili delle popolose parrocchie cittadine in cui le famiglie di fatto irregolari e inadempienti al precetto sono ben più numerose (ASDN, Visite pastorali, d’ora in avanti VP, 15, c. 206v, decreti del 29 dicembre 1598). 16 Ivi, c. 257r, dichiarazione resa il 25 novembre 1598 da don Sebastiano Ortiz, parroco di S. Anna di Palazzo. 14 15

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1590 da due conviventi napoletani: uno è infermo e l’altro teme di morire nel peccato17. È molto probabile che dei fascicoli si siano perduti (il dato è certo per la pioggia di scomuniche secentesche alle coppie di fatto ed è quantificabile nell’ordine del 30-35%18), ma sulle oltre 7000 procedure punitive conservate per circa due secoli c’è poco da almanaccare: per tutto il tardo Cinquecento la Curia arcivescovile napoletana, pur esercitando occasionalmente precise competenze al riguardo, non applica i decreti tridentini sul concubinato. È ovvio che in una diocesi di oltre 300.000 abitanti 16 indagini in circa quarant’anni sono una goccia nel mare. Il dato è ancora più indicativo, se si confronta con i numeri ben più alti che si ricavano dall’esame delle altre attività del tribunale arcivescovile napoletano tra il 1563 e il 1600. Mi riferisco in primo luogo ai circa 1200 procedimenti del Sant’Ufficio, ai 2082 processi civili già inventariati19, ma anche ai 411 atti del foro criminale e alle 370 cause matrimoniali (a cominciare da divorzi e separazioni). Per l’insieme di queste iniziative giudiziarie la svolta matura, con sincronismo preciso, negli anni Settanta del Cinquecento. I giudici che ignorano le coppie di fatto sono gli stessi che seguono con attenzione e accresciuto attivismo processi che presentano ovvie attinenze con l’esperienza della sessualità. Non penso solo alle cause matrimoniali, ma anche ai procedimenti criminali e inquisitoriali. Il mancato decollo della lotta ai concubini della diocesi stride, insomma, sia con la spinta propulsiva che caratterizza il foro arcivescovile in tutte le sue articolazioni, sia con il rilievo crescente dei problemi che in qualche modo riguardano i conviventi more uxorio, li lambiscono o forse li inquietano, anche se in questa fase non incidono più di tanto sulla loro vita. Una Curia arcivescovile for17 Sono 16, per l’esattezza. Le due richieste d’urgenza sono in Conc, Miscellanee, 9 gennaio (istanza del fruttivendolo vedovo Stefano Grillo, che vive da dodici anni nel peccato) e 23 luglio (memoriale di Scipione Gentile, che chiede di potersi sposare senza pubblicazioni). 18 Vedi infra, cap. IV. 19 A cui se ne devono aggiungere molti altri, riemersi di recente. Proprio lo sterminato fondo degli Acta civilia, in cui si raccoglie la più ricca serie di documenti giudiziari quattro-cinquecenteschi della Curia, dà la misura della svolta postridentina: tra il 1473 e il 1563 sono stati finora inventariati 1496 atti.

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te, riorganizzata, pronta a disciplinare i disordini delle esperienze sessuali e matrimoniali, non sa o non può mostrare la stessa attenzione verso famiglie che pure, per coerenza con la normativa approvata dal Concilio, dovrebbe regolarizzare o distruggere. Perché? Si trattava solo di sfasature e pigrizie? O c’erano altri ostacoli? 5. Il 4 aprile del 1569 una dura lettera del viceré di Napoli, il duca d’Alcalà, raggiungeva l’arcivescovo di Cosenza, il cardinale Flavio Orsini. Oggetto della comunicazione era la richiesta, avanzata dal prelato al governatore di Calabria, di catturare alcuni concubini. L’ufficiale regio aveva trasmesso l’istanza ai vertici napoletani per la necessaria autorizzazione. Ma il duca la giudicò irricevibile: si trattava di laici, sui quali era competente esclusivamente la giurisdizione regia. In quei casi, secondo lui, i vescovi avevano una sola facoltà, che l’Orsini era invitato a utilizzare: trasmettere informative su eventuali abusi ai tribunali di Sua Maestà, che avrebbero provveduto a reprimerli. Perciò, in pari data, il viceré intimava al governatore di non dare seguito alla richiesta. La situazione si avvicinò al punto di rottura subito dopo, quando l’ufficiale aggiornò il Consiglio Collaterale del regno (il gruppo di ministri che affiancava il viceré) sugli imprevedibili sviluppi del caso: l’arcivescovo insisteva nella pretesa, minacciava di procedere autonomamente alla carcerazione dei concubini, e forse anche di alcuni usurai. Se l’appoggio gli fosse stato negato, se ne sarebbe andato a Roma, per informare la Segreteria di Stato. Di fronte ad atteggiamenti così ostinati, a Napoli si decise di reagire con forza. Se il prelato avesse osato catturare qualche laico per concubinato o usura, il governatore avrebbe dovuto immediatamente reclamarne la liberazione e in caso di rifiuto ordinare ai suoi uomini di passare alle vie di fatto: recarsi nel carcere in cui erano detenuti, pretenderne la consegna e di fronte all’eventuale diniego penetrare con la forza nelle celle, catturarli e trasferirli nelle prigioni della Regia Udienza. Il braccio secolare, precisava il viceré, spettava ai giudici ecclesiastici solo nelle cause di eretici e chierici. Se invece l’arcivescovo si fosse limitato a scomunicare, il governatore non doveva prote-

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stare. Era tenuto però a segnalare la circostanza a Napoli: massima allerta, insomma20. Nel regno queste non erano le prime scintille tra Chiesa e Stato in materia di lotta alle convivenze: l’inizio dei contrasti risaliva al 1567, alla fase più infuocata dei conflitti tra Santa Sede e autorità spagnole, quella legata alla travagliata pubblicazione della bolla In Coena Domini21. Proprio l’arcivescovo di Cosenza era stato il più risoluto difensore, su quel punto, della giurisdizione ecclesiastica: già nel novembre del 1568 aveva avanzato la richiesta del braccio secolare per la cattura di alcuni concubini, come avrebbe fatto anche l’anno dopo, ricevendo anche allora un identico, secco rifiuto22. D’altra parte, il controllo delle convivenze more uxorio era solo uno dei problemi che turbavano i rapporti tra Stato e Chiesa nel viceregno. Una miriade di controversie relative ad aspetti diversissimi della vita associata alimentava continue tensioni: erano i casi detti di ‘foro misto’, cioè l’insieme dei comportamenti illegittimi di natura civile e penale su cui rivendicavano competenze sia la giurisdizione ecclesiastica, sia quella regia. Alcuni riguardavano gli interessi e i diritti della Chiesa, dalle usurpazioni di beni ecclesiastici al mancato rispetto dei legati pii, dal rifiuto di pagare le decime alle pretese dei Capitoli delle Cattedrali sull’eredità dei morti ab intestato, altri erano delitti di varia gravità, puniti sia dalle leggi della Chiesa, sia da quelle dello Stato: dal sacrilegio alla bestemmia, dal sortilegio all’incesto. Due di essi, adulterio e bigamia, coinvolgevano direttamente il matrimonio23. 20 Archivio di Stato di Napoli (d’ora in avanti ASN), Collaterale Curiae (d’ora in avanti Collat. Cur.), 20, cc. 110v (la lettera del 4 aprile all’arcivescovo) e 111v-112r (la lettera del 17 aprile al governatore). 21 M.C. Giannini, Tra politica, fiscalità e religione: Filippo II di Spagna e la pubblicazione della bolla In Coena Domini (1567-1570), in «Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico in Trento», 23, 1997, pp. 83-152. 22 ASN, Collat. Cur., 21, c. 28r, lettera del 13 novembre all’uditore Staibano. 23 Biblioteca Nazionale di Napoli (d’ora in avanti BNN), ms. XI B 6, raccolta di scritti di Villano e consorti, c. 75v; cfr A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel Regno di Napoli. Problema e bibliografia (1563-1723), Roma 1974. Un richiamo alla questione è in B. Chioccarello, Archivio della reggia giurisdizione del Regno di Napoli, Venezia, s.e., 1721, pp. 99-102. La ricostruzione

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Fu così che il viceré, un po’ perché la posta in gioco era alta, un po’ per la pervicacia del prelato, ritenne doveroso informare Madrid e chiedere lumi. Lo fece subito, nella stessa giornata in cui dettava al governatore di Calabria direttive così perentorie. Da allora, per quasi vent’anni, la questione delle competenze sui casi di foro misto fu al centro di una controversia molto aspra tra Roma, Napoli e Madrid. In essa il concubinato ebbe un rilievo notevole, soprattutto per la Chiesa. Segnalo qui i passaggi salienti del conflitto. La linea delle autorità statali fu chiarissima. Sui laici, eretici esclusi, i giudici ecclesiastici hanno solo poteri spirituali, anche estesi, come per i casi di usura dubbi (sono loro che valutano la liceità dei contratti sospetti) e per l’adulterio (sono di loro esclusiva competenza i riflessi sul vincolo matrimoniale): possono perciò scomunicare i laici, non processarli. Una sola eccezione è prevista, e riguarda il sortilegio, ma solo quando è ereticale o vietato dalle leggi civili (un codicillo decisamente sorprendente, quest’ultimo!). Per il resto, però, le competenze sui laici sospetti di questi delitti sono riservate esclusivamente alla giurisdizione regia. È così anche per il concubinato: dopo la scomunica, spetta alle autorità secolari il compito di informare il viceré, che poi ordina ai suoi ufficiali di espellere uno dei due ‘peccatori’, in modo da eliminare alla radice lo scandalo. A un ordinamento così secco, che lasciava ben pochi spazi di manovra ai tribunali ecclesiastici, Roma ribatté eccependo sia l’ininterrotta giurisdizione esercitata in materia dai vescovi del regno, sia la normativa tridentina. Il braccio secolare in quei casi non poteva essere negato: Chiesa e Stato dovevano collaborare. L’importanza della posta in gioco si coglie in entrambi gli schieramenti: la Segreteria di Stato trattò insieme al Nunzio a Madrid i passaggi più importanti, i ministri napoletani parteciparono con zelo e passionalità. del conflitto di giurisdizione qui illustrata poggia solo sul prezioso manoscritto della BNN (vedi in particolare cc. 44r-49r e 69r-83r). La ricerca sistematica di nuove fonti integrative tra il 1569 e il 1589 in ASN, ASV e nella stessa BNN potrebbe essere di grande interesse. Per i conflitti di questi anni sono ancora utili le ricerche di G. Catalano, Controversie giurisdizionali tra Chiesa e Stato nell’età di Gregorio XIII e di Filippo II, in «Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo», serie IV, 15-II, 1954-1955, pp. 5-306 (saggio edito anche nel 1955, a Palermo, come volume a sé).

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L’intervento di un astrologo, richiesto non più tardi del luglio del 1573, ne è una testimonianza esemplare. Vincenzo Vitale, giovanissimo, colto e inquieto protagonista della cultura napoletana del tempo, fidato indovino di gentiluomini, ecclesiastici e uomini di Stato, fu convocato in gran segreto da uno dei più autorevoli Reggenti del Collaterale, Tommaso Aniello Salernitano. L’altissimo magistrato, che era molto teso, desiderava sapere da lui due cose: se il fratello, vescovo di Acerra, presente all’abboccamento, avrebbe ottenuto l’ambita nomina ad arcivescovo di Taranto, e come sarebbero finiti ‘questi romori deli casi misti’. Quando capì dal vaticinio, forse non incoraggiante, che il giovane aveva indovinato dettagli riservatissimi della trattativa in corso, sbalordito e confuso per la sua bravura, lo abbracciò, acclamandolo – in latino – come un essere divino, non umano, e ribadendo la sua immutata fedeltà a Filippo II e alla regia giurisdizione. In quella battaglia – confidò a Vitale – si sarebbe impegnato allo spasimo, a qualsiasi costo (‘vengano guerre, vengano morti, poco importa...’). Tommaso Aniello Salernitano mantenne la parola e irritò sempre più, con l’intransigente difesa delle ragioni del sovrano, le autorità vaticane. Nel novembre dello stesso anno una durissima nota della Segreteria di Stato intimava al Nunzio napoletano di fargli sapere che avrebbe dovuto rendere conto a Dio del suo operato24. Non erano minacce campate in aria: la Chiesa sapeva aspettare il momento buono per regolare i conti. Lo aveva mostrato con un altro irriducibile difensore della regia giurisdizione, il Reggente della Cancelleria del viceregno Antonio Villano: in occasione della malattia mortale che lo colpì, nessun confessore fu autorizzato ad assolverlo. Solo nel momento dell’agonia il Nunzio, con un intervento coordinato con l’influente gesuita Alfonso Salmerón, accordò il sospirato permesso, ma a condizione che in caso di sopravvivenza non s’intromettesse più in controversie giurisdizionali. Intanto, proprio al Salmerón, tre giorni prima di morire, Villano aveva confidato il travaglio spirituale in cui versava e la paura della perdizione eterna. Se fosse guarito, promi24 ASDN, SU, 226, c. 133v, costituto di Vincenzo Vitale del 2 febbraio 1574. Il pesante avvertimento vaticano è in Nunziature di Napoli, I, a cura di P. Villani, Roma 1962, p. 253 (lettera di Tolomeo Galli ad Antonio Sauli del 27 novembre 1573).

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se, non avrebbe soltanto rinunciato per sempre all’ufficio, ma desiderava, ripeté più volte al padre spagnolo, vivere da gesuita ed essere accolto come portinaio del Collegio napoletano della Compagnia25. 6. Il giovane astrologo aveva visto giusto. Le difficili trattative, che si arenarono più volte26, si sbloccarono solo nel 1588-1589, a Madrid, con un accordo largamente soddisfacente per le autorità romane. Una particolare attenzione fu riservata ai concubini, come si vide nella circolare che nel gennaio del 1589 la Segreteria di Stato incaricò il Nunzio di Napoli di trasmettere a tutti i vescovi e a tutti i prelati del regno. Soprattutto contro di loro essi erano esplicitamente e seccamente richiamati a procedere «con quell’authorità e forma che dà loro la ragione canonica e particolarmente il Sacro Concilio di Trento», senza preoccuparsi più di tanto dei confini ‘spirituali’ che per tanto tempo erano stati al centro di infuocate trattative. Il puntuale riferimento alla normativa tridentina, che autorizzava i giudici ecclesiastici, quando le scomuniche non bastavano, a utilizzare lo strumento repressivo, e in particolare a sfrattare le concubine, eliminava alla radice ogni perplessità. Agli sconfitti rimaneva solo l’onore delle armi: la circolare si limitava a generiche raccomandazioni all’uso prudente di quei poteri, per evitare ‘ogni suspettione di authorità’ e per convincere le autorità spagnole che ciò si fa per debito dell’officio pastorale, non per empire la borsa, ma per sbarbare uno scandalo27.

25 La lettera del Salmerón al Nunzio Sauli, del 4 dicembre 1573, è pubblicata in Monumenta Historica Societatis Iesu, Epistolae P. Alphonsi Salmeronis Societatis Jesu, II, 1565-1585, Matriti 1907, pp. 338-41. Non era la prima volta che il Villano e altri ministri del viceré, a Napoli e nel regno, si trovavano nei guai con i confessori, nel tempestoso orizzonte successivo alla pubblicazione della bolla In Coena Domini: vedi Chioccarello, Archivio, pp. 68-71. 26 Nel maggio del 1578 le guardie secolari portarono via con la forza un ladro sacrilego detenuto nelle carceri arcivescovili, per riaffermare la propria competenza sul suo delitto; negli anni successivi si discusse senza risultati del diritto del vescovo di irrogare pene, in particolare pecuniarie (BNN, ms. XI B 6). 27 Ivi, c. 49r. Il testo della lettera spedita al Nunzio il 7 gennaio 1589 è in Nunziature di Napoli, a cura di M. Bettoni, III, Roma 1970, p. 150.

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Alla fine, sembrava di capire, era stata tutta una questione di soldi... Di ben diverso tono fu, nel novembre di quello stesso anno, la lettera in cui il viceré riferiva a Madrid gli ultimi sviluppi della situazione. Secondo lui si era ormai consolidato lo schema del doppio intervento: i vescovi del regno si limitavano a scomunicare, mentre il Collaterale, quando veniva a conoscenza di casi di concubinato pubblico, su segnalazione dei prelati o per altra via, ordinava ai capitani locali di espellere uno dei due partner. Ma la realtà era ben diversa. Se nel resto del regno non mancano le tracce di applicazione del modello caro ai viceré, a Napoli le cose stavano prendendo tutt’altra piega: malgrado incertezze e difficoltà, la caccia ai conviventi laici si avviava a diventare monopolio dei giudici ecclesiastici. 7. Nel Cinque/Seicento in Italia meridionale, esclusa Napoli, il dato importante è uno solo: la forte, autonoma attenzione dello Stato per il controllo delle coppie di fatto. Il confronto con gli altri delitti di foro misto è istruttivo. Mentre nell’Archivio del Consiglio Collaterale i riferimenti ad essi sono esclusivamente di tipo conflittuale, per il concubinato non è così. Nel governo quotidiano della più grande formazione statale italiana di antico regime la convivenza more uxorio trova un suo ampio spazio ordinario, soprattutto per volontà dei vertici del viceregno. Essi riservano alle famiglie di fatto dell’Italia meridionale la stessa importanza strategica attribuita alla questione dalle autorità della Chiesa, ma le controllano con maggiore puntualità: coordinano le iniziative locali e decidono come concluderle, dettano i criteri d’intervento contro gli abusi di vescovi e prelati, promuovono autonome azioni repressive28. Giudici, governatori, capitani sanno che è obbligatorio affidare quelle pratiche giudiziarie alla valutazione del Collaterale, che non possono procedere da soli, e sono raggiunti spesso da precisi inviti a darsi da fare, sia per stroncare il fenomeno, sia per bloc28 Questa valutazione complessiva è il frutto dello spoglio sistematico delle sezioni Curiae e Exhortatoriarum dell’Archivio del Consiglio Collaterale del regno, in ASN, tra il 1550 e il 1625, ma anche di ACDF, DSO, 1553-1633, e di ASV, CVR, RE, 1573-1625. La sterminata serie CVR POS (in ASV) è stata studiata per spogli quinquennali sistematici tra il 1573 e il 1618.

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care le ingerenze delle autorità ecclesiastiche29. È malvista anche l’iniziativa del tutto atipica assunta nel 1572 dal capitano di Crotone: un bando contro i concubini, che aveva già prodotto i primi effetti30. Non mancano inoltre critiche aspre, quando i rappresentanti dello Stato tollerano o addirittura agevolano le attività dei vescovi31. Tuttavia, gli apparati statali centrali sono sempre pronti a intervenire con la necessaria energia per reprimere gli eccessi gravi di cui sono vittime sia gli uomini di Chiesa ’nnammecate colpiti da vendette dei familiari delle concubine, sia i prelati minacciati per l’impegno mostrato contro i conviventi32. Ciò non vuol dire, ovviamente, che i giudici ecclesiastici meridionali rispettassero i precisi limiti che il Collaterale continuava a porre ai loro interventi, anche dopo l’esito, poco lusinghiero per lo Stato, della lunga controversia sui casi di foro misto. Le testimonianze delle invasioni di campo vescovili non mancano, né negli anni di più aspra tensione, né, ovviamente, dopo la ‘vittoria’ romana del 1589. I conflitti punteggiano tutto il Seicento, su entrambi i versanti giudiziari che si contendono il controllo del con29 Un esempio in ASN, Collat. Cur., 28, c. 209v (il 22 novembre 1578 il capitano di Nardò è invitato ad accertare un caso di concubinato senza «ponere penna in carta», forse proprio per evitare ingerenze del vescovo). 30 Il viceré gli fece rispondere che sarebbe stato meglio chiedere l’autorizzazione preventiva al Collaterale e adottò due disposizioni molto severe: dichiarò sospesa l’esecuzione del provvedimento e ordinò che copia del bando e delle scritture presentate fosse inviata a Napoli (ASN, Collat. Cur., 26, c. 184v, 15 gennaio 1572). 31 Al capitano di Presenzano, che lascia procedere abusivamente il vescovo di Teano, malgrado la diffida inviata a quest’ultimo dal viceré, e a quello di Ariano, che inopinatamente ha osato dare istruzioni al vescovo locale sulla repressione del concubinato. Vedi ASN, Collat. Cur., 47, c. 49r, 11 ottobre 1599 (Presenzano) e 56, c. 47r, 11 giugno 1603 (Ariano). 32 Per il primo abuso vedi ciò che capita nel 1574 in un casale di Capua. Quando un incendio doloso sorprende e uccide un chierico, la convivente e la ruffiana con due figli, il viceré non ha difficoltà a concedere al governatore di Capua i poteri speciali di cui nel regno godeva solo la Gran Corte della Vicaria (ASN, Collat. Cur., 27, c. 84v, 9 febbraio 1574). Per il secondo, penso a un grave episodio calabrese, che trova una risposta altrettanto ferma nel 1609. Quando un gentiluomo di Cosenza, scomunicato come concubino dalla Curia di Bisignano, cerca di vendicarsi, tentando di uccidere il vicario e il maestro di casa del vescovo, il Collaterale delega un commissario munito di pieni poteri, per castigarlo adeguatamente (ASN, Collat. Cur., 70, cc. 89r-90r, 3 ottobre 1609).

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cubinato33. Da parte delle autorità ecclesiastiche non ci furono soltanto isolate ingerenze, come sembrano quelle lamentate a Rossano e a Crotone, quando nella prima metà del secolo i rispettivi vescovi fecero frustare pubblicamente delle concubine34. Nel 1645 uno scrivano della Curia arcivescovile di Reggio Calabria ricordava di aver condotto e verbalizzato tra il 1624 e il 1638 oltre 500 indagini penali, soprattutto in materia di concubinato e di altri casi di foro misto, e aggiungeva che le guardie del tribunale diocesano uscivano di notte e di giorno per cogliere sul fatto i conviventi. In pari data, un attestato del notaio della stessa Curia confermava, in base a puntuali citazioni di atti d’archivio, che a Reggio Calabria le carcerazioni di concubini per contravvenzione del precetto penale ricevuto dal vescovo risalivano al 1605. Solo nel 1645, però, a quarant’anni dall’inizio di quelle che il Collaterale continuava a considerare indebite ingerenze, il caso era arrivato a Napoli, all’attenzione dei vertici del viceregno. Inoltre, circostanza ancor più indicativa, la protesta non veniva dalle autorità secolari calabresi, che ne avrebbero avuto tutti i motivi, ma dal nuovo arcivescovo, indispettito dalle ‘pretese’ del governatore. Non si può escludere, perciò, che almeno le più potenti Curie vescovili del Sud esercitassero in regime di monopolio la repressione del concubinato35. 8. Se dal regno ci si sposta nella capitale, gli sviluppi della questione appaiono piuttosto diversi, sia sul versante della Chiesa, sia su quello laico. Nelle ventennali controversie sui casi di foro misto gli arcivescovi napoletani non si erano esposti più di tanto: nessun riferimento a loro eccessi nei confronti di conviventi nelle 33 I conflitti scoppiati qua e là nel regno nel corso del Seicento sono ben documentati, oltre che nell’Archivio del Collaterale, nello sterminato fondo Delegazione della Real Giurisdizione (d’ora in avanti DRG), Processi (d’ora in avanti P), in ASN. Ne ho rintracciati dieci (ma senza ricerche sistematiche). In otto di essi si registrano diversi abusi, negli altri due sono i prelati a chiedere l’intervento dello Stato dopo il fallimento delle misure spirituali. 34 ASN, DRG, P, 189 (Rossano, data imprecisabile, ma forse nel secondo decennio del secolo) e 204 (Crotone, 1641). 35 ASN, DRG, P, 214, cc. n.n. La deposizione dello scrivano, don Marco Antonio Oliva, risale al 14 giugno 1645; l’attestato del notaio, don Francesco Di Fazio, al 17 luglio seguente.

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fonti di parte secolare, quasi nulla in quelle ecclesiastiche, se si esclude l’azione indiretta e insidiosa del Sant’Ufficio vescovile. Dalla serie Denunce di concubinato, ad esempio, risulta che i giudici diocesani avevano indagato fino al 1577, e in pochissimi casi, solo sulle presunte famiglie di fatto di sacerdoti, cioè di persone su cui, in tutta la penisola, era competente esclusivamente la giustizia della Chiesa. Di iniziative contro i conviventi laici non c’è traccia, e neppure di controversie. Un’analoga inattività caratterizza a Napoli le autorità secolari: il concubinato sembra attirare la loro attenzione per i profili giurisdizionali, non per la sua pericolosità. Negli anni in cui su quello e su altri casi di foro misto in parecchie diocesi del regno è guerra aperta – almeno sedici incidenti di varia gravità tra il 1568 e il 1575 – tra vescovi e ufficiali del re, nella capitale il fronte dei conviventi può stare tranquillo: non si muove la Curia arcivescovile, ma sono fermi anche il Collaterale e la Vicaria. A Napoli, nella seconda metà del Cinquecento, la battaglia più importante tra Chiesa e Stato era combattuta su altri fronti, per il governo di delitti considerati di maggiore rilievo strategico: il sacrilegio e la bestemmia dagli anni Settanta, il sortilegio e la bigamia negli anni Ottanta/Novanta. Nel 1579, ad esempio, il Sacro Regio Consiglio condannò alla perforazione della lingua un presunto bestemmiatore, dopo aver accordato la rimessione alla Curia arcivescovile per il solo accertamento delle eventuali deviazioni ereticali36. Da poco, però, le autorità diocesane stavano affondando i primi colpi contro i conviventi laici. Dal 1576, la Chiesa napoletana era guidata da un pastore rigoroso e intransigente come pochi altri, il teatino Paolo Burali d’Arezzo. La sua limpida e seria volontà di riformare in profondità la vita religiosa della diocesi suscitò presto violente reazioni: nei confessori che, esasperati da bocciature a ripetizione, minacciarono un clamoroso sciopero, nei tantissimi preti che campavano con le devozioni superstiziose, negli aristocratici preoccupati per la fine degli agi delle figlie monache, nei vertici comunali e statali, spaventati dal giro di vite impresso all’amministrazione del sacramento della peniten-

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ASDN, SU, 455, c. 5r.

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za37. Non stupisce perciò che nel maggio del 1578 gli uomini del viceré forzino le carceri arcivescovili e portino via un sacrilego ivi detenuto. È in questo orizzonte tempestoso che si collocano i primi attacchi della Curia arcivescovile ai conviventi laici della città: si tratta di due sole iniziative, che però rispecchiano bene le difficoltà di quella battaglia. La prima, nel gennaio del 1578, riguarda un bidello del Collegio dei dottori, denunciato perché mangiava carne nei giorni proibiti dalla Chiesa e aveva una convivente. Erano due delitti di ben diverso peso: l’uno di indiscussa competenza del Sant’Ufficio, l’altro conteso tra foro vescovile ordinario e giudici di Stato. In una delle tante città italiane del Centro-Nord ‘servite’ dalla rete degli inquisitori professionisti, quell’esposto avrebbe potuto sollevare due tipi di problemi: uno interno ai tribunali ecclesiastici (per i cibi proibiti erano competenti sia il foro vescovile, sia l’Inquisizione), uno sul versante statale (se c’erano rivendicazioni sulla convivenza more uxorio, come delitto di foro misto). Nel caso del bidello, la prima questione non si poneva a Napoli, dove la Curia arcivescovile esercitava anche competenze inquisitoriali; la seconda fu risolta brillantemente, ‘nascondendo’ e ‘inglobando’ la decisione sul concubinato all’interno del processo ‘sicuro’, quello sul cibo, in cui i giudici di Stato non potevano mettere il naso. Fu così che l’uomo, rilasciato per l’addebito più grave, fu costretto a sottoscrivere l’obbligo di sposare la convivente. L’arma del Sant’Ufficio era servita da paravento per aggirare uno dei casi misti più controversi: anche nella capitale si era utilizzato un sistema caro ai vescovi del regno38. 37 Per i vari aspetti del suo zelo vedi G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Firenze 1990, pp. 206-215, e Mancino, Licentia confitendi, pp. 23-46. Vedi anche, per il ruolo da lui avuto nel governo dei ‘rumori’ antiinquisitoriali del 1564, E. Pontieri, L’agitazione napoletana del 1564 contro il tribunale dell’Inquisizione e la missione del teatino Paolo Burali d’Arezzo presso Filippo II, in Id., Nei tempi grigi della storia d’Italia, Napoli 1957, pp. 233-292. 38 ASDN, SU, 378, passim (il processo si snodò tra il gennaio e il febbraio del 1578). Per le abitudini dei vescovi meridionali, vedi G. Romeo, Aspettando il boia. Condannati a morte, confortatori e inquisitori nella Napoli della Controriforma, Firenze 2003, p. 58.

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Tuttavia quel fronte rimaneva difficile ed incerto, come rivelò l’esito della seconda indagine, preoccupante per le autorità diocesane. Il 21 maggio del 1578 – negli stessi giorni in cui i ministri del viceré fanno prelevare con la forza il ladro sacrilego dalle carceri arcivescovili – un patrizio di Capua è raggiunto a Napoli, dove vive, da un invito formale del vicario arcivescovile: deve separarsi subito dalla sua concubina. Tre giorni dopo si presenta in Curia ed eccepisce seccamente che non si può procedere contro laici nelle terre del re. Gli occorre la copia dell’ingiunzione, non per difendersi in un tribunale – quello diocesano – cui non riconosce alcun titolo ad intervenire, ma per poterla esibire al Serenissimo Re Filippo e al Suo Illustrissimo viceré. Il vicario non demorde: gli ordina di comparire a giurare, ma senza esito, e apre un’indagine che però si arena39. Non sappiamo nulla dell’uomo, delle ragioni della sua aspra reazione e degli echi che essa ebbe all’interno della Curia e fuori. È probabile, però, che abbia lasciato il segno. Pochi giorni dopo l’arcivescovo Burali morì all’improvviso, tra l’indifferenza e i sospiri di sollievo della città e di una parte dello stesso clero40. La coerenza rigorosa del suo impegno dovette apparire impolitica agli stessi vertici diocesani. Una fiammata di zelo contro un concubino eccellente, in una città che ne ospitava migliaia, era l’ultima cosa che si sarebbero potuti permettere, soprattutto all’indomani del blitz delle autorità secolari nelle carceri vescovili. Comunque sia, un dato sembra per ora incontrovertibile: dopo un’ulteriore indagine aperta nel settembre del 1578 sul conto di un notaio, per oltre dieci anni cala il sipario sulla caccia ai conviventi di Napoli e diocesi41.

39 Ivi, procedimento contro il magnifico Gaspare Attendolo. Per gli Attendolo si può ricordare qui la figura di Giovan Battista A., autore di varie orazioni, tra cui una Oratione... nell’essequie di Carlo d’Austria, stampata a Napoli per i tipi di Giuseppe Cacchi nel 1571. 40 Per le reazioni della città vedi L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, I-II, Città di Castello 1892, I, p. 325; per quelle del clero, vedi Romeo, Inquisitori, pp. 211 e 214. 41 ASDN, Conc, 121, 1° settembre-19 novembre 1578, inchiesta sul notaio Bernardino Schirillo.

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9. Che cosa sia successo da allora non si sa, anche se l’ipotesi più probabile è una sola: questioni spinose come quella del concubinato era meglio accantonarle, quantomeno in una capitale tesa e reattiva, esasperata da quasi due anni di progetti di moralizzazione ritenuti eccessivi, inaccettabili. Lo zelo intransigente mal si adattava a Napoli, soprattutto in un momento in cui i vertici della diocesi avevano obiettivi più importanti da raggiungere. È quanto si osserva negli anni Ottanta, sia nello spregiudicato sfruttamento di detenuti e condannati a morte per crimini comuni, sia nel definitivo radicamento dell’Inquisizione diocesana in città. Quest’ultima si affermò sullo Stato nel controllo dei delitti di foro misto di pertinenza inquisitoriale, ma anche sul ministro del Sant’Ufficio nel regno, costretto in un angolo dal fuoco di sbarramento degli arcivescovi42. Perciò solo nel settembre del 1589 si celebra a Napoli il primo processo vero e proprio di concubinato. Lo subiscono due massari di Secondigliano: sospettati di essere ’nnammecate, dichiarano che i loro sono rapporti di servitù, non di convivenza, e ottengono dopo poche ore il rilascio. Curiosamente, non sono coinvolte in alcun modo le donne denunciate insieme a loro. La giurisdizione regia è ignorata, ma anche i decreti tridentini sono applicati in modo parziale43. Già l’anno dopo, però, inchieste e citazioni in giudizio di testimoni coinvolgono entrambi i presunti concubini, che a loro volta attivano spesso iniziative legali a tutela delle proprie ragioni. Si delinea insomma l’ordinaria amministrazione di un tribunale, che in caso di verifica della trasgressione colpisce la coppia con la scomunica e il divieto di frequentarsi. Rimangono lettera morta solo le pene supplementari previste dalla normativa conciliare per le donne44.

42 Per le risposte della Curia arcivescovile alle trame dei condannati a morte, vedi Romeo, Aspettando il boia, passim; per l’ostilità di vicari generali e arcivescovi napoletani ai ministri delegati, vedi Id., Inquisitori, I capitolo. 43 ASDN, Conc, 121, processo a carico di Giovanni Angelo e Giovanni Simone Crispo, sospettati di concubinato con Virgilia e Porzia, due donne di Casoria. 44 Un esempio di questa procedura è ivi, processo intentato nel 1599 a Carluccio de Caro e Giovanna Liparota, che si chiude il 12 agosto del 1600 con il divieto di intrattenere relazioni (‘de non conversando’).

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Perché ci fu quella ripresa, sia pure in sordina, e perché proprio allora, non si sa. È più che probabile l’ipotesi di una connessione con l’arrivo della circolare del gennaio 1589, peraltro mai citata, né allora, né in seguito. In ogni caso, da quel momento le regole che il Collaterale continuò ad applicare nel resto del regno, pur con incerti risultati, non ebbero alcun valore nella capitale. Tuttavia l’avanzata ecclesiastica, prima cauta, poi dilagante, non implicò la completa rinuncia dello Stato ad intervenire sugli esiti socialmente più pericolosi delle convivenze, quelli legati all’aggravante dell’adulterio. La competenza su quel delitto era delle autorità statali. Il loro ruolo preponderante era riconosciuto anche da chi ricorreva alla Curia arcivescovile. Un’istanza presentata ai suoi giudici nel 1588 è istruttiva: un uomo segnala l’abbandono del tetto coniugale da parte della moglie, convinta dalla madre, che vive da quarant’anni con un prete e gli ha dato molti figli, a rifugiarsi da lei. Il marito abbandonato non mostra rancore verso il sacerdote/patriarca ed ammette anzi che la suocera morirebbe di fame senza il sostegno dell’ecclesiastico. Non accetta però che la moglie vada ad accrescere la sua famiglia di fatto. È solo per salvare il proprio onore che chiede ai giudici diocesani di costringere l’anziano prete a lasciarla andare. Una volta riavuta in suo potere la fedifraga, ci penserà lui a ottenere il braccio del viceré per farla riporre in monastero: le sbandate delle mogli, insomma, sono affari di Stato. La Curia arcivescovile risponde solo dell’operato dei sacerdoti45. Un altro aspetto della questione che si profila già in questi anni è il totale disinteresse delle autorità ecclesiastiche per i figli delle coppie costrette a separarsi: un dato costante, che accompagna la persecuzione dei conviventi napoletani fino a quando essa si esaurì, verso la metà del Settecento. In nessuna delle oltre 7000 procedure di scomunica finora studiate restano tracce di inter45 ASDN, Conc, Miscellanee, 9 dicembre 1588, esposto di Costantino d’Accetto contro don Giovan Domenico di Nola. Per l’adulterio, vista la perdita pressoché totale degli archivi penali secolari, due indicazioni mi sembrano significative. Una riguarda l’inattività del foro arcivescovile napoletano (lo si ricava sia dai fondi giudiziari conservati in ASDN, sia, per quanto ho potuto verificare finora, in ASV, CVR); l’altra l’assiduo impegno dei giudici di Stato nel territorio del regno, ben documentato nell’Archivio del Consiglio Collaterale, in ASN.

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venti volti a tutelarne in qualche modo il diritto a una famiglia e alla vita. La sola decisione che li coinvolge è un’incredibile condanna del 1610, che obbligò una concubina ad allontanare i sei figli, con la sola esclusione di quelli che avevano meno di tre anni. Per il resto, le testimonianze rimaste riguardano due dimensioni molto diverse del problema: l’internamento forzato nei Conservatori delle figlie delle donne pubbliche, oggetto frequente di disperate resistenze delle madri, e il problema dei diritti ereditari dei figli del ‘peccato’ riconosciuti46. Il terzo elemento caratteristico della battaglia inaugurata a Napoli nel tardo Cinquecento – in linea con le soluzioni adottate anche altrove in Italia – è la scelta delle autorità vescovili di evitare agli ecclesiastici conviventi le procedure di scomunica, che contemplavano quasi sempre, per i laici, sia l’odiata affissione dei cedoloni (si chiamavano così i cartelli infamanti affissi sui muri della casa degli scomunicati), sia l’esclusione dalla comunità. Le loro convivenze more uxorio furono equiparate ai tanti abusi sessuali di cui traboccano gli archivi ecclesiastici dell’Europa cattolica, dai più banali (le ‘sorprese’ in bordelli e alloggiamenti malfamati) ai più gravi (stupro, pedofilia): niente scomuniche, niente cedoloni, ma procedimenti giudiziari molto meno ‘visibili’, per garantire loro la massima riservatezza. La condanna di alcuni di loro a brevi periodi di detenzione non deve trarre in inganno. Si trattava di uno strumento polivalente, non particolarmente lesivo dell’onore di un ecclesiastico, utilizzato nei loro confronti anche in moltissime cause civili di poco conto47. Infine – ecco invece un’altra rilevante differenza tra la capitale e il territorio del regno – sono rarissimi i riferimenti ad iniziative autonome dei giudici secolari napoletani, che pure, come si è 46 Per la condanna del 1610 (vedi infra, IV, nota 31). Per le resistenze vedi ASDN, SU, 271, c. 17r, 9 aprile 1575, deposizione di Marcello Guarino (che ricorda come una rete di soccorso femminile avesse impedito ai Mastri del Conservatorio dello Spirito Santo di catturare e internare la figlia di una prostituta). Sulla questione della maternità dal Cinquecento all’età contemporanea vedi il bel volume Madri. Storia di un ruolo sociale, a cura di G. Fiume, Padova 1995. 47 Vedi Mancino, Giustizia, passim. L’uso della carcerazione per debiti è abituale nel tribunale diocesano napoletano (debbo l’indicazione a Michele Mancino, che ringrazio).

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visto, rivendicano a sé l’adulterio e non mancano di dare filo da torcere alla Curia arcivescovile per delitti di foro misto come il sacrilegio, la bigamia e la bestemmia. Mentre nel resto del regno i concubini furono esposti a rischi sia sul versante statale, sia su quello ecclesiastico, a Napoli e nella diocesi che la circondava la Curia arcivescovile seppe conquistarsene gradatamente, a piccoli passi, il governo pressoché esclusivo48. 10. Non è solo qui, però, nella rapida e disinvolta avanzata su un nuovo fronte di lotta, il rilievo delle indagini aperte dalla Chiesa napoletana nell’ultimo decennio del Cinquecento contro i conviventi. Esse rivelano subito le caratteristiche e le complicazioni della nuova battaglia moralizzatrice. L’assenza dei parroci, cioè degli ecclesiastici istituzionalmente responsabili dei controlli preventivi che avrebbero dovuto stanare i conviventi more uxorio, è l’elemento più importante, che conferma in pieno le indicazioni delle visite pastorali. Uno di essi, anzi, è denunciato nel 1590 come pubblico concubino, ma l’indagine, pure disposta dal vicario, non ha luogo: con ogni probabilità si accertò che era una vendetta49. Il rafforzamento della rete parrocchiale, nel 1597, non migliora la situazione. I responsabili di cura d’anime continuano a subire i contraccolpi di una posizione tradizionalmente difficile, insidiati da una parte dagli Ordini religiosi e dai tanti altri edifici sacri che attirano devoti, dall’altra dal ruolo debordante del laicato. Se il clero e la Chiesa hanno un peso rilevante nel favorire l’avvio delle procedure giudiziarie, ciò dipende, come in tante altre 48 Si ricorda in questi anni un solo intervento delle autorità secolari in diocesi: una cattura disposta dal capitano di Trecase nel 1593. La punizione colpì una vedova che aveva chiesto invano una dispensa apostolica per sposare un cugino del marito ed era andata a vivere con lui, incurante delle ammonizioni e della denuncia del parroco. Si era trattato però di un buco nell’acqua: tre anni dopo un nuovo esposto presentato contro i due ai giudici diocesani segnalava la persistenza del loro concubinato (ASDN, Processi criminali, cc. n.n., indagine avviata il 2 maggio 1593 su denuncia del parroco di Trecase, don Gaspare d’Anselmo, contro Simone Caratenuta e Dianora Falanga). La carcerazione da parte del capitano, di poco successiva, è ricordata tre anni dopo, il 28 novembre 1596, da Francesco Langella (ivi). 49 ASDN, Conc, 121, memoriale anonimo presentato nel febbraio 1590 contro don Giovan Domenico Policastro, parroco di S. Gennarello, accusato di convivere pubblicamente con una Parma (Palma) al borgo S. Antonio.

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dimensioni della Controriforma che si rafforza, dal ruolo dei confessori. In ambito sessuale e matrimoniale la loro influenza si fece sentire prestissimo, molto prima che il Concilio di Trento chiudesse i battenti, soprattutto nelle città come Napoli, in cui operò precocemente la Compagnia di Gesù. Sono proprio i confessori gesuiti che rivoluzionano la pratica del sacramento e la indirizzano con forza verso il governo della sessualità, antesignani di una linea che farà scuola. Essi svolgono un’azione di controllo, di indirizzo e di interdizione intensa e qualificata, neppure lontanamente confrontabile con la presenza modesta e osteggiata dei parroci50. Le pressioni più forti per la regolarizzazione dei rapporti di convivenza o per la riappacificazione di mogli e mariti venivano dalla rinnovata enfasi sul precetto pasquale e dal prestigio degli ecclesiastici impegnati in una fase così delicata dell’anno liturgico: in una parola, dalla confessione come obbligo annuale e dall’autorevolezza di chi la amministrava. Il rilievo dell’avvicinamento alla Pasqua, come tempo del pentimento, è evidente in una causa del 1566. Due giovani, Tommasello e Sibilia, convivono. Quando sta per arrivare la settimana santa, una vicina e la sorella di Sibilia rinfacciano all’uomo: come fai ora a confessarti e comunicarti? Perché non ti sposi? Tommasello decide allora di regolarizzare la sua posizione: ordina a lei di confessarsi e comunicarsi e lo fa anche lui. Era l’unico presupposto indispensabile per un matrimonio celebrato di corsa, attraverso una delle tante modalità ‘pretridentine’ (stretta di mano allargata ai congiunti, scambio delle fedi, presenza irrilevante di un prete – un prete qualunque)51. In modo non diverso, nel 1590, una madre napoletana disperata per le violenze che la figlia subisce dal marito nel casale di Camigliano, non sapendo come aiutarla, trova l’unica alternativa alle vie legali nel prestigio e nella dottrina di un predicatore/confessore domenicano che da Napoli sta per raggiungere Camigliano per il ciclo quaresimale. È il fraIl loro ruolo è sottolineato in Romeo, Esorcisti, passim. ASDN, Cause matrimoniali, 1566, causa Zuozo/Castaldo (i fatti risalgono al 1563). L’impropria cerimonia costò all’uomo il ricorso e la causa matrimoniale. 50 51

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te, arrivato sul posto, a coinvolgere il parroco: nessuna delle interessate aveva pensato a lui52. Neppure la radicale riforma conciliare delle celebrazioni matrimoniali, con il ruolo centrale attribuito alla parrocchia, aveva conferito ai titolari di cura d’anime l’autorevolezza riconosciuta ai religiosi specializzati nella formazione e nell’ascolto delle coscienze. Non è un caso, forse, se a quasi dieci anni dalla conclusione del Concilio tridentino la giovane moglie di un artigiano napoletano vedeva ben poche differenze tra il vecchio e il nuovo modello di solennizzazione dei matrimoni: lle sollennità delli matrimonij sonno le oratione solite, lo preyte, voime et vogliote, secundo avante se faceva, et adesso se fanno le cride et banni in la ecclesia avante se contraya, secundo se vede [le solennità dei matrimoni sono le orazioni solite, il prete, mi vuoi e ti voglio, come si faceva prima, e adesso si fanno le gride e i bandi nella chiesa prima che si contragga, come si vede]53

Per le nozze, secondo questa donna, parroci e parrocchie continuano a non esistere: la sola novità introdotta a Trento è in quelle curiose cride et banni che si vedono pubblicare in una chiesa, una qualunque, da preti qualunque. Non meraviglia perciò che anche dopo il Concilio, e per molti anni, il ruolo dei curati napoletani nel governo della sessualità continui a rimanere offuscato dalla presenza dei confessori. Gli interventi di questi ultimi non andavano sempre nel verso giusto, nella direzione della lotta agli abusi. Al di là dei casi di adescamento e di ‘eresie’ sessuali propagate in confessione (se ne discuterà nel capitolo seguente), essi potevano anche interrompere il flusso di informazioni necessarie per la denuncia delle coppie di fatto, utilizzare il prezioso strumento per garantire rischiose sanatorie a chi viveva nel peccato. Forse andò così nel 1578, in uno dei più precoci procedimenti napoletani di concubinato. 52 ASDN, Cause matrimoniali, 1590, causa Romano/Lagnese (la deposizione resa il 7 luglio 1590 dal religioso, il domenicano fra Egidio Giordano, è alle cc. 12v-14v). 53 ASDN, Cause matrimoniali, 1572, causa Bayez/Mugnoz, 9 ottobre 1572, deposizione di Speranza de Pelletta.

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Nel corso di un giubileo, un giovane notaio aveva chiesto al confessore come doveva comportarsi con un collega che da quindici anni viveva con una donna maritata. Il sacerdote gli aveva suggerito di rivolgersi al parroco, cosa che lui aveva fatto. Ma di fronte all’ammonizione dell’ecclesiastico l’uomo gli aveva consegnato un attestato di assoluzione avuto da un frate agostiniano. Avvertito dal curato, il denunciante aveva parlato al confessore, che gli aveva confermato l’impegno assunto dal professionista di uscire dal peccato e la successiva sua decisione di assolverlo. La vicenda è dubbia, tutti i testimoni d’accusa sono colleghi – forse prevenuti e malevoli – del sospetto concubino, la rivelazione di confessione è poco credibile, ma anche in questo caso la testimonianza è indicativa dei molteplici usi e abusi di un sacramento così importante. Anche il dubbio intervento di due confessori era un ingrediente efficace, che poteva dare credibilità alla trama54. 11. Tuttavia non bisogna pensare che i successi delle mediazioni di coscienza fossero travolgenti. Le questioni matrimoniali, su cui le autorità ecclesiastiche avevano ampi margini di manovra, erano forse più facili da affrontare rispetto alle complicazioni che poteva presentare l’universo variegato e composito dei conviventi. Non è un caso, forse, se le più precoci istanze di regolarizzazione di coppie di fatto timorose di morire ‘nel peccato’ risalgono al 1590, a una data cioè piuttosto tardiva rispetto alla diffusione in città del modello gesuita della confessione frequente: un segno delle difficoltà che la propaganda religiosa incontra nell’inculcare la paura della dannazione eterna tra chi vive nel peccato. Proprio su questo versante, inoltre, non mancano negli stessi anni tracce di aspre resistenze alle raccomandazioni della Chiesa. La più vivace è del 1589, e riguarda Lucza, una giovane cortigiana greca che sta morendo: il parroco della chiesa dei Greci non vuole comunicarla, perché è una pubblica peccatrice. È una vigilia di morte partecipata, ci sono molte persone: gli amici della donna, i devoti che hanno accompagnato il sacerdote con il baldacchino e il sacramento, ma anche parecchi suoi clienti, un po’ dispiaciuti, un po’ incuriositi. Tutti incalzano l’ecclesiastico, lo in54

ASDN, Conc, 121, indagine cit. sul notaio Bernardino Schirillo.

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vitano a darle la comunione, garantendogli che se la donna sopravviverà si toglierà dal peccato, ma il sacerdote è irremovibile: l’impegno lo deve assumere l’interessata. Se non può, perché è in fin di vita e ha perso i sensi, la colpa non è certo della Chiesa, sembra sottintendere: Lucza poteva pensare prima alla sua anima. A quel punto, la madre, visto che le rimostranze sono vane, segnala al prete che il convivente intende sposarla. Quando l’uomo, presente, conferma la sua intenzione (confidò poi ad amici, stupiti della sua scelta di sposare una cortigiana, che era certo della sua morte), l’ecclesiastico si dichiara d’accordo, ma ancora una volta pretende il consenso della moribonda. Glielo chiede prima in greco, poi in italiano, senza esito; alla fine, complice la madre, che le scuote ripetutamente la testa abbandonata sui cuscini, la donna sembra abbassarla un poco («che quasi non la possea abasciare, si non ce la ayutava la matre», osserva un testimone) e acconsentire. Se ne contenta l’intransigente sacerdote, che poi ordina al giovane di baciarla, la comunica, fa prendere un anello e impone al fresco sposo di porlo al dito della moribonda. Due ore dopo però Lucza si riprende, si ritrova con l’anello al dito, chiede spiegazioni alla madre. Quando le raccontano che cosa è successo, con gran impeto gridando se levò lo anello dalo dito et si posse a dire: Che anello, che marito... Et pigliò detto anello e lo buttò in terra, dicendo: Io non voglio marito né mi voglio maritare con detto Cesaro né con altri...

Aggiunge poi, a scanso di equivoci e a futura memoria: Et se io mi havesse da maritare ci vorria pensare mo che sto in senso et ci vorrei stare bene in cervello et vorria dire io che mi voglio maritar et non farlo dire da altro.

Di fronte a una reazione così violenta, il tribunale vescovile non poté che darle ragione: il matrimonio di Lucza fu immediatamente annullato55. 55 ASDN, Cause matrimoniali, 1589, causa Lucza (Lucia) greca/De Bartolo. L’episodio è ricostruito in base all’esame complessivo di tutte le deposi-

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12. Conflitti con la giurisdizione regia, difficoltà dei parroci, relativa indifferenza dei visitatori, mediazioni di coscienza non sempre efficaci, resistenze ‘laiche’ o abili strumentalizzazioni delle strategie della Chiesa: ecco l’eterogenea miscela che si intravede nello stentato avvio della caccia alle coppie di fatto nella capitale. Applicare nella Napoli postridentina la normativa conciliare sul concubinato è impossibile per tutte queste ragioni. È un quadro complesso, per ora difficilmente confrontabile con la situazione dell’Europa cattolica e della stessa Italia, per il semplice motivo che altrove non sono state ancora condotte ricerche approfondite. Se le difficoltà interne alla Chiesa sono largamente attestate ovunque, l’intolleranza statale verso i conviventi per ora trova solide conferme solo in Spagna: in nessuna delle poche diocesi italiane finora studiate ne restano tracce. È problematico per ora stabilire da dove vennero alla Curia arcivescovile napoletana gli ostacoli maggiori. Ebbero con ogni probabilità un peso notevole le reazioni di una città che rispose talvolta con forza, più spesso con smaliziato opportunismo, alle sue iniziative. Non era la prima volta. I napoletani avevano cominciato a misurarsi con l’orizzonte politico-religioso della prima Controriforma con tempismo e intelligenza, non solo a livello popolare. Si pensi alla travagliata applicazione dei decreti tridentini nei monasteri femminili della città, specchio preciso delle resistenze della sua aristocrazia. L’assalto in piena regola delle monache del convento napoletano di S. Girolamo al notaio arcivescovile che intendeva notificare loro una scomunica ne fu nel 1584 uno dei segnali più perentori56. Non andava meglio fra i laici. Nel 1598 fu il Sant’Ufficio diocesano a punire con qualche giorno di carcere un tessitore che, invitato verbalmente a regolarizzare una convizioni. I brani citati sono tratti da quelle di Raymo Barbarulo (6v, 20 luglio 1589), Francesco Cimmino (c. 8v, 20 luglio 1589) e Giovan Pietro Comite (c. 10v, 26 luglio 1589). La prima di esse è parzialmente trascritta in Appendice al presente lavoro, doc. 2. 56 Per l’Inquisizione vedi Romeo, Aspettando il boia, passim; per le tensioni dei monasteri femminili vedi almeno M. Miele, Sisto V e la riforma dei monasteri femminili di Napoli, in «Campania Sacra», 21, 1990, pp. 123-204. Il fascicolo in cui è raccontato l’assalto delle religiose (spalleggiato dai frati che le governavano da sempre) è in ASV, CVR, POS, 1584, N-O.

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venza sotto la minaccia della scomunica, aveva risposto che neppure di 100.000 di quelle punizioni si sarebbe curato57. È più incerta, invece, l’influenza esercitata sulla gerarchia ecclesiastica napoletana dal conflitto sui casi di foro misto. Gli arcivescovi della capitale intrattenevano rapporti strettissimi con i Nunzi apostolici e non potevano ignorare l’importanza che i vertici romani attribuivano alla questione, e al concubinato in particolare. Altrettanto si può dire dei viceré e dei Reggenti del Collaterale. Non ci sono molti dubbi sul fatto che anche per loro le convivenze more uxorio fossero una questione importante e che, più in generale, il controllo della sessualità, soprattutto nella capitale, costituisse uno dei nodi più spinosi dell’azione di governo. Ne sono un esempio efficace il monopolio delle corti regie sulle cause di adulterio e di omosessualità, l’intenso controllo statale della prostituzione garantito dalla Gabella delle meretrici e dal suo tribunale, i violenti contrasti che accompagnarono la trasformazione del delitto di bigamia in crimine di fede da parte dell’Inquisizione romana58. L’ipotesi più plausibile che per ora si può avanzare è che sui nodi giurisdizionali avesse la meglio, per talune questioni, l’esigenza, ben avvertita dal Consiglio Collaterale, di governare insieme alle autorità ecclesiastiche una città così affollata e difficile. Di questa linea politica ci restano tracce precise, a cominciare dagli scenari delle esecuzioni capitali: mai forse come in quei drammatici momenti si manifestava la compattezza istituzionale di Stato e Chiesa. Bisognava raggiungere il difficile obiettivo di saldare giustizia umana e divina, si doveva garantire, attraverso il ruolo dei confortatori incappucciati, il duplice valore – terreno e ultraterreno – delle cerimonie di morte. Né si può sottovalutare poi l’importanza delle grandi processioni cittadine, da quelle in onore di san Gennaro a quella del Corpus Domini: in esse la compresenza di arcivescovi e viceré, di dignitari ecclesiastici e statali, accuratamente regolata dai cerimonieri, è un dato istituzionale di grande 57 ASDN, SU, 1098, processo dell’agosto 1598 a Marco Antonio Castaldo, passim. 58 Per la bigamia vedi Scaramella, Controllo; per tutti gli altri abusi di natura sessuale non ci sono ricerche moderne, ma le fonti archivistiche (in ASDN e in ASN) sono ricchissime di riferimenti all’egemonia statale.

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rilievo59. Per una trasgressione come il concubinato, molto diffusa ma forse meno preoccupante per le autorità secolari, purché non si incrociasse con l’adulterio, il viceré e il Collaterale potrebbero aver abbassato la guardia, tollerando ingerenze ecclesiastiche combattute con migliori risultati nel resto del regno. Era evidente, d’altra parte, che sul piano dei modelli di comportamento le istituzioni statali non avevano strumenti di pressione paragonabili, per efficacia, autorevolezza e capillarità, alle armi spirituali della Chiesa. Si pensi solo al piccolo esercito di 2500 confessori che governava verso la fine del Cinquecento le coscienze dei napoletani, dall’ultimo paria al viceré: punto di riferimento dei loro interventi erano ovviamente le autorità ecclesiastiche, non quelle dello Stato. Un dettaglio può essere indicativo. Molti di loro erano gregari ignoranti, autorizzati ad amministrare il sacramento di trimestre in trimestre, per sopperire alle richieste dei fedeli. Patentati per il rotto della cuffia, forse essi contribuirono poco o nulla alle intercettazioni dei conviventi, ma lavorarono per la Chiesa, non per lo Stato. Nessuna istituzione laica fu in grado di esercitare un ruolo di ‘governo’ individuale lontanamente confrontabile con i poteri conferiti dalle licenze di confessione60. Ancor più pesante fu poi il ruolo di interdizione e di controllo esercitato dall’Inquisizione: le nuove strategie con cui la Congregazione del Sant’Ufficio attrezzò i suoi tribunali locali al governo delle trasgressioni più minute, delle eresie della porta accanto, trovarono a Napoli negli anni Settanta/Ottanta antenne sensibilissime negli ufficiali della Curia arcivescovile. Anche su quei processi le autorità statali avevano poche possibilità di manovra, al di là della bigamia, della bestemmia e di una limitata capacità di controllo sui casi di sortilegio e stregoneria. Inoltre, dopo la riorganizzazione tardocinquecentesca dell’Inquisizione, il rispetto da parte loro del monopolio ecclesiastico sull’ortodossia è rigoroso. Nel 1595, ad esempio, quando il gesuita che mise nei guai il matematico Colantonio Stigliola si rivolse al viceré e al Reg59 Per le esecuzioni capitali in città vedi Romeo, Aspettando il boia, passim; per le processioni i ricchissimi resoconti dei Diari dei Cerimonieri della Cattedrale (in ASDN) sono una testimonianza esemplare. 60 Al riguardo vedi l’esemplare ricostruzione di Mancino, Licentia confitendi, pp. 87-127.

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gente Martos per segnalare i rischi che le eresie dello scienziato potevano comportare per lo Stato, fu invitato a ricorrere all’arcivescovo61. Era nel suo tribunale, non in quelli statali, che si combatteva la battaglia più importante, quella che mirava a distruggere alla radice le troppe libertà della capitale, a disarticolarne le motivazioni. Cauti nella lotta al concubinato, pronti ad aspettare che i laici abbassassero i toni, se erano proprio i loro atteggiamenti a mettere il bastone tra le ruote alle prime iniziative ecclesiastiche, gli arcivescovi napoletani e i loro ufficiali, sostenuti vigorosamente dalla Congregazione del Sant’Ufficio, dedicarono gran parte delle energie disponibili al potenziamento dell’azione inquisitoriale. Anziché rimboccarsi le maniche per avviare la temeraria impresa di costringere le coppie di fatto alla separazione o, quando era possibile, al matrimonio, decisero di fare terra bruciata attorno a chi, oltre a vivere la sessualità in modo disordinato, difendeva la liceità dei suoi comportamenti. Bisognava screditarli e delegittimarli attraverso lo spauracchio dell’accusa di eresia. Fu quello l’obiettivo principale dei vertici diocesani, vigorosamente sostenuti dagli inquisitori generali, all’indomani del Concilio di Trento. 61 Deposizione del 25 luglio 1595 di padre Claudio Migliaresi, in Amabile, Il Santo Officio, II, p. 51 (dei Documenti annessi).

III INQUISIZIONE NAPOLETANA ED ‘ERESIE’ SESSUALI: IL TARDO CINQUECENTO

1. Gli inquisitori in Italia non avevano alcun titolo per interessarsi di concubinato o di altri abusi sessuali ‘ordinari’. Vivere la sessualità in modo disordinato, senza altre aggravanti, non bastava ad alimentare sospetti di eresia. Il caso della sodomia è indicativo: la Congregazione del Sant’Ufficio lasciò andare rapidamente in desuetudine la decisione di Paolo IV di affidarla ai giudici di fede, con una scelta che differenziò nettamente l’Italia dalla Spagna e dal Portogallo, dove invece furono gli inquisitori ad interessarsene. In Italia le due sole eccezioni al principio che i disordini sessuali sono trasgressioni di competenza dei tribunali ordinari vennero tra il tardo Cinquecento e il primo Seicento dalla trasformazione della bigamia e dell’adescamento in confessione in violazioni dell’ortodossia. Si trattava però di deroghe legate ai due sacramenti – penitenza e matrimonio – messi in qualche modo in discussione da quegli abusi. Non si ritenne mai, al contrario, che chi viveva esperienze sessuali proibite potesse essere, per quella sola ragione, sospettato di idee eterodosse: la scelta di convivere, i rapporti occasionali, la sodomia, lo stesso adulterio furono considerati eccessi dovuti alla passionalità e ad umane debolezze, non a convincimenti erronei. La linea di demarcazione tra sessualità disordinata ed eresia rimase in Italia sostanzialmente stabile anche quando la penetrazione delle idee della Riforma protestante modificò radicalmente i confini dell’ortodossia. Certo, nelle accuse dei primi polemisti cattolici, i piaceri materiali furono visti come elementi decisivi dei successi dei protestanti. Dalla demonizzazione di Lutero al con-

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vincimento che molti fossero diventati suoi adepti solo per volgare edonismo il passo fu breve. Tuttavia la diffusa circolazione di questi schemi non solo non impedì, ma forse favorì ulteriormente l’adesione alla Riforma1. Ma, al di là della propaganda e dei suoi incerti esiti, non è semplice stabilire se nelle concrete motivazioni che accompagnarono talvolta l’adesione all’eresia abbiano effettivamente pesato anche presunti atteggiamenti di maggiore apertura dei protestanti verso la sessualità. Per quanto risulta finora, tra i piaceri proibiti che le nuove confessioni cristiane avrebbero liberato, il primo posto spetta al cibo, non al sesso. Nei decenni centrali del Cinquecento la libertà dalla precettistica alimentare, e soprattutto dalle limitazioni nel consumo di carni, ha un’importanza enorme. «Nel marzo del 1524», ha ricordato di recente Massimo Firpo, «Marin Sanudo registrava notizie provenienti da Bergamo, secondo cui nelle vicine terre grigionesi ‘tutte quelle zente sono diventate luteriane et mangiano carne come se non fosse quadragesima’»2. Di lì a poco, nel decennio 1540-1550, in una ‘classifica’ delle eresie più popolari tra gli inquisiti italiani, al terzo posto figura proprio la possibilità di mangiare ciò che si vuole quando si vuole, frequentemente giustificata col riferimento al brano del vangelo di Matteo «Non quod intrat in os coinquinat hominem» (Mt 15, 11: «Non ciò che entra in bocca infetta l’uomo»)3. La libertà evangelica fu avvertita in primo luogo come liberazione dal giogo dei divieti alimentari, complici anche l’influenza delle posizioni di Erasmo e l’accresciuta severità dei controlli del1 Non a caso, come ha osservato Gigliola Fragnito (Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna 2005, pp. 178-179n.), «fin dalle prime riunioni di quella che diverrà la Congregazione dell’Indice era stato deciso di vietare i libri di controversia in volgare, equiparati alle traduzioni bibliche in quanto veicolo di errori tra i ‘semplici’». Il resto lo fecero i supremi inquisitori, che negli anni Ottanta del Cinquecento provvidero a revocare a vescovi e inquisitori la facoltà di rilasciare licenze per la lettura di libri di controversia in volgare. Si temeva che essi, anziché screditare le posizioni degli avversari, finissero per propagandarle ancor meglio (Ead., La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna 1997, pp. 134-136). 2 M. Firpo, Vittore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della Chiesa e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari 2006, p. 305. 3 S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Torino 1987, pp. 50-51.

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le autorità ecclesiastiche4. Così, quando la persecuzione degli eretici entrò nel vivo, le infrazioni della precettistica alimentare diventarono per gli inquisitori un indizio concreto di colpevolezza e furono anche oggetto di interventi delle autorità statali. È il caso dei rettori di Bergamo, che erano anche membri dell’Inquisizione locale: essi emanarono per la quaresima del 1548 un apposito editto in cui il divieto di consumo di cibi proibiti era motivato proprio dal sospetto di eterodossia5. Non c’è confronto con i riferimenti, molto più circoscritti, a presunte libertà di tipo sessuale garantite dalla Riforma. Al di là del celibato degli ecclesiastici e del significato liberatorio del matrimonio dei preti non si va. Si possono qui ricordare i pesanti rilievi di un intellettuale raffinato come Paolo Giovio sulla vera identità, per così dire, dei luterani, che divisi in 48 sette si rideno di Cristo e non credano in Dio e vogliono godere li beni della Chiesa, chiavare moniche e mangiare carne il venerdì, non durare fatica d’andare a messa, non fare spesa de essequie de morti, e non guastarsi il stomaco con la quaresima6.

Per Giovio, ridotti alle loro motivazioni più autentiche, i nuovi nemici della Chiesa di Roma non sono altro che dei viziosi o dei furbi. Hanno trovato il modo più efficace per liberarsi dagli obblighi più fastidiosi imposti dal cristianesimo tradizionale e per impadronirsi dei beni ecclesiastici. Ma nell’insieme delle bassezze che ne avrebbero fatto la fortuna i disordini sessuali hanno uno spazio abbastanza limitato. Il riferimento agli eccessi compiuti con le spose di Cristo fa pensare non tanto a una generalizzata libertà di costumi che la Riforma protestante avrebbe favorito, ma alla forte attenzione suscitata nel clero, e forse nelle stesse religiose, dall’attacco al celibato ecclesiastico. Lo aveva segnalato già nel 1530, con precisione ancora maggiore, un Lamento de Italia contro Martin Lutherano, apparso forse a Bologna in occasione dell’incoronazione di Carlo V: preti, monache e frati sono consideraIvi, pp. 110-115. Firpo, Vittore Soranzo, pp. 383-384. 6 P. Giovio, Lettere, a cura di G.G. Ferrero, 2 voll., Roma 1956-8, I, p. 248. 4 5

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ti, insieme ad improbabili bigami ‘eretici’, gli italiani più pronti a cedere alle lusinghe sessuali del perfido ‘cane’ tedesco7. Non erano solo polemiche pretestuose, volte ad arginare l’emorragia inarrestabile che in quegli anni stava depauperando i ranghi di molti Ordini religiosi. Tracce sporadiche ma precise di collegamenti tra adesione di ecclesiastici ad idee eterodosse di matrice protestante e rivendicazione di una vita sessuale libera da condizionamenti si ritrovano in alcuni processi inquisitoriali di metà secolo. Penso a una vicenda illustrata da Massimo Firpo nel recente, importante libro dedicato a Vittore Soranzo, il vescovo di Bergamo processato due volte come eretico dall’Inquisizione romana e raggiunto dalla condanna definitiva – la privazione del vescovato – nel 1558, pochi giorni prima della morte. Nel 1550, mentre si stava addensando su di lui la tempesta che lo avrebbe travolto, il prelato si trovò ad affrontare il delicato caso di don Parisotto, un viceparroco che era anche suo confessore e uomo di fiducia, oltre che copista di testi ereticali per suo conto: proprio lui, uno dei suoi più stretti collaboratori, si era sposato con una monaca con cui aveva da tempo una relazione. Per convincere una religiosa presente alla improvvisata cerimonia nuziale che la loro non era una scelta peccaminosa, il sacerdote le mostrò un libro, «forse il Del matrimonio de’ preti e delle monache pubblicato dal Vergerio nel 1549, e gliene lesse alcune pagine dalle quali ‘pareva che l’era licito ad una monacha incontinente potersi maridare’»8. Non è l’unica traccia dei convincimenti ereticali del sacerdote, che, protetto da sempre dal Soranzo, poté persistere per un po’ sia in un’esperienza così trasgressiva, sia nel proselitismo religioso. Il sostegno del vescovo non gli mancò neppure dopo l’inevita7 Vedi M. Firpo, Dal sacco di Roma all’Inquisizione. Studi su Juan de Valdés e la Riforma italiana, Alessandria 1998, pp. 48-49. Quanto ai temi del Lamento de Italia contra Martin Lutherano. Opera nova, s.n.t., ecco il brano relativo a preti e monache: El prete dice: «Anch’io torrò moglie»... La monacella spera el maritarsi / e lasciare e digiuni e discipline, / e crede col marito accompagnarsi / (pp. avv[avi]r.). Copia del prezioso testo mi è stata fornita da Massimo Firpo, che ringrazio per la cortesia. 8 Firpo, Vittore Soranzo, p. 155.

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bile condanna: fu proprio grazie a lui, quando il timore di interventi del podestà lo convinse che era meglio tagliare la corda, che don Parisotto fuggì senza difficoltà in Svizzera con la moglie. Ma la tolleranza mostrata nei suoi confronti costò cara al Soranzo, perché i cardinali del Sant’Ufficio furono inflessibili nel pretendere da lui una spiegazione della connivenza manifestata9. Andò molto peggio, ancora nel 1550, a un prete bresciano. Denunciato al vicario episcopale della sua città e finito subito davanti all’inquisitore, per numerose, gravissime eresie, il suo processo ebbe un esito tragico. Condannato a morte, fu giustiziato in modo particolarmente crudele: gli fu prima tagliata la lingua e poi la testa. Tra i suoi errori spiccavano l’elogio dei piaceri della sodomia e il richiamo insistito ai rapporti amorosi tra Cristo e san Giovanni. Egli pagò un prezzo così pesante per aver rovesciato l’immagine abituale del figlio di Dio, trasformandolo in modo dissacrante nel prototipo dei propri comportamenti proibiti10. 2. Si tratta di testimonianze isolate, che non consentono per ora generalizzazioni, anche perché riguardano prevalentemente uomini di Chiesa. Sembra difficile, inoltre, negare il peso – ben diverso – esercitato dalle impressioni di chi verificava di persona come vivevano i ‘luterani’. Ad esempio, tanti italiani andavano davvero a Ginevra, per curiosità o per interessi religiosi. Fece così l’artigiano veneziano Marcantonio Varotta, che vi si recò nel 1564 per «vedere una terra dove tutti erano luterani», si convertì, ma se ne allontanò, stufo, dopo tredici mesi, «perché là non era alcuno spasso». Neppure in Moravia, dove fu spinto ad andare poco dopo dalla stessa curiosità, il comunismo dei beni praticato da alcune delle tante ‘sette’ anabattiste locali fu da lui letto in chiave sessuale. Di eresie di quel tipo non c’è traccia nei suoi ricordi, a me9 Ivi, pp. 156-157 (per la fuga); pp. 428, 438-439, 441 (per l’insistenza romana sul caso di don Parisotto). 10 R. Canosa, Sessualità e Inquisizione in Italia tra Cinquecento e Seicento, Roma 1994, pp. 167-170; G. Dall’Orto, “Adora più presto un bel putto, che Domenedio”. Il processo a un libertino omosessuale: Francesco Calcagno (1550), in «Sodoma», 5, 1993, pp. 43-55 (il testo del processo è leggibile anche in www.giovannidallorto.com).

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no che non si voglia considerare tale un accenno indiretto alla negazione della verginità di Maria11. In generale, poi, riesce difficile immaginare che tra gli italiani del Cinquecento l’adesione alla Riforma possa aver avuto forti connotazioni ‘sessuali’. In città come Firenze e Venezia, la pratica della sodomia, ancorché proibita, era molto diffusa e non suscitava particolare riprovazione nelle élites colte, soprattutto nella città toscana12. Allo stesso modo, l’Italia piena di libertini e di atei che faceva fremere Calvino e tanti altri esponenti dell’alta cultura europea del Cinquecento non aveva certo bisogno di Lutero per giustificare la libertà di comportamenti cui erano abituati molti dei suoi abitanti. Si dovrebbe poi tenere nel debito conto il peso che ebbero nella penisola vicende drammatiche e cariche di implicazioni culturali e religiose, come l’esecuzione a Ginevra, nel 1553, del medico spagnolo Serveto13. L’intolleranza religiosa che si affermava nel cuore delle nuove confessioni cristiane era difficilmente compatibile con i segnali ben diversi provenienti dal matrimonio dei preti e dall’abolizione della precettistica alimentare. In un quadro così complesso, altre suggestioni potrebbero essere venute in Italia dalle due religioni del libro più diffuse, per ragioni diverse, nella penisola: l’ebraismo, rappresentato da comunità ricche e ben radicate nel territorio, anche nel regno di Napoli, nonostante l’espulsione del 1541, e l’islam, reso familiare in Italia, come legge dei turchi, dai racconti di viaggio, dalle esperienze di migliaia di rinnegati in terra ottomana e dalla cospicua presenza di schiavi musulmani. La circolazione della novella medievale delle tre anella, ripresa nel Decameron (tutti si salvano, compresi ebrei e turchi, se osservano i dettami della propria reli11 La sua bellissima confessione, risalente al 21 gennaio 1567, è pubblicata in appendice a D. Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611), Firenze e Chicago 1970, pp. 194-216 (per il resoconto dell’esperienza ginevrina, vedi pp. 196-202; per l’accenno alla paternità fisica di san Giuseppe, p. 212). 12 Vedi R. Canosa, Storia di una grande paura. La sodomia a Firenze e a Venezia nel Quattrocento, Milano 1991. 13 Per l’Italia libertina, vedi G. Spini, Ricerche sui libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, Firenze 1983. Quanto alle discussioni aperte dal rogo di Serveto, vedi le classiche pagine di D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Firenze 1967, pp. 154 sgg.

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gione), esprime bene la disponibilità degli italiani del Cinquecento al confronto con le ‘leggi’ di Mosé e Maometto, che non di rado s’intreccia con l’attenzione al nuovo modello cristiano proposto dai luterani. Gli spunti provenienti dall’ebraismo, dall’islamismo e dal protestantesimo appaiono saldati spesso da un’unica, forte tensione anticattolica14. È difficile però stabilire quanto peso abbia la sessualità in queste suggestioni. Ad esempio, non sembra che bigamia e levirato, previsti dalla religione ebraica, abbiano suggestionato più di tanto i cattolici italiani15. Né li attirano verso la legge di Mosè curiosità per eccessi come quelli addebitati strumentalmente nel 1509 ad alcuni ebrei pugliesi, accusati di riunirsi il venerdì santo e di praticare, dopo la predica, orgie incestuose («extingeno le candele, et... li homini con le donne usano carnalmente... li padri con le figlie et altre con le sorelle»16). Il fatto è che, pur non mancando casi di motivate adesioni individuali all’ebraismo e di vere e proprie conversioni (più rare per l’islam), la dispersione e lo stato di sudditanza delle comunità ebraiche rendono impossibile la proiezione di suggestioni religiose verso luoghi concretamente raggiungibili o facilmente mitizzabili, mancando un corrispondente giudaico di Ginevra o Costantinopoli17. 14 Vedi L. Rostagno, Mi faccio turco. Esperienze e immagini dell’Islam nell’Italia moderna, Roma 1983, pp. 75-85. 15 Non sono rimasti spunti di questo tipo nella documentazione inquisitoriale che conosco. Per gli ebrei vedi C. Colafemmina, La poligamia presso gli ebrei nel Medioevo, in «Quaderni medievali», 34, 1992, pp. 114-122, e il recente contributo di C. Galasso, «La moglie duplicata». Bigamia e levirato nella comunità ebraica di Livorno (secolo XVII), in Trasgressioni, a cura di Seidel Menchi e Quaglioni, pp. 417-441. 16 L’episodio è ricordato da Amabile, Il Santo Officio, I, p. 100; da F. Ruiz Martín, La expulsión de los judíos del reino de Nápoles, in «Hispania», 9, 1949, pp. 179-240, pp. 54 sgg.; più ampiamente da V. Bonazzoli, Gli ebrei del Regno di Napoli all’epoca della loro espulsione. II parte: Il periodo spagnolo (1501-1541), in «Archivio storico italiano», 137, 1981, pp. 179-287, in particolare pp. 190204 (la montatura, che non fu isolata, rientrava nel progetto di Ferdinando il Cattolico di introdurre l’Inquisizione spagnola nel regno). 17 È un tema poco studiato, nella pur ampia letteratura dedicata all’intolleranza antiebraica e alla presenza degli ebrei nell’Italia della Controriforma. Mi limito qui a segnalare i quattordici volumi dedicati alla repressione inquisitoriale di ebrei e giudaizzanti a Venezia da P.C. Ioly Zorattini, Processi del Sant’Ufficio di Venezia contro ebrei e giudaizzanti, Firenze 1980-99; K.R. Stow, Catho-

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In questo senso, invece, appare più significativa l’influenza della ‘legge’ dei turchi, anche se non si avverte in tutta la penisola allo stesso modo. Venezia, ad esempio, fu un crogiolo unico di esperienze, contatti e confronti: la traduzione italiana del Corano curata da Andrea Arrivabene nel 1547 e la sua circolazione in ambienti della Riforma radicale, la presenza di un intellettuale come Postel, con la sua proposta di estendere ai turchi un cristianesimo ridotto all’essenziale, lo spirito attento e politicamente avvertito che pervade le relazioni degli ambasciatori veneti a Costantinopoli, sono lo specchio di una situazione forse irripetibile18. Anche tra l’Italia marittima e quella continentale ci sono grandi differenze: il confronto tra Napoli e Pisa da una parte e Modena dall’altra mostra con chiarezza la maggiore profondità e ampiezza delle suggestioni ‘islamiche’ nelle zone rivierasche. Complessivamente, però, una forte curiosità per la legge dei turchi, che spesso diventa simpatia e apprezzamento, è diffusa un po’ ovunque. La esprimono al meglio l’interesse per la poligamia e l’attenzione alla precettistica alimentare islamica, che appare meno vincolante di quella cristiana, pur se talvolta è qualificata come ‘quaresima dei turchi’19. Ancora una volta, però, il cibo sembra prevalere nettamente sul sesso: se è vero che alcuni rinnegati finiti davanti ai tribunali inlic Thought and Papal Jewry Policy. 1555-1593, New York 1977; Sh. Simonsohn, The Apostolic See and the Jews. Documents: 1539-1545, Toronto 1990; i saggi contenuti in L’Inquisizione e gli ebrei in Italia, a cura di M. Luzzati, Roma-Bari 1994; i lavori pubblicati in Storia d’Italia. Annali 11: Gli ebrei in Italia. Dall’Alto Medioevo all’età dei ghetti, a cura di C. Vivanti, I, Torino 1997 (in particolare quelli di F. Parente, La Chiesa e il “Talmud”, pp. 521-643, e di R. Segre, La Controriforma: espulsioni, conversioni, isolamento, pp. 709-778) e i contributi inseriti in AA.VV., Le Inquisizioni cristiane e gli ebrei. Tavola rotonda nell’ambito della Conferenza annuale della ricerca, Roma 2003. 18 Per Arrivabene, vedi C. De Frede, La prima traduzione italiana del Corano sullo sfondo dei rapporti tra Cristianità e Islam nel Cinquecento, Napoli 1967; V. Segesvary, L’Islam et la Réforme, Lausanne 1978. Per la figura di Postel, M. Leathers Kuntz, Venice, Myth and Utopian Thought in the Sixteenth Century. Bodin, Postel and the Virgin of Venice, Aldershot 1999; Y. Petry, Gender, Kabbalah and the Reformation. The mystical theology of Guillaume Postel (15101581), Leiden-Boston 2004. Quanto agli ambasciatori veneti, vedi almeno Relazioni di ambasciatori veneti al Senato: tratte dalle migliori edizioni disponibili e ordinate cronologicamente, a cura di L. Firpo, Torino 1965. 19 Rostagno, Mi faccio turco, p. 69.

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quisitoriali italiani divennero poligami in terra ottomana e altri al ritorno in Occidente, l’affrancamento dai complicati e rigorosi divieti alimentari cattolici attira molto di più20. La possibilità di mangiare insieme ai turchi cibi proibiti nel proprio paese era considerata il segno di un governo della vita quotidiana ispirato a una libertà sconosciuta al cattolicesimo tridentino. Si poteva fuggire nelle ricche terre dell’impero ottomano o, per gli schiavi, decidere di rimanerci, anche per sfuggire alla morsa che la Chiesa della Controriforma stava stringendo sul cibo e sul sesso: Costantinopoli come Ginevra, insomma. Inoltre, se è vero che le aperture alla poligamia da parte degli eretici moderni furono uno dei motivi che spinsero il Sant’Ufficio, nel tardo Cinquecento, ad inserire la bigamia tra le competenze dell’Inquisizione21, l’attenzione della Chiesa romana al modello matrimoniale musulmano e alla sua attrattiva sui cattolici restò viva: nel 1625 la possibilità di avere più mogli figurò insieme alla libertà dalla precettistica alimentare e ad altre usanze dei turchi nel primo schema d’interrogatorio predisposto per gli inquisitori italiani alle prese con gli apostati all’islam22. 3. Uno stimolo ancora più potente alla diffusione di ‘eresie’ sessuali potrebbe essere venuto in Italia dalla circolazione di temi anticlericali. In essa ebbe un ruolo notevole lo stesso clero, stimolato dalla presenza ingombrante della Curia romana e dal vigore polemico delle denunce protestanti23. L’ostilità verso gli ecclesiastici, in particolare verso quelli più potenti, è legata soprattutto alla loro avidità di beni materiali – in primo luogo, denaro, cibo e sesso – e all’ipocrisia, all’ambigua posizione morale di chi predica bene e razzola male. Papi, cardinali, vescovi e prelati sono il bersaglio favorito di invettive e attacchi perché mangiano, 20 Per rinnegati con più mogli in terra ottomana, vedi ivi, p. 75; per quelli che diventano bigami al ritorno, vedi proprio alcuni casi napoletani ricordati da Scaramella, Controllo, pp. 479-481. Per l’attrazione delle libertà alimentari ‘turche’, vedi ancora Rostagno, ivi. 21 Vedi Scaramella, ivi, pp. 470-481, ma anche la ricchissima trattazione di Albizzi, De Inconstantia, pp. 423-487. 22 È il Sacro Arsenale del Masini: vedi Rostagno, Mi faccio turco, pp. 52-53. 23 Vedi il libro vivace e ben documentato di O. Niccoli, Rinascimento anticlericale. Infamia, propaganda e satira in Italia tra Quattro e Cinquecento, RomaBari 2005, in particolare pp. 24-28.

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bevono, godono dei favori delle donne, ma nel contempo raccomandano sobrietà e astinenza ai fedeli. Anche per queste ragioni l’etica sessuale della Chiesa è poco credibile. Si pensi a una delle più sapide facezie raccolte nella Toscana del Quattrocento dal celebre pievano Arlotto: la storia del contadino che un arciprete s’impegna ad assolvere, per pratiche coniugali sodomitiche confessate in settimana santa, solo in cambio di una buona quantità di vino. È una richiesta eccessiva per il magro bilancio familiare dell’uomo, che non sa come uscire dal vicolo cieco. Lo salva però una maliziosa trovata della moglie. Fingendo un gesto di particolare riguardo, la donna fa provare all’ecclesiastico del vino spillato dalla parte anteriore e da quella posteriore della stessa botte e gli domanda qual è il migliore. Quando però l’arciprete, che se ne intendeva, dice che non c’è differenza tra i due assaggi, lo costringe a rinunciare alle sue pretese, replicandogli con asprezza: se il vino contenuto nella botte è sempre lo stesso, perché ostinarsi a vedere il peccato nei loro atti, perché impicciarsi di scelte consensuali che non lo riguardavano? In un ambiente tanto duro non c’è possibilità di dialogo tra Chiesa e fedeli: le prescrizioni di natura religiosa sono avvertite solo come uno strumento di estorsione24. Rispetto a un’ostilità così radicata, gli orizzonti della Controriforma introducono elementi di scontro ancora più forti. Temi come la diffusione del modello mariano nell’Europa cattolica del Seicento, le censure all’immagine della Madonna delle Grazie che allatta le anime purganti, la sessualità di Cristo nell’iconografia rinascimentale mostrano, su piani diversi ma concomitanti, la forte esigenza della Chiesa della Controriforma di desessualizzare i due simboli più importanti di una Sacra Famiglia piuttosto anomala, che veniva poi proposta ai fedeli come concreto modello di vita25. Il documento è illustrato da Mazzi, Prostitute, pp. 362-364. Cfr. L. Accati, The larceny of desire: the Madonna in Seventeenth-Century Catholic Europe, in Disciplines of Faith. Studies in Religion, Politics and Patriarchy, edit by J. Obelkevich, L. Roper e R. Samuel, London-New York 1987, pp. 73-86 (in particolare pp. 78-79). Suggestivo anche, della stessa studiosa, Lo spirito della fornicazione: virtù dell’anima e virtù del corpo in Friuli fra ’600 e ’700, in «Quaderni storici», 14, 1979, pp. 644-672. Le censure alle immagini della Madonna che allatta sono studiate nel bel libro di P. Scaramella, Le Madonne del Purgatorio. Iconografia e religione in Campania tra Rinascimento e Controrifor24 25

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Sul piano del governo della sessualità queste spinte si traducono in una controffensiva rigorista pesante, anche se fortemente contrastata: non appena si affinano gli strumenti di intervento della Chiesa, si inaspriscono le reazioni degli interessati. Un episodio capitato verso la metà del Cinquecento nello Stato pontificio ne è una traccia limpidissima. Teatro della vicenda, che si svolge nel 1559, alla vigilia della morte di Paolo IV, è la città vescovile di Orvieto. Un domenicano inviperito segnala alla Congregazione del Sant’Ufficio un grave errore del vicario generale della diocesi e le sue conseguenze, disastrose per l’immagine del clero locale. Tutto era scaturito da un processo delicato e controverso, relativo al presunto, gravissimo abuso di uno sconosciuto sacerdote. Il delitto che gli era stato addebitato – l’adescamento in confessione – era da pochi mesi al centro delle preoccupazioni di Paolo IV e del Sant’Ufficio e si sarebbe imposto nell’arco di pochi decenni in Spagna, Portogallo e Italia come uno dei più gravi crimini di fede26. L’ecclesiastico era accusato di aver contrattato l’assoluzione di una penitente con un favore di natura sessuale – il corpo della figlia, in cambio di un paio di scarpe. Secondo il domenicano, tra l’altro, le cose erano andate diversamente e la colpevolezza del sacerdote era tutta da dimostrare. Malgrado ciò, pur garantendo la consueta riservatezza al confessore disonesto, il vicario aveva emanato una condanna sconsiderata, se non folle, a carico della madre ruffiana, colpita da una pena infamante: legata in pubblica piazza, con la testa coperta da una mitra su cui erano disegnati un monaco e due figure femminili e due cartelli didascalici al collo (uno ricadente sul petto, l’altro sulla schiena), che illustravano ai passanti il senso dell’immagine. Le reazioni dei maschi della città non si erano fatte attendere: convinti che la responsabilità fosse del prete, avevano vietato a mogli e sorelle di confessarsi più di una volta l’anno e avevano collegato la recentissima proibizione del Decameron alla volontà della Chiesa di nasconde-

ma, Genova 1991; la sessualità di Cristo in L. Steinberg, La sessualità di Cristo nell’arte rinascimentale e il suo oblio nell’età moderna, Milano 1986. 26 Vedi Romeo, Esorcisti, pp. 163 sgg.

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re le verità scomode che quel libro rivelava sui costumi depravati del clero27. L’episodio è indicativo. Anche quando le autorità ecclesiastiche combattono la sessualità proibita su più fronti, facilitando e sostenendo il lavorio di confessori e direttori spirituali con l’azione di ripulitura svolta dai censori, basta poco (un errore di valutazione, un eccesso di rigore), perché i meccanismi di controllo siano messi fuori uso da contromisure rapide ed efficaci: una diffidenza atavica apparentemente sopita riprende vigore e distrugge trame tessute a stento. Così lo stesso clero riformatore contribuisce, senza volerlo, a rendere più difficilmente proponibile un’etica rigorista che i fedeli non amano. Insomma, per le autorità ecclesiastiche della prima Controriforma, pur in una fase di crescita e di rafforzamento, il controllo degli amori proibiti continuava a rimanere problematico. Senza il sostegno dell’Inquisizione, senza la sua capacità di combattere alla radice la sessualità disordinata, tutto sarebbe diventato più difficile. La Napoli del tardo Cinquecento ne è una testimonianza esemplare. 4. La prima sfida ‘sessuale’ venne combattuta dal Sant’Ufficio napoletano prestissimo, in anni in cui l’allarme per la diffusione del dissenso religioso in Italia era molto alto. Nel 1551, nel più antico processo locale di eresia arrivato fino a noi, si esamina la complessa posizione di quattro ecclesiastici formatisi alla scuola di uno dei più influenti propagatori delle idee riformate nel Sud, l’agostiniano fra Lorenzo Romano. Tutti sono accusati di aver coltivato idee eterodosse e di noncuranza religiosamente motivata delle proibizioni alimentari, alcuni anche di sodomia, uno di concubinato. Ma le strategie processuali dei giudici napoletani sono limpide, nette: eresia e infrazioni alimentari comportano accurati interrogatori, la convivenza interessa pochissimo, la sodomia ha un forte rilievo, ma solo sul piano criminale. È un abuso, quest’ultimo, che non alimenta sospetti sul piano dell’ortodossia, pur conservando intatta la sua gravità, la ‘vigliaccaria’ di un atto contro natura, consumato oltre tutto, nel caso in questione, a danno di ragazzini. Perciò il sacerdote più compromesso è sottoposto a due 27

Id., Confesseurs, pp. 153-165 (in particolare pp. 153-56).

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pesantissime torture, affidate ad ufficiali della Gran Corte della Vicaria. Sono ben altrimenti motivati, sul piano religioso, gli insistenti interrogatori che mirano a fare luce sul consumo di cibi proibiti28. Il problema della commistione di trasgressioni di diverso spessore finite davanti all’Inquisizione si ripropose ai giudici della Curia vescovile di lì a poco, in una temperie culturale e religiosa profondamente mutata. Siamo nel 1566-1567, nella fase finale della grande caccia agli eretici. Mentre Pio V, i cardinali del Sant’Ufficio e gli inquisitori spengono nel sangue le ultime voci del dissenso religioso di matrice protestante, denunce di tipo nuovo cominciano ad arrivare in Curia. In esse anche la condizione di ’nnammecate, insieme ad altre trasgressioni, è segnalata come spia di comportamenti eterodossi, di possibili deviazioni ereticali. A quella prima ondata si aggiunse, soprattutto nei tre decenni successivi, il fiume in piena degli esposti relativi alle superstizioni e alle pratiche magico-diaboliche. Molto spesso alle accuse di sortilegio e di magia si accompagnarono addebiti tra i più vari: convivere, bestemmiare, non osservare il precetto pasquale, mangiare liberamente carne e altri cibi proibiti, senza alcun rispetto delle prescrizioni della Chiesa. Ecco come si comincia a profilare a Napoli, a qualche anno dalla chiusura del Concilio di Trento, la figura del

28 ASDN, Processi criminali (in corso di riordinamento), 1551, processo a don Felice da Rieti e altri. Una prima presentazione del documento, dal punto di vista dell’eresia, è in P. Scaramella, «Con la croce al core». Inquisizione ed eresia in Terra di Lavoro (1551-1564), Napoli 1995, pp. 61-70. Il nucleo centrale del manoscritto riguarda l’accertamento dei crimini comuni, e della sodomia in modo particolare. Da questa fase del procedimento si ricava la valutazione espressa nel testo (vedi soprattutto ASDN, Processi criminali, c. 65r, decisione del 19 ottobre di torturare don Martino de Martino, e 66r-68r, costituti resi sotto tortura dal sacerdote – il secondo per un’ora – il 19 e 20 ottobre 1551, caratterizzati da ripetuti, violenti strappi). Solo di uno dei quattro ecclesiastici è nota la condanna (all’esilio). Si ignora anche l’andamento del processo di eresia (l’ipotesi più probabile è che esso sia stato avocato dalla Congregazione del Sant’Ufficio). Una situazione non molto diversa (una sovrapposizione di eresia e omosessualità) potrebbe essersi profilata a Lucca intorno al 1570 nel celebre convento di S. Frediano, anche se finora non sono affiorati elementi utili a chiarire eventuali connessioni tra il dato sessuale e quello religioso (vedi l’ottimo contributo di U. Grassi, L’Offitio sopra l’honestà. La repressione della sodomia nella Lucca del Cinquecento, in «Studi storici», 48, 2007, pp. 127-159).

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malo christiano sospetto d’eresia, che si chiede al Sant’Ufficio di castigare29. Non era del tutto scontato che un intreccio di abusi così eterogenei fosse presentato a un giudice ecclesiastico, e in particolare a un inquisitore. Tra quegli eccessi solo l’infrazione dei precetti alimentari era diventata, nel corso del Cinquecento, un grave indizio di eresia. La blasfemia, invece, pur stigmatizzata da sempre dalla Chiesa, oltre che dallo Stato, stava entrando proprio allora tra le violazioni lesive dell’ortodossia, grazie alla distinzione introdotta dalla Congregazione del Sant’Ufficio tra bestemmie semplici ed ereticali e alla sua applicazione estensiva da parte degli inquisitori. I bestemmiatori furono pregiudizialmente sospettati di eresia e perciò affidati ai soli giudici di fede, non senza tensioni con le magistrature laiche (non a caso, la blasfemia fu uno dei delitti di foro misto più controversi). Convivenza e omissione del precetto pasquale erano invece comportamenti largamente diffusi, sostanzialmente tollerati, che apparivano per la prima volta all’orizzonte dei giudici del Sant’Ufficio napoletano. Ma la risposta di questi ultimi non era scontata. Grazie all’anomalia dell’assetto inquisitoriale in città, gli ufficiali diocesani erano le sole autorità ecclesiastiche competenti su tutti quegli eccessi: sia sui delitti contro la fede (bestemmie e cibi proibiti), sia su quelli ordinari (convivenza e omesso precetto). Ministri del viceré permettendo, i giudici della Curia arcivescovile potevano dare un seguito a tutti i capi d’accusa, distribuendoli tra i vari uffici del tribunale. Adottarono invece soluzioni differenziate, se non contrapposte: aprirono processi di sospetto d’eresia per il consumo di cibi proibiti e le bestemmie, lasciarono cadere i dubbi sull’ortodossia di concubini e inconfessi. Fu un’eccezione, insomma, la vicenda, già ricordata, del bidello processato nel 1578 dal Sant’Ufficio per infrazioni alimentari e condannato anche a sposare la convivente. Eppure, almeno per le famiglie di fatto, nulla vietava agli ufficiali dell’Inquisizione diocesana, una volta esclusa l’apertura di un procedimento per sospetto d’eresia, di intervenire in veste di giudici ordinari, di costringere le coppie a separarsi o, se potevano, a sposarsi. 29 Si tratta, tra il 1567 e il 1600, di oltre un centinaio di testimonianze (tra ASDN, SU, e miscellanee giudiziarie in corso di riordinamento).

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Neppure quel percorso, però, fu ritenuto praticabile: per tutto il tardo Cinquecento la Curia arcivescovile preferì, con poche eccezioni, tenere le coppie di fatto al riparo da qualsiasi iniziativa giudiziaria. Perché abbia optato per quella soluzione non è chiaro. Una cosa però sembra evidente. Alla luce della documentazione inquisitoriale tardocinquecentesca relativa ai casi di foro misto più controversi (bestemmia, concubinato e bigamia), l’ipotesi dell’influenza del conflitto giurisdizionale deve essere ridimensionata. Il timore di inasprire ulteriormente rapporti già difficili con le autorità spagnole ebbe un peso relativo sull’inerzia mostrata verso i conviventi: se fosse stata quella la preoccupazione principale della Curia, bisognerebbe spiegare perché i suoi giudici nel tardo Cinquecento processarono tanti bestemmiatori e cominciarono a considerare la bigamia un delitto contro la fede, in linea con le più aggiornate disposizioni romane30. Perché, allora, al contrario di bestemmiatori e bigami, per alcuni decenni, le famiglie di fatto si videro garantire una relativa tranquillità, in città e nella diocesi? Più che lo scontro in corso sui casi di foro misto o la consapevole adesione dell’Inquisizione napoletana agli schemi raccomandati dal Sant’Ufficio, giocarono forse a loro favore i numeri, che a Napoli sembrano molto alti, la difficoltà di stanarle, l’ampia tolleranza di cui tradizionalmente godevano. Prevalse nelle autorità diocesane la ragionevole scelta di lavorarle ai fianchi, di limitarsi per qualche tempo ad inculcare nei fedeli un duplice convincimento: che i loro comportamenti offendevano pesantemente la religione e che l’istituzione preposta alla tutela dei valori insidiati dalla scelta della convivenza era la Chiesa, non lo Stato. Forse i risultati furono modesti, se si riflette sulla circostanza che nel tardo Cinquecento quasi nessuna delle denunce arrivate fino a noi scaturisce da scrupoli di coscienza o da motivazioni religiose. Per lunghi anni, i meccanismi che dovrebbero far scattare a carico dei conviventi i controlli del più temuto tribunale della 30 L’intensità di questi aspetti della repressione inquisitoriale nella Napoli del tardo Cinquecento si può facilmente verificare nell’inventario: vedi di chi scrive Il fondo Sant’Ufficio dell’Archivio storico diocesano di Napoli. Inventario (1549-1647), volume monografico della rivista «Campania Sacra», 34/1-2, 2003, pp. 59-197.

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Chiesa non sono attivati quasi mai da segnalazioni di parroci, di ecclesiastici e di laici zelanti. Abitualmente, si tratta di iniziative motivate dall’inimicizia, dalla sete di vendetta di persone che hanno conti da regolare o interessi da far valere e usano le sponde giudiziarie ritenute più efficaci. Da questo punto di vista, le denunce ai mali christiani che convivono non si differenziano dal fiume di esposti e memoriali che incalza il Sant’Ufficio diocesano negli ultimi decenni del Cinquecento, nella fase più convulsa e agitata della sua lunga storia. Siamo pur sempre nella capitale italiana dei falsi testimoni31. D’altra parte, per tornare al concubinato, le livorose denunce tardocinquecentesche contengono indicazioni preziose sulla vita delle famiglie di fatto napoletane. Infatti, malgrado la mancanza di un interesse giudiziario diretto, gli ufficiali di Curia amano domandare, approfondire, scavare, proprio come gli inquisitori antropologi di cui si è scritto tempo fa32, e i notai verbalizzano dettagliatamente e con apprezzabile fedeltà linguistica le dichiarazioni rese dai testimoni e dagli accusati. Così, grazie alle accuse dei loro nemici, alla curiosità dei giudici e alla ricchezza dei verbali, proprio dalle carte di un’Inquisizione disinteressata ai loro amori proibiti possiamo sapere parecchio delle ultime generazioni di ’nnammecate vissuti a Napoli senza particolari fastidi: chi erano, perché sceglievano di vivere insieme senza sposarsi, com’erano considerati da vicini, autorità civili ed ecclesiastiche. Anche questi elementi ci aiutano a comprendere le strategie della Curia arcivescovile nel tardo Cinquecento. 5. La fisionomia delle coppie di fatto napoletane di questi anni è molto varia. In larga misura, sono composte da donne pubbliche che vivevano con un uomo, abitualmente lo sfruttatore. E poi vedove povere; giovani che aspettavano il momento buono per potersi liberare dagli ostacoli posti dalle famiglie e sposarsi; fi31 È un dato che ricavo sia dal confronto con gli archivi inquisitoriali che conosco meglio (Pisa e Modena), sia dallo studio di un’ampia documentazione centrale. 32 Vedi C. Ginzburg, L’inquisitore come antropologo, in Studi in onore di Armando Saitta dei suoi allievi pisani, a cura di R. Pozzi e A. Prosperi, Pisa 1989, pp. 23-33.

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danzati che avevano sottoscritto davanti al notaio, d’intesa con i familiari, accordi che contemplavano un matrimonio piuttosto lontano nel tempo; mogli rimaste sole per motivi tra i più vari e costrette ad arrangiarsi; aristocratici e borghesi intoccabili, che potevano permettersi moglie e concubina, in qualche caso con veri e propri contratti di convivenza, e talora comunicarsi regolarmente col consenso di preti compiacenti33. Ragioni molto diverse, come si vede. Va rilevato però, a proposito della presenza più consistente, quella delle donne pubbliche, che meretricio e matrimonio non sono condizioni incompatibili. Come in tutta l’Europa di ancien régime, il passaggio alla prostituzione di donne abbandonate, ‘malmaritate’ o rimaste sole all’improvviso, per la morte o la scomparsa inspiegabile del coniuge, ma anche lo sfruttamento sessuale da parte di mariti/protettori, sono realtà diffuse34. È netta poi, in tutte le interessate, la distinzione tra singole prestazioni a pagamento e convivenza: mangiare e dormire insieme individuano, anche per le meretrici, una qualità diversa del rapporto. Alcune di loro percepiscono la stabilità di queste pratiche come il segno di una scelta che potrebbe sfociare in un matrimonio35. 33 L’oscillazione tra concubinato e prostituzione, che talvolta sono compresenti, è un dato che torna in centinaia di documenti inquisitoriali. Per quanto riguarda la coabitazione dei fidanzati, è curioso il silenzio delle fonti giudiziarie: non se ne parla mai, come se non esistesse. Non è nemmeno oggetto di delazioni, il che è sorprendente per Napoli: a nessuno viene in mente di considerare i fidanzati conviventi alla stessa stregua degli altri ’nnammecate. Ma gli sviluppi sei/settecenteschi del problema lasciano pochi dubbi sulla larga diffusione delle loro convivenze. Per la fluidità dei passaggi tra matrimonio e prostituzione, vedi ASDN, SU, 1083, cc. 6v-7r, 30 maggio 1598, costituto di Marzia Sepe, e 1154, c. 3r, 23 agosto 1599, deposizione di Isabella Pulverina. Sulla compiacenza degli ecclesiastici verso il concubinato d’alto bordo, vedi ASDN, SU, 114, c. 6r, 10 gennaio 1569, deposizione di Annibale Carosello (un sacerdote avrebbe facilitato confessione e comunione del barone di Calvi, che aveva la concubina). Un ambiguo contratto di servitù, che sembrò di convivenza al severo censore della Curia arcivescovile, fu sequestrato a un prete nel 1614: vedi ASDN, SU, 1864, c. 11r-v (il testo) e 12v (la censura). 34 Un caso esemplare è in ASDN, SU, 1117, cc. 12v-13r, 11 marzo 1599, costituto di Eleonora Santoro. 35 Per la netta distinzione tra concubinato e rapporti a pagamento vedi ASDN, SU, 1150, cc. 29v-30r, 12 agosto 1599, costituto di Sara de Simeone, e 1154, cc. 47r-48r, 2 dicembre 1600, costituto di Lucrezia de Roberto (utile anche per le oscillazioni tra convivenza, matrimonio e libertà).

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In un quadro così differenziato, è molto difficile precisare come nascesse abitualmente una convivenza e se almeno una parte delle coppie di fatto si formasse per decisione congiunta di entrambi i partner. Complessivamente, alla radice del fenomeno sembrano esserci o un’imperiosa volontà maschile, che però non è un’esclusiva dei conviventi, o, più di rado, la presenza delle famiglie degli interessati. Queste ultime hanno un duplice ruolo: fungono da garanti nel caso dei fidanzamenti contrattati, ma spesso sono anche fonte di ostacoli insormontabili a una regolarizzazione fortemente desiderata dalla coppia. Bisogna inoltre tenere nel debito conto la diffusa propensione, soprattutto ma non soltanto femminile, a far gravare su queste relazioni, come su tutte le esperienze amorose, il peso delle fatture e delle malie: non a caso, la stragrande maggioranza delle indicazioni sulla vita delle famiglie di fatto proviene nella Napoli del tardo Cinquecento da processi di magia e stregoneria intentati a donne. Anche in questo caso, però, i conviventi sono in buona compagnia. Neppure le coppie regolarmente costituite sfuggono a credenze e a pratiche diffusissime. Ne sono un buon esempio, tra i tanti, le resistenze di una parte dei fidanzati cittadini a sposarsi in chiesa. Era uno spazio pubblico, e perciò pericoloso, dove potevano aspettarli al varco malintenzionati pronti ad attaccarli magicamente, ad impedire con legature la regolare consumazione del matrimonio. Perciò la casa rimane, almeno per alcuni anni, il luogo protetto in cui si solennizzano le unioni: ancora nel 1566, in alcune parrocchie napoletane, l’impegno di far celebrare la messa degli sposi in chiesa viene onorato settimane o mesi dopo nozze private, consentite da autorizzazioni in deroga del vicario, e non solo tra i nobili36. A scenari così diversi corrispondevano ovviamente reazioni 36 ASDN, Parrocchia dei Santi Apostoli, Libro dei battezzati 1566-1582, cc. n.n. (serie di matrimoni verbalizzata insieme ai battesimi, dati relativi al 1566): la distanza tra matrimonio privato e messa tende a ridursi, da alcuni mesi a otto giorni, ma resta stabile. Per la paura delle fatture agli sposi che si sposano in Chiesa, una testimonianza limpidissima è in ASV, CVR, POS, 1577, L’Aquila, lettera del 27 novembre 1577 del vicario apostolico al cardinale Maffei: vi si segnala una richiesta di celebrare un matrimonio in casa motivata proprio da quel timore.

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differenti, sia nel vicinato, sia nelle istituzioni. Almeno fino a metà del Seicento, ad esempio, le convivenze prematrimoniali dei fidanzati non sono mai ‘spiate’ e meno che mai segnalate alle autorità. In generale, poi, le coppie di fatto non sono oggetto di intolleranza in quanto tali: pur se isolate testimonianze al riguardo non mancano, per i vicini contano i loro stili di vita, la tranquillità o la turbolenza che li caratterizzano, il fastidio arrecato all’ordinata convivenza nella strada, nel rione o nel fabbricato. Solo quando gli equilibri si rompono e i vicini protestano, la Gran Corte della Vicaria li sfratta. L’immagine e l’onorabilità delle strade e dei quartieri sono valori che lo Stato tutela fermamente, anche a costo di alimentare dissapori ‘territoriali’: è il caso delle sottrazioni forzate di bambine alle donne pubbliche37. Questi atteggiamenti, ispirati a un marcato pragmatismo, sono però molto meno documentati, nelle fonti inquisitoriali tardocinquecentesche, rispetto ai molteplici segni, visibili fin dai primi anni postridentini, di un’intolleranza crescente, di chiara matrice ecclesiastica. Si torna qui alla questione delle denunce contro i conviventi/mali christiani. Contro di loro, come contro gli inconfessi, non esistono nella Napoli tridentina editti, ordinanze, interventi ufficiali della Curia arcivescovile. Nessuna delle autorità che governano la diocesi ritiene opportuno richiamare formalmente parroci e fedeli all’osservanza dei precetti più importanti della Chiesa e di una vita sessuale circoscritta al matrimonio. Gli scarsi risultati delle visite pastorali sono un limpido specchio delle enormi difficoltà di ogni iniziativa di riforma. Da dove scaturiva allora la percezione diffusa della punibilità da parte della Chiesa di conviventi e inadempienti al precetto pasquale? Non è facile precisarlo, ma le indicazioni più perentorie conducono ancora una 37 Un esempio di intolleranza ‘assoluta’, rarissima in questi anni, è in ASDN, SU, 1048, c. 8v, 21 maggio 1597, deposizione di Isabella Vitola (non sarebbero andati a festeggiare il Corpus Domini a casa di una coppia di parenti, se non fossero stati regolarmente sposati). Per il forte coinvolgimento del vicinato nei casi di internamento forzato di bambine per motivi d’onore si veda un attestato sottoscritto dal capitano e dai complateari dell’ottina di S. Giuseppe il 12 luglio 1589 (in ASDN, SU, 757, c. 783r): in esso sono registrati sia il disonore e lo scandalo della strada al momento della cattura di tre sorelline, sia la circostanza che erano state le richieste di abitanti della zona a far intervenire i Mastri del Conservatorio dello Spirito Santo.

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volta alle strategie innovative della Compagnia di Gesù e alla profonda influenza che esse cominciarono ad esercitare sulla vita sessuale e matrimoniale in Italia, prima ancora che si chiudesse il Concilio di Trento. 6. Lo schema d’intervento che i gesuiti privilegiano, con largo anticipo rispetto alla riforma approvata a Trento nel 1563, è semplice, ma efficace: i predicatori dissodavano il terreno, mettendo in guardia i fedeli dai comportamenti proibiti, i confessori raccoglievano con la necessaria discrezione i frutti del loro lavoro nel foro della coscienza, istituivano rapporti stabili e frequenti con i fedeli e nei casi più gravi li indirizzavano verso i tribunali competenti. In quell’articolato progetto di indottrinamento i problemi sessuali e matrimoniali, trattati con la maestria e la disinvoltura che avrebbero provocato l’aspra reazione giansenista, furono gli obiettivi forse più importanti. Molti casi di coscienza relativi al confine sempre più labile tra norma e trasgressione riguardarono proprio la sessualità e nei decenni postridentini furono spesso oggetto di interventi delle più alte autorità della Compagnia38. Ma i Collegi gesuiti non disdegnarono neppure mediazioni dirette tra le famiglie dei promessi sposi: nel tardo Cinquecento, ad esempio, nella Chiesa napoletana del Gesù si sottoscrivono anche capitoli matrimoniali39. In breve tempo, le strategie della Compagnia, inizialmente molto combattute dagli Ordini religiosi più tradizionali, trovarono imitatori a tutti i livelli. Non ne furono investite solo l’aristocrazia e l’alta borghesia. Si pensi all’invenzione delle missioni interne, forse il veicolo più potente ed efficace dell’etica della Controriforma, capace di coinvolgere emotivamente intere comunità, sia pur per pochi giorni, attraverso l’abile incrocio di prediche, processioni e confessioni. La ragione dei loro successi – puntare sul sentimento e sulla paura – ne era anche il limite più grave. Nel tempo sospeso della missione si ricomponevano fratture, tensioni e conflitti intestini, di cui disordini sessuali e faide erano compoPer queste strategie vedi Romeo, Esorcisti, pp. 186-190. Vedi ASDN, Cause matrimoniali, 1576, causa Manella/Coscia, cc. 17v18v, 3 ottobre 1576, deposizione di Diamante Greca (i due promessi sposi «volevano andare allo Ihesus a stipulare li capitoli del matrimonio»). 38 39

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nenti essenziali. Prostitute che si redimevano e coppie in crisi che si riconciliavano erano pane quotidiano per i missionari, insieme al perdono e alla ricomposizione di inimicizie capitali40. Abitualmente, tensioni e contrasti riprendevano poco dopo, come e più di prima. Intanto, però, nei centri raggiunti dalle missioni, la contrapposizione tra buoni e cattivi cristiani in base ai comportamenti sessuali si affermava come una discriminante stabile, costitutiva di una nuova morale pubblica. A maggior ragione, perciò, bisognerebbe capire quali ostacoli incontrasse la Chiesa nel governo ordinario della sessualità. Sappiamo ad esempio che i controlli sulle malattie gravi dei pubblici peccatori si inasprirono, che i rapporti tra confessori, direttori spirituali e donne divennero più ravvicinati e intensi, che ci fu un forte investimento di energie nei grandi cicli omiletici della Quaresima e dell’Avvento, affidati agli specialisti del clero regolare, ma anche nella predicazione ‘minore’, curata da parroci e cappellani. Quale etica sessuale si trasmetteva in questi appuntamenti fissi, che a scadenze quotidiane, settimanali o annuali ritmavano la vita dei fedeli? Ne scaturiva davvero una spinta all’intolleranza verso comportamenti e pratiche difformi da regole così intensamente propagandate? Se è difficile negare che le missioni interne abbiano esercitato un’influenza notevole sulla polarizzazione ‘sessuale’ delle comunità, non è chiaro se in quella direzione si siano mosse anche le attività pastorali ordinarie. Il travagliato inizio dei processi inquisitoriali contro i sacerdoti della diocesi che abusavano del sacramento della confessione per garantirsi contatti proibiti con le penitenti o per legittimarli è una prova eloquente delle molte complicazioni che potevano intralciare il governo della sessualità femminile. È istruttivo il confronto tra il primo caso grave capitato ai giudici napoletani, quello che coinvolse nel 1599 il parroco del piccolo centro agricolo di Pollena, e il processo, di poco successivo, 40 Vedi A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, III parte; O. Niccoli, Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento, Roma-Bari 2007. Per le missioni nel regno vedi D. Gentilcore, ‘Adapt Yourselves to the People’s Capabilities’: Missionary Strategies, Methods and Impacts in the Kingdom of Naples, 1600-1800, in «Journal of Ecclesiastical History», 45, 1994, pp. 269-296.

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a un teatino beneventano di stanza a Napoli, già condannato a Verona per le gravi ‘eresie’ sessuali diffuse tra le figlie spirituali: due vicende diversissime, ma indicative delle tante contraddizioni insite nel governo ecclesiastico della sessualità. Nella prima vicenda i difficili rapporti di un parroco con le penitenti sono solo un aspetto di tensioni legate alla gestione delle estese proprietà terriere della Mensa arcivescovile. Aperto d’ufficio dal promotore fiscale della Curia, il processo offre un quadro vivacissimo dei molti ruoli di un curato di campagna in età tridentina. I parrocchiani sono infastiditi soprattutto dal modo arrogante con cui l’ecclesiastico, da diciotto anni alla guida della loro comunità, tutela gli interessi della Curia: si muove armato in comitiva, gestisce masserie, fa processare i coloni infedeli, litiga spesso per questioni di soldi. È questo il clima che fa da sfondo alle pesanti accuse che lo portano in prigione: ha sverginato delle donne dopo averle adescate in confessione e ha violato il sigillo del sacramento. Non tutti i testimoni a suo carico sembrano stinchi di santo, è vero: ad alcune donne sposate, ad esempio, egli rinfaccia comportamenti immorali, adulterio e concubinato (e nessuno dei giudici, ovviamente, gli chiede conto della sua tolleranza per quegli abusi). Ammesso agli arresti domiciliari per motivi di salute dopo più di due mesi di carcere, il sacerdote subì una pesante tortura, ordinata dalla Congregazione del Sant’Ufficio, e fu allontanato per un anno dalla cura d’anime, col divieto di ritornare a Pollena. Fu scagionato invece dall’accusa di girare armato: si riconobbe che lo faceva legittimamente nell’interesse della Curia, per ragioni di servizio41. Furono molto diversi, qualche anno dopo, gli adescamenti praticati da padre Atanasio Bilotta, un appassionato teatino beneventano. Egli li giustificò con la stessa accesa sensibilità che stava per ispirare a un suo confratello modenese ardimentose tecniche antidiaboliche – esorcizzare nei genitali le sue penitenti – destinate a diffondersi nella città emiliana, indisturbate, per circa quindici anni. Tenacemente convinto delle sue idee, Bilotta aveva persuaso le figlie spirituali del profondo valore religioso delle attività sessuali: univano a Dio e perciò andavano ricercate e prati41 ASDN, SU, 1140, passim. Per le decisioni della Congregazione vedi Scaramella, Le lettere, pp. 300, 304.

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cate, come tappa fondamentale del processo ascetico. Prima a Verona, poi a Napoli, un folto gruppo di donne aveva condiviso la sua ardita rivalutazione della sessualità. Superfluo aggiungere che nei confronti del religioso e delle adepte la condanna del Sant’Ufficio fu molto severa. Anche a Napoli, a pochi decenni dalla conclusione del Concilio di Trento, il governo della sessualità femminile attraverso i confessionali cominciava ad avviarsi sui morbidi percorsi che avrebbero provocato scandali a ripetizione nell’Italia del Sei/Settecento42. 7. Un tramite ancora più importante, per la pubblicità dei loro interventi e per il rilievo che essi avevano per le autorità secolari ed ecclesiastiche, fu quello dei predicatori. Il loro ruolo centrale in età postridentina è fuori discussione. Basti pensare alle pressioni dei maggiorenti locali per assicurare alle proprie città i migliori specialisti o ai conflitti scoppiati tra consigli comunali e vescovi: gli uni pagavano e ritenevano perciò di poterseli scegliere a proprio piacimento, gli altri non rinunciavano facilmente al diritto, sancito dalla normativa tridentina, di sindacarne l’idoneità e di nominare propri candidati43. Sappiamo poco, al confronto, delle reazioni dei fedeli alle ‘essagerationi’ che calavano dai pulpiti. Le testimonianze più vive riguardano, come sempre, tensioni, incidenti o casi finiti in tribunale, Sant’Ufficio compreso, ma spesso la normalità che traspare in controluce è molto più importante dell’abuso. Due procedimenti aperti verso la fine del Cinquecento rispecchiano molto bene sia le strategie ‘sessuali’ dei predicatori, sia gli atteggiamenti del pubblico che li ascoltava. Un giovane ma affermato quaresimalista di quegli anni, don Giuseppe Mazzagrugno, incappò in un clamoroso scivolone nel corso di 42 Per il caso del Bilotta (di cui restano solo frammenti), vedi Romeo, Esorcisti, pp. 190-192. Nello stesso volume è illustrata la vicenda modenese (I capitolo). 43 Una prima presentazione del problema è in M. Mancino, Il costo della predicazione nell’Italia moderna: criteri di finanziamento e dinamiche conflittuali, in Chiesa e denaro tra Cinquecento e Settecento: possesso, uso, immagine, Atti del XIII Convegno di studio dell’Associazione italiana dei professori di Storia della Chiesa, Aosta 9-13 settembre 2003, a cura di U. Dovere, Cinisello Balsamo 2005, pp. 221-279.

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una scintillante omelia tenuta a Napoli nella Quaresima del 1594, nella quattrocentesca chiesa di S. Giuseppe. Gli giocò un brutto scherzo, forse, l’eccesso di sicurezza: nel primo sabato di Quaresima, nel trattare il tema delle lodi della Vergine, decise di ‘recitare la figura’ di Rahab, la meretrice di Gerico che Giosué salvò dalla distruzione della città, e di confrontarla con la Madonna, definita da lui come «adultera, meretrice et fornicaria della natura, della corruttione, del peccato della carne e della concupiscenza», per non aver generato il figlio di Dio attraverso il seme di un uomo. Il suo voleva essere un complimento, un modo originale di dire che la Vergine aveva sfidato vittoriosamente la dimensione della corporeità. A lui stesso, forse, l’espressione, già presente nel canovaccio latino della predica, era parsa eccessiva, se è vero che nel seguito dell’omelia si era rivolto familiarmente alla Madonna stessa, per assicurarla che il suo onore non era in discussione. Non risulta, peraltro, che quelle frasi sconvenienti avessero suscitato reazioni risentite nell’uditorio. Solo due suoi confratelli si dichiararono ‘dispiaciuti’ (non scandalizzati) per le espressioni e per l’esempio scelto. Se voleva davvero tessere le lodi della Vergine, osservarono, di storie sacre a disposizione ne aveva tante. Non sapendo che fare, chiesero lumi al generale dell’Ordine, che da Bologna li obbligò con una lettera durissima a denunciarlo al Sant’Ufficio. Mazzagrugno provò a difendersi con l’appoggio di un esperto, cercò di richiamarsi a fonti al di sopra di ogni sospetto (l’autorità di san Paolo, omelie di Origene e di Ambrogio), ma il teologo dell’arcivescovo e i giudici ebbero facile gioco nel dimostrargli che era stato lui a coniare quell’assurdo accostamento. L’immediata disponibilità a sottoporsi a penitenze umilianti non gli evitò un severo intervento dei cardinali del Sant’Ufficio: dovette impegnarsi, sotto cauzione, a giustificare la sua leggerezza a Roma, dove fu condannato alla revoca delle proposizioni scandalose e al divieto triennale di predicare44. 44 La vicenda si può ricostruire grazie a ASDN, SU, 935 (il processo), e alle decisioni romane, pubblicate in Scaramella, Le lettere (pp. 157-158, 160, 164). Mazzagrugno era un canonico regolare del Salvatore. La denuncia del confratello don Teseo Mansueti fu presentata il 14 aprile 1594 (ASDN, SU, 935, cc. 1r-2v), mentre la lettera del Generale risale al 2 aprile (ivi, c. 3r). Un unico, lun-

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È difficile dire che cosa fosse passato per la testa di un frate che aveva già pubblicato svariate raccolte di prediche e aveva parlato dai pulpiti di chiese celebri come S. Marco a Venezia o S. Petronio a Bologna: forse intendeva piegare l’omelia alle esigenze di una città dove la prostituzione era diffusissima, forse il suo era soltanto un pezzo di bravura mal riuscito. Sta di fatto che con la verginità di Maria non si scherzava: era il tema centrale della pedagogia femminile della Controriforma, come mostra bene l’evoluzione iconografica della Madonna delle Grazie nell’Italia del Cinquecento (il seno da cui allatta il bambino e le anime purganti viene coperto, l’immagine della maternità è sacrificata a vantaggio del modello verginale45). Nessun predicatore, pur bravo e autorevole, poteva permettersi libertà eccessive su quel tema: omelie così audaci qualche dubbio sulla sessualità di Maria lo facevano venire, anche a un uditorio colto e avvertito. L’anno dopo, una vicenda molto diversa, ma non meno indicativa, riportò alla ribalta la questione delle prediche ‘sessuali’. Uno sconosciuto cappellano, Giovan Battista Greco, fu intercettato dai giudici del Sant’Ufficio diocesano e privato per sempre della licenza di predicare46. Nel centro di Napoli, in una chiesetgo costituto del Mazzagrugno, reso il 7 giugno 1594, fu sufficiente ai giudici napoletani per infliggergli il carcere domiciliare e trasmettere il caso a Roma (ivi, cc. 10r-12r). Il religioso revocò le proposizioni incriminate il 19 novembre 1594 nel refettorio del suo convento (ivi, c. 18r). La severa punizione ricevuta non pregiudicò la sua brillante carriera: diventò un valente predicatore, continuò a scrivere e a declamare in onore della Vergine, pubblicò nel 1620 alcune opere sulla passione di Cristo e sul Natale e due anni dopo una storia del suo Ordine, che però fu proibita. Per la figura e l’opera del M. vedi N. Toppi, Biblioteca napolitana, Napoli, appresso Antonio Bulifon, 1678, p. 172. Le Additiones di Lionardo Nicodemo alla Bibliotheca del Toppi (ivi, pp. 146-147) danno anche notizia di una Narratio rerum gestarum del suo Ordine pubblicata dal M. a Venezia nel 1622 e proibita due anni dopo. Lo stesso Nicodemo ricorda l’impegno del M. nel trattare le lodi della Vergine (p. 147). 45 È il tema del libro di Scaramella, Le Madonne. 46 Ho illustrato il caso in Predicazione e Inquisizione in Italia dal Concilio di Trento alla prima metà del Seicento, in La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento tra Cinquecento e Settecento, a cura di G. Martina S.J. e U. Dovere, Roma 1996, pp. 207-242 (in particolare pp. 240-241, ma tutto il volume è ricco di spunti sulla predicazione nell’Italia moderna). Un brano del processo è qui in Appendice (doc. 4). Per ulteriori approfondimenti sull’Italia vedi almeno i due recenti, importanti contributi di M. Mancino, La Congregazione dei Vescovi e Regolari e le licenze di predicazione nell’Italia post-tridentina. A proposito di al-

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ta frequentata da un ricco uditorio, non solo popolare, si era saputo costruire un pubblico affollato e divertito, grazie alle «goffarie e parole al sproposito» di cui erano farcite le sue omelie domenicali. Uno dei più assidui frequentatori, un giovane studente, le trascriveva e le faceva circolare. Tra gli aficionados dell’ecclesiastico avevano particolare successo le allusioni ridanciane ai rapporti sessuali tra coniugi e alla loro compatibilità con l’assunzione dell’Eucarestia. Un altro pezzo forte del suo repertorio era la presentazione della circoncisione di Gesù. San Simeone, diceva, aveva tagliato il ‘cazzillo sacrato’ del figlio di Dio: un modo scherzoso, se non scanzonato, per affrontare un tema ricco di implicazioni teologiche47. Nel curioso processo, però, il dato più importante sembra un altro: il sacerdote predicava allegramente da ben diciassette anni, forte di un permesso verbale avuto da un vicario generale, ma in una città così controllata, in tanto tempo, i motivi non proprio ineccepibili del suo travolgente successo non avevano suscitato rimostranze. Non sono senza significato, inoltre, alcuni dettagli della vicenda: la denuncia è sporta da un giovane chierico, le conferme sono fornite esclusivamente da laici colti e da ecclesiastici, ma i loro toni non appaiono particolarmente prevenuti. Si insiste sulla goffaggine, sulle espressioni sboccate, non sullo scandalo. Si spiega anche così perché quel prete buontempone avesse potuto continuare indisturbato le sue prediche scanzonate: a garantirgli una fortunata carriera non c’era stato solo il sostegno del versante più popolare del suo uditorio. Perciò, nel valutare la relativa tolleranza della Curia arcivescovile napoletana verso i conviventi, bisogna anche tener conto degli imprevedibili e contraddittori contributi di tanti confessori e predicatori. Potenti curati di campagna al servizio della Curia, raffinati e ambigui asceti, predicatori di alto profilo destinati a carriere di successo, ma anche confessori approvati per il rotto della cuffia, cappellani ignoranti, capaci di intrattenere e divertire i fedeli come attori consumati: troppe voci stonate, troppi interventi discordanti rendevano problematico ragcuni casi del 1588, in «Campania Sacra», 32, 2001, pp. 119-132 e Id., Il costo della predicazione, passim. 47 Per l’importanza del tema della circoncisione nella predicazione rinascimentale vedi Steinberg, La sessualità di Cristo, pp. 50-67.

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giungere gli obiettivi di riordinamento della sessualità che la Chiesa si prefiggeva. Fu in questa situazione complessa e variegata che l’Inquisizione napoletana si trovò a combattere la battaglia più importante contro le coppie di fatto, quella avviata negli anni Settanta del Cinquecento contro gli eretici della porta accanto, contro chi giustificava o addirittura riteneva pienamente legittime quella e altre esperienze della sessualità difformi dall’etica ufficiale. Era proprio la linea della Congregazione del Sant’Ufficio: vescovi e inquisitori dovevano concentrare l’attenzione non tanto sulle pratiche proibite, ma sulle motivazioni che le sorreggevano, quale che ne fosse lo spessore intellettuale. Bisognava risolverle localmente, senza infastidire i cardinali, ma non trascurarle48. Vista da Napoli, era un’impresa titanica. La città era un vero e proprio porto di mare, abituata a convivere da sempre – tra lavoratori di ogni dove, italiani e stranieri, vagabondi e artisti, puttane e schiavi, chierici selvaggi e cortigiani spagnoli, aristocratici e soldatesche di varia nazionalità – con persone, idee, modi di vita multiformi. In quella Babele, tra l’altro, eccessi e deviazioni non erano sempre ‘cose piccole’: nelle mille suggestioni della vita di tutti i giorni la difesa degli amori proibiti aveva uno spazio ampio ed era spesso esibita con toni dissacranti e provocatori. Lì le coppie di fatto erano in buona compagnia, lì i giudici delle Inquisizioni napoletane affilarono i coltelli. 8. Un fantasioso e divertente racconto di fine Cinquecento sulle libertà della vita a Ginevra – forse una burla – è la migliore introduzione al problema della circolazione delle ‘eresie’ sessuali nella Napoli postridentina. Siamo nel 1593, e una coppia di contadini che lavora in una masseria dei canonici regolari lateranensi denuncia l’anziano converso modenese che la gestisce. È una ritorsione: il religioso li ha querelati pochi giorni prima in Vicaria criminale per furto, ingiurie e violenze. Le accuse che i due gli rivolgono sono piuttosto pesanti: si gode come concubine tre sorelle, mangia carne nei giorni proibiti, ma, soprattutto, ha cercato di convincerli che l’ostia è solo un po’ di farina e che a Ginevra, do48 Sull’orizzonte strategico in cui maturò questa svolta vedi Romeo, L’Inquisizione, pp. 29-45.

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ve è stato, si vive molto meglio. Secondo lui, nella città svizzera si era realizzato un riuscito e originale esperimento di comunismo sessuale: non solo tutti erano uguali, ma non c’era alcuna contrapposizione tra dettami religiosi e libera espressione della sessualità e dell’istinto di procreazione. Le cerimonie ispirate alla nuova ‘legge’ si svolgevano in un palazzo in cui, a finestre rigorosamente chiuse, si alternavano armoniosamente prediche e incontri sessuali liberi, finalizzati al biblico ‘Crescete e moltiplicatevi’: disse che era stato in Ginefra... et che non ce era meglio vita de quella e che tutti vivono comone et tutti viveno tale quale et che non ce era particolarità, che tanto era l’uno quanto era l’altro et che llà ce erano terribili predicatori, e che lo predicatore va ad un palazzo a predicare, dove vanno homini e donne, se serrano cole finestre serrate, e depoi che hanno predicato un gran pezzo danno un colpo allo libro et stutano [spengono] l’intorcie et ogn’homo si piglia una donna, dove inbatte inbatte et multificate lo mondo. E quello che predica dice: Crisciti et multificati. E staranno da mezza hora così, poi si torna a battere lo libro et si allumano l’intorcie et torna un’altra volta a predicare et predicato un altro pezzo se ne vanno; et non ci è meglio legge di quella.

Per il religioso, insomma, non c’era confronto tra l’originale modello ginevrino di esperienza religiosa e i rituali fasulli di una Chiesa, quella cattolica, che poteva contare solo sulla credulità e sull’ipocrisia dei fedeli: Et questi altre gente traseno [entrano] dentro la Chiesa, si batteno allo petto et si adorano al muro, che è un poco di tenta... Et voliti che vi dica che cosa è l’ostia che si alza alla messa? È un poco di farina stemperata col acqua, e le gente che stanno alla messa sempre si danno e battono in petto et lo calice che si alza alla messa non è altro che un poco di acqua et di vino...49.

Il processo al converso, che fu prosciolto pochi mesi dopo con l’avallo della Congregazione del Sant’Ufficio, ruotò, com’era ov49 ASDN, SU, 926, c. 8r, 5 gennaio 1594, deposizione di Grazia dell’Andretta.

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vio, quasi soltanto sul suo sconcertante elogio di Ginevra, in minima parte sovrapponibile a quelli diffusi in ogni angolo d’Italia50. Egli ammise di aver parlato dei ‘luterani’, di cui aveva avuto notizia da un confratello presente al Concilio di Trento, ma per confutarli, non per esaltarli: erano stati i malevoli delatori a stravolgere qualche conversazione avuta in tempi non sospetti. La verità forse stava nel mezzo: era lui ad aver raccontato l’essenziale dell’episodio, forse per scherzo, costruendolo alla buona sulla base dei suoi ricordi, in un momento in cui in Italia l’immagine della Riforma protestante si andava banalizzando sempre più, sotto i colpi degli inquisitori e dei polemisti cattolici. La curiosa presentazione delle prediche ginevrine attribuita a fra Giuseppe non è isolata. Il tema della libertà sessuale come elemento fondante delle nuove confessioni cristiane circolava da anni a Napoli. In qualche misura esso è legato proprio a Ginevra e alla Svizzera, che occupano uno spazio tutto particolare nell’immaginario locale, non solo per la sessualità. È stato già ricordato tempo fa il caso di un tessitore modenese che nel 1578 fu processato a Napoli per varie proposizioni ereticali, tra cui figurava l’esaltazione della tolleranza ginevrina: lì c’erano anche chiese cattoliche e si mangiava liberamente carne, aveva confidato, secondo i suoi accusatori, ad alcuni amici. L’uomo, che in realtà era stato in Francia e fu lungamente interrogato sul suo soggiorno a Lione, dimostrò facilmente la falsità dell’elogio della città svizzera a lui attribuito. Come italiano del Nord, svantaggiato dalla familiarità con un paese sospetto come la Francia, era un bersaglio scontato51. Intanto, però, per rovinarlo era stata scelta Ginevra, che, non a caso, ritorna spessissimo nelle recriminazioni e negli sfoghi dei napoletani di questi anni. Anche Lutero, per un altro tessitore, un genovese che viveva a Napoli, se n’era andato lì a ‘farsi luterano’, quando il papa non gli aveva voluto dare il cappello cardinalizio52. Contò molto, negli esempi qui riportati come in altri casi italiani di questi anni, il mito di una città che si presentava – e forse Vedi le testimonianze ricordate in Seidel Menchi, Erasmo, pp. 119-121. ASDN, SU, 407. Un accenno alle sue ‘eresie’, che però non tiene conto della falsità dell’addebito, è in Seidel Menchi, ivi, p. 120. 52 ASDN, SU, 228, c. 33v, 28 aprile 1574, costituto di Battista Casella. 50 51

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era – un modello unico in Europa. Lo rafforzò a Napoli la diffusa presenza di italiani del Nord, di viaggiatori e lavoratori stranieri, il ricordo della nutrita colonia di esuli meridionali religionis causa che vi si era rifugiata, ma anche l’attivismo dei missionari ginevrini. Uno di loro fu sorpreso e spremuto ben bene nel 1602 nell’ospedale degli Incurabili, dov’era ricoverato in fin di vita, grazie ai rigorosi controlli ‘spirituali’ in atto da tempo sui luoghi di cura e al mestiere di Curzio Palumbo e Marco Antonio Genovese, due tra i più esperti confessori/inquisitori della città, specializzati nel conforto di condannati a morte e di malati gravi. L’uomo morì prima dell’abiura, ma le sue rivelazioni spinsero il papa e la Congregazione del Sant’Ufficio ad ordinare puntuali accertamenti sui missionari ginevrini nel regno e sulle Bibbie con la falsa indicazione di Lione, ma ‘corrotte’ a Ginevra, che essi dispensavano. Certo, riesce difficile immaginare che essi puntassero su una propaganda di tipo ‘sessuale’ anche di poco più ampia del tema della lotta al celibato ecclesiastico, ma non è impossibile che l’uditorio stesso ne allargasse i confini53. Comunque sia, nella Napoli degli anni Settanta del Cinquecento, tra le ultime espressioni del dissenso religioso di matrice protestante figurano altre suggestioni sul rapporto tra sessualità ed eresia in Svizzera. Il documento più vivace di questa sensibilità è un cenno quasi struggente a Ginevra come città di fede e al ‘comunismo sessuale’ introdotto in un’area appartata di quel paese felice. Ne è testimone il giovanissimo Vincenzo Vitale, l’astrologo di fiducia dell’ansioso Reggente del Collaterale Tommaso Aniello Salernitano e di tanti esponenti della Chiesa, della cultura e dell’alta società napoletana dei suoi anni. Per pochissimo tempo, nel 1574, fu suo compagno di carcere don Scipione di Castro, l’ambiguo autore degli Avvertimenti a Marco Antonio Colonna: frate apostata, avventuriero, spia, cortigiano, collaboratore di papi e prelati. Era finito in prigione a Napoli per un presunto stupro, per possesso di libri proibiti e per altri gravissimi addebiti, ma nel bre53 Per gli esuli ginevrini vedi il vecchio J.-B.-G. Galiffe, Le refuge italien de Genève aux XVI e et XVII e siècle, Genève 1881, e Scaramella, «Con la croce al core», passim. L’intercettazione del missionario è illustrata in Romeo, Aspettando il boia, pp. 185-186; le istruzioni diramate al Gesualdo sono in Scaramella, Le lettere, p. 345.

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ve periodo di detenzione, tra millanterie e sbruffonerie, ebbe modo di esibire al Vitale soldi, agganci autorevoli, suggestioni ereticali, conoscenze di magia e negromanzia. Sicuro di essere liberato presto54, di Castro cercò di organizzare l’evasione del giovane astrologo e di altri detenuti, finalizzata a una clamorosa fuga in Svizzera. Gli evasi, accompagnati da un servitore di don Scipione, avrebbero atteso a Giugliano, in una masseria da lui gestita, l’arrivo di cavalcature con le quali sarebbero arrivati a Genova. Lì avrebbero trovato 3000 ducati offerti dallo stesso di Castro, che, sbrigata da par suo la pendenza giudiziaria napoletana (‘la tractarò’, aveva confidato al Vitale, ‘con l’arcevescovo’), si sarebbe accodato al gruppo55. Una volta arrivati in Svizzera, gli evasi avrebbero potuto optare tra due diversi modelli di vita religiosa. Uno era quello, non meglio precisato, di Ginevra, dove li avrebbero accolti a braccia aperte, come aveva fatto con lui Bernardino Ochino, istruendoli sugli «articoli che tenevano llà»56. L’altro contemplava, insieme al 54 Il solo dato certo (da ASDN, SU, 247), è che di Castro ottenne presto gli arresti domiciliari. Dalla ricca documentazione conservata in ACDF, che mi è impossibile illustrare qui, risulta con certezza che la fase napoletana della sua pendenza giudiziaria, fonte di enorme travaglio per i vertici diocesani, si avviò a conclusione non prima del dicembre 1574. Sugli esiti romani del processo vedi la ricca ‘voce’ di R. Zapperi, in Dizionario biografico degli italiani (d’ora in avanti DBI), 22, Roma 1979, pp. 233-245 (in particolare p. 239). 55 Che non fossero tutte millanterie, lo mostra una nota dei giudici: essi rilevano che don Scipione aveva offerto al Vitale un assegno di 200 ducati per il viaggio e glielo aveva effettivamente consegnato (anche se di soli 100 ducati): ASDN, SU, 247, c. 289r-v, costituto di Vincenzo Vitale del 15 aprile 1574. 56 Il vivido ricordo dell’accoglienza calorosa riservata da Ochino a don Scipione, pur filtrato dal racconto del Vitale, sembra credibile: di Castro, fattosi mostrare la casa del religioso, saliva rumorosamente per le scale perché calzava stivaloni grandi da cavalcatura. A quel punto Ochino si era affacciato sulla porta e gli aveva rivolto in latino l’invito a moderare l’andatura, chiunque egli fosse. Quando però lo riconobbe, gli domandò se il Signore aveva ispirato anche lui a una scelta di fede (ivi, c. 300r). Se la realtà di un incontro tra i due è probabile, ciò che si sa finora degli spostamenti del di Castro ne rende incerta la datazione: il di Castro fu a Ginevra nel luglio del 1555, per abbracciare – a suo dire – il calvinismo (Zapperi, ‘voce’, in DBI, p. 234), ma potrebbe esservi stato anche altre volte, mentre Ochino, che vi era giunto all’indomani del rogo di Serveto, il 27 ottobre 1553, si era trasferito poco dopo a Zurigo (vedi R.H. Bainton, Bernardino Ochino esule e riformatore senese del Cinquecento 1487-1563, Firen-

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comunismo e alla mancanza di carceri, una libertà sessuale piena, che aveva superato anche il tabù dell’incesto: un piccolo paradiso terrestre da cui erano esclusi solo i sodomiti, lapidati vivi immediatamente, secondo una ‘legge’ cristiana sui generis, che non differiva molto da quella degli ebrei. Era la comunità dei fraticelli, che stanno in certe montagne ad certe castelle, che sono più de dudicimilia homini, li quali sono come ad pecorelle. Et me disse la vita loro, che consisteva che ogni uno posseva stare et usare carnalmente con la matre, con la sorella et con chi li piaceva, et che ogni cosa era comone et che l’uno non faceva male al altro et non ce son carcere, dicendo: O che vita santa, o che vita felice! Questo ce è, che hanno in odio grandemente questo [maladetto] vitio dela sodomia, che subito lo lapidano vivo uno sodomito. Et dimandai io che cosa tenevano questi dela fe’ christiana. Lui mi rispose che poco defferentia ci era dala vita deli iudei. Loro tengono principalmente che lo sacramento del eucharistia non si deve portare per le strade, ma de questo nde possimo [ne possiamo] parlare, signor figlio mio...57

Da dove nascessero queste suggestioni nel di Castro, è difficile dire. Di fronte a un uomo così ambiguo e controverso, che in Svizzera aveva subìto un pesante processo per le molte trame tessute tra bernesi e ginevrini, tutte le ipotesi sono possibili: livori personali, stretti rapporti con la Curia romana, che continuarono anche dopo la severa condanna della Congregazione del Sant’Ufficio58, contatti con uomini di Chiesa influenti come Stanislao Reszka, il gesuita polacco che proprio a Napoli avrebbe pubblicato nel 1596 un violento trattato in cui il matrimonio dei preti, la difesa ze 1940, pp. 101 sgg.). Per ora invece non risulta una presenza del di Castro in Inghilterra, dove Ochino era stato tra il 1547 e il 1553 (vedi ad esempio U. Rozzo, Introduzione a B. Ochino, I ‘dialogi sette’ e altri scritti del tempo della fuga, Torino 1985, p. 17). Sulle movimentate avventure svizzere di don Scipione, vedi B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, II, Bari 1953, pp. 44-46 e Zapperi, ‘voce’, in DBI, pp. 234-235. 57 ASDN, SU, 247, cc. 289v-300r, costituto cit. (la numerazione delle carte, per una svista del notaio, passa da 289 a 300). 58 Vedi Zapperi, ‘voce’, in DBI, p. 239 (abiura e tre anni di carcere, poi commutati in residenza coatta in un convento romano).

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della poligamia da parte di Ochino e gli eccessi sessuali degli evangelici trovarono largo spazio59. 9. Tra i sogni erotici che circolano a Napoli nel tardo Cinquecento, quelli su Ginevra, luogo mitico dove religione e sessualità convivono in un accordo armonioso, e sui fraticelli svizzeri che vivono come pecorelle, non sono i soli. Scenari molto simili sono evocati per la Riforma tout court. I ‘luterani’ stanno applicando leggi morali e religiose incentrate su un’ampia, coraggiosa liberalizzazione dei costumi sessuali. Vista dalla Napoli postridentina, l’Europa delle nuove confessioni cristiane è tutta così: ovunque, gli eretici che la Chiesa cattolica combatte senza esclusione di colpi hanno una grande indulgenza verso i peccati della carne. Le radici di alcune di queste fantasie sono documentate. Più che improbabili suggestioni disseminate dalla propaganda religiosa dei missionari ginevrini, influiscono le idee e i comportamenti dei forestieri provenienti da aree a rischio, i ricordi di alcune grandi figure di esuli religionis causa, ma anche la circolazione e la lettura di opere dei più celebri polemisti cattolici. Il pericolo di ‘contagio’ viene in primo luogo dalle persone originarie di paesi religiosamente divisi (Francia e Germania), dell’Italia subalpina (una zona pericolosamente vicina alle città egemonizzate o conquistate dagli eretici) o di nazioni ‘luterane’ (Svezia, Inghilterra ecc.). Ancora una volta, più che le differenze teologiche o ecclesiologiche, cibo e sessualità sono i temi preferiti degli incontri/scontri tra napoletani e forestieri ‘sospetti’. Gli uni possono esserne suggestionati o turbati, gli altri devono misurare le parole e badare alle persone con cui si confidano o condividono momenti di convivialità: rischiano di finire davanti al Sant’Ufficio, in una città che brulica di falsi testimoni. 59 S. Reszka, De Atheismis et phalarismis Evangelicorum libri duo..., Neapoli, apud Io. Iacobum Carlinum et Antonium Pacem, 1596, pp. 57-62. Reszka, che era da tempo in Italia come segretario dell’autorevole cardinale polacco Stanislao Hozjusz, fu ambasciatore del re di Polonia a Roma e a Napoli, e proprio a Napoli morì tra il 1600 e il 1603. Sulla sua figura e sul suo stretto rapporto con Napoli vedi J.W. Wos´, Stanislao Reszka segretario del cardinale S. Hozjusz e ambasciatore del re di Polonia a Roma e a Napoli (n. 1544-m. post 1600), in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di Lettere e Filosofia, s. III, 8, 1978, pp. 187-202.

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Si è già accennato al tessitore modenese processato nel 1578 a Napoli per aver elogiato Ginevra come una città tollerante. Ma è altrettanto indicativo il caso di un giovane servitore straniero (tedesco o fiammingo, gli stessi conoscenti non lo sanno), denunciato nel 1583 da un chierico che lavorava come precettore alle dipendenze del suo stesso padrone. Il punto debole prescelto dal delatore per comprometterlo è una frase relativa alla peccaminosità dei rapporti sessuali extraconiugali, da lui negata in base al biblico ‘Crescete e moltiplicatevi’ e ai costumi del suo paese, una terra dell’imperatore imprecisata, ma piena di ‘luterani’. Anche se l’addebito è confermato solo parzialmente da un altro servitore (secondo lui, il dissenso tra i due riguardava la natura veniale o mortale di quel peccato), la sua deposizione è sufficiente al vicario generale per ordinarne la cattura60. Ben diversamente motivato, il collegamento tra Riforma e sessualità ritornò un anno dopo all’attenzione del Sant’Ufficio napoletano nei turbamenti e nelle ansie di un ventunenne novizio cappuccino, entrato nell’Ordine a diciassette anni. A suggestionarne l’accesa sensibilità furono vari elementi. In primo luogo, un singolare intreccio tra la lettura dell’Enchiridion, l’opera principale e più diffusa di Giovanni Eck61, uno dei capisaldi della controversistica antiluterana, e i ricordi, ancora vivissimi nella Campania dei suoi anni, di due grandi esponenti del dissenso religioso del Cinquecento italiano, Bernardino Ochino e il marchese Galeazzo 60 ASDN, SU, 562, cc. n.n., 18 aprile 1583, denuncia del chierico Giovan Domenico Mazzario contro Enrico Oranio; la deposizione dell’altro servo, il genovese Pietro Basso, è del 22 aprile 1583. Non risulta se il mandato di cattura fu eseguito. 61 L’Enchiridion di Eck ebbe una prima edizione in latino nel 1525 a Landhut, fu riedito e ampliato spesso e ristampato nel corso di circa cinquant’anni più di 80 volte (secondo altri, ebbe 91 edizioni fino al 1600). Fu tradotto in tedesco, francese e fiammingo, ma non in italiano. Ne esiste un’edizione critica recente: J. Eck, Enchiridion locorum communium adversus Lutherum et alios hostes ecclesiae (1525-1543), hrsg von P. Fraenkel, Münster W. 1979. Per una presentazione dell’opera nel suo contesto cfr. M. Cassese, La prima controversistica cattolica del Cinquecento e la sua concezione della chiesa nella lotta contro Lutero, in Figure moderne della teologia nei secoli XV-XVII, a cura di I. Biffi e C. Marabelli, Milano 2007, pp. 87-136, passim. Sulla sua figura vedi E. Iserloh, Johannes Eck (1486-1543), Scholastiker-Humanist-Kontroverstheologe, Münster W. 19852; M. Ziegelbauer, Johannes Eck. Mann der Kirche im Zeitalter der Glaubenspaltung, St. Ottilien 1987.

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Caracciolo. A queste suggestioni si aggiunse l’ammirazione per le scelte coraggiose dei tanti martiri protestanti morti a Roma sul patibolo. Il giovane, fuggito due volte in abiti secolari dai conventi in cui stava completando il noviziato, ammise che aveva pensato di andarsene a Roma per partire di lì, insieme ad altri compagni, verso imprecisate terre di eretici (‘alli luterani’). Trovandosi «aggiacciato e freddo nel far bene», intendeva così ravvivare la propria esperienza («vedendo quelli, si sarebbe scaldato nel far bene e nella fede nostra»). Pesarono molto sulla sua crisi esistenziale la sensualità che lo tormentava, le asprezze della disciplina claustrale, che gli toglieva anche il sollievo e la serenità dello studio («me ne pigliava anzia», «me faceva svoltare il cervello», dichiara ai giudici), l’insensibilità dei superiori ai suoi disagi, un approccio sessuale subìto da un confratello. Tuttavia, gli elementi scatenanti, che lo indussero ad abbandoni di breve durata della vita religiosa (una volta per quattro giorni, un’altra per poche ore), furono due fatti casuali, che gli capitarono nel 1584, nel giro di qualche settimana, mentre era di stanza nel convento di Arienzo: la lettura dell’Enchiridion di Eck, appunto, e l’incontro con un paggio del marchese di Vico. Nel celebre, corposo manuale del controversista tedesco lo turbarono profondamente le affermazioni relative al cibo e al sesso: gli heretici concedevano tante cose che li christiani le prohibiscono, et particolarmente che concedeno le sensualità carnale, cioè andare alle meretrice, non è peccato havere moglie et non degiunare62. 62 ASDN, SU, 618, cc. n.n., 29 agosto 1584, costituto di fra Giovanni da Napoli. Nelle linee essenziali, le stesse cose erano state ammesse dal giovane il 12 luglio davanti al tribunale del suo Ordine: era stata quella confessione, mandata alla Congregazione del Sant’Ufficio, a spingere il cardinale Savelli a richiedere il riesame del religioso all’arcivescovo di Napoli (ivi, cc. n.n., lettera del 18 agosto 1584). Quanto ai brani dell’Enchiridion che sconvolsero fra Giovanni, verosimilmente desunti da una delle tante edizioni latine, sono i seguenti. Per la sessualità e il celibato dei preti: «Castitas est libera; traditiones faciunt necessariam. ‘Melius nubere quam uri’ [1Cor 7,9]»; «Votum de virginitate est stultum, quia impossibile; et papa humanis traditionibus vult mortificare carnem, ubi deberet recurri ad gratiam Dei. ‘Si acciperis uxorem non peccasti’ [1Cor 7, 28]» (Eck, Enchiridion, p. 225). Per il digiuno e il cibo: «‘Nemo ergo vos iudicet in cibo, aut in potu, aut in parte diei festi, aut neomeniae, aut sabbatorum; quae sunt umbra futurorum’ [Col 2,16-17]’»; «‘Si spiritu facta carnis mortificaveris, vivetis’. Non dixit ‘ieiuniis’ [Rom 8,13] Christus in Evangelio non praecepit di-

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Come spiegare il suo sconvolgimento di fronte a una lettura che avrebbe dovuto convincerlo della gravità degli eccessi dei ‘luterani’? Certo, il testo di Eck, che procedeva trattando ogni argomento secondo uno schema fisso (presentazione della posizione cattolica, obiezioni degli eretici e confutazione dell’autore63), esponeva i lettori meno avvertiti a rischi molto gravi. Poteva succedere a molti di loro ciò che capitò al novizio cappuccino nel 1584: che un’opera pensata per bollare le eresie finisse per diffonderne i veleni. Proprio per quel motivo, in un paese come l’Italia, dove i cattolici non dovevano fronteggiare una forte minoranza protestante, le autorità romane procedevano con i piedi di piombo nella concessione di licenze di stampare e leggere le opere di controversistica. Pesava inoltre come un macigno su quei paradossali esiti la scarsa consuetudine a un rapporto diretto con le Scritture, indotta dai divieti su cui Gigliola Fragnito ha fatto luce negli ultimi anni, in ricerche fondamentali64. A queste considerazioni si devono aggiungere, nel caso del giovane religioso napoletano, l’austerità e la vita spartana delle comunità cappuccine65. Il rigorismo dei superiori e la tolleranza degli eretici, dichiarata a chiare lettere in un libro al di sopra di ogni sospetto, gli sembrarono inconciliabili: chi aveva ragione, dov’era la verità? Il dubbio inquietante che i ‘luterani’ fossero nel giusto bastò a farlo raffreddare nel servizio di Dio. Quando poi, di lì a poco, uscito con un confratello per una questua, s’imbatté in un uomo che era stato al servizio del marchese di Vico, il cerchio si chiuse. La commossa esaltazione che lo sconosciuto faceva dello spirito religioso dell’aristocratico e dell’Ochino, due grandi uomini che avevano scelto per fede l’esilio in Svizzera e una vita di stenti, gli illuminò la mente. Fu solo allora che il pensiero di abbandonare l’Ordine per cercare una risposta sicura alle sue tante incertezze divenne incalzante e lo spinse alla fuga. In quel momento, come ammise con sincerità di fronte alle stringenti domande dei giudici, se gli scretionem ciborum: quid ergo ‘imponetis hoc onus’ fidelibus? [cfr. Atti 15,28]»; (Eck, Enchiridion, pp. 168-169). 63 Vedi Cassese, La prima controversistica, p. 108. 64 Mi riferisco ovviamente a La Bibbia al rogo e a Proibito capire. 65 Esempi in V. Criscuolo, I Cappuccini e la Congregazione dei Vescovi e Regolari, I, 1573-1595, Roma 1989, pp. 34-35.

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avessero detto che la legge dei ‘luterani’ era quella vera, l’avrebbe osservata: c’era più sensualità, e lui aveva molte tentazioni. Ma verso la fine dell’interrogatorio, quando forse intuì che la buonafede delle risposte poteva rovinarlo, cercò di giustificarsi, sia pur goffamente: dichiarò che aveva pensato di scappare tra gli eretici proprio per verificare se erano motivati solo dalla sensualità e per rafforzare così la sua fede cattolica66. 10. A queste fantasie, che oggi possono far sorridere, alla luce di ciò che sappiamo del rigorismo ginevrino, bisogna aggiungere alcuni rilievi su aspetti importanti, finora poco indagati, del Cinquecento religioso napoletano. All’influenza della legge dei turchi si è già accennato: se la maggiore libertà alimentare è l’elemento che più conta67, anche la poligamia e una certa facilità di costumi rivivono talvolta nei ricordi dei rinnegati come aspetti piacevoli della vita in terra ottomana. A Napoli e in Campania non mancano le tracce di cattolici che, tornati dalla Turchia in Occidente, prendono una seconda moglie, verosimilmente suggestionati dal modello islamico, o esaltano la libertà, la potenza e la santità della legge dei turchi68. Queste esperienze diffuse aiutano a comprendere come possano circolare in città proposizioni ereticali curiose, come quella di andarsene a Ginevra a rinnegare69. Altrettanto vive sembrano le suggestioni dell’ebraismo, forti e ben documentate anche in altre aree del regno, malgrado l’espulsione del 1541: dalle conversazioni dell’entourage di Colantonio Stigliola alle letture di alcuni colti monaci, dalle lezioni di lingua ebraica impartite in città alle esperienze individuali di conversio66 ASDN, SU, 618, costituto del 29 agosto 1584 («et io perché pateva de tentationi sensuali me saria attaccato a quella legge»). 67 Vedi l’irritata denuncia del dottore in teologia don Bernardo Galluccio contro Giuseppe Puoto, un giovane che aveva detto più volte di volersene andare in Turchia a ‘mutare legge’, per potere mangiare liberamente ciò che voleva. Per Galluccio, tra l’altro, queste frasi erano la prova che Puoto era un luterano (ASDN, SU, 1165, cc. 1v-2r, 5 settembre 1599). La condanna a una pubblica penitenza in Cattedrale, dopo pochi mesi di carcere, sancì la colpevolezza del Puoto (che subì la pena nel corso della messa di Natale). 68 Scaramella, Controllo, pp. 479-480, e Rostagno, Mi faccio turco, pp. 7879. 69 Un esempio in ASDN, SU, 1174, c. 4r, 11 novembre 1599, deposizione di don Sebastiano de Franceschi contro Achille de Regina.

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ne da parte di cattolici70. Nell’affinamento di questi interessi potrebbe avere avuto un qualche ruolo il piccolo nucleo di influenti famiglie ebree spagnole fintamente convertite al cattolicesimo, su cui si abbatté proprio nel tardo Cinquecento una caccia mirata e sanguinosa del Sant’Ufficio napoletano71. È in questo orizzonte che si colloca la tragica odissea di Ottavio D’Arimini, il colto e tormentato studente pugliese (nonché ex novizio domenicano) giustiziato nel 1597 a Roma, dopo un pesante processo subìto dal Sant’Ufficio vescovile napoletano. La sua straordinaria scelta dell’ebraismo, nutrita di molte letture, si colorava anche di iconoclastia e di disprezzo per la sessualità della Vergine, per san Giuseppe, per l’ambigua figura di Cristo. Anche Ottavio, nella sua vita errabonda e disordinata, era stato a Ginevra e voleva andarsene lì, con i compagni di carcere, per fondare un’altra ‘setta’ e «deroccare la legge christiana»72. Un’influenza ebraica più ‘popolare’ e più nettamente anticristiana potrebbe invece essere venuta da marrani iberici arruolati nelle milizie del viceré. Una prova precisa di questi stimoli viene da un prezioso documento: il processo – purtroppo frammentario – celebrato a Roma contro Dionisio Lopes, un soldato di Lisbona, accusato nel 1578 di svariate eresie di stampo giudaizzan70 Per gli intellettuali, vedi Amabile, Il Santo Officio, II, Documenti, pp. 2848; per le letture, ivi, passim, e ASDN, SU, 125, indagini su Giovanni Antonio Gelli; per le adesioni di napoletani all’ebraismo e le lezioni di ebraico, vedi G. Romeo, La suggestione dell’ebraismo tra i napoletani del tardo Cinquecento, in L’Inquisizione e gli ebrei in Italia, a cura di Luzzati, pp. 179-195. Un’ottima presentazione d’insieme degli ebrei nella Napoli del Quattro/Cinquecento è quella di G. Lacerenza, Lo spazio dell’ebreo. Insediamenti e cultura ebraica a Napoli (secoli XV-XVI), in Integrazione ed emarginazione. Circuiti e modelli: Italia e Spagna nei secoli XV-XVIII, a cura di L. Barletta, Napoli 2002, pp. 357-427. 71 La caccia si svolse in due fasi, tra il 1569 e il 1582. Una prima presentazione di questi documenti è in Amabile, Il Santo Officio, I, pp. 296-321, e in P. Scaramella, La campagna contro i giudaizzanti nel Regno di Napoli (1569-1582): antecedenti e risvolti di un’azione inquisitoriale, in Le inquisizioni cristiane e gli ebrei, pp. 357-375. Sulla drammatica vicenda Peter Mazur, un giovane studioso statunitense, sta ultimando un libro che si preannuncia importante. 72 Il processo è in ASDN, SU, 833 (i riferimenti del testo sono tratti dalle confessioni rese sotto tortura a Napoli il 13 aprile 1595, cc. 366r-370r). Vedi anche le lettere romane in Scaramella, Le lettere, ad indicem. Accenni al caso, che meriterebbe una ricerca a parte, sono in Id., Le Madonne, pp. 61-63; Romeo, Aspettando il boia, pp. 311-312, e Id., La suggestione, pp. 186-188.

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te disseminate in varie città del regno, vagliate in primo grado dal suo capitano e poi dalla Curia arcivescovile napoletana73. L’uomo, che dubitava apertamente della resurrezione di Cristo, aveva espresso in più occasioni giudizi pesantissimi sul conto di san Giuseppe. Egli riproponeva più o meno consapevolmente tradizioni ben presenti nei vangeli apocrifi. Secondo lui, un’antica cerimonia di matrimonio («nel tempo antico si accasavano insieme uomo e donna cui fioriva bastone in mano») aveva favorito proprio il vecchio falegname vedovo e la Madonna, una dodicenne: la verga era fiorita nelle mani di lui e di lei. Vergognatosi della sorte che gli era capitata, temendo il giudizio della gente, lo sposo aveva cercato di fuggire. Un angelo lo aveva dissuaso, ma Giuseppe, pur accettando di rimanere con la Madonna, non si era congiunto con lei e aveva dovuto subire l’onta della sua dubbia gravidanza: un uomo da poco, uno stupido, aveva commentato Lopes, suscitando le aspre rimostranze dei commilitoni. Incerti se considerarlo un giudaizzante o un buontempone, alla fine i cardinali del Sant’Ufficio lo condannarono ad abiurare un lieve sospetto d’eresia74. Andrebbe poi più attentamente valutata la circolazione di temi legati al naturalismo rinascimentale, che saranno poi sviluppati dal libertinismo erudito, con la sua forte componente antireligiosa, nella Napoli del tardo Cinquecento. Si è sostenuto che l’Italia intellettualmente più libera e più sensibile al fascino dell’ateismo e alla teoria dell’impostura delle religioni non è quella spagnola: gli stimoli di quel tipo fermentano altrove, a Venezia, Ro-

73 Il frammento più importante è in ASDN, SU, 417 (contiene i riesami napoletani di alcuni testimoni, ordinati dalla Congregazione del Sant’Ufficio, ma anche le copie degli atti celebrati in prima istanza e i capi d’accusa romani); ma vedi anche Scaramella, Le lettere, pp. 39-40, 44, 47, e i decreti emanati a Roma nelle fasi finali del processo (in ACDF, DSO, 1578-1579, c. 217r-v, 224r, 232r, cc. 287v-288r; ringrazio Peter Mazur per avermene fornito la trascrizione). 74 Per il racconto del rito matrimoniale vedi ad esempio ASDN, SU, 417, cc. n.n., 17 dicembre 1578, deposizione di Michele de Reos (il tema ritorna con lievi varianti anche nei resoconti degli altri testimoni). La condanna finale è in ACDF, DSO, 1578-1579, c. 288r, seduta del 4 settembre 1579. Per la figura di san Giuseppe nei vangeli apocrifi, vedi T. Stramare, ‘voce’ Giuseppe, in Bibliotheca Sanctorum, VI, Roma 19962, coll. 1256-1257.

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ma e Firenze75. È un giudizio che lascia perplessi (e andrebbe rivisto in base a puntuali ricerche), perché sottovaluta la formazione napoletana di Telesio, Bruno, Campanella, Vanini e la vivacità delle idee che circolano nella capitale del viceregno nel Cinquecento. È impossibile discutere adeguatamente in questa sede del problema, ma un accenno mi sembra utile. L’analisi comparata dei processi di eresia ‘varia’celebrati nell’Italia di questi anni documenta sia la particolare ricchezza delle fonti napoletane, sia la presenza di tracce di tradizioni culturali riconducibili al libertinismo erudito76. Mi limito qui a ricordare una teoria/leggenda sull’origine del papato e del cattolicesimo, finita nel mirino del tribunale napoletano nel 1573, tra gli addebiti mossi a un notaio sannita già condannato per eresia a Roma nel 1564. In un tempo mitico, quello in cui «andava il mondo in arme», diventavano re e imperatori solo i giovani forti e abili nel guerreggiare. Non potendo più competere con loro su quel piano, i vecchi, per non essere emarginati del tutto, escogitarono una ‘nova machinatione’. Proposero ai giovani imperatori, ma accortamente e con bei modi, di tollerare la nascita di un nuovo Principe. Per convincerli, raccontarono loro la storiella che Cristo era figlio di Dio e aveva voluto che in terra ci fosse un suo rappresentante, incaricato di comandare esclusivamente sulle cose spirituali. I giovani imperatori, «che di questo poco s’intendevano», abboccarono all’amo e accettarono. Così, concludeva il notaio, erano nati i papi e a poco a poco, con un divieto oggi e un obbligo domani, la religione tout court77. Vedi Spini, Ricerche, p. 10. L’enorme fondo napoletano è quello che conosco meglio. Per il resto, mi riferisco allo spoglio sistematico di ACDF, DSO (effettuato per ora fino al 1633) e di moltissime serie epistolari dello stesso archivio e al confronto con i fondi inquisitoriali di Pisa (conservato nell’Archivio arcivescovile della città toscana), e Modena (nell’Archivio di Stato locale), studiati sistematicamente fino alla metà del Seicento, di Venezia (Archivio di Stato) e Udine (Archivio della Curia arcivescovile), in cui ho effettuato solo dei sondaggi. 77 ASDN, SU, 229, c. 2v, 14 ottobre 1573, denuncia del dottore in utroque iure Innocenzo Zotto contro Barbato Ungaro, già condannato nel 1564 a Roma insieme a Fabio Popolo, un altro notaio del suo paese, Torrecuso, ed ad altri eretici. Il processo del 1573, che nasce in un contesto di forti inimicizie paesane e di probabili falsità, si chiuse con una nuova condanna dell’Ungaro nel 1576 (vedi Scaramella, Le lettere, p. 28). 75 76

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11. Con un retroterra ricco e vario, come quello assicurato dai molteplici orizzonti di una grande capitale, non sorprende che a Napoli in questi anni, malgrado gli accresciuti controlli, una diffusa libertà nei comportamenti sessuali, caratteristica dei ceti popolari, ma anche dell’aristocrazia e di molti uomini di Chiesa, sia difesa tenacemente, in molti modi. Si delegittimano i prelati che cercano di porre un freno ai costumi della città, come insegnano le violente proteste che accompagnarono il breve episcopato d’impronta borromaica dell’arcivescovo Burali, in cui la lotta alla sessualità aveva ampio spazio; c’è una resistenza diffusa, talora volgare e sprezzante, agli strumenti che essi adoperano, e si sostiene la piena liceità dei propri comportamenti78. Le procedure di scomunica sono spesso oggetto di reazioni violente, soprattutto quando la Curia le utilizza a tutela dei propri interessi lesi79. Nei napoletani, poi, gli atteggiamenti di dispregio sono inaspriti dalla risentita coscienza della propria identità urbana. Si minacciano i messi che pubblicizzano divieti e ordinanze, si ridicolizzano le scomuniche, si esprimono critiche pesanti alle autorità diocesane per iniziative che servono solo a spaventare i villani e a spillare soldi che vanno nelle tasche di messi vescovili e notai80. Le risposte non sono meno aspre in occasione delle rare scomuniche che raggiungono gli inconfessi. È indicativo l’esito di una di esse, frutto di un’isolata decisione adottata dall’arciprete di Afragola nel 1575, in malafede, contro cinque presunti inadempienti al precetto pasquale. Uno degli interessati, consapevole della totale arbitrarietà dell’infamante provvedimento subìto, cancella col fango il suo nome sul cartello81. Non mancano inoltre, tra le burle religiose, quelle che mimano la pubblicazione delle sco78 Per le aspre reazioni alle più incisive riforme del Burali vedi Romeo, Inquisitori, pp. 205-215, e Mancino, Licentia confitendi, pp. 26-45. 79 ASDN, SU, 1168, c. 1v, 22 settembre 1599, denuncia di Giovanni Vincenzo de Donna contro Aurelia Ascione, contadina di Torre del Greco accusata di aver minacciato di strappare i peli della barba ai messi vescovili venuti a scomunicarla per aver colto l’uva della Mensa arcivescovile e di improperi contro il cardinale («nge have zappato, forse?», dice del prelato). 80 Romeo, Inquisitori, pp. 205-6; ASDN, SU, 1098 (vedi supra, II, nota 57); 328, c. 2r, memoriale dell’agosto 1577 di Giovanni Tommaso Giusto (commenta, a proposito delle scomuniche spantavillani: «Nui simo nate a Napule»). 81 ASDN, SU, 305, passim.

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muniche: è il caso di un gruppo di buontemponi guidato da una cortigiana. La donna è processata nel corso del 1595, ma la denuncia sopravviene tre mesi dopo i fatti ed è dettata soltanto da inimicizie. Ancora una volta, la città assorbe senza difficoltà ed archivia come scherzi gesti che appaiono scandalosi alle autorità ecclesiastiche82. In generale, poi, sono molto diffuse e indicative le espressioni di disprezzo verso gli uomini di Chiesa più autorevoli e potenti, sospettati di essere i primi a violare le rigide norme di comportamento imposte ai fedeli. Si può ricordare qui l’irriverente parodia con cui nell’autunno del 1590 un gruppo di ragazzini, su imbeccata di un frate, guastò la festa a un gruppo di gesuiti impegnati in una di quelle forme di apostolato di strada in cui erano maestri, nel borgo di Chiaia. Mentre i padri intonavano una canzoncina religiosa, ancora una volta in onore della verginità della Madonna, essi, ben istruiti dal religioso, si accodarono al corteo cantando una litania dai toni ben diversi: O Maria vergenella sotto una capannella e voi preveteroni che state a quattro palazzoni vi faciti li bon bocconi e sete bogeroni [=omosessuali]83.

D’altra parte, gli stessi ecclesiastici che sempre più spesso sottopongono in confessionale le donne a umilianti interrogatori sulle loro abitudini sessuali devono fare i conti con le loro contromisure, dalle risposte reticenti alla confessione dei peccati in un buco del muro84. Una parte di queste resistenze viene proprio da chi è danneggiato direttamente e pesantemente dall’inasprirsi dei controlli. Le puttane/fattucchiere di cui Napoli trabocca, come tutte le grandi città, ne offrono esempi a iosa, sia nei processi di magia e stregoneria, sia in quelli che riguardano bestemmie e frasi ereticali a sfondo sessuale contro la Madonna85. Il nervo scoASDN, SU, 979, passim. ASDN, SU, 823, c. 6v, 26 ottobre 1590, denuncia di Alessandro de Stefano contro il domenicano fra Bernardo di Toledo. 84 Vedi Romeo, Esorcisti, pp. 172-176 (sono reazioni che si incontrano ovunque in Italia). 85 Per i processi di stregoneria napoletani vedi Romeo, Inquisitori, passim. Per le bestemmie ‘mariane’, vedi ASDN, SU, 400, c. 1v, 3 giugno 1578, deposi82 83

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perto è nella figura mariana. Se l’arma principale di cui la Chiesa si serve per isolare e colpevolizzare le cortigiane è il richiamo al modello di Maria sempre vergine, le interessate reagiscono con osservazioni di due tipi. Una riguarda la fisiologia: è impossibile avere figli rimanendo vergini. L’altra è la scarsa attendibilità delle lodi mariane: la Madonna non solo non può fregiarsi di quel titolo, incompatibile con la maternità, ma al contrario è una donna rotta a tutte le esperienze sessuali, in particolare a quelle sodomitiche86. Osservazioni del genere valgono per le bestemmie concernenti Cristo, che sono di gran lunga le più diffuse in città, insieme a quelle mariane. Esse hanno una particolare diffusione tra tutti i detenuti, non soltanto tra coloro che nell’inferno delle carceri della Vicaria sono raggiunti nel tardo Cinquecento dai confortatori della Compagnia dei Bianchi e dalle missioni dei gesuiti. Il caso delle prigioni vescovili è altrettanto indicativo. In quegli anni, per tanti carcerati napoletani, in perfetta simmetria con le resistenze delle prostitute al modello mariano, il Cristo crocifisso è solo un ambiguo rappresentante del potere che li opprime, oggetto di rabbiose e blasfeme espressioni di disprezzo e di atti di feroce iconoclastia. Era un sodomita, se l’intendeva con san Giovanni, la sua fine ignominiosa è lo specchio della vita di un uomo senza onore, è un segno d’infamia, non del sacrificio estremo patito per redimere l’umanità87. Prostitute e detenuti non sono però i soli ad esprimere una netta incredulità nella conclamata purezza sessuale delle due figure utilizzate più massicciamente dagli ecclesiastici impegnati nell’opera di moralizzazione della città. Tutti i bestemmiatori e gli eretici della porta accanto mostrano a Napoli un accentuato disprezzione di Ippolita Salvato: la diciassettenne meretrice Vittoria de Buono avrebbe definito la Madonna ‘vecchia ruffiana’; pochi anni dopo, a Livia Ferrara è attribuita l’intenzione di ‘rinnegare’ la Vergine Maria, che la spinge a corteggiare uomini che non le vogliono bene (ASDN, SU, 582, c. 3v, 26 ottobre 1583, deposizione di fra Fabrizio de Dura). 86 «Madonna puttana» e «Madonna fottuta in culo» sono forse le bestemmie più diffuse a Napoli nel tardo Cinquecento. 87 Un caso esemplare è in ASDN, SU, 885, su cui vedi Romeo, Aspettando il boia, pp. 92-96, 236-247.

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zo e una forte disistima verso Madre e Figlio, considerati i rappresentanti più difficilmente difendibili dell’etica della Sacra Famiglia, proprio per il profilo dubbio della loro sessualità. Quanto più parroci, confessori e predicatori enfatizzano questi valori, tanto più offrono alla città spunti per combatterli. Se la Chiesa ufficiale propone come modelli di una vita sessuale ordinata la Madonna e il Figlio, chiunque perda le staffe per un qualsiasi motivo punta su quei temi per esprimere rabbia e disappunto. È una tipologia blasfema nettamente minoritaria nei due fondi inquisitoriali italiani che conosco meglio, quelli di Pisa e Modena: lì le bestemmie sono abitualmente rivolte all’indirizzo di Dio. 12. Sul terreno delle ‘eresie’ sessuali il fronte più pericoloso si annida però all’interno della Chiesa stessa. A fronte dei tanti collaboratori autorevoli e discreti del Sant’Ufficio, primi fra tutti i gesuiti, altri ecclesiastici remano contro, ostacolano tenacemente e insidiosamente l’impegno dei confratelli. Lo fanno con apologhi maliziosi, come quello di Sticchi Nicchi, l’uomo che si presenta ‘abusivamente’ in Paradiso e riesce a non farsi cacciare, rinfacciando a ciascuno il suo difetto, senza riguardo per gli angeli, per san Pietro, per altri santi e per lo stesso Cristo88, con volgari e oziose discussioni sulla fisiologia sessuale della Madonna89, con interpretazioni del peccato originale in chiave sodomitica (il pomo di Adamo era il culo di Eva, non l’osso del frutto che gli rimase in gola, quando fu chiamato da Dio90), ma anche con una pratica omosessuale diffusa, spesso pubblicamente esibita, talvolta difesa e teorizzata in modo sfrontato e audace. Penso all’abbate Matteo di Pastena, uno dei tanti chierici selvaggi di cui era pieno il regno. Lo chiamavano Monsignor Sodoma (o anche Monsignor della Bucera), e le sue vicende giudi88

ASDN, SU, 382, c. 1v, denuncia di fra Rufino da Marino del 7 febbraio

1578. 89 Vedi ASDN, SU, 420, cc. n.n., 13 novembre 1578, deposizione di fra Egidio da Castel S. Lorenzo (sul confratello che aveva sostenuto con pesanti espressioni, sia nella cucina dell’infermeria di S. Maria la Nova, sia in una predica, che la Madonna aveva le mestruazioni, come tutte le donne). 90 Un esempio in ASDN, SU, 756, c. 2r, deposizione del 31 dicembre 1588 di Violante Scaglione.

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ziarie, quanto mai intricate, segnano anni tra i più movimentati per il Sant’Ufficio napoletano. Le blasfeme divagazioni del giovane sulle rotondità dell’ostia e del calice e sulla resurrezione della carne, unite ad altre eresie e a un elogio in versi della sodomia, nutrito di richiami tra i più vari (dalle Facezie del pievano Arlotto al Corano) gli costarono nel 1571 una pesante condanna91. Ancora più dissacranti furono però le iniziative di un gruppo di frati, chierici, giovani e giovanissimi sorpresi nel 1591 dai giudici dell’Inquisizione napoletana, al culmine delle loro ardimentose imprese, quando si erano anche costituiti come Accademia Nobilissima e Onoratissima, presieduta da un chierico selvaggio, Giuseppe Buono, alias l’abbate Volpino. Essi erano parte di un ampio giro di omosessuali, che gravitava attorno a un vero e proprio bordello di ‘bardasci’, gestito dal presidente. Passavano le giornate frequentando gli ambienti delle commedie cittadine, amandosi, spesso con furiose scenate di gelosia, ma anche reagendo in modo ironico e dissacrante all’intolleranza delle autorità ecclesiastiche e secolari. In questo clima elettrico maturarono le loro decisioni più sorprendenti, che non è azzardato leggere come un tentativo, tra il serio e il faceto, di legalizzazione dei rapporti omosessuali maschili: due matrimoni tra gay e la prammatica di un immaginario viceré, che autorizzava solo limitatamente rapporti sodomitici tra uomo e donna, ma era presentata agli ‘accademici’ come una vera e propria dichiarazione d’intenti a favore della legalizzazione dell’omosessualità maschile. Entrambe impressionarono enormemente gli inquisitori, a Napoli e a Roma, ed effettivamente costituiscono per ora un unicum nell’Italia della Controriforma. La clamorosa cerimonia matrimoniale fu ‘officiata’, alla presenza di parecchie persone, dallo stesso presidente, l’abbate Vol91 Per la sua figura e le sue disavventure giudiziarie, che meriterebbero una ricerca a parte, vedi Romeo, Aspettando il boia, ad indicem, e Scaramella, Le lettere, p. 24. Il processo è in ASDN, SU, 88, cc. 11r-v (13 ottobre 1567, deposizione di Orazio Caccavo), 24r (19 novembre 1567, deposizione di Giovanni Antonio Pisano), e 206r (per i versi). Fu condannato il 7 novembre 1571 all’abiura e a dieci anni sulle galere, ma rimase in carcere e nel settembre del 1576 ottenne il condono del residuo della pena dai cardinali del Sant’Ufficio.

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pino, nella sede del suo bordello. Si sposarono due eremitani di S. Agostino, fra Taddeo Imparato e fra Giovan Battista Grasso, con due adolescenti, il tredicenne Alessandrello de Ayllar, detto Cippe Ciappe, e il diciassettenne Muzio Imparato. L’abbate Volpino, vestito con la sottana lunga di chierico, si voltò al detto Mutio e li disse queste o simili parole: Piacevi di pigliar per legitimo sposo fra Giovan Battista Grasso qua presente? E detto Mutio rispose: Voglio. E poi se voltò e disse le medesime parole al detto fra Giovan Battista e detto fra Giovan Battista respose: Voglio. Et lo medesimo ferno fra detti Cippe Ciappe et fra Tadeo92.

Fece ancora più scalpore, però, la prammatica. L’aveva scritta un giovane avvocato civilista che frequentava sia il bordello, sia una devotissima Congregazione nel Collegio del Gesù, e dichiarò subito che era una burla. L’audacissima scrittura, che alternava il latino e l’italiano e mimava con raffinatezza e precisione le prammatiche vicereali del tempo, fu sequestrata a casa dell’abbate Volpino. Intestata a un Eccellentissimo e Illustrissimo don Priapo de Rumpiendis, Marchese delle piaghe, Conte dei sodomiti e dei gomorrei, Governatore generale di tutte le buone azioni, viceré, Luogotenente e Capitano Generale sia nel regno sia nel mondo, era presentata come una decisione d’urgenza, adottata per il moltiplicarsi di richieste da parte degli organi sessuali femminili: Et perché molte volte siamo fastiditi per suppliche da queste miserabili vulve, esponendo querela contra tutti i priapi per aver pervertito le regole, per molti capi ragionevoli: primo, perché previsto espressamente in diritto secondo, per le molestie e i perpetui calori delle vulve terzo, per la procreazione, perché interessa alla cosa pubblica che vi sia buona progenie e che il mondo sia pieno di figli Et parendogi dimanda giusta, gi è parso per lo quieto vivere dell’uno et l’altro sesso ordinare et comandare ad qualsivoglia cazo, cazone, cazillo et cazzeto di qualsivoglia stato, grado et condecione si sia, che solo in occasione delle mestruazioni possa abusare del sesso ana92

nio.

ASDN, SU, 856, c. 26v, deposizione del quattordicenne Lelio Sant’Anto-

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le, come nel capitolo De fractura liminis... et tanto di notte, quanto di giorno non ardisca operare altramente... Et questo se debia intendere per li priapj usuratj et concubinarij, et non altramente, né in altro modo, perché in tempo di necessità molte cose si permettono che in un altro momento non sarebbero consentite. Et a tale che alla presente non si trova causa de ignorantia, ordinamo et comandamo che se affiga alle porte di tutti i nostri tribunali, annullando, cassando, derogando e avendo per proibiti tutti gli altri diritti, costituzioni, canoni et sotto pena di esserne privati di perpetuo fottisterio et altre pene reservate a nostro arbitrio. Dato nel nostro grande castello, nel mese rotondo della nostra solita residenza, nel giorno e nell’anno di minchissimo, culissimo, futtimini vestrissimo. Vidit Priapus Bofa Regens Vidit Priapus Haba Regens Vidit Priapus Realis Regens Vidit Priapus Canonus Regens Magnius Cazzelarius Secretarius93.

Era un testo molto pesante. I toni burleschi non ingannarono i giudici, anche per alcuni dettagli ricavati dagli interrogatori: lo distribuivano a destra e a manca proprio i due frati freschi sposi, che potrebbero averlo tenuto presente anche in occasione della cerimonia di nozze, e, soprattutto, lo presentavano ai giovanissimi omosessuali dell’Accademia come un’iniziativa che mirava, malgrado i suoi contenuti, ben diversi, a condannare i matrimoni con le donne e a legalizzare solo i rapporti omosessuali maschili («non volevano meglio moglie che li figlioli»). Bastò poco ai cardinali della Congregazione per decidere il trasferimento a Roma dei complici, alla spicciolata però, forse per evitare tensioni con il Collaterale. Così, a poco meno di un mese dall’inizio dell’inchiesta, frati, chierici e ragazzini furono imbarcati sulla fregata del Sant’Ufficio e andarono a fare compagnia a Giordano Bruno nelle carceri dell’Inquisizione romana: una luna di miele amara e inattesa per gli sposi gay. C’erano tante cose da chiarire, e ci volle un bel po’ perché la 93 Ivi, cc. 29r-30r. Il testo, sequestrato il 23 luglio 1591 a casa dell’abbate Volpino, è leggibile solo in parte.

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vicenda si sgonfiasse: furono tutti condannati, ma a pene non pesanti, tra il 1593 il 1594: prevalse a fatica, insomma, il convincimento che fosse una burla o che fosse più opportuno politicamente valutarla così. Superfluo aggiungere che ai componenti dell’Accademia poteva andare molto peggio, soprattutto ai laici, che nel tribunale secolare avrebbero rischiato la pelle: la protezione garantita agli ecclesiastici li tenne al riparo dalle conseguenze più gravi. In città, tra l’altro, gli amici e i conoscenti dicevano che erano stati trasferiti a Roma perché erano omosessuali, non per le dissacranti iniziative promosse94. Nel caso loro, il processo, l’avocazione a Roma e la condanna, pur lieve, furono una scelta obbligata per l’audacia inaudita del duplice affronto portato a un sacramento. Quando, però, qualche anno prima, Decio Hogeda e Carlo Sant’Antonio, altri due giovani omosessuali che gravitavano attorno all’Accademia, erano stati denunciati da un cappuccino al Sant’Ufficio delegato, per una sfida non meno sprezzante e irridente alle strategie ‘sacramentali’ della Chiesa e allo stesso sacrificio di Cristo, il ministro aveva ritenuto opportuno non dare seguito a quella segnalazione. A dire del religioso che ne aveva segnalato le enormità, i due si erano prodotti in una feroce parodia della confessione dei peccati, tutta costruita sul sesso e su doppi sensi beffardi e osceni: dal membro di Carlo – il finto penitente – brandito da Decio – il finto confessore – e definito come la bacchetta del penitenziere, al blasfemo parallelo tra il sangue versato da Cristo per l’umanità e il seme – sangue purificato – che Decio dava al compagno nei rapporti proibiti. Gesti e parole così gravi avrebbero meritato risposte durissime, se come partner sessuali dei due (a pagamento, tra l’altro), insieme a molti religiosi, non fossero stati tirati in ballo dal cappuccino, non si può dire con quanta attendibilità, tre prelati di primissimo piano: Flaminio Torcella, l’ex vicario generale di Napoli, da pochi mesi vescovo di S. Angelo dei Lombardi, Orazio Raparo, vicario foraneo deputato al governo dei casali della diocesi, nonché 94 La fase romana del processo è documentata, oltre che ivi, passim (Positiones del fiscale Filonardi, copia di atti, lettere), in Scaramella, Le lettere, pp. 98-99, 120, 122-123, 125, 127, 129, 144-145, 147. Le voci sul trasferimento romano sono ricordate da Bartolomeo Corcione, l’autore della Prammatica (ASDN, ivi, c. 75r, costituto del 1° ottobre 1592).

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giudice in carica del Sant’Ufficio vescovile napoletano, e addirittura il Cappellano Maggiore del regno, l’altissimo aristrocratico Gabriele Sanges, figlio del marchese di Grottola95. Se nella capitale del viceregno laici ed ecclesiastici, anziché collaborare nei rispettivi ruoli alla difesa dell’ortodossia, si trovavano uniti non solo negli abusi più pesanti, ma anche in audaci e dissacranti autoassoluzioni, per i prelati più zelanti e motivati c’era poco da stare allegri: il lavoro da fare era davvero tanto. Era inevitabile, allora, che situazioni irregolari come quelle delle famiglie di fatto scivolassero in secondo piano: poca cosa, a guardar bene, rispetto a sfide così temerarie. Così, quando nel 1578 un convivente turbato arrivò a domandarsi se era ‘luterano’, se «tenere la concubina» era un’eresia, un frate lo invitò a stare tranquillo. Era soltanto un peccato mortale come tanti; l’unico rischio era quello di morire senza farsi assolvere, di finire dannato96. Con quei chiari di luna, insomma, le famiglie di fatto napoletane potevano stare tranquille: il peggio doveva ancora venire. 95 ASDN, SU, 869, cc. n.n., passim. Con ogni probabilità il manoscritto è frammentario, ma dalla corrispondenza (cfr. Scaramella, ivi, ad indicem) e dalle fonti ACDF non sono emerse tracce di sviluppi del caso. Il Torcella, noto per il carattere sanguigno e livoroso (per i suoi scontri con il ministro del Sant’Ufficio e con la Compagnia dei Bianchi vedi Romeo, Inquisitori, pp. 13-18, e Aspettando il boia, p. 124), era stato nel frattempo nominato vescovo di S. Angelo dei Lombardi e Bisaccia, dove rimase fino alla morte, nel 1600 (vedi W. van Gulik e C. Eubel, Hierarchia, III, Monasterii 1923, p. 109, e S. Loffredo, I Vicari Generali della Chiesa napoletana dal secolo XIV ad oggi, Napoli 1980, p. 23). Una trascrizione parziale della denuncia contro i due giovani è qui in Appendice, doc. 5. 96 ASDN, SU, 275, c. 30r, costituto di fra Sisto Casella del 30 giugno 1578.

IV CHIESA E FAMIGLIE DI FATTO: GLI INIZI DELLA CACCIA (1601-1626)

1. Il primo, improvviso giro di vite nella lotta della Curia arcivescovile ai conviventi della capitale si registrò all’inizio del Seicento, in coincidenza, forse non casuale, con l’avvio della fase napoletana del processo a Tommaso Campanella e ai campanelliani. La congiura nata in Calabria per abbattere il regime spagnolo e instaurare l’utopia della Città del Sole, guidata dal frate filosofo e da un folto gruppo di domenicani calabresi, aveva messo in forte allarme il papa e la Congregazione del Sant’Ufficio. Il delitto di lesa maestà non lasciava scampo, la pena capitale era pressoché scontata per tutti: in quel caso i privilegi di foro degli ecclesiastici non avevano alcun valore. L’arrivo a Napoli dalla Calabria di quattro galere con altrettanti cadaveri penzolanti dalle antenne e due uomini squartati in mezzo ad esse era stato, nel novembre del 1599, l’esordio studiato di una vicenda drammatica. Tutela corporativa dei religiosi coinvolti e difesa della sicurezza dello Stato furono gli obiettivi contrapposti che spinsero autorità ecclesiastiche e secolari a fronteggiarsi ai massimi livelli, senza esclusione di colpi1. Non sono affiorate finora tracce precise di collegamenti tra un caso così grave e una questione di rilievo nettamente minore come quella delle coppie di fatto. Tuttavia, i primi decisi interventi 1 Per i violenti scontri tra Chiesa e Stato negli anni del processo a Campanella e ai campanelliani, vedi Romeo, Aspettando il boia, pp. 56 sgg.

IV. Chiesa e famiglie di fatto: gli inizi della caccia (1601-1626)

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della Curia arcivescovile contro i conviventi napoletani sembrano riconducibili a valutazioni in senso lato politiche: più che un preciso impegno istituzionale (sinodi, visite pastorali, editti, mobilitazione di parroci e confessori), essi rispecchiano le scelte personali di alcuni alti esponenti del foro arcivescovile. L’uomo chiave fu forse Curzio Palumbo, uno dei più esperti ufficiali di Curia2. A lui, nei primi anni del secolo, sono indirizzate svariate denunce contro coppie di fatto, e la sua firma compare spesso nelle iniziative assunte contro i concubini, soprattutto dopo il febbraio del 1603, nel lungo interregno successivo alla morte dell’arcivescovo Gesualdo. In questo ruolo di primo piano, Palumbo si distinse per varie forzature. Cercò di applicare un paio di volte una procedura scoraggiata da tempo dalla Congregazione del Sant’Ufficio, cioè l’apertura di indagini inquisitoriali nei confronti degli scomunicati che si mostrassero indifferenti per più di un anno al provvedimento subìto. La prima volta lo fece in un’inchiesta relativa a una convivenza incestuosa3; la seconda per piegare le resistenze di una coppia sconosciuta. L’appunto autografo che ci è rimasto è istruttivo: Se non vengono a comparire personalmente lunedì matino, li scomunico in causa fidei [in causa di fede, cioè come sospetti d’eresia] et li farò venire carcerati, legati. Et sarà mal per loro, poiché, avisato il curato da me che venessero, che se li farebbe ogni carità, non sono venuti né vogliono venire: non vogliono la benedizione, avranno la maledizione4. 2 Candidato già nel 1600 ad esercitare il ruolo di coordinatore del Sant’Ufficio vescovile, che effettivamente svolse più tardi, tra il 1611 e il 1617, fu attivo nel 1603 nei processi ai campanelliani, ma anche nel caso di Marzia Basilia, di cui fu gelido, inflessibile protagonista. Vedi G. Romeo, Per la storia del Sant’Ufficio a Napoli tra ’500 e ’600. Documenti e problemi, in «Campania Sacra», 7, 1976, pp. 93-94; Id., Aspettando il boia, passim; ma anche, per gli altri importanti ricarichi ricoperti, P. Santamaria, Historia Collegii Patrum Canonicorum Metropolitanae Ecclesiae Neapolitanae ab ultima ejus origine ad haec usque tempora, Neapoli 1900, ad indicem. 3 ASDN, Conc, 121, 2 luglio 1600, processo contro un contadino, Giovanni Angelo Vaccaro. Il V., scomunicato il 23 agosto 1600, fu raggiunto il 15 aprile del 1602 da un decreto del Palumbo, che gli ordinava di comparire con la convivente per rispondere sulla fede cattolica. Si presentò il 17 giugno seguente e fu assolto dalla scomunica dopo due giorni di detenzione. 4 ASDN, Miscellanee giudiziarie, 1604, foglio sciolto.

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Non erano solo minacce. Nel luglio del 1604 Palumbo chiamò a rispondere nel tribunale della fede due giovani di Marianella, denunciati nel 1600 dal parroco, insieme ad altre quattro coppie di fidanzati del luogo, e poi scomunicati. C’era il sospetto che avessero idee sbagliate sulla scomunica. Dei due comparve solo il giovane e dichiarò di essere stato assolto dal predecessore del Palumbo, anche se non ne poté esibire prove. Nell’incertezza (probabilmente in Curia non erano rimaste tracce del provvedimento), il tribunale lo rilasciò con l’obbligo di non allontanarsi da Napoli senza la licenza del vicario5. Altrettanto atipica è una sua ulteriore iniziativa: nel luglio del 1605, dopo la denuncia di una moglie contro il marito che viveva con un’altra donna, ordinò alle scoppettelle di imprigionare i due, se li avessero colti in flagranza di reato6. Quella risposta oltranzista non fu più riproposta negli stessi termini. Le carcerazioni di conviventi laici scattarono spesso nel primo Seicento, ma solo quando erano sorpresi insieme dopo l’assoluzione dalla scomunica, in violazione del divieto di intrattenere relazioni che si erano obbligati a osservare per ottenerla7. Per qualche tempo, per essere assolti, gli scomunicati si impegnarono anche a pagare multe di importo variabile8. Non risulta che questi sconfinamenti siano stati oggetto di recriminazioni da parte del Collaterale9. Eppure le tensioni relative a un altro caso misto – la bigamia – erano sfociate proprio in quegli anni in un clamoroso intervento dei ministri del viceré. Nel 1604 l’anziano notaio del Sant’Ufficio diocesano 5 ASDN, SU, 1455, processo a Renzo Caso e Giovanna de Durante, cc. n.n.: la citazione risale al 5 luglio 1604, il costituto al 2 agosto seguente. 6 Il caso è in ASDN, Conc, 121, 26 luglio 1605, denuncia di concubinato contro Diana Petracca e Donato Antonio de Tonno. 7 Per le carcerazioni successive alla violazione del precetto vedi ivi, 6 settembre 1601, processo a Santa Hecca (Hecha) e Giacomo D’Ambrosio (quest’ultimo è condannato agli arresti domiciliari il 17 settembre 1602, per aver infranto il divieto di conversare subìto il 5 ottobre 1601). Sulle vicissitudini di questa coppia vedi infra, pp. 121-122. 8 Vedi ad esempio ASDN, Conc, 121, 17 giugno 1611, procedura di scomunica contro Scipione Lanario, che si obbliga il 21 luglio 1611 a pagare 30 ducati, e ASDN, Conc, Miscellanee: Micco Spina e Luisa de Porco, catturati per violazione del precetto, pagano il 14 luglio 1614 due ducati e sono scarcerati. 9 È quanto si ricava dallo spoglio delle sezioni Curiae e Exhortatoriarum dell’Archivio del Collaterale, in ASN.

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era stato trasferito come un delinquente qualunque su una galera regia, dove restò confinato per una settimana, per non aver voluto consegnare alle autorità secolari il fascicolo processuale di un bigamo10. A una linea di intelligente difesa del controllo ecclesiastico sui matrimoni si deve invece ascrivere un’altra dura decisione del Palumbo, resa forse inevitabile dalla spregiudicatezza di una coppia. A sollecitare capziosamente l’intervento dei giudici della Curia era stato un legale, fratello di un convivente. L’uomo aveva trovato troppo oneroso il costo della dispensa occorrente per potersi sposare, visto che tra lui e la fidanzata, per giunta incinta, c’era un rapporto di consanguineità. Anche il ricorso al giubileo si era rivelato poco conveniente: i costi non si abbassavano più di tanto. Aveva studiato allora con il congiunto un’abile manovra: iniziare una convivenza proibita, farsi scomunicare, chiedere l’assoluzione ed essere così obbligato dalla Curia arcivescovile a regolarizzare la propria posizione. Grazie a quella scelta, l’ostacolo della consanguineità sarebbe stato superato gratis o con una piccola spesa. Era un’iniziativa apertamente strumentale, che utilizzava un presunto scrupolo di coscienza per motivi d’interesse. A una trama così spregiudicata, lesiva del fiorente mercato romano delle dispense, bisognava rispondere con asprezza, e Palumbo lo fece. Con una decisione inedita e mai più applicata ai conviventi napoletani, condannò i due all’assoluzione pubblica davanti alle porte della parrocchia. Era una procedura utilizzata abitualmente nei procedimenti inquisitoriali, soprattutto a carico di fattucchiere e bestemmiatori, anche se talvolta vescovi più realisti del re se ne servivano per porre un freno ai disordini sessuali11. 10 Vedi Amabile, Il Santo Officio, II, p. 10 e la recente, aggiornata ricostruzione di Scaramella, Controllo, pp. 495-496. Il caso diede inizio alla famosa querelle e scomunica di Giovanni Francesco de Ponte (vedi S. Zotta, G. Francesco de Ponte. Il giurista politico, Napoli 1987). 11 ASDN, Conc, 121, 4 ottobre 1600, procedimento contro Loise Pisante e Isabella Santoro. I due furono assolti pubblicamente davanti alle porte di S. Eligio il 20 gennaio 1602. Per i vescovi oltranzisti, è indicativo il caso alessandrino già ricordato (vedi supra, pp. 27-28).

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2. Neppure Curzio Palumbo, però, fu in grado di rimediare ad eccessi più gravi, come quello finito sul suo tavolo nel febbraio del 1605. Nell’affollata strada del Lavinaro, nei pressi del Mercato, Luise, un suonatore, viveva da quasi un anno con due concubine, Costanza e Livia, giovani e vistose. Entrambe erano maritate: ed è proprio questo, più che l’atipico ménage a tre, il particolare che sottolineano tutti i testimoni. D’altra parte, una querela in Vicaria per adulterio non aveva avuto esito, malgrado la fermezza con cui i giudici di Stato rivendicavano competenze esclusive su quel delitto. Per il resto, però, gli altri dettagli della vita di quella famiglia, pur osservati con evidente curiosità, non suscitavano nel vicinato reazioni particolari. Eppure i tre non nascondevano né dissimulavano l’atipica convivenza. La loro vita in comune scorreva da molti mesi sotto gli occhi di tutti, tranquillamente, senza contrasti e senza scandali: era notorio che Costanza dormiva stabilmente con Luise, che Livia occupava una camera nello stesso fabbricato e riceveva ogni giorno dal suonatore il denaro per il vitto, che entrambe mangiavano e bevevano con lui, a volte insieme, a volte separatamente. I vicini che li frequentavano di più li vedevano scambiarsi gesti di familiarità o interessarsi del disbrigo di piccole commissioni: dall’invito a venire a tavola perché il pranzo era pronto alla consegna al sarto di capi di vestiario da adattare. Non sorprende perciò che i testimoni conoscano e riferiscano con indifferenza ai giudici anche particolari più riservati del concubinato a tre. Uno dei due mariti era consenziente, anche se sua madre si lamentava della nuora; dell’altro coniuge tradito tutti segnalano soltanto che era fuori Napoli. I due vicini più informati furono anche in grado di precisare ulteriori dettagli di un certo rilievo, ancora una volta senza acredine: quasi come un contributo a comprendere una scelta anomala, ma tutto sommato ragionevole. La convivenza dei tre era stata allietata, qualche settimana prima dell’esposto, dalla nascita di una bambina, procreata dal suonatore con Costanza. Dopo il lieto evento, ricorda uno dei testimoni, Luise aveva dichiarato di voler sposare la donna, in caso di morte del marito. Ma non era un segno di pentimento, dell’intenzione di regolarizzare almeno una delle due relazioni. Qualche tempo prima, infatti, quando Luise si era ammalato e aveva deciso di fare testamento, le sue scelte erano state equanimi. Aveva riconosciuto ad entrambe le donne uguali diritti: denaro e como-

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dato gratuito per un anno nelle rispettive camere. Anche in questo caso, però, il tenore della deposizione è sobrio, asciutto. Inoltre, il vicino che riferisce il particolare si guarda bene dal rilevare che la sua vita di pubblico peccatore era continuata imperterrita: niente paura di morire senza sacramenti, niente pentimenti in extremis. Era come se il suo racconto, non diversamente da quello degli altri vicini, volesse solo sottolineare l’incomprensibile normalità di una famiglia particolarmente trasgressiva. Tuttavia l’acquisizione di prove così solide, e forse anche inquietanti, dato il retroterra di totale estraneità all’etica ufficiale che presupponevano, non condusse a risposte giudiziarie più aspre del solito. La reazione di Curzio Palumbo, l’intransigente giudice/inquisitore che segue l’indagine, appare equilibrata. L’esito del procedimento è conforme a quello delle altre iniziative di questi anni: i tre partner di una famiglia così atipica sono citati, invitati ad esibire l’attestato parrocchiale di separazione e infine scomunicati, data la loro persistente contumacia. Il caso si chiude così, definitivamente: da parte dei tre conviventi non c’è traccia di richieste di assoluzione, ma neppure i giudici se la sentono di svolgere accertamenti ulteriori, che pure, nel caso in questione, sarebbero stati ampiamente giustificati. Con ogni probabilità, Luise, Costanza e Livia ignorarono i provvedimenti notificati e continuarono a vivere insieme, fedeli al proverbio napoletano che recitava: Meglio essere scommunicati che communicati all’impressa. In altre parole, le scomuniche non spaventano nessuno, le comunioni d’urgenza sì, perché preannunciano la morte fisica. Al contrario, anche quando si è messi al bando dalla Chiesa, la vita continua12. 12 ASDN, Conc, 121, 19 febbraio 1605 (i tre si chiamavano Luise Palumbo, Costanza di Messina e Livia Fontana). La procedura è aperta dal memoriale di una guardia, Angelo Antonio Pellegrino, confermato da lui e da tre giovanissimi artigiani. I due testimoni più informati sono i sarti Luca Borzillo e Giovanni de Martino, ascoltati il 23 febbraio (uno stralcio delle loro deposizioni è qui in Appendice, doc. 3). Il 19 maggio si concluse la procedura di scomunica. Un altro raro caso di concubinato a tre è oggetto nel 1613 di una citazione del vicario Ghiberti (ASDN, Conc, 121, 31 agosto 1613, contro mastro Agostino di Simone, un sarto, Prudenza e Lucia/Lella), che però non approdò alla scomunica, per motivi ignoti (per altri due casi, vedi infra, note 57 e 59). Per il proverbio ricordato nel testo, vedi Romeo, Aspettando il boia, capitolo VII.

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3. Ripetuti atti di forza, insomma, caratterizzano gli inizi di questa nuova fase, anche se non devono essere enfatizzati, per varie ragioni. Una è quella che si intuisce dalle deboli reazioni della Curia al concubinato a tre del 1605: pratiche così radicate non si estirpavano con qualche scomunica, qualche multa o qualche settimana di prigione. Inoltre, manca alle nuove iniziative, come si accennava, qualsiasi copertura formale, in un decennio particolarmente travagliato per la Curia arcivescovile napoletana, e non solo per i contraccolpi del caso Campanella13. Per i conviventi della diocesi la situazione restò tranquilla anche con l’arrivo, nel 1605, del nuovo arcivescovo, il cardinale Ottavio Acquaviva d’Aragona, un prelato che a una solida esperienza nella Curia romana sommava gli anni di governo – e quali anni! – passati in Francia, nel ruolo impegnativo di legato di Avignone14. Tacciono sulle coppie di fatto i tre sinodi da lui celebrati (1607, 1611, 1612), tace la visita pastorale degli anni 1606-1612, sfilacciata e poco efficace, se si esclude l’ispezione effettuata nel 1606 nella grande parrocchia cittadina di S. Giorgio Maggiore. Se dovunque i conflitti intestini tra i sacerdoti e gli scontri sulla gestione delle esequie assorbivano le energie più preziose dei curati, di tempo per il controllo dei conviventi ne restava loro ben poco15. Lo stesso Acquaviva, d’altra parte, fu costretto a riparare a Roma 13 Ad esempio, per motivi che andrebbero adeguatamente approfonditi, già nel 1599 il tribunale diocesano era stato in qualche modo commissariato dai vertici vaticani, sottoposto come fu a una inedita e severa ‘sovrintendenza’ da parte del ministro del Sant’Ufficio nel regno, il teatino Benedetto Mandina. Su di lui vedi Amabile, Il Santo Officio, II, 20-21; Romeo, Per la storia, p. 26; Id., Una città, p. 50. 14 L’esperienza francese era durata dal 1593 al 1597 (formalmente fino al 1601): vedi la voce redazionale a lui dedicata in DBI, 1, 1960, p. 198. Per una rapida presentazione di Ottavio Acquaviva d’Aragona vedi F. Strazzullo, Documenti per il card. Ottavio Acquaviva († 1612), in «Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli», 68, 1999, pp. 127-151. 15 Una redazione manoscritta del sinodo del 1607 è in ASDN (quella a stampa fu pubblicata l’anno dopo a Roma: Constitutiones Dioecesanae Synodi..., ex typographia Petri Manelphi); per gli altri due vedi Constitutiones et Decreta Secundae Dioecesanae Synodi Neapolitanae nec non tertiae..., Romae, s.e., 1619; la sua visita pastorale è in ASDN, VP, 26-29; il caso di S. Giorgio Maggiore è ivi, 27, cc. 27r-255v (vedi – cc. 68r-69v – la deposizione resa da don Andrea Buoso il 22 novembre 1606).

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per circa tre anni, tra il 1608 e il 1610, a seguito di contrasti non meglio noti con il viceré. Difficilmente i suoi collaboratori avrebbero potuto muoversi da soli su un fronte così controverso e su un’altra questione scottante, che riguardava molto da vicino le coppie di fatto, come quella dei controlli parrocchiali sugli inconfessi. Solo in casi isolati i due problemi affiorano nei verbali della visita, ma per gli ufficiali di Curia l’inadempienza al precetto è decisamente più importante delle convivenze proibite16. Le nuove iniziative contro i concubini mostrano poi molti limiti. Tra il 1600 e il 1612 il volume degli interventi si mantiene basso: una cinquantina di procedimenti, quasi tutti relativi al territorio urbano della diocesi. Le procedure di esclusione vere e proprie sono avviate raramente. Ad esempio, quando le denunce trovano qualche prima conferma, non si segue la trafila che prelude alla scomunica, ma si opta per l’intimazione ad entrambi i partner, sotto pena di carcere, del precetto di non frequentarsi più: un atto giudiziario unilaterale, che impedisce agli interessati di difendersi. L’unico vantaggio che i conviventi ne traevano era la relativa riservatezza della condanna subìta, la possibilità di tenerla nascosta17. Tuttavia non c’è traccia dell’esilio, pure contemplato per le donne dal dettato tridentino. Si avvertiva forse il rischio di provvedimenti troppo severi. Non è un caso se proprio in questi anni gli scrivani della Curia cominciano a segnalare le conviventi maritate come N.N. Non risulta se fu un’iniziativa loro, o, come sembra più probabile, delle autorità diocesane, ma è evidente la preoccupazione di salvaguardarne l’onore e la vita18. Si spiega an16 Per l’allontanamento dell’arcivescovo da Napoli vedi Loffredo, I Vicarii, p. 26. Per il resto, si veda ciò che succede nel casale rurale dell’Arenella: i nomi di alcuni conviventi sono segnalati ai visitatori dal vicecurato, insieme alla diffusa inadempienza al precetto, ma è quest’ultimo l’abuso che li preoccupa di più (ASDN, VP, 26, c. 234r-v, 16 settembre 1607). 17 Un caso in ASDN, Conc, 121, 28 giugno 1605, indagine su Micco Tomasiello e Porzia de Loise. Un esposto (ripetuto) e l’escussione di un testimone sono sufficienti al Palumbo per emettere il 2 luglio un precetto ‘de non conversando’ per i due. 18 La prima annotazione di questo tipo è in ASDN, Conc, Miscellanee, 14 novembre 1603, denuncia contro Antonio Schioppa e una donna qualificata come N.N.

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che così perché in questi anni solo tre coppie di scomunicati subirono il pesante rituale dell’affissione dei cartelli nominativi sotto casa e sulle porte della Chiesa. Tra l’altro, quando uno dei destinatari lo strappò, la Curia chiuse un occhio: nell’avvio di una stretta repressiva dagli incerti esiti si decise forse di non strafare19. In un quadro così precario, il meccanismo che più frequentemente fa scattare i controlli continua a rimanere la denuncia, legata in parte a inimicizie, come nelle migliori tradizioni della città, in parte agli interessi colpiti dalla convivenza: in primo luogo, coniugi traditi, ma anche congiunti di qualcuno dei partner20. Le iniziative d’ufficio sono pochissime21. Irrilevante è anche lo zelo dei singoli ecclesiastici, che appaiono ancor meno motivati di quanto non lo fossero nella denuncia delle violazioni dell’ortodossia: si distinguono un religioso, che redige il suo puntuale memoriale d’accusa la vigilia di Natale del 1612, forse per un’esigenza di purificazione legata a un giorno così particolare, e un parroco, quello di Resina, che nel 1607 segnala senza esito i nomi di ben sette coppie di fidanzati che convivono. Forse è troppo presto: la coabitazione dei promessi sposi, che sembra diffusissima ovunque in diocesi, sarà oggetto di controlli più stringenti solo nel Sei/Settecento22. Per il resto, la collaborazione dei parroci è documentata nel primo decennio del Seicento solo in relazione a precisi ordini della Curia, per lo più verifiche dell’avvenuta separazione dei conviventi scomunicati, in funzione della loro assoluzione. Se rimane 19 Un esempio in ASDN, Conc, 121, 17 giugno 1611, procedura di scomunica contro Scipione Lanario e Desiata di Benevento; la lacerazione dei cartoni è addebitata il 24 dicembre 1612 a Giovan Battista Tarallo e Francesca Cavallo, poi assolti l’11 marzo 1613, dopo essersi separati (ivi). 20 Vedi ASDN, Conc, Miscellanee, 3 marzo 1607, istanza di Giovanni Romeo contro un prete, don Crisostomo Quarantaocto, che da tre anni ‘si tiene’ sua moglie; Conc, 121, memoriale presentato il 6 maggio 1605 da Vittoria Tambaro contro Fabio Todino, che ‘si tiene’ sua cognata. 21 Un esempio in ASDN, Conc, Miscellanee, citazione dell’11 luglio 1607 del Ghiberti a carico di Prospero Angrisano e Silvia Beneventa (scomunicati il 7 agosto seguente). 22 ASDN, Conc, 121, la scomunica a Tarallo e Cavallo citata a nota 19 (per la denuncia natalizia) e 15 luglio 1607 (per il memoriale del parroco vesuviano).

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qualche traccia di loro iniziative personali, si tratta di situazioni d’emergenza, come la confessione di concubini malati23. Non sembra infine che l’accresciuta intolleranza della Curia si propaghi facilmente. Buona parte delle denunce riguarda coppie che vivono insieme da molto tempo, segnalate alle autorità diocesane anche dopo dieci anni dall’inizio del rapporto, per vendetta, per motivi d’interesse o perché si sono incrinati rapporti d’amicizia24. La convivenza more uxorio, vista dall’esterno, è un comportamento proibito come tanti, un punto debole da sfruttare contro gli interessati, se occorre, al momento opportuno. Ordinariamente i vicini continuano a disinteressarsi di quei rapporti o a valutarli caso per caso, con accenti che possono anche essere favorevoli, se in quella scelta di vita si osservano affetto, fedeltà, stabilità del rapporto. Nel 1601 la denuncia contro Giacomo, una guardia della Vicaria che convive da sei anni con Santa, una giovane cortigiana fiamminga, trova sì conferma, ma con una precisa distinzione: da quando vive con il compagno, rifiuta prestazioni sessuali con terzi. Non vuole farlo «per stare concubinata», commenta una testimone; «non fa peccato con nesciuno, eccetto con lo detto Giacomo», osserva un’altra. La citazione della Curia ha invece effetti dirompenti. L’uomo sospende i rapporti per paura di essere incarcerato e ammette la sua colpa, come fa anche lei: se la cavano senza scomunica, ma con il precetto di separazione. Un anno dopo, però, sono sorpresi insieme dalle scoppettelle e Giacomo è imprigionato. Aveva cercato, spiegò ai giudici, di rispettare il divieto, ma lei era tornata ‘ad mala via’ e per non vederla finire per sempre su una cattiva strada l’aveva ‘ripresa’. Dichiarò poi che Santa, quando era stato costretto a lasciarla, era gravida, che gli aveva già 23 Ivi, 6 settembre 1607, attestato di don Girolamo Caputo, coadiutore della parrocchia della Misericordia, sul conto di Decio Manella. La dubbia iniziativa di un parroco è ricordata in un processo inquisitoriale del 1607, ma potrebbe essere un falso: l’ecclesiastico, convocato per comunicare un convivente malato, avrebbe cacciato la concubina (ASDN, SU, 1202, c. 2v, 12 novembre 1607, denuncia di Fabio de Giovanni). 24 Ivi, 2 ottobre 1601, denuncia di Paolo Rocco contro Marco Antonio Iacuzio e Diana Barbarito, che convivono da dieci anni, e 2 settembre 1605, esposto di Luca Antonio Varone contro il fratello Giovanni Martino e Lucrezia Saccardo (conviventi e inconfessi da quindici anni).

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dato due figlie, s’impegnò a sposarla, fu assolto e rilasciato. Di lei, invece, nel secondo incidente non c’è traccia: forse si ebbe pietà della sua condizione di madre incinta25. Insomma, in quella fase di avvio il rischio di lavorare a vuoto, per i giudici del tribunale vescovile, era molto alto. Dovevano barcamenarsi tra la scarsa voglia di collaborare dei parroci, le resistenze degli interessati e la malafede degli accusatori. Quasi quarant’anni di intense attività inquisitoriali avevano insegnato loro che ci voleva molta pazienza per districare le trame delle false denunce. C’era una bella differenza, però, tra le battaglie del Sant’Ufficio e la caccia alle coppie di fatto. Finché erano in discussione delitti gravi come l’eresia o la stregoneria, l’impegno supplementare contro i falsari aveva un suo preciso valore: serviva a riaffermare la centralità delle dottrine, dei culti e delle devozioni ufficiali. Invece, per una pratica diffusissima come il concubinato, non sempre agevole da accertare, oltre che ordinariamente ben tollerata, il gioco non valeva la candela. Oltre tutto i parroci, specialmente quelli dei quartieri malfamati, dipendevano spesso, per le informazioni da trasmettere in Curia, dagli stessi ambienti che avevano fatto scattare le trappole26. 4. Nel valutare i risultati di questi primi interventi, bisogna tenere nel debito conto il pragmatismo e l’intelligenza politica delle autorità ecclesiastiche, a Roma come a Napoli. Non erano passati invano i primi decenni di interpretazione e applicazione dei decreti tridentini: molte norme erano state modificate e adattate ai contesti locali. I dotti ed aggiornati ufficiali della Curia arcivescovile napoletana lo sapevano molto bene e si muovevano con una notevole libertà. Uno di loro, Marco Antonio Genovese, rivendicò apertamente al tribunale in cui lavorava l’adozione di criteri molto più articolati, in fatto di concubini, rispetto al dettato del Concilio. Lo fece sia nel 1602, nella prima edizione della fortunata e importante Praxis Archiepiscopalis Curiae Neapolitanae, 25

Ivi, fascicolo cit., costituto reso da Giacomo D’Ambrosio il 17 settembre

1602. 26 Un esempio ivi, 27 settembre 1613, attestato del parroco di S. Tommaso a Capuana (la sua fonte è nella parola di ‘antichi complateari’).

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sequestrata subito, dopo un duro intervento del Collaterale, sia nel 1609, nella successiva. In entrambi i testi, è vero, lo spazio riservato alle convivenze dei laici era piuttosto ridotto. Prevaleva nettamente la preoccupazione per i chierici coinvolti in relazioni proibite, per i delicati problemi – giudiziari e d’immagine – che ponevano ai superiori. Malgrado questa forte sproporzione, l’interesse per il concubinato dei laici è evidente. Nel 1602 Genovese ne rivendicò la natura di delitto ecclesiastico, con un richiamo preciso alla circolare vaticana del 1589 ai vescovi meridionali, ma ribadì anche, con altrettanta fermezza, il diritto dei tribunali della Chiesa di andare al di là dei decreti tridentini. I giudici diocesani di Napoli ne avevano dato prova, a suo dire, nel caso del concubinato notorio: a un uomo segnalato da tempo per una pratica così scandalosa avevano inflitto una condanna all’esilio, senza neppure ammonirlo preventivamente27. Furono ancor più ampi i rilievi della seconda edizione della Praxis, pubblicata nel 1609, proprio all’indomani dei primi incisivi interventi del foro arcivescovile. Genovese osservava, pur senza collegare il dato alla prassi della Curia napoletana, che i vescovi erano obbligati alla triplice ammonizione formale dei concubini solo quando volevano attivare le procedure di scomunica. Se invece intendevano multarli, erano autorizzati ad intervenire subito, nonostante il decreto conciliare. Secondo lui, con la stessa ampia libertà di movimento si poteva operare nei loro confronti nel corso delle visite pastorali, in ogni tempo e modo, anche col ricorso a norme consuetudinarie28. È difficile comprendere il senso di questi brevi accenni. Essi rispecchiano solo in parte le procedure in uso in quegli anni nella Curia arcivescovile. Più che la distinzione tracciata da Genovese, colpiscono in questi anni la casualità e il disordine dell’azione del tribunale diocesano. È possibile invece che attraverso gli insistiti richiami alla giurisdizione vescovile la Praxis volesse porre un 27 M.A. Genovese, Praxis Archiepiscopalis Curiae Neapolitanae, Neapoli, apud Io. Iacobum Carlinum, 1602, p. 249. Sul sequestro del libro vedi P. Lopez, Inquisizione, stampa e censura nel Regno di Napoli tra ’500 e ’600, Napoli 1974, p. 236, e la ‘voce’ di E. Di Rienzo, in DBI, 53, Roma 1999, pp. 153-154. 28 Genovese, Praxis, Romae, ex typographia Iacobi Mascardi, 1609, pp. 213216.

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freno al Consiglio Collaterale e ai giudici regi, che non sempre stavano alla finestra, come si vedrà. Un indizio che depone a favore dell’esistenza di residue tensioni sul versante statale, per ora non meglio documentate, viene dalle edizioni successive della stessa Praxis. Genovese, un prelato abile e politicamente avvertito, che sui rapporti con le autorità secolari sapeva cosa dire e cosa tacere29, decise di eliminare, sin dall’edizione del 1613, l’accenno all’ampia libertà di movimento dei vescovi nel controllo dei concubini laici30. Quella scelta, in un’opera importante e autorevole, si può spiegare solo con l’esigenza di non irritare ulteriormente autorità secolari forse non entusiaste delle continue ingerenze ecclesiastiche nella capitale. Proprio nel 1613, infatti, il foro arcivescovile napoletano aveva dato definitivamente il via alla caccia alle coppie di fatto. 5. L’impulso iniziale venne ancora una volta da una singola persona, il dottore in utroque iure Pietro Antonio Ghiberti. Fu proprio lui, come luogotenente della diocesi, a riutilizzare nel novembre 1610 il paravento del Sant’Ufficio per punire con inaudita severità una convivente processata come fattucchiera. La donna, rilasciata su cauzione per l’addebito inquisitoriale, fu obbligata a separarsi dall’uomo, ma anche – decisione di asprezza inusitata – a non tenere presso di sé i sei figli ‘del peccato’, se non quelli più piccoli di tre anni. Per la prima volta i vertici della Chiesa napoletana colpivano anche formalmente il diritto delle conviventi alla maternità e dei bambini a vivere con la madre31. Quel grave provvedimento fu solo l’avvisaglia di una svolta che Ghiberti in persona impresse di lì a poco al governo delle coppie Vedi Romeo, Aspettando il boia, pp. 69-71. Genovese, Praxis, Romae, ex typographia Iacobi Mascardi, 1613, pp. 137138; Praxis, Romae, ex typographia Iacobi Mascardi, 1616, pp. 137-138; Praxis..., Romae, ex typographia Iacobi Mascardi, 1619, pp. 121-122. Genovese era lontano da Napoli dal 1602 e continuò ad essere nel mirino del Collaterale, come si vide nella vicenda della concessione dell’exequatur per la nomina a vescovo di Montemarano (vedi Di Rienzo, ‘voce’ in DBI). Trasferito poi al vescovato di Isernia nel 1611, vi rimase fino alla morte, nel 1624 (vedi P. Gauchat, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, IV, Patavii 1967, p. 211). 31 ASDN, SU, 1699, cc. n.n., decreto di condanna a Vittoria de Olanda del 18 novembre 1610. 29 30

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di fatto: le date dei suoi avanzamenti di carriera e quelle del giro di vite contro i concubini si saldano molto bene e lasciano pochi dubbi sul suo ruolo. Prescelto come vicario capitolare sede vacante nel dicembre 1612, dopo la morte di Ottavio Acquaviva d’Aragona, fu nominato il 3 maggio 1613 vicario generale dal nuovo arcivescovo, Decio Carafa, e pochi giorni dopo prese possesso della diocesi a nome del prelato32. Ebbene, proprio ai primi di gennaio del 1613 aumentano vertiginosamente le indagini della Curia arcivescovile sulle coppie di fatto. È una crescita costante, che consente al tribunale diocesano di raggiungere alla fine dell’anno la ragguardevole cifra di 193 procedimenti. Se si osserva poi che per il 1614 se ne conservano altri 150, si coglie più nitidamente il peso della svolta: 343 coppie raggiunte da denunce, controlli o condanne in un biennio, mentre nei 41 anni precedenti erano state appena 65. Non fu un fuoco di paglia: da allora, come si vedrà, l’impegno annuo della Curia arcivescovile sul fronte del concubinato, quando si può misurare, si mantiene su quei livelli. Inoltre, cosa ancor più importante, gli schemi d’intervento applicati nel biennio 1613-14 sono destinati a contrassegnare l’egemonia ecclesiastica sulle coppie di fatto, con poche variazioni, fin verso la metà del Settecento, quando la fase ‘eroica’ di quella battaglia si esaurì. Si comincia con la citazione, in cui si ordina agli interessati di produrre entro due giorni l’attestato dell’avvenuta separazione, seguono altre due ammonizioni e infine, in caso di persistente disobbedienza, la scomunica vera e propria. Molto di rado, in questi primi anni, ci sono indicazioni sull’antefatto della procedura, sui suoi esiti intermedi (le eventuali iniziative degli interessati) e su quelli finali (le reazioni al provvedimento di esclusione). Rispetto a questa prassi, i procedimenti ordinari, in cui c’è spazio per il contraddittorio, diventano un’attività residuale. 32 Per la carriera del Ghiberti, vedi Loffredo, I Vicarii, pp. 26-27; per i dati sul Carafa, un uomo che aveva maturato una vasta esperienza diplomatica, come Nunzio nelle Fiandre e in Spagna, e che, nominato arcivescovo di Napoli il 7 gennaio 1613, prese possesso della diocesi solo nel 1615, forse perché inviso alle autorità spagnole, vedi G. Lutz, ‘voce’, in DBI, 19, Roma 1976, pp. 521-524, nonché Correspondance du Nonce Decio Carafa archevêque de Damas (16061607), a cura di L. Van Marbeeck, Bruxelles-Roma 1979.

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Perché si sia avviato questo duplice percorso punitivo, non è chiaro. Una sola ipotesi appare per ora plausibile, ma è priva di solidi supporti documentari. L’attivazione di inchieste vere e proprie, con il diritto di controdeduzione per gli interessati, potrebbe essere la risposta a denunce di parte ritenute dubbie, insufficienti per una citazione; le procedure di scomunica avviate d’ufficio sarebbero il seguito di segnalazioni riservate di parroci, ecclesiastici e laici fidati, che la Curia non aveva motivo per non ritenere affidabili. L’altro aspetto della svolta del 1613 che resta per ora nell’ombra riguarda l’individuazione dei promotori. È abbastanza curioso che per ben due volte, nell’arco di pochi anni, la lotta ecclesiastica al concubinato si rafforzi in una fase d’interregno, su impulso di vicari capitolari sede vacante, cioè di supplenti nominati dai canonici della Cattedrale, responsabili della diocesi fino alla nomina del nuovo presule. Non è chiaro però se si tratta di un caso. Una cosa sembra certa. Anche negli anni immediatamente successivi all’arrivo in città dell’arcivescovo Carafa, nel 1615, non c’è traccia di editti o di ordinanze riguardanti i concubini. Tacciono al riguardo i sinodi del 1619, del 1622 e del 1623, la visita pastorale degli anni 1617-1624, pure attenta in qualche modo al problema, le corrispondenze, la vasta documentazione giudiziaria coeva33. Un solo, clamoroso sviluppo dei più severi controlli effettuati sulle coppie di fatto filtra negli atti ufficiali della diocesi, ma va in tutt’altra direzione e segnala le imprevedibili complicazioni interne aperte dallo zelo del vicario Ghiberti. 6. Gravi accuse di corruzione arrivarono alle orecchie dell’arcivescovo, nell’estate del 1618, nel corso della prima visita pastorale mai condotta negli uffici amministrativi e giudiziari della Curia. Forse l’inedita ispezione era stata decisa proprio perché qualche soffiata aveva messo in guardia i vertici diocesani34. I visitato-

33 Per i tre sinodi vedi Constitutiones et Decreta Dioecesanae Synodi Neapolitanae, Romae, s. e., 1619, Constitutiones et Decreta Secundae Dioecesanae Synodi Neapolitanae, Romae, s. e., 1622 e Constitutiones et Decreta Tertiae Dioecesanae Synodi Neapolitanae, Romae, s. e., 1623. I verbali della visita pastorale sono in ASDN, VP, 32-34. 34 ASDN, VP, 32, c. 130r, il Carafa ordinò il 9 agosto 1618 al segretario della visita e all’avvocato fiscale di recarsi immediatamente nella Cancelleria arci-

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ri ne trassero la dolorosa conferma che il marcio continuava ad allignare in un’istituzione già tristemente nota dal tardo Cinquecento agli arcivescovi napoletani, ai cardinali del Sant’Ufficio, alla Congregazione dei Vescovi e Regolari e agli stessi pontefici: le estorsioni prosperavano a tutti i livelli35. Si accertò rapidamente, attraverso l’escussione di qualificati testimoni interni, soprattutto scrivani, che una piccola associazione per delinquere formata da tre notai e da parroci compiacenti si accaparrava la redazione di tutte le informative prematrimoniali e la verbalizzazione delle procedure relative ai concubini. Agli interessati, ovviamente, erano estorti più soldi del dovuto. Qualcuno inoltre raccoglieva firme su fogli in bianco e si sospettò che se ne servisse per trascrivere false testimonianze; qualche altro approfittava delle perquisizioni domiciliari o personali degli inquisiti per rubare36. Di quel variopinto insieme di attività illegali le procedure contro i conviventi potrebbero sembrare le meno appetitose, sia perché sono numericamente circoscritte rispetto alle pratiche matrimoniali, sia perché si arenano spesso sul nodo delle donne pubbliche: era molto difficile sceverare, nella loro vita privata, tra relazioni stabili e occasionali. Ma la pazienza delle cortigiane non era infinita. Alcune piombarono in Curia inviperite, per esprimere indignazione per le scomuniche: erano povere, non potevano essere citate come conviventi, i loro erano rapporti a pagamento37. Non furono poi approfondite, per comprensibili motivi, alvescovile e di interpellare notai e scrivani sull’andamento del loro lavoro (vedi infra, nota 38). 35 Un aspetto limitato della questione è segnalato da G. Galasso, Origine e vicende dell’Archivio storico diocesano di Napoli, in L’Archivio storico diocesano di Napoli. Guida, a cura di G. Galasso e C. Russo, I, Napoli 1978, pp. VII-LI (in particolare pp. VIII-XXIX). Ma pesanti abusi all’interno della Curia napoletana sono una costante nelle fonti locali (ASDN) e centrali (ACDF e ASV). Spero di poter tornare presto sul problema. 36 ASDN, VP, 32, cc. 133r-156r, inchiesta formale aperta il 14 agosto 1618. Il quadro più completo degli abusi è delineato il 14 agosto 1618 dallo scrivano Giuseppe Crisconio (cc. 137v-138r). Per i fogli lasciati in bianco, vedi le parziali ammissioni del notaio Berardino Orco (cc. 146v-149r, 16 agosto 1618); per i furti, cc. 140v-141r, 14 agosto 1618 (deposizione del notaio Vespasiano Milone). 37 Ivi, cc. 140v-141r (Milone), e c. 143v, 16 agosto 1618 (Francesco Antonio Rosa). Il notaio che coordinava le estorsioni si chiamava Giovanni Marco Cantarella.

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tre estorsioni trapelate nell’inchiesta preliminare. Parroci ‘confederati’ che rilasciavano attestati di separazione fasulli, scrivani che omettevano la registrazione delle coppie citate, scoppettelle che evitavano di affiggere i cedoloni, notai che scomunicavano senza prove: nella Cancelleria arcivescovile la lotta al concubinato appena avviata era fonte di lucro per parecchie persone38. Restano incerti gli esiti repressivi della rapida indagine, anche se il capo della cordata continuò ad esercitare un ruolo di primo piano nella lotta ai concubini, e per molti anni39. Tuttavia, pochi mesi dopo, l’11 dicembre 1618, fu approvata una riorganizzazione incisiva dei carichi di lavoro, delle competenze e delle responsabilità all’interno del tribunale diocesano. Essa mirava a scoraggiare le estorsioni: dei dodici notai, quattro avrebbero curato il ramo penale, otto quello civile, con il divieto per questi ultimi di immischiarsi nelle cause di altra natura, se non in casi particolari. Nessuno avrebbe potuto procedere a inchieste o a carcerazioni senza il consenso del vicario. Era anche vietato verbalizzare le deposizioni a metà: si cercava così di prevenire il rischio di aggiunte truffaldine. Si intervenne anche sul sistema di intercettazione dei concubini, approntato nel 1613 dal Ghiberti. Esso – lo rivela proprio l’inchiesta dell’estate del 1618 – poggiava su ordini scritti diramati ai parroci da un notaio appositamente delegato, per l’appunto l’ufficiale che capeggiava la cordata. Era chiesta loro sia la nota degli inconfessi, sia quella dei conviventi: un’eloquente conferma che un solo peccato pubblico, insieme all’inadempienza del precetto pasquale, turbava in quegli anni i sonni delle autorità diocesane, ed era il concubinato. L’usura, che di tanto in tanto aveva fatto capolino nelle visite pastorali del tardo Cinquecento, era ormai rientrata in pieno nei riservati circuiti del foro della coscienza40. Al contrario, le prescrizioni riguardanti il ‘governo’ delle coppie di 38 Ivi, c. 130r-v, 9 agosto 1618, indicazioni raccolte dal segretario della visita e dall’avvocato fiscale. 39 Al di là delle sottoscrizioni e della grafia, contano i ricordi dei testimoni: nel 1635 un denunciante dichiarò che una donna era stata scomunicata come concubina dallo ‘scrivano Cantarella’ (ASDN, SU, 2550, cc. n.n., 8 agosto, Aniello Scotiero). 40 ASDN, VP, 32, c. 142r.

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fatto la dicono lunga sull’importanza attribuita al problema: se era scontato il ridimensionamento delle libertà dei notai (dovevano seguire quelle pratiche una settimana ciascuno, a rotazione, e consultare il vicario generale nei passaggi più delicati), non lo era il forte coinvolgimento dei parroci. Infine, nei casi dubbi decideva il vicario generale41. Le proteste delle donne pubbliche avevano centrato il bersaglio: anche grazie a loro, per la prima volta un arcivescovo napoletano prendeva esplicitamente posizione su una battaglia difficile, che stava scompaginando scelte di vita mai messe seriamente in discussione. 7. Qualcosa era cambiato davvero, però, nel biennio 16131614. Da allora, come si accennava, citazioni e scomuniche divennero pratiche quotidiane fino alla metà del Settecento, mentre multe e carcerazioni in caso di recidiva – l’altra novità del 1613 – punteggiarono l’azione della Curia per tutta la prima metà del Seicento. In circa 150 anni, per quanto risulta finora, la Curia arcivescovile intimò la separazione ad almeno 7000 coppie. Ma forse furono più di 10.000: il fondo Denunce di concubinato è arrivato a noi largamente incompleto, anche per il disordine in cui le carte erano già nella fase iniziale della caccia42. Tuttavia, l’enorme aumento delle cause non è l’aspetto più importante della svolta del 1613. Le novità più indicative sono di ti41 Ivi, cc. 162r-166r (per la riforma nel suo complesso); 163v-164r (per i concubini). 42 È sintomatico infatti che le sole Note de concubinarii finora ritrovate (in ASDN, Conc, Miscellanee), rudimentali liste relative agli anni 1620-28 e 1628maggio 1636, registrino dati ampiamente inferiori a quelli del fondo attuale: la prima elenca 288 persone rispetto alle 912 per ora note, la seconda 296 rispetto a 516 (si tenga anche presente che è perduta completamente la documentazione relativa al 1622-23, al 1628 e ai primi cinque mesi del 1636, quasi del tutto quella del 1627 e del 1631-32). Per il resto, in mancanza di inventari coevi, una quantificazione precisa dello scarto tra la serie presunta e quella esistente è problematica. Tuttavia si va abbastanza vicini al vero, se si ipotizzano perdite non inferiori al 30-35% Infatti, sui 126 anni più intensi di lotta (dal 1613 al 1739, l’ultimo anno in cui sono conservate pratiche in numero apprezzabile), per 12 non c’è documentazione e per altri 29 è ridotta a poche briciole. Se si calcola la media degli 85 anni rappresentati in modo sufficientemente ricco, si dovrebbero essere perdute non meno di 3000 citazioni. Ulteriori precisazioni potrebbero venire dal riordinamento in corso delle Miscellanee giudiziarie dell’ASDN.

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po istituzionale. Basti osservare che la stragrande maggioranza delle iniziative assunte (314 su 343) non ha alcun rapporto con le denunce di privati. Conta sempre più la collaborazione del clero, e dei confessori in particolare. Nell’incerto avvio tardocinquecentesco della lotta al concubinato, essi avevano cominciato a mettere in difficoltà i conviventi attraverso il rifiuto di assoluzione, pur conservando al riguardo un’ampia autonomia di giudizio. In questa nuova fase i confessori sembrano anche attivamente impegnati, dopo le scomuniche, a convincere le coppie proibite a separarsi definitivamente: ne sono una prova gli attestati che firmano per i conviventi pentiti, in funzione della loro assoluzione43. Ma le loro strategie di governo dei penitenti non si saldano sempre con la nuova battaglia della Curia arcivescovile. Un caso capitato nell’estate del 1613 illustra con chiarezza la persistente indipendenza delle loro scelte. Da alcuni mesi al Ponte di Tappia, nel centro della città, una terziaria carmelitana e altri vicini osservavano con attenzione l’assetto anomalo di una famiglia che da poco si era trasferita lì: Bartolomeo, un indoratore, la moglie Giulia e una giovane donna, Beatrice, forse una serva. Si sospettava una relazione tra la donna e l’artigiano. Una violenta lite tra moglie e la rivale, sedata a fatica, fu rivelatrice: Giulia voleva strapparle una borsa sospetta, Beatrice minacciava di buttarsi nella cisterna di casa, dove alla fine lanciò l’oggetto conteso. Un ‘pozzaro’ l’aveva recuperato e ne erano usciti intrugli – un acino di grano, un sassolino, una pizzetta, un po’ di bambagia – dall’inconfondibile significato stregonesco. A quel punto, la trafila bizzoca-confessore aveva fatto finire la borsetta nelle mani del vicario generale. In Curia, però, il sospetto di affatturamento non suscitò alcun interesse e l’esposto fu inserito tra le denunce di concubinato44. Due sono i dati di rilievo in questa curiosa vicenda. Da sola, la 43 ASDN, Conc, 121, citazione del 6 marzo 1613 a carico di 3 coppie di Chiaiano, su denuncia del curato locale. Uno dei tre maschi interessati esibisce un attestato sottoscritto il 12 giugno 1613 da un confessore di un centro vicino, Polvica. 44 ASDN, Conc, 121, 29 agosto 1613, denuncia di ‘suor’ Teresa Albana contro Bartolomeo indoratore e Beatrice. Già il 20 agosto i due avevano avuto una prima ammonizione, conservata in un mandato collettivo (ivi).

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presunta convivenza, un dato di pubblico dominio, non si era rivelata un elemento sufficiente per spingere la donna e l’ecclesiastico all’iniziativa: una certa tolleranza continuava a circondare le relazioni sessuali proibite, anche quando non erano delle più tranquille. In secondo luogo, confessori e giudici del Sant’Ufficio diedero valutazioni piuttosto diverse di un incidente in cui la magia amorosa – un delitto contro l’ortodossia – si incrociava con un presunto disordine sessuale: gli uni, in ossequio alle gerarchie di valore del tardo Cinquecento, considerarono più grave il ricorso alle fatture, gli altri diedero maggiore rilievo strategico al concubinato, con una netta inversione di tendenza rispetto all’età tridentina. In quello stesso giro di anni, d’altra parte, il Ghiberti poté verificare che l’eccessiva autonomia di giudizio mostrata dallo sconosciuto sacerdote non era isolata. Altri padri spirituali si spingevano ancora oltre nell’ampliamento indebito del proprio ruolo. Nel 1613 un artigiano scomunicato fu assolto da un confessore, al quale – segnalò in Curia – non «haveva saputo spiegare bene il peccato suo con la scomunica». Tardivamente avvertito della nullità del perdono ricevuto, l’uomo fu costretto a rivolgersi al tribunale diocesano, che autorizzò il penitenziere maggiore ad assolverlo, dopo l’accertamento dell’avvenuta separazione. L’anno dopo, in modo molto più sottile, un avvocato si difese esibendo, oltre a vari certificati di confessori, un parere scritto di cinque teologi gesuiti che rafforzava la sua richiesta di assoluzione in base a motivi di coscienza45. In ogni caso, né allora, né in altre circostanze simili, per quanto risulta, la Curia cercò di richiamare all’ordine gli amministratori del sacramento che in vario modo indebolivano o compromettevano l’efficacia dei suoi interventi. 8. Toccava però ai curati la parte più gravosa del lavoro. In primo luogo, essi erano tenuti a notificare ai superiori i nomi delle coppie di fatto delle rispettive parrocchie. Inoltre, nella fase centrale della procedura, quella delle intimazioni, il loro ruolo era de45 Per il primo episodio vedi ivi, 8 maggio 1612, procedura di scomunica contro Francesco Ferraro e Antonia siciliana: l’uomo fu scomunicato con i cedoloni (allegati al ms.) il 30 maggio 1612 e assolto il 28 giugno 1614. Il secondo è in ASDN, Conc, Miscellanee, istanza del 26 agosto 1614 al sopraintendente Maranta dell’avvocato Ottavio Vitagliano.

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cisivo, soprattutto quando gli interessati si separavano e chiedevano alla Curia l’assoluzione. Tutto dipendeva dai loro attestati: quando erano favorevoli, la pratica si chiudeva. I due si impegnavano a ‘non conversare’, cioè ad evitare qualsiasi rapporto, pena una multa o la carcerazione, se erano sorpresi insieme. Non mancano però casi di conviventi assolti senza quell’obbligo o con intimazioni più pesanti, come la fustigazione46. Se invece i partner ignoravano le ammonizioni, erano colpiti dalla scomunica, che contemplava sempre più spesso l’affissione dei cartelli infamanti (cedulones) sotto casa e talvolta nei luoghi pubblici più frequentati della zona in cui i due convivevano. Ad essa si accompagnava il suono del campanello, seguito dal pubblico annuncio dei nomi degli scomunicati e del motivo del provvedimento. L’aspetto più odioso della procedura era l’affissione dei piccoli manifesti: era quella, più che la scomunica vera e propria, la punizione più temuta a Napoli, osservava con un certo compiacimento nel 1602 Genovese47. A quel punto toccava agli scomunicati farsi vivi ed esibire gli attestati dell’avvenuta separazione, se volevano essere reintegrati nella comunione ecclesiale. Erano assolti ordinariamente dagli stessi parroci, come coloro che si erano ‘pentiti’ in precedenza, alle stesse condizioni: divieto di ‘conversare’ e minaccia di carcere o di altre pene, in caso di infrazione48. Chi non lo faceva, chi si mostrava indifferente alla scomunica, non poteva più mettere piede in chiesa. Se moriva in quello stato di esclusione, non aveva diritto a una sepoltura cristiana: il suo cadavere doveva essere abbandonato al di fuori delle mura della città, in terra sconsacrata, alla mercé delle intemperie e degli animali. Proprio in quegli anni la pubblicazione del Rituale Roma46 È vero però che nei 343 casi del biennio 1613-14 figura un solo episodio di carcerazione di recidivi sorpresi a convivere: o mancavano gli uomini o, ancora una volta, si preferiva non forzare. Vedi ASDN, Conc, Miscellanee, frammento del 14 luglio 1614: in quella data, su loro istanza, sono scarcerati Micco Spina e Luisa de Porco. Quanto alle assoluzioni date senza il precetto ‘de non conversando’, vedi il caso del 1612 ricordato nella nota precedente. Per le fustigazioni, vedi infra, nota 58. 47 Genovese, Praxis, edizione cit. del 1602, p. 199. 48 ASDN, Conc, 121, 5 settembre 1613, citazione contro Nunzio Ciciliano e Geronima Taurasi.

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num confermò indirettamente la piena validità di quello schema, attraverso la minuziosa descrizione dei rituali di assoluzione degli scomunicati morti con segni di pentimento. In tutto il mondo i parroci cattolici avrebbero dovuto rinnovare sui cadaveri di chi era morto nel peccato i simbolismi punitivi utilizzati dai penitenzieri per i vivi. Se i corpi erano insepolti, bisognava percuoterli e assolverli; se erano finiti in un luogo profano, riesumarli, percuoterli e seppellirli in terreno consacrato; se infine erano già stati illegittimamente interrati in luogo sacro, non era necessario esumarli. Bastava percuotere il sepolcro, recitando l’antifona Exultabunt Domino ossa humiliata e il Miserere49. Di esiti di questo tipo, però, non restano tracce. Con ogni probabilità i parroci preferivano evitare applicazioni draconiane delle regole, soprattutto di fronte a trasgressioni così diffuse, anche perché la stessa Curia arcivescovile si asteneva da eccessi di zelo. È ben più importante, invece, una svolta silenziosa che si registra in questi stessi anni nelle strategie della Curia e va in tutt’altra direzione. Fin dal tardo Cinquecento i concubini napoletani raggiunti dalle intimazioni e desiderosi di regolarizzare la propria posizione si erano obbligati a non vedersi più, ad evitare anche semplici rapporti d’amicizia: era la stessa logica che costringeva le religiose italiane del tempo a richiedere licenze anche per parlare per un’ora con i congiunti50. Il culmine di questo parossismo repressivo si toccò quando cambiò la stessa configurazione del delitto di concubinato e le scomuniche cominciarono a colpire anche coppie che non convivevano, ma erano solo sospettate di avere una relazione proibita. Nel diritto civile, come in quello canonico, non era mai stato così: convivere more uxorio voleva dire coabitare stabilmente, condividere il mangiare e il dormire, costituire insomma davanti alla comunità una famiglia vera e propria. 49 Per l’abbandono dei corpi degli impenitenti al di là delle mura le fonti napoletane più ricche riguardano i condannati a morte che avevano rifiutato i sacramenti (per gli svariati risvolti della questione vedi Romeo, Aspettando il boia, capitoli VI e VII). I vari modi di assolvere i cadaveri degli scomunicati sono in Rituale Romanum Pauli V Pont. Max. iussu editum, Venetiis, apud Iuntas, 1615, pp. 48-49 (l’ed. originale era comparsa a Roma l’anno prima). 50 Le istanze relative si conservano a migliaia in ASDN, Vicario delle Monache, ma cospicue tracce ne restano per tutta l’Italia nell’Archivio della Congregazione dei Vescovi e Regolari, in ASV.

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Un rapporto affettivo stabile che si sostanziasse solo in singoli incontri – nel napoletano corrente si chiamava prattica – non era definibile come concubinato; rientrava semmai, come peccato, nel foro della coscienza. Su quel punto, tra l’altro, ai giudici napoletani non mancò il sostegno di esperti autorevoli, da Marco Antonio Genovese a Giovanni Luigi Riccio, consultore e poi vicario generale della Curia. Entrambi rilevarono che, malgrado l’accezione restrittiva del diritto civile (c’è concubinato solo quando si vive in comune), la Sacra Romana Rota era di diverso avviso: per procedere contro una coppia di fatto bastava accertare l’esistenza di rapporti sessuali stabili. Quella soluzione, però, era stata ideata a Roma per combattere le furbizie dei chierici, pronti a trasferire le compagne in case d’altri per sfuggire ai controlli. A Napoli, invece, la Curia arcivescovile la utilizzò soprattutto contro i laici. Ai primi del Seicento, insomma, la lotta ecclesiastica al concubinato in una delle grandi capitali della Controriforma si avviava a fare di ogni erba un fascio51. 9. L’intensificazione delle procedure di scomunica avviata nel 1613 e la riqualificazione strategica che la seguì ebbero conseguenze di enorme rilievo. Servirono a scoraggiare le denunce di parte, che infatti calarono nettamente, a coinvolgere di più i parroci e il clero tutto, a far capire ai fedeli che la Curia arcivescovile disponeva ormai di un braccio territoriale un po’ più efficiente. Qualche isolato ecclesiastico comincia a spiare spostamenti e visite, chiacchierate e pernottamenti, e i primi risultati si vedono. Nel biennio 1613-1614, su 343 dossier conservati, 203 citazioni bastarono, da sole, a far separare le coppie proibite, o alla prima o alla seconda ammonizione, mentre solo 94, inascoltate, furono seguite dalla scomunica. Non meno di 38, inoltre, furono le istanze formali prodotte per ottenere l’assoluzione. Più di due coppie 51 L’accenno di Genovese è nell’edizione del 1609 della Praxis (p. 216); quello di Riccio è nel primo tomo delle Decisiones Curiae Archiepiscopalis Neapolitanae, Neapoli, ex typographia de Ferdinando Maccarani, 1622, p. 62. I primi casi certi di scomuniche comminate a coppie che non convivevano risalgono al 1613. Vedi ASDN, Conc, 121, 2 aprile 1613, citazione a Lorenzo Salerno (Giudecca) e Popa Carbone (Duchesca), confermata il 29 aprile da un attestato del parroco; ivi, 18 luglio 1613, citazione a Paolo Trabucco (Largo della Dogana) e Nicoletta Bracca (Molo).

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su tre, insomma, si convinsero a sciogliere il loro rapporto ai primi segnali di pericolo, mentre uno scomunicato su due avvertì il peso dell’esclusione e chiese la revoca del provvedimento. Altre modifiche importanti furono introdotte nell’emissione dei mandati. Il maggior afflusso di informazioni consentiva alle autorità diocesane di accorpare a proprio piacimento le notifiche: distribuirle a pioggia, con citazioni singole, o unificarle in decreti collettivi, che potevano colpire coppie concentrate in singoli quartieri o disseminate in tutta la città. Nel 1613-1614 crebbero a dismisura le intimazioni multiple: 47 su un totale di 103 nel biennio in questione, che raggiunsero 260 coppie cittadine52. Convenienti per i notai, che evitavano di ricopiare formulari su formulari, esse ponevano la Curia di fronte all’alternativa: era più opportuno concentrarle in singole zone o distribuirle qua e là? La risposta non era facile. Prendiamo in esame le iniziative adottate nel luglio del 1613. Nel primo semestre di quell’anno di fuoco, tra denunce di parte e citazioni d’ufficio erano state raggiunte 76 coppie di fatto, quasi tutte in città. 28 di esse erano state inserite il 14 marzo in due soli mandati, che riguardavano quasi esclusivamente la zona della Duchesca, una delle roccaforti cittadine della prostituzione53. Proprio lì, nei mesi precedenti, il parroco aveva firmato alcuni attestati di separazione, su richiesta di concubini scomunicati54. Tuttavia l’offensiva di marzo non andò molto bene. Sulle 28 coppie coinvolte, sei citazioni si arenarono subito, per motivi sconosciuti, un’altra fu accompagnata dalla morte del convivente. Delle residue appena quattro ebbero un effetto, sia pur non immediato: nell’arco di un mese e mezzo gli interessati produssero l’attestato parrocchiale di separazione e/o di comunione. Tra l’altro, uno di loro era malato, un altro era un assiduo cliente di una cortigiana55. 52 Ho escluso dal computo sia le denunce e le indagini ‘tradizionali’, sia le citazioni dei concubini non residenti a Napoli, che in questa fase sono sempre inserite in procedure distinte. Il mandato multiplo più ‘affollato’ del biennio è quello emanato dal Ghiberti il 22 settembre 1614 contro 24 coppie (in ASDN, Conc, 122). 53 ASDN, Conc, 121 (il primo colpisce 18 coppie, il secondo 10). 54 Ivi, 28 gennaio 1613 (Cicco Viespolo e Diana Masotta) e 9 febbraio 1613 (Giovanni Domenico Fiorillo e Isabella Sarracina). 55 Ivi. L’infermo è Ferrante Mazzia, che presenta un duplice attestato (uno

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17 coppie, invece, non si curarono della triplice ammonizione e furono scomunicate in aprile, quasi tutte con i cedoloni. Dieci di loro chiesero l’assoluzione tra maggio e giugno e la ottennero in Cattedrale, dopo aver documentato la separazione, con obblighi variabili, prevalentemente pecuniari56; solo due potevano sposarsi e lo fecero. Uno dei matrimoni fu imposto ad una donna che conviveva con due uomini: si erano separati per il terrore della scomunica (così scrisse il parroco nella relazione), ma furono i giudici a decidere – non si sa bene in base a quali criteri – chi dei due doveva essere suo marito57. Di tutto rilievo, infine, un’altra conseguenza di queste citazioni: due donne scomunicate segnalarono alla Curia l’esistenza di un secondo procedimento a loro carico, aperto dalla Gran Corte della Vicaria. I giudici di Stato minacciavano una pena di tre anni sulle galere per i compagni e frusta ed esilio per loro, se non avessero desistito. Il tribunale ecclesiastico le assolse, le obbligò a separarsi e stabilì, in caso di violazione, punizioni differenti: multa per l’una, fustigazione per l’altra. Più che la paura di essere scavalcata dallo Stato nell’esercizio dell’intolleranza, contava per la Curia arcivescovile l’adeguamento delle condanne alle singole situazioni58. Tuttavia, il bilancio complessivo di quell’offensiva mirata non era particolarmente lusinghiero. Alla fine, solo metà delle 28 coppie citate aveva mostrato una certa preoccupazione per la scomunica; delle 14 coppie residue almeno sette non avevano reagito in alcun modo. Da allora, per ragioni ignote, le citazioni multiple concentrate in una sola zona della città furono utilizzate di meno. riguarda la confessione pasquale, e lo firma il 2 maggio padre Innico de Guevara, preposto della casa professa napoletana della Compagnia di Gesù, l’altro la separazione, ed è sottoscritto dal parroco). 56 Ivi. È dai loro dossier che si ricava il particolare che nove coppie su dieci erano state colpite dall’affissione di cartelli infamanti. 57 Ivi. I tre (un barbiere, Nardo de Filippo, un bombardiere, Andrea Fontanella, e una donna, Silvia Rea) avevano presentato insieme istanza di assoluzione. In un paio di giorni la Curia chiuse la pratica, ‘scegliendo’ come marito il barbiere. 58 Ivi. Le due donne sono Lucrezia, alias Zezone, Dianora (a lei il 5 giugno 1613 i giudici diocesani impongono l’obbligo di separarsi sotto pena di venticinque ducati), e Olimpia della Tolfa (a lei in pari data è minacciata la fustigazione).

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Forse gli strateghi della Curia dovettero pensare che attaccare frontalmente aree circoscritte convenisse poco: si correva il rischio di accrescere l’impopolarità di quelle iniziative, di cementare pericolose solidarietà territoriali contro la Chiesa. Sta di fatto che nei mesi successivi ripresero, con risultati un po’ migliori, sia le citazioni singole, sia i mandati collettivi contro conviventi di varie zone della città, anche molto distanti. Ad esempio, quando nel mese di luglio sperimentarono di nuovo gli interventi a raffica, i giudici colpirono ovunque: in uno stesso giorno, il 29, ne notificarono 43, distribuiti in tre differenti mandati. La scelta sembrò pagare: ben 32 delle coppie raggiunte dalla citazione non ne ebbero una seconda. Inoltre, delle 11 che subirono la scomunica, 4 chiesero l’assoluzione. Sicché, tirate le somme, solo 7 delle 43 coppie sospettate si mostrarono irriducibili. I numeri però contano fino a un certo punto. Uno dei conviventi, reduce dalla citazione multipla del 14 marzo, si era premurato di richiedere un attestato di separazione del parroco ed era stato assolto. Adesso, di fronte al secondo mandato, che lo colpì per un nuovo rapporto di convivenza, pensò bene di ‘tenersi’ la scomunica: non ci voleva molto, insomma, per dimenticare pentimenti e promesse...59 In generale, poi, gli esiti della caccia rimanevano incerti, perché non c’erano da combattere solo coppie spesso incallite, rotte a tutte le malizie. Problemi seri si annidavano nelle istituzioni ecclesiastiche che dovevano garantire la svolta, anche indipendentemente dall’onestà e dallo zelo dei singoli collaboratori. Lo mostrò tra il 1617 e il 1624 la visita pastorale che era cominciata con la scoperta delle estorsioni dei notai, e lo confermarono nel 1619 le decisioni del primo sinodo indetto dall’arcivescovo Carafa. Dal 1613 ufficiali diocesani e parroci stavano sperimentando per la prima volta, a mezzo secolo dalla fine del Concilio di Trento, forme di collaborazione nuove; la visita pastorale appena iniziata aveva consentito di smascherare i responsabili di un imbroglio che 59 ASDN, Conc, 121. I mandati emessi quel giorno furono tre: uno raggiunse 5 coppie, il secondo 15, il terzo 23 (le zone interessate erano tra le più varie: dall’area del Mercato alla Duchesca, dal Lavinaro allo Spirito Santo). Tra i casi in questione figura anche un’altra convivenza a tre. Il convivente citato due volte è Francesco D’Acampora.

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poteva costare caro alla Chiesa napoletana; era imminente un sinodo. Quale occasione migliore per discutere e migliorare gli schemi d’intervento adottati e per tastare il polso ai parroci gravati da un nuovo, difficile incarico? 10. Le cose però andarono diversamente. Il sinodo del 1619 ignorò le coppie di fatto, anche se si interessò a fondo di una questione che le riguardava molto da vicino, quella degli inconfessi. Infatti, buona parte dei conviventi che non volevano o non potevano separarsi era esposta al rischio di essere esclusa dai sacramenti o se ne teneva consapevolmente lontana. Pesarono sulla scelta sinodale sia la maggiore gravità attribuita da sempre all’inadempienza al precetto, sia l’obbligo di redigere gli stati d’anime, previsto dal 1614 per tutti i parroci del mondo dal Rituale Romanum60. Croce e delizia dei curati, soprattutto di quelli che avevano migliaia di persone da identificare e annotare, quelle liste, rese celebri da Carlo Borromeo, erano rimaste lettera morta a Napoli. Il Rituale Romanum poteva essere l’occasione buona per impostare su basi nuove, attraverso i controlli capillari resi possibili dalla schedatura dei parrocchiani, sia la lotta agli inconfessi, sia, indirettamente, quella ai concubini. Proprio perché erano mancati gli stati d’anime, riportare all’ordine le coppie di fatto ‘normalmente’, attraverso i controlli sulla confessione e comunione d’obbligo, si era rivelato fino a quel momento un compito proibitivo. Era stato più facile individuarli in quanto conviventi: solo in quel modo, grazie alla pubblicità della relazione proibita, non attraverso le liste parrocchiali, la Curia aveva potuto intercettarne qualcuno. Per lo stesso motivo, fino a tutto il primo ventennio del Seicento, non si conservano scomuniche di ‘semplici’ inconfessi. Tuttavia, anche su quel fronte difficile si profilava all’orizzonte una svolta. Grazie agli ordini diramati dalla Curia ai parroci nel 1617-1618, erano cominciati i controlli su conviventi e inadempienti al precetto, seguiti a ruota dalle contromisure degli interessati: molti trasgressori dichiaravano falsamente ai rispettivi parroci di essersi comunicati in Cattedrale. Era una sponda comoda ed 60

Rituale Romanum, pp. 300-301.

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efficace, un alibi ben scelto, se non inattaccabile, perché si confondeva con una tradizione ben attestata, quella di comunicarsi a Pasqua in duomo61. A furbizie così diffuse il sinodo decise di rispondere in due modi. In primo luogo i parroci furono obbligati a pubblicizzare adeguatamente in tutte le domeniche di Quaresima, ma con particolare enfasi la domenica delle Palme, l’obbligo di confessione e comunione a Pasqua. L’innovazione più importante riguardava però l’introduzione di un sistema di controllo poliziesco, articolato in due tempi. Tutti i fedeli erano obbligati a consegnare prima della comunione pasquale di precetto una scheda con nome, cognome e indicazione della parrocchia di appartenenza. Dopo essersi comunicati, ricevevano una piccola tessera a stampa da esibire in caso di controlli. A loro volta i parroci, fatte cucire insieme all’istante le schede raccolte, per evitare imbrogli, se ne servivano per confrontarle con le liste già predisposte. Così il cerchio si chiudeva: i nomi di tutti gli inadempienti erano pronti per essere trasmessi alla Curia, che li avrebbe scomunicati. Premessa indispensabile per dare efficacia al nuovo sistema era, ovviamente, la redazione degli stati d’anime. Le filze con i nomi dei ‘buoni’ non servivano a nulla, se non c’erano gli elenchi completi dei parrocchiani: solo così si potevano individuare i ‘cattivi’. Ma lì cascava l’asino. Redigerli bene era difficilissimo: i padri sinodali non si facevano molte illusioni. Il testo del decreto, più che un ordine, era un invito rassegnato. I parroci provassero ad approntarli, facessero quel che potevano («ciascuno di loro tenti di descrivere lo stato d’anime secondo il modello prescritto nel Rituale»). Se non ci riuscivano o preparavano liste approssimative, pazienza...62 11. Con quei presupposti, era difficile per i visitatori, già in piena attività, premere per una rigorosa applicazione del dettato sinodale. È il caso delle più popolose parrocchie cittadine, che tra l’altro non sono neppure ispezionate tutte. Per i curati responsabili di decine di migliaia di anime (da sola, S. Giovanni Maggiore, come S. Lorenzo in Lucina a Roma, ne contava molte di più di una 61 62

Come ‘fuga’ dalla parrocchia (vedi Romeo, Ricerche, p. 21). Constitutiones et Decreta..., Neapoli 1619, cc. n.n.

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città importante come Dubrovnik63), ma anche per gli ufficiali di Curia che li interpellano, i problemi discussi al sinodo e i decreti approvati per risolverli sembrano di scarso rilievo. Non si accenna né alla questione degli stati d’anime, né al nuovo meccanismo di controllo elaborato per stanare gli inconfessi: tempo sprecato, forse, di fronte a numeri così alti. È ciò che succede a S. Maria di Portanova, a S. Giorgio Maggiore, a S. Anna di Palazzo: quei parroci non potevano neppure provare a redigere elenchi di migliaia e migliaia di fedeli, perché ne sarebbero scaturite liste sterminate. Era già tanto, perciò, se talvolta segnalavano alla Curia i trasgressori più facilmente individuabili o più scandalosi: i concubini, ovviamente. I dati, però, sono nelle procedure di scomunica, non negli atti della visita. Questa curiosa situazione è pressoché generalizzata: è come se la mano sinistra non sapesse ciò che fa la destra. Parroci attivi nel collaborare con la Curia nella lotta al concubinato tacciono con i visitatori, che da parte loro, pur sapendo che la battaglia alle coppie di fatto da alcuni anni è entrata nel vivo, non premono su quel tasto, come se la regolarizzazione dei conviventi non rientrasse tra gli obiettivi più importanti dei loro controlli. Se una certa attenzione si registra nei collaboratori dell’arcivescovo, è per il nuovo schema di verifica degli inconfessi. Nell’isola di Procida, uno dei centri più popolosi della diocesi, da poco incardinata in essa, qualche domanda al riguardo c’è64, ma si tratta di sollecitazioni isolate. Allo stesso modo, quando alcuni elenchi di inconfessi arrivano in Curia all’indomani del sinodo del 1619, sono corredati da pochi commenti, come una pratica non particolarmente importante. Solo in qualche caso, tra l’altro, sono comunicati alle autorità diocesane sia i nomi degli inadempienti al precetto, sia quelli dei conviventi, e si precisa quante coppie proibite hanno trasgredito anche l’obbligo di comunione. Capita così a S. Maria della Scala nell’ottobre del 1620. Un parroco scrupoloso – peraltro non raggiunto dai visitatori – se63 Lo si osservò nel 1582 nel corso di una delle tante controversie tra arcivescovi e autorità dalmate. Vedi ASV, CVR, POS 1582, N-V, dossier del 29 aprile di quell’anno. 64 ASDN, VP, 33, c. 97v, deposizione resa il 3 novembre 1619 dal vicario curato, don Francesco Antonio Ciardullo.

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gnala ai superiori 31 inadempienti al precetto e 9 coppie di concubini, di cui solo 3 sono inconfesse. La presenza di 6 coppie di fatto che hanno osservato il precetto pasquale fa pensare a regolarizzazioni quaresimali garantite dagli interessati all’ecclesiastico, semmai con separazioni provvisorie di natura strumentale, seguite da un ritorno al ‘peccato’: il gioco del gatto col topo, di cui per tutto il Seicento si trovano a Napoli ampie tracce65. In ogni caso, non c’è alcun seguito all’invio della nota, come succede negli stessi mesi per otto delle nove liste di inconfessi arrivate in Curia negli stessi mesi, quasi tutte da parrocchie extraurbane66. Si tratta di comunità di varie dimensioni: si va dalle 300 anime ‘da comunione’ di Trocchia, la più esigua, alle 4500 censite nel 1612 nella parrocchia cittadina di S. Giuseppe67. Talune indicazioni di questi documenti, pure redatti in modo assolutamente casuale – alcuni superficialmente, altri con grande precisione – sono di notevole rilievo. La gran parte dei curati in questione si muove di sua iniziativa, ecco un primo elemento importante: solo uno di loro era stato richiamato all’ordine nella visita pastorale68. Le percentuali degli inadempienti sono contenute nell’ordine dell’1-5%, anche se in città le indicazioni sembrano sottostimate, per l’ovvia considerazione che era molto più difficile censire tutti i parrocchiani. Una diocesi in larga misura ossequiente, convertita in circa mezzo secolo all’ordine tridentino? Non direi, soprattutto per la capitale. Colpisce infatti la netta differenza tra le due liste napoletane e quelle dei casali. I parroci di paese non hanno difficoltà a segnalare i nomi delle pecore nere e i motivi del65 ASDN, Conc, Miscellanee, lista non datata, ma anteriore al 27 ottobre 1620, quando lo stesso curato rilascia un attestato di separazione per una delle nove coppie di conviventi. 66 ASDN, Miscellanee giudiziarie. Le liste provengono dai parroci di S. Giovanni a Teduccio, Bosco, Panecocolo, Trocchia, Resina, Marianella e Mugnano e, per la città, dai curati di S. Giuseppe e S. Caterina al Mercato. 67 Il dato di Trocchia si ricava da ASDN, VP, 32, c. 269v, visita del 16 ottobre 1622; quello di S. Giuseppe da ASDN, VP, 26, c. 352r, visita del 12 febbraio 1612. 68 È il curato di S. Giovanni a Teduccio, che il 12 luglio 1620 aveva spontaneamente indicato i nomi di tre inconfessi ed era stato invitato a segnalarli alla Curia (ASDN, VP, 32, c. 263r, esame di don Giovanni Biagio Bonadies). Il 6 agosto 1620 l’ecclesiastico firma la denuncia, richiamandosi però al sinodo, non alla visita, il che non è senza significato (in ASDN, Miscellanee giudiziarie).

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la loro inadempienza: dalle pubbliche peccatrici a chi non ha i vestiti adatti per entrare in chiesa, dai ricercati a chi non intende perdonare. Nelle due parrocchie cittadine, che non includono aree particolarmente malfamate, le difficoltà di verifica sono molto maggiori e l’inadempienza al precetto appare più grave. Due curati zelanti hanno annotato nomi, domicilio, rapporti di parentela e talora attività lavorative di oltre duecento inconfessi. Certamente hanno escluso le coppie di fatto (di cui erano a conoscenza, come mostrano le solide tracce rimaste nel fondo Denunce di concubinato69) e con ogni probabilità anche le meretrici (di cui avrebbero in qualche modo dato conto, visti i dettagli su cui indulgono così spesso). In nessun caso, però, pur conoscendo bene gli interessati, sono in grado di precisare i motivi dell’inadempienza al precetto. È come se in ciascuna delle due comunità parrocchiali ci fosse un nucleo non proprio irrilevante di irriducibili di cui chi governa le coscienze dà per scontata sia l’indifferenza a un obbligo così importante, sia l’irraggiungibilità. Anche la loro identità è piuttosto varia. C’è una prevalenza maschile, ma meno schiacciante del previsto (circa il 30% degli inconfessi è costituito da donne); un 15% è rappresentato da intere famiglie, non da singoli; il livello sociale non è omogeneo, visto che a facchini e artigiani – il nucleo più consistente – si accompagnano anche esponenti della borghesia e dell’aristocrazia. Ancora negli anni Venti del Seicento, insomma, le scelte dei conviventi napoletani si collocano in un orizzonte urbano in cui il riordinamento tridentino è ben lontano dall’aver raggiunto i suoi obiettivi. 12. D’altra parte, per tornare alla visita pastorale, ai disagi e ai silenzi di buona parte dei parroci si sommano la discontinuità e la casualità con cui procedono i visitatori. È evidente una linea pastorale che considera concubinato e trasgressione del precetto pasquale come gli abusi più gravi da combattere: la domanda più frequente, anche se non generalizzata, riguarda proprio la reda69 Un esempio per tutti: ASDN, Conc, Miscellanee, 16 maggio 1620, attestato di separazione per il convivente scomunicato Vincenzo di Bari, sottoscritto dal parroco di S. Caterina al Mercato (la sua lista è databile al settembre seguente).

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zione degli stati d’anime. I risultati degli accertamenti condotti sono però deboli. Non appaiono costanti e determinate neanche le reazioni alla pigrizia dei curati: ad alcuni si intima di approntare le liste entro sei giorni, con la minaccia di una multa in caso di inadempienza, per altri si lascia correre70. Si trovano di rado inviti espliciti dei visitatori a verificare l’esistenza di inconfessi tra i parrocchiani o minacce di provvedimenti punitivi a carico di coloro che non hanno esercitato alcun controllo71. Allo stesso modo, sono quasi inesistenti le domande riguardanti la piena applicazione del sistema delle schedature da parte dei pochi parroci che hanno redatto lo stato d’anime. Insomma, si preferisce una certa gradualità nell’imporre verifiche sgradite e impopolari: è rischioso, forse, passare dal disordine totale a controlli eccessivamente rigorosi. In questo confuso orizzonte, in cui nessuno sa bene dov’è l’obbligo e dove la discrezionalità, possono profilarsi scenari diversissimi, talvolta surreali. Eccone due. Melito, novembre del 1623: un piccolo centro agricolo, dove i fedeli sono 900, di cui 700 obbligati al precetto (le anime ‘da comunione’, nel gergo delle visite pastorali). Il parroco ha preparato la lista, sia pur alla buona, e gli ispettori gli domandano se c’è qualche inconfesso. Circa 25, ammette l’ecclesiastico, con una risposta vaga, che non depone a favore suo e della cura con cui ha predisposto l’elenco. Aggiunge però spontaneamente, come per mettere le mani avanti, che molti altri coabitano sotto figura di matrimonio. Non specifica peraltro se a quei concubini ha dato la comunione e perché, in caso contrario, non li ha aggiunti ai 25 inadempienti. A quel punto i visitatori, pur senza cercare il pelo nell’uovo, gli ordinano seccamente di consegnare subito la nota, che, sembra di capire, deve contenere anche l’elenco delle coppie di fatto. Come andò a finire, non si sa. Una cosa è certa: nelle 45 pro70 Vedi ASDN, VP, 32, cc. 378v, 12 febbraio 1623 (intimazione al parroco di Polvica), e 308r, 8 dicembre 1622 (nessun richiamo al parroco di Secondigliano). 71 Ivi, c. 192r, 24 novembre 1619 (il parroco di Marano è invitato a dare la nota degli inconfessi della Pasqua passata), e c. 128v, 11 novembre 1619 (il parroco di S. Marco, ad Afragola, evita di rispondere alla domanda e nessuno insiste).

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cedure di scomunica conservate dal gennaio al dicembre 1624 non è rimasta traccia dei ‘cattivi’ di Melito72. Due mesi dopo i visitatori raggiungono la parrocchia napoletana dei SS. Francesco e Matteo, nel cuore dei Quartieri Spagnoli: zona difficile, ad altissimo tasso di prostituzione, in cui le scoppettelle hanno paura di andare da sole la sera per stanare i concubini. Il parroco aveva anche redatto lo stato d’anime, forse a lume di naso, se è vero che dichiara di ignorare il numero dei nuclei familiari e indica per i parrocchiani solo cifre approssimative: 4000, di cui 3000 da comunione, anche se, precisa, 1000 sono donne pubbliche «che non si comunicano, come crede». Imperterriti, i visitatori replicano: c’è qualcuno che non ha adempiuto il precetto? A quel punto, l’ecclesiastico, visto che la trave non interessa, si ricorda della pagliuzza: risponde seriosamente che alcuni si sono scusati con lui per essersi comunicati a Pasqua nella chiesa di S. Giorgio dei Genovesi, essendo di quella ‘nazione’... Un ordine perentorio chiude allora la visita: gli danno sei giorni di tempo per consegnare la nota degli inconfessi, senza precisare se vi debbano essere comprese anche le 1000 donne pubbliche. Non sorprende che la lista in questione non faccia parte di quelle arrivate fino a noi. Certo, potrebbe essersi perduta; tuttavia è lecito dubitare che il curato dei Quartieri Spagnoli, dopo il dialogo tra sordi con i visitatori, abbia avuto la voglia e il tempo di prepararla73. Non è facile però stabilire se le incertezze e il relativo disinteresse di ufficiali vescovili e parroci possano aver influito in qualche modo sul ristagno che si osserva nella lotta ai conviventi nel quinquennio 1620-1624, rispetto al prepotente avvio del 1613. A farlo pensare non è tanto il numero degli interventi arrivati fino a noi – poco più di 200 –, dato che potrebbe essere anche di scarso rilievo, visto che per il 1622-1623 non è rimasto neppure un dossier. Decisamente più indicativa – di una debolezza organizzativa o di una ridotta combattività – la mancanza di carcerazioni di recidivi. In ogni caso, però, rispetto al biennio 1613-1614, il rap72 ASDN, VP, 33, c. 419r, 5 novembre 1623, visita personale del parroco di Melito, don Francesco Filosa. I dati del 1624 sono in Conc 122 e in Conc Miscellanee. 73 ASDN, VP, 32, c. 357v, 12 gennaio 1624, visita personale di don Giovanni Paolo Mangone.

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porto tra citazioni, scomuniche vere e proprie e richieste di assoluzione si mantiene sostanzialmente stabile: l’umiliazione dei cartelli, la paura della morte improvvisa, il peso dell’esclusione continuarono forse ad incidere sull’alta percentuale di conviventi ‘pentiti’. 13. Così, nell’arco di poco più di un decennio, passo dopo passo, la Chiesa napoletana era riuscita ad imporre la sua presenza debordante in uno dei casi di foro misto per cui a Roma si era penato di più, e in tutto il viceregno, all’indomani del Concilio di Trento. Da parte secolare non c’erano state, come si è accennato, reazioni significative. Non possono essere considerati rilevanti, infatti, cinque accenni a procedimenti aperti dalla Vicaria contro coppie di fatto tra gli inizi del Seicento e i primi mesi del 1613. Insieme a due casi di metà secolo essi rappresentano fino alla peste del 1656 le sole tracce residue di un impegno diretto dei giudici di Stato sul fronte delle convivenze more uxorio nella capitale74. È impossibile ravvisare in iniziative così isolate il segno di una risposta laica all’avanzata ecclesiastica, che tra l’altro non era ancora entrata nel vivo; è verosimile invece che esse rispecchino gli ultimi flebili echi napoletani della battaglia finita nel 1589. Due dei cinque interventi fanno riferimento alle procedure della Gran Corte della Vicaria e consentono di confrontarle con quelle della Curia. Nel primo una coppia scomunicata motiva la richiesta di assoluzione con la condanna già ricevuta dai giudici di Stato. I due sono stati obbligati a separarsi, sia pur con pene distinte, in caso di trasgressione: per l’uomo tre anni di galera, per la donna la frusta pubblica. Scelte repressive abbastanza vicine a quelle in uso nel foro arcivescovile, anche se marcate da una differenziazione di genere che colpisce più pesantemente la donna, minacciata di una pena infamante. Di fronte a quella decisione la Curia rilascia l’assoluzione, riconoscendo e ritenendo sufficiente

74 Due di essi sono già stati segnalati (vedi supra, nota 58); ASDN, Conc, Miscellanee, 18 aprile 1653, attestato del parroco di S. Maria di Tutti i Santi relativo all’avvenuta separazione di Maria Ursino da Carlo Tortorella, colpito da un precetto della corte secolare ‘de non conversando’ (una condanna identica a quelle irrogate da tempo dalla Curia arcivescovile).

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anche ai fini spirituali l’intervento dello Stato75. Anche nel secondo caso le differenze tra i due tribunali sono esigue. Una moglie cerca per due volte di recuperare il marito, che l’aveva lasciata per andare a vivere con una donna pubblica, attraverso la sponda della Vicaria. L’uomo è incarcerato per due volte insieme alla convivente, ma se la cava. La donna ci prova allora con i vertici diocesani, ma neanche qui ottiene risultati76. Ancor più indicativi del peso crescente delle autorità ecclesiastiche, nonostante le apparenze, sono i tre interventi dei giudici di Stato del 1613, che coincidono con l’avvio del vicariato del Ghiberti. Certo, essi confermano la loro maggiore durezza, soprattutto nei confronti delle donne, ma risalta altrettanto bene il rilievo dei provvedimenti della Curia. Nel primo un convivente non proprio tranquillo (aveva reagito alla scomunica lacerando i cartelli), una volta assolto dal tribunale arcivescovile dopo la separazione, chiede l’attestato per utilizzarlo nel processo che per la stessa ragione gli è stato intentato in Vicaria. Qualcosa del genere s’intuisce anche negli altri due (donne scomunicate impaurite dai giudici secolari): un’efficacia probatoria o simbolica ‘superiore’ è riconosciuta all’intervento della Chiesa, che si intende utilizzare a proprio vantaggio nel foro secolare. Se ne trae inoltre la conferma della piena pubblicità delle iniziative diocesane e del fatto che i giudici di Stato napoletani non avevano alcuna remora nei loro confronti77. Nelle procedure ecclesiastiche, in questo caso, non c’erano stati gli sconfinamenti eccessivi sgraditi al Collaterale, quelli che di tanto in tanto costavano ancora dure reprimende ai vescovi meridionali. Solo il precetto conclusivo era stato intimato, come accadeva ormai abitualmente, sotto la minaccia del carcere. Sembra però impossibile che in tanti anni di disinvolti interventi della Curia arcivescovile i vertici statali napoletani non si fossero mai ac75 ASDN, Conc, Miscellanee, 22 luglio 1605, istanza di Andrea Cavaliero e Giustina Vassallo. 76 ASDN, Conc, 121, 22 febbraio 1607, esposto di Roberta Pisciotta contro il marito Sebastiano Dragone e la convivente Laura Barbata. 77 Ivi, 1612-1613: denunciato il 24 dicembre 1612, scomunicato il 2 marzo 1613, assolto l’11 marzo, Giovan Battista Tarallo chiede subito dopo l’attestato da esibire al giudice della Vicaria, che indaga su di lui per lo stesso abuso.

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corti di niente. È probabile invece che essi chiudessero un occhio sulle ingerenze della Chiesa, come per un implicito riconoscimento delle comuni esigenze di governo di una capitale disordinata e turbolenta. Le convivenze proibite continuavano però a rimanere delitto di foro misto. Inoltre, nel governo della sessualità proibita, ai giudici di Stato rimaneva il pieno controllo delle donne pubbliche, delle ruffiane, dei lenoni, delle adultere ed eventualmente dei conviventi che turbassero l’ordine pubblico. Non si contano, infatti, i decreti di sfratto intimati dalla Vicaria sin dal tardo Cinquecento per il variegato insieme di comportamenti che integra il delitto di ‘disonesto vivere’: turbolenza, litigiosità, ma anche pubblicità scandalosa data al proprio ‘peccato’. Uno spazio notevole assumevano in questi interventi le rappresentanze territoriali dei cittadini: capitani, complateari e capodieci di ottine, vie, piazze o semplicemente gruppi di vicini. Spesso le autorità statali eseguono loro precise richieste78. È ciò che si osserva anche nella fase d’avvio della caccia ecclesiastica ai concubini. Non sappiamo molto del funzionamento e dei collegamenti di queste istituzioni, che nella Napoli medievale rappresentavano ‘la gente popolana’79. Tuttavia, verso la fine del Cinquecento le ottine erano ventinove e i loro capitani svolgevano funzioni di notevole rilievo: vigilavano sulla pubblica sicurezza, controllavano la buona qualità dei prodotti alimentari, conservavano le chiavi delle porte della città e in caso di pericolo comune reclutavano soldati80. E non dovevano essere del tutto sprovveduti, se avevano anche il coraggio di denunciare alla Congregazione del Sant’Uffi78 ASDN, Conc, 121, citazione a Marino Migliore e Caterina Manella del 12 giugno 1613: sfrattati dal borgo dei Vergini per ‘disonesto vivere’ dai giudici della Vicaria (lo segnala un attestato di un gruppo di complateari del borgo, evidentemente parte attiva nella decisione), essi sono raggiunti a S. Giovanni a Carbonara, dove si sono trasferiti, dalla procedura di scomunica della Curia. 79 Tra le poche fonti specifiche vedi G. Di Blasio, Ragionamento intorno all’ufficio dei Capitani delle ottine della fedelissima città di Napoli, Napoli s.e., 1739. Sul piano critico è ancora utile il contributo di N.F. Faraglia, Le ottine e il reggimento popolare in Napoli, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», 28 (memoria n.-21), 1898, pp. 1-38, anche se i riferimenti all’età moderna sono esigui (pp. 35-38). 80 Faraglia, ivi, pp. 33, 35.

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cio il suo uomo di fiducia a Napoli e nel regno, il ministro dell’Inquisizione delegata. Fecero così nel 1629 i complateari del borgo dei Vergini, e il loro esposto non fu cestinato81. Non sorprende allora che tra il 1607 e il 1626, ma occasionalmente anche nel resto del Seicento, i loro certificati rivestano un certo peso nelle procedure di scomunica delle coppie di fatto, sia nella fase preliminare, quando i parroci raccolgono informazioni, sia in quella dell’accertamento dell’avvenuta separazione. Talvolta, poi, ai giudici basta acquisire l’attestato dei vicini per archiviare denunce sospette. È una fase piuttosto breve, che include, forse non a caso, il decennio più importante per il radicamento della lotta ecclesiastica ai conviventi. Ancor più indicativa, poi, la concentrazione di oltre metà di questi interventi nel biennio 16131614. Potrebbe essersi trattato di una reazione laica, di un modo per far sentire la voce del vicinato, ma non è escluso che il coinvolgimento di istituzioni civiche dal raggio d’azione così circoscritto sia stato volutamente cercato dalla Curia o dai parroci per dissimulare il monopolio che la Chiesa stava imponendo su quelle procedure82. Perché questi interventi si siano rarefatti presto, si intuisce da un caso del 1626. Un macellaio scomunicato si separò, si procurò senza difficoltà l’attestato del capitano e dei complateari della sua ottina, quella di Porto, ma «perché ci è necessaria anco la fede del parocho, quale fede recusa farla senza ordine di V. S. Rev.ma», fu costretto a coinvolgere il vicario generale. Solo allora la sua pratica si sbloccò83. Le autorità diocesane avevano deciso di non considerare sufficienti, da sole, le certificazioni dei rappresentanti ter81 ACDF, DSO, 1629, c. 211v, seduta del 13 dicembre allargata al papa: si decise che l’esposto fosse trasmesso al Nunzio e all’arcivescovo, perché indagassero in via stragiudiziale. 82 Il più antico attestato di questo tipo risale al 1607 (ASDN, Conc, 121, 16 maggio: sono i complateari della strada del bagno di Cappella, nella zona del porto, a certificare a favore di un mercante, Vincenzo de Criscenzo). Da allora fino al 1626 si contano quarantasette certificazioni ‘territoriali’ (in un solo caso, nel 1614 a Caivano, sottoscrivono gli Eletti). Ben ventiquattro attestati cittadini sono raccolti nel biennio 1613-1614. 83 ASDN, Conc, Miscellanee, mandato del 26 marzo 1626 a sedici coppie, istanza di Orazio Sacco. L’attestato di separazione fu firmato dal parroco di S. Giacomo degli Italiani il 6 agosto 1626.

IV. Chiesa e famiglie di fatto: gli inizi della caccia (1601-1626)

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ritoriali: se i parroci non ne confermavano la veridicità, non si dava corso alle assoluzioni. Così i tanti sconosciuti che nel primo Seicento rappresentarono con le loro firme, spesso incerte, le esigenze e i bisogni di piccoli lembi di territorio urbano, furono gli ultimi laici ad esercitare una qualche influenza sulle disavventure giudiziarie delle coppie di fatto napoletane. Da allora, malgrado isolati interventi e sporadiche reazioni del Collaterale, la lotta ai concubini della capitale e della diocesi rimase definitivamente ed esclusivamente nelle mani della Curia arcivescovile.

V IL MONOPOLIO ECCLESIASTICO SUI CONCUBINI: SCOMUNICHE, BLITZ, RESISTENZE (1626-1656)

1. Fu Francesco Boncompagni, un aristocratico ciociaro chiamato a guidare la Chiesa napoletana nel 1626, a completare il lavoro avviato dal Ghiberti. Grazie a lui, la Curia arcivescovile acquisì definitivamente il monopolio sulla caccia ai conviventi. Giovane, ambizioso, arrivato alla porpora cardinalizia nel 1621 grazie ad una contrastata decisione nepotistica di Gregorio XV, la sua nomina ad arcivescovo di Napoli non era stata delle più tranquille. Le complicazioni erano affiorate già nel gennaio del 1626, quando un malore aveva colpito Decio Carafa, il prelato anziano e sofferente che governava la diocesi dal 1613. Lorenzo Tramalli, il Nunzio apostolico, trasmise subito alla Segreteria di Stato la notizia, accompagnata dall’infausta previsione dei medici e dalle sue prime valutazioni, ma sentì anche il bisogno di ricordare al cardinale Barberini che si apriva la vacanza di una sede arcivescovile che per l’entrate, nobiltà della città et auttorità grande che tiene, si può sicuramente dire che sia una delle migliori d’Italia, et degna d’ogni gran signore1.

Quell’accenno al ‘peso’ della diocesi, decisamente superfluo per una sede importante come Napoli, non era del tutto casuale. Da qualche tempo i rappresentanti della città avevano espresso al papa il proprio favore per la candidatura di un curiale potente come il 1

ASV, Segreteria di Stato, Napoli, 25, c. 13r, lettera del 20 gennaio 1626.

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Boncompagni2. Non era per niente d’accordo, invece, l’aristocrazia cittadina, che all’indomani della morte del Carafa la osteggiò con forza. I suoi esponenti, ‘molto alterati’ – scriveva il Nunzio – fecero subito pressione su di lui perché raccomandasse ad Urbano VIII la scelta di un ‘soggetto napolitano nativo’, come gli ultimi due arcivescovi3. La richiesta obbediva a precisi interessi di parte. Oltre ai vantaggi sul piano dell’immagine e della rappresentanza, quella carica garantiva corposi privilegi anche all’entourage laico degli arcivescovi. Lo sapevano bene gli stessi aristocratici di provincia. Uno di loro, il principe di Stigliano, si era lasciato scappare in più occasioni che se avesse deciso di maritare qualche sua nipote nella capitale, avrebbe scelto per lei un congiunto del Carafa, solo perché, essendo egli Arcivescovo, havrebbe all’occorrenze col braccio dell’immunità ecclesiastica potuto diffendere et protegere la parte sua4.

Perciò, se anche nei confronti di un cardinale ‘vecchio e moribondo’ come il presule defunto – osservava senza molto riguardo il Nunzio – i nobili avevano coltivato progetti così ambiziosi, figuriamoci che cosa avrebbero fatto con un arcivescovo giovane... Tuttavia il papa ignorò quelle richieste e nominò rapidamente il Boncompagni, che a sua volta prese possesso della nuova sede molto presto, nel maggio del 1626. Non mancarono però segnali minacciosi. Un incidente grave, ma forse casuale, movimentò l’entrata solenne del presule in città. Alcuni soldati tedeschi della guardia vicereale, in preda al vino, gli si avvicinarono eccessivamente, mentre incedeva sul suo cavallo bianco (la celebre chinea), sfiorandogli il volto con le alabarde. Impaurito, il cardinale si pre2 Vedi la ‘voce’ di V. Coldagelli, in DBI, 11, 1969, pp. 688-689; importanti riferimenti alla sua discussa riorganizzazione della Penitenzieria della Cattedrale sono in Mancino, Licentia confitendi, pp. 187-189. Sull’episcopato napoletano del Boncompagni, in mancanza di indagini moderne, sono ancora utili, malgrado l’impianto nettamente apologetico, le pagine settecentesche di Giuseppe Sparano, Memorie istoriche per illustrare gli Atti della S. Napoletana Chiesa, I, Napoli, per Giuseppe Raimondi, 1768, pp. 286-294. 3 ASV, Segreteria di Stato, Napoli, 25, c. 23r, lettera di Lorenzo Tramalli al cardinale Barberini del 29 gennaio 1626. 4 Ivi, c. 26r, lettera al Barberini del 3 febbraio 1626.

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cipitò a terra e si slogò un piede5. Il viceré punì severamente l’eccesso e poche settimane dopo si premurò di invitare il Boncompagni a una gita domenicale nel mare di Posillipo, accompagnata da uno splendido corteo di imbarcazioni e allietata da musiche festose. Ma anche quell’intermezzo distensivo fu turbato dalla sgradevole interferenza, probabilmente intenzionale, di un aristocratico6. In realtà, la disponibilità di facciata del viceré non bastava a raffreddare le crescenti tensioni tra Stato e Chiesa a Napoli e nel regno. L’intransigenza romana e la linea di ferma difesa della regia giurisdizione tenacemente sostenuta dal Consiglio Collaterale conducevano allo scontro. Lo sapevano bene, ad esempio, i cardinali del Sant’Ufficio, che proprio per non inasprire ulteriormente i rapporti con le autorità spagnole evitavano di rafforzare nel viceregno la fragile copertura inquisitoriale garantita dai vescovi7. Nella capitale, poi, i ministri del viceré stavano dando di nuovo battaglia. Il concubinato non c’entrava, l’egemonia sulle famiglie di fatto conquistata passo dopo passo dalla Curia arcivescovile non sembrava messa in discussione. I nodi irrisolti riguardavano la bestemmia, la poligamia e nuove limitazioni all’esercizio dei poteri inquisitoriali. 2. Agli inizi del 1628, il Sant’Ufficio diocesano appurò che i magistrati della Vicaria stavano processando un bestemmiatore. Altri tre – si sarebbe saputo – ne avevano condannati alle galere pochi mesi prima. Il vicario generale ne richiese subito la consegna, perché si trattava di bestemmie ereticali, delitto spettante esclusivamente all’Inquisizione, ma fu anticipato da una repentina sentenza dei giudici secolari: quattro anni sulle galere, dopo la perforazione della lingua, immediatamente praticata. Malgrado 5 Ivi, c. 149r-v, lettera del 26 maggio 1626 del nuovo Nunzio, il vescovo di Caserta, al Barberini. Il viceré fece incarcerare molti dei responsabili (qualcuno fu anche torturato). 6 Ivi, c. 167r-v, Id. a Id., lettera del 7 luglio 1626. Il nobile, seguito a sua volta da un codazzo di feluche, intralciava e rallentava il passeggio delle due autorità. Al terzo invito a farsi da parte, dopo l’ennesimo rifiuto, il viceré ne ordinò la carcerazione. 7 Vedi ACDF, DSO, 1628, c. 99v, seduta di f. V dell’8 giugno.

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quella clamorosa decisione, il seguito della vicenda fu disastroso per lo Stato: l’uomo fu regolarmente processato dal tribunale arcivescovile, mentre i due magistrati che avevano osato sfidare l’Inquisizione furono scomunicati e dovettero chiedere l’assoluzione alla Congregazione del Sant’Ufficio. A Roma però li tennero sulla graticola per molti mesi, prima di concederla, e dietro pesanti condizioni8. Fu in quel frangente che nel febbraio del 1629 i supremi inquisitori decisero di riesaminare il caso di chi persisteva per oltre un anno nelle scomuniche irrogate per cause diverse dalle violazioni dell’ortodossia. Si poteva procedere attraverso il Sant’Ufficio, in base alla presunzione che l’indifferenza a un provvedimento così grave fosse un segnale di dubbia ortodossia? Nel 1588 i vertici inquisitoriali romani lo avevano vietato. Adesso accennavano proprio al concubinato, che forse costituiva ovunque il motivo più frequente dei provvedimenti di esclusione dalla comunità, ed era con ogni probabilità anche alla radice di quel loro intervento: due mesi prima avevano discusso col papa del caso di un barone pugliese che conviveva more uxorio da oltre un anno, indifferente alla scomunica subìta. Ora, dopo tanto tempo, pur ribadendo nelle linee generali il divieto di inchieste inquisitoriali, lasciavano la porta aperta a quella soluzione, quale che fosse il motivo dell’esclusione dalla comunità: dipendeva dalla durata dell’ostinazione e dalla presenza di altre aggravanti9. Pochi mesi dopo, tensioni ancora più forti si scaricarono da Napoli sul tavolo della Congregazione del Sant’Ufficio: il Collaterale aveva riaperto la vecchia ferita delle competenze sulla poligamia, intendeva applicare regole più severe per la concessione 8 ASDN, SU, 2313, c. 1r (denuncia presentata dal promotore fiscale il 25 gennaio 1628); cc. 4v-5r (nello stesso giorno fu notificato ai giudici Giovanni Francesco Sanfelice e Carlo Califano il decreto di condanna); c. 72r (il 18 novembre 1628 il Millino comunicava all’arcivescovo la decisione di assolverli, purché presentassero un’esplicita istanza, da conservare agli atti, al gesuita autorizzato ad assolverli). Le richieste dei due – dolenti e imbarazzate discolpe – si possono leggere ivi, cc. 73r (quella di Califano) e 74r (quella di Sanfelice). Per le condanne della Vicaria, eseguite il 27 gennaio 1628, vedi c. 40r. 9 ACDF, DSO, 1629, cc. n.n., seduta di f. IV del 21 febbraio. Il caso del barone pugliese, quello di Monte S. Angelo, era stato affrontato davanti al papa il 29 dicembre 1628 (ivi).

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del braccio secolare, ma anche vietare le estradizioni e ribadire l’obbligo del consenso regio per la nomina dei ministri dell’Inquisizione delegata. Insomma, una controffensiva impetuosa, che cercava forse di porre un argine ai continui strappi romani10. Nel gennaio del 1630, infine, due decisioni mandarono su tutte le furie le autorità ecclesiastiche, a Napoli e a Roma: la Vicaria condannò alla perforazione della lingua e alle galere un bestemmiatore e il viceré decise di nominare giudice di Capua un magistrato, Cristoforo Figueroa, contumace in una causa di fede11. La provocazione si rivelò controproducente. I pessimi rapporti tra l’arcivescovo e il ministro del Sant’Ufficio non impedirono alla Chiesa di imporsi su tutta la linea. Il regime di quasi monopolio dei tribunali di fede napoletani sulle cause di blasfemia non ne fu scalfito; nel caso Figueroa si arrivò a una vera e propria umiliazione del viceré e del Collaterale, sapientemente distribuita nell’arco di un paio di anni; per la poligamia e le altre questioni controverse i cardinali dell’Inquisizione e la Segreteria di Stato lavorarono a proprio piacimento nelle divisioni interne dei più alti organi di governo napoletani, attraverso i gesuiti, il confessore del viceré e giudici della Vicaria adeguatamente foraggiati; la questione del braccio secolare finì in una bolla di sapone12. Già nell’estate del 1631 si profilava così una nuova, schiacciante vittoria romana. Invano il viceré rifiutò di concedere udienze al Nunzio apostolico e minacciò di espellerlo dal regno. Nel dicembre, poi, una terribile eruzione del Vesuvio offrì il destro alle autorità ecclesiastiche per ‘aggiustare’ varie questioni aperte. Esse poterono contare anche sulla circostanza che non era solo il popolino ad attribuire a Dio, alla Madonna e ai santi un ruolo decisivo in emergenze così drammatiche. Nel giugno del 1632, proprio il conte di Monterey, il temutissimo viceré, dispose, in una 10 Ivi, cc. 63v, seduta di f. V del 29 marzo, e 75v-76r, seduta di f. V del 19 aprile. Il nodo più delicato riguardava il braccio secolare: si esigeva la richiesta di comunicazione preventiva, da parte dei giudici del Sant’Ufficio, del nome della persona da incarcerare. 11 ACDF, DSO, 1630, pp. 36-37, seduta di f. V del 30 gennaio. 12 L’umiliazione del Figueroa e del Collaterale è in ACDF, DSO, 1630-1631, passim; le strategie avvolgenti della Segreteria di Stato sono in ASV, Segreteria di Stato, Napoli, 30-31, passim. Un accenno al caso Figueroa e ai contrasti di questi anni è in Amabile, Il Santo Officio, II, pp. 35-36.

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circolare inviata ai governatori di tutte le province del regno, che la recita dell’orazione delle cinque ore, collocata tradizionalmente di venerdì in memoria della passione di Cristo, fosse spostata alla domenica: così il concorso sarebbe stato maggiore. Bisognava ringraziare Dio, la Vergine e i santi – scriveva – per la protezione garantita al regno, alla fine risparmiato dal Vesuvio e dalla peste che infieriva in molte parti d’Italia13. 3. Fu in quel movimentato orizzonte che nel febbraio-marzo del 1632 la questione del concubinato tornò improvvisamente di attualità, grazie a un’iniziativa dell’arcivescovo di Napoli. Il prelato doveva anche farsi perdonare dai supremi inquisitori, oltre alla lotta senza quartiere al ministro del Sant’Ufficio nel regno, una decisione che gli era costata poche settimane prima un loro severo richiamo, condiviso dal papa in persona: dopo l’eruzione del vulcano e i terremoti successivi aveva concesso con troppa leggerezza ai confessori della diocesi l’autorità per assolvere da tutti i casi riservati, compresi quelli di rilievo inquisitoriale. Secondo i vertici romani, quella scelta, che mirava con ogni probabilità a placare l’emotività dei fedeli, era stata una manifestazione di misericordia mal calibrata14. Per il concubinato, invece, l’iniziativa del Boncompagni puntava soprattutto a un obiettivo immediato: ottenere l’appoggio delle guardie secolari nelle irruzioni a casa dei conviventi che violavano il precetto ecclesiastico di separazione. Si trattava di una richiesta irricevibile, se si considera la linea che il Collaterale applicava, sia pur con alterni successi, nel resto del regno. Era una vera e propria sfida, forse legata anche alla difficoltà di organiz-

13 Per l’uso politico dell’eruzione da parte delle autorità romane, vedi ASV, Segreteria di Stato, Napoli, 30, c. 108v (lettera al Nunzio del 26 dicembre 1631), ma anche gli interventi romani del gennaio 1632. Un ottimo riscontro alle lettere del Nunzio è nelle decisioni del Consiglio Collaterale: vedi ASN, Collat. Cur., 109 e 110. L’iniziativa del viceré (ivi, 110, c. 41r-v) risale al 18 giugno 1632. 14 Per l’ostilità del Boncompagni verso il ministro vedi ASV, Segreteria di Stato, Napoli, cc. 123v-124v, lettera del Nunzio napoletano del 17 febbraio 1632. Per il rimprovero del Sant’Ufficio, ACDF, DSO, 1632, c. 22r-v, seduta di f. V del 29 gennaio (ma il tema dello sfruttamento dell’eruzione era stato affrontato anche nella seduta del 22 gennaio, ivi, c. 17v).

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zare i blitz: dal 1614 al 1632 c’era stata una sola cattura15. La trattativa dovette arenarsi subito, verosimilmente per l’indisponibilità del Collaterale a ratificare sul piano formale l’egemonia conquistata sul campo dalle autorità diocesane. Difficilmente, però, i laici ebbero qualcosa da dire sul diritto dei giudici ecclesiastici di incarcerare i recidivi. Lo provano due circostanze: un ordine espresso del Reggente della Vicaria, che vietò alle guardie secolari di collaborare con le scoppettelle, ma non a queste ultime di effettuare le ronde e le irruzioni, e un processo di poco successivo. Un convivente sorpreso in flagranza di reato dagli uomini del vescovo si richiamò proprio a quella disposizione, non all’indebita carcerazione subìta grazie all’irruzione dei chierici. Non appena fu libero, l’uomo denunciò alla Vicaria sia l’aiuto prestato abusivamente ai poliziotti della Curia arcivescovile da una guardia spagnola e da un caporale, sia il furto di vari beni. Una rapida indagine accertò che le scoppettelle avevano ottenuto la collaborazione richiesta con l’inganno, attraverso la dichiarazione, falsa, che si trattava di una carcerazione per delitti contro la fede. In quel caso, infatti, il braccio secolare contro i laici era dovuto. Il caporale aveva ceduto, forse ingannato dall’asserito coinvolgimento dell’Inquisizione e dal consenso del soldato spagnolo (che dichiarò: «In mia tierra il Santo Officio piglia tutto il mondo»). Pesò anche la circostanza che il blitz doveva essere eseguito nei Quartieri Spagnoli, una città a parte, con le sue ferree regole interne. In quella zona, se non c’erano uomini del viceré ad accompagnarle, le squadre di chierici al soldo dell’arcivescovo non potevano operare interventi di polizia: i soldati acquartierati lì avrebbero risposto con ‘inconvenienti e romori’16. Ma l’offensiva del Boncompagni non mirava solo ad ottenere il braccio secolare per attività di polizia a rigore vietate ai suoi uomini. C’erano anche aspetti strettamente legali, per i quali forse il supporto dello Stato era opportuno. Lo rivela una lettera inviata il 9 marzo 1632 dal Nunzio napoletano ai supremi inquisitori. Il 15 ASDN, Conc, Miscellanee, procedura di scomunica contro Agostino Langella e Lucrezia Incoronato: i due furono sorpresi e incarcerati il 18 marzo 1619. 16 ASN, DRG, P, 196, fascicolo 25, cc. n.n. (contiene l’esposto di Agostino Iovene e l’esame dei due soldati, il 14 ottobre 1634; se ne ignora l’esito). L’uomo, separato dalla convivente dopo la scomunica, subìta forse nell’aprile del 1633, aveva chiesto l’assoluzione e l’aveva ricevuta il 7 maggio seguente (ASDN, Conc, 123).

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problema era serio: c’era uno dei due giudici della Vicaria scomunicati nel 1628, il consigliere Sanfelice, che collaborava da qualche tempo all’istruzione dei processi diocesani contro i concubini. I cardinali del Sant’Ufficio ne vollero sapere di più: a che titolo lo faceva? Era implicito che se si trattava di un incarico consultivo, poteva anche essere utile. Se invece quel magistrato esercitava attività di giurisdizione, da solo o insieme ai colleghi del foro arcivescovile, il suo lavoro poteva diventare un precedente pericoloso, in un caso misto in cui a Napoli la Chiesa si era conquistata spazi così ampi17. Non sappiamo altro della trattativa, ma difficilmente quella curiosa collaborazione continuò. Tuttavia, qualche strascico delle iniziative del Boncompagni rimase, se è vero che nel novembre di quell’anno la questione della lotta alle famiglie di fatto nella capitale fu sollevata per la prima volta dal Collaterale con una dura lettera (nel gergo dei vertici del viceregno, una ortatoria) al vicario generale di Napoli. Il documento non accennava in alcun modo alle richieste del prelato, ma prendeva le mosse dal ricorso di una coppia, citata per nome e cognome. I due, forse conviventi recidivi incarcerati dalle scoppettelle per la violazione del precetto, avevano segnalato alle autorità secolari di essere stati taglieggiati in ogni modo negli uffici vescovili. Avevano dovuto versare somme di denaro a tutti: alle guardie, agli scrivani e ai carcerieri, oltre che ai procuratori legali. La loro richiesta era semplice: reclamavano l’annullamento del processo e il rimborso delle spese. L’esposto fu accolto dal Collaterale, che intimò al vicario generale la revoca della condanna e la restituzione dei soldi. La lettera partiva dal presupposto, davvero singolare, che la Curia napoletana avesse introdotto con quelle procedure una novità inaudita e inaccettabile, cioè la prassi di condannare le coppie di fatto con sanzioni pecuniarie e pene corporali. Era, ovviamente, una dissimulazione: dai primi del Seicento le autorità ecclesiastiche monopolizzavano a Napoli la lotta al concubinato alla luce del sole, riconosciute in qualche modo dai giudici della Vicaria. Da allora le procedure di scomunica avevano sempre contemplato sanzioni temporali. Ma, tant’è, i ministri del 17

ACDF, DSO, 1632, cc. 52v-53r, seduta del 23 marzo.

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viceré recitavano la parte, accampando anche qualche debole motivazione. L’iniziativa del Collaterale, per quanto risulta, non ebbe alcun esito. Il vicario generale rispose, non sappiamo che cosa, ma sembra molto improbabile che la coppia abbia recuperato i soldi18. Da allora il monopolio della Chiesa sui concubini si consolidò definitivamente; i decreti di assoluzione accompagnati dal precetto di non ‘conversare’ rimasero immutati; ripresero anche senza difficoltà le carcerazioni dei recidivi sorpresi in flagranza dalle scoppettelle. 4. Così, a quasi trent’anni dai primi sconfinamenti nelle competenze della giurisdizione regia, i vertici della Chiesa napoletana potevano tracciare un bilancio lusinghiero, sul piano politico-istituzionale, della caccia ai conviventi. Se ancora nel 1632, infatti, il Collaterale fingeva di non vedere che le invasioni di campo da parte della Curia erano diventate quotidiane, era venuto il momento – dovette pensare il cardinale Boncompagni – di ratificare anche formalmente l’avanzata del foro arcivescovile sul terreno della giurisdizione regia. La macchina diocesana era ben avviata, soprattutto nella capitale. Un solo ostacolo, secondo il prelato, impediva l’eliminazione totale dei concubini dalla città: la limitata efficacia dei controlli sui conviventi precettati che riprendevano a vivere insieme o a vedersi. Le scoppettelle erano troppo poche, non erano in grado di tenerli a bada. La soluzione ideale gli sembrò l’estensione del braccio secolare – una prerogativa circoscritta dallo Stato alle violazioni dell’ortodossia – al controllo del concubinato. Era, in una situazione radicalmente mutata, la stessa istanza che l’arcivescovo di Cosenza aveva reiteratamente rivolto nel 1566-67 alle autorità statali, senza ottenere alcunché. Allora ne era scaturito un ventennio di conflitti senza precedenti tra Madrid e Roma, da cui la Chiesa era uscita vittoriosa solo dopo faticose trattative. Adesso l’audace iniziativa del cardinale Boncompagni cercava di chiudere il cerchio. Egli poteva permettersi di ripresenta18 ASN, DRG, P, 193, ms. 84. L’ortatoria avanzava una sua singolare spiegazione delle norme tridentine: sarebbero state valide solo per i pubblici concubini che persistevano per oltre un anno nella scomunica e non osservavano il precetto pasquale.

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re per i concubini napoletani una richiesta letteralmente provocatoria nel resto del regno, solo perché su quel problema nella capitale i rapporti di forza erano ormai nettamente sbilanciati a vantaggio delle autorità ecclesiastiche. La vittoria l’avevano già conquistata sul campo alcune generazioni di ufficiali di curia, qualche vicario generale, il suo predecessore. La mossa dell’arcivescovo non ebbe pieno successo. Il suo progetto di liquidazione definitiva dei conviventi attraverso il modello di collaborazione caratteristico dei processi inquisitoriali (il Sant’Ufficio decide, lo Stato esegue) fu bocciato. Ma un risultato indiretto lo ottenne: pur rifiutando il braccio secolare per quei casi, i viceré e il Collaterale da allora non poterono più far finta di non sapere che nella capitale e nella diocesi la lotta alle famiglie di fatto, in tutte le sue articolazioni, religiose e temporali, era nelle mani della Curia arcivescovile. A Napoli, ormai, i precetti dei vicari generali avrebbero potuto continuare a minacciare alla luce del sole carcere o multe per dare forza agli interventi di natura spirituale, i soli che a rigore erano consentiti nel viceregno alle autorità ecclesiastiche. 5. Gli esiti dell’iniziativa promossa nel 1632 dal Boncompagni non tardarono a farsi sentire. Ancora una volta, come per i predecessori, l’aspetto più efficace del suo impegno sul fronte del concubinato non si coglie nell’azione pastorale. Lo dimostrano i tre sinodi da lui indetti (1627, 1628, 1632); lo verificarono senza difficoltà i parroci visitati, anche più di una volta, tra il 1628 e il 163919. Certo, nelle assemblee diocesane qualcosa della combattività del prelato trapela: si comincia nel 1627, con una stretta di freni sui concubini, laici compresi, si continua nel 1632 con gli ‘abusi’ prematrimoniali dei fidanzati. Nessun confessore potrà assolvere i conviventi more uxorio, se non ne avrà speciale facoltà dall’arcivescovo e se la coppia non si sarà separata da almeno quattro mesi20. Un analogo inasprimento fu introdotto nel 1632 19 I decreti sinodali del 1627 sono in Constitutiones et Decreta Dioecesanae Synodi Neapolitanae..., Romae, s. e., 1627; quelli del 1628 e del 1632 in Constitutiones et Decreta..., Romae, ex typographia Reverendae Camerae Apostolicae, 1632; i verbali delle visite in ASDN, VP, voll. 35-39. 20 Constitutiones, cc. n.n.

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per il concubinato dei fidanzati: l’assoluzione dalla relativa scomunica fu riservata solo all’arcivescovo21. Nello stesso spirito, nel 1627 era stato apportato un importante correttivo al sistema di controllo degli inconfessi predisposto nel 1619: la sostituzione della scheda con le proprie generalità, che ciascun parrocchiano doveva consegnare per ricevere la comunione pasquale, con un attestato sottoscritto dal confessore che l’aveva assolto. Sottinteso ovvio di quella decisione era il sospetto che una parte dei fedeli si comunicasse senza confessarsi: rinsaldato il meccanismo di controllo, sarebbe diventato più difficile per i malintenzionati aggirare un obbligo così importante22. Ma sull’uno e sull’altro fronte il giro di vite servì a poco. Non sembrano particolarmente motivati neppure i visitatori: furono i primi a non dare troppa importanza ai nuovi schemi sinodali23. Una certa attenzione è dedicata ai libri parrocchiali, tra i quali gli stati d’anime hanno un rilievo particolare. Essi devono essere esibiti, e quasi tutti gli interessati lo fanno. A distanza di cinquequindici anni dalle visite precedenti, in cui si era verificato che parecchi parroci non li avevano predisposti, anche nei piccoli centri agricoli della diocesi molti di loro si sono dati da fare. Ancora una volta, però, gli esiti concreti dei puntuali interrogatori sono pressoché nulli: i visitatori mostrano scarsissimo interesse per il buon funzionamento del meccanismo di cui le liste erano il supporto indispensabile. Su cinquanta ispezioni effettuate tra il 1628 e il 1639, le domande sulla raccolta degli attestati prima della comunione pasquale e sulla consegna delle schedine da parte dei parrocchiani sono sporadiche: a Torre del Greco e Procida, due centri molto popolosi, e a uno dei due parroci di Casoria. Per il reConstitutiones, cc. n.n. Constitutiones, cc. n.n. 23 Una parte significativa della visita si concentrò sul territorio extraurbano, che nell’episcopato del Boncompagni fu raggiunto anche una seconda volta, e in qualche caso una terza. Per motivi ignoti, invece, i verbali delle visite del Boncompagni alle parrocchie cittadine non si sono conservati, se si esclude quello relativo al duomo. Che almeno alcune di esse siano state regolarmente ispezionate sembra però indubbio: vedi ASDN, Miscellanee giudiziarie, 18 gennaio 1633, lista di conviventi e di inconfessi trasmessa alla Curia dal parroco della Santissima Annunziata a Fonseca («d’ordine della mia visita», scrive l’ecclesiastico). 21 22

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sto, come in tutte le ispezioni precedenti, la verifica della redazione degli stati d’anime non è accompagnata da alcun controllo sulla loro effettiva utilizzazione24. La stessa domanda sulla presenza di inconfessi è posta, su cinquanta controlli, solo otto volte: forse si dà per scontato che la stragrande maggioranza dei fedeli di provincia rispetti il precetto pasquale, forse il problema è considerato di scarso rilievo25. 6. In un quadro così sfilacciato sembra ovvio che nei verbali dei visitatori non vi siano accenni di sorta al concubinato, un abuso diffusissimo, combattuto da poco tempo e tra mille difficoltà: non se ne informano i funzionari vescovili, non ne parlano i parroci, mentre peraltro le scomuniche continuano a piovere. Sorprende non poco, perciò, in questo orizzonte immobile, che gli inconfessi, e indirettamente anche i conviventi, siano – tra il 1632 e il 1636 – il bersaglio di autonome iniziative di una parte minoritaria, ma consistente, dei parroci (22 sui 74 che in quel momento operavano in diocesi; 17 di essi guidano comunità cittadine, quasi tutte popolose26). Questi ecclesiastici zelanti predispongono liste di inadempienti al precetto e le trasmettono alla Curia, dove il 24 ASDN, VP, 36, I serie numerata, cc. 2v-3r, 26 novembre 1628 (Torre del Greco), c. 527v, 24 maggio 1635 (Casoria, parrocchia di S. Benedetto); ASDN, VP, 39bis, c. 214r-v, 22 maggio 1629 (Procida). La visita di Torre del Greco è la più istruttiva. Lì l’asserita consegna delle schedine era avvenuta senza che il parroco avesse redatto la lista dei parrocchiani: uno zelo inutile, in mancanza dell’elenco su cui riscontrare i ‘cattivi’. A che cosa potevano mai servire tanti attestati di ‘buona condotta’? D’altra parte, anche se l’ecclesiastico dichiarò che conosceva alcuni inadempienti, non gli fu intimato di notificarne i nomi in Curia. 25 ASDN, VP, 36, passim: a Trocchia, Massa di Somma, S. Sebastiano al Vesuvio, Ponticelli, Barra (2 volte), S. Giovanni a Teduccio, Melito. 26 Il numero complessivo delle parrocchie della diocesi è calcolato in base ai dati della visita completa immediatamente successiva, quella effettuata dal Filomarino nel 1648, perché mancano, nella visita del Boncompagni, i dati relativi a Napoli. Delle parrocchie, 38 erano nel territorio urbano, 36 nei casali. Le liste riguardano Piscinola, Barra, Afragola, Miano e Procida, nonché le seguenti parrocchie napoletane (considerando come tali anche le poche che governavano casali attualmente inglobati nel territorio della città): Annunziata a Fonseca, S. Eligio, S. Giorgio Maggiore, S. Maria dell’Avvocata, S. Maria del Soccorso, S. Aniello Maggiore, S. Giovanni in Corte, S. Giovanni Maggiore, S. Maria della Neve, S. Strato, S. Giacomo degli Italiani, S. Maria della Catena, S. Marco di Palazzo, S. Maria delle Grazie a Capodimonte, SS. Giovanni e Paolo, S. Caterina al Mercato, SS. Francesco e Matteo.

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vicario firma scomuniche a raffica, proprio come faceva da qualche decennio per le coppie di fatto, ma con una differenza importante. Le citazioni ricopiano pedissequamente – senza verifiche, a quanto risulta – le annotazioni dei curati e, cosa ancor più indicativa, sono raggruppate su base parrocchiale: si ritiene più efficace che le procedure siano avviate zona per zona, forse per rafforzare provvedimenti di minore portata simbolica rispetto alle scomuniche per concubinato27. Inoltre, almeno dal gennaio del 1635, è attivo in vescovado un ufficio nuovo, in cui opera un non meglio noto ‘scrivano delli non confessati’28. Insomma, i vertici diocesani, dopo la caccia ai conviventi, si attrezzano anche per combattere un abuso sfuggente e difficilmente controllabile, come quello dell’inadempienza al precetto pasquale. Eppure l’iniziativa ha poco a che vedere con la visita pastorale. In un solo caso si allude espressamente a un ordine ricevuto nel corso dell’ispezione; inoltre, i tempi di redazione degli elenchi, quando sono noti, non corrispondono alla cronologia delle visite; né sono affiorate tracce di editti, ordinanze, circolari della Curia arcivescovile29. Sembra, insomma, che un gruppo di curati non proprio esiguo, con una decisione in qualche modo ‘spontanea’, abbia allargato il raggio d’azione dei controlli, come spinto dall’esigenza di inserire la lotta al concubinato, condotta prevalentemente dai superiori, in un più ampio disegno di pulizia spirituale delle rispettive parrocchie. A questa operazione ‘dal basso’ potrebbe aver fatto seguito una migliore organizzazione degli uffici diocesani. Comunque sia, l’improvvisazione e la casualità dell’iniziativa sono 27 Non tutte le liste sono seguite dai provvedimenti della Curia. Esempi di procedure complete vengono dai dossier di S. Giacomo degli Italiani, S. Caterina al Mercato e Procida (ASDN, Miscellanee giudiziarie). 28 Ivi, lista redatta il 25 gennaio 1635 da don Cesare Villano, parroco di S. Eligio. Lo scrivano si chiamava Paolo Pedino. 29 Per il rapporto con la visita pastorale, vedi supra, nota 23. Per i tempi di redazione e di visita, è esemplare il caso di Barra. Il parroco redige la lista il 6 giugno 1633, ma le tre visite ricevute risalgono al 14 maggio 1629, al 29 aprile 1635 e al 21 giugno 1639 (ASDN, VP, 36, cc. 149r e 502v della I serie numerata e 94r della II). La mancanza di risoluzioni formali risulta dai riscontri effettuati nei fondi Arcivescovi, Vicari generali, Segreteria del Clero, oltre che nelle serie del Sant’Ufficio e dei Processi criminali (quest’ultima per la parte finora riordinata da M. Mancino, che ringrazio per l’informazione).

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evidenti: nessuna nota obbedisce a criteri particolari, ciascuno degli ecclesiastici la redige come meglio crede. Solo quattro parroci, ad esempio, distinguono tra concubini e inconfessi o accennano alla convivenza come ragione dell’inadempienza al precetto pasquale. Uno di loro segnala anche che è stato ingannato da un artigiano: gli ha consegnato la cartella, ma gli è stato riferito che continua a ‘stare amicato’ con una donna30. Inoltre, nessuno, in città, sembra aver ricavato i suoi dati dallo stato d’anime, che d’altronde alcuni non potrebbero mai approntare, per l’enorme numero dei parrocchiani. È il caso di S. Giovanni Maggiore. Il curato ammette onestamente che i 55 inadempienti annotati, con i rispettivi stati di famiglia, corrispondono a «quanto fino ad hoggi ho potuto sapere» e aggiunge che parecchi non si confessano da molti anni «et vivono molto largamente di coscienza e non hanno dato bollettini di nissuno modo»31. Lo strumento di controllo abituale sembra la distribuzione delle cartelle, ritirate poi nel corso della benedizione delle case. Esso consente agli ecclesiastici più scrupolosi di segnalare con esattezza domicilio e ‘stato di famiglia’ degli interessati, ma non la precisa consistenza del numero degli inconfessi32. Proprio per questo motivo le percentuali di inadempienza cittadine, apparentemente basse, non possono essere prese per buone. Esse rispecchiano solo i controlli effettuati casa per casa, attraverso il meccanismo farraginoso e poco significativo della distribuzione e del ritiro delle schedine pasquali previste dal 1619 in poi; nessun parroco di città, per quanto finora risulta, ha mai ricavato i nomi degli inconfessi nell’unico modo pienamente attendibile, cioè ‘spuntandoli’ dagli stati d’anime. Solo in qualcuno dei centri di provincia le liste sembrano redatte in questo modo e depongono a favore di verifiche più puntuali, in cui il numero irri30 Sono i curati della Santissima Annunziata a Fonseca, dei SS. Giovanni e Paolo, di S. Marco di Palazzo e di S. Maria del Soccorso all’Arenella. A rivelare l’inganno è il parroco di S. Marco di Palazzo (ASDN, Miscellanee giudiziarie, Note relative al 1634). 31 Ivi, incartamento del 1634. 32 Mi riferisco alle liste relative a S. Eligio, S. Giacomo degli Italiani, S. Marco di Palazzo e S. Caterina al Mercato.

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levante di pecore nere corrisponde forse alla realtà. Anche nelle note dei casali, però, fanno riflettere alcuni dati, piuttosto alti33. In città, invece, i rilievi dei parroci più zelanti e le reazioni dei fedeli danno la misura delle persistenti difficoltà della Curia arcivescovile, ad oltre settanta anni dalla conclusione del Concilio di Trento. Dove le liste sono più dettagliate, si ricavano indicazioni importanti. L’incapacità di convincere una parte non irrisoria dei suoi abitanti al rispetto di precetti ecclesiastici elementari è evidente. Il dato che più colpisce è la dispersione delle coppie di fatto in un orizzonte ben più ampio di disinteresse o di ostilità verso gli obblighi religiosi. È il caso della parrocchia di S. Caterina al Mercato, quella che aveva ospitato nel 1605 l’imperturbabile concubinato a tre del suonatore Luise Palumbo. Essa presenta nel 1632-1636 il più alto tasso di inosservanza del precetto pasquale finora registrato a Napoli nel Cinque/Seicento: il 10-15%. Ma è ancora più importante la circostanza che i 95 inconfessi del 1634 sono in larga misura interi nuclei familiari, o persone che vivono insieme, a vario titolo: i ‘dissidenti’ singoli sono appena 22. Inoltre, solo 40 di essi si piegano alla comunione d’obbligo dopo la terza intimazione, quella che precede la scomunica34. Quest’ultimo dato trova sostanziali conferme nelle altre tre parrocchie – S. Giovanni Maggiore, S. Giacomo degli Italiani, l’abbazia di S. Michele Arcangelo nella ricca e popolosa Procida – in cui possiamo misurare in qualche modo il tasso di resistenza ai mandati di scomunica. Poco più di un terzo degli interessati si mette in regola, mentre almeno il 15% è scomunicato e interdetto dalla sepoltura. Degli altri non si sa nulla: non sembra che siano stati esclusi dalla comunità, ma non risulta che abbiano reagi33 Sono quelli del piccolo casale di Piscinola, dove su 400 anime obbligate a comunicarsi (tante erano nella visita pastorale del 26 settembre 1630: vedi ASDN, VP, 36, c. 207r), gli inadempienti nel novembre del 1632 sono trentacinque, di cui dodici donne. È indicativo inoltre che dodici inconfessi rifiutino di obbedire alla triplice citazione della Curia e siano scomunicati (quattro sono donne): vedi ASDN, Miscellanee giudiziarie, Nota del parroco Pietro Galtiero. 34 ASDN, Miscellanee giudiziarie, lista divisa per strade. Non si sono conservati stati d’anime della parrocchia, e neppure indicazioni precise nelle visite pastorali. Il più precoce dato viene dalla visita pastorale del 1688 e le attribuisce, in una fase di boom demografico per la città, 1150 anime ‘da comunione’ (ASDN, VP, 59, c. 210r, visita del 15 febbraio 1688).

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to alla prima citazione. Ancora una volta larghi settori della città e della provincia più urbanizzata mostrano di saper sfuggire ai controlli35. Se si osserva infine che questi fedeli disobbedienti rappresentano solo il nucleo più avvicinabile di vaste cerchie urbane irraggiungibili dai parroci e forse ostili o indifferenti alla pratica religiosa, il bilancio di oltre mezzo secolo di impegno moralizzatore appare davvero modesto. Trasformare una parrocchia nella principale agenzia territoriale dell’intolleranza era un’impresa proibitiva. Lo rivelò anche la lotta al concubinato, che nel 1633 riprese con maggiore lena e più spiccata aggressività. 7. Tra il 1633 e il 1641, anno in cui il Boncompagni morì, si conservano 730 procedure di scomunica contro coppie di fatto: un blocco consistente, espressione di un impegno in cui i numeri cominciano a pesare, se si esclude il territorio extraurbano. Al di fuori della città, la maggiore attenzione manifestata dal prelato a livello pastorale non si traduce in un aumento consistente dell’intolleranza contro i conviventi. Se tra il tardo Cinquecento e il 1625 si conservano 27 procedure di scomunica avviate contro coppie di fatto che vivono in piccoli e grandi centri della diocesi, altrettante ne sono rimaste negli anni dell’episcopato del Boncompagni (1626-1641): un lieve incremento, niente di più. In territorio napoletano, insomma, fino alla metà del Seicento, gli amori contadini, resi celebri per la Francia da un bel libro di Jean-Louis Flandrin, continuarono indisturbati36. Non c’è confronto con la lotta serrata intrapresa a Napoli tra il terzo e il quarto decennio del secolo. Era una fase di espansione per la città: le relazioni triennali del prelato al papa, per quanto approssimative possano essere, le assegnano sin dal 1631 circa 500.000 abitanti37. In un momento di 35 ASDN, Miscellanee giudiziarie, liste del 1634 (per le due parrocchie cittadine) e del 1636 (per Procida). 36 J.-L. Flandrin, Amori contadini. Amore e sessualità nelle campagne, nella Francia dal XVI al XIX secolo, Milano 1980 (ed. or., Les amours paysannes. Amour et sexualité dans les campagnes de l’ancienne France (XVI-XIX siècle), Paris 1975). 37 Vedi Miele, Le relazioni, relazione firmata dal Boncompagni il 26 maggio 1631. Essa va confrontata con i 300-350.000 abitanti accreditati a Napoli tra il 1608 e il 1623 nelle relazioni Acquaviva e Carafa (ivi); computi, questi ultimi,

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crescita così forte, l’intensità e la continuità della repressione sono evidenti, nonostante le lacune della serie. Un’indiretta conferma del rilievo del problema in questi anni viene dalle numerose richieste presentate dai conviventi citati o scomunicati38. In una documentazione così varia e imponente si individuano con facilità le nuove strategie del tribunale diocesano. Alcune sembrano collegabili al fallimento della richiesta di appoggio inoltrata nel 1632 alle autorità secolari. Mi riferisco all’aumento netto dei blitz domiciliari e delle carcerazioni in flagranza di reato: nel biennio 1633-1634 esse assommano a quindici, una percentuale molto alta, se si pensa che a Napoli fino a quel momento solo sei coppie erano state sorprese insieme dopo il precetto. Colpisce anche l’intervento diretto del Boncompagni in alcune pratiche: una novità assoluta per la diocesi. Proprio a lui persone degne di fede, verosimilmente laici, confidavano informazioni riservate, che egli trasmetteva ai suoi ufficiali perché avviassero le procedure di scomunica. Era come se l’arcivescovo volesse mostrare ai ministri del viceré sia la capacità, oltre che il diritto, della sua Curia di organizzare da sola la caccia ai concubini, sia il forte rilievo che il problema rivestiva per lui39. Ma il dato più importante è un altro. Il giro di vite contro i recidivi potrebbe essere uno dei primi frutti dell’istituzione di una Congregazione deputata esclusivamente al vaglio delle denunce di concubinato. La sua nascita sembra fare il paio con la decisione di destinare uno scrivano alla redazione dei decreti di scomunica agli inconfessi. Era la prima volta che a Napoli la Curia istituiva un ufficio dedito solo al controllo delle famiglie di fatto. Una scelta ancor più indicativa, se si osserva che di provvedimenti di un po’ più vicini alle stime – decisamente inferiori – di Beloch, Storia, pp. 116118. 38 Esse sono ben 256 e sono importanti per valutare le reazioni dei conviventi citati o scomunicati: vedi infra, pp. 170-171. 39 ASDN, Conc, 123, 30 luglio 1633: un ordine espresso del Boncompagni dispone la sospensione della procedura di scomunica a carico di Giulio Marigliano; ASDN, Conc, Miscellanee: una citazione raggiunge l’11 ottobre 1636 una coppia altolocata, quella di don Fabrizio Rovito e di donna Torodea Strammone, dopo un esposto fatto pervenire al Boncompagni da persone degne di fede (l’uomo poi inoltrerà appello a Roma e otterrà l’inibitoria dalla Camera Apostolica).

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questo tipo non restano tracce per altri peccati/delitti pubblici: basti pensare alla bestemmia o all’usura. Non si sa nulla dei componenti e dei compiti della Congregazione. È probabile che ne facessero parte giudici del foro arcivescovile, capaci di fornire ai vicari generali gli elementi essenziali per decidere caso per caso, o anche ecclesiastici incaricati di svolgere il ruolo di delazione e di informazione, sgradito alla stragrande maggioranza dei parroci. Il nuovo ufficio, attivo almeno tra il 1633 e il 1641, operò con particolare intensità e accresciuta intolleranza proprio nel 1633. Il moltiplicarsi dei blitz e delle carcerazioni dei recidivi ne è solo l’aspetto più vistoso, non il più importante. L’obiettivo più urgente sembra quello di far sentire il fiato sul collo a chi ha obbedito alla Curia solo per paura o per calcolo. Vediamo come. In primo luogo, c’è una maggiore severità nel rilascio delle assoluzioni e nel ‘governo’ dei conviventi che hanno accettato l’ingiunzione di separarsi. Fino a quel momento, la sequenza di ammonizioni che culminava nella scomunica aveva consentito l’apertura di tre percorsi giudiziari: l’archiviazione, se risultava l’infondatezza dell’addebito; l’assoluzione accompagnata dal precetto, cioè dall’obbligo di non ‘conversare’, se la coppia si separava; la scomunica vera e propria, con le gravi conseguenze pubbliche che comportava, in vita e in morte, quantomeno formalmente, per chi ‘non se la levava’. Invece, con la nuova linea, una coppia di conviventi non si libera con facilità dalla pendenza giudiziaria, neppure quando il parroco ne attesta l’avvenuta separazione. Si cominciano a rilasciare con frequenza crescente assoluzioni provvisorie con divieto di frequentarsi (‘si soprassieda’, ‘si soprassieda e si osservi’, ‘si soprassieda e si ammonisca’), in attesa che la situazione si decanti, senza precise condizioni: come una spada di Damocle, una minaccia che pende40. In qualche caso queste decisioni raggiungono anche coppie scagionate da qual-

40 Vedi ASDN, Conc, 123, giugno 1633, istanze di Ippolita, moglie di Francesco de Falco, e di Bartolomeo Tizzano, citati come concubini e scagionati entrambi il 30 giugno, con due diversi attestati, dal curato di S. Giovanni Maggiore. L’uso di queste soluzioni provvisorie, documentato sin dal 1613, era stato fino a quel momento molto circoscritto (fino al 1632 sono noti dodici casi), mentre solo nel 1633 ne risultano finora quarantadue.

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siasi addebito41. Ovviamente, l’assoluzione provvisoria con il divieto di intrattenere relazioni è sistematica, quando è stata accertata la conclusione dell’esperienza proibita, anche se si tratta di donne pubbliche42. Ciò vuol dire due cose: che in caso di trasgressione la coppia ricade automaticamente nella scomunica e che i curati devono tenerla sotto stretta osservazione43. Si combatte, insomma, sul filo del tempo, si risponde alle separazioni provvisorie di molti conviventi, decise spesso per sfuggire all’infamia dei cartelli o in funzione dell’adempimento del precetto pasquale, con la stessa moneta: soluzioni a termine, commisurate alla spregiudicatezza delle tecniche di autodifesa. Rientrano in questa logica di rigore stringente varie altre novità: l’uso più disinvolto dei cartelli di scomunica, con risultati sempre più efficaci44; l’abbandono della prassi riservata, invalsa negli anni Venti, di evitare l’annotazione dei nomi delle donne maritate, con il rischio, sempre più spesso lamentato dalle interessate, che i mariti o i parenti le uccidano45; un calo evidente dei filtri dei confessori, ancor più significativo se si riflette sul fatto che nel primo Seicento migliora la loro capacità di avviare verso il Sant’Ufficio i pe41 È ciò che capita il 9 luglio del 1633 a Isabella Griffa e ad Antonio Mancino, che è il suo procuratore legale, dopo che il parroco di S. Maria della Misericordia ha chiarito l’equivoco e l’interessato ha prodotto un certificato da cui risulta la sua condizione di membro di una confraternita (ASDN, Conc, 123). 42 Vedi ASDN, Conc, 123, giugno 1633, istanza di Aniello de Martino; 21 giugno 1633, attestato del parroco di S. Maria della Carità, da cui risulta che la presunta convivente, Popa leccese, è una ‘donna di partito’; 9 luglio 1633, decreto del vicario che si soprassieda, ma con il consueto precetto (la precisazione del curato è del tutto ininfluente). 43 Ivi, marzo 1633, istanza di Biase Mugnula, che aveva avuto l’assoluzione per un mese con il precetto, era stato sorpreso con la convivente e subito scomunicato ‘con cedoloni’. 44 Ivi, novembre 1633, istanza di Tolla Baldana e Tonno Battimiello (i due vogliono sposarsi e chiedono la rimozione dei cedoloni, non l’assoluzione); ivi, marzo 1634, istanza di Cornelia Pascale e Nicola de Nufrio: il parroco dell’Annunziata a Fonseca attesta il 23 marzo che si sono separati di letto e di abitazione il giorno stesso dell’affissione dei cartelli. 45 Esempi ivi, 28 settembre 1633, istanza di Giovanna fiamminga, che teme di essere uccisa dai parenti; ivi, 8 novembre 1633, istanza di Lucio Ferrigno, citato insieme ad Antonia Tomasone, che rischia di essere ammazzata dal marito; ASDN, Conc, Miscellanee, febbraio 1637, analoga istanza di Popa Conte, citata insieme a Leonardo Genuino.

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nitenti non assolti46; l’accresciuta influenza del penitenziere maggiore della diocesi, cioè del confessore autorizzato ad assolvere dai peccati più gravi di riserva vescovile47; un rafforzamento evidente della funzione poliziesca dei parroci, che fa il paio con l’attivismo di una parte di essi sul fronte degli inconfessi48. L’icona più suggestiva di questa fase infuocata viene da un caso una volta tanto semplice, in una città così complicata. Nell’estate del 1633 Giovanni Tommaso Arcella e Angela Bolognino, raggiunti dalla scomunica e dai cartelli, si erano separati: avevano pensato in buonafede che bastasse. Non era così, ovviamente, e poco tempo dopo si videro di nuovo infamati dall’affissione dei cedoloni. A quel punto, i due fecero presente in Curia che avevano obbedito subito, che la loro storia era finita da tempo. Il parroco confermò che era vero e furono assolti col solito divieto49.

46 Mi sembra indicativo, ad esempio, che anche confratelli del Rosario, obbligati a confessarsi ogni mese dai direttori spirituali domenicani (è il caso di un Bartolomeo Tronchino, citato il 6 luglio 1633, in ASDN, Conc, 123), non chiedano loro i relativi certificati, ma si affidino al parroco. Fanno eccezione i casi di confessione in articulo mortis: vedi ASDN, Conc, Miscellanee, attestato rilasciato nel gennaio 1637 ad Annuccia Bamaltelli, una convivente poi defunta. Per i confessori napoletani e il Sant’Ufficio, vedi Romeo, L’Inquisizione, cap. III (indicazioni confermate dai dati aggiornati del fondo in Id., Il fondo Sant’Ufficio, passim). 47 Si tratta del noto trattatista Carlo Del Balzo, che tra il 1637 e il 1645 svolge anche un’importante funzione di filtro verso il Sant’Ufficio vescovile (vedi Romeo, Esorcisti, p. 153n): è lui ad attestare separazioni (lo fa il 3 aprile 1637 per Francesco Antonio Peluso e Francesca Isabella Esposito, in ASDN, Conc, Miscellanee), a seguire le pratiche matrimoniali di ex conviventi (è il caso di Ientile Cennamo e Angelica Guerrera, in ASDN, Conc, 123, maggio 1639), ad assolvere in casa donne scomunicate, su autorizzazione in deroga del vicario generale (ASDN, Conc, Miscellanee, 4-14 aprile 1641, assoluzione di Margherita d’Aniballo). 48 Vedi il risentimento con cui il parroco di S. Maria di Tutti i Santi commenta una richiesta di assoluzione su cui la Curia lo ha invitato ad effettuare controlli: l’uomo è ora in carcere e ovviamente vive separato dalla donna. Ma l’ecclesiastico è certo che, non appena sarà liberato, tornerà a vivere con lei. Lo ha ingannato una volta, osserva, non ci riuscirà la seconda: perciò esprime parere contrario all’assoluzione. I superiori gli danno ragione e invitano l’interessato a documentare congruamente la separazione (ASDN, Conc, Miscellanee, istanza di Francesco Filomarino Barbarulo, attestato del 9 marzo 1637 di don Ottavio de Idra e decreto in pari data del vicario generale). 49 ASDN, Conc, 123.

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8. Proprio la più netta caratterizzazione dell’impegno del tribunale diocesano fa risaltare meglio le resistenze e le reazioni di vario tipo della città. Un primo elemento di rilievo riguarda il ridotto numero di regolarizzazioni ottenute attraverso le procedure di scomunica: dai primi del Seicento fino al 1641 si sposano 75 coppie, mentre le citazioni sono oltre 2200, nei soli ventuno anni rappresentati in modo apprezzabile. Si accennava alle oltre 250 richieste di assoluzione presentate in questi anni, corrispondenti alle risposte date a più di un terzo delle procedure complessivamente conservate tra il 1633 e il 1641. Ebbene, il primo, importante dato che se ne può ricavare riguarda i tempi di reazione dei presunti conviventi: 99 rispondono alla prima o alla seconda citazione, o protestando la propria innocenza o dichiarando di essersi separati, ma altri 157 reagiscono solo dopo essere stati scomunicati, e solo di 9 è certo che richiesero l’assoluzione immediatamente. Inoltre, quando i dossier sono completi, è evidente che l’indifferenza all’esclusione dalla comunità continua a rimanere alta. Nel luglio-agosto 1634 nessuna delle 23 coppie scomunicate fa una piega; nel gennaio-marzo del 1638, 43 procedure su 74 approdano alla scomunica senza ulteriori sviluppi (con ogni probabilità gli interessati ‘se la tennero’) e le altre si arenano per motivi sconosciuti, non necessariamente su istanza di parte50. Rilievi non molto diversi si possono avanzare in base all’esame dei dossier conclusi con l’accertamento della convivenza e con l’obbligo di non ‘conversare’: i casi finiti con la scomunica, cioè col provvedimento più grave, sono poco meno del 60% del totale. Ma non è facile spiegare il silenzio che accompagna il restante 40% di citazioni: di molte procedure sospese è impossibile precisare l’andamento, ed è un dato che non depone certo a favore dell’efficienza del sistema di intercettazione elaborato. Perciò, in uno schema repressivo in cui anche i tempi della Curia non sono quelli di un meccanismo ad orologeria, è comprensibile che la stragrande maggioranza delle resistenze si esprima proprio nell’attesa: molti fanno finta di niente, cercano di sfruttare debolezze e sfasature del50 I tre mandati collettivi del luglio-agosto 1634 (20 luglio, 4 e 15 agosto) sono in ASDN, Conc, Miscellanee, come i dodici mandati del 1638.

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l’istituzione, tirano la corda il più possibile. Ci sono poi le scorciatoie offerte dalla stessa Chiesa: è il caso dei giubilei. Se qualcuno li sceglie come occasione di definitivo abbandono del peccato51, per altri una confessione nel tempo di grazia, seguita dalla separazione, è solo una soluzione di comodo: quanto basta per liberarsi dalla vergogna dell’esclusione, talvolta grazie alla sponda offerta da ecclesiastici misericordiosi o conniventi. È ciò che capita nell’agosto del 1636 a una donna assolta dalla scomunica dopo un attestato di separazione del parroco. Questi tace su un’assoluzione sacramentale nulla, ottenuta in occasione di un giubileo senza la preventiva risoluzione della pendenza giudiziaria52. 9. È più difficile invece ricostruire il peso delle differenze di genere, e non solo per le lacune e la ripetitività di molte procedure. Un esempio. Le istanze di assoluzione pongono in evidenza sia la scarsa coesione dei partner, che solo di rado le presentano insieme, sia la netta prevalenza delle suppliche dei maschi su quelle femminili, che tra l’altro sono quasi sempre successive. Negli anni 1633-1641 non più del 12% delle richieste proviene da entrambi i partner, e si tratta per lo più di coppie che vogliono sposarsi; il 60% riguarda i maschi, il 28% le loro conviventi. Da sole, però, queste indicazioni hanno un valore relativo e non se ne può certo dedurre una più tenace resistenza femminile. Al contrario, alcuni contraccolpi delle scomuniche, segnalati talvolta dai parroci più zelanti, fanno pensare che esse diventino 51 È il caso di Cesare Police, che nel 1639 decide di separarsi dalla convivente e di utilizzare un giubileo per sancire la sua riconciliazione con la Chiesa (vedi l’attestato del 2 aprile del parroco, in ASDN, Conc, 123). 52 Infatti di lì a poco la relazione riprese, se è vero che la donna subì un nuovo precetto e anche stavolta poté contare su un curato molto ben disposto nei suoi confronti. Egli attestò che lei viveva onestamente da un anno ‘compito’ – un dato incompatibile coi tempi della precedente disavventura – e che non sapeva di essere rimasta scomunicata, perché era convinta che bastasse il giubileo: una presentazione dei fatti quantomeno dubbia, che non spiegava come mai sia lui, sia l’ignoto confessore, si fossero astenuti dall’avvertirla che in quel caso l’assoluzione sacramentale era nulla (ASDN, Conc, Miscellanee, istanza di Diana Galante dell’agosto del 1636; ivi, 16 marzo 1637, attestato di don Pietro Antonio Calise, parroco di S. Maria della Rotonda, seguito il 31 marzo dal decreto di assoluzione).

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fonti di emarginazione soltanto per le donne: spesso sono loro, dopo la separazione forzata, ad allontanarsi ‘volontariamente’ dalla parrocchia. La condanna all’esilio prevista dal decreto tridentino non è applicata dalla Curia, ma la fuga dalla comunità parrocchiale come unica via d’uscita dalla pressione ambientale alimentata dai controlli dei curati/poliziotti è un esito ancora più grave del modello repressivo che si va consolidando. Il monopolio ecclesiastico sui concubini introduce una variabile nuova nella geografia della morale pubblica in città: alle regole dettate dalla Vicaria e affidate al controllo di capitani e complateari comincia a sovrapporsi una rete territoriale dell’intolleranza gestita dai parroci, che non coincide ovviamente con i confini delle circoscrizioni e colpisce solo le donne. Si tratta di casi isolati ma indicativi: anche lo zelo dei singoli ecclesiastici diventa un elemento di cui tener conto per la scelta delle zone dove riparare, un affanno in più per le conviventi braccate. Superfluo aggiungere che per i loro compagni non sono attestate fughe: è una presenza che non turba più di tanto i curati53. Si comprende allora come mai siano solo femminili le reazioni alla tipologia di scomunica più infamante, quella che si esprimeva attraverso l’affissione dei cedoloni, dopo essere stata pubblicizzata dal suono dei campanelli54. Si tratta di risposte d’istinto, in cui le distinzioni di genere sono nettissime, soprattutto se si confrontano con il tardo Cinquecento. Segnano il passo le reazioni, tendenzialmente maschili, alle scomuniche a sfondo civile (i cosiddetti monitori) e a quelle legate al lavoro festivo, tipiche della tumultuosa stagione postridentina, mentre si fanno più fre53 Vedi ASDN, Conc, 123, 11 dicembre 1638, attestato del parroco di S. Maria della Catena, successivo a un’istanza (non conservata) di Giovan Battista Russo, citato insieme a una Maria, donna maritata: lei è andata via dalla parrocchia, e perciò a lui, secondo l’ecclesiastico, si può dare l’assoluzione con il consueto precetto; ivi, 18 marzo 1641, attestato del parroco di S. Giuseppe sulla separazione tra Iacovo Cosentino e Anna Piscopo, che è ‘uscita’ dalla parrocchia. 54 Non ci sono rimaste moltissime tracce delle modalità di pubblicazione delle scomuniche e delle reazioni che provocavano. È certo però che non sempre, dopo il suono del campanello, il chierico leggeva i nomi degli scomunicati, prima di affiggere il cartello. Lo si vede bene proprio dal confronto tra i due casi più significativi finora affiorati, quelli esaminati qui di seguito e trascritti in Appendice, documenti 8-9.

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quenti e rabbiose le proteste delle donne che convivono. Di alcune di esse abbiamo solo notizia indiretta dalle denunce di concubinato: erano forse quelle meno gravi, che la Curia preferiva ignorare. Altre però si sono conservate tra le carte del Sant’Ufficio, risalgono proprio agli anni successivi alla svolta inaugurata dal Boncompagni e documentano le vivacissimi resistenze femminili al nuovo corso. Di solito l’affissione dei cartelli è la goccia che fa traboccare il vaso. Lo è nella più precoce testimonianza nota, che risale al 1635 e riguarda una vedova: la donna li stacca dal muro e dice che non ne fa alcun conto. L’episodio potrebbe essere stato inventato da un vicino malevolo, ma anche in questo caso si tratterebbe di una scelta nuova, nella lunga storia napoletana delle imposture55. Non ci sono dubbi, invece, sulla realtà e sull’asprezza delle reazioni femminili in due movimentati episodi capitati di lì a poco. 10. Nell’aprile del 1639 Caterina Cerqua, una tavernara, lascia appena il tempo di pubblicare la scomunica prima di scatenarsi: ascolta la scampanellata, vede il chierico affiggere il cedolone e perde subito le staffe. Esce come una furia dall’osteria, fa in mille pezzi il cartello col suo nome ed esprime urlando, davanti ai vicini, disprezzo per il cardinale, il papa e tutta la corte, nonché totale indifferenza per le scomuniche, ritenute null’altro che una burla. Quando il messo vescovile torna sui suoi passi per incarcerarla, Caterina smette di sbraitare, ma la presenza di una piccola folla di curiosi, mal disposta verso l’ecclesiastico, lo induce a ritirarsi in buon ordine. In quel caso anche i giudici, a quanto sembra, preferirono archiviare56. Non passarono invece inosservate, alcuni anni dopo, le aspre reazioni di Belluccia Penna, una diciannovenne sposa/cortigiana, alla scomunica della madre, una donna pubblica. Era il 22 luglio 55 ASDN, SU, 2550, cc. n.n., 8 agosto 1635, denuncia di Aniello Scotiero contro Livia di Maio (il sospetto di falsità è segnalato tre giorni dopo dalla moglie del denunciante). 56 ASDN, Miscellanee giudiziarie. È il chierico a segnalare immediatamente l’accaduto in Curia (cc. n.n., 30 aprile 1639, Giovanni Marino Russo). Alcune deposizioni raccolte nei giorni successivi sono trascritte in Appendice, doc. 8.

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del 1644, e nella tarda mattinata, alla Duchesca, il rumore del campanello suonato dalla scoppettella, non seguito dalla pronuncia del nome dei conviventi scomunicati, aveva suscitato solo modesti segni d’attenzione: un giovane prete aveva capito subito di che cosa si trattava e non ci aveva fatto caso, una casalinga si era avvicinata alla finestra, aveva ‘decifrato’ la scampanellata e si era rimessa a sfaccendare. Alla presenza di varie persone, tra cui la stessa Belluccia, il chierico aveva affisso il cedolone e si era allontanato. La sua decisione di non pubblicizzare anche a voce i nomi dei destinatari aveva attenuato l’impatto della cerimonia. Erano tutti analfabeti: il rituale infamante, senza il succoso complemento dell’identità dei destinatari, non suscitava particolare interesse. Ma quando uno studente di passaggio si fermò davanti al cartello e cominciò a leggere ad alta voce il nome della coppia colpita, si formò un capannello di una ventina di persone, che ‘facevano lo mormoro’, ovviamente solo sulla donna. Fu a quel punto, quando sentì nominare la madre, che Belluccia non ci vide più. Si avvicinò al muro, strappò il cartello, se ne pulì simbolicamente il sedere, lo accartocciò e lo gettò in una cantina, accompagnando i suoi atti con sprezzanti dichiarazioni sulle scomuniche e sfidando provocatoriamente i presenti ad andare a denunciarla in Curia: con cinque carlini – disse – avrebbe comprato un po’ di cera e se la sarebbe cavata. Qualcuno si scandalizzò, qualche altro la redarguì, alcuni le domandarono perché non l’aveva strappato di notte, quando non avrebbe corso rischi. Il giorno dopo, però, il prete che aveva osservato la scena la denunciò al Sant’Ufficio. Dopo la rapida audizione di cinque donne, che confermarono sia l’episodio, sia il carattere impertinente e ‘prosontuoso’ di Belluccia, la giovane finì in prigione e ci restò per oltre un mese. Nell’unico interrogatorio cui fu sottoposta si difese come poté, cercando di giustificare il suo gesto con l’esigenza di occultare al marito la vista di un cartello infamante anche per lei, oltre che per la madre. Ma l’aveva combinata davvero grossa. Non le furono utili né un attestato ‘territoriale’, sottoscritto dal capitano e da otto complateari della Duchesca, che la presentavano come una donna maritata timorosa di Dio, né il certificato di comunione in Cattedrale. Il 22 settembre gli inquisitori diocesani rispolverarono per lei una condanna usata sempre più raramente nel corso del

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Seicento: la penitenza grave pubblica. Altro che i cinque carlini di cera che Belluccia aveva sprezzantemente detto di voler pagare: dovette rimanere in chiesa per tre volte con una candela accesa in mano, nel corso della messa domenicale. Se le proteste contro l’autorità della Chiesa assumevano toni così violenti, anche il Sant’Ufficio riscopriva il volto più arcigno57. 11. Alla luce di queste reazioni, si può comprendere perché proprio negli anni roventi dell’episcopato del Boncompagni si diffonda tra le donne napoletane un conio linguistico di straordinaria vivacità, che è come il frutto di una sintetica rilettura femminile del diritto canonico: le scomuniche di fessa. Malgrado l’articolato impegno di parroci, scrivani e giudici, la caccia ai concubini è solo un modo poco riuscito di spaventare le donne, un’inutile esibizione di forza, priva dell’efficacia e dell’autorevolezza riconosciute ad altre condanne ecclesiastiche. Ridotto all’osso, quel gran lavorio consegue un solo, paradossale risultato: ridicole e disprezzate scomuniche di fessa. Ad esprimersi così per la prima volta, con l’aggiunta che lei le ‘teneva in culo’, fu nell’estate del 1639 una cortigiana calabrese, Popa Mazza. Era stata scomunicata da più di un anno, conviveva da dieci e quando fu denunciata al Sant’Ufficio aveva già un nuovo amico. L’esposto, forse frutto di inimicizia, non ebbe seguito58.

57 ASDN, SU, 2879, c.1r-v (il prete che denuncia Belluccia è don Giovan Battista Bartirone); cc. 2r-6v (le cinque deposizioni sono raccolte tra il 28 luglio e l’8 agosto 1644); cc. 7r-8v (il 21 agosto si svolge l’unico interrogatorio di Belluccia, che a quella data è già in carcere); c. 12r, 24 agosto (la donna rinunciò al riesame dei testi d’accusa); c. 13r, 2 settembre (Belluccia rinuncia anche alle difese); cc. n.n. (infine, il 22 settembre fu condannata, oltre che alla penitenza pubblica, a digiunare a pane e acqua per due mesi, tutti i venerdì); ivi, cc. n.n. (la sentenza fu eseguita subito, con una sola variazione: la terza volta B. dovette fare penitenza, anziché nel duomo, nella chiesa territoriale più vicina alla sua abitazione, cioè al luogo del misfatto, quella degli scolopi). Una delle deposizioni e l’interrogatorio di Belluccia sono qui in Appendice, doc. 9. 58 ASDN, SU, 2717, cc. n.n., 16 luglio 1639, denuncia di Giovan Battista Caccia. La procedura di scomunica contro il suo convivente (conservata in ASDN, Conc, Miscellanee), era stata avviata il 25 giugno del 1638, inserita in un mandato collettivo emesso contro sei coppie e chiusa nel mese seguente (è da essa che si deduce che l’uomo con cui ora viveva non era quello ricordato nella denuncia del 1639).

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Nel 1651, però, l’irriverente espressione fu di nuovo pronunciata da una giovane donna abbandonata dal marito e colpita ripetutamente, ma invano, dai cedoloni. Anche lei li strappò e se ne pulì il sedere, esprimendo disprezzo per chi li aveva affissi («Ancora cento scomuniche di queste e cinque tornesi dentro la sacca [tasca]», «Non è scomunica che è venuta da Roma, questo è peccato di fessa, non è niente, che haggio arrobbato qualche palazzo?») e minacciando il parroco. Stavolta gli inquisitori risposero con asprezza: la tennero in carcere per otto mesi e la condannarono alla fustigazione tutt’intorno al palazzo arcivescovile, oltre che ad abiurare un lieve sospetto d’eresia. Solo dopo oltre un anno di prigione le revocarono la pena della frusta pubblica59. Resistenze così vivaci sono però in questi anni solo una parte dell’opposizione delle coppie di fatto all’accresciuta intolleranza della Chiesa. Anche il fronte della borghesia intellettuale comincia a muoversi. Nel 1640-1641 un dottore cerca invano di ingannare il parroco di S. Sofia, prima con una separazione fittizia, poi con il trasferimento della convivente in una sua masseria: alla fine, smascherato, non trova di meglio che fare ‘una minacciata’ in chiesa all’ecclesiastico. Il sacerdote segnala l’accaduto in Curia, e la scomunica, prontamente emanata, spinge i due a chiedere l’assoluzione60. Era stata ancora più aspra, nel 1639, la reazione di un altro dottore, nel borgo di Chiaia. Sospettato di convivenza con la nutrice dei figli, mette a rumore la strada e costringe il parroco a scagionarlo, a sottoscrivere un attestato fasullo. Quando però l’ecclesiastico, pentito, avverte la Curia della violenza subìta, il potente personaggio decide di inoltrare appello a Roma61. È proprio la via legale la risposta alle scomuniche che si diffonde sempre più 59 ASDN, SU, 633a, processo a Giovanna Caso, cc. 1r-v, 3 aprile 1651, denuncia di Francesca Bonaccia, e 3r, denuncia di Giovanna Meglio (per i brani citati); cc. n.n., per il decreto del 18 dicembre 1651, commutato l’11 maggio 1652. 60 ASDN, Conc, Miscellanee, procedura avviata il 22 dicembre 1640 contro tre coppie, citazione a carico del dottor Giovan Battista Carlone e di Leonarda Galipoli. Scomunicati il 20 aprile 1641, i due furono assolti con il consueto precetto di non ‘conversare’ il 16 maggio. 61 ASDN, Conc, 123, frammento. Il fascicolo è incompleto, la coppia sospetta è formata dal dottor Andrea Stinca e da Giuditta Marzolla, il parroco è quello di S. Maria della Neve.

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nel quarto decennio del Seicento, soprattutto tra i conviventi di alto bordo, ma solo all’interno delle istituzioni ecclesiastiche: si ricorre alle autorità centrali della Chiesa, e in particolare alla Camera Apostolica, si eccepiscono vizi di forma, si possono ottenere le cosiddette inibitorie, cioè provvedimenti che impediscono al foro diocesano di ultimare la procedura avviata e lo obbligano a ricorrere a sua volta a Roma per ottenere la revoca del divieto62. Secondo l’arcivescovo, che segnalò puntualmente nel 1639 al papa le conseguenze disastrose di quella prassi, essa era il frutto del fallimento dei ricorsi al Collaterale63. 12. Con la morte precoce dell’arcivescovo ciociaro, nel 1641, si può considerare chiusa una fase cruciale della lotta al concubinato in città e in diocesi. Dopo tanti affanni la Curia napoletana poteva tirare un sospiro di sollievo. Sulle convivenze degli uomini di Chiesa lo Stato non interferiva da tempo e su quelle dei laici svolgeva limitatissime attività di controllo, tollerando le sistematiche invasioni di campo delle autorità ecclesiastiche. Ancora, sull’accezione ‘larga’ del delitto di concubinato, che gli ufficiali diocesani estendevano ormai a qualsiasi relazione extraconiugale, nessuno – né gli interessati, né il Collaterale – trovava da ridire. Infine, anche il governo delle diffuse resistenze alle scomuniche era nelle mani delle istituzioni ecclesiastiche, dal Sant’Ufficio alla Camera Apostolica. In assoluto, però, il risultato più importante raggiunto dal giovane arcivescovo era un altro. Se fino al 1626 gli interventi della Curia, pur noti al viceré e ai suoi ministri, si erano svolti come nell’ombra, senza rivendicazioni formali, l’esplicita richiesta di collaborazione avanzata dal Boncompagni alle autorità secolari aveva ufficializzato definitivamente il monopolio ecclesiastico sul concubinato dei laici. Certo, i giudici diocesani 62 I casi finora affiorati sono quattro, concentrati nell’autunno del 1636 (uno è quello ricordato supra, nota 38; un altro è in ASDN, Conc, Miscellanee, ottobre, procedura di scomunica contro don Pietro Modarra e Belluccia Maione: il 3 dicembre arriva dalla Camera Apostolica l’ordine di sospenderla; il terzo è ivi, 19 novembre, ‘inibitoria’ a nome di don Antonio Paolucci Ferrari e di Orsola Padovano; l’ultimo ancora ivi, 23 dicembre, appello di Gennaro Sebastiano e Caterina). 63 Miele, Le relazioni, relazione firmata dal Boncompagni il 15 novembre 1639. L’affermazione finora non ha trovato conferme.

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non erano riusciti ad ottenere il braccio secolare per catturare i conviventi che violavano il precetto, ma nessuno impediva loro di potenziare adeguatamente il servizio, di organizzare meglio le ronde affidate ai chierici. Rispetto a risultati così sostanziosi, il governo della Chiesa napoletana da parte del successore del Boncompagni, il cardinale Ascanio Filomarino, esponente di una prestigiosa casata nobiliare della capitale, presenta poche novità. Il suo lunghissimo episcopato (1641-1666) non è stato ancora approfondito, se si escludono il ruolo importante da lui avuto nel governo della rivolta del 1647-1648 e la discussa decisione di mettersi in salvo nella certosa di S. Martino, ai primi di luglio del 1656, quando la peste cominciò a infierire in città64. In generale, per quanto riguarda i concubini, nel nuovo arcivescovo si intravedono, insieme a un diminuito interesse, atteggiamenti meno arcigni. Nei sette sinodi celebrati nel ventennio 1642-1662 i due soli riferimenti diretti alla questione vanno in una direzione moderata: nel 1642 si dimezza il periodo di separazione, obbligatorio dal 1627 per poter ottenere l’assoluzione sacramentale (due mesi anziché quattro), e nel 1644 si precisa e si amplia la decisione precedente in una prospettiva di ‘recupero’65. Allo stesso modo, il sistema di intercettazione degli inconfessi non è oggetto di particolare attenzione: si cerca solo di ovviare alla fuga dei fedeli verso oratori privati e chiese non parrocchiali66. Inoltre il controllo delle coppie di fatto e 64 Su di lui vedi la ‘voce’ di M. Bray, in DBI, 48, Roma 1997, pp. 799-802. Sul suo ruolo nella rivolta del 1647-1648 vedi ancora Id., L’arcivescovo, il viceré, il Fedelissimo Popolo. Rapporti politici tra autorità civile e autorità ecclesiastica a Napoli dopo la rivolta del 1647-1648, in «Nuova Rivista Storica», 74, 1990, pp. 311-332, e il recentissimo, utile lavoro di S. D’Alessio, Masaniello, Roma 2007, ad indicem. Quanto alla peste, la scelta del Filomarino di trovare scampo, quando la situazione precipitò, nella certosa di S. Martino, dove sarebbe rimasto fino al 7 ottobre, mise in imbarazzo lo stesso diarista della Cattedrale. Vedi ASDN, Diari dei Cerimonieri, 4, 1651-1660, cc. 110v-111r (lo aveva fatto «per decoro della purpura»; nel dorato rifugio dava pubblica udienza ogni giorno). 65 I sinodi sono in Constitutiones... nuper in unum collectae editae et publicatae, Romae, ex typographia Reverendae Camerae Apostolicae, 1662, cc. n.n. I più importanti e innovativi mi sembrano quelli del 1642, del 1644, del 1646 e del 1658. Il sinodo del 1644 introdusse la promessa di matrimonio tra le condizioni che autorizzavano qualsiasi confessore ad assolvere dei conviventi. 66 Ivi, cc. n.n.

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degli inadempienti al precetto sembra per lui un aspetto secondario dell’azione pastorale. Nelle relazioni triennali presentate dal Filomarino al papa dal 1644 sono ben presenti temi ripetutamente affrontati nei suoi sinodi (confessione dei peccati, questioni matrimoniali, predicazione, stampa e circolazione dei libri), ma non c’è il minimo accenno ad abusi ‘minori’, come quelli consumati da conviventi more uxorio e inconfessi67. Gli stessi visitatori, d’altra parte, dedicano poco tempo al controllo dei pubblici peccatori. Un questionario molto articolato prevede che i 74 parroci della diocesi segnalino eretici, fattucchiere, simoniaci, usurai, concubini, adulteri, inconfessi, coniugi separati, persone che non rispettano il riposo festivo e proprietari di libri proibiti, ma non si sa neppure se sia stato distribuito a tutti gli interessati. Un solo parroco, quello di Trecase, consegna la lista, mentre nella capitale un suo collega segnala nominativamente una coppia di inconfessi, probabilmente conviventi. Si tratta, in ogni caso, di iniziative spontanee: nessun curato riceve domande riferibili ai temi del questionario, se si esclude un cenno fatto al parroco della cattedrale68. Tuttavia, come nella migliore tradizione della diocesi, la caccia ai concubini, nel quarto di secolo in cui Filomarino fu arcivescovo, continua più di prima. 13. Per i conviventi more uxorio non c’è tregua. L’assenza di riferimenti alla Congregazione istituita dal Boncompagni, che potrebbe essere stata sciolta, è il solo dato di un certo rilievo, ma non si può considerare come un segno di un diminuito impegno repressivo dei vertici diocesani. La continuità con gli schemi d’intervento ereditati dal predecessore è totale. Almeno dal 1650, ad esempio, è attivo in Curia uno scrivano ‘deputato per i concubinati’, che redige libri, purtroppo perduti, da cui ricava agevolmente la fedina penale dei singoli conviventi. Dal maggio del 1657, poi, le procedure di scomunica sono compilate su un facsimile a stampa: una precisa dichiarazione di intenti, un segnale inequivocabile del carattere permanente di quelle pratiche, dello Miele, Le relazioni, passim. I verbali della visita del Filomarino sono in ASDN, VP, 40-47; per la cattedrale, vedi ivi, 40, c. 3r, 22 febbraio 1643. 67 68

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spazio ordinario che esse devono occupare69. Il confronto con il trattamento degli inconfessi è istruttivo: mentre le scomuniche alle coppie di fatto piovono a centinaia, essi devono fronteggiare solo raffiche isolate, grazie all’arrivo di un nuovo, zelante vicario generale70. Per il resto, cambia poco o nulla: cenni sporadici al ruolo dei missionari e all’internamento nei Conservatori, indicativi peraltro più di una prospettiva futura che di una capacità reale di incidere sulle convivenze71; tracce di umanità in singoli curati – ad esempio qualche caso di attenzione ai figli del ‘peccato’ – restii ad immedesimarsi nel ruolo poliziesco che i nuovi meccanismi repressivi richiedono72. Anzi, la discreta quantità di suppliche conservate per alcuni anni consente di verificare che nell’episcopato del Filomarino aumenta in modo esponenziale la capacità della Curia arcivescovile di intercettare anche le prattiche, cioè le relazioni peccaminose non accompagnate da convivenza. Mentre negli anni 1637-1641 poco più del 10% delle istanze di assoluzione riguarda questi abusi, tra il 1650 e il 1655 le suppliche degli amanti e quelle dei concubini si equivalgono73. In assoluto, però, il dato più imponente viene dalla vigorosa ripresa della repressione negli anni successivi alla peste del 1656. In una città decimata, in cui, se dovessimo dare pieno credito alle stime dello stesso prelato, erano a stento sopravvissuti 100.000 abi69 Lo si ricava da ASDN, SU, 633a, cc. n.n., attestato sottoscritto da Giovanni Giacomo Cioccia. Quanto ai mandati a stampa, vedi ASDN, Conc, 123. 70 ASDN, Miscellanee giudiziarie, citazioni del 18 luglio, 24 agosto e 3 dicembre 1661, firmate dal vicario Paolo Garbinati, che era in carica dal 13 luglio 1660 (Loffredo, I Vicarii, p. 30). 71 Per l’influenza di una missione tenuta nel febbraio 1652 da padri domenicani nella parrocchia napoletana di Tutti i Santi, vedi l’attestato con cui il 3 aprile seguente il parroco scagiona Lorito di Luccio (ASDN, Conc, Miscellanee; in questo caso, tra l’altro, il certificato di un altro parroco, quello di S. Giovanni a Porta, conferma la colpevolezza dell’uomo). 72 Vedi l’attestato del curato di S. Giovanni Maggiore, che il 5 agosto del 1652 scagiona Luciano Gallinaro: non ha ‘prattica carnale’ con una Livia Nastaro, «ma ci va solo per alimentare le figliole che vi ha fatte» (ASDN, Conc, Miscellanee). 73 ASDN, Conc, elaborazione effettuata su 94 casi conservati tra il 1637 e il 1641 (solo 11 di essi sono relativi a pratiche proibite in cui non c’è coabitazione) e su 98 del periodo 1650-55 (47 sono i ricorrenti che non convivono).

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tanti su oltre 500.000, le scomuniche raggiunsero rapidamente cifre molto alte: 332 nel quinquennio 1657-1661, 487 nel quadriennio seguente. Napoli, nonostante l’inasprimento introdotto dal Boncompagni e il terrore di un’esperienza così drammatica, aveva ripreso a vivere con la libertà consueta e la Curia cercava di fronteggiare la nuova emergenza74. 14. Si può tracciare ora un primo bilancio della lotta alle famiglie di fatto a Napoli e in diocesi. A quasi un secolo di distanza dai decreti tridentini, era diventato più difficile convivere more uxorio nella più grande città italiana e, in misura molto più limitata, nel territorio che la circondava. Dopo una lunga fase di studio, la tenacia delle autorità ecclesiastiche della capitale si era imposta senza troppe difficoltà su rappresentanti dello Stato disposti a chiudere un occhio sulle loro ingerenze. Passo dopo passo, esse avevano guadagnato nel primo Seicento sia il controllo pressoché assoluto sulle famiglie di fatto, sia l’incontrastato governo delle prattiche, di qualsiasi relazione sessuale proibita. Mentre per bestemmie e poligamia la tensione rimase alta, per i concubini napoletani le regole che continuavano a valere nel viceregno (alla Chiesa gli interventi spirituali, allo Stato le punizioni) furono di fatto cancellate. Ciò non vuol dire, ovviamente, che la battaglia fosse stata vinta. Il nodo è la città, l’ingovernabile capitale che pure è al centro dell’attenzione dei vertici diocesani. Dominarla è pressoché impossibile. Le reazioni d’istinto delle donne che fanno a pezzi i cartelli infamanti, i ricorsi dei conviventi di alto bordo alla Camera Apostolica, la resistenza passiva e le contromisure di centinaia di coppie irregolari sono segnali precisi delle difficoltà e dei limiti di una lotta impari. La Curia arcivescovile continuò a combattere da sola, appoggiata freddamente da buona parte dei parroci, contro 74 Il computo demografico del Filomarino è in Miele, Le relazioni, relazione ad limina firmata dal Filomarino il 22 marzo 1659; i dati sulla lotta al concubinato sono ricavati da ASDN, Conc, e Conc, Miscellanee (prima della peste, tra il 1642 e il 1656, le scomuniche conservate sono complessivamente 533, ma nel solo biennio 1650-51 assommano a 463; il che lascia pensare a pesanti perdite e a ritmi repressivi forse ancora più sostenuti di quelli del dopo-peste). Sul tema vedi anche infra, la conclusione del VI capitolo.

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una metropoli affollata e in larga misura indisponibile a riconoscerle il diritto di interferire così pesantemente nella sua vita affettiva e sessuale. In quel duro confronto si rivelò ancora decisivo lo spauracchio dell’Inquisizione. Non è un caso se nel corso degli anni Venti circolava in città il convincimento che fosse il Sant’Ufficio a combattere i conviventi75. Non era così, ovviamente. Quando c’era bisogno, i guardiani dell’ortodossia una mano la davano, anche se l’occhio era più attento agli interessi della Chiesa che alle vite dei conviventi, ma miravano più in alto, sia a Napoli, sia a Roma: continuavano a identificare gli aspetti qualificanti della lotta ai disordini sessuali nel contenimento dei convincimenti eterodossi che spesso li accompagnavano e legittimavano. Avevano fatto così nel tardo Cinquecento, in un momento tanto più inquietante per le gerarchie ecclesiastiche, perché le idee più pericolose si annidavano proprio nel clero; proseguirono sulla stessa strada nei decenni successivi, nella fase della progressiva conquista del monopolio sui concubini da parte della Curia arcivescovile. Gli ampi spazi conquistati dai suoi ufficiali, dai parroci e dall’apposita Congregazione diocesana non eliminarono l’esigenza di continuare a scavare il terreno sotto i piedi di chi viveva una vita sessuale disordinata. Napoli restava una città difficile per la Chiesa, e malgrado l’imponente offensiva scatenata contro le coppie di fatto, non rinunciava alle suggestioni e alle idee pericolose. In modi nuovi, ecclesiastici e laici di una capitale affollata e vivacissima continuavano a giustificare e a difendere un’etica sessuale largamente difforme da quella che le autorità ecclesiastiche cercavano di imporre. 75 ASDN, SU, 2184, c. 41r, 13 gennaio 1625, costituto di Tolla Mazza; ASDN, Conc, 122, memoriale anonimo dell’agosto 1626 contro Francesco Antonio Cesare («Si supplica li signori della Sacra Congregatione della Inquisitione a volerci rimediare in modo che si disgreghino»).

VI TRA ERESIA E PECCATO: GLI AMORI PROIBITI A NAPOLI DAL PRIMO SEICENTO ALLA PESTE DEL 1656

1. Il 12 luglio 1615 una cerimonia di abiura inconsueta attirò a Roma, nella basilica di S. Maria sopra Minerva, l’intero collegio cardinalizio, molti rappresentanti della nobiltà cittadina e una grande folla. Nel corso di essa tre inquisiti revocarono ‘eresie’ sessuali pesantissime, diffuse a Napoli per parecchi anni da una presunta santa e dai suoi complici e accompagnate da pratiche altrettanto scandalose. Si trattava di un religioso appartenente alla Congregazione dei ministranti agli infermi, padre Aniello Arciero, di una sua figlia spirituale, la terziaria Giulia De Marco, e di un avvocato, Giuseppe De Vicariis. La sentenza fu pubblicata poche settimane dopo anche nella Cattedrale di Napoli, grazie a una scelta che i vertici inquisitoriali romani avevano subordinato al consenso dell’arcivescovo Carafa. Tuttavia, data l’estrema delicatezza del caso, le modalità di svolgimento della cerimonia furono suggerite nei dettagli da Roma, dal papa e dai cardinali della Congregazione. Era opportuno – si raccomandò al Carafa – che egli ne concertasse l’organizzazione insieme al Nunzio e al ministro dell’Inquisizione delegata e che fossero presenti tutti i confessori della diocesi. Inoltre, lo stesso arcivescovo avrebbe valutato se era il caso di evitare la lettura dei passaggi più scabrosi della sentenza. Erano cautele ovvie, che pure non bastarono ad impedire drammatici contraccolpi, segnalati immediatamente alla Congregazione: un uomo ammazzò la moglie, devota di suor Giulia, altre donne legate alla terziaria rischiavano di fare la

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stessa fine1. Era un epilogo doloroso e forse inevitabile, in una vicenda che aveva suscitato polemiche e clamori di ogni genere, non solo a Napoli. Non era stato facile incastrare il gruppo: condannati già nel 1609 per simulazione di santità, avevano confessato le trasgressioni più gravi, insieme a numerosi complici, solo nel corso di un secondo procedimento, aperto nell’estate del 1614. Parecchi testimoni li accusarono di aver fondato a Napoli una Congregazione dedita ad attività sessuali di ogni genere, praticate sotto il segno della santità: a lumi spenti, dopo una breve orazione in lode della ‘Carità carnale’, recitata da suor Giulia, i devoti presenti erano invitati dalla donna a congiungersi liberamente. Essi erano convinti di non commettere peccati, ma atti meritori che li univano a Dio, grazie a un dono del Signore che la terziaria trasmetteva loro: quello di vivere qualsiasi esperienza sessuale senza perdere la castità. Da Dio era venuto a suor Giulia anche il potere di indovinare i più riposti peccati degli altri. Ma nell’autunno del 1614 una realtà molto più prosaica si era delineata davanti ai cardinali del Sant’Ufficio: i tre leader avevano ammesso che la loro era una truffa ben organizzata, in cui padre Aniello e suor Giulia avevano avuto un ruolo determinante. Illuminazioni divine non ce n’erano: la presunta santa conosceva i più occulti segreti del cuore di ciascuno solo grazie alle informazioni che il religioso raccoglieva nel corso delle confessioni e le comunicava quotidianamente. Ecco un passaggio, tra i più castigati, dell’abiura della donna: [i] miei devoti e figli spirituali... per non recare confusione, li facevo dividere in più congregazioni in alcune stanze secrete della mia casa in un’ora a ciò destinata, dove, dopo una brieve orazione, che faceva loro in lode della Carità carnale, spenti i lumi, li facevo congiungere insieme, e ciò senza scrupolo d’incorrere in peccati, anzi con fare atto meritorio, ogni volta che si reiterava la copula, stante la partecipazione fatta loro del dono della castità comunicatomi da Dio, conforme mi avea detto il P.e Aniello Arciero mio confessore, il quale per mostrare 1 Amabile, Il Santo Officio, II, pp. 27-29. L’indignata ricostruzione dell’intero episodio è ivi, pp. 22-32. La preparazione della cerimonia napoletana e i suoi contraccolpi si possono leggere in Scaramella, Le lettere, pp. 437-439.

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a tutti che io ero una Santa, e che Iddio mi avea comunicato il suo lume divino, e per penetrare l’interno del cuore delle persone, mi rivelava giornalmente i peccati occulti, che li suoi penitenti li dicevano in confessione, che poi io parlando con quelli gli avvertivo de’ loro occulti difetti, e li persuadevo che l’anima mia era sempre attualmente unita con Dio2.

Ovviamente, di fronte a confessioni di questo tipo, bisogna sgombrare il campo dai dubbi sulla loro attendibilità. Possiamo essere certi che i giudici non le avessero estorte, che non si trattasse di una manifestazione autentica di santità, deformata e stravolta dagli ingranaggi spietati dell’intolleranza? L’ipotesi è stata avanzata per la prima volta parecchi anni fa: secondo uno studioso, suor Giulia e i suoi adepti sarebbero stati dei mistici perseguitati con asprezza da una Congregazione del Sant’Ufficio tesa a distruggere modelli di santità femminile laica incompatibili con i rigidi schemi agiografici della Controriforma. In funzione di quell’obiettivo, gli inquisitori generali non avrebbero esitato ad estorcere le confessioni, attraverso l’imposizione di stereotipi medievali di tipo orgiastico3. In realtà, se è vero che l’Inquisizione roAmabile, ivi, p. 28. È la linea interpretativa che permea la ‘voce’ dedicata a suor Giulia da J.M. Sallmann, in DBI, 40, Roma 1991, pp. 78-81, ed è ribadita e ampliata in Id., Naples et ses saints à l’âge baroque (1540-1750), Paris 1994, pp. 202-210. Secondo lo studioso, le altre ragioni della pesante risposta degli inquisitori generali sarebbero state di natura locale: essi avrebbero abbracciato in pieno la linea dura dei teatini napoletani (che erano preoccupati per la popolarità di una santa molto più amata della loro protetta, Orsola Benincasa), contro i gesuiti (cui suor Giulia si era appoggiata dopo la prima scaramuccia con l’Inquisizione), in una fase di accresciuto scontro politico tra Roma e Napoli. All’ipotesi di una maestra di spirito perseguitata aderiscono, senza fornire prove, P. Zito, Giulia e l’inquisitore. Simulazione di santità e misticismo nella Napoli del primo Seicento, Napoli 2000 (un libro peraltro suggestivo), e A. Malena, L’eresia dei perfetti. Inquisizione romana ed esperienze mistiche nel Seicento italiano, Roma 2003, pp. 13-17. Ben poco convincente mi sembra il contributo di E. Novi Chavarria, Un’eretica alla corte del conte di Lemos. Il caso di suor Giulia de Marco, in «Archivio storico per le province napoletane», 116, 1998, pp. 77-118 (riprodotto senza modifiche sostanziali in Ead., Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani. Secoli XVI-XVII, Milano 2004, pp. 161-201): utile per una più precisa individuazione degli ambienti napoletani vicini a suor Giulia, propone però una ricostruzione dei significati politici locali della vicenda debole e priva di adeguati supporti documentari. 2 3

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mana assunse proprio nel primo Seicento un ruolo decisivo nel controllo delle manifestazioni di santità e che esercitò con durezza i suoi nuovi poteri, non ci sono prove per sostenere che spregiudicati meccanismi giudiziari abbiano caratterizzato il processo del 1614-1615 a suor Giulia4. Rispetto a un’ipotesi così aerea, parecchie nuove fonti fanno sembrare più accettabili, nelle linee di fondo, le conclusioni cui era giunta la storiografia napoletana del Novecento. Esse avevano liquidato la vicenda come un esempio di ciarlataneria prosperata tra le pieghe di un cattolicesimo troppo incline a dare credito a forme di devozione equivoche, malsane5. Oggi il loro acre moralismo può far sorridere, ma i costumi della città, i frammenti del caso di suor Giulia conservati nell’archivio centrale dell’Inquisizione romana e i confronti con numerosi altri episodi non meno scottanti, capitati negli stessi anni, invitano ancora una volta ad allargare lo sguardo dall’albero alla foresta: da un caso eclatante alla fisionomia abituale delle ‘eresie’ sessuali nell’Italia del primo Seicento6. 2. Un primo approfondimento riguarda le dinamiche giudiziarie. Sulla base dei decreti del Sant’Ufficio, l’ipotesi di una mon4 Per la più recente storiografia relativa al governo della santità nell’Italia del Cinque/Seicento, vedi almeno M. Gotor, I beati del papa. Santità, Inquisizione e obbedienza in età moderna, Firenze 2002, e Id., Chiesa e santità nell’Italia moderna, Roma-Bari 2004. Quanto ai processi a suor Giulia, i miei rilievi poggiano sullo spoglio sistematico dei decreti della Congregazione tra il 1606 e il 1616 (in ACDF, DSO, ad annum), e sul materiale pubblicato da Scaramella, Le lettere, pp. 437-440, 448: in mancanza degli atti giudiziari completi, sono la più importante traccia finora disponibile per ricostruire le dinamiche repressive e le strategie del Sant’Ufficio. In questa sede, peraltro, non posso analizzarli dettagliatamente, per ragioni di spazio. 5 Sulla scorta delle pagine indignate di L. Amabile: vedi ad esempio V. Spampanato, Sulla soglia del Seicento. Studi su Bruno, Campanella ed altri, Napoli 1926, pp. 211-218, e Croce, Aneddoti, II, pp. 134-135. 6 La mia ricostruzione poggia sullo spoglio sistematico di ACDF, DSO (dalla metà del Cinquecento fino al 1633), sui sondaggi quinquennali effettuati fino al 1650 nella stessa serie, sullo studio integrale della documentazione inquisitoriale napoletana (in ASDN) e pisana (nel fondo Inquisizione del locale Archivio arcivescovile), e su un’ampia selezione di fonti inquisitoriali modenesi (nel fondo Inquisizione del locale Archivio di Stato) e udinesi (nella serie conservata nell’Archivio della Curia arcivescovile locale).

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tatura costruita a freddo a danno di un gruppo di mistici è oggi difficilmente sostenibile. Anche nel secondo processo i contenuti e i toni delle decisioni adottate dagli inquisitori generali nei confronti dei tre ‘capi’ della conventicola sono in linea con gli standard repressivi applicati dall’Inquisizione romana a trasgressioni di tale gravità. Se c’è in esse qualcosa di atipico, dipende dallo straordinario credito di cui godono i leader del gruppo. La fama di santità della donna era diffusissima, a tutti i livelli: travalicava ampiamente i confini della città e coinvolgeva il viceré, i suoi ministri, il fior fiore dell’aristocrazia e un bel po’ di religiosi, prelati e cardinali. Il caso dei contatti di Federico Borromeo con suor Giulia non è l’unico, è solo il più eclatante. Fin dalle battute iniziali del primo processo i cardinali del Sant’Ufficio e il papa sono consapevoli di questa situazione e misurano attentamente i propri passi. Ad esempio, aderiscono di buon grado, già nel febbraio del 1608, alla proposta del ministro dell’Inquisizione napoletana di rinunciare alla carcerazione di padre Arciero, troppo pericolosa, e di aggirare l’ostacolo, facendolo convocare a Roma dai superiori7. Negli stessi mesi è ancor più difficoltosa l’adozione di provvedimenti a carico di suor Giulia. La reclusione in un monastero della città è l’unica restrizione che i cardinali del Sant’Ufficio riescono ad imporle. Inoltre, ogni intervento giudiziario che la coinvolge è calibrato con molta cautela, specialmente quando sono chiamati a testimoniare nobili e donne8. Queste scelte prudenti non impediscono agli inquisitori generali di adottare alla fine del primo processo misure punitive adeguate. Esilio dal regno, confinamento in un monastero romano, sospensione dalla confessione e divieto di accedere a cariche di governo nel suo Ordine sono il pesante fardello che grava su paACDF, DSO, 1608, p. 68, seduta di f. V del 7 febbraio. Ivi, pp. 339, seduta di f. V del 7 agosto 1608, e 360, seduta di f. V del 21 agosto 1608. Il 3 giugno (ivi, seduta di f. III, p. 234) i cardinali avevano deciso di domandare al ministro Gentile se riteneva opportuno condurre suor Giulia a Roma, ma la risposta dovette essere negativa. Allo stesso modo, quando anche la donna chiese di essere esaminata a Roma, per accelerare la conclusione della causa, fu ancora il ministro ad opporsi (ivi, pp. 254, 274, sedute di f. IV del 18 giugno e del 2 luglio 1608). 7 8

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dre Aniello; la relegazione in un monastero di Cerreto Sannita è la drastica soluzione prescelta per la donna. L’avvocato De Vicariis è citato rapidamente solo nel decreto di condanna, come destinatario di un precetto (quello di consegnare scritti sulla presunta santa) e dell’obbligo di adempire penitenze salutari gravi. Non risulta neppure che sia stato sottoposto a un processo formale9. Insomma, fino alla condanna del 1609 la vicenda di suor Giulia è essenzialmente la storia del suo rapporto con un confessore imprudente o esaltato. L’unico obiettivo dei giudici sembra quello di impedire che quel legame si riannodi: una strategia processuale ordinaria, di fronte a una storia di simulazione nata, come tante altre, all’ombra del confessionale. Anche per questa ragione, nel lungo intervallo che separa la prima condanna dall’inizio del secondo processo, la Congregazione mostra una certa disponibilità ad ammorbidire le punizioni inflitte al religioso e alla terziaria. Un solo limite sembra invalicabile: i due non si devono più incontrare. Così a lui fu revocato abbastanza presto il divieto assoluto di confessare, mentre l’attivissima madre di suor Giulia, sostenuta con forza dagli Eletti della città di Napoli, vide accolte, sia pur più faticosamente, le pressanti istanze di trasferimento della figlia, motivate dall’aria nociva di Cerreto. Fu così che nell’autunno del 1611 la presunta santa poté tornare nella metropoli dove aveva costruito la sua fama10. Il resto lo fece il ministro del Sant’Ufficio nel regno, quel vescovo di Nocera che ebbe un ruolo decisivo nel favorire la circolazione di rinnovati entusiasmi religiosi attorno alla donna. Un po’ perché legato da vincoli di parentela all’avvocato De Vicariis, un po’ perché convinto sostenitore dei carismi di suor Giulia, egli smorzò sistematicamente i perduranti sospetti ro9 ACDF, DSO, 1608-1609, II parte, cc. 429v-430r, seduta di f. V del 27 agosto 1609. Non ci sono riferimenti al De Vicariis nelle sedute della Congregazione che precedono il decreto finale di condanna. 10 Per Arciero vedi ACDF, DSO, 1612, p. 110, seduta di f. V dell’8 marzo (su richiesta del cardinale protettore dei ministranti agli infermi è autorizzato di nuovo a confessare, sia pure con precise restrizioni). Nel 1610 era stato abilitato all’incarico di Maestro dei novizi del suo Ordine, grazie a un attestato favorevole dello stesso cardinale protettore (ACDF, DSO, 1610, pp. 175-176, seduta di f. IV del 28 aprile). Per suor Giulia, vedi ACDF, DSO, 1610-1611, ad indicem.

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mani11. Fu anche grazie al suo lavoro di copertura che per due anni e mezzo le attività della Congregazione della Carità carnale poterono continuare indisturbate. La sorte del gruppo si decise con ogni probabilità a Napoli. La denuncia che segnalò le sue pratiche audaci, quella che condusse alla scelta di processare i tre leader a Roma, maturò tra i teatini napoletani e colse di sorpresa i cardinali del Sant’Ufficio, che ne furono impressionati. Il verbale della seduta in cui presero atto, attraverso gli scottanti documenti napoletani, dei nuovi, sconvolgenti sviluppi di quella vecchia storia, tradisce un’inquietudine profonda, una fortissima preoccupazione12. Anche questi aspetti rendono problematica l’ipotesi che essi avessero potuto fornire a qualche teatino napoletano, al Nunzio o al ministro dell’Inquisizione delegata gli spunti necessari per costruire un quadro accusatorio così dettagliato e pesante e per farlo ripetere a testimoni di comodo. Tra l’altro, di fronte a un caso di enorme gravità, i cardinali del Sant’Ufficio e il papa dovettero destreggiarsi abilmente tra le rimostranze del viceré e l’attivismo dei troppi giudici ecclesiastici che a Napoli sgomitavano per seguire le appendici locali del processo romano. Costruire una montatura giudiziaria in condizioni così difficili sembra quantomeno improbabile13. Infine, anche la condanna che chiuse il processo – abiura pubblica e carcere perpetuo – fu il frutto dell’applicazione rigorosa delle regole fissate dall’Inquisizione romana per gli eretici pentiti. Rispetto alla prassi ordinaria dei suoi giudici, che erano soliti scarcerare presto i condannati al carcere perpetuo, la sola differenza apprezzabile che si osserva nel caso di suor Giulia e dei suoi complici riguarda la du-

11 Le lettere che egli indirizza agli inquisitori generali, tutte tese ad accreditare la vita ritirata e devota della donna, ne sono una prova abbastanza esplicita: vedi ad esempio ACDF, DSO, 1613, p. 345, seduta di f. V del 18 luglio (si dà conto di una sua relazione favorevole al modo di vivere di suor Giulia) e pp. 371372, seduta di f. V del 1° agosto (malgrado una lettera in cui il ministro conferma la sua vita isolata, il papa ordina di continuare ad osservarla). 12 ACDF, DSO, 1614, pp. 397-398, seduta di f. V del 14 agosto. 13 È quanto risulta dai verbali delle numerose sedute romane dedicate al caso (alla fine, sembra che l’interlocutore privilegiato degli inquisitori generali sia stato il Nunzio apostolico: vedi ACDF, DSO, 1614 e DSO, 1615, ad indicem).

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rata della detenzione: non ci furono grazie, i tre rimasero in carcere fino alla morte14. 3. Un elemento di valutazione ancor più importante viene dalle ‘eresie’ sessuali di questi anni, dai loro stretti legami con il confessionale. La scandalosa storia di suor Giulia e della sua Congregazione, che fu per molti anni punto di riferimento per altri ‘circoli’ religiosi a Napoli e nel regno, non è isolata. Vi si rispecchia nel modo più eclatante quell’ampio processo di trasferimento delle pulsioni sessuali sotto l’egida della religione che appare ovunque in Italia uno dei contrassegni più caratteristici del Seicento. Il terreno di coltura abituale di questi intrecci è negli ambigui sviluppi di una pratica della confessione piegata ossessivamente al controllo delle donne e della loro sessualità. Governarle o riportarle all’ordine non era facile, soprattutto per sacerdoti costretti in prima persona a reprimere o a vivere di nascosto esperienze che avevano praticato per secoli alla luce del sole, in famiglie normali, arricchite spesso dalla presenza di figli. Nel 1622, la trasformazione definitiva dell’adescamento in confessione in un delitto che violava l’ortodossia – e rientrava perciò tra le competenze dell’Inquisizione – e l’inasprimento delle pene per i colpevoli sono uno specchio di queste contraddizioni. Da allora, i processi ai preti adescatori si moltiplicarono anche in Italia, ma tra mille difficoltà. Quando trasgressioni piuttosto diffuse erano punite come delitti contro la fede, bisognava adottare precise contromisure, per evitare danni all’immagine del clero e per non allontanare i fedeli da un sacramento tradizionalmente malvisto15. Eppure, malgrado contraccolpi così pesanti, si ritenne fruttuoso rafforzare il modello di confessione dei peccati che alimentava quelle distorsioni. Lo avevano elaborato i gesuiti, tra molte resistenze, verso la metà del Cinquecento, poco dopo lo fecero proprio i teatini e gli Ordini religiosi più autorevoli, nel giro di qualche decennio si diffuse in tutta la Chiesa e modificò profon14 Per la consuetudine dell’Inquisizione romana di liberare presto i condannati al carcere perpetuo, vedi J. Tedeschi, Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana, Milano 1997, pp. 114-115. 15 Vedi Romeo, Esorcisti, pp. 163-197, e Id., L’Inquisizione, pp. 74-77, 9899.

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damente la pratica del sacramento. In un Occidente in cui tradizionalmente ci si confessava poco, e per lo più a preti sconosciuti, e a stento si rispettava l’obbligo annuale, la proposta gesuita era rivoluzionaria: bisognava confessarsi spesso e con una preparazione adeguata a sacerdoti ben addestrati, possibilmente a direttori spirituali, capaci di governare con mano sicura le coscienze. L’amministrazione del sacramento si collocava stabilmente nella vita di tutti i giorni, contribuiva a costruire rapporti più ravvicinati e personali con i penitenti, e in particolare con le penitenti. Fu grazie a quella rivoluzione che in ogni angolo dell’Europa cattolica il confessore diventò – per un numero crescente di donne di ogni condizione sociale – catechista, maestro, medico, senza rinunciare al suo ruolo di giudice, a un’impostazione fortemente autoritaria e a un’attenzione mirata al controllo della sessualità femminile. Nel difficile dosaggio di ruoli così diversi, era pressoché inevitabile che tra ecclesiastici costretti a un più rigoroso rispetto dell’obbligo del celibato e donne che li scoprivano come giudici, ma spesso anche come uomini affabili e affettuosi, si sviluppassero relazioni proibite, accompagnate talvolta da precise giustificazioni dottrinali. È in questo orizzonte che nell’Italia del primo Seicento ai ‘normali’ processi di adescamento, finiti davanti all’Inquisizione in base al ‘semplice’ abuso del sacramento della penitenza, se ne affiancano altri, ben più gravi. Sono quelli in cui i contatti sessuali intercorsi tra sacerdoti e donne nel corso delle confessioni sacramentali si presentano non come il frutto di umane debolezze, ma come espressione di esigenze religiose profonde o di vere e proprie ‘eresie’ sessuali. Purtroppo, buona parte di queste storie è documentata poco e male16. Mancano i verbali processuali, cioè le fonti più preziose: ne possiamo intravedere i percorsi solo dai decreti degli inquisitori generali e dai toni insolitamente preoccupati che spesso ne caratterizzano gli interventi. Ma alcune linee di tendenza sono chiare. Nel primo Seicento l’adescamento in confessione, anche nelle sue dimensioni ordinarie, diventa il solo ‘nuovo’ delitto contro la fede su cui la Congregazione del Sant’Uf16 La più clamorosa, quella del gruppo di sedicenti mistici fiorentini legati al canonico Ricasoli, puniti duramente nel 1641, attende ancora una moderna ricostruzione: vedi l’accenno di Malena, L’eresia, pp. 17-18.

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ficio reclama il diritto di essere sempre informata e di dire l’ultima parola17; gesuiti e teatini sembrano i responsabili delle teorizzazioni dottrinali più audaci, ma non sono certo i soli18; le relazioni proibite maturate all’ombra del confessionale cominciano a collegarsi a manifestazioni di presunta santità19. Tra i pochi processi di questo tipo arrivati fino a noi, uno riguarda ancora una volta Napoli, ed è un ottimo banco di prova per verificare come stavano evolvendo le ‘eresie’ sessuali in città20. 4. Santa Vecchione era una giovane terziaria di origine nolana, arrivata a Napoli nel 1620, a quattordici anni, forse per lavorare come cameriera. Di lei si sa molto poco. Viveva sola, nelle case signorili presso cui serviva, e aveva rare amicizie femminili. Dopo aver affidato la sua coscienza a un primo confessore, lo aveva cambiato a ventitré anni, quando si era affidata alla guida spirituale di padre Romolo De Mario, un oratoriano. Una vita aspra, fatta di apprendistato prima e di duro lavoro dopo, di solitudine e di difficili rapporti con le padrone di casa21. Affetto e protezione, non a caso, sono le parole con cui la giovane donna sintetizza la fase iniziale del rapporto con il secondo padre spirituale. Egli stesso, nel cercare una difficile linea di difesa, dichiarò ai giudici che era 17 Vedi ad esempio i toni preoccupati del verbale conservato in ACDF, DSO, 1621, seduta di f. VI del 18 giugno. 18 L’esempio più drammatico, per i gesuiti, è l’adescamento ‘ereticale’ addebitato a padre Giovan Battista Bertazzoli, morto in carcere a Milano nell’agosto del 1605 (ACDF, DSO, 1605, p. 828, seduta di f. V del 1° settembre; ma tra il 1604 e il 1605 i riferimenti alla vicenda sono moltissimi, anche dopo la morte del Bertazzoli, perché finirono sotto processo anche le sue penitenti e ci furono pesanti conseguenze per la stessa Compagnia di Gesù). Colpiscono anche i preoccupati accenni ai processi genovesi di un prete secolare, Bartolomeo Sobrero, e di un teatino, padre Pietro Francesco Ruvinaggia (in ACDF, DSO, 1617 e 1618, ad indicem; entrambi i casi meriterebbero adeguati approfondimenti; un accenno al secondo è in S. Pagano, Denunce e carcerazione al S. Offizio del P. Bartolomeo Gavanti «In suspicionem vir tantus venerit», in «Barnabiti Studi», 2, 1985, pp. 87-111). 19 Vedi la vicenda pugliese ricordata in ACDF, DSO, 1629, cc. 64v-65r, seduta di f. IV del 4 aprile. 20 ASDN, SU, 2485, processo a don Romolo De Mario. 21 Ivi, cc. 1r-2v, denuncia di Santa Vecchione, raccolta il 19 aprile 1634 da padre Marco Paolozzi, su autorizzazione del vicario generale; ma su di lei sono utili anche i cenni del De Mario (ivi, c. 11v, costituto del 31 gennaio 1643). Una parziale riproduzione della denuncia della donna è qui in Appendice, doc. 7.

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dotato di un temperamento ‘amorevole’, propenso ai gesti d’affetto e alle parole dolci22. Conquistata la fiducia di Santa, padre Romolo aveva cominciato ‘covertamente’ a passare alle vie di fatto: dalla richiesta di mostrargli i seni a quella di fargli vedere e toccare i genitali, la prima accolta ‘semplicemente’, la seconda con molto disagio23. Quest’ultima ‘prova’ fu motivata dal religioso con esigenze professionali: aveva bisogno della singolare verifica, disse, per poter risolvere casi di coscienza difficili, che gli capitavano quotidianamente in confessione. Dopo i primi approcci, contatti sessuali di vario tipo erano diventati la norma e il padre spirituale aveva avanzato richieste ancora più morbose24. Nel frattempo, le aveva anche imposto un voto di obbedienza: se confidava i suoi peccati ad altri confessori, doveva osservare un assoluto silenzio sui loro rapporti. Con lui, ovviamente, non era il caso di accusarsene, dichiarò la donna, sia perché sapeva già tutto, sia perché non potevano essere atti peccaminosi, visto che l’iniziativa era stata assunta proprio da chi avrebbe dovuto giudicarla nel foro della coscienza. Così, sia pur in modo tortuoso e con parecchi dubbi, Santa era arrivata alla conclusione che quei contatti erano legittimi25. L’equilibrio durò un paio d’anni e si spezzò, come quello di una qualsiasi storia d’amore, soprattutto per la gelosia della giovane. Padre Romolo si mostrava più affettuoso verso un’altra penitente, da cui aveva preteso lo stesso voto di obbedienza imposto a Santa; in più, però, si era anche impegnato a non lasciarla mai. Le due amiche si erano confidate e la cosa aveva raffreddato i loro rapporti, oltre a suscitare le più aspre rimostranze del religioso. Quando, di lì a poco, sopravvenne l’indizione di un giubileo pubblicato nella settimana santa, Santa decise di vuotare il sacco. Tornò dal primo padre spirituale e gli rivelò l’accaduto. Dubitava, gli confidò, di ‘non star bene di coscienza’; stava pensanNel costituto cit. (ivi, c. 11r). Ivi, c. 1r-v, denuncia di Santa Vecchione. 24 Una volta aveva preteso che lei si denudasse nella sua stanza, per poterla vedere dalla cella; le chiedeva sempre di dire oscenità durante la confessione (ivi, c. 1v). 25 Ivi, c. 1v, denuncia cit. 22 23

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do anche di andarsene per sempre da Napoli, da una città dove non si era sicuri di avere buoni confessori. Alla fine, la sola prospettiva che le rimaneva, dopo due anni di indefinibili esperienze sessuali vissute nel segreto, era l’esilio volontario: più o meno, la stessa soluzione che sperimentavano le conviventi infamate dai cartelli di scomunica26. Sul momento la sua segnalazione non ebbe alcun esito, perché rimase isolata: per un delitto così grave, le regole dell’Inquisizione romana contemplavano in quegli anni l’obbligo di raccogliere almeno due diverse denunce, prima di procedere. Così per un bel po’ di tempo padre Romolo continuò a confessare, anche se forse i rapporti con Santa e le sue amiche si guastarono27, e poté raggiungere un obiettivo che non era da tutti: guidare spiritualmente monasteri femminili. Lì la sua natura espansiva e le sue debolezze trovarono spazi enormi. Fin dall’inizio, infatti, suggerì alle religiose che solo l’affetto per il confessore rendeva fruttuosa l’amministrazione del sacramento. Lo pretendeva perciò da tutte, incontrando consensi, ma anche forti resistenze. Ormai s’ispirava apertamente, per le confidenze scambiate con le penitenti, a san Filippo Neri, l’uomo di Dio che aveva fondato la sua Congregazione. Non aveva tutti i torti. Tra i carismi che erano valsi al celebre fiorentino una rapida canonizzazione spiccavano episodi clamorosi: nel 1593, ad esempio, aveva liberato una penitente tormentata dai diavoli, tenendo per un quarto d’ora la mano sul suo seno nudo, in chiesa, davanti a testimoni28. L’eccessiva leggerezza, le ostilità di alcune religiose e l’attenzione di tutti gli arcivescovi del tempo per il governo dei monasteri femminili lo rovinarono. Per espressa volontà del Filomarino, che la coordinò di persona, l’indagine fu rapida ed efficiente: non appena arrivò la denuncia di una monaca, fu rispolverata quella di Santa, e la lunga carriera di padre Romolo si interruppe bruscamente: fu incarcerato, d’intesa con la Congregazione del Sant’Ufficio, e subì i primi interrogatori. Pochi mesi dopo, però, forti pressioni sul papa e sugli inquisitori generali, esercitate con Ivi, c. 2r, denuncia cit. Lo ricorda egli stesso, ivi, c. 11r-v, costituto cit. 28 Ivi, c. 7r, deposizione del 27 dicembre 1642 di suor Felicia Ristalda. Per l’episodio del 1593, vedi Romeo, Esorcisti, pp. 189-190. 26 27

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ogni probabilità dalle autorità del suo Ordine, li convinsero a proseguire il processo a Roma: dietro versamento di una cauzione di mille ducati, e con l’accompagnamento discreto di due scoppettelle, il religioso fu obbligato a partire immediatamente da Napoli e a consegnarsi al Commissario generale del Sant’Ufficio. Se adescare donne in confessione per umana debolezza era un delitto gravissimo, farlo con le spose di Cristo e richiamare, a supporto dei propri abusi, l’esperienza di un santo come Filippo Neri, era davvero troppo29. 5. Visti dalla parte dei conviventi napoletani bersagliati, questi scenari erano, con ogni probabilità, largamente familiari. Gli insistenti controlli di confessori e inquisitori sulla sessualità femminile rientravano nella stessa logica della pioggia di scomuniche che li stava raggiungendo. In questo quadro di crescente rigorismo anche suor Giulia si avvia a simboleggiare una lotta per la libertà sessuale che non le appartenne in alcun modo. Il ricordo della sua presunta santità comincia ad appannarsi: nel 1638, ad esempio, uno scultore napoletano la cita soltanto come l’eretica che aveva sostenuto la liceità di liberi rapporti sessuali tra uomo e donna. Erano, come si è visto, anni particolarmente caldi per i conviventi della città30. In generale, poi, nel primo Seicento aumentano i giudizi negativi sulle coppie di fatto in quanto tali. Le raffiche di scomuniche non hanno effetti sconvolgenti su molti dei diretti interessati, ma incidono sempre più sulla loro immagine. Se ancora agli inizi del secolo si possono incontrare tracce isolate, ma precise, del pragmatismo tradizionale, che valutava il comportamento complessivo dei conviventi, non la scelta trasgressiva compiuta (con rilievi del tipo: peccano, ma fanno vita cristiana, convivono, ma con discrezione31), ne29 ASDN, SU, 2485, cc. 3r-10v, 27 dicembre 1642-4 febbraio 1643 (sono le denunce e le deposizioni, affidate dal Filomarino a un oratoriano); cc. 11r-16v (costituti del 31 gennaio e del 10 febbraio 1643); ivi, cc. n.n. (il 17 gennaio il cardinale Barberini aveva autorizzato il Filomarino a procedere); ivi, cc. n.n. (il 23 maggio ci fu l’avocazione). 30 ASDN, SU, 2663, c. 7r, deposizione del 31 agosto 1638 di Giovanni Antonio Amatuccio. 31 Si veda come un uomo motiva nel 1610 la decisione di dare in fitto un ap-

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gli stessi anni cominciano a diffondersi – e poi prevalgono nettamente – atteggiamenti più rigidi. Risale al 1607, ad esempio, la più precoce testimonianza di una reazione di intolleranza ‘pura’ alla Duchesca, che tra l’altro era una zona tra le più malfamate della città: una coppia di inquilini chiede lo sfratto di due vicini appena arrivati, che si erano presentati come parenti, non appena li vede nudi nel letto32. Si modifica anche il linguaggio: l’egemonia, fino a quel momento pressoché incontrastata, di ’nnammecate comincia a incrinarsi a vantaggio di concubini, e non solo nelle relazioni dei parroci33. Nel 1625, ad esempio, si incontra anche l’inedita espressione ‘fattucchiara e concubinaria’, al posto del classico ‘puttana e fattucchiara’, che peraltro resisterà a lungo34. Tuttavia, a questi elementi se ne accompagnano altri di segno piuttosto diverso. In primo luogo, la forte criminalizzazione delle convivenze non implica un appiattimento della loro tradizionale identità. Persiste, ad esempio, non solo tra le cortigiane, la netta consapevolezza della differenza tra meretricio e concubinato. Mangiare insieme, dormire insieme, ma anche, da parte dell’uomo, pagare l’affitto e le spese del ménage, restano a lungo i contrassegni specifici di un tipo di rapporto che non ha nulla a che vedere con la prostituzione35. Forse i conviventi colpiti erano paradossalmente rafforzati proprio dalle scomuniche a ripetizione, dalla consapevolezza di essere in tanti: i provvedimenti di routine perdevano forza, rischiavano di diventare scontate e inutili esibizioni di autoritarismo. Si è già accennato all’uso non generalizzato dei cartelli infamanti, una scelta obbligata per i vertici diocesani, se non si volevano scatenare troppe tensioni in una città che non ne aveva certo bisogno. Non è la sola traccia dell’attenta gestione politica dell’accresciuta intolleranza contro le coppie di fatto. Altri calcolati partamento a una coppia di conviventi: «lei era donna retirata, che haveva prattica carnale solamente con detto Iacovo Antonio, del che mi contentai» (ASDN, SU, 1715, c. 8r, 19 febbraio 1610, deposizione di Cesare de Alois). 32 ASDN, SU, 1457, c. 198r, 11 gennaio 1607, deposizione di Carlo Migri. 33 ASDN, SU, 1898, c. 17v, 30 settembre 1615, costituto di Soprana de Pinto. 34 ASDN, SU, 2241, c. 2r, 11 ottobre 1625, deposizione di Francesco Severo de Maria. 35 ASDN, SU, 1898, c. 17v, 30 settembre 1615, costituto di Soprana de Pinto.

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atteggiamenti di rinuncia alle conseguenze più pesanti che quelle procedure di esclusione, come tutte le altre, avrebbero dovuto comportare, si incontrano nei confessori e nei parroci. Formalmente, chi era indifferente alle scomuniche e ‘se le teneva’ rischiava in primo luogo il rifiuto della sepoltura cristiana e l’abbandono del suo cadavere fuori le mura, in terra sconsacrata. Anche da vivo, però, doveva pagare un prezzo: bisognava vietargli l’ingresso in chiesa, fargli sentire addosso ogni giorno il peso della sua scelta ostinata. Di fatto, però, l’applicazione rigorosa delle regole fu amministrata politicamente, restò vincolata alla natura delle trasgressioni che avevano condotto alla scomunica. E tra le più minacciose per le istituzioni ecclesiastiche non figura certo il concubinato. Non è un caso se tra Cinque e Settecento, a fronte di qualche migliaio di coppie incallite nel peccato, non si incontrano mai cenni al rifiuto della sepoltura. Ci pensava con ogni probabilità, nell’imminenza della fine, o anche dopo, la pietà dei confessori o dei parroci. Non con tutti gli ostinati o i ‘lontani’, s’intende. Il confronto con la sorte dei condannati a morte per crimini comuni e dei ricoverati in ospedale restii a confessarsi o a pentirsi è istruttivo. Agli irriducibili vicini alla fine gli ecclesiastici della Controriforma riservano un trattamento di inaudito rigore: li fanno torturare col fuoco, senza troppi indugi, ancora nel tardo Seicento, a Napoli e altrove. Sono pratiche utilizzate ordinariamente nelle cerimonie di esecuzione capitale, ma in qualche caso anche nelle camerate dei luoghi di cura36. Fu così che morì atrocemente, nel 1687, uno spagnolo ricoverato nell’ospedale di S. Giacomo. Il suo imperdonabile errore fu di aver rivelato ai confessori che lo avviavano a ‘ben morire’, dopo una vita vissuta in gran segreto da finto convertito, di essere ebreo e di voler morire ebreo: pensava, nelle sue condizioni, di non aver più nulla da temere. Sbagliava: pur di salvargli l’anima, i due padri spirituali non esitarono a far venire un gran brascerone di fuoco e per forza gli fecero ponere la mano sopra di quello; ma lui con grand’ostinazione soffrì il martirio, e se ne 36

Vedi Romeo, Aspettando il boia, capitoli VI e VII.

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morì mezzo brugiato nella sua perversa lege, onde fu mandato a sepelire al ponte della Madalena37.

Con i conviventi ostinati non si arrivò a tanto, neanche in vita. Ad esempio, se, continuando a persistere nel peccato e a ‘tenersi’ le scomuniche, ascoltavano la messa o una predica, si chiudeva un occhio, si preferiva farli rimanere in chiesa. Non certo perché l’indifferenza che molti di essi mostravano verso la condanna subìta non fosse ritenuta grave – i loro erano pur sempre i comportamenti quotidiani più controllati e più puniti dalla Curia arcivescovile –, ma forse erano talmente tanti che sarebbe stato problematico interrompere le funzioni religiose per espellerli e gestirne le prevedibili resistenze. Altro era invece il caso di chi era stato escluso dalla comunione ecclesiale per atti ritenuti lesivi degli interessi o dei diritti del clero: lì non c’erano deroghe, il rigore della normativa si faceva rispettare. È quanto si osserva in una preziosa testimonianza inquisitoriale. Nel 1653 una donna è invitata ad uscire dalla chiesa per una scomunica subìta a seguito di una mancanza a suo avviso molto meno grave del concubinato: non si era presentata a deporre in un processo a carico del feritore di un prete. La sua reazione è rabbiosa. Era troppo per lei vedersi infamata così, davanti ad amici e conoscenti, nel corso della messa, solo perché la Chiesa doveva tutelare gli interessi del clero, mentre quella vergogna era risparmiata a concubine e meretrici. Lo rinfacciò in chiesa al sacerdote, lo ripeté furiosamente a una vicina, con le solite, pesanti espressioni di disprezzo: diceva che vi erano donne concubinate e stavano nel peccato e non sono cacciate dalla chiesa et io sono cacciata per cosa di niente. Et soggiunse: Ma io con tutto questo tengo in culo la scommunica e dimane me la levo38.

6. Si presentava ancora complicata, infine, la battaglia più importante, quella che il Sant’Ufficio stava combattendo da tempo 37 D. Confuorto, Giornali di Napoli dal MDCLXXIX al MDCIC, a cura di N. Nicolini, I, MDCLXXIX-MDCXCI, Napoli 1930, p. 179. 38 ASDN, SU, carte non inventariate, 1653, denuncia contro Marta Novello.

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sul piano delle idee, contro i radicati convincimenti che spesso alimentavano la disordinata vita sessuale della città. Certo, alcuni successi sono innegabili: l’intensa attività di interdizione svolta nel tardo Cinquecento cancellò gli atteggiamenti più oltranzisti e ricondusse una larga parte del clero e del laicato a più miti consigli. Idee e pratiche fortemente trasgressive come quelle che caratterizzavano l’audace accademia di frati, chierici e adolescenti sradicata nel 1591 sono molto meno diffuse. In una documentazione ricchissima figurano soltanto due frammenti in qualche modo avvicinabili al clima di quegli anni: il caso di un carmelitano scalzo, che si accusò di aver scritto una lezione in lode della sodomia insieme a uno sconosciuto dottore, e quello di un frate francescano, condannato a passare dieci anni sulle galere per aver tentato di sposare un fanciullo, oltre che per pratiche negromantiche39. Si affievolisce, inoltre, la forza simbolica delle presunte libertà del mondo protestante: il termine luterano continua a circolare, ma con un significato sempre più generico e vago. Solo un’ultima, debole eco delle ‘Ginevre napoletane’ del tardo Cinquecento riecheggia nel 1611, nelle vanterie attribuite a un alfiere di stanza a Napoli, forse uno spagnolo già punito dall’Inquisizione del suo paese. Col passare del tempo, il ‘comunismo sessuale’ addebitato in precedenza all’animazione degli infuocati predicatori svizzeri ha perso il suo spessore religioso. Ne restano vivi solo i dettagli più appariscenti, in ogni caso più attraenti rispetto al presunto grigiore della vita napoletana: diceva che questa era mala terra, che non ci era molto spasso come nella sua, dove si faceva una conventicola de homini et de donne in casa di qualche signora. Et dopo sagliuta a predicare una persona poi, di giorno o di notte, essendo serrate le finestre et smorzati li lumi, si inbiscavano e se afferravano l’homini cole donne, pigliandosi piacere carnalmente40.

39 ACDF, DSO, 1630, p. 594, seduta di f. IV del 16 ottobre, e p. 619, seduta di f. IV del 6 novembre (entrambi i processi erano stati istruiti dal ministro dell’Inquisizione delegata). 40 ASDN, SU, 1755, cc n.n., 27 maggio 1611, deposizione di Isabella (Belluccia) de Salvatore.

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Persiste invece il richiamo esercitato dalla poligamia e dalle altre libertà della legge dei turchi, tenuto vivo anche dai contatti con gli schiavi musulmani che vivevano nella capitale e con i molti rinnegati che rientravano in Occidente. L’islam rivive così nelle piccole ‘eresie’ che affiorano di tanto in tanto nelle attività di routine dei tribunali inquisitoriali napoletani, ma conosce anche, più dell’ebraismo, una presenza profonda, talvolta misteriosa. Fanno riflettere due casi capitati nel 1614 e nel 1627. Nel primo è il ministro dell’Inquisizione delegata a trasmettere alla Congregazione del Sant’Ufficio l’informazione inquietante che una delle famiglie principali di Napoli vive secondo la ‘setta’ maomettana: la notizia viene da alcune penitenti di un confessore teatino, che è diffidato dall’assolverle, se prima non rivelano ciò che sanno all’Inquisizione41. Ancor più indicativa per le suggestioni sessuali legate alla legge di Maometto, anche se avvolta nel mistero, è un’inchiesta avviata senza esito dal tribunale arcivescovile nel 1627, a seguito della denuncia di un sacerdote messinese. Due donne pubbliche della sua città, invitate a dormire a casa di alcuni uomini nel borgo dei Vergini, si erano trovate di fronte a una sconcertante riunione, guidata da un ‘principe’. Questi aveva letto in un libro di ‘cose macomettane’ l’obbligo di compiere atti contro natura con loro due, che si erano rifiutate. A quel punto avevano subìto violenze di ogni genere, compresa una finta impiccagione, e si erano salvate a stento. Convocate, le due cortigiane confermarono e ampliarono il quadro: avevano saputo che un’altra donna era morta per le pratiche sodomitiche cui era stata costretta da esponenti della conventicola; non avevano capito bene contenuto e finalità dell’incontro, se non che lo strano libro letto dal ‘re’ era quello della ‘legge’ maomettana e che il gruppo era una vera e propria accademia di potenti gentiluomini42. Se questo è vero, se l’islam ottomano, vero o immaginario, continua ad essere per i napoletani simbolo di un modello di vita sessuale meno severo di quello cattolico, è altrettanto certo che nuovi, ambigui spazi di libertà si cominciano a cercare proprio nelle 41 ACDF, DSO, 1614, pp. 515, seduta di f. V del 23 ottobre, e 564, seduta di f. V del 27 novembre. 42 ASDN, SU, 2284, indagine svolta tra il 13 aprile e il 19 maggio 1627, su denuncia di don Placido Mangano.

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pieghe dell’amministrazione del sacro e nella stessa etica ufficiale. Ad eccessi di questo tipo si riferiva il primo decreto del sinodo del 1632: con toni preoccupati e dolenti le autorità diocesane stigmatizzavano gli eccessi compiuti in alcune chiese della città. Non solo durante le prediche, ma addirittura quando si esponeva il Santissimo durante le quarantore, si intrecciavano colloqui turpi e scurrili, si praticavano atti impudichi e disonesti, si fomentavano disordini: la casa del Signore diventava un qualunque luogo profano. Nel ricordare che comportamenti così scandalosi attiravano l’ira divina sulla città, che così si rischiavano guerre, fame e calamità, il decreto imponeva la scomunica ai trasgressori e l’interdetto alle chiese. Gli ecclesiastici che le amministravano – compresi gli appartenenti agli Ordini religiosi – erano incaricati dell’esecuzione del provvedimento43. Stringere i freni sui comportamenti sessuali dei fedeli, metterne sistematicamente in discussione i costumi, non era un’operazione indolore: lo spazio e il tempo sacro ne subivano pesanti contraccolpi, la Chiesa postridentina pagava un prezzo piuttosto alto per il rigorismo delle sue scelte di governo. In una capitale piena di attrattive, dove la vita è godibile come in poche altre città europee, alcune delle trasgressioni più audaci allignano, nel primo Seicento, nei dintorni dell’esperienza e della cultura religiosa. 7. Non è un caso, perciò, se in questi anni gli attacchi all’irrigidimento dell’etica sessuale della Chiesa si incontrano solo nel contesto delle parodie del devozionismo crescente o in riferimento alle dottrine dei casisti. Si veda come un frate buontempone presentava nel 1612 i ritmi che avrebbe voluto dare ai suoi rapporti proibiti con una donna pubblica: Se mai il detto suo superiore se ne andava, come si diceva, voleva remetter il tempo perso, e così la domenica andarsene a casa dela puttana ad honore della Trinità, per sua devotione, et con quella dormire et montarla, et il lunedì poi reposarsi, et tornarci a casa di detta puttana il martedì per devotione della Madonna di Santa Maria de Costantinopoli, et il mercodì poi si reposava, et tornarci il giovedì per devo43

Constitutiones, cc. n.n.

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tione del Spirito Santo, et il venerdì reposarsi, et il sabbato tornar dala pottana per devotione dela Madonna44.

Ancor più indicativo un caso del 1651, legato al convincimento, confidato da uno sconosciuto penitente a un confessore/predicatore, che li pareva cosa lecita che un huomo, havendo una donna in casa atta et affettionata alli servitii della casa, poteva con detta donna conoscerla carnalmente senza peccato, perché pareva che fusse una specie d’affetto e di vero amore, et non di peccato, e che di questa opinione vi erano alcuni dottori, et particolarmente il Padre Sanchez et il Padre Diana.

Gli sviluppi della rivelazione erano stati curiosi: il sacerdote, dopo aver penato non poco a convincere l’uomo della totale erroneità della sua posizione e del grave fraintendimento dottrinale su cui poggiava, aveva deciso di rendere pubblica la disputa nel modo più efficace e coinvolgente: attraverso una predica del ciclo quaresimale che stava tenendo nella chiesa dello Spirito Santo. Si era reso conto – disse ai fedeli – che quelle idee pericolose stavano prendendo piede in città, che se ne parlava nelle spezierie e in certe conventicole. Guai a crederci, aggiunse: erano errori mai sostenuti dai trattatisti cattolici. Malgrado il suo impegno, due sacerdoti che ascoltavano l’omelia, preoccupati e inquieti, non la ritennero una risposta adeguata alla gravità dell’episodio: si presentarono un paio di giorni dopo in Curia per denunciare l’accaduto al tribunale del Sant’Ufficio, forse per mettere sull’avviso i superiori dell’anomala soluzione data dal confessore/predicatore a un caso di pertinenza dell’Inquisizione, forse per smascherare lo stesso penitente. Ma non ci furono sviluppi giudiziari: in Curia lo spazio della coscienza fu ritenuto sufficiente a riassorbire suggestioni e incertezze dottrinali isolate, non particolarmente pericolose45. 44 ASDN, SU, 1775, c. 8r, 20 giugno 1612, deposizione di fra Marco Antonio Costa. 45 ASDN, SU, carte non inventariate, 29 marzo 1651, denunce di don Domenico Tropea e don Ferdinando Lanzullo. La citazione è tratta dalla deposizione di quest’ultimo.

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Le stesse dinamiche si individuano nella fittissima trama di relazioni personali che si istituisce nella capitale tra confessori e penitenti, con particolare riguardo alle donne, nel Cinque/Seicento. I successi degli inviti alla confessione frequente sono direttamente proporzionali alla capacità dei direttori spirituali di risolvere e appianare in prima persona i casi di coscienza più intricati, senza obbligare i penitenti, attraverso il rifiuto dell’assoluzione, a sgradevoli appendici: dal ricorso al penitenziere alla denuncia/autodenuncia al Sant’Ufficio. Il confronto tra il ricorso al sacramento e l’entità dei suoi ‘ritorni’ inquisitoriali non lascia dubbi. Si tratta di ordini di grandezza diversissimi: mediamente, in un anno, non più di due confessioni su mille producono complicazioni giudiziarie di quel tipo46. 8. Così, soprattutto grazie al contributo silenzioso e discreto dei confessori, verso la metà del Seicento, il lavoro di pulizia ideologica condotto dal Sant’Ufficio napoletano può concedersi le prime pause. L’allentamento della tensione repressiva è netto, nel solco di una tendenza che riguarda tutte le Inquisizioni italiane47, e ha precisi riscontri nell’evoluzione delle ‘eresie’ sessuali. Adesso, se anche qualcuno osa difendere la legittimità del concubinato, le argomentazioni cui fa riferimento sono tutte interne ai manuali di casi di coscienza. Ad essi, con ogni probabilità, si riferiva il sacerdote napoletano che nel 1638 provò a sostenere che gli ecclesiastici avevano il diritto di praticare la sodomia e subì, dopo una pesante tortura, una severa condanna: ai suoi interlocutori scandalizzati diceva che lo avrebbe dimostrato libri alla mano48. In questo orizzonte, decisamente meno conflittuale rispetto al tardo Cinquecento, confessori, predicatori ed ecclesiastici potevano intercettare più facilmente le idee erronee e ricondurle nell’alveo delle posizioni ufficiali della Chiesa. Così, negli anni in cui 46 È questa la stima, non definitiva, dello spoglio ancora in corso sulle fonti segnalate in Romeo, Ricerche, pp. 15-25, e sulla serie inquisitoriale conservata in ASDN. 47 Riconfermo al riguardo, sulla base di ulteriori ricerche inedite, le valutazioni espresse in L’Inquisizione, cap. III. 48 ASDN, SU, 2663, cc. n.n., processo a don Giacinto de Martino. Torturato per due volte, il 4 giugno 1639 fu condannato a tre anni d’esilio da città e diocesi.

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la Curia arcivescovile aveva definitivamente conquistato il monopolio sulle coppie di fatto, la battaglia più importante per delegittimarle, quella dell’Inquisizione, era a buon punto. Rimanevano le resistenze, certo, e si è già visto come quelle femminili fossero le più vivaci e le più esposte al rischio di finire negli ingranaggi inquisitoriali. Anche lì, però, la situazione era in forte movimento, negli stessi ambienti malfamati. L’animata discussione che nel 1611 divise un conte scozzese e la ventenne cortigiana/fattucchiera napoletana Belluccia de Salvatore, sua convivente per alcuni mesi, è uno specchio fedele della diffusione dei modelli devoti al di là di frontiere fino a quel momento inavvicinabili. Ad attirare prima la curiosità dell’aristocratico, poi la sua severa critica, era stata la recita quotidiana del rosario, dopo la cena, da parte della giovane donna: Anzi, dicendo io una sera dopo desinare il rosario della Madonna, detto conte me dimandò che cosa io dicevo ogni sera. Li dissi che dicevo il Rosario della Madonna. Et dicendo esso in che modo, li dissi: In considerare et rapresentare li quindici misterii, con un Pater noster e diece Avemarie per misterio. Et detto conte me disse che era uno spreposito... e diceva che non poteva niente né la madre de Dio né suo figlio Christo appresso de Idio, e cossì ancho li santi, perché si doveva fare oratione a Dio padre immediatamente, perché questi erano come creati [servi] di casa. Et dava l’esempio come quando uno volesse alcuna gratia da esso et pigliasse per mezzo o la moglie o li figli, che si non li piace de farla, non l’haveria fatta; et perciò era meglio andare immediatamente da esso... Io disse che haveria voluto havere sempre al agiuto mio la Madonna, perché chi haveva la matre havea lo figlio e lo patre. Et esso me disse che io fosse stata salda, perché non me intendeva di queste cose et proroppe anco dicendo che non sarriano passati cinquanta anni che tutta questa città sarria stata luterana, perché tutti haveriano adorata la Madonna e si haveriano scordati de Dio patre...49

L’aspra reazione del nobile straniero, che negli eccessi di devozione di una cortigiana soggiogata dal fascino di una Madonna/madre/matriarca misura la perdita del senso di Dio e l’egemo49 ASDN, SU, 1755, cc. n.n., 27 maggio 1611, deposizione di Isabella (Belluccia) de Salvatore.

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nia ventura di una specie di ‘eresia mariana’ a Napoli (un vero e proprio ‘luteranesimo’, secondo lui, nell’accezione larghissima che il termine aveva acquisito nel Seicento cattolico), segnala con precisione alcuni dei contraddittori processi religiosi innescati dall’avanzata della Controriforma nella più grande città italiana. Il culto mariano mostra una notevole forza di penetrazione, trova ascolto anche negli ambienti più ostili e lontani, quelli che sulla maternità/verginità di Maria avevano espresso sin dal tardo Cinquecento le riserve più pesanti. La giovane cortigiana devota dei primi del Seicento appartiene a un mondo che anche gli inquisitori del tempo considerano in qualche modo recuperabile, soprattutto attraverso la confessione e la comunione50. Era la stessa logica ‘missionaria’ che condusse il cattolicesimo della Controriforma a informare di sé anche le pratiche e le idee più lontane dall’ortodossia: si pensi, per esempio, alle attività magico-diaboliche in cui le fattucchiere del Seicento tendono sempre più ad inserire la forza dei rimedi devoti di matrice ecclesiastica. Anche qui la documentazione inquisitoriale italiana, soprattutto quella napoletana, è esemplare51. In città, però, resistono vigorosamente sia la tradizione delle bestemmie mariane a sfondo sessuale, sia le espressioni di pesante dissenso rispetto al modello della Vergine/Madre: l’avanzata, insomma, non è travolgente, conosce insuccessi e sconfitte. Non era certo un grande risultato se le meretrici nel corso della settimana santa cercavano con schiamazzi e gesti volgari confessori disponibili ad assolverle, e se li trovavano e ne ottenevano i certificati da esibire all’atto della comunione, li sventolavano ridendo ai fedeli scandalizzati52. Critiche ancora più pesanti suscitavano poi 50 Penso al dotto patrizio reggino Antonio Ricciullo, ministro dell’Inquisizione napoletana dal 1633 al 1642, e al singolare trattato in cui tratteggiò il variegato campionario delle persone che vivono ‘in statu reprobo’, dai saltimbanchi ai boia, dagli istrioni ai conviventi, dalle meretrici agli zingari (Tractatus de personis quae in statu reprobo versantur, videlicet de blasphemis, choraeis atque tripudiis, meretricibus, zingaris seu aegyptiacis, concubinis..., Neapoli, excudebat Robertus Mollus, 1641). Per i rilievi sulla somministrazione dei sacramenti alle meretrici vedi pp. 100-103. 51 Vedi Romeo, Esorcisti, pp. 113-116. 52 ASDN, SU, 2719, cc. n.n., 19 agosto 1639, esposto di fra Ambrosio da Napoli contro fra Agostino da Napoli. L’episodio è incredibilmente simile a uno dei gustosi resoconti di curiosità romane trasmessi al duca di Mantova nel primo an-

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le donne che utilizzavano la comoda copertura dell’abito religioso di terziaria per vivere una doppia vita53. Nella stessa testimonianza della cortigiana devota del rosario, alla radice della sua fedeltà a quella preghiera, c’è soltanto la conferma di un simbolismo matriarcale per lei decisivo: avere la Madonna al proprio fianco le era necessario – dichiara ai giudici – perché «chi havea la matre, havea lo figlio e lo patre». Nessun valore cristiano si accompagna alla sua scelta mariana. Tra l’altro, quel modo di intendere il rosario e la figura di Maria non era isolato, né riguardava solo le meretrici. Negli stessi anni, in città, nella cappella del presepe di una celebre chiesa francescana, quella di S. Maria la Nova, una donna sterile minacciò la Madonna che se non le faceva la grazia della maternità le avrebbe tolto il bambino; cosa che puntualmente fece, con il risultato di uscire gravida...54 9. Vista dalla prospettiva dei maschi napoletani, la campagna di moralizzazione e di normalizzazione ideologica condotta dalla Chiesa e dall’Inquisizione appare nel primo Seicento ancor meno significativa. Rispetto al tardo Cinquecento, la sola novità di un qualche peso riguarda gli ecclesiastici, in particolare i regolari: la loro partecipazione alle ‘eresie’ sessuali è sensibilmente ridotta e matura prevalentemente all’ombra dei confessionali e delle esperienze di finta santità, nel segno della svolta più caratteristica del secolo. Inoltre, sul piano dei costumi, e forse anche dal punto di vista della cultura e della spiritualità, il clero della diocesi sembra più sensibile alle raccomandazioni della Chiesa. È una linea di tendenza che si riscontra nelle attività del tribunale criminale delno di pontificato di Pio V (nel novembre del 1566 molte cortigiane fecero tanti schiamazzi in chiesa, nel corso di una predica cui erano state costrette a partecipare, che per un bel po’ lo stesso predicatore si mise a ridere insieme a loro: l’episodio è in A. Bertolotti, Repressioni straordinarie alla prostituzione in Roma nel secolo XVI, Roma 1887, p. 11). Secondo alcuni trattatisti, bisognava rilasciare alle meretrici l’attestato di confessione anche quando non erano assolte, a tutela del sigillo del sacramento; secondo altri, i confessori non violavano in quel caso il segreto, trattandosi di un peccato pubblico. Vedi Ricciullo, Tractatus, p. 102. 53 ASDN, SU, 2338, c. 35r, 9 maggio 1636, deposizione di fra Giuseppe Ruperez Loiola. 54 ASDN, SU, 1934, cc. 45v-46r, 10 ottobre 1616, costituto di fra Francesco da Napoli.

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la Curia arcivescovile nella prima metà del Seicento. Calano i processi contro i sacerdoti e sono meno gravi i loro delitti, compresi quelli a sfondo sessuale. Le trasgressioni più diffuse riguardano i chierici, favoriti anche dalla consueta tolleranza delle autorità diocesane. La scelta di percorrere i primi gradi della carriera ecclesiastica solo per ottenerne i privilegi continua ad avere effetti devastanti: molti giovani utilizzano senza particolari difficoltà l’appartenenza formale al clero come un lasciapassare per vivere al di fuori della legge e se ne servono anche per dare libero sfogo alla sessualità: convivenze e relazioni proibite sono ben rappresentate nel campionario dei loro abusi55. Al contrario, nel laicato maschile la situazione appare più stagnante. Per certi aspetti, c’è un’attenuazione nei toni e nei contenuti del dissenso: al di là delle bestemmie e delle frasi ereticali a sfondo sessuale contro Cristo, che persistono immutate, tra i maschi di questi anni l’Inquisizione non ha molto da lavorare. Liquidato senza mezzi termini il caso di suor Giulia, in cui peraltro sembra molto più pronunciata l’adesione femminile, altre tracce di motivato dissenso dall’etica sessuale della Chiesa non ve ne sono. Neppure la lenta, progressiva conquista del monopolio sulle convivenze more uxorio da parte della Curia arcivescovile suscita tra i maschi reazioni particolari. Non diversamente dallo sconosciuto penitente propenso a trovare nelle sottigliezze dei casisti gli appigli per la sua difesa del concubinato, nella prima metà del Seicento i pochi dottori che rispondono sul piano formale alle procedure di scomunica indirizzano gli esposti a Roma, alla Camera Apostolica, non al Consiglio Collaterale. Appaiono isolati, in questi anni, i comportamenti di scienziati e liberi pensatori come il celebre medico Marco Aurelio Severino, denunciato alla Curia arcivescovile nel 1640, grazie all’attento filtro dei confessori gesuiti, per i tanti, perentori segni di irreligione esibiti a lungo, convivenza compresa. Con lui le autorità diocesane possono anche permettersi il lusso di temporeggiare, nell’attesa di nuovi esposti, cioè in sostanza di lasciarlo vivere56. 55 Sono i primi frutti del riordinamento, tuttora in corso, di ASDN, Processi criminali: ringrazio Michele Mancino per avermeli comunicati. 56 L. Amabile, Due artisti ed uno scienziato: Gian Bologna, Iacomo Svanenburch e Marco Aurelio Severino, nel Santo Officio Napoletano. Memoria, in «At-

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Ciò non vuol dire ovviamente che un’etica sessuale rigorista, in qualche modo confrontabile con quella che la Chiesa cerca di diffondere tra le donne, raggiunga anche i maschi. Tutt’altro. Ad esempio, i confessori non ci provano neanche a rivolgere loro le imbarazzanti domande che mettono a disagio le penitenti: non sono invogliati dai manuali su cui studiano, dalle pronunce sinodali e dalle strategie della Chiesa, e sanno che non li impressionerebbero per niente, che eventuali approfondimenti della questione otterrebbero l’effetto contrario. Infatti, quando ci sono ostacoli nella libera scelta dei confessori o l’assoluzione è rifiutata, i maschi non mostrano particolare apprensione: rinunciano e vanno a rinfoltire le schiere degli inadempienti. È indicativo un episodio che ebbe per protagonista Matteo Di Capua, principe di Conca e Grande Ammiraglio del regno, uno degli aristocratici napoletani più potenti di fine Cinquecento: quando nel 1598 la commissione d’esame diocesana bocciò, malgrado la ‘raccomandazione’ da lui inoltrata all’arcivescovo Gesualdo, il frate ignorante cui aveva scelto di confidare i propri peccati, egli comunicò stizzito al presule, ritenuto il responsabile di quello sgarbo, che aveva cambiato idea, che non intendeva più confessarsi57. Non sappiamo, nel caso dell’illustre personaggio, se la scelta di un confessore di comodo fosse legata anche all’esigenza di liberare la coscienza da abusi sessuali, ma nella Napoli del Seicento la diffusa indifferenza maschile a quel tipo di trasgressioni, e al sacramento che avrebbe dovuto sanarle, è ben documentata. La testimonianza più straordinaria degli atteggiamenti spregiudicati con cui i maschi napoletani continuano a vivere la ti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», 24, 1890, pp. 433-503 (anche come volume a sé, Napoli 1890) e Id., Il Santo Officio, II, pp. 66-68 dei Documenti. L’ipotesi di un processo, avanzata senza solide prove da Amabile, non ha trovato finora conferme né nel riordinamento in corso della serie inquisitoriale napoletana, in ASDN, né in ACDF: ad esempio, i controlli effettuati nei volumi dei DSO dal 1640 al 1642 non hanno dato esito. 57 Vedi Romeo, Esorcisti, pp. 167-169. La sua aspra replica fa il paio con reazioni identiche, attestate in ogni angolo d’Italia. La più vivace è quella di un contadino emiliano, che negli stessi anni non intendeva obbedire all’eventuale ingiunzione del confessore di denunciare all’inquisitore casi di pertinenza del tribunale. All’amico che lo informava rispose che non gliene importava più di tanto: se il confessore non lo avesse assolto avrebbe fatto «come fanno gli arbori quando vanno in frasca, et che farà più belli frasconi» (ivi, p. 168).

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sessualità riguarda i comportamenti di un nutrito gruppo di sconosciuti. Li sintetizza con succose annotazioni una lista di peccati e pensieri peccaminosi predisposta da uno di loro: libere esperienze sessuali con donne e con uomini sono all’ordine del giorno, di divieti e scomuniche non c’è traccia, un istinto irrefrenabile spinge i maschi verso le prede, che hanno come unico strumento di difesa le arti magiche e per il resto possono solo augurarsi di trovare partner che non le ammazzino, non le stuprino, non le mandino in rovina58. 10. Il testo, non anteriore alla fine del Cinquecento, ma forse redatto nel corso del Seicento59, è come l’autobiografia di un giovane scapestrato, forse appartenente a una famiglia benestante. Di lui si può dire pochissimo: sa scrivere, sia pur approssimativamente (se è l’estensore del breve documento), sa leggere (conosce e apprezza i sonetti di Giovan Battista Marino e imprecisate ‘storie disoneste’), vive e forse ha sempre vissuto a Napoli, dove con ogni probabilità è nato, quasi certamente è celibe, ha condiviso molte delle sue imprese con una trentina di amici. Di alcuni di loro ricorda i cognomi, di altri i nomi, di altri ancora solo gli eccessi praticati insieme. Per il resto, buio fitto: non sappiamo come si chiama, quanti anni ha, se ha un lavoro e quale, se è in buone condizioni di salute o sta per morire ed è pentito di una vita piena di sregolatezze. Anche il manoscritto che ci ha lasciato, al di là del contenuto, è un mistero. L’uomo vi elenca le trasgressioni di una vita intera, secondo il modulo, particolarmente diffuso nell’Italia postridentina, della confessione generale; ma non si sa perché abbia deciso di annotarle. Non ci aiuta l’autore, che non accenna alle sue intenzioni, ma neppure l’istituzione che ha conservato il testo. Sul manoscritto non figurano segni d’attenzione né note marginali: forse fu sequestrato nel corso di qualche perquisizione e allegato a un fascicolo, poi perduto. La lista elenca 79 tra peccati e pensieri peccaminosi, accumulati in rapida successione, senza alcun criterio, come se il giovane 58 Il documento è conservato in ASDN, Miscellanee giudiziarie, ed è trascritto integralmente in Appendice al presente lavoro, doc. 6. 59 Per i pochi elementi utili alla datazione, vedi Romeo, Ricerche, p. 128.

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seguisse solo l’andirivieni dei ricordi. Talvolta sono soltanto appunti rapidissimi, richiami criptici utili per sviluppi successivi (ad esempio, per un’eventuale confessione), ma quasi tutti i fatti raccontati si riferiscono a trasgressioni indicate con precisione (singole bestemmie, abusi di vario genere, talvolta di competenza del Sant’Ufficio), spesso accompagnate da indicazioni quantitative (dai 200 incontri con una serva alle oltre 5000 ‘parole disoneste’ pronunciate). In questo campionario di eccessi, quasi sempre compiuti in compagnia, le pratiche o le suggestioni sessuali assumono un peso enorme: masturbazioni, anche collettive, rapporti di ogni tipo (dalle donne pubbliche alle amanti, dalle serve alle parenti), ricordi di giochi infantili (con i fratelli, quando erano piccoli, sul letto), pensieri maliziosi (dalla madre alla zia, da un cane alla Madonna), desideri proibiti (dalle ricorrenti fantasie omosessuali all’invidia per Giacinto, l’intraprendente rifugiato che nella Chiesa dove si tratteneva per sfuggire alla cattura viveva di giorno esperienze trasgressive con uomini, ma la notte «dormiva con la femina sua»), consapevolezza tranquilla del ruolo ‘naturalmente’ egemone dei maschi. Blasfemo, collerico, ladro, spergiuro, diffamatore, violento, compiaciuto, quasi orgoglioso delle audaci imprese compiute per tanti anni, lo sconosciuto, come il celeberrimo ser Ciappelletto del Decameron, sa anche accennare, compunto, agli obblighi religiosi ignorati: alla messa (non c’è andato per tre volte), ai digiuni non osservati (tre volte), alla stessa confessione dei peccati (praticata ‘malamente’, cioè con l’omissione di alcuni peccati, dieci-dodici volte). Nel vortice di una vita così turbolenta e sanguigna, aveva trovato anche il tempo per andare a ingrossare la folta schiera degli ’nnammecati napoletani, costruendo un rapporto in qualche modo stabile con una donna maritata, Anna. Quella relazione, s’intende, era una goccia nel mare delle passioni di lui, ma aveva una sua importanza, a giudicare dai numerosi e vivaci accenni alla giovane contenuti nella lista. Il profilo di Anna è quello di una persona combattiva, abile nel fare fatture amorose, impegnata anche in pericolosi rapporti con altri maschi violenti, pronta ad accondiscendere alle voglie proibite del convivente, incapace però di lasciarlo (se non per un breve periodo in cui torna dal marito), rassegnata alla sua smania sessuale, che non le risparmia neppure ma-

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dre e sorella. Alla fine, però, per Anna vivere con lui era stato un fallimento. Lo riconosceva con inconsapevole umorismo lo stesso protagonista, nel dedicare alla loro tormentata storia d’amore il primo e l’ultimo dei 79 pensieri peccaminosi: Sono stato ’nnammecato anni 6 con Anna e ho peccato anche con la madre volte 16 incirca; e con le mie mano volte 20. Con la sorella ci ho pazziato [scherzato], con maniarla alle parte dissoneste e c’ò avuto male pensiero volte 50 incirca. Il marito fece pace con detta Anna ed io fece male pensiero d’ammazzarlo e fece fare una fattecchia [fattura] d’una femina, acciò se ne fusse andato detto marito; e c’ebbi credito. Ancora m’imparai di fare alcune cose che servevano per levare il sonno ed a fare alcune carte da giocare che servivano per vedere quello che desiderava. Anna dice ancora che sono obligato di darli tanto, in quanto che dice che per l’amore mio si ritrova [pez]ente.

Anna e il suo irrequieto compagno sono per ora la coppia di fatto napoletana di cui possiamo osservare meglio, da una prospettiva molto ravvicinata, atteggiamenti, modi di vita, pulsioni. Sfortunatamente, nei loro rapporti burrascosi, gli eccessi, di solito imposti da lui e subìti da lei, sembrano la regola. Sarebbe temerario, perciò, ritenere che esperienze così esagitate siano rappresentative dei normali rapporti tra conviventi. D’altra parte, liquidarle come un caso del tutto atipico è impossibile. I due hanno una fitta trama di relazioni con tanti uomini e donne che ne condividono, oltre a gusti, giochi, pratiche, l’insopprimibile vitalità. Inoltre, se è vero che la Duchesca, i paraggi dell’Annunziata e altre zone malfamate della capitale sono il teatro abituale delle loro imprese, l’ambiente sociale in cui le vivono è molto vario: signori, gentildonne, artigiani, rappresentanti della bassa nobiltà. Insomma, proprio perché vanno al di là delle vicende di un singolo, anche le annotazioni dello sconosciuto aiutano a tracciare un bilancio delle battaglie che la Curia arcivescovile stava conducendo da tempo per riportare all’ordine vite come la sua. 11. Per le autorità diocesane di Napoli la scelta più lungimirante fu forse quella che maturò nei tempestosi decenni di fine

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Cinquecento: rinunciare per qualche tempo alla punizione dei conviventi, ma combattere senza tregua le idee che legittimavano i costumi troppo liberi dei fedeli e di una parte dello stesso clero. Radicate ovunque, ma particolarmente nella capitale, esse furono fiaccate, anche se non distrutte, dall’impegno combinato dei giudici del Sant’Ufficio, dei confessori e dei predicatori. Lo strumento decisivo fu la lotta all’eresia, piegata a finalità improprie, estranee ai suoi obiettivi tradizionali, utilizzata per controllare da vicino i fedeli più irrequieti, i ‘mali christiani’ irraggiungibili da confessori e predicatori. E in prima fila, tra gli eretici della porta accanto, c’era chi difendeva a viso aperto le tante libertà di una città vivacissima, legata appassionatamente ai suoi modi di vita e ai suoi piaceri. Perciò, malgrado il pieno sostegno dei cardinali dell’Inquisizione, la lotta contro ‘le cose piccole’ fu a Napoli un’attività faticosa e ingrata, che dovette fare i conti con resistenze ostinate, talora dissacranti. Proprio qui, tra l’altro, si misura in modo più netto l’influenza della metropoli e dell’ampia circolazione di idee che la caratterizza: in nessuna città italiana della Controriforma si incontrano suggestioni ereticali vive come quelle diffuse a Napoli. Solo agli inizi del Seicento, quando la battaglia più importante cominciò a dare i primi frutti, soprattutto tra gli ecclesiastici, la Curia arcivescovile poté dedicarsi al lavoro ‘sporco’, all’impresa complicata, se non impossibile, di combattere senza tregua gli amori proibiti. Non è del tutto chiaro a che cosa mirasse quella scelta, inizialmente incerta e poco convinta, affidata più alla sensibilità di singoli prelati che a un progetto preciso. L’esigenza di riaffermare il pieno diritto dei tribunali della Chiesa di reprimere il concubinato da soli, senza rispettare i confini spirituali previsti dal Collaterale, è fuori discussione. Non era un mistero, tra l’altro, che le pene applicate dalla Vicaria criminale non differivano granché da quelle utilizzate abitualmente dai giudici diocesani del regno, provvedimenti ‘spirituali’ esclusi: nessun danno ne sarebbe potuto venire alla tutela della morale pubblica. Ma la Curia arcivescovile preferì rafforzare le proprie posizioni di fronte a un Collaterale attentissimo alla tutela della giurisdizione regia. Così facendo, forse, poteva anche governare in piena autonomia le vite disordinate di quella parte del clero che non rinunciava all’esperienza della famiglia e della paternità: riconosce-

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re allo Stato il diritto di punire i conviventi laici – e quindi anche le compagne dei preti – avrebbe potuto comportare sgradevoli conseguenze per gli stessi ecclesiastici e per l’immagine della Chiesa. Forzare la mano, violare sistematicamente nella capitale le regole che valevano nel regno, si rivelò insomma una decisione indovinata: nel corso di qualche decennio, grazie alla sostanziale indifferenza delle autorità statali, l’avanzata dei giudici diocesani sul terreno delle convivenze more uxorio si tramutò agevolmente in monopolio. È più difficile, invece, comprendere l’obiettivo specifico cui mirò la pioggia di scomuniche. La Curia mise in moto nel primo Seicento un meccanismo repressivo che rimase inalterato per 150 anni e non fu applicato a nessun altro peccato pubblico. Il confronto con l’usura è istruttivo, non solo a Napoli: da nessuna parte, in Italia, si trovano tracce di usurai scomunicati e infamati. Come spiegare, allora, un’azione così dura e insistente? Si cercava soprattutto di operare una cernita tra le famiglie proibite della diocesi, per regolarizzare quelle ‘sanabili’? O si puntava in primo luogo a combattere quelle ‘impossibili’ e a costringerle alla separazione, solo perché disobbedivano a un precetto della Chiesa e davano cattivo esempio? Per ora, si tratta di domande senza risposta: sulle intenzioni delle autorità ecclesiastiche che si impegnarono più attivamente in quella battaglia non sono affiorate indicazioni utili. 12. Una cosa però è certa. Se l’obiettivo principale dei vertici della Curia arcivescovile era quello di regolarizzare le famiglie proibite, non fu raggiunto, se non in parte. La lotta ai concubini nella Napoli del primo Seicento è come un terremoto pesante che si abbatte su un’area dove i dispositivi antisismici funzionano abbastanza bene: molte macerie, paure e apprensioni, ma restano in piedi parecchie case. Il bilancio di circa mezzo secolo di intense attività giudiziarie non lascia dubbi di sorta né sulla durezza degli interventi né sul loro parziale successo: alcune migliaia di scomuniche (forse più di 3000); non meno di 50 irruzioni domiciliari, seguite da carcere e multe, per i recidivi; una ridotta percentuale di matrimoni; un trattamento di favore a preti e chierici, esentati da ogni forma di pubblicità, a tutela dell’immagine del clero; un numero imprecisabile, forse alto, di famiglie di fatto disintegrate, di

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figli privati dei genitori, di donne infamate e costrette alla fuga o all’esilio non da sentenze dei giudici, ma dall’onore perduto, dall’atmosfera intollerante che le circondava in parrocchia; una progressiva estensione delle scomuniche a chi intratteneva relazioni amorose senza convivere. Tuttavia, proprio la netta prevalenza degli aspetti repressivi e il loro ampliamento in nuove direzioni spiegano le persistenti difficoltà che caratterizzarono un impegno così massiccio. Resistenza passiva di molte coppie, violente reazioni femminili, indomabili vite disordinate, come quelle di Anna e dello sconosciuto, sono soltanto la punta di un iceberg compatto. Si pensi a un illegalismo diffuso, se così si può definire la diffusissima prassi delle convivenze prematrimoniali dei fidanzati. Garantite dal consenso delle rispettive famiglie, esse sono solo sfiorate dall’ondata delle scomuniche. Contro le regolarizzazioni forzate delle coppie di promessi sposi pesavano le tradizioni, gli interessi, i tempi della vita: veri e propri macigni, che era molto difficile smuovere. Inoltre, i vari fronti di opposizione del laicato poterono contare sulla freddezza di buona parte del clero, sotterranea e perciò più insidiosa, verso quei meccanismi. La scarsa collaborazione dei parroci e dei confessori e l’indifferenza degli stessi visitatori – gli ufficiali più vicini agli arcivescovi – si toccano con mano. I curati che segnalano i conviventi lo fanno soltanto in modo riservato, senza esporsi, e per il resto, salvo rari casi, si limitano a eseguire i controlli richiesti dalla Curia. Si guardano bene, inoltre, dall’espellere dalle chiese gli scomunicati che persistono nel peccato e dal rifiutare loro la sepoltura, anche perché nessuno dei superiori pretende spiegazioni al riguardo. Da parte loro, poi, neanche i visitatori collaborano più di tanto: evitano di premere sui parroci per la denuncia, come se fossero consapevoli dell’inopportunità di mettere altra legna sul fuoco, di aggravare ulteriormente i loro rapporti coi fedeli, spesso tesi e difficili. Infine, se a questi elementi di debolezza si aggiungono le estorsioni praticate in molti uffici della Curia arcivescovile, ci si rende conto delle tante contraddizioni del meccanismo repressivo messo in moto ai primi del Seicento. Aggredire la vita quotidiana con strumenti d’interdizione pesanti e poco condivisi dallo stesso clero era un’impresa proibitiva. I risultati ottenuti, comunque li si valuti, furono il frutto dello zelo di poche decine di pre-

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lati e di un centinaio di persone: eppure nel primo Seicento Napoli ospitava non meno di 5-6000 ecclesiastici (tra secolari, regolari e chierici)60. D’altra parte, anche nei primi anni postridentini, parecchi vescovi italiani e la parte più lungimirante della Curia romana avevano visto come il fumo negli occhi sistemi di governo spirituale imperniati sull’intolleranza: gli uomini dovevano avvicinarsi ai sacramenti e obbedire ai precetti per intima convinzione, non per costrizione61. Che ci provassero gli arcivescovi napoletani nel primo Seicento, con il pieno consenso delle autorità romane, non era del tutto scontato, anche perché in quegli anni la stessa Inquisizione – la più grande centrale dell’intolleranza religiosa – cominciava a mostrare, quantomeno sul piano locale, i primi segni di declino. Infine, non bisogna dimenticare che queste scelte dure e impopolari colpivano la più popolosa città italiana, la capitale della più grande formazione statale della penisola, non un’area urbana come tante. Napoli è guidata da arcivescovi colti e potenti, che dispongono di collaboratori dotti, attenti ai più aggiornati orientamenti romani. È impossibile perciò archiviare le loro strategie religiose come eccezioni o come aspetti secondari di quella Controriforma illuminata e moderna che gode da parecchio tempo dei favori della storiografia62. Tutto lascia credere, insomma, che scavi più approfonditi negli archivi delle grandi diocesi e in quelli delle più influenti istituzioni ecclesiastiche centrali possano portare alla luce scelte dello stesso tipo. Tuttavia, insistere sulle ampie dimensioni dell’intolleranza ‘ordinaria’ che si abbatté sui conviventi napoletani nel corso del Seicento non vuol dire sottovalutare le particolari difficoltà di governare quella città, il «paradiso abitato da diavoli» di molti italiani63. Per fare solo un esempio, proprio l’analisi comparata del60 La mia è una proiezione (probabilmente al ribasso) delle percentuali di Beloch, Storia, p. 54. 61 Vedi Romeo, Esorcisti, p. 138, e Id., Confesseurs, pp. 161-165. 62 Vedi il IV capitolo del libro, peraltro vivo e stimolante, di D. Sella, L’Italia del Seicento, Roma-Bari 20054. 63 È l’oggetto di una celebre conferenza di Benedetto Croce, pubblicata per la prima volta in «Napoli nobilissima», N. S., 3, 1922-1923, pp. 153-157, recentemente ristampata in una raccolta di testi dello stesso Croce, Il «paradiso abitato da diavoli», a cura di G. Galasso, Milano 2006, pp. 11-27.

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le fonti inquisitoriali lascia pochi dubbi sulla spregiudicatezza e la rapidità con cui i napoletani individuano i punti deboli di un’istituzione così temuta e cercano di piegarla ai propri interessi64. Perciò anche l’esigenza di porre un freno alle loro trasgressioni potrebbe aver avuto un ruolo nella svolta autoritaria del primo Seicento e nella sua definitiva stabilizzazione verso la metà del secolo. Non li fermò neppure la spaventosa epidemia di peste che decimò la città nel 1656: l’irrequietezza e la passionalità con cui reagirono a un evento così drammatico colpirono anche gli uomini di Chiesa più avvertiti. 13. La peste aveva raggiunto Napoli a marzo, o forse prima ancora, anche se nessuno ci aveva fatto caso. C’erano stati alcuni strani decessi nell’ospedale dell’Annunziata, un luogo di cura celebre, ma i segni del male non erano stati riconosciuti: il contagio non colpiva Napoli da oltre un secolo – osservò con distacco uno che di morte se ne intendeva, un confratello della Compagnia dei Bianchi della Giustizia, che ci ha lasciato una breve, ma lucida descrizione dell’evento65. Anche quando, in maggio, le vittime si moltiplicarono ‘alla gagliarda’, a partire dal Lavinaro, e l’inquietudine cominciò a serpeggiare, medici e autorità statali continuarono a negare che fosse peste66. In pochi giorni, però, la situazione precipitò: la processione di S. Gennaro fu, il 6 maggio, l’ultima cerimonia religiosa ordinaria celebraVedi Romeo, Aspettando il boia, pp. 86-96. Per un inizio a marzo si schiera il memorialista dei Bianchi: vedi Archivio della Compagnia dei Bianchi della Giustizia (d’ora in avanti ABG), Relazioni di Uscite, Mena Scrivano, 1655-1656, p. 37: è la valutazione inserita in una Descrittione della peste del 1656, attribuita senza prove da S. De Renzi (Napoli nell’anno 1656, Napoli 1867, pp. 375-379), che la trascrisse da una copia, allo scrivano della Compagnia, don Antonio Mena. Per le varie ipotesi sui primi focolai, vedi ancora De Renzi, ivi, pp. 35-36, e G. Calvi, L’oro, il fuoco, le forche: la peste napoletana del 1656, in «Archivio storico italiano», 139, 1981, pp. 406-458. Un bilancio maturo delle principali questioni storiografiche relative alla peste del 1656 è nella recentissima ricerca, pregevole, ben documentata ed estesa all’intero regno, di I. Fusco, Peste, demografia e fiscalità nel Regno di Napoli del XVII secolo, Milano 2007, pp. 33-34. Rinvio a questo lavoro per la più aggiornata bibliografia al riguardo. 66 ABG, ivi (per la peste al Lavinaro) e Fusco, Peste, pp. 33-36 (per l’incredulità). 64 65

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ta regolarmente67. Poi, di fronte al moltiplicarsi di morti misteriose, si intuì la terribile verità e cominciò la ricerca affannosa delle cause e dei rimedi. Pezzi di baccalà marciti, polveri velenose, soldati spagnoli provenienti dalla Sardegna, o al contrario nemici della Spagna venuti ad avvelenare i napoletani, la mano di Dio...: nella seconda metà di maggio, nella ridda delle ipotesi, ciascuno reagì a modo suo68. Se molta parte della città «si pose in devotione», affollò le chiese, i confessionali e le processioni, nella zona del Mercato ci furono, forse strettamente collegati, un inizio di caccia all’untore e un tentativo di sollevazione popolare. Il 27 maggio una donna forestiera, sospettata di diffondere la peste, fu uccisa e ‘strascinata’ da un gruppo di persone inferocite, nel corso di un improvviso, violento tumulto, forse già programmato: nel giro di un quarto d’ora furono chiuse tutte le botteghe della città. La folla catturò un gruppo di stranieri, poi sottratti a fatica al linciaggio, «carcerati a Palazzo» e trovati in possesso di polveri che un collegio di medici giudicò micidiali69. Il giorno dopo, un soldato fu ridotto in fin di vita per gli stessi sospetti, anche se gli assalitori, a voler dare credito al memorialista dei Bianchi, furono fermati da persone ‘religiose e devote’. Nello stesso tempo, gruppi di giovani, secondo le autorità spagnole, «trattavano nuovi tumulti». La risposta del viceré, preoccupato soprattutto di qualche nuovo Masaniello, non si fece attendere: nel giro di due settimane una raffica di esecuzioni capitali spense nel sangue tutti quei fuochi. Il 29 fu giustiziato, con la feroce tecnica della ruota, uno degli autori dello scempio del Mercato, il 30 maggio ne fu impiccato e squartato un altro, nel corso di una drammatica esecuzione. Seguirono le condanne a morte di tre dei presunti cospiratori e di uno straniero sospetto, accusato ASDN, Diario dei Cerimonieri, 4, c. 110v. Vedi Fusco, Peste, pp. 33-34; ABG, Descrittione, p. 37; ASDN, Diario dei Cerimonieri, ivi. 69 La ricostruzione dell’episodio, che meriterebbe adeguati approfondimenti, poggia su De Renzi, Napoli, pp. 27-53; Calvi, L’oro, pp. 421-430; ABG, Descrittione, ivi; e soprattutto su I. Fusco, Peste e fiscalità nel Regno di Napoli a metà del Seicento, tesi di dottorato, Istituto Universitario Navale, Napoli, XI ciclo, pp. 28-29 (ringrazio vivamente l’autrice per avermi trasmesso questo e altri brani del lavoro). 67 68

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di essere stato in trattative con un religioso per «darli alcuni veneni per avelenare la città»70. A quel punto, Napoli era sola con i suoi santi e le sue devozioni. Fu anche quella – lo ammetteva senza difficoltà lo stesso diarista dei Bianchi – la causa del rapido divampare del male. Gli avvertimenti del viceré e le contromisure dell’arcivescovo non ebbero effetto, anche gli altri provvedimenti lasciarono a desiderare: per quattro-cinque mesi la città, «delitia del Europa», divenne «sepolcro e cimiterio puzzolente»71. Il bilancio finale è tuttora controverso, ma in ogni caso terribile: si oscilla tra le 200.000 e le 6-700.000 vittime, ma forse la stima più realistica si avvicina alle 500.000, circa i 4/5 degli abitanti72. Tuttavia, anche in frangenti così drammatici, l’anima ‘carnale’ di Napoli trovò modo di esprimersi. Ne rimase stupito anche un prelato che si adoperò in quei mesi con intelligenza e sagacia: il Nunzio apostolico, il genovese Giulio Spinola. Era a Napoli dal 1653 e quindi aveva avuto modo di familiarizzare con la cultura e la sensibilità della città73. Nel vivo della tragedia, nel terribile mese di luglio – da 3000 a 19.000 morti al giorno, con cataste di cadaveri ovunque – Spinola cercò di spiegare alla Segreteria di Stato le ragioni di un disastro di così grandi proporzioni. Ministri del viceré e ‘popolari’ si rinfacciavano a vicenda le responsabilità, ma 70 Vedi ABG, Descrittione, pp. 37-38 (per le violenze popolari); ABG, Relazioni di Uscite, Mena Scrivano, pp. 103-112 (per i resoconti delle esecuzioni, parzialmente trascritti in De Renzi, Napoli, pp. 379-385); Romeo, Aspettando il boia, pp. 259-260 (la terribile esecuzione del 30 maggio); Fusco, ivi, pp. 28-30 (per le verifiche sui veleni e per la forte preoccupazione del viceré e del Collaterale). 71 ABG, Descrittione, p. 39. 72 Vedi Fusco, Peste, demografia e fiscalità, pp. 100-104, e ABG, Descrittione, p. 42 (qui si accenna a un computo «cavato dal numero delle case, con fare scrivere tutti li morti, dicono arrivassero al numero di quattrocentosettantamila persone per la città e borghi»). Il diverso peso da attribuire alle perdite dipende anche dall’incertezza sul numero effettivo degli abitanti allo scoppio dell’epidemia. Per un recente, aggiornato bilancio storiografico, vedi Fusco, ivi, pp. 99-104. 73 Per il suo ruolo durante la peste, ricostruito in base al carteggio conservato in un archivio privato, vedi: De Renzi, Napoli, p. 57; L. Fumi, La peste di Napoli del 1656 secondo il carteggio inedito della nunziatura pontificia, in «Studi e documenti di storia e diritto», 16/2-3, 1895, pp. 121-132; ma soprattutto Calvi, L’oro, passim.

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secondo lui avevano ragione gli uni e gli altri. Se le inadempienze delle autorità erano innegabili, in quanto moltissimi corpi restavano insepolti e c’era negligenza nel bruciare arredi e oggetti delle case ‘infettate’, una fonte impensabile di contagio veniva anche dalle reazioni dei familiari delle vittime, dai troppi atti di humanità, che dettava la congiuntione del sangue fra parenti, in maneggiarsi, servirsi, abbracciarsi e piangersi i parenti fra loro, infetti o morti, senza riguardo alcuno74.

Non diversamente, quando verso la fine di agosto cominciò a circolare in città l’erroneo convincimento che l’epidemia si fosse arrestata, «vedendosi seguire rarissimi casi sospetti», al borgo di S. Lucia a Mare molti, portatisi sopra alcuni scogli, diedero quivi segni d’allegrezza con ricreationi di balli, canti e simili, essendosi fatto vedere per le strade anco il signor viceré. Veniva da molti biasimata tanta libertà popolare75.

La voglia di vivere, per troppo tempo compressa, stava riesplodendo e i benpensanti bofonchiavano: si ricominciava da capo, era una libertà eccessiva, i napoletani esageravano. Con la stessa freddezza, pochi giorni dopo, Spinola segnalava a Roma che «si stringevano giornalmente matrimonij per la città e già se ne numeravano da dodicimila fatti»76. Ci mancavano solo i conviventi, e non si fecero attendere. L’ultima pratica di concubinato era stata chiusa dal vicario generale il 13 maggio, mentre l’allarme cresceva. Un uomo aveva chiesto e ottenuto l’assoluzione, per poter adempiere il precetto pasquale: si era separato, dichiarò, dalla donna maritata con cui aveva avuto una relazione77. Seguì poi una lunga pausa: nei mesi del terro74

ASV, Segreteria di Stato, Napoli, 55, cc. 10v-11r, dispaccio dell’11 luglio

1656. Ivi, c. 33r, dispaccio del 20 agosto. Ivi, c. 39v, dispaccio del 25 agosto. Questa sensibilità era stata ben colta da De Renzi, Napoli, pp. 124-152. 77 ASDN, Conc, 123, istanza di Giovan Battista Serignano (il parroco accertò che la donna era morta, forse di peste). 75 76

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Amori proibiti

re non ci fu tempo per quelle scomuniche. Ai primi di ottobre, però, le più importanti istituzioni ecclesiastiche e statali ricominciarono a funzionare. L’arcivescovo tornò dalla certosa di S. Martino il 7, negli stessi giorni ripresero le cerimonie in Cattedrale, sia pure a scartamento ridotto78. Il 15 si riunirono per la prima volta i Bianchi della Giustizia, perché nel frattempo i giudici della Vicaria criminale avevano ricominciato ad emettere condanne a morte79. Arrivò così il turno dei concubini: il 6 novembre il provicario generale firmò una citazione, il 16 un chierico la notificò. I due, Filippo di Domenico e Ciomma Avellone, non risposero né alla prima intimazione, né alle successive. Al terzo rifiuto, il 24, arrivò puntuale la scomunica, con tanto di cedoloni. Che cosa avrebbero dovuto fare? Erano appena scampati alla peste, probabilmente stavano bene insieme. Se la tennero80. 78 ASDN, Diari dei Cerimonieri, 4 (c. 111r) e 5 (c. 1r). Per gli introiti enormi assicurati dagli aumenti alla Curia, vedi Calvi, L’oro, p. 449. 79 ABG, Relazioni di Uscite, Mena Scrivano, p. 115 (per la prima condanna a morte ‘ordinaria’ dopo la peste, eseguita il 13 ottobre) e ABG, Relazioni di Uscite, Marciano Scrivano,1656-1657, c. 9r. 80 ASDN, Conc, 123.

APPENDICE

Si riproducono qui di seguito, divisi in tre sezioni, alcuni degli inediti che riflettono meglio, secondo me, i problemi affrontati nel libro. La prima riguarda le varie articolazioni dell’intolleranza verso le coppie di fatto e corrisponde ai primi due capitoli; la seconda documenta le ‘eresie’ sessuali e rispecchia i temi discussi nei capitoli III e VI; la terza presenta le resistenze e riflette le dinamiche affrontate soprattutto nei capitoli IV e V. Lo scioglimento delle abbreviazioni, la modernizzazione della punteggiatura, l’omissione delle note marginali irrilevanti e delle sottolineature sono le sole modifiche apportate agli originali. Tra parentesi quadre sono le ricostruzioni congetturali, in corrispondenza di lacerazioni o macchie dei manoscritti; in nota, i riferimenti a parole depennate, sviste e lapsus dei notai (e, per il documento n. 6, dello sconosciuto autore).

Avvertenza Riferimenti archivistici dei manoscritti pubblicati: 1: ASDN, Sant’Ufficio, 994, c. 12r-v, riproduzione parziale. 2: ASDN, Cause matrimoniali, 1589, lite Lucza greca/De Bartolo, cc. 6r-v e 10r-11r, riproduzione parziale. 3: ASDN, Denunce di concubinato, 121, 1605, cc. n.n., procedura di scomunica a carico di Luise Palumbo, Livia Fontana, Costanza di Messina, riproduzione parziale. 4: ASDN, Sant’Ufficio, 978, cc. 10v-12v, riproduzione parziale. 5: ASDN, Sant’Ufficio, 869, cc. n.n., riproduzione parziale. 6: ASDN, Miscellanee giudiziarie, ms. senza data, ma non anteriore alla fine del Cinquecento, forse del primo Seicento, riproduzione integrale. 7: ASDN, Sant’Ufficio, 2485, cc. 1r-3r, riproduzione parziale. 8: ASDN, Miscellanee giudiziarie, 1639, cc. n.n. riproduzione parziale. 9: ASDN, Sant’Ufficio, 2879, cc. 4r-5r, riproduzione parziale; cc. 7r-8r, riproduzione integrale.

I LA CACCIA ALLE COPPIE DI FATTO

1. «SE BENE SI DICEVA CHE ERANO INNAMICATI»: I POLIZIOTTI DELL’ARCIVESCOVO E I CONCUBINI

30 aprile 1596: dalla deposizione del chierico Ottavio Porcello Io, come cursore di questa Corte, andai col procuratore fiscale dela Corte et altri cursori al loco chiamato lo Pertuso per pigliare carcerato uno donno Colangelo Perfido Fedele, che così lo sentivi nominare, che era di Ferandina. Et con diligentia a quella hora di notte de fatto si trasio1 ala camera dove habitava. Et io con li altri entrammo subito ala camera dove dormiva, che haveamo la candela con noi allomata. E come fui dentro la camera llà, trovai et vidi che in quella era un solo letto, nel quale vidi che stavano colcati, spogliati senza cammisa, tre persone. Uno era detto donno Col’Angelo Perfido Fedele... l’altra era una donna, chiamata Perna Monaca..., e l’altra era un figliola di anni circa dudici in tridici, che si diceva era la figlia di detta Perna. Lo donno Col’Angelo e Perna stavano da capo del letto colcati et quella figliola, Tarquinia, stava da piedi, che entrammo tanto de subito con la candela che non ebbero tempo de levarsi et vestirse, che restorno attassati2 di essere stati trovati in letto spogliati tutti, senza la cammisa. Et essendo stati trovati così spogliati in letto insiemi, lo procuratore fiscale ordinò si vestissero. Et si vestero, cominciando dala cammisa, et vestiti che furno fu fatta la cerca per la casa et sopra la cimminera fu trovata una testa di morto et certe ossa. 1 2

In napoletano: entrò. In napoletano: raggelati.

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Et poi, cercando dentro di una cassa, fu ritrovato un pugnale con fodaro di corame negro, con la guardia negra et col manico inargentato, di lunghezza poco più di un palmo. E furono trovate certe coselle dentro cartoscelle, le quale furno pigliate et portate qui. De più se fece la cerca sotto dele matarazze. Et per alzare le matarazze, perché quella figliola ancora stava in letto spogliata, se levò dal letto e fuori del letto se coperse con una coperta, perché stava senza cammisa. Et per tal causa io vidi e trovai dentro di un letto solo, dentro di una camera, li preditti donno Col’Angelo et Perna et figliola, tutti tre spogliati e senza cammisa, che se bene si diceva che erano innamicati, se ne stavano come li mariti et le mogliere. Et fatta la perquisitione, detto donno Col’Angelo fu portato priggione a questa Corte a quell’hora di notte, che al ritorno fecero da quella casa qua all’Arcivescovato potevano essere quattro hore sonate.

2. MORIRE NEL PECCATO: IL MATRIMONIO «IN ARTICULO MORTIS» DI LUCZA GRECA

20 luglio 1589: dalla deposizione di Raymo Barbarulo Haverrà circa uno mese che andando esso testimonio passigiando per la strada deli Greci, gionto con lo magnifico Francesco Cemmino, como forno al incontro la casa di Lucza seu Lucia greca, esso testimonio disse alo predetto magnifico Francesco che fossero saliti ala casa di detta Lucza seu Lucia a vederla, perché stava malata et si diceva che era morta. Dove essendono saliti, trovorno in decta casa uno prete greco, quale havea portato lo sacramento per comunicare decta Lucza, et una quantità di gente, homini et donne. Et trovò lo decto prete greco lo quale havea portato decto sacramento che contrastava con Caterina greca, matre di decta Lucza, et diceva che esso non voleva communicare decta Lucza, atteso era donna meretrice. Et essendoli replicato dali circostanti che esso la possea communicare, mentre decta Lucza promettea levarse da peccato, lo decto prete greco stava in detta opinione di non volerla comunicare. Et cossì, vedendo ciò detta Caterina, disse a decto prete greco, quale esso testimonio non sa como se domanda, però have inteso

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che sia parrocchiano dela ecclesia deli Greci, che là ci ero uno giovene che se voleva inguadiare decta Lucza et levarla da peccato. Decto prete greco disse: Chi è questo? Et cossì fo chiamato Cesaro de Bartolo, quale è amico di esso testimonio et stava in decta [camera]3, et sape esso testimonio era amico et concubino di decta Lucza; lo quale Cesaro, essendo venuto in presentia di decto prete greco, da esso li fo decto si volea decta Lucza alias Lucia per moglie. Decto Cesaro disse de sì et cossì poi si voltò ala Lucza e li disse si volea decto Cesaro per marito, la quale Lucza, stando cossì abandonata sopra lo coscino e le braccie di decta Caterina sua matre, non replicava cosa alcuna. Et cossì decto prete tornò ciò a replicare doi altre volte e la Luza, stando cossì abandonata et non sentendo, per quanto esso testimonio po giudicare, non replicava cosa alcuna. Et vedendo ciò decta Caterina, tocolandola4, disse a decta Lucza: Dì sì, dì sì. Et la Lucza perciò abasciò poco la testa, che quasi non la possea abasciare, si non ce la ayutava la matre a basciare. Et havendo ciò visto decto prete greco, disse alo Cesaro che la havesse basata, lo quale Cesaro la basò et poi lo decto preite5 la comunicò. Et havendola comunicata, tornò ad chiamare decto Cesaro et disse, pigliando uno [anello]6 con pietra: To, poni questo anello a decta Lucza, lo quale Cesaro ce lo posse et dopoi di havercelo posto, decto preite greco colo Santissimo Sacramento se ne andò. Et esso testimonio et decto Francesco et altri se restorno per vedere che mutivo faceva decta Lucza, atteso stava tanto lassa che quasi pareva stare in fine. Et essendono stati da circa doi hore, essendo decta Lucza venuta in sé et essendoli decto per decta Caterina sua matre che decto Cesaro li era marito et che se la havea ingaudiata e li havea posto l’anello, decta Lucza con gran inpeto incominciò a gridare, dicendo: Che marito, che marito! Che anello! Et se levò lo anello dalo dito e lo buttò in terra, dicendo sempre che non volea marito et che decto Cesaro non li era niente. Et cossì, vedendono ciò, esso testimonio et decto Francesco se ne an3

La parola tra parentesi quadre è stata inserita per ovviare al lapsus del no-

taio. In napoletano: smuovendola. Nel ms. le parole lo decto preite sono ripetute per errore. 6 La parola tra parentesi quadre è stata inserita per ovviare al lapsus del notaio. 4 5

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dorno. Et vedendo lo Cesaro che essi se ne andavano, venne apresso a loro et caminandono per strada esso testimonio et decto Francesco, li dissero como si era redutto a fare quello havea fatto; detto Cesaro respose che esso non lo havea fatto questo per pigliar per moglie decta Lucza, ma per farla cominicare et che esso tenea per fermo che di decta infirmità decta Lucza fosse morta et che non fosse arrivata ala sera di decto dì... Esso testimonio sape como decto Cesaro dopoi di questo non è più accostato in casa di decta Lucza. Et questo lo sa esso testimonio, atteso sono andati quasi di continuo insieme con decto Cesaro...

3. VITE DI «’NNAMMECATE»: UNA CONVIVENZA A TRE NELLO SGUARDO DEI VICINI

23 febbraio 1605: dalla deposizione di Luca Borzillo Saranno circa tre anni ho conosciuto et conosco Luise Palumbo de Napoli, che è sonatore et habita allo medesimo vico alle sue case proprie, lo quale haverà da circa un anno et mezo so che in casa sua tiene doi donne maritate: una ne tiene nella propria sua camera, dove dorme, et l’altra ne tiene all’altra camera di sopra, dove vi habita esso proprio, et lle tene a sue proprie spese. Una se ne chiama Livia Fontana, che è moglie de uno Cola de Turrisa, che è del arte della lana et l’altra se chiama Costanza, non so lo cognome, né meno so lo marito, ma lo marito è forse in Messina. Et con detta Costanza detto Luise ha fatto una figliola da un mese in basso. Et io perché servo detto Luise de vestiti, spesse volte ce sono sagliuto7 in casa sua et lle ho viste magnare et bevere insieme in una medesima tavola, mo con una et mo con un’altra. Anzi una matina8, poco prima delle feste di Natale prossime passate, io portai uno paro de calzette al detto Loise, quale era ancora in letto, et la detta Costanza alhora era levata et se stava vestendo. Et con la Livia l’ho visto magnare insieme. Anzi, haverà circa sei [mi]si, lo detto Loise comprò una connella alla detta [Liv]ia de panno in7 8

In napoletano: salito. Nel ms. segue, depennata, la parola poco.

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carnato, fatta et bona, et li era longa, et io ce la acumodai ad instantia di detto Loise, lo quale Loise mi pagò l’accomodatura. Et è cosa publica per tutte le gente della stra[t]a et delli convecini fora dela strata che detto Luise se tene le dette Livia et Costanza per concubine, et questa è la verità.

23 febbraio 1605: dalla deposizione di Giovanni de Martino Saranno circa nove o diece anni che io ho conosciuto et conosco mastro Luise Palumbo sonatore; la causa della conoscenza perché sempre siamo stati vicini di habitatione in una medesima strata. Et so che haverà circa un anno in casa sua tiene due donne maritate, una delle quali se ne chiama Livia, non so la casata, che è maritata con uno lanaiuolo, nomine Cola, non so la casata, quale la tene in una camera sopra do[ve] esso Luise dorme, l’altra se domanda Costanza de Messina, che similmente è maritata, ma non so lo nome dello marito, che se la tene nella propria sua camera, dove dorme. Et so che ci ha fatto una figliola che haverà circa quindece o vinti giorni. Et detto Loise me l’ha detto in presentia mia et de altri che ce ha fatto una figliola con detta Costanza et li ha posto nome Angelella. Et io sto a muro con detto Loise et ho visto la detta Costanza alla sua finestra più volte et l’ho vista anco chiamare detto Loise, dicendoli: Saglite a magnare. Et ho inteso che alla detta Livia li havea lasciato casa franca per un anno, tanto ad essa quanto alla Costanza et non so che denari. Et è cosa publica per tutte le gente della strata che sta concubinato con tutte due. Et detto Loise ha declarato in presentia mia li giorni passati che si lo marito de Costanza fosse morto [s]e la voleva inguadiare et ha declarato che se la te[n]e per concubina...

II ‘ERESIE’ SESSUALI

4. 1578-95: LE ALLEGRE PREDICHE DI DON GIOVAN BATTISTA GRECO

14 settembre 1595: dalla deposizione di Fabio Giovene Io sono stato più volte alli sermoni fatti per donno Giovan Battista Greco a S. Maria delli Meschini da dui anni indietro in qua... con diversi giovani... et ho inteso dal detto donno Giovan Battista Greco dire molte cose e parole goffe nelli suoi sermoni. Et una volta disse: Melius est multas infirmitates ferre quam multa bona opera operari [È meglio sopportare molte malattie che fare molte buone opere]; e dicendo queste parole, se voltò alla matre, ciò è verso la fenestra della camera dela detta chiesa dove stava la matre inferma, e disse: O mamma mia, o mamma mia, questo fa per te, che sei stata tanti anni al letto... Et un’altra volta disse del adulterio, che è brutto peccato et che esso don Giovan Battista una volta fu adultero, ma che non ci era stato più... Et disse ancora, saltando da palo in pertecha, alle donne: Andatavene, femene, a cocinare a vostri mariti, che poi li vostri mariti vi danno guai, e li circonstanti tutti risero et esso se posse a ridere e lo sermone si finio in riso. Et disse alle donne: Et voi femene, che non vi volete mettere con li vostri mariti per non fare figli, e faciti e diciti al letto a vostri mariti: Voglio e non voglio, facendo motivo con la sua persona. E disse ancora: Faciti sette figli per amore di Maria e tanti altri per lo tale santo... Et disse di più che le donne che si ponevano con li mariti la notte, che la matina se potevano communicare, e quante volte se mettevano con li mariti che tante volte se potevano communicare la matina, et che

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quante volte se communicavano tante volte guadagnavano l’indulgentia... Et volendo dare lo esempio del focile, disse: lo chillito et la chelleta publicamente, volendo dire lo focile et la pietra focale quando cacciano foco, facendo segno con le sue mani... Et ci erano molti che ci andavano a posta per sentire queste simile sue goffarie. Subdens: Donno Marcello Blanditio have scritto li sermoni di detto donno Giovanni Battista Greco et io l’ho visto scrivere quando ce sono andato, et quando non ci sono andato donno Marcello mi diceva: Questo ho scritto hoggi, che l’ha ditto donno Giovan Battista Greco, et erano delle goffarie e me mostrava un quinternolo in ottavo... 5. 1591: DISSACRAZIONI. GLI OMOSESSUALI DELL’«ACCADEMIA NOBILISSIMA» E LA CONFESSIONE

12 dicembre 1591: dal costituto di fra Raffaele da Napoli Et deppiù detto Carlo si lamentava di detto Detio Ogeda, dicendono che detto Detio1 a tempo che se alzava l’ostia in la celebratione della messa et il calice, mi fe’ giurare promettendo et dicendo queste parole: Prometto et voto a questa ostia sacra che si alza da questo sacerdote di non peccare carnalmente con altra persona, solo che con detto Detio. Et il simile diceva quando se alzava il calice et che non2 havesse praticato con nesciuno sacerdote, et particularmente con me, fra Rafaele. Et esso Carlo replicandoli como havea da fare, volendosi confessare, et che Detio rispond[eva]: Io non voglio che ti confessi perché te voglio confessare io. Et essendo gionta una festività, se confessò ad detto Detio et stava de questo modo in la confessione: ciò è, stanno detto Detio seduto et esso Carlo ing[e]nocchiato dentro le gambe di detto3 Detio, tenendo in mano il membro di detto Detio, dicendoli esso Detio che questa era la bacc[het]ta che tene in mano il penitentiero. Et cossì esso come confessore teneva la bacchetta. Nel ms. seguono, depennate, le parole a tempo che. Nel ms. seguono, depennate, le parole si fusse confessato. 3 Nel ms. segue, depennata, la parola Oratio. 1 2

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Et incominciando ad confessarsi de peccati, dicendo: Padre, io ho peccato di havere fatto il voto al sacramento di n[on] peccare con altro, solo che con V. S., ciò è di farmi bucerare da V.S. et n[on] da altro, et detto Detio li replicava che non accadeva confessarsi di questo, dicendo: Bene mio, questo non è peccato, perché Christo dà il sangue et carne sua al homo, et cossì io ti do le mie carne et il [mio] sangue purificato, il meglio che ho, volendo inferire al seme, quando lo bucerava, et però non ti lo confessare. Et4 diceva che liberava una anima dalle pene del purgatorio, poi che liberava esso dal ardore de amore che pateva per esso Carlo. Deppiù, confessandosi che si haveva fatto basare da esso Detio, esso Detio respondeva che non era peccato, ma li voleva levare questo scrupulo, dicendo: Orsù, io bascio la croce, et cossì li faceva [la] croce in bocca et in faccie et basciava sopra detto segno, dicendo anco che basciare in terra non era peccato et che per questo, essendomo terra5, si poteva basciare l’uno all’altro et non era peccato. Et cossì anco diceva che se veneva un angelo in terra non era peccato a basciarlo; et per questo esso Carlo, essendo angelo suo in terra, lo basciava. Et tra questo detto Detio astringì esso Carlo con le gambe et con le braccia. Et facendoli male, esso Carlo diceva: Diavolo, tu me fai male. Et cossì esso Detio diceva che lo perdonasse et perdonando al nemico si faceva pace et con questa occasione lo basciava. Subdens: Nel principio che si cominciò a confessare nel modo predetto esso Carlo, quando Detio predetto li disse della carne de Christo, esso6 lo ributtò, dicendoli: Tu si eretico. Et esso Detio disse: O, questo è peccato che me hai chiamato eretico, è di bisogno che tu mi cerchi7 perdono et che mi basi. Et volsi che lo basciasse, fandoli anco cavar la lingua, dicendo: La lingua ha peccato8 in chiamarmi eretico. Et esso voleva dare la penitenza alla lingua, et la volsi strengere un poco con li soi denti. Et conchiudendo la confessione et dicendo che non haveva peccato, diceva: Tu Nel ms. segue, depennata, la parola confessandosi. Nel ms. segue, depennata, la frase non era peccato. 6 Nel ms. segue, depennato, il gruppo di lettere lo ri, probabile inizio del successivo lo ributtò. 7 Nel ms. cerci. 8 Nel ms. seguono, depennate, le parole et esso. 4 5

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sei santo et como santo io te baso, perché non è peccato basare le reliquie. Et li diceva: Orsù, ti voglio dimandare io di qualche peccato, como fanno li confessori: hai fatto arrabiare tua matre? Et esso Carlo rispondendo che sì, esso Decio diceva: Or questo è peccato gravissimo, perché fai arrabiare quella la quale ha partorito uno angelo di sblendore et di belleza et di luce, et voglio che basi la terra dove tua matre cammina. Et li dimandava altre cose per peccato, dicendo si lo haveva gabato, si haveva praticato con quelli che lui l’haveva vietato et altre cose simile de adulterio, dicendo: Io te voglio fare la absoluzione, et fratanto tiene in mano questo radicone, dicendo: Misereatur tui et indulgentia etc. Et cossì, dopoi finita questa confessione, detto Detio diceva ad esso Carlo: Orsù, voglio che tu mi confessi a me, ma te voglio fare prima sacerdote et li poneva il fazoletto al collo, dicendoli: Questa è la cotta et ti do la mia autorità et altre cose, dicendoli: Adesso sei sacerdote. Subdens: Finito che era la confessione, detto Detio li diceva per parte di basciami la mano: Basami la bocca, poi al confessore se li bascia la mano, como sacerdote basciame a me la bocca. Perché non so sacerdote? Et li basciava la bocca... Carlo... mi disse che haveva anco fatto una fattochiaria seu sortilegio con Paulo Polimeno per sposarsi insieme con detto Paulo et mai separarsi dall’amore l’uno dal altro et era Paulo il marito et esso Paulo la mogliere. Et havevano fatto giontamente questo sortilegio, ciò è che havevano preso moneta di peccato di sodomia, la quale moneta era stata guadagnata da detto Paulo in questo modo, perché bisognava haverla da tre prelati seu sacerdoti principali che fussero preti secolari che havessero autorità di comandare, con li quali esso Paulo havesse fattosi bucerare da li predetti di giorno di festa, et che havessero celebrato messa l’istesso giorno. Talché detto Paulo haveva abuscato le dette monete nel modo predetto da tre prelati seu superiori, ciò è dal R. Flaminio Torcella, che allora era vicario generale de Napoli, dal P. Horatio Raparo, allora vicario furaneo delli casali de Napoli, quale stava al borgo di Santo Antonio allora, si mal me ricordo, ciò è che in detto loco fu fatto il peccato di sodomia, et l’altro dal R. Gabriele Sanges, Cappellano Maggiore, figlio del marchese di Grottola, et che havendo peccato con li predetti ne haveva receute le monete... Detti prelati erano consapevoli della causa perché havevano a servire dette monete...

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Et da questi tre, ciò è come prelati seculari, era necessario havere dette monete, ma che si poteva farsi bucerare da altri sacerdoti et regulari, che fussero persone de autorità... cossì come già ne have havuti del modo preditto et fattosi bucerare da monaco de Piedegrotta canonico regulare de casa Caracciolo, dal priore de Santo Augustino nomine maestro Girardo Blanco, da maestro Cesario napolitano, medesmamente di Santo Augustino, da fra Sebastiano de Napoli, detto Monsignore, del medesimo ordine di Santo Augustino, a tempo era procuratore, et dal guardiano di San Lorenzo, che non me ricordo il nome, da fra Agabito de Napoli, zoccolante predicatore (con il quale detto Paulo fece altri secreti de nigromantia, per quanto lui me disse). Et da questi istessi il detto Paulo fu bucerato et ne hebbe denari nel modo predetto, per detto effetto, dopoi la celebratione della messa, essendono anco consapevoli del fatto a che fine havevano da servire li denari...

6. XVII SECOLO: PECCATI DI «’NNAMMECATE»

Sono stato ’nnammecato anni 6 con Anna e ho peccato anche con la madre volte 16 incirca, e con le mie mano volte 20. Con la sorella ci ho pazziato9, con maniarla alle parte dissoneste e c’ò avuto male pensiero volte 50 incirca. Il marito fece pace con detta Anna ed io fece male pensiero d’ammazzarlo e feci fare una fattecchia d’una femina, acciò se ne fusse andato detto marito; e c’ebbi credito. Ancora m’imparai di fare alcune cose che servevano per levare il sonno ed a fare alcune carte da giocare che servivano per vedere quello che desiderava. Ho peccato con altre donne publiche più di 200 volte incirca e tre volte o cinque ce sono andato da direto. D. Michele Caliota fe’ uno sfriso10 a detta Anna ed io voleva ammazzarlo perché mi gravò di parole. 9

In napoletano: giocato. In napoletano: sfregio.

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Alle volte ho perso ed ò biastemato il sacramento della messa, Giesù Christo e per disprezzo sono andato a peccare. Sono andato a chiamare il diavolo, che li volevo darli l’anima, pure che m’avesse dato denari, con dire che non era il vero che v’era Idio Benedetto; e vedendomi disperato che non mi rispondeva, disse che non c’era né Iddio né diavoli, con dire che non vi era né Inferno né Paradiso volte 2. Una volta si giocai in casa di uno studente e l’arroboro11 carlini 1512, che a me m’avevano dato grana 13. Altre volte anno rubbato ed io non ho voluto niente. Giacinto mi diete una cosa che diceva lui che non ci potevano armature, diceva averci fatto dire 3 messe sopra. Ho peccato con le mani più di 200 volte. Sono andato con la superbia, ritrovandomi irato, contro la13 Madonna e Giesù Christo, con darli di mano. Ho giurato Giesù Christo con la buggia volte cinque. Non ho inteso messa tre volte. A mio padre e mia madre l’ho portato male rispetto di parole, biasteme; e l’ò desiderato morte. Vigilia ho mangiato di camera14, e due volte ho mangiato carne di venerdì e di sabato. Una volta fece una chiava falsa al tiraturo di mio padre e mi pigliai molti denari. In napoletano: rubarono. Nel ms. segue, depennata, la frase e mi disse. 13 Nel ms. segue, depennato, il gruppo di lettere mand. 14 In napoletano: ho mangiato di grasso. 11 12

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Un’altra volta, con D. Giuseppe Valva, Giacinto si prese alcune cose e voleva che io l’avesse fatto testimonio e diceva di non saperne niente. Fece un’altra volta un testimonio com’aveva avuto copula con una femina, acciò avesse fatto il contendamente15 ad un amico che l’aveva deflorata; ed io non la conosceva affatto. Ho avuto invidia qualched’uno ch’ave denari più di me. Sono stato dissonesto nella chiesa ed c’ò fatto l’amore, con dare scandolo. Non ho fatto mai quadragesima e nemeno ho digiunato mai. Ho detto sempre parole dissoneste più di cinquemila volta incirca. Ho peccato d’ira volendomi vendicare e poi m’è passato quella superbia. Ho peccato una volta con le mani d’Anna ed un’altra volta con16 le mano d’un’altra donna. Andando fuori, ho pazziato con una17 zitella zita, con baci e con maniarle le zizze e ci ho fatto male pensiero; e m’era parente. Alle volte il diavolo mi portava nella mente che cosa è questo Iddio, da dove n’è venuto; e mi faceva perdere di fede. Ho biasmate18 tutti peccato veniale, i morti, la fede, il canchero e qualsivoglia peccato veniale che si possa dare. Fare il contendamente vuol dire con ogni probabilità rimettere la querela. Nel ms. segue, depennata, una m. 17 Nel ms. segue, depennata, la parola sitella. 18 Con ogni probabilità per biastemate. 15

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Ho biastemato tutto il Paradiso, S. Pietro, S. Paulo, tutte sciorte di biasteme de santi. Ho fatto l’amore con una gentildonna e li fece una fede, nominandoci Giesù Christo e la Madonna del Carmine, che ho pigliava essa per moglie o pure mi faceva soldato. Ho peccato con la serva di casa, e m’era parente, da fuori, volte 200 incirca. Ho peccato con la serva che sta presentemente in casa volte 25 incirca. Ho fatto confessione malamente volte 10, al più 12. Giovedì santo andai a prendere uno tesoro con incenzo de cerio, incenzo benedetto e con candele de sepulcro. Un cane che stava in casa fuori vi fece un male pensiero. Ho detto male de religiosi giesuiti ed altri, dicendo che loro erano più infami de segolari. Con i miei fratelli, quand’erano piccerilli, pazziavamo sopra il letto con i membri da fuori e facevano molte cose. Una femina mi fece una borsa19 con mille cose dentro e mi disse portanto quella sopra io vingeva quando giocava. Era scolaro e mi baravano20 d’attaccare i cani21. Ho giucato alla beneficiata22 con fare mille cose. Nel ms. segue, depennata, la parola di. Probabile svista per imbaravano (in questo contesto, in napoletano, insegnavano). 21 Nel ms. seguono, depennate, le parole nomi di bennafficiata. 22 È il nome della più antica versione del lotto diffusa a Napoli. 19 20

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Amori proibiti

Caterina a Pontenuovo e mio fratello carnale e cocino c’ò peccato volte 10. Ò giucato a paresepinto23. Ò tirato mano alla spada alla Pace. Secunigliano, D. Giuseppe e Giacinto. Tirato mano alla spada alla Nunziata. Quel frate, D. Francesco, peccò con le mano sue avanti di me, dicendo: Io non so se ce lo ritrovai o pure ce lo portai. Beneficiata: S. Pandileone ed S. Giuseppe, Pater Noster ed Ave. D. Francesco di Capua peccò anche con le mano sue avanti di me e due altri amici, nel mentre D. Michele stava peccando con una donna mala. Signore Filippo peccò avanti di me ed altri amici con una muta e uno di questi che stava con noi ci peccò da dietro; e non fu pagata. Ed anco detto Signore Filippo peccò con un’altra donna maritata, detta la moglie de vastaso24 – esso è caetano – ed intanto non ci peccai anche per ragione che stava poco bene; e pregai a D. Ciccio che c’avesse peccato e l’avesse dato qualche cosa de denaro. Potta di S. Marco, Gaetano e Merco. M’impignai il ferraiolo e mangiai25 carne di venerdì e poi porNon sono riuscito a identificare questo gioco. In napoletano: facchino. 25 Nel ms.: maggiai. 23 24

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tai a peccare, ciò è a dormire con male donne, quelli com26, ed io pagai per tutti. D. Giuseppe Quarto ed Anna e la madre dicevano ch’erano fattocchiare ed andavano ritrovando fattocchiare, acciò avessero fatto morire detto marito di quella che si teneva detto D. Giuseppe Quarto; e loro li davano a credere27 molte cose false, o fosse il vero o non. C’andava anche un paggio che voleva essere fatte le carte ed io un giorno ne lo mandai via, che voleva sapere che cosa faceva la padrona. Sonette ed altre cose del cavaliero Marino, come un giesuito s’ammalò. Un’altra volta ebbi a dire con una femina, e quella lo disse al marito il quarnementaro; ed io voleva uscire per ammazzarlo. Un’altra volta ebbe a dire con la moglie di un cocchiero, per cui fece pace col marito; ed io diceva che voleva ammazzare il cocchiero. Per le strate sono andato dissonesto, con burlare a zitelle zite, facendoci l’amore. Stanno alla massaria, ò detto a figlioli con chi facevano l’amore e quelli mi dicevano: Con questa, con quella. Ed io diceva ad uno Giuseppe che l’avesse detto a sua sorella. E quello mi rispondeva: E quella à fatto male con D. Carlo. Ho fatto male pensiero con ziema28 che stava fuori. 26 Da intendere forse come compagni, anche se il ms. non reca tracce di abbreviazione. 27 Ma nel ms. si legge rendere. 28 In napoletano: mia zia.

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Amori proibiti

Con mia madre, stanno sopra il foco. Un prete con mia madre. Il medico29 che m’à medicato e non m’à quarito, volte 6, D. Natale il medico. Ho biastemato S. Vincenzo volte 3. Ho fatto l’amore con le piggionante ed ci ò fatto male pensiero per la finestra. Dentro la Cappella facevano i tosti30 assieme con Nicola il biso, Matteo Ciaboro, Caliota, Giacinto e Peppo Aloia ed il marinaro Gioacchino. Giacinto dentro quella Cappella ci faceva tutte sciorte di peccati con huomini e dormiva la notte con la femina31 sua. Mi sono andato avandanno32 ch’aveva avuto copula or con questa, or con quella altra donna cattiva. Io stesso, toccandomi da dietro, diceva come fanno quelli che se lo fanno mettere. E ci faceva male pensiero, con avere mali pensieri d’huomini. Faceva anche male pensiero che s’avesse ritrovato qualche femina che con il centrillo33 m’avesse peccato da dietro, io ce aveva sodisfazio[ne]. Con la Madonna ho fatto male pensiero. Nel ms., per una svista: Il medicato. L’espressione fare i tosti è incomprensibile, anche se sembra riferibile a giochi o ad abusi di carattere sessuale. 31 Nel ms. segue, depennata, una parola illeggibile. 32 In napoletano: vantando. 33 In napoletano: clitoride. 29 30

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Avendo perso nel gioco, ho biastemato Giesù Christo con parole ingiuriose34: coscie da crillo. Fecero un messero35 nella cappella, a me pare che dietero un carlino di pezzotto. Ho letto storie dissoneste e c’ò avuto custo. Antonia vicino Amelio sono stato da fuori con essa, e con la sorella non ci potei stare; e poi mi sono andato avantando ch’io l’aveva fatto il servizio. Anna mi disse ch’io per questo non andava a ritrovare più detta Amelio, per ragione ch’essa v’aveva buttata una carrafina, la quale faceva che quella non m’avesse potuto vedere. Non potevo peccare con essa per ragione che stava attaccato ad essa. Mi disse che m’aveva attaccato detta Amelio e chiamò una femina, Francesca, e quella comprò alcune cose a nome del diavolo e di quella, e mi sciolse, secondo loro dicevano. Maria, Giuseppe, la sorella di detta Anna, facevano la carafa. Col Presidente di Franco disse che la sua figlia s’era ritrovata assieme con il fratello. Moneca di Lamberti. Felippo d’Aniello della Duchesca ed Anna mi dessino mampa36 a Forio. Anna dice ancora che sono obligato di darli tanto, in quanto che dice che per l’amore mio si ritrova [pez]ente. Nel ms. giuriose. L’espressione fare un messero è incomprensibile. 36 L’espressione dare mampa risulta incomprensibile. 34 35

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Amori proibiti

7. TRA SANTITÀ ED ERESIA: UN CONFESSORE ORATORIANO DEL SEICENTO E LE DONNE

19 aprile 1634: dalla denuncia di Santa Vecchione Dico dunque io predetta Santa che, essendomi confessata da quattro anni incirca col Padre Romolo De Mario o De Maio... delli Padri dell’Oratorio de’ Gelormini, nella loro chiesa vicino all’Arcivescovato, saranno doi anni incirca, e se ben mi ricordo principiò dal giorno della Concettione Santissima della Vergine alli 8 di dicembre 1631, che il detto padre, dopo esser passati molti segni d’affettione e protettione verso di me, a poco a poco poi col tempo cominciò covertamente a dimandarmi cose lascive e non convenienti, mentre mi stava confessando. E la prima volta mi dimandò di voler vedere le mie zizze, le quali semplicemente io ce le mostrai. Poco dopo, per altri peccati carnali et altri casi simili tra marito e moglie che diceva occorrerli nelle confessioni, e delli quali non ne havea notizia, né li trovava espressi nelli suoi libri, per poterne dar buona risposta nelle occorrentie et istantie che se gli facevano [haveria vo]luto farne l’esperienza col vedere e toccare dentro la natura delle donne, per vederne come stava e restarne istrutto. E con questa occasione, per l’istantia che me ne fece, e credendo semplicemente alle sue parole, occorse di toccarmi con le sue mani dentro la natura, benché con mia molta erubescenza e ripugnanza interna. E dopo questa prima volta occorsero da altre diece incirca nel progresso del tempo, sempre con pollutione mia et sua, causata da detti toccamenti. E fra tutte queste dieci volte, in due o tre vi sono occorsi anco baci. Et un’altra volta volse veder le mie parti pudende scoverte; et un’altra, da un certo luogo della sua camera e monasterio, che scopriva la camera mia, per appontamento prima pigliato tra noi mi volse veder tutta ignuda, benché io non mi avesse voluto levar la cammisa. Tutte queste dieci volte incirca dette di sopra sono occorse, standomi io attualmente confessando con esso. E la magior parte di queste sono occorse nella casa del signor don Carlo Minadois, vicina all’Arcivescovado, nelli cui servitii io me ne ritrovava in quel tempo; e l’altre in casa della signora Claudia Piscicelli e del signor don Giorgio Castrioto, ove al presente mi ritrovo per loro servitio. E fra tut-

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te queste volte ne sono successe molte nelli oratorij delle dette case, ove se ci diceva messa. Di più, fra questi doi anni e più, come di sopra, il detto padre Romolo mi ha fatto continuare la confessione e comunione due e tre volte la settimana per ordinario nella sua chiesa. Et in tutte queste volte per ordinario mi parlava fra la confessione e voleva che anch’io havesse parlato e nominato cose oscene e di affettione, che non conviene dirle; dalle quali parole per ordinario sempre, nell’istesso tempo, mentre mi confessava e stava nel confessionario, me ne causava pollutione, e forsi anche ad esso; ma di lui non me ne poteva accorgere, stando dentro il confessionario con la faccia rivolta dentro e non potendolo mirare. Delle quali pollutioni, toccamenti della natura et altre cose dette di sopra, io mai me ne son confessata da esso, persuadendomi non esser necessario, per esser cose che passavano con esso stesso, e ben le sapea; e che neanche erano peccati, mentre l’istesso mio confessore me le dimandava. Inoltre, poco dopo del principio delle dette cose, mi fece fare giuramento e voto d’obedienza a lui stesso, che mai havesse avuto da confessarmi da altri che da esso solo; che delle dette cose non ne avesse parlato con nessuno, neanche in confessione, e che generalmente non avesse parlato né trattato con nessuno. Domandata la detta Santa di nuovo con giuramento... se delle dette cose se n’ha potuto accorgere persona alcuna o d’altro modo altri lo sapessero, dixit: Nessuno, per quanto io m’imagino, né anche io n’ho parlato con altri, tenendone voto e giuramento come di sopra; anzi, neanche n’haveria parlato adesso a V. Reverentia P. Marco, se non fosse stato che in questi giorni di settimana santa e di giubileo, m’è venuto un certo lume e scrupolo nel cuore, che non mi lasciava resistere, dubitando di non stare in qualche inganno e di non star bene di coscienza di questa maniera; tanto più che pensava d’andar fuori di Napoli forsi per tutta la vita mia, ove non sta sicura la persona di haver buoni confessori...

III RESISTENZE 8. NAPOLI, 1639: LA TAVERNARA CATERINA CERQUA

30 aprile 1639: dalla deposizione del chierico Marino Russo ...hoggi verso li 18 hore incirca, essendo io andato a ponere uno cartone di scomunica per concubinata a Catarina Cerqua, tavernara allo Cavone di Santo Eramo, et dopo affissolo et publicatolo a sono di campanello, con concorso di molte gente, et dopo haverlo lasciato affisso nello muro con l’ostia, è uscita la detta Catarina con uno animo diabolico et con una furia ha pigliato lo detto cartone dallo muro et pigliatoli1 et fattone mille pezzi, che sono queste carte che io ho dato a voi scrivano, et sono l’istesse che voi tenete sopra questa tavola. Et mentre lo stracciava, diceva la detta Catarina: Io tengo sotto li piedi il cardinale et il papa et tutta la corte, che non conoscie nessuno, che se contenta essere scomunicata mille volte, che non se ne curava. Et io videndo questo, sono andato per carcerarla, ma perché vi erano concorse molte gente et io era solo, l’ho lasciata et ho citati li testimonij, et questa è la verità.

2 maggio 1639: dalla deposizione di Costanza Manzo ...Sabbato proximo passato, verso le 18 hore incirca, stando io dentro la mia casa, intese lo campanello sonare et io mi affacciai alla fenestra et intese che il detto abbate Marino Russo, corsore di 1

Nel ms.: piglitoli.

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questa Corte, publicava Catarina Cerqua per scommunicata per concubinata con Giovanni Battista de Leone. Et detto Marino affisse lo cartone allo muro, allo pizzo della taverna dello Cavone di Santo Gennaro, et voltato che hebbe le spalle il detto abbate Marino, uscì la detta Catarina da dentro la taverna et andò dove stava lo cartone affisso et lo pigliai et lo stracciai, che ne fece cento pezzi et lo buttai in terra, dicendo: Quelli non si voleno fare li fatti loro, perché io non sono scommunicata. Et perché concorsero gente, io non potte sentire altro, che me ne intrai et non sentette altro. Et questo è quello che so et è la verità...

9. NAPOLI, 1644: L’IMPERTINENTE BELLUCCIA PENNA

3 agosto 1644: dalla deposizione di Vittoria de Alvino ...Io me imagino esser stata chiamata et dovere esser essaminata per uno certo cartone di scommunica quale fu spiccato dal muro la settimana passata, che furono li ventidui del mese di luglio. Et il fatto è passato di questa maniera: verso le quattordice hora in circa, stando io nella casa mia, intesi sonare uno campanello et io uscii da dentro detta mia casa per vedere che cosa era. E viddi che uno scoppettella dell’Arcivescovato metteva allo muro uno cartone di scommunica, et doppo haverlo posto detto scoppetella se partì. Et in questo venne uno homo giovane e lesse detto cartone di scommunica e disse che in detto cartone ce stava scritta come scommunicata per concubinata Vittoria Miele. Et intendendo2 questo Belluccia Penna, figlia di detta Vittoria, se alzò da dove stava et spiccò dal muro detto cartone di scommunica et se lo pose in culo et doppo se lo arravogliò in mano et lo gettò dentro una cantina e disse: Pago cinque carlini di cera allo Vescovato e ne esco de sta scommunica. E disse di più: Ogni uno si vada ad essaminare all’Arcivescovato e dica che io ho levato detto cartone... 2

Nel ms.: intendo.

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Amori proibiti

Interrogata an sciat aliquid aliud de dicta Belluccia Penna, de eius fama, inimicitia et contestibus Respondit: Io non so altro di detta Belluccia: è prosontuosa, impertinente et essa mi è cognata et amica et ha un mio fratello carnale per marito...

21 agosto 1644: il costituto di Belluccia Penna Die 21 mensis augusti 1644, Neapoli, in Palatio Archiepiscopali, coram admodum Illustri et Reverendo Domino D. Alexandro Russo commissario, canonico neapolitano, assistente admodum Reverendo Domino Advocato fiscali meque etc. Educta e carceribus et constituta personaliter Belluccia, filia quondam Thome Penna, neapolitana, habitans alla Duchesca, alle case di Santo Severo, uxor Dominici de Alvino, cavallarii, etatis annorum decem et novem incirca, ut dixit, cui delatum fuit iuramentum veritatis dicende, et cum iurasset, tactis sacris etc., fuit Interrogata an sciat vel suspicetur causam sui praesentis constituti in Sancto Officio. Respondit: Io me imagino che sia atteso che li giorni passati fu attaccato uno cartiello di scommunica vicino la strada mia, alla Duchesca, et le genti dicevano che ce era nominata Vittoria Miele, mia matre. Et essendosene andato il nuntio, vennero a leggere detto cartiello più di venti persone e facevano lo mormoro et dicevano che detta Vittoria era scommunicata per concubinata. Et io pigliai detto cartone dallo muro et lo arravogliai in mano e doppo lo gettai in una cantina; et io me lo volevo mettere dentro la sacca, ma perché ce erano tanta gente, lo buttai dentro detta cantina. E questo lo fece acciò mio marito non lo trovasse e dicesse che come mia matre faceva male facesse io ancora. Et le genti me dicevano: Perché non l’hai levato di notte? Et io rispose: Però l’ho levato di giorno, acciò ogni uno veda che io l’ho levato et non ne sia infamato qualche uno altro. Né sapevo che ce era la scommunica, perché io la scommunica la temo. Interrogata an posuerit dicta fragmenta dicti cedulonis in aliqua alia parte sue persone, et protulerit aliqua alia verba, et que

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Respondit: Io quando pigliai detto cartone, me lo volse porre nella saccociola del mio dobletto, ma poi non ce lo pose e lo buttai nella cantina e non me lo posi in altra parte della mia persona e non dissi altre parole di quelle che ho detto di sopra. Interrogata an posuerit dictum cedulonem seu eius fragmenta in partibus posterioribus id est anu sue persone, dicendo: Cum quinque carolenis ego emergam ex hoc negotio Respondit: Non ce è tal cosa. Et ei dicto ut narret puram veritatem, nam ex actis colligitur quod ipsa constituta post arreptum dictum cedulonem illum posuerit in partibus posterioribus suae personae, id est anu, dicendo quod cum quinque carolenis exibit ex hoc negotio, et non est verisimile quod testes cum iuramento hoc affirmassent, nisi re vera hoc vidissent et audissent Respondit: Li testimonij hanno detto lo falso. Interrogata an habeat aliquos inimicos, et quos, et pro qua causa Respondit: Io ho molti inimici nella strada mia, perché sono impertinente et gli do di mano qualche volta, et tutti della strada mi sono inimici et qualche volta me chiamano cavallone, ianarone, et io me defendo et gli do di mano. E questo è continuo, quando vene l’occcasione. Interrogata an crediderit seu credat non esse a subditis obediendum Episcopis, eorum Vicariis in rebus spiritualibus vel spiritualia concernentibus vel eorum praeceptis et excommunicationibus non esse parendum Respondit: Io credo che alli Vescovi e Arcivescovi e loro Vicarii se gli debbia obedire nelle cose spirituali et alle loro scommuniche e precetti se gli debbia obedire dalli sudditi, ma io non sapevo che quello cartone fusse scommunica. Et ei dicto quod cum tam animose et faciliter amoverit dictum cedulonem et turpiter apposuerit cum ignominia3 in partibus posterioribus, praesumitur quod habuerit malam credulitatem circa dictum articulum de obedientia exhibenda Episcopis, propterea dicat veritatem Respondit: Nessuno me disse che levare lo cartone era pecca3

Nel ms.: ignomia.

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Amori proibiti

to, perché se me l’havessero detto, io non l’haveria fatto. Et io credo che si debbia obbedire alli prelati della santa Chiesa. Quibus habitis et acceptatis, fuit supersessum examen, animo etc., imposito silentio sub iuramento, et quod signet. Et fuit remissa in locum suum. † signum proprie manus dicte Belluccie.

INDICI

INDICE DEI NOMI

Accati, L., 72. Acquaviva d’Aragona, Ottavio, cardinale, arcivescovo di Napoli, 118, 125, 165. Adamo, 106. Agostino da Napoli, frate, 205. Albana, Teresa, bizzoca, 130. Alberigo, G., 9, 20. Albizzi, Francesco, 23, 71. Alcalà, duca di, vedi Ribera (Rivera), Pedro Afán de, viceré di Napoli. Alderisio, Scipione, 7. Alessandrino, cardinale, vedi Pio V. Alfonso II d’Este, duca di Ferrara, VIII. Amabile, L., 50, 62, 69, 100, 115, 118, 154, 184-186, 207-208. Amatuccio, Giovanni Antonio, 195. Ambrogio, santo, 86. Ambrosio da Napoli, frate, 205. Anastasio, E., XIII. Andersen, H.C., 7. Angrisano, Prospero, 120. Antonia siciliana, 131. Arcella, Giovanni Tommaso, 169. Arciero, Aniello, padre, 183-184, 187-188. Arlotto, pievano, vedi Mainardi, Arlotto. Arrivabene, Andrea, 70. Ascione, Aurelia, 103. Attendolo, Gaspare, 50. Attendolo, Giovan Battista, 50. Avellone, Ciomma, 220.

Bainton, R.H., 93. Baldana, Tolla, 168. Baldassari, M., 22. Bamaltelli, Annuccia, 169. Barahona, R., 10. Barbarito, Diana, 121. Barbarulo, Raymo, 59. Barbata, Laura, 146. Barberini, Antonio, cardinale, 150152. Barberini, Francesco, cardinale, 195. Barblan, G., XIII. Barletta, L., 100. Bartirone, Giovan Battista, prete, 175. Bartolomeo indoratore, 130. Basilia, Marzia, 113. Basso, Pietro, 96. Battimiello, Tonno, 168. Bellabarba, M., 15. Bellarmino, Roberto, 4. Beloch, K.J., 36, 166, 215. Beneventa, Silvia, 120. Benincasa, Orsola, 185. Bernardino da Siena, santo, 8. Bernardo di Toledo, frate, 104. Bertazzoli, Giovan Battista, padre, 192. Bertolotti, A., 206. Bettoni, M., 44. Biffi, I., 96. Bilotta, Atanasio, padre, 84-85. Black, Ch.F., 17. Bolognino, Angela, 169. Bonaccia, Francesca, 176.

250 Bonadies, Giovanni Biagio, curato, 141. Bonazzoli, V., 69. Boncompagni, Francesco, cardinale, arcivescovo di Napoli, 150152, 155-161, 165-166, 173, 175, 177-179, 181. Borromeo, Carlo, santo, 15, 25, 138. Borromeo, Federico, cardinale, arcivescovo di Milano, 187. Borzillo, Luca, 117. Bracca, Nicoletta, 134. Brambilla, E., 18. Bray, M., 178. Brundage, J.A., 8-9. Bruno, Giordano, 102, 109. Bruno, S., XIII. Buono, Giuseppe, chierico, 107-109. Buoso, Andrea, prete, 118. Burali d’Arezzo, Paolo, cardinale, arcivescovo di Napoli, 48, 50, 103. Caccamo, D., 68. Caccavo, Orazio, 107. Caccia, Giovan Battista, 175. Calabrese, Persia, 35. Califano, Carlo, 153. Calise, Pietro Antonio, parroco, 171. Calvi, G., 216-218, 220. Calvino, Giovanni, 68. Campanella, Tommaso, 102, 112, 118. Canone, E., XIII. Canosa, R., 67-68. Cantarella, Giovanni Marco, 127128. Cantimori, D., 68. Caputo, Girolamo, prete, 121. Caracciolo, Galeazzo, 96-97. Carafa, Decio, cardinale, arcivescovo di Napoli, 125-126, 137, 150151, 165, 183. Carafa, Francesco, cardinale, arcivescovo di Napoli, 33. Carafa, Giampietro, cardinale, arci-

Indice dei nomi

vescovo di Napoli, papa, vedi Paolo IV, papa. Caratenuta, Simone, 54. Carbone, Popa, 134. Carlo V, imperatore, 65. Carlone, Giovan Battista, 176. Carosello, Annibale, 79. Casella, Battista, 91. Casella, Sisto, frate, 111. Casey, J., 10. Caso, Giovanna, 176. Caso, Renzo, 114. Cassese, M., XIII, 96, 98. Castaldo, Marco Antonio, 60. Castaldo, Sibilia, 55. Catalano, G., 42. Cattaneo, M., 22. Cavaliero, Andrea, 146. Cavallo, Francesca, 120. Cennamo, Ientile, 169. Cerqua, Caterina, 173. Cesare, Francesco Antonio, 182. Cesario di Arles, santo, 8. Chioccarello, Bartolomeo, 41, 44. Chojnacki, S., 10. Ciardullo, Francesco Antonio, curato, 140. Ciciliano, Nunzio, 132. Cimmino, Francesco, 59. Cioccia, Giovanni Giacomo, 180. Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini), papa, 25, 37. Colafemmina, C., 69. Coldagelli, V., 151. Comba, R., 11. Comite, Giovan Pietro, 59. Confuorto, Domenico, 198. Conte, Popa, 168. Corcione, Bartolomeo, 110. Cosentino, Iacovo, 172. Costa, Marco Antonio, frate, 202. Costanza di Messina, 116-117. Crisconio, Giuseppe, 127. Criscuolo, V., 98. Crispo, Giovanni Angelo, 51. Crispo, Giovanni Simone, 51.

Indice dei nomi

Croce, B., 94, 186, 215. D’Acampora, Francesco, 137. d’Accetto, Costantino, 52. D’Alessio, S., 178. Dall’Orto, G., 67. D’Ambrosio, Giacomo, 114, 122. d’Aniballo, Margherita, 169. d’Anselmo, Gaspare, parroco, 54. D’Aquino, A., XIII. D’Arimini, Ottavio, 100. de Alois, Cesare, 196. Dean, T., 12. de Ayllar, Alessandrello, detto Cippe Ciappe, 108. De Bartolo Cesare, 58. De Boer, W., 15. de Buono, Vittoria, 105. de Caro, Carluccio, 51. De Cesaris, A., XIII. de Criscenzo, Vincenzo, 148. de Donna, Giovanni Vincenzo, 103. de Dura, Fabrizio, frate, 105. de Durante, Giovanna, 114. de Falco, Francesco, 167. de Falco, Ippolita, 167. de Filippo, Nardo, 136. de Franceschi, Sebastiano, prete, 99. De Frede, C., 70. De Giorgio, M., 12. de Giovanni, Fabio, 121. de Guevara, Innico, padre, 136. de Idra, Ottavio, parroco, 169. Del Balzo, Carlo, 169. dell’Andretta, Grazia, 90. della Tolfa, Olimpia, 136. de Loise, Porzia, 119. De Maio, R., 34. De Marco (Di Marco), Giulia (suor Giulia), 183-190, 195, 207. de Maria, Francesco Severo, 196. De Mario, Romolo, padre, 192-195. de Martino, Aniello, 168. de Martino, Giacinto, prete, 203. de Martino, Giovanni, 117. de Martino, Martino, prete, 75.

251 de Nufrio, Nicola, 168. de Olanda, Vittoria, 124. de Pelletta, Speranza, 56. de Pinto, Soprana, 196. de Ponte, Giovanni Francesco, 115. de Porco, Luisa, 114, 132. de Regina, Achille, 99. De Renzi, S., 216-219. de Reos, Michele, 101. de Roberto, Lucrezia, 79. De Rubertis, F., XIII. de Salvatore, Isabella (Belluccia), 199, 204. Desiata di Benevento, 120. de Simeone, Sara, 79. de Stefano, Alessandro, 104. de Tonno, Donato Antonio, 114. De Vicariis, Giuseppe, 183, 188. Diana, Antonino, 202. Dianora, Lucrezia, alias Zezone, 136. Di Blasio, Gaspare, 147. Di Capua, Annibale, cardinale, arcivescovo di Napoli, 36-37. Di Capua, Matteo, principe di Conca, 208. di Castro, Scipione, 92-94. di Domenico, Filippo, 220. Di Fazio, Francesco, prete, 47. di Luccio, Lorito, 180. di Maio, Livia, 173. Di Rienzo, E., 123-124. di Simone, Agostino, 117. Di Simplicio, O., 12, 16. Dovere, U., XIII, 85, 87. Dragone, Sebastiano, 146. Dubuis, P., 11. Eck, Giovanni, 96-98. Egidio di Castel S. Lorenzo, frate, 106. Eisenach, E., 9, 12. Erasmo, Desiderio, 64. Esposito, A., 9, 12. Esposito, Francesca Isabella, 169. Eubel, C., 111.

252 Eva, 106. Faceti, Gian Pietro, detto don Parisotto, prete, 66-67. Falanga, Dianora, 54. Faraglia, N.F., 147. Felice da Rieti, prete, 75. Ferdinando d’Aragona, re di Spagna, 69. Ferrante, L., 8, 12. Ferrara, Livia, 105. Ferraro, Francesco, 131. Ferrero, G.G., 65. Ferrigno, Lucio, 168. Figueroa, Cristoforo, 154. Filippo II, re di Spagna, 29, 41, 43, 50. Filomarino, Ascanio, cardinale, arcivescovo di Napoli, 178-181, 195, 220. Filomarino Barbarulo, Francesco, 169. Filonardi, Marcello, 110. Filosa, Francesco, parroco, 144. Fiorillo, Giovanni Domenico, 135. Firpo, L., 70. Firpo, M., XIII-XIV, 29, 64-66. Fiume, G., 53. Flandrin, J.-L., 165. Fontana, Livia, 116-117. Fontanella, Andrea, 136. Formica, M., 22. Fraenkel, P., 96. Fragnito, G., XIV, 18, 64, 98. Francesco da Napoli, frate, 206. Frassetto, M., 14. Fumi, L., 218. Fusco, I., 216-218. Galante, Diana, 171. Galasso, C., 69. Galasso, G., 14, 127, 215. Galiffe, J.-B.-G., 92. Galipoli, Leonarda, 176. Galli, Tolomeo, 43. Gallinaro, Luciano, 180.

Indice dei nomi

Galluccio, Bernardo, prete, 99. Galtiero, Pietro, parroco, 164. Garbinati, Paolo, 180. Gauchat, P., 124. Gelli, Giovanni Antonio, 100. Gennaro, santo, 60, 216. Genovese, Marco Antonio, 92, 122124, 132, 134. Gentilcore, D., 83. Gentile, Deodato, Nunzio apostolico, 187. Gentile, Scipione, 39. Genuino, Leonardo, 168. Gesualdo, Alfonso, cardinale, arcivescovo di Napoli, 36-38, 92, 113, 208. Ghiberti, Pietro Antonio, 117, 120, 124-126, 128, 131, 135, 146, 150. Giannini, M.C., 41. Giberti, Gian Matteo, cardinale, vescovo di Verona, 9. Ginzburg, C., 78. Giordano, Egidio, frate, 56. Giosué, 86. Giovan Domenico di Nola, prete, 52. Giovanna fiamminga, 168. Giovanni da Napoli, frate, 97. Giovanni evangelista, santo, 67, 105. Giovio, Paolo, 65. Giuseppe, santo, 100-101. Giusto, Giovanni Tommaso, 103. Gotor, M., 186. Grassi, U., 75. Grasso, Giovan Battista, frate, 108. Greca, Diamante, 82. Greco, Giovan Battista, prete, 8788. Gregorio XV (Alessandro Ludovisi), papa, 150. Griffa, Isabella, 168. Grillo, Stefano, 39. Guarino, Marcello, 53. Guerrera, Angelica, 169. Gulik, W. van, 111.

Indice dei nomi

Harrington, J.F., 9-10. Hecca (Hecha), Santa, 114, 121-122. Hogeda, Decio, 110. Hozjusz, Stanislao, cardinale, 95. Iacuzio, Marco Antonio, 121. Illibato, A., XIII, 34. Imbruglia, G., XIII. Imparato Muzio, 108. Imparato, Taddeo, frate, 108. Incoronato, Lucrezia, 156. Ioly Zorattini, P.C., 69. Iovene, Agostino, 156. Iserloh, E., 96. Jedin, H., 19. Joannou, P.P., 9, 20. Jonasz, I., XIV. Klapisch-Zuber, Ch., 12. Lacerenza, G., 100. Lanario, Scipione, 114, 120. Langella, Agostino, 156. Langella, Francesco, 54. Lanzullo, Ferdinando, prete, 202. Lauro, A., 41. Lea, H. Ch., 10, 14. Leathers Kuntz, M., 70. Leonardi, C., 9, 20. Liparota, Giovanna, 51. Loffredo, S., XIII, 33, 111, 119, 125, 180. Lombardi, D., XIII, 12. Lopes, Dionisio, 100-101. Lopez, P., 123. Lotti, L., 29. Lowe, K.J.P., 12. Lubrano, L., XIII. Lucza (Lucia) greca, 57-58. Luperini, S., 12, 14-15. Lutero, Martino, 63, 65, 68, 91. Lutz, G., 125. Luzzati, M., 70, 100. Madruzzo, Ludovico, 14.

253 Maffei, Marco Antonio, cardinale, 25-27, 80. Magnani, L., XIII. Mainardi, Arlotto, 72, 107. Maione, Belluccia, 177. Malena, A., 185, 191. Mancino, Antonio, 168. Mancino, M., XIII-XIV, 4, 14, 24, 34, 36, 49, 53, 61, 85, 87-88, 103, 151, 162, 207. Mandina, Benedetto, 118. Manella, Caterina, 147. Manella, Decio, 121. Mangano, Placido, prete, 200. Mangone, Giovanni Paolo, parroco, 144. Mansueti, Teseo, padre, 86. Maometto, 69, 200. Marabelli, C., 96. Maranta, Fabio, 131. Marbeeck, L. van, 125. Marchisello, A., 15. Marigliano, Giulio, 166. Marino, Giovan Battista, 209. Marongiu, A., 12, 14, 33. Martina, G., 87. Martos (Marques), Orazio, 62. Marzolla, Giuditta, 176. Masini, Eliseo, 71. Masotta, Diana, 135. Matteo, santo, 64. Matteo di Pastena, chierico, 106. Mazur, P., XIII, 100-101. Mazza, Popa, 175. Mazza, Tolla, 182. Mazzagrugno, Giuseppe, padre, 85-87. Mazzario, Giovanni Domenico, chierico, 96. Mazzi, M.S., 11, 72. Mazzia, Ferrante, 135. Meglio, Giovanna, 176. Mena, Antonio, prete, 216. Miele, M., XIV, 36-37, 59, 165, 177, 179, 181. Migliaresi, Claudio, padre, 62.

254 Migliore, Marino, 147. Migri, Carlo, 196. Milone, Vespasiano, 127. Modarra, Pietro, 177. Monaco, Perna, 3-6, 28. Monterey, conte di, vedi Zúñiga y Fonseca, Manuel de. Mosé, 69. Mugnula, Biase, 168. Muto, G., XIII-XIV. Nastaro, Livia, 180. Neri, Filippo, santo, 194-195. Niccoli, O., 31, 71, 83. Nicodemo, Lionardo, 87. Nicolini, N., 198. Novello, Marta, 198. Novi Chavarria, E., 185. Nubola, C., 12, 14. Obelkevich, J., 72. Ochino, Bernardino, 28, 93-96, 98. Oliva, Marco Antonio, prete, 47. Oranio, Enrico, 96. Orco, Bernardino, 127. Orfini, Tommaso, 34. Origene, 86. Orsini, Flavio, cardinale, arcivescovo di Cosenza, 40-41, 158. Ortiz, Sebastiano, parroco, 38. Padovano, Orsola, 177. Pagano, S., 192. Paladino, G., 33. Palomba, Angela, 7. Palumbo, Curzio, 92, 113-117, 119. Palumbo, Luise, 116-117, 164. Paolo IV (Giampietro Carafa), papa, 21-22, 34, 63, 73. Paolo di Tarso, santo, 86. Paolozzi, Marco, padre, 192. Paolucci Ferrari, Antonio, 177. Parente, F., 70. Parente, U., 33. Parisotto, don, vedi Faceti, Gian Pietro.

Indice dei nomi

Parma (Palma) al borgo S. Antonio, 54. Pascale, Cornelia, 168. Pasi Testa, A., 16. Pasquale di Randazzo, prete, 36. Pedino, Paolo, 162. Pelaja, M., 12, 16. Pellegrino, Angelo Antonio, 117. Peluso, Francesco Antonio, 169. Penna, Belluccia, 173-175. Perfido Fedele, Colangelo, prete, 37, 28, 30. Perrotta, G., XIV. Pertile, A., 12. Petracca, Diana, 114. Petry, Y., 70. Peverada, E., 14. Pio V (Michele Ghislieri), papa, 75, 206. Pisa, Giovanni Luise, suddiacono, 5. Pisano, Giovanni Antonio, 107. Pisante, Loise, 115. Pisciotta, Roberta, 146. Piscopo, Anna, 172. Pizzolato, N., 12, 14, 16. Policastro, Giovan Domenico, parroco, 54. Police, Cesare, 171. Pontieri, E., 49. Popa leccese, 168. Popolo, Fabio, 102. Porcello, Ottavio, chierico, 7. Postel, Guillaume, 70. Postigliola, A., 22. Pozzi, R., 78. Prezioso, Giovanni Camillo, 6. Prodi, P., 9, 20. Prosperi, A., 78, 83. Pulverina, Isabella, 79. Puoto, Giuseppe, 99. Quaglioni, D., 8-10, 12, 14-15, 21, 33, 69. Quantin, J.-L., 18. Quarantaocto, Crisostomo, prete, 120.

Indice dei nomi

Rahab, 86. Raparo, Orazio, 110. Rea, Silvia, 136. Reszka, Stanislao, 95. Ribera (Rivera), Pedro Afán de, duca d’Alcalà, viceré di Napoli, 40. Ricasoli, Pandolfo, 191. Riccio, Giovanni Luigi, 134. Ricciullo, Antonio, 205-206. Ristalda, Felicia, suora, 194. Rocco, Paolo, 121. Romano, A.S., XIV. Romano, Lorenzo, frate, 74. Romeo, G., XIV, 18, 21-22, 24, 29, 32-33, 38, 49-51, 55, 59, 61, 7374, 82, 85, 87, 89, 92, 100, 103105, 107, 111-113, 117-118, 124, 133, 139, 169, 190, 194, 197, 203, 205, 208-209, 215-216, 218. Romeo Giovanni, 120. Roper, L., 72. Rosa, Francesco Antonio, 127. Rossetti, G., 8, 14. Rostagno, L., 69-71, 99. Rostagno, M., XIV. Rovito, Fabrizio, 166. Rozzo, U., 94. Rublack, U., 10. Rufino da Marino, frate, 106. Ruiz Martín, F., 69. Ruperez Loiola, Giuseppe, frate, 206. Rusconi, R., 32. Russo, Anello, canonico, 36. Russo, C., 127. Russo, Giovan Battista, 172. Russo, Giovanni Marino, 173. Ruvinaggia, Pietro Francesco, padre, 192. Saccardo, Lucrezia, 121. Sacco, Orazio, 148. Salernitano, Tommaso Aniello, 43, 92. Salerno, Lorenzo, 134. Sallmann, J.-M., 185.

255 Salmerón, Alfonso, 43-44. Salomone, C., XIII. Salvato, Ippolita, 105. Samuel, R., 72. Sánchez, Juan, 202. Sanfelice, Giovanni Francesco, 153, 157. Sangalli, M., 18, 24. Sanges, Gabriele, 111. Santamaria, P., 113. Sant’Antonio, Carlo, 110. Sant’Antonio, Lelio, 108. Santoro, Eleonora, 79. Santoro, Isabella, 115. Sanudo (o Sanuto), Marin, 64. Sarracina, Isabella, 135. Sauli, Antonio, Nunzio di Napoli, 43-44. Savelli, Giacomo, cardinale, 97. Savelli, R., XIV. Sbrana, C., 12, 16. Scaglione, Violante, 106. Scaramella, P., XIV, 6, 21-22, 33, 60, 71-72, 75, 86-87, 92, 99-102, 107, 110-111, 115, 184, 186. Schioppa, Antonio, 119. Schirillo, Bernardino, 50, 57. Scotiero, Aniello, 128, 173. Scotto di Carlo, A., XIV. Scotto di Vettimo, P., XIV. Sebastiano, Gennaro, 177. Segesvary, V., 70. Segre, R., 70. Seidel Menchi, S., 8-10, 12, 14-15, 21, 33, 64, 69, 91. Sella, D., 215. Sepe, Marzia, 79. Serignano, Giovan Battista, 219. Serveto, Michele, 68, 93. Severino, Marco Aurelio, 207. Siebenhüner, K., 21. Simeone, santo, 88. Simonsohn, Sh., 70. Sirignano, G., XIV. Sisto V (Felice Peretti), papa, 27. Sobrero, Bartolomeo, prete, 192.

256 Sonnino, E., 12. Soranzo, Vittore, vescovo di Bergamo, 66-67. Sorcinelli, P., 16. Spampanato, V., 186. Sparano, Giuseppe, 151. Spina, Micco, 114, 132. Spini, G., 68, 102. Spinola, Giulio, Nunzio apostolico, 218-219. Staibano, Fabrizio, 41. Steinberg, L., 73, 88. Stigliola, Colantonio, 61, 99. Stinca, Andrea, 176. Stow, K.R., 69. Stramare, T., 101. Strammone, Dorotea, 166. Strazzullo, F., 37, 118. Stumpo, E., XIV. Swiok¢o, J., XIV. Tallon, A., 9. Tambaro, Vittoria, 120. Tarallo, Giovan Battista, 120, 146. Taurasi, Geronima, 132. Tedeschi, J., 190. Telesio, Bernardino, 102. Tizzano, Bartolomeo, 167. Todino, Fabio, 120. Tomasiello, Micco, 119. Tomasone, Antonia, 168. Toppi, Niccolò, 87. Torcella, Flaminio, 110-111. Tortorella, Carlo, 145. Trabucco, Paolo, 134. Traina, R., 12, 16. Tramalli, Lorenzo, Nunzio apostolico, 150-151. Tronchino, Bartolomeo, 169. Tropea, Domenico, prete, 202. Turchi, L., 14. Ungaro, Barbato, 102.

Indice dei nomi

Urbano VIII (Maffeo Barberini), papa, 151. Urbano cosentino, prete, 34. Ursino, Maria, 145. Vaccaro, Giovanni Angelo, 113. Valerio, A., 14. Vanini, Giulio Cesare, 102. Varone, Giovanni Martino, 121. Varone, Luca Antonio, 121. Varotta, Marcantonio, 67. Vassallo, Giustina, 146. Vecchione, Santa, 192-193. Vergerio, Pier Paolo, 66. Viespolo, Cicco, 135. Villani, P., 34, 43. Villano, Antonio, 41, 43-44. Villano, Cesare, parroco, 162. Villari, R., 29. Vincenzo di Bari, 142. Virgili, E., XII. Vitagliano, Ottavio, 131. Vitale, Vincenzo, 43, 92-93. Vitola, Isabella, 81. Vivanti, C., 70. Volpicella, Cosmo, prete, 36. Waquet, J.-Cl., 18. Welby, P., X. Wertheimer, L., 14. Wos´, J.W., 95. Zapperi, R., 93-94. Zarro, R., 14. Zavatti, G., XIV. Ziegelbauer, M., 96. Zito, P., 185. Zotta, S., 115. Zotto, Innocenzo, 102. Zúñiga y Fonseca, Manuel de, conte di Monterey, viceré di Napoli, 154. Zuozo, Tommasello, 55.

INDICE DEL VOLUME

Premessa Ringraziamenti I.

«Se bene si diceva che erano innamicati...»: le premesse cinquecentesche

VII XIII

3

II. Le famiglie di fatto nei conflitti tra Stato e Chiesa (1569-1600)

31

III. Inquisizione napoletana ed ‘eresie’ sessuali: il tardo Cinquecento

63

IV. Chiesa e famiglie di fatto: gli inizi della caccia (1601-1626) V.

112

Il monopolio ecclesiastico sui concubini: scomuniche, blitz, resistenze (1626-1656)

150

VI. Tra eresia e peccato: gli amori proibiti a Napoli dal primo Seicento alla peste del 1656

183

Appendice

221

Indice dei nomi

249