Almanacco Fellini 9791280023155, 1280023155

È un mare magnum Federico Fellini e ora un Almanacco suggerisce possibili rotte di navigazione portandoci anche in anfra

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Almanacco Fellini
 9791280023155, 1280023155

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ANNAMARIA GRADARA

Almanacco FELLINI

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Almanacco Fellini di Annamaria Gradara

ISBN 9791280 023 155 2021 © Edizioni Sabinae EDIZIONI SABINÆ Corso del Popolo, 7 02049 Cantalupo in Sabina (RI) Redazione: Viale Bruno Buozzi, 19 00197 Roma Tel.: 06 97882515 Direttore editoriale: Simone Casavecchia Impaginazione: Edizioni Sabinae Redazione: Cristina Maggi In copertina: Federico Fellini e Claudia Cardinale sul set di 8 1/2  © ph. Paul Ronald / Collezione Maraldi

Il nostro sito internet è www.edizionisabinae.com Per ogni informazione: [email protected] Tutti gli articoli presenti in questo volume sono apparsi sul quotidiano Corriere Romagna nel periodo dal 23 ottobre 2019 al 30 dicembre 2020 per la rubrica settimanale proposta in occasione del Centenario Federico Fellini: i 100 anni del genio riminese, tranne: E Fellini inventò Mr. Prik. Al Castello a tu per tu con Picasso, pubblicato il 9 giugno 2018: Piero Tosi conteso tra Visconti e Fellini, 13 gennaio 2019; Per quei Vitelloni ci voleva un... Galli, 21 agosto 2019.

È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell'art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941.

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Introduzione

Questo libro raccoglie buona parte degli oltre cinquanta articoli apparsi a cadenza settimanale (ogni mercoledì) sul quotidiano Corriere Romagna, dal 23 ottobre 2019 al 30 dicembre 2020, per la rubrica Federico Fellini: i 100 anni del genio riminese. Una “impresa” giornalistica pensata per celebrare il Centenario del grande regista, nato a Rimini il 20 gennaio 1920. Un lungo viaggio, appassionante, che ha portato ad un racconto per schegge e frammenti, ma con una visione d’insieme, dell’universo felliniano. Ora “rimontato”, con un lavoro di cucitura dei vari pezzi, quel racconto si è trasformato in un testo con una propria autonomia, da cui risuona in tutta la sua potenza la voce unica di Federico Fellini. Agli articoli della rubrica settimanale del Centenario, ne sono stati aggiunti anche uno sparuto numero pubblicati precedentemente. Almanacco Fellini è un invito ad immergersi nel mondo felliniano con levità e contemporaneamente con sguardo profondo: la “cifra” del cinema e della personalità di Federico Fellini, una «centrale nucleare», come è stato definito il suo Libro dei sogni, oggetto che si offre come 5

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specchio della potenza immaginativa dell’uomo e del regista. Lo sguardo si allarga anche al mondo intorno a Fellini: alla folta schiera di collaboratori, maestranze, attori e attrici, che furono però parte integrante e importante della sua “bottega”. Dal compositore Nino Rota agli sceneggiatori Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, Tonino Guerra, e quelli meno “di grido” come Brunello Rondi e Bernardino Zapponi, dalla “piccola équipe Geleng” al re del Carnevale Arnaldo Galli. Gettando luce anche su attori del passato remoto del cinema, come il comico Polidor e l’ex diva Caterina Boratto, e su figure quasi del tutto dimenticate: come Meri Lao, musicologa, antropologa, femminista, che collaborò a La città delle donne e che Fellini adorava anche in quanto grande esperta di sirene. Tra le voci di testimoni diretti compaiono quelle di Sandra Milo, di Moraldo Rossi, il sesto vitellone oggi ultranovantenne, di Adriana Asti che fu la voce della Gradisca di Amarcord. C’è poi il Fellini dei progetti mai realizzati: non solo il Viaggio di Mastorna, ma anche il progetto di film ispirato al libro di Mario Tobino Le libere donne di Magliano, che in qualche modo ritorna nell’ultimo film La voce della luna. Raccontare Fellini è anche raccontare della profonda amicizia con lo scrittore George Simenon, oppure del “duetto d’amore” con Ingmar Bergman, il progetto di film a quattro mani svanito nel nulla, o quasi. E non ultimo, oltre che delle origini riminesi, 6

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della nonna Franzscheina di Gambettola, il paese a una ventina di chilometri da Rimini dove esiste ancora la casa dei nonni rievocata nel capolavoro 8 ½ e non solo. Molte pagine traggono linfa dalle iniziative, dagli omaggi dei festival (dalla Mostra del cinema di Venezia al Cinema Ritrovato di Bologna), da uscite di libri e docu-film, mostre, incontri che hanno scandito il calendario del Centenario felliniano nonostante cancellazioni e slittamenti dovuti al Covid19. Oppure da altri accadimenti riguardanti personaggi gravitati nell’orbita felliniana (ricorrenze come gli 80 anni di Mina, la scomparsa di Franca Valeri e Gigi Proietti, ma anche dell’intellettuale Alberto Arbasino). È stato un pazzo anno. Chissà quanto possa averne riso e sorriso lui, Federico Fellini, ovunque egli sia.

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Maestri

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Aldo Fabrizi, il «romano de Roma» che portò Federico nel cinema

Si dice che Papa Pio XII avesse detto di lui: «É la Divina Commedia della comicità». Ma alla sua morte, avvenuta il 2 aprile 1990, «il mondo del cinema lo (pianse) un po’ distrattamente». A deplorare la distrazione fu all’epoca Carlo Verdone. Lo stesso che oggi, nel commentare la scomparsa di Gigi Proietti, ne ha annodato la figura a una linea di discendenza ben precisa: che arriva a lui, cioè, da Ettore Petrolini, via Alberto Sordi e Aldo Fabrizi. Aldo Fabrizi, classe 1905, «romano de Roma», è stato una maschera straordinaria nell’Italia del Novecento. Con quella corpulenza da orco buono, la faccia larga e quegli occhi e pupille che sembravano disegnate per un cartoon... Esordì nel cinema che era già attore popolare nei teatri dell’avanspettacolo. Era il 1942, il film Avanti c’è posto di Mario Bonnard. L’attore romano vestiva i panni di un tranviere, uno di quei personaggi del popolo cui già dava voce con naturalezza sul palcoscenico. Poi in Campo de’ fiori (1943) - al suo fianco, tostissima verduraia, Anna Magnani - fu il pescivendolo che si invaghisce di una giovane borghese dalla grazia eterea (Caterina Boratto) e subito 11

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dopo apparirà sul grande schermo nelle vesti di vetturino: il film L’ultima carrozzella e lui, che il vetturino lo aveva fatto davvero, vi recitò con palandrana e berretto ripescati dagli armadi di casa. Il successo arrivò immediato ma l’attenzione internazionale Fabrizi la conquistò con quel ruolo drammatico – ma venato di comicità dolente – che fu il personaggio di don Pietro Morosini in Roma città aperta di Roberto Rossellini. La scena della fucilazione, nel finale, resta una delle sue memorabili interpretazioni. Ma è come grande maschera comica che in seguito Fabrizi si afferma anche nel cinema, e sarà ineguagliabile a fianco di altri mostri sacri come Totò e Peppino De Filippo. In Guardie e ladri (lui la guardia, Totò il ladro), I tartassati (sempre con Totò, Fabrizi nelle vesti di un finanziere), Signori, in carrozza! (ferroviere ai limiti della bigamia, in duetto con De Filippo), e poi con Ave Ninchi sua simbiotica consorte nella fortunatissima «serie» della Famiglia Passaguai. Quando esordì al cinema, Aldo Fabrizi portò con sé un giovane arrivato da poco dalla provincia e divenuto un po’ uno di famiglia: Federico Fellini. «Lo prese a braccetto e lo introdusse nel mondo del cinema», racconta Cielo Pessione, nipote di Fabrizi, curatrice dell’omonimo Fondo, e da decenni custode e divulgatrice della memoria dell’artista. «Mio nonno aveva preso in simpatia il giovane Fellini, ne aveva intravisto il talento» continua la nipote. 12

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Federico Fellini aveva conosciuto Aldo Fabrizi nel 1939. Era da poco arrivato a Roma da Rimini, ancora con le idee poco chiare sul proprio futuro. Entrato come vignettista nella fucina del bisettimanale umoristico Marc’Aurelio, fece i primi tentativi come giornalista per Il Piccolo, e tra le collaborazioni ebbe anche quella per la rivista CineMagazzino. Mentre lavorava ad un servizio con Ruggero Maccari su Che cos’è l’avanspettacolo? conobbe di persona il comico romano, in occasione di una intervista che si svolse nei camerini del Corso Cinema di Roma dove Fabrizi stava lavorando. Inizia così una frequentazione che per il giovane Federico si rivela come il primo vero ingresso in quel mondo del cinema dove riuscirà, un passo dietro l’altro, ad emergere come sceneggiatore, e dove solo una decina di anni più tardi - dopo la decisiva esperienza al seguito di Roberto Rossellini - esordirà come regista (Lo sceicco bianco, 1952), raggiungendo nei giro di poco tempo la fama. Cielo Pessione, cosa sappiamo dei rapporti iniziali tra Aldo Fabrizi e il giovane Fellini? «Mio nonno, ha sempre avuto questa propensione ai rapporti paternalistici. Aveva preso sotto la propria ala protettiva quel giovane promettente di cui era sicuramente affascinato per l’intelligenza e il talento».

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Sul piano creativo, quali furono i primi contributi di Federico Fellini al lavoro di suo nonno? «Prima ancora dell’esordio al cinema, uscirono incisioni discografiche dei monologhi teatrali di Aldo Fabrizi, accompagnate da volumi illustrati. Nel 1941 e 1942 uscirono per Atlantis due volumetti illustrati da Attalo. In uno di questi, nel frontespizio, c’è una firma F cucita su una toppa che appare evidentemente la firma di Fellini. Lui all’epoca era soprattutto un disegnatore accanito, disegnava di continuo. In questi primi disegni che fece per mio nonno, che sono deliziosi, è come se in qualche modo lui fosse entrato un po’ in punta di piedi». Il giovane Fellini, vignettista e scrittore in erba per il Marc’Aurelio, iniziò anche a scrivere battute per il cinema. Aldo Fabrizi lo coinvolse nel lavoro di sceneggiatore per i suoi primi film. In Avanti c’è posto il suo nome compare dopo quello di Fabrizi… «Sì, solo come Federico e prima dei nomi di Cesare Zavattini e di Piero Tellini. Poi figurerà in Campo de’ fiori e ne L’ultima carrozzella. Dobbiamo pensare a queste esperienze come un apprendistato per lui. Mio nonno si scriveva da solo le battute, aveva le idee chiare su ciò che faceva. Il suo, diceva, era un neorealismo senza ‘neo’, era cioè realismo vero. Lontano da quello che sarà in futuro il cinema di Fellini».

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Quale fu nel successivo Roma città aperta, che divenne il manifesto del neorealismo italiano, il ruolo di Fellini nel coinvolgimento di Aldo Fabrizi? «Le loro versioni furono di certo differenti. Per quel film Aldo Fabrizi diede un enorme apporto creativo e non solo per la propria interpretazione di don Morosini. Ma non gli è mai stato riconosciuto. In origine si ragionava su due cortometraggi: uno sulla figura di Teresa Gullace, la donna freddata nel ‘44 da un soldato tedesco che ispirò il personaggio impersonato nel film da Anna Magnani, e uno su don Pietro Morosini. Fabrizi insistette perché dei due cortometraggi se ne facesse un lungometraggio. Suggerì e lavorò quindi all’unione delle storie dei due personaggi». Fellini e Fabrizi lavorarono insieme anche per film come Il delitto di Giovanni Episcopo di Lattuada, poi in Francesco, giullare di Dio di Rossellini, dove suo nonno interpretò la parte del tiranno, quasi un cameo. In seguito i rapporti si raffreddarono. Nel 1968 però Fellini aveva pensato a lui per la parte di Trimalcione in Satyricon, ma scelse alla fine di affidarla ad un attore non professionista, l’oste Mario Romagnoli. «E mio nonno si sentì tradito. Se Fellini l’avesse coinvolto avrebbe azzerato tutte le amarezze accumulate fino a quel momento. Anche quando in seguito non lo coinvolse in Roma, dove chiamò Anna Magnani, fu per lui come una coltellata».

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«Fatta la somma, ho più dato che ricevuto», scrisse Aldo Fabrizi in una lettera al critico Angelo Solmi, primo autore di una biografia su Fellini, che lo aveva interpellato per ricostruirne alcuni passaggi. Fabrizi gli disse di non volere «mettermi in urto con un amico per il quale nutro ancora dell’affetto, malgrado le sue disinvolte bugie». «Era un orco buono, un’ottima guida per capire Roma e i romani, di cui mi faceva conoscere anche la cucina e le trattorie» lo ricordò alla stampa dell’epoca Federico Fellini, il giorno della scomparsa. Le ricostruzioni del regista riminese dei rapporti, e apporti, lavorativi con Fabrizi rimasero però nel segno di una dissonanza rispetto a quelle dell’attore romano. Resta a testimonianza della loro trascorsa “alchimia” una dedica affettuosa di Fellini su una vecchia foto: «Al padre, amico, fratello e fidanzato Aldo Fabrizi con tanta ammirazione e amicizia».

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Rossellini e Fellini, come il gatto e la volpe

«Il cinema italiano, che si schiantò nel 1943 sotto il peso di Scipione l’Africano, è resuscitato con Roma città aperta, prima pietra del neorealismo». Bastò poco a François Truffaut, regista francese della Nouvelle Vague, per definire la portata del film diretto nell’immediato dopoguerra da Roberto Rossellini e subito divenuto un classico. Dietro quella resurrezione, c’è anche la firma di Federico Fellini. E c’è, per il regista riminese, l’incontro con il proprio destino. È infatti grazie alla collaborazione avviata in occasione di Roma città aperta, come sceneggiatore (insieme a Sergio Amidei) di Roberto Rossellini, che Fellini intorno ai venticinque anni sperimenterà anche i primi significativi approcci con la macchina da presa, e scoprirà la propria vera vocazione. Tutto cominciò «in un giorno di fine estate del 1944» ricorda il biografo di Fellini Tullio Kezich. Il riminese, che già si era fatto un nome come sceneggiatore, sbarcava il lunario nella Roma post bellica nel negozio di caricature Funny Face Shop. È qui che lo andò a cercare Rossellini, per chiedergli in prima battuta di convincere l’amico Aldo Fabrizi ad accettare la parte di don Pietro nel film Roma 17

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città aperta, e finirà per coinvolgerlo nel lavoro di sceneggiatura. Federico Fellini collaborò anche ai successivi film di Roberto Rossellini: Paisà, Francesco, giullare di Dio, Europa 51. Capolavori e pietre miliari della storia del cinema. Nel mediometraggio Il miracolo (1950) fu anche attore (con i capelli biondi) al fianco di Anna Magnani. Ebbe un ruolo anche in Dov’è la libertà (1952), che gli ‘regalò’ addirittura l’occasione unica di dirigere in una scena un suo mito: Totò. «Ricordo un momento in cui capii che mi trovato a una svolta nella mia carriera, nella mia vita - dirà Fellini Rossellini stava lavorando in una stanzetta buia, con lo sguardo intento alla moviola. (...) Avvertì la mia presenza e mi fece cenno di avvicinarmi e di condividere con lui quell’esperienza. Credo che quello fu il momento che forgiò la mia esistenza». Fu Paisà a segnare la svolta: esperienza cruciale non solo perché Fellini girò quella che fu probabilmente la sua prima scena (una damigiana d’acqua fatta passare da una strada all’altra), ma anche per un “viaggio in Italia”, dalla Sicilia al Veneto, che gli aprì gli orizzonti. «Rappresentò un momento molto importante nella mia esistenza», dirà ancora Fellini a proposito di questa esperienza che lo vide protagonista anche per il contributo di scrittura alla scena dei frati girata nel convento di Maiori, in Costiera Amalfitana. Un episodio 18

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che anticipa nello spirito il successivo film di Rossellini Francesco, giullare di Dio (1950). Dopo avere scritto, insieme a Tullio Pinelli e allo stesso Rossellini, l’episodio de Il miracolo, sarà infatti ancora il futuro regista a scrivere la sceneggiatura del film sul poverello di Assisi, ispirato ai Fioretti di San Francesco. Il sodalizio è maturo, la “lezione” rosselliniana è ormai esperienza acquisita per Fellini che di lì a poco esordirà a tutti gli effetti alla regia, prima a quattro mani in Luci del varietà (con Alberto Lattuada) e poi ne Lo sceicco bianco, proseguendo con I vitelloni e poi con La strada. «Quella strada fangosa battuta dalla pioggia in fondo alla quale, nella prima inquadratura, appaiono i fraticelli tornando dall’incontro con il Papa - fa notare Tullio Kezich a proposito di Francesco, giullare di Dio - è già uno dei sentieri selvaggi dell’itinerario di Zampanò. E il simpatico fra’ Ginepro, mezzo scemo e mezzo ispirato, annuncia l’avvento di Gelsomina». Le circostanze non solo anagrafiche - Rossellini era di quattordici anni più anziano di Fellini - portano ad inscrivere la relazione tra i due all’interno del binomio allievo-maestro. Lo stesso Fellini riconosce una discendenza in questi termini: Roberto Rossellini, affermò, è stato per lui - per la sua vita di cineasta - come un vigile «che mi ha aiutato ad attraversare la strada», «gli riconosco, nei miei confronti, una paternità come quella di Adamo: una specie di progenitore da cui siamo tutti discesi». E 19

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ancora: «Lavorando con lui capii che girare film era esattamente quel che volevo fare». Inscindibile relazione. E fu anche intensa amicizia. Fino e oltre la morte: «Vorrei che vivesse in me, almeno in quello e in quel tanto che mi ha dato» confiderà Fellini all’amico Padre Arpa che gli annunciò al telefono la notizia della scomparsa del regista di Roma città aperta, il 3 giugno 1977. Una «incancellabile matrice comune» (Kezich) accomuna i due. Nonostante le diversità nel modo di fare cinema che ad un certo punto però si imposero in maniera evidente. Le strade paiono infatti divaricarsi. Rossellini non coglierà in termini positivi la novità di un film come La dolce vita, Fellini non sarà entusiasta dell’interesse per un cinema didattico, che guarda alla storia, che ispirerà invece l’amico e maestro. La popolarità di Fellini accresce, quella di Rossellini scema. In fondo però, i due, erano un po’ come «il gatto e la volpe», ci ricorda Tag Gallagher, biografo di Roberto Rossellini. Lo ha fatto in un articolo pubblicato nel 2009 sul numero 649 dei Cahièrs du cinema. La storica rivista francese dedicava quell’anno uno speciale (Redécouvrir Fellini) al regista riminese: Chat et renard. Sur Fellini e Rossellini (Il gatto e la volpe. Su Fellini e Rossellini) recitava il titolo dell’articolo. «Restarono certamente sempre grandi amici. Ma mio nonno ad un certo punto smette di comprendere il cinema di Fellini nel vero senso della parola» spiega oggi 20

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Alessandro Rossellini, figlio di Renzo (figlio della prima moglie di Roberto, Marcella, e produttore de La città delle donne, Prova d’ochestra, E la nave va). «Avevano preso strade così diverse da avere difficoltà di comprensione» continua il nipote di Roberto Rossellini, recente autore del film The Rossellinis, dove affronta con ironia la saga di quella grande famiglia composta dai figli e figlie (e relativi nipoti) avuti dal capostipite Roberto - noto per la sua vita avventurosa, tra consorti ed amanti più o meno ufficiali - attraverso i suoi tre matrimoni, tra cui il più noto è quello con l’attrice Ingrid Bergman. Alessandro Rossellini, una carriera traballante da fotografo e un lungo passato di tossicodipendenza, chiama a raccolta zie e zii, cugini, nipoti, da ogni parte del mondo, a cominciare dalla più nota, Isabella Rossellini, la sorella gemella Ingrid, il fratello Robin, e fa i conti con leggerezza ed intensità con la figura ingombrante del nonno Roberto Rossellini: un «sovrano assoluto e noi la sua corte», così somigliante al Re Sole del suo celebre La presa del potere di Luigi XIV.

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Bottega Fellini

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Sotto le Luci del varietà con Masina e Del Poggio brilla anche Franca Valeri

«Uni, due, uni, due.. stupide cretine! Alt! Cos’è questa cosa, propri non sa fare niente, non sa alzare sua gamba, come tutti in Italia del resto...». L’accento è nordicogermanico, non ci sono dubbi. Il battito di mani militaresco. La gonna sotto il ginocchio e il giaccotto abbottonati danno un tono ridicolmente prussiano alla scena, costruita con in primo piano le gambe scosciate e svolazzanti delle ballerine alla sbarra, in reggiseno e mutandoni, alle prese con scalcinati arabesque: la signora militaresca è Mitzi, la coreografa ungherese. Franca Valeri nel suo primissimo ruolo cinematografico, l’inizio di una carriera che la vide grande protagonista al fianco di Alberto Sordi (Il vedovo, Il moralista), Vittorio De Sica (Il segno di Venere), o insieme al marito Vittorio Caprioli (Parigi o cara). In Luci del varietà (1950) l’aveva voluta Federico Fellini. E fu tutto magicamente per caso. Primo mezzo film di Fellini: il futuro regista a “tempo pieno” (fino a quel momento era “solo” un apprezzato sceneggiatore) si ritrova a firmare la regia in coppia con Alberto Lattuada. 25

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In quella pellicola che porta sul grande schermo cinematog rafico il mondo or mai al tramonto dell’avanspettacolo, brilla dunque anche la stella di Franca Valeri, scomparsa il 9 agosto 2020 pochi giorni dopo il centesimo compleanno. Fu un ruolo piccolissimo, il suo: una comparsata. Fortissimamente voluta da Fellini, che era amico di Vittorio Caprioli. «Il nostro incontro cinematografico è stato casuale» raccontò alcuni anni fa Franca Valeri in una intervista televisiva. Avvenne dopo che il regista riminese, «sentendomi per caso la sera fare per gli amici il personaggio della coreografa balcanica, “lo voglio, lo voglio” disse». Franca Maria Norsa (questo il nome vero dell’attrice prima di scegliere il cognome d’arte Valeri) non se lo fece evidentemente ripetere due volte: e quel personaggio nato dall’imitazione di una coreografa realmente esistita (per alcuni la torinese Susanna Egri, per altri Gisa Geert, di origini balcaniche), fu inserito nel film: «Lo abbiamo quasi improvvisato, non era previsto» disse la Valeri. Il personaggio della coreografa ungherese nacque nello stesso periodo in cui l’attrice milanese - che in quegli anni farà poi anche parte del Teatro dei Gobbi con Vittorio Caprioli, Alberto Bonucci, Luciano Salce - stava acquisendo una propria notorietà grazie alla radio, dove tra il 1949 e il 1950 era nato il personaggio della Signorina Snob. Già in quegli anni il successo fu tale che la casa 26

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editrice Mondadori diede alle stampe il libro, accompagnato dalle illustrazioni di Colette Rosselli, Il Diario della Signorina Snob. La partecipazione di Franca Valeri a Luci del varietà appare come una sorta di cameo, in un film dove le protagoniste femminili - Carla Del Poggio, l’ambiziosa aspirante soubrette Liliana, e Giulietta Masina, l’attrice Melina Amour compagna del capocomico Checco Dalmonte/ Peppino De Filippo - erano anche mogli dei registi. Il film uscì settant’anni fa, nel dicembre del 1950, e fu un mezzo fiasco commerciale. L’esperienza dell’auto-produzione messa in piedi da Fellini e Lattuada per poter realizzare la pellicola si rivelò un insuccesso. Fu il fallimento di quella che venne all’epoca battezzata la «cooperativa tra mogli e mariti». Il film fu penalizzato dalla concorrenza di Vita da cani, dal soggetto simile a Luci del varietà, diretto da Steno e Monicelli, con Aldo Fabrizi e nel cast anche Mastroianni e Gina Lollobrigida. Uscì prima di Luci del varietà e si rivelò più popolare.

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Rossi, il sesto vitellone: «Il vero Moraldo ero io»

«Ero amico di Fellini e lui mi ha dedicato un personaggio. Senza Moraldo non ci sarebbero stati i vitelloni, e Moraldo ero io». In (quasi) tutto e per tutto Moraldo: Moraldo Rossi. Classe 1926, nato il 7 maggio a Venezia, fratello maggiore dell’attrice Cosetta Greco. Il sesto vitellone. L’amico di Fellini che ne diventò segretario di edizione nel primo film, Lo sceicco bianco (1952), poi assistente alla regia ne I vitelloni (1953), La strada (1954), Il bidone (1955), Le notti di Cabiria (1957). Moraldo Rossi ha festeggiato da poco i 94 anni e ancora ha voglia di raccontare di quella lontana amicizia e collaborazione che dopo una decina di anni intensi terminarono con una rottura. Eccolo qua, il sesto vitellone: all’altro capo del telefono. Voce squillante, i ricordi che vanno e vengono, si mescolano come carte da gioco, ma il castello riesce a stare in piedi grazie all’apporto di Paolo Silvestrini, l’amico assistente che gli sta accanto. Vi siete mai chiesti perché uno dei cinque vitelloni dell’omonimo film si chiami Moraldo? Mentre gli altri hanno nomi piuttosto comuni, e tranne il caso del 28

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personaggio di Fausto interpretato da Franco Fabrizi (ma la parte doveva essere dell’attore Fausto Tozzi) hanno lo stesso nome degli attori? Alberto per Alberto Sordi, Riccardo per Riccardo Fellini (fratello del regista), Leopoldo per Leopoldo Trieste. E poi c’è appunto Moraldo, interpretato dallo straordinario Franco Interlenghi: il più pensieroso, e timido, del gruppo di provinciali che bighellonano nella piccola località di mare, sguazzando tra grandi sogni e irresolutezza delle loro vite. È il vitellone che alla fine del film, unico a farlo, lascia la provincia per un altrove: «Parlavamo sempre di partire, ma uno solo, una mattina, senza dir niente a nessuno, partì davvero...». Quello è Moraldo: e dietro al personaggio c’è Fellini che lascia Rimini per la grande città, Roma. Ma il vero ispiratore del personaggio è appunto l’amico Moraldo Rossi. «Mi chiamava Mac Morald, io lo chiamavo Frederic. Nel film raccontava se stesso ma lo faceva attraverso me». Anche la parte doveva andare proprio a lui, a Moraldo Rossi. «Mi fece anche dei provini». Stessa cosa successa per il film successivo, La strada, dove l’amico era stato in lizza per la parte del Matto, il funambolo che sarà ucciso nella lite con Anthony Quinn/Zampanò: la parte in questo caso andò all’attore americano Richard Basehart. Ecco come lo stesso Rossi ha raccontato una decina di anni fa la vicenda de La strada (film iniziato a concepire prima de I vitelloni) al critico Tatti Sanguineti nel libro Fellini & Rossi. Il sesto vitellone (2001): «Un giorno, durante i soliti giri sulla Cassia, Fellini fece fermare l’auto guidata 29

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dall’autista del costumista Piero Gherardi, accanto ai ruderi di un antico casolare. Mi piazzò come si fa coi burattini ora contro un muro, ora sdraiato sulla paglia e mi fece scattare da Gherardi una serie di fotografie. “Stai buono, fatti fotografare, perché tu dovrai interpretare il ruolo del Matto”. Questo il suo annuncio. Mi fece indossare una camicia bianca di pizzo, mi truccò e mi piazzò». Quanto a I vitelloni, «la sera in cui lessi il soggettino trasecolai - ricorda ancora Rossi nel testo raccolto da Sanguineti - Era nato un altro personaggio delineato sui miei contorni ma con riferimenti chiaramente autobiog rafici, e tale sovrapposizione mi lusingava. Il Moraldo di quelle poche pagine era metà lui, metà me». Il vero Moraldo decise però di rinunciare alla parte e di fare invece l’aiuto regista. Del resto lui dentro il film c’era, c’era eccome. C’era come c’erano stati i racconti condivisi con l’amico Federico sulle vitellonate dei ragazzi di provincia. Racconti che iniziarono al termine delle riprese dello Sceicco bianco, quando si era formato il trio di amici: Federico Fellini, Moraldo Rossi, e Leopoldo Trieste. «Leopa ci travolgeva di variopinte narrazioni delle sue peripezie amorose. Io propinavo a Federico quelli sulla mia Mestre, sulle mie imprese (anche acrobatiche, ndr), che erano poi quelle dei vitelloni veneti». Si viveva soprattutto di notte, un girovagare continuo, all’avventura, a bordo della mitica Studebaker. «Ricordo quella volta che gli dissi di avere sognato che facevo l’amore con Giulietta. Lui lo trovò divertente. racconta Rossi durante la nostra telefonata - Parlavamo 30

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spesso di sogni. Una volta invece lo accompagnai anche a Rimini, stavamo al Grand Hotel». Ma oggi cosa direbbe Moraldo a Federico se per miracolo potesse ritrovarselo davanti? «Gli direi non rompere le scatole» risponde con divertita malizia. E senza dimenticare di aggiungere che lui, nei lavori dell’amico Federico, non è solo il Moraldo de I vitelloni e un po’ l’ispiratore anche del Matto de La strada. Moraldo è infatti di nuovo personaggio nel trattamento Moraldo in città: doveva essere un po’ il seguito de I vitelloni ma non divenne mai un film. Però apre la strada al racconto de La dolce vita. E dopo il personaggio un po’ alter ego di Moraldo arriverà Marcello (Mastroianni). Moraldo Rossi, che dopo l’esperienza con Fellini fu lui stesso regista, sceneggiatore, ancora aiuto regista, diresse anche circa duemila caroselli tra cui le celebri serie della Birra Peroni («Chiamami Peroni, sarò la tua birra») e dei materassi Permaflex ideate da Armando Testa. Grande testimone della vita sul set e fuori dal set di Federico Fellini, divenne amico di Alberto Sordi dopo che durante le riprese de I vitelloni lui gli aveva dato dello stronzo (improperio che l’attore romano era solito rivolgere a man bassa a chiunque): «Lo attaccai, lo volevo menare. Ci fece riappacificare Fellini». La propensione alla provocazione da parte di Sordi rende più facile attribuirgli la paternità del gesto dell’ombrello durante la celebre battuta «Lavoratoriii…». «Quel braccio piegato fu una sua invenzione» assicura Moraldo Rossi. 31

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Alberto e Federico, che amici! Centenari uniti per cinquant’anni

Sei mesi di separazione. È il tempo che passa tra la nascita di Federico Fellini (20 gennaio 1920) e quella di Alberto Sordi (15 giugno 1920). Gli amici Federico e Alberto, di nuovo uniti nelle celebrazioni per i rispettivi Centenari. Il regista e l’attore. Insieme diventano celebrities con quel “piccolo” film, I vitelloni (1953), in occasione del quale il regista riminese dovette imporsi con la produzione per affidare a Sordi la parte del vitellone mammone e piagnone Alberto. E lui sarà attore rivelazione: immortale ormai nella celebre scena dello sberleffo ai «Lavoratoriiii….», grandioso ancor più nell’episodio della festa di Carnevale, ubriaco con in braccio la maschera (creazione uscita dalle abili mani degli artigiani del Carnevale di Viareggio) che raffigura un testone d’uomo. All’uscita dalla festa, mentre l’amico Moraldo cerca di sorreggerlo, dà vita ad un dialogo dalle sfumature tra il pirandellesco e il beckettiano: «Ma chi sei? Non sei nessuno, non siamo nessuno, tutti quanti, tutti...». Carlo Verdone, suo grande fan, “figlio d’arte”, epigono, lo dice chiaramente nella prefazione al volume Alberto Sordi di 32

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Alberto Anile, dato alle stampe in occasione del Centenario dal Centro Sperimentale di Cinematografia insieme ad Edizioni Sabinae: «Bisogna stare molto attenti a I vitelloni, perché lì Fellini anticipa tutta quella che sarebbe stata la carriera di Sordi: c’è la follia, c’è lui mascherato da clown col testone di carnevale, c’è lui, moralista, che difende la madre che piange perché la sorella s’è messa con uno sposato…». Prima ancora, con l’amico Fellini c’era però stato Lo sceicco bianco, dove il futuro Albertone nazionale già «metteva in campo tutta la sua follia, la sua improvvisazione» sottolinea ancora l’attore e regista romano. «Con lui - continua Verdone - Fellini fece molto poco, me lo disse lui stesso: “Lo lasciai andare, era così giusto. Gli spiegai quello che volevo e lui lo fece”. Le battute di Sordi nello Sceicco bianco sono di Sordi». La collaborazione tra Fellini e Sordi è circoscritta, almeno nelle filmografie ufficiali, a Lo sceicco bianco e I vitelloni. Per ognuno dei due artisti e amici - si erano conosciuti a Roma a ridosso del secondo conflitto bellico - si aprirono infatti a metà anni Cinquanta nuove, luminose, strade. Ma ci saranno in realtà ancora altre occasioni di lavoro insieme. La meno nota, quella per il film Roma (1972), dove Sordi era stato coinvolto per un intero episodio-cameo che fu tagliato nella versione finale del film. La scena che Fellini chiese all’amico di girare interpretando se stesso, è stata oggi recuperata come extra nel Dvd uscito nel 2016. Sordi era stato inserito durante l’episodio della Festa de noantri, 33

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ambientata a Trastevere, poi Fellini cambia le carte sul set e lo fa intervenire durante uno scontro tra polizia e un gruppo di hippies. Ne verrà fuori un «sapido ritrattino di Sordi che gongola davanti alla brutalità della forza pubblica» lo descrive Alberto Anile. La scena, secondo la testimonianza ancora di Verdone, sarebbe stata tagliata su richiesta di Sordi («No Federi’, te prego, tagliala, faccio una brutta figura…»). Nel film era previsto anche un cameo con Marcello Mastroianni. Anche quello tagliato. Restò, come è noto, solo quello, “aureo”, di Anna Magnani: l’ultima sua apparizione. Alcuni anni dopo sarà invece Sordi a chiamare l’amico Federico per un cameo nel film Il tassinaro (1983), e ne verrà fuori un episodio in cui l’attore romano (qui anche regista) si sdoppia nei ruoli dell’autista di taxi che preleva il famoso regista che deve raggiungere Cinecittà e in quello di se stesso. Occasioni sfumate furono quelle legate ai film Satyricon (Fellini annuncerà alla stampa di avere pensato a Sordi per il ruolo di Trimalcione), Tre passi nel delirio, e poi per il Casanova per il quale Sordi farà anche un provino finito nello special televisivo E il Casanova di Fellini? di Gianfranco Angelucci e Liliana Betti. Quello tra Federico Fellini e Alberto Sordi non fu «solo un incontro di lavoro, ma un’amicizia di oltre cinquant’anni, tutta la vita» ricorderà l’attore in una intervista a Repubblica in occasione dei funerali a Roma del regista (2 novembre 1993). E in una lettera pubblicata dal Corriere 34

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della Sera «posso solo chiudere gli occhi e pensare a lui, Federico Fellini», disse, spiegando di non volere offrirsi alle telecamere per ricordare una persona che gli era particolarmente intima. «È chiudendo gli occhi - scrisse ancora - che mi riappare il magro amico della gioventù, un diciottenne appena arrivato a Roma con una cartella di sogni e con in tasca, tra mozziconi di matite e piccoli taccuini da aspirante giornalista e disegnatore, la capacità di reinventare e ricreare la realtà. Io, che per una mai persa abitudine scolastica chiamo tutti per cognome, feci subito amicizia con quel magro Lucignolo romagnolo che, naturalmente e istintivamente per me divenne e restò poi sempre e soltanto Federico. Lo restò davvero, in tutti i sensi. Io ho visto cambiare tanti amici, tanti conoscenti con il successo e il potere e la stima degli altri: Federico no. Ideologicamente e umanamente è rimasto sempre lo stesso, chiuso nel suo magico e universale cerchio di fantasia e di immagini».

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«Insieme a Flaiano mio padre Tullio fu la penna di Fellini»

Tutto aveva avuto inizio nell’infanzia. Con un teatro di burattini. Un “imprinting” originario che deve avere fatto certo da sotterraneo collante a quella collaborazione ed amicizia pluridecennale tra due personalità non certo simili: Federico Fellini e Tullio Pinelli. Da un lato il provinciale che arrivato a Roma vi si accasa come Pinocchio nel Paese dei Balocchi, dall’altro un piemontese che arriva dalla città, dalla sabauda Torino, che vanta una discendenza nobiliare, che del territorio d’origine conserverà sempre il carattere disciplinato, la spinta al trovare un ordine nelle cose. Il regista riminese - spesso propenso al tono ilare e ai vezzeggiativi - si rivolgeva a lui chiamandolo vecchio Tullio, Tullietto, vecchio Pinellino, vecchio conte solitario. Li divideva anche la differenza d’età: Pinelli era del 1908, Fellini del 1920. Ma rimasero a lungo uniti, in un sodalizio artistico che iniziò ben prima dell’avvio della carriera registica di Fellini. Quando anzi il destino del futuro regista sembrava andare in altra direzione: quella di sceneggiatore. Con Pinelli si formò infatti nell’immediato dopoguerra quella «ditta di scrittori a quattro mani» (così Kezich) che si 36

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impose sulla scena cinematografica dell’epoca con collaborazioni per registi come Germi, Lattuada, Rossellini, Righelli, Matarazzo. Fellini aveva sperimentato già negli anni precedenti il lavoro a due di sceneggiatore con il fiorentino Piero Tellini (Quarta pagina, Chi l’ha visto?…). Ma la collaborazione con Pinelli continuò anche e soprattutto quando per Fellini iniziò la carriera di regista: da Lo sceicco bianco (1952) andò avanti fino a Giulietta degli spiriti (1965), per poi riprendere con Ginger e Fred (1985) e La voce della luna (1989). «Io ho sempre avuto, non so perché, la passione di scrivere dialoghi per il teatro. Scrivevo per un teatro di burattini di cui mi occupavo con mio fratello. Era molto bello, l’avevamo costruito noi. E il drammaturgo ero io». Tullio Pinelli racconta così l’origine della propria vocazione in una intervista a Tullio Kezich (Il teatro del mondo. Incontro con Tullio Pinelli). «Mio padre si considerava un drammaturgo prestato al cinema» racconta oggi il figlio Carlo Alberto. Ma fu una vocazione che rischiò di restare sotterranea, secondaria. Tullio Pinelli - che a Torino aveva frequentato il liceo avendo come compagno di classe Cesare Pavese e che aveva come compagni figure legate all’antifascismo come Leone Ginzburg, Massimo Mila, Norberto Bobbio - si era infatti laureato in giurisprudenza. «Faceva l’avvocato ma la sera scriveva drammi e commedie» ricorda il figlio. Fu notato dal critico teatrale Silvio d’Amico. Ma la svolta per la sua carriera arrivò quando partecipò ad un concorso 37

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della Lux Film che cercava sceneggiatori per il cinema. Si presentarono in tre: oltre a Pinelli, gli scrittori Elio Vittorini e Vitaliano Brancati che però non avevano pratica di sceneggiature e Pinelli sbaragliò. Fu a Roma, alla Lux, che vide in seguito per la prima volta Fellini. L’incontro che fece scattare la scintilla dell’amicizia e della collaborazione avvenne però per caso davanti ad una edicola in via Veneto, entrambi intenti a leggere le due facciate opposte di un giornale appeso. Con Fellini e Pinelli, e poi con l’altra fondamentale “testa”, quella dello scrittore e intellettuale pescarese Ennio Flaiano, si formò un trio fenomenale che germinò già in occasione della realizzazione del film Luci del varietà (con Fellini regista insieme ad Alberto Lattuada) e che fu una sorta di marchio di fabbrica per tutta la prima parte della filmografia felliniana, cui andò ad aggiungersi a partire da La strada, ma separatamente, anche la collaborazione di Brunello Rondi. Un’alchimia unica e irripetibile, tra personalità diverse eppure complementari. «Mio padre e Fellini erano persone molto diverse, ma molto in simbiosi dal punto di vista creativo: bastava si dessero un’occhiata, senza parlare, e capivano cosa pensava l’uno dell’altro» racconta ancora il figlio Carlo Alberto. Regista documentarista, è autore anche di un documentario sul padre, mai mandato in onda in Italia, seppure realizzato per Rai International. Un lavoro che raccoglie diverse testimonianze, tra cui quella di Monicelli (Pinelli sarà anche sceneggiatore di Amici miei) che rivela un aspetto delle 38

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dinamiche di lavoro tra lo sceneggiatore torinese e gli altri: «Tullio era quello che non permetteva troppo di cazzeggiare». Un tratto piemontese, se vogliamo, che doveva emergere anche nel lavoro a tre con Fellini e Flaiano. Sempre complesso distinguere, distillare, il contributo dell’uno e dell’altro autore nelle sceneggiature dei grandi capolavori felliniani, non solo perché poi le cose potevano cambiare sul set. A Pinelli va però certamente riconosciuto il contributo significativo alla sceneggiatura (e addirittura all’idea originaria) del film La strada (1954), mentre per il precedente I vitelloni il suo ruolo fu ad esempio marginale e limitato al soggetto. Quello era infatti più un film nel quale si riconosceva la coppia Fellini e Flaiano, entrambi provinciali e testimoni diretti di “vitellonaggio”. «Un episodio che ricordo di avere suggerito è quello di Steiner» dichiarò invece lo stesso Pinelli in una intervista a Kezich a proposito de La dolce vita. Steiner, il personaggio intellettuale che nel film si suicida dopo avere ucciso i due figlioletti, contiene in parte una reminiscenza del suicidio di Cesare Pavese. Ad ispirare il personaggio anche un episodio di cronaca, di una strage famigliare. «L’ambiente in cui Federico l’ha fatto vivere in quella serata di ospiti, così, era esattamente il contrario di quel che avevo pensato io» dirà però, ancora a Tullio Kezich, lo sceneggiatore torinese che, al pari di Flaiano, interruppe la collaborazione con Fellini dopo avere lavorato per 8½ (film di cui, dice il figlio Carlo Alberto, intuì il carattere di capolavoro, e a 39

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differenza che in altre occasioni fu spesso sul set) e poi per Giulietta degli spiriti. Rimase però sempre in buoni rapporti con Fellini (collaborò tra l’altro con la Masina, a suoi sceneggiati tv) che lo richiamò al suo fianco per Ginger e Fred. «Mio padre amava le storie ben costruite e i personaggi e in Ginger e Fred c’erano. C’è, e si nota, la sua penna nello straordinario dialogo al buio tra Mastroianni e la Masina». Collaborazione più “fredda” fu quella per La voce della luna, ultimo film del regista riminese, per diversità di vedute sulla forma finale della sceneggiatura, che Fellini volle lasciare non abbastanza definita a parere di un cultore della struttura come Pinelli. Lo stesso Carlo Alberto Pinelli fu per un certo periodo coinvolto nella macchina del cinema felliniano. «Ho fatto una piccolissima parte nell’episodio Le tentazioni del dottor Antonio: ero il segretario del protagonista interpretato da Peppino De Filippo, quello che batte a macchina». Sul set di quel film faceva in realtà l’assistente alla regia. Pinelli, che oggi ha 85 anni, si formò poi come archeologo. Un mestiere che lo ha portato a viaggiare: «India, Amazzonia: Fellini mi chiedeva spesso che gli raccontassi dei miei viaggi».

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Flaiano e Fellini sotto il segno dell’equivoco

Si amarono tanto che alla fine finirono per odiarsi. Sarebbe facile sintetizzarla così. Il punto è che rimane complesso parlare della collaborazione e del rapporto tra Federico Fellini e uno dei suoi sceneggiatori di punta, Ennio Flaiano. Scrittore, giornalista, critico cinematografico, drammaturgo, sceneggiatore, primo vincitore del Premio Strega con il romanzo Tempo di uccidere (1947), capo redattore («cupo redattore» ironizzava lui) fino al 1951 della rivista Il Mondo. Figura di letterato, celebre per i suoi aforismi, Ennio Flaiano non è facilmente incasellabile, e rimane ancora ingiustamente in ombra tra le figure del nostro Novecento letterario. Flaiano collaborò ai film di Fellini da Luci del varietà (1951) a Giulietta degli spiriti (1965). Si erano conosciuti a Roma già prima della guerra, quando Fellini lavorava al periodico satirico Marc’Aurelio e Flaiano - di dieci anni più anziano, era nato il 5 marzo del 1910 - al settimanale Omnibus, fondato nel 1937 da Leo Longanesi ma di vita breve (fu soppresso dal regime fascista nel ‘39). Due mondi diversi: da un lato il regno dell’umorismo e della satira, dall’altro una redazione con un concentrato di intellettuali (da 41

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Arrigo Benedetti, Mario Pannunzio, Alberto Savinio…) di area liberal, ovvero «quel tanto di latente antifascismo che poteva manifestarsi negli anni Trenta», come scrive Eugenio Scalfari riferendosi anche alla «fronda borghese» di Leo Longanesi, nel suo La sera andavamo in via Veneto (Einaudi, 2009). Di quel primo incontro così raccontò Fellini: «L’unico di questi personaggi, che qualche volta ci salutava scherzosamente anche strizzando l’occhio come a farci capire che stava più con noi che con gli altri, era appunto Flaiano. Me lo ricordo tutto vestito di bianco, di un lino bianco, spippettante, una volta entrò a curiosare nella nostra redazione alle tre del pomeriggio di un giorno d’estate. […] lui è entrato ha chiesto permesso si è messo a guardare delle vignette, delle caricature che erano appese alle pareti. Io mi sono presentato e gli ho detto che lo ammiravo moltissimo, ma… non era proprio vero. Lui ha detto che ammirava moltissimo anche me, ci siamo detti che ci ammiravamo moltissimo». Insieme a Tullio Pinelli, Brunello Rondi, e in seguito Bernardino Zapponi e Tonino Guerra, Flaiano è stato uno dei grandi “autori” che contribuirono a rendere capolavori i film di Fellini. «Lo spessore culturale di Flaiano - spiega Stefano Stoja, studioso di letteratura italiana che negli anni ha scandagliato i materiali del Fondo Flaiano custoditi dalla Biblioteca cantonale di Lugano - è un complemento alla capacità di avere una visione dell’opera di Fellini. La dimensione di Flaiano era la parola scritta, era una dimensione raffinatissima e lo si nota anche nelle 42

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sceneggiature, nella sua tavolozza espressiva, così piena di sfumature». In uno scritto uscito per la rivista Cartevive nel 2010 (centenario della nascita di Flaiano) Stoja aveva analizzato quella che è possibile sia stata la prima stesura della sceneggiatura de La dolce vita, nelle parti scritte da Flaiano: è conservata a Lugano insieme alla macchina da scrivere usata dallo scrittore pescarese. Scrive Stoja, analizzando la battitura della celeberrima scena del bagno nella Fontana di Trevi, che Flaiano sembra avere scritto «di getto». «Per tutta la durata della scena - continua -, sta’ quasi solo su Marcello», sembra seguirne «i moti interiori dell’animo» mentre segue con lo sguardo Sylvia che entra nella vasca. Rispetto al film «la discrepanza più palese» è che nella versione scritta non compare la celeberrima battuta di Sylvia che, irresistibilmente invitante, grida: «Marcello!... Come here!». «Le sceneggiature di Flaiano sono vere e proprie partiture visuali» ne conclude lo studioso. La “narrazione” sui rapporti tra Fellini e Flaiano immancabilmente si cristallizza sulla rottura avvenuta in occasione del viaggio a Los Angeles, nell’aprile 1964, per le quattro nomination che 8½ aveva ottenuto agli Oscar (due le statuette assegnate: miglior film straniero e a Gherardi per i costumi). Sul volo da Roma a Los Angeles la produzione mise Pinelli e Flaiano in classe turistica, Fellini e Rizzoli in prima classe: Flaiano se ne ebbe, credendo Fellini il responsabile. Finì che terminato il film successivo, Giulietta degli spiriti, non lavorarono più insieme. Dopo anni 43

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però ripresero a sentirsi. Probabilmente a capirsi. E quando Flaiano morì, nel 1972, stroncato da un infarto, il regista lo ricordò con ammirazione: «Era un miscuglio di complicità, di solidarietà, di permalosità…» disse, e definì un «equivoco ridicolo» l’episodio che provocò anni prima la rottura. «Ennio era capace di tradimenti vergognosi aggiunse Fellini -, però nello stesso tempo di conciliazioni altrettanto coinvolgenti. Insomma era un carissimo amico». Da parte sua Flaiano, che pure non aveva risparmiato critiche ad alcuni aspetti dei film del Maestro, negli ultimi anni della sua vita rivide alcuni giudizi e l’apprezzamento nei confronti di Fellini apparve netto. In una lettera a Fellini dell’8 febbraio del 1969 definì La dolce vita, rivisto dieci anni dopo l’uscita, «affascinante, pieno di una realtà che ancora adesso si sta decifrando, un film poi che lascia storditi per l’abbondanza e la precisione dei motivi, dei personaggi e delle storie che si intrecciano come in un grande telaio, e ognuna completa l’altra. Insomma un romanzo, non un racconto. ... Credo che resti la tua opera più viva in questo senso, proprio per la carica di pietà e di ansia per un mondo che sta uscendo dai binari e affretta il momento della disperazione». «Sono caduto nel film confessò - come se non l’avessi mai visto prima». E prima, appunto, non aveva risparmiato punzecchiature. Lo ha ricordato di recente sul Corriere della Sera Aldo Grasso, in un articolo in occasione della programmazione su Rai Movie del film La dolce vita, uscito sessant’anni fa. «Più passa il tempo, più si rivede il film - scrive Grasso - e 44

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più la distanza tra Fellini e Flaiano prende corpo. Tra i due c’era una profonda distanza culturale che, tra le pieghe, il film lascia trasparire». Una distanza che Grasso ritrova espressa nel commento dello stesso Flaiano in occasione della proiezione di alcune scene del film all’epoca della sua realizzazione: «Il gongorismo - scrisse Flaiano l’amplificazione di Fellini nel ritrarre quel mondo di via Veneto fa pensare al museo delle cere, le immagini dei quaresimalisti quando descrivono la carne che si corrompe e imputridisce… Fellini quaresimalista? È un’ipotesi tentatrice». La riprova, per Grasso, del «contrasto tra la scrittura barocca, composita, grondante metafore di Fellini e lo stile aforistico di Flaiano, tra il mondo “caricaturale” del regista e quello intellettuale dello scrittore (e del gruppo del Mondo, cui apparteneva)».

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Brunello Rondi, sceneggiatore «misterioso» e «sapientissimo»

Cesare Zavattini nel suo Diario cinematografico aveva parlato di lui come di «un giovane un po’ misterioso (…); è umile e presuntuoso (…) ma io lo vedo tanto volentieri come uno di quelli che più hanno capito il proprio tempo». Tullio Kezich, principale biografo di Fellini, lo etichetta come lo «sceneggiatore da campo», la «spalla intellettuale del regista» che «bordeggia ai margini del set e ogni tanto passa al regista fogli di carta protocollo vergati con una calligrafia alta e nervosa». Tra i suoi meriti, ancora Kezich, quello di essere «in grado di razionalizzare le intuizioni di Fellini». Ma chi era Brunello Rondi? Difficile ancora oggi tracciarne un ritratto esaustivo. Classe 1924, dopo Bernardino Zapponi (che era nato nel 1926 e arrivò successivamente), fu il più giovane tra gli sceneggiatori di Federico Fellini. Figura eclettica, impegnato anche nella teoria del cinema (suoi i testi Il neorealismo italiano e Cinema e realtà) e filosofia (fu allievo di Enzo Paci), Brunello Rondi fu inoltre esperto musicologo. Un intellettuale come Flaiano, diverso soprattutto nel carattere. Il suo legame particolare con Fellini potrebbe avere avuto un ruolo nella rottura avvenuta dopo Giulietta 46

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degli spiriti tra il riminese e il pescarese. L’indicazione arriva dal solito Kezich che da un’edizione all’altra del suo lavoro biografico lascia per strada qualche riferimento alla presenza di Brunello Rondi nel cinema del maestro, ma in una delle ultime edizioni, nel sottolineare una certa permalosità di Flaiano, ha invece l’animo di aggiungere un ag gettivo altamente qualificativo al nome dello sceneggiatore più giovane: «Non ama (Flaiano, ndr) l’intesa tra Federico e il sapientissimo Brunello Rondi» ci informa. Dunque misterioso, ma sapientissimo. «Sicuramente, tra i collaboratori di Fellini, è quello che ha lavorato con lui nell’arco temporale più ampio: inizia in occasione de La strada (1954) e sarà ancora suo sceneggiatore, seppure non accreditato, per Ginger e Fred (1986)» spiega Alberto Pezzotta, studioso e docente di cinema che insieme a Stefania Parigi ha curato la pubblicazione dedicata a Brunello Rondi, Il lungo respiro di Brunello Rondi (Edizioni Sabinae, 2010). Sceneggiatore non solo per Fellini (debutta con Luigi Chiarini per poi proseguire con Roberto Rossellini in Francesco, giullare di Dio ed Europa ’51), lui stesso regista, Brunello Rondi - scomparso nel 1989 a Roma - fu anche poeta e drammaturgo (il suo primo lavoro fu L’assedio di Orazio Costa). Di origini piemontesi, suo fratello Gian Luigi Rondi è stato nel corso del Novecento uno dei maggiori critici cinematografici italiani. Brunello Rondi tra le figure che lavorarono intensamente al fianco di Fellini è ancora oggi quella meno citata, ricordata, quasi rimossa. 47

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Perché? «Siamo sul fronte dell’imponderabile - riflette Pezzotta - Ma certamente a suo sfavore giocarono credo due fattori. Il fatto di essere stato fratello di Gian Luigi, democristiano sospettato di andreottismo e quindi figura poco amata da buona parte dell’intellettualità italiana. E poi certi suoi film degli anni Settanta, che non giovarono alla sua immagine». Al cinema, nelle vesti di regista, Brunello Rondi esordisce nel 1962, quando è già sceneggiatore di Fellini, e lo fa cimentandosi con il romanzo di Pier Paolo Pasolini - che probabilmente conosceva sin dall’epoca in cui collaborarono insieme a Le notti di Cabiria - Una vita violenta. Sarà autore di altri 12 film tra cui Il demonio (1963), Più tardi Claire, più tardi (1965) che attirò l’attenzione di Dario Argento, Ingrid sulla strada (1973), fino a La voce (1982). Ma venendo al dunque: quale contributo diede Brunello Rondi al cinema di Federico Fellini? Se è vero, come ebbe a dire Flaiano, che «un film non è un picnic, finito il quale ognuno si riporta a casa i suoi cestini vuoti e gli avanzi», il “gioco” delle attribuzioni di idee, scene, sequenze a questo o quello sceneggiatore, piuttosto che al regista, giunge inevitabilmente mai al termine. Brunello Rondi, dopo avere collaborato ai film La strada, Il bidone e Le notti di Cabiria fu tra gli sceneggiatori de La dolce vita insieme a Flaiano e Pinelli, anche se fu accreditato a pieno titolo a partire da 8½ e Giulietta degli spiriti. «Rondi ha un ruolo fondamentale nel laboratorio felliniano - scrive Pezzotta ne Il respiro di Brunello Rondi - È il primo depositario dei soggetti de La dolce vita e di 8½ ed è un 48

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polo dialettico fondamentale nella loro elaborazione». Sarà lui stesso a rivendicare il proprio contributo. In particolare, citato ne L’avventurosa storia del cinema italiano di Goffredo Fofi e Franca Faldini, «rivendica il proprio ruolo ad esempio nella sequenza della Fontana di Trevi» ricorda Pezzotta. Una sequenza sulla quale aveva lavorato in prima battuta Flaiano, che ne rivendicò infatti la paternità, attestata anche dalla prima stesura della sceneggiatura, conservata al Fondo Flaiano di Lugano, dalla quale però manca ad esempio la celebre battuta «Marcello... come here». Del resto il lavoro di sceneggiatura si svolgeva non solo con riunioni di gruppo, ma anche separatamente e nel caso di Rondi fu lui stesso a raccontare che «Fellini lavora con me e - separatamente da me - con gli altri due sceneggiatori Pinelli e Flaiano». Come ebbe a dire Pasolini: «Fellini prende comunque dai suoi collaboratori quello che deve prendere: che lo capiscano o non lo capiscano. Tu parli, scrivi, ti entusiasmi: lui ci si diverte e, silenziosamente, pesca nel fondo».

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Peppino Amato rapito dal set. Fu il papà de La dolce vita

Dice ad un certo punto il critico Mario Sesti: senza Peppino Amato il film La dolce vita «probabilmente non si sarebbe mai fatto». Chi era Peppino Amato? Un grande produttore cinematografico, e di quelli però che avevano nell’animo un demone romantico, talvolta distruttore: la spia è il rapporto con il denaro, il suo vezzo al gioco nei casinò, che condivideva e su cui ironizzava con l’altrettanto giocatore incallito Vittorio De Sica. Ma era poi quel demone che lo spingeva a fare, a investire, a intuire prima di tutti: Giuseppe Amato intuì prima di tutti gli altri che La dolce vita sarebbe stato un capolavoro. E volle produrre a tutti i costi quel film uscito sessant’anni fa, che avrebbe voluto fosse intitolato Via Veneto. Prima di farlo, prima di gettarsi a capofitto nell’impresa, sentì però il bisogno - lui così religioso, devoto in maniera anche superstiziosa - di rivolgersi a Padre Pio. Si recò con un amico in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo e da quell’incontro ne uscì convinto che poteva e doveva firmare l’accordo che prevedeva uno scambio con il produttore Dino De Laurentiis, colui che dopo i successi 50

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de La strada e Le notti di Cabiria, aveva in mano un solido contratto che lo legava ai futuri lavori di Fellini. «Amato mi cedette in cambio dei diritti de La dolce vita quelli de La grande guerra» raccontò il celebre produttore in una intervista video riproposta dal film La verità su La dolce vita che il nipote di Peppino Amato, Giuseppe Pedersoli, ha realizzato e presentato in anteprima alla 77a Mostra del cinema di Venezia. La genesi di questo nuovo lavoro legato all’opera di Fellini, prodotto da Gaia Gorrini per Arietta Cinematografica, in associazione con Istituto Luce-Cinecittà, la racconta così Giuseppe Pedersoli (lui stesso di mestiere produttore), figlio di quel Carlo Pedersoli noto al grande pubblico come Bud Spencer e che fu genero di Peppino Amato: «Spinto a rimettere ordine negli archivi di famiglia in occasione del centenario della nascita di Fellini e dei sessant’anni de La dolce vita - spiega - ci siamo ritrovati davanti ad un tesoro, perché con nostra sorpresa abbiamo scoperto che i documenti che avevamo tra le mani comprendevano non solo il periodo de La dolce vita ma tutta l’attività di mio nonno Peppino Amato dagli anni Trenta». Una mole impressionante di documenti è stata riordinata e studiata: «Solo per La dolce vita ci sono almeno 140 scambi epistolari». Sono soprattutto quelli tra Amato e Fellini, tra Amato e Rizzoli e De Laurentis, gli altri produttori coinvolti direttamente nella vicenda della pellicola, le cui vicissitudini produttive il film ricostruisce - nella forma della docufiction - attingendo fedelmente ai materiali 51

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ritrovati. Se De Laurentiis si lasciò sfuggire il grande capolavoro, Angelo Rizzoli, socio storico di Amato, fu quello che alla fine raccolse i benefici del successo. Ma il film causò anche la rottura del lungo sodalizio tra il “commenda” e Amato. Quest’ultimo fu infatti costretto a cedere la propria quota del cinquanta per cento del capolavoro per il quale si era talmente speso da rimetterci, oltre che finanziariamente, anche in stato di salute. La storia produttiva de La dolce vita è una storia di furiose litigate tra produttori, tra produzione e regista, ma anche di riappacificazioni. Il film documenta molti dei passaggi, in particolare le rotture sfiorate tra lo stesso Fellini e Amato, e tra Rizzoli e lo stesso Amato. I costi - lievitati dagli iniziali 400 a 800 milioni di lire, tra i più alti della storia del cinema – e l’eccessiva lunghezza (oltre 4 ore poi ridotte a 3) furono al centro delle diatribe. Peppino Amato morirà d’infarto il 3 febbraio 1964. Erano trascorsi esattamente quattro anni dall’uscita de La dolce vita, la cui prima avvenne al cinema Fiamma di Roma il 3 febbraio del 1960. Nato il 24 agosto del 1899, Amato fu uno dei grandi produttori italiani di cinema a partire dagli anni Trenta e Quaranta: il suo nome è legato a capolavori del neorealismo come Roma città aperta e Francesco, giullare di Dio di Rossellini, Umberto D di De Sica. Fu «una di quelle figure per le quali l’incontro con un set cinematografico osserva Mario Sesti - acquista i tratti di un autentico rapimento, qualcosa di simile ai grandi innamoramenti o 52

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alla scoperta di una fede religiosa. Una magia dalla quale non riuscirà più a liberarsi». Il suo ruolo fondamentale per la realizzazione de La dolce vita lo riconobbe lo stesso Fellini, come dimostra una lettera che gli inviò a film terminato: «Ora che la mia fatica sta per volgere alla fine scrisse - voglio dirti che ti sarò sempre grato di avermi un giorno ormai lontano provocato l’incontro con Rizzoli e che non dimenticherò mai che tu sei stato il primo e l’unico tra tanti produttori ad avere intuito che cosa volevo fare con questo film».

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Quando il pubblico di Mosca decretò il successo di 8½

Erano giorni di luglio anche allora. Era il 1963 e 8½ - che in Italia era uscito il 14 febbraio accendendo ancora una volta un vivace dibattito negli ambienti della critica e tra il pubblico - affronta i palcoscenici internazionali. A giugno era toccato a New York ed il successo fu tanto «dilagante che una ditta si propone di produrre in serie il cappello nero di Marcello» ci ricorda Tullio Kezich. A luglio invece tocca a Mosca. La Mosca sovietica che accoglie, al Festival internazionale, che per il terzo anno si tiene nella capitale, il film che fa irrompere sul grande schermo la dimensione dell’Io e dell’inconscio, il mondo onirico, l’uomo singolo che affronta i propri incubi e fantasmi. Non proprio quello che predicavano politica ed estetica marxista in quell’Unione Sovietica che era potenza contrapposta agli Stati Uniti, con cui divideva in due blocchi geopolitici antagonisti il mondo dell’epoca. Ma il film – che era stato indicato dal Ministero del turismo e dello spettacolo italiani per rappresentare l’Italia al festival - vinse addirittura il primo premio. Fu una vittoria per nulla scontata, al contrario sofferta, faticosissima. Ma talmente dirompente 54

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che Sergio Zavoli, nel programma Rai Un’ora (e mezzo) con il regista di 8½ (ora gratis su RayPlay col titolo Zavoli racconta Fellini), con l’acutezza che l’ha sempre contraddistinto, ne volle subito sviscerare i retroscena. Fece parlare, oltre allo stesso Fellini, anche Sergio Amidei - che con Fellini aveva sceneggiato Roma città aperta e in quell’occasione era membro della giuria del festival - e Sergej Gerasimov, regista sovietico ancora in parte legato all’apparato, che ingaggiò con Fellini, privatamente, una discussione che andò avanti fino alle cinque del mattino. «Mi parve chiaro affermò Gerasimov nel corso dell’intervista a Zavoli - che Fellini aveva cercato una grandiosa confessione, per dare inizio a una dimensione più grande ed esposta della coscienza, a qualcosa di meno parziale e più coraggioso e ciò rientra nei diritti di qualunque artista, penso. Un altro discorso è perché 8½ sia parso a molti poco comprensibile, forse troppo intimo, troppo privato per diventare patrimonio dello spettatore medio». «Noi - aggiunse il regista sovietico - risolviamo molti aspetti della vita in un modo del tutto diverso. Questo però non ci ha impedito di apprezzare l’onestà se non proprio il metodo con cui Fellini cerca l’uomo e lo aiuta a decifrare la vita e penso che a Mosca questo sia stato capito». «Mi sono battuto tanto, è stata una battaglia dura - rivelò Amidei a Zavoli Ufficialmente 8½ non lo volevano. È stato il trionfo decretato dal pubblico quella sera, settemila persone al Palazzo dei congressi sedute per terra… È stato forse quello più che la mia ostinazione a convincere la giuria, 55

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almeno la parte sovietica della giuria, a concedere il premio». Potenza della grande cinematografia, che si insinua nelle pieghe della storia, e che fa la storia. La storia indubbiamente 8½ l’ha fatta. Ancora oggi il film tra le pellicole restaurate da Cineteca Nazionale e Istituto Luce Cinecittà in collaborazione con RTI-Mediaset - resta un indiscusso capolavoro. Una pietra miliare nel cinema, ha conquistato due Premi Oscar, al miglior film straniero e ai costumi di Piero Gherardi. Nel luglio 1963 il film vinse il premio Grolle d’oro del festival di Saint Vincent, dove si rinnovò il “duello” con Luchino Visconti che aveva in gara il suo Gattopardo. I due registi “avversari” (così per la critica, dai tempi de La strada) avevano condiviso per i rispettivi film la stessa attrice, Claudia Cardinale, che durante le riprese si era divisa tra i due (diversissimi) set. Altra presenza importantissima in 8½ fu quella del direttore della fotografia Gianni Di Venanzo, classe 1920 come Fellini (ma era nato il 18 dicembre). È il direttore della fotografia di Michelangelo Antonioni per i film Le amiche (1955) e i successivi Il grido, La notte, L’eclisse. Con Fellini aveva già lavorato nell’episodio Agenzia matrimoniale, del film collettivo Amore in città, cui avevano contribuito anche Antonioni, Maselli, Risi, Lizzani e Lattuada. Sua la fotografia di Salvatore Giuliano e altri film di Francesco Rosi e di altri grandi registi italiani (Lizzani, Petri, Monicelli, Maselli, Comencini). Un assoluto innovatore. Un maestro del bianco e nero, che in 8½ usa anche il bianco assoluto. Con Fellini fu anche il direttore della fotografia del 56

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successivo Giulietta degli spiriti, primo lungometraggio a colori del Maestro. Di Venanzo vinse per quel film il suo quinto Nastro d’argento, ma in questo caso alla memoria: morì di epatite nel 1966.

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Gli spiriti di Giulietta nel «manoscritto in bottiglia»

«A maggior ragione mi sono stupito di veder riaffiorare, come un manoscritto in una bottiglia, questo racconto lungo che è un grazioso documento di rara preziosità: niente meno che la prima idea-soggetto di Giulietta degli spiriti». Il manoscritto in una bottiglia – per dirla con le parole del biografo ufficiale di Federico Fellini, Tullio Kezich - continua a viaggiare. Dal testo, al film, al teatro. Giulietta di Federico Fellini è un libretto di poco più di un centinaio di pagine, edito dal Melangolo nel 1994. Contiene un racconto scritto a quanto sembra di proprio pugno dallo stesso Fellini, primo abbozzo di quello che sarà il film successivo a 8½ e il primo lungometraggio a colori del regista, uscito nel 1965. Una rarità: perché per trovare qualcosa di analogo, ovvero un testo scritto in forma narrativa dal Fellini regista, occorre andare al Viaggio di Mastorna, il grande progetto di film rimasto incompiuto. La prima pubblicazione di questo testo semi-sconosciuto risale al 1989, in tedesco, da parte della casa editrice svizzera Diogenes Verlag, il cui editore, Daniel Keel, era anche amico di Fellini. 58

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Tu l l i o K e z i c h e s p r e s s e l a p r o p r i a s o r p r e s a nell’introduzione all’edizione italiana, apparsa dopo la scomparsa del regista riminese e oggi pressoché introvabile: «Perché il regista non me lo fece mai vedere?» si chiese. Interrogativo che resta senza risposta, come quello sul perché Fellini «volle pubblicare questo soggetto a preferenza di altri». Giulietta è anche uno spettacolo teatrale prodotto da TPE – Teatro Piemonte Europa per la regia di Valter Malosti, riportato in scena in occasione del centenario felliniano con una nuova interprete, Roberta Caronia. Il primo allestimento risale al 2004 (Premio Hystrio per la regia e Premio della critica teatrale 2003-2004 e Ubu a Michela Cescon come migliore attrice). Valter Malosti, attore, regista, artista visivo, all’incontro con il «manoscritto in bottiglia» è arrivato per caso. Ma a sentirglielo raccontare sembra quasi un destino. Cosa la spinse, nel 2004, a lavorare sul personaggio della Giulietta di Giulietta degli spiriti, a scegliere proprio quella meno «popolare» tra le grandi interpretazioni della Masina per Fellini? All’origine vi è proprio questo racconto lungo che Fellini pubblicò in vita. Trovai il libro a Rimini, dove mi trovavo per uno spettacolo, non ricordo se per la regia di Ronconi. Lo trovai in una libreria di remainder. Quando decisi di costruirci uno spettacolo mi misi a cercare nelle librerie in giro per l’Italia e riuscii a trovarne una ventina di copie. É una cosa molto curiosa, scritta sotto forma di monologo. 59

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Cosa l’ha affascinata del testo? «È uno scritto che risente molto dell’atmosfera dei primi anni Sessanta e che ha molto a che fare con Beckett: c’è questa donna sola che racconta come in un flusso di coscienza e che a me ha subito ricordato la Winnie di Giorni felici. Tant’è che nell’adattamento teatrale abbiamo pensato ad un piccolo circo in cui è inserita una grande gonna che contiene il bustino di Giulietta, da cui emerge come la protagonista di Giorni felici. È come imprigionata in questo piccolo circo immaginario della sua anima, come una farfallina inchiodata. Dice bene Kezich nella sua introduzione al volume: Giulietta è come una favola dai toni mozartiani. È una struggente favola psicanalitica, una moderna Alice attraverso lo specchio, specchio con il quale si apre e si chiude lo spettacolo e il racconto felliniano». In cosa differisce dal film? Giulietta degli spiriti non ebbe grande successo, nonostante sia da considerare ancora oggi un film importante sotto molti punti di vista... «Forse perché era il primo esperimento di film a colori, l’aspetto visivo prese il sopravvento. La Masina, si sa, non riusciva a trovare la chiave per interpretare la figura della moglie casalinga alto borghese. Può sembrare paradossale, ma il non vedere rende il testo più vero. C’è una specie di pensiero più obliquo. Viene poi più fuori la parte familiare del personaggio Giulietta, è come se scavasse dentro di sé».

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Lavorando anche sulle musiche di Nino Rota nello spettacolo ha dato importanza anche alla componente musicale. «Infatti, è una sorta di operina, ora più potente rispetto al passato grazie ai maggiori mezzi tecnici a disposizione. È una sorta di partitura, un’operina per musica, luci, e voce recitante».

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Sandra Milo: «Con Federico persi ogni pudore sul set»

Sandra Milo non ha bisogno di troppe presentazioni. Nata a Tunisi 87 anni fa, con il nome Salvatrice Elena Greco, ha recitato nei due film di Fellini degli anni Sessanta che più esplicitamente traducono sul grande schermo la dirompente esperienza psicoanalitica che il Maestro riminese aveva iniziato sotto la guida dello psicoanalista junghiano Ernst Bernhard. In 8½ Fellini squaderna incertezze, paure, abissi, del suo animo. In Giulietta degli spiriti tenta un 8½ al femminile. Per la prima volta filma un lungometraggio con pellicola a colori. In entrambi i film Sandra Milo è tra le figure chiave. L’amante Carla, in 8½. In Giulietta degli spiriti il Maestro ritaglia per lei ben tre ruoli. Tre personaggi della fantasia, che ruotano intorno al mondo di Giulietta, la protagonista, la moglie borghese, la donna che lotta con i propri spiriti, in cerca della propria liberazione. «Perno di questa colossale mascherata psicanalitica è quella specie di allegorica personificazione che Fellini ha creato con Sandra Milo, vera e propria versione moderna di Afrodite, come espressione della potenza venerea, e come Afrodite una e 62

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plurima nella triplice incarnazione di Susy, Iris e Fanny» scriveva con acume il giornalista e critico cinematografico Filippo Sacchi in una recensione apparsa su Epoca il 31 ottobre 1965, pochi giorni dopo l’uscita del film. Quante donne, in questo film. Bellissime. Il colore - alla macchina da presa un mago della luce come Gianni Di Venanzo - e gli abiti - un altro mago, Piero Gherardi, Premio Oscar per i costumi de La dolce vita - le rendono tutte regine, dee, figure mitologiche - archetipiche? - che il regista fa muovere in quello straordinario teatro ad effetto reale che sa essere il cinema. Un po’ come se dall’harem di 8½ le donne «felliniane» avessero voluto trasmigare in un altro spazio, da favola, da cartoon. Là non c’era però un ruolo d’attrice per Giulietta Masina. Ci fu per Sandra Milo, e quel film segnò la sua (ri)nascita al cinema. Quando fu chiamata da Fellini per fare il provino per la Carla di 8½, la Milo non lavorava più per il cinema da un paio di anni. Aveva esordito nel 1955 al fianco di Alberto Sordi in Lo Scapolo. Sposata con il produttore Moris Ergas, recitò presto in due film importanti: Il generale della Rovere (1959) di Roberto Rossellini e Adua e le compagne (1960) di Antonio Pietrangeli. Ma il flop del successivo film di Roberto Rossellini, Vanina Vanini, pellicola a sfondo risorgimentale dove interpretava la parte della protagonista, provocò una battuta di arresto alla sua carriera. 63

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«Nessuno mi voleva più, non feci niente per un paio di anni - ricorda oggi l’attrice - finché mi chiamò Federico Fellini per fare il provino per la Carla di 8½». Come vi eravate conosciuti? «Attraverso Flaiano, a Fregene, in estate. Eravamo a villa dei Pini, Ennio mi presentò a Federico. Vidi quest’uomo bellissimo, con quegli occhi streganti e mi sentii catturata come da una calamita. Rimasi folgorata. Poi ci incontrammo a qualche cena. Finché mi chiamò per fare il provino di Carla». Vennero a casa sua… «Sì, venne Federico, Gianni Di Venanzo, tutto lo staff. Mi misero il redingote, il cappellino bianco. Federico mi chiese se avessi una chitarra. Avevo un gatto di peluche e feci il provino con quello. Quando mi dissero che mi avevano preso per la parte, però, non volevo farla. Mi convinse l’allora mio marito Ergas». Cosa le piace ricordare di quell’esperienza sul set? «La prima scena che girammo, quella dell’arrivo di Carla alla pensione. Marcello Mastroianni quando mi vide mi disse ‘Bentornata!’. É stato bellissimo. Penso che avere accettato quel ruolo sia stato come una cosa predestinata, perché io non volevo farlo e invece poi è stato straordinario ciò che ne è venuto dopo».

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Ma come si sentì lei di fronte alla richiesta di affrontare un personaggio come l’amante in maniera così audace per la morale dell’epoca? «Una delle scene più difficili da fare fu quella nella stanza della pensione dove Marcello mi dice ‘Fai la faccia da porca’. Mi imbarazzava, ero molto giovane e una cosa così non me l’ero mai sentita dire. Federico si arrabbiò molto, mi disse che se volevo fare l’attrice non dovevo avere pudori né sentimenti in scena. Fu terribile girare quella scena, mi sentii come mi avesse preso e rovesciato la pelle, però poi non ho mai più avuto pudori. Federico riuscì a strappare l’ultimo velo. Gli devo molto». Anche per Giulietta degli spiriti Fellini l’ha voluta come una sorta di dea del sesso, dell’amore. «Sì mi ha voluta per ruoli molto fisici. La ballerina con cui il nonno fugge, poi il personaggio di Susy: nella scena dell’altalena, che sprigiona tutta quella sensualità in senso fisico ma anche poetico, non ero a mio agio. Non è stato facile rappresentare la carnalità. Il ruolo della seduttrice in fondo lo giochiamo più che viverlo realmente. Io credo di essere sempre stata quello che in realtà non ero, perché in realtà sono stata una mamma pazzesca, ho lottato tanto per tenere i miei figli. Ma con Federico diventava tutto straordinario, però era un po’ come una favola». Cosa pensa del modo in cui Federico Fellini nel suo cinema ha rappresentato le donne? «Non credo abbia fatto del male alle donne. Le ha talmente esaltate. Se pensiamo a un personaggio come la Saraghina, 65

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di una poesia, di un erotismo anche un po’ infantile. Federico aveva un grande rispetto e pudore per il sesso». Per Fellini avrebbe dovuto essere anche la Gradisca, ma rinunciò a quel ruolo. Perché? «Feci anche il provino. Quel ruolo l’aveva scritto per me. Ma in quel periodo dovevo dimostrare al tribunale dei minori e a mio marito che ero in grado di occuparmi dei miei figli, così rinunciai. Federico mi scrisse una lettera bellissima e mi inviò delle rose». Tra i numerosi film in cui lei ha recitato La visita di Pietrangeli le sta particolarmente a cuore. Perché? «Lo considero il mio lavoro migliore. Il personaggio della donna è di una tenerezza straordinaria. Tratta aspetti del femminile importantissimi, il bisogno dell’amore, la capacità della donna di donare, di donarsi».

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Toby Dammit: Zapponi e Poe per un Fellini horror

Un uomo tenta più volte di pronunciare la frase «Ho la lebbra, amore». È rivolta alla sua donna, «bellissima e indifferente, non ascolta mai, perennemente presa da qualcos’altro, e le parole restano a vagare, sospese, finché nella notte - egli non percepisce, sulla schiena di lei, le macchioline che annunciano il male». Ad illuminarci un po’ è Fabio Camilletti, docente di Italian Studies alla University of Warwick (UK) e autore di un poco conosciuto ma curioso libro: Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto. È grazie ad una sua recensione (su mattatoio5.com, sito «polveroso che si occupa solo di libri persi, dimenticati, da ricordare») che riusciamo a sapere qualcosa di Gobal, “annusarne” lo stile, il contenuto: è il primo libro di racconti di Bernardino Zapponi, pubblicato in prima e unica edizione nel 1967 (da Longanesi) con prefazione di Goffredo Parise. Una raccolta di racconti oggi introvabile (se non nei circuiti dei libri antichi e usati), ma che nel 1967 fece da magnete per l’incontro tra Federico Fellini e colui che diverrà suo inseparabile sceneggiatore dalla fine dei Sessanta e per tutti gli anni Settanta, a partire dalla 67

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realizzazione del mediometraggio Toby Dammit, poi in Block-notes di un regista, quindi in Satyricon, I clowns, Roma, Il Casanova e La città delle donne (unica parentesi il film Amarcord, sceneggiato da Tonino Guerra). Bernardino Zapponi, romano, era di sette anni più giovane di Fellini. Quest’anno ricorrono i vent’anni dalla sua scomparsa, avvenuta l’11 febbraio del 2000, all’età di 73 anni, a seguito di un ictus. Era stato «uno dei massimi sceneggiatori italiani» si legge in un articolo del Corriere della sera dell’epoca che lo ricordava come «autore di molti film di Fellini», ma anche di Dino Risi, che in quell’occasione lo definì «compagno di avventure meravigliose nel viaggio che abbiamo fatto insieme nella commedia italiana». Per lui aveva scritto una serie di film a partire dagli anni Settanta (da La moglie del prete a Giovani e belli). Per Mario Monicelli Zapponi scrisse invece la sceneggiatura de Il Marchese del Grillo, per Sordi Polvere di stelle, ma era passato anche attraverso l’erotismo di Tinto Brass (Paprika), mentre la sua vena thriller poté esercitarla in pieno con Profondo rosso di Dario Argento. «Sono Federico Fellini: ho letto il suo libro e ne sono rimasto incantato». È un copione che si ripeterà varie volte anche negli anni a venire: le telefonate mattutine di Fellini che sanciscono l’inizio di una amicizia, un rapporto professionale, una relazione. Quella a Bernardino Zapponi arriva nel 1967, «una mattina di luglio (alle otto e mezzo!)» rievoca lo sceneggiatore nel suo Il mio Fellini (Gli specchi Marsilio, 1995). Parlarono dei suoi racconti - «li commentò 68

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con cognizione e acutezza» - e nell’incontro tra i due che seguì alla telefonata Fellini riferì di essere interessato in particolare a tre o quattro, ne voleva acquistare i diritti per farne episodi di un film. Il regista riminese aveva ricevuto proprio in quel periodo da un produttore francese la proposta di girare uno degli episodi del film collettivo Histoires extraordinaires (Tre passi nel delirio), tratti da racconti di Edgar Allan Poe e non aveva ancora scelto a quale ispirarsi. Avrebbe a suo dire voluto anche utilizzare uno dei racconti di Zapponi, ma dal dire al fare… Fu infatti stoppato dalla produzione. Da quel momento, però, l’autore di Gobal entrerà a far parte della scuderia Fellini. Insieme individuarono il racconto di Poe intorno al quale lavorare per l’episodio di Tre passi nel delirio: Non scommettere la testa con il diavolo, che diventerà Toby Dammit. Tra gite in Mercedes, «lunghi vagabondaggi» per mettere a fuoco le idee, e un episodio reale - il crollo di un ponte dell’Ariccia, località della zona dei Castelli Romani - la storia prese forma. E Fellini realizzerà «il suo primo film “letterario” con finale tragico». Fellini e Zapponi reinventano completamente Poe, scrivendo la storia di un attore inglese che arriva a Roma per recitare nel «primo western cattolico». Ricevuto con grandi onori, il suo interesse è concentrato su una rossa Ferrari promessagli in dono. Drogato, fuori di sé, in preda 69

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ad allucinazioni, inseguirà il “fantasma” di un diavolobambina che gioca con una palla bianca, e andrà a morire mozzandosi la testa - sorvolando con la nuova auto un ponte crollato. «A Federico - scrive Zapponi - piaceva l’aspetto di questo diavolo pulito e surreale. Subito Goffredo Parise, informato da chissà chi, si offrì d’interpretarne la parte». Il diavolo doveva essere però «attraente e innocente». E sarà una bambina. Una idea in realtà non nuova. Già utilizzata dal regista Mario Bava, maestro dell’horror italiano, in Operazione paura (1966), mentre un altro richiamo (ma con la bambina vittima) può essere M - Il mostro di Düsseldorf (1933) di Fritz Lang. Per la parte dell’attore inglese la scelta cadrà su Terence Stamp (ancora oggi, all’età di 82 anni, affascinante e attivo: è nella serie His Dark Materials - Queste Oscure Materie). Fellini dunque, dopo essere rimasto affascinato dai racconti dello scrittore Zapponi - le cui storie raccolte in Gobal sono per Camilletti «da accostare a tutta una costellazione di testi che, negli stessi anni, inoculano nell’Italia del dopoguerra un’ombra di spettrale malessere, da Ombre di Tommaso Landolfi (1954) ai Sessanta racconti di Dino Buzzati (1958), e fino alle Storie di spettri di Mario Soldati (1962) - con al fianco il nuovo sceneggiatore, si avvia ad una fase di «rinnovamento radicale» della propria cinematografia. Che da quel momento sarà caratterizzata da temi ricorrenti come «l’ossessione per la morte, i 70

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fantasmi, l’aldilà, le atmosfere lunari». Temi «cari alla scrittura di Zapponi» come sottolinea lo studioso Andrea Minuz nel suo libro Fellini, Roma (Rubettino, 2020), un approfondito studio intorno al film Roma in cui dedica un intero capitolo proprio allo sceneggiatore romano. La nuova fase entra nel vivo in seguito alla «crisi seguita al naufragio del Mastorna (viaggio nell’aldilà che rimarrà l’eterna incompiuta di Fellini, ndr)» e, volgendo lo sguardo ancora più indietro, dopo che con Giulietta degli spiriti erano già entrati «temi nuovi nel cinema di Fellini (lo spiritismo, l’esoterismo, il fascino per l’occulto, una costruzione sempre più debordante di visioni sganciate dalla logica del racconto)» nota ancora Minuz, che riconosce a Bernardino Zapponi anche «un ruolo fondamentale nell’orchestrazione di quelle atmosfere angoscianti che trasformano Roma da una inchiesta sulla città in un film apocalittico». Considerazioni che portano ancora una volta ad interrogarsi sul ruolo degli sceneggiatori nei film del regista riminese. Come sottolinea Minuz, «l’idea che i film di Fellini siano “di Fellini” è ovviamente fuori discussione. Ma allo stesso tempo, scorrendo la sua filmografia, ci si rende facilmente conto di come lo stile, le atmosfere, la struttura cambino in base agli scrittori che Fellini ingaggia».

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«Ninetto carissimo…» Nino Rota e quell’omaggio in jazz

«Ninetto carissimo. Ma quando ritorni? Scusa se ti scrivo a macchina e così in ritardo ma io ho una calligrafia illeggibile. Non ti ho risposto subito alla tua prima cartolina, ma ti penso spesso e qualche volta faccio anche delle chiacchieratine con te». Federico Fellini e Nino Rota: storia di una lunghissima amicizia e storia di una straordinaria collaborazione artistica. Il cui spirito e profondità sono già ben condensati in queste poche righe che risalgono alle primissime fasi di un sodalizio durato quasi tre decadi, fino alla morte improvvisa e prematura del compositore e musicista avvenuta il 10 aprile 1979. Rota firmò le musiche di tutti i film di Fellini a partire dalla sua prima prova di regia, Lo sceicco bianco (1951), fino a Prova d’orchestra (1978). La lettera di Fellini a Rota, custodita all’Archivio Rota presso la Fondazione Cini di Venezia, era stata «battuta a macchina con firma autografa piuttosto criptica ed è, ad oggi, l’unico documento relativo al carteggio Fellini-Rota» presente nell’Archivio Rota, spiega il musicologo Francesco Lombardi, che dell’archivio è stato direttore per 72

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tanti anni. Fa parte di un «lotto piuttosto cospicuo di lettere e documenti personali del Maestro» giunte all’archivio attraverso un collezionista. É con tutta probabilità l’unica lettera in assoluto del carteggio FelliniRota arrivata fino a noi. Il suo contenuto offre la possibilità di ipotizzare che sia stata scritta tra il 1951 e il 1952. Fellini fa infatti riferimento ad un «mio film» e all’attesa di potere iniziare a girarlo: «Spero, spero tantissimo che oggi si decida tutto - scrive - Ho cercato di mantenermi sereno, in questo tu caro Nino mi sei stato di grande aiuto, ma a volte mi prende una pena fitta fitta, un’impazienza dolorosa, sto male, non capisco perché si debba attendere... Poi mi faccio forza, so di essere ben protetto, sento attorno a me delle presenze piene d’amore e ritorno tranquillo: però io debbo farlo quel film, assolutamente. Se no che faccio?». É possibile che la lettera sia stata scritta nel periodo che precedette l’inizio delle riprese de Lo sceicco bianco, il primo film di Fellini - l’esperienza fu vissuta in effetti con una notevole carica d’ansia -, oppure del successivo I vitelloni. Quel che è certo, testimonia di una vicinanza tra il regista e il compositore, sia sul piano dell’amicizia che professionale. La lettera si conclude con un riferimento, tenero e confidenziale, anche a Giulietta: «Anche la patatina ti saluta tanto e quando parla di te ha sulle labbra un sorriso misterioso da buona fatina. Ciao Nino caro, a presto». Nato a Milano nel 1911, erede di una famiglia di musicisti, in contatto con maestri del calibro di Toscanini e Ravel, 73

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Nino Rota entra in Conservatorio nel 1923 e si ritroverà, nel decennio successivo, a scrivere musica per il cinema: il primo film musicato fu Treno popolare (1933) di Raffaello Matarazzo. Ma non sarà un avvio felice, tanto che Rota sfrutterà l’occasione offertagli da un concorso per andare ad insegnare a Taranto poi a Bari (dove diverrà, e resterà fino alla morte, direttore del Conservatorio Piccinini: tra i suoi studenti, ad un certo punto, anche un certo Riccardo Muti). Autore prolifico di musica colta, oltre a sinfonie, concerti, scrisse anche undici opere liriche. «Resta ancora oggi un autore significativo - sottolinea Francesco Lombardi - ed è parecchio eseguito in tutto il mondo». «Certi suoi temi come quelli di Amarcord - continua l’esperto musicale - li si sente fischiare ovunque, da New York a Tokyo, sono brani che fanno parte della memoria collettiva, un po’ come certe arie di Verdi». E poi, oltre alle colonne sonore dei film di Fellini, ci sono quelle scritte da Rota per altri grandi maestri del cinema, tra cui Visconti (Il Gattopardo), Zeffirelli (La bisbetica domata, Romeo e Giulietta) per arrivare alla colonna sonora de Il Padrino I (1972) e II (1974) di Francis Ford Coppola: per le musiche della seconda parte della saga sui corleonesi in America Nino Rota fu premiato con l’Oscar, prima volta per un musicista italiano. Mentre gli procurò non pochi fastidi la causa intentata dal produttore italiano Dino De Laurentiis per il riutilizzo (pratica non rara) ne Il Padrino I di una melodia che Rota aveva anni prima scritto per Fortunella, film diretto da Eduardo De Filippo, sceneggiato dal “trio” Fellini, 74

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Flaiano e Pinelli e interpretato dalla Masina. La struggente malinconia del tema dell’Angelo ne La strada, la dolcezza languida di quello di Amarcord, le marcette, i variegati “paesaggi” sonori di 8½ fino ad arrivare ai “colori” etnici della musica del Satyricon o a quella dai «risvolti diabolici» del Casanova, come lo stesso Rota etichettò alcuni brani utilizzati per la scena dell’uccello meccanico. Le possibilità di ascoltare le colonne sonore dei film di Fellini, sia su CD che vinile, ma anche online (su Spotify una playlist lanciata in occasione del Centenario), non mancano. Una vera chicca, purtroppo non più in commercio, è Amarcord: Nino Rota, disco tribute leggendario prodotto nel 1981 da Hal Willner, produttore discografico scomparso a causa del Covid 19 all’età di sessantaquattro anni. In tanti, nel sottolinearne la genialità, hanno ricordato anche la straordinarietà di quell’album per realizzare il quale Willner «setacciò la scena jazz e tirò dalla sua venerati maestri come Jaky Byard, Steve Lacy, Muhal Richard Abrams, Carla Bley» come ha ricordato il critico musicale Riccardo Bertoncelli sulla rivista Blow Up. Per realizzare l’album una sciccheria che è stata riproposta in podcast da Radio Popolare e dove le perle vanno dallo straordinario brano Roma eseguito dal sassofonista Steve Lacy allo strepitoso 8½ di Carla Bley - Willner volò a Roma per chiedere l’assenso di Fellini: «Quando suonai alla sua porta ero senza parole - disse - Era come incontrare Dickens». Per la 75

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copertina dell’album fu scelto un primo piano di una seducentissima Sandra Milo. Willner tornò nuovamente a Roma dopo l’uscita del 33 giri per portarne una gradita copia a Fellini, come racconta Francesco Lombardo in un articolo in ricordo del produttore scomparso pubblicato dalla testata online Hot Corn.

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Rota, Guerra e gli altri. I grandi sodali di Federico

«La musica a me turba, preferisco non sentirla, è una specie di invasione, possessione, qualche cosa che entra in me, una invasione che mi allarma, mi inquieta. La mia ignoranza in fatto di musica è totale». Così parlò Federico (qui nella trasmissione Voi ed io di Radio Uno, 1979). Ma se da un lato confessava il suo distacco e ignoranza, dall’altro, nella collaborazione con il compositore Nino Rota, scopriamo una relazione con la musica che va in profondità, che punta all’esplorazione anche di territori sperimentali. Se ne ha avuto conferma attraversando la mostra Fellini 100. Genio immortale allestita a Rimini, a Castel Sismondo, a cura di Marco Bertozzi ed Anna Villari. Una serie di taccuini provenienti dal Fondo Nino Rota testimoniano dell’intenso lavoro che si cela dietro a invenzioni musicali destinate a divenire un unicum, una componente inscindibile dei film di Fellini. Dalle celebri marcette alle sofisticate elaborazioni sonore di film come Casanova. Il sodalizio artistico con Rota iniziò con il primo film di Fellini Lo sceicco bianco, e fu interrotto dalla morte 77

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improvvisa del compositore, nel 1979, dopo che aveva composto le musiche per Prova d’Orchestra. Nei taccuini Rota appuntava le indicazioni del Maestro sulla musica che avrebbe dovuto accompagnare ed esaltare le sue scelte registiche. «Appare evidente - racconta la curatrice Anna Villari - il fatto che Rota attingesse ad un mondo di riferimenti musicali assai ampio e che lo sottoponesse a Fellini che quindi, nonostante dicesse di non amare la musica, i collaboratori se li sceglieva con cura». Tra i materiali in esposizione provenienti dal Fondo Rota, oltre a vecchi 45 giri anche alcuni spartiti. Come quello intitolato Mia malinconia: musica destinata ad Amarcord che nello spartito reca anche le parole (evidentemente non utilizzate) di Lina Wertmüller. Il rapporto creativo con i collaboratori - sceneggiatori, costumisti, scenografi, direttori della fotografia - è uno dei percorsi irrinunciabili per raccontare Fellini. Lo hanno perciò scelto non a caso i curatori della mostra Fellini 100. Genio immortale come una delle “stazioni” del tracciato espositivo. «L’intento - spiega Anna Villari - è quello di fare emergere queste grandi professionalità che furono accanto a Fellini, grandi maestri del Novecento ognuno nel proprio campo». La mostra anticipa quello che sarà il futuro Museo Internazionale Federico Fellini. Nello stile di Studio Azzurro, che firma il progetto, la scelta è stata quella di costruire un percorso evocativo attraverso soprattutto l’utilizzo di filmati, voci, luci, installazioni multimediali, 78

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grazie anche ai repertori di Istituto Luce e Teche Rai. Non mancano i materiali, gli oggetti originali, che raccontano le diverse fasi della vita e dell’opera del Maestro, tracciando anche in parallelo, attraverso l’immaginario filmico felliniano, la storia d’Italia dagli anni Venti/Trenta al finire degli anni Ottanta. Nella sezione degli scrittori e poeti, uno spazio della mostra è immancabilmente dedicato a Tonino Guerra, nato il 16 marzo 1920 neppure due mesi dopo Fellini (20 gennaio), e a pochi chilometri di distanza: l’uno a Rimini l’altro a Santarcangelo di Romagna. Iniziarono però a lavorare insieme solo a partire da Amarcord, nel 1972, e continuarono con E la nave va e Ginger e Fred. Ma Guerra in realtà collaborò anche ai film Il Casanova (sua la poesia La Mona, tradotta dal poeta Andrea Zanzotto) e a Prova d’orchestra, pur non essendo, anche per sua scelta, accreditato. Alla collaborazione per Amarcord rinvia una delle due lettere custodite dall’Archivio dell’Associazione Tonino Guerra che il figlio Andrea ha voluto mettere a disposizione. La seconda lettera contiene invece alcune idee che il poeta santarcangiolese aveva messo insieme per il film Prova d’orchestra, in particolare per il finale, con tanto di disegno della palla di acciaio che piomberà all’improvviso nella sala prove degli orchestrali. E ancora, Fellini 100. Genio immortale, significa anche ritrovare gli abiti che il costumista e scenografo Danilo 79

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Donati aveva creato per il film Roma: quelli fantasiosi e celebri della sfilata di moda ecclesiastica. Riappare tra gli altri l’abito “flipper” di cui è stata rimessa in funzione l’apparecchiatura elettrica. Tra i prestiti esterni, il materiale messo a disposizione dalla Fondazione Fellini di Sion, segnale di una collaborazione anche per il futuro Museo: oltre al ciak originale dal set del Casanova, anche una lettera di Fellini all’attore francese Alain Cluny (l’intellettuale suicida de La dolce vita) in cui si parla del personaggio del Casanova, che come noto Fellini non amava ma che portò sul grande schermo in uno dei suoi massimi capolavori.

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La «Piccola équipe Geleng» al servizio di Fellini

Erano una sorta di «piccola équipe», la «piccola équipe Geleng» - pittori, ritrattisti, scenografi - al servizio di Federico Fellini, come ebbe modo di definirla Giuliano, il più giovane dei due figli di Rinaldo Geleng. Il padre Rinaldo, pittore e ritrattista, aveva conosciuto il futuro regista a Roma nel 1939: ne nacque una amicizia che durò fino alla morte di Federico Fellini, avvenuta nel 1993. «Lo conobbi mentre andavamo tutti e due al Marc’Aurelio per tentare di piazzare qualche articoletto, qualche disegnino, qualche caricatura» raccontò Federico Fellini in una intervista a Costanzo Costantini. Si incontrarono davanti alla vetrina di una rosticceria: entrambi squattrinati, guardavano un vassoio di supplì. Rinaldo, coetaneo di Fellini, discendeva dal pittore prussiano Ottone Gèleng (1843-1939), che inventò Taormina come località turistica. Negli anni a cavallo del secondo conflitto bellico mondiale la comune passione per la pittura servì ai due amici per guadagnarsi qualche soldo eseguendo insieme ritratti e caricature (come il giovane Fellini aveva già fatto nella sua Rimini) ai clienti dei ristoranti romani. «L’ossessione dei 81

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visi ha in qualche modo contrassegnato la carriera di entrambi - ricordava ancora Fellini - Lui ha seguitato a trasferirla sulle tele del suo cavalletto ed io su quella dello schermo». Dopo una parentesi parigina, negli anni Cinquanta Rinaldo Geleng (scomparso nel 2003) inizia a collaborare con l’amico regista e con lui sono anche i due figli Giuliano e Antonello (nato nel 1946). Ma fu soprattutto Giuliano a mantenere la collaborazione più assidua, a partire dal film Roma (1972). Suoi, in particolare, gli affreschi romani realizzati per il film, i manifesti di Amarcord, quelli de Il Casanova ma anche «la parata felliniana» per un disco di Nino Rota e i manifesti di Ginger e Fred. Autore di bozzetti per le scene, ma anche appunto di manifesti, il più celebre è certamente quello che Federico Fellini gli commissionò per Amarcord. «Allora, - scriveva il regista - il manifesto dovrebbe a colpo d’occhio sprigionare la lietezza squillante di una cartolina natalizia o meglio, pasquale; il colore dovrebbe essere netto, lucido, sonoro, insisto sulla sonorità; dal manifesto dovrebbe uscir fuori una specie di scampanio, di voci, di grida e aria e luce e vento. Non spaventarti. Preciso meglio la composizione: tutti i personaggi del film dovrebbero come affacciarsi dal manifesto, a fissare gli spettatori, quelli che passano per la strada…». Era il modo di lavorare di Federico Fellini, un grande orchestrale, con una schiera di collaboratori che con il loro apporto anche “artigianale” contribuivano a rendere unico ogni ciak. 82

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«Fellini aveva visto in me la possibilità di farsi tradurre in pittura delle cose che non avrebbe avuto il tempo lui di realizzare», spiegò alcuni anni fa Giuliano Geleng in una intervista. Ciò che chiedeva il regista, non era mai qualcosa di realistico. Per i quadri di E la nave va, ad esempio, aveva chiesto a Giuliano Geleng di realizzare una serie di quadri, ed in particolare uno ispirato alla pittura di Canaletto (dovevano servire per arredare la sala da pranzo della nave) ma poi, di fronte alla riproduzione così simile agli originali, aveva chiesto al collaboratore di trasformarlo in un «quadro metafisico». «Abbiamo inventato insieme questa specie di naïf surreale», amava ripetere Geleng, la cui pittura, anche dopo la morte del grande regista, continuò ad essere impregnata di echi “felliniani”: «Fellini mi è rimasto dentro» continuava a ripetere. Il lavoro per il Casanova fu quello più impegnativo: «Lì Fellini ebbe bisogno di maggiore supporto pittorico, era tutta una invenzione». La «piccola équipe Geleng» fu al lavoro al completo per la realizzazione di affreschi e ritratti per il film Roma, ma mentre il padre Rinaldo e Giuliano continuarono a «sfornare» bozzetti, disegni, manifesti per i film successivi, Antonello Geleng, che fu aiuto scenografo in Amarcord, intraprese in seguito in autonomia la carriera di scenografo per tornare a collaborare con il Maestro nell’ultima fase della sua vita: fu infatti scenografo per gli spot della Banca di Roma e lavorò per Fellini anche per alcuni dei progetti 83

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mai realizzati: L’attore e L’Inferno. Gran parte dei bozzetti, manifesti, disegni appartenuti ai Geleng, sono stati ceduti da tempo da Giuliano e Antonello, che avevano ereditato una parte di patrimonio dal padre Rinaldo, alla Fondazione Fellini e sono dunque oggi parte dei beni felliniani in mano al Comune di Rimini. Dei lavori di Giuliano, in particolare, il Comune di Rimini conserva un paio di tavole per il film Ginger e Fred, due bozzetti su tela che raffigurano le Colonne romane per il film Roma, uno sulla Metropolitana di Roma per l’omonimo film, un bozzetto su tela del Palcoscenico di Cannes, il bozzetto per il manifesto di Amarcord, uno su Venezia per il Casanova e il disegno della Parata felliniana utilizzato per la copertina di un disco con le musiche di Nino Rota.

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Adriana Asti: «Il mio accento per quella ruspante Gradisca»

Oggi si divide tra Roma, Parigi e la casa di campagna. Adriana Asti, 87 primavere alle spalle, attrice di teatro (esordì con Strehler, Visconti...), di cinema (Pasolini, Bolognini, Brass), ma anche doppiatrice: è sua la voce della Gradisca in Amarcord. «Signor Principe… Gradisca». Da gustare, anche ad occhi chiusi... Dietro le morbide forme di Magali Noël, dietro il dondolio dei fiancheggiamenti su e giù per il corso, su per le scale del Grand Hotel, gli occhioni languidi, lo sfarfallìo di ciglia: ci voleva una grande interprete, una voce professionista, un accento giusto, solo una venatura, una parvenza, una eco di romagnolità per il tocco finale all’ennesimo personaggio femminile, al modello di sexy woman pescato questa volta da Fellini, dopo la «dea» Ekberg, direttamente dai ricordi di gioventù. Eh sì, ci voleva una Adriana Asti. «Il mio accento nordico andava bene per quella Gradisca un po’ ruspante - ricorda oggi l’attrice milanese - Con Fellini ci conoscevamo da tempo, mi chiese lui di doppiare la straordinaria Magalì». «Mi divertì molto lavorare con Federico, era una persona così intelligente, spiritosa, è stato 85

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un privilegio conoscerlo. Eravamo amici da tempo, anche perché eravamo quasi vicini di casa. Lui e Giulietta abitavano in via Margutta e io e mio marito (il regista teatrale Giorgio Ferrara, ndr) in via delle Carrozze: andavamo anche a cena da loro». Una conoscenza di vecchia data, dai tempi almeno de La dolce vita. Lei fu protagonista per Pasolini in Accattone, il film che Fellini non volle produrre… «Eh sì, fui testimone diretta di quegli accadimenti che portarono ad incrinare il rapporto tra Federico e Pier Paolo. Era il primo film di Pasolini, si era preparato per i provini, era così contento. Ma poi Fellini (che dopo La dolce vita aveva messo in piedi con Rizzoli la casa di produzione Federiz, ndr) non volle produrre il film». … Pasolini trovò comunque un produttore e il suo film d’esordio fu un successo. «Già. Quella volta Fellini si era proprio sbagliato». Non ebbe mai occasione di lavorare con lui come attrice? «In realtà ci fu una volta in cui mi aveva proposto una parte. Non ricordo quale. Erano mi pare gli anni Settanta. Voleva facessi una parte in cui dovevo essere molto grassa, mi aveva chiesto dei cambiamenti assurdi e non accettai. Siamo però sempre rimasti amici. Avevamo poi una passione in comune…». 86

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E sarebbe? «Quella per i maghi, i sensitivi. A Roma andavamo dalla stessa maga. Anche io poi conoscevo Rol, il sensitivo torinese con cui Fellini aveva fatto amicizia. Aveva dei poteri eccezionali, ma faceva anche molti scherzi. Poi abbiamo avuto in comune anche il rapporto con la psicoanalisi. Io andavo da Cesare Musatti all’epoca». E del Fellini cineasta, cosa dice? «Amai moltissimo La dolce vita. Ma anche il suo primo film Lo sceicco bianco, lo trovo bellissimo. E poi Roma, e naturalmente Amarcord». Naturalmente Amarcord. Se l’interprete della Gradisca nel film Premio Oscar fu l’attrice francese che era già stata, per Fellini, la Fanny de La dolce vita e Fortunata in Satyricon, e se la voce era invece di Adriana Asti, il personaggio felliniano ha come ben si sa anche una «radice» reale: la riminese Gradisca Morri. «Davanti al Caffé Commercio passava anche la Gradisca. Vestita di un raso nero che mandava fulgori acciarini, portava i primi ciglioni finti. Nel Caffè, tutti spiaccicavano i nasi sul vetro. Anche in pieno inverno la Gradisca appariva con tenute da sketch: i ricciolini, le prime permanenti». Il primo “impasto” di ricordi Fellini lo riversa nella parola scritta, in quel “memoriale” che fu La mia Rimini, da cui germinò per poi riemergere, elaborato, nel cinema, in Amarcord. «Il passaggio della Gradisca creava enormi 87

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struggimenti: appetito, fame, voglia di latte. I fianconi parevano ruote di locomotive quando si muovono: suggerivano quel potente movimento». La penna scorre e le immagini si “colorano”: «La sua coscia opulenta, fino alla giarrettiera, sembrava una mortadella chiusa dallo spago». È il ricordo - ma quanto c’è poi di “reale”? - che al cinema si trasforma nell’episodio dell’incontro di Titta con la Gradisca, “oggetto del desiderio” all’interno del Cinema Fulgor. Dal mondo della realtà a quello dell’immaginazione, e viceversa, il passo può essere breve. Ma crudele. «La mia vita è un inferno» tuonò con i giornali dell’epoca, dopo l’uscita di Amarcord, la vera Gradisca, che si sentì diffamata dal personaggio creato da Fellini per il grande schermo e si affidò ad un avvocato per sporgere querela. L’avvocato Augusto Cornacchia fece sapere a mezzo stampa: «Abbiamo in mano elementi che provano come Fellini abbia pensato proprio a lei per il personaggio di Gradisca». Si trattava a quanto pare di una lettera in cui il regista ringraziava per le fotografie ricevute. La querelle impazza, tutto nero su bianco sulla stampa nazionale. «Però, carino, devi spiegarmi se tu hai cercato mai di mettermi una mano sulla coscia, nel buio del cinema Fulgor» chiederà stizzita la vera Gradisca al vero Titta Benzi. «Non è vero niente» insiste la signora, all’epoca 59enne, neppure «che io scuotessi il sedere come fa la Noël». E poi lei faceva la sarta, mica la parrucchiera. 88

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Figuriamoci poi l’episodio della serata con il Principe. Pura fantasia, quella storia del nome: «Mia madre mi aspettava nel 1915 e mio padre era al fronte e le aveva scritto: se nasce maschio chiamalo Isonzo...». Nacque femmina: e fu per sempre Gradisca.

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Piero Tosi conteso tra Visconti e Fellini *

La sensualità magnetica di Alida Valli in Senso. La raffinatezza di Claudia Cardinale stretta nel vitino taglia 51 al cospetto di Burt Lancaster alias Principe di Salina ne Il Gattopardo, ma ancor prima sempre la Cardinale povera ma bella nella breve apparizione in Rocco e i suoi fratelli. Il costume e la grazia conturbante da marinaretto del Tadzio di Morte a Venezia, il volto velato di Silvana Mangano. E Charlotte Rampling nel Portiere di notte, Maria Callas in Medea… E si potrebbe continuare. Grandi dive, divi, grandi film. E un nome che li unisce: Piero Tosi. Il costumista del cinema. Artigiano e artista, inventore, creatore d’abiti, di personaggi. Il più celebre sodalizio fu con Luchino Visconti. Da Bellissima (1951) in avanti. Ci fu però in mezzo anche una parentesi con l’«arci-nemico-avversario» di Visconti: con Federico Fellini. Una “rivalità”, quella tra Visconti e Fellini, che nasce all’epoca in cui il regista riminese conquistava il Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia con La strada (1954), subito contrapposto al magniloquente Senso e di lì in avanti fu tutto un dividersi tra viscontiani e felliniani. Ma torniamo a Piero Tosi. A Roma il Centro Sperimentale 90

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di Cinematografia, dove Tosi ha insegnato dal 1988 al 2016, gli dedica una mostra allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Che è subito un successo. Si intitola Piero Tosi. Esercizi sulla bellezza. Gli anni del CSC 1988-2016, ed è curata dal Centro Sperimentale di Cinematografia. Due foto in esposizione testimoniano della collaborazione tra Fellini e Tosi. Raffigurano alcuni dei volti del Satyricon (1969). Facce dei romani, quel «mondo romano» che Fellini voleva «come se fosse evocato da una stregonesca operazione ectoplasmatica». Ecco: al “mago” Fellini ci voleva il mago dei costumi per una operazione del genere. Piero Tosi: «Verso le 8 andavo a rapporto, mi dava una cartella di fotografie di volti dove dietro mi scriveva degli aggettivi improbabili: ad esempio come una macchia d’olio, rugiadosa, e io in una tavolozza importavo metà viso affidandomi al caso, alla disperazione e poi tornando indietro facevo le acconciature della testa» ha raccontato il grande costumista in un’intervista a Paolo Virzì. Fu un lavoro di creazione pura, come racconta in uno scritto che ripercorre i suoi otto mesi con Fellini: «Stavamo ore e ore a inventare volti per la suburra: sempre con la matita in mano, anche quando ci si sedeva a tavola per mangiare». Tosi creava con la matita e l’occorrente dell’artista, del pittore, dello scultore, per arrivare a risultati come «la faccia craquelé, fatta con chiara d’uovo, gesso a legno e seccata con il phon», o «la faccia a magnolia» e quella «a occhi bulbari». 91

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La collaborazione tra Tosi e Fellini però non durò molto: fecero insieme due film, Toby Dammit e Satyricon, più uno in via ufficiosa, E la nave va (1983). Era difatti iniziata prima del Satyricon: con quel piccolo grande lavoro, nuovo spartiacque nella filmografia felliniana, che è stato Toby Dammit (1968), mediometraggio ispirato ad un racconto di Edgar Allan Poe, per il quale Tosi cura, caso eccezionale, anche la scenografia. Tra i frutti del suo lavoro, la scena finale del baratro, dove il protagonista interpretato da Terence Tramp precipita con la Ferrari. Tosi non è l’unico collaboratore attinto in questa fase dal “campo viscontiano”. C’è anche il direttore della fotografia Giuseppe Rotunno, come ricorda il critico Alberto Crespi in un saggio riepilogativo dei rapporti tra Tosi e Fellini (Il prigioniero di Fellini), nel numero monografico della rivista Bianco e Nero pubblicato in occasione della mostra al PalaExpo. Furono questioni di carattere, di personalità evidentemente confliggenti, a impedire una collaborazione più intensa tra il regista de La dolce vita e il “re” dei costumisti italiani. La fotografia esatta della natura del loro rapporto ce la consegna Gianfranco Angelucci nel suo Segreti e bugie di Federico Fellini: «A Fellini (Tosi, ndr) si concesse con capricciosa parsimonia, disorientato dalla sua possessività. “Questa volta potrò avere da te magari soltanto una piccola scarpina?” lo circuiva ad ogni nuovo film il grande 92

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seduttore». Ma l’altro, dopo i primi abboccamenti e qualche caduta in tentazione, persisterà nella parte dell’inseguitofuggitivo. Se per Toby Dammit «alla fine Tosi si lascia sedurre (…) e Fellini ottiene da lui ben più di una scarpina» (Crespi), per il Satyricon, grande affresco frammentario della romanità (una Dolce vita questa volta collocata nel passato), furono otto mesi di lavoro incastonati tra una ripresa e l’altra del proprio contributo a La Caduta degli Dei di Visconti ma anche alla Medea di Pasolini. Poi ci fu il grande rifiuto a lavorare per il Casanova (1979). Con un episodio paradigmatico delle difficoltà di Tosi a legare con una personalità altrettanto meticolosa e complessa quanto quella di Fellini. Per il film sul libertino veneziano Tosi avrebbe «voluto a disposizione uno studio dove lui sarebbe potuto venire solo a distanza di tempo» racconta il costumista in una recente intervista citata da Crespi. «Mi diedero un villone non lontano dalla Stazione Termini - ricorda - Tre porte, due grandi finestre, lo spazio giusto. Una delle porte era sempre chiusa. Domandai invano per quale motivo, ma ricevetti risposte elusive. Dopo un paio di settimane capii. La porta si aprì ed uscì Federico. Si poggiò sulla mia schiena: “Allora? A che punto siamo?”. Alzai gli occhi e vidi che fuori dalla finestra, i germogli di lillà erano in fiore. Era primavera: “Fuori c’è la vita e io dovrei passare due anni così?”. Scappai». Si lascia in realtà di nuovo circuire per E la nave va. Ma anche qui, «come per il Satyricon, si fa coinvolgere per 93

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l’elaborazione del make up, per la ‘costruzione’ (in Fellini comunque fondamentale) delle facce» (ancora Crespi). Di fatto si defila nuovamente, lasciando firmare la scenografia a Dante Ferretti e i costumi, su suo diretto consiglio, a Maurizio Millenotti.

* Articolo uscito domenica 13 gennaio 2019 sul Corriere Romagna

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Per quei Vitelloni ci voleva un… Galli *

A Viareggio pronunciare il nome di Arnaldo Galli è come pronunciare il nome di un re. Ci sono passata casualmente un paio di settimane fa e l’ho potuto toccare con mano. Ora che se ne è andato, all’età di 93 anni, è un po’ come se si fosse spento il sole. Perché è morto l’uomo del Carnevale. Quell’uomo che ad un certo punto della propria vita conobbe un altro «uomo del Carnevale», Federico Fellini, e ne divenne collaboratore e amico. Arnaldo Galli se ne è andato sabato 17 agosto e lunedì pomeriggio è stato salutato per l’ultima volta dalla sua Viareggio. Lui era il decano dei carristi, con il suo record di venti vittorie al Carnevale. Le sue costruzioni sono un mix di artigianalità, arguzia, genio. Come la più celebre, «Guerra e pace», ribattezzata «la bomba», un congegno sofisticato che si trasforma in una esplosione di vita. O i ventiquattro palloni di cartapesta realizzati per l’apertura dei Mondiali di calcio del ’90 allo stadio Meazza. A chi gli chiedeva da quanto tempo realizzasse carri mascherati, «praticamente da sempre» rispondeva. Ed in effetti gli inizi furono precoci. E così la rivelazione del suo talento. Che lo portò all’incontro con Federico Fellini. Un sodalizio che iniziò 95

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nel 1952, all’epoca della preparazione de I vitelloni. «Fellini venne da me - ha ricordato in anni recenti lo stesso Galli in un articolo apparso sulla testata 24 ore Viareggio - e mi disse che voleva una testa di cartapesta raffigurante un personaggio buffo, praticamente stupido. Lo accontentai. Poi è ritornato a chiedere altri elementi per film successivi». La testa, anzi il testone, è quella con cui Alberto Sordi balla, ubriaco, nella scena del Veglione (girata al Teatro Goldoni di Firenze) per la quale Galli realizzò anche gli addobbi. A quel faccione realizzato in cartapesta e tenuto insieme da colla di farina Sordi si rivolge lasciando la festa: «Vieni, testone mio...». Fellini «era un giovanottone trentaduenne quando arrivò a Viareggio agli inizi dell’autunno avanzato del 1952» si legge nella biografia su Arnaldo Galli del viareggino Alessandro Volpe. Fu colpito da alcune «teste di mascheroni» realizzate dal giovane carrista, «erano le facce spaventate e stralunate» di «sciatori che cercavano di non essere investiti da una donnona». A Fellini «l’espressione di quei mascheroni sembrò adattissima» per il film che si apprestava a girare. Fu quindi la volta dell’Anitona, ne Le tentazioni del dottor Antonio (1962), pellicola realizzata da Fellini per il film collettivo Boccaccio 70. L’incubo del moralista ossessionato dal sesso Antonio (Peppino De Filippo) si materializza di fronte alla gigantografia di Anita Ekberg, che “esce” dal manifesto pubblicitario invitante a bere più latte. A Fellini 96

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serviva far apparire sul grande schermo la gigantessa Anita nelle cui enormi tette Antonio si troverà imprigionato. Fu realizzata «una mastodontica Anita Ekberg con un seno in lattice di gomma». Per ottenere un effetto di verosimiglianza, Arnaldo mescolò lattice di gomma e sughero sbriciolato. «Bella, bellissima» fu la risposta di Fellini, che aggiunse: «Solo i viareggini riescono ad accontentarmi». Ed infine ci fu la polena, il volto incoronato di donna che emerge dalle acque limacciose della Laguna di Venezia, tra fuochi d’artificio e suoni di tromba, durante un altro Carnevale, nell’incipit de Il Casanova (1976): un “segno” felliniano oggi all’ingresso di Cinecittà a Roma. Fellini arrivò a Viareggio in occasione del Carnevale del 1976 insieme allo scenografo del film Danilo Donati. Aveva con sé «un’urna di vetro con la testa di un’antica polena staccata dalla prua di una nave. (…) Chiese ai carristi di realizzarla in dimensioni enormi, con un diametro di circa sette metri, scomponibile in più pezzi e trasportabile». Il lavoro fu eseguito secondo le indicazioni di Arnaldo Galli, un maestro che «ha portato l’arte del sapere fare il Carnevale in giro per il mondo» come ha ricordato in occasione della sua scomparsa la Cittadella del Carnevale di Viareggio, ricordandone i 50 anni di carriera e le opere allegoriche straordinarie. * Articolo uscito mercoledì 21 agosto 2019 sul Corriere Romagna

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Andrea Pazienza e la «donna con l’orecchino»

Quest’anno, tra pochi giorni, Andrea Pazienza avrebbe compiuto 64 anni. Ne aveva invece appena 24 quando, quarant’anni fa, fu chiamato a disegnare il manifesto promozionale per il lancio mondiale del film La città delle donne di Federico Fellini (uscito in Italia il 28 marzo 1980, il 19 maggio fu presentato fuori concorso a Cannes). Andrea Pazienza, nato il 23 maggio del 1956, scomparso il 16 giugno del 1988 a Montepulciano (SI), dove si era trasferito da qualche anno e dove viveva con la moglie Marina Comandini, è stato e resta un genio dell’arte del fumetto. Non poteva non incrociare la strada di un Federico Fellini che in più occasioni della propria vita aveva dimostrato grande curiosità e attenzione nei confronti delle giovani generazioni, in ambito cinematografico, delle arti visive, in quello letterario. Il primo incontro, di tipo professionale, tra Federico Fellini e il giovane disegnatore e fumettista non produsse in realtà grandi “scintille”. Il manifesto realizzato per La città delle donne non aveva soddisfatto nessuno dei due. «Sono d’accordo con Fellini quando dice che sembra il 98

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manifesto di una parrucchiera» disse Pazienza in una intervista. Sarà pur apparso poco convincente all’epoca rispetto alle necessità della committenza, ma quel disegno, a guardarlo oggi, rivela comunque una potenza che testimonia della forza creativa dell’artista, ideatore di personaggi - da Pentothal a Zanardi a Pompeo - e storie che continuano ad affascinare. Per il manifesto de La città delle donne di Fellini c’erano state diverse prove, ma nessuna convincente. Fino a quando Paz se ne uscì con il disegno di una donna dalla folta chioma. La “genesi” testimonia di quella particolare estasi creativa che muoveva il genio ribelle Paz, autentico innovatore, creatore di linguaggi. L’ispirazione arrivò per caso, come spesso accade: Pazienza era nella “sua” Bologna (città d’adozione, dove si era iscritto al Dams), su un autobus, in realtà pronto «a mollare tutto, anche perché stavo perdendo tempo. Poi mi voltai e vidi una ragazza che aveva il sole che le batteva sul naso e sulla bocca ma che le lasciava in ombra gli occhi. Era un sole radente, lei una ragazza bruna, le aggiunsi un orecchino». E così eccola nascere questa «donna con l’orecchino» poi lanciata dalla campagna promozionale che la Gaumont, la casa di produzione del film, fece a livello mondiale. All’epoca del manifesto il «fenomeno» Andrea Pazienza era già esploso: nel 1977 aveva infatti pubblicato per la rivista Alter Alter Le straordinarie avventure di Pentothal ed era diventato il punto di riferimento del Movimento studentesco bolognese che si riconobbe in quelle tavole. 99

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Era entrato a far parte della rivista Cannibale (in seguito vengono le esperienze con Fridgidaire e Il Male) e l’attività di fumettista era diventata sempre più il centro della sua vita. «Andrea prima di pubblicare il manifesto de La città delle donne non aveva mai incontrato Fellini, lo incontrò in seguito» racconta Mauro Paganelli, titolare delle Edizioni del Grifo, nonché amico sia di Pazienza («fui testimone di nozze») che di Federico Fellini. «Andrea vide per la prima volta il manifesto da lui disegnato per caso, a New York rivela Paganelli - Arrivò a Times Square e si trovò inaspettatamente davanti alla gigantografia del manifesto del film. Lui, dopo avere consegnato il disegno alla produzione non ne aveva più saputo nulla, per cui fu una sorpresa vedere in pieno centro a New York un proprio lavoro, con quelle dimensioni». Fellini, dal canto suo, si rivelò soprattutto negli anni a venire «molto legato a Pazienza - continua l’editore - Lo incuriosiva e poi fu colpito dalla sua morte prematura: quando veniva a trovarmi qua in Toscana, dove frequentava, come è noto, le Terme di Chianciano, entrava spesso in argomento. Volle anche vedere dove viveva, nella casa nei pressi di Montepulciano, e venne all’inaugurazione di una mostra su Le favole, e a Roma con Vincenzo Mollica». Andrea Pazienza, dopo il manifesto per La città delle donne, si occupò ancora di Fellini. Lo fece su richiesta di Vincenzo Mollica che, nel 1984, aveva ideato la mostra Il fumetto e il cinema di Fellini allestita ad Ascona, in Svizzera, 100

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contestualmente al Festival di Locarno. Il relativo catalogo era stato pubblicato dalle Edizioni del Grifo. «Realizzò un paio di ritratti» spiega ancora Paganelli. Uno di questi, raffigura un Fellini di profilo, immerso in un paesaggio di nuvole e vogliose labbra rosse. L’immagine fu pubblicata nella quarta di copertina del catalogo. Le «affinità elettive» tra i due sono testimoniate anche dai «libri di casa» di Fellini. Facevano infatti parte della biblioteca del Maestro riminese - come si legge nel volume pubblicato nel 2008 dall’allora Fondazione Fellini I libri di casa mia. La biblioteca di Fellini, a cura di Oriana Maroni e Giuseppe Ricci - almeno due volumi di Andrea Pazienza: Il libro rosso del male (1991) e Sturiellet (1989).

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Fu la voce di Fellini. Addio a Gigi Proietti

C’è quella scena che si è come scolpita nella roccia, tante volte l’amico Vincenzo Mollica l’ha ripetuta, negli anni: è la scena di quando lui, Vincenzone, giovane giornalista per una tv toscana, arriva all’appuntamento con Fellini, all’hotel delle Terme di Chianciano, per una intervista al Maestro. Fellini gli dice: «Aspetta un momento che devo salutare un amico». L’amico era Gigi Proietti, ospite anche lui alle Terme. Scena 2, Fellini ritorna da Mollica e osserva: «Hai visto che bella faccia da cavallo che ha?». Quell’attore con la «bella faccia da cavallo» Federico Fellini l’aveva iniziato a notare, e ad ammirare, come tanti altri, al Teatro Tenda di Roma, «quando io facevo A me gli occhi please» ricordava l’attore romano scomparso il 2 novembre 2020 nel giorno del suo ottantesimo compleanno. Il Teatro Tenda, in quegli anni (siamo ai metà dei Settanta) «è una specie di oasi, mentre fuori dal teatro (…) esplodono bombe» ha ricordato in un suo intervento sul web il critico teatrale di Repubblica Rodolfo Di Giammarco. Prima un tendone «errabondo», poi stabilizzato in piazza Antonio Mancini nel quartiere Flaminio, le repliche di A me gli occhi al Teatro Tenda si susseguono fino al 1978. Federico Fellini 102

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ci «va una decina di volte a vedere il fenomeno di Gigi». Non è l’unico a notare la grande bravura dell’attore romano, con il quale un giorno pure si sbilancia: «Mi disse: Chissà che non possa pensare a te per il Casanova» ricordava Proietti nelle sue interviste. Federico Fellini fu di parola, anche se non nel senso in cui aveva sperato l’attore: lo chiamò infatti per dare non il volto, ma la voce italiana al protagonista del film ispirato alle Memorie di Giacomo Casanova. Per interpretare la parte dell’intellettuale libertino fu scelto l’attore canadese Donald Sutherland. Erano stati in lizza anche Jack Nicholson, Michael Caine, Gian Maria Volontè. Ci aveva sperato anche Alberto Sordi. «Ero indeciso quando mi ha chiamato» confessò Proietti nello special E il Casanova di Fellini? realizzato da Gianfranco Angelucci e Liliana Betti e andato in onda l’8 dicembre 1976 nel programma Tg2 Odeon. «È ovvio che avrei preferito dargli anche il volto - continuava l’attore ma non me ne sono pentito, anzi. Da allora con Fellini siamo diventati molto amici». E poi il lavoro per il doppiaggio - una fase affatto secondaria nei film del Maestro - non fu meno importante, impegnativo. Basta vederlo e ascoltarlo Proietti, sempre nello special Rai. La concentrazione, l’attenzione, l’atteggiamento di ascolto nei confronti di un Fellini “orchestratore” minuzioso quanto nelle fasi di ripresa dei film, si traducono in prove da grande professionista: «Non avevo mai visto Venezia così dall’alto, stentavo a riconoscerla. La mia amatissima 103

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città, che avrei dovuto abbandonare per sempre». Casanova/Donald Sutherland/Gigi Proietti. Andrebbe scritto così. Gigi Proietti, che nelle vesti di doppiatore aveva esordito in età molto giovane, è stato anche la voce italiana di Robert De Niro, di Dustin Hoffman, di Sylvester Stallone, Gregory Peck, Kirk Douglas, Paul Newman, Michel Piccoli e tanti altri. Fellini, dopo il Casanova, l’aveva nuovamente chiamato per fargli doppiare la propria voce per una riedizione del film I clowns che sarebbe dovuta uscire insieme a una nuova edizione di Toby Dammit, episodio del film collettivo Tre passi nel delirio (1968). Titolo del nuovo progetto 2 Fellini 2: ma la Direzione Generale dello Spettacolo diede parere «contrario alla richiesta di accoglimento di modificazione del titolo» inviata dal produttore Grimaldi in data 3 agosto 1977.

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Fratellanze

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Era l’inconscio a unire gli amici Fellini e Simenon

Il 17 gennaio 1982 il Corriere della Sera pubblicava la seconda puntata di un Amarcord felliniano a firma del giornalista Giovanni Grazzini: una lunga intervista a puntate che confluirà nel volume Intervista sul cinema, che Laterza darà alle stampe nel 1983. Fellini giornalista sulle orme di Simenon, recitava il titolo di questo secondo appuntamento proposto ai lettori del Corsera, che frugava nei ricordi di Fellini per ricostruire i suoi primi anni romani, a partire dalle esperienze di disegnatore e giornalista per la rivista Marc’Aurelio e per il giornale Il Piccolo. Ricordando il suo primo articolo, il regista chiamava in causa il celebre scrittore di gialli George Simenon. Il racconto, che nel successivo libro Laterza resta condensato in poche righe, è ricco di particolari: «Poiché avevo iniziato a leggere Simenon, dissi che mi sarebbe piaciuto fare la cronaca nera. L’idea di andare in giro per gli ospedali e le questure mi faceva impazzire... Mi ero comportato proprio come Maigret ma non me lo pubblicarono». L’episodio di cronaca oggetto del primo articolo di Fellini riguardava il caso di una donna 107

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che si era suicidata bevendo acido muriatico. «Rimase solo il titolo, ‘Beve per errore’» ricordava Fellini sulle pagine del Corsera. Quell’intervista lunga di Grazzini a Fellini appare oggi come uno zoom, un primo piano, che contribuisce a vedere a tutto tondo i contorni della futura amicizia, quella tra Fellini e il grande scrittore George Simenon, che sbocciò quando il Maestro era già diventato un regista affermato, ebbe durata pluridecennale, e fu interrotta solo dalla morte del romanziere avvenuta nel 1989. L’anno decisivo era stato il 1960. Fu quando al Festival di Cannes, con George Simenon presidente di Giuria, la Palma d’oro andò a La dolce vita di Fellini, che iniziò ad accendersi la scintilla. Simenon era stato determinante nell’assegnazione del Premio al Maestro riminese. I due iniziarono a conoscersi, a scriversi lettere. A dichiararsi reciproca ammirazione. A scoprirsi fratelli. Simenon, che era di diciassette anni più anziano, si trasforma col tempo nel confidente a cui Fellini rivela i propri stati di crisi, i momenti di scoramento nelle fasi creative. Le risposte dello scrittore appaiono ad un certo punto una «necessità indispensabile» per riacquistare fiducia, per portare a compimento l’opera. «Sono sicuro che lei non tarderà a creare di nuovo. È la sua vita. Il suo destino»: con queste ed altre parole arrivava l’esortazione di un creatore altrettanto geniale, che non esitava ad esprimere con enfasi la propria ammirazione per l’amico regista. Si affrettava anzi anche attraverso telegrammi, a 108

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comunicare il proprio sbalordimento. «Sono incantato e profondamente scosso per il suo Casanova stop. È un affresco superbo e magistrale...». Un incantamento che si ripeteva ad ogni film. Una ammirazione speculare quella di Fellini per i libri di Simenon: «avrei voluto scriverle subito per dirle della gioia, il divertimento, il conforto che ne ho ricavati» scriveva dopo aver letto Tracce di passi e Un piccolo uomo. Spesso le letture coinvolgevano anche la moglie Giulietta e i complimenti perciò erano al quadrato. Fu per prima la casa editrice svizzera Diogenes di Daniel Keel, amico di Fellini, a rendere pubblica l’intensità, fecondità, importanza di quel rapporto, dando alle stampe la corrispondenza tra i due grandi autori. Con il titolo Carissimo Simenon, Mon cher Fellini, fu presentato in anteprima alla Fiera del Libro di Francoforte nel 1997 il volume che in Italia arrivò l’anno dopo, con Adelphi. La casa editrice torinese già dal 1985 pubblicava i romanzi di Simenon, fino a quel momento edito in Italia da Mondadori. Ed era stato proprio Fellini a intercedere per convincere l’amico scrittore a passare nella “scuderia” dell’editore Roberto Calasso, che definì in seguito «decisiva» la lettera che il regista aveva inviato a Simenon per convincerlo a lasciare Mondadori. L’idea di coinvolgere il regista era stata a quanto pare della moglie di Keel. Ad unire Fellini e il grande romanziere erano anche l’interesse per l’inconscio e la psicoanalisi. Se è lo scrittore a sottolineare a più riprese l’importanza dell’io profondo 109

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nell’attività creativa, la sintonia su questi temi porta Fellini a raccontare all’amico la visita che fece un giorno alla casa di Jung, in Svizzera, dove gli fu concesso da un nipote dello psicoanalista, caso eccezionale, di entrare nella celebre torre di Bollingen. Nel febbraio del 1990 inter vistato da Antonio Debenedetti, Fellini riferisce, ricordando Simenon, scomparso a settembre, che gli accadeva «di pensare spesso a quanto mi diceva del suo modo di scrivere». «Una volta mi confidò - aggiunse - che i suoi romanzi li scrive tutti l’inconscio».

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Quel duetto d’amore tra Fellini e Bergman

Doveva essere un «duetto d’amore tra due stregoni». Ma se restò l’amore - ovvero la stima, l’amicizia - il duetto non si fece mai. Duetto d’amore doveva essere il titolo del film firmato da Federico Fellini insieme al regista svedese Ingmar Bergman. L’idea venne lanciata nel gennaio del 1969, in una conferenza stampa molto partecipata che si tenne a Roma all’hotel Excelsior. Era del produttore americano Martin Poll e sulle prime includeva un altro gigante della cinematografia mondiale, Akira Kurosawa (Tre storie di donne, doveva essere in questo caso il titolo del progetto), che però non fu disponibile. Il «duetto d’amore» tra Fellini e Bergman, invece, sembrò sul punto di poter essere realizzato. La stampa dell’epoca ne seguì con grande curiosità gli sviluppi. Si trattava di un progetto lanciato nel periodo in cui Fellini era già impegnato sul set del Satyricon, il film ambientato nell’antica Roma e ispirato all’opera di Petronio. Fu proprio la visita di Bergman sul set a cementare un legame che non stupisce potesse apparire appetitoso per qualsiasi produttore. 111

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Bergman vi si recò insieme alla moglie Liv Ullman nell’aprile di quell’anno. «Abbiamo tra noi un maestro del cinema, Ingmar Bergman», lo presentò Fellini alla troupe durante una pausa delle riprese al teatro 5 di Cinecittà. I due si erano già incontrati una volta l’anno prima. Ma fu il 1969 l’anno che intensificò la relazione. La visita sul set del Satyricon durò circa tre ore, come documentano articoli di giornale dell’epoca. Successivamente «nelle prime ore del pomeriggio di Pasqua, Bergman e Liv Ullman, Martin Poll e la moglie, si sono recati nella villa di Fellini a Fregene». Una giornata che si era conclusa con il pranzo di Pasqua preparato da Giulietta Masina. Si era parlato naturalmente del futuro film a quattro mani e Fellini aveva suggerito di iniziare a scriversi per lettera in modo che l’epistolario potesse diventare «un inizio di sceneggiatura». Le cose andarono in maniera molto diversa, però, da come aveva immaginato Fellini. Ancora dalla stampa dell’epoca, un titolo del 16 settembre 1969: «Pronti a girare Fellini e Bergman». Ma l’11 dicembre 1969: «Fellini-Bergman: accordo svanito». Nei tre mesi successivi al periodo estivo il progetto fa splash. Il «Duetto d’amore tra due stregoni» non si farà mai. Oreste Del Buono, nella sua rubrica Cronaca del cinema su L’Europeo, nel settembre di quell’anno faceva già presagire la rottura. Parla infatti delle «nuove preoccupazioni che assillano Fellini», nonostante sia reduce da un soggiorno di cure a Chianciano, avvenuto subito dopo la presentazione 112

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del film Satyricon alla Mostra del Cinema di Venezia (il 4 settembre l’anteprima, poi il film uscirà nelle sale italiane il 18 settembre). Il critico si domanda se il film annunciato con Bergman «sarà un autentico duetto d’amore?». L’articolo lascia pensare (come se l’ispiratore fosse lo stesso Fellini) che ne sappia più di quanto faccia trasparire. Del Buono del resto, era nella cerchia dei «felliniani» doc: «Ma più di tutti ama Fellini (…) - scrive di lui in un saggio Alberto Pezzotta - Appena può scrive di lui, dei suoi film vecchi, nuovi e futuri». «Eravamo d’accordo a mettere insieme una chiacchierata sulle donne» dichiarava il regista riminese, sottolineando peraltro la propria disponibilità ad acconsentire alle richieste del collega svedese (firmare il primo dei due episodi di cui si sarebbe dovuto comporre Duetto d’amore). «Ma ora ho l’impressione che Bergman abbia cambiato un poco le carte in tavola - aggiungeva Fellini - Ha già presentato il suo trattamento tutto scritto, a posto. Durata: ottantacinque minuti e mi assicurano che lui i tempi stabiliti li rispetta, che gira con il cronometro. Si tratta di un vero film, di un racconto chiuso, su una donna in crisi …Così mi toccherà modificare il mio pezzo, non più una chiacchierata, debbo girare un racconto pure io». Del Buono rivela poi che «Fellini avrebbe voluto raccontare con estrema libertà narrativa (…) la storia di un uomo precipitante (o precipitato) in una città interamente popolata da donne e, una per una, queste donne avrebbero dovuto rappresentare un tipo di rapporto avuto dal protagonista con le donne». Un’idea che sarà l’embrione 113

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del film La città delle donne, che però arriverà solo nel 1980. Fellini per il suo contributo a Duetto d’amore aveva a quanto pare «in mente un attore, il comico Walter Matthau, quello de La strana coppia». Quanto a Bergman, pare fosse pronto a girare in novembre. Ma qualcosa resta di quel progetto mai realizzato: la sceneggiatura del film di Bergman, la cui esistenza fu scoperta dall’omonima Fondazione svedese agli inizi degli anni Duemila. Il manoscritto porta il titolo Sextiofyra minuter med Rebecka, Sessantaquattro minuti con Rebecka, e la data 7 agosto 1969. Protagonista della vicenda è una insegnante che lavora con ragazzi sordomuti e che rimane incinta. La storia pare legata al clima sessantottino, ha elementi lesbo e di erotismo spinto, a cominciare dalla visita che Rebecka farà in un sex club dove, al centro di una stanza, «due donne nude sono impegnate in una pantomima dai contorni osceni (…) l’aria è impregnata di fumo. Da qualche parte arriva una musica orientale dolciastra». Nel 2016 fu dato l’annuncio che la regista femminista svedese Suzanne Osten era sul punto di realizzare un film dalla sceneggiatura di Bergman, ma anche questo progetto sembra per ora finito in un cul-de-sac. Se la collaborazione tra i due grandi del cinema non si concretizzò mai, su un altro versante, quello propriamente cinéphile, i nomi di Bergman e Fellini svettano come fari, accomunati dal fatto di essere interpreti di una poetica 114

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cinematografica innovativa. È la lettura che per primi ne diedero gli autori della Nouvelle Vague francese, focalizzandosi in particolare sulle figure femminili in Fellini e Bergman, e sulla «poetica degli sguardi». «Dobbiamo proprio a Bergman uno dei più intensi e celebrati sguardi in macchina nella storia del cinema moderno realizzato in un film, Monica e il desiderio (Sommaren med Monika, 1953)» ci ricorda lo studioso Andrea Minuz (in Hitchcock, Bergman, Fellini e il motivo dello sguardo, 2009). Fu per primo Jean-Luc Godard, in un articolo apparso sulla rivista francese Cahiers du Cinéma nel luglio 1958, a evidenziare che con quel film che segnò l’incontro di Bergman con l’attrice Harriet Andersson (e a cui rivolgerà un tributo, ne I 400 colpi, anche François Truffaut), il regista svedese non faceva che anticipare un altro momento che era stato osannato dalla critica d’Oltralpe (a partire dal teorico André Bazin): la scena felliniana in cui Giulietta Masina, nel finale de Le notti di Cabiria, fissa lo sguardo verso l’obiettivo della macchina da presa. Duetto d’amore, evidentemente.

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Alberto Arbasino: «Così Fellini diede una zampata al Novecento»

Erano nati quasi lo stesso giorno, uno il 20 gennaio, il 22 l’altro. Uno Capricorno, l’altro Acquario. A distanza di dieci anni l’uno dall’altro. Federico Fellini e Alberto Arbasino. Il grande regista e l’intellettuale dandy, penna finissima, colto e pungente. Se ne è andato lo scorso 22 marzo Alberto Arbasino, all’età di 90 anni, proprio nell’anno del Centenario felliniano. Scrittore, giornalista, fu tra i più acuti nel cogliere la portata dell’opera felliniana, la novità rispetto ai canoni novecenteschi. Scrivendo di 8½ disse che Fellini aveva dato «una gran zampata alla storia letteraria». Lui che con la sua prosa arabescata, piroettante, moltiplicava il “sapore” di un film, di un libro, di un personaggio. De La dolce vita amava ricordare la proiezione in anteprima a Cinecittà «per gli amici di Via Veneto che non avevano mai voluto impersonare se stessi». Una versione ancora non doppiata a cui assistette lui stesso: «Che incanto» e «che delizie, ascoltare le battute nelle diverse rispettive lingue, e le continue disposizioni di Fellini». Un ricordo che apre il «ritratto» dedicato al regista, di cui Arbasino fu 116

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estimatore e amico, in uno dei successi più recenti, Ritratti italiani (Adelphi, 2014). Ma l’episodio della proiezione privata della «copia pilota» Arbasino lo aveva rievocato anche altre volte. Ad esempio in occasione dei funerali di Fellini, nel 1993, quando fu interpellato da Ranieri Polese per il Corriere della Sera (l’articolo uscì il 4 novembre). Lui stesso «testimone e interprete» della stagione irripetibile dei primi anni Sessanta, quando «si faceva tardi ai tavolini dei caffè» di via Veneto, poteva affermare che il film «l’avevamo visto nascere. Dalle prime idee ai tavolini della vera via Veneto, alla fase delle riprese nella via Veneto ricostruita a Cinecittà». Noi che abbiamo fatto la Dolce vita, per dirla col titolo del volumetto edito da Sellerio (2009) scritto dall’amico e biografo di Fellini Tullio Kezich. Della serata della «copia pilota» Arbasino disse che fu «leggendaria», e che lasciò «una impressione fortissima»: «Avevamo davanti agli occhi il risultato finale di qualcosa che si era visto nascere». Il giudizio critico su 8½ fu altrettanto se non più entusiasta. «Le dolce vita e 8½ per me furono importantissimi - riferiva ancora Arbasino nell’intervista a Polese - Sono importanti in assoluto: l’uno perché era lo specchio incomparabile di un Paese in trasformazione, l’altro perché era la realizzazione perfetta di una grande idea del nostro secolo (il romanzo di un romanzo), era nello stesso tempo opera d’arte creativa e critica. Da un lato il realismo, la fotografia che ritrae seppure con molta 117

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visionarietà; dall’altro la tensione sperimentale, il fascino dell’informale. Ecco, quei due film furono per me le emozioni più grandi in un momento di eccezionale ricchezza in tutti i campi». E ancora, su 8½: «Con quel film su un film da fare, arrivavano sullo schermo le grandi discussioni del romanzo sul romanzo, che erano à la page tra chi partecipava ai dibattiti di teoria letteraria. É vero, allora si leggeva e si parlava tanto di Proust, ma in realtà 8½ per noi fu come L’uomo senza qualità di Musil». Così la sua voce «diretta», raccolta a caldo da un collega giornalista. Ma poi, con la sua prosa fenomenale, nel suo Ritratti italiani - e andando a riprendere parti di un densissimo articolo uscito su Il Giorno del 6 marzo 1963 Arbasino riflette ancora sui due capolavori felliniani. E se vede ne La dolce vita «un enorme occhio avidamente spalancato sulla realtà per annettersi tantissimi fatti», per «8½ il rapporto si rovescia - scrive -: un torrente di immagini della fantasia si riversa sopra il mondo esteriore e lo ricopre, modifica la realtà, cancella alcuni fatti, altri ne mette in dubbio, trasforma i personaggi in statue di sale. E tabacchi? Non per nulla le vediamo alla fine tutte faustianamente in fila, le creature dell’immaginazione messe a confronto col loro creatore, come in un Pirandello non lucido e razionale e “loico” ma minestroso e budelloso come nell’avanguardia milleriana più viscerale e “umida”. Però il fatto sconvolgente è constatare come Fellini mettendo al fuoco del surrealismo i suoi pentoloni di zuppa cinematografica dia in realtà una gran zampata alla 118

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storia letteraria, volontariamente o no, divorando quintali di “madeleines”». Arbasino “spennella” quindi anche intorno ad altri titoli della filmografia felliniana: sempre in Ritratti italiani del film Roma scrive che la città in «grandi pannelli» appare «mostruosa capitale pagana e cattolica». Mentre Amarcord lo tratteggia come il film con cui «Fellini ha finalmente deciso di comporre il proprio “autoritratto da bambino” riunendo tante piccole vignette sotto un titolo misterioso». Amara, malinconica, la chiusa con il ricordo degli ultimi anni di vita del Maestro: «Fu poi tristissimo il tramonto e desolata la fine - scriveva - Quando i produttori e i distributori non ne volevano più sapere, e La voce della luna fu un flop perché le platee dei giovani “italioti” volevano soltanto sghignazzare con Villaggio e Benigni, e non ascoltare considerazioni seriose o poetiche». L’ultimo incontro tra Fellini e Arbasino avvenne per caso «l’ultima estate», «in un ristorante con albergo sullo svincolo Chiusi-Chianciano». «Siamo stati insieme fino a tardissimo - ricorda lo scrittore - e lui faceva davvero impressione per quel garbuglio: abiti, gesti, capelli, confusioni anche nella conversazione. Sembrava disperato, ansioso, depresso, chiedeva compagnia, non voleva lasciarci partire».

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E Fellini inventò Mr. Prik. Al Castello a tu per tu con Picasso *

Dimenticate le culone. Le donnone, le “ur-donne”, le grandi madri, le Anite, le tabaccaie, le Saraghine, la schiera di amanti e pseudo amanti disegnate a gambe aperte, le gigantesse con la vagina in primo piano: versioni roboanti ed eiaculatorie del più compassato, al confronto, Origine du monde di Courbet. Perché la parte più originale e mai vista della mostra di disegni di Federico Fellini Il corpo sognato, ospitata a Castel Sismondo, a Rimini, per la Biennale del disegno, è quella dei pricks: a volerlo tradurre volgarmente in italiano - nella versione più soft - dicasi piselli. Sono il soggetto dei 42 disegni di Federico Fellini che risalgono con tutta probabilità al periodo delle riprese per il Casanova, tra il 1975 e il 1976. Il grande regista riminese li regalò all’amico e collaboratore Tonino Guerra, probabilmente per ricompensarlo per il contributo non accreditato dato al film sul libertino veneziano: Guerra fu infatti l’autore della poesia recitata in Casanova dedicata all’apparato genitale femminile, riveduta dal poeta Zanzotto che la intitola La mona, o mouna. Ad introdurre la mostra dei 42 disegni di Fellini a Castel 120

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Sismondo è l’uccello meccanico, il marchingegno che compare nel film Casanova, tra i beni del regista patrimonio del Comune di Rimini. Raffigurazione plastica di un erotismo ludico ma ripetitivo, mortifero come le imprese erotiche del protagonista. L’aspetto ludico, o per meglio dire autoironico e grottesco, è invece quello che prevale nei disegni di Fellini in mostra, autentiche caricature del… pisello. L’organo genitale maschile è l’assoluto protagonista, ritratto da un navigato caricaturista quale è Fellini. Che sembra divertirsi raffigurando quello che potremmo ribattezzare «Mr prick» - un Mr Bean ante litteram in versione soft porn un po’ Pantera rosa - in una carrellata di pose: c’è il prick bambino e il prick vecchio, l’uomo con il prick e il prick senza l’uomo, i prick animaleschi (serpente, aquila), il prick re (Royal prick). Il prick Napoleone e quello (vagamente chapliniano) boxeur, quello che fa le acrobazie (difficult prick) e quello che gioca alle scommesse (gambler). C’è anche il prick Babbo Natale (Happy xmas prick, con tanto di panettone Motta!) e lo Scotland Yard Prick, mentre un prick stanco (tired prick) arrossisce per la vergogna: è la capitolazione del prick! La donna felliniana è invece la protagonista della sala che precede quella dei prick. Vi si trova una selezione di disegni di proprietà del Comune di Rimini, già visti in altre occasioni. E qui tornano le donnone. L’erotismo debordante - non sempre festoso, spesso segno di 121

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inquietudine - felliniano. Sono i disegni del fondo Giacchero (la storica segretaria di Fellini) e del fondo Geleng. Scampoli del Libro dei sogni (Il sogno del cinese), dove le gigantesse tettone/culone furoreggiano, fantasmi onirici all’assalto dell’uomo ombra. O divertissement come la «Donna a gambe larghe su un pene che saluta militarmente», che pure si presta a dialogare con l’autentico pezzo forte della duplice mostra ospitata a Castel Sismondo: la serie di incisioni di Pablo Picasso - 66 tra acqueforti, acquetinte e puntesecche - che l’artista spagnolo eseguì nel 1968 per illustrare La Célestine di Fernando de Rojas, capolavoro della letteratura iberica pubblicato alla fine del 1400. É il Picasso della maturità (morirà nel 1973 all’età di 92 anni), di cui il ciclo delle Célestine dimostra una inesausta vitalità creativa. A sottolineare la «fratellanza» tra i due grandi artisti del Novecento, non è solo la mostra riminese. Lo ha fatto la città di Malaga, città natale di Picasso, con la mostra And Fellini dreamed of Picasso. Esiste poi non a caso una discreta, seppur forse ancora incompleta, letteratura sull’argomento. Uno studio, del professor Max Seidel (docente all’università di Firenze,) Fellini - Picasso. O beauté, Monstre enorme azzarda ipotesi di diretta influenza di Fellini su Picasso, dopo la visione de Le tentazioni del dottor Antonio a Cannes (1962). I due però non si sono mai incontrati. Ci andarono vicini, al Festival del Cinema di Cannes. Un disegno di Fellini del 122

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dicembre 1959 testimonia del desiderio di conoscere di persona l’artista spagnolo. Porta la dedica: «A Picasso con affetto». Raffigura Anita Ekberg vestita da prete, eco di un episodio de La dolce vita. Fellini incontrò comunque Picasso diverse volte: nei propri sogni. Quattro quelli documentati, di cui tre trascritti e disegnati nel Libro dei Sogni (e in mostra a Castel Sismondo). Lo fa entrare «in famiglia», come è esplicito nel primo sogno disegnato (22 gennaio 1963): «Giulietta ed io ospiti in casa di Picasso, si sta benissimo, si mangia e si beve in allegria. Tutto è semplice, familiare, antico, che pace, che conforto!» annota il Maestro. Nel seguito della narrazione onirica - Picasso tornerà nel Libro dei sogni di Fellini il 18 gennaio del 1967 e nel luglio del 1980 - il regista attribuisce al pittore spagnolo uno status onirico di «padre» o «fratello maggiore», al pari di altre figure via via sostitutive della figura del proprio psicoanalista Ernst Bernhard (come Jung e Orson Welles). Una quarta volta Picasso appare in sogno a Fellini. In questo caso non esiste però un disegno, ma una testimonianza dello stesso regista in cui parla di un «mare buio (in cui) vedevo emergere la testa di Picasso…». «Perché sogno proprio Picasso? Perché è l’artista con il quale vorrei identificarmi», afferma Fellini in una intervista. «Picasso è come una perenne sorgente. É così grande che mi sembra che abiti l’onirica immaginazione degli artisti come archetipo di tutto ciò che è nutriente» dirà in altra occasione. É al linguaggio junghiano che attinge il regista, 123

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forse influenzato dal fatto che lo stesso Picasso, nel 1932, fu al centro di un saggio di Jung. Un testo di cui era a conoscenza Fellini: «più tardi mi capitò di leggere il suo saggio (di Jung, ndr) su Picasso e ne rimasi abbagliato. … É stato per me l’aprirsi di panorami ignoti, la scoperta di una nuova prospettiva da cui guardare la vita, la possibilità di fruire delle sue esperienze in modo più coraggioso, più vasto, di recuperare tante energie e tanti materiali sepolti sotto macerie di timori, inconsapevolezza, ferite trascurate».

* Articolo apparso sabato 9 giugno 2018 sul Corriere Romagna

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Fallaci, Cederna e Tornabuoni, Fellini svelato dalle giornaliste

Ognuna di loro è stata, con un proprio stile, «signora» e maestra del giornalismo italiano. Ognuna di loro lo ha incontrato, ne è divenuta amica (o nemica), ha scritto, di Federico Fellini. Tre grandi giornaliste, Camilla Cederna, Oriana Fallaci, Lietta Tornabuoni. Le loro pagine sul cinema di Fellini restano ancora oggi tra le più degne di attenzione. Ne scrissero con acume, ingegno, profondità. Non sempre da «amiche», come è stato ad un certo punto il caso di Oriana Fallaci. Il primo incontro tra Oriana Fallaci e Federico Fellini, come raccontò lei stessa, avvenne a New York nel 1957 in occasione della «prima americana del suo film Le notti di Cabiria e diventammo un po’ amici». Di quell’incontro - durante il quale Fellini le avrebbe addirittura chiesto di accompagnarlo a comprare completini intimi da portare in Italia alla moglie Giulietta Fallaci ne scrisse una prima volta in una delle sette puntate del servizio intitolato «Dietro le quinte di Cinecittà», un affresco sul cinema italiano che il settimanale L’Europeo 125

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pubblicò tra l’ottobre e il novembre del 1958. Cinque anni dopo quel primo incontro, però, i rapporti tra i due si guastarono. Il casus belli fu una intervista che la futura grande inviata di guerra, scomparsa nel 2006, fece nel 1963 a Fellini per il settimanale L’Europeo, una chiacchierata intorno all’uscita di 8½ che la giornalista ottenne dopo una serie di «sòle» (come si dice in romanesco) e che fu pubblicata sul numero del 17 febbraio di quell’anno. A quanto pare non risultò gradita a nessuno dei due. «L’intervista meno genuina di tutta la serie» la definì Fallaci nel libro Gli antipatici, raccolta di diciotto interviste e conversazioni che la giornalista ebbe in quel periodo con attori, registi, musicisti, scrittori (tra gli altri, oltre a Fellini, Ingrid Bergman, Nilde Iotti, Natalia Ginzburg, Alfred Hitchcock). «Io gli volevo bene davvero a Federico Fellini. Dopo quel tragico incontro gliene voglio assai meno, ho anche smesso di dargli del tu» scriverà ancora Fallaci, dimenticando senza colpo ferire quell’amicizia sbocciata cinque anni prima negli States, quando «andavamo spesso a mangiare le bistecche da Jack’s o le caldarroste in Times Square dove si poteva anche sparare al tirassegno». Ma che era successo? Basta leggere il testo del colloquio tra i due pubblicato da L’Europeo per cogliere il tono della chiacchierata. La giornalista, che aveva registrato con il magnetofono, cercò di riportare alla lettera, anche se, a suo dire, Fellini pare avesse voluto rileggere e rivedere quasi tutto. Ma tant’è. L’attacco di lei è sarcastico («Allora, facciamoci coraggio, 126

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signor Fellini, e parliamo di Federico Fellini: tanto per cambiare. Le costa fatica, lo so: lei è così schivo, così segreto, così modesto»), e del film, nonostante dichiari le sia piaciuto, dice di averlo trovato «triste», con «tutti quei vecchi, tutti quei preti, quell’aria di disfacimento e di morte...». Le risposte del regista sono infarcite di ironici «tesorino mio», «disgraziata, screanzata, ballista»… E dire che nel merito, quel servizio malignamente intitolato Il peccatore insoddisfatto, resta uno tra i più interessanti scritti intorno al film in quel periodo. Su quell’intervista Fellini volle tornare, in una lettera di leggiadra reprimenda al giornalista Indro Montanelli che ne aveva ripreso dei passaggi. Con lui rimase amico, Fallaci la liquidò definendola «un’isterica furbetta». «Ciò che ha scritto è tutto falso - si lamentò con Montanelli - e ciò che mi è dispiaciuto è che tu abbia citato nel tuo pezzo la sua intervista con me, proponendola come una fulminante ed esattissima spettroscopia del sottoscritto». «Quando sono con te, mi par d’andare in giro con lo psicanalista»: così le diceva Federico Fellini. «E per me andava benissimo che la pensasse a quel modo» confessò Camilla Cederna, la signora del giornalismo italiano, redattrice dell’Europeo dal ’45 al ’55, poi passata come inviata al concorrente L’Espresso dove fu peraltro celebre la sua rubrica di costume Il lato debole. Classe 1911, inizia a scrivere nel 1939 e se la moda è il tema che la fa esordire nel giornalismo, saranno anche la politica e le grandi storie 127

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dell’attualità, insieme al costume, alla cultura, a farne una grande firma. Rivale di Oriana Fallaci (non si risparmiarono frecciate e freddure), anche Camilla Cederna entra nella cerchia di giornalisti che seguono e raccontano Federico Fellini, dopo il successo de La dolce vita ormai una celebrità su cui la stampa punta ad anticipare ogni mossa. Nell’ottobre del 1960 Camilla Cederna è incaricata di «scrivere cinquanta cartelle su di lui per L’Espresso-Mese». Iniziano lunghi viaggi in automobile con il regista, prima sulla «sua vasta automobile foderata di pelle color crema», poi «nella sua successiva automobile, altrettanto vasta ma foderata di pelle rossa». Con lei, in quelle chiacchierate che sembravano sedute psicoanalitiche, Federico Fellini metteva a fuoco quello che sarà il suo successivo capolavoro, 8½. Il racconto di quelle «sedute» in automobile, diventerà il testo introduttivo al libro che alla pellicola fu dedicato nella collana Dal soggetto al film, ideata per l’editore Cappelli dal critico e cineasta bolognese Renzo Renzi. Quel legame particolare con Fellini permetterà alla Cederna di entrare spesso sul set e raccontare il farsi dei film del maestro. Come farà nel 1962 con il lungo servizio intitolato L’astronave di cemento, dettagliato reportage sulla lavorazione di 8½ sulla cui trama vigeva ancora riserbo. Continuerà a farlo anche in seguito. Su L’Espresso colore, il primo settembre 1968 un lungo servizio racconta la preparazione e i provini del film Satyricon, con numerose foto (del fotografo Franco Pinna) e intervista a Fellini che 128

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aveva fatto avere alla rivista anche propri disegni. Storica e indimenticata firma del quotidiano La Stampa, nata nel 1931, di Lietta Tornabuoni ricorreranno a gennaio i dieci anni dalla scomparsa. L’ha ricordata lo scorso 22 novembre, con un incontro su You Tube che ha visto come protagonista l’amica giornalista Natalia Aspesi, il Torino Film Festival. Per l’occasione è stato presentato il volume Quando scriveva Lietta realizzato dal Museo Nazionale del Cinema in collaborazione con La Stampa, che raccoglie alcuni dei suoi articoli più rappresentativi. Il primo, è dedicato a Federico Fellini. Era il 10 maggio del 1974: Aperto il ventisettesimo Festival di Cannes. Un «galà» per Fellini. «Belle donne, mondanità, produttori americani alla proiezione di Amarcord - Il regista partecipa alla sua serata con distacco - Sta già pensando al film su Casanova» recitavano i titoli del sommario. «Per me Amarcord è ormai come un libro già letto, come un amico che se n’è andato confidava il regista a Lietta Tornabuoni - Lo sento remoto, non mi interessa più». In Fellini, volume pubblicato da Rizzoli nel 1995, Lietta Tornabuoni pubblicherà una serie di soggetti inediti del regista: L’inferno, L’attore, Venezia, Mandrake. «Lietta aveva un grande fiuto e mi trascinava sempre a vedere autori quasi sconosciuti o opere improbabili, non apparteneva alla superba casta dei critici, che noi, croniste multiuso, prendevamo un po’ in giro per la loro sapienza» la ricorda Natalia Aspesi nel libretto del Museo Nazionale del Cinema. 129

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Le donne di Fellini: matte, sirene e femministe

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Le «matte» di Tobino inseguite e ripescate nell’ultimo film

«Anni fa ho letto Le libere donne di Magliano di Mario Tobino. L’autore fa il medico in un ospedale psichiatrico che si trova a Magliano e ha scritto sui pazienti in modo poetico e sensibile. Ne ha scritto con una tenerezza che mi ha toccato, anche perché mi sono sempre identificato con la pazzia». È nella lunga intervista raccolta dalla giornalista americana Charlotte Chandler nel corso dell’ultimo decennio della vita del Maestro riminese che Federico Fellini torna a parlare di Mario Tobino - medico e scrittore, nato a Viareggio nel 1910, scomparso nel 1991 - e di quel libro pubblicato nel 1953 che tanto lo aveva affascinato. Ne voleva ricavare un film, ma finì nell’elenco dei progetti rimasti in fase embrionale: non più di un soggetto, scritto a quattro mani con Tullio Pinelli. Il testo è sparito da ogni archivio. Forse cestinato. Restano poche testimonianze di quel lavoro al quale Fellini aveva iniziato a pensare subito dopo l’uscita de Il bidone e prima de Le notti di Cabiria. Resta, unica testimonianza, la trascrizione che la rivista francese Cahiers du Cinéma, diretta da André Bazin, fece del 133

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resoconto di Fellini sul soggetto nel numero 68 del febbraio 1957. Si scopre così come il regista aveva concepito il contenuto e il senso del film, discostandosi però in varie parti dal libro. In Le libere donne di Magliano Mario Tobino - Premio Strega con il romanzo Clandestino del 1962 e Premio Campiello nel ’72 con Per le antiche scale - raccontava la vita nel reparto femminile dell’ospedale psichiatrico di Maggiano (località in provincia di Lucca, trasformata nel libro in Magliano) dove lavorò come medico dal 1942 al 1980. Nel trattamento che ne fece Fellini il protagonista, che chiamerà Roberto, è colto non tanto e solo nel suo lavoro all’interno del manicomio, ma anche nel suo avventurarsi notturno nelle vicine Viareggio e Lucca. «Ciò che mi ha soprattutto interessato di questo libro riferiva Fellini ai Cahiers du Cinéma - è la prospettiva e il fascio di luce amorevole che inonda queste sfortunate. Nulla di psicoanalitico, di tecnico, nessun riferimento alla tale o talaltra concezione scientifica o parascientifica della follia. I matti sono esaminati sotto una luce di tenerezza e la vita nel manicomio non ha nulla di particolarmente algido o tecnico. Tutto è semplicemente una specie di vita monastica». Parlando del protagonista, lo definisce un «uomo istruito, sensibile, tormentato, che finora ha vissuto in maniera edonistica»: si tratta, «in breve (di) un vitellone» cui «una sorta di pigrizia, di torpore spirituale lo porta a cercare, sempre più in basso, qualcosa che possa fornirgli un senso più preciso della propria vita». Il film vorrebbe 134

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raccontare un anno di vita del protagonista, che in avventure notturne troviamo in compagnia di un gruppo di colleghi, «altri cinque o sei vitelloni». Roberto si innamora di una giovane a Lucca («rappresenta la famiglia, una promessa di vita tranquilla»), quindi insieme agli amici va alla ricerca, in un hotel di Montecatini, di una donna «dal corpo splendido, generoso», un «corpo di donna idealizzata». Impossibile non notare elementi, e personaggi, che il regista svilupperà successivamente. Quelle di Tobino sono pagine scritte in forma di diario, toccanti e luminose. Non stupisce abbiano attratto un Fellini poco più che trentenne, che di lì a poco avrebbe creato tra l’altro il personaggio della ingenua (e un po’ matta) prostituta Cabiria. «Ritorno da un giro notturno per i reparti femminili - scrive Tobino nel romanzo gradatamente dai reparti tranquilli agli agitati l’erotismo si fa più selvaggio e gradatamente aumenta l’acuto rancido della bestia umana. Alle “agitate” dai letti, in camicia, nude, si lanciavano verso di me, che fuggivo. L’infermiera che cercava di trattenerle rideva piena di malizia come a dire che era così anche in tutte le altre donne, ma “le altre”, quelle fuori, non potevano perché erano “sane”». Per il biografo di Fellini Tullio Kezich, il regista «è colpito dalla descrizione di una “città delle donne” avanti lettera: una specie di girone d’inferno dove una folla di femmine scatena bestiali furori in mezzo a illuminazioni e dolcezze altrettanto sorprendenti. Il tutto sullo sfondo di una civiltà contadina in cui dominano i valori fondamentali della vita, 135

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non esclusa una forte carica di animalesca sensualità». Già nel settembre del 1955, in una breve notizia il Corriere della sera riportava una dichiarazione del regista, già celebre per I vitelloni e La strada (Oscar miglior film straniero), su una ipotetica «intenzione di tradurre cinematograficamente il romanzo di Mario Tobino, Le libere donne di Magliano». Fellini si recò anche a Maggiano, insieme a Pinelli, per visitare il manicomio e vi restò, stando a sue dichiarazioni, diverse settimane. I contatti con Tobino per la realizzazione del film sono documentati dai diari dello scrittore, custoditi dall’omonima Fondazione presieduta dalla nipote Isabella Tobino. «Mio zio aveva ricevuto una proposta anche da un altro produttore, ma preferì dare la liberatoria a Fellini» rivela. Il progetto su Le libere donne di Magliano è rimasto fino alla fine nei pensieri di Fellini, che vi attingerà più esplicitamente, per sua stessa ammissione, nell’ultimo film La voce della luna, come è noto in primo luogo ispirato al Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni. Vi fu però, all’origine del film, anche «un’altra seduzione dirà il regista in una intervista televisiva a Vincenzo Mollica -, riferita a un progetto con il quale avevo convissuto abbastanza a lungo, era un libro che lessi venticinque anni fa e che mi sedusse, mi piacque moltissimo, un libro di Mario Tobino, Le libere donne di Magliano». «Ho vissuto a lungo con questa fantasia - continuava Fellini - con questo racconto che avevo immaginato, poi il film non l’ho mai fatto perché mi aveva un pochino turbato il vivere quella libertà così totale, e anche infernale (...) ma qui è ritornato un po’ a galla». 136

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La pastorella e San Giuseppe. Magnani e Fellini che «miracolo»

«Finirà Pina, finirà. E tornerà pure la primavera. E sarà più bella delle altre, perché saremo liberi». Pina è Anna Magnani, nel film Roma città aperta di Roberto Rossellini (1945). Girato nella Roma da poco liberata consacrò Nannarella, già alla soglia dei quarant’anni, tra le stelle del cinema. Anna Magnani e Fellini: quali, quanti intrecci? Furono poche le collaborazioni tra i due, ma preziose, uniche. Come unica è sempre stata la Magnani. Classe 1908, pressoché alla nascita la madre la affidò alla nonna materna e si trasferì in Egitto. Del padre conoscerà il nome solo in tarda età. Da giovane si avvia al teatro frequentando la scuola di arte drammatica Eleonora Duse e arriverà negli anni Trenta a lavorare per diverse compagnie. Approderà presto anche al cinema: a segnare il suo esordio, un piccolo ruolo ne La cieca di Sorrento di Nunzio Malasomma (1934). Passano quasi una decina di anni e le strade di Nannarella e di Federico Fellini iniziano a incrociarsi. Siamo agli inizi degli anni Quaranta e lo stesso Fellini la racconta così alla 137

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giornalista Charlotte Chandler: «Avevo conosciuto Anna Magnani quando lavoravo come soggettista a Campo de’ fiori nel 1943. Era una donna straordinaria». In Campo de’ fiori, di Mario Bonnard, la Magnani fa coppia con Aldo Fabrizi, all’epoca grande sodale di Federico. Il “team”, si ripropone nella pellicola immediatamente successiva, L’ultima carrozzella, di Mario Mattoli. A consegnarci un ritratto intimo della grande attrice è il film documentario La passione Anna Magnani, scritto e diretto dal documentarista Enrico Cerasuolo (produzione Les Film du Poisson, Zenit Arti e Arté France in collaborazione con la Rai e Istituto Luce Cinecittà) che ha scelto non a caso, per uno dei momenti di apertura, una scena da Il miracolo (1948), episodio del film L’amore di Roberto Rossellini, da una idea di Fellini, che vi compare nella parte di attore protagonista al fianco della Magnani. Lei è una pastorella stralunata, lui un vagabondo che la donna scambierà per San Giuseppe. Nella lunga intervista alla Chandler Fellini afferma che «Il miracolo si basava su una storia che avevo sentito da bambino», e precisamente «un fatto vero successo a Gambettola». Ma, continua il regista, «dissi che era un racconto di un grande scrittore russo». Il regista riminese racconta anche di come accadde che Rossellini gli fece tingere i capelli di biondo. Un aneddoto che anche Rossellini - come ha potuto constatare Cerasuolo nel suo lavoro di ricerca per il film sulla Magnani - raccontò anni dopo al regista e autore televisivo Giulio Macchi: «Amici 138

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come eravamo ci siamo divertiti a fare così… l’ho fatto tingere di biondo. Siamo andati a Napoli da un parrucchiere per signore, si è tinto i capelli di biondo, non poteva neanche più circolare per la strada, lo chiamavano Rita Hayworth». Dopo Il miracolo passeranno parecchi anni prima di un nuovo incontro professionale tra Nannarella - che invece fu protagonista insieme alla Masina del film Nella città l’inferno di Castellani - e Federico Fellini. É il grande epilogo, con il film Roma (1972). Come non volere proprio lei, la Mamma Roma di Pasolini, la grande interprete diretta da tanti maestri del cinema (tra gli italiani da ricordare anche Visconti), a chiudere quella pellicola così incentrata sulla romanità? «No, non me fido ciao. Buonanotte!»: sono le ultime parole che l’attrice pronuncia rivolta a Fellini, con la macchina da presa che la segue mentre rientra nella sua abitazione. É anche l’ultima immagine che vedremo dell’attrice sul grande schermo: morirà infatti nel settembre del 1973. «Ho utilizzato quella scena nel mio documentario dopo il racconto dei funerali» spiega Cerasuolo, che nel suo film ha inserito anche spezzoni di interviste a Fellini prese dalla serie di documentari Rai (trovati rovistando nelle Teche) Anna Magnani: l’attrice, la donna, il mito di Alfredo Giannetti. La scelta è caduta su alcune dichiarazioni di Fellini riguardo al carattere della grande attrice e alle proprie difficoltà a relazionarvisi: «Devo confessare che a me per molto tempo Anna mi dava soggezione» affermava Fellini, riconoscendo però che quel comportamento 139

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dell’attrice era più che altro una difesa, perché in realtà «conoscendola ti accorgevi che era proprio il timore di una bambina spaventata, il timore di una ragazzetta così un po’ selvatica che reagiva a certi complessi o a certe paure con questa compensazione in eccesso di arroganza, strafottenza, diffidenza». E questo può forse spiegare perché tra Il miracolo e Roma Fellini e la Magnani non lavorarono insieme. Del resto è lo stesso Fellini a raccontare quanto fosse stato complicato convincere Nannarella a partecipare, seppure con un cameo, al film Roma. Anche in questo caso le dichiarazioni provengono dalla serie di documentari di Giannetti e sono da quanto se ne sa inedite. «Ci sono voluti mesi di appuntamenti, incontri, colloqui - rivelava Fellini all’intervistatore - La prima volta ha ascoltato con moltissima diffidenza, è avvenuto a casa sua, seduta sulla poltrona, spettinata, fosca, diffidentissima». Al primo tentativo il regista le propone di riprenderla durante «una passeggiata con noi stessi cinematografari». Quindi prova invano con una scena «in trattoria, con i tuoi amici come fai certe volte e forse canti una canzone romana», e rilancia con «solo una immagine di te alla finestra di un palazzetto antico, tu guardi da lontano». Risposta: «Non mi piace». Scartata anche l’inquadratura dell’attrice «dentro la macchina con i tuoi cani, si intravvede per un attimo il tuo volto scontroso, severo». «Solo alla fine - conclude Fellini - quando ho avuto la ideina di inquadrarla quando se ne torna a casa, riuscii a convincerla». 140

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Meri Lao, le sirene e l’ironico inno femminista

Lui disse di lei: «È una sacerdotessa». Lei disse, anzi scrisse, di lui: «A Federico Fellini mostro che mostra e mostrifica, Sirena egli stesso». Federico Fellini e Meri Lao si conobbero quando lui stava lavorando a La città delle donne, film sul femminismo, nel femminismo, sul «femminile maschile». Film dalla lunga gestazione (quattro anni), che generò scompiglio tra i movimenti femministi. Uscirà nelle sale nella primavera del 1980. «Io non posso fare un film femminista, posso soltanto rappresentare le fantasie di uno simile a me, di un maschio della mia generazione, su questo nuovo e conturbante mondo femminile, che il femminismo rappresenta» spiegò Fellini in una intervista a Lietta Tornabuoni. La città delle donne è il primo film di Fellini senza le musiche di Nino Rota, stroncato da un infarto il 10 aprile del 1979. Una grave perdita per il Maestro: se ne andava il più fedele dei collaboratori, un amico. Per la colonna sonora arriva l’argentino Luis Bacalov. Ma non tutte le musiche del film sono sue. Un brano, in particolare, che accompagna uno dei momenti più “baccantici”, allegri, canzonatori, del film 141

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non lo è: Una donna senza uomo, testo e musica di Meri Lao (Milano 1924 – Roma 2017). Il testo è una apoteosi del nonsense dai toni burleschi. Abbinato alla musica, un tango congo, si trasforma in una filastrocca divertente e ironica: «Una donna senza uomo è…» è il refrain della canzone, che si sviluppa in una serie di strofe con similitudini senza senso: «è come un naso senza officina, un capitombolo senza la mitria, un dizionario senza benzina, un parafulmine senza la cipria... un perizoma senza pignatta, un pipistrello senza culatta, un pomodoro senza ciabatta, un purosangue senza cravatta. Una donna senza uomo è un paralume senza bagnino...». Delizia da ascoltare, basta cercare su You Tube. «Meri Lao fu una donna straordinaria. Per La città delle donne di Fellini scrisse questo ironico inno femminista e alcuni dei dialoghi delle femministe. Ma il suo contributo al film non è stato riconosciuto, tutti i diritti delle musiche furono ascritti a Bacalov, mentre Una donna senza uomo si sarebbe meritata una vita propria» lamenta l’antropologa Patrizia Giancotti, che di Meri Lao fu oltre che studiosa grande amica. Meri Laro nacque nel 1928 a Milano, da genitori italiani, anarchici: la volevano chiamare Giustizia e Libertà ma in pieno fascismo non fu proprio possibile. La chiamarono America, da cui il nome Meri. I genitori si trasferirono in Argentina, dove Meri trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Studiò musica, conobbe Pablo Neruda e nel 1949 si sposò con un ex ufficiale della Marina, Folco Lao. Negli anni 142

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Cinquanta se ne andò sola a Parigi, per continuare a suonare, quindi si trasferì a Roma, dove nacque il figlio Curzio. Nella Capitale insegnerà al Liceo Virgilio. Si definiva cantattrice. Fu anche insegnante di yoga, tanto che per La città delle donne Fellini la utilizzò anche in questa veste, oltre che come comparsa. Scrisse numerosi libri, tra cui Donna canzonata, sui cliché femminili nelle canzoni. E coniò il termine Musica strega (altro titolo di un suo libro): per indicare «la ricerca di una dimensione femminile della musica» disse in una intervista. «Divenne celebre nel mondo femminista, soprattutto dopo la pubblicazione di Donna canzonata» ricorda Patrizia Giancotti. Come si conobbero Mari Lao e Fellini? «Mentre stava preparando La città delle donne Fellini lesse su un settimanale una intervista a Meri sul canto femminile e femminista. All’epoca Meri gestiva un laboratorio di vocalità e gestualità al femminile. Ogni donna indossava una calzamaglia di un colore diverso e sceglieva una vocale, come nella poesia di Rimbaud Voyelles (Vocali). Fellini andò ad assistere a questo rito collettivo, questo mantra in cui le donne si muovevano al suono di vocali che fungevano come da pedale, e decise di coinvolgere Meri nel film». Perché poi il ruolo di Meri Lao nella colonna sonora non fu riconosciuto? «Non fu certo per volontà di Fellini, che forse di queste cose non si interessava. Quel che è certo, questo mancato 143

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riconoscimento fu un grande rammarico per Meri che chiese anche a Milva di cantarla, così come ad altre interpreti, ma risultò sempre impossibile». In seguito alla collaborazione per La città delle donne Fellini e Meri Lao continuarono a frequentarsi, nacque una grande amicizia. Cosa li legava? «Le sirene soprattutto» Le sirene? «Sì. Fellini parlava con Meri di musica, di miti femminili, ma anche dei suoi sogni. All’epoca Meri già si occupava di sirene e inventarono un gioco. Lui le faceva delle domande a cui lei doveva rispondere da sirena. Meri Lao è diventata la più grande esperta di sirene a livello mondiale. Ha scritto numerosi libri sull’argomento e il primo lo dedicò a Fellini “mostro che mostra e mostrifica, sirena egli stesso”. Lei riconobbe in Fellini qualcosa di sirenesco, quella sirena che lui cercava in lei… Del resto è vero, anche lui è sirena: ha il suo canto che fa cambiare rotta, e in lui, nei suoi film, c’è l’enigma».

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Mina, la terza musa mancata dal Mastorna al Satyricon

L’aveva disegnata, l’aveva sognata. L’aveva «corteggiata» per averla come attrice: doveva essere la moglie di Trimalcione, in Satyricon. Ma ancor prima Fellini aveva pensato a lei per il ruolo della hostess Beatrice nel Viaggio di Mastorna, il film mai realizzato cui aveva iniziato a pensare tra il 1964 e il ‘65. Mina musa di Federico Fellini. La tigre di Cremona però, dopo abboccamenti, tentennamenti, disse di no. «Il vero cinema per una forma di pudore non ha mai voluto farlo» ha spiegato in anni recenti il figlio Massimiliano Pani. Eppure l’occasione per dirigere Mina - 80 anni compiuti a marzo 2020 - era stato lo stesso Fellini a farsela sfuggire: rifiutando di realizzare i Caroselli della pasta Barilla che gli furono proposti a metà degli anni Sessanta. Li diresse al posto suo Piero Gherardi, che di Fellini era stato in quegli anni scenografo e costumista per La dolce vita, 8½ – per entrambi i film conquistò l’Oscar per i migliori costumi - e per il successivo Giulietta degli spiriti, primo lungometraggio a colori di Fellini, spumeggiante anche questo per i costumi. 145

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I fili che legano Fellini e Mina però non si spezzano del tutto. Gherardi per alcuni degli spot utilizzò le location che aveva individuato insieme a Fellini per il Viaggio di Mastorna, progetto che in quel periodo si era appena incagliato una prima volta. E realizza per i Carosello dei mini film in cui Mina canta e infine invita a comprare la nota pasta: a rivederli oggi si rivelano piccoli gioielli. Qualcuno li ha definiti anche «felliniani». Una casa in cima al mondo, fu girato nel paesaggio metafisico (già peraltro utilizzato da Fellini per Le tentazioni del dottor Antonio) dell’Eur. Si apre con l’inquadratura di un enorme cavallo bianco in travertino. Mina entra in scena vestita con un abito nero con corpino bianco che si innalza a forma di calla. Caroselli e descrizioni si possono trovare on line sul sito dell’archivio storico della Barilla. I primi furono realizzati nel 1966. Fellini era all’epoca, per sua stessa ammissione, fuori gioco. «Uno dei motivi che impedirono la realizzazione del Mastorna - riferì a Charlotte Chandler - fu la mia malattia del 1966. Forse mi ammalai perché avevo paura di fare quel film o sentivo di non esserne all’altezza. Gli scenari erano stati allestiti, la gente era stata assunta, i soldi erano stati spesi, ma io non me la sentivo di andare avanti». Agli inizi del 1967, racconta ancora, «mi trovai in una stanza d’ospedale, convinto d’essere mortalmente malato». Siamo quindi nel 1968 quando Fellini pensa di nuovo seriamente a Mina, questa volta per il ruolo in Satyricon. Mina stessa deve averci creduto ma quando iniziano le 146

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riprese la cantante nel cast non c’è. Al suo posto ci sarà l’attrice Capucine che verrà truccata e vestita come Fellini aveva previsto per Mina. Il 14 dicembre 1968, durante una puntata di Canzonissima, condotta da Mina e Walter Chiari, la Rai si collega in diretta con il set del Satyricon durante le riprese del crollo di Suburra. Fellini sembra fare un ennesimo tentativo (il filmato lo si trova sul web) per trovare un accordo, ma si nota anche un certo imbarazzo tra i due: «Forse Mina se riusciamo a metterci d’accordo per le date sarà una dei protagonisti del film - dichiara al microfono di Lello Bersani - Ho molta ammirazione e stima per lei, anche nel Viaggio di Mastorna doveva fare una parte». E si fa scappare, rivolto direttamente a lei, collegata dallo studio di Canzonissima, che «è difficile incontrarci, spero riusciamo a parlare almeno una volta per telefono». Ma tutto sfumò. Dissolvenza. E pensare che Mina avrebbe dovuto essere la terza Musa di Fellini, dopo la Ekberg e la Milo. Come Fellini avesse immaginato Mina nei suoi film lo documentano due disegni che fecero parte di una mostra, nel 2011, ospitata in una villa sul lago di Como. La cantante - voce unica, negli anni sempre più sex symbol anche scandalosa e audace - fu inoltre protagonista di uno dei tanti viaggi onirici che Fellini aveva iniziato da qualche anno a trascrivere e che sono andati a comporre il Libro dei sogni. Il sogno è del giugno 1967. Mina vi appare fasciata in un vestito a righe, la chioma nera, ha un aspetto rassicurante, è affiancata da una bambina che Fellini 147

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descrive come «la sorellina di nove anni» della cantante. La ragazzina ha in bocca una sigaretta e «spipetta spudoratamente»: già un indizio, forse, di qualche turbamento?

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Anna Giovannini: il ritratto dell’amante

Marina Ceratto Boratto è appassionata. E ne La cartomante di Fellini (Baldini+Castoldi, 2020) riversa tutta la sua fascinazione, tutto l’incanto, il riverbero immortale, che le ha lasciato la fortunata circostanza di avere conosciuto di persona Federico Fellini. Nel raccontare dell’uomo, del genio, l’amico, ci mette perciò tutta l’enfasi del caso, tutto quel tono dei discepoli folgorati, nel bene e nel male, sulla via del Maestro. Del resto se nella vita hai incontrato The Big, il Faro, il Mago, come lo chiamavano, non puoi controllare quell’urgenza che ti assale di tradurre quella straordinaria esperienza in testimonianze verbali. Un vangelo secondo Marina - Marina Ceratto, figlia della diva degli anni Trenta Caterina Boratto che Fellini fece di nuovo rifulgere in 8½ e Giulietta degli spiriti - è allora diventata quest’opera che nella cerchia degli adepti del Maestro in molti hanno subito venerato. Accolto con immancabili «brava», che ritratto «fluviale e appassionato», «da non perdere», il suo La cartomante di Fellini è una lunga confessione (quasi 500 pagine), un ritratto pubblico e privato del Maestro, ma anche un’autobiografia (l’autrice entrò nella cerchia di Fellini dall’età di 16 anni, prese parte 149

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al film Block-notes di un regista e fu sul set del Satyricon) che ha tra i pregi quello di squarciare, in maniera così pubblica e circostanziata, il velo dell’ipocrisia intorno a certi aspetti della vita privata di Fellini. Quelli che spesso restano relegati al sottovoce, al gossip, spazzati via dalla narrazione dominante del «Federico e Giulietta» amanti perenni, in un mix tra Cico e Pallina (i personaggi radiofonici attraverso i quali avvenne l’incontro della futura coppia Fellini/Masina) e i felici amanti di Love is… E invece... Marina Ceratto Boratto dedica un intero capitolo all’Innominata o quasi dalle biografie, ovvero a quella Anna Giovannini che fu amante del regista riminese per ben 37 anni. Non la Sandra Milo che pure, e giustamente, continua a rivendicare quel magnifico love affaire andato avanti per oltre tre lustri sopra e sotto le lenzuola e pare anche con gran soddisfazione (che poi certi ricordi te li porti appresso, e ancora oggi si nota con quanta goliardia dalla ultraottantenne Sandrocchia). No, l’Anna Giovannini fu un’altra storia. E finalmente qualcuno (anzi qualcuna) e per esteso, la racconta: da testimone. «Sembrava uscita da un calendario degli anni Trenta, una signora Grandi Firme dalla voce avvolgente e melodiosa, la voce che hanno gli angeli»: così Marina Ceratto Boratto la descrive nel capitolo che le dedica nel libro. Anna Giovannini e Federico Fellini si conobbero nell’estate del 1956. Lei faceva la fotografa e non sapeva 150

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chi lui fosse. «Aveva una pelle trasparente, simile a quella di mia madre e gli occhi turchini come di un mare in tempesta» la ricorda la Ceratto Boratto. «Grandi fianchi, caviglie sottili, polpacci decisi e seno generoso» era di una «femminilità un po’ demodé»: anche la voce faceva pensare al personaggio di Carla interpretato dalla Milo in 8½. L’autrice de La cartomante di Fellini la conobbe «grazie al mio sesto senso», entrando un giorno per caso in quella farmacia a Roma dove la donna lavorava in quel periodo. Era cresciuta a Trento, ma era forse di origini istriane: «quando si accennava alla sua infanzia diventava misteriosa». Aveva una figlia, cui «Fellini all’inizio voleva molto bene». Poi i rapporti si deteriorarono. Ma lei, Anna Giovannini, era la sua Paciocca, la sua Pavoncina. Cosa amava Fellini in lei? «Era una donna all’antica», che emanava «un tipo di sessualità materna e meno minacciosa di quella intravista nei suoi terrori infantili o adolescenziali». Era diventata amica dei Boratto e andava a fare acquisti nella boutique che l’ex diva aveva aperto a Roma e che era però frequentata anche dalla Masina. Chissà che non vi fosse sotto il desiderio inconscio del Maestro di un incontro tra le due, come già aveva immaginato nel film capolavoro del 1963.

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I sogni, gli spiriti, i fumetti

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I sogni a fumetti di Fellini dai cassetti alla rivista Il Grifo

«Caro Fellini, fa bene lei a stare dalla parte dei sogni, bisogna essere dei sogni come si è di un paese, tu di dove sei? Sono dei miei sogni». Era piaciuta molto a Federico Fellini la lettera sopra i suoi sogni scritta dallo scrittore Daniele Del Giudice per lo speciale numero della rivista Il Grifo del settembre 1991. Era quello il sesto numero su cui venivano quell’anno mensilmente pubblicati I sogni di Fellini. Ne comparvero una quindicina, disegni e testi, da aprile a dicembre. Non si trattò però di una semplice trascrizione, quanto di una elaborazione che lo stesso Fellini operò sui testi, tirando fuori dai cassetti i due volumi del cosiddetto Librone dei sogni, dove a partire dal 1960 e quasi ininterrottamente fino al 1982 aveva disegnato e scritto il contenuto dei propri viaggi onirici notturni (ora ripubblicato da Rizzoli). Artefice dell’iniziativa fu il giornalista Vincenzo Mollica, che della rivista Il Grifo, fondata nel 1989 con l’editore Mauro Paganelli, ne era il direttore. La sua amicizia con Fellini era sbocciata nel 1978. La passione per i fumetti li 155

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accomunava. Fu incrocio di destini. Mollica, come nacque l’iniziativa di pubblicare i sogni di Federico Fellini su Il Grifo? «Quando nacque Il Grifo chiesi a Federico se avesse voglia di collaborare alla nuova rivista. Il fumetto è un’arte era lo slogan con cui ci eravamo presentati. Lui ci pensò un po’ su, poi mi disse: “Mi è venuta un’idea: mi è venuta voglia di pubblicare qualcuno dei miei sogni”. Fu così che mi diede i due volumi del Libro dei sogni dicendomi di portarmeli a casa e scegliere quelli che potevano interessare». Fu un grande gesto di amicizia e di fiducia. Lei cosa pensò quando vide quei libri? «Li lessi e rimasi incantato. Si favoleggiava già tanto su quei volumi. Capii che quello era il suo Codex da Vinci, nel Librone dei sogni c’era tutto Fellini». Non li aveva mai fatti pubblicare i suoi sogni prima di allora? «In realtà Fellini aveva dato un proprio sogno nel 1972 alla rivista Play Boy. Altri sogni li aveva pubblicati su una rivista di Oreste del Buono a cui collaborava Lietta Tornabuoni e che si intitolava tra l’altro Dolce vita. Per Il Grifo però decise di fare una cosa mai fatta prima. I sogni alla fine li scelse lui. Io indicai quelli che mi piacevano e in gran parte coincidevano. Uscirono come fossero una rubrica tutta sua che volle intitolare Il Librone dei sogni, successivamente però il titolo fu cambiato ne I sogni di Fellini». 156

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La cosa interessante in effetti è che ne fece una elaborazione, anche di valore letterario. In alcuni casi elaborò una interpretazione, come se a distanza di anni volesse nuovamente analizzarli. «Decise tutto lui, fin nel dettaglio. Quando andavamo a cena ne faceva addirittura l’impaginazione sui tovaglioli dei ristoranti: li conservo ancora. Nella parte scritta si inventò la figura del professore che analizza il suo sogno». Sembra quasi prefigurare quello che farà poco dopo con le storie per gli spot realizzati per la Banca di Roma, non trova? «Infatti. Gli spot furono successivi ed è vero, ci sono delle somiglianze». Nel numero di settembre de Il Grifo inseriste un vero e proprio dossier dedicato a Fellini, Fellini sognatore: oltre alla rubrica I sogni di Fellini conteneva una lettera di Daniele Del Giudice e una serie di illustrazioni realizzate per l’occasione da diversi artisti: da Schifano a Manara, Crepax, Echaurren... «Avevo chiesto a fumettisti e scrittori di realizzare un omaggio a Fellini attraverso proprie opere che interpretassero la materia dei sogni. In seguito sono confluite nel libro Fellini sognatore. Del Giudice scrisse una lettera, che pubblicammo, che piacque moltissimo a Fellini. Era uno degli scrittori che amava di più in assoluto, me lo presentò lui stesso, invitandomi alla lettura di Lo stadio di Wimbledon, suo primo romanzo, e Atlante Occidentale». 157

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In quel numero de Il Grifo c’è anche un disegno di Andrea Pazienza che raffigura Lo sceicco bianco, realizzato nel 1984. All’epoca Pazienza era già morto, per Fellini aveva realizzato il manifesto per La città delle donne. In quale occasione aveva fatto quel disegno? «Fu per la prima mostra che organizzai su Il fumetto e il cinema di Fellini agli inizi degli anni Ottanta. In quell’occasione tra l’altro Fellini conobbe Milo Manara, gli piacque e di lì si concretizzò il progetto di Viaggio a Tulum a fumetti che uscì a puntate su Corto Maltese nel 1989». Con Manara poi Fellini realizzò anche Il viaggio di G. Mastorna a fumetti, pubblicato nel 1992. Come andarono le cose? «Mi diede la sceneggiatura del Viaggio di Mastorna per farne un fumetto, che uscì sul Il Grifo con il titolo Il viaggio di Mastorna detto Fernet. Il lavoro di preparazione fu molto impegnativo. Io facevo da “corriere”: mandavo i fax a Manara di quello che Federico faceva. Il fumetto si doveva sviluppare in tre puntate ma quando uscì la prima puntata comparve in fondo per sbaglio la parola FINE. Fellini che era scaramantico disse che era meglio farlo finire lì. Del resto già in quella prima puntata c’era tutta la sintesi del Mastorna (che aveva il volto di Paolo Villaggio, ndr)».

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Prima il film scritto nel 1965 ma mai realizzato poi la versione a fumetti che si interrompe. Fellini continuò ad essere scaramantico in relazione a quel progetto... «Ma in realtà negli ultimi anni Fellini pensava di completare la versione a fumetti del Mastorna, facendola uscire con altre due piccole storie a fumetti. Aveva in mente di fare un libro con altri due trattamenti. Uno lo aveva già scritto, si intitolava Grand Soirée…»

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In quei sogni su carta una centrale nucleare di idee

«Che cos’è il Libro? É più facile dire che cosa non è. Non è un diario. Non è un romanzo. Non è un comic book. Non è lo storyboard di un film. Non è una silloge di racconti, né una sintesi pittorica. É tutte queste cose insieme ed altro ancora». Già Tullio Kezich avvertiva. Le sue parole, nella prima edizione (datata 2007) del Libro dei sogni di Federico Fellini, restano scolpite nel Librone tornato in libreria, ancora edito da Rizzoli, in collaborazione con il Comune di Rimini. Il testo dell’amico e biografo di Fellini è mantenuto e collocato, insieme a quello di Vincenzo Mollica, nell’ultima parte del nuovo volume. Un tomo (560 pagine, in formato 24x34 cm), arricchito di un apparato critico selezionato dal curatore Sergio Toffetti - i testi portano le firme di Lina Wertmüller, Gian Piero Brunetta, Filippo Ceccarelli, Simona Argentieri, Milo Manara, - che eleva la portata e il ruolo di questa raccolta sui generis di contenuti onirici (oggi custodita nel Museo della Città di Rimini, ma destinata al futuro Museo Fellini), che non trova precedenti nella diaristica, nella storia del disegno, né, probabile, in quella della psicoanalisi. «L’opera di Federico Fellini non potrebbe dirsi completa 160

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senza questo Libro dei sogni» si legge nella Prefazione firmata, oltre che dal curatore Toffetti, anche dal direttore della Cineteca di Bologna Gianluca Farinelli e dal presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia Felice Laudadio. Voluta per il Centenario della nascita del regista, in parallelo al progetto di restauro dei film, la nuova edizione del Libro dei sogni ridà vita e “leggibilità” ad un volume (in realtà due manoscritti) che per anni è apparso un po’ come il monolite che apre l’Odissea 2001 di Kubrick. Come leggerlo? Come decifrarlo? Da che parte guardarlo? Quando fu dato alle stampe per la prima volta, nel 2007, fu immediatamente evidente che ci si trovava di fronte a qualcosa di unico ed “esplosivo”. Bastava scorrere tutte quelle immagini, i disegni: quel profluvio di schizzi, colori, figure, donnone, nudi, amplessi. Ancora le donne. Sempre le donne. Come se tutto Fellini fosse lì, in quell’ossessione. E fu altrettanto forte la sensazione di avere tra le mani qualcosa di così intimamente privato da sentirsi come guardoni dal buco della serratura. E invece no. Quello che si offre al nostro sguardo, come ci avverte nel suo contributo la psicoanalista Simona Argentieri, non è tanto materiale utile a «una indiscreta analisi» dell’anima del suo autore, quanto ad osservare il «processo creativo» dell’artista. Stabilito tra l’altro, con Freud, che l’architettura del sogno è sempre anche una forma di «messa in scena». Lo stesso Fellini, che in una intervista alla testata francese L’Express parlando di Simenon definì in generale l’artista 161

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come «colui che stabilisce un rapporto personale» con un «magma fantastico», doveva avere ben chiaro come il lavoro onirico si prestasse ad essere componente di rilievo di questo magma. Seguendo Gian Piero Brunetta, il Libro dei sogni ebbe allora un «ruolo di centrale creativa e nucleare» all’interno del «mondo del regista». Un «mondo perfetto e autosufficiente», cui lo storico del cinema dà il nome di Fellinia, in cui il Maestro «trasloca a partire dalla Dolce vita». Fu proprio all’indomani dell’uscita del film che gli valse la Palma d’oro a Cannes (nel 1960) che Fellini iniziò «a scrivere e illustrare i Libro dei sogni». Aveva quarant’anni e su indicazione dello psicanalista Ernst Bernhard aveva iniziato a trascrivere le proprie visioni notturne. Una produzione onirica così «strabordante» da mettere persino «in scacco», ci dice ancora Simona Argentieri, il processo dell’interpretazione psicoanalitica. Immergersi in questo mondo, dunque sorta di specchio rifrangente della «poetica» dei film successivi a La dolce vita, e dove un po’ come nei film fa capolino una geografia nata «dall’innesto della pianta dell’Urbe in quella di Rimini», richiede di farsi palombari in cerca di un avvistamento di segnali sommersi. Tra segni e segnacci, scrittura fitta in corsivo o graffiate di stampatello, disegni di uomini, animali, aerei, treni, letti, apparati genitali, si scopre ad esempio che il nome più citato è quello di Giulietta: fatina 162

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o grillo parlante (ma anche moglie morente). Dominano le figure femminili, l’Anitona, la Sandrocchia, ma anche gli amici, i collaboratori, gli artisti come Picasso o Simenon. Il pianeta Fellinia, certo. Miscuglio straordinario di realtà e immaginazione, immaginazione e realtà. Neppure le «fantasie politiche» di Fellini possono passare inosservate. I sogni politici di Fellini si intitola, solo all’apparenza con un certo azzardo, il testo a firma del giornalista Filippo Ceccarelli. A tema, le incursioni notturne più o meno frequenti che portano ad un “rosario” di nomi eccellenti, di veri e propri protagonisti della vita politica dell’epoca che oggi chiamiamo Prima Repubblica: da Agnelli, a Leone, da Fanfani a Ugo La Malfa… Seguendo il filo interpretativo indicato dallo studioso Andrea Minuz nel suo volume sul valore politico per lungo tempo negato dalla critica - del cinema di Fellini, «la sensazione - rileva Ceccarelli - è che anche nel laboratorio inconscio di Fellini stiano venendo al pettine, in forma di stralunata irrequietezza, i nodi di un Paese che stava facendo i conti con la modernizzazione e il suo arcaico passato». Dove il filo che si annoda è quello con il Pier Paolo Pasolini profeta di una funesta mutazione antropologica. Salvo che Fellini, «non avendo la vena moralista di Pasolini» osserva il curatore del volume, con quella profezia «ci gioca». E, finché gli è possibile, vola.

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L’anima di Pasqualino è l’anima di Federico

Testa ovale, tre ciuffi di capelli, un naso a patata e il fisico smilzo. E poi una cronica insicurezza. Così si presenta Il mio amico Pasqualino, personaggetto che esce dalla fantasia del Fellini poco più che ventenne. Un buffo alter ego, protagonista di un racconto, accompagnato da 12 vignette, che vide la pubblicazione per la prima volta, si ipotizza, tra il 1942 e il 1946. Lo scoprì anni fa il libraio romano Giuseppe Casetti rovistando una domenica al mercato di Porta Portese. Si trovò tra le mani «un libricino modesto, con la copertina rosa un po’ stinta». Titolo e autore: Il mio amico Pasqualino di Federico. In quegli anni il futuro regista si era già conquistato una certa notorietà lavorando come umorista e vignettista per la rivista Marc’Aurelio dove si firmava spesso semplicemente come Federico. Tra l’aprile del 1939 e il luglio del 1943 il giovane Fellini scrisse per il Marc’Aurelio circa 790 racconti brevi, fortemente autobiografici, raccolti in rubriche che riscuoterono un certo successo: da Ricchettino bambino qualunque a Secondo Liceo, Primo amore, Come si comporta.., Ma tu mi stai a sentire?. Entrato a far parte della redazione 164

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diretta da Vito De Bellis, dove lavoravano firme importanti all’epoca come De Torres, Steno, Metz, Attalo, De Seta, Marchesi, Fellini fu anche autore di numerose vignette umoristiche. Ma veniamo a Pasqualino. Il libretto scritto da Federico Fellini è stato ristampato in copia anastatica nel 1997 dall’allora Fondazione riminese, direttore Gianfranco Ang elucci. Fu anche org anizzata una mostra, accompagnata da un volume che a tutt’oggi resta una delle fonti più preziose per ricostruire la carriera di vignettista e umorista di Fellini. Sia il libro che la mostra furono a cura di Giuseppe Casetti e di Rossella Caruso. Nel suo testo introduttivo, Angelucci collega Il mio amico Pasqualino ad una «plausibilissima occasione ispirativa» di cui hanno dato testimonianza Rinaldo Geleng ed Enrico De Seta: la lettura, che aveva entusiasmato Fellini, de La metamorfosi di Kafka. Lo scritto rivela una «inquietudine visionaria» che fa pensare che il giovane Fellini possa avere preso a modello proprio il capolavoro dello scrittore praghese. Di sicuro, come nota ancora l’ex direttore della Fondazione e collaboratore del regista, il testo - composto da 13 racconti intorno a diversi momenti di una giornata appare come un condensato di temi felliniani e contiene «molteplici suggestioni che andranno a nutrire i suoi film». «Una volta, lo conoscevo allora da qualche giorno soltanto, Pasqualino mi disse di aver fatto uno strano sogno». Inizia così Il mio amico Pasqualino. E se non fosse indubbia la 165

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collocazione temporale tra periodo bellico e primo dopoguerra, verrebbe da pensare ad uno scritto più maturo, quando il regista, a seguito di una profonda crisi, iniziò quel percorso psicoanalitico che lo portò non solo a trascrivere costantemente i propri sogni in quello che diventerà il Libro dei sogni, ma a nutrire in generale un profondo interesse per la sfera onirica. L’autobiografismo, altra costante felliniana soprattutto da 8½ in avanti, è un altro elemento da ritrovare nel breve racconto. «Quanta parte di se stesso ha messo Fellini nel ritratto del suo amico Pasqualino? Una parte non piccola, credo»: l’osservazione è di Beniamino Placido, chiamato nell’estate del 1997 da Angelucci a scrivere una introduzione alla ristampa del libro. Arguto intellettuale, Placido vedeva nei tredici racconti definirsi un «ritratto comico-grottesco-esistenziale» dello stesso Fellini. Il giornalista e critico letterario vede nel personaggio di Pasqualino proprio una di quelle figure che appartengono alla «genìa degli esclusi» di cui ha dato esempi di massimo grado tra quelli letterari lo scrittore triestino Italo Svevo. Certi momenti, se non interi episodi, sembrano «già una sceneggiatura, felliniana» osserva ancora Placido. Il riferimento è in particolare al Capitolo VII, in cui si narra dell’incontro, in una «casa chiusa», con una prostituta: «Dalla lampada pende un asciugamano sporco e sfrangiato, la coperta è unta e piena di buchi… Accanto alla spalliera di ferro smaltato uno straccio grigio». Ci troviamo in una stanza «nuda. Tristissima». Da qualche parte «giungono risa 166

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sguaiate». Entra in scena il protagonista e già lo vediamo «straniato»: «Pasqualino fissa la sua cravatta (perché gli sembra tanto lontana?) che scivola lentamente dall’attaccapanni su di una vestaglia rosa...». Dialogo: «Come hai detto che ti chiami?» - «Carmen». «Ha la voce roca. Sulla schiena un livido azzurro...». Sembra come materializzarsi la scena di un film, preceduta poco prima dall’immagine di un dettaglio in primo piano: «in un angolo una mano gira un rubinetto e l’acqua scorre nel lavabo». Nella vignetta disegnata da Fellini per questo episodio la prostituta è una donna corpulenta. Affatto aggraziata e seducente come invece appare la ragazza che Pasqualino tenta goffamente di abbordare nel Capitolo IV: ha «due seni rosa, meravigliosi fianchi di velluto, un collo morbido, pieno di calore, di ombre…». Come ha notato Giuseppe Casetti, gran parte dei capitoli de Il mio amico Pasqualino coincidono «quasi del tutto con i racconti brevi del Marc’Aurelio» da cui quindi Fellini pare abbia attinto a piene mani. Anche le «fattezze» dei personaggi del libro, a iniziare dal protagonista, le ritroviamo nelle vignette pubblicate da Fellini sulla rivista satirica. Pasqualino, osserva inoltre Casetti, «somiglia un po’ nell’aspetto, non nel carattere, a Braccio di Ferro, ma il nostro eroe deve adattarsi al mondo senza gli spinaci e i muscoli dell’ingenuo e rissoso marinaio, perché l’anima di Pasqualino è l’anima di Federico». 167

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Il mago, lo psicanalista e Buzzati. Ecco il Fellini degli spiriti

«Federico Fellini è attualmente in Italia la persona più carica di misteri». Era l’agosto del 1965 e così scriveva Dino Buzzati, in un reportage per il Corriere della sera che confluirà nel volume I misteri d’Italia. L’anno prima, per preparare il terreno al nuovo film Giulietta degli spiriti, il suo 8½ al femminile, il maestro riminese aveva, insieme allo stesso Buzzati, «girato penisola e isole per oltre due mesi visitando i più strani o addirittura inverosimili personaggi, maghi, indovini, streghe, invasati, medium, astrologi, operatori metapsichici, depositari di occulte potestà». Eccolo, un abbozzo di ritratto del «versante esoterico» di Federico Fellini (cit. Valerio Magrelli). Nel profluvio di ritratti - per parole, per immagini, suoni, voci - occasionati dalla ormai imminente ricorrenza del Centenario della nascita, non potevano mancare quelli sul Fellini attratto da tutto ciò che è mistero, arcano, spirituale, inconscio. E del resto nell’impossibilità se non enormità del fare sintesi su un Autore che giganteggia nel secolo della messa in discussione dell’Autore, ogni voce, faro puntato, scheggia, andrà accolto come faccia necessaria di un mobile prisma. 168

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Così che si annuncia come opera appunto necessaria Fellini degli Spiriti, documentario di Anselma Dell’Olio - già collaboratrice per Fellini in Ginger e Fred - in fase di ultimazione. Il progetto, prodotto dalla Mad Entertainment di Luciano Stella e Maria Carolina Terzi e da Rai Cinema, con il sostegno del Mibact e la collaborazione di Regione Emilia-Romagna e Comune di Rimini, è frutto di un lungo lavoro di ricerca tra testimonianze e archivi (da quelli Rai all’Istituto Luce ad altri internazionali) portato avanti da una autrice già vista all’opera intorno ad un regista “irriducibile”, nel doc La lucida follia di Marco Ferreri (2017). «Con Anselma Dell’Olio abbiamo lavorato ad un sogno comune» spiega la produttrice Maria Carolina Terzi. Cos’è, cosa sarà, dunque, Fellini degli Spiriti? «Un lavoro sulle dimensioni della spiritualità in Fellini - anticipa Anselma Dell’Olio - Sarà un ritratto sui suoi interessi profondi, costruito con interviste e ricerche d’archivio». Il documentario indaga in profondità la passione di Fellini per quello che lui definiva, in breve, il mistero, l’esoterico, il «mondo non visto». L’incontro con la psicoanalisi, la frequentazione in particolare dello psicanalista junghiano Ernst Bernhard fu il detonatore, la miccia che fece aprire a Fellini porte di ingresso ai pozzi e miniere dell’irrazionale e del soprasensibile. Fu su sollecitazione di Bernhard che Fellini iniziò a trascrivere e disegnare i propri sogni, a scavare nel teatro del proprio inconscio e a comporre quello che oggi 169

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chiamiamo il Libro dei sogni di Fellini. Fu sempre Bernhard ad iniziarlo anche alla lettura dei Tarocchi e alla consultazione degli IChing. L’incontro con il pensiero junghiano fu qualcosa di straordinario: «É stato per me l’aprirsi di panorami ignoti ebbe a dire Fellini stesso a proposito della lettura di un saggio di Jung su Picasso - la scoperta di una nuova prospettiva da cui guardare la vita, la possibilità di fruire delle sue esperienze in modo più coraggioso, più vasto, di recuperare tante energie e tanti materiali sepolti sotto macerie di timori, inconsapevolezza, ferite trascurate». Un altro incontro decisivo, avvenuto durante la lavorazione di Giulietta degli spiriti, fu quello con il sensitivo torinese Gustavo Rol: «prima ancora di essere un mago» lo descrisse Fellini, è invece «un uomo meraviglioso, un’anima bella», con «una consistenza umana molto semplice, addirittura provinciale: fa l’antiquario, parla con una forte venatura dialettale, vive umilmente la vita di tutti». «È la testimonianza fascinosa e provocatoria di una trascendenza» dice di lui il Fellini raccontato da Buzzati. Tra le figure che attrassero l’attenzione del regista - che a metà degli anni Sessanta sperimenta sotto controllo medico anche Lsd - ci sarà tra le tante quella della cartomante Pasqualina Pezzolla, una sensitiva marchigiana che Fellini incontrò in compagnia di Buzzati, in un «salottino pieno di immagini sacre» nella villetta di Porto 170

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Civitanova Marche in cui viveva e dove si era sviluppato «un fenomeno tipo Lourdes», ricorda il biografo di Fellini Tullio Kezich. Che intorno a questi temi il rischio sia quello «di scivolare nell’incomprensione e addirittura nel ridicolo» ne era ben consapevole lo stesso Fellini, che già in una lunga intervista concessa nel ’65 a Renzo Renzi metteva infatti in guardia il suo pubblico. Poi però, con la sua grande arte di affabulatore si dilungava nel racconto degli incontri con maghi e sensitivi. Riuscendo a tratteggiarne ritratti vividi, come quello della Pezzolla, «un tipo di contadina che vive in una villetta presso Ancona, … una donnetta con una faccia che sembra Macario. Quando va in trance chiude gli occhi, si alza dalla sedia con uno strattone e viene avanti. La sua faccia, allora, si trasforma: dietro la pelle appare il viso aguzzo, ascetico, il mento appuntito di un monaco». La fascinazione per il mistero, le dimensioni ultramondane, influenzerà anche il lavoro di regista. «Mi pare proprio affermò nel 1964 intervistato per la rivista francese Planète che il cinema sia lo strumento più adatto a cogliere gli aspetti della realtà ultrasensibile che hanno carattere di visione». Sarà tra l’altro dopo la realizzazione di Giulietta degli spiriti, che prenderà corpo il progetto de Il viaggio di Mastorna, la grande incompiuta di Fellini, il racconto fantastico di un aldilà in cui si ritrova catapultato il personaggio del titolo, un violoncellista.

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Carte sparse: tra poetica e letteratura

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Roma, la Grande Madre e i film come balocchi

«Roma è diventata casa mia dal momento in cui l’ho vista. È quello il momento in cui sono nato. Quello è il mio vero compleanno. Se ne ricordassi la data, la festeggerei». Che sia tutto da rifare? Le celebrazioni, il Centenario... Eccolo Fellini, che ancora ci depista. Proprio mentre riprendono in ogni dove gli eventi, gli omaggi, le proiezioni, gli incontri dedicati al Maestro, all’ombra dei 100 anni, proprio come stiamo facendo noi del Corriere Romagna con questa rubrica settimanale, ormai da mesi... Lo rincorriamo, lo celebriamo e lui eccolo che ancora una volta ti spiazza: anche se certo lo sappiamo, è a Rimini dove nacque il 20 gennaio 1920, ed è all’infanzia, all’adolescenza, che poi sempre ancora e ancora ritorna, nei suoi film, nei ricordi. Amarcord. Ma altrettante volte Amarcord Roma, nel suo cinema. La città eterna, che «è diventata casa mia» (lo dice alla giornalista Charlotte Chandler con queste parole), è «consunstanziale» a Fellini a un livello non solo per così dire biografico, ma in relazione proprio alla sua poetica cinematografica: «Fellini appartiene a Roma, Fellini è Roma» scrive Marco Bertozzi, regista e docente di cinema, esperto di Fellini, in un saggio di una decina di anni fa, La città necessaria. Roma nella poetica 175

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felliniana (nel volume Roma nel cinema, Semar). Bertozzi è tornato più volte negli anni sul tema Fellini e Roma, vedendovi una sorta di «pantascopio in cui mirare, senza scatola e senza lenti, il circo della vita» (Lo sguardo e la rovina. Appunti per un itinerario su Roma nel cinema, in Roma nel cinema tra realtà e finzione, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema). «La poetica felliniana - scrive - sembra vibrare in onirica condivisione con Roma: medesime le categorie estetiche ridondanza, stratificazione, splendore, teatralità, sgretolamento - di esperienze “aperte” sul gioco (giogo) del senso». «Ma in realtà cos’è Roma per Fellini?». La domanda se la ponevano già critici e sodali del Maestro con lui in vita. Qui è Dario Zanelli, giornalista bolognese del Resto del Carlino, quasi coetaneo del Maestro e scomparso nel maggio di dieci anni fa. In un ampio articolo uscito il 17 marzo 1972 (ora nel Fondo Zanelli della Cineteca di Rimini) celebrava l’uscita del film Fellini Roma (nei cinema dal 16 marzo). Zanelli aveva visto la pellicola dedicata alla Capitale al cinema Arena del Sole di Bologna. Fellini: io e la Capitale, il titolo del servizio, definiva il nuovo film del regista romagnolo un «denso, penetrante, originalissimo diario di impressioni sulla Roma di ieri e di oggi». «Guardiamoci dal prendere il nuovo film di Fellini per una inchiesta» metteva però in guardia Zanelli sin dalle prime battute, definendolo invece «un ritratto soggettivo fino alla parzialità». E poi si poneva il quesito: e dunque Roma che 176

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cos’è? Già. Se Rimini è «un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, questo moto aperto del mare» - sono le parole dell’anima che usa il Maestro per definire la sua città Natale - Roma invece cos’è? «É una madre - prosegue Zanelli - come ha detto il regista al suo collaboratore per la sceneggiatura, Bernardino Zapponi, che ne dà conto nel nutrito, prezioso volume da lui curato per la collana di Renzo Renzi Dal soggetto al film; “ed è la madre ideale, perché indifferente”, ha soggiunto, col suo gusto del paradosso. “È una madre che ha troppi figli, e quindi non può dedicarsi a te, non ti chiede nulla, non si aspetta niente. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai, come il tribunale di Kafka…”. Non è, ad ogni modo, una madre santa». Se c’è una madre, c’è anche un bambino. Ed è Federico, il regista. Che crea i propri mondi. Che immagina la città ideale e la vede in Cinecittà. Una costruzione. Dove tutto si costruisce. E tutto si immagina. «Fellini, come Lucifero - ancora Zapponi - non accetta il mondo creato da Dio. Egli vuole farsene uno suo, a sua immagine e somiglianza. (…) C’è anche, in questo, il gusto bambinesco del possesso; dei giocattoli propri. Se un giocattolo non è suo, il bambino non si diverte; se non gli appartiene, deve farlo suo per forza. I film sono i grandiosi balocchi di Federico». I film dove Fellini ha “giocato” con Roma sono soprattutto quelli realizzati tra gli anni Sessanta e Ottanta: da La dolce vita, naturalmente, al mediometraggio Le tentazioni del dottor Antonio (ambientato in un Eur ricostruito in scala uno a 177

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sei), a Toby Dammit con le visioni allucinate del protagonista (l’attore Terence Stamp), per poi trovare una reinvenzione della Roma antica in Satyricon, ed infine, dopo Fellini Roma, l’urbe invasa dalle pubblicità in Ginger e Fred (con il nuovo direttore della fotografia Tonino Delli Colli) ed infine quella di Intervista. Senza dimenticare, negli anni Cinquanta, la Roma de Le notti di Cabiria (con Pasolini a fare da consulente) e de Il bidone. Ha “giocato” con la topografia felliniana romana, l’evento che si è tenuto in occasione del Centenario felliniano a Roma dove un gruppo di appassionati di moto d’epoca ha ripetuto il percorso della sequenza notturna della carovana di motociclette che chiude il film del 1972. Tre minuti in cui scorrono le immagini dei luoghi monumentali dell’Urbe, in una visione distopica che termina come in un imbuto, nel nero di via Cristoforo Colombo (grande strada a quattro corsie che porta all’Eur e a Ostia) e dove alla grandiosità dei monumenti fa da contraltare «l’urtocontrasto dei motociclisti in corsa - scrive Zapponi - che commetteranno quasi uno stupro sul corpo della città addormentata e vuota».

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Quanta America di Kafka nell’Intervista di Fellini

Racconta Vincenzo Mollica che uno dei sogni di cui gli parlò un giorno Federico Fellini - era il 1992, quando già cominciavano a manifestarsi i «primi segni della malattia che lo avrebbe portato alla fine della vita» - aveva a che fare con Franz Kafka. «Una sera in un ristorante disegnò quel sogno: Fellini di spalle davanti a una buca delle lettere, ci scrisse anche Disperso Dei Dispersi, citazione dell’amato Kafka». Quel disegno restò sul tovagliolo del ristorante: non piaceva a nessuno dei due. Il Disperso è uno dei titoli con i quali si fa riferimento al romanzo incompiuto dello scrittore praghese, più noto come America (Il fochista, in origine). È il libro che Federico Fellini mette in scena, a modo suo, in uno dei suoi ultimi film: Intervista (1987). Lo aveva del resto ben analizzato il compianto Paolo Fabbri in un fondamentale saggio su La Saraghina tra Picasso e Kafka: Intervista, sostiene il semiologo, può ben considerarsi una «trasposizione realizzata e non solo tentata» di America di Kafka. Fellini nel suo film si concentra, almeno sul piano della trasposizione esplicita, 179

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soprattutto intorno al personaggio di Brunelda, «il gioiello erotico di America, che ha incantato Fellini», come ci rivela lo scrittore e saggista Milan Kundera. Chi è Brunelda? Una ex cantante, di cui Kafka dà una «descrizione di laida grassezza» osserva ancora Kundera. Ma è qui il punto, la novità letteraria: «il fatto che sia attraente: morbosamente attraente, ridicolmente attraente, ma pur sempre attraente. Brunelda è un mostro di sessualità al confine tra il ripugnante e l’eccitante». Insomma, diciamolo pure: una Saraghina ante litteram. Nel film Intervista il personaggio di Brunelda si materializza nella sequenza dei provini per il film su America: «Ed appaiono queste donne abbondanti, carnose» ricorda Gianfranco Angelucci, amico e collaboratore di Fellini, che lavorò alla sceneggiatura del penultimo film del Maestro riminese. La sequenza è una delle parti finali del film che Federico Fellini realizza dopo Ginger e Fred e dove mette anche se stesso in scena, davanti alla macchina da presa. È il film che racconta Cinecittà, per Fellini una seconda casa (o forse la prima), nel cinquantenario della sua fondazione. Un intreccio di piani, tra presente e passato, dove la finzione si eleva al quadrato, con il presente rappresentato dall’intervista che una troupe televisiva giapponese vuole fare a Fellini mentre sta preparando il suo nuovo film tratto dal romanzo di Kafka. Per un film da fare servono attori e attrici: quale attrice per il personaggio di Brunelda? Le aspiranti assediano la cittadella del cinema, gli uffici 180

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della produzione. «Forse la più giusta era la Ekberg, ma non glielo ha chiesto» mormora qualcuno della troupe prima della sequenza dei provini. La Ekberg, l’Anitona, è anche lei infatti nel film: ed è una delle più memorabili e celebri la sequenza realizzata per Intervista nella sua villa fuori Roma, dove l’attrice svedese, la dea de La dolce vita, invecchiata e ingrassata rievoca la scena della fontana di Trevi insieme ad un altrettanto invecchiato Marcello Mastroianni vestito come Mandrake. «Proprio quando Fellini sembra parlar di sé sta realizzando Kafka» ci avverte Paolo Fabbri a proposito di questa grande “partitura” filmica. E allora Brunelda c’è in Intervista: ed è nelle fattezze della Ekberg l’interprete più giusta, anche se Fellini non glielo aveva chiesto. Il resto è finzione, è (ancora) cinema: le attrici grassone che provano la parte di Brunelda, il set che si anima, prima dell’interruzione per un temporale. «Poi è il film stesso che ti guida in un’altra direzione» dice ad un certo punto una voce fuori campo. Un film straordinario: presentato fuori concorso al Festival di Cannes, la giuria presieduta da Yves Montand, informa il biografo di Fellini Tullio Kezich, si inventa un Premio apposito, mentre dal Festival di Mosca arriva ancora un Gran Premio dalla giuria (presieduta da Robert De Niro). Solo in Italia la pellicola arranca. Angelucci, perché Fellini gira Intervista? «Il film è innanzitutto una dichiarazione d’amore di Fellini per il cinema: un amore vero, totalizzante. All’epoca 181

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seguiva la sua idea di un nuovo ciclo cinematografico, di cui dovevano fare parte altri film che poi non sono stati mai realizzati: uno su l’attore, sull’opera lirica, su Napoli, Venezia, poi c’era il progetto l’Olimpo e quello su America di Kafka, un romanzo che lo scrittore praghese scrisse senza essere mai stato in America». Ad un certo punto nel film l’intervistatrice giapponese chiede a Fellini: «Girerà in America America di Kafka?». Un momento che suona divertente, ironico, beffardo. Perché Fellini sceglie Kafka e proprio quel romanzo? «Fellini aveva ricevuto molte propose di fare un film negli Stati Uniti ma aveva sempre scartato l’ipotesi: “Non posso fare un film in una lingua che non conosco” diceva. Sentiva una affinità con America di Kafka proprio perché è un racconto che passa attraverso la visionarietà dello scrittore praghese. Kafka era un autore che Fellini aveva scoperto da ragazzo, quando lavorava alla rivista satirica Marc’Aurelio. Marcello Marchesi gli aveva prestato La metamorfosi e lui ne era rimasto fulminato». Tornando ad Intervista, come accadde che lei ne scrisse la sceneggiatura? «Federico pensava di raccontare Cinecittà ricorrendo ai propri ricordi, però aveva chiesto a me di scrivergli un trattamento, per avere anche una versione come la vedevo io. La sua idea era quella di fare vedere il cantiere, il laboratorio del regista, il cinema nella sua complessità e 182

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divertimento, il suo lato circense e nomade, fatto anche di improvvisazione. Non un cinema legato a una sceneggiatura di ferro, vincolante, sul modello Stati Uniti, ma una sceneggiatura canovaccio. Credo abbia individuato in me una sorta di sceneggiatore prêt-à-porter: qualcuno che sul set fosse in grado di scrivere una scena sul momento, un po’ come lui aveva fatto a suo tempo con Rossellini, sul set di Paisà. Era la sua idea di cinema in diretta, come i circensi che riescono a fare spettacolo persino montando il tendone, lo chapiteau, uno spettacolo dello spettacolo».

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Il cinema di Fellini tra Dante e Kafka ma anche Buzzati e…

È un Fellini incastonato tra Dante e Kafka, ma che guardato nel profondo rimanda anche ad altre “perle”, altri richiami forti alla letteratura, principalmente italiana ma non solo, quello che ha voluto proporre nei giorni scorsi l’Istituto di Studi Italiani dell’Università della Svizzera Italiana, diretto da Stefano Prandi. Un modo per esserci nel Centenario, fuori dal clamore delle celebrazioni festaiole, dentro invece ad un universo felliniano «ricco, colto, pieno di spunti», di sottotesti letterari, «una miniera che se scavata rivela pepite d’oro», afferma il professor Corrado Bologna, che all’ISI insegna Letteratura medievale e umanistica, tra i relatori dell’incontro che si è tenuto sabato scorso a Lugano. Nelle intenzioni, una esplorazione «dei fondali letterari del cinema felliniano» attraverso gli interventi di più studiosi di materie letterarie: oltre a Corrado Bologna, Valeria Galbiati, Giacomo Jori, Marco Maggi, mentre Maria Cristina Lasagni e Stefano Prandi hanno dialogato con Ermanno Cavazzoni, il cui Poema dei lunatici ispirò Fellini per la La voce della luna, ultimo film del 184

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Maestro co-sceneggiato dallo scrittore emiliano. Professor Bologna, perché un convegno su Fellini e la letteratura? «L’idea è stata lanciata un anno fa dal direttore dell’ISI Stefano Prandi, in vista del Centenario della nascita di Fellini. Si tratta di un tema non particolarmente trattato se non da pochi studiosi, tra cui il compianto Paolo Fabbri, che lo ha sempre fatto in maniera acuta e originale e che è stato ed è il nostro punto di riferimento». Lei ha intitolato il suo intervento Fellini, i fantasmi e il Dante ‘mancato’. Ci spiega il perché di questo titolo? «Intanto perché sono voluto partire da quello che Fellini stesso definiva il suo “fantasmone”, ovvero Il viaggio di G. Mastorna, il grande progetto di film mai realizzato. Fondamentalmente i due fantasmi presenti in Fellini, nei suoi film, sono Dante e Kafka. Ma intendiamoci: non è tanto e solo la citazione esplicita di Dante o di Kafka che va colta e che pure c’è. Per quel che riguarda Kafka basti ricordare il riferimento, nel film Intervista, alla figura di Brunelda nel romanzo America, così ben evidenziata in un saggio da Paolo Fabbri: questo personaggio che assomiglia tanto anche alla Tabaccaia o alla Saraghina, di una sessualità “comica”, non nel senso che fa ridere, ma che è anti-tragica. Il punto vero è però un altro. Il tema di fondo che interessa a Fellini, sia in Dante sia in Kafka è: c’è una salvezza?» 185

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Però Fellini non realizzerà mai un film su Dante, né su Kafka, fatta eccezione per il riferimento in Intervista... «Di entrambi Fellini coglie il forte elemento di visionarietà. In una intervista parla di Kafka come di “uno scrittore già così potentemente visivo che mi sembra presuntuoso intervenire”. Parole analoghe usa in riferimento a Dante, dialogando con Jacqueline Risset, traduttrice in francese della Commedia. Lo affascina la visionarietà di Dante e Kafka ma non riesce a farci un film. C’è una dialettica costante, per tutta la vita ne è attratto ma sente una resistenza. Dentro al Mastorna però ci sono entrambi, Dante e Kafka. E infatti quel progetto non è mai andato in porto (seppure vi abbia attinto per tutti i suoi film dopo il 1965, ndr)». L’accostamento con la Commedia dantesca in riferimento al Mastorna è noto, meno il riferimento a Kafka. Dove si colgono elementi espliciti di collegamento? «Nella lunga lettera che Fellini inviò al produttore Dino De Laurentis sul Mastorna, il regista insiste sul modello profondamente dantesco-purgatoriale del suo viaggio. Riguardo a Kafka, si possono citare ad esempio gli accompagnatori che si offrono di aiutare Mastorna: giungono nell’immaginario di Fellini non solo dagli angeli della Commedia, ma soprattutto dagli aiutanti dei romanzi di Franz Kafka».

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Dietro al Mastorna c’è anche la collaborazione di un grande scrittore con cui Fellini era in sintonia: Dino Buzzati. «Fellini era in contatto con numerosi letterati e Buzzati fu tra questi. Lo strano caso di Domenico Molo di Buzzati fu di ispirazione per il Mastorna. Ma c’è anche un altro racconto, Viaggio agli inferni del secolo, che andrebbe analizzato con attenzione. In questo racconto, un operaio, lavorando alla costruzione della metropolitana di Milano, come nelle fiabe apre una porticina sotterranea e scopre una città che a Milano assomiglia, ma che di fatto è un Inferno moderno». Possiamo parlare di un discorso di intertestualità per il modo in cui la letteratura è filtrata nei film di Fellini? «Più che di intertestualità oggi si preferisce parlare di intermedialità. C’è una elaborazione profonda con il linguaggio proprio del cinema, non una trasposizione per così dire mimetica di testi letterari». Quali altre influenze letterarie sono emerse dal vostro incontro? «Diverse e molto interessanti. Marco Maggi, docente di Letterature comparate all’ISI, ha messo in luce non solo la frequenza con cui il sintagma “dolce vita” ricorre nell’Inferno di Dante (nei canti IV, XX e XXV) ma ha anche posto in parallelo il film di Fellini con alcuni versi di Guido Gozzano, da I colloqui e Invernale: “Come, come, a quelle dita avvinto / rimpiansi il mondo / e la mia dolce vita!” dove peraltro c’è il riferimento a una “ripa”, una riva: “e guadagnai la ripa, ansante, vinto”. Pensiamo al finale de La 187

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dolce vita con Marcello Mastroianni e la giovane fanciulla (Valeria Ciangottini, ndr) che gli parla dall’altra parte di una riva. Una scena che riecheggerà in una poesia di Vittorio Sereni successiva a La dolce vita, Un posto di vacanza, del 1972: “Ne echeggia in profondo, nel grigiore/l’ora del tempo la non più dolce stagione”». Lei ha parlato di una “miniera” di riferimenti letterari in Fellini. Ne troviamo anche nell’ultimo film La voce della luna. A quali autori si può fare riferimento? «Ermanno Cavazzoni ci ha parlato dell’importanza di Pinocchio per quel film. Se invece pensiamo alla scena in cui la luna viene catturata, risente molto delle Cosmicomiche di Calvino, come ha fatto notare Stefano Prandi. Ma c’è ovviamente Leopardi condensato in questo film e andando ancora più indietro anche l’Ariosto».

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Federico da Rimini… e Gambettola

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Quel progetto realizzato a diciassette anni marinando la scuola

Erano gli anni in cui Federico Fellini sognava di diventare come Nino Za, caricaturista che vedeva all’opera al Grand Hotel. In cui leggeva con avidità il Corriere dei Piccoli, i romanzi di Salgari, i Viaggi di Gulliver e le pagine della celebre rivista umoristica Marc’Aurelio dove in seguito, una volta arrivato a Roma, riuscirà ad entrare come disegnatore. Gli anni in cui quella smania di disegnare, di «tracciare ghirigori», «una paccottiglia grafica» come la definì lui stesso, era stata forse l’unico modo per esercitare una fantasia già debordante: iniziò a farlo a casa, a scuola, con gli amici, in gita, al mare, al cinema. Erano gli anni dell’adolescenza riminese di Federico Fellini, piena epoca fascista. É a quel periodo che risale il ritratto dell’insegnante di ginnastica del Liceo Classico Giulio Cesare di Rimini, Luigi C. Un disegno che Fellini schizzò nel 1937 (era dunque diciassettenne), anno in cui quel giovane originario della provincia di Napoli giunse a Rimini per il suo primo incarico da insegnante, dopo avere frequentato la Scuola 191

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fascista di educazione fisica a Roma. A riportare alla luce il ritratto-caricatura è oggi il nipote, omonimo dell’insegnante di Fellini, che lo aveva ricevuto dallo zio nel 1990, come regalo di nozze. «Mio zio è morto nel 1999 - racconta - ma Rimini è rimasta sempre nel suo cuore e tutti gli anni è venuto a trascorrervi le vacanze, nello stesso albergo». Il ricordo va al racconto dello zio, ripetuto in tante occasioni, su quell’incontro con Federico Fellini, in una giornata di pieno inverno sul lungomare di Rimini e in orario scolastico. «Lo zio doveva entrare alla seconda ora, e camminando notò il giovane Fellini accovacciato su un tavolino di un bar». L’aspetto era di uno che non doveva avere granché dormito la notte e che stava appunto marinando la scuola. Non era certo uno studente modello Federico Fellini, in quella scuola fascista la cui retorica e pedanteria mise così bene in scena nel 1973 in Amarcord, con quella carrellata sugli insegnanti dal ritmo vertiginoso e comico nella prima parte del film. In una intervista di Sergio Zavoli nel programma Rai Zavoli incontra Fellini (1964), il preside del Liceo Giulio Cesare di Rimini aveva rivelato che «in un anno Fellini aveva fatto 67 assenze». «Offritemi una pasta e un cappuccino che non ho una lira» avrebbe detto il futuro regista all’insegnante di ginnastica incontrato quella mattina d’inverno del 1937 sul lungomare. La prima reazione del docente era stata di «prenderlo per la calotta e trascinarlo a pedate a scuola» 192

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riferisce il nipote. Ma l’insegnante, che in fondo non aveva molti più anni di Fellini, lo accontentò e per tutta risposta il giovane Federico «gli fece trovare sul tavolino un ritratto colorato su carta Bristol, ringraziandolo con una battuta: “Professore lo conservi perché io un giorno sarò un grande”». «Mio zio raccontava anche che nonostante avesse subito una solenne “lavata di testa” Fellini rispose sfacciatamente che non gli piacevano né la scuola né i professori. Al che lo zio gli consigliò di imparare un mestiere, tipo il falegname, di mettere la testa a posto: formare una famiglia...». Per nostra fortuna quel consiglio il giovane Fellini lo ignorò. Continuò invece a fare disegni e caricature che gli guadagnarono anche una certa fama come disegnatore. Nell’estate del 1936, partecipando ad un campeggio a Verucchio, in Valmarecchia, aveva ad esempio eseguito alcune caricature di balilla moschettieri finite sul numero di febbraio 1937 del giornale La Diana. Un anno dopo, il 6 febbraio 1938, riuscì a farsi pubblicare la sua prima vignetta, dal titolo Il Gelosone, su La Domenica del Corriere. In quegli anni, come ricordò lui stesso anche nel racconto Il mio paese, aveva «aperto con Demos Bonini una Bottega dell’Arte: la ditta FEBO. Si facevano caricature e ritrattini alle signore, anche a domicilio. Io firmavo Fellas e facevo il disegno. Bonini ci metteva il colore». Caricature e ritratti che realizzava anche durante la stagione balneare, al mare. Oppure per il proprietario del cinema Fulgor, che «portava l’impermeabile anche d’estate» per somigliare di più 193

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all’attore Ronald Colman, e in cambio Fellini ne otteneva «l’ingresso gratuito per me, Titta e mio fratello».

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La casa con il giuggiolo e la nonna Franzscheina Salvi i ricordi del piccolo Fellini a Gambettola

Possono venire in mente i versi di Giovanni Pascoli: «Nella Torre il silenzio era già alto / sussurravano i pioppi del Rio Salto». Non si vedono pioppi, ma anche qui c’è un rio: il Rigossa, il «Rio Salto» di Gambettola (Forlì-Cesena). Ed è proprio qui, a poca distanza, in via Soprarigossa che c’è la casa dei nonni di Federico Fellini. La casa con il giuggiolo davanti. Agli inizi degli anni Duemila, per un soffio, non se la sono portata via le ruspe. Adesso, intorno alla casa ci sono di nuovo i segni di un cantiere: questa volta, però, per farla rinascere, grazie ad un recupero architettonico e a un progetto di riutilizzo culturale dell’amministrazione comunale gambettolese, guidata da poco più di un anno da una donna, Maria Letizia Bisacchi. Insieme alla sindaca una giovane assessora alla Cultura, Serena Zavalloni, si prodiga perché, come è giusto che sia, Gambettola abbia finalmente un posto riconosciuto nella “topografia” felliniana. I gambettolesi, cedendo al fervore campanilistico, la riassumono così: «Se Federico Fellini è nato a Rimini, di 195

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certo è stato concepito a Gambettola». Impossibile muovere obiezioni, a meno di contraddire le leggi di natura: è qui che hanno vissuto i genitori Urbano e Ida fino a due mesi prima della nascita del futuro regista, avvenuta il 20 gennaio 1920 a Rimini. La coppia si era sposata a Gambettola il 19 agosto 1918, pochi mesi dopo essere arrivati in Romagna da Roma. Ma ciò che conta non sono i primati, quanto semmai il posto che Gambettola ha nella «geografia sentimentale specifica» di Fellini, per dirla con Oscar Iarussi (Amarcord Fellini. L’alfabeto di Federico, Il Mulino), che alla lettera B di Borgo cita Pavese e il suo incipit de La luna e i falò: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». Quel paese allora è certamente Rimini, il borgo, per Federico Fellini. Ma lo è anche Gambettola, lo è la casa dei nonni. Lo è la nonna Francesca Lombardini, la Franzscheina. Ed è lo stesso regista a dircelo. Nelle interviste, nei suoi scritti, nei film. Nelle visite fatte alle cugine a Gambettola e alla casa dei nonni che oggi si trova poco lontano dal centro del paese, ma agli inizi del Novecento era in aperta campagna. La casa era stata acquistata nel 1854 da Giuseppe Fellini, bisnonno di Federico, per 1.400 scudi. Figlio dei mezzadri Luigi e Giulia Baldini, Giuseppe era nato a Badia di Longiano, come ci informa un recentissimo studio del cesenate Claudio Riva. Annesso alla casa - una tipica abitazione di contadini, con 196

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la rimessa, alberi da frutto, animali domestici - c’era il negozio di generi alimentari e di altri fabbisogni quotidiani. In paese c’è chi ricorda ancora quella volta che Federico Fellini ne chiese notizie, «cercava la casa con il giuggiolo davanti». Gli venne anche il pensiero, il desiderio, di un possibile acquisto. Ne Il mio paese, racconto scritto da Fellini nel 1967 su invito di Renzo Renzi e confluito ne La mia Rimini, il regista racconta allora anche la sua Gambettola: «…ci andavo d’estate. Mia nonna teneva sempre un giunco nelle mani...». Figura nume, cui dare un posto centrale nel pantheon delle donne felliniane, la nonna Francesca Lombardini è rievocata nel flashback di 8½ che porta all’infanzia del protagonista Guido, alla casa di campagna, così simile alla casa dei nonni del regista. La nonna entra in scena recitando in un dialetto-mitraglia, ed «è arduo comprenderla. La sua è una lingua misteriosa, evocativa», osserva Gianfranco Miro Gori in Le radici di Fellini romagnolo del mondo. Un ritratto, quello della nonna paterna, che si amplia, si colora di tinte più accese nel testo di Fellini raccolto in Fare un film (Einaudi, 1980): «Col fazzolettone nero che le fasciava la testa, il nasone a becco, gli occhi brillanti come catrame liquido, mia nonna Franzscheina sembrava la compagna di Toro Seduto». Una immagine da quadro di Hieronymus Bosch, che è proprio il pittore che viene in 197

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mente a Fellini «quando penso a Gambettola». Con la giornalista e scrittrice americana Charlotte Chandler Fellini è ancora più diretto: «Gambettola - dice - (...) è un paesino circondato dai boschi (era il bosco di Cesena, ed infatti è noto come E’ Bosch, ndr) e io lo amo perché amavo la nonna più di chiunque altro al mondo. (...) La maggior parte dei momenti felici della mia infanzia li ho trascorsi con lei a Gambettola durante le vacanze estive». Francesca Lombardini nasce a Sant’Angelo, frazione del comune di Gatteo, il 12 luglio 1860. «Fu una donna molto severa, dura, energica e sapeva farsi rispettare nella conduzione della famiglia nei campi. Donna di grande e sincera fede, fu molto religiosa e devota, a volte quasi bigotta». Sono alcune delle informazioni fornite da Ezio Lorenzini, gambettolese, docente di latino e greco scomparso nel 2004, nel libro Federico Fellini mio cugino. Dai ricordi di Fernanda Bellagamba (Il Ponte Vecchio): una ricostruzione genealogica basata oltre che su ricerche proprie, sui ricordi di una delle tre cugine gambettolesi di Federico Fellini. Si chiamavano Elsa, Iole e Fernanda. La seconda, nel 1932 ad appena 11 anni, si stabilì a Rimini in casa Fellini, «per aiutare nei lavori domestici Ida Barbiani». La ristampa del volume di Lorenzini figura tra le iniziative che il Comune di Gambettola ha voluto promuovere per il Centenario della nascita del grande regista. Lorenzini ricava che «il 1925 è probabilmente l’ultimo anno di vacanze estive che Federico ha trascorso presso i nonni paterni di Gambettola. Non è però da escludere che 198

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sia andato per l’ultima volta da bambino a Gambettola nel 1929». Dopo quel felice periodo dell’infanzia, Federico Fellini vi tornò nel 1960, all’apice del successo per La dolce vita, in occasione della morte dello zio Federico Bellagamba (marito di Agostina, sorella primogenita di Urbano) e nel 1990, alla morte della cugina Elsa. Non solo la casa dei nonni, ma in generale l’ambiente rurale gambettolese emana un fascino indelebile per Federico Fellini bambino, che «fa lievitare quel mondo ricco di umori, colori e misteri nella sua fantasia di ragazzo cittadino», scrive l’amico e biografo Tullio Kezich. È un mondo attraversato da figure come «gli zingari e i carbonari», da personaggi come il castratore di porci, che «una volta mise in cinta una povera scema e tutti dissero che era il figlio del diavolo». È di qui che venne a Fellini l’idea per il film di Roberto Rossellini Il miracolo, dove recitò lui stesso al fianco di Anna Magnani. È da questi paesaggi e atmosfere che il regista trae ispirazione anche per il film La strada, mentre ha evidenti echi gambettolesi l’incipit de I clowns, dove un bimbo si affaccia alla finestra di una casa così simile al casolare dei nonni. Assiste all’arrivo del circo: «Ma che cos’è?» chiede alla mamma: «É il circo. Se non stai buono ti faccio portar via da quei zingari».

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Rimini, la guerra, il monte Titano. Fellini tra gli sfollati a San Marino?

«Era la guerra, il Monte ci toglieva dal mare per salvarci» ha scritto Sergio Zavoli (nella raccolta di poesie L’infinito istante). É il ricordo di quando era la guerra a Rimini. Di quando tantissimi riminesi, tra cui lo stesso Zavoli, lasciando le loro case presero la via del Monte: San Marino. Furono a migliaia. Tra loro anche la famiglia Fellini: il padre Urbano, la moglie Ida, la figlia minore Maddalena. Anche Federico Fellini fu, seppure per breve periodo, tra gli sfollati? La notizia ha preso a circolare da quando, alcuni anni fa, è spuntato fuori un documento, datato 7 settembre 1944: Rimini non era ancora liberata, la popolazione viveva nell’angoscia della guerra e dei terribili bombardamenti. La famiglia Fellini, come tante altre, già rifugiatasi nella vicina Coriano, prese la via del Monte. Fu ospite della famiglia del medico Guido Morri, che abitava nel Castello di Città, in Costa dell’Arnella. Una casa grande, spaziosa. Che diede ospitalità ad almeno una decina di sfollati. «Certo, la famiglia Fellini era qua da noi ricorda oggi Francesco Morri, figlio di Guido e di Fernanda Sperandini - C’era anche Maddalena, all’epoca 200

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quindicenne, che era amica di mia madre, che veniva da Rimini dove i suoi avevano un negozio, la Casa del Corredo. Mio padre credo conobbe mia madre proprio durante la sua permanenza nella nostra abitazione. Ma non ho notizie in merito alla presenza del grande regista, né del fratello Riccardo, se non quello che c’è scritto nel documento». In effetti la presenza dei due fratelli Fellini, che negli anni della guerra si trovavano per certo a Roma, è da considerare, a tutt’oggi, improbabile. Certamente non provata. Attestata dal documento spuntato fuori dagli Archivi di Stato sammarinesi: ma un documento che presenta da un lato inesattezze (l’anno di nascita sia di Federico che di Riccardo è sbagliato), dall’altro stranezze (il nome Ziana Vanna, indicata come nipote, in realtà una vicina di casa). Non per questo un falso, tutt’altro. Tra le motivazioni che potrebbero avere portato ad includere i nomi dell’intero nucleo famigliare Fellini, quella che un arrivo dei due fratelli da Roma avrebbe potuto essere preso in considerazione in quei giorni comunque di caos, carichi di paure, angosce, incertezze per le sorti delle popolazioni italiane. Il documento ritrovato è una sorta di «permesso di soggiorno» di un Paese non belligerante (ma che subì comunque dei bombardamenti). Porta come intestazione Azienda di Soggiorno di Rimini e ha anche un’altra data (10 ottobre 1944 - 1643 dfR): «Ci dice che probabilmente è stato vistato dalle autorità sammarinesi in quella data 201

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spiega Patrizia Di Luca, responsabile del Centro di ricerca sull’emigrazione dell’Università di San Marino - Questi documenti attestano i tentativi di tenere sotto controllo una situazione complessa e molto articolata. Migliaia di persone, soprattutto nell’estate del ‘44, furono accolte dalla Repubblica di San Marino». Il riparo più comune, per loro, erano le gallerie. É proprio andando alla ricerca di notizie sulle gallerie della linea ferroviaria Rimini - San Marino che Yuma Terenzi, vice presidente dell’associazione Treno Bianco Azzurro ha scoperto alcuni anni fa, all’Archivio di Stato sammarinese, un faldone con le schede di numerose famiglie sfollate, tra cui, appunto, quella della famiglia Fellini. Per Davide Bagnaresi, ricercatore che da anni studia la biografia “riminese” di Federico Fellini «troppe cose non tornano in quel documento. Compito di chi studia il passato è anche quello di interpretare le carte, anche nella loro ambiguità. Faccio un esempio: Urbano Fellini, stando all’anagrafe, è residente a Rimini dal 1925. Federico e Riccardo sarebbero dunque nati a Gambettola?». «Io so solo che tra gli sfollati furono mia madre Maddalena e i nonni Urbano e Ida» afferma la nipote del Maestro, Francesca Fabbri Fellini. Lo stesso Federico Fellini, ne La mia Rimini, contribuisce a sciogliere i dubbi: «Sono partito da Rimini nel ‘39. Ci sono tornato nel ‘46 - racconterà - Sono arrivato in un mare di mozziconi di case. Non c’era più niente. Veniva fuori dalle macerie solo il dialetto (...). Molte delle case che avevo 202

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abitato non c’erano più. La gente parlava del fronte, delle grotte di San Marino in cui si erano rifugiati e io provavo la sensazione un po’ vergognosa di essere stato fuori dal disastro». Non solo qui Fellini data il proprio ritorno a Rimini dopo la fine del conflitto bellico, ma c’è anche il riferimento a San Marino. Se vi fosse stato da sfollato, perché non ricordarlo? Resta forse l’ipotesi di un viaggio pianificato ma con tutta probabilità mai compiuto. Fu lui stesso a raccontare come nella Roma occupata dai tedeschi si trovasse in una situazione di pericolo: subì anche un tentativo di rastrellamento (risalente alla fine di ottobre 1943) a cui era riuscito a sfuggire con l’astuzia che gli era propria. «Quell’esperienza fu traumatizzante» riferì molti anni dopo a Charlotte Chandler. Ma i pericoli paiono superati nel pieno dell’estate del ‘44 (Roma fu liberata il 4 agosto) e nei mesi successivi. In quel periodo il futuro regista aprì a Roma il negozio di caricature Funny Face Shop. E poi proprio in quella fine estate avvenne l’incontro determinante con il regista Roberto Rossellini, che lo volle con lui a lavorare a Roma città aperta, il celebre film divenuto il manifesto del neorealismo italiano. É vero anche, però, che nell’ambiente cinematografico, si respiravano le tensioni legate alle pressioni della Repubblica di Salò. L’allora capo del cinema italiano, Luigi Freddi, cercava di convincere attori, attrici, registi a raggiungere Venezia, dove la Repubblica di Salò, e cioè i seguaci del Duce, avevano tentato di spostare le attività cinematografiche che 203

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prima si concentravano intorno a Cinecittà. «Fellini viene cercato per telefono da Freddi che vorrebbe invitarlo a seguirlo in Laguna, ma non si fa trovare» scrive Italo Moscati nel libro Fellini & Fellini. L’inquilino di Cinecittà (2016, Lindau). Nel caos di quei giorni, tanti si dileguano. Che abbia tentato di farlo lo stesso Fellini? Ma perché andare al nord? Dove ancora imperversavano gli scontri tra tedeschi e alleati, lungo la Linea Gotica? Lasciando tra l’altro Giulietta a Roma, incinta.

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Stardust Memories

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Federico Fellini e Polidor: che attrazione fatale

«L’ho chiamato perché i clown del circo, gli attori di varietà sono stati i primi personaggi suggestivi, fantastici che hanno colpito la mia immaginazione. E quando avevo bisogno di un fraticello per Le notti di Cabiria ho chiamato Polidor». Federico Fellini e Ferdinand Guillaume, in arte Polidor: che attrazione fatale. Fu una grande star all’epoca del cinema muto, Polidor. Negli anni Dieci del XX secolo, quel buffo, simpatico, attore comico che aveva iniziato la propria carriera con il nome di Tontolini, divenne «una star mondiale, prima di Charlie Chaplin e Buster Keaton». Vita, successi, fallimenti, rinascite, di Ferdinand Guillaume detto Polidor li racconta il critico e autore televisivo Marco Giusti nel volume (edito dalla Cineteca di Bologna) Polidor e Polidor. Un intreccio di storie in realtà: perché c’è il Polidor clown, comico del muto, artista del circo, poi del cinema poi del teatro e di nuovo del cinema; e c’è quell’altro, il fratello, Polidor the Clown, che avrà successo in America e finirà a morire in una prigione per avere ucciso con cinquanta coltellate la compagna. Quando accade, nel 207

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1961, il fratello Polidor, quello che Federico Fellini «chiamerà sui suoi set ogni volta che può», come ricorda Tullio Kezich, ha da poco recitato ne La dolce vita. Insomma, una storia che per raccontarla non basterebbe, forse, neppure un film. Però intanto ci sono Polidor e Fellini. Si incontrano di persona a metà degli anni Cinquanta, in un bar, a Roma. Casualmente, dirà Fellini parlando dell’incontro con quel personaggio che apparteneva alla sua memoria di infanzia e di gioventù - era stato anche il primo Pinocchio cinematografico - nell’intervista tv che gli fece, nel 1974 per la Rai, Gianfranco Angelucci. Il regista all’epoca dell’incontro con Polidor aveva superato la trentina, e con I vitelloni e La strada si era già affermato nel firmamento del cinema. Era il 1956. Polidor aveva 69 anni. Una stella sul viale del tramonto. Dopo essere morto e risorto più volte, al cinema, a teatro, poi di nuovo al cinema, faceva comparsate nei film. Però ci fu quell’incontro con Fellini. E la stella continuò a brillare. Prima ne Le notti di Cabiria. Nei panni del fraticello che incontra la protagonista interpretata da Giulietta Masina. Il ruolo che ha in serbo per lui Fellini nel film che si guadagnerà il secondo Oscar come miglior film straniero è quello di Frate Giovanni, che incontrerà Cabiria lungo un sentiero polveroso. La scena fu scritta da Pier Paolo Pasolini che a sua volta chiamerà Polidor per il film Accattone (è il becchino nella scena/sogno del cimitero). 208

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«L’importante è essere sempre in grazia di Dio. Chi vive in grazia di Dio è contento...» dice frate Giovanni a Cabiria. Occhialini, barba incolta, cappello a tesa larga, sguardo malinconico, «poi riprende la sua strada polverosa, come nei finali dei film di Chaplin» scrive Marco Giusti. Ma non sparisce, Polidor. Lo ritroveremo, nel 1960, ne La dolce vita. Questa volta proprio nel ruolo di un clown, un vecchio suonatore di tromba. Con il vestito nuovo, ma ridotto in stracci. Fu lo stesso Fellini ad intervenire sul set, a schiacciare cilindro, colletto, cravatta, gilet… via. Dentro, invece, tanti palloncini. La scena, struggente, bellissima, è quella del locale notturno dove Marcello Rubini (Mastroianni), il protagonista de La dolce vita, porta il padre (l’attore è Annibale Ninchi) l’ultima notte del suo soggiorno a Roma. C’è anche la soubrettina Fanny (Magalì Noël, la futura Gradisca). Tavolini illuminati da piccole lampade, lampadari alle pareti, lustrini, champagne. E all’improvviso compare il fascio di luce dell’occhio di bue: incornicia e accompagna il clown che fa la sua entrée suonando la tromba, claudicante e trasognato. Eccolo, è lui: Polidor. «Il suono della tromba solleva uno a uno i palloncini abbandonati dalle ballerine: alla fine tutti i palloni seguono Polidor, che esce suonando come il pifferaio magico. La scena, che Fellini ha praticamente improvvisato sul posto facendo suonare Charmaine, una vecchia canzone scritta da Pollack e Rapée nel 1926, ha una suggestione straordinaria» 209

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(Kezich). «Lo sguardo che lui e Mastroianni si scambiano a metà del numero dei palloncini di fronte ad Annibale Ninchi, il padre» annota Marco Giusti, è «uno sguardo di intesa, di cospirazione. Quasi da vecchi amici che sanno e hanno capito tutto. Come se la tristezza che emana il vecchio clown fosse in fondo il riflesso della tristezza che Marcello prova nei riguardi del vecchio padre che ha portato lì, in questa sorta di camera mortuaria dove Polidor non può che essere un simpatico Caronte o colui che vede le cose». Basta andare su You Tube e rivedersela, questa scena. E rivederla, rivederla, rivederla… E poi rieccolo Polidor. Ne Le tentazioni del Dottor Antonio, con Peppino De Filippo e Anita Ekberg, sarà uno degli attacchini-clown che lavorano al gigantesco cartellone pubblicitario del «Bevete più latte» con la diva «gigantessa». Negli abiti che gli sono propri, quelli del pagliaccio, sarà nel finale di 8½, il carosello circense: e dove altro se no? E infine comico cieco nel mediometraggio Toby Dammit (1968): sarà l’ultimo atto. «Quello che vediamo - scrive Marco Giusti - è un Polidor molto provato e molto anziano. (…) sembra una sorta di grande uscita di scena». Strano, invece, che Fellini non l’abbia chiamato «per un film che Polidor avrebbe sicuramente dovuto fare, cioè I clowns». L’attore morirà il 2 dicembre 1977, a Viareggio, dove si era rifugiato da anni. Non senza prima apparire, in tv, il 25 gennaio del 1973, in una delle due puntate della serie «E ora dove sono?», firmate da Ennio Flaiano. L’intervista a Polidor è stata ritrovata da Marco Giusti negli 210

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archivi Rai, ma è scomparso l’audio dell’intervistatore e quello dell’introduzione di Flaiano. La trascrizione, nel libro, ci restituisce la voce di Polidor, il clown di Fellini.

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La regalità di Caterina Boratto l’attrice ripescata da Fellini

Piemontese, classe 1915, eleganza innata e sguardo da regina. Una donna che esprimeva una «regalità completa». Così la tratteggiò lo stesso Federico Fellini che la volle nel cast di 8½, nel ruolo di una misteriosa signora, e poi subito dopo in Giulietta degli spiriti, nella parte della madre della protagonista interpretata dalla Masina. L’attrice Caterina Boratto debutta sul grande schermo nella metà degli anni Trenta con il film Vivere! di Guido Brignone, dove recita al fianco del tenore Tito Schipa. Un successo che le spianò la strada per Hollywood, dove fu ingaggiata dalla Metro Goldwin Meyer. Rientrata però dopo un paio di anni in Italia a causa della guerra, realizzerà ancora alcuni film, per poi scegliere di interrompere la propria carriera per dedicarsi agli affetti famigliari. A “ripescarla”, negli anni Sessanta, sarà proprio Federico Fellini (e in seguito lavorerà anche per la tv e per altri grandi registi tra cui Pasolini, in Salò), che aveva conosciuto nel 1943 sul set di Campo de’ Fiori, pellicola che aveva sceneggiato il futuro regista e diretta da Mario Bonnard, con interpreti Anna Magnani ed Aldo Fabrizi. 212

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«Era sempre attivo, con le scarpe da tennis, molto magro e con una testa piena di lunghi capelli neri»: così l’avrebbe ricordato la Boratto riferendosi proprio al momento del loro primo incontro. Il rapporto tra i due fu per tutta la vita di stima e amicizia. «La Boratto appartiene a quella categoria di attori che fanno parte da sempre della mia mitologia di spettatore» dichiarò il regista riminese in una intervista a Rita Cirio. É possibile che quell’attrice dall’aspetto così ammaliante Fellini l’abbia vista per la prima volta al cinema Fulgor di Rimini e proprio nel film, o in uno dei due film, in cui fu diretta da Brignone? Possibile. Dopo il film del 1936 Vivere! l’anno seguente il trio Brignone, Boratto e Schipa fu riproposto nella pellicola Chi è più felice di me? Sono gli anni dell’adolescenza di Fellini a Rimini, quegli anni in cui si era già fatto conoscere nella sua comunità come abile disegnatore, tanto che con il proprietario del Fulgor aveva stretto un patto che gli consentiva di entrare gratis al cinema in cambio di suoi disegni e caricature delle celebrità. Brignone, tra l’altro, è lo stesso regista di Maciste all’Inferno, il film che Fellini ha sempre indicato come il primo che ricordava di aver visto con emozione al cinema Fulgor, seduto sulle ginocchia del padre. L’incontro tra Fellini e la diva che nel frattempo sembrava sparita dalle scene del cinema, avviene alcune decine di anni dopo la loro prima conoscenza, sempre a Roma, dove la Boratto era in effetti tornata per riprendere il mestiere di attrice: è il 1962 e Fellini la nota casualmente per strada, nei 213

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pressi di un grande magazzino. La riconosce, si fermano a parlare. L’istinto, così spesso decisivo, lo porta a chiederle di interpretare la parte della misteriosa elegante signora che appare in più di una scena del capolavoro 8½. La prima apparizione sarà quella in cui la Boratto scende la scalinata dell’albergo, vestita elegante, in testa un largo cappello, tiene per mano una bambina e scivola a fianco di Marcello Mastroianni. La ritroveremo anche nella sequenza dell’harem e qui, alla domanda «mi tolga una curiosità bella signora… lei chi è?», la risposta è di quelle che non sciolgono il dubbio, al contrario, tende a volerlo rafforzare: «Non importa il nome. Sono felice di essere qui. Non domandarmi niente». «Caterina Boratto passa - ancora come una regina - da 8½ a Giulietta degli spiriti, però non è più la Regina del Cielo ma piuttosto la quintessenza gelida della Regina del Male, dalle favole paurose dell’infanzia»: l’osservazione, riportata in un saggio del figlio della Boratto, Paolo Ceratto, apparso sulla rivista Amarcord nel 2007, è dello studioso David P. Costello. Coglie un aspetto che altre volte appare nella filmografia felliniana: il ribaltamento, la polarizzazione, dei ruoli affidati a medesimi attori o attrici. É il caso ad esempio di Anouk Aimée nel passaggio da La dolce vita (l’amica/amante di Marcello) a 8½ (la moglie). Così, se da un lato (8½) ad affacciarsi è la simbologia della Grande Madre, nel caso di Giulietta degli spiriti il ruolo della Boratto sul piano simbolico porta ad accostamenti opposti: come madre di Giulietta la Boratto, pur sempre di una bellezza 214

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fulgente, è in filigrana semmai la strega cattiva delle favole, una sorta di strega di Cenerentola. Quello in Giulietta degli spiriti non fu in realtà l’ultimo ruolo che l’attrice - scomparsa nel 2010 all’età di 95 anni interpretò per Fellini. La ritroviamo infatti in Block-notes di un regista, il documentario che nel 1969 Fellini realizzò per la tv statunitense NBC. Oltre a essere l’unico documento audiovisivo sul film mai realizzato Il viaggio di Mastorna, fu anche un lavoro preparatorio per il film Satyricon. Caterina Boratto vi appare nelle vesti di una matrona romana. Fellini girò con lei delle scene che dovevano entrare nel film tratto da Petronio. Ma furono tagliate.

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Betti Liliana, 34, 103 Bisacchi Maria Letizia, 195 Bley Carla, 75 Bobbio Norberto, 37 Bologna Corrado, 184 Bolognini Mauro, 85 Bonini Demos, 193 Bonnard Mario, 11, 138, 212 Bonucci Alberto, 26 Boratto Caterina, 6, 11, 149, 212, 214-216 Bosch Hieronymus, 197 Brancati Vitaliano, 38 Brass Tinto, 68, 85 Brignone Guido, 212, 213 Brunetta Gian Piero, 160, 162 Buzzati Dino, 70, 168, 170, 184, 187 Byard Jeky, 75

Indice dei nomi A Abrams Muhal Richard, 75 Agnelli Gianni, 163 Aimée Anouk, 214 Alighieri Dante, 184-187, Amato (Giuseppe) Peppino, 50-52 Amidei Sergio, 17, 55 Andersson Harriet, 115 Angelucci Gianfranco, 34, 92, 103, 165, 166, 180, 181, 208 Anile Alberto, 33, 34 Antonioni Michelangelo, 56 Arbasino Alberto, 7, 116-119, 216 Argentieri Simona, 160, 161, 162 Argento Dario, 48, 68 Ariosto Ludovico, 188 Arpa Angelo padre, 20 Aspesi Natalia, 129 Asti Adriana, 6, 85, 87 Attalo (Gioacchino Colizzi), 14, 165

C Caine Michael, 103 Calasso Roberto, 109 Callas Maria, 90 Camilletti Fabio, 67, 70 Caprioli Vittorio, 25, 26 Capucine (Germaine Hélène Irène Lefebvre), 147 Cardinale Claudia, 56, 90 Caronia Roberta, 59 Caruso Rossella, 165 Casanova Giacomo, 80, 103, 104 Casetti Giuseppe, 164, 165, 167 Castellani Renato, 139 Cavazzoni Ermanno, 136, 184, 188 Ceccarelli Filippo, 160, 163 Cederna Camilla, 125, 127, 128 Cerasuolo Enrico, 138, 139 Ceratto Boratto Marina, 149, 150, 151, 214 Ceratto Paolo, 214 Cescon Michela, 59 Chandler Charlotte, 133, 138, 146, 175, 198, 203 Chaplin Charlie, 121, 207, 209 Chiarini Luigi, 47 Ciangottini Valeria, 188

B Bacalov Louis, 141, 142 Bagnaresi Davide, 202 Baldini Giulia, 196 Barbiani Ida, 198 Basehart Richard, 29 Bava Mario, 70 Bazin André, 115, 133 Beckett Samuel, 60 Bellagamba Elsa, 199 Bellagamba Federico, 199 Bellagamba Fernanda, 198 Bellagamba Iole, 198 Benedetti Arrigo, 42 Benigni Roberto, 119 Benzi Titta, 88 Bernhard Ernst, 62, 123, 162, 169, 170 Bergman Ingmar, 6, 111, 112 Bergman Ingrid, 21, 126 Bersani Lello, 147 Bertoncelli Riccardo, 75 Bertozzi Marco, 77, 175, 176 216

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Cirio Rita, 213 Cluny Alain, 80 Colman Ronald, 194 Comencini Luigi, 56 Comandini Marina, 98 Coppola Francis Ford, 74 Cornacchia Augusto, 88 Costa Orazio, 47 Costantini Costanzo, 81 Costello David P., 214 Crepax Guido, 157 Crespi Alberto, 92, 93, 94

F Fabbri Fellini Francesca, 202 Fabbri Paolo, 179, 181, 185 Fabrizi Aldo, 11-17, 27, 138, 212 Fabrizi Franco, 29 Faldini Franca, 49 Fallaci Oriana, 125, 126, 127, 128, 217 Fanfani Amintore, 163 Farinelli Gianluca, 161 Fellini Agostina, 199 Fellini Giuseppe, 196 Fellini Luigi, 196 Fellini Maddalena, 200, 202 Fellini Riccardo, 29, 201, 202 Fellini Urbano, 196, 199, 200, 202 Ferrara Giorgio, 86 Ferretti Dante, 94 Flaiano Ennio, 6, 36 38, 39, 41-49, 64, 75, 210, 211 Fofi Goffedo, 49 Freddi Luigi, 203, 204 Freud Sigmund, 161

D d’Amico Silvio, 37 De Bellis Vito, 165 Debenedetti Antonio, 110 De Filippo Eduardo, 74 De Filippo Peppino, 12, 27, 40, 96, 210 De Laurentiis Dino, 50, 52, 74 Del Buono Oreste, 112, 156 Del Giudice Daniele, 155, 157 Delli Colli (Antonio) Tonino, 178 Dell’Olio Anselma, 169 Del Poggio Carla, 25, 27, 93 De Marchis Marcella, 21 De Niro Robert, 104, 181 De Rojas Fernando, 122 De Seta Enrico, 165 De Sica Vittorio, 25, 50, 52, De Torres Ferrante Alvaro, 165 Dickens Charles, 75 Di Giammarco Rodolfo, 102 Di Luca Patrizia, 202 Di Venanzo Gianni, 56, 57, 63, 64 Donati Danilo, 80, 97 Douglas Kirk, 104

G Galbiati Valeria, 184 Gallagher Tag, 20 Galli Arnaldo, 6, 95, 96, 97 Geert Gisa, 26 Geleng Antonello, 82, 83, 84 Geleng Giuliano, 81, 82, 83, 84 Gèleng Ottone, 81 Geleng Rinaldo, 81-84, 165 Gerasimov Sergej, 55 Germi Pietro, 37 Gherardi Piero, 30, 43, 56, 63, 145, 146 Giacchero Norma, 122 Giancotti Patrizia, 142, 143 Giannetti Alfredo, 139, 140 Ginzburg Leone, 37 Ginzburg Natalia, 126 Giovannini Anna, 149, 150, 151 Giusti Marco, 207, 209, 210 Godard Jean-Luc, 115 Gori Gianfranco Miro, 197 Gorrini Gaia, 51 Gozzano Guido, 187

E Echaurren Pablo, 157 Egri Susanna, 26 Ekberg Anita, 85, 96, 97, 123, 147, 181, 210 Ergas Moris, 63, 64

217

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Grasso Aldo, 44, 45 Grazzini Giovanni, 107, 108 Greco Cosetta, 28 Grimaldi Alberto, 104 Guerra Andrea, 79 Guerra Tonino, 6, 42, 68, 79, 120 Gullace Teresa, 15

Laudadio Felice, 161 Leone Giovanni, 163 Leopardi Giacomo, 188 Lizzani Carlo, 56 Lollobrigida Gina, 27 Lombardi Francesco, 72, 74 Lombardini Francesca (Franzscheina), 196, 197, 198 Longanesi Leo, 41, 42, 67 Lorenzini Ezio, 198

H Hayworth Rita, 139 Hitchcock Alfred, 115, 126 Hoffman Dustin, 104

M Macario Erminio, 171 Maccari Ruggero, 13 Macchi Giulio, 138 Maggi Marco, 184, 187 Magnani Anna, 11, 15, 18, 34, 137, 138, 139, 140, 199, 212 Magrelli Valerio, 168 Malasomma Nunzio, 137 Malosti Valter, 59 Manara Milo, 157, 158, 160 Mangano Silvana, 90 Marchesi Marcello, 165, 182 Maroni Oriana, 101 Maselli Francesco, 56 Masina Giulietta, 25, 27, 40, 59, 60, 63, 75, 112, 115, 139, 150, 151, 208, 212 Mastroianni Marcello, 27, 31, 34, 40, 64, 181, 188, 209, 210, 214 Mattoli Mario, 138 Matarazzo Raffaello, 37, 74 Matthau Walter, 114 Metz Vittorio, 165 Mila Massimo, 37 Millenotti Maurizio, 94 Milo Sandra, 6, 62, 63, 76, 147, 150, 151, 158, 160 Milva, 144 Mina, 7, 145, 146, 147, Minuz Andrea, 71, 115, 163 Mollica Vincenzo, 100, 102, 136, 155, 156, 160, 179 Monicelli Mario, 27, 38, 56, 68 Montand Yves, 181 Montanelli Indro, 127

I Iarussi Oscar, 196 Interlenghi Franco, 29 Iotti Nilde, 126 J Jori Giacomo, 184 Jung Carl Gustav, 110, 123, 124 K Kafka Franz, 165, 177, 179-182, 184, 185, 186 Keaton Buster, 207 Kezich Tullio, 17, 19, 20, 36, 37, 39, 46, 47, 54, 58, 59, 60, 117, 135, 160, 171, 181, 199, 208, 210 Keel Daniel, 58, 109 Kubrick Stanley, 161 Kundera Milan, 180 Kurosawa Akira, 111 L Lacy Steve, 75 La Malfa Ugo, 163 Landolfi Tommaso, 70 Lang Fritz, 70 Lancaster Burt, 90 Lao Curzio, 143 Lao Folco, 142 Lao Meri, 6, 141, 142, 143, 145 Lasagni Maria Cristina, 184 Lattuada Alberto, 15, 19, 25, 27, 37, 38, 56 218

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Morri Francesco, 200 Morri Guido, 200 Morri Gradisca, 87 Moscati Italo, 204 Musatti Cesare, 87 Musil Robert, 118 Muti Riccardo, 74

Pirandello Luigi, 118 Placido Beniamino, 166 Poe Edgar Allan, 69, 92 Polese Ranieri, 117 Polidor (Ferdinand Guillaume), 6, 207, 208, 209, 210, 211 Poll Martin, 111, 112 Pollack Lew, 209 Prandi Stefano, 184, 185, 188 Proietti Gigi (Luigi), 7, 11, 102, 103, 104 Proust Marcel, 118

N Neruda Pablo, 142 Newman Paul, 104 Nicholson Jack, 103 Ninchi Annibale, 209, 210 Ninchi Ave, 12 Noël Magali, 85, 209

Q Quinn Anthony, 29 R Rampling Charlotte, 90 Rapée Ernö, 209 Ravel Maurice, 73 Renzi Renzo, 128, 171, 177, 197 Ricci Giuseppe, 101 Righelli Gennaro, 37 Rimbaud Arthur, 143 Risi Dino, 56, 68 Risset Jacqueline, 186 Riva Claudio, 196 Rizzoli Angelo, 43, 51, 52, 53, 86, 129, 155, 160 Rol Gustavo, 170 Romagnoli Mario, 15 Ronconi Luca, 59 Rondi Brunello, 6, 38, 42, 46, 47, 48 Rondi Gian Luigi, 47, 48 Rosi Francesco, 56 Rosselli Colette, 26 Rossellini Alessandro, 21 Rossellini Isabella, 21 Rossellini Isotta Ingrid, 21 Rossellini Renzo, 21 Rossellini Robin, 21 Rossellini Roberto, 12, 13, 17, 18, 19, 20, 21, 47, 63, 137, 138, 199, 203 Rossi Moraldo, 6, 28, 29, 30, 31 Rota Nino, 6, 61, 72, 73, 74, 75, 77, 78, 82, 84, 141, Rotunno Giuseppe, 92

O Osten Suzanne, 114 P Paci Enzo, 46 Padre Pio, 50 Paganelli Mauro, 100, 101, 155 Pani Massimiliano, 145 Pannunzio Mario, 42 Parigi Stefania, 47 Parise Goffredo, 67, 70 Pascoli Giovanni, 195 Pasolini Pier Paolo, 48, 49, 86, 93, 139, 163, 178, 208, 212 Pavese Cesare, 37, 39, 196 Peck Gregory, 104 Pedersoli Giuseppe, 51 Pessione Cielo, 12, 13 Petri Elio, 56 Petrolini Ettore, 11 Petronio Arbitro, 111, 215 Pezzolla Pasqualina, 170, 171 Pezzotta Alberto, 47, 48, 49, 113 Picasso Pablo, 120, 122, 123, 124, 163, 170, 179 Piccoli Michel, 104 Pietrangeli Antonio, 63, 66 Pinna Franco, 128 Pinelli Carlo Alberto, 37, 38, 39, 40 Pinelli Tullio, 6, 19, 36, 37, 39, 42, 133 219

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S Sacchi Filippo, 63 Salce Luciano, 26 Sanguineti Tatti, 29, 30 Savinio Alberto, 42 Scalfari Eugenio, 42 Schifano Mario, 157 Schipa Tito, 212 Seidel Max, 122 Sereni Vittorio, 188 Sesti Mario, 50, 52 Silvestrini Paolo, 28 Simenon George, 6, 107, 108, 109, 110, 161, 163 Soldati Mario, 70 Solmi Angelo, 16 Sordi Alberto, 11, 25, 29, 31, 32, 33, 34, 63, 68, 96, 103, Spencer Bud (Carlo Pedersoli), 51 Sperandini Fernanda, 200 Stallone Sylvester, 104 Stamp Terence, 70 Steno (Stefano Vanzina), Stoja Stefano, 27, 165 Strehler Giorgio, 85 Sutherland Donald, 103, 104 Svevo Italo, 166

V Valeri Franca, 7, 25, 26, 27 Valli Alida, 90 Verdi Giuseppe, 74 Verdone Carlo, 11, 32, 33, 34 Villaggio Paolo, 119, 158 Villari Anna, 77, 78 Virzì Paolo, 91 Visconti Luchino, 56, 74, 85, 90, 92, 93, 139 Vittorini Elio, 38 Volpe Alessandro, 96 Volontè Gian Maria, 103 W Welles Orson, 123 Wertmüller Lina, 78, 160 Willner Hal, 75 Z Za (Zanini) Nino, 191 Zanelli Dario, 176, 177 Zanzotto Andrea, 79, 120 Zapponi Bernardino, 6, 42, 46, 67, 68, 69, 70, 71, 177, 178 Zavalloni Serena, 195 Zavattini Cesare, 14, 46 Zavoli Sergio, 55, 192, 200 Zeffirelli Franco, 74 Ziana Vanna, 201

T Tellini Piero, 14, 37 Testa Armando, 31 Tobino Isabella, 136 Tobino Mario, 6, 133, 134, 136 Toffetti Sergio, 160, 161 Tornabuoni Lietta, 125, 129, 141, 156 Toscanini Arturo, 73 Tosi Piero, 90, 91, 92, 93 Totò, 12, 18 Tozzi Fausto, 29 Trieste Leopoldo, 29, 30 Truffaut François, 17, 115 U Ullman Liv, 112

220

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Bibliografia

Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, 1980 Federico Fellini, Giulietta, Il Melangolo, 1994 Federico Fellini, Il mio amico Pasqualino, ristampa anastatica a cura della Fondazione Federico Fellini, 1997 Federico Fellini, Il libro dei sogni, Rizzoli, 2019 Carissimo Simenon, Mon cher Fellini - Carteggio di Federico Fellini e Georges Simenon, Adelphi, 1998 8 ½ di Federico Fellini a cura di Camilla Cederna, Cappelli, 1963 Roma di Federico Fellini a cura di Bernardino Zapponi, Cappelli, 1972 Giulietta degli Spiriti negli Archivi Rizzoli, a cura di Domenico Monetti e Giuseppe Ricci, Centro Sperimentale di Cinematografia e Fondazione Federico Fellini, 2005 8 ½ negli Archivi Rizzoli, a cura di Domenico Monetti e Giuseppe Ricci, Centro Sperimentale di Cinematografia e Fondazione Federico Fellini, 2008 Gianfranco Angelucci, Segreti e bugie di Federico Fellini, Luigi Pellegrini Editore, 2013 Alberto Anile, Alberto Sordi, Edizioni Sabinae, 2020 Alberto Arbasino, Ritratti Italiani, Adelphi, 2014 Marco Bertozzi, La città necessaria. Roma nella poetica felliniana in Roma nel cinema, Semar, 2000 Marco Bertozzi, Lo sguardo e la rovina. Appunti per un itinerario su Roma nel cinema, in Roma nel cinema tra realtà e finzione, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, 2000 Esterno giorno: vita e cinema di Gianni Di Venanzo operatore a cura di Dimitri Bosi, Centro Sperimentale di Cinematografia, 1997 Federico Fellini. Contemporary Perspectives, a cura di Frank Burke e Marguerite R. Walker, University of Toronto Press, 2002 Dino Buzzati, I misteri d’Italia, Mondadori, 2020 Fabio Camilletti, Gobal, di Bernardino Zapponi, in www.mattatoio5.com Marina Ceratto Boratto, La cartomante di Fellini, Baldini+Castoldi, 2020 Paolo Ceratto, Il personaggio della madre interpretato da mia madre: Caterina Boratto nel cinema di Federico Fellini in Rivista Amarcord n. 1-2, Fondazione Federico Fellini, 2007 Charlotte Chandler Io, Federico Fellini, Mondadori, 2020 Alberto Crespi, Il prigioniero di Fellini, in Bianco e Nero, Centro Sperimentale di Cinematografia, n. 591, maggio-agosto 2018 Caterina d’Amico de Carvhalo, Guido Vergani, Piero Tosi. Costumi e scenografie, Mondadori Electa, 2006 Paolo Fabbri, Fellinerie, Guaraldi, 2016 Goffredo Fofi e Franca Faldini, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960 - 1969, Feltrinelli, 1981 221

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Marco Giusti, Polidor e Polidor, Cineteca Bologna, 2019 Gianfranco Miro Gori, Le radici di Fellini. Romagnolo del mondo, Il Ponte Vecchio, 2016 Aldo Grasso, «La dolce vita» e la distanza di pensiero tra Fellini e Flaiano, Corriere della Sera, 21 maggio 2020 Giovanni Grazzini, Federico Fellini. Intervista sul cinema, Laterza, 1983 Oscar Iarussi, Amarcord Fellini. L’alfabeto di Federico, il Mulino, 2020 Tullio Kezich, Federico Fellini, la vita e I film, Feltrinelli, 2007 Tullio Kezich, La biografia infinita - Una lettera a Nino Rota in Fellini Amarcord, n. 1-2, Fondazione Federico Fellini, 2008 Tullio Kezich, Il teatro del mondo. Incontro con Tullio Pinelli in Fellini Amarcord, n. 3-4, Fondazione Federico Fellini, 2008 Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto la Dolce vita, Sellerio, 2009 Francesco Lombardi, Pirati? Sirene? Una lettera di Federico Fellini in Arts and Artifacts in Movie - Technology, Aestethics, Communication, Fondazione Giorgio Cini - Istituto per la musica, n.4, 2007 Ezio Lorenzini, Federico Fellini mio cugino. Dai ricordi di Fernanda Bellagamba, Il Ponte Vecchio, 2021 Valerio Magrelli, Lo sciamano di famiglia, Laterza, 2015 I libri di casa mia. La biblioteca di Fellini, a cura di Oriana Maroni e Giuseppe Ricci, Fondazione Federico Fellini, 2008 Andrea Minuz, Dell’incantamento. Hitchcock, Bergman,Fellini e il motivo dello sguardo, Ipermedium Libri, 2009 Andrea Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, Rubettino, 2012 Andrea Minuz, Fellini, Roma, Rubettino, 2020 Italo Moscati, Fellini & Fellini. L’inquilino di Cinecittà, Lindau, 2016 Alberto Pezzotta, Il lungo respiro di Brunello Rondi, Edizioni Sabinae, 2010 Alberto Pezzotta, L’io minuscolo. Oreste del Buono critico cinematografico in L’infaticabile Odb, a cura di Giovanna Rosa, Fondazione Mondadori, 2016 L’arte di Fellini nella collezione Gèleng e nei costumi di Danilo Donati, a cura di Giuseppe Ricci, catalogo della mostra, Rimini, Museo Fellini, 2005 Tatti Sanguineti, Fellini & Rossi. Il sesto vitellone, Le Mani – Cineteca di Bologna, 2001 Eugenio Scalfari, La sera andavamo in via Veneto, Einaudi, 2009 Max Seidel, Fellini - Picasso. O beauté monstre énorme, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, 2016 Stefano Stoja, Ennio Flaiano e la fontana di Trevi: lo scrosciare ticchettante delle idee in Cartevive, Anno XXI n. 45, Nov. 2010, Lugano Alessandro Volpe, Arnaldo Galli, Pezzini editore, 2014 Bernardino Zapponi, Il mio Fellini, Gli specchi Marsilio, 1995

222

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Ringraziamenti

Questo libro non sarebbe nato senza il convinto sostegno e lo stimolo di Vera Bessone, caposervizio Cultura e Spettacoli del Corriere Romagna, a pubblicare per oltre un anno, in occasione del Centenario felliniano, la rubrica settimanale Federico Fellini: i 100 anni del genio riminese. A lei va quindi il mio più grande ringraziamento. Ad Antonio Maraldi devo un preziosissimo contributo nel lavoro di redazione e revisione finale. Ma soprattutto immensa riconoscenza per avermi concesso l’utilizzo della splendida foto inedita di copertina proveniente dal Fondo Paul Ronald del suo archivio personale. I miei ringraziamenti vanno inoltre a: Marco Leonetti e Nicola Bassano della Cineteca Comunale di Rimini che mi hanno supportata/sopportata nelle ricerche di libri, riviste e contatti, e allo staff della Biblioteca Gambalunga di Rimini per la disponibilità e pazienza nei complicati periodi di lockdown. A Stefano Stoja per gli spunti e gli scritti su Flaiano e Pinelli, a Paolo Silvestrini e Simone Casavecchia per i contatti “romani”. A Pietro Conversano per la lettura e i consigli. A Marina Comandini per avermi aperto la sua casa e fatto avvicinare all’universo fantastico di Andrea Pazienza. A tutti coloro che mi hanno rilasciato interviste nel corso di questa avventura. In particolare a Sandra Milo per l’amichevole chiacchierata in una stanza d’hotel. Grazie a Federico Fellini, che mi ha fatto volare.

223

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Indice

Introduzione

5

MAESTRI Aldo Fabrizi, il «romano de Roma» che portò Fellini al cinema

11

Rossellini e Fellini, come il gatto e la volpe

17

BOTTEGA FELLINI Sotto le Luci del varietà con Masina e Del Poggio brilla anche Franca Valeri

25

Rossi, il sesto vitellone: «Il vero Moraldo ero io»

28

Alberto e Federico, che amici! Centenari uniti per cinquant’anni

32

«Insieme a Flaiano mio padre Tullio fu la penna di Fellini»

36

Flaiano e Fellini sotto il segno dell’equivoco

41

Brunello Rondi, sceneggiatore «misterioso» e «sapientissimo»

46

Peppino Amato rapito dal set. Fu il papà de La dolce vita

50

Quando il pubblico di Mosca decretò il successo di 8 ½

54

Gli spiriti di Giulietta nel «manoscritto in bottiglia»

58

Sandra Milo: «Con Federico persi ogni pudore sul set»

62

Toby Dammit: Zapponi e Poe per un Fellini horror

67

«Ninetto carissimo…». Nino Rota e quell’omaggio in jazz

72

Rota, Guerra e gli altri. I grandi sodali di Federico

77

La «Piccola équipe Geleng» al servizio di Fellini

81

224

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Adriana Asti: «Il mio accento per quella ruspante Gradisca»

85

Piero Tosi conteso tra Visconti e Fellini

90

Per quei Vitelloni ci voleva un… Galli

95

Andrea Pazienza e la «donna con l’orecchino»

98

Fu la voce di Fellini. Addio a Gigi Proietti

102

FRATELLANZE Era l’inconscio a unire gli amici Fellini e Simenon

107

Quel duetto d’amore tra Fellini e Bergman

111

Alberto Arbasino: «Così Fellini diede una zampata al Novecento»

116

E Fellini inventò Mr. Prik. Al Castello a tu per tu con Picasso

120

Fallaci, Cederna e Tornabuoni. Fellini svelato dalle giornaliste

125

LE DONNE DI FELLINI: MATTE, SIRENE E FEMMINISTE Le «matte» di Tobino inseguite e ripescate nell’ultimo film

133

La pastorella e San Giuseppe. Magnani e Fellini, che «miracolo»

137

Meri Lao, le sirene e l’ironico inno femminista

141

Mina, la terza musa mancata dal Mastorna al Satyricon

145

Anna Giovannini: ecco il ritratto dell’amante

149

I SOGNI, GLI SPIRITI, I FUMETTI I sogni a fumetti di Fellini dai cassetti alla rivista Il Grifo

155

In quei sogni su carta una centrale nucleare di idee

160

L’anima di Pasqualino è l’anima di Federico

164

Il mago, lo psicanalista e Buzzati. Ecco il Fellini degli spiriti

168

225

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CARTE SPARSE: TRA POETICA E LETTERATURA Roma, la Grande Madre e i film come balocchi

175

Quanta America di Kafka nell’Intervista di Fellini

179

Il cinema di Fellini tra Dante e Kafka ma anche Buzzati e…

184

FEDERICO DA RIMINI… E GAMBETTOLA Quel progetto realizzato a diciassette anni marinando la scuola

191

La casa con il giuggiolo e la nonna Franzscheina. Salvi i ricordi del piccolo Fellini a Gambettola

195

Rimini, la guerra, il monte Titano. Fellini tra gli sfollati a San Marino?

200

STARDUST MEMORIES Federico Fellini e Polidor: che attrazione fatale

207

La regalità di Caterina Boratto, l’attrice ripescata da Fellini

212

Indice dei nomi

216

Bibliografia

221

Ringraziamenti

223

Indice

224

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227

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Finito di stampare nel mese di aprile 2021 per conto della casa editrice Edizioni Sabinae

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