Almanacco di Filosofia e Politica Vol. 5 Sulla fondazione. Anarchia e istituzioni

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Almanacco di Filosofia e Politica Vol. 5 Sulla fondazione. Anarchia e istituzioni

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Almanacco di Filosofia e Politica Diretto da Roberto Esposito

Sulla fondazione Anarchia e istituzioni A cura di Silvia Dadà e Matteo Polleri

Interventi

Monografica

Archivio

Roberto Esposito, Catherine Malabou, Frédéric Lordon, Chiara Bottici, Martin Saar

Andrea Di Gesu, Paolo Missiroli, Francesca Monate1i, Matteo Pagan, Gabriele Parrino, Valentina Surace, Massimo Villani, Carlo Crosato

Reiner Schurmann, Miguel Abensour

Quodlibet Studio

Indice

Silvia Dadà, Matteo Polleri

La fondazione oltre riforma e insurrezione

7

Interventi Roberto Esposito

Estremismo o radicalismo. Un bilancio

17

Catherine Malabou

Anarchia e istituzione. Riflessioni sulla crisi contemporanea dell'orizzontalità

2.5

Frédéric Lordon

Le aporie ontologiche della destituzione

33

Chiara Bottici

Corpi al plurale: verso un manifesto anarca-femminista

49

Martin Saar

Immanenza e potenza: da Spinoza alla democrazia radicale

75

Monografica Andrea Di Gesu, Paolo Missiroli

L'istituzione come espressione. Tra Wittgenstein e Merleau-Ponty

107

Francesca Monateri

La genesi della forma. Il problema del fondamento tra Schmitt e Lukacs

12.1

6

INDICE

Matteo Pagan

Plasticità ed epigenesi. Note su Catherine Malabou

1 33

Gabriele Parrino

Fondazione e libertà. Hannah Arendt e la lezione romana Valentina Surace

La traccia del negativo. Judith Butler e le ontologie implicite

165

Massimo Villani

Anarchia e democrazia radicale. Etica, politica, storia in Hannah Arendt e Jacques Rancière

177

Carlo Crosato

Michel Foucault, il pensiero anarchico come pensiero istituente 193

Archivio Reiner Schiirmann

Anarchia ed egemonie infrante

223

Con un'introdU7.ionc di Francesco Guercio e lan Alcxandcr Moorc

L'anarchia e le egemonie infrante di Reiner Schiirmann Migucl Abensour

An-archia tra metapolitica e politica Con un'introduzione di Silvia Dadà

La politica nel segno della prossimità

251

La fondazione oltre riforma e insurrezione Silvia Dadà, Matteo Pollcri

Caratteristica dell'Almanacco di Filosofia e Politica è di concentrarsi sul rapporto tra teoria e pratica politica a partire dalla congiuntura storica presente, con l'obiettivo di sondare nuove ipotesi per pensare l'emancipazione. Dalle filosofie dell'immanenza a quelle dell'evento, passando per il concetto di istituzione e per il suo rapporto con il conflitto, questo cantiere di ricerca ha tentato, e continua a proporsi, di affrontare la crisi della sinistra con strumenti non soltanto politologici e sociologici ma anche ontologico-politici, che operano cioè sul piano dell'essere stesso della società e della politica. Il presente numero non sfugge, bensì conferma, l'orizzonte ontologico-politico di tale laboratorio. Lo dedichiamo al problema, a un tempo logico, storico e ontologico e politico, della fondazione. T aie problema costituisce la naturale prosecuzione della riflessione sulle impasse delle filosofie dell'evento sviluppata precedentemente, ma segna anche una discontinuità. Esso risulta coerente con il superamento della dicotomia tra evento e processo storico delineato nell'ultimo numero dell'Almanacco. Il concetto di fondazione permette infatti di guardare all'evento, cioè al mutamento radicale delle istituzioni, da un punto di vista storicizzante e non metafisico. Con fondazione, però, non si indica soltanto la soglia, reale o immaginaria, in cui gli individui si associano per erigere un'istituzione. Essa non si riferisce semplicemente all'evento che avvia un processo o che ne segna una svolta. Fondazione, piuttosto, è il nome comune delle molteplici figure dell'invenzione e della trasformazione istituzionale. Si tratta, cioè, di un concetto flessibile, che permette di pensare contemporaneamente la creazione, la negazione e il cambiamento dell'istituzione. A differenza dell'evento, il tema della fondazione non si impone a causa dell'irruzione improvvisa della pandemia, della dirompenza

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con la quale ha sconvolto il sistema-mondo e con esso l'esperienza ordinaria di ciascuno. Questo tema emerge, piuttosto, da un insieme di tendenze che attraversano la nostra epoca; ci invita a ripensare il problema del fondamento delle istituzioni; e apre una pista d'indagine relativa alla forma politica che le lotte per il cambiamento radicale del presente possono assumere.

1.

Anarchia e istituzioni nel capitalismo contemporaneo

In quella che lo storico inglese Adam Tooze chiama ormai l'epoca della «poli-crisi» (cioè del catastrofico intreccio di crisi ecologica, sanitaria, logistica, finanziaria e geopolitica), il rapporto tra istituzioni economiche, sociali e politiche è sottoposto a una tensione crescente. Semplificando, questa tensione interna al capitalismo contemporaneo ci pare determinata da due tendenze che, seppur di segno opposto, rinviano al complesso rapporto tra anarchia e istituzioni. Si tratta, anzitutto, della tendenza del cosiddetto «capitalismo di piattaforma» a sfuggire definitivamente ai vincoli e alle mediazioni degli Stati-nazione. Come ricorda Christine Malabou nel suo saggio, l'uberizzazione dell'economia costituisce una forma anarchica di capitalismo. Le sue dinamiche risultano ingovernabili attraverso gli strumenti classici della regolazione politica e della pianificazione economica, basati sul compromesso tra Stato e capitale. Anarchico, il capitalismo contemporaneo, lo è però in modo molto peculiare. Più che liberare gli individui, esso approfondisce le gerarchie sociali, acuisce le forme di dominio e favorisce le torsioni autoritarie del potere politico. Sul piano dell'economia virtuale e dei servizi, il capitalismo di piattaforma centralizza il controllo finanziario delle reti sociali e il ricatto del debito pubblico e individuale. Sul piano della produzione e della riproduzione sociale, esso sviluppa nuove tecniche di estrazione delle materie prime, digitalizza i meccanismi di trasporto e vendita, invisibilizza e domina il lavoro domestico e migrante, con devastanti conseguenze di sfruttamento e violenza. Sul piano dei governi statali, infine, queste tendenze del capitalismo contemporaneo favoriscono l'avvento di nuove forme di fascismo, l'accentuazione di politiche nazionaliste, immunitarie e xenofobe, e accelerano il riarmo militare.

LA FONDAZIONE OLTRE RIFORMA E INSURREZIONE

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La seconda tendenza storica dalla quale partiamo è costituita dalla diffusione di una sensibilità filosofico-politica anarchica, con la quale sono spesso interpretati i movimenti sociali contestatari più recenti. Secondo diversi autori, i movimenti che si oppongono al capitalismo contemporaneo assumono forme che risultano anarchiche, se non nell'ideologia, almeno nello sviluppo e negli esiti. Si pensi, ad esempio, a certe letture delle lotte femministe e intersezionali. Come sostiene Chiara Bottici nel suo saggio, esse trovano proprio nell'anarchia in quanto rifiuto di ogni forma di oppressione la loro più coerente ontologia. Un pensiero di questo tipo, infatti, permette di mettere in discussione dualismi e gerarchie, favorendo un approccio transindividuale e rivalutando la pluralità e le differenze dei corpi. Ma si pensi anche alla rivolta di Black Lives Matter contro il razzismo strutturale della polizia e alla sollevazione sociale dei Gilet Gialli, alle occupazioni delle terre promosse dai movimenti ecologisti e alla Great Resignation dal lavoro salariato negli Stati Uniti. Questi fenomeni sono letti, da alcuni, come «potenze destituenti», cioè come tentativi di abolizione delle istituzioni e di esodo dalla politica. L'interpretazione anarchica dei recenti movimenti contestatari non ci pare casuale. Essa dipende anzi dalla struttura stessa del capitalismo contemporaneo e dalle difficoltà riscontrate da altri paradigmi teorici, incapaci di comprenderlo e di tradurre politicamente le proteste che lo scuotono. Più elastiche rispetto al marxismo, al liberalismo o alla socialdemocrazia, le teorie anarchiche sembrano allora adeguate a comprendere e supportare filosoficamente i nuovi movimenti contestatari. Per noi, le tendenze anarchiche che si agitano al giorno d'oggi pongono invece il problema ontologico del fondamento delle istituzioni e aprono l'orizzonte politico della loro rifondazione. A partire da differenti angolazioni, questo volume tenta quindi di problematizzare l'opposizione dicotomica tra anarchia e istituzioni scoprendo, al fondo dell'istituzione, un'origine an-archica e, viceversa, una potenza istituente insita nei movimenti sociali e nelle pratiche insurrezionali. In questo senso, è quindi necessario porsi due questioni: qual è quest'origine anarchica dell'istituzione? E come va interpretata nel contesto storico delle istituzioni esistenti?

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2.

(S)fondamenti

Svelando la loro costitutiva fragilità, le tendenze storiche appena ricostruite portano alla luce ciò che, con il lessico dell'ontologiapolitica, possiamo chiamare gli (s)fondamenti propri all'istituzione. Questi (s)fondamenti, si badi, non risultano soltanto distruttivi, ma anche e soprattutto rifondativi. Se la nostra epoca è da considerarsi, con Heidegger, come quella della crisi del fondamento e, con Lyotard, come quella della fine delle grandi narrazioni, ciò non significa che la politica si debba ridurre a una frammentaria potenza destituente, che rende inoperoso ogni ordine istituzionale. Pur presentandosi come rivoluzionaria, questa proposta comporta in realtà la negazione delle sue stesse premesse: l'annullamento della politica come espansione della potenza di agire e la sua conseguente condanna alla passività e all'impotenza. Una volta dissolta nella puntualità della decisione, nell'hic et nunc di un evento senza storia, nel barlume di un gesto, in effetti, la trasformazione sociale svanisce con la stessa rapidità con cui si dà. L'estetizzazione della rivolta si risolve così nell'elogio di un «fuori» - dalle istituzioni del diritto, dall'economia, del potere -, che occulta e restringe i margini di cambiamento di queste stesse istituzioni. Per superare l'approccio destituente, senza però rinunciare alla sua forza critica, conviene passare dal concetto statico di istituzione al quello dinamico di prassi istituente. Questo ci pare un modo efficace per rendere conto della mobilità e del carattere processuale dell'istituzione, come struttura permeabile al conflitto. Sul piano ontologico, questa traduzione dell'istituzione nell'istituire comporta di riconoscere che ogni istituzione nasce, cresce, cambia e muore grazie a un'istanza an-archica immanente. Ciò risulta, almeno a prima vista, paradossale. Oggi, istituzione e anarchia continuano infatti ad essere essere intesi come il fondamento e la sua negazione: come l'ordine opposto al disordine, come conservazione e innovazione. Ma se si assume invece la convivenza di queste dimensioni, si creano le condizioni per non disperdere, e anzi accogliere, le spinte al cambiamento e le dinamiche conflittuali. Al di là delle sue diverse interpretazioni, è così che vogliamo intendere l'espressione ossimorica del «principio an-archico» usata da Reiner Schiirmann. Essa rimanda alla necessità di abitare questa tensione originaria, ma rimane tuttavia legata alla nostalgia heideg-

LA FONDAZIONE OLTRE RIFORMA E INSURREZIONE

II

geriana per il fondamento metafisico perduto. T aie necessità è evocata, sulla scia di Levinas, anche da Miguel Abensour. Superando l'ontologia, egli declina invece l'an-archia in senso pratico, nell'apertura all'alterità e all'incontro, e restituisce così il terreno dell'istituzione alle relazioni pre-originarie che ne costituiscono la trama etica. Con queste e altre ispirazioni, il volume invita a riaprire il conflitto che travaglia l'istituzione dall'interno: tra affermazione e negazione del suo principio, tra la sua origine e la sua attualità. Anarchia e istituzione convivono così in un rapporto di implicazione reciproca: l'anarchia svela il paradosso fondantivo dell'istituzione, cioè il suo antagonismo sotterraneo, mentre l'istituzione dà senso a questo fondo an-archico. T aie mossa non ci riconduce a un fondazionalismo conservatore, cioè alla riaffermazione dell'identità tradizionale e immutabile delle istituzioni. Néci porta a sostenere un'interpretazione anarchica dei fenomeni politici poc'anzi menzionati. La co-implicazione di anarchia e istituzione apre piuttosto una tensione creativa. L'antagonismo rivelato dal fondo an-archico dell'istituzione, più che un vuoto, ci pare infatti un pieno. Il pieno dell'attività dei molti che sfondano e rifondano le istituzioni che li opprimono e li sfruttano, e che trovano a loro volta fondamento nell'istituzione come processo istituente.

3. Istituire la democrazia radicale

Questa dinamica ci rimanda alla forma politica che questi (s)fondamenti originari, riattivati dalle sollevazioni sociali del presente, possono assumere per trasformare radicalmente le istituzioni. I movimenti sociali che si impongono oggi sulla scena politica agiscono in effetti secondo modalità insorgenti e talvolta addirittura insurrezionali. Tali insurrezioni generano però, al tempo stesso, nuove istituzioni e cambiano quelle date, appoggiandosi alla stratificazione di esperienze, codici e ordinamenti di un tempo e di un luogo determinato. Le insorgenze sociali del presente operano, in altri termini, come prassi istituente, come un processo che fa emergere nuovi soggetti tra le pieghe dell'accumulo storico. A nostro avviso, questa prassi squaderna un orizzonte ontologico e politico in grado di superare ciò che, riprendendo una formula di Étienne Balibar, chiamiamo la dicotomia tra riforma e insurrezione.

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Ontologicamente, possiamo sostenere che, proprio come l'istituzione è già da sempre potenza istituente, i movimenti sociali contengono una potenza fondante: la perenne reinvenzione del dato, che non esclude il suo senso anarchico, ma che non si disperde nemmeno nel vuoto di un gesto arbitrario. A questo proposito, risulta utile richiamare la profondità semantica del termine «movimento». Esso ha infatti un carattere differenziale: tiene insieme le forze singolari che avviano un cambiamento, e allo stesso tempo l'unità di un processo, che deve la sua solidità all'unione e alla sincronizzazione dei singoli vettori. Movimento, in quest'ottica, è ciò che mette inizialmente in moto e ciò che continuamente muove l'istituzione come processo di fondazione e rifondazione. Politicamente, questa constatazione ontologica ci consegna un'importante lezione. Da un lato, essa insegna che i processi di riforma e di mutamento graduale delle istituzioni diventano effettivi soltanto grazie all'energia insorgente che riattiva il loro fondo an-archico. Dall'altro lato, questa constatazione ci rimanda alla necessità di dare forma politica a quell'energia insorgente. In sintesi, si può allora dire che senza attività insorgente, nessuna riforma delle istituzioni è possibile; ma anche che senza istituzione, l'insurrezione non si traduce mai in una trasformazione effettiva e duratura. E tuttavia, come dare forma a una potenza magmatica e an-archica? Come istituire senza depotenziare quell'energia insorgente? In questo volume, il concetto e le pratiche della democrazia radicale sembrano poter raccogliere tale sfida. Come mostrano le filosofe e i filosofi che si iscrivono in questo solco, il fondo ontologico an-archico dell'istituzione si traduce nella spinta alla democratizzazione radicale delle istituzioni stesse. Una spinta che costituisce, al tempo stesso, l'origine storica, la radice ontologica e l'afflato futuro dell'istituzione intesa come ordine dinamico. Ciò permette di concepire la democrazia come qualcosa di più della procedura formale che legittima le decisioni delle burocrazie centralizzate e che rende responsabili i rappresentanti eletti. In senso radicale, in effetti, la democrazia è piuttosto il regime che suscita e valorizza le rivendicazioni sociali e i bisogni vitali, dando espressione alla molteplicità e alle differenze. Gli stessi confini della politica vengono così ridisegnati, stabilendo quali questioni valgono come tali e formando nuove soggettività attraverso pratiche di contestazione e mobilitazione collettiva. Una de-

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mocrazia radicale sia negli obiettivi, l'estensione dell'uguaglianza e dell'emancipazione, sia nelle premesse, in quanto organizza e struttura l'energia insorgente senza agganciarla a un fondamento universale e statico. Radicalmente democratica, la prassi istituente lo è nella misura in cui attacca alla radice delle forme di dominio del presente, democratizzando le istituzioni economiche, sociali e politiche, e dando così forma e durata ai movimenti che, continuamente, le destabilizzano. &sa non accoglie infatti, in modo acritico e indifferenziato, ogni forma di movimento. Con la democrazia radicale, la prassi istituente elabora piuttosto un criterio per distinguere e sostenere le istanze egualitarie della giustizia sociale, anti-razzista, riproduttiva e climatica. Per dare consistenza alla reinvenzione istituzionale conviene dunque ripartire da questa traduzione del fondo an-archico nella democratizzazione radicale; dalla conversione degli eventi inattesi in processi trasformativi a lungo termine, cioè dall'istituzione dell'insurrezione. Rendere l'origine an-archica di ogni istituzione una bruciante attualità significa, perciò, interpretare i movimenti sociali del presente come insiemi di pratiche di rifondazione delle istituzioni, oltre la dicotomia tra riforma e insurrezione. È in questo senso che, parafrasando Marx, la democrazia radicale si presenta come quella «forma politica finalmente scoperta» che può istituire le insorgenze sociali contro il capitalismo contemporaneo.

Il presente volume è organizzato in tre sezioni. La prima ospita i contributi di filosofe e filosofi che, nelle loro ricerche, si sono confrontati con i temi della fondazione, del fondamento politico e del rapporto tra istituzioni e anarchia. Vi intervengono Catherine Malabou, Frédéric Lordon, Chiara Bottici e Martin Saar. La seconda sezione è invece l'esito dei lavori di quest'anno svolti dai giovani studiose e studiosi che partecipano al «Seminario permanente di Filosofia e politica» che si tiene presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Trovano qui spazio i saggi di Andrea Di Gesu e Paolo Missiroli, Francesca Monateri, Matteo Pagan, Gabriele Parrino, Valentina Surace e Massimo Villani. La terza sezione, infine, dedicata ali' Archivio, ospita la traduzione di due saggi, inediti in italiano, che sono

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risultati rilevanti per il tema della nostra ricerca. Si tratta della seconda parte di una conferenza di Reiner Schiirmann dedicata alla critica heideggeriana del concetto di fondamento, la cui prima parte era apparsa nel precedente Almanacco; e di un saggio di Miguel Abensour sull'idea di an-archia, discussa grazie a un confronto serrato con il pensiero di Levinas.

Questo volume si apre con un saggio di Roberto Esposito, che delinea con chiarezza e lucidità il percorso di ricerca che si è svolto in questi anni e che deve molto alla sua ispirazione. Lo ringraziamo ancora una volta per la passione, l'interesse e il supporto che dedica a questo cantiere. Il «Seminario permanente di Filosofia e Politica», coordinato da Mattia di Pierro e Francesco Marchesi, è il suo naturale luogo di elaborazione. Un ringraziamento va quindi a Mattia e Francesco, a tutto il gruppo che, da ben cinque anni, discute di filosofia e ontologia politica due volte al mese, e a tutti i partecipanti che hanno contribuito quest'anno alla riuscita della discussione. Un pensiero speciale va inoltre a Rita Fulco e Andrea Moresco, curatori del quarto numero dell'Almanacco, la cui riflessione è stata particolarmente importante per la concezione del presente volume. Per quest'iniziativa, seminariale e editoriale, restano ovviamente decisivi il contributo della Scuola Normale Superiore di Pisa, nonché il confronto costante con la cattedra di Filosofia Politica e con quella di Filosofia Teoretica, con le loro collaboratrici e con i loro collaboratori. Per questo, e per molto altro, ringraziamo Simona Forti, Alberto Martinengo e Laura Cremonesi.

Interventi

Estremismo o radicalismo. Un bilancio Roberto Esposito

1. A cinque anni dall'uscita del primo numero dell'Almanacco di filosofia e politica può essere utile riproporne le ragioni, ripercorren-

do per brevi cenni la strada fatta. Nella prefazione di quel fascicolo s'identificava l'ambito d'intervento dell'Almanacco nello spazio, a tutt'oggi aperto, tra storiografia storico-politica e discussione pubblica. Il presupposto da cui l'iniziativa muoveva era che la filosofia potesse giocare un ruolo non irrilevante nel confronto, e anche nello scontro, tra idee produttive di effetti reali sul terreno sociale e politico. Intervenire in questa dinamica sembrava tanto più urgente quanto più si allargava la distanza tra alcuni dei paradigmi filosofici più diffusi in area continentale e i movimenti di opinione all'interno delle società contemporanea. La nostra impressione era che, nonostante il loro spessore teoretico, tali paradigmi finissero per avere una funzione controproducente rispetto alla richiesta di politica determinata dal riflusso della globalizzazione e dalla conseguente esigenza di nuovi modelli socio-politici. La recente disfatta elettorale della sinistra italiana conferma tale diagnosi, evidenziando una sorta di afasia della sua cultura di fronte al tentativo della destra di ritagliarsi una nuova identità nel vuoto di idee della parte avversa. Questo processo, che cambia i rapporti di forza politico-culturali in Italia, ma non solo, ci induce a precisare meglio la nostra prospettiva, anche a seguito di eventi globali che stanno modificando radicalmente il mondo contemporaneo. Mai come in questo caso è opportuno parlare, come fin da subito abbiamo fatto, più che di filosofia, di ontologia politica. Da tempo, e sempre di più, la politica, come prassi e come pensiero, non si riduce solo alla definizione e distribuzione del potere. E neanche semplicemente alla resistenza nei suoi confronti. Essa è entrata in rapporto, frontale e teso, con la vita

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ROBERTO ESPOSITO

individuale e collettiva in una forma che sta mutando tutti i parametri validi fino a qualche anno addietro. Perciò caratterizzare quanto sta accadendo con il termine «crisi», almeno per come è stato usato nel secondo Novecento, appare insufficiente, se non addirittura fuorviante. Sia in economia che in politica con tale termine si indicava la modalità dinamica con cui un certo modello, economico o politico, si ristrutturava superando una strozzatura e così evitando una reale trasformazione. Ben diverso è stato l'esito degli eventi tragici degli ultimi anni. Dal crollo economico del 2008 alla pandemia, fino alla guerra in Ucraina - per non parlare dell'emergenza ambientale - più che di crisi di governo, o come governo, si è trattato di vere e proprie «catastrofi», nel senso etimologico di radicale mutamento di stato. Qualcosa che tocca non solo la forma, ma l'essere stesso, delle nostre vite - minacciate nella loro sopravvivenza e profondamente modificate nella loro modalità. Proprio questo passaggio drammatico - in particolare la pandemia, ma per certi versi anche la guerra - ha messo ancora più in luce le difficoltà della filosofia continentale orientata a sinistra. Certo, le posizioni espresse dai maggiori filosofi in merito sono state diverse. Ma resta il senso di un'inadeguatezza complessiva a misurarsi con eventi da tutti i punti di vista epocali. Se dovessi definire con una sola espressione questa incapacità della filosofia contemporanea di fronteggiare gli eventi in atto, parlerei di «estremismo» - quasi che essa volesse rispondere a fenomeni, essi sì estremi, mimandone la carica dirompente, senza accorgersi, in questo modo, di rimanere a essi subalterna. Attenzione, usando il termine «estremo» non lo assimilo in nessun modo a quello di «radicale», anzi li contrappongo. Il pensiero estremistico non solo non coincide con un pensiero radicale, ma è per certi versi il suo contrario. Tra estremismo e radicalità passa la stessa distanza che in questo fascicolo Massimo Villani coglie tra contingenza radicale e contingenza assoluta. La divergenza sta nel fatto che, mentre una filosofia radicale si radica, come dice la parola stessa, in una determinata situazione storica, senza mai perdere il rapporto con le proprie condizioni genetiche, l'estremismo filosofico spezza il rapporto con la radice, esprimendosi in termini ab-soluti, vale a dire sciolti dal contesto in cui si situa e dai condizionamenti che ne provengono. Come se la contingenza non avesse rapporti con la necessità, fosse del tutto autonoma dai limiti che questa pone.

ESTREMISMO O RADICALISMO. UN BILANCIO

Ma c'è di più. Il pensiero estremistico, anziché articolare le differenze in un quadro complesso, come fa invece quello radicale, tende ad assolutizzarle, scavando tra esse uno scarto irriducibile. Per esempio, se in ordine alla pandemia ha contrapposto drasticamente potere e vita, salute e libertà, in relazione alla guerra ha divaricato in maniera assoluta le due etiche che Max Weber definiva con i termini di convinzione e responsabilità. F.sattamente le polarità che il pensiero radicale si sforza di connettere, senza ignorare le tensioni che la loro articolazione determina, ma consapevole che solo da essa può scaturire una posizione allo stesso tempo filosofica e politica. Il problema di fondo resta quello di congiungere filosofia e storia - anche qui in contrasto con la de-storicizzazione della filosofia generalmente prodotta dal pensiero estremistico. 2. Ma facciamo un passo indietro, tornando al primo numero dcli'Almanacco. Nella sua introduzione Mattia di Pierro e Francesco Marchesi collegano questa tendenza estremistica al pensiero dell'immanenza originato, alla fine degli anni Sessanta, dal rifiuto della dialettica, anche di quella «negativa» formulata da Adorno. Naturalmente questo non vuol dire sottovalutare il rilievo teoretico della svolta immanentista. Essa ha contribuito a rinnovare in profondità il panorama filosofico precedente, ancora interno a una semantica soggettivistica e trascendentalista. L'immanentismo contemporaneo ha portato ai suoi esiti la crisi dei fondamenti determinata dal collasso della tradizione metafisica, aprendo la strada a quel pensiero postfondazionalista cui fa opportunamente riferimento Catherine Malabou nel testo qui pubblicato. Il versante emancipativo della filosofia anarchica, come è da lei presentato in un libro importante dal titolo Au voleur. Anarcbisme et pbilosopbie, rimanda appunto al piano di immanenza determinato dal rifiuto di ogni gerarchia verticale. Ciò detto, l'opzione immanentista, storicamente riconducibile soprattutto alla tradizione bergsoniana, come è stata rielaborata da Deleuze e, più recentemente, in Italia, da Rocco Ronchi, presenta un forte deficit sotto il profilo filosofico-politico o, ancor meglio, ontologico-politico. La sovrapposizione assoluta tra ontologia e politica, sostenuta da Toni Negri, rende problematica la stessa determinazione della politica come ambito specifico dell'esperienza umana.

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Senza poter in questa sede approfondire il tema quanto si dovrebbe - discutendo criticamente la categoria, originariamente economica, di «produzione» -, mi limito a individuare un'antinomia interna alla prospettiva immanentista che coinvolge anche il paradigma anarchico, al quale questo numero è dedicato in confronto dialettico con quello istituente. L'anarchismo filosofico, come sottolinea Malabou, implica una contestazione radicale non solo di ogni potere, ma anche di ogni forma di governo che trascenda il piano orizzontale di immanenza. Da tale presupposto però scaturisce una contraddizione non solo storica, bensì anche teoretica. Restando comunque il potere, e anche il governo, in piedi in tutte le società antiche e moderne, si genera necessariamente un dualismo nei confronti della soggettività anarchica che non lo riconosce. Non articolandosi tra loro, potere e soggetti rimangono drasticamente separati. In tal modo una prospettiva programmaticamente monista si rovescia in forma dualistica: potere e soggettività restano reciprocamente esterni l'uno ali'altra, con la differenza che mentre il primo può agire, e di fatto agisce, sulla seconda, questa non può interagire con un potere che disconosce in linea di principio. Non a caso, e come accade in ogni tipo di estremismo filosofico, il quadro analizzato si rompe in una serie di dicotomie irriducibili - tra immanenza e trascendenza, costituente e costituito, potere e resistenza. Diversamente da quanto fa Foucault, che trattiene nella stessa orbita potere e resistenza, individuando nell'uno l'effetto dell'altra e viceversa. Ignorare, o contestare, qualcosa che comunque esiste come il potere - non lo fa sparire, ma paradossalmente lo rende trascendente, isolandolo in una sfera che lo rafforza. Da qui il deficit di politicizzazione cui si alludeva. È vero che la filosofia immanentista ha assunto e assume posizioni politiche, ma del tutto schiacciate sulla dinamica sociale. Così il richiamo ali'autonomia, da parte di alcuni dei suoi interpreti di spicco, riguarda soltanto il sociale, appunto del tutto scisso dal politico. Ma in questo modo la politica dell'immanenza assume una connotazione inevitabilmente impolitica in una sorta di cortocircuito tra iper-politicizzazione e spoliticizzazione: se ogni cosa, sul piano d'immanenza, è generalmente politica, nulla può esserlo specificamente. Coincidendo la politica con la produzione ontologica in quanto tale, non serve, né è possibile, definirne motivazioni, strumenti, obiettivi - tutti sussunti, e insieme annullati, nella potenza illimitata dell'essere.

ESTREMISMO O RADICALISMO. UN BILANCIO

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Del resto l'esito dell'analisi del capitalismo proposta da Deleuze nella sua trilogia politica resta quantomeno ambivalente. Nel senso che, tutt'altro che contrastarne le derive, chiede di spingerle ali'estremo, provocandone l'esaurimento per autocombustione. È l'esito di tutte le filosofie «accelerazioniste», a partire da quella nietzscheana, per la quale l'unico modo di trattare il nichilismo è quello di potenziarne la carica dissolutiva in attesa che si rivolga contro sé stesso, implodendo. Questa prospettiva consegue all'eliminazione del negativo, teorizzata da Bergson, o al suo incorporamento nell'affermazione attuata da Deleuze attraverso la traduzione della negazione in differenza. Ma cosa accade se, come è sotto gli occhi di tutti, il nichilismo, come del resto il capitalismo, tutt'altro che autodistruggersi, continua a prosperare. Una volta azzerata la politica, perché inevitabilmente compromessa con la verticalità del potere, e polverizzata la soggettività antagonistica in una miriade di differenze irriducibili a un progetto collettivo, chi contrasterà un capitalismo e un potere tendenti a sbarazzarsi di ogni limite? 3. L'altro paradigma, per certi versi complementare all'immanentismo, che in anni recenti ha contribuito all'appannamento della politica è quello di disattivazione. Alla sua origine vi è il pensiero del secondo Heidegger, a partire dal suo progressivo ritrarsi dalla categoria di «opera». Dal momento in cui egli vede lo sviluppo della metafisica portare la politica - tutta la politica, totalitaria e democratica - a incapsularsi nella tecnica, a sua volta caricata dei tratti negativi della Macbenscbaft, non resta che la prospettiva dcli'abbandono, la decisione di non decidere, lasciando essere ciò che è. Si tratta di una figura, anche in questo caso estrema, dell'impolitico, privato di ogni carica propulsiva e portato a dissolversi nel proprio non-essere politico. Così la categoria di opera, in una prima fase collegata da Heidegger alla potenza creativa del popolo, e successivamente affidata al linguaggio dei poeti, viene smantellata dall'interno e disattivata. A questa prospettiva, nonostante la loro differenza, si rifà, consapevolmente o meno, buona parte delle filosofie continentali. E in particolare lo smontaggio anarchico dei principi epocali di Schiirmann, la comunità inoperosa di Nancy, la potenza destituente di Agamben. Nel caso di questo tipo di riflessioni la depoliticizzazione non è, come nel paradigma immanentista, un effetto antinomico di una propen-

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sione iperpolitica, ma l'esito conseguente di una posizione filosofica consapevole e anzi estremamente sofisticata. Che però ha finito per giocare un ruolo altrettanto, e forse ancora più, neutralizzante nella cultura politica contemporanea. In termini politici è inutile, e al contempo impossibile, criticarla, visto che si pone su un terreno diverso ed esplicitamente alieno da ogni progetto politico - che non sia quello dell'esodo dalle istituzioni, identificate con il carattere impositivo ed escludente dei dispositivi. Più utile, perché ne mette allo scoperto il lato antinomico, è una decostruzione teoretica che converge, nelle sue linee di fondo, con quanto sostiene su questo fascicolo Frédéric Lordon. Egli, dopo aver proposto una interpretazione spinozista della forma di vita - con o senza trattino - elaborata da Agamben, ne evidenzia il contrasto con la metafisica di Spinoza. La forma di vita, intesa come una vita inseparabile dalla propria forma, corrisponde a ciò che per Spinoza è il «modo», inteso come una delle infinite espressioni della sostanza. Da questo punto di vista la vita, ogni vita - compresa quella ridotta ai minimi termini nei campi di concentramento - è sempre modale, «manierata», «istituita». Non esiste vita senza una qualche forma che la determini, distinguendola dalle altre. Ma è proprio ciò che Agamben nega separando, all'interno del concetto di «vita», un bios, in quanto «vita formata», da una zoe, come «nuda vita». A tale separazione, alla cui origine Lordon intravede la nostalgia heideggeriana per la perdita dell'F.ssere, Agamben replica con il doppio dispositivo della sospensione e della destituzione. Sospensione della potenza, trattenuta dallo scivolamento alienante nell'atto e destituzione dell'azione, disattivata per sfuggire alla macchinazione tecnica. Il problema, tuttavia, è che sia la sospensione sia la disattivazione sono escluse in linea di principio dalla metafisica di Spinoza. Per il quale la potenza, se è tale, cioè se non è impotenza, è già da sempre in atto, così come la causa è incorporata nel suo effetto. Da questo lato, immanentismo e destituzione, coincidenti nella loro conseguenza depoliticizzante, divergono radicalmente sul piano metafisico, come del resto il paradigma destituente di Heidegger da quello, costituente, di Bergson. A differenza dell'heideggerismo-segnato da una mancanza originaria - l'immanentismo spinoziano non prevede alcuna riserva, lacuna, incompiutezza. Il possibile non ha nessuna autonomia dal reale: tutto ciò che è possibile, è effettivamente, così come non si dà

ESTREMISMO O RADICALISMO. UN BILANCIO

potenza che non sia già in atto. Ma se le cose stanno così, allora il paradigma destituente, misurato in un'ottica spinoziana, finisce per autoconfutarsi. Impraticabile sul piano politico, si contraddice su quello filosofico. 4. A partire da questa impostazione critica, i fascicoli successivi dell'Almanacco hanno elaborato la propria proposta affermativa, costruita intorno a un pensiero istituente che, fin dal nome, si pone in diretto contrasto con quello destituente. Mentre il secondo numero, coordinato, oltre che da Marchesi e Di Pierro, da Elia Zaru, apre una ricerca, al contempo genealogica e teoretica, sulla categoria di istituzione, il terzo, curato da Andrea Di Gesu e Paolo Missiroli, intitolato Res publica, elabora il tema del conflitto, pensato esso stesso in termini istituenti. Decisivo, per il significato dell'instituere è, però, il quarto fascicolo dcli'Almanacco, edito e introdotto da Rita Fulco e Andrea Moresco, raccolto intorno alla categoria di «evento». Il concetto di «evento» è importante non solo perché a esso sono riconducibili quei fenomeni catastrofici, dalla pandemia alla guerra, cui si è già fatto riferimento, ma perché costituisce uno snodo teoretico in cui molte delle polarità qui richiamate s'incrociano in maniera radicale, senza divaricarsi in termini estremistici. A misurare il rilievo della categoria di evento è la circostanza che parte rilevante della filosofia continentale - a partire dallo stesso Heidegger fino a Alain Badiou, per limitare ai loro nomi i tanti richiami possibili - è inscrivibile in quella che si può ben chiamare «svolta evenemenziale». Ma ciò che più importa, ai fini del nostro discorso, è l'effetto ambivalente che essa ha determinato sull' ontologia politica contemporanea. Se da una parte ha favorito un ritorno del politico - è il caso del post-althusserismo -, dall'altro ha contribuito a emarginarlo o deformarlo. Il discrimine tra i due versanti è costituito dalla relazione, assunta o rifiutata, tra evento e processo, vale a dire dalla questione della storicità, da alcuni potenziata e da altri disconosciuta. In ogni caso il concetto di evento, richiamando una discontinuità, ha in sé una portata anti-storicistica. Ma, ancora una volta, in termini non necessariamente contrapposti alla storia. La discontinuità non abolisce la continuità, ma piuttosto la incrocia, inscrivendo in essa una faglia che porta dentro una possibile novità. Evento, in senso storico, va inteso come ciò che inscrive il novum nel

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già acquisito. In questo senso l'antistoricismo non gioca contro la storia - piuttosto si articola con essa in una forma che tiene insieme mutazione e consistenza. Da qui l'interesse della tematica evenemenziale sia per la politica in generale che per la prassi istituente in particolare. Politica è la capacità di cogliere gli eventi e organizzarli secondo un progetto d'insieme. Ma forse è l'istituzione, ovvero la dinamica istituente, quella che meglio traduce l'implicazione storica tra evento e processo. Basti pensare a quanto scrive Merleau-Ponty nel suo corso sull'istituzione dei primi anni Cinquanta. Evento non è solo quello da cui, di volta in volta, le istituzioni originano, ma anche ciò che apre un nuovo campo di senso al loro interno. Spesso attraverso conflitti politici- aperti appunto sulle, nelle e tra le istituzioni, come ha sostenuto soprattutto Claude Lefort. Torna la distinzione, e anche l'opposizione, tra estremismo e radicalismo. Istituente è il movimento che, anziché giustapporre le parti, le articola in una maniera complessa, combinando in maniera creativa ordine e conflitto. Da questo punto di vista, rispetto alla assoluta affermatività del paradigma immanentistico e l'assoluta negatività di quello destituente, il pensiero istituente articola affermazione e negazione, connettendo, in forma sempre diversa, potenza affermativa del novum e presenza negativa del limite all'interno del quale si costituisce. Come fa Machiavelli, che all'origine di questo paradigma pensa insieme innovazione e conservazione, libertà e necessità, ordine e conflitto. Su questo punto l'anarchismo filosofico, inclinando vistosamente verso l'estremismo, perde il rapporto con la radicalità, facendo della radice un'arche da smantellare. Eppure esso contiene una forza energetica, una spinta verso la liberazione, che il pensiero radicale deve recuperare, mettendole in tensione con la dinamica istituzionale. Come è detto da Silvia Dadà e Matteo PoiIeri nell'introduzione, è precisamente questa l'intenzione del presente fascicolo. Voglio aggiungere ai nomi fatti quelli degli amici che sono parte della redazione dcli'Almanacco, oltre a tutti i partecipanti del «Seminario permanente di filosofia e politica» che fin dall'inizio ne ha costituito la fonte e il motore.

Anarchia e istituzione. Riflessioni sulla crisi contemporanea dell'orizzontalità Cathcrinc Malabou

È diventato impossibile parlare di istituzioni senza riconoscere il centrale ruolo sociale, politico e - oserei dire - ontologico giocato attualmente dalla tecnologia. Viviamo in un'epoca di uberizzazione generalizzata della vita e le piattaforme tecnologiche digitalizzate sono istituzioni di un nuovo tipo. In un articolo intitolato Digitai Platforms as lnstitutions si trova questa definizione: «le piattaforme sono istituzioni in cui le routine e le regole digitalizzate sono state progettate sulla base delle potenzialità (affordances) digitali della piattaforma. Gli esempi di ride-hailing includono processi decisionali algoritmici come l'abbinamento autista-cliente sulla definizione dei prezzi» 1 • Uber appare come l'archetipo di tali piattaforme, come l'ultima parte della definizione dimostra 2 • Ora, una definizione di "uberizzazione". La società americana Uber è nata a San Francisco nel 2009. L'idea dei fondatori, un giorno in cui non riuscirono a trovare un taxi, fu quella di mettere in contatto diretto, tramite un'applicazione informatica disponibile su uno smartphone, il cliente e un servizio di autisti privati. Grazie a diverse raccolte di fondi, Uber ha potuto svilupparsi in varie città del mondo. Uber ha poi dato il proprio nome a un fenomeno sociale, l'uberizz.azione. L'uberizzazione, nel suo senso più elementare, consiste nel mettere in contatto diretto individui e aziende di servizi grazie ad applicazioni che rendono questa connessione quasi istantanea. AirBnB e Amazon sono ovviamente gli esempi più famosi di uberizzazione, ma ne esistono molti altri, come i servizi bancari, le piattaforme di insegnamento, le piattaforme sanitarie, ecc. Più in generale, la cosid-

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Richard Hccks, Dig;tal Platforms as lnstitutions, «ICTs for Dcvclopmcnt», 2.Junc 2.021. Con ride-hailing si intende infatti un servizio "a chiamata" di vetture con autista [,z.d.t.].

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detta "uberizzazione della società" oltrepassa i meri limiti della tecnologia e designa la deregolamentazione generale degli scambi sociali ed economici, rimodellando così profondamente la definizione delle stesse società e socialità. Le piattaforme digitali non sono certo semplici strumenti. Non danno solo forma a nuove organizzazioni economiche, consentendo il passaggio da un'economia di produzione a un'economia basata sui servizi. È vero che le piattaforme peer-to-peer costituiscono un'innovazione organizzativa radicale e che il capitalismo delle piattaforme ha definitivamente sostituito la logica del capitalismo manageriale dopo la crisi finanziaria del 2008. Tuttavia, gli effetti di modalità di funzionamento flessibili e decentralizzate sono ben lontani dall'essere solo economici e non si limitano alla produzione di consumo collaborativo. Hanno anche, ancora una volta, un fondamentale impatto sociale e politico. Il sociologo americano W.R. Scott definisce le istituzioni come «elementi culturali normativi e regolativi che [... ] forniscono stabilità e significato alla vita sociale [... ]. Le istituzioni sono trasmesse da vari tipi di vettori, tra cui sistemi simbolici, sistemi relazionali e livelli multipli di giurisdizione»3. Non siamo abituati a considerare le piattaforme digitalizzate come istituzioni. Il più delle volte, il termine istituzione si riferisce allo Stato o a organi governativi. Eppure, le piattaforme sono vere e proprie istituzioni dal punto di vista giuridico, che sono diventate socialmente normative, creando nuove abitudini e comportamenti. E lo sono diventate a tal punto da permettere ad alcuni teorici di affermare che sono in realtà più istituzionali, per così dire, di quelle politiche tradizionali. Vorrei spiegare questo punto. Il capitalismo delle piattaforme non è esattamente identico al capitalismo neoliberale tradizionale. Coincide piuttosto con la sua tendenza estrema, ovvero I' anarco-capitalismo. L'anarco-capitalismo è innanzitutto una teoria che contesta il ruolo degli Stati centralizzati a favore di istituzioni private che difendono la proprietà e la proprietà di sé (self-ownership). Il primo teorico a usare il termine anarco-capitalismo è stato l'economista della scuola austriaca Murray Rothbard. Secondo lui, lo Stato e le

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William Richard Scott, lnstitutions and Orga,uzations, Sagc Publications, Thousand 2.014, p. 150.

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istituzioni governative non sono per l'appunto istituzioni. Perché? I governi non sono istituzioni costruite su una nozione di contratto sociale, ma piuttosto sono formate e vengono mantenute attraverso la prosecuzione della conquista e della forza. La loro violazione più comune è la confisca della proprietà attraverso la tassazione. Rothbard dichiara: Sarebbe un esercizio istruttivo per il lettore scettico cercare di formulare una definizione [di tassazione] che non includa anche il furto. Come il rapinatore, lo Stato esige denaro sotto la minaccia delle armi; se il contribuente si rifiuta di pagare, i suoi beni vengono confiscati con la forza, e se dovesse opporsi a tale depredazione, verrebbe arrestato o ucciso se continuasse a resistere. È vero che gli apologeti dello Stato sostengono che la tassazione è "realmente" volontaria; una semplice ma istruttiva confutazione di questa affermazione consiste nel riflettere su cosa accadrebbe se il governo abolisse la tassazione e si limitasse a semplici richieste di contributi volontari. Qualcuno crede davvero che qualcosa di paragonabile alle attuali vaste entrate dello Stato continuerebbe a riversarsi nelle sue casse?4

Le comunità auto-organizzate orizzontalmente, regolate da contratti, sostituirebbero quindi in modo vantaggioso le (non) istituzioni governative ed è ovviamente possibile considerare tali affermazioni come prefigurazioni del ruolo delle piattaforme digitali. Più di recente, Peter Sloterdjik ha sviluppato all'incirca lo stesso tipo di argomentazione. Il 13 giugno 2009 ha pubblicato un breve saggio sul «Frankfurter Allgemeine Zeitung» che è stato giudicato scandaloso da molti. A questa pubblicazione seguì una lunga polemica con Axel Honneth. Il titolo del saggio era Die Revolution der gebenden Hand, «La rivoluzione della mano che dà»S. In questo saggio, Sloterdjik ha descritto lo stato sociale come una «cleptocrazia» a causa del sistema fiscalé. La giustificazione classica di questo sistema è un presunto equilibrio tra la mano che prende - la riscossione delle tasse - e la mano che dà - le tasse che vengono ridistribuite per scopi -4 Murray Rothbard, The Ethics of Liberty, Humanities Prcss, Atlantic Highlands 1982., p. 163. s Il saggio è stato ripubblicato in Peter Sloterdijk, Die tzehmende Hand und die gebende Seite. Beitrage tu eitzer Debatte uber die demokratische Neubegriindu11g von Steuern, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2.010 (trad. it. di Stefano Franchini, La mano che prende e la mano che dà, Raffaello Cortina, Milano 2.01 2.). 6 Ivi, pp. 97, 105.

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sociali, scuole, sanità, ~istema urbana, ecc. Secondo Sloterdjik, tuttavia, «la mano che prende del governo rilascia i suoi introiti principalmente per l'apparente interesse pubblico, finanziando fatiche di Sisifo in nome della "giustizia sociale"» 7• In realtà, la mano che prende sembra essere una mano che ruba: i cittadini pagano più tasse mentre è evidente che lo Stato ha rinunciato alla sua missione sociale. Sloterdjik si chiede infine: non sarebbe «più meritevole e più produttivo dal punto di vista socio-psicologico» 8 se questo denaro provenisse da donazioni volontarie? La mia decisione di affrontare l'anarchismo da un punto di vista filosofico, cosa che non esito ad affermare non sia mai stata fatta, almeno non a sufficienza, non è stata inizialmente motivata da un ingenuo sogno rivoluzionario idealista. È stato innanzitutto motivata da quella che nel mio libro ho chiamato la «crisi dell'orizzontalità»9. La nostra epoca attuale è caratterizzata dalla coesistenza di un anarchismo de facto e di un anarchismo nascente, che si risveglia. Il primo, come ho appena illustrato, è il regno dell'anarco-capitalismo, che è contemporaneo alla fine dello Stato sociale, che crea nei cittadini un senso di abbandono; basti pensare allo stato degli ospedali e della sanità oggi. I cittadini sanno di poter contare solo su sé stessi e devono diventare imprenditori di sé stessi per sopravvivere attraverso l'uso, appunto, di piattaforme digitalizzate. L'anarco-capitalismo fa credere loro che questa sia libertà. Le transazioni dirette, la possibilità di affittare il proprio appartamento, di sfuggire ai sistemi bancari in alcuni scambi privati, ecc. appaiono come modi emancipanti di connettersi, collaborare e mobilitarsi nella misura in cui forniscono servizi on-demand per il maggior numero possibile di esigenze e con strutture centrali leggere e flessibili. Tuttavia - si obietterà -, non stiamo forse assistendo all'irrigidimento globale dell'interventismo politico, inseparabile da una nuova forma di centralizzazione del potere economico? Come si può parlare di anarchismo, anche di destra, in un momento di crescente autoritarismo politico, di confisca della ricchezza e del profitto da parte di poche corporazioni e conglomerati? Certamente. Eppure, 7 Pctcr Slotcrdjik, The Grasping Hatzd. The modern democratic state pillages its productive citize11s, «City Joumal», Wintcr 2.010. 8 lbid. 9 Cathcrinc Malabou, Au voleurl Atiarchisme et philosophie, PUF, Paris 2.02.2..

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quando alcuni giornalisti politici dichiarano scherzosamente che Donald Trump è un anarchico, non stanno giocando con le parole, ma cercano di circoscrivere quella che tutto il mondo sente come una grande crisi: la combinazione ibrida di violenza governativa e deregolamentazione illimitata della vita. L'autoritarismo non contraddice la scomparsa dello Stato, ne è il messaggero - la maschera di questa cosiddetta economia "collaborativa" che, mettendo in contatto diretto professionisti e utenti attraverso piattaforme tecnologiche, polverizza un po' di più ogni fissità. È stato scoprendo il mondo delle transazioni cripto-monetarie e la circolazione di valute non nazionali che ho preso coscienza di questa evidenza fattuale. Le criptovalute parassitano le valute statali e competono con il consueto circuito monetario delle banche commerciali e centrali. Come sappiamo, il bitcoin è un'espressione del capitalismo tecnologico estremo. È ovvio che se da un lato I' anarco-capitalismo punta alla trasparenza e alla visibilità, dall'altro autorizza l'uso su larga scala ma opaco dei dati, il dark web, la fabbricazione di informazioni e nuove forme di oppressione, sfruttamento e subordinazione. Ora, quello che io chiamo il sorgere di un anarchismo che si risveglia riguarda l'emergere di movimenti sociali, come quelli dei Gilet Gialli in Francia o, in modo molto diverso, di Black Lives Matter negli Stati Uniti, che rifiutano di essere addomesticati da qualsiasi forma di partito o sindacato e formano assemblee e strutture autogestite di cooperazione e mutuo soccorso. Anche se questi movimenti non si riconoscono sempre come anarchici, è chiaro che sfidano le strutture tradizionali della protesta di massa, resistendo a qualsiasi forma di centralizzazione, gerarchia e disciplina sovraordinata. Ho scritto Au Voleur! Anarchisme et philosophie per analizzare l'emergere di un anarchismo "polimorfo", che è tanto libertario quanto libertariano. Quella che chiamo «crisi dell'orizzontalità» riguarda il fatto che le due tendenze opposte dell'anarchismo, l'anarco-capitalismo e l'anarchismo rivoluzionario, camminano oggi sullo stesso suolo, condividendo le stesse piattaforme. La scoperta di questa crisi ha rafforzato la mia sorpresa per la totale occultazione - o disconoscimento - da parte dei filosofi contemporanei dell'anarchismo nei suoi due rami opposti, l'anarchismo rivoluzionario e l'anarchismo libertariano.

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Vorrei insistere ulteriormente su questo punto. Sono grata a Roberto Esposito per avermi fatto conoscere il libro di Oliver Marchart PostFoundational Politica/ Thought 10• Marchart analizza innanzitutto la differenza spesso operata da importanti pensatori politici contemporanei tra «la politica» e «il politico». Egli afferma che questa coincide con la differenza ontologica di Heidegger. Così scrive Marchart: Come differenza, questa differenza non presenta altro che una scissione paradigmatica nell'idea tradizionale di politica, in cui è stato necessario introdurre un nuovo termine (il politico) per indicare la dimensione "ontologica" della società, la dimensione dell'istituzione della società, mentre la politica è stata mantenuta come termine per le pratiche "ontiche" della politica convenzionale (i tentativi plurali, particolari ed eventualmente fallimentari di fondare la società) 11 •

La differenza politica riguarda la differenza tra il politico inteso come causa assente e la politica intesa come effetti istituzionali ontici di tale assenza: l'esistenza dello Stato, della polizia, persino del governo. La differenza politica permette ai filosofi di concludere che la società, a causa della doppia divisione ontologica/ontica e istituente/ istituita, non può essere identica a sé stessa e rimane per questo motivo senza un fondamento essenziale. Il post-fondazionalismo in filosofia politica mette quindi sistematicamente in discussione le figure metafisiche del fondamento, della totalità, dell'universalità, dell'essenza, nonché l'unità e la presunta fissità delle classi sociali. «Un approccio post-fondazionale non cerca di cancellare completamente queste figure del fondamento - dichiara Marchart -, ma di indebolire il loro statuto ontologico» 12, cioè di affermare l'assenza di una causa finale. Non si tratta quindi di contestare le istituzioni in sé, ma di accettare di vederle come «fondamenti contingenti», per dirla con Judith Butler 1 3, cioè di vederle come fugaci e parziali, ma comunque come Olivier Marchart, Post-Foundational Political Thought, Political Di{feretu:e in Nancy, Lefort, Badiou and Laclau, Edinburgh University Prcss, Edinburgh 2007. Roberto Esposito fu riferimento a questo volume nel suo libro Petzsiero Istituente. Tre paradigmi di 011tologia politica, Einaudi, Torino 2020. 11 O. Marchart, Post-Foundatio1,al Political Thought cit., p. 130. 11 lvi, p. 2. 1 3 Cfr. Judith Butler, Continget,t foundatio,zs: Feminism and the question of "postmodemism", in Stcven Seidman (a cura di), The Postmoden, Tum: New Perspectives on SociaITheory, Cambridge University Prcss, Cambridge 1994, pp. 153-170 [11.d.t.]. 10

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fondamenti, come post-fondamenti. Privi di solide basi ontologiche da un lato, ma comunque ontologicamente determinati come strutture differenziali. Per quanto queste ipotesi siano interessanti, non credo tuttavia che riflettano lo stato più recente della politica. È estremamente sorprendente vedere che nessun pensatore post-fondazionalista ha mai sentito il bisogno di confrontarsi con l'anarchismo, anche se in modo conflittuale, nonostante l'anarchismo sia l'unico insieme di teorie e pratiche politiche che sfida direttamente tutte le forme di fondamento. È necessario ricordare che an-archè e an-archia, in greco, significano assenza di archè, cioè assenza di un principio, ovvero sia di un inizio che di un comandamento? Anche se alcuni dei più importanti filosofi del XX secolo hanno sviluppato un concetto forte di anarchia -penso ad esempio a Schiirmann, Levinas, Derrida, Foucault, Rancière e Agamben -, nessuno di loro ha mai preso sul serio l'anarchismo politico. Laclau, ad esempio, associa la politica post-fondazionalista al post-marxismo. Penso che non affrontare l'anarchismo, ignorarlo mentre si riflette sul crollo dei fondamenti ultimi, significhi mancare la principale questione politica di oggi, che è quella di riuscire a elaborare una nuova differenza, forse una differenza ontologica di nuovo tipo, tra anarchismo e anarchismo, orizzontalità e orizzontalità, libertarianismo e forme di protesta decentrate. Oggi iniziano a emergere alcuni studi sul ruolo del nuovo insieme tecnologico di istituzioni su quelle tradizionali, ma molto deve ancora essere fatto. Questo ruolo è unanimemente caratterizzato come dirompente. Le piattaforme tecnologiche sono associate alla perturbazione istituzionale. Una perturbazione, in tecnologia, si riferisce a una rottura o a un'interruzione del normale corso o della normale attività di un processo. La specificità delle piattaforme tecnologiche digitalizzate è che funzionano come istituzioni de-istituzionalizzanti. Occultano la loro struttura istituzionale modellandola attraverso la massima visibilità. Sappiamo ad esempio che l'uso delle moderne tecnologie informatiche, come la tecnologia blockchain, garantisce la trasparenza della trasmissione e l'affidabilità dell'archiviazione dei dati. Appaiono quindi come non istituzionalizzate, cioè non sanzionate da alcuna entità gerarchica evidente - anche se ovviamente si basano su un funzionamento e un inquadramento mentale (mind-framing) altamente normativi. Il compito di oggi non è tanto quello di cercare di re-isti-

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tuzionalizzare ciò che l'operazione anarco-capitalista sta attualmente de-istituzionalizzando, perché questo è impossibile - per cominciare, un tale tentativo implicherebbe una sospensione di internet. Si tratta di portare alla luce e di resistere alle procedure di dominio occulto coinvolte nella deistituzionalizzazione libertariana. Sono d'accordo con Roberto &posito che l'alternativa tra potere costituente e potere destituente non è più produttiva. Tuttavia, non credo che l'idea di una nozione rielaborata di potere istituente possa rispondere al potere deistituzionalizzante del capitalismo anarchico e delle piattaforme. Come gesto provvisorio, proporrei un «potere sostituente», che potrebbe essere in grado di caratterizzare l'insieme dei processi che mirano a catturare la forza de-istituzionalizzante e a reindirizzarla nella direzione della cooperazione e dell'emancipazione. Il potere sostituente dovrebbe lavorare sui modi per riappropriarsi della tecnologia della cripto-economia che può creare e sostenere nuove nozioni di comune - il tipo di energia palpabile nei gruppi che imparano insieme, che fanno arte insieme o che costruiscono un movimento politico insieme. Così da creare organizzazioni decentralizzate costruite da una rete di contratti pubblici e automatizzati. In ogni caso, credo che sia giunto il momento di estrarre in tutte le sue potenzialità il potere sostituente dell'anarchismo nascente. L'unico tentativo di mettere insieme la teoria dell'istituzione di Claude Lefort e l'anarchismo è stato lo sforzo di Miguel Abensour di confrontare il concetto lefortiano di «democrazia selvaggia» con la visione dell'anarchia di Schiirmann 14• Abensour spiega infatti che la democrazia è «selvaggia» perché rimane irriducibile a una forma istituzionale, cioè a un regime politico. Questo è interessante, ma dobbiamo chiederci se questa stessa irriducibilità non venga segretamente catturata dalle attuali modalità tecnologiche della sua espressione. {Traduzione dall,inglcsc di Matteo Pagan)

•• Migucl Abcnsour, Savage democracy a,ul principle of anarchy, «Philosophy and Socia! Criticism», 2.8, 6, 2.002., pp. 703-72.6.

Le aporie ontologiche della destituzione Frédéric Lordon

Giorgio Agamben può essere considerato a ragione il più eminente rappresentante della corrente di pensiero costruita intorno all'idea di "destituzione", la cui manifestazione più eclatante nel panorama politico-intellettuale si trova nelle opere del cosiddetto Comitato lnvisibile 1 • Julien Coupat ed Eric Hazan pubblicano d' altronde un testo intitolato «Per un processo destituente» 2 , mentre in L'uso dei corpi di Agamben troviamo un capitolo dal titolo «Per una teoria della potenza destituente»3: il collegamento è diretto, ovvio. Ho riassunto con il sintagma «vivere senza» questa corrente mista di idee e pratiche politiche, che va dalla pura filosofia teoretica alle occupazioni e alle ZAD 4• «Vivere senza», appunto, poiché si tratta di affermare, in teoria o in pratica, l'ideale di una vita sbarazzata dallo Stato, dal denaro, dal lavoro, dalla polizia, ma in realtà, più in generale, dalle istituzioni - una vita radicalmente senza istituzioni. T aie prospettiva può ovviamente essere discussa su livelli molto diversi, politici e strategici, ma anche filosofici. A questo proposito, è chiaro che il tema della destituzione è forse il più centrale, persino il più strutturante, nell'insieme degli enunciati tipici della galassia del «vivere senza». Pertanto, per discutere della destituzione conviene discutere anzitutto la sua base filosofica, così come ci viene consegnata 1 Comitato Invisibile, L •msum!zione che vie11e - Ai 11ostri amici - Adesso, Nero Edizioni, Roma 2.019. 1 Julien Coupat, Eric Ha7.an, Pour un processus de.stituant: invitation au voyage, «Libération», 2.4 gennaio 2.016. 3 Giorgio Agambcn, L'uso dei corpi. Homo sacer, W, 2., Neri Po7.7.a Editore, Viccn7.a 2.0 1 4, pp. 333-351. ◄ Frédéric Lordon, Vivre satzs ? lnstitutions, po/ice, travail, argent... , La Fabrique, Paris 2.019.

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dall'opera di Agamben. So bene che le deviazioni possono talvolta sembrare barocche, ma è qui necessario passare per l'ontologia. Ciò perché la destituzione, nell'opera di Agamben, è il capolinea politico di una filosofia le cui preoccupazioni primarie sono di altra natura. A questo proposito, è importante cogliere l'economia generale di questa filosofia per capire come l'idea di destituzione vi si inserisca, o meglio, come ne scaturisca - la sua economia generale o il suo movimento complessivo, se preferite. Ricostruita secondo il suo ordine logico, la filosofia di Agamben procede da una sequenza che collega i concetti di separazione, sospensione e destituzione. Se il capolinea è la destituzione, il punto di partenza di tutto è la separazione, un'idea ossessivamente e forse anche dolorosamente presente nell'opera agambeniana, e che credo ne sia il vero motore. Questo dolore ha delle risonanze heideggeriane, inoltre: il dramma della separazione è il dramma della separazione dall'essere, e quindi dell'inautenticità. Diciamo che questa sarebbe la versione più vicina a Heidegger, e che non può essere attribuita ad Agamben in quanto tale. Ma non ci sbagliamo se vediamo nella filosofia di quest'ultimo l'idea analoga della separazione da un nucleo etico-ontologico fondamentale. Al principio del pensiero di Agamben, dunque, c'è la disgrazia di una perdita ontologica, che tutta la sua filosofia si propone di sanare, tanto da poter essere letta come uno sforzo immunitario [un effort antidote], uno sforzo per riportare il senso dell'essere nell'esistenza umana - la sospensione (sospensione del potere) darà il suo contenuto concettuale all'antidoto e la destituzione sarà il suo prolungamento, o la sua applicazione, nell'ordine politico. Punto di partenza etico (o etico-ontologico) - estensione politica: ecco una struttura del pensiero della politica sotto la determinazione di un'etica: tipica caratteristica dell'immaginario del "vivere senza", che per ragioni non tutte cattive, ma con proprietà non tutte buone, procede fondamentalmente da questo movimento di eticizzazione della politica 5•

S Cfr. Frédéric Lordon, Philosophie de l'antipolitique (intermittences, virtuoses, amitié, destitutian), in Id., Vivre sans? cit.

LE APORIE ONTOLOGICHE DELLA DESTITUZIONE

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Vita, fomza di vita, separazione L'eticizzazione inizia dunque con l'ossessione della separazione, espressa in tre concetti centrali: nuda vita, dispositivi, forma-di-vita. E questi sono come i tre stadi di un arco etico, da percorrere secondo i gradi della buona vita. Al più basso di questi, la nuda vita, di cui Agamben forma il concetto a partire dalla distinzione di zoé e bios, due termini greci per indicare la vita, ma la vita in sensi molto diversi - appare già qui il primo schema della separazione. Zoé è la vita naturale che, in quanto naturale, è comune ali' ampio regno zoologico di cui l'uomo fa parte. Bios è la vita qualificata, vita impegnata nell'idea di «buona vita», vita come categoria etico-politica. La vita nuda è la vita mantenuta in prossimità della zoé, una vita ridotta ali' organismo, con l'unico orizzonte della sopravvivenza. Questa è la vita che si istanzia nella forma del campo - ma anche della fabbrica, dove ricorda la definizione marxiana del proletario: colui che non ha nient'altro (e che non è nient'altro) che la sua forza-lavoro. L'inferno del campo è la nuda vita come sconfitta di ogni qualità propriamente umana, cioè di ogni qualità etica: la vita sulla vita, la vita senza qualità, il punto di applicazione dello stato di eccezione. All'estremità opposta dell'arco: la forma di vita. Non è molto facile darne una definizione vera e propria - e d'altronde nell'opera di Agamben le definizioni formali sono piuttosto rare: vi troviamo i concetti direttamente messi ali' opera, in usi ispirati, diciamo, di cui la chiarezza non è la proprietà primaria, e che si precisano solo nelle loro relazioni reciproche e differenziali. Diciamo provvisoriamente, e per il momento un po' vagamente, che la forma di vita è la vita carica del massimo della sua coerenza etica, e che questa coerenza etica deriva dalla riconciliazione con il suo fare. La forma-di-vita è la vita in ri-coincidenza con ciò che fa, una ri-adesione, una de-separazione: la vita che (re)diventa inseparabile dalla sua forma: «una vita che non può essere separata dalla sua forma è una vita per la quale, nel suo modo di vivere, ne va del vivere stesso e, nel suo vivere, ne va anzitutto del suo modo di vivere» 6• Qui troviamo un punto di appoggio perfetto per una lettura di Agamben in chiave spinozista: la parola «modo». «Modo» è un 6

G. Agambcn, L'uso dei corpi cit., p. 2.64.

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concetto molto importante in Spinoza, e doppiamente importante. Innanzitutto, perché «modo» (il nome che prende ogni cosa, ogni essere) in latino si dice modus, modo o maniera per l'appunto. Ma modo di cosa esattamente? «Le cose singole - recita la dimostrazione spinoziana esposta in Etica, III, 6 - sono "modi" con i quali sono espressi in maniera determinata gli attributi di Dio»7. Le cose si chiamano modi perché sono le maniere in cui si esprime la sostanza (divina, quella del Deus sive natura). E tuttavia, se a titolo ontologico le cose sono dei modi, possiamo anche dire di loro, questa volta onticamente, che banno dei modi - qui in un senso molto più ordinario: per quanto riguarda il modo umano, le maniere di sentire, giudicare, pensare, immaginare, stare, muoversi, ecc. Queste maniere, che potremmo dire semplicemente modi d'essere, sono ricapitolate in quello che Spinoza chiama ingenium, e che deve soprattutto essere colto come un complesso corporeo: le maniere d'essere di un modo sono inscritte nel suo corpo, leggibili nelle sue pieghe. Un corpo che ha delle maniere d'essere è un corpo piegato ... In un certo senso, un corpo che, nel corso dei suoi affetti, ha assunto tali e tante pieghe. In ogni caso, ecco che, senza alcun gioco di parole, possiamo dire che in Spinoza i modi (o maniere d'essere) hanno dei modi, e che i modi sono dei modi. È proprio su questo punto che prende forma l'obiezione spinozista al pensiero di Agamben. L'idea che un modo dell'essere, soprattutto quello umano, possa essere considerato come separato dagli altri suoi modi è infatti per Spinoza una pura e semplice assurdità. Se la separazione è lo schema che ossessiona il pensiero di Agamben, l'inseparabilità è quella che il pensiero di Spinoza afferma nella sua inclinazione più fondamentale: l'immanenza radicale. L'idea che esista qualcosa come una nuda vita, separata dalla sua forma, che si realizza pienamente solo a condizione di darsi una forma, o di unirsi ad essa e così colmare il divario che la separa da essa, questa idea, per lo spinozismo, non ha senso. E ciò per la seguente ragione: una cosa che esiste nella durata non è separabile dai suoi modi. Esistere significa necessariamente esistere in certi modi. E se, per usare la terminologia appena introdotta, la cosa è un modo in cui si esprime l'infinita potenza produttrice della natura (Dio), allora bisogna dire 7

Baruch Spinoza, Etica, III, 6, Latcn.a, Roma-Bari

2.009.

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che questo modo è già da sempre una maniera d'essere. Quest'idea può essere formulata in modo diverso, dicendo che un modo è già da sempre affetto da altri modi. Non c'è una verginità nativa del modo che, una volta apparso, inizierebbe l'elenco biografico delle sue affezioni e dei suoi affetti. L'affermazione che il modo è sempre già affetto ci porta allora a ragionare sullo statuto del concetto di conatus, e ciò non per una digressione scolastica, ma perché questo statuto getta a sua volta luce sul problema della «separabilità» (del modo dalle sue maniere di esistere). Si dovrebbe probabilmente dire che il conatus in quanto tale è ciò che Spinoza chiama un «essere di ragione» (cioè, un essere che non ha altra esistenza se non attraverso il pensiero che lo genera [dégage], e sotto il vincolo, naturalmente, che questa generazione [dégagement] sia ben formata; in altri termini, un essere di ragione è un'entità ideale formata per astrazione da una cosa reale, l'astrazione consistente in un'operazione che sottrae la cosa dalle sue determinazioni concrete). Che il conatus in quanto tale debba essere inteso come un essere di ragione deriva dal fatto che, parafrasando la Definizione I degli Affetti, il conatus esiste solo nello stato determinato da un qualche affetto di sé stesso a fare qualcosa (la Definizione I degli Affetti dice che il desiderio è l'essenza stessa dell'uomo in quanto è concepito come determinato da un qualche affetto di sé stesso a fare qualcosa). La formula di Laurent Bove secondo la quale il conatus è «un desiderio senza oggetto» è potente, ma per essere accettata deve essere letta alla luce dell'idea di «essere di ragione». Perché, appunto, il conatus non può esistere come «senza oggetto». Non può, perché è sempre già influenzato, e quindi sempre già determinato da un certo affetto a volere qualcosa. Il conatus "empirico" è osservabile solo allo stato determinato di desiderio. Il conatus come «desiderio senza oggetto» esiste quindi solo in questo stato di astrazione proprio dell'essere di ragione, al termine di un'operazione di sottrazione che lo separa idealmente dalle sue affezioni, mentre esso è realmente inseparabile da esse. Possiamo facilmente estendere queste considerazioni all'idea agambeniana di nuda vita che, nel migliore dei casi, dovrebbe essere intesa come un essere di ragione, cioè come un'entità puramente ideale, poiché è il concetto di una vita separata dai suoi modi - in contrapposizione alla forma-di-vita che consisterebbe nel fatto che la vita si è ricongiunta o reintegrata ai suoi modi. Il problema, naturalmente, è che Agamben fa di questa

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separazione ideale, che è la nuda vita, una separazione reale. Ora, è interessante notare che anche la zoé, la vita organica, si rifiuta di esistere come separata. Cosa potrebbe essere una vita organica "pura"? La vita organica è un modo. Non si tratta di un substrato vergine, sul quale si traccerebbero solo in seguito dei modi di vivere. Ecco la terribile obiezione che si potrebbe muovere ad Agamben: il campo, che è nei suoi termini l'inferno stesso della nuda vita, il campo è una forma di vita, cioè una vita ingessata in una certa forma (perché ce n'è sempre necessariamente una, e in questo caso è questa), una forma atroce, ma pur sempre una forma. Anche nell'inferno del campo, la vita è una forma di vita.

L'inferno dei dispositivi Eccoci dunque di fronte a un problema: se possiamo parlare di forma di vita finanche nel caso dell'inferno del campo di concentramento, cosa si deve intendere esattamente per «forma-di-vita», normalmente il termine più alto nella gradazione etica? Che ci sia una difficoltà è indicato dallo strano raddoppiamento dell'idea di forma di vita. Questo raddoppiamento è visibile grazie alla sua stessa grafia, poiché Agamben distingue tra la «forma-di-vita» (con i trattini) e la «forma di vita» (senza). Il primo è il termine superiore, la versione forte. La seconda è solo una versione indebolita (nella gradazione etica). Ovviamente, non potevamo rimanere nel faccia a faccia tra l'inferno della nuda vita e il paradiso della forma-di-vita: l'introduzione di un termine intercalare diviene una necessità. Come abbiamo capito, questo termine è la forma di vita senza trattino. Tuttavia, nell'opera di Agamben questo termine intermedio è più spesso conosciuto come «dispositivo». Per nostra fortuna, qui Agamben fornisce una definizione formale: «chiamo dispositivo qualunque cosa abbiamo in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi» 8 • La tonalità foucaultiana è evidente: risuonano qui i processi, soprattutto materiali, con cui si svolgono le operazioni della «governa8

Giorgio Agambcn, Che cos•è un dispositivo?, Nottetempo, Roma

2006,

pp.

21-22.

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mentalità». In questo senso, l'editore (francese) mette sulla copertina del libro l'illustrazione di un telefono cellulare. Ed è una buona idea, perché è vero che la governamentalità, cioè il regime generale di condotta, procede anche e soprattutto grazie queste piccole cose. Forse è anche una buona idea per non spaventare troppo il lettore, perché in realtà il concetto di dispositivo impiegato da Agamben copre un ambito immensamente più ampio e astratto. Egli stesso ce ne dà la misura non appena ci fa vedere non solo il tono ma l'origine foucaultiana del concetto di dispositivo, derivato da quello di «positività». Ora, l'elaborazione di Foucault dell'idea di «positività» viene da Hegel, e in particolare dalla rilettura di Jean Hyppolite dcli' opposizione tra «religione naturale» e «religione positiva» - Foucault forma il proprio concetto di positività a partire dall'istanziazione hegeliana dell'idea di religione positiva. Per religione naturale intendiamo una sorta di rapporto immediato della ragione umana con il divino. La religione positiva, invece, è la religione istituzionale o istituzionalizzata, quella che viene imposta agli individui dall'esterno. Ne segue che il concetto di dispositivo, in quanto derivato da quello di positività, ha a che fare con le realtà istituzionali - ciò che Hyppolite stesso chiama «l'elemento storico». E vediamo subito tornare lo schema della separazione: la religione positiva è la religione naturale perduta, la forma alienata della religione naturale. Agamben lo conferma a modo suo: «in un certo senso - sostiene, riprendendo Hyppolite - la positività è considerata da Hegel come un ostacolo alla libertà umana» 9• Ma ecco cosa aggiunge soprattutto: «Foucault, prendendo a prestito questo termine [... ] prende posizione rispetto a un problema decisivo, che è anche il suo problema più proprio: la relazione tra gli individui come esseri viventi e l'elemento storico» 10• Per il momento, è ancora Foucault a sostenere il peso di questa strana problematizzazione: «esseri viventi», da un lato; «elemento storico», dall'altro - ma cosa può essere un essere umano vivente che non sia immediatamente immerso nell'elemento storico? Agamben non tarda a sottoscrivere a sua volta questa strana tesi - ad avallarla e ad aggravarla: «propongo nulla di meno che una generale e massiccia partizione dell'essere in due grandi insiemi o classi:

9

Ivi, p. 10. lvi, p. 11.

10

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da un lato, gli esseri viventi (o le sostanze), dall'altro, i dispositivi all'interno dei quali essi vengono incessantemente catturati. Da un lato, quindi - per riprendere la terminologia dei teologi - l'ontologia delle creature, dall'altro l'oikonomia dei dispositivi che cercano di governarle» 11 • «Riprendere la terminologia dei teologi» ... Forse non è un'idea così ricca - ma che strano rapporto, quello di Agamben, con la teologia cristiana: in quanto archeologo critico vi cerca I'origine dei nostri trascendentali più alienanti ... Ma solo per ceder loro tutto quando arriva il momento di proporre le sue problematizzazioni. E ciò a partire da questa figura mitica, di fatto pre-lapsaria, un mito per metà originario e per metà ontologico dell' «essere vivente», a cui toccherebbe la maledizione di cadere nell'elemento storico, di essere «catturato» dai dispositivi, e che recupererebbe la sua libertà solo liberandosi da essi. Tutto è sorprendente in questa citazione, soprattutto la surrettizia qualificazione - tra parentesi - degli esseri viventi come «sostanze». La parola stessa invita allora a una lettura spinozista, senza dubbio contro l'uso che Agamben ne fa, ma soprattutto contro la sua intenzione dimostrativa, e sempre per sottolineare il suo rifiuto (la sua ignoranza?) della logica del già da sempre. Secondo Spinoza, infatti, gli esseri viventi (come tutte le cose) non sono sostanze: sono modi, e anche modi finiti. Ora, poiché il modo «è ciò che sia in altro e che mediante ciò venga anche con concepito» 1 2, ne consegue che il modo, in quanto finito, è già da sempre in relazione con altri modi, di conseguenza già da sempre affetto da essi, laddove troviamo che i modi non possono concepirsi indipendentemente dalle loro affezioni. Per concepire una realtà indipendentemente dai suoi affetti c'è però solo un'entità alla quale fare appello: l'entità ontologicamente primaria, la sostanza - al singolare -, cioè la forza causale generatrice infinita da cui tutto procede, sia che la si chiami Natura o Dio (ed è la stessa cosa) e, molto significativamente, è proprio la prima proposizione dell'Etica di Spinoza che si assume il compito di stabilirlo: «una sostanza è per essenza presupposta alle sue modificazioni» 1 3. 11

11

lvi, p.

2.1.

B. Spino7.a, Etica, I, dcf. 5, cit. 1 3 lvi, I, 1. Siamo qui all'ini7.io dell'ordine dimostrativo, cd è per questo che Spino7.a utili7.7.a ancora l'articolo indefinito «una sostan7.a», per non escludere a priori che ve ne siano molte e mostrare in seguito che non può che essercene una. lvi, I, 14 e corollario 1.

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L'anteriorità (logica) alle sue affezioni è privilegio esclusivo della sostanza; i modi hanno solo la condizione di essere già da sempre affetti. Di conseguenza, I' «essere vivente», nella misura in cui è concepito in opposizione ali' «individuo umano sequestrato dai dispositivi», non esiste. E ciò solo perché - e il «solo» assume qui le dimensioni di un colossale eufemismo - in quanto individuo sociale, l'uomo è già da sempre socialmente influenzato - influenzato dal sociale. L'antinomia tra l'essere vivente e l'individuo nei dispositivi è in definitiva la stessa che vorrebbe dissociare l'individuo e l'individuo socializzato, come se si potesse concepire un individuo prima vergine al sociale, poi piegato dalla socializzazione - e, perché no, desideroso un giorno di tornare alla sua condizione primaria. In ogni caso, possiamo ora capire qual è la posta in gioco con i dispositivi: molto più del semplice telefono cellulare o dell'auto che cigola quando non si allaccia la cintura di sicurezza. L'ordine dei dispositivi è, propriamente, I' «elemento storico», cioè l'insieme degli affetti inerenti alla socializzazione nelle istituzioni, naturalmente nel senso più ampio del termine «istituzione». Se l'etico-politica di Agamben mira a liberarci da tutto questo, a farci recuperare la nostra «libertà» liberandoci dalla socializzazione nelle e attraverso le istituzioni, possiamo vedere la portata del problema. Agamben rende impossibile sottovalutarlo. Dopo i manicomi, le scuole, le prigioni, le sigarette e i computer, in effetti, dobbiamo fare i conti anche con «il linguaggio stesso, forse il più antico dei dispositivi» 1 4. Questo lascia a dir poco interdetti. Dobbiamo davvero concludere che se vogliamo recuperare il nucleo etico del nostro essere autentico, dovremo trovare un modo per disincarnarci dal linguaggio? Agamben ci garantisce almeno che il compito sarà difficile, poiché, aggiunge, «con ogni evidenza, i dispositivi non sono un incidente in cui gli uomini sono caduti per caso, ma essi hanno la loro radice nel processo stesso di ominazione [... ]. L'evento che ha prodotto l'uomo costituisce infatti, per il vivente, qualcosa come una scissione» 15 • Non dobbiamo quindi più limitarci a bypassare il linguaggio, ma neutralizzare la nostra stessa ominazione. E sempre per colmare il divario della separazione. Infatti, continua Agamben,

•• G. Agambcn, Che cos'è un dispositivo? cit., p. 2.2..

•s lvi, p. 2.5.

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questa scissione separa il vivente da sé stesso e dal rapporto immediato con il suo ambiente, cioè da quello che Uexkiill e, dopo di lui, Heidegger chiamano il circolo ricettore-disinibitore. Spezzando o interrompendo questo rapporto, si producono per il vivente la noia[ ... ] e l'Aperto, cioè la possibilità di conoscere l'ente in quanto ente [... ]. Ma con questa possibilità è data anche immediatamente la possibilità dei dispositivi, che popolano l'Aperto con strumenti, oggetti, gadgets, cianfrusaglie e tecnologie di ogni tipo. Attraverso i dispositivi, l'uomo cerca di far girare a vuoto i comportamenti animali che si sono separati da lui e di godere così dell'Aperto in quantotale 16•

Era necessario citare a lungo per avere la piena misura del problema, non tanto del problema che Agamben pensa di porre, quanto del problema che pone a noi ponendo questo problema. Come ci ricolleghiamo, come ci ricongiungiamo al nostro nucleo etico dal quale l'elemento storico in cui siamo stati immersi ci ha allontanato, come ci ricolleghiamo a una vita non separata ora che siamo stati gettati nell'Aperto, dove abbiamo perso l'antica coincidenza del «rapporto immediato con il [nostro] milieu», e siamo sul punto di doverne trovare una nuova? Questo è ciò che Agamben ci sfida a fare e con cui determina una politica, ma l'enormità dei compiti che deve svolgere ci fa già dubitare che tale politica appartenga a questo mondo. Per confermarne la difficoltà, basta sondare il concetto di formadi-vita, il termine ultimo della politica agambeniana. A questo proposito, l'idea di forma-di-vita si chiarisce in modo differenziato alla luce dell'idea di dispositivo. Nella gradazione etica della vita, ricordo, c'era prima la nuda vita, sconfitta in ogni modo, ridotta a zoé; all'altro capo la forma-di-vita come vita inseparabile dai suoi modi, ma dove il possessivo va inteso in senso massimo: i propri modi, i modi che la esprimono più intimamente e con i quali - e nei quali - si esprime più autenticamente ... E questo a differenza della vita nei dispositivi, dove essa, certo, è messa in forma, resa modo, ma messa in forma dai dispositivi, appunto: dove la vita è informata "dall'esterno" dai modi incarnati nei dispositivi. Pertanto, finché la vita umana non ha raggiunto il termine etico-politico della formadi-vita, essa ci lascia soltanto l'inferno del campo, il purgatorio della vita nell'elemento storico, cioè nelle istituzioni. Probabilmente la vita è qualcosa di più della mera sopravvivenza, ma raggiunge lo stadio 16

lbid.

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della messa in forma solo nell'eteronomia dei dispositivi, in un modo alienato e sempre allo stato separato da quelli che sono i suoi modi realmente propri. Con quale operazione si passa allora dall'eteronomia della messa in forma nei dispositivi all'autenticità della messa in forma nella forma-di-vita? Come si passa dalla vita ancora separata nei dispositivi alla vita riconciliata con sé stessa nella forma-di-vita?

Sospensione o immanenza La risposta di Agamben è: grazie alla sospensione. Avevo annunciato la sospensione come antidoto alla separazione, ed eccoci qui. Ma sospensione di cosa e in vista di cosa? Sospensione di cosa? Della potenza. Sospensione in vista di cosa? Per evitare che di perdersi nel fuori dei dispositivi, per evitare che si faccia prendere dalle loro manipolazioni, cioè che si scivoli lungo la china della vita separata. La potenza deve quindi compiere una doppia operazione: 1) sospendersi e 2) tornare su sé stessa, per entrare, in questo rovesciamento, in un regime di effettuazione che si è sottratto dalla condotta dei dispositivi. La potenza, infatti, deve sospendersi perché abbandonarsi all'atto significa alienarsi in esso, e più precisamente alienarsi nella sua struttura telica, che è una struttura in sé stessa separante: la struttura telica dell'azione, in quanto finalizzata a qualcosa che non è sé stessa, in quanto finalizzata a qualcosa di diverso da sé, consiste proprio per questo, essenzialmente, in uno schema separante. Per questo motivo, inoltre, e in modo del tutto logico, Agamben arriva a dare alla sua politica di dis-alienazione un compito così semplice quale «la disattivazione e l'abbandono del dispositivo soggetto/oggetto» 17 ••• Questo compito pone l'asticella della politica piuttosto in alto, no? È una dura competizione con Alain Badiou che, da parte sua, dà alla sua politica l'orizzonte temporale della fine del Neolitico 18 • Qui siamo con Agamben, che pensa il suo programma etico-politico nientemeno che nell' orizzonte dell'eliminazione della struttura soggetto/oggetto. 1

Agambcn, Créatio11 et a,,archie. L Cl!llvre à I'age de la religio11 capitaliste, Bibliothèquc Rivagcs, Paris 2.018, p. 45. 18 Alain Badiou, Eloge de la politique. Entretieti avec Aude La11celin, Flammarion, Paris 7 Giorgio

1

2.017.

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Se, dopo un leggero momento di sconforto, si riprende il corso dell'indagine concettuale, la domanda che sorge subito è la seguente: è metafisicamente possibile una politica della sospensione indicizzata a tale ambizione? O meglio: da quale metafisica si può derivare una politica della sospensione? Agamben dà subito la sua risposta: da quella di Aristotele, ampliata dalla Scolastica. Innanzitutto Aristotele, perché la distinzione tra «in potenza» ed «in atto» comporta la possibilità della sospensione: «in potenza» significa, per definizione, potere trattenuto nel suo non-esercizio. Ovviamente, per Agamben, questa è una risorsa metafisica di primo piano. E altrettanto vale per il pensiero dei teologi che, per conto loro, avevano un famoso problema da risolvere, nel quale l'idea della sospensione si imponeva come la migliore soluzione possibile, grazie a una variante dello schema potenza/atto, traslato in potentia absolutalpotentia ordinata. Stiamo parlando di Dio. E non del Dio di Spinoza, ma dell'uomo barbuto tra le nuvole. La cui infinita potenza (potentia absoluta) pone il seguente, spinoso problema teologico: se Dio è, per il fatto stesso di questa potenza infinita, capace di tutto, egli non la esercita però per qualsiasi cosa - per intenderci: pur essendo infinita, la potenza di Dio deve essere ordinata solo per i suoi usi migliori. Questo perché, di diritto, le infinite possibilità della potentia absoluta includono la creazione di cose scandalose, oscene o assurde, la distruzione del mondo dopo averlo creato ecc. Deve quindi pur esserci un principio regolatore da qualche parte. Ma questo non può essere altrove che in Dio stesso: sarà il suo decreto. La potentia ordinata è quindi ciò che rimane della potentia absoluta una volta che Dio ha introdotto il suo decreto. Perché l'applicazione di questo decreto è un principio di limitazione. Una volta che Dio si è fermato, la sua potenza è limitata all'esecuzione di ciò che ha voluto, con l'esclusione dell'infinito numero di altre cose che può fare lateralmente sotto il titolo di potentia absoluta. Sia in Aristotele che nei teologi cristiani, Agamben trova ciò di cui ha bisogno, ossia che la caratteristica stessa della potenza risiede nella sua capacità di trattenere: ciò che segna il potere è il potere di-non. Così come si oppone categoricamente all'idea di separazione, l'intera filosofia spinozista contesta l'idea di sospensione. In questo senso, lo spinozismo è un anti-aristotelismo radicale. È il partito dell'immanenza integrale che lo porta imperiosamente a questo esito. La filosofia dell'immanenza, infatti, nega in modo assoluto che esista

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qualcosa dell'ordine del resto, della riserva, dell'inefficace o del non compiuto: prendere in conto l'incompiuto, e quindi il «trattenuto», significa fare rientrare dalla finestra tutto il pensiero della trascendenza, ripiegato nell'idea di norma, quella soglia al di sopra di noi, che ci ingiunge e ci comanda (di portarci al suo livello), e poi ci aspetta, in caso di fallimento, con il rimorso di ciò che si sarebbe dovuto fare, e a seguire tutte le idee di insufficienza, di lacuna, di mancanza, di carenza e di difetto, quindi di colpa, e infine di peccato, tutto ciò di cui Spinoza vuole liberarsi e liberarci. Ecco perché, nella filosofia dell'immanenza, ogni potenza si spinge sempre fino alla fine di ciò che può. «Avrei potuto fare meglio», «avrei potuto»: solecismi patentati della sintassi spinozista, frasi così mal formulate da non avere senso. Si poteva fare meglio? Certo che no, poiché nel momento in cui il modo ha agito, il suo conatus, come in tutte le circostanze, ha saturato pienamente il suo grado di potenza, esprimendolo senza sosta. Se avesse potuto fare di più, lo avremmo saputo: avrebbe fatto di più. La potenza è pienamente espressa nell'atto. A questa legge di immanenza, tutto è soggetto. Compreso Dio. Si apre allora una strana discussione su Dio tra Spinoza e i rappresentanti del pensiero teologico, una stranezza evidentemente alloggiata in figure diverse, che non hanno nulla in comune, e che si contendono la parola. Non è però esatto parlare di figura se parliamo del Dio di Spinoza, perché il suo Dio non può essere ridotto a nessuna figura, a nessuna immagine, tanto meno a quella disegnata dai teologi con le loro rozze proiezioni antropomorfiche. Il Dio di Spinoza non è «immaginabile», è accessibile solo attraverso la costruzione concettuale e geometrica - quella che porta alla proposizione 1 1 della prima parte dell'Etica 1 9: Dio è una forza. Dio, cioè la Natura, è l'infinita forza causale da cui tutto è generato, da cui tutto si sforza di perseverare nel suo essere, registra in sé gli effetti di altre cose similmente generate, produce effetti su di esse, infine decade -quando si tratta di modi umani, si parla di morte. E la Natura, cioè Dio, è il nome della potenza animatrice di questo movimento infinito. Dio non è a immagine e somiglianza dell'uomo e ancor meno di quel tipo di uomo chiamato Re, al quale sarebbe simile - o che gli sarebbe si-

•9 «Dio - e cioè una sostanza che consti d'infiniri attributi, ciascuno dei quali esprima un'essenza eterna cd infinita - esiste necessariamente». B. Spino7.a, Etica, I, prop. 11, cit.

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milc - nel registro dcli' onnipotenza. Dio non è una libera sovranità. È una forza che produce necessariamente i suoi effetti e che è necessariamente causata per produrli, ma - cd è questa la sua differenza - da una causa che è lui stesso: causa sui. Ben diverso è il Dio dei teologi, quello che Agambcn prende in prestito per fondare la sua metafisica della sospensione, il Dio capace di limitare la potentia absoluta in potentia ordina'ta. Questo Dio è un monarca: può fare qualsiasi cosa, contempla l'infinità delle opzioni, sceglie secondo il suo beneplacito e lascia in sospeso tutte le altre possibilità. In Spinoza non c'è nulla di simile: Dio, come ogni altra cosa, è soggetto all'impero della necessità - tranne che, nel suo caso, questa necessità è la sua necessità. Per quanto sia sua, questa necessità non determina che la sua potenza si svolga in modo univoco e completo. In contrasto con la regalità divina dei teologi, la forza causale infinita non ha mai la possibilità di scegliere di fare diversamente da come fa - il Dio di Spinoza non è un sovrano. È una proprietà che condivide con tutto, compreso l'essere umano. Contrariamente a quanto la metafisica soggettivista ci ha messo in testa (con successo, ammettiamolo), non siamo piccoli sovrani (certo un po' condizionati dall'esterno, ma sufficientemente sovrani quando l'esterno ci lascia in pace). I sovrani sono esseri scissi - separati - tra un organo deliberativo e uno esecutivo. Su un piano, quello della sovranità vera e propria, si esamina, si sceglie, cioè si scarta e si trattiene; sul piano sottostante, si esegue. Questo è il modo in cui rappresentiamo la nostra azione, ed è questa rappresentazione che viene portata a uno stadio supremo nel caso del Dio-Re dei teologi. Lo spinozismo ritiene che questa rappresentazione sia un'illusione e nega qualsiasi scissione, qualsiasi separazione della cosa dalla sua azione - possiamo vedere qui quanto siamo lontani dall'intera metafisica che organizza il pensiero di Agambcn. Noi aderiamo ontologicamente, interamente, alla nostra azione, nello stesso modo, dice Spinoza, in cui l'effetto dipende dalla causa e la avvolge - ed è la necessità il principio di questa adesione, di questo avvolgimento, la necessità che fa sì che, in quanto causa, i nostri effetti seguano ineluttabilmente da essa, che è impossibile che sia altrimenti e che, quindi, l'adesione sia tale de facto. La necessità, l'opzione metafisica che governa tutta la filosofia di Spinoza, rende l'idea della sospensione un'assurdità. Il triangolo non sfugge al fatto che la somma degli

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angoli di un triangolo è uguale a due angoli retti, perché è un effetto che deriva necessariamente dalla sua essenza e dalla sua potenza: il potere di eguagliare la somma dei suoi angoli a due angoli retti. Porre l'essenza del triangolo significa ipso facto, e immediatamente, porre l'uguaglianza di due angoli retti. L'uno avvolge l'altro, non c'è spazio, non c'è divario, tra i due. Ed è così per tutto ciò che è determinato da cause esterne. È così per Dio, qualunque sia la causa sui, i cui effetti, cioè tutto ciò che esiste nel mondo, derivano altrettanto necessariamente, e univocamente, e inseparabilmente, dalla sua natura - che è la sostanza. A tutti i livelli dell'ontologia spinozista, l'idea di sospensione è un'assurdità: da una potenza, qualunque essa sia, finita o infinita, seguono necessariamente degli effetti. L'idea che questi effetti possano essere «trattenuti» semplicemente non ha senso. Questo è il risultato sul quale si conclude la Parte I dell'Etica, quella dedicata a Dio e ai modi, che si chiude con un'apoteosi: «non esiste alcunché dalla cui essenza non consegua un qualche affetto» 20• Nel mondo dell'immanenza e della necessità, non c'è un possibile non-esercizio della potenza - in un certo senso la potenza è sempre e necessariamente ali out. A questo proposito, è forse utile sottolineare la differenza tra sospensione e ritenzione, o più precisamente, nel rapporto del soggetto con il proprio potere, la differenza tra «sospendere» e «trattenere». Perché trattenersi (dall'impegnare la potenza in questo o quel movimento) è un'esperienza che tutti fanno comunemente, alla quale anche un collettivo attribuisce un valore molto alto - Freud fa d'altronde del Mosè di Michelangelo la rappresentazione canonica della virtù civilizzatrice della ritenzione. Ma il contenimento non è affatto la sospensione della potenza: anzi, tutto il contrario. L'esperienza comune testimonia a sufficienza del dispendio di potenza che si deve impiegare per trattenersi da un primo possibile orientamento della potenza. Contrastare una prima inclinazione è in sé uno sforzo - e la parola stessa lo suggerisce abbastanza: un altro lavoro del conatus. Trattenersi significa mobilitare una parte della propria potenza contro un'altra parte; in breve, non significa cessare di essere nel registro delle attuazioni della potenza, ma situarsi in quello delle attuazioni complesse, scisse, antagoniste, all'interno dell'individuo stesso. 10

B. Spino7.a, Etica, I, prop. 36, cit.

FR~D~RIC LORDON

«Trattenere» è tutt'altro che una potenza sospesa, una potenza che «non fa nulla»: si tratta di un'assurdità ontologica per Spinoza. Tutta questa discussione può sembrare un po' lunare, lo ammetto, visto che siamo partiti dalla ZAD, dalle rotonde occupate dai Gilet Gialli. Ripeto, però, che è inevitabile svolgerla fino in fondo se vogliamo cercare il luogo dal quale queste cose, e in particolare certi enunciati politici, vengono realmente. Gli enunciati del pensiero politico destituente vengono infatti da una metafisica che si può criticare soltanto opponendole il livello di argomentazione al quale essa stessa si colloca: la metafisica. Eccoci dunque in questa situazione bizzarra: per ragionare di destituzione in filosofia politica, siamo dovuti prima tornare a Spinoza - e in particolare a Etica, I, 17, scolio 1 e Etica, I, 3 3, scolio 2. Trovare questa mossa folle è del tutto ragionevole. Tuttavia, è qui che Spinoza fa a pezzi la figura del Dio-monarca, colui che, potendo fare tutto, potrebbe anche trattenersi dal fare qualsiasi cosa che non sia un suo decreto. È anche qui che egli contesta categoricamente che la potenza, e a maggior ragione l'infinita potenza di Dio, abbia come indicatore la «potenza-di-non». Che Dio non realizzi tutto ciò che può, gli sembra molto più un segno di impotenza che il contrario: alla fine, ci sono cose che non avrà fatto e, nelle coordinate della filosofia dell'immanenza, non aver fatto è non aver potuto fare- impotenza. Ripetiamo che immanenza significa che la potenza si esaurisce nel suo atto. Non c'è, non può esserci, un possibile non realizzato, una riserva che avrebbe potuto essere mobilitata - il che, per inciso, non significa che non si possa fare meglio, ma sarà per la prossima volta eventualmente (perché, nel frattempo, forse ci saremo modificati, cioè avremo aumentato il nostro grado di potenza). Il possibile non realizzato era lo scarto tra potentia absoluta e potentia ordinata, il luogo della sospensione. E invece no: la potenza è necessariamente esercitata e giunge fino in fondo ai suoi effetti. Una potenza sospesa è una contraddizione in termini. Rude conclusione di tutto ciò: se la sospensione della potenza è l'antidoto alla separazione ontologica che ci travaglia, la soluzione agambeniana si blocca d'un colpo. L'idea della sospensione non ha più senso di quella, già infondata, della separazione. Da un punto di vista spinozista, Agamben pone un problema inesistente e propone per esso una soluzione insensata. (Traduzionc dal francese di Matteo Pollcri)

Corpi al plurale: verso un manifesto anarca-femminista Chiara Bottici

Nel 2015, il Dipartimento di Educazione dello Stato di New York (New York State Education Department, NYSED) lanciò una nuova campagna sulla disabilità. Come parte dell'obiettivo di incoraggiare le persone disabili a lavorare, il NYSED diffuse un annuncio pubblicitario nelle linee della metropolitana intitolato «Hai una disabilità? Vuoi lavorare?», arricchito da una serie di immagini che raffiguravano, presumibilmente, persone affette da disabilità. Il messaggio comunicato dal testo era abbastanza chiaro: se hai una disabilità, e vuoi lavorare, puoi approfittare del benevolo NYSED (e quanto felice ciò ti possa rendere è sottolineato dal fatto che le persone raffigurate sorridono). Ma, al di là delle parole, cos'è comunicato al livello che chiamerei immaginale [imaginal], ossia al livello delle immagini che sono anche presenze in se stesse? Che cosa ci stanno dicendo le immagini, soprattutto considerato il loro effetto sia a livello conscio che inconscio? E, forse addirittura la domanda più importante: che cosa non stanno dicendo, e tuttavia surrettiziamente comunicando? Le immagini raffigurate nella campagna mostrano, partendo dal lato superiore destro, un operaio edile di origini ispaniche, uno studente afroamericano, una donna della classe media (probabilmente ispanica) aiutata da un'altra donna, un meccanico afroamericano davanti a una macchina, e infine una donna bianca ma anziana e di classe media mentre è alle prese con un computer 1 • Per un utente ordinario della metropolitana di New York, le immagini non possono che veicolare un messaggio molto chiaro: la condizione di disabilità riguarda solitamente corpi razzializzati della classe operaia, giovani

1 Cfr. Zachary Sundcrman, Tbe Disability Paradax, «Public Seminar» 14 ottobre 2.015, consultabile online http://www.publiCiCminar.o[f/ 2.015/idthc-disability-paradox/#.WZLlx.tqQxZ.o.

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razzializzati, e donne, in quanto anche quando sono sedute comodamente davanti alla loro scrivania hanno probabilmente bisogno di aiuto. Questo è ciò che è visibile in queste immagini. Chiediamoci ora cosa rimane invisibile. Che cosa è assente, rimanendo tuttavia presente in modo forse ancora più forte? Chi è il vistoso assente in queste immagini, quello a cui apparentemente una campagna sulla disabilità non ha bisogno di rivolgersi, quello che proprio attraverso la sua assenza vistosa è implicitamente rappresentato come immune dalla disabilità? Il maschio bianco di classe media. Questo è il suo invisibile privilegio: egli è l'eccezione alla disabilità che può normalmente colpire persone di uno status inferiore. Per contro, notate come razza, genere e classe si intersecano l'un l'altra nelle immagini menzionate più sopra. Nell'immagine in alto a destra, abbiamo sia un ispanico che un operaio edile: sarebbe stato meno probabilmente affetto da disabilità se fosse stato un operaio bianco? Il giovane studente è chiaramente un afroamericano: i giovani bianchi sono immuni dalla disabilità? Ultimo, ma non ultimo: gli unici possibili esponenti bianchi e di classe media sono entrambe donne, e significativamente entrambe vengono raffigurate nell'atto di essere aiutate, da un computer o da un'altra donna. Gli uomini bianchi di classe media sono immuni dal bisogno di aiuto? Perché il designer della pubblicità non ha pensato di inserire un uomo bianco in mezzo a tutti questi corpi differenti, se è vero che, secondo le statistiche, gli uomini bianchi sono in realtà i più comuni ricettori di contributi per la disabilità della Social Security? 2 In che modo il privilegio di essere rappresentato come immune dalla disabilità si accompagna in realtà con quello di beneficiarne economicamente? Si potrebbe continuare l'analisi del lato immaginale della campagna e sottolinearne altri aspetti, per esempio il fatto che tutte le Sulla base di quanto ci dicono le statistiche, gli uomini bianchi sono di gran lunga i più comuni ricettori di contributi per la disabilità della Socia) Sccurity. Sebbene l'amministrazione sembra aver smesso di pubblicare dati demografici basati sul criterio ra7.ziale nel 2.010 (persino in un report interno del 2.014 i dati sono ordinati in base al criterio dell'età), il suo report del 2.009 indica che dei 7788013 ricettori di quell'anno, 5658054 (73%) erano bianchi e 3005142. erano maschi bianchi (ossia 39% - una larga fetta - del totale, e una maggioranza del 73% di ricettori maschi, il cui totale era di 4100400). Inoltre, tra i ricettori bianchi, il 53 % erano maschi. Gli anni immediatamente precedenti mostrano risultati simili (Z. Sunderman, The Disability Paradox cit.). 2

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immagini riproducono e dunque veicolano una binarietà di genere molto chiara e piuttosto stereotipata: gli uomini svolgono mansioni pesanti (meccanica, edilizia), mentre le donne vestite in modo leggero siedono davanti alla loro scrivania (e vengono aiutate). E ancora, osservate come solo gli uomini sono rappresentati nell'atto di guardarvi dritto negli occhi, mentre lo sguardo delle donne è sempre diretto altrove: presumibilmente verso la fonte dell'aiuto di cui così chiaramente mostrano di aver bisogno. Essere esposti a queste immagini quando entriamo in metropolitana influisce sul modo in cui i corpi si percepiscono? È possibile collegare questo sottile, eppur silenzioso, abbassamento dello sguardo femminile al fatto che, nonostante il tanto parlare di uguaglianza tra uomini e donne, queste ultime sono ancora soggette a discriminazioni sistematiche?3 Potremmo aggiungere altro, ma dovrebbe risultare a questo punto chiara la tesi centrale che volevo proporre sulla natura intersezionale della discriminazione sociale: quando si tratta di rappresentare corpi, e in particolare corpi che è probabile possano essere affetti da disabilità, i fattori della razza, del genere e della classe convergono. Ma se è così, è ancora sensato proporre un manifesto specificamente femminista? In questo articolo, vorrei elaborare questa tesi mostrando dapprima l'utilità, ma anche i limiti, della nozione di intersezionalità e sostenendo la necessità di muovere verso ciò che chiamerò un programma anarca-femminista (I.). In secondo luogo, cercherò di fornire un quadro filosofico entro cui includere un tale progetto, sostenendo che è in un'ontologia spinozista del transindividuale che possiamo trovare le risorse concettuali per pensare la natura plurale dei corpi femminili e della loro oppressione (Il.). Ciò mi permetterà di affrontare la questione «che cosa significa essere una donna» in termini pluralistici e anche di difendere, in questo modo, una forma specificamente femminista di anarchismo (Ili.). In conclusione, tornerò alla tradizione anarca-femminista e mostrerò perché oggi essa è la migliore alleata del femminismo nella ricerca di una teoria critica della società (IV).

3 Giusto per dare un esempio, secondo le statistiche pubblicate dalla Casa Bianca, il divario di genere dei salari negli Stati Uniti è ancora molto significativo, dato che la donna lavoratrice a tempo pieno media guadagna il 78% del corrispettivo uomo lavoratore a tempo pieno medio.

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1. Dalla diagnosi a una proposta positiva: intersezionalità e oltre Esiste ormai una mole enorme di ricerche empiriche che mostrano come differenti forme di oppressione si rinforzano e si sostengono a vicenda. Almeno dagli anni Settanta, quando le femministe cominciarono a investigare il modo in cui la famiglia mononucleare si fonde con altre istituzioni come la scuola, la fabbrica e l'esercito nella riproduzione del patriarcato, l'idea di un modello intersezionale cominciò a emergere4. Il punto più importante veicolato da questa parola chiave è che se vogliamo comprendere come funziona l' oppressione delle donne, non possiamo limitarci ad un singolo fattore (sia esso il genere, la razza o la classe), ma abbiamo bisogno di indagare il modo in cui una pluralità di fattori si intersecano l'un l'altro in vista di rafforzare riprodurre la posizione d'inferiorità delle donne. Per dirla senza mezzi termini: l'oppressione in generale, e l'oppressione delle donne in particolare, è plurale perché il mondo è plurale, e abbiamo dunque bisogno di programmi di ricerca come quello del1' «intersezionalità» al fine di coglierne i tratti. Il tentativo di rendere una tale pluralità ha dato adito a un numero crescente di pubblicazioni: da Donne, razza e classe di Davis (1981) passammo a Identities and inequalities. 'Exploring tbe intersections of race, class, gender and sexuality (2001), che aggiunge alla lista di fattori la distinzione tuttora comune ma di recente sotto attacco tra sesso e genere5. Ma è forse negli ultimi decenni, grazie alla 4 Il termine «intersaionalità» fu usato nel 1989 dalla sociologa K. W. Crcnshaw (Demargina/Wng the lntersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscriminatio11 Doctritze, Feminist Theory and Atltiracist Politics, «The University of Chicago Legai Forum», 140, 1989, pp. 139-167), ma le sue origini intellettuali risalgono a ben prima, come cercheremo di mostrare nel presente saggio. Dalle osservazioni di Bakunin riguardo a come il patriarcato si interseca con l'autoritarismo (dr. M. Bakunin, Bakunin: against patriarchal authority, in R. Graham (a cura di), Anarchism: A Documentary History of Uberatarian ldeas, voi. I, Black Rose Books, Montreal 2.005, pp. 2.36-2.38) agli scritti anarcofcmministi di Emma Goldman, assistiamo ad un'enfasi costante sull'intreccio tra differenti forme di oppressione (dr. E. Goldman, Anarchism and other Essays, Dover Publications, New York 1969). s Per lavori più recenti, siveda Patricia H. Collins, Margaret Andersen (a cura di), Race, Class and Gender: An Anthology, Wadsworth Publishing, Belmont 2.012., nonché Susan J. Ferguson, Race, Gender, Sexuality, andSocial Class: Dime1isio1,s ofl1,equality and lde11tity, Sage, London 2.013. Per un breve riassunto della recente critica della distinzione tra sesso e genere, cfr. Tina Chanter, Gender. Key Concepts in Philosophy, Continuum, London 2.006, pp. 1-7.

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spinta degli studi postcoloniali e queer, che l'idea di intersezionalità è davvero fiorita - e la lunghezza dei titoli della letteratura è aumentata di conseguenza. Sotto l'influenza delle femministe postcoloniali, che hanno sottolineato come l'emancipazione delle donne nel nord globale potrebbe darsi al prezzo di future oppressioni delle donne del sud globale - spingendo in questo modo il femminismo a ripensare i suoi preconcetti [biases] intrinsecamente bianchi- il termine impero è diventato un'aggiunta inevitabile alla lista6 • Quest'ultima tuttavia non si ferma qui, poiché altre forme di oppressione sono state giustamente messe in luce. Ad esempio, Brooke Holmes ha intitolato il suo lavoro Marked bodies: gender, race, class, age, disability, disease (2010). Sebbene abbia dimenticato la sessualità (che differisce dal genere) e l'impero (che differisce dalla razza), bisogna darle atto di aver evidenziato altri fattori importanti come l'età, la disabilità e la patologia - e l'immagine della donna anziana col suo computer nella campagna sulla disabilità già menzionata è un ottimo esempio di una tale intersezione. Nonostante il fatto che un importante lavoro di ricerca empirica sia stato svolto sotto l'etichetta dell' «intersezionalità», rimangono alcune questioni (che vanno oltre quella meramente editoriale di dare spazio a titoli sempre più lunghi). In primo luogo, ogni lista è soggetta ali' obiezione di non poter che essere necessariamente incompleta: se in effetti, come io credo, non si può comprendere l'oppressione delle donne nelle nostre società senza guardare al modo in cui fattori diversi si intersecano l'un l'altro, perché fermarsi ai fattori menzionati prima? Perché non includere «bellezza», ad esempio? Difficilmente è possibile ignorare come le aspettative legate al capitale, alla classe e alla razza si fondono con immagini di bellezza nel trasmettere visioni egemoniche della femminilità. Pensate solo allo spazio dedicato ai prodotti cosmetici femminili in rapporto a quelli riservati agli uomini in un supermercato e avrete un senso spaziale del diverso impatto delle aspettative legate ali' aspetto sugli uomini e sulle donne 7• 6 Cfr ad es. Laura Donaldson (a cura di), Deco/01ziti11g Feminisms: Race, Gender, and Empire Buildi11g, UNC Prcss, Chapcl Hill 1992.. 7 Un esempio di analisi empirica di discriminazione è fornito da Marco Castillo, Ragan Petrie e Maximo Torero, Beautiful or White? Discrimi11ation in Group Fonnatioti, «GMU WorkingPapcr in F.conomics», 12.-2.9, 2.012., mentre Oksala propone un argomento simile ad un livello filosofico, attraverso un'analisi di come le tecniche di bcllcz:za abbiano contri-

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Ma sarebbe sufficiente aggiungere ancora un altro fattore? Finiremo mai di aggiungerne? Il problema con le liste è in realtà duplice: sono necessariamente incomplete, e al tempo stesso necessariamente chiuse. Nominando certi fattori, ogni lista opera una selezione implicita privilegiando alcuni fattori rispetto ad altri che vengono esclusi. Per dirla senza mezzi termini: ogni lista è destinata a dirci al tempo stesso troppo e troppo poco. Come evitarle, però, se vogliamo veicolare una pluralità? Secondo: sebbene l'intersezionalità sia un buon strumento per orientare l'analisi empirica nella misura in cui impedisce ogni sorta di riduzionismo (ad esempio che la classe o la razza siano il fattore che spiega ogni cosa), c'è il rischio di perdere qualcosa riguardo la specificità dell'oppressione delle donne. Se tutte le forme di oppressione si intersecano l'una con l'altra, ha ancora un senso parlare di «femminismo»? Se le liste si espandono all'infinito, che cosa c'è di così specifico nella condizione femminile? Cosa stiamo dicendo quando diciamo «donne»? Quest'ultimo termine non suggerisce forse, surrettiziamente, una distinzione di genere eteronormativa tra donne e uomini che può essa stessa essere fonte di oppressione per coloro che non si identificano né come uomini né come donne? Possiamo parlare della condizione specifica delle donne, e giustificare una posizione distintamente femminista, senza cadere nella trappola dell'eteronormatività o, ancora peggio, dell'essenzialismo? Al fine di rispondere a questa duplice critica, vorrei proporre un appello per un manifesto anarca-femminista. Fare ciò significa tenere assieme le due tesi seguenti: che c'è qualcosa di specifico riguardo l'oppressione delle donne, e che per combattere quest'ultima devi combattere contro tutte le altre forme di oppressione. Detto altrimenti, significa difendere una posizione che è al tempo stesso femminista e anarchica. In quanto segue, vorrei provare a difendere una tale posizione sia a livello di metodo che a livello concettuale (per quanto, come risulterà più chiaro nel seguito, questa distinzione regge soltanto in teoria, poiché in pratica i due livelli si sovrappongono). A livello concettuale, difendere un approccio anarca-femminista significa sostenere buito a creare un soggetto specificamente ncolibcrale del femminismo Uohanna Oksala, The Neoliberal Subject of Feminism, «Joumal of the British Society for Phenomenology», 42, 1, 2.0II,

pp.

104-12.0).

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che non c'è nessun arche onnicomprensivo, ossia, nessun principio o origine singola dell'assoggettamento delle donne. Come ha mostrato il lavoro svolto in nome dell'intersezionalità, né il sesso, né la classe o la razza, e nemmeno qualunque altro fattore che possiamo scegliere dai nostri scaffali di libri sulle questioni di genere può mai aspirare a essere il fattore unico, l'origine decisiva, l'arche che spiega la natura pluralistica dell'oppressione delle donne e pretende così di mettere un punto alla questione. La teoria queer è particolarmente interessante a tal proposito, poiché contiene in sé un'agenda di ricerca pluralistica che ci permette di tenere assieme una varietà di temi. In questo lavoro, tuttavia, mi allontano comunque dalla teoria queer nella misura in cui ciò che mi interessa è soprattutto la posizione specifica delle donne. E, per giocare a carte scoperte, per quanto pensi che sia assolutamente cruciale continuare a lavorare e a prendere parte agli studi di teoria queer al fine di evidenziare le insidie delle identificazioni basate su un semplice binarismo di genere, penso anche che ci siano persone che sono oppresse precisamente perché sono donne. Ed è soprattutto questa forma di oppressione a costituire l'oggetto del mio interesse nel presente lavoro. E qui passo al livello metodologico: sviluppare una posizione anarca-femminista implica sviluppare una posizione femminista che non è meramente decostruttiva o negativa, ma che allo stesso tempo è una forma di femminismo senza patronimico (si noti qui come, in contrasto con altre forme di femminismo come il femminismo marxista o foucaultiano, lo stesso termine anarca-femminismo indica un tentativo di sbarazzarsi di ogni patronimico). E le sfide per una posizione del genere saranno perciò molto vicine a quelle che dovettero affrontare in passato le femministe radicali: come difendere la specificità dell'essere donna senza incorrere in nessuna forma di essenzialismo? Per anticipare il contenuto della prossima sezione di questo articolo, è in un'ontologia dell'unica sostanza che, a mio avviso, possiamo trovare le risorse teoretiche per pensare ad un'individualità (quella delle donne) che è al contempo aperta e però sufficientemente determinata per il nostro progetto.

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Corpi al plurale: dal/'individualità alla transindividualità

Prendendo le mosse dalla tesi di Étienne Balibar secondo la quale il concetto spinoziano di individualità dev'essere compreso in termini di transindividualità8, cercherò ora di mostrare come l'ontologia più monista di tutte può anche essere la più pluralista. Ma prima di fare ciò, devo segnalare che mi sto ispirando anche a Imaginary bodies di Moira Gatens ( 1996), in quanto è in quest'ultimo lavoro che ho trovato per la prima volta un modo di tessere assieme i tanti fili filosofici che stavo all'epoca seguendo. E sebbene la mia operazione teorica vada in una direzione anarca-femminista che forse non farà piacere né a Gatens né a Balibar, sono tuttavia estremamente in debito con entrambi. Sebbene una tradizione distintamente anarca-femminista cominci a svilupparsi già nel diciannovesimo secolo, essa ha sofferto di una immeritata interdizione dal dibattito pubblico e in particolare in seno all'accademia. Ciò è dovuto in parte ad una più generale interdizione nei confronti dell'anarchismo, il più delle volte rappresentato ingiustamente come sinonimo di caos e disordine, ma anche alla difficoltà di distinguere tra anarchismo in generale e anarca-femminismo nello specifico. Se è vero che l'anarchismo combatte tutte le forme di oppressione, allora esso deve opporsi anche ali' oppressione delle donne. Ma, se è così, perché parlare di una posizione specificamente anarcafemminista? Ciò ha determinato una lacuna teoretica nel campo di studi in questione, che è stata colmata solo molto parzialmente9. Il 8

&icone Balibar, Spi11oza: {rom individuality to tra,isindividuality, «Mcdcdclingcn vanhcgc hctSpinozahuis», 71, Eburon, Dclft 1997, pp. 3- 36 (trad. it. e cura di L. Di Martino, L. Pin7.0lo, Dall'individualità alla tramindividualità, in Spinoza. Il transindividuale, Ghibli, Milano 2002, pp. 103-147). 9 A mio avviso, Ehrlich (Carol Ehrlich, A11archism, Feminism and Situationism, in R. Graham [a cura di], Anarchism: A Docume,itary History of Liberatarian Ideas, voi. II, Black Rose Books, Montréal 2009, pp. 492-499) e Komcggcr (Pcggy Komcggcr, A1,archism: the feminist com,ection, in R. Graham [cd. by], A11archism. A Documentary History of Libertarian Ideas, Black Rose, Montreal 2009) indicavano, già qualche tempo fa, la direzione giusta. Più di recente, cfr. Dcric Shannon, Arliculating a Co,uemporary Anarcha-Femi,usm, «Thcory in Action», 2, 3, 2009, pp. 58-74, e Howard J. Ehrlich, Toward a Getieral Theory of Anarchafeminism, in Id, (a cura di), The Best of Socia/ Anarhcism, Social, Anarchism, Tucson 2013, pp. 51-56. Molti scritti anarcofcmministi tendono a prendere la forma di pamphlet militanti, non riuscendo talvolta per questo motivo a fornire il necessario quadro filosofico per la loro impresa. Questo articolo si pone l'obiettivo di colmare questa lacuna.

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mio contributo specifico a questa impresa implicherà l'indicazione di una specifica ontologia del corpo, o quella che chiamerò un'ontologia dei corpi al plurale, che ci permetterà di parlare al contempo della specificità delle donne e della pluralità delle loro oppressioni. Non c'è né lo spazio né forse il bisogno di diffondersi in questa sede in un esercizio filologico al fine di mostrare perché un' ontologia del transindividuale è il modo migliore di interpretare i testi di Spinoza. In effetti, coloro i quali vogliano cogliere l'argomento attraverso un'esegesi accurata dei tesi di Spinoza possono leggere il fondamentale saggio di Balibar del 1997 su SpinoZ,Q: dall'individualità alla transindividualità. Invece, tenterò di riassumere le tesi essenziali di quest'ultimo e di proporre un'immagine schematica di tale ontologia in una maniera auspicabilmente accessibile anche ai non specialisti. C'è dell'essere piuttosto che il nulla. In effetti, come sottolinea Spinoza, è evidente in sé che essere capace di non esistere è mancare di potere, mentre essere capace di esistere significa avere potere. Ma se ciò che esiste necessariamente sono solo esseri finiti, allora gli esseri finiti sono più potenti di un essere assolutamente infinito, il che è assurdo. Di conseguenza, o nulla esiste o esiste anche un essere assolutamente infinito. Ma noi esistiamo, o in noi stessi o in qualcosa d'altro, che esiste necessariamente. Perciò, esiste necessariamente un essere assolutamente infinito 10• Questa è a mio modo di vedere la lezione più bella dello spinozismo: se ci sono venti persone in questa stanza, allora un essere assolutamente infinito esiste necessariamente 11 • Ma dire questo implica anche che c'è una sostanza, un'unica sostanza infinita che si esprime attraverso un'infinità di «attributi», dove quest'ultimo termine sta per ciò che l'intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza12 • Tra l'infinità di tali attributi, quelli che sono accessibili a noi (almeno nelle nostre condizioni umane ordinarie) sono il pensiero e l'estensione. Un singolo pensiero è dunque solo un modo dell'attributo del pensiero, mentre un singolo corpo è un modo dell'attributo dell'estensione. 10 Etica I, prop. 11, dim. Per l'edizione italiana dcli' Etica (d'ora in avanti E), si fa riferimento all'edizione a cura di P. Cristofolini, ETS, Pisa 2.014. 11 L'argomento delle venti persone è usato E I, p. 7 scol. II, dove Spinoza comincia ad aggiungere alcuni clementi a posteriori alla dimostrazione a priori dell'esistenza di una sostan7.a infinita sviluppata in El, p. 1-7. 11 E I, dcf. 4.

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Tuttavia, al fine di sgombrare immediatamente il campo da ogni possibile malinteso, ciò non significa che il pensiero e l'estensione, le idee e le cose, siano parallele. «L'ordine e connessione delle idee è lo stesso [idem] che l'ordine e connessione delle cose» 13 : il pensiero e l'estensione sono lo stesso (idem), non paralleli l'uno rispetto all'altro, e ancora meno sono due sostanze diverse. È necessario sottolinearlo, perché ogniqualvolta parliamo della mente e del corpo, o di idee e cose, il nostro presupposto metafisico dualista ereditato da una lunga tradizione tende a insinuarsi surrettiziamente. Il primo passo al fine di arrivare ad una concezione davvero pluralistica del corpo è di sbarazzarsi di tale presupposto, e di conseguenza dell'idea che un corpo è qualcosa di diverso, parallelo, o addirittura opposto rispetto alla mente. Il corpo e la mente sono solo due modi che esprimono due diversi attributi di una sostanza infinita che si esprime attraverso un 'infinità di attributi. Ciò ci conduce anche alla definizione specifica di individualità come transindividualità che è possibile sviluppare a partire da Spinoza, e in particolare da quella sorta di compendio della sua fisica che egli propone nella parte II dell'Etica, dove il suo eccentrico materialismo emerge completamente 1 4. Se il pensiero e l'estensione sono solo due degli infiniti attributi di un'unica sostanza, allora non possiamo parlare di una semplice ontologia materialista senza aggiungere immediatamente che non abbiamo affatto a che fare qui con una materia bruta, inanimata e statica. Il materialismo di Spinoza è più simile ad una forma di materialismo spirituale che a ciò che tendiamo ad associare all'etichetta «materialismo», precisamente perché l'estensione e il pensiero sono solo due degli infiniti attributi di un'unica sostanza. Nell'ambito di una tale ontologia, le cose individuali (res singulares) esistono solo come conseguenza dell'esistenza di altre cose individuali, con le quali partecipano ad una rete infinita di connessioni 1 5. Si noti qui come ciò implichi anche che la causalità non debba essere intesa nei termini di una successione lineare di eventi, ma piuttosto come una molteplicità di connessioni di nessi causali tra individui, composti di individui più semplici e più complessi tutti causalmente collegati. Detto altrimenti, ogni individuo è costantemente composto F. II, p. 7 . F. II, pp. I 3- I 5. 15 F. I, p. 2.8. Cfr. É. Balibar, Dall'individualità alla transindividualità cit., pp. 133-135. 13

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e decomposto da altri individui con i quali entra in contatto attraverso un processo di individuazione, che include sia il livello infraindividuale che il livello super-individuale16 • Ed è al fine di rendere questa complessità che, sostiene Balibar, l'individualità deve essere concepita come transindividualità 1 7. Gli individui così concepiti non sono dunque mai atomi, eventi, e men che meno soggetti, dati una volta per tutte. Essi sono processi, il risultato di costanti movimenti di associazione e repulsione che connettono individui più semplici con altri individui semplici, ma anche con individui più complessi che fanno e disfanno costantemente un corpo. Per cogliere in modo grezzo ma efficace ciò che intendo qui pensate a come i nostri corpi sono composti e decomposti dai liquidi che li attraversano: beviamo, ma sudiamo e oriniamo, siamo sempre nell'atto di processare liquidi dai quali siamo a nostra volta processati. In modo simile, siamo costantemente composti dalle molecole che respiriamo dentro e fuori i nostri corpi. Osservate che in questa ontologia lo stesso vale per i pensieri: come individui, siamo il risultato di tutti i modi dell'attributo del pensiero che incontriamo costantemente, siano essi l'articolo che state leggendo, la conversazione telefonica che avete avuto con il vostro amico questa mattina, o i pensieri ispirati dalla campagna sulla disabilità menzionata all'inizio di questo articolo. E ancora più di questo: l'ordine e la connessione delle idee sono lo stesso ordine e connessione delle cose, perché le idee non sono altro che affermazioni del corpo. Un altro modo di porre la questione è attraverso la teoria spinoziana del conatus, o sforzo, ossia l'osservazione di Spinoza secondo la quale ogni essere si sforza di perseverare nel suo essere 18• Il conatus è questo «tendere» o «sforzarsi» a persistere nel nostro essere che Spinoza talvolta chiama anche potentia o potenza 1 9• Per quanto ogni individuo, anche una pietra, sia dotato di conatus, ciò che è tipico degli esseri umani è il fatto di essere costituiti da una serie più com-

16 ~-

Balibar, Dall'individualità alla tra1,sindividualità cit., p. 134. Per coloro che sono interessati a rintracciare le origini di questa ontologia del transindividualc, Balibar trac ispirazione da Gilbcrt Simondon, L'i,ulividuation psychique et collective, Aubier, Paris 1989 (trad. it. di P. Virno, L'individuazio1,e psichica e collettiva, DcrivcApprodi, Roma 2.02.1). 18 E III, p. 6. 19 E III, p. 7 dim. 17

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plessa di movimenti di attrazione, repulsione e imitazione generati dai loro affetti, dove un affetto indica allo stesso tempo un'affezione del corpo e l'idea di tale affezione 20• Osservate di nuovo qui quanto sia facile sfuggire alla trappola del dualismo metafisico. Dato che il corpo e la mente non sono altro che modi di attributi diversi di un'unica sostanza, non può sussistere alcuna separazione radicale tra il soggetto di conoscenza e il suo oggetto. Infatti, la stessa nozione di un soggetto autoriferito, di un ego cartesiano, non ha alcun senso in questa ontologia. Gli esseri umani non sono altro che individui complessi risultanti da movimenti di attrazione e repulsione tra individui più o meno complessi 21 • In altre parole, essi non sono entità date, ma piuttosto processi, reti di relazioni affettive e immaginarie, che non sono mai dati una volta per tutte. Questo è a mio parere il senso in cui va interpretata la tesi radicale di Spinoza secondo cui il desiderio è l'essenza stessa dell'uomo (cupiditas est ipsa hominis essentid- 2 ). Il desiderio non è solo una caratteristica degli esseri umani. È, molto più radicalmente, ciò che li crea, e lo fa attraverso un processo di individuazione costante che è di natura transindividuale2 3. Ma ciò significa anche che, come ha sottolineato Gatens, nel processo di individuazione che genera gli esseri umani diventano particolarmente cruciali complesse dinamiche di identificazione immaginaria 2 4: ci incontriamo costantemente e riconosciamo noi stessi o ci E III, pp. 14-16; pp. 21-34; F. IV, p. 6, p. 19. Come osserva Hippler, l'individuo è dunque non il dato elementare della politica, ma è concepito come un processo che è cocstensivo alla politica stessa: si veda Thomas Hippler, Spinoza"s Politics of lmaginatio11 and the Origins of Criticai Theory, in C. Bottici, B. Challand (a cura di), The Politics of lmagination, Birkbcck Law Press, Routledgc, 20

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London-New York 2011, pp. 55-73. ~ la ter7.a parte dell'Etica a enfati7.7.are i meccanismi affettivi di associazione e trasferimento, in aggiunta alla mimesi e all'imita7.ione (E III, p. 21-34) che formano gli individui. 21 F. III, def. dei moti dell'animo, dcf. 1. 2 3 Si noti che il desiderio per Spinoza è chiaramente distinto dalla volontà, perché la volontà è il nome che diamo allo sforzo dell'uomo di preservarsi quando, influen7.ati da una finzione, pensiamo alla mente in astratto dal corpo, mentre il desiderio è lo stesso sforzo ma correlato alla mente e al corpo inseparabilmente (E III, p. 9 scol.). Sulla relazione tra i due concetti, si veda trienne Bali bar, Spinoza et la politique, PUF, Paris 1998 (trad. it. di A. Catone, Spinoz.a e la politica, Manifcstolibri, Roma 1995). 2.4 Uno dei primi studiosi a evidenziare questo ruolo costitutivo dell'immaginazione in Spino7.a è stato Negri (cfr. in particolare Antonio Negri, L "a11omalia selvaggia ( 1980), in Spinoz.a, DeriveApprodi, Roma 2005, pp. 128-139). Secondo Williams, la novità di

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riconosciamo erroneamente in certe immagini del corpo, che includono immagini che abbiamo dei nostri corpi e di altri corpi, così come immagini che altri hanno di essi e che diventano costitutivi del nostro stesso essere. Il termine chiave per tenere assieme il lato mentale e quello materiale di questo processo è per Spinoza «immaginazione». Quest'ultimo, nella sua teoria della conoscenza, denota un insieme di idee prodotto sulla base di affezioni corporee presenti o passate2 S. Al fine di evitare fraintendimenti, è bene ricordare che per Spinoza un'idea non è solo un contenuto mentale. L'immaginazione ha un fondamento corporeo, perché la mente è solo il corpo che è percepito e pensato. Inoltre, un'idea è per Spinoza «un concetto che la mente forma per il fatto di essere pensante» 26• Seguendo Gatens e Lloyd, possiamo forse riassumere la visione spinoziana dell'immaginazione dicendo che è una forma di consapevolezza corporea, il che significa consapevolezza del nostro corpo e degli altri corpi con cui veniamo in contatto e che dunque, in quanto tale, essa è sempre propriamente parlando un immaginare collettivo2 7. Mentre Spinoza, e Gatens dopo di lui, si concentrano sul ruolo che l'immaginazione gioca in queste dinamiche di attrazione e repulsione che sono costitutive del nostro essere, io vorrei piuttosto ri-concettualizzarle nei termini di quello che è stato recentemente definito immaginale28 • Nonostante il fatto che le femministe abbiano portato il concetto spinoziano di immaginazione molto più in là di dove egli lo avesse lasciato 29, il concetto di immaginazione rimane troppo permeato dai presupposti di una problematica filosofia del soggetto, dalla quale io tento di prendere le distanze. Fra i due estremi di una filosofia dell'immaginazione, intesa come una Negri, Balibar e Gatens-Lloyd è di attirare l'attenzione sull'innovativo resoconto materialista dell'immaginazione di Spinoza, scn7.a liquidarla come fonte di errori (dr. Caroline Williams, Thi11ki11g the Politica/ in the Wake of Spi11oza. Power, Affect a,uJ lmagi11ation in the Ethics, «Contemporary Polirical Theory», 6, 2.006, p. 350). 2 s E Il, p. 2.6 dim, p. 40 scol. Il. 26 E Il, def. 3. 2 7 Cfr. Moira Gatcns, Genevieve Lloyd, Collective lmagini11gs. Spinoza, Past a,uJ Present, Routledge, London-New York 1999, p.11. 28 Cynthia Fleury, lmaginatio11, imaginaire, imaginal, PUF, Paris 2.006; Chiara Bottici, lmaginal Politics. lmages beyo,uJ lmagination and the lmaginary, Columbia University Prcss, New York 2.014. 2 9 Moira Gatens, Genevieve Lloyd, Collective lmagini11gs. Spinoza, Past a11d Prese11t, Routledge, London 1999.

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facoltà posseduta dall'individuo, da un lato, e quello di una filosofia dell'immaginario sociale, inteso come un contesto sociale che ci possiede, dall'altro, c'è un terzo spazio, quello dell'immaginale, che consente di evitare le insidie di entrambe le alternative. In sintesi: l'immaginale è ciò che è costituito da immagini nel senso più radicale del termine, immagini, cioè, come rappresentazioni che sono anche presenze in se stesse3°. Come tale, la nozione di immaginale non compie alcuna assunzione ontologica sullo status reale o irreale delle immagini: mentre il concetto di immaginario è associato con l'idea di irrealtà, come nell'espressione «questo è puramente immaginario», il termine immaginale non mantiene nessun presupposto ontologico così forte. In maniera analoga, mentre l'immaginazione tende ad essere compresa come una facoltà individuale e l'immaginario tende ad essere compreso come un contesto sociale, l'immaginale può essere il risultato di entrambi ed è perciò un'integrazione teorica migliore per il trans-individuale sia rispetto all'immaginazione che all'immaginario sociale: come il trans-individuale, il concetto di immaginale indica il bisogno di disfarsi dcli' alternativa binaria di sociale versus individuale. È nei termini di ciò che Gatens chiama «corpi immaginari», e in quelli che io vorrei chiamare «corpi immaginali», che si comprende il lato psicologico del processo di individuazione descritto in precedenza3 1 • Ogni volta che il nostro corpo incontra un altro corpo, che può essere un semplice corpo, come un bicchiere d'acqua, o uno più complesso, come un altro essere umano, si verifica un cambiamento nella sua stessa costituzione. È in questo senso, e per tenere insieme ciò che accade sia ad un livello inter-individuale sia ad un livello super-individuale, che la nozione di trans-individualità diviene particolarmente utile. Riassumendo, i nostri corpi sono sempre necessariamente corpi al plurale, poiché la loro individualità è sempre e inevitabilmente una forma di transindividualità. Siamo tutti nati da altri corpi, e fin dalla nostra nascita siamo stati costantemente trasformati nell'incontro con altri corpi, mentre a nostra volta li abbiamo costantemente

° C. Bottici, lmaginal Politics cit., pp.

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54-63. Da notare la somiglianza fra questo processo e quello che Drucilla Comell descrive nel suo The lmaginary Domaiti (1995). Sebbene Comell formuli la sua teoria in termini lacaniani, penso che l'intuizioni fondamentale, che l'immaginale sia un terreno di scontro cruciale in cui i corpi sessualizzati negoziano il loro stesso essere, sia la stessa. 3•

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influenzati. Il concetto di transindividualità intende segnalare questa complessità come anche la nostra natura processuale. Emerge, tuttavia, inevitabilmente il problema di ciò che può garantire continuità nello spazio e nel tempo a questi processi in corso. Ma prima di rivolgersi a tale questione, permettetemi di spiegare chiaramente che cosa intendo per «corpi al plurale» e perché questa comprensione del corpo ci può condurre al di là delle impasse che hanno afflitto la filosofia femminista negli ultimi due decenni. In primo luogo, per «corpi al plurale» intendo sottolineare la natura transindividuale dei processi di individuazione, cioè, di un processo che tiene insieme sia il livello inter-individuale che quello super-individuale. In secondo luogo, collocando il corpo all'interno di un' ontologia della sostanza unica, si superano facilmente le opposizioni che hanno accompagnato fin dall'inizio i dibattiti femministi: l'assoggettamento delle donne è il risultato della loro biologia (natura) o della loro educazione (cultura)? Dietro questa opposizione, come anche dietro l'opposizione fra sesso e genere, si trova infatti il dualismo metafisico tipicamente occidentale incentrato sulla dicotomia tra corpo e mente3 2 • Tuttavia, se si comprendono corpo e mente come semplici modi all'interno dei differenti attributi della stessa sostanza, allora non può essere mantenuta alcuna opposizione fra i due: ed è all'interno di questa cornice ontologica che diviene possibile anche porre la questione di «che cos'è una donna?», evitando le false alternative fra «essenzialismo» e «culturalismo». Una volta che il corpo non sia più inteso come un'entità inerte e fissa, non c'è più bisogno, e non c'è più spazio, per sollevare l'accusa di essenzialismo.

3. Donne in processo, donne come processi Come ho notato in precedenza, la questione più saliente che questa ontologia solleva riguarda ciò che garantisce la continuità di un'individualità nello spazio e nel tempo. Se l'individualità deve essere compresa sempre nei termini di trans-individualità, di un costante processo di individuazione, come si può parlare di un singolo indivi-

32.

Moira Gatcns, lmaginary Bodies. Ethics, Power a,ul Corporeality, Routlcdgc, Lon-

don 1996.

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duo in un momento e un tempo specifici? Con una risposta che combina Spinoza con la psicoanalisi e la sociologia, io risponderò che si tratta di una narrativa. È infatti attraverso una storia degli incontri passati e presenti, che compongono una singola individualità, che si può trovare il filo conduttore che ci permette di parlare di un singolo individuo in un certo punto del tempo. Una tale storia non è solo la storia che ci raccontiamo come se fossimo monadi isolate senza finestre e porte. È ancora una volta l'intero processo di narrazione, che dovrà essere anche il risultato degli incontri fra le storie che noi ci raccontiamo e quelle che ci vengono raccontate, tra le storie in cui ci riconosciamo e quelle in cui no33. Ed è attraverso una storia che in questa sezione vorrei provare ad affrontare la questione: «che cos'è una donna?». Tratterò innanzitutto il problema di che cosa significhi comprendere la donna come un processo e poi passerò ad illustrare questo punto attraverso l'esempio di un incontro immaginale. L'usuale obiezione sollevata contro il femminismo radicale, e in generale contro tutte le forme di femminismo che si rifanno alla nozione di donna, è di rischiare di cadere in una forma di essenzialismo o, cosa ancora più grave, in una forma di eteronormatività che congela le potenzialità di genere all'interno del binomio donna/ uomo. Come dovrebbe essere evidente a questo punto, ali 'interno di un'ontologia monista del transindividuale, nessuna obiezione di questo tipo può essere mantenuta. Il corpo non è una materia inerte, o un'essenza, a cui si possono attribuire proprietà fisse e immutabili (come un certo tipo di genitali o di equilibrio ormonale). Piuttosto, il corpo in generale e i corpi delle donne in particolare, sono processi34. 33 Su come combinare una teoria del riconoscimento con una teoria del trans-individuale, cfr. il volume Strategie della re/azione. Rico110scimento, trans individuale, alterità, a cura di Nicola Marcucci e Luca Pinzolo, Meltemi, Roma 2.010) e in particolare il saggio di Vittorio Morfino. Traendo spunti di riflessione dal lavoro del sociologo Alessandro Pizzorno, ho elaborato la relazione fra identità e narrazione, insistendo sulla natura plurale di questo processo, in Chiara Bottici, A Philosophy of Politica/ Myth, Cambridge University Press, Cambridge 2.007 (trad. it., Filosofia del mito politico, Bollati Boringhieri, Torino 2.01 2.). 34 Questo è leggermente differente dall'osservazione di Gatens per la quale il corpo è un prodotto storico (M. Gatens, lmaginary Bodies cit.), ma il contenuto rimane lo stesso. Fra coloro che più di recente hanno sottolineato questo aspetto, cfr. Paul B. Preciado, Testo junkie. Sex, Drugs, and Biopolitics in the Pharmacopornographic Era, The Feminist Press, New York 2.013, e in particolare pp. 99-130 (trad. it. di E. Rafanelli,

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Il termine «donna» diventa la sigla per una storia che tiene insieme una serie di processi e potenzialità che si possono associare agli individui istituiti come e che si istituiscono come «donne». Dalla posizione in cui sono, per esempio, storie sull' «essere donna» possono includere potenzialità come: mestruazioni; menopausa; dare la vita/decidere di non darla; intersessualità; transizione; essere pagate meno dei propri colleghi maschi; essere stuprate nella propria vagina (perché tutti i corpi possono essere stuprati, ma essere stuprati nella propria vagina è diverso dall'esserlo nel proprio ano); camminare per strada auto-identificandosi come donna; camminare per strada sfidando la propria auto-identificazione come donna; e così via. L'elenco è ovviamente aperto quanto il processo o la serie di processi che possono potenzialmente andare sotto il titolo di essere donna e include perciò tutti i tipi di donne: donne femminili, donne mascoline, donne femmine, donne maschi, intersessuali, donne trans, e così via. A coloro che sostengono che un altro mondo è possibile, sono sempre tentata di replicare che un altro mondo è sempre nel suo farsi, nella misura in cui ci vengono continuamente svelati i diversi modi di essere donna, se siamo aperti ad essi. Tuttavia, è particolarmente difficile accettarli quando mettono in discussione le visioni consolidate ed egemoniche di come dovrebbe apparire una donna. Le pratiche artistiche godono di una posizione privilegiata a riguardo. Fornendo lo spazio per sfidare le visioni egemoniche in modi che connettono la critica razionale con l'attaccamento emozionale, esse sono spesso uno spazio particolarmente efficace per rinegoziare il nostro essere immaginale. Per dirla con le parole di Jose' Esteban Muiioz, si può intendere questa illuminazione come un'eccedenza sia di affetti che di significato - un'eccedenza che è generata dall'illuminazione specificatamente anticipatoria dell'arte 35 . E se è vero che essere una donna, nelle nostre società capitalistiche, implica in maniera crescente il «dominio immaginario»3 6 o persino il registro dello spet-

Testo tossico. Sesso, droghe e biopolitiche ,re/l'era farmacopornografica, Fandango Libri, Roma 2.015, pp. 90-116). 3S Josè Estcban Mufio7., Disi11de,1tificatio1,s. Queer of Color and the Performance of Politics, Minnesota Univcrsity Prcss, Minncapolis 1999, p. 3. 36 Drucilla Corncll, The lmaginary Domain. Aborlion, Ponwgrapby & Sexual Harassme,1t, Routlcdgc, London 199 5.

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taco lo delle merci 37, allora si può guardare alle pratiche artistiche come possibile luoghi per la messa in scena di contro-spettacoli3 8• Consideriamo le serie di lavori su Julia Pastrana realizzati e inscenati dall'artista messicana a New York Laura Anderson Barbata. L'immagine 1, intitolata «Julia y Laura», coglie uno di questi momenti39. Si può vedere nell'immagine un'artista donna (la tela alle sue spalle) che si sta proiettando come specchio di un'altra donna, che sta in piedi vicino a una statua e porta una barba nera. Le due donne hanno vestiti viola simili, lo stesso tipo di posa, scarpe e un'acconciatura simile, ma l'una ha indosso degli occhiali e l'altra una barba spessa e lunga (fig. 1). È interessante notare che l'artista donna senza barba si chiama Laura Anderson Barbata, che in spagnolo, come nella mia lingua nativa, è molto vicino a barbuta, che letteralmente significa donna barbuta. Questo suggerisce che la donna sulla sinistra è la verità del nome della donna sulla destra? L'artista che sta in piedi di fronte alla tela è la verità della donna barbuta sulla sinistra o la frattura al centro dell'immagine suggerisce un processo allo stesso tempo di identificazione e disidentificazione? lo vorrei sostenere che si tratta di entrambe, e proprio per questo, questa immagine funziona come mezzo di interrogazione e rinegoziazione della femminilità. Nella storia]ulia y Laura che Laura Anderson Barbata ha raccontato nelle sue immagini e nelle sue performance, si apprende che J ulia Pastrana nacque nel 18 34 in un piccolo villaggio messicano nello stato di Sinaloa 4°. Si sa molto poco dei primi venti anni della sua vita, se non che ad un certo punto viveva nella casa del governatore di Sinaloa, dove fu educata come ballerina e mezzosoprano, e dove imparò il francese e l'inglese. Nel 18 54 fu venduta a Francisco Sepul37 Carol Ehrlich, Anarchism, Feminism atul Situationism, in Anarchism. A Documentary History of Libertarian ldeas, voi. Il, 2009, pp. 492-499. 38 Ho sviluppato la nozione di contro-spettacoli in C. Bottici, lmaginal Politics cit., pp. 106-124. Sebbene io l'abbia sviluppata all'interno della cornice di una teoria dell'immaginale, sono largamente debitrice all'influente lavoro di Maria Pia Lara, che ha mostrato come le narrative femministe possono esercitare il loro impatto critico nella sfera pubblica, in modo da offrirci modi alternativi di essere una donna (Maria Pia Lara, Moral T extures. Feminist Na"atives i11 the Public Sphere, Polity Prcss, Cambridge 1998). 39 Cfr. il sito di Laura Anderson Barbata per una descrizione di tutta le serie dei lavori su Julia Pastrana, che include arte visuale e performance (http://www.lauraandersonbarbata.com/work/mx-lab/julia-pastrana/). Mi rifaccio alla cronologia di Laura Anderson Barbata (http://www.lauraandersonbarbata.com/work/mx-lab/julia-pastrana/3.php, consultato il 20 dicembre 2016).



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I.

veda, che si associò con un uomo d'affari americano, Theodore Lent, per esibire Julia Pastrana a New York City. Lo stesso anno Theodore Lent sposò proprio Julia Pastrana negli Stati Uniti. Da quel momento in poi, il suo manager e suo marito la esibirono come: «la donna più brutta nel mondo», «l'anonima», «l'irsuta», «la donna scimmione», «l'ibrido femminile», «la donna orso», «la donna barbuta», «la donna babbuino», e «la donna scimmia», tra gli altri. Nel 1860 Pastrana, incinta di suo marito, andò a Mosca dove diede alla luce un bambino a cui venne diagnosticata la sua stessa patologia (cioè, di essere ricoperto di un'eccessiva peluria nera e con una mascella troppo sviluppata). Sia il bambino che la madre morirono poco dopo la nascita. Dopo la loro morte, Theodor Lent vendette i loro corpi al dottor Solokov dell'Università di Mosca, che aveva sviluppato una speciale tecnica di imbalsamazione e voleva utilizzarli per ulteriori ricerche scientifiche. Ma due anni dopo, Lent ritornò a Mosca a reclamarli e, con il supporto dell'ambasciata statunitense, si organizzò per ottenere i loro corpi. Li mise in una teca di vetro e iniziò a esporli in giro per l'Europa, con grande successo commerciale. Da allora, i corpi di Julia Pastrana e del suo bambino continuarono ad essere esposti, studiati, rubati e danneggiati. Il fascino che esercitavano non si concluse con la morte: semmai ne fu accresciuto, perché sotto una teca di vetro essi divenivano controllabili. Nel 1976

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dei ladri irruppero in un deposito a Oslo dove erano tenuti i corpi e gettarono il corpo del bambino in un campo, dove fu mangiato dai roditori. Mentre il braccio di Julia fu strappato dal suo corpo e fu trovato solo molto dopo, il suo corpo scomparve. Ma, poi, nel 1988, emerse di nuovo. Nel 1994, il corpo fu posto in custodia del dipartimento di Studi anatomici forensi di Oslo a scopi di ricerca. Articoli e pubblicazioni, che descrivevano il suo caso, apparvero in tutto il mondo, ma lei era ancora praticamente sconosciuta in Messico. Nel 2003, Laura Andersen Barbata si imbatté nella storia di Julia Pastrana attraverso uno spettacolo teatrale dedicato alla sua vita. Da allora, Barbata divenne molto attiva in una campagna internazionale che tentava di riottenere il corpo di Pastrana e farlo ritornare nel suo paese nativo, in Messico. Dopo dieci anni di lotte, il corpo fu infine restituito a Sinaloa, in Messico, dove fu seppellito con un'immagine del suo bambino sul petto. Barbata si adoperò per assicurarsi che la sua tomba fosse completamente coperta di cemento e racchiusa in mura che misuravano più di un metro in spessore, per garantire che non sarebbe mai più stata esposta. Tuttavia, allo stesso tempo, iniziò a rappresentare questa storia e a esporla attraverso il suo lavoro. Perché? Per comprendere il tipo di operazione artistica qui in gioco bisogna fare un passo indietro ed esplorare il tipo di logica esibizionistica che è emersa attraverso la storia di Julia Pastrana. Consideriamo la pubblicità per la performance di Pastrana a Worcester, Massachussets (18 55)41 • La fotografia ci dice immediatamente che abbiamo a che fare con un' «indiana opate!», che è caratterizzata dall'accostamento di due caratteristiche (donna, barba) che sono incompatibili. L'immagine esagera sia la quantità di peluria sul corpo di Pastrana sia i suoi tratti mascolini, che si contrappongono ancora di più alla sua femminilità: è la combinazione eccentrica di elementi a cui la visione egemonica delle femminilità di allora non permetteva di andare insieme che fa di lei «la Misnomerata», la creatura a cui è impossibile dare un nome. Questo tuttavia spiega anche il fascino del suo corpo e quindi le ragioni per trasformarla in uno spettacolo. La bella voce di un mezzosoprano esperto, i vestiti eleganti e la postura com-

•• Cfr. sempre dalla cronologia di Laura Andcrson Barbata: «Opate lndia11!», in ]ulia Pastrana Onli11e (http://juliapastranaonlinc.com/itcms/show/4 3 consultato il 2.8 novembre 2.02.2.).

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posta, che invocano valori cli ornamento e sottomissione associati alla moderna femminilità occidentale, erano percepiti come bizzarri rispetto allo spessore della sua barba, l'eccessività della sua peluria, che richiamavano piuttosto gli attributi tradizionali della moderna mascolinità occidentale. Come nota Preciado, il posizionamento della peluria sul corpo è un luogo cruciale della produzione di corpi di genere e razzializzati nella modernità4 2 • Nel sistema tecno-gender del diciannovesimo secolo, l'esibizione cli «donne barbute» come mostruosità è andata di pari passo con l'invenzione dell' «irsutismo» come condizione clinica, che rendeva le donne normali potenziali clienti cli un sistema medico e cosmetico normalizzante. Da notare qui come il genere si sia saldato con la razza, dal momento che I' «irsutismo» è diventato una condizione clinica, che ha contribuito sia a classificare la femminilità normale che le razze inferiori43. Non a caso poi, la pubblicità presentava la combinazione queer di Pastrana di tratti femminili e mascolini come un «indiana opate», relegandola così ad una razza inferiore, e forse perfino ad una specie inferiore: l'etichetta «donna orso» non poteva se non simbolicamente relegarla in uno spazio liminale fra una specie superiore (umana) e una inferiore (animale). Non è difficile riconoscere in questa pubblicità la tipica logica esibizionista del colonialismo44. Il fascino dell' «indiana opate» e «donna orso» è precisamente quello del feticcio coloniale che necessita cli essere esibito nel cuore dei territori dei colonizzatori per rafforzare le visioni egemoniche della femminilità in patria, ma anche per impedire così immagini alternative di femminilità. Rispetto a questa logica, il lavoro cli Barbata opera un terapeutico contro-spettacolo, attraverso quello che altrove ho definito terapia omeopatica: prende piccoli pezzi dello spettacolo passato per trasformarlo contro se stesso, utilizzando in questo modo il male contro il male, mettendo in scena uno spettacolo cli femminilità contro la logica spettacolaP. B. Prcciado, Testo j1111kie cit., p. 1 14. lvi, pp.114-115. Per esempio, dal 1961 l'irsutismo iniziò a essere misurato secondo la scala di Ferrimann-Gallway, secondo la quale il livello otto di una donna caucasica è indicativo di un ccccsso di androgeni mentre nelle donne dcli' Asia orientale un grado molto più basso rivela l'irsutismo (ivi, p. 115). ◄◄ Sono grata al lavoro e ai film di Waync Wapccmukwa (in particolare, al suo Balmoral Hotel, prodotto nel 2015) per le osservazioni illuminanti sulla connessione fra colonialismo e esibizionismo. •fZ·

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rizzante ereditata della femminilità stessa45. Tuttavia, piuttosto che invitarci semplicemente a identificarci con la storia di Pastrana, la giustapposizione delle due immagini, e l'interruzione bianca nel mezzo, ci invita ad una costante messa in questione delle dicotomie consolidate che rappresenta: la donna barbuta contro quella depilata, il maschile contro il femminile, il mezzo-animale contro il completamente umano. Come tale, interroga la spettacolarizzazione passata della femminilità e apre le porte per pensare a un futuro differente. In sintesi, la storia di Julia Pastrana illustra potentemente il fascino che la pluralità del suo corpo ha esercitato, ma anche quanto ambivalenti possano essere le nostre risposte. Il problema, infatti, è che le persone non sono aperte di solito ad accettare queste pluralità (perché questo implica anche accettare le proprie ambivalenze) e perciò il fascino ritorna in forma di mostruosità, di bruttezza, di adorazione, ma anche nel dilania mento del corpo morto imbalsamato. Si noti che suo marito, che non era interessato solo a far soldi con lei, la mise incinta e, dopo la sua morte, sposò un'altra donna Marie Bartel, che soffriva di condizioni simili a quelle di Pastrana. Cercò di fare con lei la stessa cosa che aveva fatto con sua moglie, ma impazzì e morì in un asilo russo. Questo era il suo problema, ma forse è anche il nostro: la nostra difficoltà nel mantenere un'apertura veramente pluralistica, che implichi anche la capacità di tenere insieme le nostre ambivalenze. Parafrasando Nietszche, questa può essere forse la nuova formula della felicità: «un sì, un no, una linea retta, e una barba»4 6 •

4. Conclusioni: verso un manifesto anarca-femminista In conclusione, vorrei ritornare sulla questione del riduzionismo sollevata all'inizio e provare a mostrare brevemente perché per le teorie critiche femministe l'anarchismo potrebbe essere un interlocutore -4S Ho sviluppato questo concetto di «strategia omeopatica» più diffusamente in C. Battici, lmaginal Politics cit., pp. 106- 1 24. Comcll propone una strategia simile nel suo lavoro sulla pornografia (D. Comcll, The lmagi11ary Domain cit., pp. 95-167), mentre Muiioz lo teorizza come discntificazionc o come «futurità quccr» nel suo lavoro sul potere anticipatorio illuminante delle pcrfomance artistiche Uosé Estcban Muiio7., Cmising Utopia. The Then and There of Queer Futurity, New York University Prcss, New York 2009). -46 Fricdrich Nietzsche, TheAntichrist, in The Portable Nietzsche (cd. and translatcd by Walter Kaufmann, Pcnguin Books, New York 1976, pp. 565-656: 570).

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migliore per affrontare la questione dell'oppressione delle donne rispetto al marxismo. Alcuni hanno sostenuto che è a causa del riduzionismo economico che il rapporto tra marxismo e femminismo si è concluso in un'unione infelice: riducendo il problema dell'oppressione delle donne al singolo fattore dello sfruttamento economico, il marxismo ha finito per dominare il femminismo precisamente nello stesso modo in cui gli uomini in una società patriarcale dominano le donne47. Sebbene questo riduzionismo sia stato messo in questione da molte femministe marxiste stesse48 , rimane, almeno in linea di principio, una possibile tentazione riduzionista nel femminismo marxista che è stata, al contrario, sempre estranea ali'anarca-femminismo. Qualsiasi analisi critica dell'oppressione delle donne deve prendere in considerazione una molteplicità di fattori, ognuno dei quali nella sua autonomia, senza tentare di ridurli a una causa o arche onniesplicative - sia essa l'estrazione del plusvalore nel posto di lavoro o il lavoro ombra non retribuito a casa. C'è qualcosa di intrinsecamente sfaccettato nell'oppressione delle donne - a tal punto che non sarà una sorpresa considerare il fatto che i programmi di studi femministi o di genere sono tutti, inevitabilmente, interdisciplinari. Si noti che, in contrapposizione alle molte caricature del pensiero anarchico che sono per lo più prevalenti nei media, l'anarchismo primariamente denota un metodo, che aspira a mettere in questione ogni arche stabilito, e non un vero e proprio progetto per la società49. -47 Lydia Sargent, Wome,1 and Revolution: A Discussion of the Unhappy Marriage of Marxism and Feminism, South End Press, Boston 1981. 48 Notevoli esempi includono l'approccio bidimensionale al genere di Nancy Frascr (Fortunes of Femitusm. From State-managed Capitalism to Neo/ibera/ Crisis, Verso, London 2.013 (trad. it. di A. Curcio, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo stato alla crisi neoliberalista, Ombre Corte, Verona 2.014]), la combinazione del marxismo con la teoria queer di Cinzia Arru7.7.a (Le relaziotu pericolose: matrimoni e divorzi fra marxismo e femmitusmo, Alegre, Roma 2.010), il ripensamento più recente della riproduzione di Silvia Federici (Revolutionat Point Zero. Housework, Reproduction, a,,d Feminist Struggle, PM Press, Oakland 2.012. (trad. it. di A. Curcio, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona 2.014)) e gli approcci intersczionali raccolti nella recente antologia Marxismo e Femminismo (Shahrzad Mojab, Marxism a,id Feminism, Zcd Books, London 2.015, pp. 2.03-2.2.1, 2.87-305). 49 Questa osservazione sulla natura dell'anarchismo combina autori differenti come Errico Malatesta (L.anarchia, Datancws, Roma 2.001), Rainer Schiirmann (On Costituting oneself a11 Anarchist Subject, «Praxis lntemational», 3, 1986, pp. 2.94-310) e, più recentemente Saul Ncwmann (Post-anarchism, Polity Press, Cambridge 2.016). Quest'ultimo, prendendo spunto da Schiirmann e Foucault, parla di post-anarchismo come una pratica

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Nonostante il fatto che anarchismo e marxismo spesso abbiano percorso la stessa strada e siano persino confluiti nelle lotte dei lavoratori, la più grande differenza fra di loro è che i pensatori anarchici hanno storicamente lavorato con una nozione più variegata di oppressione che sottolinea l'esistenza di forme di sfruttamento che non possono essere ridotte a fattori economici - siano esse politiche, culturali, sessuali, estetiche e così via. Di qui anche la sua più felice unione con il femminismo: se il rapporto fra marxismo e femminismo è stato storicamente una relazione pericolosa50, che ha riprodotto la stessa logica di dominio che si verifica tra i due sessi, la relazione fra femminismo e anarchismo promette di essere un incontro molto più produttivo. Storicamente, i due convergono così spesso che alcuni hanno sostenuto che l'anarchismo è per sua definizione femminismo5 1 • Il punto non è semplicemente di registrare che, da Mikhail Bakunin a Emma Goldman, e con la sola (possibile) eccezione di Produdhon, anarchismo e femminismo spesso confluirono nelle stesse persone. Questo fatto storico segnala un'affinità teorica più profonda. Si può essere marxisti senza essere femministi, ma non si può essere anarchici senza essere femministi allo stesso tempo. Perché no? Se l'anarchismo è una filosofia che si oppone a tutte le forme di dominio, includendo quelle che non possono essere ridotte allo sfruttamento economico, deve opporsi anche all'assoggettamento delle donne, altrimenti sarebbe incoerente con i propri principi. La maggior parte dei pensatori anarchici lavora con un concetto di libertà che si caratterizza meglio come una «libertà degli uguali» 52, dove quest'ultima espressione significa che non si può essere liberi senza che tutti gli altri siano ugualmente liberi, perché persino se sono il padrone, la relazione di dominio a cui io partecipo mi renderà schiava tanto quanto lo schiavo stesso. Ma se non posso essere libera a meno di non essere circondata da persone che sono ugualmente libere, cioè, a meno che io non viva in una società libera, allora l'assoggettamento delle donne non può essere ridotto a qualcosa che riguarda solo una parte della società: una società patriarcale sarà fondamentalmente etico-politica che inizia con l'anarchia piuttosto che considerarla come suo progetto finale (dr., in particolare, ivi, pp. 9-13). so C. Arru7.7.a, Le relazioni pericolose cit. s• P. Kornegger, A,1archism: the feminist connectioti cit. 52 C. Bottici, lmaginal Politics cit., p. 178.

CORPI AL PLURALE: VERSO UN MANIFESTO ANARCA-FEMMINISTA

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oppressiva per tutti i sessi, precisamente perché non si puòo essere liberi da soli. E questo è un aspetto che si tende a dimenticare: il patriarcato è oppressivo per tutti, non solo per le donne. Così, se è vero che l'anarchismo deve essere per definizione femminismo, vale anche l'inverso? Ci possono essere femministe che non sono anarchiche? È chiaro che, parlando storicamente, molti movimenti femministi non furono anarchici. Tuttavia, alcune femministe hanno sostenuto che il femminismo, il particolare il femminismo di seconda ondata degli anni '70, sia stato anarchico nella sua struttura profonda e nelle sue aspirazioni. Secondo Kornegger53, per esempio, le femministe radicali di questo periodo erano anarchiche inconsapevoli sia nelle loro teorie che nelle loro pratiche. La struttura dei movimenti delle donne (per esempio, i gruppi di auto-coscienza), con la loro enfasi sui piccoli gruppi come unità organizzativa di base, sul piano personale e politico, e sull'azione spontanea diretta, aveva un'impressionante somiglianza con le forme di organizzazione ti pica mente anarchiche54 . Ma persino più impressionante è la convergenza concettuale con il concetto di libertà che si è descritto in precedenza. Per esempio, Kornegger afferma che «la liberazione non è un'esperienza isolata», perché può avvenire solo insieme a tutti gli altri esseri umani 55 , che, di nuovo, significa che la libertà non può che essere libertà tra uguali. Tuttavia, questo implica anche che non si può combattere il patriarcato senza combattere tutte le altre forme di gerarchia, che siano economiche o politiche. Come Kornegger afferma ancora, «il femminismo non significa potere aziendale alle donne o una presidente donna: significa nessun potere aziendale né presidenti»5 6• Detto in altri termini, il femminismo non significa semplicemente che le donne dovrebbero prendere i posti occupati dagli uomini (che sarebbe piuttosto una forma fallica di femminismo); piuttosto, le donne dovrebbero combattere per sovvertire radicalmente la logica dell'oppressione patriarcale dove sessismo, razzismo, sfruttamento economico, oppressione politica, e così via, si rafforzano reciprocamente l'uno con l'altro, sebbene in forme e modalità differenti in P. Komcggcr, Anarchism: the feminist connection cit. lvi, p. 494. ss lvi, p. 496. s6 lvi, p. 493· H H

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differenti contesti. Questo vale ancora di più oggi, in un mondo globalizzato dove le differenti forme di oppressione e sfruttamento, che siano basate sul genere, sesso, razza o classe si intersecano fra loro. Probabilmente il più grande contributo del femminismo intersezionale è stato dimostrare che se per femminismo si intende semplicemente la lotta per un'uguaglianza formale tra uomini e donne, si rischiano di creare nuove forme di oppressione. Si rischia che l'uguaglianza fra uomini e donne significhi solo che le donne devono assumere le posizioni una volta riservate agli uomini borghesi bianchi, così da rinforzare i meccanismi di oppressione piuttosto che sovvertirli. Per esempio, se si considera l'emancipazione delle donne l'entrare semplicemente nella sfera pubblica su un piano di parità con gli uomini, ciò, a sua volta, potrebbe implicare che qualcun altro deve rimpiazzare queste donne in ambito domestico. Ma per la donna immigrata che prende il posto della casalinga bianca nel provvedere alla cura domestica, questa non è liberazione: esce semplicemente dalla propria casa per entrare in un'altra come lavoratrice salariata57. Nell'attuale situazione complessa, l'emancipazione di alcune donne (bianche) rischia di significare direttamente l'oppressione di altre donne (immigrate, nere, o del sud), se il femminismo non mira a dissolvere tutte le forme di gerarchia. In conclusione, forse il femminismo non è stato storicamente sempre anarchico, ma dovrebbe diventarlo ora, perché dovrebbe mirare a sovvertire tutte le forme di dominio. Il femminismo, oggi più che in passato, non può significare donne sovrane o donne capitaliste di successo: significa nessuna sovranità e nessun capitalismo. E spero che sia con queste parole che inizierà un nuovo programma di ricerca anarca-femminista. (fraduzionc dall'inglese di Andrea Di Gcsu e Chiara Dc Cosmo)

57 Sul problema sollevato dalla cosiddetta «catena globale di cura» e il modo in cui essa ristruttura l'economia globale, dr. Nicola Ycatcs, Globa/Wng Care Economies and Migra11t Workers. Explorations in Global CAre Chains (PalgravcMacmillan, New York 2.009 ), mentre sul modo in cui essa sfida le assunzioni marxiste tradizionali, dr. S. Fcdcrici, Revolutionat Poi11t Zero cit., pp. 1 1 5- 1 2. 5.

Immanenza e potenza: da Spinoza alla democrazia radicale. Conferenza tenuta a Rijnsburg il 1° dicembre 2.012.• Martin Saar

Introduzione: il problema della democrazia Purtroppo non conosciamo l'ultima parola di Spinoza sulla democrazia. Il cruciale capitolo XI del Trattato politico (TP) è rimasto incompiuto, lasciandoci una serie di considerazioni misteriose che introducono appena l'argomento e limitano, inoltre, l'ambito di intervento politico del popolo, che erano state invece espresse con la categoria di multitudo. Per ricostruire che cosa sia, e cosa possa realizzare, la democrazia secondo Spinoza, possiamo affidarci soltanto ai suggerimenti contenuti nei capitoli precedenti del TP, al passaggio enigmatico sulla «più naturale» forma di governo nel Trattato teologico-politico e, infine, alle considerazioni sulle origini dello Stato nell'Etica. Il pensiero politico di Spinoza è stato oggetto di interpretazioni divergenti, ma egualmente influenti e convincenti: alcune hanno esplicitamente sostenuto il suo conservatorismo elitista e scettico di Spinoza, altre il suo radicalismo egualitario 1 • Il confronto con i testi sembra rendere pian-

.. Desidero ringraziare il pubblico di Rijnsburg per i commenti e i suggerimenti e Theo van der Werf per l'amichevole invito; una seconda versione della conferenza è stata successivamente tenuta a Sydney; per questa opportunità sono molto grato a Simone Bignall, Moira Gatens e Paul Patton. 1 Per l'interpretazione conservatrice, dr. Theo Verbcck, Spinor.a's Theologico-Political Treatise: P.xploring "The Will of God", Ashgatc, Aldershot 2.003, e François Zourabichvili, Le conservatisme paradoxal de SpinoZ,a: Enfance et rayauté, PUF, Paris 2.002. (trad. it. di C. Zaltieri, l11fanzia e regno. Il co1,servatorismo paradossale di Spinar.a, Negretto, Mantova 2.017). Per l'interpretazione democratico-radicale, dr. Étienne Balibar, Spinar.a et la politique, PUF, Paris 1985 (trad. it. di A. Catone, Spi110Z,a e la politica, manifcstolibri, Roma 1995),e Manfred Walther, Philosophyand Politics in Spinar.a, «Studia spinozana», 9, 1993, pp. 49-57. Una posizione intermedia può essere ritrovata in Douglas j. Den Uyl, Power, State and Freedom: An l11terpretatio11 o{Spinor.a's Politica/ Philosophy, Van Gorcum, Asscn 1983.

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sibili entrambe: vi si trovano, infatti, alcuni passaggi che mettono in guardia dall'inaffidabilità delle masse, e altri che invece che elogiano la saggezza e la potenza della «libera moltitudine». Se sembra chiaro che la libertà e la partecipazione politica orientano la sua visione politicain un senso lato repubblicana e in un senso molto ampio democratica è tutt'altro che chiaro che cosa questo significhi sul livello istituzionale. Rimane allora aperta la domanda molto generale sollevata tempo fa da Steven Smith: «che genere cli democratico è Spinoza?» 2 • Ritorniamo a questo importante dibattito più dalla prospettiva della teoria politica contemporanea che non da un interesse di erudizione dell'opera spinoziana. Proverò a sostenere che il più importante contributo di Spinoza alla teoria democratica non risiede nella sua concezione della democrazia come forma di governo, ma nel modo in cui affronta la questione della democrazia come questione ontologica del rapporto tra lo Stato (impierium) e la potenza della moltitudine. Inquadrando il problema in questi termini, Spinoza diventò uno dei primi filosofi politici a comprendere la politica essenzialmente come un problema della formazione di un potenza collettiva in un campo di molteplici e diversi attori, e come un problema dell'insuperabile fragilità e ambivalenza delle forme dell'agire collettivo. L'obiettivo, o ambizione, delle osservazioni che seguono sarà più sistematico che esegetico: proporrò un'interpretazione degli argomenti e dei concetti del pensiero politico di Spinoza, senza poter affermare che questa corrisponda a una compiuta teoria spinoziana della democrazia. Piuttosto, ritengo produttivi e attraenti per un'interpretazione sistematica del filosofo olandese il modo in cui la democrazia appare nella sua prospettiva e con cui approccia i fenomeni politici. Quando venne chiesto a Michel Foucault se la sua lettura di antichi testi greci poteva fornirgli alternative alle correnti di pensiero del suo tempo, rispose senza mezzi termini: «non sono alla ricerca di un'alternativa; non si può trovare la soluzione di un problema nella soluzione cli un altro problema sollevato in un'altra epoca da altri. Ciò che voglio fare non è la storia delle soluzioni,[ ... ] mi piacerebbe fare la genealogia dei problemi, delle problematiche»3. La mia pro2 Stcvcn B. Smith, What Kind of Democrat was Spino~?, «Political Thcory», 33, 1, 2.005, pp. 6-2.7. 3 Michcl Foucault, On the Genealogy of Ethic.s. Ati Overview of Work iti Progress, in H. L. Drcyfus, P. Rabinow, Miche/ Foucault. Beyo,ul Structuralism and Hermeneutics,

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spettiva di lavoro sullo Spinoza politico è analoga: essa non ci fornisce la teoria della democrazia di cui abbiamo oggi bisogno, né possiamo direttamente utilizzarla per la comprensione di chi noi siamo politicamente, ma è un modo ambizioso di approcciarsi alla politica, un exemplar - potremmo dire - del pensiero politico. Anche se ben compreso, Spinoza non ci offre molte soluzioni ai problemi urgenti della vita politica contemporanea, ma il suo modo di porre i problemi è non solo interessante, potente, attraente, ma anche irresistibile: un modo molto efficace che può infatti condurre a sostenere la forma di democrazia più incondizionata e prossima al suo fondamento: la «democrazia radicale». Potrebbe essere vero, come Negri e altri hanno sostenuto, che la politica spinoziana conduce direttamente alla «democrazia assoluta» e a una concezione della comunità politica libera dalle strutture di dominio economico e politico: una politica di pura potentia4-. Ma il mio proposito, qui, è più modesto: sarebbe sufficiente se le categorie di Spinoza ci aiutassero ad articolare meglio che cosa sia la democrazia e perché può diventare il fine della politica stessa. Questo modo di pensare potrebbe rappresentare la più fedele eredità di Spinoza per la teoria e filosofia politica contemporanea. Tra le caratteristiche dell'opera spinoziana oggi più rilevanti per la teoria politica in generale, c'è sicuramente la sua fondamentale teoria ontologica della potenza. Ma la più urgente e produttiva ragione del ricorso a Spinoza risiede nel punto di intersezione di questa teoria della potenza e della concezione della democrazia, vale a dire, che nella sua riflessione la democrazia e la politica democratica si realizzano attraverso la potenza. Spinoza dimostrerebbe di essere uno dei più importanti autori nella storia del pensiero politico occidentale a cui rivolgersi per cogliere gli esiti di una concezione della democrazia e della politica che è tanto non- illusoria, realista, quanto enfatica: essa concepisce la democrazia come una insuperabile forma di organizzazione politica, 1983 2, pp. 229-252 (trad. it. di D. Bcnari, M. Bcrtani, I. Levrini, Sulla genealogia dell'etica: compendio di u,i work in progress, in H. L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pp. 257-281: 259). -4 Michacl Hardt, Antonio Negri, Multitude: War and Democracy in the Age of F..mpire, Pcnguin, New York 2004, pp. 90-1, 3n, 351 (trad. it. e cura di A. Pandolfi, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordi11e imperiale, Ri72.oli, Milano 2004, pp. 119-120, 381,427).

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che resta consapevole del suo carattere radicalmente dinamico e della costitutiva instabilità della sua base. Questa base è la potenza del popolo o, nella grammatica spinoziana, della moltitudine, che può facilmente generare tumulti e caos. La fonte di questo statuto duplice e ambivalente della democrazia risiede nella concezione spinoziana, altrettanto ambivalente e duplice, della potenza. La potenza, secondo Spinoza, ha molteplici forme e organizzazioni: la funzione produttiva e costitutiva della potenza si pone sullo stesso livello della sua funzione distruttiva o negativa. Il riconoscimento di questa ambivalenza non implica un'inconsistenza teoretica, ma è un'intuizione filosofica, e potrebbe rivelarsi particolarmente utile per teorizzare questioni complesse come la potenza della e nella democrazia. Come indicato nel titolo, penso inoltre che si possa usare il termine «immanenza», un concetto chiave della metafisica di Spinoza, per cogliere il nucleo del suo pensiero politico: alla base, l'ordine politico emerge - e rimane dipendente - dalla «potenza della moltitudine», ambigua, produttiva e pericolosa. Non può esistere un fondamento o un punto di riferimento trascendente per la politica (né i diritti divini o naturali, né la volontà razionale del sovrano); la politica rimane radicalmente precaria, instabile e può essere riformata solo dall'interno. L'unica forma di politica che rende giustizia a questo carattere radicalmente verticale, anzi antiorizzontale, della politica moderna è la democrazia. Questo non significa che la politica moderna abbia trovato la soluzione a tutti i problemi di stabilità che si generano all'interno di popolazioni eterogenee e diversificate, o che si possa contare su una strategia già pronta su come conciliare gli interessi di gruppi e frazioni diverse. Ma significa che - per Spinoza, nel quadro del suo pensiero politico radicale che potrebbe segnare un inizio della modernità politica - la forma di qualsiasi soluzione politica singolare deve essere democratica o non può essere affatto politica in senso moderno. Per dare corpo a queste idee, propongo di ritornare sugli elementi principali delle sue analisi concettuali, rispettivamente, della potenza e della democrazia. Di conseguenza, fornirò in primo luogo una breve panoramica sul concetto di potenza in Spinoza e, in secondo luogo, degli elementi principali delle sue elaborazioni sulla democrazia. In terzo luogo, cercherò di sostenere che questo episodio storico - la filosofia di Spinoza - può fornire importanti suggerimenti

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per gli attuali dibattiti sulla democrazia in cui si articolano problemi analoghi. Il pensiero di Spinoza sulla potenza e sulla democrazia, sostengo, presenta una visione alternativa dell'agency democratica che può essere utilmente collegata agli attuali dibattiti sulla legittimità democratica e sulla «democrazia radicale». E potrebbe persino aiutarci a ripensare la forma che la filosofia politica potrebbe o dovrebbe assumere oggi.

I.

La potenZ,Q secondo Spinoza

Si potrebbe affermare, e molti commentatori lo hanno fatto, che l'intero pensiero di Spinoza è incentrato sulla nozione di potenza. È in quanto tale un pensiero della potenza5. Questo perché qualsiasi cosa egli dica su Dio, sulla natura, sulla conoscenza, sulla vita o sul desiderio, si inquadra in una prospettiva che vuole esplicitare le relazioni dinamiche, il gioco delle forze e i fattori, che favoriscono o proibiscono una cosa, che la potenziano o la indeboliscono. Nel senso più ampio della categoria, la «potenza» (potentia) non indica che specifiche relazioni di potenzialità causali e produttive; il pensiero di Spinoza è, in generale, un pensiero degli effetti potenziali, di ciò che è possibile e impossibile in una data situazione da forze e capacità date. Naturalmente, tutto ciò che Spinoza dice ufficialmente sulla potenza all'interno della sua metafisica razionalista, rimane collegato alla potenza ultima, la potenza di Dio (o potentia dei) da cui tutto dipendé. Sebbene questo presupposto possa essere difficile da accettare per qualsiasi teoria politica e sociale moderna, la mossa metodologica interessante è quella di seguire Spinoza nel partire dalla potenza S Gillcs Dclcuzc, Spinoza philosophie pratique, ~ditions dc Minuit, Paris 1981 (trad. it. e cura di M. Sena Idi, Spinoza. Filosofia pratica, Orthotcs, Salerno 2016); Antonio Negri, L 'a11omalia selvaggia. Saggio su potere e potenZIJ i11 Spi11oza, Fcltrinclli, Milano 1981; Mario Terpstra, What Does Spinoza Mea11 by "potentia multitudinis"?, in Freiheit u,uJ Notwendigkeit. Ethische und politische Aspekte bei Spinoza und in der Geschichte des (A11ti-)Spinotismus, cd. by ~ticnnc Balibar, Hclmut Scidcl, Manfrcd Walthcr, Konigshauscn & Ncumann, Wiirzburg 1994, pp. 85-99; Moira Gatcns, Spi,wza's Disturbi11g Thesis: Power, Nonns and Fiction i11 the Tractatus theologico-politicus, «History of Political Thought», 30, 3, 2009, pp. 455-468. 6 Etica I, prop. 28- 36. Per l'edizione italiana dell'Etica (d'ora in avanti E), si fa riferimento all'edizione a cura di P. Cristofolini, ETS, Pisa 2014 2 •

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come nozione centrale di comprensione e analisi della realtà. Nella metafisica di Spinoza, la potentia non è ovviamente equivalente alla nozione moderna di potere politico o sociale. Piuttosto, in linea con l'uso neo-stoico, ma anche tardo-scolastico e neo-aristotelico dell'epoca, è una nozione metafisica fondamentale con cui formulare principi ontologici. La potenza non si riferisce necessariamente - come nell'uso contemporaneo - a relazioni tra persone o istituzioni in cui qualcuno "ha" o "detiene" potere su un altro. È piuttosto un concetto che definisce e qualifica l'essere in quanto tale. Parlare dell'essere di qualcosa, sostiene in fondo Spinoza, implica parlare della sua potenza, della sua capacità di fare o realizzare qualcosa. Pertanto, la potenza è sempre plurale: è la potenza di qualcosa (la sua potenza, le sue capacità) che, però, è sempre già in relazione con la potenza di un'altra cosa (e la sua capacità). Sapere cos'è una cosa significa conoscerne la potenza. La potenza appartiene a una cosa in quanto è ciò che è: in questo senso, potentia è una nozione ontologica. Nel quadro della metafisica monista di Spinoza, tutto dipende in ultima analisi dalla potenza di Dio, poiché ogni cosa- ogni (singola) cosanon è altro che un «modo» di questa unica sostanza in uno dei suoi attributi 7 • Tralasciando questa parte del suo pensiero, vediamo cosa consegue dalla concezione ontologica della potenza, in particolare, per le situazioni che coinvolgono gli esseri umani. 1. Costituzione. Parlare ontologicamente di potenza significa abbandonare il campo della teoria dell'azione. Se la potenza è una capacità di (un) essere in quanto tale, la potenza è più del "possesso" di un agente; la potenza non può essere ridotta ali'esercizio del potere di un agente. Ontologicamente parlando, ogni esistenza o vita già accade o si incarna in forme e figure della potenza, perché ciò che una cosa può fare è la sua potenza. In questo senso, la potenza di un essere umano è determinata da ciò che il corpo e la mente possono fare, da come si relazionano con altre menti e corpi che influenzano le loro azioni (fisicamente, psicologicamente e intellettualmente). Pertanto la potenza non è un elemento nuovo che sorge in una situazione sociale, ma è la sua stessa condizione. La potenza è sempre presente dove c'è qualcosa, poiché determina, per così dire, la potenzialità in atto in una data situazione. Non c'è essere senza potenza (in questa accezio7

Questa tesi fondamentale è contenuta in E, I, prop. 5-15.

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ne di significato di potentia), perché la potenza costituisce l'essere (e tutti gli esseri: cose, persone ecc.). La famosa definizione spinoziana del conatus come «tensione con cui ciascuna cosa tende a continuare nel suo essere» 8 fa lo stesso: definisce che cos'è una cosa indicando la sua forza motrice, la sua capacità di autoconservazione o la sua tensione all'autosussistenza. Ma ciò significa che non c'è nulla al di là della potenza; la potenza, nel suo senso, è ovunque. 2. Relazionalità. L'ubiquità implicita nella concezione ontologica del potenza si estende ali'esistenza umana e alle potenze dei singoli esseri umani. Spinoza è un pensatore dell'individualità (come forma di individuazione dell'unica sostanza), ma non è un individualista. La potenza degli esseri umani è legata ai loro corpi individuali, ma li supera. Secondo questa logica, ogni potenza è in relazione con se stessa ma anche con gli altri (con cui compete, interagisce o si combina). Le implicazioni politiche e sociali di questo modo di pensare la potenza sono tratte da Spinoza nella sua filosofia politica. Per lui, la teoria dello Stato è un caso speciale della sua filosofia della potenza. Il potere dello Stato e della comunità politica si basa in ultima analisi sulla potenza generata e messa in atto dalla molteplicità dei soggetti politici, la «moltitudine» come la chiama Spinoza (riecheggiando Hobbes e Suarez e alcuni autori classici romani) 9• Ma ciò significa che la potenza della moltitudine (potentia multitudinis) è una potenza tra soggetti, non di soggetti: una potenza collettiva o super-potente, che emerge dal consenso e dalla concordia dei suoi membri, il prodotto sempre temporaneo e precario di una trama collettiva in cui le singole potenze si rafforzano reciprocamente. Questo può accadere solo quando la moltitudine è «guidata come da un'unica mente» (una veluti mens) - questa è la formula ricorrente di Spinoza per esprimere l'instabile quasi-unità del popolo in uno Stato ben governato 10• 8

F., III, prop. 6.

Yirmiyahu Yovcl, Spino~: The Psychology of the Multitude and the Uses of Language, «Studia spinozana», 1, 1985, pp. 305-330; Martin Saar, Multitude, in Encyclopedia of PoliticalTheory, cd. by M. Bcvir, Sagc, Thousand Oaks 2.010, voi. 2., pp. 912.-914. 10 Trattato Politico, II, 16; III, 2.; III, 5;III, 7. Per l'edizione italiana del Trattato politico (d'ora in avanti TP) si fa riferimento all'edizione di O. Proietti, in Spinoza, Opere, a cura di F. Mignini, O. Proietti, Mondadori, Milano 2.007, pp. II03-12.17. Utili spunti e chiarimenti sulla formula u,,a veluti mens sono forniti in ~ticnnc Balibar, Potentia multitudinis, quae una veluti mente ducitur, «Quaderni materialisti», 3/4, 2.005, pp. 303-331; Gunnar Hindrichs, Einleitung. Die Macbt der Metige - der Grundgedanke in Spino~ politischer 9

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Ciò significa anche che la politica è un regno di inter- o piuttosto di «transindividualità», come l'ha notoriamente definita Balibar11 • In una politica efficace, gli individui trascendono se stessi ed entrano in nuove relazioni generative con gli altri. Ogni nuova forma di potere resta necessariamente relazionale, e il sociale rimane quindi un ambito segnato dalla molteplicità degli individui: il potere è una relazione, un termine intermedio che passa b"a i corpi e le forLe individuali. 3. Accumulazione. Le prime due caratteristiche del concetto spinoziano di potenza mostrano già quanto il suo uso del termine sia lontano dall'uso contemporaneo (in cui gli attori hanno o detengono potere sugli altri). Per lui, la potenza è una forza costituente, un mezzo onnipresente nel sociale. In secondo luogo, non è il possesso di un singolo attore, ma una realtà composta da relazioni e differenze in un sistema plurale di forze in campo. Per questo motivo, ogni singola potenza è in relazione con le potenze circostanti. In terzo luogo, c'è una dimensione quantitativa o comparativa nell'approccio di Spinoza alla potenza, anch'essa solo in parte familiare all'uso contemporaneo. Spinoza si oppone all'idea che esista un solo luogo o località della potenza, o che la potenza possa avere un centro stabile. Ma questo non implica neppure che la potenza sia distribuita equamente in tutto il campo politico. La rottura di Spinoza con la concezione tradizionale e puramente strumentale del potenza deriva dalla sua idea che la potenza segua una certa logica di accumulazione, di aumento delle forze. Questo per lui è un principio ontologico, ma solo a livello politico acquista un'importanza specifica. Mentre il suo predecessore Hobbes poneva l'accento soprattutto sulla competizione delle forze (forze che si combattono tra loro), Spinoza pone anche una controdinamica: forze che si uniscono e si combinano tra loro, acquisendo così una nuova forma che supera le potenze individuali. L'unione delle forze porta a una nuova qualità che emerge dalla forza dcli'accumulo. Le forze (o le potenze), quindi, non sono necessariamente in competizione o in lotta tra loro; c'è sempre la possibilità di nuove Philosophie, in Die Macht der Menge. Ober die Aktualitiit einer Denkfigur Spino~, cd. by G. Hindrichs, Wintcr, Hcidclbcrg 2.006, pp. 13-40. 11 ~ticnnc Balibar, Spi11ota: {rom i,ulividuality to transi,ulividuality, «Mcdcdclingcn vanhcgc hct Spino7.ahuis», 71, Eburon, Dclft 1997 (trad. it. e cura di L. Di Martino, L. Pinzolo, Dall'individualità alla transindividualità, in Id., Spinoza. Il transindividuale, Ghibli, Milano 2.002., pp. 103-147).

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alleanze, combinazioni, unioni temporanee. E la politica per Spinoza è l'arte di facilitare queste unioni in modo che la molteplicità delle potenze diventi creativa e non distruttiva. In questa visione, quindi, la potenza non è sempre un gioco a somma zero 12• L'ontologia sociale dinamica di Spinoza conosce due "modalità" fondamentali di potenza: distruzione e creazione, conflitto e accumulazione. La politica razionale è il tentativo di mobilitare la seconda e minimizzare la prima, ma non si sa mai in anticipo quale direzione prenderà l'incontro di due forze. Chiamiamolo assioma dell'ambivalenza della potenza, o della duplice produttività della potenza. Aggiungo a margine che questo assioma è ciò che distingue la teoria spinoziana della potenza da molti altri approcci contemporanei in filosofia e nelle scienze sociali che riducono concettualmente la potenza all'una o all'altra modalità: o il potenziamento o il dominio 1 3. Come teorico della potenza, Spinoza è molto originale. Ma seguirlo significa abbandonare la concezione ormai comune della potenza come categoria teorica dcli'azione. Insistere sulla potenza come principio costituente, evidenziarne la natura inter- o trans- individuale, radicalmente relazionale e ambivalente (il suo doppio volto) distingue il pensiero di Spinoza sulla potenza da molte teorie contemporanee. Questa prospettiva ontologica non solo informa, ma plasma profondamente la sua teoria politica, che può essere intesa come un'ontologia politica.

12 Per queste ragioni, Spinoza si oppone alla teoria hobbcsiana della totale rinuncia e alienazione totale della potenza e del diritto naturale. ~ questo il significato cruciale della celebre osservazione contenuta nella lettera a Jarig Jcllcs del 1674 secondo cui «la diffcrcn7.a tra Hobbcs e mc[ •.. ] consiste in questo: io lascio il diritto naturale sempre nella sua integrità» (Ep. 56, in Opere cit., pp. 142.0-142.1). Magistrali interpretazioni di questo punto sono state fornite da Alcxandrc Mathcron, La fonction téorique de la Démocratie chez Spinoza e Hobbes, «Studia Spinoziana», 1, 1985 (trad. it. di F. Del Lucchese, in Id., Scritti su Spinoza, a cura di F. Del Lucchese, Ghibli, Milano 2.009, pp. 137-148); Susan Jamcs, Law atul Sovereignty in Spinoza's Politics, in Feminist l11terpretations of Benedict Spi11oza, cd. by Moira Gatcns, Pennsylvania State Univcrsity Prcss, Univcrsity Park 2.009, pp.2.11-2.2.8; la più estesa e complessiva analisi di questo punto è data da Christian la7.7.cri, Droit, pouvoir et liberté. Spinoza critique de Hobbes, PUF, Paris 1998. 13 Questo dibattito sulla potenza è ricostruito da Thomas Wartcnbcrg, The Forms of Power. From Domination to Transformation., Tempie Univcrsity Prcss, Philadelphia 1990; e poi da Amy Allcn, The Power of Feminist Theory. Domination, Resista,ice, So/idarity, Bouldcr, Wcstvicw 1999; e infine nel mio Die lmmanenz der Macht. Politische Theorie nach Spi11oza, Suhrkamp, Bcrlin 2.013, cap. IV.

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II.

La democrazia secondo Spinoza

Come fin troppo noto, nel corpo delle opere di Spinoza ci sono tre luoghi principali in cui la democrazia viene discussa a lungo, e secondo prospettive piuttosto diverse gli uni dagli altri. Semplificando un po', si potrebbe dire che il Trattato teologico-politico tratta le origini della democrazia, il Trattato politico in gran parte tratta la democrazia come forma di Stato (o imperium), e l'Etica propone riflessioni di carattere universale a proposito dcli' essenza democratica dello Stato in quanto tale 1 4. Ciò che dobbiamo aspettarci, quindi, non è certo una teoria coerente in cui si conciliano queste trattazioni separate, ma piuttosto una serie di tre "momenti democratici". 1. Le origini democratiche. Nel primo Trattato teologico-politico, pubblicato in forma anonima nel 1670, Spinoza sostiene che la democrazia è la forma di Stato «più naturale», poiché «il più conforme alla libertà che la natura consente a ciascuno» 15 • Come per Hobbes, per Spinoza la ricerca dell'autoconservazione o il desiderio di persistere nel proprio essere sono fatti naturali e inalienabili e quindi «diritti naturali» dell'individuo. L'impulso a formare una comunità e a fondare uno Stato in cui l'individuo possa vivere in pace - perché sa che solo leggi generalmente vincolanti vietano agli altri di fargli del male - è «naturale» nel senso che è motivato dal desiderio di autoconservazione: «essi, per vivere in sicurezza e nel miglior modo, dovettero necessariamente unirsi [in unum conspirare]» 16• In un'interessante combinazione di argomenti ontologici, antropologici e politici, Spinoza può spiegare l'emergere razionale e orientato all'utilità dell'autorità statale a partire dalle condizioni naturali e da un ragionamento rudimentale. Ma a differenza del quadro hobbesiano a cui assomiglia ancora molto, questo esperimento di pensiero porta «naturalmente» a qualcosa che merita il nome di «democrazia»: Con questo criterio una società può essere costituita senza alcuna ripugnanza al diritto naturale, e ogni patto può sempre essere in piena buona fede

•• E, IV, p. 37 schol. Cfr. Susan Jamcs, Democracyatul the Good Life ;,, Spinot.a•s Philosophy, in lnterpreting Spinoza. Criticai Essays, cd. by Charlic Hucncmann, Cambridge Univcrsity Prcss, Cambridge 2.008, pp. 1 2.8- I 64. •s ITP, XVI, p. 384. •' Ivi, p. 379.

IMMANENZA E POTENZA: DA SPINOZA ALLA DEMOCRAZIA RADICALE

osservato: a condizione, cioè, che ciascuno trasferisca tutta la propria potenza alla società, la quale deterrà così da sola il sommo diritto naturale su tutto [... ]. Questo diritto della società si chiama «democrazia», la quale si definisce, perciò, come l'unione di tutti gli uomini che ha collegialmente pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere 1 7.

Ma questo «trasferimento» non è una cessione; l'individuo mantiene la propria potenza e i propri diritti come parte di un'unione (o unità) più grande, cioè la societas. Questo è un modo formale per definire la democrazia in cui «tutti continuano a essere uguali» 18• La costruzione democratica dello Stato, si potrebbe dire, è la condivisione e l'accumulo di potenze e diritti individuali per superare l'isolamento e la precarietà dello stato di natura. Obbedire alle regole dell'auto-organizzazione collettiva consiste in un doppio movimento di canalizzazione della propria potenza, e di partecipazione al processo di condivisione e circolazione della potenza- diritto (jus sive potentia). Nulla, se non l'autorità appena fondata dello Stato (summa potestas ), può garantire che gli individui si comportino effettivamente in modo pacifico; per questo essa ha il diritto assoluto di far rispettare la legge. Ma l'atto che fonda e legittima il trasferimento della potenza- diritto alla comunità e allo Stato non è mai del tutto compiuto o irreversibile; garantire efficacemente la vita dei cittadini rimane una richiesta costante rivolta all'autorità statale. Questo «naturalismo politico» implicito nella definizione spinoziana della democrazia è assai radicale, poiché, facendo ricorso ad alcuni principi ontologici minimi, concepisce come immanente il movimento dell'auto-organizzazione collettiva (e almeno, a livello formale, come egualitaria); non esiste una legge superiore in nome della quale l'autorità statale è autorizzata. 2. L'allargamento democratico. Rispetto al Trattato teologico-politico, l'incompiuto Trattato politico, pubblicato nel 1677 poco dopo la morte di Spinoza, potrebbe apparire pessimista e meno enfatico. In una lunga e a suo modo classica trattazione, Spinoza cerca di rendere conto delle diverse forme di organizzazione dello Stato, descrivendo e confrontando tra loro monarchia, aristocrazia e democrazia. Qui il filosofo olandese rifiuta esplicitamente il linguaggio e l'asse con•7 Jvi, p. 382. is lvi, p. 385.

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cettuale del contrattualismo e si serve unicamente delle sue premesse antropologiche di base, come la natura essenzialmente affettiva degli esseri umani, che li rende vulnerabili alla seduzione e alla manipolazione. Facendo ovviamente eco al realismo politico di Machiavelli, Spinoza cerca di determinare i diversi gradi di stabilità e sicurezza raggiungibili all'interno delle diverse forme di Stato e in determinate condizioni storiche e politiche1 9. Poiché l'ultimo capitolo sulla democrazia è incompiuto, non possiamo sapere cosa avrebbe detto in dettaglio sulla natura di un imperium democratico, ma da alcune osservazioni dei capitoli precedenti è chiaro che avrebbe voluto mettere in guardia anche contro i pericoli e i rischi insiti nel coinvolgimento delle masse che è alla base della democrazia. Nonostante questo scetticismo, il Trattato politico è un testo radicalmente democratico in un altro senso. Spinoza sottopone ogni forma di Stato alla verifica della sua capacità di rispondere efficacemente e di rendere giustizia al suo stesso fondamento, ossia la «potenza della moltitudine» che genera e rende possibile il potere statale. Spinoza è esplicito sul fatto che la legittimità politica in quanto tale può essere misurata solo in base al grado in cui i poteri politici agiscono al servizio del popolo e in cui fanno un uso ragionevole delle potenze e delle capacità del popolo. Per questo motivo, nei suoi numerosi e dettagliati suggerimenti relativi alle strutture amministrative e organizzative delle monarchie e delle aristocrazie, Spinoza dà molto spazio a grandi organi deliberativi e comitati, che assicurano la presenza di tutte le parti della società nella formazione delle opinioni politiche e nel processo decisionale. Anche nel caso della monarchia, il re è radicalmente dipendente dai suoi sudditi e bisogna far sì che «la potenza del re [sia] determinata dalla sola potenza della moltitudine» 20 • Ovviamente, per Spinoza, in quanto forma di governo «del tutto assoluta [omnino absolutum imperium]», nella pratica la democrazia spesso non realizza una forma di Stato stabile e sicura 21 • E questo dimostra che Spinoza non approva il governo popolare come l'opzione più conveniente da praticare, ma egli pensa alla sovranità in generale, in tutte le forme di Stato, in termini di moltitudine o popolo. La sua 1 9 Filippo Del Lucchese, Tumulti e indignario. Conflitto, diritto e moltituditze itz Machiavelli e Spinoza, Ghibli, Milano 2.004, pp. 9-2.1. 20

2.I

TP, VII, 31. TP, XI, I.

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teoria della politica in generale è popolare e radicalmente democratica, in quanto pensa il potere politico in una dipendenza radicale dalla potenza del popolo che lo genera e lo legittima. Una siffatta teoria della democrazia può dunque essere considerata una variante del repubblicanesimo, ma non fa affidamento sull' "unità" o coerenza del popolo della repubblica 22• Il popolo, o moltitudine, per Spinoza è un attore politico radicalmente contingente e mutevole, che può trovare posto nel sistema politico, ma che prima di tutto esprime un movimento costituente al di fuori della politica ufficiale. Differente ed eterogenea al suo interno, la moltitudine cade facilmente preda della manipolazione psicologica di massa, ma al tempo stesso genera le risorse per rispondere alla scarsa razionalità dei governanti. La potenza che la moltitudine ha e trasferisce al sistema politico in quanto tale è ambivalente come la potenza stessa: può manifestarsi come sostegno popolare all'azione legittima dello Stato oppure come violenza di massa. La democrazia non è necessariamente il nome della forma di governo migliore e più sicura, ma è piuttosto una particolare realizzazione e riconoscimento del fatto che ogni forma di Stato ha il suo fondamento nel popolo2 3. Il ripensamento spinoziano della pratica politica proposto nel Trattato politico, basata sull'analisi ontologica delle forze e delle potenze dei cittadini, permette di cogliere le dinamiche strutturali della vita politica che non sono mai completamente contenute nelle z.z. Il termine «repubblicanesimo» non va qui caricato di peso eccessivo. Non si riferisce, infatti, a una visione completa (e classica) della vita civile e della politica come la sfera propria della prosperità umana (una visione che Machiavelli potrebbe aver sostenuto, ma Spinoza certamente no), ma al principio della legittimità politica che risiede in ultima analisi nel popolo. Per i tentativi di collocare Spino7.a nella storia del pensiero repubblicano del suo tempo, dr. Jonathan I. Israel, Radical E11lighte11ment. Philosophy a,ul the Maki11g of Modernity I650-1750, Oxford University Prcss, Oxford 2.001; Raia Prohovnik, Spi110za a,ul Republica,zism, Palgrave Macmillan, New York 2.004. 2.J Questo pensiero si rispecchia completamente nella celebre considerazione del giovane Marx, secondo cui la «verità» e «l'enigma risolto di tutte le costituzioni» è la democrazia, e il governo autoritario non è solo normativamente difettoso, ma è una contraddizione sul piano delle condizioni di possibilità della politica, in K. Marx, Critica della filosofia hegelia,,a del diritto (1843) (trad. it. di G. della Volpe, in Marx Engels Opere CÀmplete, Editori Riuniti, Roma 1976, voi. 3 [1843-1844), p. 33). Cfr. Alexandre Matheron, Le Traité Théologico-Politique vu par le jeune Marx, «Cahiers Spinoza», 1, 1977, pp. 159-2.12. (trad. it. Il «Trattato teologico-politico» visto dal giovane Marx, in Karl Marx, Quaderno Spinoza, a cura di B. Bongiovanni, Bollati Boringhieri, Torino 1987, pp. 155-2.01).

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istituzioni e nei sistemi giuridici, semplicemente perché sono processi dinamici di corpi che incontrano altri corpi - generando composizioni o conflitti - e simultaneamente di menti che interagiscono generando consenso o dissenso. In una prospettiva spinoziana, quindi, la politica rimane sempre una questione di potenza, di lotta e di costante necessità di comporre le potenze le une con le altre: la politica è lo spazio in cui si creano e si negoziano le soggettività e le identità politiche. La formula «potenza della moltitudine» fornisce una prospettiva sull'agire collettivo che supera l'alternativa tra l'individualismo metodologico (che si interroga sui comportamenti dei soggetti individuali razionali nell'ambito politico) e la concezione essenzialista di un soggetto collettivo (che si interroga sulla volontà unitaria del popolo). 3. La forma democratica. C'è, infine, un altro grande tema nella riflessione di Spinoza sulla democrazia, che riguarda l'universalità o il bene generale. È questo pensiero che porta Spinoza alla sua lunga riflessione sull'origine dello Stato nel famoso secondo scolio alla proposizione 37 nella quarta parte dell'Etica, uno dei pochi passaggi di quest'opera (a parte alcune osservazioni più occasionali nella quinta parte) che toccano veramente questioni politiche. Non potrò entrare propriamente nel dettaglio in questa sede, e sono consapevole dei numerosi problemi interpretativi che questa affascinante sezione del testo pone riguardo al suo statuto, alla sua originalità, o alla relazione con le idee hobbesiane, ecc. Ma il punto principale è abbastanza chiaro: Spinoza pone la questione dello «Stato civile» (status civilis in contrapposizione allo status naturalis) come quella di una forma di organizzazione politica che viene quasi naturale all'uomo che riflette sui propri interessi e obiettivi: «questa società, stabilita sulle leggi e sul potere di conservarsi, si chiama cittadinanza [civitas], e cittadini sono coloro i quali sono difesi dal suo diritto» 2 4. Lo Stato, la Civitas, nasce da un'istanza di un bene sociale generale, o universale, che combina il legittimo interesse personale degli individui e un buon ordine comune. Come nel Trattato teologico-politico, Spinoza utilizza allo stesso tempo le categorie e i riferimenti del contratto sociale e li riscrive: nello stato di natura, «ciascuno[ ... ] giudica che cosa sia bene e che 2-4

E IV, pp. 37 sg.

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cosa male, bada al proprio utile a suo modo» 2 s, cosa che, molto probabilmente in quelle circostanze, porta gli esseri umani al conflitto. In realtà, si può dire che «se gli uomini vivessero secondo la guida della ragione, ciascuno si varrebbe [... ] di questo suo diritto senza alcun danno altrui» 26• La pace e la concordia tra i cittadini richiedono dunque la presenza di una forza esterna, che offra buoni motivi ali' obbedienza: «affinché gli uomini possano vivere in concordia ed aiutarsi, è necessario che rinuncino al proprio diritto naturale e si diano reciproca assicurazione che non faranno nulla che possa riuscire di danno agli altri» 2 7. È questo l'effetto dell'instaurazione di una legge che vincola tutti i soggetti e «su questa legge si può fondare una società [e renderla stabile: firmari poterit]» 28 • Pertanto, «nello stato di civiltà [in statu civili] [... ] si decide per comune consenso che cosa sia il bene e che cosa sia il male, e ciascuno è tenuto a sottomettersi alla cittadinanza [Civitas]» 2 9. Qui si decide per comune accordo ciò che i soggetti possono e devono fare, non in base al loro giudizio individuale, determinato dagli affetti di ciascuno e dunque fuorviante. È difficile valutare il significato complessivo di questo passo che, non va dimenticato, è in qualche modo nascosto tra le righe di un secondo scolio3°. Da un lato, Spinoza sembra trattare queste idee come un mero excursus rispetto alla linea argomentativa in cui si inserisce e che riguarda l'universalità del vero bene (nelle proposizioni da 29 a 37 ), e non vedere la necessità di specificare ulteriormente i meccanismi o gli stessi processi di questa costituzione della Civitas3 1 • D'altra parte, sembra chiaro che l'argomento principale, secondo cui lo Stato (o un certo Stato) è un mezzo razionale per conciliare efficacemente soggetti soltanto semi-razionali, è a tutti gli effettivi il nucleo principale della sua teoria politica in senso stretto; e sembra allora giusto lbid. Ibid. 1.7 lbid. 18 Ibid. 1 9 Jbid. 3° Cfr. Alcxandrc Mathcron, Éthique et politique chez Spinoz_a {Remarques sur le role du scolie 2 de la propositio1137 de la parlie IV de l'Éthique), in Id., Études sur Spinoz_a et les philosophie.s de l'agc classique, ENS tditions, Paris 2.011, pp. 195-2.03. 3 1 Manfrcd Walthcr, Gru,ulziige der politischen Theorie SpinoZ,QS (Ethik 4, Lehrsatz 37, Scholium 2), in Spino7.a, Ethik, cd. by Michacl Hampc, Robcrt Schncpf, Akadcmic Vcrlag, Bcrlin 2.006, pp. 2.15-2.36, in particolare pp. 2.15-2.16. 1.s 16

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suggerire che l'intero Trattato politico non sia altro che un lungo scolio di questo secondo scolio dell'Etica3 2 • È forte la tentazione di leggere Spinoza in questi passaggi come il teorico pre-rousseauiano della «volontà generale», ma non è così. Non è la volontà dei singoli soggetti politici che viene resa generale o accettata da loro come nuova prospettiva civile. Anche se Spinoza si colloca saldamente nella tradizione repubblicana con il suo forte richiamo al bene comune, non sembra pensare che sia facile per i soggetti politici riconoscerlo, né tanto meno che si lascino facilmente condurre da questo movente. È, piuttosto, una certa forma istituzionale che permette di creare una vita in relativa pace, anche se i soggetti non sono tenuti insieme da una conoscenza filosofica del bene umano universale. In questo senso, lo scolio sul valore della Civitas esprime una prospettiva esterna e complementare rispetto alle argomentazioni filosofiche della parte IV dell'Etica, affrontando i problemi pratici del buon funzionamento della Città e degli strumenti più adeguati a sua disposizione, all'interno di una società minacciata concretamente dalla discordia, non la questione filosofica riguardante la "vera" natura dell'umanità. Anche se il passo in questione non menziona il termine «democrazia» e, naturalmente, non offre una teoria della democrazia, sembra chiaro che le sue inclinazioni sono fortemente pro-democratiche in quanto immaginano lo Stato, o la Civitas, come uno spazio politico e un'istituzione che è effettivamente generale, non appropriabile da una volontà o da un interesse singolare, ma uno spazio attraversato dall'intero popolo. Far parte della Civi'tas significa far parte di un ordine stabilito per comune consenso da tutte le sue parti e i suoi membri. L'universalismo e l'egualitarismo di questa prospettiva è, diciamo, quasi-democratico: non stabilisce un'organizzazione specifica dello Stato (specifiche procedure democratiche), ma obbliga lo Stato ad assumere il punto di vista del popolo nella sua interezza, garantendone la sicurezza. In questo senso, si potrebbe già definire quasi-democratica la concezione hobbesiana dello Stato, anche se Hobbes non giungeva a questa conclusione33. Spinoza potrebbe aver visto questa traccia 31. Alain Billccoq, Spinoza, questions politiques. Quatre études sur l'actualité du Traité politique, L'Hannattan, Paris 2.009, p. 3 3. 33 Richard Tuck, Hobbes and Democracy, in Rethinking the Foundations of Modem Politica/ Thought., cd. by Anna bel Brctt and Jamcs T ully, Cambridge Univcrsity Prcss,

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quasi-democratica e repubblicana nel pensiero di Hobbes più chiaramente della maggior parte dei suoi contemporanei, ed è quindi stato in grado di farsene carico nella propria teoria senza la necessità di sottoscrivere altri elementi della teoria politica di Hobbes, più autoritari e in completa contrapposizione con le posizioni spinoziane, come la visione ristretta della libertà, un (più) forte individualismo e una concezione sostanziale e rigida dell'autorità e della rappresentanza statale. In un senso molto elementare, quasi metaforico, potremmo quindi chiamare gli argomenti qui esposti democratici, perché mostrano una natura essenzialmente democratica della Civitas, e definiscono lo Stato come quell'ente che è generato da, e quindi espressiva di, le molteplici volontà all'interno del popolo di vivere insieme in pace. Si tratta di un modo ancora formale di parlare dello Stato e della sua natura, perché non dice quasi nulla sui suoi mezzi concreti o sui limiti del governo autorizzato in una tale Civitas - a questo proposito, invece, il Trattato politico va molto più in profondità rispetto ali' Etica. Ma esso offre, in ogni caso, una prospettiva fondamentale e non comune su cosa significhi lo Stato in un senso pienamente filosofico: una forma di convivenza. Riassumo allora il filo complessivo del discorso di questo paragrafo: ho ricordato i tre principali "momenti" democratici dell'opera di Spinoza, che rimangono certamente enigmatici ed eterogenei. Ma ciò che li accomuna è la preoccupazione per una forma comune e stabile di vita umana: in tutti e tre i casi la democrazia è una questione filosofica profonda e non solo un fatto empirico o storico. Il primo consiste nel chiamare la democrazia la forma più naturale di imperium, il secondo nel trattare la democrazia come la più assoluta e inclusiva di tutte le forme di Stato, e il terzo nell'insistere sul fatto che, se filosoficamente parlando il bene umano è sempre universale, generale o generalizzato, un buono Stato nasce come mezzo per negoziare, bilanciare e moderare gli impulsi pericolosi dei soggetti empirici e per dare loro una possibilità collettiva e una forma di vita che possa essere vissuta in pace e sicurezza.

Cambridge 2.006, pp. 171-190; Jamcs R. Martcl, Subverting the Leviathan - Reading Hobbes as a Radical Democrat, Columbia Univcrsity Prcss, New York 2.007.

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III.

Democrazia radicale

Anche se la teoria spinoziana della potenza e la sua prospettiva sulla democrazia potrebbero non costituire una vera e propria teoria politica della democrazia, forniscono comunque strumenti concettuali e approcci al problema che potrebbero andare oltre le conclusioni stesse del filosofo olandese. Per me il punto principale è vedere la connessione tra la concezione ontologica della potenza (potentia) e la questione della democrazia. Per Spinoza la democrazia, come ogni altra cosa, è un'espressione della potenza, una forma che questa può assumere, un modo di condividere e moltiplicare la potenza. La democrazia non pone fine al problema della potenza - come se la potenza fosse qualcosa da escludere dall'ambito della politica concentrandola in un solo luogo del potere politico (questo è ciò che alcuni lettori di Hobbes pensano possa essere la "buona" politica); è piuttosto un modo per convivere con essa. La politica, come arte o forma di governo, per Spinoza è un modo per venire a patti con la realtà degli esseri umani che vivono insieme. La filosofia e la teoria politica non dovrebbero quindi ricorrere alla «satira» o alle «chimere», come scrive nel suo ampio appello al realismo politico nelle pagine iniziali del Trattato politica3 4 • Ma le realtà politiche, come abbiamo visto, sono meglio spiegate nei termini della potenza che le costituisce, vale a dire, nei termini di un gioco o campo di forze e potenze diverse che si incontrano, si scontrano o si sostengono a vicenda. La politica, quindi, è una risposta consapevole a questa realtà, il tentativo di influenzare e regolare il campo dei rapporti (di forza) reali o di organizzarli in un modo particolare. La quasi- priorità della democrazia (che non vale in tutte le circostanze, il che significa che la democrazia come regime non è la migliore forma di governo in generale, ma solo a certe condizioni) si basa sul fatto che la partecipazione di tutto il popolo garantisce la più ampia base di potenza disponibile in una data società e quindi costituisce una societas sulla base più ampia ed energica immaginabile. In questo senso è una forma politica fuori dai limiti, o scatenata, o «del tutto assoluta»35.

34

TP, I, 1; I,

35

TP, XI,

I.

2..

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Ma bisogna ricordare che questa potenza è necessariamente relazionale, molteplice e plurale, poiché si forma 'tra i soggetti e attraverso i soggetti. Essa non è una struttura coerente e stabile. C'è molto da fare perché una costellazione plurale di potenze diventi una robusta struttura di dominio 36 • Piuttosto, questa costellazione nella maggior parte dei casi è instabile, contraddittoria, e potrebbe persino trarre vantaggio dalle sue tensioni intrinseche (almeno questa è la lezione che Machiavelli trae da Roma, che Spinoza sembra condividere): La democrazia è una forma di politica difficile e dinamica, perché molte forze, potenze, voci, interessi e desideri sono attori legittimi al suo interno. Da questa prospettiva, si può comprendere il dibattito contemporaneo sulla «democrazia radicale», che è diventato un denominatore comune per un'intera famiglia di teorie che invocano una radicalizzazione della democrazia formale e liberale, mettendo in guardia contro l'oblio degli fattori popolari, affettivi e sociali della vita pubblica, e sostenendo il valore della pluralità, del conflitto e della tensione all'interno della vita democratica. Si potrebbe ipotizzare che l'invocazione di una «democrazia radicale» è il tentativo di ripensare i caratteri propri, le condizioni e l'ambito di applicazione della democratizzazione come processo in atto all'interno delle società democratiche. Come abbiamo visto, sarebbe del tutto anacronistico proiettare questi problemi sull'interesse - irrisolto e circoscritto - di Spinoza per la democrazia; ma la sua difesa della libertà individuale e politica e di una forma di governo razionale lo spinse ad avventurarsi in alcune riflessioni che oggi possono essere meglio comprese facendo riferimento alle teorie contemporanee della democrazia. 36 A mio avviso, è solo in questi casi che la distinzione concettuale tra potet1tia e potestas giunge agli esiti drammatici della divergenza tra forme differenti della potenza, che Negri e altri generalmente le attribuiscono. Non posso accettare l'interpretazione diffusa che contrappone la potentia essenzialmente costitutiva e produttiva alla potestas essenzialmente distruttiva e repressiva. A livello concettuale, la potestas non è altro che un grado o una forma specifica di pote,1tia che si accompagna a una certa istituzionali7.7.azionc. Per una simile interpretazione cfr. Mario Terpstra, Postestas, in Continuum Companion to Spinoza, cd. by W. Van Bunge, H. Krop, P. Steenbakkcrs, J. van dc Vcn, Continuum, London 2011, pp. 294-297; M. Terpstra, What does Spinoza mean by "potentia multitudinis" cit.; Wolfgang Bartuschat, Spinozas Lehre vom Menschen, Meiner, Hamburg 1992, p. 390; per una completa trattazione rimando al mio Die lmmanenz der Machtcit., pp. 175-179.

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1. Processo. Per i democratici radicali, la democrazia significa ben più delle procedure, della decisione parlamentare, della politica dei diritti, più di una forma istituzionale. Per la maggior parte degli autori impegnati in questo campo, si tratta piuttosto di una forma dell'agire collettivo e cooperativo, un ambito specifico di pratiche, reso possibile dalle relazioni di uguaglianza tra cittadini, interessati allo spazio politico che abitano e alle regole di autogoverno che si danno. Anche quando l'autogoverno si traduce nell'istituzione effettiva di queste regole (come nel caso evidente di una costituzione), il processo democratico stesso deve persistere e mantenersi aperto; non deve concludersi con un accordo sulle regole, ma deve essere mantenuto in una dinamica continua di messa in discussione, contestazione e revisione3 7• Definire una società «democratica» non si riferisce solo alle strutture di legittimazione politica, ai diritti elettorali o alle responsabilità di fronte alla legge, ma anche alle interazioni dinamiche, incarnate e imprevedibili in cui si formano, si sperimentano e si mettono alla prova le volontà e i desideri collettivi. Vale a dire, si riferisce anche all'ambito del sociale e non solo a quello politico nel suo stretto senso istituzionale. Per poter parlare di una società democratica, fa differenza se ci sono mezzi di comunicazione liberi, plurali, vivaci, forme d'arte critiche e diffuse, se un certo spirito di cooperazione e di uguaglianza è presente anche nell'istruzione e sul posto di lavoro Se i teorici politici potessero stilare un elenco di fattori che misurano la qualità della democrazia in una società, questo elenco sarebbe necessariamente piuttosto lungo e comprenderebbe molti fattori non riducibili alle caratteristiche istituzionali3 8 • Questa intuizione fondamentale è alla base della maggior parte delle teorie contemporanee della «democrazia radicale» e le ricollega a teorie più antiche ed estese della democrazia (come accade per i lavori di John Dewey, Hannah Arendt, Cornelius Castoriadis, il primo Habermas e gli sviluppi del paradigma «comunicativo», o Sheldon 37 Tra gli autori di spicco di questo dibattito, oltre a Chantal Mouffe, Ernesto Laclau William Connolly, figurano Bonnie Honig, Judith Butler, Simon Critchley, Olivcr Marcha'!ijacques Rancière o Alex Demirovié. 3 Cornclius Castoriadis, Democracy as Procedure atul Democracy as a Regime, «Constellarions», 4, 1, 1997, pp. 1-18; Iris Marion Young, Activist Challenges to Deliberative Democracy, «Political Theory», 2.9, 5, 2.001, pp. 670-690; Mark Bcvir, Democratic Governance: Systems and Radical Perspectives, «Public Administrarion Review», 66, 3, 2.006, pp. 42.6-436.

e

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Wolin). Ma non è difficile cogliere che essa riguardi anche la concezione spinoziana. Pensando alla politica in generale e alla democrazia in particolare a partire dalla potenza e attraverso di essa, non c'è altro modo che pensarla come un processo e come una dinamica in cui certe pratiche (e forme di agency) sono rese possibili e altre sono bloccate. I fattori istituzionali (compresi i diritti) strutturano e plasmano in larga parte il campo d'azione, determinando quali azioni siano possibili e convenienti, ma dipendono essi stessi dagli atti e dai processi di autorizzazione e accettazione da parte del popolo. Le istituzioni - e, con esse, le regole del vivere civile e i diritti - non possono saturare l'intero campo della politica, perché questo isolerebbe la politica dalla sua stessa fonte di energia39. Chiamare la democrazia un processo, e non un sistema o una struttura, rende conto di questa concezione ontologica della politica, secondo cui quest'ultima deriva e rimane dipendente dalla potenza del popolo o della moltitudine. Implica pensare la democrazia in modo radicale, ossia alle sue radici, la sua base e la sua fonte irrinunciabile: gli atti, le pratiche, i desideri e gli interessi del popolo che non è ancora uno, eterogeneo, instabile e dinamico. Il contributo spinozista a questa corrente di pensiero sta nella chiara dimostrazione che questo dinamismo è una caratteristica ontologica della politica, ovvero, che la politica esiste solo sullo sfondo mutevole e irruente del movimento. La politica democratica è essenzialmente una politica in movimento; ogni prospettiva istituzionalista che lo rifiuta finisce per negare il dato più basilare della politica stessa. 2. L'infinito. Un secondo e rilevante topos nel dibattito contemporaneo riguarda il carattere indeterminato dei processi democratici. Per molti suoi teorici, ciò implica una seria critica a qualsiasi modello intellettualista o razionalista della deliberazione democratica e all'illusione che il raggiungimento di un consenso definitivo sia un obiettivo appropriato della politica democratica. Il testo fondante di questa li39 Quasi lo stesso pensiero è espresso nelle celebri osservazioni di Hannah Arendt: «t il sostegno del popolo che dà potere alle istituzioni di un paese, e questo appoggio non è altro che la continuazione del consenso che ha dato originariamente vita alle leggi. Nelle condizioni di un governo rappresentativo si ritiene che sia il popolo a comandare chi lo governa. Tutte le istituzioni politiche sono manifestazioni e materiali1.7.azioni del potere; esse si fossilizzano e decadono non appena il potere vivente del popolo cessa di sostenerle» (H. Arendt, On Violetu:e, Harvest, New York 1970, p. 40 (trad. it. di S. D'Amico, Sulla violenza, Guanda, Parma 1996, p. 30)).

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nea di argomentazione rimane Egemonia e strategia socialista, scritto da Chantal Mouffe ed Ernesto Laclau nel 1985, in cui si proponeva alla Nuova Sinistra «il progetto di una democrazia radicale e plurale», non come tentativo di «rinunciare all'ideologia liberal-democratica, ma al contrario di approfondirla ed espanderla» 4°. Questa radicalizzazione della democrazia, per loro, significava accettare la pluralità delle posizioni sociali e delle identità politiche, che preclude qualsiasi strategia riduzionista e unidimensionale, ad esempio la dottrina liberale dei diritti universali. Vista in questo modo, la democrazia diventa un luogo non di unità ma di negoziazione di differenze che non scompaiono mai: «l'esperienza della democrazia radicale e plurale consisterebbe proprio nel riconoscere, al tempo stesso, la molteplicità delle logiche sociali e la necessità di ricreare e rinegoziare costantemente la loro interrelazione, escludendo qualsiasi equilibrio finale»4 1 • Nei testi successivi, Chantal Mouffe ha messo in discussione quello che ha definito «il sogno di un consenso razionale» 42. Accusando le concezioni post-rawlsiane e habermasiane della democrazia di cattivo utopismo mascherato da proceduralismo, sostiene che porre l'attenzione sull'argomentazione razionale distorce necessariamente la realtà delle lotte politiche. Il discorso politico non è ritenuto in grado di produrre ragioni definitive o un terreno solido su cui basare l'azione politica consensuale, ma è piuttosto un luogo di contesa e di conflitto. Questo non minaccia l'ordine democratico, bensì lo mantiene e lo rafforza, mostrando che il bene comune è sempre attraversato da tensioni, diviso e incompleto, cosicché solo una forma dinamica, pluralistica e autocritica della politica, che consente e non vieta il disaccordo e il conflitto, renda giustizia alla realtà di una comunità che è unita ma non una. Il giorno del consenso democratico finale non arriva mai e la democrazia deve convivere con le sue tensioni interne: «Una democrazia ben funzionante richiede un vibrante scontro di posizioni politiche democratiche» 43. -to Ernesto Laclau, Chantal Mouffc, Hegemony and Socialist Strategy. T owards a Radical Democratic Politics, Verso, London 1985, pp. 167, 176 (trad. it. di F. Cacciatore, M. Filippini, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, Mclangolo, Genova 2.011, pp. 2.51, 2.63). 4 1 lvi, p. 2.62.. 42 Chantal Mouffe, For a,i Ago,ustic Model of Democracy, in The Democratic Paradox, Verso, London 2.000, p. 98. 43 lvi, p. 104.

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Ovviamente, una simile concezione della democrazia «agomst1ca» o «conflittuale» non si trova facilmente in Spinoza, la cui ossessione per l'ordine, la stabilità e la vita civile pacifica è evidente e storicamente fondata. Ma a un secondo sguardo, si potrebbe notare che egli considerava la democrazia nient'altro che questa forma politica provvisoria, semi-stabile ma indispensabile, che i teorici contemporanei stanno cercando. Spinoza condivide anche l'idea che la politica non sia mai il regno della pura argomentazione razionale: infatti, negare la natura pre-, a- e irrazionale della politica per lui è il peggior punto di partenza per qualsiasi teoria. Riconoscere la realtà dei sentimenti, delle sensazioni, delle sintonie affettive, delle identificazioni e delle disposizioni psicologiche come fattori decisivi nella vita politica lo costringe a rinunciare a qualsiasi sogno di una "vera" politica che emergerebbe quando la "verità" è conosciuta e attuata da ogni attore, individuale o collettivo. Come Machiavelli, Spinoza diffida degli esperti e delle élite; e le molte proposte procedurali che fa nel corso del Trattato politico riguardano la necessità di includere il maggior numero di opinioni, intelligenze e punti di vista per trascendere la mente finita e necessariamente limitata dei leader politici44. Il contributo spinozista agli attuali tentativi di pensare il carattere provvisorio e indeterminato della politica democratica consiste, in primo luogo, in una spiegazione sistematica dei motivi per cui la ragione non può assumere completamente il controllo della politica. L'ambito dell'argomentazione, della deliberazione e della discussione politica è sempre attraversato da elementi che appartengono ali' ordine dell'imaginatio e dell'affettività, e dunque legato alle prospettive dei singoli individui, all'ambito dell'esperienza e alla corporeità, che sono spesso istanze più forti dei dettami di ragione. Ciò che conterà come ragione in questi processi sarà possibile solo in quanto emergente da queste fonti particolari, singolari e idiosincratiche. L'unico tipo di universalità possibile non sarà quella delle norme impersonali, ma quelle che emerge da idee comuni e condivise, prodotte non tanto da argomentazioni formali quanto da altri tipi di comunicazione, anche gestuale, corporea, sensuale o estetica45. Ironicamente, ""TP, VII, 3-4; VIII, 1-3. ◄S Ritengo che l'insisten7.a sul ruolo della «traduzione» e sulla realtà delle «universalità in competizione» in molte discussioni contemporanee si riferisca esattamente a questo punto. Si veda il contributo di Judith Budcr, Competi11g Universalities, nel dialogo Judith

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quindi, la lezione che l'iper-razionalista Spinoza ha da offrire alla filosofia politica contemporanea è di non sopravvalutare la ragione. Il secondo contributo sistematico dello spinozismo al discorso sulla democrazia come processo senza fine ricorda che nemmeno procedure corrette e normate possono impedire che le decisioni politiche siano prese in funzione dei rapporti di potere e di dominio. Al contrario, anche la decisione più equilibrata poggia su un equilibrio precario tra attori differenti, irriducibili, dotati di menti e corpi con le loro specifiche disposizioni e capacità. Ma poiché le potenze che incontrano altre potenze non sono mai di per sé pacifiche e conciliabili, il processo democratico mantiene al suo interno elementi di contestazione, di tensione, di conflitto. Possiamo essere d'accordo o meno con Mouffe, la quale attribuisce una natura essenzialmente «agonistica» alla democrazia in quanto tale, ma la prospettiva spinoziana ci porta a vedere che anche l'accordo più razionale può essere spiegato in termini di potenza/e in gioco ed è espressione di una composizione di forze e capacità corporee e mentali. Se queste possono cambiare, qualsiasi soluzione democratica di oggi è allora solo la soluzione di oggi; la democrazia è un progetto incompiuto. 3. Forme di vi'ta. Entrambe le caratteristiche sopra presentate la processualità e l'indeterminazione - superano una concezione ristretta della democrazia, limitata all'ambito istituzionale. Le teorie contemporanee della «democrazia radicale» - e Spinoza con loro rifiutano l'idea che la democrazia sia un mero insieme di istituzioni, che possa essere "amministrata" e che il processo democratico possa essere compiuto, e insistono invece sul lato della pratica, sulla dimensione esperienziale o addirittura esistenziale della democrazia. Se la democrazia non si limita alle istituzioni politiche strictu sensu, ma anche ai rapporti di lavoro, alla famiglia e ad altri ambiti civili ma non statali, e la comunicazione democratica in senso pieno non può limitarsi allo scambio di argomenti razionali, si può sostenere che la democrazia riguardi la vita di una società tanto quanto le sue strutture. In altri termini, ancor più forti, si potrebbe dire che la democrazia non è una struttura esterna data a una società, che Butlcr, Ernesto Laclau, Slavoj 2izck in Conti11getu:y, Hegemony, U,uversality. Co11temporary Dialogues 011 the Left, Verso, London 2000, pp. 161, 166-167 (trad. it. di T. Dini, Universalità in competizione in Budcr, Laclau, 2izck, Dialoghi sulla sinistra. ContingetWJ, egemonia, u11iversalità, a cura di L. Bazzicalupo, Latcr7.a, Roma-Bari 2010, pp. 137-180).

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potrebbe essere benissimo governata anche in altro modo, ma è una forma specifica di vita di quella società. In questa prospettiva, vivere in democrazia è una vita diversa: vivere democraticamente significa vivere secondo una certa etica, fare certe esperienze di cooperazione e di relazioni sociali egualitarie, in altri termini, avere la possibilità di una forma di vita non disponibile sotto nessun'altra forma di Stato. La «democrazia radicale», potremmo dire, è una democrazia «profonda», non un livello superficiale di strutture, ma un tratto della società che si diffonde ovunque, produce la sua identità e tutte le sue interazioni interne ed esterne. Nel dibattito attuale, una concezione così ambiziosa viene formulata soprattutto in termini di ethos politico che tale società deve incarnare e del tipo di soggettività che richiede4 6• Questa idea presuppone ovviamente di andare oltre il mero aspetto istituzionale e razionale della democrazia. Un ethos non si forma sulla base di diritti astratti o di procedure formali; esso implica anche le dimensioni affettive ed etiche che non possono essere spiegate in termini generali e universali. La democrazia, quindi, deve trovarsi nelle pratiche e nelle esperienze che costituiscono i soggetti, determinano i comportamenti e formano i valori. Essere democratici non significa solo conoscere i propri diritti e avere fiducia in una struttura istituzionale, ma anche impegnarsi e appassionarsi concretamente nei confronti dei propri concittadini. La filosofa politica Arietta Norval parla di «diventare democratici»: Diventare (di nuovo) democratici non può essere compreso sulla base di un modello cognitivo. Per questo non è sufficiente sostenere che per superare il deficit democratico dobbiamo semplicemente "educare" meglio i cittadini o migliorare la qualità delle nostre conoscenze, anche se entrambe le cose possono essere necessarie. È anche il motivo per cui non è sufficiente pensare che la semplice presentazione di certi "fatti casuali" in un contesto rarefatto ci renderà tutti democratici. I democratici devono diventare democratici, ripetutamente, e questo richiede una certa identificazione e persuasione-47.

46 William E. Connolly, The Ethos of Pluralizatio11, University of Minnesota Prcss, Minneapolis 1995; Stephen K. Whitc, The Ethos of a Late-Modem Citizen, Harvard University Press, Cambdridgc 2.010. 47 Aletta J. Norval, Aversive Democracy. lnheritance and Originality i11 the Democratic Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 2.007, p. 13 9 (trad. nostra).

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L'insistenza sulla ripetizione, l'educazione, l'esperienza e l'identificazione illustra il carattere «profondo» della democrazia come forma di vita al di là delle sue caratteristiche strutturali e istituzionali, necessarie ma non sufficienti. Essere democratici richiede di essere un certo tipo di persona o di soggettività politica, resa possibile solo dall'incontro specifico con altri corpi e menti democratici, cioè liberi. Insistere su questa differenza ontologica ed esistenziale di una realtà democratica significa accettare che l'ontologia e la politica siano più profondamente intrecciate di quanto la maggior parte delle teorie filosofico-politiche attualmente sostenga, e che l'ontologia stessa in un certo modo diventi politica48• È evidente che una simile prospettiva condivide molti argomenti con la filosofia spinozista, nella quale, in primo luogo, tutte le relazioni umane sono considerate nel quadro di un'ontologia generale della potenza e, in secondo luogo, ogni modalità di relazione tra singole cose e persone lascia una traccia nella loro stessa natura, poiché ciascuna cosa è costituita da ciò che può (potentia) fare agli altri e da ciò che gli altri possono fare a essa. Quindi, a un livello piuttosto generale, la teoria politica spinozista è ben disposta ad articolare esattamente questa relazione profonda tra ontologia e politica a cui molte teorie della "democrazia radicale" mirano. Ma anche a un livello più specifico, possiamo trovare elementi di un'enfasi democratica che è similmente esistenziale o sperimentale. Nel contesto della sua analisi sulle condizioni di stabilità di un qualsiasi tipo di Stato, Spinoza insiste sul fatto che non tutte le moltitudini sono in grado di costituire la base affidabile di una società pacifica. È solo la «moltitudine libera» (multitudo libera) che può svolgere questo compito, essendosi abituata all'autogoverno e al non-dominio dell'uomo sull'uomo, e avendo acquisito lo spirito_necessario per una vita in libertà49. In termini più generali, credo che questo significhi che la potenza del popolo assume una forma e un valore specifico quando il popolo è libero, consen-

48 Un esame ulteriore di questo punto può essere trovato nel mio What is Politica/ Ontology?, recensione a Oliver Marchart, Die politische Differenz. Zum Denken des Politiscben bei Na,u::y, Lefort, Badiou, Laclau utul Agamben, «Krisis: Journal for Contemporary Philosophy», 12., 1, 2.012., pp. 79-84, disponibile online http://www.krisis.eu/ content/2.012.-1/krisis-2.012.-1-09-saar.pdf.; e poi nel mio Die lmmatient. der Macbt cit., pp. 4 1 8-42.3. 49

TP, V, 6; VII, 2.6.

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tendo una libertà reale e vissuta senza vincoli di dominio. Solo se la potenza collettiva del popolo è politicamente libera di esprimersi e realizzarsi, le possibilità generative e cooperative che si trovano nell'ambito delle relazioni sociali sono pienamente dispiegate. Questo può essere un buon punto di partenza per capire cosa intenda Spinoza con la sua celebre formula, più volte ripetuta nel Trattato politico, secondo cui solo in uno Stato ben governato e con buone leggi la moltitudine è «guidata come da un'unica mente» (quae una veluti mente ducitur)5°. Questa formula enigmatica può essere interpretata in molti modi, ma sembra esserci un senso prima facie che si collega alle questioni che abbiamo presentate. «Essere guidati come da un'unica mente» è un tratto di determinate forme di cooperazione in cui emerge un certo grado di unità che però rimane provvisoria (e quindi ipotetica, «come se», veluti). Un'azione politica spontanea e di successo (come le manifestazioni pubbliche) fa sì che soggetti separati gli uni dagli altri si uniscano e convergano in un'azione collettiva, per un certo tempo, in un certo luogo, come se ci fosse un piano o una direzione comune, anche se in realtà ci sono solo corpi singolari e separati che si muovono autonomamente. Le buone leggi, sostiene Spinoza, fanno lo stesso con le persone, dando loro uno spazio comune e una cornice in cui sperimentare una quasiunità, una coerenza e possibilità di agire insieme che prima non c'erano, o non erano visibiliP. La moltitudine libera è un'unità che non è realmente unificata, una «comunità d'azione» e una comunità in azione, che emerge dalla pratica e dall'esperienza di una certa unità e della convivenza in uno spazio politico. Questo è ciò che significa condividere un "mondo" politico, quindi potremmo dire che anche per Spinoza la democrazia è più di una forma di governo, è un mondo comune abitato e condiviso dai soggetti politici, una forma di vita 52• so TP, III, 2., ma anche Il, 16; III, 5; III, 7, e molti altri passaggi simili. s• Questa frase è tratta da Philippc Zarifian, Puissatu:e et communauté d'action (à partir de SpinoZJJ), in Y. Citton, F. Lordon (sous la dircction dc), SpinoZJJ et /es sciet,ces socia/es: De la puissa1,ce de la multitude à l'économie des affects, Éditions Amsterdam, Paris 2.008, pp. 171-186. 52· Ulteriori argomenti sulla concezione «profonda» della democrazia in Spino7.a sono fomiti da Moira Gatcns, Gcnevicvc Lloyd, u,//ective lmaginings: SpinoZJJ, Past and Presetzt, Routlcdgc, London 1999; Robin Cclikates, Demokratie als Lebensfonn. SpinoZtJS Kritik des Liberalismus, in Die Macht der Menge cit., pp. 43-65; e nel mio Die lmma11enz der Macht cit., eh. VII.

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Conclusione: Da Spinoza alla «democrazia radicale» e ritorno La democrazia, così come affiora dalle teorie contemporanee sulla «democrazia radicale», è un processo, non un insieme di procedure. Questo processo è essenzialmente incompiuto, interminabile o addirittura infinito, cosa che costringe coloro che si battono per la democrazia a ripensare e rivedere le forme del consenso democratico alla luce di nuove e legittime contestazioni e richieste di partecipazione nella vita politica. Lo sviluppo della democrazia va oltre lo Stato e le istituzioni politiche, poiché si riferisce all'energia viva e pulsante alla base di qualsiasi ordine e istituzione. La politica democratica è più processo che struttura, più divenire che essere, più forma di vita che sistema di regole. Questi principi fondamentali delle attuali teorie della «democrazia radicale», come ho sostenuto, possono essere fruttuosamente collegati al modo spinozista di affrontare la politica. Nelle sue opere, infatti, possiamo trovare un simile ripensamento della democrazia attraverso la categoria di potenza, pensandola come una forma vivente e costituente della potenza. A partire dalla concezione ontologica della politica proposta da Spinoza, l'attuale interesse per la democrazia al di là del livello istituzionale e strutturale appare molto più legittima e potrebbe persino sembrare che questo recente problema abbia una delle sue radici storiche proprio nelle concezioni ontologiche della politica di alcuni secoli precedenti. Non è importante se gli autori coinvolti nell'attuale dibattito siano consapevoli di questa vicinanza; ed è del tutto indifferente se Spinoza avesse pensato di poter essere trattato come un «democratico radicale» a un certo punto. Ma è utile vedere come queste prospettive convergano e come questi progetti politici più recenti possano beneficiare di un quadro filosofico in cui trovare concetti, argomenti e metafore per un'impresa simile. Potrebbe essere ancora utile aggiungere che il ritorno a Spinoza potrebbe anche fornire risorse e opportunità per correggere alcune tendenze problematiche dell'attuale discorso sulla «democrazia radicale». Potrebbe essere usato per attenuare un'opposizione troppo netta tra forme di comunicazione razionali e non razionali, come è sintomatico nella polemica di Mouffe contro Rawls e Habermas e nella sua contrapposizione tra «decisione» e «deliberazione». In

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secondo luogo, può suggerire una certa cautela nei confronti delle insistenti valorizzazioni della "pluralità" e della "pluralizzazione", soprattutto nell'opera di William Connolly, che portano all'equivoco secondo cui il riconoscimento della differenza in quanto tale può immunizzare dalla violenza e dall' oppressione53 • E può, in terzo luogo, contrastare la tendenza a tracciare una linea di demarcazione eccessiva tra le istituzioni e lo Stato da un lato e la sua controparte, il popolo e la moltitudine, dall'altro, come se non potesse esistere un 'istituzione democratica al servizio del popolo, come sembra talvolta suggerire l'affascinante lavoro di Antonio Negri sulla «democrazia assoluta». Su tutti e tre i punti, Spinoza, anche se viene letto come un «democratico radicale», sembra offrire contro-argomenti più moderati e realisti: in primo luogo, egli difende una continuità tra le forme della conoscenza che vanno dall'immaginazione alla ragione formale. In secondo luogo, mettendo in luce sia i benefici che i pericoli (su cui decide la contingenza) dell'identità e della differenza, sostiene la necessità di un certo accordo o convergenza tra i soggetti. In terzo luogo, immagina istituzioni che non dominano necessariamente, ma incanalano i moventi, gli interessi, i desideri del popolo e rendono più probabili che improbabili gli incontri gioiosi, compositivi, produttivi. Un ritorno a Spinoza può quindi ammorbidire alcune inutili rigidità delle posizioni odierne sulla «democrazia radicale», pur consentendo di difendere radicalmente la democrazia come progetto politico. Come ogni altra attività teorica, la filosofia politica e la teoria democratica dipendono dai punti di partenza concettuali e dal tipo di domande che pongono al loro oggetto. La democrazia può essere utilmente affrontata come una forma di Stato e un sistema di diritti, e può essere difesa normativamente con il ricorso a valori politici ed etici fondamentali. La lente spinozista sulla politica ci consegna una prospettiva piuttosto diversa, proponendo di vedere la democrazia come una questione di potenza e di potenze. Questo distingue la sua visione della politica dal mainstream della filosofia politica classica e dalla maggior parte delle correnti contemporanee della teoria politica e, come ho sostenuto, lo avvicina all'insieme di problemi che vanno sotto il nome di «democrazia radicale». Lo spinozismo politiH

E, IV, prop.31-35.

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co, come lo leggo io, non potrebbe trovare un appellativo migliore di questo, poiché si riferisce a ciò che Spinoza considerava la base stessa di una forma collettiva di vita umana degna di essere vissuta: la potenza del popolo, presa sul serio, a cui viene data una forma coerente e uno spazio di espressione immanente, senza padroni. {Traduzione dall'inglese di Andrea Moresco)

Monografica

L'istituzione come espressione. Tra Wittgenstein e Merleau-Ponty Andrea Di Gesu, Paolo Missiroli

Il concetto di istituzione, inteso in termini generali come attività di creazione di forme politiche consapevole della propria contingenza, della propria storicità radicale e dunque come processo di rielaborazione di elementi già esistenti 1 , costituisce l'opzione teorico-politica principale per chi volesse pensare in termini post-metafisici l'atto di fondazione politica. Esso, infatti, da un lato evita di porre a suo fondamento un qualunque principio metafisico sovrastorico e universale; dall'altro, sostiene la necessità di conservare il gesto di fondazione politica, contro una diffusa tendenza contemporanea a tradurre la necessità di un pensiero post-metafisico della fondazione in un rifiuto della fondazione tout-court: sia attraverso un rifiuto totale di ogni attività di messa in forma 2 , sia attraverso una politica della differenza

Si veda Roberto Esposito, lstituziot,e, il Mulino, Bologna 2.02.1. Ci riferiamo in generale a un insieme di posizioni filosofico-politiche di ispirazione heidcggeriana, in cui la scoperta della negatività che segna ogni fondazione, interpretata come frattura che divide l'essere dagli enti, conduce allo sviluppo di tentativi diversi di abitare politicamente la differenza ontologica, con accenti anche notevolmente distanti fra di loro: tra gli le posizioni più rappresentative, citiamo il pensiero politico di Dcrrida, in cui è evidente la tendenza a concepire l'attività politica emancipativa come infinito processo di avvicinamento ad una totalità, inattingibile però come tale; l'heideggerismo politico di Schiirmann, che sottolinea piuttosto che il superamento heideggeriano della metafisica permette di concepire un agire politico slegato da ogni principio fondatore, e quindi "anarchico"; la posizione di Agambcn, che rivendica in maniera esplicita un agire passivo, che destituisce ogni fondamento, imperniato sul concetto di inoperosità. Si tratta di ciò che, all'interno del dibattito di ontologia politica a cui ci riferiamo, Marchart definisce ontologie della differetWJ, mentre Esposito denomina paradigmi destituenti. Cfr. Oliver Marchart, The absence at the heart of presence: radical democracy a,uJ the "011tology of lack", in Lars Tender, Lasse Thomassen (a cura di), Radical democracy. Politics between abundance and lack, Manchester University Press, Manchester 2.005, pp. 17-31. Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2.02.0, pp. 3 sgg. 1

2

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che la risolve in una produttività ontologica3. Attraverso il suo «pensiero istituente», Roberto F.sposito ha recentemente proposto una formalizzazione generale del concetto di istituzione, presentato come una «affermazione del negativo»: tale definizione descrive l'istituzione come processo di invenzione storicamente situato e contingente in quanto assume la negatività che segna inevitabilmente il sociale - il conflitto, l'opposizione tra i soggetti- senza cercare di superarla, ma riconoscendola al contrario come motore interno della sua azione e dunque affermandola. Ci pare che questo tipo di lettura del processo istituente, per quanto significativa, mostri una difficoltà strutturale. La tesi secondo cui l'istituzione coincide con l'affermazione del negativo, cioè delle differenze interne al corpo sociale, tende infatti a descrivere il processo istituente come semplice chiarificazione progressiva dei rapporti di forza presenti nella società. Di conseguenza, questa posizione corre costantemente il rischio di rendere impossibile la definizione di un criterio per la critica sociale e politica: sostenere che l'istituzione debba limitarsi a dare forma ai conflitti e alle divisioni interne al corpo sociale non può che far tendere all'accettazione della loro inevitabilità. Diventa così difficilmente pensabile ogni progetto di trasformazione radicale dei rapporti sociali esistenti. Questa interpretazione del processo istituente non è tuttavia l'unica possibile. Il nostro articolo si pone l'obiettivo di presentare un'alternativa, rinvenibile all'intersezione tra le opere di Maurice Merleau-Ponty e Ludwig Wittgenstein. Entrambi sviluppano infatti una teoria dell'espressione che permette un ripensamento del concetto di istituzione, definendo quest'ultima come espressione di uno sfon3 Tra le principali opzioni di questa linea, di ascendenza delel17..iana, ricordiamo almeno la posizione di Negri e Hardt, in cui la produttività ontologica è sovrapposta alla produzione economica della moltitudine, soggetto collettivo differenziale di cui è necessario liberare la potenza costituente (ontologica, economica e politica) dall'azione parassitaria del capitale. A questo proposito, ricordiamo inoltre il pensiero di Connolly, in cui la potenza ontologica delle differen7.c è al servizio di una democrazia radicale irriducibilmente agonistica e anti-identitaria, nonché il deleuzismo politico di alcune esponenti del femminismo contemporaneo come Braidotti e Bcnnett, che hanno elaborato forme diverse di "materialismo vitalista" al servizio di una nuova politica femminista cd ecologica. Tali posizioni sono definite democrazie radicali dell'abbondanza da L. Tender, L. Thomassen, mentre Esposito parla piuttosto di paradigmi costituenti. Cfr. Tender, Thomassen, Rethinking radical democracy between abunda,ice a,ul lack., in Id. (a cura di), Radical democracy cit., p. 6. R. Esposito, Pensiero istituente cit., p. 10.

L'ISTITUZIONE COME ESPRESSIONE

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do. In quanto segue, argomenteremo questa tesi e ne studieremo le implicazioni filosofico-politiche. Mostreremo in particolare che tale ridefinizione del processo istituente permette di stabilire un criterio per la critica, costituito precisamente da quello sfondo naturale e linguistico che l'istituzione esprime. Tale criterio ci permetterà di definire la possibilità di un processo istituente al contempo democraticoradicale ed ecologico. Le riflessioni inaspettatamente convergenti di Wittgenstein e Merleau-Ponty permettono così la definizione di una nuova ontologia politica istituente, che disegna un'opzione originale e politicamente radicale all'interno del dibattito sulla natura dell'istituzione. Divideremo il nostro lavoro in due sezioni. Nella prima, studieremo le teorie dell'espressione sviluppate da Wittgenstein e da Merleau-Ponty, mettendo in luce le divergenze e al contempo l'affinità strutturale che le lega. Nella seconda sezione, ne esploreremo le implicazioni politiche.

1.

Wittgenstein e Merleau-Ponty filosofi dell'espressione

Punto di partenza del presente lavoro di comparazione è l'idea per cui le filosofie di Wittgenstein e di Merleau-Ponty siano entrambe filosofie dell'espressione; meglio, che esse siano le filosofie dell 'espressione per eccellenza della riflessione filosofica contemporanea. In entrambi gli autori, l'espressione è definibile, in termini generali, come una relazione che i soggetti intrattengono con quanto è condizione delle loro esistenze, pur non essendo mai completamente riducibile a quest'ultime. T aie condizione prende, in Wittgenstein, la forma di una «verticalità», mentre, nel caso di Merleau-Ponty, è identificabile con il concetto di «profondità». Definiamo la «verticalità» in Wittgenstein a partire da un celebre scritto di Stanley Cavell in cui il filosofo americano sviluppa una riflessione sul concetto di forma di vita4. Cavell distingue qui tra due accezioni del termine, entrambe presenti nell'opera wittgensteiniana: un senso orizzontale, in cui il termine identifica quell'insieme di

4 Cfr. Stanlcy Cavcll, Declitung decline (1989), in Id., This tiew yet unapproachable America, Univcrsity of Chicago Prcss, Chicago 2.013.

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pratiche, comportamenti, usi linguistici che definisce una comunità culturale data e in cui l'accento cade di conseguenza sulla pluralità delle diverse forme di vita umane; e un senso, definito per contrasto verticale, in cui si tratta piuttosto delle caratteristiche biologiche che definiscono la singolarità della forma di vita umana e in cui I'accento cade dunque sull'unicità di quest'ultima. Dove le differenze pertinenti, nel primo caso, sono ad esempio quelle tra «baratto e sistema di credito», il secondo, specifica Cavell, «richiama differenze tra la forma di vita umana e le cosiddette forme di vita "inferiori" o "superiori", tra [... ] infilzare il tuo cibo, magari con una forchetta, e prenderlo con una zampa, o beccarlo». «Qui», continua il filosofo americano, «entra in gioco il romanzo della mano e del suo pollice opponibile, della postura eretta e degli occhi rivolti verso il cielo; ma anche della forza e della gamma di possibilità del corpo, dei sensi e della voce umani»5. Cavell sottolinea così un aspetto cruciale di tutta la filosofia wittgensteiniana matura, ossia l'attenzione, declinata in diversi modi, per la naturalità del linguaggio. Pensiamo alle osservazioni di Wittgenstein sugli usi linguistici come parti della nostra «storia naturale» allo stesso titolo che «il camminare, il mangiare, il bere, il giocare» 6, ma anche alla sua attenzione per il carattere gestuale7 , prassistico 8, istintuale della lingua9 • Riprendendo la tesi di Cavell, chiamiamo dunque «verticalità» questa dimensione fondamentalmente naturale del linguaggio, oggetto costante della riflessione dell'ultimo Wittgenstein. Per quanto concerne invece l'idea di «profondità», si può sostenere che essa serve a spiegare, soprattutto nella Fenomenologia della s lvi, pp. 41-42. 6

Ludwig Wittgcnstcin, Philosophische Untersuchungen. Philosophical investigatiotis, Blackwcll, Oxford 1953 (trad. it. di M. Trinchcro, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 2014, par. 25). 1 Cfc. Id., Bemerkungeti uberdie Philosophie der Psychologie, Blackwcll, Oxford 1980 (trad. it. di R. Dc Monticelli, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adclphi, Milano 1990, par. 66o). Si veda anche id., Zettel, Basil Blackwcll, Oxford 1967 (trad. it. di M. Trinchero, Zette~ Einaudi, Torino 2007, pp. 158-159), e Id., Letve Schriften uber die philosophie der Psychologie, Blackwcll, Oxford 1982-1992 (trad. it. di Aldo Giorgio Gargani, Ultimi scritti. La filosofia della psicologia, Laterza, Roma-Bari 1998, voi. I, par. 712--,13). 8 Si veda ad esempio L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche cit., par. 217; Id, Vennischte Bemerku11gen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1977 (trad. it. di M. Ranchetti, Pensieri diversi, Adclphi, Milano 2009, p. 67). 9 Cfr Id., Zettel cit., par. 541.

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III

percezione, ciò che Merleau-Ponty chiama «l'inerire della coscienza alla cosa tramite il corpo» 10, cioè il rapporto pre-riflessivo e preintenzionale che la coscienza ha con un mondo naturale e culturale un mondo che essa non costituisce a partire dal nulla, ma «abita» 11 • La profondità è la dimensione nella quale le cose si «avvolgono» 12 tra loro e con la coscienza; essa indica, per Merleau-Ponty, il campo di provenienza della coscienza da cui quest'ultima non può separarsi mai del tutto: non tanto le sue condizioni di possibilità trascendentali, ma l'insieme di elementi che rimangono operanti nell'esistenza incarnata della coscienza stessa. Profondo è, dunque, uno degli aggettivi che Merleau-Ponty usa per descrivere il campo in cui la coscienza esiste: il mondo o anche, nell'ultima fase della sua ricerca, l'Essere. In questo senso, la coscienza è «non un intelletto che costruisce il mondo, ma un essere che è gettato nel mondo, che vi resta attaccato come in virtù di un legame naturale» 1 3. Tutto questo si chiarisce ulteriormente dalla lettura merleaupontyana del tema della sessualità: questa non è, per lui, uno spazio che determini causalmente la nostra vita cosciente, bensì un' «atmosfera ambigua, coestensiva alla vita» 1 4 che è presente in ogni momento di quest'ultima pur non coincidendo mai interamente con essa. Non c'è superamento possibile né dell'inerenza al mondo, né totale chiusura dell'esistenza su questo spazio di provenienza. Il concetto di profondità ritorna con sempre maggior forza nel lavoro successivo di Merleau-Ponty per sottolineare «la base di natura disumana su cui l'uomo si colloca» 1 5 e, soprattutto ne Il visibile e l'invisibile e negli ultimi corsi al Collège de France, a mostrare la struttura stratificata di un Essere pensato ormai in termini esplicitamente geologici: un «Essere, che quindi è scaglionato in profondità, si nasconde nello stesso tempo in cui si svela, è abisso e non pienezza» 16• Merleau-Ponty contrappone sin dall'inizio del 10 Mauricc Mcrlcau-Ponty, Phénomé110/ogie de la perception, Gallimard, Paris 1945 (trad. it. di A. Bonomi, Fe11omenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 194). 11 lbid. 11 Ivi, p. 351. •J Mauricc Mcrlcau-Ponty, Sens et non sens (1948), Gallimard, Paris 1996 (trad. it. di P. Caruso,Senso e no11senso, il Saggiatore, Milano 2016, p. 75). •• Ivi, p. 237. •s lvi, p. 35. 16 Mauricc Mcrlcau-Ponty, Le visible et l'invisible. Suivi de Notes de Travai4 Gallimard, Paris 1964 (trad. it. di A. Bonomi, li visibile e l'invisibile, Bompiani, Milano 2003, p. 106).

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suo lavoro la profondità alla visione di sorvolo, cioè a uno sguardo sul reale che si vuole d'insieme e totalizzante, nella misura in cui a suo parere, se lo sguardo dall'alto potrebbe solo essere «pensiero di un soggetto acosmico» 1 7, la profondità è invece la «possibilità di un soggetto impegnato» 18• A essere profonda non è quindi la coscienza in quanto tale, ma il mondo in cui vive nella misura in cui lo fa attraverso un corpo biologico: «è il corpo, e il corpo soltanto, poiché è un essere a due dimensioni, che può condurci alle cose stesse, che non sono a loro volta degli esseri piatti, ma degli esseri in profondità, inaccessibili a un soggetto di sorvolo, aperte solo a quello, se è possibile, che coesiste con esse nel medesimo mondo» 1 9. Ora, tanto la «verticalità» di Wittgenstein quanto la «profondità» di Merleau-Ponty permettono lo sviluppo di vere e proprie filosofie dell'espressione. Nonostante le loro differenze, sulle quali torneremo, queste filosofie dell'espressione presentano una significativa affinità strutturale. L'accento posto sulla dimensione verticale della forma di vita umana non conduce affatto Wittgenstein a una forma di riduzionismo biologistico riguardo al linguaggio. La sua funzione teorica è piuttosto, potremmo dire, quella di fornire un fondamentale correttivo all'accezione orizzontale del concetto di forma di vita. Quest'ultima infatti, presa nella sua singolarità, implicherebbe una teoria radicalmente convenzionalista del linguaggio, ossia l'idea che i significati delle parole siano il mero frutto di convenzioni arbitrarie sviluppate dalle singole comunità linguistiche. La dimensione verticale piega questa visione in tutt'altra direzione, poiché permette di precisare che l'uso del linguaggio non corrisponde all'applicazione di criteri convenzionali che regolerebbero i nostri significati, ma piuttosto a una forma di gestualità, assimilabile appunto a una reazione corporea. Ogni volta che usa una parola, il parlante ne produce una nuova applicazione, che può confermarne il significato o svilupparlo in direzioni inedite: il gesto linguistico è insomma una «risposta, nuova e originale di fronte alle manifestazioni e agli eventi della nostra vita in una rete di connessioni che costituiscono la cultura in cui siamo

Ivi, p. 354. lbid. •9 Jvi, p. 177.

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immersi» 20• È in questo senso che, in un passo famoso, Wittgenstein scrive che le regole d'uso di una parola non sono convenzionali, non sono decise arbitrariamente in anticipo, ma si fanno «as we go along» 21 : esse sono cioè costantemente in capo alla responsabilità dei parlanti e fondate su nient'altro che su questa responsabilità. Il linguaggio è così ricondotto da Wittgenstein a quella che Cavell ha definito la sua natura di «voce», intendendo con questo termine l'attivo coinvolgimento dei parlanti nella costruzione indefinita dei significati condivisi che definiscono una forma di vita22 • Questo termine, riportando il linguaggio alla sua natura corporea senza per questo ridurlo esclusivamente a essa, descrive peraltro la sovrapposizione senza residui tra la dimensione verticale e orizzontale delle forme di vita. T aie forma di produzione sociale di significati, questa attività di costruzione dalle evidenti implicazioni etiche e politiche, corrisponde in Wittgenstein all'uso ordinario a cui la terapia filosofica riporta le parole 23 , a quel «terreno scabro» 24 che, proprio per questo, ci permette di camminar. Essa non è dunque una teoria del linguaggio alternativa alle altre, quanto l'esito della depurazione del linguaggio dai suoi residui metafisici, che è lo scopo dichiarato della filosofia come attività terapeutica 2 5. La dimensione della verticalità riconfigura così il linguaggio come attività eminentemente espressiva: ricondurre il linguaggio alla sua natura di gesto, o di voce, significa ipso facto pensarlo come espressione. Potremmo, al limite, dire che l'espressione è quella particolare forma di gestualità che è la gestualità linguistica. La terapia filosofica wittgensteiniana, lungi dal pro10 Aldo Giorgio Gargani, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Raffaello Cortina editore, Milano 2.008, p. 17. 11 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche cit., par. 83. 2.2. Si veda soprattutto Stanley Cavell, The claim of reaso11. Wittgetzstei11, skepticism, morality, a,uJ tragedy, Oxford University Press, Oxford 1979 {trad. it. parziale di B. Agnese, La riscoperta dcll'ordi11ario, Carocci, Roma 2.001). z.3 Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche cit., par. 1 16. 1.4 lvi, par. 107. z.s Cfr. ivi, par. 109, 124, 133. La necessità di prendere sul scrio la natura terapeutica della filosofia wittgensteiniana, ossia di escludere la presenza in quest'ultima di una qualunque teoria del linguaggio e di trarne le conseguenze teoriche, costituisce il punto di parten7.a della scuola di interpreti di ascendenza cavelliana raccolti sotto l'etichetta di New Wittgenstein, dal titolo dell'importante volume collettaneo che ne ha presentato i lavori più significativi: cfr. Alice Crary, Rupcrt Read (a cura di), The New Wittgetzstcin, Routledge, London-New York 2.000.

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porre una nuova teoria del linguaggio, non ha quindi altro scopo che riconsegnarci questa potenza espressiva, contro un uso metafisico del linguaggio che ce ne allontana. Questa teoria dell'espressione si configura addirittura come l'approdo finale della speculazione wittgensteiniana: «l'espressivismo linguistico», riassume Gargani, è la vera «svolta impressa da Wittgenstein nella sua grammatica filosofica» 26 • Anche in Merleau-Ponty la profondità non conduce affatto a un riduzionismo di tipo naturalistico. In realtà buona parte del percorso successivo alla Fenomenologia sarà volto a dare ragione di una relativa autonomia del momento storico-culturale, senza tuttavia venire meno a una fondamentale fedeltà all'idea di un primato della percezione. Ci pare abbastanza evidente, e via via confermato dalla pubblicazione di scritti inediti e di approfonditi lavori interpretativi 27, che MerleauPonty tenti di uscire da questa impasse servendosi precisamente della nozione di espressione. F.ssa è così definita nel suo primo corso al Collège de France del 1951: «proprietà che ha un fenomeno, in virtù della sua disposizione interna [agencement interne], di rivelarne un altro, che non è e non è mai stato dato effettivamente» 28 • L'espressione non è dunque un mero gioco interno al linguaggio pensato come spazio assolutamente separato dal mondo concreto di cui il linguaggio parla, ma è una sorta di movimento sul posto che il linguaggio stesso, in virtù della sua specificità (disposizione interna), mette in atto. È evidente, per Merleau-Ponty, che il linguaggio acquisisca il proprio senso a partire dalla disposizione sincronica dei segni 29 • Tuttavia, è proprio notando come l'apparato fonetico di una lingua arricchisca e superi relativamente i suoni che sono emessi "naturalmente" dal nostro apparato fonatorio, che egli evidenzia il necessario rapporto con un fondo biologico "lavorato" e rielaborato continuamente3°. In que26 A. G. Gargani, Wittgenstein. Musica, parola, gesto cit., p. 33. 2.7 Stcfan Kristcnscn, Parole et subjectivité. Merleau-Ponty et la phénomé11ologie de /'expressio11, Vrin, Paris 2.010; Emmanucl Dc Saint Aubcrt, Du lien des etres aux éléments de l'etre. Merleau-Ponty au tournant des années 1945-1951, Vrin, Paris 2.004. z.8 Mauricc Mcrlcau-Ponty, Le mo,uJe se,,sib/e et le monde de l'expression. Cours au Collège de France. Notes, 1953, Mctis Prcsscs, Gcnèvc 2.011 (trad. it. di C. Dalmasso, Il motuio se,,sibile e il mo11do dell'espressione, Mimcsis, Milano 2.02.1, p. 75). 2.9 Mauricc Mcrlcau-Ponty, Signes, Gallimard, Paris 1960 (trad. it. di A. Giuseppina, Segni, il Saggiatore, Milano 2.015, pp. 57-103). 30 Mauricc Mcrlcau-Ponty, Merleau-Po11ty à la Sorbonne. z949-z952, Cynara, Dijon 1988, pp. 71-72..

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sto senso, la parola risulta essere costitutivamente in rapporto con i «sedimenti prestorici del nostro rapporto oggettivo con il mondo»3 1• Da questo punto di vista, Merleau-Ponty sviluppa la tesi già presente nella Fenomenologia, per cui «tutto ciò che siamo, noi lo siamo sulla base di una situazione di fatto che facciamo nostra e che trasformiamo incessantemente con una specie di sfuggimento che non è mai una libertà incondizionata»32·. L'espressione è dunque un movimento di sfuggimento nell'appartenenza, di trasformazione che non è mai annullamento della nostra appartenenza al fondo inumano. Essa è, in altre parole, rielaborazione costante di quella profondità a cui si faceva poc'anzi riferimento. Al filosofo francese non interessa trovare un' autonomia assoluta del momento storico-culturale da quello naturale; al contrario, qualsiasi operazione di questo tipo sarebbe per lui un «modo di pensare quasi onirico, museo degli orrori»H, come lo è ogni posizione che rinneghi la profondità del mondo in cui si agisce e si fa esperienza. Il suo obiettivo è piuttosto trovare il nexus tra due momenti diversi di un medesimo movimento espressivo. È questa differenza che rende possibile distinguere tra un mondo sensibile e un mondo dell'espressione. Queste due filosofie dell'espressione conservano naturalmente le loro specificità, che risultano evidenti già da un'esposizione sommaria come quella appena proposta. In Merleau-Ponty, il concetto di espressione tende a farsi cifra di un'ontologia generale, in cui è la natura in quanto tale a esprimersi e nella quale l'espressione linguistica è dunque solo un momento di questa espressività generale dell'essere. Il naturalismo di Wittgenstein, invece, rimane centrato sulla dimensione dell'umano. Al contempo, e forse proprio per questo, l'espressivismo wittgensteiniano, rimandando come abbiamo visto alla dimensione sociale della produzione significante, manifesta una connotazione politica che in Merleau-Ponty rimane in secondo piano. Questa divergenza tra l'accento ontologico del concetto di espressione merleaupontyano e quello sociopolitico, riscontrabile in Wittgenstein, non sminuisce tuttavia la sorprendente affinità struttu31

M. Mcrlcau-Ponty, La phénoménologie de la perceptio11, trad. it. cit., p. 113. Jvi, p. 2.39. 33 Mauricc Mcrlcau-Ponty, Notes de cours. 1959-1961, Gallimard, Paris 1996 (trad. it. di F. Paracchini, A. Pinotti, È possibile oggi la filosofia? Leziotu al Collège de Frmu:e 1958-1959 e 1960-1961, Raffcllo Cortina Editore, Milano 2.003, p.11). 32

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raie che li accomuna. In entrambi, l'espressione è il rapporto che la soggettività intrattiene con lo sfondo da cui emerge.

2.

Verso una nuova ontologia istituente

È significativo che le riflessioni filosofiche di Wittgenstein e MerleauPonty siano state accusate, in modi diversi, di avere implicazioni politiche conservatrici. Nel primo caso, il concetto di forma di vita e l'idea di linguaggio come uso, mis-interpretati in senso convenzionalista, hanno portato molti critici a scorgere nella filosofia wittgensteiniana una difesa reazionaria delle tradizioni e dei valori che definiscono una comunitàH. Per quanto riguarda il secondo, soprattutto il concetto di «acomunismo», sviluppato ne Le avventure della dialettica, è stato interpretato come svalutazione di qualunque progetto intenzionale di trasformazione sociale in quanto intrinsecamente totalitario 35 . A ben vedere, entrambe queste accuse muovono da un presupposto comune, ossia il sospetto verso le peculiari forme di naturalismo proprie ai due autori, incarnate dai concetti di verticalità e di profondità appena esplorati. T aie sospetto è tuttavia, a nostro avviso, infondato: al contrario, tanto il concetto di verticalità quanto quello di profondità contestano radicalmente ogni «senso di conservatorismo politico o sociale»3 6 che potrebbe essere loro attribuito. Sarà proprio questo il nostro punto di partenza nel presente paragrafo, dedicato alle potenzialità filosofico-politiche della teoria dell'espressione condivisa da Wittgenstein e Merleau-Ponty. Mostreremo innanzitutto che essa permette di ripensare la natura dell'istituzione, riconfigurando in termini profondamente innovativi il concetto di fondazione politica. A partire da tale operazione, si viene condotti verso una nuova forma di onto34 Cfr. ad esempio Erncst Gellncr, Word and things. A criticai account of linguistic philosophy a,ul a study on ideology, Bcacon Prcss, Boston 1959 (trad. it. di B. Oddera, Parole e cose. Un contributo critico all'a,ialisi del linguaggio e u110 studio sulla filosofia linguistica, il Saggiatore, Milano 1961 ); Krist6f Nyiri, Tradition a11d individuality. Essays, Srpinger, Dordrccht 1976, in particolare pp. 1-2.4; David Bloor, Wittgenstein as a cotzservative thitiker, in Martin Kusch (a cura di), The sociology of philosophical k11owledge, Springer, Dordrccht 2.000, pp. 1-14. 35 Roger Garaudy et al., Mésave11tures de l'a11ti-marxisme. Les malheurs de MerleauPonty, Editions Socialcs, Paris 1956. 36 S. Cavell, Dedi1u11g decline cit., p. 44.

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logia politica istituente, che incorpora un criterio per la critica e che, nella misura in cui fa leva sull'espressione come modalità della relazione del soggetto col proprio sfondo, si caratterizza per essere ecologica e democratico-radicale. Come ricordavamo all'inizio, nella definizione espositiana il concetto di istituzione come creatio storica, situata ed ex aliquo, corrisponde a una specifica modalità post-fondazionale di concepire la fondazione politica nei termini di una «affermazione del negativo». A tale definizione generale appaiono in effetti riconducibili tutte le posizioni interne al dibattito in questione, al netto delle loro differenze relative alla natura del negativo e del gesto che lo afferma: dal negativo come conflitto e antagonismo originario del sociale messo in forma dall' «istituzione simbolica» in Lefort, al negativo come mancanza non simbolizzabile del sociale accostato al Reale lacaniano e affermato dalla «suturazione egemonica» in Laclau, fino al negativo come trauma che insiste sull'identità individuale e collettiva affermato da un significante sempre in traduzione in Butler. La nostra tesi è che la filosofia dell'espressione trasversale a Wittgenstein e Merleau-Ponty consenta di ripensare l'istituzione in termini profondamente diversi: non più come affermazione di un negativo, ma piuttosto come espressione di uno sfondo. Anche l'espressione è istituzione, nella misura in cui è un'attività creativa e però radicalmente storica e situata, una creatio ex aliquo: l'uso ordinario della lingua in Wittgenstein, il linguaggio come rielaborazione continua di un fondo biologico in Merleau-Ponty. Essa, tuttavia, non è un'affermazione su cui pesa una negatività intrinseca, ma la riattivazione continua dello sfondo da cui proviene e che rimane in essa costantemente presente. Il processo istituente è così riconfigurato non più come ciò che è spinto all'esistenza da un negativo che lo differenzia al suo interno37, ma come l'attività che riporta alla presenza, trasformandolo, il campo in cui si dà. A partire da Wittgenstein e Merleau-Ponty diventa in altre parole possibile pensare il rapporto tra istituzione e negatività in modo inedito, poiché essi ripensano la negatività come sfondo: non più una frattura interna all'Essere, ma il suo margine di invisibilità e non totalizzabilità3 8 • R. Esposito, P,msiero istituet1te cit., p. 2.07. Mauricc Mcrlcau-Ponty, Le visible et l'invisible. Suivi de Notes de Travai4 Gallimard, Paris 1964 (trad. it. di A. Bonomi, Il visibile e l'invisibile, Bompiani, Milano 2.003, p. 304). 37 38

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Questa riconfigurazione ha come conseguenza principale l'introduzione di un criterio della critica all'interno del processo istituente. Se infatti il negativo, pensato come conflitto, mancanza o trauma, mette in moto l'istituzione senza tuttavia permettere una differenziazione assiologica tra diversi processi istituenti, l'idea di sfondo fornisce a questi ultimi un orientamento normativo, dato precisamente dalla necessità di espressione di questo sfondo stesso. Il peculiare naturalismo di Wittgenstein e Merleau-Ponty, lungi dall'avere conseguenze conservatrici o reazionarie, è così ciò che immette nel processo istituente un principio critico che lo mette al riparo dal rischio di relativismo insito in tutte le modalità con cui esso è stato finora configurato. L'attività di ripresa in cui consiste l'istituzione è un movimento che esprime questo campo di possibilità: non lo annulla, né lo mantiene così com'è. Istituire non significa, quindi, rendere stabili in eterno gli scontri che animano il corpo sociale, ma criticare quelle stesse divisioni confrontandole con quello sfondo. In aggiunta, bisogna sottolineare che nell'ambito di questa proposta teorica l'istituzione non risulta più, come invece è stato nel dibattito sviluppatosi negli ultimi anni, un gesto essenzialmente artificiafe39. L'istituzione, e quindi l'atto di fondazione politica, non da intendersi come l'esito di un potere costruttivo di negazione40 , come risultato innaturale di un intervento sulla vita estraneao alla vita stessa. Al contrario, ogni processo istituente non può mai superare lo sfondo naturale da cui pure, esprimendolo, si differenzia. Tanto la definizione merlea upontyana della natura come presenza operante41 quanto la focalizzazione wittgensteiniana dell'appartenenza del linguaggio alla storia naturale degli esseri umani sottolineano in effetti questo sfondo ineliminabile di ogni istituzione. Le filosofie dell'espressione di Wittgenstein e di Merleau-Ponty costituiscono così il paradigma di una nuova ontologia politica istituente: l'idea di istituzione come espressione di uno sfondo costituisce, in altre parole, un'altra modalità post-fondazionale di pensare la 39

R. Esposito, Pensiero istituente cit., p. 17 • Roberto Esposito, Per u,i pensiero istituente, «Discipline filosofiche», 29, 2, 2019, p. 16, p. 25. 4 1 Mauricc Merlcau-Ponty, La Nature. Notes de cours au Collège de France, Seuil, Paris 199 5 (trad. it. di M. Carbone, La Natura, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, p. 163). .fO

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fondazione politica. Essa risulta, al contempo, democratico-radicale ed ecologica. Tale binomio costituisce l'incontro e la valorizzazione delle differenze specifiche tra le teorie dell'espressione proprie ai due autori: è in tale concetto di fondazione che risiedono, infatti, le implicazioni politiche concrete di tale ontologia e in generale delle filosofie di Wittgenstein e di Merleau-Ponty. L'eredità wittgensteiniana permette di scorgere nell'idea di fondazione come espressione di uno sfondo un senso distintamente democratico-radicale. Come abbiamo visto, in Wittgenstein l'espressione è riattivazione costante dell'ordinario come spazio della produzione e trasformazione dei significati condivisi che plasmano le nostre forme di vita. Il senso sociopolitico della sua teoria dell'espressione implica così l'idea di una comunità politica democratico-radicale in cui lo spazio della discussione sullo statuto e sulla forma della comunità è costantemente tenuto aperto dall'attività espressiva delle soggettività politiche. Si tratta di ciò che Cavell ha descritto nei termini di una democrazia «perfezionista»4 2 • A partire da Merleau-Ponty, d'altro canto, è possibile pensare l'atto di fondazione come un movimento di ripresa di ciò che il filosofo francese chiama il «non-istituito»43: «l'orizzonte di tutti gli orizzonti istituzionali» 44, cioè il mondo naturale. Come si diceva, esprimere uno sfondo non significa in alcun modo ritornare all'origine, giacché se questa coincidenza fosse possibile verrebbe meno il movimento espressivo in quanto tale. La ripresa di quello sfondo naturale è invece una conformazione del processo istituente allo sfondo da cui emerge, in un moto di fondazione permanente, poiché non vi è espressione che non sia incompleta e indiretta proprio in virtù della negatività, di cui si è già detto, dello sfondo medesimo. Il concetto di profondità assume così tutto il suo spessore politico: la soggettività sta in un campo naturale, sia interno (corpo) che esterno (non-umano), che diviene l'obiettivo del lavoro politico. Questo non deve essere inteso -42. Si veda soprattutto Stanley Cavcll, Conditions ha,ulsome atul unhandsome. The constitution of emersonian perfectionism, University of Chicago press, Chicago-London 1990 (trad. it. di M. Falomi, Condizioni ammirevoli e avvilenti. La costituzione del perfezionismo emersoniano, Armando, Roma 2.014); Id., Cities of words. Pedagogical letters on a register of the mora/ /ife, Bclknap Press of Harvard University Prcss, Cambridge 2.004. -43 M. Merleau-Ponty, La Natura cit., p. 4. -4-4 Id., L'institution, la passivité. Notes de cours au Co/lège de France (:1954-1955), Bclin, Paris 2.015, p. 63.

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né come un processo cli ricongiungimento con un'origine perduta, né come creatio ex nibilo del mondo in quanto tale, bensì come processo cli invenzione di istituzioni che vivono in un rapporto di scambio continuo con la configurazione determinata di questo stesso campo naturale. Cosa significa infatti fondare un orizzonte socio-politico ecologico se non agganciarsi a quella profondità cli cui si è tanto parlato, provare a far sì che quella profondità che è la Natura vibri nel processo istituente? Lungi dall'escludersi, questi due accenti sembrano piuttosto completarsi. Essi configurano, per l'ontologia politica che abbiamo abbozzato, un orizzonte politico ecologico e democratico-radicale. Si tratta, naturalmente, di una prima esplorazione cli un campo di possibilità teorico-politiche aperto, la cui definizione ha tuttavia già raggiunto, a nostro avviso, un risultato significativo. Nell'ambito cli un paradigma istituente, nulla si può dire riguardo alla democrazia radicale e all'ecologia politica se non a partire dal rapporto espressivo tra sfondo e fondazione. Ecco perché, ci pare, il campo del «pensiero istituente» rimane oggi, se emendato dalla necessità di affermare il negativo45, il più interessante spazio teorico per ragionare sulla trasformazione dello stato di cose presenti .

.fS Andrea Di Gcsu, Paolo Missiroli, Istituire nel limite. Vita, natura, storia, in Andrea Di Gcsu, Paolo Missiroli (a cura di), Res publica. La forma del conflitto. Almanacco di filosofia e politica III, Quodlibct, Macerata 2.02.1, pp.8-11.

La genesi della forma. Il problema del fondamento tra Schmitt e Lukacs Francesca Monateri

1. Introduzione

Post-foundational politica/ tbougbt di Oliver Marchart si apre sulla distinzione tra «il politico» e «la politica» introdotta da Cari Schmitt nella prefazione ali'edizione italiana delle Categorie del ,:politico' (1971) 1 • L'idea di Marchart è chiara: lo studio del pensiero politico post-fondazionale si muove intorno a questa curious difference - una bizzarra, singolare, insolita distinzione 2 • Marchart, similmente a Chantal Mouffe ed Ernesto Laclau, legge Schmitt a partire dal Concetto di politico3. In queste interpretazioni, il pensiero del giurista tedesco è associato a quello di Martin Heidegger, e non tanto per le comuni posizioni politiche. Schmitt sarebbe anche l'autore che più radicalmente introduce la crisi del fondamento all'interno della filosofia politica novecentesca: l'ordine non ha più alcun fondamento nella Verità: auctoritas non veritas facit legem ... È così che il post-fondazionalismo si trova di fronte a uno Schmitt radicalmente anti-fondazionalista. In questo senso, Schmitt serve a Marchart esclusivamente alla componente decostruttiva del suo pensiero. 1

Cari Schmitt, Premessa ali'edizione italiana, in Le categorie del "politico .. , il Mulino, Bologna 1972., pp. 2.1-2.6. 1 • The following study on post-foundational political thought navigatcs around a curious diffcrcncc, which has assumcd some currcncy in rcccnt continental and Anglo-American political thought: the diffcrcncc bctwccn politics and the political, cr, in Frcnch, bctwccn la politique and le politique, or again, in Gcrman, bctwccn Politik and das Politische-, Olivier Marchart, Post-Foundational politica/ thought, Edinburgh University Prcss, Edinburgh U>07, p. 1. 3 Pensare con e contro Schmitt, trasformare l'antagonismo in agonismo, è possibile a partire dall'amico-nemico. Cfr. Chantal Mouffe (a cura di), The Challe11ge ofuzrl Schmitt, Verso, London-New York 1999. Sempre sulla politica pensata a partire dall'antagonismo schmittiano, si veda Ernesto Laclau, On populist reaso11, Verso, London-New York 2007.

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Che in Schmitt ci sia una radicale messa in crisi dell'idea di un fondamento ultimo emerge anche tra gli interpreti che ne guardano il pensiero a partire dalla Teologia politica e ai quali, almeno in parte, l'interpretazione di Marchart è debitrice4. Questa volta, però, più che di decostruzione, si parla di nichilismo all'opera nel pensiero schmittiano. Schmitt è qui associato a Nietzsche, sottolineando anche un'esigenza per la forma, un disperato tentativo di ricrearla proprio attraverso la teologia politica. Il significato della teologia politica, allora, non è la fondazione della politica nella teologia, della politica nella trascendenza, ma la radicale richiesta di un fondamento che si deve affidare al taglio della decisione. Dove la costituzione della forma politica appare, tanto necessaria, quanto sospesa su di un vuoto, siamo di fronte a uno Schmitt che rimpiange e patisce l'assenza di un fondamento. Esiste, infine, uno Schmitt radicalmente differente dai primi due. È lo Schmitt delle istituzioni. Né Schmitt e Heidegger, né Schmitt e Nietzsche, ma Schmitt e Santi Romano, Schmitt e Hauriou. È lo Schmitt così impegnato nella salvaguardia della forma politica, da veder ridotta I'abissalità incontrollabile che lo abita. Si tratta della lettura che più esplicitamente cerca di ridurre il ruolo del decisionismo all'interno della sua riflessione giuridica e quindi anche di ridurre il ruolo di una totale assenza di fondamento5. Siamo di fronte a tre modi molto diversi - anche se i primi due sono tra loro più vicini - di intendere il fondamento all'interno della riflessione schmittiana. Eppure, per quanto siano tre possibili interpretazioni di Schmitt, sono anche tre modi di rispondere a un'unica domanda: come si genera la forma nel suo pensiero filosofico-politico? Con forma bisogna qui intendere un principio di ordine che tiene a freno dei frammenti disgregati dando loro significato e impedendo al caos di emergere. È qualcosa che, a partire dal 1942, Schmitt 4 Tra i molti che leggono Schmitt a partire dalla teologia politica, si veda ad esempio. Fclix Grossheutschi, Cari Schmitt u,uJ die Lehre vom Katecho11, Duncker&Humblot, Bcrlin 1996; Carlo Galli, Ge11ealogia della politica, il Mulino, Bologna 1996; Jcan François Kervégan, Que {aire de Cari Scbmitt?, Gallimard, Paris 2.011. Marchart è debitore soprattutto della precoce lettura italiana delramico-nemico. Cfr. Giuseppe Duso (a cura di), La politica oltre lo Stato, Arsenale Cooperativa Editrice, Venezia 1981. s Si tratta di uno Schmitt rivalutato attualmente nel dibattito italiano. Or. Mariano Croce, Andrea Salvatore, L "indecisionista, Quodlibct, Macerata 2.02.1. Ma soprattutto Mariano Croce, Andrea Salvatore, Che cos'è lo stato di eccezione, Nottetempo, Milano 2.02.2..

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chiamerà «katechon» ma che risulta presente anche prima nella sua opera. È probabilmente questo quanto lo stesso giurista intende retrodatando, in dialogo con Hans Blumenberg, il suo interesse per il termine paolino 6• Oltre alla forma, è però essenziale anche il termine genesi: il modo in cui lo strutturarsi della forma può essere pensato, una questione che riguarda da vicino il problema del fondamento. Le tre differenti interpretazioni della relazione Schmitt-fondamento possono permettere allora di guardare all'opposizione fondamentale che struttura tutta la riflessione schmittiana: forma o amorfo, ordine o caos, katechon o apocalittica. Una contrapposizione che prenderà moltissimi nomi nel corso della sua elaborazione teorica, ma che resterà sempre invariata. Tutte le interpretazioni, infatti, concordano sul fatto che il problema della forma sia al centro di ogni preoccupazione filosofico-politica di Schmitt. L'esigenza della forma e la paura del caos sono i due temi che accompagnano l'intera riflessione schmittiana a partire dal 1915, fin dal suo trasferimento a Monaco, dove intrattiene importanti rapporti con artisti e letterati a lui contemporanei. Si tratta di una questione che ha, se non altro, minor rilevanza nelle sue opere precedenti ma che, dopo aver concepito, non abbandonerà fino alla fine della propria esistenza. I contatti con il mondo Bohémien di Schwabing, tra il 1915 e il 1921, non vanno interpretati come un semplice segno di curiosità intellettuale. F.ssi rappresentano, piuttosto, il momento e il modo in cui Schmitt riflette sulla critica politica di una contemporaneità che gli appare priva di ogni grande valore, insieme alla speranza di pensare collettivamente a un'alternativa radicale. Se però, tutte le letture indicate guardano al problema della genesi della forma, poche lo fanno a partire da Romanticismo politico (1919 ). Schmitt scrive questo testo proprio negli anni di Monaco e vi prende in considerazione il momento storico-filosofico in cui, ai suoi occhi, è più che mai evidente la messa in crisi di ogni fondamento saldo e stabile. Schmitt vuole, per questo motivo, criticare il romanticismo e vedervi un momento genetico della propria contemporaneità politica - di Weimar - rimanendone però, come molti hanno sostenuto, implicato. Il romanticismo è ciò che Schmitt rifiuta, 6

Hans Blumcnbcrg, Cari Schmitt. Briefwechsel 197:r-1978 und weitere Materialien, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2.007 (trad. it. di M. Lcppcr, L 'e,,igma della modemità. Epistolario :r97:r-:r978, Latcr7.a, Roma-Bari 2.012, p. 76).

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ma contemporaneamente anche il rischio cui la sua stessa riflessione si espone, punto su cui mi soffermerò nella prima parte di questa ricostruzione. Tra i molti interpreti che hanno proposto di guardare al pensiero schmittiano a partire da Romanticismo politico c'è anche Gyorgy Lukacs, che rappresenta una sorta di quarta via rispetto alle posizioni descritte fin qui. Lo stesso Lukacs ha però un rapporto personale e complesso con l'interpretazione del romanticismo, su cui ritornerò nella seconda sezione di questo articolo. Sia Schmitt che Lukacs, in effetti, criticano severamente il movimento romantico e per motivi simili provano a pensare un'alternativa ad esso. È tuttavia sulla genesi di questa alternativa che divergono. La mia tesi è allora è che analizzare il rapporto tra romanticismo e politica negli scritti di Schmitt e Lukacs costituisce un modo di interrogarsi sulla relazione tra forma estetica e forma politica che segna il percorso intellettuale di entrambi gli autori. Il punto che i due critici del romanticismo condividono è infatti la convinzione che estetica e politica si appartengano intimamente. In secondo luogo, è questa intimità tra estetica e politica che consente di guardare al problema del fondamento, come emergerà in conclusione.

2.

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Lukacs, attento lettore di Romanticismo politico di Schmitt- cronologicamente vicino a Teologia politica, ma non a questa riducibile - è come se rappresentasse una sorta di quarta via per interpretarne il pensiero?. In verità, numerosi interpreti, non solo Lukacs, ritengono si debba rintracciare un rapporto stretto tra Schmitt e il romanticismo: Karl Lowith ne è un altro esempio, come anche Hugo Ball 8 • In queste letture, il rapporto Schmitt-romanticismo è in realtà una relazione di parallelismo e di affinità, oltre che di alternativa. Per 7 Non a caso viene letto più frequentemente a chi guarda Schmitt nel quadro di riferimento della teologia politica. Cfr. C. Galli, Ge11ealogia della politica cit., pp. 195-2.2.8. 8 Karl Lowith, Der okkasio,ielle Dezisio,usmus von uzrl Schmitt (1935), Mctzler, Stuttgart 1984; trad. it. A. L. Giavotto Kunkler, A. M. Pozzan, Il decisionismo occasionale di uzrl Schmitt, in Karl Lowith, Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 12.5166. Hugo Bali, Clrl Scbmitts politische Theologie, «Hochland», 2.1, voi. 2, 1924; trad. it. V. Bazzicalupo, La teologia politica di Clrl Schmitt, in Cari Schmitt, Aurora Boreale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 199 5.

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dirla in breve, è come se il romantico fosse «l'alter ego» di Schmitt, un momento di radicale autocritica9. L'aspetto più interessante, ai nostri occhi, è che quanto Schmitt affronta come problema filosofico nello studio del romanticismo, e che può sottolineare una particolare affinità tra i due, è proprio la rottura dei fondamenti. Nel romanticismo infatti, con il venir meno delle forme artistiche e letterarie del mondo greco classico, si apre l'interrogativo su quale sia la forma dei moderni. Com'è noto, Romanticismo politico è un titolo paradossale. Per Schmitt non c'è nulla di politico nel romanticismo, anzi esso si rivela impolitico proprio per aver rinnegato il potere vincolante della forma. Schmitt lo ripete più volte: «esiste tanto poco un romanticismo politico quanto poco esiste una liricità politica» o ancora «il romanticismo politico finisce là dove inizia l'attività politica reale» 10• L'obiettivo polemico di Schmitt in questo saggio è la politica liberale a lui contemporanea, che avrebbe la sua genesi nel movimento romantico 11 • È allora importante mettere in luce che la critica della Repubblica di Weimar ha origine, nel pensiero di Schmitt, m una critica dell'estetica romantica. Scrive a questo proposito: Alla lunga tutte le istituzioni e le forme ecclesiastiche e statali, tutti i concetti e le argomentazioni giuridiche [ ... ] vengono sentite come velo, facciata, inganno ed orpello, simulacra, [... ] scene artificiali dietro cui si nasconderebbe la realtà effettuale; ma è proprio qui che viene allo scoperto l'insicurezza della nostra epoca, insieme alla sua radicata sensazione di essere ingannata. Un'epoca che non riesce a trarre dai suoi principi nessuna grande forma e nessuna capacità rappresentativa, cade necessariamente in simili stati d'animo, ed è portata a considerare tutto ciò che è formale e ufficiale come una menzogna. [... ] Il romanticismo ha avanzato la pretesa di esser l'arte vera, autentica, naturale universale.[ ... ] Quale che sia la diversità dei giudizi intorno all'arte romantica, è forse possibile convenire sul fatto che essa non è per nulla rappresentativa 12•

9

Carlo Galli, Presentazione, in Cari Schmitt, Romanticismo politico, Giuffrè, Milano

1981, p. XXXI. 0 ' Cari Schmitt, Politische Roma11tik, Duncker& Humblot, Miinchen 1919 (trad. it. di C. Galli, Romanticismo politico, Giuffrè, Milano 1981, p. 2.35). 11 Schmitt lo esplicita, ma da questo punto di vista resta interessante accento che McCormick pone sulla lettura del liberalismo promossa da Schmitt cfr. John P. McCormick, CÀrl &bmitt's Critique of Liberalism, Cambridge Univcrsity Prcss, Cambridge 2.011. 11 C. Schmitt, Roma11ticismo politico cit., pp. 17-18.

r

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Il romanticismo è quindi prima di tutto per Schmitt un principio

di disordine attraverso cui costruire, in negativo, la riflessione sulla forma politica che sfocerà nel saggio di poco successivo Cattolicesimo romano e forma politica (1923). La forma allora, lungi dall'essere un'idea esclusivamente estetica, ha un significato politico e proprio per questo va salvaguardata. L'idea

di una politica del Cattolicesimo romano è strutturalmente contrapposta, all'interno dell'opera di Schmitt, alla critica del romanticismo politico. Il romanticismo politico si rivela infatti impolitico a causa di una mancata elaborazione del concetto di forma. Mentre il cattolicesimo può essere analizzato da un punto di vista politico poiché possiede una «specifica superiorità formale» 1 3. È - così intesa - proprio l'idea estetica di forma a opporre cattolicesimo e romanticismo in termini tanto radicali che non può esistere un romantico che sia anche cattolico e, in ultima analisi, portatore di un'istanza politica 1 4. Per Schmitt, «la bellezza estetica della forma» che distingue il cattolicesimo romano riunifica in sé tre tipi di forme: «la forma estetica della dimensione artistica, la forma giuridica del diritto e infine il glorioso splendore di una forma di potere storico-mondiale» 1 5. È qui evidente che la forma estetica dell'arte non coincide con la bellezza estetica della forma, ma ne è solo una declinazione possibile. In Schmitt, si possono quindi individuare due nozioni di estetica: l'estetica come filosofia dell'arte e l'estetica come morfologia che è però sempre declinata a livello politico per la sua vocazione formativa. L'estetica, potremmo dire, come morfologia politica, non teoria delle forme politiche, ma proposta per una politica delle forme 16 • La 1 3 Cari Schmitt, Romischer Katholizismus und politische Fonn, Klctt-Cotta, Stuttgart 192.3 (trad. it. di C. Galli, uzttolicesimo romano e forma politica, il Mulino, Bologna 2.010, p. 18). L'idea di far leva sul cattolicesimo per interpretare il pensiero di Schmitt in contrapposizione all'ambiente accademico tedesco è formulata da Giintcr Maschkc, La

rappresentazione cattolica. Cari Schmitts Politische Theologie mit Blick auf italienische Beitriige, «DcrStaat», 2.8, 4, 1989, pp. 557-575. •• Un romantico che diventa cattolico cessa di esser definito romantico proprio «sulla base del fatto che era cattolico», C. Schmitt, Romanticismo politico cit., p. 81. •s C. Schmitt, uzttolicesimo romano e fonna politica cit., p. 44. 16 L'analisi della forma in Schmitt va inserita nel più ampio contesto delle riflessioni sull'intimità di cattolicesimo romano cd estetica. Ad esempio, per Balthasar, non esiste forma prima dell'incarnazione di Cristo. Clr. Hans Urs von Balthasar, Herrlichkeit. Schauder Gestalt, Einsicdeln, Frciburg 1961 (trad. it. di G. Ruggicri, Gloria. U,,a Estetica Teologica, Jaca Book, Milano 2.012.).

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forma, intesa in questi termini, è uno strumento per garantire a una modernità - che sembra patire l'assenza di ogni legittimazione - un fondamento stabile. La forma di Schmitt si struttura però in negativo, come risposta a un'assenza.

3. Lukacs romantico Altrettanto complesso è il rapporto di Lukacs con il romanticismo. Prima anticapitalista romantico, per riprendere una categoria introdotta da Lowy 1 7, poi suo critico severo. La cosa più interessante è che uno dei primi scritti in cui fa esplicitamente comparsa una posizione duramente antiromantica è una recensione del 1928, dedicata al libro di Schmitt sul romanticismo. Qui Lukacs appoggia senza alcuna riserva la tesi di Schmitt riguardo all'occasionalismo e alla mancanza di contenuto politico del pensiero romantico, definendo «circoli seri» quelli in cui la moda romantica non viene assecondata. Schmitt, per Lukacs, «sottolinea giustamente il carattere borghese del Romanticismo» e va lodato soprattutto per aver colto nell'età romantica «la funzione esagerata dell'estetica» che renderebbe «impossibile ogni affermazione politica» avendo inoltre degli «effetti devastanti sull'estetica stessa». Eppure, Schmitt va anche criticato e per una questione molto interessante: per il suo metodo. È per il metodo che un «libro altrimenti intelligente e interessante fallisce completamente». Quanto Schmitt, agli occhi di Lukacs, manca di fare è esaminare più da vicino la situazione storica specifica, la stratificazione interna della borghesia nella Germania di allora, sollevare la questione di quale strato rappresentassero i romantici tedeschi, a quale essere sociale corrispondesse la struttura del loro pensiero 18 •

L'anticapitalismo romantico può anche esser letto in chiave libertaria come avvenne presso i rivoluzionari bavaresi del 1919 tra cui Landauer. Sul rapporto tra Lukacs e il romanticismo e, nello specifico, sulla categoria di anticapitalismo romantico si veda Michacl Lowy, Robcrt Sayre, Révolte et mélancolie. Le romantisme à contre-coura11t de la modernité, Payot, Paris 1992. (trad. it. di M. Botto, Rivolta e malinconia. li romanticismo co11tro la modernità, Neri Po7.za, Viccn7.a 2.017). 18 Gyorgy Lukacs, Cari Schmitt: Politische Roma11tik, in Friihschrifteti Il, Luchtcrhand, Darmstadt-Neuwied 1977 (1968), pp. 695-696 (trad. mia). 17

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Ed è esattamente quello che Lukacs farà in La distruzione della ragione (1954) che sembra essere una risposta diretta a quanto nel libro sul romanticismo di Schmitt manca, ma anche a quanto vi era di corretto. Con la differenza che lo Schmitt brillante e intelligente, critico del romanticismo, viene pienamente ricondotto tra i romantici attraverso una serrata accusa di irrazionalismo. Eppure, anche questa volta, Lukacs per presentare Schmitt parte proprio da Romanticismo politico. Prima di vedere in Schmitt un giurista ne fa un sociologo e filosofo del diritto capace di opporsi ali' «esaltazione di moda» dei romantici 1 9. La filosofia di Schmitt va, per Lukacs, letta insieme alla sociologia di Hans Freyer da cui, ricordiamolo, Schmitt deriva la propria teoria del katechon 20 • In La distruzione della ragione Schmitt e i romantici si assomigliano: sono entrambi portatori dell'arma dell'irrazionalismo che condurrà a Hitler21 • Eppure, potremmo aggiungere, c'è anche qualcosa che accomuna Lukacs a Schmitt: l'idea che i mali politici del presente siano da rintracciare nell'estetica romantica - per Schmitt Weimar, per Lukacs Hitler. Una disapprovazione dell'età romantica è ad ogni modo già presente anche prima, anche se si da in termini meno radicali, come inattualità della forma romantica per eccellenza. Un'idea rintracciabile nel saggio dedicato a Novalis dell'Anima e le forme, dove la critica 19 Gyorgy Lukacs, Die Zerstanmg der Vernunft, Aufbau Vcrlag, Bcrlin 1954 {trad. it. di E. Amaud, La distruziotie della ragione, Mimesis, Milano 2.011, p. 662.). 20 Cfr. Hans Frcycr, Weltgeschichte F.uropas 2, Dicterich, Wiesbaden 1948. In ambito tedesco la concezione del katechon di Frcyer, appare originale e sconosciuta a Schmitt. Al contrario, in ambito italiano, è stato sottolineato come Schmitt riprenda l'idea di creatività propria della concezione del katechon elaborata da Frcyer. Cfr. Felix Gro8heutschi, Cari Schmitt und die Lehre vom Katechon cit. Massimo Maraviglia, La penultima guerra. Il "katéchon" nella dottrina dell'ordine politico di Glrl Schmitt, LED, Milano 2.006, p. 2.57. 21 Nell'irrazionalismo filosofico Lukacs vede, prima di tutto, un rifiuto della dialettica: «l'imbattersi in questi limiti può diventare per il pensiero umano il punto di partenza di un ulteriore sviluppo del pensiero stesso, cioè della dialettica, se si vede in essi un problema da risolvere, e, come Hegel dice molto a proposito, "un cominciamento e un barlume della razionalità,,, vale a dire di una più alta conoscenza. L'irrazionalismo invece [... ] si ferma proprio a questo punto, rende assoluto il problema, irrigidisce i limiti della conosccn7.a intellettiva facendone i limiti della conoscenza in genere, anzi falsa il problema, reso così insolubile, in una risposta "sovrarazionale,,. Equiparare intelletto e conoscenza, i limiti dell'intelletto coi limiti della conosccn7.a in generale, far intervenire la "sovrarazionalità,, (dell'intuizione, ccc.), dove è possibile e necessario procedere oltre una conosccn7.a razionale: ceco le caratteristiche più generali dell'irrazionalismo filosofico». G. Lukacs, La distruzione della ragione cit., pp. 93-94.

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non riguarda tanto il progetto romantico, ma la capacità del romanticismo di realizzarlo. Vale a dire, l'incapacità romantica di distinguere tra finzione e realtà è un problema prima di tutto politico che non fa altro che disperdere le singole soggettività 22• Ma, soprattutto, Teoria del romanzo non è soltanto una sintesi di quanto la tradizione romantico-hegeliana ha trasmesso sul romanzo, quanto piuttosto la teorizzazione della fine del romanzo come genere letterario. Per Lukacs, un'epoca - quella romantica caratterizzata dalla forma romanzo - è tramontata. La questione allora è cosa possa agire ancora come principio di legittimazione di un'età completamente nuova e la risposta è l'epica, una risposta estetica. Nella conclusione di Teoria del Romanzo si profila infatti un'alternativa all'arte borghese e solipsistica del romanticismo: Dostoevskij. È infatti a questo periodo (1914-1915) che risalgono gli appunti di Lukacs per un libro che gli avrebbe dovuto dedicare, e rispetto a cui Teoria del Romanzo avrebbe dovuto essere solo un 'introduzione. Lukacs sceglierà di non scrivere il libro su Dostoevskij: egli cambia idea sull'autore russo e lo riconduce a quel romanticismo rispetto a cui aveva brevemente rappresentato un'alternativa. Al di là del giudizio su Dostoevskij - che non è il tema centrale di questa ricostruzione - si tratta di appunti molto interessanti, perché emerge in essi un'idea che permarrà nel pensiero di Lukacs: l'idea che estetica e politica si appartengano intimamente. Dostoevskij non ha scritto romanzi. Questa è la tesi di Lukacs e anche il motivo per cui rappresenta una radicale alternativa alla tradizione romantica. In effetti, le parole che chiudono lo studio sul romanzo possono far pensare a come si sarebbe potuto aprire quel libro su Dostoevskij mai concluso: Dostoevskij non ha scritto alcun romanzo, e l'aspirazione creativa che nelle sue opere si fa visibile, non ha a che fare nulla, né in senso affermativo né in senso negativo, col romanticismo europeo del XIX secolo e con le molteplici, 12. «Il terreno sotto i loro piedi scomparve, le loro salde e monumentali costruzioni si trasformarono a poco a poco in Castelli in aria, per dissolversi poi come nebbia al sole. Si dissolse come nebbia anche il sogno di procedere uniti e già pochi anni dopo, uno non capiva più il linguaggio dell'altro; così si dissolse pure il sogno più grande, quello di una cultura futura». Il che rende i romantici «dei convertiti bigotti», Gyorgy Lukacs, Die Seele und die Fonnen, Egon Fleischcl, Berlin I 9 I I (trad. it. di S. Bologna, L'anima e le {onne, SE, Milano 2002., pp. 8 5-86).

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del pari romantiche, reazioni a esso. Che egli sia già l'Omero ovvero il Dante di questo mondo, oppure colui il quale semplicemente fornisce i canti che poeti più tardi comporranno a grande unità: ecco una cosa che soltanto l'analisi delle sue opere potrà rivelare2 3.

Dostoevskij, similmente a Omero e Dante, non ha scritto romanzi. Lukacs ha qui in mente l'idea che Dostoevskij possa portare avanti una rinascita dell'epos. Ai suoi occhi, il romanzo altro non è che la forma artistica esemplare dell'età borghese, intesa come un'epoca in cui il senso ha abbandonato il mondo. Persa per sempre la totalità degli antichi greci - la consonanza di arte e vita - non rimane che il romanzo come totalità ricreata, costruita ad arte, consapevole della propria finzione e, proprio per questo, costretta a denunciarsi come tale. Essa non può in alcun modo redimere l'insensatezza del mondo, non può far rivivere una totalità organica. Il romanzo è intrinsecamente nostalgico nel suo trattare di un «paradiso per sempre perduto, che fu cercato ma non ritrovato» 2 4. La cosa più importante è che sia una nuova civiltà il presupposto per il superamento del romanzo: una nuova polis. L'intenzione di Lukacs non è tanto resuscitare l'antica Grecia o il mondo cristiano medioevale, ma creare una nuova comunità che possa esprimersi artisticamente mediante una forma rinnovata di epos. La forma estetico-politica si crea così in Lukacs a partire da una tradizione autenticamente altra. Dostoevskij non ha a che fare nulla, né in senso negativo né in senso affermativo, con il romanzo. Quanto Lukacs stesso afferma di vedere in Dostoevskij, capace di esercitare su di lui un fascino simile, è quella che chiama «l'idea Russa» 2.5. Dostoevskij rappresenta, in questi anni, un'alternativa all'Occidente. Si potrebbe quasi aggiungere che con la fine del romanzo, è l'Occidente stesso a morire.

23 Gyorgy Lukacs, Die Theorie des Romans, Cassirer, Bcrlin 192.0 (trad. it. di F. Saba Sardi, Teoria del Romanzo, Nuova Pratiche Editrice, Parma 1994, p. 186). 2..4 lvi, p. 112.. 2.s G. Lukacs, Dostojewski. Notiten und Entwiirfe, Akadémiai Kiad6, Budapest 1985 (trad. it. di M. Cometa, Dostoevskij, SE, Milano 2.012., p. 10).

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4. Conclusione Lukacs legge Schmitt a partire da Romanticismo politico, mentre anch'egli costruisce una propria interpretazione del romanticismo che risulta differente, ma altrettanto inesatta. Quanti e quali romanticismi politici esistano è una domanda che riguarda da vicino la questione del fondamento. Non soltanto perché il movimento romantico autenticamente vive la crisi dei fondamenti, ma soprattutto perché lo studio del romanticismo diviene nel Novecento un modo di interrogarsi sul fondamento. In questo contesto, bisognerebbe nominare ancora almeno due romanticismi politici di segno opposto: quello di Walter Benjamin e di Alfred Baeumler26• Ad ogni modo, il problema che Lukacs coglie, riconducendo Schmitt tra le fila romantiche, è il modo in cui, in assenza di un fondamento stabile, si genera la forma estetico-politica. Lukacs comprende molto bene che esiste una forma pienamente romantica e questo lo avvicina alla lettura del romanticismo di Benjamin, distanziandolo contemporaneamente da quella promossa da Schmitt. Come abbiamo sottolineato, la categoria di occasionalismo di cui Schmitt si serve per criticare l'impoliticità dei romantici, sottende la denuncia di un'incapacità a creare una forma epocale. Benjamin è, al contrario, tra quegli interpreti che non si concentrano sul soggettivismo nell'interpretazione dcli' età romantica vedendovi, invece, un movimento epocale il cui centro sarebbe una specifica teoria dei generi letterari e, soprattutto, del romanzo considerato come un tentativo di mettere in forma un'epoca storica. Anche per Lukacs, allora, il romanzo è la forma romantica per eccellenza. Proprio per questo però va criticato. Il romanzo è in questa prospettiva, massima espressione dell'individualismo borghese ed inoltre appartiene a un'epoca passata; è già stato superato. F.sistono allora anche dei punti in comune tra Lukacs e Schmitt: l'inadeguatezza e l'inattualità del romanticismo insieme

16

Cfr. Walter Bcnjamin, Der Begriff der Kwistkritik i1' der deutsche,1 Romantik, Francke, Bcrn 192.0 (trad. it. di N. P. Cangini, Il concetto di critica d'arte 1'el romanticismo tedesco, Mimcsis, Milano 2.017). Ma si veda anche Id., Romanticismo (1913); Due poesie di Friedrich Holderli11 (1915); Nota su Gundolf: Goethe (1917); Le affinità elettive di Goethe (192.2.) in Id., Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1972.-1989 (trad. it. di Opere complete I. Scritti z906-z922., Einaudi, Torino 2008). A. Bacumlcr, J.J. Bachofcn., F. Crcuzcr, Dal Simbolo Al Mito, Spirali Edizioni, Milano 1983.

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ali'esigenza di creare una forma nuova. Forse entrambi ignorano che gli stessi romantici sembrano consapevoli del fatto che il romanzo sia l'ultima forma di un'epoca destinata a concludersi. È, però, sul modo in cui la nuova forma di ordine estetico-politico deve essere creata che i due divergono. Ed è qui che la questione del fondamento diviene centrale27. Lukacs vede lucidamente il problema della costituzione della forma estetico-politica nel pensiero schmittiano. Per il filosofo ungherese, il problema è non solo che al posto del fondamento vi sia un abisso - punto che condivide con le letture teologico-politiche di Schmitt - ma che il posto del fondamento non scompaia, ma anzi permanga, e la questione diviene, piuttosto, quale contenuto debba riempire quello spazio lasciato vuoto. L'irrazionalismo di Schmitt, allora, non è per Lukacs assenza di fondamento - ed è qui che si distanzia dalle letture teologico-politiche - quanto piuttosto il contenuto sbagliato con cui è stato riempito lo spazio lasciato vuoto del fondamento. Da questo punto di vista, sono particolarmente interessanti gli appunti su Dostoevskij: essi suggeriscono un'alternativa di contenuto. All'irrazionalismo, fino agli anni Venti del Novecento, Lukacs contrappone, per utilizzare una categoria romantica, una mitologia della ragione. Questo è il punto: i due intendono in maniera opposta il modo in cui avviene la genesi della forma. La forma di Schmitt è sempre conservatrice poiché è sempre esterno l'elemento che ne permette la genesi (Weimar prima, la rivoluzione russa poi). Si tratta allora autenticamente di una forma reazionaria, poiché la sua genesi è sempre una reazione a qualcosa di esterno. Al contrario, nella teoria di Lukacs, dopo la fine di ogni fondamento stabile, il darsi della forma è legato alla nascita di una nuova comunità, di una nuova polis. Non è una reazione al romanzo che permette una nuova forma estetico-politica, quanto il richiamo a una tradizione radicalmente altra che possa riempire diversamente lo spazio lasciato vuoto dal fondamento. Questo rende possibile una delle critiche più radicali del pensiero politico schmittiano: non solo le categorie su cui si basa sono prive di fondamento ma, proprio per la loro genesi polemica, si rivelano necessariamente vuote. 17

Diversi sono anche i termini che i due autori prediligono. In CÀttolicesimo Romano, Schmitt usa il tedesco Fonn, mentre una delle parole chiave di Teoria del Romanzo è Gestalt che, con i suoi derivati, ricorre quasi in ogni pagina del testo. Il termine Gestalt ha indubbiamente un aspetto dinamico e "sensibile". t stato sottolineato che la diffcren:za tra Gestalt e Fonn è la stessa che intercorre in Aristotele tra physis e ousia. Cfr. Giuseppe Raciti, Il giovane Lukac.s e il problema della "Zivilisation ", in G. Lukacs, Teoria del romanzo cit., p. 153.

Plasticità ed epigenesi. Note su Catherine Malabou Matteo Pagan

La riflessione di Catherine Malabou, sviluppatasi nel corso degli ultimi vent'anni, è indubbiamente al centro del dibattito filosofico contemporaneo: le sue opere, tradotte in diverse lingue, sono ormai oggetto di numerosi studi1 • Grazie ad alcune recenti traduzioni 2 , l'interesse per il suo pensiero si è diffuso anche in Italia, dove fino a poco tempo fa era relativamente sconosciuto. Una delle ragioni di questo mancato riconoscimento è probabilmente la notevole varietà tematica del suo lavoro. In effetti, il percorso teorico di Malabou si è sviluppato lungo assi di ricerca anche molto diversi tra loro, che spesso eccedono il campo disciplinare della filosofia: la sua produzione contiene testi dedicati ad autori classici della tradizione filosofica (in particolare Hegel, Heidegger, Freud e Kant) così come ai recenti sviluppi della biologia, delle neuroscienze e dell'intelligenza artificiale, nonché saggi di filosofia femminista 3 • Non è tuttavia difficile osservare un filo rosso che lega queste ricerche, a prima vista radicalmente 1 Cfr. Brenna Bhandar, Jonathan Goldbcrg-Hiller (a cura di), Plastic Materialities: Politics, Legality, a11d Metamorphosis i11 the Work ofUltberine Malabou, Duke University Prcss, Durham-London 2.015. Thomas Wormald, lsabcll Dahms (a cura di), Thitiking Catherine Malabou. Passionale Detacbments, Rowman & Littleficld, London 2.018. Dan Swain, Petr Urban, Catherine Malabou, Pctr Kouba (a cura di), Unchaining Solidarity. On Mutuai Aid and Anarchism with GJtherine Malabou, Rowman & Littleficld, Lanham 2.02.2.. 2 Catherine Malabou, 011tologia dell'accidente (2009), trad. it. di V. Maggiore, Mcltemi, Milano 2.019; Id., Divenire forma (2.014), trad. it. di A. F. J. Macicl, Mcltemi, Milano 2.02.0; Id., Metamorfosi dell'intelligenza (2017), trad. it. di A. Bondì, Mcltemi, Milano 2.02.1; Id., Il piacere rimosso (2020), trad. it. di L. Valle, Mimesis, Milano-Udine 2.022. 3 Catherine Malabou, L'avenir de Hegel. Plasticité, temporalité, dialectique, Vrin, Paris 1996; Id., Le Cha11ge Heidegger, du fa11tastique eti philosophie, aditions Léo Schccr, Paris 2.004; Id., Les Nouveaux Blessés: de Freud a la neurologie: petiSer les traumatismes co11temporains, Bayard, Paris 2007; Id., Cha11ger de différe11ce, le fémi11in et la questio11 philosophique, Galiléc, Paris 2.009.

1 34

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eterogenee: la riflessione di Malabou è infatti attraversata da due categorie fondamentali (e intrecciate tra loro): la plasticità e l'epigenesi. È altrettanto facile notare come la produttività politica di queste due categorie sia sempre in qualche modo accennata, ma mai esplicitata completamente. Questa lacuna, se così la si vuole considerare, è stata in parte colmata dal recente Au voleur! Anarcbisme et pbilosopbie4, in cui Malabou analizza il rapporto allo stesso tempo di ripresa e di rimozione dell'anarchismo da parte di alcuni filosofi contemporanei, ovvero Schiirmann, Levinas, Derrida, Foucault, Agamben e Rancière. Il risultato di questa analisi critica è un pensiero del «non governabile» che considera «l'ordine anarchico» 5 come la traduzione politica della plasticità, come la più plastica delle forme politiche. Questo sviluppo politico del pensiero di Malabou - come vedremo - è in linea con alcune delle sue intuizioni, ma non è tuttavia l'unico possibile. Scopo di questo articolo è infatti esaminare una traduzione politica della plasticità (e dell'epigenesi) che è nostro avviso alternativa e complementare a quella da lei recentemente proposta. Non si intende certamente qui mettere in discussione la coerenza dell'elaborazione filosofico-politica di Malabou, quanto semmai mostrare come le due categorie al centro della sua riflessione, la plasticità e l'epigenesi appunto, possano apportare un contributo importante anche alla ricerca, ormai pluriennale, sul concetto di istituzioné. In altre parole, l'obiettivo è valutare la potenzialità di queste due categorie di matrice biologica per una prospettiva filosofico-politica che si propone di articolare la forza e la forma, la rottura e la durata, l'evento e la fondazione. A tal fine, si farà riferimento solo ad una parte limitata dell'opera di Malabou, impossibile da considerare nella sua totalità e varietà in questa sede. L'intervento sarà suddiviso in tre parti: le prime due saranno dedicate rispettivamente alla plasticità e all'epigenesi nell'opera di Malabou, mentre nella terza verranno delineate alcune conclusioni generali sulle tematiche affrontate. Si cer-

Cathcrinc Malabou, Au voleurl Anarchisme et philosophie, PUF, Paris 2.02.2.. p. 2.03. Dove non diversamente specificato, le traduzioni sono da intendersi dcli' autore del presente saggio. 6 Cfr. Roberto Esposito, Pensiero lstituet1te. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2.02.0. Mattia Di Picrro, Francesco Marchesi, Elia Zaru (a cura di), Istituzione. Filosofia, politica, storia, Almanacco di Filosofia e Politica, voi. II, Quodlibct, Macerata 2.02.0. 4

5 lvi,

PLASTICITÀ ED EPIGENESI

135

cherà in particolare di specificare la relazione tra biologia e politica che questo lavoro presuppone e allo stesso tempo intende affermare.

I.

Forma plastica

Punto di partenza della ricerca di Malabou è la sua tesi di dottorato, scritta sotto la supervisione di Derrida e intitolata L 'aven,ir de Hegel. Plasticité, temporalité, dialectique (1996). L'analisi del corpus hegeliano consente alla filosofa francese di scoprire e sviluppare il concetto che caratterizzerà tutta la sua riflessione successiva, ovvero quello di plasticità. Questo termine ha secondo lei tre significati fondamentali. La plasticità può descrivere la capacità di ricevere una forma (per esempio l'argilla è plastica in quanto può essere forgiata), la capacità di dare una forma (come nel caso delle arti plastiche), ma anche l'annientamento di ogni forma (testimoniata dall'esplosivo al plastico). Per Malabou la plasticità contiene quindi in sé due potenze, opposte e inseparabili: Potenza integrativa e informatrice, potenza originariamente sintetica, la plasticità comporta anche una potenza opposta di dissociazione e di rottura. Queste due potenze caratterizzano perfettamente la progressione del testo hegcliano: la riunione e la fissione, entrambe ali' opera nella formazione stessa del Sistema. Queste due potenze sono inseparabili e permettono l'articolazione di un pensiero della sintesi temporale e di un pensiero dell'irruzione evenemenziale7.

La plasticità non è quindi un nuovo modo di disarticolare o decostruire la dialettica, ma è al contrario ciò che le garantisce un avvenire, rivelando che la sintesi hegeliana includeva già quella concezione dcli' «evento» che la filosofia del XX secolo le ha opposto. Contro l'idea per cui l'assenza di avvenire nella filosofia di Hegel implica I'assema di avvenire della filosofia di Hegel, Malabou afferma che la plasticità designa l'avvenire inteso «come possibilità di una trasformazione strutturale: trasformazione della struttura nella struttura, mutazione nella stessa forma» 8• In altre parole, il Sapere Assoluto coniuga saturazione e apertura e, in questo modo, anticipa le critiche di Heidegger e di Der7 8

C. Malabou, L"avetlir de Hegel cit., p. 2.47. Jvi, p. 2.55.

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rida, che cercheranno cli opporre al tempo dialettico una temporalità orientata all'imprevedibile, cioè che, da un punto di vista ontologico, cercheranno cli pensare la differenza contro la dialettica. Tuttavia, il movimento dialettico non si configura più come una grande macchina assimilatrice nel momento in cui si prende in considerazione la sua plasticità, ovvero quell' «energia clifferenziale»9 che garantisce la costante rinascita del negativo, il suo rinnovamento. Per Malabou la sintesi dialettica non è quindi mai definitiva, terminale, ma risponde semmai a una logica della metamorfosi. Portando alla luce il concetto di plasticità, Malabou trova la risorsa per riprendere la dialettica dopo Heidegger e Derrida e formulare così una risposta postuma di Hegel alla sua decostruzione. A un primo sguardo questa tesi non sembra particolarmente originale: anche Remo Bodei, ad esempio, ha invitato a più riprese a non considerare la totalità hegeliana come una realtà immobile che finirebbe per negare lo stesso movimento dialettico che la costituisce 10• Per quanto essa resti, anche una volta raggiunto lo stadio dell'assoluto, un sistema dinamico, è poi perlomeno contestabile l'idea secondo la quale Hegel riesca a - o anche solo voglia - uscire da una logica del medesimo. Malabou ne è ben cosciente e per questo motivo la sua filosofia della plasticità non deve essere intesa come un semplice (e ingenuo) ritorno a Hegel. Una lettura meno superficiale de L'avenir de Hegel permette di osservare infatti che la dialettica della plasticità non mira ad assimilare semplicemente la decostruzione al Sapere Assoluto, ma piuttosto a prolungarla, offrendo lo strumento teorico per pensare la forma delle singolarità che la decostruzione ha rivelato. In un testo intitolato La plasticité au soir de l'écriture (2004) Malabou scrive infatti che «la plasticità è la legge sistemica del reale decostruito» 11 • In questo senso, almeno nelle intenzioni dell'autrice, la filosofia della plasticità non è tanto un abbandono della decostruzione quanto un tentativo di completarla: essa fornisce i mezzi per dare una forma a ciò che la decostruzione rivela, per dare una forma alla traccia. La 9

Ivi, p. 34. Remo Bodci, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel (1975), il Mulino, Bologna 2014; Id. Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno (1987), il Mulino, Bologna 2016. 11 Cathcrinc Malabou, La plasticité au soir de l'écriture, &litions Léo Schccr, Paris 2004, p. 107.

° Cfr.

1

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forma plastica è dunque il nome della forma totalmente decostruita, una forma irriducibile alla presenza perché sempre presa nella sua trasformazione strutturale. Questa ripresa del concetto di forma, bersaglio costante della filosofia francese nella seconda metà del secolo scorso, è una colonna portante del pensiero di Malabou, che da questo punto di vista si oppone tanto a Derrida quanto a Deleuze. Se il primo sostituisce infatti la traccia alla forma, considerando quest'ultima come un concetto metafisico inevitabilmente legato alla presenza, incapace di fare spazio alla differenza, il secondo afferma il primato di un divenire che qualsiasi forma comunque concepita non farebbe che arrestare: «finché c'è forma c'è riterritorializzazione» 12 • Nel primo capitolo di Ontologia dell'occidente (2009), Malabou si sofferma sulla lettura di Deleuze e Guattari de La Metamorfosi di Kafka. I due autori definiscono la metamorfosi di Gregor un fallimento in quanto si tratta pur sempre di un divenire-forma: «il divenire-animale non è divenire un animale: il primo è una disposizione, il secondo è una forma che non può che fermare il divenire» 1 3. Secondo Malabou, il problema del concetto di metamorfosi tradizionalmente inteso non è tanto il rapporto alla forma, ma il fatto che quest'ultima sia sempre pensata indipendentemente dalla sostanza dell'essere oggetto di trasformazione. «Per la metafisica la forma può sempre cambiare, ma la natura dell'essere permane. È tale concezione ad essere discutibile, non il concetto di forma in sé stesso, del quale è assurdo pretendere di poter fare a meno. Si dovrebbe pensare una mutazione che coinvolga tanto la forma quanto l'essere, una forma nuova che sia letteralmente forma d'essere» 1 4. La forma non è quindi né assimilabile alla presenza (in quanto sempre oltre sé stessa) né dissolta nel flusso del divenire, ma designa semmai una totalità organizzata dinamica. Una vera e propria svolta nel pensiero di Malabou è rappresentata dal testo intitolato Cosa fare del nostro cervello? (2004), che segna

Gillcs Dclcuzc, Fclix Guattari, Kafka. Pour ut1e littérature mineure, Lcs :&litions dc Minuit, Paris 1975 (trad. it. di A. Serra, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibct, Macerata 2.010, p. 13). 1 J Gillcs Dclcuzc, Fclix Guattari, Mille Plateaux. uipitalisme et schit.ophrénie, Lcs :&litions dc Minuit, Paris 1980 (trad. it. di G. Passcronc, Mille piani. uipitalismo e schizofrenia, Coopcr 8c Castclvccchi, Roma 2.003, p. 341). •• C. Malabou, Ontologia dell'occide11te cit., p. 45. 12

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per così dire il passaggio da Hegel alle neuroscienze 1 5. L'interesse della filosofa francese per la neurobiologia è dato dal fatto che le recenti scoperte sulla plasticità cerebrale confermano la sua tesi sulla forma plastica: «il dominio neurobiologico è senza dubbio quello in cui è più evidente la sostituzione della plasticità alla scrittura», perché rivela che nel cervello «le tracce prendono forma» 16 • Il cervello non è una forma rigida, ma un organo plastico, ovvero un sistema dinamico, composto da milioni di connessioni e aperto all'influenza dell'ambiente. Malabou è ben cosciente che la plasticità cerebrale viene oggi catturata dal «nuovo spirito del capitalismo» 1 7, ma questo avviene perché si tende costantemente a sostituirla con quello che è il suo avatar ideologico, ovvero la flessibilità. Vi sono però due differenze irriducibili tra questi concetti. In primo luogo, il richiamo alla flessibilità si rifà soltanto a una delle tre accezioni della plasticità: quella riguardante la ricezione di forma. «&sere flessibile significa ricevere una forma o un'impronta, essere in grado di piegarsi, prendere una piega, non darla. Essere docile, non esplosivo. In effetti alla flessibilità manca il significato di dare una forma, la capacità di creare, di inventare o anche di cancellare una impronta, l'abilità di fornire uno stile» 18• In secondo luogo, se con flessibilità si tende a designare una malleabilità infinita, la plasticità indica una certa souplesse unita però a una non meno importante resistenza alla deformazione. Già ne L'avvenire di Hegel Malabou specifica che l'aggettivo "plastico" designa non solo il mutamento della forma, ma anche «ciò che conserva la forma [... ], ciò che cede alla forma resistendo alla deformazione» 1 9. La forma plastica presenta quindi una certa durata e una minima stabilità, senza per questo essere qualcosa di immobile: flusso e stasi non si oppongono, ma si co-determinano. Cosa fare del nostro cervello? è un'opera cruciale nel percorso di Malabou anche per una seconda ragione. Nella prefazione alla 1 S Cfr. Cathcrinc Malabou, La Chambre du milieu. De Hegel aux neuroscie,u:e.s, Hcrmann, Paris 2009. 16 C. Malabou, Cha11ger de différe,u:e cit., pp. 70, 11 1. 17 Cfr. Luc Boltanski, Evc Chiapcllo, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999 (trad. it. di M. Schianchi, I/ nuovo spirito del capitalismo, Mimcsis, Milano-Udine

2014). 18 Cathcrinc Malabou, Que (aire de notre cerveau?, Bayard, Paris 2004 (trad. it. di E. Lattavo, Cosa fare del nostro cervello?, Armando, Roma 2007, p. 21). 19 C. Malabou, L 'ave,lir de Hegel cit., p. 2.1.

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1 39

seconda edizione del testo (20n) l'autrice afferma che, in quelle pagine, stava cominciando, pur senza saperlo, ad elaborare una teoria che potesse finalmente abbandonare l'opposizione tra biologico e simbolico, materiale e immateriale. In effetti, se la plasticità è inerente al biologico e apre quindi nella stessa vita organica un margine di indeterminazione, allora è possibile sostenere che la vita materiale non dipende nella sua dinamica da un'economia simbolica trascendentale e che, al contrario, la vita biologica produce la sua stessa simbolizzazione. «Questa dimensione simbolico-biologica è la tendenza trasformativa interna alla materialità, la tendenza autotrasformativa della vita. È la vita che si trasforma senza separarsi da sé stessa. Vorrei concepire la vita come dotata di modalità proprie di autotrasformazione, auto-organizzazione e auto-direzionalità» 20• Suo obiettivo non è quindi negare la dimensione simbolica della vita umana, ma dimostrare che se si ammette che la storia e la biologia formano una coppia dialettica all'interno della vita biologica stessa, non si ha più bisogno di considerare il biologico da un punto di vista di sorvolo, ma al contrario, si può scoprire il significato della materia nella materia stessa. Questo ha naturalmente delle conseguenze da un punto di vista politico: contestare la priorità del simbolico, inteso come una dimensione rigorosamente trascendente, significa infatti affrontare la questione della legittimità politica di una tale priorità in generale. A questo proposito, Malabou afferma: «per me, la politica non risiede, o non risiede più, nel modo in cui le forze in gioco producono effetti di valore, [... ] cioè trascendono la loro materialità in direzione di una domanda di interpretazione o di configurazione strutturale» 21 • Opinione di chi scrive è che già in questa prima elaborazione di un "nuovo materialismo", un approccio al senso fondato sull'impossibilità di trasgredire la materialità biologica, sia possibile ravvisare le ragioni del recente interesse di Malabou per l' anarchismo. Non è un caso che Au voleur! Anarchisme et philosophie si concluda con la ripetizione di una formula che attraversa tutto il testo: «non c'è più nulla da aspettarsi dall'alto» 22 • Se quello di Malabou è evidentemente un pensiero dell'immanenza, nel senso che z.o C. Malabou, « WiU Sovereignty P.ver Be Deco,,structed?», in B. Bhandar, J. Goldbcrg-Hillcr (a cura di), Plastic materialities cit., p. 45. 11 C. Malabou, Que {aire de notre cerveau? cit., p. 2.5. 11 C. Malabou, Au voleur! cit., p. 401.

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non sostiene un rapporto di trascendenza verticale tra simbolico e biologico, è altrettanto evidente che quest'immanenza non è un semplice divenire affermativo. Malabou non elimina il negativo, lo scarto: la vita biologica è un sistema plastico e, in quanto tale, presenta una trascendenza orizzontale, una trascendenza ne/l'immanenza, che porta la vita a trasformare continuamente la propria organizzazione. In altre parole, la vita è sempre al contempo esplosiva e obbligata a cristallizzarsi, almeno momentaneamente, in una forma 23 •

II.

Temporalità epigenetica

Il passaggio dalla plasticità all'epigenesi può essere inteso come una transizione dalla forma al tempo, due concetti si presentano come i fili conduttori della ricerca di Malabou. Negli anni della sua formazione filosofica è emersa in Francia, parallelamente al rifiuto del concetto di forma, una nuova visione del divenire, che solo difficilmente può essere intesa come una temporalità vera e propria. Si tratta della messianicità senza messianismo di Derrida che, secondo Malabou, resta in fondo un'attesa messianica 24 • L'attesa del totalmente altro, del puro evento, prende così il posto della temporalità: l'evento è l'impossibile, la sua struttura non consente alcuna anticipazione. Obiettivo della filosofa francese è mettere in discussione non solo la destituzione della forma, ma anche quella che ai suoi occhi è apparsa come una destituzione del tempo. Fin dall'inizio, Malabou rifiuta allora di farsi «guardiana di un pensiero dell'evento puro o di un'idolatria della sorpresa» 2 5 e si sforza di elaborare una nuova

23 Nella traduzione politica della plasticità proposta da Malabou viene a perdersi questa dimensione di costitutiva cristalliu.azione. L'accento è posto soprattutto sul divenire continuo dell'anarchismo: «essendo l'unica forma politica che, non dipendendo da alcun inizio o comando, deve sempre inventarsi, plasmarsi prima di esistere, l'anarchismo non è mai quello che è. t in questo che consiste. Questa plasticità è il senso stesso del suo essere, il senso stesso della sua domanda». C. Malabou, Au voleurl cit., pp. 388-389. Un'attenzione maggiore alla plastifìcatio11, e non solo al plasticage, potrebbe condurre a tutt'altra traduzione politica del concetto di plasticità, con e al di là di Malabou. 24 Cfr. Kjetil Horn Hogstad, Catherine Malabou, Plasticity atul education - a11 interview with (;atberine Malabou, «Educational Philosophy and Theory», 53, 10, 2.02.1, p. 1050.

25

C. Malabou, 011tologia de/l'accidente cit., p. 106.

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concezione della temporalità. Come si è già visto, è in primis la plasticità a consentire una riformulazione del tempo come unione di sintesi e rottura. «La filosofia di Hegel annuncia che l'avvenire, d'ora in poi, dipende dal modo in cui le figure già avvenute possono essere rimesse in gioco, l'insolito può nascere solo dalla prosa del conosciuto. La plasticità realizza la sua promessa di avvenire tra la plastification - o solidificazione - e le plasticage - o esplosione - del passato irrigidito» 26• Allo stesso modo, la plasticità del sistema nervoso designa la sua capacità di tollerare la modificazione e la trasformazione delle sue componenti e appare così come la capacità che possiede un sistema chiuso di accogliere, trasformandosi, fenomeni nuovi. L'interesse per il cervello conduce Malabou a considerare più da vicino il concetto di epigenesi. I recenti sviluppi della neurobiologia hanno infatti dimostrato che lo sviluppo del cervello è per la maggior parte epigenetico. Questo implica che l'innatismo gioca un ruolo minimo in questo processo: lo sviluppo sinaptico non è il mero dispiegamento del codice genetico, ma include l'attività spontanea del sistema nervoso, in interazione costante con il proprio ambiente. A questo proposito, è opportuno specificare che nel passaggio dal genotipo al fenotipo certi geni sono attivati e altri inibiti. Le operazioni di attivazione e inibizione dei geni dipendono da fattori epigenetici, cioè da fattori di cambiamento che traducono il DNA senza alterarlo. Vi è dunque dell'imprevedibile nello sviluppo epigenetico e, per questo motivo, esso viene spesso descritto come un'interpretazione. In effetti, si è paragonata la differenza fra genetica ed epigenetica a quella che passa fra un brano musicale e la sua esecuzione strumentale oppure a quella tra un libro e le sue interpretazioni da parte dei lettori27. Una volta scritto un libro, il testo sarà infatti identico in tutte le copie, ma ogni lettore potrà interpretarlo in modo leggermente diverso. Allo stesso modo, i fattori epigenetici permettono interpretazioni diverse di un modello fisso, ovvero il codice genetico. Il passaggio dal

16

C. Malabou, L'avenir de Hegel cit., p. 2.52.. Cfr. Eva Jablonka, Marion Lamb, Evolution iti Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variatioti in the History of Life, MIT Prcss, Cambridge (MA) 2.005 (trad. it. di N. Colombi, L'evoluzione in quattro dimensioni. Variazione genetica, epigenetica, simbolica e comportamentale nella storia della vita, UfET, Torino 2.007, p. 305); Thomas Januwcin, Che cos'è l'epigenetica?, disponibile online: http://epigcnomc. cu/ith,1,0.html. 17

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genotipo al fenotipo non è insomma determinato già in partenza, ma è influenzato da più fattori come, per esempio, l'ambiente in cui l'organismo si iscrive e la sua esperienza. Questi cambiamenti di matrice non-genetica sono oggetto di studio dell'epigenetica, che mette così in luce come la formazione dell'organismo vivente trascenda il determinismo e si collochi nell'entre-deux della biologia e della storia 28 , due dimensioni che diventa sempre più difficile opporre. L'epigenesi mostra infatti quel supplemento di indeterminazione nella stessa vita organica che permette la sua apertura alla trasformazione storica. Pertanto, non esiste un mero dato biologico a cui bisognerebbe in seguito attribuire un senso, imporre una forma simbolica - anche a questo riguardo non è difficile intravedere la ragione dell'interesse di Malabou per l'anarchismo. In ogni caso, è evidente come per Malabou l'epigenesi sia il "nome genetico" della plasticità: ciò che è plastico è sempre preso in un processo di trasformazione e questa trasformazione è epigenetica. Il nesso tra plasticità ed epigenesi viene completamente esplicitato nel testo Metamorfosi dell'intelligenza (2017), ma in realtà non è difficile ritrovarlo già in Divenire forma. Epigenesi e razionalità, opera pubblicata in francese nel 2014 con il titolo Avant demain e di recente tradotta in italiano. Scopo di questo libro, uno dei più rilevanti nella produzione di Malabou, è rispondere a tre critiche mosse al trascendentale kantiano dal pensiero contemporaneo. La prima, inaugurata da Hegel e sviluppata poi da Heidegger, Derrida e Foucault, mette in discussione il trascendentale in nome della sua rigidità, della sua permanenza e del suo carattere di conditio sine qua non del pensiero. La seconda critica del trascendentale può essere letta nella rivoluzione neurobiologica compiuta a cavallo degli anni '80: le recenti scoperte sul funzionamento del cervello mettono in discussione la presunta invariabilità delle leggi del pensiero. Infine, il «realismo speculativo» proposto da Quentin Meillassoux in Dopo la finitudine (2006) sembra dare il colpo di grazia al trascendentale, esponendo la sua mancanza di fondamento e invitandoci a considerare un mondo assolutamente contingente e indifferente alle nostre strutture di conoscenza. Abbandonare il trascendentale sembra quindi essere la parola d'ordine del pensiero post-critico: il domani z.8

Cfr. C. Malabou, Divenire forma cit., p.

151.

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1 43

sarà senza Kant. Secondo Malabou, prima di domani - da qui il titolo francese - è necessario per la filosofia continentale negoziare con Kant, e non contro di lui, l'abbandono del trascendentale. Anche qui, come ne L'avvenire di Hegel, non si tratta quindi di un semplice ritorno a Kant, ma semmai di formulare la risposta postuma di Kant ai suoi critici. Obiettivo di Malabou è elaborare una nuova idea di trascendentale a partire dall'epigenesi, figura che Kant stesso convoca nella Critica della ragion pura per designare la gestazione delle categorie. Infatti, al paragrafo 2 7 della prima Critica Kant parla effettivamente di un «sistema dell'epigenesi della ragion pura» 2 9 e, secondo Malabou, questo genitivo sarebbe soggettivo. Quest'espressione non sarebbe un semplice artificio retorico, ma andrebbe presa alla lettera: «L'epigenesi trascendentale è epigenesi del trascendentale stesso. Il trascendentale è soggetto a epigenesi- non a fondazione»3°. La posta in gioco è duplice: da un lato, dato che l'epigenetica studia le modificazioni di superfice (in quanto si occupa dell'individuazione fenotipica e non del programma genetico), permette di liquidare la questione del fondamento insicuro del trascendentale, mostrando che quest'ultimo non si radica in un terreno originario che manca sempre, ma al contrario si sviluppa a contatto con l'esperienza stessa. Dall'altro, l'applicazione del concetto di epigenesi al trascendentale permette di pensare l'evoluzione e la trasformazione di quest'ultimo. «Dobbiamo riconoscere una vera inventività morfologica del trascendentale» 31 . In questo modo, si assicura inoltre l'iscrizione del trascendentale nel vivente. La ragione è così biologica (in quanto legata allo stesso sviluppo organico), e sfuggente al determinismo, in quanto questo sviluppo è per la maggior parte epigenetico. Al di là di questa tesi, tanto originale e stimolante quanto discutibile, ciò che più interessa mettere in luce in questo testo è la specifica temporalità che, secondo Malabou, contraddistingue l'epigenesi. Quest'ultima rigetta infatti ogni idea di predestinazione senza per questo risolversi nell'esaltazione dell'evento puro. A partire dall'epigenesi si può allora qualificare la storia come un processo di crescita 19 Immanud Kant, Kritik der reinen Vemu11ft, in Id., Werke in sechs Biinden, Wilhdm Wcischcdd (a cura di), Insci Vcrlag, Wicsbadcn 19 56 (trad. it. di C. Esposito, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2012., B167, p. 2.89 ). 3° C. Malabou, Divenire forma cit., p. 251. 31 lvi, p. 164.

1 44

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non teleologica che trascende il paradigma evenemenziale. «A modo suo, la figura dell'epigenesi ha la stessa efficacia delle aristoteliche perle della collana. Essa è la presentazione sensibile di un,articolazione. A differenza della preformazione o della generazione equivoca, essa presuppone la coimplicazione di tutti i momenti del tempo, senza primati accordati al passato né all'improvvisa emergenza di un presente»3 2 • Si ripresenta anche per quanto riguarda il tempo la logica epigenetica dell' entre-deux, già emersa a proposito del rapporto tra biologia e storia: l'epigenesi segna il punto di incontro tra il vecchio e il nuovo, l'articolazione tra archeologia e teleologia. «L'epigenesi comporta questa doppia dimensione di regressione e progressione, poiché l'embrione si complessifica progressivamente con l'aggiunta di nuove parti che completano le parti preesistenti. Economia epigenetica ed economia ermeneutica coincidono allora, coniugando entrambe ripetizione ed esplorazione, ricapitolazione e invenzione» 33 . In definitiva, secondo Malabou il sistema kantiano coniuga una visione strutturale e una visione evolutiva della ragione; vi è al contempo una dimensione archeologica, ovvero l'anteriorità formale dell'a priori, e una dimensione teleologica, la sua modificabilità mediante rettifiche successive. Permanenza e mobilità della forma si intrecciano nel sistema dell'epigenesi della ragion pura. Anche qui, come in Hegel, sistema e libertà, forma ed evento non si oppongono ma si articolano: secondo Malabou «nella filosofia kantiana, il trascendentale è ciò che garantisce sia la stabilità che la trasformabilità del tutto», è il «conduttore tra invarianza e modificazione». Il senso del paradigma epigenetico è infatti quello di «un'invarianza morfologica mantenuta a costo di una costante rielaborazione»H.

II I.

Conclusioni

Per concludere, è innanzitutto opportuno sottolineare che l'obiettivo di questo lavoro non è certamente quello di riproporre una sociobiologia o comunque di ridurre integralmente la dimensione politica

32 33 34

lvi, p. 217. lvi, p. 252. lvi, pp. 286-2.87.

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alla biologia. D'altra parte, sulla scia di Malabou35, si rifiuta di considerare la biologia come ha fatto buona parte della filosofia nella seconda metà del XX secolo, ovvero sempre solo come uno strumento del potere e mai anche come un possibile mezzo per l'emancipazione. Da un punto di vista storico, il riferimento alle teorie biologiche è infatti servito come mezzo per giustificare posizioni politiche radicalmente diverse che, lungi dall'essere sempre allineate nei loro interessi con la conservazione dell'ordine stabilito, hanno a volte rivendicato una dimensione decisamente critica e trasformatrice - ne sono due esempi l'anarchismo di Kropotkin e il socialismo democratico di Dewey. Naturalmente, l'aspra critica di ogni intrusione del lessico biologico nel campo politico è storicamente motivata dall'uso da parte del nazismo di una teoria biologica per giustificare la propria politica di sterminio. Tuttavia, la tradizionale metafora che paragona il corpo politico a quello umano e, oggi, la pervasività di un certo lessico evoluzionistico nel discorso neoliberale3 6 mettono in discussione la frontiera ermetica tra politica e biologia. A questo proposito, ci si può chiedere legittimamente se la semplice eliminazione del biologico dal campo della politica sia una risposta teorica sufficiente e una strategia politicamente produttiva. Non è un caso che di recente si assista a un cambio di rotta: non solo la riflessione di Malabou, ma anche gli ultimi libri di Haraway37 e di Esposito3 8 dimostrano che vi è un potenziale politico della ricerca biologica contemporanea. In fondo, se «l'istituzione deve essere intesa essa stessa come organismo vivente» 39 che perdura solo se in grado di modificarsi, perché non sostenere (con tutte le precauzioni necessarie per questo tipo di operazione) che due proprietà fondamentali dell'organismo vivente come la plasticità e l'epigenesi possono risultare utili per qualificare anche l'istituzione più propriamente politica? In definitiva, non si cerca qui di negare la dimensione simbolica della vita umana o di eliminare lo scarto tra biologia e politi3S 36

Paris

Cfr. C. Malabou, Will Sovereig11ty Ever Be Deco,istructed? cit., pp. 38-40. Cfr. Barbara Sticglcr, Il {aut s•adapter. Sur u11 nouvel impératif politique, Gallimard,

2.019.

37

Donna Haraway, Staying with the Trouble - Maki11g Kin in the Chthulucene, Dukc Univcrsity Prcss, Durham 2.016 (trad. it. di C. Durastanti e C. Ciccioni, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2.019). 38 Roberto Esposito, lmmu,utà comune. Biopolitica aWepoca della pandemia, Einaudi, Torino 2.02.2.. 39 Jvi, p. I I I .

MATTEO PAGAN

ca, ma semmai di mostrare che due categorie di matrice biologica, riprese e filosoficamente "plasmate" da Malabou, presentano una potenzialità che può essere utile mobilitare anche nel quadro di una riflessione filosofico-politica. L'analisi svolta ha infatti messo in luce come il ripensamento della nozione di forma attraverso la plasticità e l'elaborazione di una concezione epigenetica del tempo permettano di pensare rispettivamente una trasformazione radicale della forma nella forma e una temporalità alternativa ali'escatologia e al messianismo. In primo luogo, si è visto come la plasticità non si limiti ad introdurre il movimento nella forma, ma articoli inoltre continuità e discontinuità, indicando al contempo l'aggregazione e l'esplosione, la formazione e la dissoluzione della forma, l'ordine e il conflitto4°. In secondo luogo, si è dimostrato che l'epigenesi rifiuta la predestinazione senza per questo esaltare l'assoluta imprevedibilità dell'evento. Quest'ultimo non sorge dal nulla, ma da un già dato che immediatamente trasforma, facendolo durare. La temporalità epigenetica, come l'istituzione secondo Merleau-Ponty4 1 , è quindi un processo di ripresa e trasformazione che si oppone tanto alla fine della storia quanto all'idea di evento puro. In definitiva, l'intreccio di forma plastica e temporalità epigenetica qualifica la stessa istituzione e permette di descriverla come un vero e proprio sistema dinamico. In questo quadro teorico il sistema e la trasformazione, la saturazione e l'apertura, non si contrappongono frontalmente, ma entrano in una relazione dialettica. Come si è visto, questo coincide con quello che per Malabou è l'avvenire di Hegel, a cui in fondo la sua opera resta fedele. Non è infatti difficile scorgere, dietro le sue affermazioni sull'impossibilità di trasgredire la materialità biologica o il tempo, l'idea hegeliana per cui è impossibile trasgredire il sistema in vista di un esterno o di un'alterità assoluta. In una recente intervista Malabou afferma che «dobbiamo pensare, paradossalmente, ad un'apertura che è interna alla totalità sistematica. E penso che la vita sia quel tipo di struttura, perché nulla è veramente fuori dalla vita. La vita è immanentemente ciò che è: sempre diversa da se stessa pur non separandosi mai da 40 Cfr. Cathcrinc Malabou, Plasticity. The Promise of &plosio11, Edinburgh Univcrsity Prcss, Edinburgh 2022. "' Cfr. Mauricc Mcrlcau-Ponty, L 'institution, la passivité. Notes de cours au Collège de France (1954-1955), Bclin, Paris 2003.

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se stessa. Questo è il senso della plasticità»4 2 • Forse è anche il senso della riflessione sull'istituzione, che condivide con Malabou il riferimento ad alcuni tratti fondamentali del pensiero di Hegel. Questo non è per forza un difetto - anzi - e ci si potrebbe domandare, dopo decenni di radicale anti-hegelismo, se non sia necessario riprendere alcuni elementi della filosofia hegeliana per elaborare un paradigma teorico politicamente produttivo. Con Malabou, potremmo chiederci se «le categorie di eccesso, surplus, supplemento siano ancora adatte per avvicinarsi a un qualsiasi tipo di organizzazione. Bataille era solito opporre l'eccesso, la "parte maledetta", al servilismo della dialettica hegeliana. Come sappiamo, per Hegel l'energia non viene mai dall'esterno del sistema ma dal raddoppiamento del negativo al suo interno. E se avesse ragione?»43.

"

2

43

K. H. Hogstad, C. Malabou, Plasticity and educatio11 cit., p. 1050. C. Malabou, Will Sovereig11ty Ever Be Deconstructcd? cit., p. 45.

Fondazione e libertà. Hannah Arendt e la lezione romana Gabriele Parrino

1. Il pensiero di Hannah Arendt è indiscutibilmente uno dei luoghi più frequentati dalla filosofia politica contemporanea. Negli ultimi anni autori ed autrici sono tornati a discutere il suo lavoro alla luce della complessa questione della fondazione democratica. Davanti alla corruzione del sistema democratico contemporaneo 1 , questo ripensamento ha finito per concentrarsi sull'idea arendtiana di azione come evento spontaneo, in modo da immaginare nuovi possibili scenari di democrazia partecipativa. Nascono così forme inedite di "democrazie arendtiane" 2 che, sebbene siano innovative nella loro configurazione politica, giungono al culmine di un tipo di riflessione teorica che si definisce soltanto sui caratteri plurali dell'agire. Da questo punto di vista, l'intero contributo di Arendt viene vincolato ad un'idea di politica sorgiva ed emergente che, marcata dal recupero della praxis aristotelica, è qualitativamente depauperata del contributo delle altre tradizioni filosofico-politiche che l'arricchiscono. L'aristotelismo arendtiano, di fatto, viene descritto sia nella letteratura critica che nei testi di Arendt3 accentuandone l'apporto, mai senza dubitare del previlegio che gode.

1 Cfr. Camila Vergara, Systemic Corruption: Constitutional ldeas for an Anti-O/igarchic Republic, Princeton University Press, Princeton 2.02.0, pp. 1-11. 1 Per una disamina generale sulle democrazie arendtiane di Claude Lcfort, Migucl Abcnsour, Judith Butler e Jacques Rancière si veda il più recente contributo di Adriana Cavarero, Democrazia Sorgiva. Note sul pensiero politico di Ha11nah Arendt, Raffaello Cortina, Milano 2.019. 3 Per una precisa ricostrU7.ione teorica della ricezione aristotelica di Arendt si veda il testo di Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis. Ha11nah Arendt tra filosofia e politica, Mondadori, Milano 1996, pp. 12.-2.2..

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GABRIELE PARRINO

Da Margaret Canovan4 a Jiirgen Habermas5, la descrizione della filosofia politica di Hannah Arendt come limitata al pensiero greco diviene il centro di una linea critica che ne diagnostica una involontaria miopia rispetto alle categorie specifiche della modernità. Facendo di Arendt una «nostalgica e utopista della polis» 6, questa interpretazione filosofica l'accusa di una mancanza rispetto alle specificità sociali, economiche e private del potere politico. Sottolineando, inoltre, la contraddizione interna alla sua azione politica, scissa tra democratismo plurale ed elitismo agonale7 , si profila il possibile risultato di tali omissioni e discrepanze: una decisa separazione tra prassi e teoria il cui esito nefasto ricade metafisicamente nella proposta degenerata di un ritorno politico alla città-stato. Oltrepassando la visione di un ellenismo antimoderno e pregiudizievole, invece, ulteriori tradizioni filosofiche difendono l'originalità del pensiero di Arendt partendo dalle influenze repubblicane di Niccolò Machiavelli, Alexis de Tocqueville e Montesquieu 8 • Questi autori segnalano l'esistenza di un'alternativa alla riduzione grecoaristotelica, la cui provenienza è lontana da Atene ma più vicina alle coste del Lazio9. Un humus filosofico-politico differente come quello repubblicano e romano, a cui fanno capo i teorici menzionati, indica ad un'altra origine con la quale leggere i testi di Arendt, così da superare i limiti delle letture elleniche ed allargare gli intenti della sua politica. Parallelamente all'aporeticità dell'azione forclusa sulla novità e sulla sorgività del suo venire al mondo (praxis ), con lo spostamento ◄ Cfr. Margarct Canovan, The Politica/ Philosopby of Hamzah Arendt, Harcourt, Brace, Jovanovich, New York 1974. s C1r. JiirgcnHabcnnas, Hamzah Arendts Begriffder Macht, «Merkur», 341, Oktobcr 1976. 6 Simona Forti, Introduzione in Ead. (a cura di), Hamzah Arendt, Mondadori, Milano 1998, p. 11. 7 Cfr. Margaret Canovan, The Omtradiction of Ha11nah ArenJt•s Politica/ Thought, «Politica) Theory», 6, 1, Feb. 1978, pp. 5-2.6. 8 Cfr. John G.A. Pocock, The Machiavellian Mome11t. Fiorentine Political Thought a,ul the Atlantic Republica11 Tradition, Princcton University Prcss, Princeton 1975, p. 516 (trad. it. di A. Prandi, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, il Mulino, Bologna 1982.). 9 Per un primo confronto e una ricostruzione precisa della corrente repubblicana di tipo "ncoromano" si veda Marco Gcuna, La tradizione repubblica1,a e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità co,u:ettuali, «Filosofia politica», 12., 1, 1998, pp. 101-132.; Philip Pettit, Republicanism: A Theory of Freedom and Govemme11t, OUP, Oxford 2.001; Qucntin Skinncr, Liberty before Uberalism, Cambridge University Press, Cambridge 2.012..

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verso la Repubblica Romana l'ontologia politica arendtiana assume una duplice senso. Si costituisce sia sulla libertà dell'azione che sul momento fondazionale della nascita di un'istituzione politica (constitutio rei publicae) 10• Andare verso Roma, quindi, significa dover assecondare l'esigenza fondati va della politica propria dell'alternativa romana. Suggestione che la stessa Hannah Arendt afferma di aver accolto in una discussione seminariale del 1972, indicandone la presenza e l'importanza nella sua riflessione: «the model of the man of this republic was to a certain extent the citizen of the Athenian polis. After ali, we stili have words from then, and they echo through the centuries. On the other hand, the model was the res publica, the public thing, of the Romans» 11 • Il ritorno ai testi romani è ispirato da un passato che indirizza la ricerca della filosofa di Hannover verso un nuovo modello politico esemplare: la Res Publica. Un inedito spazio politico dell'apparenza, il quale ospita la novità dell'agire senza che si concluda e si fondi unilateralmente sul carattere innovativo dell'azione o sull'astratta assolutezza del fondamento. Da Cicerone a Virgilio 12 , il ritorno a Roma segna l'inizio di una serie di tentativi di equilibrio tra la costituzione dell'atto fondativo e la natura evenemenziale dell'azione politica intesa nei termini della praxis aristotelica, dalla quale Arendt non può essere completamente separata. La passione per la fondazione di Enea - «l'eroe dell'evento» 13 - dovrà esplicarsi senza reprimere l'im10

Per studi più recenti che contribuiscono ad arricchire la letteratura critica sul rapporto Arcndt-Roma si vedano i testi di Dcan Hammcr, Hannah Arendt and Roman Politica/ Thought: The Practice of Theory, «Political Theory», 30, 1, Feb. 2.002., pp. 12.4-149; Id., Roman Politica/ Thought and the Modem Theoretical lmaginatiotz, University of Oklahoma Prcss, Norman 2.008, pp. 38-77; Id., Arendt a,ul the Roman Traditio11 in The Bloomsbury Companio11 to Arendt, P. Gratton and Y. Sari (cd. by), Bloomsbury Acadcmic, London-Ncw York 2.02.1, pp. 13-2.8. 11 Hannah Arcndt, Ha11nah Arendt On Hannah Arendt in Thinking Without a Bannister, Schocken Books, New York 2.018, p. 468. 12 Per una ricostruzione genealogica di come la filosofia romana si presenta nell'opera arcndtiana si vedano i Quaderni XVI a XVIII in Hannah Arcndt, Denktagebuch i950I972, 2. voli., Pipcr, Miinchcn 2.002. (trad. it. di C. Marazia, Quademi e diari (z950-i973), Neri Pou.a, Vicenza 2.007); cd. cit. Nel deserto del pensiero. Quadenu e diari (i950-i973), BEAT, Milano 2.015, pp. 302.-366. • 3 Carlo Diano, Fonna ed eve11to. Pri11cipi per una interpretazione del mondo greco, Marsilio, Venezia 1993, p. 48.

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pulso della libertà, conciliando così la potenza an-archica e abissale dell'azione con la fondazione autorevole da cui origina la comunità politica plurale. 2. La fine di The Life OfThe Mind, inserita nell'ultimo paragrafo "The abyss of freedom and the novus ordo saeclorum", apre al problema del legame tra fondazione e libertà. A partire dal titolo vengono messe in relazione la qualità abissale (" ab-grund" - priva di fondo )1 4 della libertà con il bisogno di fondare una nuova istituzione permanente; tutto coerentemente in relazione con l'inesauribile energia an-archica dell'azione e con i limiti di una fondazione contingente. Tuttavia, l'inizio di queste pagine continua la riflessione intorno alla seconda facoltà della vita contemplativa: la volontà. L'analisi arendtiana sul volere, infatti, volge al termine con una descrizione del ruolo di chi ha praticato tale operazione della mente. Per Hannah Arendt, infatti, i soggetti coinvolti nel discorso sulla volontà sono di due tipi: i cosiddetti «pensatori di professione di Kant» 1 5 e gli uomini d'azione delle epoche rivoluzionarie. Soggetti le cui modalità di pensare la volontà si rispecchiano, a loro volta, in una duplice concezione di ciò che le è proprio: la libertà. Tenendo conto dell'indagine di Montesquieu 16, Arendt distingue tra una prassi di libertà di tipo filosofico (philosophical freedom) tipica del mestiere del pensiero ed una libertà di stampo politico (politica/ liberty) propria degli uomini d'azione. I filosofi, restando entro una dimensione squisitamente teoretica, rivolgono il loro volere soltanto all'interpretazione del mondo. Di contro alla reattività degli uomini d'azione, gli scienziati puri, non sapendo adattarsi alla contingenza, non sono stati in grado di abbandonare il terreno delle idee e dell'assolutezza. Non essendo stati

•• «Questo "fondo", Gru,uJ, dove l'origine non si mostra né come arche, né come principio (in un'opposizione ad entrambi che non è "contraddittoria", ma "disparata") è l'abisso, l'Abgrund o Ungrund» in Reiner Schiirmann, Heidegger on Being a11d Acti11g: From Principles to Anarchy, Indiana University Press, Bloomington 1987 (trad. it. di G. Carchia, Dai principi all'a11archia. fusere e agire;,, Heidegger, Neri Po7.7.a, Vicenza 2.019, p. 78, n. 17). 1 s Hannah Arendt, Thi11ki11g in The Life of The Mind, Harcourt, New York 1981 (trad. it. di G. Zanetti, La vita della me11te, il Mulino, Bologna 2.009, p. 52.2.). 16 Cfr. Montesquieu, De l'fuprit des Lois, Lib. XII, §2..

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disposti a scendere a patti con la pluralità, hanno rinunciato al dono che tale incontro con l'immanenza poteva offrirgli: la libertà politica del e nel mondo 1 7. Chi professionalizza scienza e filosofia, e dunque fa della teoria una pratica di vita, rende la libertà impotente nell'individualità chiusa dell'essere umano. L'azione si ridimensiona nell'atto volitivo espresso nella solitudine della mente (solitude), senza che si disponga alla vita con l'Altro. Da questa posizione di solitudine, Arendt chiude con la pbilosopbical freedom, il cui fine si riduce nell'impolitica riflessione individuale, per concentrarsi sull'azione. D'altro canto, gli uomini della pluralità non agiscono solo nell'ottica dell'individualità, perché praticano la political liberty, cioè la libertà di un soggetto costitutivamente molteplice e politico. Intesa in questi termini, la libertà è espressa soltanto come ciò che appare spontaneamente alla luce del pubblico e come pura sorgività. Essa emerge nella comunione plurale dei soggetti che, agonalmente e in confronto tra loro, prendono posizione nello spazio politico dcli'apparenza il quale, a sua volta, si forma grazie alla performatività comune alla loro azione. La libertà è così estremamente an-archica e dinamica. Un'energia potente e potenziale, nonché un serbatoio di innumerevoli possibilità per azioni future. Hannah Arendt, tuttavia, con un gesto poco aristotelico e dinatura decisamente repubblicana, mette in chiaro che la medesima pratica di libertà non può essere sganciata da istituzioni che fungono da orientamento. È necessario, infatti, che sia guidata da leggi, le quali non ne opprimono la natura sorgiva, ma ne garantiscono sia la conservazione che l'innovazione. L'azione, infatti, non è ridotta al solo evento, ma è fondata sui medesimi principi che l'ispirano. Nascendo sincronicamente al suo rivelarsi, i principi si coniugano con il contenuto etico delle leggi 18 che ne profilano la forma. Permanendo in un rapporto «instabile e fluido e ad ogni istante reversibile» 1 9, principio e azione, senza dominarsi a vicenda, indicano una direzione comune, aumentando a loro volta le opportunità per nuovi eventi e forme politiche. 17

Cfr. H. Arendt, La vita della met1te cit., p. 52.6. «Ad legge: "Leges sunt invet1tae quaecum om,ubus semper u11a at queaedem voce loquerentur' (La tradizione è ben radicata nella legge, l'inizio, la fondazione, si riflette immediatamente nella legge)» in H. Arendt, Det1ktagebuch cit., p. 361. 19 C. Diano, Fonna ed evento cit., p. 76. 18

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Così, il nesso tra fondazione e libertà, la cui opposizione «non è soltanto logica, [ma] è reale» 20, comincia a profilarsi. Eppure, non è ancora chiaro in che modo questi termini stiano contraddittoriamente in sincronia nella politica arendtiana, né tanto meno come le due modalità del potere - evenemenziale e fondativo - riescano ad accrescere i principi dcli' azione conservando allo stesso tempo I'eventualità del nuovo. Per un ulteriore passo in avanti verso la spiegazione della discordanza tra i due termini, serve ampliare la riflessione arendtiana seguendo chi è stato maestro della fondazione della Res Publica: Cicerone. L'Arpinate, viste le necessità storiche della tardarepubblica 21, ha dovuto comprendere quali fossero i termini per fondare una repubblica a partire dalle sue rovine. Confrontandosi con la pluralità degli assetti istituzionali presenti negli ordinamenti antichi, egli ha presentato una variante costituzionale al cui interno trova posto una definizione di potere affine alla contraddizione produttiva tra fondazione e libertà. Nelle pagine del De Republica, per quanto non vi sia una descrizione analitica del potere, le qualità della politica sono derivate dal sistema in cui l'azione si esplica22• Negli ordinamenti della monarchia, dell'aristocrazia e della democrazia il potere assume differenti forme che non si atomizzano nelle dimensioni istituzionali descritte, ma si equilibrano in un assetto politico misto. Secondo Cicerone, infatti, soltanto una quarta costituzione, «quella che risulta dalla equilibrata mescolanza delle tre che ho definito come primarie» 2 3, ha in sé tutte le espressioni del potere bilanciate tra garanzia di libertà e autorevolezza fondativa. Bisogna ricordare che, nei testi dell'ex-console, i soggetti e il potere di queste tre forme della politica sono pur sempre «la concordia degli elementi più diversi» 24 • Vista la loro opposta natura e i diversi protagonisti che vengono in ognuno di essi privilegiati, questi differenti ordini fanno della costituzione mista di Cicerone una pluralità

lvi, p. 77. Cfr. Pierrc Grimal, Cicéro,i, Fayard, Paris 1986 (trad. it. di L. Guagnellini Del Corno, Cicerone, Gar7.anri, Milano 2ou, pp. 383-402). 2.1. Cfr. Dcan Hammer, Roman Politica/ Thought. From Cicero to Augustine, Cambridge University Prcss, Cambridge 2014, p. 49. 1 3 Cicerone, De Republica, BUR, Milano 2016, p. 305. 14 lvi, p. 427. 20

11

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di istituzioni complesse rette su quella «concordia, vincolo indissolubile e perfetto di unità politica in ogni Stato» 2 5. I concetti con cui si forma l'evento del potere istitutivo, dunque, riflessi nel costituzionalismo ciceroniano, sono Potestas, Auctoritas e Libertas. La Potestas è il potere monarchico ed esecutivo dei Consoli. Quella forza che permette di implementare e regolare la civitas e di amministrare fino ai confini della societas. Questo tipo di potere è vincolato temporalmente alle due figure consolari, in carica soltanto per un anno, ed è legalmente regolato dal reciproco diritto di veto indispensabile per frenare i tentativi di autonomia e di restaurazione regale. L'Auctoritas, invece, è una forma di potere affettivo ed elitario. Deriva dal riconoscimento e dal rispetto per le parole e le azioni del passato dei fondatori della storia di Roma, i cosiddetti patres, ed ha una forte connotazione morale proveniente dal tradizionale nucleo etico del mos maiorum 26• È ciò che nel flusso innovatore del potere garantisce continuità, memoria, storia e consiglio. La sua qualità tradizionale viene incarnata dalla simbolicità e dalla gravitas aristocratica del Senato Romano: quell'organo politico inaugurato già dal primo fondatore, Romolo. La Libertas, d'altro canto, si manifesta come scelta pubblica. È un modo collettivo di proporre, decidere e unire la pluralità intorno agli eventi della Res Publica. È l'unica qualità del potere riservata al popolo. Il soggetto che, oltre a detenere la libertà politica, è il protagonista della costituzione mista perché, scrive Cicerone, «in nessun'altra città se non in quella in cui sommo è il potere del popolo in alcun modo ha la sua sede la libertà» 2 7. Anche Arendt nei suoi appunti trascrive l'equazione per cui «Res Publica = res populi» 28 • Ciò accade perché la Libertas è il fulcro del rapporto con tutti i valori della comunità romana, la quale si definisce nella relazione «fra istituzione ed individui [... ] salvaguardata dall'ordinamento stesso» 29 • I rappresentanti della potenza plurale 2

s lbid.

16

Sul valore morale del potere a Roma si veda Mario Pani, Il costituzionalismo di Roma antica, Laten.a, Roma-Bari 2.010, pp. 63-73. 1 7 Cicerone, De Republica cit., p. 309. 18 H. Arcndt, Denktagebuch cit., p. 2.09. 19 M. Pani, Il costituzio11alismo di Roma antica cit., p. 68.

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del Popolo sono i Tribuni della Plebe, eletti tramite i concilia plebis a partire dalla secessione del 494 a.C.3°. La Potestas, oltre ad essere rappresentata dai Tribuni, nel caso in cui fosse indispensabile un rapido intervento emergenziale, poteva venire esercitata in prima persona dal popolo negli precisi spazi di "democrazia diretta" dei comitia. La legittimità di tali margini d'intervento pubblico, tuttavia, è stata garantita fino alle riforme sillane che, con il ripristino delle ristrettissime norme della Lex Cornelia Pompeia e l'emanazione della Lex Cornelia de tribunieia potestate, ne ridussero drasticamente il ruolo3 1 • Per brevità, dunque, si può dire che la Potestas - unita al suo gemello lmperium, la forma di potere regale ereditata dalla storia monarchica di Roma3 2 - rappresenta l'ordine del comando, I' Auctoritas è la riserva della memoria e della tradizione esemplare, mentre la Libertas è la facoltà di agire liberamente. Tuttavia, queste tre forme di potere coesistono soltanto se tra loro vi è reciproco riconoscimento e legittimità: la Potestas deve operare secondo le norme e le leggi, l' Auctoritas deve essere rispettata ed eseguita dal popolo, mentre la Libertas deve lasciarsi guidare dagli esempi e dai principi della tradizione in modo che possa avverarsi l'idea auspicata per cui «non c'è niente di più stabile e di più duraturo di un popolo concorde e che tutto riduce alla sua incolumità e alla sua libertà»33. Questa lettura arendtiana del potere in Cicerone, dunque, può essere tradotta in due punti essenziali: la libertà genera potere tanto quanto il potere produce libertà (come per la Libertas e la Potestas), mentre la fondazione garantisce agli agenti liberi di continuare a rinnovarsi senza cancellare la memoria, la storia e la tradizione dei soggetti politici coinvolti (il ruolo tradizionale dell'Auctoritas). Presentando la filosofia romana di Cicerone come un tentativo di congiungere l'evento con l'esigenza fondativa della forma politica - problema più arendtiano che ciceroniano - si mostra un primo

3° Cfr. Mario Pani, Elisabetta Todisco, Società e istituzioni di Roma antica, Carocci, Roma 2008, p. 17. 31 Per un,ulteriore specifica sulle caratteristiche delle leggi menzionate si veda Giovanni Rotondi, Lege.s publicae populi Romani: elenco cronologico con w,introdudone su/l'attività legislativa dei comizi romani, Hildcsheim, Olms 1962, pp. 343-361. 3 2 Cfr. D. Hammer, Roman Politica/ Thought cit., p. 50. 33 Cicerone, De Republica cit., p. 3 1 1.

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assetto di poteri dove libertà e fondazione si bilanciano nell'esemplarità dell'istituzione mista. Tuttavia, le sue componenti non vivono in concordia assoluta, come sperato dall'Arpinate, ma in una costante tensione produttiva. Seguendo in parte un'interpretazione anticostituzionale e conflittualistica34, il movimento reale generato dallo scontro tra gli ordinamenti permette di rinnovare perennemente l'equilibrio tra evento e forma, senza frenare la nascita continua del nuovo, ma ampliando la dimensione attiva del potere istituente35 . Tuttavia, tornando ad Arendt, creare un'istituzione che non perda la sua dinamicità non risolve ogni aspetto legato al fondare. Non è ancora certo, alla luce del pensiero di Cicerone, se la fondazione politica si istituisca su un fondamento metafisico e trascendente o se quest'ultimo abbia in realtà un'essenza che nega ogni assolutezza grazie alla sua ontogenesi contingente e relativa. Per rispondere dell'origine, bisogna fare un ulteriore passo indietro verso il mito romano. Serve narrare nuovamente le antiche e native leggende di Roma dove si nasconde la qualità mondana e poetica di qualsiasi fondamento. 3. È stato compito della storiografia, da Livio fino a Sallustio e Tacit36, e della poesia mitica conservare il senso degli inizi e dei principi. Le ricostruzioni storiche insieme ai poemi leggendari che cantano le azioni degli eroi rappresentano l'esemplarità narrativa dell'epica della fondazione. Qui l'inizio si confonde tra realtà e finzione letteraria. Il mito, infatti, descrive eventi fantastici e inaugura il cammino di nuove storie, tra le quali, per Arendt, le più importanti della civiltà occidentale sono «una romana e l'altra ebraica»37. Queste tradizioni fondative si differenziano non solo per il contenuto, ma perché si contrappongono sulla base di una forte differenza ontologica. La vicenda ebraica con il suo eterno esodo è caratterizzata dall'essere "edenica", perché «posits separate spatial realms in which H Si veda a tal proposito il ruolo della tradizione anticostituzionale di stampo machiavelliano in Benjamin Straumann, Crisis and Constitutionalism. Ramati Politica/ Thought {rom the Fall ofthe Republic to the Age of Revolutioti, Oxford University Press, New York 2.016,pp.260-277. 3S Cfr. Roberto fuposito, Pensiero Istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020, p. 173. 6 3 Cfr. D. Hammcr, Roman PoliticalThought, pp. 145-180, 229-271, 321-358. 37 H. Arcndt, La vita della mente cit., p. 5 3 1.

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human activity takes place»3 8• Scindendo l'esistenza di un regno trascendente da uno terrestre, nei testi fondativi della religione ebraica l'inizio è nell'assolutezza di un eden paradisiaco e originario opposto alla situazione terrena, caotica e conflittuale. La storia leggendaria di Roma, invece, fa parte di una tradizione che vede la fondazione «as the result of human enterprise»39. I poeti costruiscono e cantano i loro poemi seguendo origini lontane e mitiche, il cui risvolto però è quello di mostrare il fondamento di una storia contingente. Seppur narrando gli eventi di una leggenda - «le gesta del più grande popolo del mondo»4° - non si inficia la realtà storica del suo divenire. Dalla fantastica liberazione di Troia si giunge all'effettivo splendore della civiltà romana. Anche se l'ebraicità ha un peso considerevole nel pensiero arendtiano4 1 , il mito latino - «l'esperienza romana originaria» raccontata «nella sua forma più pura in Virgilio»42 - è il primo passo essenziale verso la fondazione intesa nella sua occasionalità. Nel racconto del poeta mantovano, la civiltà romana appare nello iato di tempo tra due ordini: quello mitico di Troia e quello della fondazione autentica della città romana. Nell'istante del cambiamento temporale, nello scarto tra i due tempi, si manifesta nel mondo il fondamento vitale e attivo che origina questo passaggio dalla leggenda alla storia. Questo fondamento permea nella storia grazie al suo essere raccontato e la fondazione cresce su di esso. Venendo eternamente narrato, assicura una concatenazione di atti fondativi imprevedibili e istituiti in un ordine di natura occasionale e relativo - non arrestando il divenire del nuovo né interrompendo il crescere creativo della libertà. L'Urbe, secondo tale logica, non è ab-soluta. Con il suo venire-alla-presenza si produce, oltre al fatto della sua posizione storica immediata, la potenza aporetica di una constitutio libertatis infìni38 John E. Sccry, CÀstles i11 the Air: An Essay on Politica/ Fou,ulations, «Political Theory», 2.7, 4, August 1999, p. 470. 39 lvi, p. 473. -tOlito Llvio,Storiadi Roma dallasuafo,,dazione (Libri 1-11), BUR,Milano 1982, p. 2.25. 41 Per una lettura dell'apporto teologico-politico della filosofia giudaica e romana in Arendt si veda Migucl Vattcr, Roman Civil Religio11 and the Question of Jewish Politics i11 Are,uJt, «Philosophy Today», 62., 2., Spring 2.018, pp. 573-606; Id., Living Law: Jewish Politica/ Theology {rom Herman11 Cohen to Hamum Aretult, Oxford University Press, Oxford 2.02.1, pp. 2.37-2.83. 41 H. Arendt, La vita della met1te cit., p. 242..

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ta, motore storico, potenziale e narrativo presente al cuore di ogni fondazione. Gli atti fondativi devono, pertanto, fare i conti con un fondamento che eccede di continuo da sé stesso: un'origine, come nota Esposito, che «resta sempre inconclusa proprio in ragione del suo fuoriuscire da se stessa, del suo continuo oltrepassarsi, del suo non essere pienamente ciò che è: un'origine in/originaria. Un'archè costitutivamente an/archica»43. Nel caso romano, l'inizio è portato al mondo dai suoi padri fondatori - Enea, Romolo, Numa e Bruto44 - che, consapevoli di dover conservare e tutelare questa eccedenza, designano sin da subito un soggetto incaricato di svolgere questo ruolo protettivo: «nella persona dei senatori romani continuavano a essere presenti i fondatori di Roma, e con loro era presente lo spirito della fondazione, il cominciamento, il principium e il principio di quelle res gestae che da quel momento in poi formarono la storia del popolo romano»45. Incarnando lo spirito e il principio della fondazione, il Senato si fa guardiano di questo inizio mitico, nel senso di un ordine autorevole che, nella forma del consiglio (consilium ), guida il processo di quest'initium eccedente nel suo crescere. Grazie a quest'azione, il filo della tradizione viene preservato nelle «forme di chiusura»4 6 del mito senza che ne si occluda l'inizio. Il primo momento fondativo, in realtà, aumenta e cresce nel farsi della storia esattamente grazie ali' autorità di questa narrazione. Perciò Arendt precisa che il potere dcli'auctoritas senatoriale proviene dal senso del verbo latino augere il cui significato è appunto quello di "accrescere". La storia successiva, infatti, «dipendeva dalla vitalità dello spirito di fondazione [... ] attraverso la trasmissione, lungo una linea ininterrotta di successori, del principio stabilito all'inizio»47. È per questo che Virgilio nella IV Egloga non poteva che augurarsi l'avvenire di un «Magnus ab inte-

·O Roberto Esposito, L •origine della politica. Hannah Arendt o Simone W eil?, Donzelli, Roma 1996, p. 34. -H Sulla molteplicità dei fondatori e delle fondazioni di Roma si veda Michcl Scrrcs, Rome: Le livre des fondations, Grassct, Paris 1983 (trad. it. di R. Bcrardi, Roma. I/libro delle fondazio,u, Mimcsis, Milano-Udine 2.02.1). ◄S Hannah Arendt, On Revolution, Viking Prcss, New York 196 5 (trad. it. di M. Magrini, Sulla rivol,aione, Edizioni di Comunità, Milano 1983, p. 2.30). ◄ 6 C. Diano, Ponna ed evento cit., p. 7 4. 47 H. Arcndt, Sulla Rivoluzione cit., pp. :z. 30-2. 3 1.

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gro saeclorum nascitur ordo»4 8 • Augusto, protagonista sottinteso e dedicatario dei versi, incarna quest'evento. Il suo avvenire non verrebbe ad assimilarsi con il temuto ex nibilo dell'abisso della libertà, ma si definirebbe come un ennesimo tratto conservativo di quella storia grandiosa: la stessa che Enea ha già visto nella sua discesa al mondo infernale49. Storia autorevole che nella modernità Hannah Arendt vede affermarsi e frantumarsi nei momenti di scissione e crescita della tradizione. Quegli eventi delle rivoluzioni in cui l'emergere improvviso del nuovo può congiungersi con la narrazione fondativa o con l'impeto di una liberazione senza fine. Distinguendo le sorti dei protagonisti delle rivoluzioni moderne del XVIII secolo, Arendt sostiene che la Rivoluzione Americana rimane «fermamente orientata verso l'instaurazione della libertà e la fondazione di istituzioni durature»5°. Non separando fondazione e libertà, il filo della tradizione in quest'evento rivoluzionario resta ancorato al fine della costitutio libertatis. L'azione plurale, dunque, non si separa dall'orientamento dei principi né delle leggi stabilite - nel caso americano dal fondamento legislativo della Dichiarazione d'Indipendenza. Animati dalla gioia dell'essere insieme, infatti, gli attori di questa rivoluzione danno vita ad un novus ordo saeclorum - mettono al mondo una nuova Roma senza perdere la continuità dell' auctoritas, tutelata dalla garanzia giuridica della Corte Suprema51. La Rivoluzione Francese, invece, governata dalla tirannide della necessità e dall'emergere pubblico della questione sociale, viene «realizzata dalla illimitata immensità della miseria del popolo e dalla pietà che questa miseria ispirava»5 2 • Per tale ragione il senso del ritorno all'antico perde il valore dell'accrescimento del magnus ordo, finendo per celebrare l'utopia della liberazione assoluta. Non avendo più alcun limite che li leghi alla tradizione, né ispirazioni autorevoli, i rivoluzionari francesi non possono che restare smarriti davanti all'an-archia della libertà e all'immensa frenesia del Terrore. Si scontrano con il "fallimento" delle narrazioni mitiche, le quali, per com'era la loro speranza ideale, non hanno alcunché da consigliare 48 Virgilio, Bucoliche, IV, 5. 49 Cfr. Virgilio, E11eide, VI, 479-556. so H. Arcndt, Sulla rivoluziotie cit., p. 98. s• lvi, p. 2.30. 52 lbid.

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sui modi di una fondazione assoluta, ma possono soltanto istruirli sulla natura relativa di ogni cominciamento politico. I miti e le leggende originarie, infatti, non risolvono l'aporia irriducibile della libertà an-archica, ma, seguendo il ragionamento arendtiano, fanno dono agli attori politici di quegli esempi monumentali che guidano il loro agire. I Romani, che pur sapevano che non ci può essere impresa più grande della fondazione, dove la virtù umana sembra quasi divina53 , non attribuiscono alcuna onnipotenza ai fondatori. È la potenza improvvisa, plurale e terreste del loro gesto a segnarne il carattere straordinario. Il fondamento continua perennemente a crescere nel suo essere raccontato, resta un'azione umana unica, ma mai asso Iuta e trascendente. A causa di ciò, gli uomini della modernità rivoluzionaria francese, carichi dell'intenzionalità di cominciare il nuovo absoluti mundi, si dovettero scontrare con la realtà dell'impossibilità di una fondazione totalmente inedita. Chiamati al compito della fondazione e alla ricerca del «modo di superare le aporie e le perplessità intrinseche di ogni inizio» 54, pur guardando ai romani, fallirono nell'imparare che l'origine è sempre una rinascita. Sfuggì loro che ogni atto fondativo non può che essere un'azione di continua rinnovazione di quel fondamento che rimane al cuore di una storia e di una narrazione eterna. Un principio nato nella esclusività dell'assolutezza non può che restare perpetuamente avvolto nel mistero del non-detto della storia. D'altronde, grazie ai versi della IV Egloga veniamo a conoscenza di un'età ben più antica di quella di Roma, preesistente a qualsiasi fondazione: l'Età di Saturno, l'Età d'Oro della naturalità. Prima di poter contare il tempo ab urbe condita, «tutto ciò che precedesse questa prima fondazione, [... ], si situava fuori dalla storia: era la natura» 55 • Sebbene l'inizio della ciclicità naturale sia scisso da ogni logica umana, il mondo di Saturno è già perduto per i protagonisti dei nostri racconti. Con la realizzazione dell'atto fondativo, Enea nell'Eneide e Augusto nell'Egloga superano la temporalità statica dell'Età naturale, garantendo il rinnovamento e l'inaugurazione di una «nova

Cfr. Cicerone, De Republica cit., I, 7. H. Arendt, La vita della mente cit., p. 539. ss lvi, p. 543·

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progenies» 56 • Narrando di quel soggetto plurale, il popolo romano, tutto in potenza, la poesia virgiliana diviene un canto festivo della natività. Una celebrazione della nascita della temporalità e dell'azione degli esseri umani, la quale ricorda la necessità per cui «ogni fanciullo nato in seno alla continuità della storia romana deve apprendere "heroum laudes et facta parentis ", "le lodi degli eroi e le gesta dei padri", così da essere in grado di fare ciò che ci s'aspettava da tutti i ragazzi romani - contribuire a "reggere il mondo a cui le virtù dei padri avevano dato la pace"» 57. La vicenda della fondazione e la sua storia progressiva divengono dunque l'origine stessa della libertà la cui storia è da «narrare, ricordare e conservare»5 8 nei continui inizi che aumentano e ricostruiscono il suo principio, cioè quel fondamento libero la cui grandezza eccedente si manifesta ora in tutte le sue augumentazioni. Giunta a tali conclusioni, Hannah Arendt si pone un ultimo dubbio. Perché nella modernità, pur essendo chiaro grazie ai testi romani che ogni novus ordo saedorum privo della tradizione è destinato al collasso, non si è risolta la questione aporetica della fondazione? Per la filosofa tedesca la causa della cecità dei protagonisti della rivoluzione europea e della storia da loro inaugurata sta nell'esser stati vittime della teorizzazione della politica propria della tradizione occidentale nata al compimento della Rivoluzione Francese. Questa, sebbene si confronti con «l'abisso della pura spontaneità con l'espediente, [... ] di interpretare il nuovo come riformulazione perfezionata dell'antico»59, non si connette continuativamente col fondamento e si proietta verso un promesso futuro di totale liberazione. Invece di fare i conti con la sconcertante verità che la salvezza viene sempre dal passato e dalla sua narrazione, «la libertà sopravvisse nella teoria politica [... ] solo nelle promesse utopiche e infondate di un "regno della libertà" definitivo che, almeno nella sua versione marxiana, segnerebbe davvero la "fine di tutte le cose", equivarrebbe a una pace sempiterna in cui tutte le attività specificamente umane languirebbero prive di vita» 60• 56

Virgilio, Bucoliche, IV, 7.

57

H. Arcndt, La vita della me,1te cit., p. 541.

Ivi, p. 542.. 59 Jvi, p. 545.

58

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lbid.

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Gli uomini d'azione della modernità europea, dunque, inseguono un'utopia normativa irrealizzabile insieme ad un'idea di perfetta concordia suicida nei confronti della libertà. Una normatività politica che auspica alla completa liberazione dalla necessità e al rappacificamento delle attività umane, inclusa l'azione, che arriva a perdere con essa il ricordo del primo inizio e tutta la sua legittimità; finendo così per interrompere bruscamente la catena d' augumentazione. Ma una speranza resta grazie a quella storia delle fondazioni e della natività che poteva essere, secondo Arendt, il cuore di una filosofia romana o virgiliana. In virtù di ciò, è possibile recuperare la dimensione ontologica del fondamento il quale, con la sua inesauribile potenzialità, rende inerme questa idea di conclusione ultima della politica. Del resto, il fondamento, per poter essere narrato, deve presentarsi al mondo. Esso, però, è sempre nel mondo, perché è nell'essere umano che è eternamente inizio - initium ut esset creatus est homo61 - e, fin quando l'inizio risiede nell'umanità e nella sua irrappresentabile pluralità, salva ogni cosa62 • E noi siamo condannati ad essere liberi e fondati perché il nostro sguardo si volge di continuo verso i frammenti di un passato che ci ricorda della potenza dell'inizio di cui siamo capaci e di ogni ulteriore azione a cui possiamo dar vita sulla base di quel fondamento eccedente che ci ispira 63 • La Roma narrata da Virgilio è l'esempio di come la dimensione politica trovi forza nella poesia fondativa che se prima «protegge il nucleo dagli avversi sensi», quando svela le sue trame nella storia mostra «al mondo il suo denso interno» 64 • Quella poesia monumentale che, se coniugata ad una dimensione istituente come quella ciceroniana, mantiene irriducibile l'evento fondativo nel corso della storia. Non più nella forma materiale dell'Urbs, che oramai esiste solo come monumentum, ma nella dimensione di un principio ispiratore che crea una tradizione (traditio) a cui siamo sempre religiosamente uniti (religare ).

61

Agostino, De Civitate Dei, XII, 20. Cfr. Platone, Leggi, VI, 775c. 6 3 Cfr. Hannah Arcndt, Walter Benjamin {1892-1940) in Me,, i11 Dark Times, Harcourt Brace, New York 1968, p. 205 (trad. it. di M. Dc Franccschi, Walter Benjamin, SE, Milano 2018). 64 H. Arcndt, Denktagebuch cit., p. 344. 62

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4. Quest'eredità politica romana, oggi, può essere un tassello aggiuntivo in quel complesso mosaico di soluzioni con le quali si tenta, dalla fine del secolo scorso, di ripristinare la fratturata immagine delle istituzioni democratiche. Rotture e crisi interne che concernono la rappresentanza e la partecipazione politica, con le quali oramai anche quella parzialità teorica democratica "sorgiva" menzionata all'inizio non sa più fare i conti. Infatti, facendo fronte soltanto all'idea di azione come pura spontaneità, questa continua a mancare del passaggio necessario per cui l'aporeticità dell'evento deve canalizzarsi nella forma di istituzioni politiche fondate. La lettura romana di un principio e di un fondamento ispirante ed eccedente può indicare, con l'esser nuovamente raccontato, una via differente. Un percorso che coniuga il momento istitutivo con l'an-archica libertà, senza rischiare di schiacciare forma ed evento in un unicum democratico indifferenziato. Un tentativo storico che Arendt ritrova in quei modelli unici che sono state le repubbliche dei concili65. Repubbliche dove il potere, emerso nello scoppio degli eventi rivoluzionari, finisce per essere orizzontalmente distribuito e tensivamente in equilibrio. Gli spazi politici dei concili sono infatti spaces of appearence dove la novità dell'inizio si congiunge ali' auctoritas dei suoi ordinamenti e, in connessione con i loro principi, ne garantisce la conservazione. Uno spazio politico post-fondazionale che può superare l'impasse di quelle democrazie arendtiane sopramenzionate, ripiegate unilateralmente sul lato emergente dell'agire. Una council democracy66 , invece, è in grado di tenere insieme l'evenemenzialità del nuovo con la fondazione necessaria della dimensione plurale della libertà. Associando il ruolo esemplare dei concili alla descritta ontologia politica arendtiana romanamente qualificata, si può pensare ad una valida alternativa per le teorie democratiche. Tutto ciò è per noi un incoraggiamento ad immaginare potenziali democrazie che, facendo del fondamento un primum in continuo accrescimento, garantiscono la legittimità, la continuità e tutto l'inesauribile orizzonte di nuovi inizi liberi.

6s H. Arcndt, Sulla rivoluziotie cit., pp. 247 sgg. 66

Cfr. Aa. Vv., Couticil Democracy. Towards a Democratic Socialist Politics, cd. by Jamcs Muldoon, Routlcdgc, London 2.02.0.

La traccia del negativo. J udith Butler e le ontologie implicite Valentina Suracc

1.

Ex fundamentis

Ogni pensiero mostra sconfinamenti e quello di Judith Butler in particolare, restio com'è ad ogni etichettatura ed eccentrico rispetto alla cosiddetta filosofia istituzionale, di cui tenta di ampliare i confini mantenendo una certa libertà di riflessione. Il pensiero di Butler si pone al di là di ogni tipo di fondazionalismo, sia esso gnoseologico-epistemologico, etico-politico o metafisico-ontologico. Per Butler, la filosofia non è più il sapere del sapere, non è più identica a sé - ammettendo che mai lo sia stata -, è in una condizione di espropriazione, in termini hegeliani, è fuori di sé, persa nell'altro 1 • La filosofia non è più il sapere dei fondamenti ultimi dell'agire, perché questi fondamenti sono costruzioni storiche, che si spacciano per universali e necessarie. Infine, la filosofia non è più il sapere della sostanza, intesa in senso metafisico come stabile e autarchica. Il pensiero di Butler si potrebbe inscrivere, allora, per un verso, nell'orizzonte post-fondazionalista, in particolare all'interno di quello che Esposito ha definito "paradigma istituente", volto a riabilitare la funzione produttiva del negativo; per l'altro verso, esso mostra affinità con quella strategia di superamento del fondazionalismo che è il pensiero derridiano della différance, in quanto rigetta l'istanza identitaria tanto individuale che collettiva. Nelle riflessioni di Butler vanno di pari passo la riabilitazione del negativo come principio creativo del subiectum e il rigetto delle categorie identitarie (sesso, ge1 Cfr. Judith Butler, Can the "Other,. of Philosophy Speak?, in Undoi11g Gender, Routledgc, New York-London 2.004, pp. 2.32.-2.50 (trad. it. e cura di F. Zappino, L'"Altro,. della filosofia può parlare?, in Fare e disfare il genere, Mimesis, Milano-Udine 2.014, pp.

333-353).

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nere, classe, abilità, razza, nazionalità) che classificano l'umano, alle quali si accorda il credito della verità come se ci fosse una natura umana, piuttosto che una condizione umana 2 • Per Butler l'ontologia non è una fondazione, perché esistono tante ontologie quante sono le norme che governano l'assoggettamento, che non è un evento fondativo, ma un processo continuo di regolamentazione e produzione del soggetto, come insegna Foucault. Tali ontologie sono perlopiù implicite, il che ne facilita la salvaguardia e ne favorisce l'efficacia. L'intento di questo contributo è mostrare come partendo dall'esperienza del negativo - o della differenziazione da sé-, compiuta dal soggetto hegeliano per divenire ciò che è, Butler approdi ad una critica radicale del sostanzialismo identitario. Butler sviluppa, quindi, una teoria della soggettività intesa come esito di un processo performativo, che è possibile, in una certa misura, far fallire o alterare. Infine, dimostrando che persino il soggetto nazionale è una costruzione culturale, ovvero che nessuna cultura ha un carattere essenzialistico, Butler giunge a teorizzare una politica della traduzione, che ha come finalità quella di produrre un "noi" internamente differenziato o alterato.

2.

La negazione creativa

All'inizio del suo percorso di pensiero Butler decostruisce il soggetto della metafisica classica, precisando che «decostruire non significa negare o rigettare, ma mettere in discussione e, cosa forse più importante, aprire un termine, come quello di "soggetto", a un riutilizzo»3. La sua riflessione prende le mosse dall'esito della storia del soggetto moderno, il Soggetto-Sostanza hegeliano. Butler contesta a quanti considerano Hegel «il paladino del "soggetto", di una metafisica di chiusura o della presenza che esclude la differenza»4, di sottovalutare 2 Cfr. Judith Butler, Adriana Cavarero, Co11dizione umana co11tro "11atura", in L. Bernini, O. Guaraldo (a cura di), Differenza e relazione: l'ontologia dell'umano nel pensiero di ]udith Butler e Adria11a Cavarero, ombre corte, Verona 2009. 3 Judith Butler, Contingent Foutu:lations: Feminism and the Questio11 of "Postmodemism ", in S. Bcnhabib, J. Butler, D. Corncll, N. Frascr (eds), Femitlist Contentions: A Philosophical Exchange, Routledgc, New York 1995, p. 15. • Judith Butler, Subjects of Desire: Hegelian Reflectiotis in Twentieth-Cet,tury France, Columbia Univcrsity Press, New York 20122 , p. 176 (trad. it. di G. Giuliani, Soggetti di desiderio, la terza, Roma-Bari 2009, p. 196).

LA TRACCIA DEL NEGATIVO

«la critica immanente del soggetto auto-identico»5, messa in luce dagli interpreti francesi. Secondo Butler, già dalla Prefazione alla Fenomenologia emerge che il viaggio della coscienza non può essere identificato come un percorso di assimilazione a sé dell'alterità, in particolare laddove Hegel definisce il Soggetto «pura negatività semplice» 6, intendendo per negatività «l'ineguaglianza della sostanza verso se stessa»7, una sostanza, dunque, non immota, ma viva. Per Hegel, «il vivente è [... ] in quanto si fa ciò che è» 8, sperimentando la negatività nella forma del «divenire a sé un altro» 9 • Ciò significa che il principio della negazione, nonostante si fosse manifestato storicamente come «principio di distruzione» 10, nella Fenomenologia è caratterizzato come «principio creativo» 11 • Il soggetto hegeliano «subisce il negativo, ma non ne è mai inghiottito» 1 2, perché il negativo è utile per divenire ciò che si è. s lbid. Gcorg Wilhclm Fricdrich Hcgcl, Phiinomenologie des Geistes, hrsg. von J. Schulzc, Werke, Bd. 2, Dunckcr & Humblot, Bcrlin 183 2 (trad. it. di E. Dc Negri, Fenomenologia dello Spirito, RCS, Milano 2001, I, p. 14). Butlcr osserva che ad enfatizzare «la tzegatività della coscienza che giocherà un ruolo fondamentale nelle interpretazioni successive offerte da Kojève e Hyppolite» U- Butler, Subjects of Desire cit., pp. XIV-XV (trad. it. cit., p. XV]) è Wahl, per il quale essa non è «un negativo puro e semplice, vuoto e astratto, come l'indifferenza, ma [... ] una pienezza di movimento» Ucan Wahl, La malheur de la co1,sciencc da1,s la philosophie de Hegel, PUF, Paris 1951 (trad. it. di F. Occhctto, La coscienza infelice nella filosofia di Hege~ I.LI., Milano 1972, p. 124]). Come sottolinea Kojèvc, l'uomo si costituisce come un lo, che non è «"identità,, o eguaglianza con sé, ma "negatività negatrice,,. Detto altrimenti [... ] divenire» (Alexandrc Kojèvc, lntroduction à la lecture de Hegel. Leçons sur la « Phénomét,ologie dc l'Esprit » professées de z933 à z939 à l'P..cole des Hautes Études réunies et publiées par Raymo11d Que,zeau, Gallimard, Paris 1947 [trad. it. e cura di G.F. Frigo, ltztroduzione alla lettura di Hegel. Lezioni sulla "Fenome11ologia dello Spirito"tenutedal 1933 al z939 all'École Pratique des Hautes Études raccolte e pubblicate da Raymond Que,zeau, Adclphi, Milano 1996, p. 19]). Hyppolitc, a sua volta, osserva che Hegcl coglie «l'individualità come negazione della negazione» Uean Hyppolitc, Genèse et Structure de la Phénoménologic dc l'Esprit de Hegel, Aubier, Paris 1946 [trad. it. di G.A. Dc Toni, Genesi e struttura della «Fetzomenologia dello Spirito» di Hege~ La Nuova Italia, Fircn7.c 1999, p. 63, n. 54]), come movimento «diveniente» (ivi, p. 100). 7 G. W. F. Hcgcl, Fenome,zologia dello Spirito cit., I, p. 29. 8 Gcorg Wilhclm Friedrich Hegcl, Enzyklopiidie der philosophischen Wissenschaften im Gnmdrisse, hrsg. von L. v. Henning, Werke, Bd. 6-7, Duncker und Humblot, Bcrlin 1840-184 5 (trad. it. di B. Croce, E,zcidopedia delle scie,,ze filosofiche, Latcn.a, Roma-Bari 2002, 352, p. 345). 9 G. W. F. Hcgcl, Fenome,zologia dello Spirito cit., p. 29. • 0 J. Butlcr, Subjects of Desire cit., p. 62 (trad. it. cit., p. 69). 11 lbid. 12 lvi, p. 22 (trad. it., p. 25). 6

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Secondo Butler, Hegel elabora «una nozione ex-statica del sé» 1 3, il quale non è un dato, ma un essere in atto, nel continuo atto di farsi, uscendo fuori di sé, il che esci ude che la sua costituzione sia un evento fondativo, «una creazione ex nihilo» 1 4. Il sé «non è condotto dalle proprie periodiche espropriazioni ad un ritorno al sé primigenio» 1 5, perché negandosi come in-sé si fa altro, anzi, persino il termine "ritorno" è un' «impropria denominazione» 16 • A questo proposito, Butler si confronta criticamente con Derrida, il quale intende la negazione hegeliana come un 'uscita fuori di sé che è «il cammino obbligato di un ritorno a sé» 1 7. VAufhebung descriverebbe l'economia conservativa dello "stesso", in cui tutte le relazioni esterne sono assimilate. Nonostante riconosca a Hegel il merito di aver pensato la «differenza assoluta» 18 come mediazione tra sé e l'altro, Derrida gli rimprovera di averla caratterizzata come contraddizione «per poterla risolvere» 1 9; tant'è che, a suo avviso, «la différance deve segnare [... ] il punto di rottura col sistema dell'Aufhebung» 20• Butler osserva che, come concepita da Derrida, I'Aufhebung sarebbe una sorta di «strategia di occultamento: non l'incorporazione della differenza in un'identità, ma la denegazione della differenza al fine di porre un'identità fittizia» 21 • Dunque, sottolinea ancora Butler, «secondo Derrida, ciò che è esterno è assimilato in un soggetto identico a sé, ma per Hegel l'atto di assimilazione è simultaneo ad una revisione radicale del soggetto stesso» 22 • J. Butlcr, U11doing Gender cit., p. 148 (trad. it. cit., p. 2.27). lvi, p. 47 (trad. it., p. 53). 1 s J. Butlcr, Subjects of Desire cit., p. XXI (trad. it. cit., p. XXIV). 16 Judith Butlcr, To Sense What 1s Living ;,, the Other Hegel's P.arly Love, in Ead., Se,,ses of the Subject, Fordham Univcrsity Press, New York 2.01 5, p. 94 (trad. it. di M. Anzalonc, Sentire ciò che nell'altro è vivente. L'amore nel giovane Hegel, Orthotes, Napoli-Salerno 2.014, p. 75). 17 Jacqucs Derrida, Marges- de la philosophie, Minuit, Paris 1972. (trad. it. di M. lofrida, Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, p.111). Per questo tema, si rimanda a Caterina Resta, Pensare al limite. Tracciati di Derrida, Guerini, Milano 1990, pp. 106-13 1. 18 Jacqucs Derrida, L 'écriture et la différence, Scuil, Paris 1967 (trad. it. di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 2.002, p. 197, n. 1). 19 Jacqucs Derrida, Positions, Minuit, Paris 1972. (trad. it. di M. Chiappini, Posivoni. Scene, atti, figure della disseminazione, a cura di G. Scrtoli, ombre corte, Verona 1999, pp. 55-56). 20 lvi, p. 56. 21 J. Butlcr, Subjects of Desire cit., p. 183 (trad. it. cit., p. 2.04). 21 J. Butler, Commet1tary to J.C. Flay cit., p. 176. Secondo Butler, Derrida rivede le sue posizioni su Hcgcl (dr. J. Butler, Subjects of Desire cit., p. XX (trad. it. cit., p. XXII]) allorché ammette che la «negazione non equivale necessariamente a un lavoro dialettico» 13 1

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Rispetto a tale lettura di Hegel, Butler è debitrice, per sua stessa ammissione, dell'impostazione ermeneutica di Nancy, il quale «libera Hegel del tropo della totalità, insistendo sul fatto che )'"inquietudine" del sé è esattamente la sua modalità di divenire, la sua definitiva non-sostanzialità nel tempo, e la sua specifica espressione di libertà» 2 3, intesa non come libero arbitrio di un soggetto padrone di sé, ma come liberazione da ogni stabile fissità, esperienza della negatività della sostanza. VAufbebung, dunque, non può essere considerata «una struttura puramente appropriativa» 24 né può essere equiparata ad «un progetto di totalizzazione» 2 s, perché il sé che precede il viaggio non c'è più, si è irrimediabilmente differenziato. Non a caso, a dare avvio al movimento del soggetto è il desiderio, che è «ricerca dell'identità in ciò che sembra differente» 26• Il desiderio [Begierde] 2 7 hegeliano oscilla, secondo Buder, fra due accezioni, che marcano l'interdipendenza del soggetto. La Begierde della coscienza, che ha bisogno dell'altro per essere se stessa, sembra inserirsi in quell'antica tradizione filosofica, risalente a Platone, che connette il desiderio alla mancanza. Butler interpreta questa mancanza in termini psicoanalitici come una disgregazione ontologica, insistendo sul fatto che l'autocoscienza è definita da una «partizione originaria [Urteiq »28 , quella che per Lacan è una «mancanza-a-essere» 29 , una beanQacqucs Dcrrida, Désistance, in Id., Psyché. ltwentions de l'autre 11, Galiléc, Paris 2.003 (trad. it. di R. Balzarotti, Désistance, in Id., Psyché. l,wenzio,u dell'altro Il, Jaca Book, Milano 2.009, p. 240]) e parla di "fou.c di resistenza" all'Aufbebu11g, che non sono «negatività ri-lcvabili o che si ri-lcvano» Qacqucs Dcrrida, Glas, Galiléc, Paris 1974 (trad. it. e cura di S. Facioni, Glas, Bompiani, Milano 2.006, p. 2.30]). 1 3 J. Butlcr, Subjects of Desire cit., p. XVIII (trad. it. cit., p. XIX). Nancy sostiene che Hcgcl si riappropri del senso originario della logica, considerando il principio di identità come «salto nell'altro di ciò che non è mai stato in sé» Qcan-Luc Nancy, Hegel. L'inquiétude du tregatif, Galiléc, Paris 2.018 [trad. it. di A. Moscati, Hegel. L'i11quietudine del negativo, Cronopio, Napoli 2.010, p. 55)). 1" Judith Butler Commentary to J.C. Flay. Hegel, Derrida a,ul Bataille's Laughter, in W. Dcsmond (cd.), Hegel and bis Critics. Philosophy ;,, the Aftermath of Hege~ State Univcrsity of New York Prcss, Albany 1989, p. 17 5. 1 s lbid. 16 J. Butlcr, Subjects of Desire cit., p. 7 (trad. it. cit., p. 10). 1 7 G. F. W. Hcgcl, Fenomenologia dello Spirito cit., p. 145. 1 s G. F. W. Hcgcl, E,uidopedia dellescie,,ze filosofiche cit., S 166, p. 165. 1 9 Jacqucs Lacan, Le Séminaire de ]acques Lacan. Livre Xl. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, tcxtc établi par J.-A. Millcr, Scuil, Paris 1973 (trad. it. di S. Loaldi e I. Molina, Il seminario. Libro Xl. I quattro concetti fondame11tali della psicoa,,alisi, a cura di A. Caccia, Einaudi, Torino 1979, p. 30).

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za aperta nell'essere, una «Spaltung o scissione»3°. Ma la Begierde, per Butler, è anche «la riformulazione hegeliana del conatus di Spinoza»3 1 , uno sforzo, o meglio una forza, che include «il lavoro negativo» 31·, in quanto spinge ad assumere una forma e impedisce il completo assorbimento in quella forma. La forLa è il sussistere e l'estrinsecarsi, mentre la forma è una dinamica di differenziazione e non un che di statico e autosufficiente, cosicché il desiderio di preservarsi «si realizza solo attraverso il desiderio di essere riconosciuto» 33, che Butler chiama, anche stavolta con un lessico lacaniano, «desiderio del desiderio di un altro»34, un desiderio che non mira ad assimilare l'altro, ma considera l'altro necessario alla costituzione del sé. Il conatus, dunque, non è puramente individuale, perché «finisce per richiedere [... ] una socialità»35 ed il suo sistema di costumi [Sittlichkeit], in base a cui avviene il riconoscimento, che non è mai pacifico, ma è sempre una tragica lotta, la «lotta per la vita e per la morte»3 6•

3. Assoggettamento Secondo Butler, descrivendo la dinamica "passiva" dell'essere riconosciuto sostenuta dalla Sittlichkeit, Hegel svela che l'assoggettamento è il «simultaneo processo di costituzione e regolamentazione del soggetto»37. Foucault - osserva Butler - sviluppa quest'intuizione, al3° Jacques Lacan, Subversio11 du sujet et dialectique du désir dans l'inconscient freudie11, in Écrits, Scuil, Paris 1966 (trad. it. di G.B. Contri, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio 11ell'inconscio freudia110, in Scritti, Einaudi, Torino 2.002., II, p. 818). 3• J. Butler, Subjects of Desire cit., p. 26 (trad. it. cit., p. 30). 32 lvi, p. 11 (trad. it., p. 14). Cfr. Hcgcl, Fenomenologia dello spirito cit., I, pp. 108 e sgg. 33 Judith Butlcr, Givi11g an AccoUllt of Oneself, Fordham University Prcss, New York 2005, p. 43 (trad. it. di F. Rahola, Critica della viole!U'A etica, Fcltrinelli, Milano 2006, p. 62.). 3-4 J. Butlcr, Subjects of Desirecit., p. 43 (trad. it. cit., p. 50). Clr. Lacan, Scritticit., I, p. 261). 3S judith Butler, The Desire to live. Spim,za's Ethics u,uler Pressure, in Ead., Senses of the Subjectcit., p. 65. 36 G. F. W. Hcgcl, Fe11omenologia dello Spirito cit., p. 157. 37 Judith Butler, The Psychic Life of Power: Theories in Subjection, Stanford University Prcss, Stanford 1997, p. 32 (trad. it. e cura di F. Zappino, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 67). La trasposizione dal piano ontologico a quello giuridico-politico delle considera7.ioni sulla non coincidenza a sé dell'Identico, che presuppone il riconoscimento dell'altro, avvicina le riflessioni di Butler a quelle di Simone Weil, come emerge in Rita Fulco, Soggettività e potere. Ontologia della vultierabilità in Simone Weil, Quodlibct, Macerata 2020, pp. 59-62..

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lorché nota che il potere moderno «non è più limitato ai parametri della sovranità»3 8, ma è «diffuso in tutti i disparati ambiti dell'apparato statale [... ] e diffuso similmente anche nella società civile» 39. Il funzionamento di tale potere è per-formativo, per usare un lessico austiniano, in quanto «non solo agisce [acts] sul soggetto, ma ne stabilisce [enacts] l'esistenza»4°. Ciò significa che il soggetto non è solo assoggettato al, ma prodotto dal potere. A determinare la trasformazione del potere da costrizione a meccanismo performativo è la norma, che mira a regolarizzare e correggere, a differenza della legge, che punisce e reprime. Quella della norma, come suggerisce Macherey, non è un'azione su, ma un'azione in, «immanente al suo campo d'intervento»4 1 , il soggetto, che non le preesiste, ma che essa stessa costituisce. La costituzione del soggetto, osserva Butler, «non ha luogo una sola volta e non appartiene a una scena di inaugurazione»4 2 o di fondazione, perché i termini con cui viene fissata e articolata l'identità, pur avendo una parvenza ontologica, sono storico-sociali; «l'ontologia, quindi, non è una fondazione, ma un'ingiunzione normativa che opera in modo insidioso installandosi nel discorso politico come suo fondamento necessario»43. Le norme sono «regimi di verità»44, che producono l'idea [eidos] del "vero sé" come se fosse un modello ontologico, dissimulando che è un'immagine [eidolon], prodotta all'io-

38 Judith

Butler, &citable Speech: A Politics of the Perfonnative, Routledgc, LondonNew York 1997, p. 78 (trad. it. di S. Adamo, Parole che provocano. Per u1,a politica del perfonnativo, Cortina, Milano 2.010, p. 111 ). 39 lbid. Cfr. Michcl Foucault, "Il {aut defendre la société", Scuil-Gallimard, Paris 1997 (trad. it. e cura di M. Bcrtani, A. Fontana, "Bisogna difetulere la società", Fcltrinclli, Milano 2.010). 40 J. Butler, The Psychic Life of Power cit., p. 13 (trad. it. cit., p. 51). Per un approfondimento, mi permetto di rinviare a Valentina Surace,]udith Butler e il carattere performativo del potere, «Im@go. A Journal of thc Social lmaginary», 14, 2.019, pp. 2.48-2.70. "' Pierre Macherey, De u,nguilhem à Foucault. La farce des normes, La Fabrique, Paris 2.009 (trad. it. di P. Godani, Da u,nguilhem a Foucault. La fo"-O delle nonne, ETS, Pisa 2011, p. 9). 42. Judith Butler, Reply to Mills a11d Je,,kins, «differcnces. A Journal of Feminist Cultural Studies», 2., 2.007, p. 182. (trad. it. di S. Adamo, La no11-violenta è necessaria e impossibile. Risposta a u,therine Mills e Fiona ]enki11s, «aut aut», 344, 2.009, p. 12.9). 43 Judith Butler, Getuler Trouble: Femi11ism and the Subversion of ldentity, Routlcdge, New York-London 1999, p. 189 (trad. it. di S. Adamo, Questio11e di genere. li femmi11ismo e la sovversio11e dell'identità, Latcrza, Roma-Bari 2.013, p. 2.09). ""J. Butler, Undoi11g Getuler cit., p. 57 (trad. it. cit., p. 107).

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terno di rapporti di potere. Le norme sono «ontologie implicite»45, che raramente vengono riconosciute e così conservano una «relativa invulnerabilità»46• Istituendo la sfera dell'intelligibilità, esse plasmano i soggetti normali ed escludono altri anormali, «coloro il cui "posto è il non essere"» 47. Rigiocando un termine lacaniano, Butler asserisce che la {orelusione è l' «atto di negazione che [... ] struttura il soggetto»4 8, l'atto di escludere, barrare, tagliar fuori, che non avviene una sola volta, ma è una «dinamica continua» 49 , che si ripete. Da questo punto di vista, Butler condivide con Derrida l'idea che una norma per essere efficace deve essere iterabile, come qualsiasi segno linguistico, che assume lo stesso significato per tutti ed è citabile da tutti5°. L'iterabilità è cruciale per comprendere che «le norme non agiscono in modo deterministico»SI, in quanto, da un lato, conferisce efficacia alle norme, dall'altro, governa la possibilità della trasformazione socio-politica: citare in modo differente la medesima norma può, infatti, determinarne il fallimento e l'alterazione 52• Butler, a differenza di Derrida, pensa che la possibilità di questo tipo di iterazioni critiche non dipenda esclusivamente dalla struttura grafematica del segno, ma anche da condizioni socio-politiche. È per questo motivo che integra la sua analisi con quella di Bourdieu, il quale, contrariamente a Derrida che dà un'interpretazione eccessivamente formalistica del performativo, evidenzia che «l'uso del linguaggio [... ] dipende dalla posizione sociale del locutore»B. Butler, tuttavia, critica l'equi-

4S Ivi, p. 2.14 (trad. it., p.311). 46 J. Butler, Excitable Speech cit.,

p. 134 (trad. it. cit., p. 193). Butler, Athena Athanasiou, Dispossesion. The Performative i11 the Politica/, Polity Press, Cambridge 2.013, p. 19 (trad. it. di A. Carbone, Spoliazione. I se,~ casa, senza patria, senza cittadina,,za, Mimesis, Milano-Udine 2.019, p. 2.6). 48 J. Butler, The Psychic Life of Power cit., p. 2.12., note 3 (trad. it. cit., p. 159, n. 7). 49 J. Butler, Excitable Speech cit., p. 135 (trad. it. cit., p. 195). so Jacqucs Derrida, Limited I,ic., Galiléc, Paris 1990 (trad. it. di N. Perullo, Limited lnc., Cortina, Milano 1997, p. 19). s• Judith Butler, Frames of WaT: when is Life grievable?, Verso, London-New York 2.009, p. 168. 52· Sui due significati complementari dell'iterabilità, ripetizione e alterità, dr. J. Derrida, Limited lnc. cit., p. 12.. Mi sono occupata dei risvolti etici della critica in Butler in Valentina Suracc,]udith Butler per una responsabilità critica, «Logoi.ph. Joumal of Philosophy», 15, 2.02.0, pp. 161-172., a cui mi permetto di rinviare. SJ Pierre Bourdieu, Langageet pouvoirsymbolique, Fayard, Paris 2.001 (trad. it. di S. Massari, La parola e il potere: l'economia degli scambi linguistici., Guida, Napoli 1988, pp. 84-85). 47 judith

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valenza stabilita da Bordieu tra autorizzazione a parlare e parlare con autorità, che esclude che sia «possibile parlare con autorità senza avere l'autorizzazione a parlare»54. Per Butler, è proprio l'espropriazione del discorso autorizzato a possedere una forza di rottura, che mette a nudo l' espropriabilità del potere.

4. L'identità nazionale

La decostruzione butleriana della soggettività non si limita all'ambito individuale, ma comprende anche quello collettivo, precisamente nazionale. D'altronde, Butler lo precisa, «quando parliamo di "soggetto" non sempre parliamo di individuo: parliamo di un modello di azione e di intelligibilità, basato molto spesso su un concetto di sovranità»55. Butler osserva che il nazionalismo opera «producendo e sostenendo una certa versione del soggetto» 56 , il quale, benché sia immaginario, è prodotto e sostenuto attraverso forme di potere. Gli stati-nazione sono «le strutture legali e istituzionali che delimitano un territorio»57, determinando, per alcuni, i diritti e gli obblighi della cittadinanw, e, per altri, lo status della non-appartenenz,a. Ogni nazione stabilisce in cosa consista l'appartenenza come proprio cittadino mediante un atto dichiarativo, che funge da ontologia implicita. Come suggerisce Derrida, il redattore di una dichiarazione costitutiva «scrive, ma non firma»5 8, agisce da rappresentante del popolo rappresentativo, che «non esiste, in quanto tale, prima di questa dichiarazione» 59. È la firma che inventa il firmatario, è l'atto dichiarativo che «realizza [performs ]» 60 ciò che dichiara. Seguendo Derrida, Butler sostiene che l'enunciazione "we, S4 J.

Butlcr, P.xcitable Speech cit., p.

157 (trad. it., p. 226).

ss Judith Butlcr, Precarious Life: The Powers of Mouming atul Violence, Verso, London-Ncw York 2004, p. 45 (trad. it. e cura di O. Guaraldo, Vite precarie. Contro l'uso della violetWJ i11 risposta al lutto collettivo, Mcltcmi, Roma 2004, p. 66). S6 J. Butlcr, Frames of Warcit., p. 47. S7 Judith Butlcr, Gayatri Chakravorty Spivak, Who sings the Natio11-state? Language, Politics, Belonging,Scagull Books, London-Ncw York 2007, p. 3 (trad. it. di A. Pirri, Che fine ha fatto lo stato-1,at,ione?, Mcltcmi, Roma 2009, p. 3 2). 58 Jacqucs Dcrrida, Otobiographies. L •e,,seignemet1t de Nietzsche et la politique du nom propre, Galiléc, Paris 1984 (trad. it. di R. Panattoni, Otobiographies. L•insegnametlto di Nietzsche e la politica del nome proprio, il poligrafo, Padova 1993, p. 24). S9 lvi, p. 26. 60 lvi, p. 23.

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the people", considerata comunemente un'enunciazione constatativa, sia, in realtà, performativa; non si limita, dunque, a descrivere una pluralità, ma «porta in essere il popolo che nomina» 61 • Ogni performativo istituisce dei soggetti e ne bandisce altri, «ogni designazione del "popolo" opera attraverso la delimitazione di un confine fondato sui concetti di inclusione ed esclusione» 62 - come già aveva notato Arendt63. Per esprimere un'identità nazionale bisogna mantenere una certa omogeneità ed immunizzare o «purificare la nazione dalla sua eterogeneità» 64. Il fondazionalismo dello stato-nazione, dunque, consiste nel presupporre e fissare in anticipo i soggetti che si intende rappresentare. Tuttavia, osserva Butler, «se le identità non fossero più fissate come 61

Judith Butler, Notes toward a perfonnative theory of assembly, Harvard University Press, Cambridge 2.015, p. 169 (trad. it. di F. Zappino, L•a/Iea,,za dei corpi: note per una teoria performativa de/fazione collettiva, Nottetempo, Roma 2.017, p. 2.68). 62 Ivi, p. 164 (trad. it., p. 2.60). 63 Cfr. Hannah Arendt, The origins of Totalitarianism, Harcourt Brace jovanovich, New York 1948 (trad. it. di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2.009, pp. 375-402.). '4 J. Butler, G. C. Spivak, Who sings the Nation-state? cit., p. 32. (trad. it. cit., p. 46). t noto che Esposito introduce la nozione di immunità come l'opposto della comunità: communis è chi è tenuto ad un dono obbligante (munus) reciproco (mutuus), immunis chi ne è dispensato (dr. Roberto Esposito, Commu,utas. Origine e destino della comutlità, Einaudi, Torino 1998). Si tratta di una nozione privativa e comparativa, poiché designa l'eccezione rispetto alla regola e alla condizione altrui, dal carattere anti-comunitario, poiché interrompe il circuito sociale della mutualità (dr. Roberto Esposito, lmmunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2.02.0 2). Pertanto, solo spingendo l'immuniu.a7.ione a immunizzare se stessa, si potrebbe riaprire il tempo della communitas originaria, segnata non da un "più", da una proprietà, ma da un "meno", da un debito (dr. Roberto Esposito, Termini della politica. Comw,ità, immunità, biopolitica, Mimcsis, Milano-Udine 2.018). Esposito precisa che I' immutlitas designa I'cccczione solo nell'epoca del pater familias romano o del monarca assoluto, invece, nella democrazia moderna si estende a ogni individuo, ma solo di principio, perché di fatto copre una parte del genere umano, a danno dell'altra, creando due mondi contrapposti, quello dei protetti e degli esposti: «non è che, mentre alcuni sono protetti, altri semplicemente non lo sono. Non lo sono perché sia consentito ai primi di esserlo» (Roberto Esposito, Immunità comune. Biopolitica all•epoca della pa,ulemia, Einaudi, Torino 2.02.2., p. 51). Ciò avviene perché «la democra7.ia può essere tale solo se, come il simile va trattato in maniera simile, il dissimile va trattato diversamente. All'eguaglianza dell'omogeneo corrisponde la messa a distanza, cioè l'esclusione, dell'eterogeneo[ ... ]. Se i diritti democratici si applicassero indistintamente a tutti, si priverebbe I'cguaglial17.a del suo significato sostanziale - conferito soltanto dall'ineguaglianza di coloro che non ne fanno parte. t precisamente questa distinzione - o meglio opposi7.ione - tra eguali e diseguali, cittadini e stranieri, amici e nemici, a definire la specificità della politica democratica: chi non appartiene allo Stato, come ogni straniero, va escluso» (ivi, p. 73).

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premesse cli un sillogismo politico [... ], allora dalle rovine del vecchio sorgerebbe senz'altro una nuova configurazione della politica» 65. Per poter funzionare, il fondazionalismo necessita di un essenzialismo culturale. Tuttavia, non si dà auto-identità di nessuna cultura, perché, come l'identità del soggetto individuale è disfatta in anticipo da una stranierità, così, «la purezza culturale è disfatta in anticipo da una contaminazione che non può espellere» 66, da un esterno costitutivo. Butler si chiede, allora, «come può questa impurità essere mobilitata a scopo politico per produrre un'esplicita politica del'impurità culturale?» 67, una politica che consideri l'immunizzazione finalizzata «non all'autoconservazione, ma all'autodistruzione» 68 ? Il fatto che Butler critichi il nazionalismo non significa, dunque, che avversi l'autodeterminazione, purché si riconosca che «nessun soggetto, nemmeno il soggetto-nazione, esiste al di fuori di un contesto internazionale» 69 e che, di conseguenza, al cuore dello Stato si colloca il compito cli tradu"e. Compito, questo, quanto mai urgente in un mondo globale, ove saltano le topografie gerarchiche moderne e «quello che prima veniva percepito come un confine, qualcosa che delimita e contiene, ora è un luogo densamente popolato, se non addirittura la definizione stessa di nazione, nella quale le identità si confondono» 70• Per evidenziare anche in questo caso la tragici6 s J.

Budcr, Gender troublecit., pp. 189-190 (trad. it. cit., p. 209). Butlcr, Dy,zamic Co,iclusions, in Judith Butlcr, Ernesto Laclau, Slavoj 2izck, Continget,cy, Hegemony, Universality. Contemporary Dialogues on the Lefo, Verso, London-Ncw York 2.000, p. 276 (trad. it. di T. Dini, D. Ferrante, D. Garritano, Conclusioni di,zamiche, in Dialoghi sulla sinistra. Co11tingenza, egemonia, u,uversalità, a cura di L. Bazzicalupo, Latcrza, Roma-Bari 2010, p. 2.76). 67 Jbid. 68 Judith Butlcr, Parti11g Ways: Jewishtzess and the Critique of Zionism, Columbia Univcrsity Prcss, New York 2.012, p. 98 (trad. it. di F. Dc Lconardis, Strade che divergo110: ebraicità e critica del sio,usmo, Cortina, Milano 2.013, p. 130). '9 J. Budcr, Precarious Life cit., p. 99 (trad. it. cit., p. 124). 70 lvi, p. 49 (trad. it., p. 71). Secondo Budcr, il confine della traduzione non passa solo fra le lingue, ma attraversa ogni lingua, che non solo contiene già in sé la possibilità della traducibilità, ma è già da sempre non identica a sé, abitata o infestata dall'altro. Il che significa che siamo gettati nella confusione assoluta o nella «traduzione assoluta», come direbbe Dcrrida Uacqucs Dcrrida, Le monolinguisme de l'autre, Galiléc, Paris 1996 (trad. it. di G. Berto, li mo110/inguismo dell'altro o la protesi d'origine, Cortina, Milano 2004, p. 83]). Riconoscere l'ctcrologia costitutiva di ogni idioma non significa negarne la singolarità, ma scongiurare che si leghi a forme di nazionalismo piuttosto che a politiche che riconoscano cd assicurino persino ai "senza-stato" il diritto di parola. 66 Judith

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tà della dinamica del riconoscimento, Butler asserisce che si tratta di intentare «una concreta lotta di traduzione»7 1 , volta a produrre non un multiculturalismo o un'assimilazione monolinguistica, ma un' «alleanza nella differenza» 72. Il compito della traduzione - come insegnano Derrida e Spivak - è necessario e impossibile. È necessario per mostrare che le norme falliscono nel delineare l'ambito universale, eppure conservano la possibilità di ridelinearlo. È impossibile non perché irrealizzabile, ma perché fa l'impossibile per «produrre - performativamente - un altro tipo di "noi"» 73, rispetto a quello circoscritto dallo Stato nazionale, un "noi" «plurale, cioè, internamente differenziato»74. Pertanto, come alternativa al nazionalismo, Butler, rifacendosi ad Arendt, pensa a una comunità federa le. Il che significa, secondo alcuni interpreti, che rifiuta di costruire la sua proposta filosofica su un soggetto auto-fondato, ma non rinuncia al concetto parallelo di "comunità " 75 , oppure che tenta di pensare la communitas originaria 76, sottratta alla deriva sostanzialistica moderna. Del resto, la sua idea di comunità affonda nel principio arendtiano, ma prima ancora ebraico, di coabitazione, che «è antecedente a qualsiasi comunità, nazione o vicinato» 77 e implica l'obbligo di preservare la pluralità della popolazione della terra, il diritto di ognuno ad abitarla e il divieto di rivendicarla solo per sé.

71

J. Budcr, Excitable Speech cit., p. 88 (trad. it. cit., p. 12.5). Budcr, Performativity, precarity and sexual politics, «AIBR Rcvista dc Antropologia Iberoamericana», 3, 2.009, p. IX. 73 Jvi, p. X. 74 Judith Budcr, Hannah Aretult's Death Sentences, «Comparative Litcraturc Studics», 3, 2.011, p. 2.93. 7 s Cfr. Cathcrinc Mills, U,uloing F.thics: Butler 011 Precarity, Opacity a,ul Respo11sibility, in M. Lloyd (cd.), Butler a11d F.thics, Edinburgh Univcrsity Prcss, Edinburgh 2.015, p. 61. 76 Vedi supra nota 64. n J. Butlcr, Partit,g Ways cit., p. 12.5 (trad. it. cit., p. 168). 11. Judith

Anarchia e democrazia radicale. Etica, politica, storia in Hannah Arendt e Jacques Rancière Massimo Villani

Obiettivo di questo intervento è verificare la possibilità di una distinzione tra democrazia radicale e anarchia. Che tale differenza si dia è tutt'altro che scontato, dal momento che gli stessi teorici della democrazia radicale descrivono quest'ultima come un plesso di pensieri e pratiche non fondato, privo di ogni principio; essi, di conseguenza, assimilano senza resto l'una prospettiva all'altra. L'ipotesi che, invece, guida questa ricerca è che le due cose non siano del tutto sovrapponibili. Il sottile margine di discrepanza che le rende discernibili è costituito da un diverso modo di intendere il concetto di contingenza: è possibile pensare una contingenza absoluta distinta da una contingenza radicale. La prima determina una condizione nella quale gli enti, sganciati da ogni legame - sia reciprocamente, sia rispetto a un'origine, un fondamento, un principio - sono esposti all'infinito delle possibilità. Con contingenza radicale, invece, intendo una condizione nella quale la necessità non è semplicemente rimossa, ma, per così dire, superata: in questo caso la contingenza non è un destino, bensì è una sorta di conquista alla quale si giunge attraverso uno scarto dalla necessità, uno spostamento che, però, non annulla quest'ultima. Nel primo caso domina il cattivo infinito di un possibile del tutto indeterminato; nell'altro, invece, si ha il concreto, ovvero il concrescere, di una condizione che è sì contingente, ma tuttavia radicata in una trama di relazioni - tra gli enti, e tra essi e la loro origine - che, in qualche modo, limita il dilagare assoluto della contingenza. Il quadro categoriale del presente saggio è costituito dai contributi di Hannah Arendt e Jacques Rancière, autori per molti versi inconciliabili, ma i cui lavori saranno attraversati secondo una logica dell'intensificazione o, meglio, secondo un percorso di radicamento

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progressivo. È possibile individuare due questioni che formano uno spazio di convergenza tra i lessici dei due autori. La prima è relativa al piano antropologico e soggettivo dei rispettivi discorsi. Certamente mai come in questo momento storico si impone l'evidenza del fatto che esiste una agency non umana con cui è necessario fare i conti 1 • Occorre, però, trovare un'articolazione tra ontologia e politica che non faccia di quest'ultima l'effetto di una mancanza o di un debito originario. La forza delle proposte teoriche di Arendt e Rancière sta nell'aver concepito la politica come una prassi sì infondata, ma nella quale a esprimersi non è questa assenza di fondamento, ma la capacità - o il potere - di uomini e donne di produrre discorsi, cose, gesti. Il secondo punto di intersezione è costituito dal duplice rapporto della politica con l'etica e con la storia. Entrambi separano nettamente questi domini, ma, in definitiva, tale distinzione risulta piuttosto analitica che normativa: garantire una sfera di visibilità per la politica in quanto tale non vuol dire affatto, per i due autori, concepirla come sganciata dall'etica o da ciò che, con un linguaggio estraneo a Arendt, chiameremmo processi di soggettivazione. Lo stesso vale per la storia: essa non è un suolo determinante, ma la politica si manifesta solo nel suo radicarsi nella storia e nell'attualità.

Democrazia ovvero anarchia Non c,è nessuna garanzia a priori che il "popolo,, come attore storico acquisterà un'identità progressista (dal punto di vista della sinistra}. Proprio perché a essere revocato in questione non è il contenuto ontico di ciò che viene calcolato, bensì il principio ontologico di calcolabilità, le forme discorsive che questa revoca in questione assumerà, in effetti, resteranno indeterminate. Rancière, invece, quantomeno a mio avviso, tende troppo a identificare la possibilità di una politica tout court con la possibilità di una politica emancipatoria, senza tener conto di altre alternative: per esempio che l'incalcolato possa assumere la sua incalcolabilità seguendo un'ideologia incompatibile con la mia e di Rancière (in direzione fascista, ad esempio} 2 •

1 Su questo punto si veda il recente e aggiornato libro di Paolo Missiroli, Teoria critica dell'a11tropocene. Vivere dopo la Terra, vivere nella Terra, Mimesis, Milano-Udine 2.02.2.. 2 Ernesto Laclau, On populist reason, Verso, London 2.005 (trad. it. di D. Ferrante, a cura D. Tari7.7.o, La ragione populista, Later7.a, Roma-Bari 2.008, p. 2.33).

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In questo passaggio Laclau mette in luce quello che è il problema di ogni teoria e prassi politica che intenda centrarsi sui concetti di vuoto, assenza di fondamento, indeterminazione. Non solo il populismo, ma ciò che, proprio a partire da un importante libro di Laclau e Mouffe3, è stato chiamato democrazia radicale si mostra esposto a ogni tipo di sbandamento e, per ciò stesso, a una pericolosa connivenza coi regimi e le culture politiche che essa intende avversare. C'è una «debolezza ontologica» 4 che attraversa simili proposte teoretico-politiche, rendendole tanto efficaci quanto fragili. Elaborato durante gli anni Ottanta da parte di autrici e autori formatisi durante i movimenti del 68, il pensiero della democrazia radicale ha in verità una genealogia più risalente. Essa rimanda alla modernità e, in particolare, al momento della sua massima tensione, quando cioè lo sforzo di contenere differenze proliferanti dentro una sintesi coerente arriva al suo punto limite: è in un contesto hegeliano che Marx afferma che la democrazia politica non dice la verità, rimuove lo sfruttamento dei più deboli, e lo fa mistificando la realtà, attraverso un gioco di prestigio col quale i potenti nascondono la contingenza del loro privilegio. I teorici contemporanei della democrazia radicale, sebbene critichino il dogma marxista della filosofia della storia, si rifanno esattamente al dettato marxiano della contingenza di ogni assetto socio-politico, ma anche di ogni sapere che intenda giustificare o fondare un certo ordine. La radicalità va intesa in due modi. Essa dice anzitutto l'intransigenza con la quale si rifiuta ogni compromissione con le tecniche governamentali e dunque con i paradigmi deliberativi e partecipativi della democrazia. Ma, più essenzialmente, essa afferma che la politica si effettua integralmente nell'immanenza: non c'è alcuna universalità - dialogica, razionale - che possa fare da garante ai processi politici, nulla trascende le differenze. È solo nelle pratiche che può emergere la verità di ciò che accade: la vera democrazia sta nelle 3 Ernesto Laclau, Chantal Mouffc, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, Verso, London 198 5 (trad. it. di F. M. Cacciatore e M. Filippini, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, il melangolo, Genova 2.001). -4 Con questa espressione Oliver Marchart tenta di mettere a fuoco il punto caratteristico del paradigma postfondazionale del pensiero politico da lui individuato in un testo che ha avuto molto riscontro: Olivier Marchart, Post-Fou,ulational Politica/ Though. Political Differetu:e in Nancy, Lefo~ Badiou and Laclau, Edinburgh University Prcss, Edinburgh 2.017.

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condotte che prendono forma ai margini dei costumi istituzionalizzati. In definitiva la radicalità non è solo un ampliamento degli spazi democratici, ma un «deciso cambio di piano» 5, poiché essa registra il ribaltamento del tradizionale rapporto tra teoria e prassi. Non solo la seconda non è fondata dalla prima, ma essa è in qualche in qualche modo la condizione di possibilità del pensiero6• Evidentemente tutto quanto si è qui sommariamente detto, può essere perfettamente raccolto nel concetto di anarchia. Naturalmente il riferimento non è alla tradizione dell'anarchia politica, ma a una metafisica dell'assenza di principi, qual è quella messa a punto da Reiner Schiirmann nel suo capolavoro, Le principe d'anarchie. Com'è noto, qui l'autore cercava di recuperare la fecondità del pensiero heideggeriano relativamente alla questione dell'agire, e lo faceva proprio sottraendo l'azione a ogni principio archico. Tuttavia, senza poter qui minimamente dar conto della enorme ricchezza e complessità del pensiero schurmanniano7, si vorrebbe sottolineare un aspetto problematico di questa "ontologia debole" che torna a manifestarsi in quegli sbandamenti cui, come prima si diceva attraverso le parole di Laclau, sono esposte alcune posizioni teoriche. Sin dalle primissime battute del suo libro, infatti, Schiirmann afferma che la brisure che fa crollare l'ultima epoca e inaugura una storia post-epocale, è opera della tecnica. Essa libera gli enti da ogni vincolo d'essenza e, in tal modo, li abbandona nella contingenza: quest'ultima è esattamente l'assenza di vincoli, l'illimitato delle possibilità. È il «rischio» o il «pericolo» 8 tecnologico a determinare il tramonto delle epoche. Il pericolo tecnologico consiste nella reificas Laura Ba7.zicalupo, Radicalizzare la democrazia. Produttività politica del vuoto o della pieneua ontologica, in Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi (a cura di), Almanacco di Filosofia e Politica I. Crisi dell'immatienza. Potere, conflitto, istituzione, Quodlibct, Macerata 2.019, pp. 75-92.: 75· 6 Per un'ampia disamina di tale paradigma si veda Lars Tender, Lasscn Thomassen, Radical Democracy. Politics between Abunda11ce and Lack, Manchester Univcrsity Press, Manchester 2.00 5. 7 Si rimanda per questo al recente volume di Alberto Martinengo, Uti pensiero anarchico. Filosofia, azione e storia in Reiner Schiirmann, Mcltemi, Milano 2.02.1. 8 Reiner Schiirmann, Le Principe d'anarchie: Heidegger et la question de l'agir, Scuil, Paris 1982.. Pochi anni dopo questa prima cdizione,Schiirmann ripubblica una versione inglese e ampliata del libro: Heidegger on Being and Acting: From Principlcs to Anarchy, Indiana University Prcss, Bloomington 1986; su questa edizione si basa la trad. it di G. Carchia, Dai principi all'anarchia. Essere e agire in Heidegger, il Mulino, Bologna 1995, p. 434.

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zione, nel precipitare degli enti nel loro stato ontico, senza più alcun rapporto con una dimensione originaria. La svolta nella quale la metafisica giunge alla sua chiusura consiste, dunque, in una assolutizzazione della contingenza. Gli enti sono sollevati, integralmente sciolti da ogni tipo di determinismo e consegnati a una totale indeterminazione. Questo pensiero anarchico, dunque, è l'esito di una duplice estremizzazione, della differenza ontologica e del "senza perché" del mondo. Uno scarto non colmabile separa gli enti dalla loro origine-ed è esattamente in questo che consiste la loro libertà. La chance della prassi sta nella mancanza di ogni fondamento, dunque nella priorità ontologica del possibile rispetto al reale cui gli enti sono consegnati. Dall'angolo visuale dell'anarchia, la politica è prassi assolutamente infondata: a esprimersi in essa non è alcun potere soggettivo, bensì solo una contingenza absolu'ta.

Arendt: l'estremo e il radicale Arendt elabora un'immagine non regressiva della storia. Sebbene abbia lucidamente analizzato la novità assoluta costituita dagli eventi dei primi decenni del Novecento, ella non guarda alla storia attraverso la categoria dell'eccezione. Non si tratta, per la filosofa, di individuare dei vuoti che interrompono il tempo, ma di pensare il continuo rilancio della tradizione che si ripete attraverso pulsazioni e discontinuità costituite dalla perenne immissione di novità nel mondo. Ciascun essere umano per il solo fatto di venire al mondo interrompe ma anche rilancia una tradizione rinnovandola, reinterpretandola. L'interruzione non è qui una battuta d'arresto perché essa coincide col rinnovamento: la comunità umana si riappropria continuamente del mondo, non al modo del padroneggiamento, dell'afferramento, ma nel senso di mettervi le radici. Il passaggio dal che al chi, ampiamente analizzato nelle pagine di Vita activa, è un processo di soggettivazione attraverso il quale gli esseri umani sfuggono alla reificazione proprio agganciandosi a un mondo che, in questo modo, edificano. Di conseguenza, anche la svolta tecnologica - osservata con timore da Schiirmann - disegna una condizione nella quale uomini e donne, lungi dall'essere destinati all'indeterminazione assoluta, possono, come in ogni altro momento storico, riappropriarsi di questo preciso

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scenario, ovvero inserirsi in esso e interagirvi attivamente. Questa immagine della storia è confermata da un libro come Men in Dark Times9 dove l'oscurità dei tempi è sempre attraversata da un barlume che, per quanto fioco, è sempre - ecco il punto significativo - una produzione soggettiva. A questo primo punto di divergenza rispetto al lessico anarchico di Schiirmann ne va aggiunto un altro ben più essenziale. Tutto il lavoro arendtiano, infatti, è attraversato dall'esigenza di radicare la teoria nella storia. Il suo primo lavoro, Le origini del totalitarismo, è, di fatto, un libro di storia 10 , per di più caratterizzato da uno squilibrio tra le prime due parti che costruiscono la lunga genealogia del fenomeno totalitario, e la terza, dove quel fenomeno è finalmente analizzato nel suo essere in atto. Quello di Arendt vuole essere un pensiero non solo radente i fatti, ma che emerga da essi, dalla loro «ostinatezza» 11 • Piuttosto che concentrarsi sul dispiegarsi dcli'essenza di un dato fenomeno - in questo caso il totalitarismo - Arendt procede «da fatti e avvenimenti»u. e segue il modo in cui essi «si cristallizzano» 1 3 in una forma precisa e identificabile. In questa prospettiva il mondo si mostra come qualcosa di fortemente strutturato: esso resta contingente, persino esposto al rischio della sua distruzione totale, come ben sapeva Arendt insieme a tutti coloro che hanno riflettuto sul nichilismo intrinseco all'era atomica; ma, ciononostante, il mondo non appare come l'illimitato sfarfallio di singolarità sciolte che galleggiano nel mare delle possibilità. Fatti ed eventi, con la loro ostinatezza, sono la sostanza in cui si radica e con ciò si limita la contingenza. L'ostinatezza dei fatti, che Arendt in una parola chiama «la verità» è «ciò che non possiamo cambiare: metaforicamente, essa è la terra sulla quale stiamo e il cielo che si

Arendt, Men;,, Dark Times, Harcourt, Brace & World, lnc., New York 1968. Hannah Arendt, The Origins ofTotalitarianism, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1951; trad. it. di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2.004. 11 Hannah Arcndt, T ruth and Politics, in Betweeti Past and Future. Eight Excercise.s in PoliticalThought, Viking Prcss, New York 1968, p. 2.31 (trad. it. di V. Sorrentino, Verità e politica, Bollati Boringhicri, Torino 1995, p. 70). u. Hannah Arcndt, A Replay to Erich Voegelin, «Thc Revicw of Politics», 1, 1953, pp. 76-85 (trad. it. di P. Costa, a cura di S. Forti, Archivio Arendt 2.. I950-I954, Fcltrinclli, Milano 2.003, pp. 173-180: 177). 13 lbid. 9 Hannah 10

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stende sopra di noi» 1 4. Lungi dall'essere abbandonata alla contingenza, la prassi e la teoria politica, trovano qui un suolo, una "sostanza", un humus in cui radicarsi. Occorre aggiungere che «fatti ed eventi» non sono la mera fattualità [Tatsiicblicbkeit] heideggeriana, la semplice presenza degli enti difformi dall'uomo che determinano l'orizzonte cui il soggetto è, per dirla con Lévinas, «inchiodato» 1 5. Essi sono, invece, «il costante risultato del vivere e dell'agire insieme degli uomini» 1 t;: definizione della quale va enfatizzato il richiamo alla continuità, alla permanenza e, insieme, a un'attività soggettiva che è espressione di un potere di donne e uomini che non viene mai meno. In definitiva questa verità che fa da fondamento contingente della politica non è altro che lo Zwischen-sein, l'infra, il solco che gli esseri umani scavano nel mondo mettendovi radici. È un unico e medesimo gesto quello col quale essi incrementano il mondo, attraverso la novità che vi portano, e, allo stesso tempo, sviluppano se stessi, si allargano, potremmo dire con un riferimento a quell' «ampliamento del pensiero» che Arendt desume dalla terza Critica kantiana e su cui si concentra nella sua originale elaborazione di una teoria del giudizio politico17 • Si tratta di un innesto, dell'apertura di un solco che, nell'anima come nel mondo, separa e unisce. Lo, scarto, l'in-between, non è la divisione assoluta che lascia cadere gli enti nell'infinito del possibile; al contrario esso è complicazione, moltiplicazione dei piani, è una striatura che consente la presa, l'aggancio. Il «due-in-uno» 18 è esattamente questo: una moltiplicazione attraverso la quale il soggetto si compatta, in un'adesione a sé che non è esclusiva dell'altro. Questo scarto, quindi, non è esasperazione della differenza ontologica, non è «abbandono», ma cura di sé nel mondo, soggettivazione. 1

H. Arendt, Verità e politica cit., p. 76. Emmanucl Lévinas, Quelques réflexions sur la philosophie de l'hitlérisme, Payot et Rivagcs, Paris 1997 (trad. it. di A. Cavalletti e S. Chiodi, Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hilterismo, Quodlibet, Macerata 1996, p. 2.9). 16 H. Arendt, Verità e politica cit., p. 3 5. 17 Cfr. Hannah Arcndt, Lectures on Kant s Politica/ Phlosophy, The University of Chicago, Chicago 1982. (trad. it. di P.P. Portinaro, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, Il Mclangolo, Genova 2.005, pp. 65-72.). 18 Celebre motivo del pensiero arendtiano, analizzato a partire dai suoi studi su Socrate. Cfr. Hannah Arcndt, Socrates ( 19 54), in Ead., The Promise of Politics, Schocken Books, New York 2.005 (trad. it. di I. Possenti, Socrate, Cortina, Milano 2.015). •

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Qui la riflessione sulla politica non si distingue dall'etica. Scrive Arendt, infatti, Se si tratta di un essere pensante, radicato nei suoi pensieri e nei suoi ricor-

di, di qualcuno cioè che sa di dover vivere con se stesso, ci saranno limiti a ciò che si permetterà di fare, e tali limiti non gli verranno imposti dall'esterno, ma dal suo io stcsso 1 9.

L'essere radicale, non l'anarchia, limita la contingenza. È questa postura etica che consente di guardare al proprio tempo senza farsi dominare, o annullare, da esso. Nella prospettiva anarchica di Schiirmann la svolta tecnologica «lascia essere» gli enti fuori da ogni fondamento, esponendo i soggetti a un rischio assoluto che può anche destituirne l'azione: non per caso, l'esergo al primo paragrafo di From Principles to Anarchy, cita un famoso passaggio dell'intervista di Heidegger per lo «Spiegel» nel quale il filosofo afferma l'incompatibilità tra democrazia e l'epoca tecnologica: il demos non ha kratos sufficiente a solcare il mondo in questa sua configurazione storica eccezionale 20• Per Arendt, diversamente, donne e uomini hanno sempre un potere che è direttamente proporzionale all'intensità del loro rapporto reciproco e con quel mondo comune che, proprio attraverso questo rapporto, essi edificano. Viceversa, «gli uomini che pattinano sulla superficie degli eventi, si fanno sballottare a destra e a manca senza dar prova di quella profondità di cui pur sarebbero capaci» 21 • In definitiva, Arendt concluderà che il male - etico e politico - non è radicale, ma solo estremo22: perché esso è esattamente lo sradicamento, e la conseguente assenza di limiti, la contingenza assoluta. 19

Hannah Arcndt, Some Questio1,s Of Moral Philosophy {1966), in Respo,,sibility a,ul Judgmet1t, a cura di J. Kohn, Shockcn Books, New York 2.003 (trad. it. di D. Tarizzo, Alcune questioni di filosofia morale, in H. Arcndt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2.004, pp. 41-12.6: 86). 20 Cfr. Martin Hcidcggcr, Nur noch ei11 Gott kann u,,s retten ( 1966), Klostcrman, Frankfurt am Main 1985 {trad. it. di A. Marini, Onnai solo un dio ci può salvare. lt,tervista con lo «Spiegel», Guanda, Parma 1987). :u H. Arcndt, Alcu11e questioni di filosofia morale cit., p. 86. 2.1 Si veda il celebre confronto con Gershom Scholcm, Eichma11n in ]erusalem. An Exchange of Letters betwee,1 Gerschom Scholem and Ha11nah Aretzdt, «Encountcr», 1, 1964, pp. 51-56 (trad. it. di G. Bcttini, F.ichma,m a Gerusalemme. Uno scambio di lettere tTa Gerschom Scholem e Hannah Arendt, in Ead., Ebraismo e modernità, Feltrinclli, Milano 2.003, pp. 215-2.28). Sul tema del male in Arcndt cfr. jcrome Kohn, Il male: u11 crimi,ie contro l'umanità, «Post-filosofie», 1, 2.005, pp. 7-2.6.

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La teoria per Arendt non è meditazione sull'essere che ritraendosi lascia essere o abbandona gli enti. È bensì un'attività di comprensione, di riconciliazione con un mondo nel quale arriviamo come estranei. Pensare significa radicarsi nel mondo. La politica non è effetto di un debito originario, non è alienazione del potere: essa si fonda sul dato di fatto della pluralità degli esseri umani.

Rancière: politica del virtuale «Ogni dominio è un'impostura. Con questa affermazione, Rancière si inscrive malgrado tutto nella vecchia tradizione anarchica e utopista francese, di cui egli è allo stesso tempo il pensatore di secondo grado e l'archivista intenerito, paziente ed ironico» 2.3. Badiou riconosce ed enfatizza il piglio anarchico che informa la ricerca di Rancière, di cui è attento e solerte lettore. È vero, in effetti, che diversamente da altri autori pure a lui molto vicini2 4, Rancière rivendica esplicitamente una connessione con la tradizione dell'anarchia politica: proprio riallacciandosi a essa, e dunque entrando in polemica con il marxismo scientifico del suo maestro Althusser5, egli arriva a elaborare una propria posizione teorico-politica del tutto originale. Quest'ultima, com'è noto, fa perno sull'uguaglianza di ciascuno con tutti, di conseguenza sull'illegittimità di ogni potere: quest'ultimo per potersi esercitare deve presupporre esattamente l'uguaglianza negando la quale pretende di giustificarsi26 • Dopo diversi anni dedicati allo studio di Marx2 7, Rancière fa una sorta di passo indietro per impez.3 Alain Badiou, Abrègè de Métapolitique, Scuil, Paris 1998 (trad. it. di M. Bruzzcse, Metapolitica, Cronopio, Napoli 2.001, p. 12.5). 1" Jn Foucault, per esempio, l'anarchia è un bersaglio polemico equiparato al ra7.zismo, come si vede in Id, Il {aut défendre la société, Seuil-Gallimard, Paris 1997 (trad. it. di M. Bcrtani, A. Fontana, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 2.2.6-2.2.7). z.s La rottura con Althusser è registrata e filosoficamente giustificata nel volume La leço11 d'Althusser, Gallimard, Paris 1974, ora La Fabrique, Paris 2.011. 16 ~ questa la tesi ampiamente elaborata nel libro che costituisce il punto di arrivo della riflessione politologica di Rancière, La mésentente. Politique et philosophie, Galilée, Paris 1995 (trad. it. di B. Magni, Il disaccordo. Politica e filosofia, Meltemi, Roma 2.007). z.7 La testimonian7.a maggiore di questo lavoro è il volume collettaneo Louis Althusscr, Etienne Balibar, Roger Estabct, Pierre Macherey, Jacques Rancière, Lire «Le CApital», Maspcro, Paris 196 5, 2. voli. (il saggio di Rancière, intitolato Le co11cept de critique et la critiquede l'économie politique. Des «Maniscripts» du 1844 au «CApital», si trova alle pp.

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gnarsi a esplorare la capacità del "popolo" di costruire da sé le armi delle proprie lotte, senza dover attendere la guida di un'avanguardia teorica 28 • Così Rancière arriverà ad affermare la coincidenza di anarchia, politica e democrazia: la politica non è l'attualizzazione del principio, della legge o del "proprio" di una comunità. La politica non ha arché. Essa è anarchica in senso stretto, e ciò è indicato dal nome stesso di democrazia. Come ha mostrato Platone, la democrazia non ha arché, non ha misura. La singolarità dell'atto del demos, un kratein al posto di un archein, testimonia di un disordine o di un errore di calcolo originario2.1.

Tuttavia anche qui, come già con Arendt, è opportuno sottolineare, più che le contiguità, la distanza tra l'ontologia anarchica di stampo schiirmanniano e quella che si profila nel testo di Rancière3°. Quest'ultimo, infatti, ammette che la politica trova la sua condizione di possibilità in uno scompenso originario3 1 , ma tale «disordine» non è in alcun modo un'anomia, né tanto meno un'assenza principiale che apre verso l'infinito e l'imprevedibile delle possibilità. Il disordine originario, infatti, lungi dall'essere un mitico e pauroso "stato di natura", è l'uguaglianza di ciascuno con tutti intesa come coesistenza virtuale di molteplici configurazioni materiali e simboliche dell'essere in comune. Non è il caos da cui miracolosamente emerge l'ordine come dal nulla l'essere - è bensì questa molteplicità virtuale che ogni assetto politico o, come si esprimerà Rancière a partire dall'inizio del 93-2.10 del voi. I). Dalle successive edizioni furono espunti i testi di Establet, Macherey e

Rancièrc, e a tali edizioni fa riferimento la prima traduzione italiana, Leggere Il uzpitale, Fcltrinelli, Milano 1968. La traduzione integrale della prima edizione è a cura di M. Turchetto, Leggere Il uzpitale, Mimcsis, Milano 2.006. Il testo di Rancière era già apparso in Italia come volume autonomo nella trad. di R. Rinaldi e V. Oskian (a cura di P.A. Rovatti) col titolo Critica e critica dell'economia politica. Dai «Manoscritti del 1844» al «uzpitale», Fcltrinelli, Milano 1973. 28 Cfr. Jacqucs Rancièrc, La nuit des proletaires. Archives du reve ouvrier, Fayard, Paris 1983; Le Philosophe et ses pauvres, Fayard, Paris 1983, ora Flammarion, Paris 2.007. 2.9 jacqucs Rancière, Aux bords du politique, La Fabrique, Paris 1998 (trad. it. di A. lnzcrillo, Ai bordi del politico, Cronopio, Napoli 2.011, p. 90). 3° Circa l' asccnden7.a anarchica del pensiero rancièriano, ma con una prospettiva molto diversa da quella che qui si propone, si veda T odd May, The Politica/ Thought ofJacques Rancière. Creating F..quality, Edinburgh University Prcss, Edinburgh 2.008. 3 1 Ciò che ne Il disaccordo cit., in particolare le pp. 41-60, il filosofo ha definito il «torto».

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nuovo secolo32, ogni partizione del sensibile taglia in maniere storiche e contingenti. In altri termini, la condizione di possibilità della prassi politica, non è una mancanza originaria che lascerebbe il dato in una indeterminazione assoluta che, a sua volta, farebbe da presupposto a ogni cambiamento. Trascendentale della politica è, invece, una capacità soggettiva o un potere, un kratos che si manifesta storicamente in forme diverse e che è il "fondamento" sia di ogni assetto dato, sia della sua messa in revoca. Lungi dal trovare nella prassi politica la testimonianza di un fondamento che si ritrae, Rancière afferma che le soggettività politiche prendono forma proprio radicandosi nel molteplice che garantisce alle loro esperienze visibilità e replicabilità. Che il kratos del demos sia condizionale a tale radicamento - piuttosto che a una fuga verso la contingenza assoluta - è quanto si vede se si prendono in considerazione, ancora una volta, la centralità della storia e il nesso etica/politica che Rancière elabora. Egli pensa il tempo a partire da singolarità di momenti che coesistono senza alcuna gerarchia che li coordini33. Tempo, dunque, come piano di coesistenza di frammenti non sottoposti ad alcun principio di organizzazione o organicità. Il suo metodo si discosta dall'archeologia foucaultiana, verso la quale pure ha qualche debito, liberando la storia da ogni tipo di vincolo trascendentale. È proprio questo, scrive Rancière, che mi allontana da teorie come quelle di Foucault che cercano di delimitare ciò che è possibile pensare, dire, concepire. Malgrado tutto, ciò che ho cercato di costruire era allo stesso tempo un riferimento e una reazione a Foucault: volevo dire che in un mondo di esperienza dato, si trovano molteplici maniere di sistematizzare questa esperienza, perché questo mondo è fatto di più mondi, di molteplici linee di temporalità, di molteplici linee di possibiliH.

Dunque mentre l'episteme foucaultiana aggancia pratiche e discorsi a un suolo con un perimetro delimitato, Rancière lascia gli Rancièrc, Le partage du sensible. Esthétique et politique, La fabriquc, Paris (trad. it di F. Caliri, La partizione del sensibile. Estetica e politica, DcrivcApprodi,

32. Jacqucs 2.000

Roma

2.016) •

Jacqucs Rancièrc, Les temps modernes. Art, temps, politique, La fabriquc, Paris 2.018, p. 47· 34 Jacqucs Rancièrc, La méthode de l'égalité. Entretien avec Laurent ]ea11pie"e et Dork 7.abunyan, Bayard, Paris 2.012, p. 119. .3J

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elementi che costituiscono una data configurazione materiale e simbolica in una aleatorietà dinamica nella quale non si dà alcun punto strutturale35. A tenere distinta questa immagine del tempo da una teoria post-epocale - nella quale la libertà degli enti è funzione del venir meno del principio che prima li coordinava archicamente - è un'ontologia del virtuale che, per la verità, Rancière manca di elaborare adeguatamente e sulla quale non è possibile dilungarsi a sufficienza in questa sede3 6• Si dirà solo che l'ontologia abbozzata da Rancière connette il suo pensiero a quello di matrice bergsoniana e deleuziana37. Scrive Deleuze: il virtuale non si oppone al reale, ma soltanto all'attuale. Il virtuale possiede una realtà piena in quanto virtuale. [... ] Il virtuale va anche definito come una parte integrante dcli' oggetto reale - come se l'oggetto avesse una sua parte nel virtuale e vi si immergesse come in una dimensione oggettiva3 8 •

Gli enti sono «immersi» nel fondamento nel quale agiscono e si muovono; non c'è distanza a separarli dalla loro origine, abbandonandoli a una contingenza assoluta. Nessun determinismo identitario: la metamorfosi o, nel lessico deleuziano, l'apertura di una linea di fuga, è possibile proprio perché il suolo in cui si è immersi consente di reinventare nuovi legami, stabilire nuove connessioni tra le virtualità in cui si è. Similmente l'immagine del tempo che pensa Rancière contempla una teoria del cambiamento nella quale quest'ultimo non è concepito come il colpo evenemenziale che proviene da un fuori assoluto. L'evento - ma questo termine è estraneo al lessico di Rancière proprio perché troppo carico di una metafisica dell'Altro .3S Sul confronto di Rancièrc con Foucault circa le rispettive immagini della storia dr. Kristin Ross, Rancière à co,itretemps, in Laurcncc Comu, Patrice Vcrmercn (cds), La philosophie déplacée. Autour de }acques Rancière, Horlicu &litions, Bourg en Br~ 2006, pp. 193-2o6. .36 Si trovano spunti preziosi in questa direzione là dove Rancièrc discute il concetto di evento. Cfr. La méthode de l'égalité cit., pp. 113-122. Per una disamina più ampia del rapporto di Rancièrc col tempo e la storia mi permetto di rinviare al mio Il tempo della politica. Eve11to e storia nella rifl.essione di }acques Ra,icière, «Shift. lnternational Journal Of Philosophical Studics», 1, 2018, pp. 167-182. 37 Un'esaustiva genealogia del concetto di virtuale lungo questa linea di pensiero si trova in Enrica Lisciani-Petrini, Quartetto per un'ontologia del virtuale: Bergso11, Ja,,kélévitch, Merleau-Ponty, Deleuze, «Il Pensiero», 1, 2008, pp. 5-34. 38 Gillcs Dclcuzc, Différence et répétitio11, Prcsscs Univcrsitaircs dc France, Paris 1968 (trad. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, p. 53).

ANARCHIA E DEMOCRAZIA RADICALE

- è profondamente radicato nell'immanenza. Sua condizione di possibilità, infatti, non è l'assoluta contingenza degli enti e quindi la loro esposizione integrale a un fuori imprevedibile e ingestibile; l'evento ha la sua radice in una capacità soggettiva. Vi sono eventi, accade la storia (nel senso in cui accadono delle cose} nella misura in cui l'essere umano è un essere non contemporaneo a sé. Accadono degli eventi perché ci sono tempi differenti che si scontrano, perché c'è del futuro, del futuro nel presente, perché c'è anche del presente che ripete il passato, perché ci sono temporalità differenti in uno "stesso" tempo39.

Vi è storia, afferma Rancière, proprio nella misura in cui gli uomini non somigliano al loro tempo, nella misura in cui essi agiscono in rottura col "loro" tempo con la linea di temporalità che li colloca al loro posto, imponendogli di "impiegare" il loro tempo in questo o quel modo. Ma questa rottura non è possibile se non per la capacità di connettere questa linea di temporalità ad altre, per la molteplicità di linee di temporalità presenti in un tempo-4°.

La storia e la politica esistono perché la prassi umana, radicandosi nell'immanenza, è in grado di rompere ogni sincronizzazione, perché gli uomini sono capaci, con le loro azioni e con le loro parole, di produrre anacronie, discontinuità, rotture, eventi. Quanto all'etica, Rancière non elabora una filosofia morale: refrattario allo stesso uso del termine, sgancia esplicitamente la politica dall'etica enfatizzandone il senso etimologico che rimanda all'abitare, all'essere incasellato definitivamente in un dato posto. Tuttavia peculiarità importante della sua riflessione è che essa, diversamente da quanto accade in altri autori molto prossimi a lui, in termini generazionali e filosofici, non si concentra sui corpi. La democrazia infatti non ha a che fare tanto con l'irruzione sulla scena di corpi che rivendicano la loro singolarità fuori dalle maglie rappresentative. Essa è prima di tutto cura dell'intelligenza, accrescimento di sé. Anche in questo caso abbiamo a che fare con una sorta di trama virtuale, una struttura reticolare e dinamica, che consente ai soggetti 39

Jacqucs Rancièrc, Histoire des mots, mots de l'histoire, «Communicarions», 58,

1994, pp. 87- 10 1: 93· -4° Jacqucs

Rancièrc, Le co,u:ept d'anachro,usme et la vérité de l'historien, «lnactucl»,

6, 1996, pp. 52.-68: 66.

MASSIMO VILLANI

lo scorrimento da un posto ali' altro. Questa ossatura non è un fondamento né un principio, proprio perché non vincola le soggettività alla loro posizione; nondimeno le sostiene, le intesse sia reciprocamente sia rispetto a uno spazio-tempo complesso come quello che abbiamo rapidamente descritto. Questa intelaiatura è l'uguaglianza delle intelligenze4 1 • Essa rende gli esseri umani intercambiabili, consente di negare al maestro la sua posizione e, in generale permette la destituzione di ogni autorità: ni dieu ni maitre. Ma la riflessione di Rancière non è mai concentrata su questo gesto anarchico e sovversivo. Oggetto vero della sua riflessione è la possibilità permanente di una dimostrazione dell'uguaglianza delle intelligenze, che è possibile solo attraverso la cura di sé: destituire il maestro e ogni autorità non vuol dire gettarsi nell'ebbrezza di una libertà vuota, ma, al contrario, assumere su di sé il peso della contingenza e riuscire a dominarla. L'allievo che fa a meno del maestro deve disciplinarsi, stimolare la propria volontà, dominare la sua libido, praticare tutta una serie di quelle Foucault avrebbe chiamato tecnologie del sé. Solo a partire da questo continuo lavoro soggettivo e relazionale - che Rancière chiama «emancipazione» opponendolo alle pratiche di «abbrutimento» 42 che consistono nella sottomissione della propria intelligenza a quella altrui - è possibile fare dimostrazione di uguaglianza. A sua volta, lo slittamento sempre possibile da un posto o una funzione all'altra, garantito dall'uguaglianza delle intelligenze, dice di un'ontologia frattale il cui senso può essere riassunto nella formula 'tutto è in tutto 43 • L'intelligenza è disseminata ovunque, non è nulla che si nasconda nell'intimo inaccessibile di una coscienza, ma è al contrario una potenza che si dispiega nel mondo. Diversamente da quanto emerge nelle letture più consolidate di Rancière, allora, la politica non è affatto l'evento di pura insorgenza che si consuma sclerotizzandosi poi in una forma poliziesca destinata a sua volta a essere deposta da un nuovo evento contestativo, secon-

41 ~ il tema centrale di un libro che Rancière dedica al pedagogista francese Joscph Jacotot: Le maitre ignorant, Fayard, Paris 1987; trad. it. di A. Cavazzini, Il maestro ignorante, Mimcsis, Milano-Udine 2.008. 41 Cfr. ivi, pp. 117-149. 43 Cfr. ivi, pp. 65-69.

ANARCHIA E DEMOCRAZIA RADICALE

do una cieca ciclicità 44. Politica è il nome della permanenza che fa da sostrato materiale e simbolico agli accadimenti storici. È un presupposto dinamico, che Rancière chiama anche «assioma»45, una sorta di "fondamento contingente" su cui è possibile pensare la radicalità e il radicamento di pensieri, parole, gesti .

.u Cfr. Damiano Palano, Lo scandalo dell'uguaglianza. Alcuni appu11ti sull'itinerario teorico di Jacques Ra,icière, «Filosofia politica», 3, 20II, pp. 505-520. ◄S J. Rancièrc, Ai bordi del politico cit., p. 18 3.

Michel Fouca ult, pensiero anarchico come pensiero istituente Carlo Crosato

1.

Introduzione

La questione al cuore del presente articolo è la relazione problematica fra la critica filosofica e la teoria e la pratica anarchica. Secondo la ricca ricostruzione offerta da Andrea Salvatore 1 , si intenderà la movenza anarchica come una forma radicale di pensiero consistente in una critica intransigente a ogni configurazione di vita associata, finalizzata alla messa in questione della coerenza di principi e mezzi. Esplorando la declinazione foucaultiana di tale critica radicale, ci si interrogherà su quale ontologia la sostenga, e si giungerà a ipotizzare una paradossale forma di pensiero istituente anarchico. Integrando in maniera inestricabile teoria e prassi, Foucault interpreta la sua filosofia come una penetrazione critica entro i regimi di verità e le relazioni di potere, giungendo a definirla con il termine "anarcheologia". Che una simile tensione abbia caratterizzato l'intero suo itinerario filosofico è testimoniato dal lavoro erosivo di ogni nozione unitaria portato avanti fin dai suoi primi esperimenti archeologici, e dall'autocritica che in seguito egli muove rispetto all'eccessiva consistenza, dal sapore strutturalista, di quegli stessi esperimenti della prima metà degli anni Sessanta. Si è trattato, in tutte queste incursioni, di demolire la presunta solidità attribuita ai concetti in uso, di evidenziare il carattere composito di quanto invece si presenta come naturale e perciò giusta premessa di discorso, essendo piuttosto prodotto derivato dalla complessità dei discorsi e dalle relazioni cui essi danno legittimità. Ciò che è tradizionalmente considerato prin1

Andrea Salvatore, L 'a11archismo. Teoria, pratica, storia, DerivcApprodi, Roma

2.02.0.

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CARLO CROSATO

cipio discorsivo e d'azione è riscoperto essere invece esito instabile, contingente. Al fine di sciogliere l'autoreferenzialità delle configurazioni epistemiche, Foucault introduce l'istanza informale delle relazioni di potere2 e, a metà degli anni Settanta, perché l'azione non rimanga intrappolata in una complicità troppo serrata di forze, ripensa il concetto di governo come condotta di condotta, ossia come un ineliminabile fronteggiarsi, rafforzarsi o indebolirsi di poteri e libertà. Nel 1977, con la traduzione inglese de L 'anti-Edipo di Deleuze e Guattari, viene pubblicata una prefazione in cui Foucault definisce significativamente quell'opera un «libro di etica» per la prospettiva che esso offre contro ogni forma - consapevole o meno - di fascismo3. "Etica" è una parola ricorrente nel lavoro foucaultiano degli anni Ottanta: l'autore che per anni aveva avversato la nozione di soggetto, in primo luogo come correlato paradossale dell'oggettivazione dell'umano da parte delle scienze umane4, poi come nodo delle formazioni discorsive5 e come prodotto dei dispositivi di poteré, grazie al confronto con il sapere antico individua la possibilità di una produzione etica di sé che non riprenda il soggetto come polo sovrano che sovrintende la propria storia, ma che fa leva sulla soggettivazione come processo mai concluso di relazione fra sé e sé, e fra sé e la realtà concreta delle relazioni. È a partire da questo intenso lavoro che Foucault può procedere nel proprio cantiere anarcheologico, intendendolo non solo come studio critico, ma anche come autoproduzione di un soggetto in grado di incarnare con la propria forma di vita la critica radicale della realtà che ne sostiene l'identità e le relazioni. Il carattere rigorosamente immanente della critica che il soggetto porta ai dispositivi di cui si riconosce punto nodale, la natura sempre situata nella rela2

Cfr. Gilles Deleuze, Il potere. Corso su Miche/ Foucault (1985-1986} I 2, traduzione del secondo trimestre del corso dedicato da Dcleuzc a Foucault, Ombrecorte, Verona 2.018 • .3 Michel Foucault, Preface, in Gilles Deleuze, Fclix Guattari, Anti-Oedipus. Capitalism and Schizophrenia, Viking Prcss, New York 1977, pp. XI-XIV. • Michel Foucault, Lcs mots et les choses, Gallimard, Paris 1966; trad. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose. Un•archeologia delle scienze umane, Ri7.zoli, Milano 1998•. s Michel Foucault, L•archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; trad. it. di G. Bigliolo, L •archeologia del sapere. U1,a metodologia per la storia della cultura, Rizzoli, Milano 1997-4. 6 Cfr. Carlo Crosato, Sul dispositivo, fra Foucault e Agamben, «Philosophical Rcadmgs», 9·3, 2.0 19, PP· 2.37-2.47.

MICHEL FOUCAULT, PENSIERO ANARCHICO COME PENSIERO ISTITUENTE

1 95

zione del lavoro di cura di sé, l'ambiente altamente istituzionalizzato che la pa"esia è chiamata a rianimare in senso conflittuale, sono elementi che fanno propendere per l'identificazione di un'ontologia istituente, seppure implicita e inaspettata, al cuore dell'impresa anarchica foucaultiana.

2.

Oltre la nozione di sovranità

Come già per l'episteme e le funzioni enunciative, anche concentrando la propria attenzione sui dispositivi e le relazioni di potere Foucault riscopre la storicità dei principi politici, articolandone la presunta uniformità attorno alle vicende che hanno visto il loro imporsi. L'operazione foucaultiana non consiste tanto nel disvelare l'invisibile dietro il visibile, bensì nel districare le strategie mediante cui i dispositivi discorsivi e relazionali si rendono irriconoscibili. Di ciò Foucault avverte, per esempio, in relazione al concetto di sovranità, alla pervicacia con cui essa continua a essere concetto teorico e pratico centrale nella politica moderna anche quando essa ha di fatto ceduto il campo a configurazioni di potere differenti. Se ciò è avvenuto, lo si deve al fatto che la sovranità ha saputo conferire al diritto la forza di principio che da sé non avrebbe avuto, godendo della legittimità che, per converso, da esso derivava?. Presentatasi come istanza di pacificazione nella eterogeneità dei poteri in conflitto ai tempi del Medioevo, la sovranità ha offerto un canone unificante e al contempo limitante: il diritto, strumento di divieto e punizione, è stato la forma mediante cui il potere sovrano si è manifestato come necessario e perciò accettabile. Anche la borghesia, liberandosi della monarchia, ha trovato nel l'apparato giuridico lo strumento adeguato a difendere i propri interessi economici 8 • Si è imposta così una concezione del potere come potenza negativa,

7 Michel Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, p. 15. Cfr. Nildo Avelino, Foucault, il sapere politico e l'agire anarchico, in Vittoria Segreto (a cura di), Co11tro-parola. Foucault e la parresia, Mimcsis, Milano-Udine 2.018, pp. 2.07-2.32.: 2.17. 8 Michel Foucault, Les mail/es du pouvoir, conferen7.a tenuta alla facoltà di filosofia dell'università di Bahia nel 1976, pubblicata per la prima volta con il titolo As malhas do poder, «Barbarie», 4, 1981, pp. 23-27; ora in Dits et écrits Il: I976-z988, Gallimard, Paris 2.001,

pp.

1001-102.0: 1004.

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che cioè fissa i limiti della liceità di un'azione e punisce chiunque li oltrepassi, circoscrivendo la libertà come ciò che entro tali limiti è concesso. Essendo posta in primo piano l'obbedienza ed essendo stati ridotti il dominio, la sottomissione, l'assoggettamento a suoi effetti, ciò che, nel passaggio dalla tbanatopolitica del sovrano ai dispositivi di biopotere, è rimasto disconosciuto è il carattere positivo, produttivo del potere: durante il corso accademico del 1976, Foucault parla a riguardo di un «ciclo che va dal soggetto al soggetto», ossia della concezione teorica secondo cui il potere sovrano si applica e regola un soggetto che gli preesiste e la sua libertà9. Proponendosi come puro limite imposto alla libertà perché essa potesse esprimersi in modo ordinato e pacifico, il potere moderno si è reso accettabile e ha tracciato il campo per l'eventuale resistenza alla sua arbitrarietà, occultando dall'altro lato la propria produttività, la costituzione di soggetti che, anche qualora si rendessero dissidenti, lo farebbero sfruttando gli strumenti resi disponibili e presentati come unici da tali dispositivi1°. Come apertura di un campo in cui il soggetto possa prendere posizione, il diritto non ha giocato solo il ruolo di blocco epistemologico, ma di dispositivo operativo. Per liberarsi dall'ossessione del sovrano, identificare la correlazione fra dispositivi di potere e il soggetto da essi costituito e non semplicemente limitato nella sua libertà originaria, e per provare ad aprire nuove possibilità di pensare la vita associata, negli anni Settanta Foucault tenta due operazioni. In primo luogo, in senso genealogico, cerca di scardinare la teoria politica predisponendo quella che verrà chiamata "polemocritica" 11 , ossia la critica del potere attraverso la matrice della guerra: un esperimento consistente, in poche parole, nel riattivare tutte quelle forze che il potere sovrano ha sconfitto e sottomesso, perché risveglino la consapevolezza delle lotte che il potere sovrano ha rigettato nell'oblio per imporsi come unico, universale e astorico. Un esperimento che, insomma, inten9 Michcl Foucault, "Il {aut défendre la société", Scuil-Gallimard, Paris 1997; trad. it. Di M. Bcrtani e A. Fontana, Bisog,,a difendere la società. Corso al Collège de France (1975-z976), Fcltrinclli, Milano 2.02.0 3, p. 43. 10 Michcl Foucault, La volonté de sauoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. di P. Pasquino e G. Procace~ La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Fcltrinclli, Milano 2.013 19, pp. 76-n. 11 Michcl Scncllart, Miche/ Foucault: govenramentalità e ragion di Stato, in S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Miche/ Foucault al Collège de France (1977-1979), ombre corte, Verona 2.006, pp. 13-36: 16.

MICHEL FOUCAULT, PENSIERO ANARCHICO COME PENSIERO ISTITUENTE

1 97

de animare di una potenza costituente inesauribile lo scenario politico, scongiurando l'immobilità in cui esso finirebbe precipitando in qualsivoglia regime costituito. Foucault si accorgerà ben presto di come tale speranza sia destinata a rimanere frustrata: il discorso storico-politico tende ad «autodialettizzarsi», a ricadere sempre nella dialettica costituente che fa della parte il tutto che si impone; la parte tende a conquistare l'intero campo di battaglia, imponendosi come sovrano, trascendendo le altre parti e organizzandone le relazioni secondo le proprie norme 12 • In secondo luogo, in senso archeologico, egli propone di sostituire un'analitica del potere alla teoria filosofico-politica. Sono «tristemente comiche», afferma in una conferenza giapponese del 1978, le figure che si sono alternate nel tentativo di pensare contro il potere producendo filosofie che, «più [le] si ascolta e più il potere e le istituzioni politiche si lasciano penetrare dal loro pensiero, più ess[e] servono a autorizzare forme eccessive di potere» 13 • Foucault sta qui denunciando l'incapacità della teoria a penetrare le strutture più intime della realtà, poiché essa, come dirà in un'altra occasione, «presuppone un'oggettivazione preliminare» 1 4; si giustifica così il suo ricorso a un'analitica capace di muoversi fra le concrete condizioni storiche dei vari regimi di saperi e poteri.

3. Dispositivi

Il "regicidio" tentato da Foucault significa non avvicinare il potere come concetto universale dalle molteplici manifestazioni storiche, bensì la molteplicità delle relazioni in ciò che esse hanno «di fattuale e di effettivo», le loro condizioni di emergenza, il campo complessivo Or. Carlo Crosato, Politica come guerra. La funzio11e del paradigma della guerra nell'itinerario filosofico di Foucaulte diAgambet,, «Ragion Pratica», 53.2., 2.019, pp. 439-471. 1 3 Michel Foucault, La philosophiea1,alytique de la politique, conferenza del 2.7 aprile 1978 a Tokyo, pubblicata originariamente con il titolo Gendai no K11ryoku wo tou, «Asahi Janaru», edizione del 2. giugno 1978, pp. 2.8-35; ora in Dits et Écrits Il cit., pp. 534-551: 539· 1 4 Michel Foucault, Le sujet et le pouvoir, articolo del 1982., pubblicato originariamente in inglese, con il titolo The Subject and the Power, in Hubcrt L. Dreyfus, Paul Rabinow, Miche/ Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, The University of Chicago Prcss, Chicago 19832, pp. 2.08-2.2.6; ora in Dits et Écrits Il cit., pp. 1041-1062.: 1042.. 12

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in cui esse si inseriscono e si disperdono 1 5. Al di sotto della questione legittimità-legalità, e della teoria della sovranità che essa giustifica, Foucault ricerca il disporsi storicamente determinato delle relazioni e il modo in cui questa si condizionano a vicenda, normando il soggetto e costituendone il campo d'azione. Si tratta di osservare il campo delle interazioni attenti alla differenza di potenziale che anima le relazioni, come in un campo elettrico, ed è immediatamente produttivo degli elementi che in esso sono coinvolti. Ciò che interessa Foucault non è il Potere, monolite custodito dalle sole realtà istituzionali, né la direttrice top-down lungo la quale ricade dai dominanti sui dominati, quanto la sua provenienza dal basso, come un intreccio di relazioni che si annodano dando consistenza alle positività storiche, le concrete condizioni dell'emersione delle istituzioni individuate come peripezie storiche e dei dispositivi informali di potere. Ciò che interessa Foucault è dunque la rete di relazioni che si stabiliscono tra un insieme massimamente eterogeneo di elementi: una matassa di vettori che si intrecciano e, incontrandosi, si annodano dando vita a soggetti, oggetti, concettP 6 ; la disposizione che tali vettori assumono, secondo precisi giochi di potere e secondo le strategie e le tecnologie ideate di volta in volta per rispondere a specifici problemi 17• Le relazioni di potere di cui la sua analitica è alla ricerca sono «intenzionali e non soggettive», ossia dotate di un ordine di intelligibilità data la loro natura strategica, ma non riconducibili alla decisione di un soggetto della cui volontà sarebbero manifestazione 18 • All'immagine di un potere unitario che regola le relazioni dall'esterno, da una posizione sovrana, e che può essere contestato da una posizione di esteriorità, Foucault sostituisce un potere come tensione interna alle relazioni, osservabile là dove produce attrito, dove cioè incontra resistenza. Quest'ultima non è un'azione trascendente rispetto al potere, ma suo correlato interno.

15

M. Foucault, Bisogna difendere la società cit., pp. 44-46. Michcl Foucault, Le jeu de Miche/ Foucault, originariamente in «Omicar? Bulletin périodique du champ freudien», 10, luglio 1977, pp. 62.-93; ora in Dits et Écrits Il cit., pp. 2.98-32.9. 1 7 M. Foucault, Les mail/es du pouvoir cit., p. 1008. 18 M. Foucault, La volontà di sapere cit., p. 84. 16

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1 99

Là dove c'è potere c'è resisten7A! e [... ] tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere. [... I rapporti di potere] non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resisten7Al, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, d'appoggio, di sporgenza per una presa '9.

Alla molteplicità di relazioni di potere corrisponde una molteplicità di resistenze: esse non vanno intese come principi eterogenei rispetto alle relazioni di potere - non c'è infatti un "fuori" del potere -, ma come «l'altro termine delle relazioni di potere, come ciò che sta irriducibilmente di fronte a loro» e le fa essere concretamente tali. Il punto di resistenza è coinvolto nel potere come una superficie opaca è colpita dalla luce: la superficie rende percepibile la luce, altrimenti invisibile, e la luce fa emerge la superficie, altrimenti buia; la relazione che lega i due elementi, rendendoli plastici l'uno all'altro, costringe la superficie a illuminarsi secondo le direzioni assunte dalla luce, e al contempo fa sì che la luce aderisca alla forma mutevole della superficie. Il disporsi di tali linee di fronteggiamento è il dispositivo, di cui si può dire quanto già Foucault affermava della formazione discorsiva nella sua Archeologia: esso configura «un campo di regolarità per diverse posizioni di soggettività»; regolarità in cui, cioè, il soggetto si trova già sempre coinvolto, prodotto assieme a una «rete di possibili posizioni distinte» 20• Emerge qui il problema della effettiva possibilità di emancipazione: il soggetto è sempre costituito e agisce solo in quanto soggettivato entro questa complicità di forze; le differenze di potenziale che si generano fra i soggetti sono al contempo costitutive di quegli stessi soggetti e della loro identità funzionale. Come afferma spesso Foucault, il potere è ovunque e non si può uscire dalle sue trame, pena il perdere se stessi. Non ha perciò granché senso parlare di liberazione, affidando a tale processo la missione di recuperare una presunta purezza poi alienata dal potere 21 • Per quanto assai solidale e privo di esteriorità, l'intreccio di relazioni di cui dice la parola "dispositivo" è comunque strutturalmente 1

9

lvi, p. 85.

M. Foucault, Archeologia del sapere cit., p. 7 4. Cfr. Pierpaolo Ccsaroni, La distanza da sé. Politica e filosofia in Miche/ Foucault, Clcup, Padova 2.010, pp. 154-156. 10

21

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instabile. La sua natura strategica e conflittuale impedisce di pensarlo come una distribuzione ordinata e stabile di funzioni; e la stessa funzione del soggetto è tutt'altro che univoca e chiara, più simile a un intreccio di possibilità attivabili. Rispondendo a una serie di critiche che attribuivano alla sua filosofia un carattere reazionario e conservatore, Foucault definisce i poteri, così solidali e onnipresenti, tutt'altro che onnipotenti e onniscienti. Essi instaurano «una serie di relazioni complesse, difficili, mai funzionalizzate, e che in un certo senso non funzionano mai». E la conferma di ciò sono le «forme d'indagine, d'analisi, [i] modelli di sapere», riprova che il potere è «sempre impotente» 22 di fronte a un vivente che sfugge senza posa ai suoi dispositivi 2 3. Se il potere non va rappresentato in senso unitario, bensì come una proliferazione microfisica di puntelli che, insieme, sostengono un'immagine di soggetto e normalizzano la condotta di quest'ultimo, tale moltiplicazione è al contempo la creazione di una molteplicità di possibili brecce per contestare, resistere, ricomporre. E ogni punto di emergenza, compreso il soggetto, essendo formato e puntellato da un insieme di dispositivi, ritrova attorno a sé non solo una disarmante complicità di forze che lo trattengono, ma anche i punti di attacco per altrettanti fuochi di resistenza: i vettori che si intrecciano e danno luogo al punto nodale del soggetto non sono sempre tutti in egual modo attivi e dove tale intreccio presenta delle debolezze, dove viene meno la forza del dispositivo, lì il soggetto può rinvenire le energie e gli spazi per operare una torsione su di sé e tendere la trama che lo produce. Possiamo già in questa fare fissare un punto. Già la genealogia affermava non esservi origini da ricercare. L'archeologia messa all'ou Michcl Foucault, Précisions sur le pouvoir. Réponses à certaines critiques, originariamente in italiano, con il titolo Precisazioni sul potere. Risposta ad alcuni critici, «aut aut», 167-168, settembre-dicembre 1978, pp. 3-11; ora in Dits et Écrits II cit., pp. 62.5635: 62.9. 2.3 Si veda la passione di Foucault per le "vite infami" (La vie des hommes i11fàmes, originariamente in «Lcs cahiers du chemin», 2.9, 15 gennaio 1977, pp. 12.-2.9; ora in Dits et Écrits 11 cit., pp. 2.37-253). C'è chi ha visto in questo un vitalismo foucaultiano, per una ricostruzione del quale cfr. Paolo Missiroli, Soggetto e immane,~. Sul "vitalismo .. di Foucault, in Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi (a cura di), Crisi dell'immanen7.Q. Potere, conflitto, istituzione, «Almanacco di Filosofia e Politica», I, Quodlibct, Macerata 2.019, pp. 203-216.

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pera nell'analitica del potere conferma che siamo sempre immersi in un insieme di relazioni; di più, siamo da esse prodotti, così che non vi è mai un momento in cui un presunto soggetto trascenda le relazioni e le riordini in modo sovrano, trovandosi sempre circondato da una complicità di forze dalle quali non è possibile uscire, pena il dissolvimento del soggetto stesso. Non c'è alcuna teologia politica possibile, ma sempre relazioni disposte in un ordine storicamente determinato: è immanentemente a tale disposizione, tendendo ora l'uno ora l'altro filo, che si possono produrre degli effetti conflittuali sull'intera trama. I dispositivi di cui l'analitica del potere si interessa non sono semplicemente istituzioni, essendo per lo più realtà informali e microfisiche; non è perciò a questo livello che reperiremo un vero e proprio istituzionalismo, sebbene l'ontologia che ci si scompagina di fronte non sia già più assimilabile a quella di un potere costituente. Anzi, è proprio contro una simile ontologia, custodita dalla teoria politica della sovranità, che l'analitica del potere si mobilita. Siamo a contatto con il post-strutturalismo foucaultiano che, se non è già ontologia istituente, ne è almeno la condizione.

4. Anarcheologia: un'attitudine critica e anarchica Mediante l'analitica del potere, anziché presupporre concetti e principi, Foucault dimostra la loro articolazione interna, la conflittualità che li ha generati e che li sostiene, e le tattiche mediante cui la critica è limitata al solo campo di circolazione discorsiva reso disponibile. Alle teorie filosofico-giuridiche, uscite vincitrici da una lotta di cui si è dimenticata la storia e impostesi come verità globali, l'analitica del potere sostituisce lotte molteplici e locali, abilitando ciascuno al riconoscimento dei rapporti di forza che lo circondano. Concetti universali e unità di potere credute necessarie e inattaccabili rivelano la loro contingenza. E lo stesso soggetto, riscoprendosi non più sovrano trascendente della propria storia, ritrova attorno a sé una molteplicità di relazioni con le quali intrattiene un rapporto di reciproca dipendenza, e sulle quali ha dunque la possibilità di intervenire finendo così per tendere e modificare l'intera trama che lo coinvolge. Sull'esempio della filosofia analitica anglosassone, non interessata all'essere del linguaggio ma al suo uso quotidiano, l'impresa critica

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foucaultiana analizza «quello che avviene quotidianamente nei rapporti di potere», le forme assunte da tali poteri e i loro obiettivi 2 4. Le lotte che questa forma di critica rende possibili sono trasversali, ma soprattutto, ciò che maggiormente ci interessa, non si rivolgono a un avvenire utopico, a una presunta liberazione, alla scomparsa dello Stato: «Queste lotte sono delle lotte anarchiche: si inscrivono in una storia immediata, che si accetta e si riconosce come indefinitamente aperta» 2.5. Scavano nel passato a partire da una domanda presente, per mettere in crisi principi e certezze e assumere consapevolezza rispetto alle possibili realizzazioni alternative2 ' : aprono l'attualità alla conflittualità dei possibili itinerari riformanti. Il significato anarchico della sua iniziativa è chiarito da Foucault all'inizio del 1980, in una lezione del corso Del governo dei viventi. Siamo in un contesto un po' diverso rispetto a quello in cui Foucault ha inventato la propria analitica: in particolare il 1976 ha rappresentato un momento di crisi che, per vari motivi, hanno spinto il filosofo a ritornare sui propri passi. Oltre a vicende politiche e biografiche segnanti, è la ricezione della sua proposta ad amareggiarlo: gli si imputa una certa ossessione del potere, di aver ritratto un potere che ovunque si fa inevadibile, una sorta di metafisica a cui non si può resistere. Con la fine degli anni Settanta, Foucault rispolvera e rinnova il concetto premoderno di "governo", per sostituirlo a quello del potere: esso rappresenterà il connubio inscindibile di potere e resistenza, potere e libertà, assoggettamento e soggettivazione; è delle razionalità generali del governo che ci si deve occupare, se non si vuol finire per combattere battaglie locali infinite. Ma pur scivolando tra differenti campi di applicazione e revisioni autocritiche, l'intento foucaultiano rimane una vera e propria incursione fra pratiche, un'esperienza di dislocazione rispetto alle formule che tradizionalmente calamitato le condotte. Foucault ora definisce la sua operazione «anarcheologica» 2 7. Un'attività che non è solo intellettuale, ma anM. Foucault, La philosophie analytique de la politique cit., p. 541. s Ivi, p. 546. 26 Cfr. Gillcs Dclcuzc, Fclix Guattari, Qu 'est-ce que la philosophie?, Lcs éditions dc Minuit, Paris 1991; trad. it. di A. Dc Lorcnzis, Che cos'è la filosofia?, Einaudi, Torino 2.4

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1996, p. 106.

Michcl Foucault, Dugouvemement des viva11ts. Cours au Collège de France 19791980, Scuil-Gallimard, Paris 2.012.; trad. it. di D. Borea e P.A. Rovatti, Del governo dei viventi. Corso al Col/ège de Fra11ce ( 1979-1980), Fcltrinclli, Milano 2.014, p. 86. 27

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che pratica, dal momento che l'attraversamento critico della realtà ne mette in luce le fragilità, configurandosi già come azione di resistenza rispetto a cui, per converso, il potere rivelerà le proprie geometrie e si renderà ancor meglio conoscibile. L'ampliamento delle griglie analitiche al concetto di governo permette a Foucault di render conto delle razionalità circolanti fra le complessità instabili delle relazioni potere, e di ribadire la complementarietà fra poteri e resistenze nei termini di una inscindibile complementarietà tra processi di assoggettamento e processi di soggettivazione. Lo spiazzamento archeologico e genealogico può così assumere un orientamento positivo, con maggiore attenzione alla costituzione soggettivante di chi adotta e incarna la postura critica rispetto al governo eteronomo della propria condotta 28 • Il programma filosofico di un attivo processo di soggettivazione è delineato da Foucault mediante la lettura dell'invito rivolto da Kant all'uomo moderno a sottrarsi all'obbedienza e riconquistare - mediante un buon uso della ragione - la propria autonomia. Foucault la definisce una «ontologia critica di noi stessi», declinando la kantiana critica dei limiti in senso storico e immanentistico: un'analisi sulle condizioni di pensiero e di azione, ma non più come interrogazione sui limiti strutturali e universali che il pensiero non può - de facto e de jure - superare, bensì mediante l'insistenza in prossimità dei limiti contingenti e singolari degli eventi, sulle loro condizioni storiche: «Qual è la parte di ciò che è singolare, contingente e dovuto a costrizioni arbitrarie in quello che ci è dato come universale, necessario e obbligatorio?» 2 9. Lungi dall'essere mera attività descrittiva, l'ontologia critica anarcheologica permette di mettere in luce, «nella

28 Cfr. Michcl Foucault, Securité, T erritoire, Population. Cours au College de Fra11ce 1977-1978, Scuil-Gallimard, Paris 2.00; trad. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popo/adone. Corso al Collège de France (1977-1978), Fcltrinclli, Milano 2.0103; Michcl Foucault, Qu'est-ce que la critique?, «Bullctin dc la Société françaisc dc Philosophic», 84.2., 1990, pp. 3 5-63; Rcincr Schiirmann, 011 Constituting Oneself an Anarchistic Subject, in Id., Tomo"ow the Manifold. Essays 011 Foucault, A,zarchy, a,ul the Singularization to Come, Diaphancs, Zurich 2.019, pp. 7-30. 29 Michcl Foucault, Qu'est-ce que Ics Lumières?, originariamente in inglese, con titolo What is E11lightm1ment?, in Paul Rabinow (a cura di), The Foucault Reader, Pantheon Books, New York 1984, pp. 32.-50; ora in Dits et Écrits Il cit., pp. 1381-1397: 1393. Cfr. Filippo Domenicali, Biopolitica e libertà. Dieci capitoli su Foucault, Orthotcs, NapoliSalerno 2.018, pp. 2.1-59.

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contingenza che ci ha fatto essere quello che siamo, la possibilità di non essere più, di non fare o di non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo»3°. Per descrivere la natura trasformativa della critica, Foucault parla di «trasfigurazione», esemplificata in particolare mediante alcune intuizioni di Charles Baudelaire in merito al lavoro dell'incisore Constantin Guys: in quanto disegnatore, questi è descritto come colui che coglie la realtà nella sua contingenza fuggente e, al contempo, come colui che la sa penetrare trasformandola. Non è però un «annullamento del reale, ma gioco difficile tra la verità del reale e l'esercizio della libertà», che immagina il presente diversamene da com'è per captarlo paradossalmente in quello che è3 1 : al contempo precedente rispetto a noi, produttivo della forma di vita che siamo e contingente, trapassato da linee di forza e di frattura. Trasfigurare il reale è coglierlo per quello che è e, nello stesso sguardo obliquo, renderlo altro. È in tale rapporto con il presente, colto nella sua evenemenzialità e immesso in una pratica trasformativa innescata dal suo interno3 2 , che Foucault pensa il processo di soggettivazione come rapporto di sé con sé sempre calato nella concretezza storica. Per comprendere la realtà, la si deve far reagire; per farla reagire è necessario intervenirvi, produrre incoerenza; per produrre incoerenza, e sostenere le conseguenze di tale gesto, si deve aver ingaggiato un processo di consolidamento della propria autonomia. Di tale postura, Foucault parla come una attitudine, un ethos, parola spesso utilizzata in contrapposizione alla morale e al suo carattere prescrittivo. Ma, di nuovo, non si deve confondere il lavoro etopoietico con una solipsistica riconquista di

30 M. Foucault, Qu"est-ce que /es Lumières? cit., p. 1393. In merito a questo compito etico della filosofia, Gros ha scritto che essa «non è lontana dal reale e non ne costituisce né il riflesso né la maschera né la razionali7.zazione, essa costituisce l'invenzione vivente del reale in quanto propone modalità di rapporto a sé che consentono di animare dall'interno comportamenti anonimi» (Frédéric Gros, Sujet moral et soi éthique chez Foucault, «Archives dc Philosophic», 65.2., 2.002., pp. 2.2.9-2.37; trad. it. di O. lrrera, Soggetto morale e sé etico in Foucault, in AA.VV., Foucault e le genealogie del dir-vero, Cronopio, Napoli 2.014, pp. 17-31). 3• M. Foucault, Qu"est-ce que /es Lumières? cit., p. 1389. 32. Laura Cremonesi, Askesis, ethos, pa"esia: pour una généalogie de l"attitude critique, in Daniele Lorcnzini, Ariane Revel, Arianna Sforzini (a cura di), Michel Foucault: éthique et verité. I980-I984, Vrin, Paris 2.013, pp. 12.7-138: 132..

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una purezza primigenia, fuori dalla storia e dalle relazioni di potere: contro un malinteso concetto di autocostituzione, facente capo a una qualche miracolosa costituzione ex nihilo, si deve ricordare con Frédéric Gros33 che il lavoro di cura di sé e di costruzione della propria attitudine critica è pensato sempre come una pratica comunitaria, da apprendere a partire dalle relazioni che ci precedono e ci producono, con dei maestri, dei compagni, dei fratelli; si tratta di un «intensificatore di relazioni sociali», elemento che, ancora, non è assimilabile a un'ontologia istituente in modo secco, trattandosi di relazioni per lo più informali, ma ne rappresenta una ulteriore premessa, constando il lavoro di cura di sé, presupposto alla critica delle istituzioni, nel riconoscimento della fitta trama di relazioni che ci soggettivano.

5. Il caso della parresia Se fin qui abbiamo ricercato le condizioni per una paradossale ontologia istituente sottesa all'anarchia foucaultiana, dobbiamo ora reperire una forma di critica al contempo anarchica, ovvero libera da principi eteroimposti, e in diretta relazione con le istituzioni, tale da produrre al loro interno una conflittualità che non le sbaragli imponendo un nuovo ordine, ma le faccia progredire a un livello superiore di autoconsapevolezza. Nel corso dell'anno accademico 1982-83, Il governo di sé e degli al-tri, Foucault offre una definizione generale della pa"esia. Termine di paragone sono gli enunciati performativi, rispetto ai quali la parresia sarebbe la figura speculare. Pur presupponendo entrambi un contesto altamente «istituzionalizzato», ossia dotato di quelle strutture che attribuiscono gli statuti richiesti ai soggetti in gioco, l'enunciato performativo è seguito da «un effetto conosciuto, regolato in anticipo, codificato» che esso e i soggetti che lo propongono sono chiamati a rispettare per produrre la specifica performatività; la parresia è invece definita come una «irruzione», capace di determinare l'apertura della situazione e di rendere possibili effetti im-

33

F. Gros, Soggetto morale e sé eticoi11 Foucaultcit., pp. 23-27.

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previsti, anche rischiosi per gli elementi coinvolti34. Se, insomma, in prossimità dell'enunciato performativo «l'enunciazione di qualcosa provoca e suscita un evento del tutto determinato proprio in funzione del codice generale e del campo istituzionale», il dire parresiastico è dirompente, «produce frattura», «espone al rischio», «eventualità non determinata»35. Siamo perciò a contatto con due elementi fortemente legati ali' ontologia istituente: il riconoscimento delle istituzioni, la loro performatività e, dall'altro lato, la loro riformabilità, la possibilità cioè di irrompere nelle trame da esse predisposte e, con gestualità immanente che non ha nulla della trascendenza teologicopolitica dell'ontologia costituente, metterne in questione gli statuti, dimostrando la loro storicità e perciò la loro criticabilità. Il dire parresiastico è dirompente, «produce frattura», «espone al rischio», «eventualità non determinata»3 6 , problematizzazione degli assetti relazionali in gioco, mediante un discorso che ne rivela lo spessore, la storicità, la possibilità di miglioramento. Ma c'è un ulteriore elemento interessante. L'enunciato performativo presuppone che l'individuo si trovi in condizione di poter fare la data cosa con le parole, abbia cioè un preciso statuto, un'autorità, un ruolo, una posizione a partire da cui produrre un enunciato performativo, «poco importa [... ]- se si vuole che l'enunciato sia effettivamente performativo-, che esista un rapporto in qualche modo personale tra colui che enuncia e l'enunciato stesso»: il legame che vincola il soggetto alla realtà istituzionale che lo include è astratto, è una funzione che l'individuo ricopre. La parresia invece è segnata da un vero e proprio patto personale tra il soggetto, se stesso enunciante, l'enunciato proferito, così che il soggetto si trova personalmente legato alla rottura e alle conseguenze che produce. Il che significa una coraggiosa assunzione di responsabilità rispetto alla dimensione istituzionale. «Un enunciato performativo presuppone che colui che parla abbia lo statuto che gli permette, pronunciando il suo enunciato, di realizzare ciò che viene enunciato», con indifferenza rispetto a chi sia l'individuo, la persona che compie con le parole quell'azione; nel caso della parresia tale 34

Michcl Foucault, Le gouvernemet1t de soi et des autres. Cours au Collège de France 1982.-1983, Scuil-Gallimard, Paris 2.008; trad. it. di M. Galzigna, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982.-1983), Fcltrinclli, Milano 2.015, p. 67. 3S lvi, p. 68. 36 lbid.

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indifferenza è impossibile, essendo essa essenzialmente caratterizzata dal fatto che, «al di là dello statuto e di tutto ciò che potrebbe codificare e determinare la situazione, il parresiasta [è] colui che fa valere la propria libertà di individuo che parla»3 7• Libertà e coraggio sono i tratti del soggetto della parresia, laddove il soggetto dell'enunciato performativo ricopre una funzione la cui codificazione normativa è una chiamata alla mera conservazione. La natura istituzionalizzata o convenzionalmente riconosciuta che legittima la performatività degli enunciati espropria l'enunciante della propria singolarità, riducendolo a mero luogotenente di una specifica funzione discorsiva. La forza dell'enunciato performativo risiede negli enunciati che precedentemente hanno costruito, consolidato e legittimato la specifica funzione. Di qui la radicale indifferenza degli enunciati performativi e dei loro effetti rispetto alla differenza dei soggetti di volta in volta chiamati a occupare la funzione di enunciante: l'enunciato performativo implica la designazione di uno spazio enunciativo vuoto e transitivo, indipendente dai soggetti chiamati a occuparlo, purché tutta una serie di condizioni normative sia rispettata. La performatività di un enunciato è dunque attribuita dalla circostanzialità, non invece dall'istanza etica rappresentata da una singolarità soggettiva in grado di ergersi di fronte alla pretesa omologante del discorso. L'irriducibile singolarità del soggetto capace di resistere alla violenza della verità e dei regimi che essa predispone è ciò che, invece, caratterizza la parresia come itinerario di soggettivazione etico-politica. Il soggetto si vincola alla propria parola producendo effetti inaspettati, rischiosi, fino al costo della vita: è così che la singolarità etica - mai istanza individualistica, solipsistica o narcisistica, ma sempre prodotto di un lavoro su sé mediato dalla relazione con altri - irrompe tendendo, fino allo strappo, le trame veridizionali che normano la circolazione di discorsi e pratiche. Foucault ricostruisce il rapporto che la parresia antica intesseva con le istituzioni, specialmente quelle democratiche, il cui spirito andava rianimato. La forma più radicale di una simile vita coraggiosa e critica è per Foucault il cinismo, sul quale egli si impegna nel suo ultimo corso al Collège de France3 8 • Erede della coscienza socratilvi, p. 70. Michcl Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres 11. C.Ours au C.0/lège de France 1983-1984, Scuil-Gallimard, Paris 2009; trad. it. di M. 37 38

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ca, capace di immergersi nelle trame del potere e poi ritrarsene per scomporre l'interazione di tali forze con il sé39, la vita cinica non insegue la velleità di sottrarsi alle relazioni di potere tout court, bensì l'intenzione di rilevarne i paradossi, le contraddizioni, la natura convenzionale, provocando effetti di straniamento e trasformazione. La declinazione cinica della parresia non è mera pratica discorsiva, ma forma di vita o, meglio, coraggiosa coincidenza di logos e bios, in cui soggetto dell'enunciazione e soggetto dell'enunciandum coincidono, e in cui la vita è estrema e scandalosa manifestazione della verità che il parresiasta fa irrompere nella pacifica e ordinata realtà sociale. Torna al centro un tema caro a Foucault fin dai suoi primissimi studi archeologici, ovvero la priorità del visibile sul dicibile, che nell'esempio di Socrate e poi dei cinici può mostrare tutta la sua radicalità4°. Laddove Agamben individuerà nell'inoperosità la via emancipativa, Foucault ammira l'esempio cinico proprio perché vi ritrova una filosofia che si fa ergon; laddove Agamben parlerà di forma-di-vita come sospensione di ogni forma di vita determinata, Foucault avvicina i cinici proprio per la loro capacità di prodursi come specifica forma di vita che articola su di sé e rende manifesta una determinata forma del pensiero: una specifica relazione istitutiva tra il pensiero e il soggetto che Foucault chiama anche estetica dell'esistenza. Il punto è per Foucault conservare mobilità entro le trame che ci producono, ossia, poiché siamo sempre esito di una certa configurazione di discorsi e di pratiche, muoversi in tale intrico funzionalizzando i singoli segmenti a una critica dell'intero assetto, e vice-

Galzigna, P.P. Ascari, L. Paltrinieri, E. Valtellina, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri li. Corso al Col/ège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2.016. Cfr. Claudio Cavallari, Archeologia, ge11ealogia, attitudi11e. La politica della verità di Miche/ Foucault, in Pierpaolo Cesaroni, Sandro Chignola (a cura di), Politiche della filosofia. lstituzio11i, soggetti, discorsi, pratiche, DeriveApprodi, Roma 2.016, pp. 2.01-2.2.1. 39 Cfr. Simona Forti, Per u11 ethos della libertà. Note su soggettività e potere, in M. Di Pierro, F. Marchesi (a cura di), Crisi dell'imma,zenza cit., pp. 49-73. 40 Già nel '78: «Il compito della filosofia non è di scoprire ciò che è nascosto, ma di rendere esattamente visibile ciò che è visibile, di far apparire ciò che è così vicino, così immediato, così intimamente connesso a noi, da non poter essere percepito. Mentre la scien7.a ha il compito di far conoscere ciò che non vediamo, la filosofia deve far vedere ciò che vediamo» (La philosophie a11al-ytique de la politique cit., pp. 540-541). Nel corso del 1984, Foucault parla esplicitamente del corpo del cinico come «teatro visibile della verità» (Il coraggio della verità cit., p. 179).

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versa4 1 , non tanto rivoluzionandone gli statuti e immettendo nuove modalità di normatività, bensì riformandone i codici ermeneutici, facendo giocare alla realtà un gioco differente rispetto a quello che essa vuol far giocare a noi: con le parole di Diogene, «cambiare il valore alla moneta». Attorno al tema "cambiare, alterare il valore della moneta,,, si deve in primo luogo far valere la prossimità esistente - che la parola stessa indica - tra moneta e consuetudine, regola, legge. In secondo luogo, sempre a proposito di questa nozione di parakharaxis, occorre osservare che parakharattein {cambiare, alterare) non significa svalutare la moneta [... ] ma [... ] significa essenzialmente e soprattutto: a partire da una moneta che porta una certa effigie, cancellare questa effigie e sostituirla con un'altra più rappresentativa, che permetterà a questo conio di circolare con il suo vero valore4 2 •

Il compito del critico è quello di un esercizio agonistico per trasformare sé e essere all'altezza della verità che ha da far irrompere, in un gioco di forze che soverchia la tradizionale idea di una verità tutta già presente e alla cui universalità il soggetto deve aderire. Non si tratterà dunque di una verità da dire, quanto di una verità consistente nello scompaginamento delle stesse verità stabilite: più che una verità proposizionale, il coraggio di rendersi incoerenti rispetto agli assetti illocutori e perlocutori esistenti, per mostrarne performativamente tutta la debolezza e la contraddittorietà, per far emergere la natura intimamente conflittuale dei principi su cui essi si fondano, e per tendere le relazioni e costringerle a render conto di sé. Il parresiasta - in un infaticabile faccia a faccia con il potere e le sue istituzioni - esprime e testimonia con la propria azione la forza della verità che enuncia, fa di questa verità la forma della propria vita anche al rischio della stessa vita. Facendo irrompere tale verità revoca in dubbio le gerarchie dei valori mostrandone l'ineludibile contingenza; e mostrando di preferire il successo della lotta alla propria sopravvivenza, egli incita i suoi interlocutori a una analoga cura di sé, animando lo scenario politico di una benefica conflittualità. Risiede in questo lo spirito anarchico abbracciato da Foucault, al di "' Michcl Foucault, L'éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, intervista del 20 gennaio 1984, originariamente pubblicata in «Concordia. Rcvista intcrnacional dc filosofia», 6, luglio-dicembre 1984, pp.99-116; ora in Dits et ~crits 11 cit., pp. 1527-1548. 42 M. Foucault, Il coraggio della verità cit., p. 220.

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là delle simmetriche illusioni di collocarsi in antitesi o fuori rispetto alle relazioni di potere, e al di là di una altrettanto nociva pretesa di avvocare a sé lo statuto ontologico della sovranità del sé.

6. Conclusioni A conclusione di questo articolo, al fine di meglio apprezzare l'ipotesi "istituzionalista" avanzata rispetto al caso foucaultiano, può essere interessante farla reagire nel confronto con l'ontologia dichiaratamente destituente di Giorgio Agamben. Riconoscendo il debito contratto con la filosofia foucaultiana, com'è noto Agamben ambisce a spingerne le intuizioni più in profondità, fino a una dimensione ontologica da cui non solo formulare una critica alle concrete configurazioni storiche dei saperi e dei poteri, ma anche e soprattutto distillare la movenza costituente mediante cui tali configurazioni si originano. A far comparire le positività in atto nella storia, a renderle pensabili e dicibili, è quella che Agamben chiama "eccezione": una geometria politica ma, prima ancora, ontologica che, dando alla metafisica un'anima nichilista, costituisce il dato storico positivo solo al costo dell'esclusione e della contemporanea inclusione in quanto escluso dell'orizzonte potenziale su cui esso si staglia. Lo stesso soggetto partecipa a tale movimento, ottenendo la propria collocazione storica in un processo di determinazione linguistica43 • Se in Foucault la soggettivazione è inestricabilmente legata all'assoggettamento - e, perciò, per illuminare vie di emancipazione, Foucault in prima battuta predispone un convinto anti-istituzionalismo, per poi rendersi conto della sua sterilità e volgersi a riscoprire le occasioni di soggettivazione pur nell'assoggettamento-, la profondità ontologica attribuita da Agamben alla propria riflessione conduce a riscoprire come lato oscuro della soggettivazione la desoggettivazione: proprio nell'attimo in cui l'io si dice e si dà presenza storica, si lascia alle spalle lo sfondo di impotenza che tuttavia corrisponde 43 Giorgio Agambcn, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 1982., pp. 2.8 sgg. Cfr. Danicl McLoughlin, From Voice to lt,fa,,cy. Giorgio Agambe,i on the Existence of Language, «Angclaki», 18.4, 2.013, pp. 149-164; Carlo Crosato, Costituzione estetica o destituzione estatica. Oltre la nozione moderna di soggetto mediante l'esperienza del linguaggio. Foucaulte Agamben, «Etica&Politica/Ethics&Politics», 2.2..3, 2.02.0, pp. 12.9-168.

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alla massima apertura potenziale; si attualizza e, per così dire, si consegna a un'identità, a una "forma di vita". Aderendo all'evento di linguaggio, l'individuo vivente si fa essere storico identificandosi con quell'evento in cui si è detto "io". Ma quell'evento è, al contempo, il momento in cui parla e il momento in cui non può più parlare, avendo deposto la potenza nell'atto44. Identificata, nell'eccezione, la movenza costituente della metafisica nichilistica occidentale, Agamben ne inverte il senso, ritrovando emancipazione solo nella sua destituzione. Nella vita collettiva, l'eccezione si traduce in una alternativa tra un soggetto come istanza sovrana e volontà di potenza e, dall'altro lato, un soggetto che di tale dominio è vittima. Non vi sarebbe, dunque, via di uscita interna al gioco (ri-)costituente, ma solo nella destituzione di tale meccanismo e, con esso, della stessa dicotomia soggetto-oggetto. In Agamben, un pensiero della libertà che agganci un'etica come costituzione del sé in una forma di vita autonoma non è possibile, e rimane solo l'accesso alla desoggettivazione dell'umano, forma inaudita di resistenza45 rappresentata dalla nuda vita, non più e non solo prodotto originario del potere, ma terreno di riconquista in cui il potere si arrende. La nudità è descritta da Agamben in analogia all'essere haplos della metafisica, l'essere puro rigettato nell'oblio perché gli enti - sue forme determinate - si rendano pensabili4 6 : la riconquista della nudità è dunque l'ammissione ali' orizzonte potenziale, tagliando il quale il potere determina le forme di vita; "riconquista" di una «forma-di-vita» 47 inscindibile, desoggettivata perché sottratta al meccanismo metafisico che produce il soggetto, e perciò non più assoggettabile; "etica" perché finalmente aperta alla contemplazione della «propria esistenza come possibilità o potenz,a»4 8 • In maniera sommaria, se Foucault esplora la possibilità di animare gli statuti costituiti grazie a una rinnovata ontologia costituente .u Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 107-109. -4S Giorgio Agambcn, Homo sacer.11 potere sovrano e la ,uu:la vita, Einaudi, Torino 199 5, p. 207_. 4 ~ lvi, pp. 202-204. -47 Giorgio Agamben, Mezzi senza '{i,re. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 13-19. 48 Giorgio Agambcn, La comunità che vietre, originariamente Einaudi 1990, ora Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 3 9-40.

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rappresentata, nell'esperimento polemocritico del corso Bisogna difendere la società, dall'osservazione della politica attraverso la matrice della guerra, e se Foucault, notata la tendenza autodialettizzante di tale ontologia, si muove verso quella che può essere riconosciuta come un'ontologia istituente, Agamben per parte sua si volge risolutamente verso la destituzione dell'ontologia metafisica (nichilista perché sovranamente costituente), per salvare la potenza in tutta la sua ampiezza dalla sua caduta nell'atto, finendo tuttavia per congelarla nell'equazione di potenza e impotenza. È su questi elementi che si gioca la differente considerazione offerta da Foucault e Agamben al tema dell'anarchia: per il primo, essa è un movimento critico inesauribile avente come premessa I' ethopoiesis di una soggettività autonoma capace di smarcarsi- senza mai uscire in senso trascendentale - rispetto alle concrete disposizioni relazionali, osservarle nel loro spessore e creare effetti di straniamento; per il secondo, anarchico è il gesto fondativo che, appunto, decide i principi normativi senza esserne a sua volta regolato, e anarchico è lo spazio anomico la cui eccezione è premessa di ogni positività storica, compreso il soggetto. Se per Foucault si tratta di un'impaziente oscillazione infrastorica, nell'immanenza delle trame, per parte sua, riconoscendo nell'anarchia la premessa di ogni atto costituente istanze sovrane e, perciò, intimamente latrici di violenza, Agamhen indica l'urgenza di disattivare tale meccanismo al fine - per Foucault impensabile - di evadere da ogni relazione di potere. L'immanenza inevadibile del post-strutturalismo foucaultiano è segno di un'ontologia istituente, laddove la trascendenza della disattivazione di Agamben è segno dell'ontologia destituente che la anima.

Archivio

L'anarchia e le egemonie infrante di Reiner Schiirmann Francesco Guercio, lan Alexander Moore

Wir durchlaufcn alle eine exzentrische Bahn, und es ist kcin anderer Wcg moglich von dcr Kindheit zur Vollendung 1 • Fricdrich Holdcrlin

L'intervento che i lettori trovano qui per la prima volta pubblicato in traduzione italiana fu redatto e discusso da Reiner Schiirmann in risposta ai suoi commentatori nel corso di una sessione degli incontri annuali della Society for Phenomenology and Existential Philosophy nel 1992 2 • La sessione, ospitata nell'ottobre di quell'anno dal Boston College e dalla Boston University, era una tavola rotonda incentrata sul suo pensiero e vedeva nel ruolo di moderatore Reginald Lilly e, in quello di commentatori, Peg Birmingham e Rodolphe Gasché. Purtroppo, nessuno degli scritti a commento dell'intervento è stato recuperato. Come però ricorda Birmingham in una conversazione privata, nonostante Schiirmann fosse già gravemente malato (sarebbe morto di AIDS l'anno seguente) la sua fu comunque «a commanding presentation», un'esposizione imponente e autorevole. La pubblicazione di Anarchia ed egemonie infrante nella sezione Archivio del numero corrente dcli'Almanacco di Filosofia e Politica, aggiungendosi a quella recente dell'intervento analogo alla SPEP del 1987- Ormai solo Proteo ci può salvare3 -, consente una lettura com1 «Percorriamo tutti un cammino ccccntrico, e nessuna altra via è possibile dall'infanzia al compimento». 1 Vedi Rciner Schiirmann, "O,Jy Proteus Gm Save Us Now"': On Anarchy and Broken Hegemonies, F. Guercio, I.A. Moorc (a cura di), «Graduate Faculty Philosophy Journal», 42., 1, 2.02.1, pp. 59-90. 3 Vedi Reiner Schiirmann, «Ormai solo Proteo ci può salvare». Intervento in risposta a Walter Broga,i e Michael Mu"ay (1987), F. Guercio, I.A. Moorc (a cura di), in R. Fulco, A. Moresco (a cura di), Sull'evento. Filosofia, storia, biopolitica, Almanacco di Filosofia e Politica, 4, Quodlibct, Macerata 2.02.2, pp. 2.81-304.

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parata attraverso la quale è possibile apprezzare, accanto alle linee costanti, i notevoli mutamenti avvenuti nel pensiero cli Schiirmann durante i suoi ultimi, fervidi, anni cli vita. Benché non possa dar ragione della complessità della ricerca decennale terminata in Des Hégémonies brisées4, questo scritto del 1992 ha il pregio cli inquadrare in un resoconto conciso ma incisivo la vera posta in gioco della grandiosa, e in più di un senso finale, impresa filosofica schiirmanniana. È infatti nel confronto tra i due interventi che si evidenziano i passaggi attraverso i quali tale impresa assume la forma definitiva di una «topologia delle egemonie infrante»: un approfondimento, sì, ma anche un genuino ripensamento del percorso metodologico e teoretico avviato, sulla scorta di Heidegger, in Dai principi all'anarchia5. Già nell'intervento del 1987 Schiirmann aveva espresso una riconsiderazione della sua precedente interpretazione del filosofo di Me8kirch. Egli aveva pure sottolineato significativamente la continuità tra il tentativo di una «deduzione storica delle categorie della presenza» - la determinazione dei tratti invarianti che attraversano la storia «economica» delle costellazioni del venire alla presenza - e la successiva topologia delle egemonie infrante, giungendo ad affermare persino la loro coincidenza6• Nell'intervento del 1992 si ribadisce che la topologia, recuperando nei «luoghi» della tradizione filosofica occidentale «ciò che è dato, sotto di ciò che è posto»7, porta a compimento l'interrogazione della scissione tra storia e sistema tentata in Dai principi. Tuttavia, in esso altrettanto si constata una netta riformulazione dell'apparato concettuale a sostegno del metodo topologico, cosa che denota il suo inequivocabile slittamento da quella previa coin• Vedi Reiner Schiirmann, Des Hégémonies brisées, Diaphanes, Zurich 2.017 (trad. ingl. R. Lilly, Broken Hegemonies, Indiana University Prcss, Bloomington-lndianapolis 2.003; trad. it. di F. Guercio, Le egemonie infrante [in preparazione)). Le traduzioni dal francese in italiano dei passi citati dall'opera sono nostre. s Vedi Rcincr Schiirmann, Le principe d'a11archie: Heidegger et la question de l'agir, Seuil, Paris 2.013 (trad. ing. Christinc-Marie Gros in collaborazione con rAutore, Heidcgger 011 Bei11g and Acting: From Pri,lCiples to A11archy, Indiana University Press, Bloomington, IN 1987; trad. it. di G. Carchia, Dai principi all'anarchia: Essere e agire i11 Heidegger, il Mulino, Bologna 1995 e riedito da Neri Po7.7.a, Viccn7.a 2.019). I richiami alla trad. it. nel testo si riferiscono a quest'ultima edizione. 6 Vcdi R. Schiirmann, • Ormai solo Proteo ci può salvare» cit., p. 2.9 5: « La deduzione è la topologia». 7 Rciner Schiirmann, A11archia ed egemonie infrante, infra, p. 2.41.

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cidenza. Tale riformulazione consegue alla necessità di integrare una topologia intesa come fenomenologia e genealogia dei principi epocali - denominati adesso «fantasmi» - con una che si concentri sull'ineludibile infrazione delle loro egemonie. Ora, secondo l'ultimo Schiirmann, un fantasma è egemonico se «un'intera cultura vi fa affidamento come se fosse da ritenere ciò in nome di cui parlare e agire» 8 • Per essere però in grado di stabilire e stabilizzare un luogo comune in cui vivere, il nome di tale fantasma deve potersi invocare come semplice, unico, uno. Eppure, proprio tale semplicità, unicità, unità dell'egemonia è, dice Schiirmann, fantasmatica. Qualsiasi egemonia che, volendosi, si pone come una, si trova a essere infranta da un «altro che è suo e che, però, non ricade all'interno del suo regime»9. Così, il luogo comune che un fantasma egemonico istituisce soffre sempre già la destituzione di un altrove che lo dis-loca conducendolo alla rovina. L'intervento del 1992 mostra che la topologia, perché possa dar conto di questo vulnus ineluttabile, deve volgersi dalle rotture inter-locali tra i topoi delle economie della presenza alle infrazioni intra-locali nei topoi delle egemonie fantasmatiche. Indagare topologicamente tali egemonie significa ora, per Schiirmann, cogliere il «luogo» in un senso duplice: tanto nel linguaggio, quale «meccanica della sussunzione», che nella lingua, quale costellazione epocale in cui quella meccanica si storicizza. Alla topologia spetta dunque, da un lato, rintracciare la contemporaneità del movimento di istituzione e destituzione dei fantasmi egemonici nei luoghi «epocali» - i siti del loro apparire e, dall'altro, ricondurre quei fantasmi ai loro luoghi fenomenici di «estrazione»: i singolari dai quali quelli appaiono e si elevano a criteri normativi per l'essere e per l'agire. Inoltre, Anarchia ed egemonie infrante attesta che questa conclusiva configurazione del progetto topologico è imperniata su una nuova e propedeutica «analitica delle condizioni ultime» assente in Dai principi. Il suo scopo è espressamente fare i conti con i limiti intrinseci dell'analitica esistenziale heideggeriana esibendo l'Unhintergehbarkeit, l'inaggirabilità, di quei due «tratti» discordi e tuttavia «Co-originari» che Schiirmann nomina natalità e mortalità. 8

9

R. Schiinnann, De.s Hégémotues brisée.s cit., p. 15. R. Schiinnann, A11archia ed egemonie infrante, infra, p. 24 3.

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Ma a cosa si devono questi sommovimenti di un pensiero resosi ancora più inquieto dinanzi all'impossibilità di recedere al di là di tale co-originarietà chiamata anche «condizione tragica dcli'essere»? 10 Da dove proviene questa inedita declinazione tragica dell' «an-archia proteiforme» schiirmanniana? Tentando una risposta a questi interrogativi vale la pena ricordare che nel periodo '87-'92 si collocano almeno tre cruciali accadimenti di ordine biografico, concettuale e bibliografico. Il primo, la cui tragicità non occorre rimarcare, è la diagnosi dell'HIV a Schiirmann e al suo compagno, il pittore quebecchese Louis Comtois, seguita poi dalla morte di questi nel 1990. Il secondo è sottolineato dall'entrata in scena di un «tratto» che è possibile reperire solo nelle Egemonie e nell'intervento del 1992: la natalità. È con questo termine che Schiirmann, trasformando radicalmente un concetto già arendtiano, designa ora la trazione tetica a dare inizio, a fondare e a disporre i fenomeni in costellazione. Seppure già in Dai principi, in altri scritti brevi e in Ormai solo Proteo fosse possibile discernere gli effetti principiali di tale impulso «archico», solo nello Schiirmann finale la natalità acquisisce tuttavia il ruolo co-originario di «condizione ultima» insieme alla mortalità - il «tratto» che viceversa singolarizza, defenomenizzando ogni fenomenicità. Ebbene, proprio in Anarchia ed egemonie infrante si afferra al meglio la posizione assiale che arriva a giocare per Schiirmann tale ultima co-originarietà condizionante delle due trazioni - il «doppio legame» -, senza la quale la direzione tragica imboccata dalla topologia resta, se non inintelligibile, quantomeno oscura. Il terzo decisivo accadimento è la lettura dei Beitrage zur Philosophie {Vom Ereignis) di Heidegger 11 , testo per Schiirmann inaccessibile mentre lavorava a Dai principi così come nel periodo di poco posteriore: la gran parte degli anni Ottanta in cui si veniva componendo Le egemonie infrante. Sebbene all'epoca dell'intervento del 1987 i Contributi non fossero ancora stati pubblicati è però noto che circolavano già, clandestinamente, nella cerchia degli addetti ai lavori. Dal canto suo, Schiirmann aveva letto il cosiddetto secondo 10

lvi, p. 2.31.

Vedi Martin Hcidcggcr, Beitriige zur Philosophie (Vom Ereignis}, F.-W. Von Hcrrmann (a cura di), Klostcrmann, Frankfurt a.M. 1989 (GA 65) (trad. it. di A. ladicicco, Contributi alla filosofia /Dall'evento}, F. Volpi (a cura di], Adclphi, Milano 2.007). 11

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magnum opus heideggeriano in copia dattilografata alcuni mesi prima di quell'incontro della SPEP 12 • Tale lettura -la cui eco è a malapena percepibile in Ormai solo Proteo ma che sarà svolta in una serie di saggi successivi, andando a costituire l'impalcatura dei tre capitoli finali delle Egemonie 1 3 - fu per lui un vero e proprio campanello d'allarme. Alla simultaneità, nello Heidegger dei Beitrage, tra l'impulso centripeto a tradire i fenomeni riferendoli all'universalità di sensi univoci e monofocali dell'essere e lo slancio centrifugo a preservarli nella singolarità del loro gratuito «entrare in costellazione», Schiirmann non poteva che replicare con una ricalibratura plurivoca, bifocale e, in definitiva, tragica della sua filosofia. Anziché condurre il pensiero heideggeriano nella direzione anarco-utopistica, persino escatologica 1 4, da lui indicata, egli giunge infatti a vedere nello Heidegger della seconda metà degli anni '30 1 5 la figura mostruosamente esemplare del sito in cui ancora oggi ci troviamo: la discezione 16 • Secondo Schiirmann in questo sito rivelativo e ammonitorio accade infine l' «annullamento di qualsiasi rappresentazione che funzioni come chiaramente e semplicemente normativa» 1 7. Tuttavia, benché qui e ora sia consentito di scivolare via dalle catene dei fantasmi egemonici, si continua «come se niente fosse» 18 a prestare ciecamente fedeltà agli idoli e ai vicari dell'architeleocrazia. Così come indicato da Schiirmann in una lettera inedita a François Wahl, datata 2. dicembre 1987 e conservata presso l'lnsritut Mémoires dc l'édition contcmporainc (IMEC). 1 J Vedi R. Schiirmann, Des Hégémo,ues brisées cit. pp. 589-712. (trad. ingl. cit., pp. 511-62.0). 1 4 Nella sua Introduzione a Dai principi, Gianni Carchia definisce la deduzione storica delle categorie della presenza ivi tentata da Schiirmann «una sorta di kantismo escatologico», vedi G. Carchia, llltroduzione all'edizione italiana in Schiirmann, Dai principi all'anarchia cit., p. 12.. 1 s Peraltro Schiirmann, sapendo bene che la fascinazione di Heidcgger per il più archico dei principi (il Fuhrerpri,izip) non poteva attribuirsi esclusivamente a circostan7.c estrinseche al suo pensiero ma ne indicava il limite estremo, non dovette attendere la pubblicazione degli Schwarze Hefte (iniziata solo nel 2.014) per riconoscere l'originario «radicame11to» del pensiero di Heidegger nel nazismo e il suo penchant per il nazionalismo in generale. Vedi, ad esempio, R. Schiirmann, Des Hégémo,ues brisées cit., p. 606. 16 Per una disamina dettagliata della questione, si permetta di rimandare a Francesco Guercio, lan Alexander Moore, Heidegger, Our Monstrous Site: On Reiner Schurmami's Readingof the Beitrage, «Graduate Faculty Philosophy Journal», 41, 1, 2.02.1, pp. 93-114. 1 7 R. Schiirmann, Anarchia ed egemo,ue i11frante, it,fra, p. 242.. 18 R. Schiirmann, Des Hégémonies brisées cit., p. 9. 12

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Sennonché, nel suo studio del filosofo tedesco in Dai principi - la cui pietra angolare è la celebre «ipotesi della chiusura», o I' epocalità ormai sospesa della metafisica-, Schiirmann intratteneva ancora la possibilità che tale «fine» segnasse l'inizio di un'era post-epocale dell'anarchia, in cui i fenomeni singolari sarebbero stati liberati dai ceppi degli universali imposti loro storicamente. L'intervento del 1992 addita invece, al di sotto della pretesa di uscire brutalmente dal terreno principiale, la megalomania del desiderio. Scontrandosi con la coalescenza di legislazione e trasgressione in ogni istanza nomotetica, Schiirmann riconosce così il carattere in-conclusivo della metafisica. Con «metafisica», però, non si designa più soltanto l'onto-teologia heideggeriana. La «metafisica» è, topologicamente, anzitutto il lavoro sussuntivo della massimizzazione tetica in atto nella grammatica predicativa per cui i nomi propri si volgono in nomi comuni e, quindi, in fantasmi che ci «significano cosa fare o chi essere» 1 9. Se, come si legge in Anarchie ed egemonie infrante, «non possiamo che massimizzare» 20 , allora Schiirmann ha buon gioco di scrivere, in apparente contraddizione con l'ipotesi cardine di Dai principi, che «la metafisica non ha mai costituito un sistema chiuso» 21 • Contro la cleistomania così presente nel pensiero postmoderno, la fine della metafisica non finisce di finire. In tal senso l'ultimo Schiirmann contesta la percorribilità di una vita completamente «fuori» della legge, di una vita anomica. Ciononostante, indicando nella passibilità un modo di disimparare il diniego tragico del doppio legame tra natalità e mortalità, egli al contempo adombra la possibilità di un' «an-archia proteiforme», ossia di vivere smettendo la legge. In quale modo? Ricusando una legislazione che teticamente si pone come semplice negando la trasgressione che comunque riposa - non quale altro da sé quanto, piuttosto, quale altro di sé - al cuore del suo stesso legiferare. Corrispondere alla tragicità del doppio legame è così, per lui, il compito di una filosofia modesta che si fa «nuova disciplina del pensiero» 22 • L'imperativo di tale pensiero manifesta in definitiva l'esigenza soterica della topologia: diasozein ta pbainomena, salvare i Vedi R. Schiirmann, A11archia ed egemonie infrante, i11fra, pp. 2.40-2.41. lvi, pp. 2.36-2.37. z.i lvi, p. 2.40. z.z. R. Schiirmann, Des Hégémo11ies brisées cit., p. 409. 19

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fenomeni «nei luoghi del loro manifestarsi» 2 3. Il sapere attraverso la sofferenza - il pathei matbos - al quale Schiirmann si risveglia nel periodo '87-'92 è perciò più «sobrio» e però non meno pratico di quello già illustrato in Dai principi, poiché urge ad «apprendere come vivere in mondi in cui la corrente di risacca singolarizzante non sia più negata» 2 4. Concludendo, la parabola filosofica ed esistenziale tracciata da Schiirmann incontestabilmente interseca, come ricorda giustamente Alberto Martinengo2 5, la costellazione disegnata dal cosiddetto «pensiero destituente». Tuttavia, la topologia delle egemonie infrante, ravvisando il carattere ineludibile del doppio legame in cui ci vincolano le condizioni ultime, riafferma tanto la caducità ab origine di qualsiasi progetto archico che l'impraticabilità politica di un esodo anomico. Secondo Schiirmann l'impulso tetico, aprendo «uno spazio per le sussunzioni» 26 e facendo sì che le parole (ci) significhino il comune, istituisce un mondo comprensibile e in definitiva vivibile. Eppure, al sito della discezione appartiene ormai il sapere che alla vivibilità ogni volta istituita è sempre immanente la sua imminente destituzione. La topologia basata sull'analitica della natalità e della mortalità mostra senza mezze misure la violenza che inerisce al decidersi unicamente e semplicemente per l'una o per l'altra condizione. Sottraendosi ali' aut aut tra istituire e destituire, quello schiirmanniano è pertanto un pensiero che assume pateticamente la loro inaggirabile co-originarietà. È da capire se la forma in cui l'ultimo Schiirmann flette l'imperativo eckhartiano al «sereno abbandono» e al «distacco» - l'a priori pratico che, avendolo accompagnato sino alla fine, si presenta ora nella diatesi media del «lasciarsi discepire» 2 7 - sia ancora in grado di convertire i suoi lettori a «salvare i fenomeni» oppure sia un'eredità votata a sparire nel silenzio. A noi che ora erriamo nel sito della R. Schiirmann, Anarchia ed egemo11ie i11frante, ù,fra, p. 2.42. Jbid. 2 s Vedi Alberto Martinengo, L'ontologia politica di Reitzer Schurmann, «Almanacco di Filosofia e Politica», 4, cit., p. 279. 26 R. Schiirmann, Anarchia ed egemo11ie i11frante, infra, p. 2.39. 1.7 R. Schiirmann, Des Hégémonies brisées cit., p. 409: «se laisser dessaisir». Per intendere il senso molteplice della Gelassetzheit in Schiirmann, si permetta di rimandare a lan Alexander Moore, On the Ma,zifold Mea,zing of Letting-Be in Reiner Schurma11n, «Journal of Continental Philosophy», 2, 1, 202.1, pp. 105-130. 1.3

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discezione Schiirmann chiede se è addirittura possibile amare le condizioni ultime discordi e affida questo sapere: relegare spensieratamente «le archai agli arnesi filosofici ormai obsoleti» per «stabilirsi felicemente in un luogo privo di principi» non ci è e non ci sarà concesso28. Come dunque vivere nel tempo che resta?

28

R. Schiinnann, Des Hégémotlies brisées cit., p. 724.

Anarchia ed egemonie infrante. Intervento in risposta a Peg Birmingham e Rodolphe Gasché (1992) 1 Rcincr Schiirmann

Ringrazio Peg Birmingham e Rodolphe Gasché delle loro attente osservazioni. Vado direttamente al cuore del problema che ho cercato di enucleare, almeno come vedo le cose ora, tanto nei miei libri precedenti che nei due volumi in preparazione2 • Il cuore del problema riguarda i cominciamenti, e in molti modi diversi.

Cominciamenti e arche In filosofia è opportuno dichiarare dove e come si comincia. In letteratura si può assumere il punto di inizio in qualche esperienza straordinaria - come essere sulla strada ... Forse più l'esperienza di uno scrittore è straordinaria e meglio è. Tuttavia, in filosofia, il punto di partenza deve essere un'esperienza non straordinaria. Deve 1 Poiché il dattiloscritto originale è sprovvisto di titolo e reca soltanto il riferimento «SPEP, Boston», si è deciso di apporre un titolo coerente con i temi capitali in esso trattati. Le note a piè di pagina sono tutte curatoriali. Siamo grati agli credi di Schiirmann e a Michael Hcit-1., in qualità di esecutore del Fondo Rcincr Schiirmann presso le edizioni Diaphanes, per aver generosamente permesso la pubblicazione dello scritto; a Silvia Dadà, Matteo Polleri e Alberto Martinengo per aver voluto che questo scritto vedesse la luce in traduzione italiana; infine a Simona Forti, il cui lavoro su Schiirmann è stato fonte di ispirazione per la nostra edizione. 1 Le egemonie i11frante, uscite postume in Francia in un unico volume presso le edizioni T rans-Europc Repress fondate e dirette da Gérard Granel, il quale tenacemente volle diffondere l'opera come un solo libro nonostante le dimensioni proibitive, erano state pensate da Schiirmann divise in due parti da pubblicarsi congiuntamente, ragion per cui vi fa così riferimento nel testo. Presumibilmente il curatore della prima edizione, Picrre Adler, si assicurò che il libro fosse suddiviso in due tomi al fine di mantenere la configura7.ionc prevista dall'autore.

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essere, cioè, un'esperienza che tutti riconoscono anche come propria, altrimenti la pretesa della filosofia all'universalità dei suoi concetti sarà vanificata in partenza. È possibile che per Platone una simile esperienza sia stata: «Che cos'è la vita buona?» Per Kant era invece l'esperienza nel senso della nostra conoscenza ordinaria degli oggetti sensibili. Un modo comune di cominciare si mostra nei meta-discorsi uditi e letti spesso, come questo: «Se riesco a perorare la mia causa sostenendo con degli argomenti che X, allora il risultato sarà indesiderabile; pertanto la sosterrò argomentando che Y ». Il che si riduce a riconoscere, fatto toccante nella sua ingenuità, che il punto di partenza sono i desideri e l'argomentazione la loro giustificazione3. I desideri, però, sono tanto notoriamente inaffidabili quanto ineludibili. Costringono ad argomentare la massimizzazione ora di questa ora di quella posizione o tesi. La massimizzazione platonica del bene e quella kantiana della spontaneità del soggetto possono servire come esempi di un simile teticismo. Ora, per mettere il desiderio al suo posto, se sia addirittura possibile, non sono molti i candidati capaci di fornire un punto di partenza che tutti sappiamo benché confusamente; un punto di partenza che necessita di essere elucidato e su cui si possa fare affidamento proprio come universalmente intelligibile. Se si cerca di evitare i tranelli della gratificazione del teticismo è possibile cercare un tale inizio sistematico solamente nei tratti della quotidianità. Di questi, i più elementari concernono la mia nascita e la mia morte. Niente è più certo del fatto che sono venuto all'essere e che me ne andrò. Quel che sappiamo, benché confusamente, non sono la mia nascita e la mia morte come eventi databili. Piuttosto, le loro le trazioni discordi sulla quotidianità sono le condizioni ultime [ultimates] dell'esperienza. Per me la filosofia deve pertanto iniziare come una Analitica delle condizioni ultime. Al fine di caratterizzare queste condizioni ultime prendo in prestito una distinzione da Hannah Arendt, sebbene io la estenda al di là della sfera del politico che era la sua preoccupazione primaria. È la distinzione tra natalità e mortalità. Arendt descrive la natalità come il principio dei cominciamenti rJ,rinciple of beginnings]. La natalità

3

Cfr. R. Schiirmann, Des Hégémotlies brisées cit., pp. 630-631, n. 45.

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è, così scrive Arendt, «il miracolo che preserva il mondo»4. Sedersi e iniziare un nuovo libro, fondare le Nazioni Unite, innamorarsi ancora ... Tutto ciò è possibile in virtù dell'impulso della natalità. Il modo migliore per iniziare il discorso filosofico è con questo impeto che la nascita impartisce all'esperienza quotidiana. Tuttavia la natalità, in quanto condizione ultima, non funziona da sola. L'altra trazione è la mortalità, che dà conto della nostra finitudine. Questa condizione è quella che dispiega le nostre vite nel tempo contingente, facendo sì che si possa parlare della propria vita solamente raccontandone la storia e le storie5. Arendt non lo dice esplicitamente ma è ovvio che la sua distinzione tra natalità e mortalità è desunta da Heidegger: «L'Esserci effettivo esiste geburtig» - il traduttore ha reso «come essente nato» 6; «natalmente» sarebbe però una resa più precisa. Heidegger continua: «e, natalmente, muore nel senso dell'essere-per-la-morte»7. La natalità e la mortalità pertanto si oppongono come l'essere-per-la-nascita Heidegger dice «l'essere-per-il-cominciamento» (Sein zum Anfang) 8 - e I' «essere-per-la-morte» (Sein zum Tode; Essere e tempo, § 72). Vero è che Heidegger non ha dedicato all'essere-per-la-nascita la stessa ampiezza e profondità d'analisi da lui riservata all'essere-per-la-morte. Per di più, non sono sicuro che, nel suo progetto, l'essere-per-la-nascita e l'essere-per-la-morte siano veramente delle condizioni ultime poiché Heidegger ricollega tutte le funzioni al loro

"Cfr. Hannah Arendt, Vita Activa, trad. it. di S. Fin7..i, Bompiani, Milano 2003, p. 182. s Cfr. R. Schiirmann, Des Hégémo11ies brisées cit., p. 29, n. 34: «La mortalità fa la nostra finitudine e distende la vita singolare in storia narrabile». Non è da escludere un'eco della diastasis plotiniana in questa «distensione» schiirmanniana della vita singolare, cfr. ivi, p. 186 nonché Plotino, Enneadi, III, 7 (45), 11, 42-46. 6 Schiirmann fa riferimento alla traduzione inglese di Macquarrie e Robinson i quali rendono geburtig con as born; vedi Martin Heidcgger, Bei11g atul Time, trad. ing. di J. Macquarrie e E. Robinson, Blackwcll, Oxford 1962, p. 426. In questa sede si è usata la nuova edizione italiana di Essere e tempo, F. Volpi (a cura di) sulla versione di P. Chiodi, Longanesi & C., Milano 2005 {1971), S 72, p. 442, trad. it. modificata. Volpi e Chiodi rendono geburtig con «come essente nato». Il passo in originale riporta: «Das faktische Dascin existiert gebiirtig, und gebiirtig stirbt es auch schon im Sinne des Scins zum Tode» (Sein und Zeit, Max Nicmeycr Verlag, Tiibingen 2001, S 72, p. 374). 7 M. Heidcgger, Essere e tempo cit., S 72, p. 442, trad. it modificata. 8 Volpi-Chiodi traducono Sei11 zum A11fa11g con «l'essere iniziale», cfr. M. Hcidcgger, Essere e tempo cit., S 72, p. 441.

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«radicamento or1gmario» nell'esserci9. D'altro canto, la natalità e la mortalità, nel modo in cui ho tentato di ripeterle e recuperarle [retrieve]1°, forniscono un punto di partenza alla filosofia che tutti sappiamo, un punto che, sebbene incondizionato, non può cadere preda dell'impulso massimizzante del desiderio tetico perché, come tale, non è semplice. In un certo modo, l'impossibilità della semplicità normativa - di un'unica, semplice, istanza di obbligazione 11 - è il solo argomento dei due volumi intitolati Le egemonie infrante. Quanto detto mi consente di rispondere all'osservazione di Rodolphe Gasché intorno all'aporeticità. La situazione aporetica riguarda tradizionalmente il sapere e il non sapere. È la situazione «senza via d'uscita» 12 in cui io pervengo a sapere la mia ignoranza. Ma questo è già un senso restrittivo di poros e hodos 1 3. Il sapere cercato, non trovato, e poi trovato di nuovo nell'ignoranza - in parole davvero troppo povere - è cercato e trovato come sapere conoscitivo, non come intuizione nelle, e delle, condizioni della quotidianità. L'aporia è un problema conoscitivo poiché riguarda i contenuti: la vita buona, per l'esattezza, dunque le virtù, e dunque il bene. Con le 9 M. Heidegger, Sein utul Zeit cit., p. 377: «ursprunglicheti Verwun,elutig» (trad. it. cit., p. 445). Con e contro Heidcgger, Schiirmann tenta di menomare la tcnta7.ione tetica di stabilire assolutamente fondamenti e fondamenta e lo fa pensando il Da del Dasein, il Ci dell'esserci, come un fondamentum concussum, cioè come un «fondamento già sempre scosso», il quale «più non provvede all'assicurazione del radicamento originario dei fenomeni» (R. Schiirmann, Des Hégémonies brisées cit., p. 613, n. 29). 10 Su questo termine (Wiederholung in tedesco; retrieval nella resa in inglese di Schiirmann) in Heidcgger, cfr. Id., Sein und Zeit cit., p. 385; trad. it. cit., p. 454: «La ripetizione [Wiederholung] è il tramandametito esplicito (ausdriickliche Oberlieferung], cioè il ritorno alle possibilità dell'Esserci cssenteci-stato. La ripetizione autentica di una possibilità d'csisten7.a essente-stata [•.. ] si fonda esistenzialmente nella decisione anticipatrice; infatti è in essa che viene primariamente scelta quella scelta che rende liberi per la lotta successiva e per la fedeltà a ciò che è da ripetere». Per il modo in cui Schiirmann tratta della Wiederholutig heideggeriana cfr., anche, Simon Critchley, Reiner Schiirmann, On Heidegger"s Being and Time, S. Levine (a cura di), Routledgc, London-New York 2008, pp. 5 8-73. 11 Sembra che Schiirmann abbia in mente la frase letzte lnstanz (demière instance, in Des Hégémonies brisées cit., p. 9 e passim), con cui ci si riferisce alla massima autorità o alla massima corte d'appello alla quale fare ricorso in un procedimento legale. Vedi, anche, l'osservazione di Rcginald Lilly in Broken Hegemonies cit., p. 9. 12. Una tradU7.ione letterale del greco aporia, l'essere in uno stato (-ia) privo di (a-) passaggio (poros). •3 «Passaggio» e «cammino».

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teorie dcli'aporeticità il bene è infatti già posto in anticipo, presupposto; e con il bene è presupposto l'intero apparato della sussunzione. Ma, come ho affermato, quel che sappiamo fenomenologicamente in quanto unhintergehbar - in quanto inaggirabile o «al di là del quale è impossibile retrocedere» - non può riguardare questo o quell'altro contenuto. Se occorre che esso sia riconoscibile da tutti, allora deve essere formale, non materiale. «Iniziare», in greco, si dice archein. A dare inizio e a dominare i fenomeni è stato, nel teticismo, un qualche referente ultimo [last referent]. Si può affermare che, almeno da due secoli a questa parte, per dare inizio e regnare sui fenomeni si sia evocata la soggettività. La soggettività è stata e resta la rappresentazione sotto la quale noi moderni abbiamo sussunto, e continuiamo a sussumere, tutte le altre rappresentazioni. La soggettività è I'arché della modernità. Ebbene, ho sempre cercato di comprendere in maniera più perspicua l'anarchia. Bisogna distinguere vari sensi del termine. Una dottrina dei principi, non importa se esplicitamente o implicitamente né quale ne sia la versione, non può privarsi di un qualche concetto di anarchia. In una tale dottrina questo concetto riassume soltanto l'assioma che proibisce di retrocedere indefinitamente verso condizioni sempre più primitive. Nel teticismo la prima arché dovrà essere anarchica dal momento che, come ha osservato Rodolphe Gasché, non sarebbe più prima se avesse anch'essa la sua arché 14• Ad avermi affascinato in Meister Eckhart prima, e in Heidegger poi, sono state delle strategie di pensiero messe in atto contro queste archai tetiche15. In Eckhart, la contro-strategia si rende manifesta, per esempio, nella sua esortazione a «irrompere» 16 al di là del Padre. In Heidegger, almeno nel modo in cui l'ho letto nel libro commentato da Peg Birmingham1 7, la contro-strategia anarchica emerge dalla

Cfr. R. Schiirmann, Des Hégémotues brisées cit., pp. 163, 198 n. 53, e 722. Cfr., ad esempio, Reiner Schiirmann, Maestro Eckhart o la gioia errante, trad. it. di M. Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 140-143. 16 Così rendiamo per cocren7.a, sulla scorta di Michele Sampaolo, il verbo break through con cui Schiirmann traduce il durchbrechen cckhartiano; cfr. Maestro Eckhart o la gioia errante cit., p. 81 e passim. 17 R. Schiirmann, Dai pri,u;ipi a/l"anarchia cit. 1 4 15

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sua analisi della storia epocale. Allora, con un «altro pensare» 18 così come con un «altro agire» - divenuto forse una possibilità nella nostra era -, il costituirsi della fenomenicità non accadrebbe più ricollegando i fenomeni a un unico referente supremo, a un'unica arcbé. Potremmo chiamarla un'anarchia post-epocale. Ancora differente è l'anarchia che appare nel momento in cui si cerca di disapprendere a recidere le condizioni ultime della natalità e della mortalità. La natalità spingerà sempre il pensiero a porre degli universali - anche regionali, non necessariamente egemonici. I desideri, come accennavo, sono ineludibili. Ma che cosa accadrebbe alle posizioni egemoniche se si disapprendesse a negare la mortalità nel costituirsi dei fenomeni? Le posizioni egemoniche si mostrerebbero intrinsecamente infrante. Lo sforzo di rimanere fedeli alle condizioni ultime dell'esperienza ordinaria stride con l'appello ai principi semplici che stabiliscono la legge. Questa dissonanza ultima ci priva, e sempre ci ha privato, di qualsiasi tribunale d'appello. Perciò l'origine si dimostra qui anarchica perché in dissenso con sé stessa 1 9. Basti quanto detto sull'analitica delle condizioni ultime come propedeutica a una topologia dei fantasmi egemonici. Vorrei ora accennare al modo in cui la mortalità disaggrega le rappresentazioni che la natalità ha massimizzato come egemoniche. Una tale disaggregazione proviene dai singolari e dalla fedeltà fenomenologica nei loro confronti.

Singolarizzazioni Nei due volumi intitolati Le egemonie infrante la mia domanda guida è stata quella posta sia da Peg Birmingham sia da Rodolphe Gasché: «in che modo esattamente i singolari "infrangono" i fantasmi che prescrivono la legge?» Anzitutto, un'osservazione intorno al termine «fantasma», termine che adopero non nel senso attribuitogli nella teoria psicanalitica bensì per designare i cosiddetti criteri la cui assicurazione i filosofi conside18 Or. Martin Hcidcggcr, Wegmarken, F.-W. von Hcrrmann (a cura di), Klostcrmann, Frankfurt a.M., 1975, p. 381 (GA 9,);trad. it. di F. Volp~Segnavia,Adclphi, Milano 1995, p. 333. 19 Cfr. R. Schiirmann, Des Hégémonies brisées cit., p. 722.

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rano prerogativa del loro mestiere. Siccome tali criteri funzionano da istanza «ultima» [fast instance], da referente supremo - il bene platonico, la soggettività kantiana-, sono egemonici. Il termine «fantasma» designa, in altre parole, sensi focali dell'essere 20 • La questione è dunque questa: come se la passano questi -fuochi, queste posizioni che sussumono il senso - i fantasmi egemonici - se a essere fenomenologicamente originarie sono la natalità e la mortalità? Detto altrimenti: se la filosofia inizia con queste condizioni ultime dcli' esperienza ordinaria, che cosa accade alla normatività e, dunque, alla legge? Ciò che accade è che la legge si dimostra incapace di imporsi chiaramente, semplicemente, univocamente. Piuttosto, essa ci colloca sempre ed essenzialmente in un doppio legame [double bind] 21 • Questo doppio legame è ciò che io chiamo la condizione tragica dcli'essere. Forse, lo si può enunciare astrattamente come la discrepanza tra gli universali e i singolari. Ora, per quanto riguarda i singolari, occorre tenere a mente diversi punti. In primo luogo, i singolari non sono particolari. Si particolarizzano attraverso la posizione di una qualche unica classe o un unico genere sussumente, di cui quelli sono poi dei casi. Il teticismo non sa che farsene dei singolari. In tutto il loro rigore tetico gli idealisti hanno sempre ritenuto che il singolare fosse privo di essere. L'opposizione tra universali e particolari è pari, ossia costituisce una coppia, un paio. Diversamente accade per l'opposizione tra universali e singolari. Essi sono opposti spaiati, dis-pari. 10

Cfr. R. Schiirmann, ivi, p. 17: «massimizzare il lavoro fantasmatico del linguaggio ordinario[ ...] centra lince di forr.a-stratcgie del parlare, dipcnden7.c interne della vita-su un punto focale posto [foyer posé]. Impone un senso canonico dell'essere. Descrivere questa focale come si descrive un ente è, pertanto, impossibile; si tratterà piuttosto di mostrare in che modo operi un tale punto, che varia secondo le epoche e al quale ogni fenomeno deve rapportarsi per avere un senso. In quanto termine di relazioni normative, il punto focale nomina il "reale" ultimo (/e "rée/" demier] che rende concepibili i dati singolari [/es donnés si11guliers] cd è il punto in cui s'inabissa la loro singolarità». 11 Prendendo le mosse da Batcson (cfr. Gregory Bateson, Step to a11 Ecology of Mi11d, Chandler Pub. Co., San Francisco 1972., pp. 2.06 sgg. [trad. it. di G. Longo, G. Trautteur, Verso un'ecologia della mente, Adclphi, Milano 1977, pp. 2.10-2.11]), Schiirmann esplicita la triplice struttura formale del «doppio legame» in Des Hégémonies brisées cit., pp. 9-10, n. 1: «un'ingiunzione primaria che dichiara la legge; un'ingiunzione secondaria che dichiara una legge in conflitto con la prima; e, infine, un'ingiunzione terziaria "che interdice alla vittima di sottrarsi e sfuggire al campo" costituito dalle prime due ingiunzioni».

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Inoltre, quando parlo del «singolare» non mi riferisco a oggetti ostensivi. Non sollevo questioni che appartengono al cosiddetto nominalismo, almeno non primariamente22 • Il singolare come è inteso da alcuni medievali sembra essere piuttosto una conseguenza di quanto mostrato dall'analitica delle condizioni ultime. Essa mostra che gli universali sono il risultato dell'impeto della natalità e che, invece, ciò che è singolare è il risultato della discrepante corrente di risacca della mortalità. Tuttavia, quanto ho appena detto non ha certo nemmeno lo scopo di perorare la causa del sé singolare. «Coltivate le vostre singolarità!» si diceva non troppo tempo fa a Parigi e in California. Questa esortazione implicava ed implica analiticamente: «rispettate le singolarità». Eppure, quanto non si diceva e che nondimeno occorre dire - se il compito della filosofia resta rendere esplicito il sapere previo che abbiamo delle condizioni - è: «da dove proviene un tale imperativo?», «che cosa lo rende possibile?» Coerentemente, a Francoforte, la replica non si faceva attendere: «in nome di che cosa? Esplicitate i vostri argomenti di validità!» Ora, all'ispezione topologica, nomi e valori, come anche le competenze soggettive (o intersoggettive) su cui i teorici critici basano tali argomenti, si rivelano essere meri prodotti, portati cioè all'essere dal teticismo. Piuttosto, la legge massimizzata dalla natalità è fin da subito condotta alla rovina dal singolare in quanto singolarizzazione, dunque, dalla temporalizzazione. La singolarizzazione rivolge il tempo contro sé stesso. Un'analitica delle condizioni ultime riguarda il futuro in due modi. La natalità mi spinge a progettare il domani ... Ma so anche la mortalità secondo il modo [mode] del futuro. La trazione anarchica in ciascuna e in tutte le leggi deve essere allora compresa come singolarizzazione a venire 23 • Il «différend »2 4, il dissidio tra legge e singolarizzazione si mostra splendidamente nella scena primaria con e per la quale deve lavo-

2.2. Per il modo in cui Schiirmann tratta il nominalismo si veda, ad esempio, Reiner Schiirmann, Neo-Aristotelianism and the Medieval Renaissance: On Aquinas, Ockham a,ul Eckhart. Lecture Notes {or Courses at the New School {or Socia/ Research, I. A. Moore (a cura di), Diaphanes, Ziirich 2.02.0. 2 3 Vedi R. Schiirmann, Des Hégémo11ies brisées cit., p. 407. 2.f Sull'uso schiirmanniano del termine vedi ivi, pp. 2.6-3 8. Poiché il francese différend non ha in italiano un equivalente che si sia conservato dal latino (dal lat. differre,

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rare la topologia dei fantasmi 2 5. Questa scena è il conflitto tra leggi eroiche e leggi democratiche nell'Atene del V secolo, così come viene rappresentato nel teatro di Eschilo e Sofocle. Agamennone taglia la gola di Ifigenia in nome di ciò che chiamiamo «valori»: in nome di quegli universali normativi come la nazione, l'esercito, l'onore certamente, e magari, forse, l'espansionismo greco e la colonizzazione ionica ... Si taglia per promuovere così un nome comune in grado di disporre la legge. Ma, così tagliando, Agamennone si re-cide altresì dalla legge degli Atridi. Egli, cioè, (si) de-cide in favore di un 'unica legge pre-cisa, una legge, cioè, che taglia di netto [clear-cut law): per la legge in Aulide e contro quella a Micene, dove ben altre obbligazioni l'avrebbero costretto a tagliare e a decidere diversamente. In Aulide la sua funzione pubblica lo inserisce in un mondo che gli conferisce senso in qualità di capo delle armate. Eppure, sempre in Aulide, la fedeltà innegabile - che è, tuttavia, una fedeltà negata - al lignaggio familiare, nel contempo lo singolarizza. La fedeltà alla sua consanguineità, alla sua linea di sangue, lo espelle fin da subito dal mondo delle armi e delle navi da guerra, il mondo che pure, sacrificando sua figlia, Agamennone esalta come inequivocabilmente normativo26 • Basti quanto detto a suggerire che la legge emerge essenzialmente dal diniego tragico 2 7. D'altronde, sapere l'espulsione e la singolarizzazione che accompagna la normatività decisiva, ossia quella chetaglia di netto, rende qualsiasi senso univoco senza senso e insensato. Questo sapere, reso esplicito, è il sapere tragico 28 • «allontanare», «separare», «dis-portare», il termine différetul designa in francese una disputa, un conflitto tra parti avverse) per la traduzione italiana del libro di Jcan-François Lyotard (Le différend, &litions dc Minuit, Paris 1983), Ale~ndro Serra optò, con buone ragioni, per dissidio (cfr. li dissidio, a cura di A. Serra, Fcltrinclli, Milano, 198 5). Per cocren7.a terminologica con la ricezione italiana del termine francese, al fine di mantenere la prossimità tra l'uso che ne fa Schiirmann e quello lyotardiano, si è deciso di utilizzare différetul, anche per sottolineare il riferimento, nemmeno troppo velatamente polemico, alla différa,u:e in Jacqucs Derrida. 1 s Qui Schiirmann adopera i verbi work with e work through. Il primo si può tradurre agilmente con lavorare co11. Per il secondo, che in inglese rende indicativamente il durcharbeiten freudiano, si è deciso di utili12.arc lavorare per, in cui il per non è da intendersi in senso finale, bensì locativo come «attraverso» (per-laborare). 16 Cfr. R. Schiirmann, Des Hégémo,ues brisées cit., pp. 713-714. 1 7 Cfr. ivi, pp. 38-50. Per l'importante distin1..ionc tra «negazione» (Venzeimmg) e «diniego» (Verleug,umg), si veda ivi, p. 714. 18 Cfr. ivi, p. 10 e passim.

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Conoscere, pensare, sapere29 Wir fassen ein Gesetz begierig an, Das unsrer Leidenschaft zur Waffc dient. Col desiderio afferriamo una legge, Che serva da arma alla nostra passione. (Goethe, lphigetue au{Tauris, V, 3; vv. 1832 sgg.)

Che la legge sia, come suggeriscono i versi in esergo, un'arma da brandire in difesa della nostra passione? Una passione trasformata in un'arma, forse? Una passione singolare- la passione per un qualsivoglia singolare - che il desiderio sopraggiunge a promuovere, esaltare, istituire quale regola universale? Correlativa al negare la singolarizzazione è la massimizzazione: ciò che Heidegger, in un suo testo, chiama aufsteigern3°. Questa correlazione può essere mostrata al meglio seguendo I'aufsteigern dei nomi propri a nomi comuni; a rappresentazioni del comune. 2.9 I paragrafi che seguono si trovano, con alcune significative omissioni e variazioni, in Schiinnann, Des Hégémonies brisées cit., pp. 403-410. Vedi, anche, Reiner Schiirmann, Conditio,is of Evi/, in D. G. Carlson, D. Comell e M. Rosenfcld (a cura di), Deco1,structio11 and the Possibility of ]ustice, Routledge, New York 1992, pp. 387-403 (trad. it. di S. Forti, L. Savarino, Le condizioni del male, in S. Forti [a cura di], La filosofia di fro11te all'estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino 2004, pp. 167-188). Peraltro, proprio Co,uJitions of Evi/, approntato in occasione di una confcren7.a tenutasi alla Cardozo Law School di New York dal titolo «The Politics of T ransfonnation and the Limit of the lmagination» nel settembre del 1991 e l'intervento alla SPEP del 1992 condividono numerosi passi e talora coincidono verbatim. Benché entrambi gli scritti si trovino rimaneggiati in Des Hégémonies brisées, non è possibile stabilire allo stato degli studi se Schiirmann li avesse composti specificamente per le confcrcn7.c, e poi fossero confluiti in quell'opera, oppure li avesse adattati da materiali precedenti della stessa. 30 Cfr. ad esempio, M. Heidcgger, Ni~e: Erster Ba,uJ, B. Schillbach (a cura di), Klostennann, Frankfurt a.M. 1996, p. 74 (trad. it. di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 2018, p. 8 5), trad. it. modificata: «dopo quanto è stato esposto nel frattempo, è facile vedere che questa detenni nazione dcli' arte come stimolante della vita non significa altro che: l'arte è una forma della volontà di potenza. Infatti, "stimolante", ciò che sprona, massimizza [Aufsteigenule], "eleva al di là di sé", è il "di più" di potenza [das Mehra11Macht], dunque potenza in senso as.wluto, cioè: volontà di potenza». Si veda anche Schiirmann, Des Hégémonies brisées cit., p. 703 e cfr. M. Heidcggcr, Beitriige zur Philosophie {Vom P.reignis) cit., p. 258; trad. it. cit., p. 261, modificata: «l'Essere non è qui un genere accessorio, non una causa che sopraggiunge, non un circomprendentc che sta dietro o al di sopra dell'ente o lo abbraccia. In tal modo l'Essere rimane privo della sua dignità e degradato a un'aggiunta di cui nemmeno la massimiZ7.a7.ionc [Aufsteigenmg] alla "trascenden7.a" potrebbe annullare l'accessorietà».

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Se vi sono ragioni per convenire con Goethe, allora la legge si dimostra essere di estrazione alquanto modesta. Così come in tutte le ascese strabilianti, le umili condizioni dell'inizio risuoneranno persino negli effetti del nome e della rinomanza. Il punto di partenza singolare dal quale emerge la legge, una singolarizzazione che ora riguarda dei nomi, infrangerà intrinsecamente l'universale dotato di forza di obbligazione. Anche «rinomanza» viene da «rinominare». È un ri-nome. Il termine, così compreso, ben descrive l'ascesa e la carriera della legge. Un nome proprio nominato nuovamente, ri-nominato in vista della sussunzione, portato al rango del nome più comune, massimizzato: ecco cosa sarebbe la legge. Parlare «in nome di» sarà sempre, in fin dei conti, parlare del nome [name] o del sostantivo [noun] proprio, e poi della rinomanza-rinominanza. In questo e poi riposa tutto il problema della normatività, dei principi, del ricorso in appello, dell'ultima istanza. Sarà utile riflettere sulla persistenza del singolare, dell'oggetto della passione, al cuore dei referenti comuni che godono della rinomanza della legge. Riflettere significa dunque mettere in questione i nomi che obbligano alla fedeltà e chiamano ali' adunata, quei nomi ai quali ci affidiamo come se il loro prestigio legislativo andasse da sé: nomi come progresso, popolo, razza, libertà ... Sottomettendoci a simili rappresentazioni comuni diventiamo capaci di intenderci [understand] l'un l'altro ragion per cui l'anomia, sia detto per inciso, è destinata a restare un sogno.

Il prestigio del comune, al quale ci spinge il desiderio, consente di conoscere effettivamente (erkennen; connaitre) e incita a pensare. Tuttavia, la persistenza del singolare al di sotto della legge, con i vari sensi del termine «passione» che ne derivano, è qualcosa di cui abbiamo un sapere previo (wissen, savoir, to wit - come nell'inglese «God wot», «he wist not»3 1 ). Conosciamo effettivamente le cose chiamandole con il loro nome. La conoscenza aumenta e si rafforza alla luce del comune. Se non ci

3• «Dio sa», «egli non seppe». Il verbo inglese to wit, ormai desueto, significa sapere cd è affine al tedesco wissen e al latino video.

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fossero nomi generici e specifici che esprimono leggi, il mondo per noi rimarrebbe impenetrabile. Le leggi della conoscenza enunciano relazioni necessarie che collegano fenomeni. Pensiamo, allorché ci domandiamo e domandiamo agli altri: in nome di cosa faccio quel che faccio, dico quel che dico, giudico come giudico? Qui, poiché in gioco è il senso (meaning] anziché i generi [kinds], mettiamo ali' opera un altro nome: un comune che è altro. Conseguentemente, mettiamo ali' opera una legge che è altra, una legge che dichiara non relazioni che sono, bensì relazioni che siamo convinti debbano essere. Le relazioni del pensiero restano sempre più deboli delle relazioni conoscitive. Un accordo che riposa su un pensiero comune rimane più precario di uno imposto da una verità conosciuta. Se non vi fossero i nomi che gli danno senso, il mondo per noi diverrebbe invivibile. Conoscere e pensare non sono tutto. Le leggi che regolano il vero e quelle che regolano il senso non esauriscono l'intera legge che si fa passare per normativa. Il nostro intelletto non può che piegarsi alla coercizione del vero; il vero è una legge dura. La ragione, d'altro canto, dibatte sulle convinzioni: il senso comanda con una legge più molle, in cui entra in gioco la libertà. Vale a dire che sia l'intelletto che la ragione dipendono a loro volta da condizioni. La filosofia ha come missione di cercare l'incondizionato che rende possibile il condizionato. Al di fuori di questo, essa scade in una qualche «teoria di»: in una teoria dell'intelletto, della conoscenza, o in una teoria del senso, per l'esattezza, oppure in un'altra teoria di questo genere. Nessuna di queste teorie è filosofia. Dell'incondizionato abbiamo un previo sapere ( Wissen ). Né duro né molle, tale sapere non può essere dimostrato e nemmeno discusso. Allora, che cosa sappiamo della legge, anteriormente alla dimostrazione che stabilisce il vero e alla discussione che negozia il senso? Non tutto il sapere aprioristico è ultimo [ultimate] (ragion per cui, in termini kantiani, tanto la nostra conformazione teoretica che quella pratica sono disposte secondo un ordine tracciato dalle deduzioni; giacché l'appercezione è la sola funzione ultima). L'ultimo che sappiamo, non potrebbe essere forse in rapporto tanto con il comune promosso, esaltato, dichiarato e istituito come legge dal desiderio che con il singolare che è affezione di una passione? È forse possibile che questo doppio rapporto ci familiarizzi con un doppio legame che è ultimo: con la legge, altrettanto sussumente che deittica? Se massimizziamo, e non possiamo che

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mass1m1zzare, i nomi propri in nomi comuni, non potrebbe essere perché la condizione tragica è saputa da tutti? Questo sapere ci fa porre i principi e, al contempo, ci mantiene inevitabilmente fedeli agli oggetti deittici. Detto altrimenti, allorché promuoviamo una passione singolare - una passione per un qualsivoglia singolare - e, nelle parole di Goethe, veniamo a brandirla come una legge, che sia forse perché sappiamo le condizioni ultime in confUtto? Obbediamo noi forse a un doppio legame universalizzante-singolarizzante, un doppio legame che è ineluttabilmente originario? Se tale è il sapere incondizionato, allora potremo apprendere di più della legge analizzando le sue condizioni ultime nell'esperienza ordinaria.

Analitica delle condizioni ultime e topologia delle egemonie infrante Non è difficile vedere le connessioni tra l'analitica delle condizioni ultime e la topologia delle egemonie infrante. Ancora una volta, al riguardo dovrà essere sufficiente soltanto un abbozzo. In un inizio tetico del discorso si afferma: «io pongo che X, da cui consegue che Y e che Z». Una volta posti il bene supremo, la sostanza, o il principio di ragione sufficiente si viene a occupare un punto di partenza che consentirà di comprendere (questa è almeno l'aspettativa investita nel teticismo) la vita buona, il cambiamento fisico, o l'impeto che muove le essenze all'esistenza. Una tesi è una posizione posta per sussumere e spiegare conseguenze che si sono dimostrate essere problematiche in partenza (ragion per cui una tesi non è mai assolutamente prima, ma questa è un'altra questione). In ogni caso, niente serve meglio «da arma alla nostra passione» del teticismo nelle sue innumerevoli forme. Il teticismo fornisce concetti comuni agli interlocutori e, agli agenti, idee generali, costituendo la forza del metafisico naturale che è dentro di noi. Perciò, nella misura in cui per vivere è necessario parlare e agire, comprendere e pensare, non ci districheremo mai dalle pose e dalle posizioni assunte, dalle tesi avanzate e dagli arresti posizionati ... Non ci districheremo mai dal massimizzare le rappresentazioni a leggi. In un inizio casuale del discorso filosofico si potrebbe affermare: abbiamo avuto posizioni sovrane in abbondanza e sovrabbondanza

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e continuiamo ad averne; questa profusione da sola dimostra che nessuna di esse è coercitiva, necessaria, o persino legittima; iniziamo allora in maniera più modesta con il casus, il caso contingente, iniziamo con il sito che si dà il caso sia il nostro, e chiediamo: che cosa ci accade oggi? Da un simile inizio casuale saremo in grado di notare le questioni decostruttive ai margini dei sistemi tramandatici. Saremo in grado di annotare archeologicamente e genealogicamente le nostre istituzioni, e così sovvertirle. L'analitica delle condizioni ultime, dal canto suo, inizia in maniera ancora differente. La topologia delle egemonie si collega parzialmente all'analitica esistenziale. Ma solo parzialmente, poiché in Heidegger questo collegamento resta altamente problematico. Per di più, secondo alcune delle sue dichiarazioni, sarebbero sufficienti due secoli o tre perché sia compiuta la nostra disassuefazione dagli investimenti tetici3 2 • La trazione verso i fantasmi sussuntivi non sarebbe dunque una condizione fenomenologicamente co-ultima [ca-ultimate] alla trazione che sempre ci singolarizza. I sensi focali sarebbero allora esperiti storicamente, e potrebbe venire il giorno in cui non se ne parlerà più - proprio come da due secoli a questa parte non si è più sentito parlare dell'etere o del flogisto. L'analisi delle condizioni ultime «precede» la topologia delle egemonie infrante poiché rivela nel sapere incondizionato le strategie che disgiungono le condizioni del pensiero. Non è certo trasgredire, né avventurarsi al di fuori del sapere distribuito più uniformemente nel mondo, affermare che tutti sanno almeno questo, ossia, che la chiarezza e lo splendore [clarity] di una posizione comune non è mai l'esperienza nella sua interezza, non è mai tutta l'esperienza. Qualcos'altro si mescola a tali posizioni, portando alla rovina il resto promesso dai nomi sussuntivi. Così noi, fin da subito avvezzi alle destabilizzazioni in un universo di senso stabilizzato fantasmaticamente, non ci sorprendiamo affatto .32. Cfr., ad esempio, Martin Heidcgger, «Nur noch ein Gott kann uns rettcn» in SpiegelGespriich mit Martin Heidegger, (Reden utul atulere Zeugnisse eines Lebenswesen (19101976), H. Heidcgger (a cura di), Klostcrmann, Frankfurt a.M. 2000), p. 675 (GA 16); trad. it. di C. Tatasciorc, L'intervista con «Der Spiegel», in Risposta: A colloquio con Martin Heidegger, Guida Editori, Napoli 199:z., p. 127: «può anche darsi che oggi il cammino di un pensiero porti a tacere, per preservare il pensiero stesso dal pericolo di svalutarsi nel giro di un anno. Può anche darsi che ci vogliano trecento anni perché esso "abbia efficacia" [um zu "wirken"J».

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quando si disfa un mondo che, per un certo lasso di tempo, andava da sé. Sorprendente è, piuttosto, che le cose tengano: almeno questo sappiamo, anche se non con l'intelletto o la ragione. È un sapere, questo, che emerge da un altrove della conoscenza e del pensiero. La strategia del ritrarsi, che ci strappa in anticipo da qualsiasi mondo costituito, è la madre di tutte le contingenze. Frustra l'intelletto ostacolandolo e solo con difficoltà si concede a essere pensata. Tuttavia, è proprio questa strategia di defenomenizzazione, al lavoro in modo incongruo in tutte le disposizioni fenomeniche, che esige di essere pensata. Il progetto delle Egemonie infrante è cogliere la natalità e la mortalità così come si congiungono nei fantasmi di un'ultima istanza; è riabilitare la doppia fedeltà originaria; dare voce alla condizione tragica ridotta al silenzio dal teticismo del senso. Da Parmenide fino ad alcuni temi presenti in Heidegger, pensare significa: cogliere il riferimento originario semplice. Se cerchiamo di restare fedeli alle condizioni ultime che sappiamo perché nasciamo e moriamo, sarà impossibile rivendicare qualsiasi semplicità in un 'ultima istanza e impossibile rivendicare una qualsiasi ultima istanza semplice. Il concepibile, il dicibile, tutto ciò che consente la comunicazione e dà vita, non va di pari passo con la singolarizzazione - nonostante il funzionamento delle nostre lingue naturali, la cui grammatica è modellata dalla meccanica della negazione determinata. Le nostre lingue oppongono alla vita l'inconcepibile e l'indicibile che singolarizza e impartisce la morte. Ma la disparità delle condizioni ultime rivolta il linguaggio contro sé stesso. Da questo punto di vista le parole possiedono una doppia pertinenza. Sussumono i particolari come casi di un universale e indicano i singolari deittici. L'impeto della natalità fa sì che le parole significhino il comune. Apre uno spazio per le sussunzioni, fuori del quale nessuno potrebbe udire né intendere [bear] nessuno. Non esiste un modo di parlare che consenta di abbandonare quello spazio (se la metafisica, in fin dei conti, è il lavoro della sussunzione, allora si dovrebbe dire che non esistono lingue non-metafisiche). Tuttavia la corrente di risacca della mortalità fa in modo che le parole indichino i singolari, proprio nel momento in cui essa ci singolarizza (se le parole possiedono questa rilevanza ostensiva, mostrativa, se cioè significano non solo un universale bensì mi significano cosa fare o chi

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essere, allora la metafisica non ha mai costituito un sistema chiuso). Questa contro-trazione che genera la funzione appellativa, e, in questo senso, performativa nel discorso [speech], priva il linguaggio delle sovradeterminazioni. La topologia è un tentativo di udire e intendere [hearing] - di ripetere e recuperare- negli argomenti normativi la fedeltà al sapere tragico, e di farlo attraverso il frastuono del teticismo. Sarà allora questione di carpire ai testi e alle tesi trasmessi dalla tradizione la doppia fedeltà originaria. Per quanto riguarda il tentativo di sottrarsi così alla legge unica, l'analitica delle condizioni ultime serve come un insieme di strumenti. Non per disapprendere, ma, almeno, per osservare al lavoro il riflesso più diffuso e condiviso, riflesso che è più di una deformazione professionale dei filosofi: negare che sotto ogni legge e obbligazione sia il tragico che ci situa nei suoi vincoli. Attraverso questa ripetizione e questo recupero si può sperare, se non di essere sicuri di correggersi come ci si corregge di un tic - dcli'antico riflesso che pone, posiziona e nega, perlomeno di rivelare nei fantasmi che esso esalta il lavoro delle condizioni ultime che infrange la loro egemonia. Per osservare in quale modo funziona il diniego è richiesta una topologia. Se le posizioni sussuntive sono effettivamente massimizzate a partire da esperienze piuttosto umili, le si comprenderà più facilmente riconducendole ai, e rintracciandole nei33, loro luoghi di estrazione. Quale fenomeno si conserva, benché iperbolicamente, al di sotto di questo o quel referente normativo posto? Parlo di topos prima di tutto nel senso dei luoghi dai quali si staccano, involandosi, le massimizzazioni normative. E questo primo senso è utile in qualsiasi lettura di un testo, nella misura in cui lo si mette in pratica senza

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Schiirmann adopera frequentemente in inglese il verbo to trace back e, meno assiduamente, il verbo to lead back (come in questa sede), con il significato di «ricondurre» e «rintracciare», per rendere il tedesco zuriickfiihren, vero e proprio termine tecnico del suo peculiare capovolgimento della tradizione critico-trascendentale. t attraverso tale capovolgimento che Schiirmann, facendo passare Kant nella cruna della genealogia niet7.scheana e della decostruzione heideggeriana, giunge a dare forma all'analitica delle condizioni ultime nella topologia delle egemonie infrante. Per l'importanza metodologica che il zuriickfuhre11 riveste in Schiirmann, e la sua evidente derivazione niet7.schiana, vedi Reiner Schiirmann, The Philosophy of Nietzsche. Lecture Notes {or Courses at the New School {or Socia/ Research, F. Guercio (a cura di), Diaphanes, Zurich 2.02.0, p. 2.4 e passim (trad. it. di F. Guercio, La filosofia di Nietzsche, Efcsto, Roma 2.02.3).

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insistere ostinatamente34. Allorché il bene è elevato al rango di essere veramente l'essere, adempiendo così alla funzione dell'uno, il topos di estrazione è la domanda ben più modesta: «come vivere bene?» Parimenti, quando la sostanza diventa il terminus ad quem di tutte le relazioni pros ben, la sua funzione iperbolizzata emerge probabilmente dalla meraviglia dinanzi al know-bow tecnico dell'uomo: l'impressione suscitata dalle trasformazioni della materia di cui sono capaci le nostre mani (cioè quelle degli ateniesi del IV secolo a.C.). La topologia cerca di ritornare a ciò che è dato, sotto ciò che è posto. Indaga nei luoghi di nascita dai quali decolla, involandosi, l'impulso della natalità. Ma la topologia riguarda anche altri luoghi. Da due secoli a questa parte - da quando Kant riconobbe nella Rivoluzione francese la prova innegabile di un progresso morale - non sono certo mancate le teorie che collocano inizi storici, ricavano ere e demarcano epoche. Si sono evocate rivoluzioni come indicatori di un nuovo inizio, così come si è fatto con i momenti di elevazione spirituale di un popolo, gli avanzamenti nei mezzi di produzione, le scoperte che rendono la scienza normale incommensurabile con quella che la precede, le invenzioni che ridispongono una configurazione di sapere e potere ... A me è sembrato che gli inizi più ovvi e meno tetici si potessero osservare quando nella nostra storia una lingua naturale cede il passo a un'altra. Ogni cosa inizia in maniera diversa nel momento in cui cambiamo lingua. I topoi di cui la topologia fa l'inventario sono il sito Greco, quello Latino e quello moderno vernacolare dai quali ha parlato la filosofia. Questi due sensi di topos - un fenomeno da cui si eleva una tesi e una lingua naturale che per un certo tempo presta i suoi parametri al teticismo - convergono nelle egemonie stesse. Certo, solo retrospettivamente, quando il gioco si fa duro e una volta avvenuto il collasso dei fantasmi, è possibile intrattenere l'ipotesi che, per stabilire e stabilizzare il loro luogo più comune, i Greci si affidassero allo ben o «uno», i Latini alla natura e i moderni alla coscienza di sé.

34 Come Schiirmann sembra suggerire, se si volesse «insistere ostinatamente» sulla massimizzazione all'opera si rischierebbe di accecarsi di fronte al suo lavoro fantasmogeno e finire così per tradire i fenomeni «nei luoghi del loro manifestarsi», vedi infra, p. 242.

REINER SCHORMANN

Discezione3 5 Quel che tuttavia accade oggi, e sta accadendo da un secolo e mezzo (grosso modo dalla morte di Hegel e Goethe), è qualcosa di più della destituzione di questo o quel fantasma. Il sito che è il nostro [our lot] è la dessaisie, la discezione di qualsiasi rappresentazione che funzioni come chiaramente e semplicemente normativa: ciò che in teoria del diritto si definisce estinzione o abrogazione (anche «cassazione» (quashing]), l'annullamento di una legge valida precedentemente. È opportuno evitare l'uso del termine discezione nei proclami sulla fine della metafisica. Perché fosse addirittura possibile pensare una fine tale sarebbe infatti necessario sospendere l'impulso della natalità: disimpegnare il pensiero da questo stesso impulso. Sarebbe però come chiedere al desiderio di disfarsi della sua megalomania. La discezione, in quanto sito che è il nostro, esige una nuova disciplina del pensiero: non solo attenersi alle norme, ma smettere di tradire i fenomeni deittici nei luoghi del loro manifestarsi. Dobbiamo ancora apprendere come vivere in mondi nei quali la corrente di risacca singolarizzante non sia più negata. I fenomeni si tradiscono allorché se ne salva e se ne coltiva solamente uno al di sotto del quale vengono a essere sussunti tutti gli altri. Viceversa, i fenomeni si salvano (diasozein ta phainomena) nel momento in cui si consente loro di manifestarsi come tali. Ciò esige che si accolga la revocazione e la cancellazione di tutte le tesi che consolano l'anima e consolidano la città36 ; che sia consentito alla loro discezione di disporre la sua .3S Abbiamo reso con il conio discetione il termine francese dessaisie e quello inglese peremptio11, ambedue adoperati da Schiirmann. Si è tentato così di condensare in un unico termine la polisemia di questa sua cruciale no7.ione, la cui genealogia è da far risalire alla heideggeriana Enteignung, traducibile con «es-propriazione» o «dis-propria7.ione». Leggendo discezione, occorre pertanto tenere a mente le tensioni di un campo semantico agonale i cui punti di forza sono segnati dai termini dispresa, dispropriazione, discattura, revocazio11e, abdicazio11e, cessiotie, derelitione, spoliazio11e, evacuamento. Diversamente dalla destituzione dei vari referenti supremi, che inerisce ineluttabilmente alla loro simultanea istituzione, la discetione è da pensarsi come quello spazio storico - o «sito», nel linguaggio schiirmanniano - in cui dimorare nel doppio legame tragico, cioè, vivere sen7.a negarlo, diviene, forse, possibile. .36 Cfr. R. Schiirmann, Des Hégémonies brisées cit., p. 409, in cui l'a priori pratico di «accogliere la revocazione e la cancellazione di tutte le tesi che consolano l'anima e consolidano la città» è espresso inequivocabilmente in termini eckhartiani: per salvare i fenomeni occorre infatti, secondo Schiirmann, «se laisser dessaisir», lasciarsi discepire, consentire

ANARCHIA ED EGEMONIE INFRANTE.

legge, la quale non è né una né semplice. Si può allora parlare della discezione come di ciò che per noi dispone la legge. Quale legge? L'originario doppio legame tragico. Riabilitata così l'origine agonale, la passione si spoglia dei travestimenti al di sotto dei quali ha lavorato nel teticismo. I versi di Goethe sulla Leidenschaft possono allora essere letti come dei versi sul Leiden, sulla sofferenza che cerca di armarsi. Ebbene, il vulnus sofferto dalla legge proviene dall'altro che è suo e che, tuttavia, non ricade all'interno del suo regime: un altro che, pur non condividendo alcun genere [genus] con la legge, dimora nondimeno in essa come un agente che la contamina e intrinsecamente la vìola [injurious]. L'altro di tutti i generi [genera] è il singolare. Dire sì alla discezione che dispone la legge significa riabilitare il singolare sotto i nomi comuni, affermare il pathein che ci singolarizza «a morte», comprendere tutte le figure dell 'arche come delle figure rivolte contro sé stesse con passibilità e, perciò, anarchiche.

a disprendersi. Che questo a priori pratico possa però declinarsi in maniere alquanto differenti - anche strettamente politiche - secondo il «sito» in cui si vive, è suggerito dallo stesso Schiirmann in un'intervista rilasciata a Kairos nel 1988: «in una situazione di occupazione, il "sereno abbandono" [releasement/Gelassenheit] è solo un lusso che dà troppa importan7.a all'interiorità. E in quel caso, l'anarchismo deve essere preso in un senso molto stretto e militante che include degli atri di terrore. L'uscita (release] dell'uomo dallo stato di minorità non è per noi un'impresa così "serena" come potrebbe essere il sereno abbandono governato dall'interiorità entro la tradizione agostiniana. Può assumere una varietà di forme secondo il contesto», dr. Reiner Schiirmann, 011 the Philosophers" Release {rom Civi/ Service: An lnterview with Reiner Schurmamz, «Kairos», :z., 1, 1988, p. 139.

La politica nel segno della prossimità Silvia Dadà

In un suo saggio intitolato «Democrazia selvaggia» e «principio d'anarchia» 1 , Miguel Abensour pone a confronto i due concetti indicati nel titolo e i significati che rispettivamente Claude Lefort e Reiner Schiirmann vi attribuiscono. Il senso di questa operazione è di comprendere la vicinanza tra queste due nozioni e, più profondamente, il legame possibile tra l'idea di democrazia e quella di anarchia. La democrazia, sul piano ontologico, possiede forse un'essenza anarchica? L'espressione «essenza anarchica», come del resto leprecedenti, rivela un carattere paradossale che tiene in tensione da un lato la dimensione del fondamento, dell'origine e della definizione, e dall'altro la loro negazione. Non si tratta di far derivare il regime democratico dal principio d'anarchia. Come Schiirmann espone nel suo testo sul pensiero di Martin Heidegger, la chiusura della metafisica, portando con sé il deterioramento del rapporto tra teoria e prassi, rende impossibile ogni riconduzione a un fine esterno a sé dell'agire e un pensiero predittivo sul tema. Anche il politico, quindi, perde il suo legame con una spiegazione teorica e chiede di essere pensato al di fuori della logica del referente, a partire da un «principio che comanda di non averne» 2 • Allora, ciò che interessa ad Abensour nel mettere in scena questo confronto è piuttosto mostrare che l'idea di contestazione permanente, al centro del discorso lefortiano sulla democrazia selvaggia, non si limita al terreno empirico della pratica democratica, ma si radica in una determinata esperienza dell'Essere come evento. La democrazia, infatti, possiede un potere istituente che, senza limi1 Migucl Abcnsour, «Democrazia selvaggia» e «pri,zcipio anarchia», in M. Abcnsour, Per una filosofia politica critica. I ti,ierari (trad. it. di M. Pc7.7.clla, jaca Book, Milano 2.01 1, pp. 2.77-3o4). 1 lvi, p. 2.89.

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SILVIA DADÀ

tarsi alla determinazione di un ordine, pone sempre in discussione se stesso, lasciando spazio alla divisione originaria del sociale: La democrazia [ ... ] è una forma sorprendente di esperienza politica che, dispiegandosi nella durata e nell'effettualità, si dà istituzioni politiche, ma allo stesso tempo non cessa di levarsi contro lo Stato: nella sua opposizione allo Stato e nella sua effervescenza non si tratta tanto di giungere alla fine della politica, ma di elaborare nel modo più fecondo e paradossale un «disordine nuovo» che sia un'invenzione politica, sempre rinnovata, al di là dello Stato o piuttosto contro di esso3.

Per quanto, quindi, il confronto con la proposta di Schiirmann fornisca le basi per questo tipo di considerazioni ontologiche, esso non sembra, par alcuni altri versi, portatore della radicalità propria della democrazia selvaggia. Anzi, a parere di Abensour, nel suo linguaggio ossimorico esso mantiene delle «pericolose ambiguità». Innanzitutto, non riconosce l'inquieto movimento di divisione e conflitto che costituisce il motore per la dinamica istituente, e sembra quindi ignorare una concezione del potere come luogo vuoto. In questo modo, inoltre, nella sua apertura di possibilità finisce per mantenere aperte anche quelle che fanno appello al suo opposto, ossia ad un Uno, come nel caso del totalitarismo. Giunto al termine del saggio, Abensour ammette quindi che, invece di porre l'attenzione al paradosso, come nel caso del principio di anarchia, meglio sarebbe, per comprendere la democrazia, rivolgersi allo «scarto insormontabile tra anarchia e principio»4. Non si tratta di ricercare un'essenza anarchica della democrazia, ancora legata a un principio, bensì di superare questa pretesa ontologica e liberare il potenziale creativo e istituente della democrazia e dell'anarchia ad un livello differente. Ciò avviene attraverso un riferimento finale alla filosofia di Emmanuel Levinas, il quale, piuttosto che affrontare la questione su un piano ontologico, lo fa risalire al terreno dell'etica originaria, collegandolo all'idea di «umano». Abensour, nelle poche pagine finali, apre così uno spazio di riflessione rispetto a un ripensamento dell'anarchia che non trova il sufficiente dispiegamento in questo articolo, e che necessita di un confronto serrato con il filosofo franco-lituano. Il saggio che qui 3

4

fvi, p. Ivi, p.

301. 302.

LA POLITICA NEL SEGNO DELLA PROSSIMITÀ

2.45

presentiamo tradotto, An-archia tra metapolitica e politica5, sembra rispondere esattamente a questa esigenza e partire proprio dal punto in cui il discorso di Abensour si era interrotto. Senza portare avanti un esplicito confronto con la prospettiva lefortiana, qui Abensour chiarisce e approfondisce il senso in cui dal suo punto di vista ha senso parlare di anarchia e come questo concetto si riveli fruttuoso per un pensiero della politica che guardi sempre oltre sé stessa. Ciò appare chiaro sin dal titolo: senza limitarsi alla politica'\ l'anarchia trova la sua origine in un terreno ulteriore, quello metapolitico. Non si tratta di una precedenza in senso topico, come spiegherà precisamente nel saggio, ma di una provenienza da un al di là che mette in discussione la struttura stessa del reale. Sebbene Levinas non utilizzi il termine «metapolitica», per Abensour esso può essere ricondotto alla dinamica di incontro tra l'Io e l'Altro al cuore del pensiero levinasiano, e può per questo rappresentare in modo efficace quel territorio dcli' altrimenti essere in cui l'intrigo dell'etica si dispiega. L'anarchia?, quindi, va innanzitutto indagata in questa dimensione, come «prossimità». Percorrendo con pazienza i singoli passi in cui Levinas si dedica al tema, con una particolare attenzione con la nota 3 di Altrimenti che essere o al di là del/'essenza 8 , Abensour mette in luce la radicalità di questo pensatore, che abbandona senza riserve ogni pensiero del principio, del cominciamento, infine dell'Essere come origine. Egli esclude anche la via paradossale rintracciata e descrits Miguel Abcnsour, An-arc.by betweeti metapolitics and politics, «Parallax», 2.002., 0-3, pp. 5-18. Una versione ampliata di questo saggio, risalente anch'essa al 2.002., è stata pubblicata in francese (L 'an-arc.bie entre metapolitique et politique, «Lcs Cahiers philosophiqucs dc Strasbourg», 2.002., 4, pp. 109-131). Scegliamo di proporre qui la traduzione dalla versione in inglese, più breve ma altrettanto incisiva rispetto agli interessi di questo volume. ' Abcnsour non distingue tra politico e politica e predilige il termine femminile. Nell'intervista con Daniclle Cohen-Lcvinas motiva questa preferenza in questi termini: «da parte mia preferisco parlare della politica al femminile. Per essere chiari: io non accetto ciò nella prospettiva di una scienza empirico-analitica della politica, né definisco la politica come pratica di potere, né come insieme di rapporti di forza. No, torno ad Hannah Arendt, io penso la politica come cspcricn7.a della libertà, nata da un'attuazione di accordo in cui si manifesta la condizione ontologica della pluralità» Miguel Abcnsour, Emmanuel Levinas. L'intrigo dell'umano. Tra metapolitica e politica. Dialoghi con Da,uelle Cohen-Levinas, trad. it. di G. Pintus, lnschibboleth, Roma 2.013, p. 35. 7 Abcnsour riprende Lcvinas nella scelta grafica del termine «an-archia», al fine di cnfati72.arne in modo ancora più forte il senso etimologico e il legame con l'archè. 8 Emmanuel Lcvinas, Altrimenti e.be essere o Al di là dell'essen7.a, trad. it. di S. Pctrosino, Jaca Book, Milano 1 984, p. 1 2.6, n. 3.

SILVIA DADÀ

ta da Schiirmann del «principio d'anarchia», in quanto l'anarchia sfugge all'essenza, e non può regnare: «non può - pena la propria smentita - essere posta come principio (nel senso in cui lo intendono gli anarchici). L'anarchia non può essere sovrana come l'archè» 9 • Nella prospettiva della fine della metafisica, e della conseguente, per dirla con Lyotard, fine delle grandi narrazioni 10, Levinas non propone l'instaurazione di un pensiero dcli' agire che ha sé stesso come fine, bensì un pensiero che precede questa distinzione tra ordine e disordine e trae la sua origine da uno spazio pre-originario, pre-ontologico. Come Lyotard ha più volte sottolineato, cogliendo la peculiarità del pensiero levinasiano e il suo legame con la «pragmatique juive» 11 , si tratta di una prospettiva che legge in modo diverso sia il sapere che l'agire, per ricostruire una relazione che valorizzi la centralità di entrambi. Il sapere non sembra più opporsi all'agire come potere, poiché entrambi sono uniti dalla violenza. Sia a livello della conoscenza che a livello del potere e della storia, l'unicità dell'altro è cancellata, a favore dell'assimilazione (che Levinas definisce totalità). Tematizzazione e concettualizzazione, peraltro inseparabili, non sono il raggiungimento della pace con l'altro ma soppressione o possesso dell'Altro. Il possesso, infatti, afferma l'altro, ma all'interno di una negazione della sua indipendenza. "Io penso" equivale a "lo posso" - a un'appropriazione di ciò che è, a uno sfruttamento della realtà. L'ontologia come prima filosofia è una filosofia della potenza 11•

L'efficace e un po' abusata formula con cui si riassume spesso la sua prospettiva, «etica come filosofia prima» 1 3, permette di cogliere in modo chiaro proprio questo aspetto. L'etica, ossia la responsabilità nei confronti dcli'Altro, pre-originaria risposta alla sua chiamata, precede la domanda sull'essere, precede il sapere, l'ontologia e quindi il principio. Siamo nello spazio dell'altrimenti che sapere, uno spazio

9

Jbid.

Jcan-François Lyotard, La co11dizione postmodema. Rapporto sul sapere, trad. it. di C. Formcnti, Fcltrinclli, Milano 2014. 11 Jcan-François Lyotard, Jcan-Loup Thébaud, Au ;uste, Christian Bourgois, Paris 2oo6. 11 Emmanucl Lcvinas, Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità, trad. it. di S. Pctrosino, Jaca Book, Milano 1990, p. 44. •3 Emmanucl Lcvinas, Adrian Pcpcrzak, Etica come filosofia prima, trad. it. di F. Ciaramclli, Gucrini e Associati, Milano 1989. 10

LA POLITICA NEL SEGNO DELLA PROSSIMITÀ

247

in cui l'agire è, sì, indipendente dal sapere come suo principio, ma si salva allo stesso tempo dallo scivolamento nel cieco arbitrio, perché sempre rivolto e in ascolto della chiamata dell'Altro. Ecco quindi il senso proprio dell' an-archico, quel senza-principio che si eleva al di sopra dell'essere e del fondamento. Commentando un passo biblico (Esodo 24, 7 ), ossia il momento in cui gli Israeliti accolsero l' Alleanza sul Sinai con le parole «faremo e ascolteremo», Lcvinas afferma questo primato etico sul sapere 1 4, che Lyotard acutamente coglie e valorizza il suo aspetto politicamente rilevante: Ecco il solo interesse del giudaismo: "Siate giusti". Ma, giustamente, noi non sappiamo che cosa significhi essere giusti. Proprio per questo noi dobbiamo essere giusti. Non si tratta di un "Siate conformi a ciò,,, né di un "Amatevi gli uni gli altri,,, etc. [... ]. Coup par coup, ogni volta bisognerà decidere, pronunciarsi, giudicare e poi meditare se in questo modo si è stati giusti• s.

Questo riferimento pre-ontologico e metapolitico, infatti, non esclude un legame peculiare con lo spazio politico: «sembra che l'anarchia - afferma Abensour - si trovi o da un lato al di qua, o dal lato al di là, o forse ancora nel movimento di passaggio che va dall'al di qua all'al di là» 16 • Mantenendo sempre chiara la differenza tra l'anarchia e l' anarchismo come regime politico, il quale rimane ancora vittima di una logica del principio (sostituendo quello della ragione a quello dell'autorità), l'an-archia influenza e turba la politica, chiedendole sempre lo sforzo ulteriore di andare oltre sé stessa in nome della prossimità e della responsabilità etica per l'altro. Contrariamente a quanto annunciato all'inizio del saggio, Abensour non approfondisce ma accenna piuttosto a quello che sarebbe dovuto essere il secondo punto, ossia l'analisi del risvolto politico delle considerazioni levinasiane. Senza regnare sovrana, l'anarchia ispira la spinta affinché la politica e le istituzioni, in particolare lo Stato, non si cristallizzino nella loro realizzazione presente e non si rimettano a un principio determinato (che sia la Storia, il Potere, la Legge), bensì

•• Emmanucl Levinas, Quattro Letture talmudiche, trad. it. di A. Moscato, Il mclangolo, Genova 2.008. •s J.-F. Lyotard, J. L. Thébaud, Au ]uste cit. p. n8 [traduzione nostra]. • 6 Infra, p. 2.70.

SILVIA DADÀ

decostruiscano i loro fondamenti e si pongano, coup par coup, in continua discussione. La ricerca di quella che nel saggio su Lefort e Schiirmann era stata definita «essenza anarchica della democrazia», trova qui il suo esito, o la sua via di uscita, nello spazio etico delineato da Levinas. Ciò non giustifica una sovrapposizione tra la visione levinasiana e quella lefortiana. Il pensiero dell'istituzione di Levinas, riconducibile al tema della giustizia come entrata del terzo (le tiers), è segnato da uno spirito inquieto, indubbiamente, che smuove continuamente la politica e che, come dichiara in una lettura talmudica, pensa uno Stato che racchiude in sé «l'odio per il potere» e va sempre al di là di sé stesso. Tuttavia, come lo stesso Abensour dichiara in un 'intervista con Dalielle CohenLevinas, «si farebbe violenza se si volesse vedere qui una concezione della "democrazia selvaggia" nel senso di Claude Lefort, o un pensiero della "democrazia contro lo Stato" nel senso del giovane Marx» 1 7. La vuota indeterminazione della natura umana proposta da Lefort si distingue dal soggetto de-nucleato levinasiano, che nel vuoto del sé lascia il posto all'altro, nella sostituzione 1 8• Inoltre, e ancor più chiaramente, ciò che è preservato, nel discorso sulla politica di Levinas, non è la divisione del sociale intesa in termini di conflitto, bensì l'originaria responsabilità per l'Altro. L'origine del discorso politico non è dunque da ricercarsi in uno spazio di rapporti di forza, bensì in quello della logica della sovrabbondanza, con i termini di Paul Ricoeur 1 9, che per avere luogo e quindi entrare nel terreno del reale, deve essere limitata. Un' «ipotesi stravagante» 20 , la chiama Abensour, che sceglie di inserire Levinas nella costellazione di quegli autori che egli definisce «controHobbes» 21 • Il sociale non è infatti da inscriversi nella divisione conflittuale lefortiana, ma nemmeno si richiama alla natura ferina dell'uomo, che nel contratto sociale hobbesiano trova la sua pacificazione; bensì quella propria dcli' «umano», che nel sociale trova la misura della giustizia ispirata dalla responsabilità:

7 M. Abcnsour, Emma1111el Levi1,as cit., p. 12.3. E. Lcvinas, Altrimenti che esserecit., pp. 12.3-153.

1

18 19

Paul Ricocur, Amore e giustizia, trad. it. di I. Bcrtoletti, Morcclliana, Brescia 2.000. M. Abcnsour, Per una filosofia politica critica cit., pp. 319-3 54. :u Oltre a Lcvinas, Abcnsour definisce in questo modo anche Hannah Arcndt e Picrrc Clastrcs. Cfr. Migucl Abcnsour, La comunità politica. Desiderio di libertà, desiderio di utopia, trad. it. di F. Serafini, V. Gualdi,Jaca Book, Milano 2017, pp. 61-86. 20

LA POLITICA NEL SEGNO DELLA PROSSIMITÀ

2

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È estremamente importante sapere se la società nel senso corrente del termine è il risultato di una limitazione del principio che l'uomo è lupo per l'uomo o se al contrario essa risulta dalla limitazione del principio che l'uomo è per l'uomo. Il sociale, con le sue istituzioni, le sue forme universali, le sue leggi, deriva dall'aver limitato le conseguenze della guerra tra gli uomini, o dall'aver limitato l'infinito, che si apre nella relazione etica dell'uomo con l'uomo? :z.:z.

L'importanza di questa distinzione ha un risvolto esplicitamente politico. Infatti, se l'origine dello Stato è quella an-archica della prossimità umana, in nome di questa responsabilità pre-originaria si potrà sempre contestare le sue realizzazioni storiche e le sue singole determinazioni. Iscrivendo la giustizia e il suo potere istituente nel paradossale progetto interminabile della «comparazione degli incomparabili» 23 , questa ipotesi stravagante «permette di mettere in luce la pluralità delle tradizioni e delle forme statali; di spiegare in modo diverso i rapporti del politico e dell'etico; infine di aprire il passaggio al di là dello Stato» 2 4. Questo al di là, non significa l'abbandono della politica: «siamo dunque usciti dalla politica? Direi piuttosto che abbiamo fatto un passo fuori dalla politica e che questo, paradossalmente, ci ha ricondotti a essa per pensarla diversamente» 2.5. Levinas, quindi, secondo Abensour propone un modo inedito di pensare la politica. Per quanto, infatti, egli sia spesso sbrigativamente interpretato in termini esclusivamente etici, Abensour ha avuto tra i primi il merito di porre in luce quest'altra dimensione altrettanto fruttuosa, e per nulla in contrasto con quella etica26 • Sin dal suo testo del 1934 Alcune riflessioni sulla filosofia dell'bitlerismo 27, testo che Abensour ha successivamente ripubblicato e ampiamente commentato in un suo saggio28, Levinas ha

12

Emmanucl Lcvinas, Etica e 1,,fi,uto. Dialogo co11 Philippe Nemo, trad. it. di M. Pastrello, Città Nuova, Roma 1984, p. 84. 13 E. Lcvinas, Altrimenti che essere cit., p. 197. 14 M. Abcnsour, Per una filosofia politica critica cit., p. 3 2. 3. 1 s M. Abcnsour, La comunità politica cit., p. 77. 16 t opportuno citare a questo proposito anche Gérard Bcnsussan. Cfr. Gerard Bcnsussan, Etica ed esperienza. Levi,,as politico, trad. it. di S. Geraci, Mimcsis, Milano 2.010. In Italia, cfr. Fabio Ciaramclli, La legge oltre la legge. Emmanuel Levinas e il problema della giustizia, Castclvccchi, Roma 2.010. 1 7 Emmanucl Lcvinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo, trad. it. di A. Cavalletti, Quodlibet, Macerata 1996. 18 Migucl Abcnsour, Il male elementale, in E. Lcvinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo cit. pp. 39-91.

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infatti lucidamente individuato i rischi del pensiero totalitario e li ha ricondotti a una radice filosofica: quella dell'incatenamento identitario al corpo, che ha come suo senso ontologico speculare l'accettazione dell'incatenamento ali'essere e la negazione di ogni forma di Alterità al di fuori di questo principio. La risposta rivoluzionaria a questo incatenamento, che si dispiega nell'opera di tutta una vita, è quell' evasione2-9 che conduce, attraverso la scoperta dell'etica e della relazione al Volto dell'Altro, verso l'infinito e I'altrimenti che essere. Che cos'è, questo, se non un pensiero dell'utopia? Nella sua ampia riflessione su questo tema, e nel suo tentativo di abbattere la divaricazione tra questo concetto e quello di democrazia, Abensour ha quindi riservato un posto proprio a Levinas, di fianco sia alle figure del cosiddetto «socialismo utopistico» che a quei pensatori che del Novecento che si sono lungamente occupati di questo concetto filosofico (Bcnjamin, Buber, Bloch)3°. Egli ha colto, in più occasioni, nel pensiero levinasiano quella «disposizione utopica [... ] che consiste non tanto a scegliere una determinata "buona soluzione", ma a essere in grado di immaginare incessantemente nuove configurazioni di una comunità libera e giusta»31. An-archico e o-topico, senza principio e senza luogo, è quindi «l'intrigo dell'umano», che inquietandolo impone continuamente al reale (anche nella forma del politico) di smarcarsi dalla fissazione, andando al di là di sé stesso, alla ricerca di una giustizia più giusta.

Emmanucl Lcvinas, Dell'evasione, trad. it. di D. Ceccon, Cronopio, Napoli 2.008. L'interesse di Abcnsour per il tema dell'utopia si estende dalla filosofia moderna a quella del Novecento, passando per pensatori di stampo più strettamente politico: gli scritti sul tema sono raccolti in quattro volumi chiamati Utopiques: cfr. Migucl Abcnsour, Le procès des maltres reveurs, Sens & Tonka, Paris 2.013; Id., L'homme est un animai utopique, Sens & Tonka, Paris 2.013; Id., L'utopie de Thomas More à Walter Be1,jamin, Sens & Tonka, Paris 2.016; Id., L'histoire de l'utopie et le destin de sa critique, Scns & Tonka, Paris 2.016. 31 M. Abcnsour, L'homme est un animai utopique cit., p. 184 [traduzione nostra]. 2.9



An-archia tra metapolitica e politica Migucl Abcnsour

Come suggerisce la preposizione «tra», il nostro scopo è quello di collocare ciò che sembrerebbe incollocabile, ossia I' An-archia, o, più comunemente, l'anarchia, o l'anarchico. La questione, quindi, è: dove possiamo situare l'anarchia, all'interno della filosofia di Levinas? Possiamo pensare che si trovi da qualche parte tra la metapolitica e la politica? Questa domanda sembra avere una sua legittimità perché sappiamo che il senso levinasiano di an-archia deve essere distinto dall'anarchismo. L'An-archia non può essere ridotta al suo senso politico in quanto essa ha a che fare con l'unicità di quell'intrigo che Levinas chiama «prossimità». Tuttavia, ed è qui che la questione si fa più complicata, anche se non si può confinare I'an-archia al suo senso politico, in essa qualcosa continua a riguardare e a influenzare comunque la politica. È come se il ricorso intenzionale di Levinas a un termine così carico di senso fosse legato a uno degli aspetti più profondi della sua filosofia. Per rispondere alle nostre domande, tre testi essenziali devono essere presi 1n esame: 1. Umanismo e Anarchia titolo della sezione di Umanismo dell'altro uomo, pubblicato per la prima volta nel 1968 ne La Revue lnternationale de Philosophie 1 • 2. La prima sezione del quarto capitolo, Principio e Anarchia, di Altrimenti che essere o Aldilà dell'essenza, pubblicato la prima volta in La Revue de Philosophique de Louvain 2 • 3. Soggettività come Anarchia, in Dio, la Morte e il Tempo, edito da Jacques Rolland3. 1

Emmanucl Lcvinas, Umanesimo dell'altro uomo, trad. it. di A. Moscato, Il mclangolo, Genova 2005, pp. 95-114. 1 Emmanucl Lcvinas, Altrimenti che essere o aldilà de/l'essenza, trad. it. di S. Pctrosino, Jaca Book, Milano 2006, pp. 12.3-127. 3 Emmanucl Lcvinas, Dio, la Morte e il Tempo, trad. it. di S. Pctrosino, Jaka Book, Milano 1996, pp. 235-240.

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L'anarchia è chiaramente un tema ricorrente in Altrimenti che essere, tanto che è legittimo interrogarsi sul suo statuto in quest'opera. Inoltre, è possibile trovare una delle prime ricorrenze del termine in Totalità e Infinito, pubblicato nel 1961, in cui Levinas lo utilizza per descrivere la resistenza del molteplice contro la logica totalizzante. Levinas scrive «anarchia essenziale alla molteplicità»4 . Tornando alla nostra questione iniziale: perché affermare che I'anarchia può trovarsi tra metapolitica e politica? Essenzialmente perché nell'opera di Levinas l'anarchia appare su due differenti livelli. Da un lato, essa rimanda a ciò che precede ogni arché, ciò che precede ogni inizio e ogni principio. Dall'altro lato, questa relazione con il pre-originario non esclude un certo senso politico, o un significato che ha a che fare con il politico. Un esempio della doppia natura dell'an-archia levinasiana si ha quando Levinas prova a descrivere il termine «ossessione» come un movimento an-archico nella seconda metà della terza nota: La nozione di anarchia come viene qui introdotta precede il senso politico (o anti-politico) che le si attribuisce popolarmente. Essa non può - pena la propria smentita - essere posta come principio (nel senso in cui l'intendono gli anarchici). L'anarchia non può essere sovrana come l'arché. Essa può solo turbare - ma in modo radicale, che rende possibili degli istanti di negazione senz'alcuna affermazione- lo Stato. Lo Stato così non può erigersi a Tutto. In compenso l'anarchia può dirsi. Il disordine ha pertanto un senso irriducibile in quanto rifiuto di sintesi s.

La nostra domanda quindi ne fa sorgere delle altre, e una in particolare: cosa si intende per metapolitica? Il termine «metapolitica» non si trova nella filosofia di Levinas. Tuttavia, scegliamo di usarlo al fine di evocare una dimensione altra dal politico attraverso l'uso del greco meta, che rimanda a una pluralità di significati. Benché il primo senso di meta sia «dopo» o «oltre» (in un senso topico e tecnico), esso significa anche un movimento simile ad una svolta, come Heidegger non ha mancato di mostrare nei Concetti fondamentali della Metafisica. In altre parole, un «volgersi

4 Emmanucl Lcvinas, Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità, trad. it. di S. Pctrosino, Jaca Book, Milano 2.006, p. 302.. s E. Lcvinas, Altrimenti che essere o aldilà dcli'csscn7.a cit., p. 12.6.

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via da una cosa per dirigersi verso qualcos'altro». Heidegger scrive che «il significato di meta è modificato»'. Da un senso puramente topico nasce il senso di una svolta, di «una svolta di una cosa verso un'altra», un «via da qualcosa verso qualcos'altro». Quindi il termine metafisica non significa più ciò che viene dopo la fisica. Piuttosto, esso significa «quanto tratta di ciò che si volge-via dalla physika e si rivolge ad un altro ente, all'ente in generale e all'ente autentico. Questa inversione accade nella filosofia autentica». Questo movimento, o svolta, permette un allontanamento da un particolare ente e un movimento verso l'Altro. Così la metafisica designa una conoscenza che va oltre i sensi, una conoscenza che è, proprio a causa della svolta, conoscenza del sopra-sensibile. Per Heidegger questa svolta è tutt'altro che un mero dettaglio; è piuttosto ciò che decide il destino della vera filosofia nel mondo Occidentale. Egli aggiunge: «il titolo "metafisica" ha così in seguito fornito lo spunto per costruzioni analoghe che in conformità ad esso vengono intese in senso contenutistico». Così per la politica, a proposito della quale Heidegger cita il barone von Stein (molto probabilmente l'autore del famoso studio Movimento sociale in Francia), la «metapolitica» è chiamata «la volontà di dare una fondazione alla politica a partire da sistemi filosofici» 7• Quando viene applicato al pensiero levinasiano, il termine «metapolitica» non va inteso nel suo senso tecnico o topologico - come ciò che viene dopo la politica. La metapolitica non può essere intesa in questo modo perché, come Levinas scrive in un suo famoso testo, la politica viene dopo, dopo l'etica la quale, a sua volta, diventa filosofia prima. La metapolitica otterrebbe comunque un significato rispetto al suo contenuto; significherebbe la svolta che consiste nell'abbandonare qualcosa per andare verso altro. In questo caso, la metapolitica è la partenza dalla politica, l'allontanamento da quell'ente particolare che è la politica al fine di andare incontro a un Altro che sarebbe la metapolitica. Quindi la metapolitica cerca così di incarnare una tale inversione. Se esaminata da vicino, questo termine descrive un viaggio complesso. Se il meta della metapolitica significa una svolta o una partenza - un abbandono della politica allo scopo di procedere verso 6 Martin Hcidcggcr, Concetti fo,uiame11tali della metafisica. Mondo - finitezza - solitudine, trad. it. di C. Angelino, Il mclangolo, Genova 1983, p. 55. 7 Ivi, p. 56.

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altrove o un passaggio oltre la politica - esso significa comunque una provenienza, un al di qua. È come se l'effetto della metapolitica fosse quello di portare alla nostra attenzione a un al di qua (en-deça) che permette un abbandono della politica e che apre un passaggio aldilà della politica. Definendo la nostra responsabilità per l'Altro, Levinas insiste su questa struttura complessa, sulla traiettoria che parte da un al di qua verso un al di là. «La responsabilità per il prossimo è precisamente ciò che va al di là del legale e obbliga al di là del contratto, essa mi viene dall' al di qua della mia libertà, da un non-presente, da un immemorabile» 8• Questa è inoltre contraria alla definizione di von Stein in quanto non si tratta qui di fondare la pratica della politica su un sistema filosofico, al fine di eliminare la sua immediatezza e la sua natura empirica, in quanto ciò significherebbe che la metapolitica sia politica basata su un principio o su più principi. Al contrario, la metapolitica deve essere messa in risonanza e in consonanza con ciò che avviene nella relazione etica con l'Altro, ossia «una responsabilità che non si giustifica in forza di nessun precedente impegno» come quella «struttura meta-ontologica e metalogica di questa Anarchia che disfa il logos in cui si inserisce l'apologia, per cui la coscienza si riprende e domina»9. È come se la metapolitica fosse l'analogo di questo allontanamento dall'ontologia. Non è forse grazie a questo rovesciamento che possiamo collocare meglio l'Anarchia, in uscita dalla politica, nell'allontanarsi dalla politica per raggiungere un'altra dimensione? E uscendo, questa svolta non genera forse un'alterazione di ciò da cui si distacca, ciò da cui si allontana? Detto ciò, non basta situare, bisogna anche descrivere. Il nostro percorso, dunque, comprenderà due elementi: 1. Una descrizione dell'intrigo dell'Anarchia, o Anarchia e prossimità. 2. Un saggio critico sugli effetti sulla politica o «il turbamento della politica».

8 Emmanucl Lcvinas, Di Dio che viene all'idea, trad. it. di S. Pctrosino, Jaca Book, Milano 1986, p. 94. 9 E. Lcvinas, Altrimtmti che essere o al di là del/"ess~ cit. p. 1 2.8.

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L'intrigo dell'Anarchia. Anarchia e Prossimità Prima di affrontare la questione dell'intrigo dell'anarchia com'è sviluppata in Altrimenti che essere, mi sembra importante analizzare brevemente una delle prime apparizioni del termine «anarchia» nel pensiero di Levinas, ossia in To-talità e Infinito. Sin dalle prime elaborazioni della sua filosofia Levinas espone una concezione pluralistica del sociale. Nella sua presentazione delle conferenze in Il Tempo e l'Altro, Levinas afferma che «è in direzione di un pluralismo che non si risolve in unità che vorremmo incamminarci» 10• In Dall'esistenz,a all'esistente, Levinas rifiuta un pensiero che vede la società come una totalità che differisce dalla somma delle sue parti (Durkheim) così come un pensiero che vede la società in termini di imitazione (Tarde). In entrambi i casi, sebbene con mezzi diversi, ci ritroviamo con un'idea di fusione: o mi identifico con l'Altro attraverso una rappresentazione collettiva o divento uno con l'Altro attraverso il rinnovamento di un atto comune. Allo stesso modo Levinas rifiuta anche la comunità del con che, seguendo Heidegger, riunisce le comunità attorno a qualcosa che è condiviso da tutti come la verità. Nel 1947, Levinas scrive: «a questa collettività di compagni opponiamo quella dell'io-tu che la precede. Collettività che non è la partecipazione di un terzo termine[ ... ], che non consiste quindi in una comunione» 11 • Levinas ribadisce questa posizione in Il Tempo e l'Altro, dove critica Platone per aver assunto una nozione eleatica dell'Essere che subordina il multiplo all'Uno e che riduce il ruolo del femminile alla materia. Egli accusa Platone di non aver compreso la specificità dell'uno-per-l'altro. È da questa prospettiva che Levinas critica la Repubblica di Platone per essere costruita sul modello del mondo delle Idee e quindi percepisce l'ordine sociale ideale nei termini dell'ideale di fusione. «Nella sua relazione con l'altro - scrive -, il soggetto tende a identificarsi con lui, dissolvendosi in una rappresentazione collettiva, in un ideale comune» 12• Levinas rinnova con questa posizione la sua critica a Heidegger e conclude 10

Emmanucl Lcvinas, Il Tempo e l'Altro, trad. it. di F. P. Ciglia, Il mclangolo, Genova 1993, p. 1 9· 11 Emamnucl Levinas, Dall'esist~ all'esistente, trad. it. di P. A. Rovatti, Marietti, Casale Monferrato 1986, pp. 86-87. 12 E. Lcvinas, Il Tempo e l'Altro cit., p. 62..

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in modo simile ma più profondo, poiché distingue la sua posizione da quella di Martin Buber. «A questa collettività del fianco a fianco, ho tentato di contrapporre la collettività dell'io-tu, non assumendola tuttavia nel senso di Buber, presso il quale la reciprocità è ancora il legame tra due libertà separate, e presso cui il carattere ineluttabile della soggettività è sottovalutato» 1 3. In Totalità e Infinito l'analisi levinasiana della relazione di faccia a faccia appare considerevolmente arricchita. Contro l'irenismo di Buber ora essa viene pensata come una relazione unidirezionale o come asimmetrica. Levinas insiste sulla «curvatura dello spazio intersoggettivo» che include la dimensione dell'elevazione. Inoltre, Levinas prende le distanze da Hobbes e va oltre quei pensatori che identificano il sociale con il regno della violenza 14• Ma affermare una relazione altra rispetto a quella della violenza non costituisce tuttavia un ritorno al regno della totalità. Per Levinas la relazione di faccia a faccia riafferma sé stessa come ultima e irriducibile relazione che «rende possibile il pluralismo della società» 1 5. L'essere è esteriorità, ossia la resistenza della molteplicità sociale contro la logica che totalizza il multiplo 16 • Contro un'idea di totalità appartenente alla filosofia dell'ontologia, Levinas propone «l'idea di una separazione che resista alla sintesi» 17 • Gli "io" (moi's), curiosamente scritto alla forma plurale e seguendo l'esempio dei "tutti uno" di La Boétie, non formano una totalità. Ed è a proposito di questa resistenza del molteplice contro la totalizzazione che appare il riferimento all'anarchia. «Anarchia essenziale alla molteplicità», afferma Levinas. Anarchia perché «non esiste un piano privilegiato in cui questi "io" potrebbero comprendersi nel loro principio» 18• Purtuttavia, quest'anarchia sembra qualcosa di ambiguo e temporaneo. Essa esiste solamente per mancanza di un piano comune, di un principio o di un arché. Infatti il molteplice può resistere alla totalizzazione proprio a causa della mancanza di un arché. Benché l'anarchia sia, da un lato, una forma di resistenza e quindi una manifestazione del pluralismo della società, 13

lbid. •• E. Lcvinas, Totalità e Infinito cit., p. •s lvi, p. 301. • 6 lbid. •7 Jvi, p. 302.. 18 lbid.

300.

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essa è anche, dall'altro lato, «vertigine» e «tremore». Non è la guerra di tutti contro tutti, ma l'anomia delle volontà libere: «non si saprà mai quale volontà tiri le fila del gioco, nel libero gioco delle volontà; non si saprà mai chi si prende gioco di chi» 1 9. E questa anarchia deve scomparire, non tanto a causa dell'apparire di una totalità maggiormente efficiente, quanto per il sopraggiungere di un principio, di un arché, quello del volto che è una «chiamata di giustizia». È come se il molteplice dovesse andarsene lasciando il posto al pluralismo dell'essere che «si attua nella bontà che va da me all'altro» 20 • In questa sua prima elaborazione, nel pensiero di Levinas, I'anarchia è vista maggiormente come uno stato temporaneo il cui destino è quello di abolire sé stesso di fronte alla chiamata di giustizia, piuttosto che essere letta come un intrigo nato dall'enigma della prossimità. Contrariamente a Rainer Schiirmann in Dai principi all'anarchia. Essere e agire in Heidegger, Levinas non cerca di pensare un «principio anarchico». L'uso di questo termine paradossale permette a Schiirmann di opporre il classico apparato metafisico al pensiero di Heidegger, il quale è visto da Schiirmann come espressione di questo nuovo principio, o, più precisamente, come un nuovo modo di pensare attraverso questo principio. Per struttura tradizionale, o arcaica, della filosofia intendiamo una struttura la cui caratteristica dominante è quella di sottoporre la questione dcli' azione a un arché, in modo tale che le teorie dcli'azione tentino inevitabilmente di rispondere alla domanda: «che cosa devo fare?». E la risposta è sempre da ricercare nel sapere ultimo di quell'epoca. La Metafisica sarebbe quindi l'insieme dei vari tentativi di determinare un arché che subordini l'azione. O, ancora, sarebbe un dispositivo «nel quale l'azione richiede un principio al quale si possono riportare parole, cose, e atti» 21 • E questo principio non è allo stesso tempo fondazione, cominciamento e comandamento. «I'arché funziona sempre nei riguardi dell'azione come la sostanza rispetto agli accidenti, allorché imprime loro senso e telos» 2.2.. È in questa prospettiva della struttura metafisica e archica che possiamo comprendere meglio il nuovo senso che Schiirmann dà 19

lbid. lvi, p. 314. 21 Rcincr Schurmann, Dai principi all'anarchia. Essere e agire in Heidegger, trad. it. di G. Carchia, il Mulino, Bologna 1995, p. 2.8. 22 Ivi, p. 2.9. 2.0

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all'anarchia e, allo stesso tempo, al pensiero di Heidegger. Negli anni della chiusura della metafisica - la tesi del principio anarchico è strettamente collegato a quello della chiusura della metafisica - la regola che il mondo diventi intelligibile e controllabile da un "Primo", o da un primo fondamento, perde il suo ascendente. La derivazione della filosofia pratica da una filosofia prima sfuma; il riferimento obbligatorio a un arché sparisce allo stesso modo che «i principi epocali [... ] i quali hanno ordinato, a ciascuna epoca della nostra storia, i pensieri e le azioni, sfioriscono» 23 • Da qui l'articolazione dell' «abbagliante» paradosso che è il principio anarchico. I due termini di questo concetto implicano due lati opposti: uno posto sotto la chiusura della metafisica e uno oltre essa. Il principio insieme afferma e nega sé stesso. In altri termini, il principio è affermato solo allo scopo di essere negato. È importante comprendere il Ventesimo secolo, con la sua critica alla metafisica, come l'epoca della fine della derivazione della prassi dalla teoria. L'azione è anarchica, ossia è senza un arché, fondazione, inizio o cominciamento. È l'era del principio del non-principio, o del principio che richiede l'assenza del principio. In termini heideggeriani, questo paradosso scopre il suo lavoro come transitorio, perché Heidegger è bloccato nella classica problematica aperta dalla domanda su che cos'è l'essere. Tuttavia egli prova a liberare tale domanda dallo schema attributivo o del principio. «Ancora un principio, ma un principio di anarchia. È istruttivo pensare questo. Il riferimento al principio appare allora contrastato, tanto nella sua storia e nella sua essenza, da una forza di dislocazione, da un desiderio di pluralità. [... ] la decostruzione è un discorso di transizione» 2 4. È quindi possibile risolvere la contraddizione interna al principio anarchico? La radicalità di Levinas non sta forse nell'allontanamento da questo paradosso (che egli prospetta in particolare per quanto riguarda l'anarchismo) e l'affermazione di un divario insormontabile tra il principio e l'anarchia? E non è forse questo contrasto che porta Levinas a rifiutare una concezione puramente politica dell'anarchia, in quanto essa si trova situata oltre l'alternativa tra ordine e disordine? In questo senso l'anarchia indica una realtà che esula dal senso politico o anti-politico. Questo rifiuto di una concezione

13 2..f

lbid. Jvi, p. 30.

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politica dell'anarchia è di tipo logico, poiché tale concezione equivale a imporre un principio all'anarchia. Onde evitare la metamorfosi dell'anarchia in principio, Levinas separa l'anarchia dalla politica, da ogni principio e dall'anarchismo. Poiché la dottrina dell'anarchismo non è altro che l'affermazione del principio della ragione su quello dell'autorità. Il principio anarchico è inconcepibile per Levinas. Per citare di nuovo la terza nota di Altrimenti che essere: «non può pena la propria smentita - essere posta come principio (nel senso in cui lo intendono gli anarchici). L'anarchia non può essere sovrana come l'archè». E dopo, nella quarta nota: «L'anarchia non regna». L'an-archia è quindi separata dal principio, e da ogni tentativo di ricondurla ad un principio. L'an-archia, ridotta a sé stessa attraverso una sorta di spoliazione, tocca uno strato profondo, in cui si trova il complesso intreccio tra l'al di qua (la fonte) e l'aldilà (la svolta/conversione). Dimensione proto-politica, l'an-archia apre la strada oltre la politica e l'ontologia, e lì crea l'intrigo di anarchia e prossimità. Jean-François Lyotard, in una serata in onore di Levinas che portò alla pubblicazione di Autrement que savoir, affermò in modo sobrio e fermo che l'inestimabile contributo levinasiano consiste nel congedare la tradizione dominante nella filosofia Occidentale. « [... ] Non tutto il pensiero è sapere. Ciò è piuttosto chiaro. E la filosofia non è necessariamente, o, almeno, non esclusivamente [... ], un tipo di discorso che ha a che fare con il sapere [... ]. La mia ammirazione per Levinas viene da qui; improvvisamente il pensiero di Levinas scopre che il regno dell'esperienza, o della riflessione, non è oggetto di conoscenza». A quest'affermazione Levinas rispose: «richiamando la possibilità di un pensiero che non è conoscenza, ho voluto affermare che uno spirituale precedente a tutte le idee esiste nel fatto di essere prossimi a qualcuno. La prossimità o la socialità è essa stessa altrimenti che sapere che essa esprime. Altrimenti che sapere non è fede. [... ]. Questa socialità non è un'esperienza dell'altro, ma una prossimità all'altro» 2. 5• Altrimenti che sapere non è fede. È piuttosto una provenienza del significato o del sensibile nata dalla responsabilità nei confronti degli altri. La conoscenza è quindi soltanto una delle possibilità dello

z.s Emmanucl Lcvinas, Autrement que savoir. Les entretiens du Centre Sèvres, Osiris, Paris 1988, pp. 90-91.

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psichismo umano, che non si esaurisce con esso. Dunque si può concepire un'altra forma di pensiero: «un pensiero che non è costruito come una relazione: del pensante col pensato, con il dominio del pensato» 26• Andando oltre l'equivalenza tra psichismo e intenzionalità, Levinas raggiunge un altro lato dell'umano (lontano dalla padronanza o dall'egemonia della conoscenza di sé). Non si tratta già qui di un'entrata nell'anarchico? Levinas afferma che lo psichismo è una forma di insolito sfasamento - di rilassamento o di allontanamento - dell'identità; il medesimo impedito di coincidere con sé, spaiato, strappato alla propria quiete, tra sonno e insonnia, ansito, fremito. Per nulla abdicazione del Medesimo, alienato e schiavo dell'altro, ma abnegazione di sé pienamente responsabile dell'altro. Identità che si accusa nella responsabilità e al servizio dell'altro. Nelle forme della responsabilità, lo psichismo dell'anima è l'altro in me; malattia dell'identità- accusata e sé, il medesimo per l'altro, medesimo attraverso l'altro2.1.

Questo racconto, oltre al fatto che afferma l'importanza del possesso (nel caso della psiche, dell'uno per l'altro, «lo psichismo come seme di follia»), ha il grande merito di guidarci verso la domanda corretta, in termini di «insolito sfasamento». Infatti, non si tratta tanto di recuperare la descrizione delle tre nozioni che caratterizzano la relazione all'altro - responsabilità, prossimità e sostituzione - bensì di comprendere in che modo esse sono anarchiche o, meglio, attraverso quale via finiscono per partecipare dell'idea di anarchia.

Il caso della prossimità Levinas comincia a de-oggettivare questa nozione rifiutandosi di ridurla al suo puro senso spaziale, ossia al ristretto intervallo tra due termini vicini. In questo contesto di de-oggettivazione, Levinas si rifiuta inoltre di interpretare la prossimità in termini di esperienza dell'altro. La prossimità è piuttosto un'esposizione all'altro. Inoltre, per quanto riguarda la prossimità, non possiamo forse affermare, modificando la frase di Levinas di To-ealità e Infinito, che «l'Anarchia 26

E. Lcvinas, Altrimenti che essere o al di là dell'essenza cit., p. 86. 2.7 lbid.

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è essenziale all'umanità sotto gli auspici della categoria cli prossimità»? L'anarchia non è più soltanto una forma di resistenza del molteplice contro la logica della totalità. Adesso è il nucleo della psiche umana dal momento in cui si pensa la psiche come essere al di là del sapere e uno-per-l'altro. In relazione alla prossimità, Levinas dichiara che «il suo senso assoluto e proprio suppone l'"umanità" » 28 • E attraverso un capovolgimento che egli è solito compiere, Levinas si spinge al punto cli chiedersi se non sia la contiguità spaziale a dipendere dalla prossimità umana attraverso l'esperienza della giustizia. Questa «assunzione» cli umanità, questo legame costitutivo dell'umanità richiede che la prossimità sia pensata a distanza dal sapere e dalla coscienza intenzionale come «coscienza di»: L'umanità alla quale si riferisce la prossimità propriamente detta deve dunque essere subito intesa come coscienza, cioè come identità di un io dotato di saperi o (che è lo stesso) di poteri. La prossimità non si risolve nella coscienza che un essere prenderebbe di un altro essere ritenuto vicino in quanto sotto i suoi occhi o alla sua portata e di cui sarebbe possibile appropriarsi, essere che potrebbe essere tenuto o con cui si potrebbe intrat-tenere nella reciprocità della stretta di mano, della careua, della lotta, della collaborazione, del commercio, della conversazione2 9.

Cominciare con il sapere o con la coscienza intenzionale può condurre a una perdita, una visione della prossimità che si trasforma in tematizzazione. Ancora peggio, può condurre alla repressione nella coscienza «di una soggettività più antica del sapere e del potere»3°. La prossimità non è né uno stato, né una tregua. È un'inquietudine inesauribile e un «non-luogo» (un'utopia?). La prossimità è esteriore a un luogo di riposo, perché in tale luogo la prossimità non è abbastanza intensa. È come se l'impulso della prossimità fosse «mai abbastanza prossimo»3 1 • Mancanza di indifferenza o di fraternità, la prossimità non è una semplice relazione; lungi dall'essere una consapevolezza, essa è «presa nella fraternità», sacrificio di sé, l'istituzione dcli' «uno-per-l'altro»3 2 • «L'approssimarsi è - scrive Levinas - un'im18

Ivi, p. lvi, p. 30 lbid. 3• lvi, p. 32 Ivi, p.

19

101. 103.

102.. 103.

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plicazione [... ]. Questa presa nella fraternità che è la prossimità la chiamiamo significanz.a»33. Al di là del sapere e al di là della semplice relazione, la prossimità è ossessione, che significa non-reciprocità, affezione irreversibile per l'altro, unilaterale in quanto «io ho sempre una risposta in più da dare»H. Un sé «da sempre in obbligo», all'accusativo; da sempre responsabile senza possibilità di fuga. Questa soggettività ossessionata, questa ossessione non-reciproca, testimonia la natura eccezionale della prossimità rispetto all'ordine razionale, che conduce a un sistema di relazioni reversibile e simmetrico. L'altro mi invoca: questa è la modalità dell'ossessione. Sono da sempre in debito e non posso liberarmene: «sono come ordinato dal di fuori - traumaticamente comandato»35. Se una coscienza si dà, ciò avviene solamente nel contesto dell'obbligazione precedente che la coscienza non può annullare. Un'urgenza estrema, che è un'altra modalità dell'ossessione, ostacola ogni tentativo di presa di coscienza e di trasformazione delle rappresentazioni in temi. Senso anarchico della prossimità, sostiene Levinas. Le sue parole esatte sono: «[la giustizia] deriva da una significazione anarchica della prossimità»3 6 • Cosa significa questa frase? Per seguire l'eccessività di questa descrizione, possiamo dire che la prossimità è un assalto all'ordine razionale. Una terza parte potrebbe comprendere quest'ordine dimostrando come esso diviene intellegibile in quanto le relazioni che costituisce sono, in una certa misura, intercambiabili perché reversibili e simmetriche. Così, rispetto a questo sistema di concetto, la prossimità si presenta come un'eccezione, un «disordine». Inoltre, la prossimità apporta un ulteriore attacco a questo ordine razionale attraverso la sua propria temporalità. «La prossimità - scrive ancora Levinas - non entra in questo tempo comune degli orologi che rende possibile gli appuntamenti. Essa è disordine»37. Ecco un altro disordine. Oltre questa tendenza al disturbare che fa sorgere la questione del disordine, la prossimità si rivela come un essere anarchico o come An-archia, in quanto avviene senza la mediazione di un ideale o di un principio che prende il posto 33

lbid. Jvi, p. 3S Ivi, p. 36 Jvi, p. 37 Jvi, p. 34

105. 108. 101. I II.

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di un ideale o di un arché. In quanto coinvolgimento, legame nella fraternità e nella significazione, la soggettività è descritta in un caso come An-archia. Come afferma Levinas, «la soggettività del soggetto che si approssima è dunque preliminare, an-archica, prima della coscienza, un'implicazione - una presa nella fraternità»3 8• Oppure, ancora, in Dio e l'Onto-teologia, l'ossessione è presentata come «un delirio che sorprende l'origine, che sorge prima dell'origine, anteriore all'arché, all'inizio, producendosi prima di ogni bagliore della coscienza. È un'anarchia che arresta il gioco ontologico nel quale l'essere si perde e si ritrova»39. Questa passione è estrema, almeno per tre aspetti: da essa, la coscienza è colpita suo malgrado; in essa, la coscienza è colta senza alcun a priori; con essa, la coscienza è affetta dal non-desiderabile4°. L'altro in quanto altro non viene annunciato da qualcuno che lo precede e che metterebbe così in allerta la coscienza, facilitando l'impegno nella dinamica irresistibile di riduzione dell'altro al Medesimo. Non è anche questo un altro modo di stare al di qua dell'archè? «Liberandosi da ogni essenza, da ogni genere, da ogni somiglianza, il prossimo, primo venuto, mi concerne per la prima volta (quand'anche fosse vecchia conoscenza, vecchio amico, vecchio amore, implicato da lungo tempo nella trama delle mie relazioni sociali) in una contingenza che esclude l'a priori»4 1 • L'apparire dell'altro è ancora più anarchico in quanto è una convocazione che rinuncia a ogni mediazione. Una mediazione, come se l'altro rivendicasse la sua appartenenza all'umanità per far nascere il riconoscimento e l'incontro. Lo scenario è completamente diverso, infinitamente più brusco: sono assegnato all'altro come un altro a causa della sua singolarità. «La sua singolarità estrema è precisamente la sua convocazione»4 2 • Lungi dall'essere compiuta da un intermediario, questa assegnazione avviene direttamente tramite il volto. «Questo modo del prossimo è il volto. Il volto del prossimo mi significa una responsabilità irrecusabile». L'an-archia è qui raddoppiata: assegnazione prima di ogni arché, poiché la chiamata alla responsabilità non è preceduta da un consenso, da un patto o da un 38

Ivi, p. 103. E. Lcvinas, Dio, la Morte e i/Tempo cit, p. 2.37. -40 lbid. _., lvi, p. 107. -42. E. Lcvinas, Altrimenti che essere o al di là dell'e.sse,17.a cit., p. 108. 39

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contratto. Il volto «sfugge alla rappresentazione; è a defezione stessa della fenomenalità». È così debole che è meno di un fenomeno. «Il disvelamento del volto è nudità - non-forma - abbandono di sé, invecchiamento, morire»"B. Si ha qui una sorta di scandalo, in quanto questa relazione sfugge a ogni intenzionalità o impegno. lo obbedisco al comandamento dell'altro addirittura prima di udirlo. Da qui una particolare temporalità che non è altro che anarchica in quanto è situata prima di ogni arché, prima di ogni inizio e prima di ogni iniziativa. Levinas, nella sua analisi della prossimità, comincia dalla sensibilità. Egli scrive: «la sensibilità è esposizione all'altro»44. Questa esposizione è più passiva di ogni inerzia, e corrisponde a una «inversione del conatus dell'esse» 4 5. Ancor più sorprendente è la formulazione verbale che egli inventa e trasforma in un sostantivo che significa una passività più passiva di ogni passività: «un esserestato-offerto senza ritegno». L'insistenza sul passato serve a enfatizzare l'esposizione in termini di un'offerta e a distinguerla da una generosità, o da una donazione, che sarebbe ancora un'azione4'. «Il non-presente, il non-inizio, la non-iniziativa»47, scrive Levinas. Qui egli insiste sul carattere non-contemporaneo di questa esposizione, dello scarto rispetto a un atto libero. Viceversa, quest'esposizione della sensibilità verso l'altro punta a «un al di qua (en deça) di libertà e non-libertà», a uno strato ancora più profondo che è l'anarchia del Bene. Nel suo straordinario libro Pour une morale audelà du savoir, Catherine Chalier dimostra che Levinas, seguendo l'esempio di Kant, «evoca la precedenza del Bene, la precedenza di un risveglio». Nel caso di Levinas, tuttavia, a differenza dell'autore della Critica della Ragion Pratica, il legame tra il soggetto e il Bene è anarchico. Per Levinas questo vincolo «non si può stringere come se consistesse nell'assunzione di un principio» in quanto «si strinse senza che il soggetto sia stato volontà» o abbia deciso4 8 • All'esteriorità del principio Levinas sostituisce l'esteriorità dell'alle43

Ivi, p. 110. Jvi, p. 93. ◄S lbid. ◄6 lbid. ◄◄

◄7

Jvi, p. 93· ◄8 E. Lcvinas, Umanesimo dell'altro uomo cit., p.

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anza, un legame con il fuori che significa, con le parole di Levinas, «l'ubbidienza preliminare al bene che è ubbidienza ad un altro che rimane altro»49. Così come il Bene precede il male, la nostra responsabilità nei confronti degli altri è più antica del conatus, «più antica dell'incominciare e del principio»5°. «[ ... ] Dall'an-archico, l'io ritornato in sé, responsabile degli Altri [è] ostaggio di tutti»5 1 • L'an-archico è dunque qualcosa che esiste prima dell'inizio. Ma come descrivere questo «qualcosa»? Come uno strato ancora più profondo? Come un vincolo originario tra sé e l'altro? Come un intrigo della responsabilità? O, meglio, come un «dire» (un dire) con tutto ciò che un «detto» implica di pre-originario e pre-istorico? Inoltre, la temporalità della prossimità è eccezionale; non solo sconvolge, turba il tempo degli orologi, ma introduce un'altra prova che il tempo può essere diverso dal tempo della coscienza o dalla temporalità che si esprime nel Detto. A suo modo, la temporalità testimonia l'anarchia. Nel tempo della coscienza vi è un soggetto attivo che riassembla il passato, recuperandolo tramite la memoria o tramite il lavoro della storiografia. Il proprio della prossimità e della responsabilità per l'altro consiste nel fatto di precedere ogni impegno e di non essere il prodotto di un consenso, ossia di un qualche presente. La responsabilità per l'altro appartiene a un tempo particolare, ossia il tempo senza inizio. Da qui un'anarchia che, non avendo un inizio, non può essere rap-presentata52·. «Essa smonta il tempo recuperabile della storia e della memoria in cui la rappresentazione si svolge» 53 : ancora una volta, la prossimità è il turbamento del tempo storico. Allo stesso modo, si può vedere la presenza dell'anarchia nella levinasiana responsabilità per l'altro, quando scrive «irriducibile anarchia della responsabilità per altri» H. In che modo il passaggio dalla coscienza di alla coscienza per interessa l'autocoscienza che spontaneamente pone sé stessa come origine, inizio, cominciamento o arché? Nella Responsabilità per un altro «l'Io non si

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lvi, p. I 12. so lvi, p. 114. s• lbid. S2· E. Lcvinas, Altrimenti che essere o al di là de/l'essenza cit., p. lvi, p. S.f lvi, p. H

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pone, ma perde il suo posto, si deporta o si trova deportato» 55. Irriducibile anarchia della responsabilità, quindi, in quanto è un vincolo che non si può riflettere su di esso nel contesto di una razionalità fondativa, nonostante il fatto che esso può essere in cerca di un'altra forma di razionalità. Ancora più sconvolgente è l'anarchia che si trova nella sostituzione, una sorta di climax dell'intrigo anarchico. L'Io non è soltanto responsabile dell'altro, bensì anche ostaggio di tutti gli altri, come nell'immagine della maternità in cui la madre è ostaggio del figlio che sta portando in seno e che sta nutrendo. «Nella pre-istoria dell'Io, l'io è, da cima a fondo, ostaggio - più anticamente che ego» 56 : l'uno-per-l'altro è qui portato all'estremo, senza un ritorno a sé, al punto in cui l'anarchia mina quell'archè, che è l'Essere. «È un'anarchia che arresta il gioco ontologico nel quale l'essere si perde e si ritrova» 57, ci dice Levinas. È come se «prima dell'inizio», «prima del principio» significassero prima dell'Essere. Per Levinas, la prossimità e l'ossessione non sono fenomeni della coscienza. Ma questa noncoscienza, piuttosto che essere una qualche sorta di mancanza, (uno stato di pre-coscienza o una repressione della coscienza), è un'affermazione «della loro eccezione rispetto alla totalità, cioè del loro rifiuto della manifestazione». E questa eccezione è il nonessere o l'anarchia al di qua dell'alternativa, ancora ontologica, dell'essere o del nulla»5 8• Ma il soggetto in quanto eletto, in quanto sostituzione, sperimenta una sorprendente conversione. L'alienazione è allora vista come il ritirarsi in un essere che persevera nel suo essere, conatus in esse - mentre la libertà è da ricercarsi sul versante della sostituzione. «Un modo di libertà, ontologicamente impossibile, lacera l'invisibile essenza. La sostituzione libera il soggetto dalla noia, cioè l'incatenamento a sé stesso in cui l'Io affonda in Sé»59. L'unica qualità di questa libertà è quella di non cadere nel gioco dell'ontologia che consiste nel cominciamento, nell'azione, nella persistenza nell'essere, ecc. Eppure Levinas scrive e quindi crea una nuova idea paradossale di libertà: 55

E. Lcvinas, Dio, la Morte, il Tempo cit., p. 219. Ivi, p. :z.39. 57 lvi, p. 2.37. 58 E. Lcvinas, Altrimenti che essere o al di là dell'essenza cit., p. 153, n. :z.6. 59Jvi,p. 157. 56

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«liberazione an-archica, essa si rivela - senza assumersi, senza virare in inizio - nell'ineguaglianza a sé» 60• In varie occasioni Levinas definisce l'anarchia come una forma di turbamento. Turbamento del tempo degli orologi, del tempo storico e dell'Essere. Ciò significa forse che, a causa di questo turbamento, possiamo identificare, senza qualificarla, l'anarchia con il disordine? Nient'affatto, sembrerebbe. Infatti Levinas, nella sua descrizione dell'ossessione, movimento an-archico nel senso originale del termine -sostiene che l'anarchia non è il fatto del disordine opposto all'ordine, soprattutto per il fatto che il disordine è, invero, un'altra forma di ordine. È importante notare che questa non è un'affermazione a favore dcli'ordine o la constatazione della sua onnipresenza. Piuttosto, Levinas sta qui cercando di preservare una concezione dell'anarchia assoluta, persino enfatica. L'an-archia si pone al di là dell'alternativa ontologica tra ordine e disordine, che è sotto il controllo «nell'essere arché» 61 • Infatti, «l'anarchia turba l'essere al di qua di queste alternative» 62 • Perchè l'anarchia - e l'anarchia dell'ossessione come enigma non-intenzionale -tormenta l'essere, ossia mette fine al gioco ontologico, che non possiamo ridurre ali' «opposto dcli'ordine». Il movimento che avviene è più complesso. Se l'anarchia non può essere ridotta a disordine, in un senso ontologico, sembra che un disordine sottratto ali' ontologia, concepito in modo non dialettico e al di là della sua opposizione all'ordine, potrebbe ricevere una forza anarchica. In altri termini, si può pensare a un altro disordine che ha a che fare con il fuori e che sta alla larga da qualsiasi sintesi. In questo senso Levinas conclude la ter~a nota di Altrimenti che essere tessendo le virtù di una sorta di disordine meta-ontologico: «Il disordine ha pertanto un senso irriducibile in quanto rifiuto di sintesi» 63. Da qui la sesta nota, in cui, contro Bergson, egli invita a distinguere tra varie forme di disordine. Non tutti i disordini sono differenti forme di ordine, come testimonia I'an-archia diacronica che non può essere ricondotta a un ordine. Se quindi I'an-archia non può essere ridotta a un ordine, viceversa alcune forme di disordine - nella misura in cui sono turbamenti dell'essere o minano l'arché dell'essere- devono avere a che fare con l'an-archia. 60

lbid.

6, lvi, p. 127. 62 lvi, p. 12.6. 63 lvi, p. 12.6.

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Conclusioni La seconda parte dedicata al turbamento della politica sarebbe dovuta cominciare qui. Per mancanza di tempo, fornirò le linee generali di questa sezione attraverso una conclusione provvisoria. Torniamo alla questione di partenza: anarchia tra politica e metapolitica. Nella traiettoria che abbiamo appena disegnato, che si tratti di prossimità, responsabilità per l'altro, sostituzione o ossessione, siamo costantemente diretti al di qua (en deça) della libertà, ad un pre-originario, preistorico, immemoriale, al di qua (en deça) dell' arché. In breve, abbiamo esplorato ciò che si può chiamare dimensione dell'al di qua (en deça) e, tra le altre l'al di qua della politica che si trova dal lato dell'agire libero, del cominciamento, del principio, dell'Essere e dell' arcbé, quindi dal lato dell'ontologia. Se ci rivolgiamo, però, al meta, ossia se ci congediamo dalla politica e ci rivolgiamo a qualcosa di diverso, se ci rivolgiamo alla metapolitica, che cosa troviamo? L'etica, senza la quale sappiamo che la politica sarebbe tirannia, etica che è relata all'infinito e alla gloria dell'infinito? Per riprendere questo movimento e per accoglierlo, sembra che I'anarchia si trovi o da un lato al di qua, o dal lato al di là, o forse ancora nel movimento di passaggio che va dall'al di qua all'al di là. Levinas parla di un'ambiguità dell'anarchia nel senso di un Sé sempre anacronisticamente in ritardo rispetto al presente, incapace di compensare questo suo ritardo. Un Sé perseguitato, incapace di pensare a ciò che lo riguarda. Tuttavia questo Sé può dire la sua incapacità, poiché l'anarchia lascia una traccia. Certo, è solo una traccia che il discorso può tentare di dire. Ma non è forse proprio l'ambiguità dell'anarchia quella di trovarsi tra un'origine e un rivolgimento, tra un al di qua e un al di là? Non è forse come se ci fosse una comunicazione diretta tra questa traccia «pre-istorica e an-archica» e la prossimità, o la resposnabilità per l'altro, dell'uno-per-l'altro, irriducibilmente anarchica? Cionondimeno, seguendo questo ragionamento, l'anarchia, con le sue traiettorie complesse, non dovrebbe forse lasciare da parte la politica essendo quest'ultima ben ancorata alla sua tranquillità, alla sua autocoscienza e all'uguaglianza tra sé e sé? Ciò significa forse che l'anarchia si distacca dalla politica che rimane sotto la presa dell'ontologia, del logos e dell'arcbé?

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A mio parere, non è sempre così: l'an-archia scuote la politica tanto da poter parlare di un vero e proprio turbamento della politica. Certo, l'anarchia non regna, non può essere sovrana come un arcbé, e non può essere affermata come principio, pena l'incoerenza. Da qui l'insormontabile contraddizione degli anarchici che vorrebbero portare al potere l'anarchia o che vorrebbero abbattere il potere (in quanto dominio) in nome del primato del principio di ragione sull'autorità. In breve, seguendo il progetto politico anarchico, l'anarchia regnerebbe. Da qui anche l'aporia del principio di anarchia che mantiene, pur rifiutando la classica metafisica dell'azione, un riferimento a un arcbé che non è altro che Essere - «essere arcbé», come scrive Levinas. Per separare l'an-archia dalla sovranità, per separarla da un principio non significa che l'anarchia non incida sulla politica o che la lasci invariata, abbandonandola alle sue decisioni. Per cominciare, per meglio apprezzare il turbamento della politica, dobbiamo confrontarci con quella che ho definito «l'ipotesi stravagante». È l'ipotesi che Levinas propone per spiegare l'origine dello Stato. Per Levinas, lo Stato - lungi dal procedere dalle limitazioni della violenza e dalle limitazioni degli eccessi della guerra di tutti contro tutti - deriva dalla prossimità, dall'intrigo umano della responsabilità è per l'altro, nel senso che lo Stato è una limitazione dell'infinità che colpisce la relazione etica. Una domanda pare qui legittima: quale relazione c'è tra questa ipotesi levinasiana e l'anarchia? Senza considerare la questione nel suo complesso, appare chiaramente che ciò che Levinas pensa dal lato dell'an-archia - prossimità, responsabilità per l'altro, sostituzione - è ciò che alimenta quest'ipotesi stravagante. L'istituzione dello Stato corrisponde alla limitazione di questo intrigo pre-originario e an-archico. Lo Stato nasce per la limitazione della pre-originaria anarchia, nel senso levinasiano del termine, ossia per la limitazione per mezzo della categoria della giustizia. Senza alcun dubbio questa relazione con I' an-archia disturba la politica e provoca il turbamento della politica. Perché anche se la giustizia, con l'improvvisa apparizione del terzo {le Tiers ), impone la sua misura a ciò che è incommensurabile, in nessun momento essa può tagliarsi dalla fonte che l'ha ispirata e che la ispira. In modo, l'effetto dell'anarchia è quello di porre lo Stato in uno spazio multidimensionale in cui si trova diviso tra l'intrigo straordinario da cui emerge e i fini che per-

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segue, ossia la giustizia. In questa prospettiva, quindi, lo Stato è un intrigo? Dall'altro lato, questa forma dà accesso al fine che persegue, quindi alla giustizia? Inoltre, questa concezione è orientata verso uno Stato sovrano ma de-centrato, uno Stato che è sottoposto alle determinazioni proprie di un movimento centrifugo nella misura in cui un orientamento differente si sovrappone all'istituzione. Il richiamo al primo intrigo - la prossimità anarchica - e il telos dello Stato - la giustizia - permette di lottare contro la naturale propensione dello Stato a chiudersi e ricentrarsi su sé stesso, e di mettere in atto una logica centripeta che porta lo Stato a costruire e ricostruire sé stesso come una totalità. Ciò solleva una questione, che lasceremo qui senza risposta: Qual è la relazione tra l'an-arcbia nel senso levinasiano del termine e quel particolare movimento che, per Levinas, spinge lo Stato (in alcune sue forme) ad andare al di là dello Stato? Ma c'è un altro passaggio che aiuta a comprendere come l'anarchia turbi la politica. L'an-archia non regna, ma può essere un discorso senza per questo essere un discorso sovrano. Bisogna fare attenzione a non perdere il suo ambiguo statuto di enigma che può manifestarsi senza svelarsi, che è un'eccezione alla totalità, che lascia una traccia, soltanto una traccia: «questo modo di passare inquietando il presente senza lasciarsi investire dall'arché della coscienza, offuscando la chiarezza dell'ostensibile, lo abbiamo chiamato traccia» 64. A questo Dire in quanto Dire, che contiene la dimensione dell'unoper-l'altro, è riconosciuta la capacità di «disturbare» lo Stato - lo Stato-arcbé. Ciò turba lo Stato in un modo radicale, ossia scuotendolo nelle sue radici e nelle sue fondamenta. Questo turbamento apre a una vera e propria dialettica negativa, nel senso di Adorno, ossia, se ci si attiene all'inizio della Dialettica negativa, a una dialettica la cui peculiarità è di essere libera da ogni essenza affermativa, poiché il mezzo della negatività o il gioco della negatività cessano di produrre positività. Anche se non usa questo termine, per Levinas la dialettica è negativa perché « [l'anarchia] rende possibili gli istanti di negazione senza alcuna affermazione», sottolineando volutamente «alcuna affermazione» 65. Impiegare il registro dell'affermazione e

64 Jvi, p. 12.5. lvi, p. 12.6, n. 3.

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della positività significherebbe infatti finire di nuovo nella sovranità, nell'arché, e ciò implica l'autodistruzione dell'an-archia. Si tratta solo di momenti. Ma sono momenti cruciali che, nella loro fragilità, nella loro non installazione nel tempo, ostacolano la manifestazione politica dell 'arché che detiene la sovranità e regna come Totalità, come un Dio mortale. Si può quindi rintracciare qui un disordine non-dialettico - un disordine non opposto ali'ordine, che non rimane incastrato nel gioco dell'ontologia. A questo disordine, turbamento dell'Essere, è riconosciuto un senso irriducibile, quello del rifiuto della sintesi. Questo "seme di follia", questa traccia non ci riconduce forse a ciò che Hegel chiamava la critica della "follia ebraica", quell'atteggiamento che nega la storia universale come il tribunale del mondo? Il pensiero che si apre a un'esteriorità della storia che è lo spazio in cui si può giudicare, uno spazio all'interno del quale è possibile che un "Dire" sia un'azione contro lo Stato, che la Totalità sia la nonverità. Discorso contro il Re, contro l'arché che regna, discorso che risolve, discorso profetico. Discorso che nel 1968, contro l'anti-umanesimo del tempo, ha saputo inventare un rapporto inedito e inusuale tra Umanesimo e Anarchia.